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REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE
DI TOEINO
MEMORIE
REALE ACCADEMIA
DELLE SCIENZE
DI TORINO
SERIE SECONDA
Tomo LUI
TORINO
CARLO CLAUSEN
Libraio della R. Accademia delle Scienze
1903
PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino — Vincenzo Bona, Tipografo di S. M. e Reali Principi
e della Beale Accademia delle Scienze.
i
SCIENZE
FISICHE, MATEMATICHE E NATURALI
INDICE
CLASSE DI SCIENZE FISICHE, MATEMATICHE
E NATURALI
Contribuzioni alla Ornitologia delle Isole del Golfo di Guinea; Parte I: Uccelli
dell'Isola del Principe; del Socio Tommaso Salvadori . . . Pag. 1
Id. Id. Parte II: Uccelli di San Thomé „ 17
Effetti della dispersione e della reattanza nel funzionamento dei trasformatori.
Metodi di misura ed applicazioni; Memoria del Socio Guido Grassi „ 47
Alcuni sistemi diottrici speciali ed una nuova forma di teleobbiettivo; Memoria
del Socio Nicodemo Jadanza . . . . . . . ,72
Alfonso Cossa; Commemorazione letta dal Socio Icilio Guareschi . . „ 79
Contribuzioni alla Ornitologia delle Isole del Golfo di Guinea; Parte III: Uccelli
di Anno-Boni e di Fernando Po; del Socio Tommaso Salvadori . „ 93
Teoria elettromagnetica dell'emissione della luce; Memoria di Antonio Garbasso „ 127
Canali venosi emissari temporali squamosi e petrosquamosi; Ricerche, morfologiche
dei Dottori Alfonso Bovero e Umberto Calamida . •-, . . ,,159
Sui gruppi di trasformazioni geodetiche; Memoria di Guido Fubini . . „ 261
Echinidi della scaglia cretacea veneta; Memoria del Dott. Carlo Airaghi'£ .-'<:„ 315
/ Funghi Ipogei italiani raccolti da 0. Beccari, L. Caldesi, A. Carestia, V. Cesati,
P. A. Saccardo; illustrati dal Socio Oreste Mattirolo . . . „ 331
La fisiologia dell'apnea studiata nell'uomo; Memoria del Socio Angelo Mosso n 367
L'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo; Memoria del
Socio Angelo Mosso „ 387
I movimenti respiratori del torace e del diaframma ; Ricerche del Socio Angelo
Mosso „ 397
CONTRIB UZIONI
ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA
i.
UCCELLI DELL'ISOLA DEL PRINCIPE
PER
TOMMASO SALVADORI
Approvata nell'Adunanza del 14 Dicembre 1902.
Le isole principali del Golfo di Guinea sono quattro: Fernando Po, l'Isola del
Principe, S. Thomé ed Anno-bom; esse sono disposte in una serie lineare ed emer-
sero probabilmente per una contemporanea azione vulcanica, procedente dai monti
Cameroon verso Sud-Ovest nell'Oceano Atlantico.
Queste isole sono state visitate recentemente dal Sig. Leonardo Fea, il quale
vi si è recato per ricerche zoologiche e le collezioni da lui fatte mi hanno dato l'oc-
casione per uno studio intorno alla Ornitologia di dette isole, che mi propongo di
pubblicare in tre diverse parti, cominciando dall'Isola del Principe. Questa isola è
molto piccola ed è situata alquanto a Nord dell'Equatore fra l'Isola di S. Thomé e
quella di Fernando Po.
Qualche notizia intorno alla sua fauna si trova nelle opere di Lopez de Lima
e dell'Erman, ma secondo il Dohrn (P. Z. S. 1866, pp. 331, 332) esse non sono molto
attendibili. Il primo scrisse un libro intorno alla statistica di San Thomé e dell'Isola
del Principe, e dette brevi cenni intorno alla Storia Naturale delle due isole, senza
averle visitate ; l'Erman poi ricevette da un brasiliano alcune pelli di uccelli del
Principe insieme con altre di Bissao, ma indicò come di Bissao quelle del Principe e
viceversa.
Prima del 1866 le notizie intorno all'Ornitologia dell'Isola del Principe si ridu-
cevano a pochissima cosa ed erano al tutto frammentarie; inoltre parecchie specie
proprie di quell'isola furono descritte di località ignote, o diverse dalla vera.
La prima specie conosciuta, che ora sappiamo essere propria dell'Isola del Prin-
cipe, è il Lamprocolius ignitus (Nordm.) descritto nel 1835 come proprio dell'Africa
occidentale , e che forse è da identificarsi col Choucador di Le Vaillant (= Sturnus
ornatus, Daud.) e col Lamprotornis vigor si, Blackwall, descritto nel 1831.
Nel 1849 fu descritto il Dicrurus modestus, Hartl. dell'Isola del Principe, insieme
con altre specie di S. Thomé.
.Hfrtk II. Tom. LUI. *
Z TOMMASO SALVADORI
Nel 1850 il Bonaparte descrisse il Symplectes princeps sopra esemplari del Museo
di Parigi.
Nello stesso anno l'Hartlaub pubblicava un lavoro, ripubblicato poi nel 1852,
intorno alla Ornitologia della costa e delle isole dell'Africa occidentale, nel quale
menzionò soltanto 4 specie dell'Isola del Principe (Dicrurus modestus, Lamprotornis
ignita, Spermestes cuculiata ed Halcyon torquata).
L'anno appresso, nel 1851, i fratelli Jules ed Edouard Verreaux descrissero la
Columba Màlherbei, indicandola erroneamente del Gabon.
Nel 1854 la specie che l'Hartlaub aveva attribuita M'Halcyon torquata fu da lui
riconosciuta distinta col nome di Halcyon dryas.
Poscia nel 1857 l'Hartlaub descriveva la Nectarinia Hartlaubi Verr. e la Parinia
leucophaea, la prima come proveniente d'Angola e la seconda del Gabon.
Finalmente nel 1862 G. R. Gray descriveva il Ligurinus rufobrunneus senza pre-
cisa indicazione della località.
Con questa pubblicazione del Gray terminò il periodo primo, o frammentario
della Ornitologia dell'Isola dèi Principe, e "nel 1866, per opera del Dolirn e del Keu-
lemans, furono pubblicati due lavori che riassumevano ed accrescevano le nostre
cognizioni intorno alla Ornitologia di quell'isola.
Il primo, recatosi nell'isola per ricerche zoologiche, dopo esservi rimasto per sei
mesi, dall'aprile al settembre 1865, e fattevi sufficienti raccolte, pubblicò i resultati
ottenuti, annoverando 34 specie di uccelli, delle quali sei vennero denominate e
descritte dall' Hartlaub: Cotyle eques (= C. cincia), Cuphopterus Dolimi, Zosterops
ficedulina , Buserinus rufilatus (— Ligurinus rufobrunneus) , Columba chlorophaea
(■=. C. màlherbei) e Peristera principalis.
Il Dohrn fece notare che i! Neophron pileatus menzionato dal Lopez de Lima
come abitante l'Isola del Principe, e quattro specie menzionate dall' Erman (Necta-
rinia splendida, N. senegalensis, Lamprotornis aeneus e Pogonias vieilloti) pure come
abitanti detta isola, non vi si trovano.
Il Keulemans, che accompagnò il Dohrn nella qualità di preparatore, pubblicò
pure nel 1866 un lavoro intorno agli uccelli dell'Isola del Principe, contenente nume-
rose note intorno ai loro costumi, e che si riferiscono a circa 40 specie.
Nel 1880 il Barboza du Bocage, in un breve lavoro intorno ad alcuni uccelli di
Bolama e dell'Isola del Principe, annoverò cinque specie già note di questa località.
Finalmente nel 1887 il De Sousa pubblicò pure una breve nota intorno a cinque
specie dell'Isola del Principe, raccolte da F. Newton, una delle quali, la Ceryle rudis,
nuova per l'isola; egli fece contemporaneamente l'enumerazione delle specie menzio-
nate dal Dohrn e dal Keulemans.
Il Fea, recatosi da S. Thomé all'Isola del Principe col proposito di farvi colle-
zioni zoologiche, per causa di molte circostanze avverse, non riuscì a mettere insieme
altro che una piccola collezione di 41 esemplari, appartenenti a 16 specie, delle quali
una non ancora descritta, il Turdus xanthorhynchus , ed un'altra, la Phoeniconaius
minor, nuova per l'isola.
Tra i resultati più importanti dello studio della collezione del Fea è da segna-
lare la non identità dell' Haplopelia principalis coM'H. simplex di S. Thomé, ammessa
recentemente dal Reichenow, laddove le due specie sono affatto diverse.
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA à
L'Ornitologia dell'Isola del Principe è specialmente notevole pel fatto della man-
canza completa dei rapaci tanto diurni, quanto notturni.
L'Avifauna dell'isola ha carattere decisamente africano, come mostrano i rap-
presentanti dei generi Lamprotornis, Dicrurus, Hyphantomis, Spermestes, Turturoena,
Vinago ed Haplopelia. Due generi, Parinia e Ouphopterus, sono esclusivi dell'isola, la
cui avifauna è molto simile a quella di S. Thomé, ma molto più povera.
Bibliografia Ornitologica dell'Isola del Principe.
(1835) Ekman, A. G., Reise uni die Erde. Naturhistorischer Atlas (Lamprotornis ignita, Nordm.J.
(1849) Hartlaub, Dr. G., Description de cinq nouvelles espèces d'Oiseaux de l'Afrique occidentale
{Rev. et Mag. de Zool. 1849, pp. 494-497) (Dicrurus modestus, nov. sp. p. 495).
(1850) Bonaparte, C. L., Conspectus Generimi Aviurn (Symplectes prineeps, nov. sp. p. 439).
(1850) Hartlaub, Dr. G., Beitrag zur Omithologie Westafrica's (Verzeichnisa der offentlichen und
Privat- Vorleaungen, welche am Haniburgischen akademischen Gymnasium u. s. w. gehalten
werden. Herausgegeben von K. W. M. Wiebel). Hamburg, 1850, pp. 1-47 (Dicrurus
modestus, Lamprotornis ignita, Sin nuoti* cuculiata, Halcyon torquata .
(1850) „ Neue Arten des hamburgischen naturhistovischen Museunis (ibid. pp. 48-56).
(1850) „ Oraithology of the coasta and Islanda of Western Africa (Centr. Orn. 1850, pp. 129-140).
(1851) Verreaux, J. et E., Description d'espèces nouvelles d'Oiseaux du Gabon (còte occidentale
d'Afrique) (Rer. et Mag. de Zool. 1851, Columba Malherbii, p. 514).
(1852) Hartlaub, Dr. G., Beitrag zur Omithologie Westafrica's (Abh. Naturw. Ver. Hamb. Il, 2, pp. 1-47)
(Dicrurus modestus, Lamprotornis ignita, Spermestes cuculiata, Halcyon torquata).
(1852) „ Neue Arten des hamburgischen naturhistorischen Museums (ibid. pp. 48-56).
(1852) „ Zweiter Beitrag zur Omithologie Westafrica's (Tafeln I-XI).
(1854) , Versuch einer synoptischen Omithologie Westafrica's (Journ. f. Orn. 1854, Halcyon
dryas, p. 2).
(1857) , System der Omithologie Westafrica's (Neetarinia Hartlaubi Verr., p. 50, Parinia leuco-
phaea, p. 71).
(1862) Grat, G. R., Description of a few West African Birds (Ann. and Mag. N. H.(B) X. Ligurinus
rufo-brunneus, p. 444).
(1866) Dohbn, Dr. H., Synopsis of the Birds of Ilha do Principe, with some remarks on their riabita
and Description of New Species (P. Z. S. 1866, pp. 324-332, pi. XXXIV) (Cotyle eques
(=C. cincta), Cuphopterus dohrni, Zosterops ficedulina, Buserinus ruftlatus (= Ligurintts
rufobrunneus), Columba chlorophaea (= Turturoena malherbei), Peristera principalis).
(1866) Keulemass, J. G., Opmerkingen over de Vogels van de Kaapverdische eilanden en van Prins-
eiland (Ilha do Principe) in de Bogt van Guinea gelegen. — De Vogels van Uba do
Principe (Prinseiland) (Nederl. Tijdschr. v. Dierk. III, pp. 374-401).
(1880) Bocaqe, Barboza du, Aves de Bolama e da Ilha do Principe {Jorn. Se. Lisb. No. XXIX,
pp. 71-72).
(1887) Sousa, J. A. de, Aves da Ilha do Principe colligidas pelo Sr. Francisco Newton (Jorn. Se. Lisb.
No. XLV, pp. 42-44) (Ceryle rudis).
(1901) Salvadori, T., Due nuove specie di Uccelli dell'Isola di S. Thomé e dell'Isola del Principe,
raccolte dal Sig. Leonardo Fea (Boll. Mas. Tor. No. 414, pp. 1-2) (Turdus xanthorhynrhus).
TOMMASO SALVADOKI
1. Chelidon urbica (L.).
Hirundo urbica, Keulem., N. T. D., Ili, p. 384 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887). - Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Uba do Principe) (1889).
Chelidon urbica, Sharpe, Cai B. X, p. 87 (1885). — id., Mon. Hirund., I, p. 7, Pls. 1, 2
(Prince's L).
Il Keulemans incontrò questa specie nel mese di gennaio all'altezza di 1500 piedi
nell'Isola del Principe, e ne uccise una femmina.
2. Cotile cincta (Bodd.).
Cotyle eques, Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 325 (Prince's I.). — Sharpe, P. Z. S., 1870,
p. 297. — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887). - Boc., ibid. (2), No. I, p. 36
(liba do Principe) (1889).
Hirundo torquata, Gm. — Keulem., N. T. D., Ili, p. 384 (Prinseil.) (1866).
Cotile cincta, Sharpe, Cat. B., X, p. 101 (note p. 102) (1885). — id., Mon. Hirund., I, p. 67,
pi. 10 (1885).
Rara secondo il Dohrn, non infrequente secondo il Keulemans.
3. Dicrurus modestus, Hartl.
Dicrurus modestus, Hartl., Rev. et Mag. de Zool., 1849, p. 495 (He du Prince). — id., Beitr.
Orn. Westafr., p. 26, n. 191 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131. — id., Abh. naturw.
Ver. Hamb., II, 2, pp. 2, 26, 50, Taf. IV (1852). — id., Orn. W. Afr., p. 101 (partim) (1857).
- Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 327 (Prince's L). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 378 (Ilha do
Principe) (1866). — Sharpe, Cat. B., Ili, p. 232 (partim) (1877). — Boc, Jorn. Se. Lisb.,
No. XXIX, p. 72 (Ilha do Principe) (1880). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (Ilha
do Principe) (1887). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889). — Shell.,
B. Afr., I, p. 47 (1896). — id., Ibis, 1901, pp. 589, 591 (Prince's L).
a (40) d" ad. Bahia do Oeste, 30 maggio 1901.
Lo Shelley recentemente limita l'area di diffusione del D. modestus alla sola Isola
del Principe.
4. Cuphopterus dohrni, Hartl.
Cuphopterus dohrni, Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 326, pi. XXXIV (Prince's Island). —
Keulem., N. T. D., Ili, p. 386 (1866). — Sharpe, Cat. Afr. B., p. 42, n. 397 (Prince's I.) (1871).
id., Cat. B., Ili, p. 302 (1877). — Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XXIX, p. 72 (1880). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887). — Boc, ibid., (2), No. I, p. 36 (1889).
a (7) 9. Roca Infante D. Henrique, 29 gennaio 1901.
h{8)9 „ „ „ 19 febbraio 1901.
e (12) 2 „ „ „ 4 marzo 1901.
La località Gaboon (Verreaux) attribuita ad un esemplare di questa specie nel
Museo Britannico mi sembra che meriti conferma.
5. Cinnyris hartlaubi (Verr.).
Nectarinia hartlaubi, Verr. in Hartl., Orn. W. Afr., p. 50 (Angola!) (1857). — id., J. f. O.,
1861, p. 109 (Gabon! Gtijon). — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 326 (Prince's I.). — Keulem.,
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 5
N. T. D., Ili, p. 389 (Prinseil.) (1866). — Sharpe, Cat. Afr. B., p. 37, n. 346 (Prince's I.)
(1871). — Boc, Orn. Angola, p. 179 (Ile du Prince) (1881). — Sousa, Jorn. Se Lisb.,
No. XLV, p. 43 (1887).
Nectarinia (Adelinus) hartlaubi, G. E. Gr. Hand-List, I, p. 108, n. 1324 (Angola!) (1869).
Cinnyris hartlaubi, SheU., Mon. Nect., p. 295, pi. 94 (Prince's I.) (1876-80). — Gad.. Cat. B.,
IX, p. 79 (1884). — Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, pp. 250, 251 (Ile du Prince) (1887);
No. XLVIII, p. 211 (Ile du Prince) (1888); (2) No. I, p. 36 (1889).
Cyanomitra hartlaubi, Shell., B. Afr., I, p. 5, No. 70 (1896); II, p. 135 (Prince's I.) (1900).
a (39) ?. Bahia do Oeste, 10 giugno 1901.
Concorda bene colle descrizioni e colla figura date della femmina di questa specie,
la quale è notevolmente più grande del C. neivtoni di S. Thomé.
6. Cinnyris obscurus (Jard.).
Nectarinia fraseri, Dohrn (nec Jard.), P. Z. S., 1866, p. 326 (Prince's L). — Keulem., N. T.
D., Ili, p. 390 (Prinseil) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887).
Cinnyris obscurus (Jard.). — Shell., Mon. Nect., p. 291, pi 92 (1879). — Gadow, Cat. B.,
IX, p. 77 (Prince's I., Kenlernans, Ingall) (1884). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43
(nota) (1887) {= N. fraseri). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Cyanomitra obscura, Shell., B. Afr., II, pt. 1, p. 125 (1900).
Questa specie vive , secondo il Dohrn , in regioni più elevate del C. hartlaubi.
Mi sembra che gli esemplari dell'Isola del Principe debbano essere ulteriormente
confrontati con quelli di Fernando Po e della costa occidentale d'Africa.
7. Parinia leucophaea, Hartl.
Parinia leucophaea, Hartl., Orn. W. Afr., p. 71 (Gabon!, Verreaux) (1857). — id., J. f. O.,
1861, p. 161 (Gabon, Du Chaillu). — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 327 (Prince's L). — Keulem.,
N. T. D., Ili, p. 388 (1866). — Sharpe, Cat. Afr. B., p. 36 (1871). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 43 (1887).
Thamnobia (Parinia) leucophaea, G. R. Gr., Hand-List, I, p. 212, n. 3000 (Gabon) (1869).
Zosterops leucophaea, Sharpe, in Gad., Cat. B., IX, p. 200 (1884). — Pinsch, Thierr., Zoste-
ropidae, p. 43 (1901).
Parinia leucoptera (errore), Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (1889).
Malacirops leucophaea, Shell, B. Afr., I, p. 8, n. 112 (1896).
Speirops leucophaea, SheU., B. Afr., II, p. 203, pi. 8, f. 2 (Prince's I.) (1900).
a (11) d\ Roca Infante D. Henrique, 6 marzo 1901.
J(38)^. Bahia do Oeste, 23 maggio 1901.
Probabilmente anche questa specie è confinata nell'Isola Principe e non si trova
nel Gabon.
8. Zosterops ficedulina, Hartl.
Zosterops ficedulina, Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 327 (Prince's L). — Keulem., N. T. D.,
III, p. 389 (Costumi, nido, uova) (1866). — G. R. Gr. Hand-List, I, p. 162, n. 2127 (1869).
— Sharpe in Gad., Cat. B., IX, p. 203 (Prince's I.) (1884). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV,
p. 43 (1887); No. XLVII, p. 157 (S. Thomé) (1888). - Boc, op. cit. (2), No. I, p. 36(1889).
— Shell., B. Afr., p. 7, n. 96 (1896); II, p. 185, pi. 8, f. 1 (1900). — Pinsch, Thierr.,
Zosteropidae, p. 37 (1901).
0 TOMMASO SALVADOEI
a (26) <r. Bahia do Oeste, 24 maggio 1901.
Questo esemplare concorda molto bene colla descrizione originale e colla figura
data dallo Shelley.
9. Pratincola rubetra (L.).
Saxicola rubetra, Keulem., N T. D., Ili, p. 391 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. LXV, p. 44 (1887).
Il Keulemans uccise un individuo di questa specie nel novembre; essa si cono-
sceva già della Senegambia e della Costa d'Oro, ove talora si trova d'inverno.
10. Turdus xanthorhynchus, Salvad.
Turdus xanthorhynchus, Salvad., Boll. Mus. Tor., No. 414, p. 2 (1901) (Ins. Principis).
Turdus T. olivaceo-fusco Hartl. similis, sed minor, ac rostro flavo, pedibus pallidis,
marginibus fuscis plumarum gastrei latioribus, et fascia praepectorali transversa haud
concolore, sed e pliimis in medio albis, late fusco marginatis composita diversus.
Supra fusco-olivaceus fere unicolor, subtus albus; gulae plumis fusco maculatis,
gastrei reliqui late fusco marginatis; fascia praepectorali lateribusque fuscis, plumis in
medio albis; subalaribus pallide rufis; rostro favo; pedibus pallidi.-:.
Long. tot. mm. 250; al. 125; caud. 93; rostri culm. 22; tarsi 37.
Hab. Insula Principis.
a (21) 9 . Bahia do Oeste, 25 maggio 1901.
" Non comune, dicesi che sia confinato nella costa occidentale dell'isola „ (Fea).
Nessuna specie del genere Turdus era stata trovata prima del Fea nell'Isola del
Principe, ove il T. xanthorhynchus evidentemente rappresenta il T. fusco-olivaceus del-
l'Isola di S. Thomé. Sembra che il Dohrn (P. Z. S. 1866, p. 331) sospettasse la pre-
senza di una specie di Turdus nell'Isola del Principe.
Il Sig. Fea ha inviato un solo esemplare adulto di questa specie.
11. Linurgus rufobrunneus (G. R, Gr.).
Ligurinus rufobrunneus, G. R. Gr., Ann. and Mag. N. H. (3), X, p. 444 (1862).
Buserinus rufilatus, Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 328 (Prince's I). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 43 (1887).
Fringilla (Buserinus) rufilatus, Keulem., N. T. D., Ili, p. 393 (Prinseil.) (1866).
Crithagra rufobrunnea, G. R. Gr., Hand-List, II, p. 101, No. 7056 (W. Africa) (1870).
Poliospiza rufobrunnea, Sharpe, Cat. Afr. B., p. 68, n. 648 (Prince's I.) (1871). — id., Cat. B.,
XII, p. 346, PI. VI (Prince's I.) (1888). — Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (part.)
(1889). — Shell., B. Afr., I, p. 21, n. 278 (part.) (1896).
Phaeospiza thomensis, part., Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 192 (1888).
Linurgus rufobrunneus, Shell, B. Afr., III, p. 172 (Prince's I.) (1902).
a (10) a*. Roca Infante D. Henrique, 25 febbraio 1901.
è(29)rf\ Bahia do Oeste, 22 maggio 1901.
Il confronto di questi esemplari con molti altri congeneri dell'Isola S. Thomé mi
ha persuaso che questi e quelli appartengono a due specie distinte; gli esemplari
dell'Isola Principe si distinguono facilmente per la tinta più vivamente rossigna, quasi
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 7
cannella e per avere la gola non distintamente bianchiccia; neppure bianchiccio è il
mezzo dell'addome.
Queste osservazioni io aveva già scritto prima che lo Shelley nella sua ultima
opera arrivasse alle stesse conclusioni.
12. Nigrita bicolor (Hartl.).
Nigrita bicolor, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 328 (Prince's I.). — Keulem., N. T. D., IH, p. 391
(Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb, No. XLV, p. 43 (1887). — Boc, ibid. (2),
No. I, p. 36 (liba do Principe) (1889).
" Non comune „ (Dohrn).
13. Hyphantornis princeps (Bp.).
Symplectes princeps, Bp., Consp., I, p. 439 (Ins. Principis) (1850). — Hartl., Abb. Naturw.
Ver. Hamb., II, pp. 60, 66 (1852). — id., J. f. 0., 1854, pp. 107 (I. do Principe), 258
(Angola!). — Cass., Pr. Pbilad. Ac, 1855, p. 439 (Lagos?). — Hartl., Ore. W. Afr., p. 134
(Ins. do Principe, Mus. Paris; Lagos, J. L. Burton; Gabon, Verreaux; Angola, Henderson)
(1857). - id., J. f. 0., 1861, p. 257 (Gabon, Du Chaillu). — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 328
(Prince's L). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 392 (lina do Principe) (1866). — Boc, Jorn.
Se. Lisb, No. XXIX, p. 72 (1880). — Dubois, Bull. Mus. Roy. Belg, IV, p. 148 (1886).
— Rchnw, Zool. Jabrb., I, p. 115 (nota) (1886). — Sousa, Jorn. Se. Lisb, No. LXV, p. 43
(Ilha do Principe) (1887). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (1889).
Hyphantornis princeps, Bchnb, Singv, p. 87 (1861). — Gieb, Tbes. Orn, II, p. 373 (1875).
— Sbarpe, Cat. B, XIII, p. 449 (partim?) (1890).
Hyphantornis ( Anaplectes) princeps, G. R. Gr, Hand-List, II, p. 43, n. 6592 (1870).
Ploceus princeps, Shell, Ibis, 1887, p. 24 (Prince's L).
Xanthophilus princeps, Shell, B. Afr, I, p. 39, n. 540 (1896).
a (25) <f ad. Bahia do Oeste, 15 maggio 1901.
b (27) é „ 20
e (28) «r „ . . .
d{37)<? , 27
e (9) d\ Roca Infante D. Henrique, 5 febbraio 1901.
I primi quattro esemplari, adulti in abito quasi perfetto, hanno le parti inferiori
tutte gialle, il pileo, la cervice, i lati della testa e del collo tinti più o meno di
castagno ; invece l'ultimo esemplare, in abito imperfetto, ha appena traccia di tinta
castagna sul pileo, l'addome bianchiccio, i fianchi ed il sottocoda fulvicci.
Lo Sharpe, oltre all'Isola Principe, menziona l'Africa occidentale da Lagos fino
al Gabon e l'interno del Congo fra le località abitate da questa specie. Tuttavia io
inclino a credere che essa sia confinata nell'Isola Principe, tanto più che lo Sharpe
annovera soltanto esemplari di questa località, e quindi non sembra che abbia avuto
l'opportunità di confrontarli con altri di località diversa.
14. Estrelda astrild (L.).
Estrelda astrild, Keulem, N. T. D, III, p. 395 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb,
No. XLV, p. 44 (1887).
II Keulemans afferma di aver incontrato più volte questa specie nella parte
meridionale dell'isola in compagnia della Spermestes cuculiata.
TOMMASO SALVATORI
15. Quelea erythrops (Hartl.).
Foudia erythrops, Dohm, P. Z. S., 1866, p. 329 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.
No. XLV, p. 43 (1887).
Ploceus erythrops, Keulem., N. T. D., Ili, p. 394 (Prinseil.) (1866).
Quelea erythrops, Sbarpe, Cat. B., XIII, p. 255, pi. X, f. 1 (specim. e Prince's I.) (1890).
Vive in numerosi branchi (Dohrn).
E singolare che il Fea non abbia raccolto questa specie.
16. Spermestes cuculiata (Sw.).
Spermestes cuculiata, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 2 (Ilha do Principe, Weiss) (1850). —
id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (Prince's I.). — id., Abb. naturw. Ver. Hamb., II, 2, p. 2
(1852). — Keulem., N T. D., Ili, p. 394 (Prinseil.) (1866). — Boa, Jorn. Se. Lisb. (2), I,
p. 36 (Ilbas de S. Tbomé e do Principe) (1889).
Amadina cuculiata, Dobrn, P. Z. S., 1866, p. 329 (Prince's I.). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 43 (1887).
a (36) rf". Bahia do Oeste, 27 maggio 1901.
17. Lamprocolius ignitus (Nordm.).
VChoucador, Levaill., Ois. d'Afr., II, p. 144, pi. 86 (1799) (patria ignota). — Sundev., Crit. om
Levaill., p. 33 (1857) (= L. ignitus, Nordm.).
?Sturnus ornatus, Daud., TV., II, p. 309 (1800, ex Levaillant).
? Lamprotornis vigorsii, Blackwall, Edinb. Journ. of Se, New Ser., 5, pp. 332-334 (1831).
Lamprotornis ignita, Nordm. in Erman's Reis., Atlas, p. 7, Taf. 3, f. 1 (Senegal!) (1835). —
Hartl., Rev. et Mag. de Zool., 1849, p. 497 (Ile du Prince). — id., Beitr. Orn. Westafr.,
pp. 2, 27, n. 218 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (Prince's L). — id., Abb. naturw.
Ver. Hamb., II, 2, pp. 2, 27 (1852). — Keulem., N. T. D., III, p. 384 (1866) (Prinseil.). —
Gieb., Thes. Orn., II, pp. 427 (1875).
Juida ignita, Gr. and Mitch., Gen. B., II, p. 326, n. 9, pi. 80 (1846). — v. Muli., J. f. O.,
1855, p. 457. — Pucber., Rev. et Mag. de Zool., 1858, p. 256.
Juida ornata, G. R. Gr., Gen. B., II, p. 326, n. 15 (1846). — id., Hand-List, p. 24, n. 6338 (1870).
Lamprocolius ignitus, Bp., Consp., I, p. 415' (1850). — Licbt., Nom. Av., p. 53 (1854). —
Hartl., J. f. O., 1854, p. 102 (Ilha do Principe, S. Thomé, Weiss). — id., Om. W. Afr.,
p. 116 (Gabon, Angola) (1857). — id., Rev. et Mag. de Zool., 1858, p. 347. — id., J. f. O.,
1859, pp. 2, 8, 13; 1861, p. 174 (S. Thomé, Gut/on; Gabon, Fosse). — Dohrn, P. Z. S., 1866,
p. 328 (Prince's L). — Sharpe, Cat. Afr. B., p. 56 (1871). — Hartl, Abh. nat. Ver. Brem.,
IV, p. 52 (1874). — Rochebr., Faun. Sénég., Ois., p. 229 (1884). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 43 (liba do Principe) (1887). — Sharpe, Cat. B., XIII, p. 174, pi. VII, f. 1
(caput) (1890). — Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. VI, p. 86 (Ile du Prince) (1891). —
Shell., B. Afr., I, P- 43 (1896).
a (15) rf. Bahia do Oeste, 18 maggio 1901.
è (17) ^ „ „
e(22)cf „ 22
d{2à)<f „ 24
e (30) <? ? „ 28
f$l)<f „ 26
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 9
g (2) c . Roca Infante D. Henrique, 5 febbraio 1901.
*(4)« , » 8
j(32)2. Bahia do Oeste, 30 maggio 1901.
Le femmine sono alquanto più piccole dei maschi, ma non ne differiscono altri-
menti.
La identità specifica di questa specie col Choucador di Levaillant, sostenuta dal
Sundevall non mi sembra tanto sicura, e quindi collo Sharpe preferisco di conser-
varle il nome impostole dal Nordman.
Cosi pure non è cosa certa che a questa specie spetti il nome di L. vigorsi
Blackw., che avrebbe la priorità su quello del Nordman; è singolare che lo Sharpe
non menzioni affatto la citazione del Blackwell.
Rispetto alle località attribuite a questa specie la sola certa è quella dell'Isola
Principe ; tutte le altre (Senegal Erman, S. Thomé Weiss, Gujon, Gabon Fosse, Angola
Canivet) sono dubbie, o quasi certamente erronee.
18. Lamprocolius splendidus (Vieill.).
Lamprocolius splendidus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 328 (Prince's I.). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 43 (1887). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Lamprotornis chrysotis (Sw.). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 386 (Prinseil.) (1866).
" Molto rara; si trova negli stessi luoghi insieme colla specie precedente „
(L. ìgnitus) (Dohrn). Anche il Keulemans ripete le stesse cose. Non trovo che altri
abbia identificato esemplari dell'Isola Principe con quelli della Senegambia e perciò
la esistenza di questa specie nell'Isola del Principe deve essere confermata.
19. Cypselus affinis, G. R. Gr.
Cypselus abissinicus, Streub. — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 325 (Prince's L). — Keulem.,
N. T. D., Ili, p. 383 (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887).
Micropus affinis, Hartert, Cat. B., XVI, p. 453 (1892).
Apus affinis, Hartert, Thierr., I, p. 88 (1897).
" Comune nelle vicinanze delle città „ (Dohrn).
20. Ceryle rudis (L.).
Ceryle rudis, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 42 (liba do Principe) (1887). — Boc., ibid.
(2), No. I, p. 36 (Uba do Principe) (1889).
Il De Sousa menziona un maschio di questa specie raccolto dal Sr. Francisco
Newton nell'Isola del Principe, lungo il Rio Papagaio nel marzo del 1887. Pare anzi
che la specie non sia rara nell'isola, giacché vi sarebbe conosciuta dai coloni por-
toghesi col nome di Móchó bianco. Questa cosa è abbastanza singolare, giacché né
il Dohrn, né il Keulemans menzionano questa specie.
21. Corythornis galerita (P. L. S. Mìjll.).
Alcedo caeruleocephala, Gm. — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 325 (Prince's L). — Keulem.,
N. T. D., Ili, p. 377 (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887).
Sedie II. Tom. LUI. B
10 TOMMASO SALVADOEI
Corythornis caeruleocephala, Sbarpe, Mon. Alced., p. 39, pi. 12 (1869).
Corythornis galerita (P. L. S. Muli). — Sharpe, Cai B., XVII, p. 166 (Prince's I.) (1892).
" Comune sulla spiaggia, talora anche nell'interno „ (Dólirn).
Il Dohrn descrive il giovane siccome avente il becco nero e le macchie bianche
sulla gola e sui lati del collo molto piccole (!); egli non menziona affatto la fascia
pettorale nera che si trova nei giovani della specie di S. Thomé.
22. Halcyon dryas, Haktl.
? Martin-Pécheur du Senegal, appelé Crabier, Buff., PI. Eni. 334.
? Alcedo cancrophaga, Lath., Ind. Ora., I, p. 249, n. 11 (1790) (ex PI. Eni. 334).
Halcyon torquata, Hartl. (nec Sw.), Beitr. Ora. W. Afr., p. 2 (Hha do Principe, Weiss) (1850).
— id., Contr. Ora., 1850, p. 131 (Prince's L). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II , 2,
p. 2 (1852).
Halcyon cinereifrons, pari, Hartl., Beitr. Orn. W. Afr., p. 18, n. 53 (Una do Principe) (1850).
— id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, 2, pp. 18, 45 (liba do Principe, av. juv.?) (1852). —
Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (liba do Principe) (1889).
Halcyon dryas, Hartl, J. f. O., 1854, p. 2 (Uba do Principe, St. Thomé). — v. Muli., Beitr.
Orn. Afr., t. II (** ad. et jun., fig. opt.) (1854). — Hartl., Orn. W. Afr., p. 32 (Ins. St. Thomé
et do Principe, Weiss) (1857). — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 325 (Prince's I.). — Keulem.,
N. T. D., in, p. 376 (Uba do Principe) (1866). — Sharpe, Mon. Alced., p. 193, pi. 71 (1868).
— Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XXIX, p. 72 (Ilha do Principe) (1880). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, pp. 42, 43 (Bha do Principe) (1887); No. XLVII, p. 152 (1888). — Sharpe,
Cat. B ., XVII, p. 248 (W. Africa, Gaboon, and the Islands in the Bight of Benin) (1892).
«(12)* ad. Bahia do Oeste, 12 maggio 1901.
ò(6)d" jun. Roca Infante D. Henrique, 31 gennaio 1901.
e (20) ■,' jun. Bahia do Oeste, 25 maggio 1891.
La femmina adulta concorda colla figura datane dallo Sharpe; i giovani sono note-
voli per avere le gote, i lati del collo, i fianchi e la parte superiore del petto di
colore ocraceo, tinto di verdognolo sul petto.
Mi pare non improbabile che questa specie sia da identificare coli' Alcedo can-
crophaga, Lath. Ind. Orn., I, p. 249, n. 11, fondata sul Martin- Pécheur du Senegal,
appelé Crabier, Buff. PI. Eni. 334, che finora non è stato identificato; il colore ful-
viccio delle parti inferiori, che si nota in quella tavola, è quello stesso dei giovani
dell'if. dryas.
23. Coracias garrula, L.
Coracias bengalensis, Keulem. (nec L.), N. T. D., Ili, p. 380 (Prince's I.) (1866). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XVI, p. 44 (1887).
Coracias garrula, Sharpe, Ibis, 1871, p. 189. — Sousa, 1. e. (nota).
Incontrata varie volte dal Keulemans.
24. Psittacus erithacus, L.
Psittacus erithacus, Dohrn, P. Z. S., 1866, pp. 325, 328 (Prince's L). — Keulem., N. T. D.,
III, p. 380 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887). — Boc,
Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (liba do Principe) (1889). — Salvad., Cat. B., XX, p. 379
(Prince's I.) (1891).
" Comunissimo „ (Dohrn)-
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 11
25. Agapornis pullaria (L.).
Psittacula pullaria, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 329. — Keulem., N. T. D., Ili, p. 382 (Prinseil.)
(1866). — Finsch, Die Papag., II, p. 636(1868). — Sousa , Jorn. Se. Lisb., No. XLV,
p. 43 (1887).
Agapornis pullaria, Oust., Nouv. Arch. Mus. (2), II, p. 55 (1879). — Salvad., Cat. B., XX,
p. 510 (1891).
Il Dohrn non incontrò questa specie nell'Isola del Principe, ma gli fu detto che
vi si trova. Il Keulemans invece afferma di avervela incontrata in piccoli gruppi
anche di 10 individui. Il Finsch riferisce l'opinione espressagli dal Dohrn che essa vi
capiti accidentalmente e che non vi sia stazionaria. Ma se essa si trova veramente
nell'Isola del Principe vi deve essere stazionaria.
26. Chrysococcyx smaragdineus (Sw.).
Chrysococcyx smaragdineus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 329 (Prince's I.). — Keulem., N. T. D.,
Ili, p. 382 (Prinseil.) (1866). — Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XXIX, p. 72 (1880). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 43 (1887). - Shell, Cat. B., XIX, p. 280 (1891).
" Dall'aprile al settembre, cioè durante la stagione asciutta, questo uccello vive
sulle parti montane meridionali dell'isola „ (Dohrn).
27. Vinago calva (Temm.).
Treron calva, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 329 (Prince's I.). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 396
(part, Prinseil.) (1866). — Boc., Jorn. Se. Lisb., XI, No. XLIV, p. 252 (Ile du Prince)
(1887). - Sousa, ibid., No. XLV, pp. 43, 44 (Ilha do Principe) (1887). - Boc., ibid. (2),
No. I, p. 36 (1889). - Rchnw., Vog. Afr., I (pt. 2), p. 394 (1901).
«(5)^ ad. Roca Infante D. Henrique, 12 febbraio 1901.
6(13)^ ad. Bahia do Oeste, 21 maggio 1901.
e (34) 5 ad. „ 26
^(35)^ juv. 29
La femmina differisce dai maschi soltanto per le dimensioni lievemente minori.
Il maschio giovane differisce dagli adulti per la macchia porporino-vinacea presso
l'angolo dell'ala meno estesa, per la fascia grigia alla base della cervice quasi indi-
stinta, per i margini gialli delle grandi cuopritrici delle ali più larghi e pel grigio
della coda lievemente tinto di verdognolo.
28. Turturoena malherbei (Verr.).
Columba malherbii, Verr., Rev. et Mag. de Zool., 1851, p. 514 (>'?; Gabon!). — G. R. Gr.
List B. Brit. Mus., Columbae, p. 30 (1856). - Gieb., Thes. Ora., I, p. 747 (part.) (1872).
Peleioenas malherbii, Rchnb., Tauben, I, p. 54 (1862?); II, p. 168 (1862).
Pelecoenas (errore) malherbii, Hartl., J. f. O., 1861, p. 266.
Columba chlorophaea , Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 329 (Prince's L). — G. R. Gr.,
Hand-List, II, p. 232, n. 9240 (1870). — Shell., Ibis, 1883, p. 273 (var. Col. lìviael). -
Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Columba -?, Keulem., N. T. D., Ili, p. 395 (Prinseil.) (1866). - Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887).
12 TOMMASO SALVADORI
Turturoena nov. sp.?, Boc, Jorn. Se. Lisb., 1867, p. 144, n. 114 (S. Thorné), p. 338 (= C. chlo-
rophaea, Hartl.). — id., J. f. 0., 1876, p. 315 (S. Thorné). — Sousa , Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 153 (1888).
Turturoena malherbii, G. R. Gr., Hand-List, II, p. 234, n. 9254 (1870). — Oust., Nouv. Arch.
Mus., 1879, p. 141 (Gabon!). — Shell., Ibis, 1883, p. 291 (syn. emend., Gaboon!). — Boc.,
Jorn. Se. Lisb., XII, No. XLVI, p. 81 (S. Thorné) (1887). — Sousa, ibid., No. XLVII,
p. 154 (1888). - Boc., ibid., pp. 213, 234 (1888); (2), No. I, p. 35 (1889); No. Ili, p. 210
(1889); No. VI, p. 82 (St. Thorné et Ile du Prince) (1891). — Salvad., Cat. B., XXI, p. 331
(Prinee I. and St. Thomas I.) (1893). — Shell., B. Afr., I, p. 136, No. 1868 (1896). —
Porb. et Robins, Bull. Liverp. Mus., II, p. 135 (1900). — Rchnw., Vog. Afr., I (pt. 2»),
p. 419 (1901).
Turturoena chlorophaea, Sousa, Mus. Nac. Lisb., Colunibae, p. 12 (S. Thorné) (1873).
Turtur chlorophaeus, Gieb., Thes. Ora., Ili, p. 726 (1877).
Turturoena iriditorques, part., Shell., Ibis, 1883, p. 291 (S. Thorné tantum).
Columba iriditorques, Sousa (nec Cass.), Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 158 (S. Thorné) (1888).
Coluinba livia var. (C. chlorophaea), Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (1889).
a (3) rf ad. Roga Infante D. Henrique, 31 gennaio 1901.
J(18)-' juv. Bahia do Oeste, 17 maggio 1901.
TI maschio adulto è simile ad un altro di S. Thorné, ma ha dimensioni alquanto
minori. TI giovane differisce dagli adulti per le dimensioni minori, per le piume verdi
metalliche della cervice con riflessi meno porporini e per avere alcune piume ros-
signe, residuo dell'abito giovanile, lungo il mezzo delle parti inferiori.
Non v'ha dubbio che questa specie sia confinata nelle Isole di S. Thorné e del
Principe, e che la località Gabon, attribuita all'esemplare tipico, sia erronea.
29. Haplopelia principalis, Hartl.
Peristera principalis, Hartl. in Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 330 (Prince's L). — Gieb., Thes.
Ora., III, p. 67 (1877). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887). — Boc., ibid.
(2), No. I, p. 36 (1889).
Columba (Turtur) ...'?, Keulem., N. T. D., Ili, p. 396 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Haplopelia principalis, G. R. Gr., Hand-List, II, p. 244, n. 9405 (1870). — Shell., Ibis, 1883,
p. 295. - Salvad., Cat. B., XXI, p. 542 (1893). - Shell., B. Afr., I, p. 136, n. 1874 (1896).
Aplopelia simplex, part., Rchnw., Vog. Afr., I (pt. 2a), p. 422 (1901).
rt(33)d" ad. Bahia do Oeste, 28 maggio 1901.
Esemplare adulto bellissimo. Fronte di color cenerino puro; gola bianca; collo e
petto di color rossigno vinaceo; occipite e cervice con riflessi rameici; regione anale
e sottocoda di un bianco-roseo.
6(19)^. Bahia do Oeste, 22 maggio 1901.
Simile al precedente, ma meno bello e con colori meno puri ; il petto ed il collo
di color vinaceo meno vivo; i riflessi rameici della cervice meno vivi; addome e
sottocoda bianchi.
e (14)*. Bahia do Oeste, 22 maggio 1901.
" Iride violacea; palpebre e piedi rosso-vinacei „ (Fea).
Differisce dai maschi per le dimensioni minori, pei colori più oscuri, pei riflessi
sulla cervice più decisamente verdi, per la fronte cenerina scura e pel colore rossigno
vinato delle parti inferiori più oscuro e che tinge anche il sottocoda.
r/(23) f juv. Bahia do Oeste, 24 maggio 1901.
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 13
Colorito generale bruno; le cuopritrici delle ali, le scapolari e le remiganti ter-
ziarie con margini apicali rugginosi; lievissimi riflessi verdi sulla cervice ; parti infe-
riori di color rossigno, più chiaro sull'addome e sul sottocoda; fronte cenerina; gola
bianchiccia.
Quando io scrissi il Catalogo delle Colombe del Museo Britannico non aveva
ancor visto alcun esemplare dell'Isola del Principe. Il Reichenow (1. e.) ha creduto di
dover identificare l'H. principalìs coiì'H. simplex, ma questa identificazione è certamente
erronea, giacché mentre tutti gli esemplari dell'Isola Principe hanno il petto rossigno-
vinaceo {vinaceo-rabente secondo la descrizione dell'Hartlaub), un giovane di S. Thomé
e due femmine adulte della stessa località, conservate nel Museo Britannico, e da me
descritte, hanno il petto grigio.
Forbes e Robinson hanno attribuito a questa specie un esemplare dell'interno
della Guiana conservato nel Museo di Liverpool! L'asserzione veramente straordi-
naria m'invogliò ad esaminare tale esemplare, che infatti ho potuto avere in comu-
nicazione per grande cortesìa del Dr. Forbes, Direttore del Museo di Liverpool, ed
ho potuto constatare che esso appartiene ad una specie affatto diversa.
30. Glareola melanoptera, Nordm.
Glareola nordmanni, Fischer. — Dolina, P. Z. S., 1866, p. 330 (Prince's I.). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 44 (1887). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Glareola ...'?, Keulem., N. T. D., Ili, p. 399 (Prinseil.) (1866). — Sousa, 1. e.
Glareola melanoptera, Sharpe, Cat. B., XXIV, p. 57 (1896).
Il Dohrn dice di aver raccolto un esemplare non differente da altri della Russia.
31. Ardea gularis, Bosc.
Ardea gularis, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 330 (Prince's L). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 398
(Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Lepterodius gularis, Sharpe, Cat. B., XXVI, p. 114 (1898).
" Comune sulle roccie della spiaggia „ (Dohrn).
32. Butorides atricapilla, Afzel.
Ardea atricapilla, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 330 (Prince's L). — Keulem., N. T. D., Ili, p. 399
(Prinseil.) ( 1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Butorides atricapilla, Sharpe, Cat. B., XXVI, p. 172 (1898).
" Meno comune dell'ai, gularis „ (Dohrn).
33. Lampribis olivacea (Du Bus).
Geronticus olivaceus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 330 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887).
Ibis (Geronticus) olivaceus, Keulem., N. T. D., Ili, p. 397 (Prinseil.) (1866).
Lampribis olivacea, Elliot, P. Z. S., 1877, p. 507, pi. LI (Guinea, Prince's I.). — Sharpe, Cat. B.,
XXVI, p. 38 (Prince's I.) (1898).
Lampribis rara, Rotsch. et Hart., Nov. Zool., IV, p. 377 (1897). - Sharpe, Cat. B., XXVI,
p. 266 (1898).
Theristicus rarus, part. Rchnw., Vóg. Afr., I, 2, p. 328 (Prinzeinsel) (1901).
14 TOMMASO SALVADORI
«(l)d' ad. Roca Infante D. Henrique, 26 gennaio 1901.
L'esemplare suddetto somiglia alla figura di questa specie data dal Du Bus
(Esq. Ora. I, tab. 3) copiata dal Reichenbach (Grallatores, t. 133, f. 2384); invece
esso differisce dalla figura data dall'Elliot (P. Z. S. 1877, pi. II) per avere le piume
delle parti inferiori non distintamente di color cannella nel mezzo e marginate di
verde cupo, ma di color bruno nero con lievi riflessi verdi ed alquanto più chiare
lungo il mezzo. La figura dell'EUiot, secondo me, rappresenta l'abito di un esemplare
immaturo, quale fu descritto anche dal Cassin (Pr. Ac. Philad., 1857, p. 39 (R. Muni);
1859, p. 174 (Camma)).
Questo uccello vive nelle parti meridionali dell'isola, secondo il Dohrn, ed anche
nelle occidentali, secondo il Keulemans.
Scrive il Fea: " Mi dicono che è raro e che vive lungi dal mare nella foresta „.
34. Numenius arquata (L.).
Numenius arquatus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's I.). — Sousa, Jom. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889). — Sharpe,
Cai B., XXIV, p. 341 (1896).
Il Dohrn dice che questa specie vive nelle paludi presso la città.
35. Numenius phaeopus (L.).
Numenius phaeopus, Keulem., N. T. D., III, p. 400 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Il Keulemans menziona questa e non la specie precedente fra quelle da lui osser-
vate nell'Isola del Principe, e siccome le sue osservazioni furono contemporanee a
quelle del Dohrn, viene il dubbio che l'uno, o l'altro abbia sbagliato nella identifi-
cazione della specie; tuttavia non è affatto improbabile che ambedue le specie s'in-
contrino nell'isola.
36. Totanus glottis (Lath.).
Totanus glottis, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV,
p. 44 (1887). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Glottis nebularius (Gunn.). — Sharpe, Cat. B„ XXIV, p. 481 (1896).
" Vive nelle paludi presso la città „ (Dohrn).
37. Tringoides hypoleucus (I-.).
Actitis hypoleucus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's I.). — Keulem., N. T. D., III.
p. 400 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
" Vive nelle paludi presso la città „ (Dohrn).
38. Ancylocheilus subarquata (Guldenst.).
Tringa subarquata, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Tringa . . . ?, Keulem., N. T. D., Ili, p. 399 (Prinseil.) (1866). — Sousa, 1. e.
" Vive nelle paludi presso la città „ (Dohrn).
Il Keulemans (1. e.) sotto il nome Tringa comprende tre specie diverse, proba-
bilmente VA. subarquata, la Limonites minuta e la L. temmincki.
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 15
39. Sterna anaestheta, Scop.
Sterna melanoptera, Sw. — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLV, p. 44 (1887). - Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Sterna panayensis, Orni. — Keulem., N. T. D., Ili, p. 401 (Prinseil.) (1866). — Sousa, 1. e.
Sterna anaestheta, Saund., Cat. B., XXV, p. 101 (1896).
Il Dohrn dice di aver osservata questa specie soltanto nella Bahia do Oeste.
40. Anous stolidus (L.).
Sterna stolida, Keulem., N. T. D., Ili, p. 401 (Prinseil. e S. Thomas) (1866). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
" Si trova in gran numero lungo le coste della parte meridionale dell'isola „
(Keulemans) .
41. Phaeton aethereus, L.
Phaeton aethereus, Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's L). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLV, p. 44 (1887). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (liba do Principe) (1889).
? Phaeton candidus, Temm. — Keulem., N. T. D., Ili, p. 375 (Prinseil.) (1866). — Sousa, 1. e.
Phaeton sp., Keulem., 1. e, p. 401 (1866).
Il Dohrn dice di aver visto varie volte il Ph. aethereus volare sulle coste del-
l'isola, tuttavia la determinazione non pare sicura, siccome sembra che non ne sia
stato raccolto alcun esemplare. Non è improbabile che il Ph. candidus citato dal
Keulemans si riferisca alla stessa specie, ma è anche possibile che ambedue le specie
s'incontrino nell'isola.
42. Sula leucogastra (Bodd.).
Sula fiber, Auct. — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 331 (Prince's L). - Keulem., N. T. D., Ili,
p. 400 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887). — Boc, ibid.
(2), No. I, p. 36 (Ilha do Principe) (1889).
Sula sula (L.). — Grant, Cat. B., XXVI, p. 436 (speeim. r, Prince's I. Dr. Baikie) (1898).
" Comune sulla costa occidentale dell'isola „ (Dohrn).
43. Phoeniconaias minor (Geoffr.).
a (41) ' juv. Città di S. Antonio, Isola del Principe, 27 giugno.
" Mi dicono che non sia raro e che se ne vedano comitive occupare in schiere
trasversali le ribeiras per dare la caccia a pesciolini (?) ed altri animaletti acqua-
tici „ (Fea).
Questa specie non si conosceva dell'Isola del Principe.
16 TOMMASO SALVADORI CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA, ECC.
APPENDICE
Specie dubbie, od erroneamente indicate dell'Isola del Principe.
1. Lanius?
Lanius ?, Keulem., N. T. D., Ili, p. 380 (Prinseil.) (1866).
Lanius excubitor (?) , Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV, p. 44 (1887).
Il Keulemans dice di aver visto varie volte un uccello che gli sembrava non
diverso dal Lanius excubitor (!) e che era noto anche agli abitanti dell'isola. — Cer-
tamente non poteva trattarsi del L. excubitor !
2. Sylvia?
Sylvia ('?), Keulem., N. T. D., Ili, p. 375 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV,
p. 44 (1887).
La indicazione di una specie di Sylvia nell" Isola del Principe non è accompa-
gnata da alcuna circostanza che la confermi.
3. Motacilla sp.
Motacilla ?, Keulem., N„ T. D., Ili, p. 391 (Prinseil.) (1866). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLV,
p. 44 (1887).
Il Keulemans menziona un uccello somigliante al giovane della M. alba, da lui
incontrato nell'Isola del Principe.
4. Cinnyris splendidus (Shaw).
Nectarinia splendida, Hartl, Beitr. Orn. Westafr., p. 20, n. 87 (lina do Principe, Nordmann,
Emi., Atlas, p. 6) (1850). — id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, 2, p. 20 (1852).
Cinnyris splendida, Hartl., Orn. W. Afr., p. 46 (Iiha do Principe, Erniari) (1857).
Questa e la seguente specie furono erroneamente indicate dall' Erman come
viventi nell'Isola del Principe.
5. Chalcomitra senegalensis (L.).
Nectarinia senegalensis, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 20, n. 83 (Ilha do Principe, Erman,
Atl., p. 6) (1850). - id, Abh. nat. Ver. Hamb., II, 2, p. 20 (1852).
Cinnyris senegalensis, Hartl., Orn. W. Afr., p. 49 (Ilha do Principe, Erman) (1857).
6. Lamprotornis aenea (Gm.).
Hartl, Beitr. Orn. Westafr, p. 27, n. 216 (Ilha do Principe, Emi., Atl.) (1850). — id, Abh.
nat. Ver. Hamb, II, 2, p. 27 (1852).
7. Melanobucco vieilloti (Leach).
Pogonias vieillotii, Leach. — Hartl, Beitr. Orn. Westafr, p. 35, n. 342 (Hha do Principe,
Erm., Atl, p. 1) (1850). — id, Abh. nat. Ver. Hamb, II, 2, p. 35 (1852). — id, J. f. O,
1854, p. 197. — id, Orn. W. Afr, p. 170 (liba do Principe, Erm.) (1857).
CONTRIBUZIONI
ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA
IL
UCCELLI DI SAN THOMÉ
PER
TOMMASO SALVADORI
Approvata nell'Adunanza del 25 Gennaio 1903.
L'Isola di San Thomé, più grande dell'Isola del Principe, e molto più grande
ancora della piccolissima Anno-bom, si trova situata fra esse, quasi sotto l'Equatore ;
anzi l'isolotto Rollas, che è una dipendenza di S. Thomé, lo oltrepassa di poco. Essa è
stata esplorata recentemente dal sig. Leonardo Fea, il quale vi giunse il 29 maggio 1901,
restandovi parecchi mesi. Egli ha publicato (*) intorno a S. Thomé un articolo inti-
tolato " Ricordi ed impressioni „ nel quale sono descritte le condizioni fisiche del-
l'isola, e quelle non troppo liete degli abitanti, in mezzo alle quali è costretto a
vivere lo straniero che si reca in quell'isola. — In quell'articolo non mancano alcuni
cenni generali intorno alla fauna ed alla flora dell' isola. La sua fauna fu inve-
stigata dal Weiss, che vi si recò negli anni precedenti il 1850, e più tardi dal
Sr. Francisco Newton, che vi fece l'accolte per conto del Museo Reale di Lisbona.
Prima del Weiss si conoscevano pochissime specie di uccelli, e fra queste la più
anticamente conosciuta era la Columba sylvestris ex insula Sanctì Thomae descritta
dal Marcgrav nel 1648, e che il Gmelin più tardi chiamò Columba Sancii Thomae.
Conviene venire fino al 1842 per trovare una seconda specie dell'isola, il Ploceus
collaris descritto dal Fraser.
Lo stesso Fraser, l'Hartlaub, il Thomson ed il Gray fra il 1843 ed il 1849
descrissero altre poche specie di uccelli dell'isola.
La collezione ornitologica fatta dal Weiss sopramenzionato fu inviata al Museo
di Amburgo; essa comprendeva 26 specie, e fu studiata ed illustrata dall'Hartlaub,
che publicò un lavoro intorno alla medesima nel 1850, ripublicandolo più tardi
nel 1852.
;*) Boll. Soc. Geogr. Ital. (4), III, pp. 40-59, 1902.
Serie II. Tom. LUI.
18 TOMMASO SALV ADORI 2
Lo stesso Hartlaub negli anni successivi, in diversi lavori relativi all'ornitologia
dell'Africa occidentale, aggiunse parecchie specie a quelle raccolte dal Weiss.
In un terzo periodo, nel quale giunsero al Museo di Lisbona le collezioni fatte
in diverse volte dal Sr. Francisco Newton, il Barboza du Bocage dal 1867 al 1891,
publicò diversi lavori intorno agli uccelli di S. Thomé.
Anche il Sr. A. F. Moller ha visitato l'isola di S. Thomé, facendovi collezioni
botaniche e zoologiche, che egli ha inviato al Museo di Coimbra; gli uccelli, appar-
tenenti a 28 specie, furono determinati dal Barboza du Bocage, ma la lista fu publi-
cata dal Dr. L[opes] V|ieira] nel giornale " Instituto „ 1887, N. 11; la collezione
conteneva una specie nuova, che era stata descritta precedentemente dal Barboza du
Bocage (Prinia molleri) insieme col Cinnyris newtoni.
Nel 1888 il De Sousa publicò un breve lavoro riassuntivo intorno alla ornito-
logia di S. Thomé, annoverando 64 specie (invero non tutte con buon fondamento),
24 delle quali erano rappresentate nel Museo di Lisbona.
Successivamente lo stesso Barboza du Bocage, lo Sharpe, l'Hartert ed io stesso
abbiamo aggiunto parecchie specie al novero di quelle indicate dal De Sousa,
Il Sig. Leonardo Fea non fu molto fortunato neppure nell'isola di S. Thomé, e
la sua collezione, fatta in mezzo a grandissime difficoltà, conta soltanto 103 esem-
plari, appartenenti a 21 specie, delle quali due sono state descritte da me come
nuove, discriminandole da altre colle quali erano state confuse.
Secondo le mie ricerche le specie di S. Thomé conosciute attualmente sono 63
e di queste ben 22 sono proprie ed esclusive dell'isola. Queste specie sono le seguenti:
1. Tersiphone atrochalybea 12. Hyphantornis grandis
2. Lanius newtoni 13. Heteryphantes sancii Thotnae
3. Elaeocerthia thomensis 14. Lagonosticta thomensis
4. Cinnyris newtoni 1">. Oriolus erassirostris
5. Zosterops feae 16. Onycognathus fulgidus
6. Speirops lugubris 17. Chaetura thomensis
7. Prinia molleri 18. Coryihornis thomensis
8. Turdus olivaceofuscus 19. Scops leucopsis
9. Amaurocichla bocagei 20. Strix thomensis
10. Linurgus thomensis 21. Vinago sancii Thomae
11. Neospiza (n. gen.) concolor 22. Columba thomensis.
Una specie, Y Amblyospiza concolor, appartiene, secondo me, ad un genere nuovo,
che finora non avrebbe rappresentanti altrove. Altro genere, esclusivo di S. Thomé,
non si conosce.
Nel preparare il presente lavoro io dovetti ricorrere all' illustre Prof. Barboza
du Bocage, dal quale ottenni, per poterli studiare, alcuni esemplari del Museo di
Lisbona, ed anche all'amico Ogilvie-Grant del Museo Britannico, per taluni confronti
e schiarimenti; ad ambedue rendo publicamente vivissime grazie.
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA
1!»
Bibliografia Ornitologica dell'Isola di San Thomé.
(1648) Marcgrav, G„ Historiae rerum naturalium Brasiliae, libri octo. — Quintus de avibus (Men-
ziona e descrive la Columba Sylvestris species ex insula Sondi Thomae = Vinago scindi
Thomae).
(1788) Gmelin, J. F., Systema naturae (Denomina Columba sancti Thomae, I, 2, p. 778, No. 46, la
specie menzionata dal Marcgrav).
(1842) Thomson, T. R., Description of a New Genetta and of two species of Birds from Western
Africa {Ann. Nat. llist. X, p. 104) (Muscipeta atrochalybea).
(1842) Fraser, L., Un some New Species of Birds from Fernando Po [and St. Thomas Island] (P. Z. S.
1842, pp. 141-142) {Ploceus collaris, Fras. nec VieillA
(1843) „ On Birds from Western Africa (Treron crassirostris (P. Z. S. 1843, p. 35) = V. sancti
Thomae).
(1848) Hartlauh. Dr. G., Description de cinq nouvelles espèces d' Oiseaux de l'Afrique occidentale
(He». Zool. 1848, pp. 108-110) (Tre specie sono di S. Thomé: Zosterops lugubris, Sycobius
St. -Thomae, Ploceus erythrops).
(1848) Alle», W. and Thomson, T. R. H., A Narrative of the expedition sent by Her Majesty's
Government to the River Niger in 1841.
A pag. 41, 42 del voi. II sono menzionate le seguenti specie dell'Ilha das Rollas (*):
Columba trigonigera (= C. thomensis?), Turtur chaleospilus or rufous winged turtle dove
(— Haplopelia simplex?), Turtur semitorquatus (= Turturoena malherbei?), Treron crassi-
rostris, Malaconotus olivaceus ('?), Malaconotus chrysogaster (?), Melasoma edolioides (?).
(1849) Gray, G. R., Genera of Birds (Hyphantornis grandis = P. collaris, Fr.).
(1849) Hartlaub, Dr. G., Description de cinq nouvelles espèces d'Oiseaux de l'Afrique occidentale
(4 specie di S. Thomé : Onycognathus fulgidus, Coturnix histrionica, Athene leucopsis, Turtur
simplex) (Pev. et Mag. de Zool. 1850, pp. 494-497).
(1850) „ Beitrag zur Ornithologie Westafrica' s (Verzeichniss der offentlichen und Privat-Vor-
lesungen, welche am Hamburgischen akademischen Gymnasium u. s. w. gehalten werden.
Herausgegeben von K. W. M. Wiebel). Hamburg , 1 850 , pp. 1-47 (Sono annoverate
26 specie di uccelli di S. Thomé, raccolte dal Weiss).
(1850) „ Neue Arten des hamburgischen naturhistorischen Museums (ibid. pp. 48-56) (Ridescrive le
varie specie di S. Thomé descritte precedentemente e per la prima volta il Turdus oli-
vaceo-fuscus).
(1850) „ Ornithology of the Coasts and Islands of Western Africa (Contr. Orn. 1850, pp. 129-140)
(Annovera le 26 specie di uccelli di S. Thomé, raccolte dal Weiss e menzionate prece-
dentemente).
(1852) , Beitrag zur Ornithologie Westafrica's (Abh. Natura: Ver. Hamb. II, 2, pp. 1-47) (Ristampa
del lavoro pubblicato nel 1850).
(1852) „ Neue Arten des hamburgischen naturhistorischen Museums (ibid. pp. 48-56) (Tafeln I-III,
VII-XI, rappresentano specie di S. Thomé).
(1852) „ Zweiter Beitrag zur Ornithologie Westafrica's [ibid. pp. 57-68).
(1852) , Description de quelques nouvelles espèces d'oiseaux (Strix thomensis, Rev. et Mag. de Zool.
1852, p. 3).
(1854) „ Versuch einer synoptischen Ornithologie Westafrica's (Forsetzung) (Journ. f. Orn. 1854,
p. 2) {Halcyon dryas, Lamprocolius ignitus!).
(1857) , System der Ornithologie Westafrica's (Neophron pileatus, Psittacus erythacus, Oriolus cras-
sirostris, Numenius haesilatus, N. phaeopus).
(1861) „ Berichtigungen und Zusàtze zu meinem * System der Ornithologie Westafrica's , {Journ.
f. Orn. 1861, pp. 97-112, 161-176, 257-276) (Annovera 8 specie che sarebbero state rac-
colte in S. Thomé dal Gujon, ma probabilmente sono di altra località: Halcyon cancro-
phaga, C'eryle maxima, Merojis aegyptius (= saperci! iosus), Merops hirundinaceus , Merops
erythropterus, Passer simplex, Psittacida roseicollis, Parrà africana).
(*) L'Isola Rollas è una dipendenza dell'Isola di S. Thomé.
20 TOMMASO SALVADOBI 4
(1867) Barboza du Bocage, J. V., Aves das possessoes portuguezas da Africa occidental que existem
no Museu de Lisboa (Jorn. Se. Lisb. I, pp. 129-153) (Sono menzionate 6 o 7 specie di
S. Thomé, fra le quali tre nuove per quell'isola: Hyphantornis capitalis. Turturoena sp.,
Rallus caerulescens, Phaeton candidus).
(1869) Sharpe, R. B., On the Birds of Angola (P. Z. S. 1869, pp. 563-572) (Menziona 3 specie già
note di S. Thomé).
(1870) Finsch, Dr. 0. und Hartlaub, Dr. G., Die Vogel Ost-Africas (È menzionato un esemplare di
S. Thomé del Phoenicopterus erythraeus conservato nel Museo di Brema e raccolto dal
Weiss) ed il Merops aegtjptius Hartl. (nec Forsk.) è identificato col M. superciliosus).
(1879) Barboza du Bocage, J. V., Subsidios para a Fauna des possessoes portuguezas d'Africa occi-
dental {Jorn. Se. Lisb. No. XXVI (Ilha de S. Thomé, Aves, pp. 86-87) (Sono annoverate
per la prima volta ì'Estrelda Astrila e la Vidua principalis).
(1882) Greef, R., Die Insel Rolas (Globus, 41 Bd. 1882, 9 pag.) iNon vidi).
(1884) , Die Fauna der Guinea-Inseln S. Thomé und Rolas (Sitgsber. Ges. z. Beford. des ges. Naturieiss.
Marburg, 1884, No. 2, pp. 41-79) (Contiene alcuni cenni (pp. 46-47) intorno a poche specie
già menzionate dall'Hartlaub).
(1887) Barboza do Bocage, J. V., Oiseaux nouveaux de l'ile St. Thomé (Jorn. Se. Lisb. No. XL1V,
pp. 250-253, {Prillili moileri, Cinnyris newtoni).
(1887) L[opes] V[ieira], Aves da Ilha de S. Thomé {Instituto, 1887, No. 11, pp. 1-4, Coimbra) (4 specie
nuove per l'isola: Hirundo rustica, Vidua paradisea, Herodìas garzetta, Anous stolidus).
(1887) Barboza du Bocage, J. V., Additamento a fauna ornithologica de St. Thomé (Jorn. Se. Lisb.
No. XLVI, pp. 81-83) (Aetitis hypoleucos, Columba arquatrix var.).
(1888) „ Sur un oiseau nouveau de St. Thomé de la Famille " Fringillidae „ (ibid. No. XLVI1,
pp. 148-150) (Phaeospiza thomensis).
(1888) De Sousa, J. A., Enumeracao das Aves conhecidas da Ilha de S. Thomé, seguida da Lista das
que existem d'està Ilha no Museu de Lisboa (ibid. No. XLVII, pp. 151-159) (Cuculus
canorus, Ciconia alba, Estrelda thomensis).
(1888) Barboza du Bocage, J. V., Note sur la " Phaeospiza thomensis , (ibid. No. XLVII, pp. 192-1931.
(1888) „ Sur quelques oiseaux de l'Ile St. Thomé (ibid. No. XLVIII, pp. 211-215).
(1888) „ Oiseaux nouveaux de l'Ile St. Thomé (ibid. No. XLVIII, pp. 231-234) (Scops sca2mlatus,
Amblyospiza concolor, Columba arquatrix var. thomensis, Lampribis olivaeea).
(1889) „ Breves consideracòes sobre a Fauna de S. Thomé (ibid. (2), No. I, pp. 33-36) (Chaetura
sabinii, Totanus glareola, Strepsilas interpres, Ortygometra egregia).
(1889) „ Sur deux espèces à ajouter à la faune ornithologique de St. Thomé (ibid. (2), No. II,
pp. 142-144) (Euplectes aureus, Nectarinia thomensis nova sp.).
(1889) „ Aves da Ilha de S. Thomé (ibid. (2), No. III, pp. 209-210) (Sterna fuliginosa).
(1891) „ Oiseaux de l'Ile St. Thomé (ibid. (2), No. VI, pp. 77-87) (Lanius (Fiscus) Newtoni, Chri-
tagra chrysopyga, Sterna anaestheta, Procellaria sp., Siila fiber).
(1892) Sharpe, R. B., Description of some new Species of Timeliine Birds from West Africa (P. Z. S.
1892, pp. 227-228) (Amaurocichla bocagei, nov. sp.).
(1896) Barboza du Bocage, J. V., Aves d'Africa de que existem no Museu de Lisboa os exemplares
typicos (Jom. Se. Lisb. (2) No. XV, pp. 179-186) (Annovera anche parecchie specie di
S. Thomé).
(1900) Hartert, E., Chaetura thomensis, sp. n. (Bull. B. O. C, X, pp. LILI-LIV).
(1901) Salv adori, T., Due nuove specie di uccelli dell'Isola di S. Thomé e dell'Isola del Principe
(Boll. Mus. Tor. No. 414, pp. 1-2) (Zosterops feae).
(1902) „ On a New Kingfisher of the genus Corythornis (The Ibis, 1902, pp. 566-569, pi. XIII)
(C. thomensis).
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 21
1. Hirundo rustica, L.
Hirundo rustica. L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 154 (1888). - Boc, ibid. (2), No. VI, p. 86 (1891).
Si conosce un solo esemplare di questa specie raccolto in San Thomé dal Moller
2. Terpsiphone atrochalybea (Thoms.).
Muscipeta atrochalybea, Thoms., Ann. and Mag. N. H., X, p. 204 (Fernando Po!) (1842).
— Hartl., Rev. et Mag. de Zool., 1849, p. 497 (St. Thomé). — id., Beitr. in Wiebel's Verz.,
pp. 1, 3, 25, 46 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw.
Ver. Hanib., II, pp. 1, 3, 25, 46 (9) (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 29. - Boc, Jorn. Se.
Lisb., II, p. 137, n. 53 (<*" St. Thomé) (1867). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
p. 151 (1888).
Tchitrea atrochalybea, Hartl., Orn. W. Afr., p. 92 (descr. foeminae errata) (1857). — G. R.
Gr., Hand-List, I, p. 333, n. 5009 (1869). - Gieb., Thes. Orn., III, p. 593 (1877).
Muscipeta melampyra, Boc. (nec Verr.), Jorn. Se. Lisb., No. II, p. 137, n. 54 (? St. Thomé)
(1867). — id., Orn. Ang., p. 194 (nota) (1877). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
p. 153 (nota) (1888).
Terpsiphone atrochalybea, Pinsch u. Hartl., Vog. Ostafr., p. 313 (nota) (1870). — Sharpe,
Cat. B., IV, p. 362 (1879). — Boc., Jorn. Se. Lisb., VII, No. XXVI, p. 86 (descr. foeminae)
(1879). — L. V. Instituto, No. 11, p. 3 (St. Thomé, Moller) (1887). — Boc, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 150 (1888). — Sousa, ibid., pp. 152, 157 (1888). — Boc, op. cit., No. XLVIII,
p. 233 (1888); (2) I, p. 35 (1889); II, p. 144 (1889); in, p. 209 (Rio do Ouro) (1889); VI,
p. 78 (ova e nido) (1891). — Dubois, Syn. Av., p. 281 (Congo!) (1900). — Sharpe, Hand-
List, III, p. 255 (R. Congo !) (1901).
Terpsiphone costata part., Oust., Nouv. Arch. Mus. (2), II, p. 99 (St. Thomé) (1879). —
Sousa, Jorn. Se Lisb., No. XLVII, p. 153
" Nome volgare 'Tome-Gagà' „ (F. Newton).
a (8)^ Rib. Palma, 5 luglio 1900.
6 (13) d- „ 26 „
e (14) *" „ 23
d (60) d- „ 7 agosto „
e (76) s Vista Alegre, 23 settembre 1900.
f(12)9 Rib. Palma, 5 luglio 1900.
g (46) i „ 1° agosto »
h (54) 9 » 8
i (78) 9 Vista Alegre, 25 settembre 1900.
La descrizione della femmina data dall' Hartlaub e ripetuta nell' opera Vogel
Ostafrika's è affatto sbagliata; esatta invece è quella data dal Barboza du Bocage.
Siccome questa specie non si trova nell'Isola del Principe, interposta fra S. Thomé
e Fernando Po, mi era venuto il dubbio che gli esemplari di S. Thomé potessero
essere diversi da quelli di Fernando Po; invece, fatto confrontare dall'Ogilvie-Grant
un maschio adulto di S. Thomé coll'esemplare tipico del Museo Britannico, indicato
di Fernando Po, non è apparsa differenza alcuna, e siccome il Boyd Alexander non
ha trovato questa specie in Fernando Po, pare probabile che per errore questa località
sia stata attribuita all'esemplare tipico e che la specie sia esclusiva di S. Thomé.
22 TOMMASO SALVADORI 6
3. Lanius newtoni, Boa
Lanius (Fiscus) Newtoni, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. VI, p. 79 (Si Miguel et Eio Quija,
F. Newton) (1891).
Fiscus newtoni, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XV, p. 182 (Tipo) (1896).
Lanius newtoni, Grant, Nov. Zool., IX. p. 467 (1902).
Il Bocage ebbe cinque esemplari di questa specie, due maschi adulti, una fem-
mina adulta e due giovani. Egli asserì che gli adulti avessero le parti inferiori
tinte di giallo; questa cosa mi parve tanto straordinaria per una specie del genere
Lanius, da farmi dubitare che si trattasse invece di una specie dei generi Laniarius,
o Chlorophoneus. Avendo potuto, per cortesia del Barboza, esaminare due esemplari
del Museo di Lisbona, una femmina adulta ed un giovane, con mia sorpresa, ho
trovato che la femmina adulta ha le parti inferiori bianche, senza traccia della tinta
gialla menzionata dal Bocage (!). Il giovane ha il bianco delle parti inferiori tinto di
fulvo; il nero delle parti superiori alquanto bruniccio; il bianco delle scapolari misto
di nero e di fulviccio; le cuopritrici delle ali e le remiganti marginate di rossigno;
gli apici delle timoniere bianchicci e non bianchi, come nell'adulto. — Come ha fatto
notare il Barboza, questa specie si distingue dalle affini L. smithi, L. collaris e
h. humeralis pei seguenti caratteri:
1° Mancanza di specchio bianco sulle ali.
2° Colorazione nera del groppone e del sopraccoda.
3° Inversione del bianco sulla timoniera esterna, che invece di avere il bianco
sul vessillo esterno, l'ha sull'interno.
Rispetto alla tinta gialla delle parti inferiori, asserita dal Bocage, essa non
appare affatto negli esemplari da me esaminati, e non so comprendere per quale
errore sia stata indicata.
La frase specifica di questa specie dovrà essere come seguo: Supra nitide niger,
subtus albus; speculo alari nullo; scapularibus albo terminatis; remigibus nigris, intus
albido limbatis; subalaribus albis, extimis fuscis; rectricibus nigris, extimae pogonio interno
et apice albis, tribus sequentibus albo terminati*; rostro pedibusqui nigris. Long. tot.
circa 200 mm. ; alae 87; caud. 105; rostri culm. 14; tarsi 23.
4. Elaeocerthia thomensis (Boc).
Nectarinia thomensis, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), I, No. II, p. 143 (St. Miguel, F. Newton)
(1889); No. VI, p. 78 (<j- s St. Miguel, còte occidentale de l'ile de St. Thonié. F. Newton)
(1891); No. XV, p. 180 (Tipo) (1896).
Elaeocerthia thomensis, Shell., B. Afr., I, p. 5, no. 60 (1896); II, p. 119, pi. 5, f. 2 (cf) (Uhm:,.
5. Cinnyris newtoni, Boc.
Cinnyris newtoni, Boc, Jorn. Se. Lisb., XI, No. XLIV, p. 250 (St. Thonié) (1887). — L. V.,
Instituto, No. 11, p. 2 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
pp. 154, 157 (1888). - Boc, ibid., No. XLIII, pp. 211, 233 (1888); (2), I, pp. 34, 35 (1889);
No. VI, p. 78 (Diego Nunes, Santa Maria (1350 ni.), Santa Cruz dos Angolares, St. Miguel,
Mouta et Batepà) (1891).
Cyanomitra newtoni , Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XV, p. 180 (Tipo) (1896). — Shell.,
B. Afr., I. p. 5, no. 69 (1896): II, p. 134, pi. 5, f. 1 (1900).
7 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 23
a (1) e ad. Ribeira Palma, 13 luglio 1900.
è (25) a' ad. „ 24
e (31) rr ad. „ „ „
d{i3)j ad. „ 1° agosto „
e (15) « „ 28 luglio „
/'(16)i . 25
I maschi adulti concordano in tutto colla figura del maschio data dallo Shelley;
le femmine nelle parti superiori sono simili ai maschi, dai quali differiscono per
avere la gola e la parte anteriore del collo di colore olivaceo scuro con un certo
disegno a squame, essendo i margini delle piume più chiari della base ; inoltre le fem-
mine mancano della grande area di color giallo zolfino sul petto, che, come il resto
delle parti inferiori, è di color giallo chiaro e non buff, come dice lo Shelley.
6. Zosterops feae, Salvad.
Zosterops ficedulina, Sousa (nec Hartl.), Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 157 (esemplare in
alcool, St. Thomé?) (1888). — Boc, op. eit. (2), No. VI, p. 86 (1891).
Zosterops ficedulina, var., Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 35 (St. fhomó) (1889).
Zosterops feae, Salvad., Boll. Mus. Tor., No. 414, p. 1 'Ins. St. Thomé) (1901).
Supra viridis, margine frontali, loris, gula, abdomine medio et subcaudalibus pallide
ftavis; annulo circumoculari niveo, infra taenia nigra marginato; pectore lateribusque
griseo-virescentibus, his bruuneo tinctis; remigibus rectricibusque fuscis, exterius viridi
lìmbatis; remigibus intus albo-mar ginatis; subalaribus albis, vix flavicante-tinctis ; rostro
pallide corneo; pedibus fuscis. Long. tot. mm. 107; al. 53; caud. 35; rostri culm. 9;
tarsi 17.
a (64) 9 Ribeira Palma, 10 agosto 1900.
è(65)cT 7
e (84) 9 Vista Alegre, 23 settembre „
d(88)cr „ 8
II sig. Fea ha inviato quattro esemplari di questa specie , due maschi e due
femmine, i quali presentano lievi differenze nel colorito, più o meno vivo, delle parti
inferiori.
Questa specie era stata già trovata nell'isola S. Thomé, ed anzi il Bocage
intravvide che essa era diversa dalla Z. ficedulina dell'Isola Principe, alla quale tut-
tavia erroneamente la riferì ; questa ha il pileo bruniccio, più scuro delle altre parti
superiori, le parti inferiori più chiare e senza tinta bruna sui fianchi, l'anello di
piume bianche perioculare meno distinto, e manca della stria nera suboculare.
Il Fea nota che questa specie ha gli stessi costumi della seguente.
7. Speirops lugubris (Hartl.).
Zosterops lugubris, Hartl., Rev. ZooL, 1848, p. 109 (St. Thomé). — G. R. Gi\, Gen. B., I,
p. 198, n. 22 (1848). — Bp., Consp., I, p. 398 (1850). — Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz.,
pp. 1, 23, 49 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb.,
II, pp. 1, 23, 49, taf. II (fig. med.) (1852). — Rcbnb., Handb., Merop., p. 93, t. CCCCLXII,
ic. 3306 (e. 1852). - Sharpe in Gad., Cat. B., IX, p. 199 (1869). — id., P. Z. S., 1869,
p. 564 (St. Thomé). — Greeff, Sitzb. Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46. — Boc, Jorn. Se
24 TOMMASO SALVADORI 8
Lisb., No. XLIV, p. 251 (nota) (1887). — L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (1887). — Boc, -Torn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 150 (1888). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 151, 152,
157 (S. Thomé) (1888). — Boc., ibid., No. XLVIII, p. 233 (1888); (2), No. I, p. 35 (1889);
No. Ili, p. 209 (Eio do Ouro) (1889); No. VI, p. 80 (Eolas, Neves; uovo, nido) (1891). —
Shell., B. Afr., I, p. 8, n. 106 (1896). — Pinsch, Tierr., Zosteropidae, p. 36 (1901).
Speirops lugubris, Echnb., Icon. ad Syn. Av., No. IX, sp. 200 (1 Martii 1852). — Hartl.,
J. f. O., 1865, p. 28. — Shell., B. Afr., II, p. 201 (1900).
Zosterops (Speirops) lugubris, Hartl., Orn. W. Afr., p. 72 (1857). — Heugl., Ibis, 1861,
p. 361. — G. E. Gr., Hand-List, I, p. 164, n. 2170 (1869).
8 Nome volgare Ué-glosso „ (F. Newton).
«(9)^ Rib. Palma, 11 luglio 1900.
6(28)^ „ 25 „
e (49) <f „ 3 agosto „
d (2) 5 „ 8 luglio „
e (3) 2 „ 9 „
f (50) 2 „ 3 agosto „
Le femmine sono simili ai maschi.
" Molto abbondante. Si trova per lo più in comitive di parecchi individui; fre-
quenta i luoghi ombrosi , procedendo con brevi voli ed emettendo un sommesso
pigolio „ (Fea).
La descrizione che il Finsch dà di questa specie non è esatta, giacche il sotto-
coda non è di colore olivaceo-giallognolo, ma bruno-olivaceo; inoltre le tibie sono
bianche, la qual cosa, sebbene notevolissima, non è indicata dal Finsch.
8. Prinia molleri, Boc.
Drymoica ruflcapilla, Hartl. (nec Fras.), Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 21 (St. Thomé) (1850).
— id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., pp. 1, 21
(1852). — id., J. f. O., 1854, p. 15 (pari). — id., Orn. W. Afr., p. 57 (part, St. Thomé)
(1857). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Prinia molleri, Boc., Jorn. Se. Lisb., XI, No. XLIV, p. 251 (St. Thomé) (1887). — L. V, Insti-
tuto, No. 11, p. 2 (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 154, 157 (1888). — Boc.,
ibid., No. XLVIII, p. 212 (<r ad.?), p. 233 (1888); (2), No. I, pp. 34, 35 (1889); No. III, p. 209
(Eio do Ouro) (1889); No. VI, p. 80 (1891); No. XV, p. 183 (Tipo) (1896). — Shell., B. Afr.,
I, p. 73, n. 1020 (1896). — Dubois, Syn. Av., p. 359, no. 5081 (fase. V, 1900).
Cisticola ruflcapilla, Sousa (nec Fras.), Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888).
" Nome volgare ' Tucli ' „ (F. Newton).
a(32)d> Rib. Palma, 22 luglio 1900.
b (44) <? „ 1° agosto „
c(45)rf- „ „
d(68)rf" „ 15 „
e (83) <f Vista Alegre, 23 settembre 1900.
/"(53)2 Rib. Palma, 9 agosto „
.9(63)* 10 ,
h (79) ? Vista Alegre, 22 settembre „
i (85) 2 25
Tuf,ti questi esemplari sono simili fra loro; lievissime sono le differenze nel
colore grigio scuro del dorso, più o meno lievemente tinto di rossigno; il bianco della
9 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 25
gola è più o meno tinto di rossigno; nessuno ha sul petto la fascia trasversale di
color cenerino scuro menzionata in un esemplare esaminato dal Bocage (1. e. No. XLVIII,
pag. 212).
" Questo uccello ha canto monotono, ma nelle movenze è pieno di grazia,
vivacissimo e sempre in moto; col battere delle ali produce un rumore secco, come
di un colpo di spatola „ (Feci).
9. Turdus olivaceofuscus, Hartl.
Turdus olivaceofuscus, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 23, 49 (St. Thomé) (1850). -
id., Contr. Oro., 1850, p. 131. - id., Abb. nat. Ver. Hamb., II, 2, pp. 1, 23, 49, Taf. Ili
(fig. bona) (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 23, n. 189. - Miill., J. f. 0., 1855, p. 389. -
Hartl., Om. W. Afr., p. 75 (1857). — Seebb., Cat. B., V, p. 189 (1881). - Greeff, Sitzb.
Gres. Marb., 1884, No. 2, p. 46. — L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (St. Thoiné, Moller) (1887).
— Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 150 (1888). — Sousa, ibid., pp. 151, 152 (1888). —
Boc, ibid., No. XLIII, pp. 212, 233 (1888). - id., op. cit. (2), I, p. 35; II, p. 144 (1889);
VI, p. 80 (1891) (ova). — Seebb. et Sharpe, Mon. Turd., p. 113, pi. XXXVI (pt. Ili, 1898).
Turdus olivaceorufus (errore), Gieb., Tbes. Om., IH, p. 717 (1877).
0-6(55,59)^ Rib. Palma, 6 agosto 1900.
e (82) f Vista Alegre, 22 settembre 1900.
d (94) j „ 4 ottobre
e (99) e 3
f (24) s Ribeira Palma, 20 luglio
g (75) s „ 28 agosto
/* (92) s Vista Alegre, 8 ottobre „
«(93)9 9
Le femmine non differiscono sensibilmente dai maschi.
La figura di questa specie nella Monograph of the Turdidae non è molto esatta,
mostrando le parti inferiori troppo rossigne, o fulviccie, laddove in tutti gli esemplari
sopra citati esse sono molto più biancheggianti; inoltre essi hanno tutti una sorta
di fascia bruniccia a traverso la parte inferiore del collo che non appare nella figura
citata.
La sinonimia di questa specie è incompleta tanto nel Catalogne of Birds, quanto
nella Monografia dei Turdidi, mancando nella medesima la citazione della descrizione
originale.
10. Amaurocichia bocagei, Sharpe.
Amaurocichla bocagei, Sharpe, P. Z. S., 1892, p. 227, pi. XX, f. 1 (San Miguel, W. Coast
of St. Thomas). — Bocage, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XV, p. 183 (Tipo) (1896).
11. Linurgus thomensis (Boc).
Phaeospiza thomensis, Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 148 (St. Thomé) (1888). — Sousa,
ibid., p. 159 (nota) (1888). — Boc., ibid., p. 192 (partim) (1888).
Passer sp., Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 155 (St. Thomé) (1888).
Poliospiza rufobrunnea, Boc. (nec G. R. Gr.), Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII, p. 234 (1888);
(2), No. I, pp. 35, 36 (pari) (1889); No. VI, p. 81 (St. Thomé) (1891). - Shell., B. Afr.,
I, p. 21, n. 278 (part.) (1896).
Linurgus thomensis, Shell., B. Afr., Ili, p. 173 (1902).
D
Serie II. Tom. LUI.
26 TOMMASO SALVADORI 10
a (10) cf Rib. Palma. 9 luglio 1900.
6(56) <t •• -1 agosto -
c(61)rf , 14 „
d (80) # Vista Alegre, 24 sett. „
e (90) <f „ 7 ottobre „
f(91)<f » 6 ,
gr (4) s Rib. Palma. 14 luglio
h (7) 2 „ 9 .
i (77) Vista Alegre, 22 settembre 1900.
" Comune; il maschio ha canto molto armonioso „ (Feci).
La femmina è simile al maschio.
Il Bocage descrisse gli esemplari di San Thomé col nome di Phaeospiza thomensis,
ma poi credette che essi dovessero essere riferiti alla specie dell'Isola Principe. Invece,
pel confronto degli esemplari delle due località, io mi sono persuaso che essi appar-
tengono a due specie distinte. Quella di San Thomé si può caratterizzare colla
seguente frase:
Linurgus L. rufobrimneo similis, sed minus rufescens, gula distincte albida, abdo-
mine medio albicante, diverso.
12. Neospiza (nov. gen.) concolor (Boa).
Amblyospiza concolor, Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII, pp. 231, 234) (Angolares, F. Newton)
(1888); (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI, p. 81 (Rio Quija, St. Miguel, F. Newton) (1891);
No. XV, p. 185 (Tipo) (1896). — Dubois, Syn. Av.. p. 570 (fase. Vili, 1901).
Ho esaminato il tipo di questa specie, che mi è stato inviato cortesemente per
esame dal sig. Barboza du Bocage; come questi fa notare, quell'esemplare, che egli
dice simile ad altri due di Rio Quija, differisce dalle specie del genere Amblyospiza,
cui tuttavia egli lo ha riferito, per mancare della macchia frontale bianca e della
fascia bianca alla base delle remiganti primarie; inoltre io trovo che quell'esemplare
differisce da un altro dell' A unicolor, conservato nel Museo di Torino, per avere il
becco meno compresso e più rigonfio, il culmine del becco non protratto in addietro
fino alla metà, degli occhi, e che non raggiunge neppure il margine anteriore all'occhio,
le narici non scoperte, ma nascoste dalle piume, e la base della mandibola inferiore
meno obliqua e quasi verticale; anche nell'ala si trova una notevole differenza, giacché
nell'ai, unicolor l'ala è breve e fornita di una prima remigante, o spuria, che arriva
al margine inferiore dello specchio bianco dell'ala, laddove neìl'A. concolor l'ala è più
lunga, più acuta e manca della remigante spuria : per questi caratteri a me sembra
che VA. concolor non appartenga ai Ploceidi, ma ai Fringillidi e debba costituire il
tipo di un genere distinto, che propongo di chiamare Neospiza, affine al genere Serinus,
o Chrithagra, e forse anche al genere Linurgus.
13. Serinus icterus (Vieill.).
Crithagra chrysopyga, Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), No. VI, p. 82 (S. Antonio, F. Newton) (1891).
Non è improbabile che questa specie sia stata introdotta in S. Thomé, come a.
S. Elena ed in altre isole.
11 CONTMBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 27
14. Hyphantornis grandis, G. R. Gr.
Ploceus collaris, Fraser (nec Vieillot), P. Z. S., 1842, p. 142 (St. Thomas). — id., Zool. Typ.,
pi. 45 (1849). — Alien and Tkoins., Esp. Niger, II, p. 499 (1848).
Hyphantornis grandis, G. R. Gr., Gen. B., II, p. 351, n. 2 (1849). — Hartl., J. f. 0. 1854,
p. 108. — v. Muli., J. f. 0., 1855, p. 462. - Hartl., Ora. W. Afr., pp. 125 (<?), 273 (9) (1857).
— id., J. f. 0., 1861, p. 175 (jun.). — Heugl., J. f. 0, 1867, p. 364. — Boc, Jorn. Se.
Lisb., I, p. 139 (St. Tbomé, sr. Gomes Roberto) (1867). — Sharpe, P. Z. S., 1869, p. 564
(St. Thomas). - G. E. Gr., Hand-List, II, p. 41, n. 6562 (1870). — L. V., Instituto, No. 11,
p. 3 (S. Thomé, Moller) (1887). — Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 150 (1888). — Sousa,
ibi.:!., pp. 152. 157 (1888). — Boc., ibid., No. XLVIII, pp. 213, 233(1888); (2), I, p. 35; II,
p. 144 (1889), No. III, p. 209 (Rio do Ouro) (1889Ì; VI, p. 80 (uovo) (1891). — Sharpe,
Cat. B., XIII, p. 450 (18901. - Shell., B. Afr., p. 40, n. 559 (1896). — Dubois, Syn. Av.,
p. 563 (1901).
Ploceus grandis, Hartl., Rev. et llag. de Zool., 1849, p. 497 (St. Thomé). — id., Beitr. in
Wiebel's Verz., pp. 1, 28 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131. — id., Abh. naturw.
Ver. Hainb., II, pp. 1, 28, 60, 65 (1852). - Rchnb., Singv., p. 83, Taf. XLI, f. 303 (1861).
— Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888). — Rchnw., Zool. Jahrb., I, p. 141
(1886). — Shell., Ibis, 1887, p. 35.
Hyphantornis textor, pari., Gieb., Thes. Orn., II, p. 374 (1875).
" Nome volgare ' Canicela ' „ (F. Newton).
a (17) •("ad. Rib. Palma, 26 luglio 1900.
b (29) e ad. ., 30
e (35) f ad. „ 26
d(37)'ad. , 22 ,
e (73) e ad. „ 28 agosto ..
f{li) <f ad.
g (95) 4 ad. Vista Alegre, 8 ottobre „
7j (30) ? Ribeira Palma , 28 luglio „
i (47) 9 ., 3 agosto .,
.7(48)9 , 1» ,
A: (62) 9 „ 13 ,
l (98) ' Vista Alegre, 1° ottobre „
15.. Hyphantornis capitalis (Lath.).
Hyphantornis capitalis, Boc., Jorn. Se. Lisb., I, p. 139 (St. Thomé, sr. Gomes Roberto) (1867).
- Sousa, ibid., No. XLVII, p. 153 (1888).
V Hyphantornis intermedius, Sousa (nec Riipp.), ibid., p. 152 (S. Thomé, sr. Gomes Roberto)
). — Sharpe, Cat. B., XIII, p. 460 (nota) (1890).
Il Bocage annoverò l'JBT. capitalis fra le specie delle quali il Museo di Lisbona
possedeva un esemplare di S. Thomé inviato dal Sr. Gomes Roberto ; più tardi il De
Sousa, annoverando le specie di S. Thomé delle quali esistono .esemplari nel Museo
di Lisbona, non menziona più Ì'H. capitalis, ma l' H. intermedius, che probabilmente
è da identificare col primo, giacche ambedue le citazioni si riferiscono ad un esem-
plare inviato dal Sr. Gomes Roberto nel 1861.
28 TOMMASO SALVADORI 12
16. Heterhyphantes Sancti Thomae (Hartl.).
Sycobius St. Thomae, Hartl, Rev. Zool., 1848, p. 109. (St. Thomé). — id., Beitr. in Wiebel's
Verz., pp. 1, 30, 54 (1850). — id., Contr. Ora., 1850, p. 131. — id., Abh. nat. Ver. Hamb.,
II, pp. 1, 30, 54, Taf. IX (1852). — Greeff, Sitzb. Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46. - Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Sympleotes St. Thomae, Bp. Consp., I, p. 439 (1850). — Hartl. J. f. 0., 1854, p. 107. —
v. Mìill., J. f. 0., 1855, p. 461. — Hartl, Ora. W. Afr., p. 135 (1857). — Boc, Jorn. Se.
Lisb., No. XXVI, p. 87 (1879). - L. V., Instituto, No. 11, p. 3 (St. Thomé, Moller) (1887).
— Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 152, 158 (1888). - Boc., ibid., No. XLVIII, pp. 213,
233 (1888); (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI, p. 81 (uova, nido) (1891).
Anaplectes Sancti Thomae, Rclmb., Singv., p. 87, Taf. XLIV, f. 324 (1861). — Dubois, Syn.
Av., p. 569 (fase. Vili, 1901).
Hyphantornis (Anaplectes) St. Thomae, G. R. Gr., Hand-List, II, p. 42, n. 6590 (1870).
Hyphantornis Sancti Thomae, Gieb., Tbes. Ora., II, sp. 374 (1875).
Ploceus nigricollis, pari, Shell. Ibis, 1887, p. 22.
Heterhyphantes Sancti Thomae, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 418 (1890).
Sharpia Sancti Thomae, Shell, B. Afr., I, p. 34, sp. 475 (1896).
a (26)** ad. Rib. Palma, 19 luglio 1900.
b (81) j ad. Vista Alegre, 25 settembre 1900.
Questi due esemplari hanno il color giallo della fronte, dei lati della testa, della
gola e del petto alquanto bruno-aranciato.
e (51) <f Rib. Palma, 2 agosto 1900.
d(ò)J „ 3 luglio
e (81) d* Vista Alegre, 3 ottobre „
In questi tre esemplari il colore giallo delle parti sopraindicate è più puro, più
aranciato e meno bruno.
f(27)s Rib. Palma. 19 luglio 1900.
Il colore giallo della fronte, dei lati della testa e del collo non si estende sulla
gola, che è bianchiccia.
0(11) s juv. Rib. Palma. 10 luglio 1900.
Simile al precedente, ma col pileo in gran parte bruno-olivaceo, con qualche
piuma nericcia.
17. Estrelda astrild (L.).
Estrelda astrild, Boc, Jorn. Se. Lisbl. VII, No. XXVI, p. 87 (St. Thomé) (1879). — L. V.,
Instituto, No. 11, p. 3 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
pp. 154, 158 (St. Thomé, sr. Borja) (1888). - Boc, ibid. (2), No. Ili, p. 210 (1889); No. VI,
p. 81 (St. Miguel, F. Newton) (1891).
"Nome volgare: ' Januario' „ (F. Newton).
Non rara, ma forse introdotta.
18. Lagonostlcta thomensis (Sousa).
Estrelda thomensis, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 155 (St. Thomé, Moller, 1885)
(1888). — Boc, ibid. (2), No. I, pp. 34, 35 (1889); No. XV, p. 185 (Tipo) (1896). — Dubois,
Syn. Av, p. 582, No. 7700 (fase. Vili, 1901).
Semelhante a E. incorna, de que se pode considerar urna variedade, apresentando
as seguintes differencas: bico arroxeado; toda a cor cinzenta predominante na especie
13 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 29
sua affine é, n'este exemplar que descrevemos, menos carregada e com um tom vinaceo
muito distincto; os flancos acarminados come o uropygio; aza attingindo quasi duas
pollegadas, ou quasi mais 3 linhas do que as dimensòes dadas pelo sr. Sharpe (*) et
do que as de um exemplar que o museu possue da Africa meridional offerecido pelo
sr. Shelley.
Il De Sousa, descrivendo questa specie, dice che il tipo della medesima, conser-
vato nel Museo di Coimbra, era stato raccolto dal Moller nel 1885. È singolare che
nella Lista degli Uccelli raccolti dal Moller nel 1885, publicata nel No. 11 del-
l' Istituto, 1887, non si trovi annoverata la E. thomensis, ma bensì la E. astrildl
La L. thomensis è sfuggita allo Sharpe, che non l'annovera nel volume XIII del
Catalogne of Birds.
19. Quelea erythrops (Hartl.).
Ploceus erythrops, Hartl, Rev. ZooL, 1848, p. 109 (St. Thomé). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 151 (1888).
Euplectes erythrops, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 30, 53 (1850). — id., Contr. Ora.,
1850, p. 131 (St. Thomas). - id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 30, 53, Taf. Vili,
«■, s jun. (1852). — Greeff, Sitzb. Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46.
Foudia erythrops, Hartl., Ora. Westafr., p. 129 (1857). — Boc, Jorn. Se. Lisb., VII, No. XXVI,
p. 87 (St. Thomé) (1879). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 152, 158 (St. Thomé)
(1888). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Principe) (1889); No. VI, p. 81
(St. Thomé) (1891).
Trovata dal Weiss e da altri nell'Isola di S. Thomé, dove pare comune.
20. Spermestes cuculiata, Sw.
Spermestes cuculiata, Hartl, Beitr. in Wiebel's Verz., p. 1 (St. Thomé) (1850). — id., Contr.
Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II , p. 1 (St. Thomé)
(1852). — id., Ora. Westafr., p. 147 (1857). — L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé,
Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 151, 152 (1888). - Boc., ibid.,
No. XLVIII, p. 234 (1888); (2), I, p. 36 (1889); VI, p. 81 (1891).
Amadina cuculiata, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., p. 32 (1850). — id., Abh. naturw. Ver.
Hamb., II, p. 32 (St. Thomé) (1852).
a, b (69, 70) d>9 Rib. Palma, 29 agosto 1900.
21. Vidua principalis (L.).
Vidua principalis, Boc., Jorn. Se. Lisb., VII, No. XXVI, p. 87 (St. Thomé) (1879); No. XLIV,
p. 251 (1887). — L. V., Instituto, No. 11, p. 3 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, ibid.,
No. XVII, pp. 154, 158 (1888). - Boc, ibid., No. XLVIII, p. 234 (1888); (2), No. Ili,
p. 210 (Rio do Ouro) (1889); No. VI, p. 81 (1891).
a (67) s Ribeira Palma, 16 agosto 1900.
b (96) <? Vista Alegre, 15 ottobre
(*) Layard and Sharpe, Birds of South Africa, p. 470.
30 TOMMASO SALVADORI 14
22. Steganura paradisea (L.).
Vidua paradisea, L. V., Instituto, No. 11, p. 3 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 154 (1888).
Secondo il Lopes Vieira l'unico esemplare di questa specie inviato dal Moller
aveva traccie di essere stato in schiavitù: tuttavia il Moller assicura che esso fu
ucciso a Nova Moka in S. Thomé, all'altezza di circa 800 metri.
23. Pyromelana aurea (Gm.).
Euplectes aureus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. II, p. 142 (St. Thomé) (1889); No. Ili, p. 209
(Campos de Quineglaró, F. Newton) (1899).
Pyromelana aurea, Boc., ibid. (2), No. VI, p. 86 (d") (1891).
" Nome volgare ' Que-blan-cana-janeilo ' „ (F. Newton).
Il Bocage afferma di aver ricevuto molti esemplari di S. Thomé, facenti parte
di uno stesso invio (F. Newton).
La femmina di questa specie non è stata ancora descritta.
24. Oriolus crassirostris, Hartl.
Oriolus crassirostris, Hartl, Orn. Westafr., p. 266 (St. Thomé) (1857). — id., J. f. 0., 1861,
p. 275 (descr. corr.). — Sharpe, Ibis, 1870, pp. 215, 221. — Finsch, ibid. — G. R. Gr.,
Hand-List, III, p. 214, n. 4113 a (1871). — Gieb., Thes. Orn., II, p. 754 (1875). — Sharpe,
Cat. B., Ili, p. 217 (1877). — L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (St. Thomé, Moller) (1887). —
Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888). — Boc., ibid., p. 212 (descr. juv.) (1888);
No. XLVIII, p. 233 (1888); (2), No. I, p. 35 (1889); No. II, p. 144 (tre esemplari di
St. Miguel e Bha das Eolas) (1889); No. VI, p. 79 (1891). - Shell., B. Afr., I, p. 41,
n. 575 (1896). — Dubois, Syn. Av. (fase. VII, 1901), p. 527, n. 7086.
«(18)^ fere ad. Rib. Palma, 11 luglio 1901.
b (6)^ juv. „ 10
e (23) e juv. „ 20 „
" Frequente; il suo canto somiglia quello del nostro Rigogolo (O. galbula) „ (Fea).
Questa specie è poco nota ed è rara nei Musei; al tempo della publicazione
del volume III del Catalogne of Birds essa mancava nel Museo Britannico, e per quanto
io so i soli esemplari conosciuti, oltre quelli soprannoverati, sono il tipo nel Museo
di Brema, inviato dal Weiss e conservato nell'alcool, e parecchi esemplari conservati
nel Museo di Lisbona e menzionati dal Barboza du Bocage.
L'Hartlaub nella descrizione originale, che concorda abbastanza bene col primo
esemplare soprannoverato, scrisse: ■ subtus albo-flavescens , ma poi, considerando che
quell'esemplare tipico era stato conservato nell'alcool, suppose che esso fosse stato
scolorato per l'azione del medesimo e che vivente dovesse avere le parti inferiori di
un bel giallo e perciò disse che nella descrizione, invece di subtus albo-flavescens, si
dovesse leggere subtus flavissimus (J. f. O., 1861, p. 275). — La stessa cosa sup-
pose il Finsch (1. e), ma non è confermata dall'esame dei tre esemplari sopranno-
verati, i quali tutti, anche il primo, che per il becco rosso-mogano si può credere
sia abbastanza adulto, hanno le parti inferiori bianchiccie, lievemente tinte di gial-
lognolo ; questo carattere è veramente distintivo della specie.
15 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 31
Il primo esemplare ha la testa ed il collo neri, ma le piume della gola sono
marginate di bianchiccio, ciò che mi fa credere che esso non sia in abito perfetto.
I due giovani concordano colla descrizione che dell'abito giovanile è stata data
dal Barboza du Bocage.
Non pare che la femmina sia stata ancora descritta.
25. Onycognathus fulgidus, Hartl.
Onycognathus fulgidus, Hartl., Rev. et Mag. de Zool., 1849, p. 495 (Ile St Thomé). — id.,
Beitr. in Wiebel's Vera., pp. 1, 2, 28, 52 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131. — id.,
Abh. nat. Ver. Hamb., II, pp. 1, 2, 28, 52, Taf. VII (1852). - id., J. f. 0., 1854, p. 104.
— v. Muli., J. f. 0., 1855, p. 459. — Verr. in Chenu, Encycl. Méth., V, p. 160 (1856). —
Hartl., Orn. Westafr., p. 115 (1857). — id., J. f. 0., 1859, p. 35. — id., Abh. nat. Ver.
Brem., IV, p. 86 (1874). — Boc, Jorn. Se Lisb., No. XLVI, p. 81 (1887). — Sousa,
ibid., pp. 151, 152, 157 (1888). — Boc, op. cit. (2), I, p. 35; II, p. 144 (1889). - Sharpe,
Cat. B., XIII, p. 165 (1890). — Boc, op. cit., n. VI, p. 80 (St. Thomé e Rolas) (1891). —
Shell. B. Afr., I, p. 45, n. 619 (1896). — Dubois, Syn. Av., p. 545 (fase VIII, 1901).
Juida (Onycognathus) fulgida, G. R. Or., Hand-List, II, p. 25, n. 6350 (1870).
Onycognathus Sancti Thomae, Hartl. (errore), Boc, Jorn. Se Lisb., No. XLVIII, p. 233 (1888).
a (38) f ad. Rib. Palma, 28 luglio 1900.
b (39) e ad. „ 30 ,
e, d (40, 41)^ ad. , 27
e (97) <f ad. Agua Izé, 16 dicembre „
f (42) b ad. Rib. Palma, 30 luglio
#(102)9 ad. Agua Izé, 11 dicembre „
Le femmine differiscono dai maschi non solo per essere alquanto più piccole, ma
principalmente per avere le piume della testa e del collo marginate di grigio, per
la quale cosa quelle parti appaiono striate longitudinalmente di grigio ; noto questa
cosa perchè la descrizione della femmina data dallo Sharpe non è esatta ; egli indica
anche il dorso striato di grigio, la quale cosa non è.
26. Cypselus affinis, G. R. Gr.
Cypselus abyssiuicus, Licht. — Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 3, 16 (St. Thomé)
(1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb.,
II, pp. 1, 3, 16 (1852). — id., J. f. O., 1853, p. 397 (St. Thomé). — id., Orn. Westafr.,
p.24 (1857). - Boc, Jorn. Se Lisb., No. XLVH, p. 149 (St. Thomé) (1888). — Sousa,
ibid., pp. 151, 152 (1888). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Principe)
(1889); No. VI, p. 78 (St, Thomas) (1891).
Questa specie non sembra rara nell'isola di S. Thomé; esemplari della mede-
sima ivi raccolti si conservano nei Musei di Amburgo (Weiss) e di Lisbona (F. Newton).
27. Chaetura thomensis, Hartert.
Chaetura sabinii, Boc. (nec Gray), Jorn. Se Lisb. (2), No. I, p. 35 (St. Thomé) (1889); No. VI,
p. 78 (1891).
Chaetura thomensis, Hartert, Bull. B. 0. C, X, p. 53 (1900). — id., Nov. Zool., Vili,
p. 425, pi. VII, f. 1 (1901).
32 TOMMASO SALVADORI 16
Il Bocage ha annoverato la Ch. sabinei fra quelle trovate dal Newton nell'isola
di San Thomé e precisamente a Roca Saudade, ma senza dubbio la identificazione
non fu esatta, e si trattava invece di una specie nuova, che è stata recentemente
descritta dall'Hartert.
28. Corythornis thomensis, Saxvad.
Alcedo caeruleocephala, Hartl. (nec Gm.), Beitr. Orn. Westafr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 18
(St. Thomé, Weiss) (1850). — id., Conti-. Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh.
naturw. Ver. Hamb., II, 2, pp. 1, 18 (St. Thomé, Weiss)(18ò2). — id., Orn. Westafr., p. 36
(St. Thomé, Weiss) (1857). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (St. Thomé) (1888).
Corythornis caeruleocephala, Boc. (nec Gm.), Jorn. Se. Lisb., I, p. 134 (St. Thomé, Dr. Nunes)
(1867). — Sharpe, Mon. Alced., p. 39 (part.) (1869). — Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XXVI,
p. 86 (St. Thomé, Custodia de Borja) (1879); No. XLIV, p. 251 (nota) (St. Thomé, Newton)
(1887). — Lopes Vieira, Instituto, n. 11, p. 2 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, op. cit.,
pp. 152, 153, 156 (St. Thomé, Nunes and Gomes Roberto) (1888). — Boc., op. cit., No. XLVII,
p. 149 (Eio de Manuel Jorge, F. Newton) (1888); XLVIII, p. 211 (jeune femelle, Potò,
F. Newton), 233 (St. Thomé) (1888); (2), No. I, p. 36 (part.) (1889); No. II, p. 144
(St. Miguel, F. Newton) (1889); No. Ili, p. 209 (Rio do Ouro, F. Newton) (1889); No. VI,
p. 78 (St. Miguel, Hot das Rollas, F. Newton) (1891).
Corythornis cristata, Boc. (nec L.), Jorn. Se. Lisb., I, p. 134 (St. Thomé, Gomes Roberto)
1867). — Sousa, ibid., No. XLVII, p. 153 (1888).
Corythornis galerita, Sharpe, Mon. Alced., Introd., p. VII (part.) (1871). — id., Cat. B., XVII,
p. 166 (part.) (1892).
Corythornis thomensis, Salvad., Ibis, 1892, p. 568, pi. XIII (St. Thomas).
" Nome volgare ' Cunobia ' „ (F. Newton).
Corythornis C. galeritae similis, sed gastraeo castaneo, loris nigris, regione molari
castanea paullum nigro tincta, taeniisque transversis pilei caeruleo-viridibus, seu mala-
chitaceis, diversa. Long. tot. mm. 145-147; al. 59; caud. 28 ; rostri culm. 32.
Av. junior. Regione malari, loris, capitis laterìbus, pectore medio ejusque laterìbus
fusco-nigris; dorso maculis caeruleo-malachitaceis notato; rostro nigro.
a (21) s ad. Rib. Palma (300 m.), 22 luglio 1900.
b (52) c^ ad. „ 9 agosto 1900.
e (19) 5 juv. „ 21 luglio
d{20)<rj\iv. „ „
e (22) rt" juv. „ „
Io ho separato recentemente gli esemplari di S. Thomé da quelli dell'isola del
Principe per alcune differenze segnalate nella descrizione e che sono presentate tanto
dagli adulti, quanto dai giovani; questi, che sono facilmente riconoscibili per avere il
becco nero e le parti superiori macchiate di azzurro, sono notevoli per avere le
gote, i lati del collo ed il petto di color quasi nero, alquanto bruniccio.
È singolare che il Bocage (J. S. L., No. XLVIII, p. 211), il quale menziona una
femmina giovane di questa specie, non ne abbia segnalato i caratteri.
29. Halcyon dryas, Hartl.
Halcyon dryas, Hartl, J. f. O., 1854, p. 2 (Uba do Principe, St. Thomé, Weiss). — id., Orn.
Westafr., p. 32 (Ins. St. Thomé et do Principe, Weiss) (1857). — id., J. f. O., 1861, p. 104
17 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 33
(St. Thomé, Gujon). - Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Principe)
(1889); No. VI, p. 86 (1891). — Sharpe, Cat. B.,XVII, p. 248, spechi), a (St. Thomas) (1892).
Il Bocage fa notare che il Museo di Lisbona non ha ricevuto questa specie da
S. Thomé, dal collettore F. Newton.
30. Coracias garrula, L.
Coracias garrula, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 17 (St. Thomé, Weiss) (1850). — id.,
Contr. Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas, Weiss). — id., Abh. Naturw. Ver. Hamb., II,
pp. 1, 17 (1852). — id., J. f. 0., 1853, p. 400. — id., Orn. Westafr., p. 29 (1857). —
F. et H., Vog. Ost.-Afr., p. 154 (1870). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 151, 152
(1888). — Boa, ibid. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Principe) (1889), No. VI,
p. 86 (1891).
Il Museo di Amburgo possiede un giovane di questa specie raccolto dal Weiss;
non pare che altri esemplari siano stati trovati nell'isola di S. Thomé, ove secondo
il Weiss essa era sconosciuta.
31. Milvus aegyptius (Gm.).
Milvus aegyptius, Gm. — Hartl., Beitr. Orn. W. Afr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 15 (St. Thomé,
Weiss) (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas, Weiss). — id., Abh. naturw.
Ver. Hamb., II, pp. 1, 15 (1852). — Boa, Jorn. Sa Lisb., No. XLIV, p. 251 (nota) (1887).
— L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (St. Thomé) '(1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
p. 151 (1888). - Boa, ibid. (2), No. VI, p. 85 (1891).
Milvus parasitus (Daud.). — Hartl, J. f. O., 1853, p. 392 (St. Thomé). — id., Orn. Westafr.,
p. 10 (1857). — Dohrn, P. Z. S., 1866, p. 324 (St. Thomas). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, pp. 152, 156 (1888).
Milvus Forskali (Gm.). — F. et H., Vog. Ost.-Afr., p. 63 (1870).
Esemplari di questa specie, raccolti dal Weiss, si conservano nel Museo di Am-
burgo, e, inviati dal Sr. Francisco Newton, nel Museo di Lisbona. Secondo il Dohrn
essa è comunissima nell'isola di San Thomé.
32. Scops leucopsis (Hartl.).
Athene leucopsis, Hartl, Rev. et Mag. de Zool, 1849, p. 496 (St. Thomé). — Bp., Consp., I,
p. 43 (1850). — Hartl, Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 16, 48 (1850). — id., Contr. Orn.,
1850, p. 131. — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, 2, pp. 1, 16, 48, Taf. I (1852). —
Strickl, Orn. Syn., p. 171 (1855). - G. R. Gr., Hand-List., I, p. 40, n. 393 (1869). —
Greeff, Sitzb. Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46. — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
pp. 151, 156 (1888).
Scops leucopsis, Kaup, Contr. Orn., 1852, p. Ili (St. Thomas). — id., Tr. Zool. Soc, IV,
p. 224. - Hartl, Orn. W. Afr., p. 20 (St. Thomé) (1857). — id., J. f. O., 1861, p. 101.
— Sharpe, Cat. B., II, p. 311 (1875). — Boa, Jorn. Sa Lisb., No. XLIV, p. 251 (nota)
(1887). - L. V., Instituto, No. 11, p. 2 (1887). - Sousa, 1 a, No. XLVII, p. 152 (1888).
— Boa, ibid. (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI, p. 77 (1891). — Shell., B. Afr., I, p. 143
(1896). — Sharpe, Hand-List, I, p. 285, n. 19 (1899).
Glaucidium leucopse, Sharpe, Ibis, 1875, p. 259.
Pisorhina leucopsis, Rchnw., Vog. Afr., I, p. 667 (1901).
Serie II. Tom. LUI. i
34 TOMMASO SALVADOBI 18
Forma rufa.
Scops scapulatus, Boa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII. pp. 22:'. 232 1 1888) (Angolares, St. Thomé);
(2), No. I, p. 35 (1889); VI, p. 77 (St. Miguel, tali I (1891); (2), No. XV, p. 179
(tipo) (1896). - Shell., B. Afr.. I. p. 143 (1896).
Scops scapulata, Sharpe, Hand-List, I, p. 285, n. 18 (1899).
Pisorhina scapulata, Rclinw.. Vog. Afr., I, p. 668(1901).
a (36) s Rib. Palma. 18 luglio 1900.
6(33)2 „ :U
e (34) / , 2 agosto „
" Mostrasi anche di giorno nei luoghi molto ombrosi; lo sentii emettere un grido
molto strano „ (Fea).
Il primo esemplare ha l'abito grigiastro-bruno, più chiaro e biancheggiante sulle
parti inferiori ; esso concorda colla descrizione e colla figura della S. leucopsis (Hartl.);
gli altri due invece, dal colorito rossigno quasi uniforme, concordano colla descri-
zione della <S'. scapitiate, Boc, ed io non dubito che gli esemplari delle due forme,
uccisi nella stessa località, appartengano ad una medesima specie, tanto più che un
analogo dimorfismo si verifica in moltissime altre specie del genere Scops.
Questa specie è notevole per avere la parte inferiore e posteriore del tarso nuda,
e forse dovrà essere compresa in un genere distinto : per quel carattere essa si av-
vicina alla Scops gymnopoda, Gray (Sharpe, Cat. B. II, p. 65, pi. IV, f.), di cui lo
Sharpe figurò anche il piede dell'esemplare tipico, conservato nel Museo Britannico;
quella figura corrisponde in tutto al piede degli esemplari di S. Thomé; e siccome
l'esemplare tipico della <5'. gymnopoda è d'incerta, od ignota località, a me era venuto il
dubbio che esso potesse attribuirsi alla specie di S. Thomé ; invece lo Sharpe recente-
mente (Hand-List, I, p. 285) lo riferisce alla Scops malayana. L' Ogilvie-Grant, al
quale ho inviato il maschio sopra indicato, affinchè lo confrontasse coli' esemplare
del Museo Britannico, mi scrive affermando che i due esemplari presentano caratteri
affatto diversi.
33. Strix thomensls, Hartl.
Strix thomensis, Hartl. Rev. et Mag. ZooL, 1852, p. 2. — id., J. f. 0., 1853, p. 395. —
v. Muli., Beitr. Orn. Afr., I, 15 (1854). - id., J. f. 0., 1854, pp. 398, 402, 446. — Hartl.,
Orn. W. Afr., p. 21 (1857). — id., J. f. O., 1861, p. 102. - Boc, Jorn. Se. Lisb., 1, p. 132
(St. Thomé) (1867). — G. R. Gr., Hand-List, I, p. 52, n. 568 (1869). - Pelz., J. f. 0., 1872,
p. 23. — Sharpe, Cat. B., II, p. 290 (nota) (1875). - Boc. J. f. 0., 1876, p. 313. — Gieb.,
Thes. Orn., Ili, p. 547 (1877). - Barb., Jorn. Se Lisb.. No. XLVII. p. 149 (Montai
Sousa, ibid., pp. 152, 156 (1888). - Boc, op. cit., No. XLVIII, p. 233 (1888); ser. 2, No. I,
p. 35 (1889); No. VI, p. 85 (1891), — Rchmv.. Vog. Air., I, p. 67S (1901).
Strix St. Thomas, Hartl. — Kaup, Contr. Orn., 1852, p. 118. — id., Tr. Z. S.. IV, p. 247.
a (100) <f Agua Izé, presso la spiaggia, 1° dicembre 1900.
6(101)2 „ , 15
La femmina non differisce sensibilmente dal maschio nel colorito, ma ha i piedi
alquanto più deboli.
Il Bocage menziona due esemplari di Mouta e di Angolares nell'isola di S. Thomé.
Questa specie è molto rara nelle Collezioni e mancava perfino in quella del Museo
Britannico, quando fu pubblicato il Catalogo degli Striges.
19 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 35
34. Agapornis pullaria (L.).
Psittacula pullaria, HartL, Beiti-, in Wiebel's Verz., pp. 1, 35 (St. Thomé) (1850). — id.,
Conti-. Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1 , 35
(1852). — Greeff, Sitzb. Ges. Mark, 1881. No. 2. p. 47 (Rio do Ouro). — L. V., Instituto,
No. 11, p. 1 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151
(1888). — Boc, ibid. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Mia do Principe) (1889).
Agapornis pullaria, HartL, J. f. 0., 1854, p. 194. — id., Orn. Westafr., p. 168 (St. Thomé)
(1851). — Sousa, op. cit., No. XLVII, p. 152 ( 1888). - Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. VI,
p. 77 (Praia das Conchas) (1891).
a (66) -" Rib. Palma (300 m.), 18 agosto 1900.
6 (86) ì Vista Alegre (200-300 m.), 2 ottobre 1900.
e (89) ? „ 5 ottobre 1900.
35. Chrysococcyx smaragdineus (Sw.).
Cbalcites smaragdineus, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 36 (St. Thomé) (1850). —
id., Contr. Orn., 1850, p. -131 (St. Thomas'. — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 1, 36
(1852). — Greeff (*), Sitzb. Ges. Mark. 1884, No. 2. p. 47. — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 151 (1888).
Chrysococcyx smaragdineus, HartL, J. f. O., 1854, p. 203 (St. Thomé). — id., Ora. Westafr.,
p. 191 (1857). - Boe., Jorn. Se. Lisb., VII. No. XXVI, p. 86 (St. Thomé) (1879). - L. V.,
Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLVII.
p. 149 (St. Thomé) (1888). — Sousa, -Ioni. Se. Lisb.. No. XLVII, pp. 152, 158 (St. Thomei
(1888). - Boc., ibid. (2), No. I, p. 36 (1889), No. VI, p. 86 (1891).
Chrysococcyx intermedius. Veri-. — Boe., Jorn. Se. Lisb.. I, p. 143 (St. Thomé, sr. dr. Nunes,
1866) (1867).
Trovato dal Weiss e da altri nell'Isola di S. Thomé.
36. Vinago Sancti Thomae (Gm.).
Coluuiba sylvestris species ex insula Sancti Thomae, Marcgr., Hist. Bras., p. 213 (1648).
Columba viridis insulae Sancti Thomae, Briss., Ora., I, p. 147 (1760).
Pigeon vert de l'Ile de Saint-Thomas, Bufi'., Hist. Nat. Ois., II, p. 528 (1771).
S. Thomas's Pigeon, Lath. Syn., II, 2, p. 631, n. 22 (1781).
Columba S. Thomae, Gm., S. N, I, 2, p. 778, n. 46 (1788). — StriekL, Ann. and Mag. N. H.,
XIX. p. 44 (nota -— - T. crassirostris, Pras.).
Treron crassirostris, Pras., P. Z. S., 1843, p. 35. — Alien and Thoms., Exped. Niger, II, p. 42
(Ilha das Rollas), p. 506 (Islands of St. Thomas and Rollas) (1848). —HartL, Abh. naturw.
Ver. Hamb., II, 2, pp. 37, 60, 68 (1852). — id., Ora. Westafr., p. 192 (Ins. das Rollas,
Ins. St. Thomé, Thomson) (1857). — id., .1. f. O., 1861, p. 265 (Gabon!!! Fosse). — Greeff,
Sitzb. Ges. Mark, 1884, No. 2, p. 47. — Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLIV, p. 252 (1887).
— L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 152 (1888). — Boc., ibid. (2), No. I, pp. 35, 36 (1889); (2), No. VI, p. 82 (1891).
Treron abyssinica, Hartl. (nec Lath.), Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 37 (St. Thomé) (1850).
— id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id.. Abh. naturw. Ver. Hamb., II, 2,
pp. 1, 37 (St. Thomé, Weiss) (1852). — id., Ora. Westafr., p. 193 (St. Thomé, Weiss) (1857).
— id., .1. f. O., 1861, p. 266 (St. Thomé, Gujon). Sousa, Jorn. Se. Lisb.. No. XLVII,
pp. 151, 152
(*) Questa specie è menzionata dal Greeff anche nel lavoro " Die Insel Rolas , [Globus, Bd. 41,
1882), che io non ho potuto consultare.
36 TOMMASO SALVADORI 20
Vinago crassirostris, Salvad., Cat. B., XXI, p. 17 (Islands of St. Thomas and Rollas) (1893).
Vinago Sancti Thomae, Rchnw., Vog. Afr., I, p. 394 (1901).
a(72)<? Ribeira Palma, St. Thomé, 22 agosto 1900.
6 (71) , (?) „ „ 26 „
" Uccise all'altitudine di 400-500 metri „ (Fea).
L'esemplare che è indicato come femmina non differisce sensibilmente dal maschio
nel colorito, ma essendo alquanto più grande fa dubitare che le indicazioni del sesso
siano state scambiate.
Non pare che questa specie sia comune nell'isola di S. Thomé; invece secondo
il Bocage (1. e), per notizia avuta probabilmente da M. F. Newton, essa è molto
comune nell'isolotto di Rolas.
Questa specie, a quanto pare, fra quelle di S. Thomé è la più anticamente cono-
sciuta; essa fu descritta dal Marcgrav (Iiist. Bras., p. 213). Il Fraser (P. Z. S., 1843,
p. 35), tornò a descriverla col nome di Treron crassirostris, sopra un esemplare
d'incerta provenienza, ma che ora si conserva nel Museo Britannico, come prove-
niente dall'isola di S. Thomé, raccolto dal Thomson; ma lo Strikland (Ann. and Mag.
N. //., XIX, p. 44, note) espresse il dubbio che essa fosse identica colla specie del
Marcgrav (Columba Sancti Thomae, Gm.); lo Schlegel (Mus. P. B. Columfoae, p. 47)
e lo Shelley (Ibis, 1883, p. 267) la confusero rispettivamente colla T. nudirostris e
colla T. calva; il Barboza du Bocage invece ripetutamente affermò l'assoluta diffe-
renza della specie di San Thomé da quelle due; questa cosa io riconobbi per vera
nel Catalogne of Birds (1. e), manifestando altresì l'opinione che lo Strickland avesse
colto nel segno riferendo la T. crassirostris alla specie del Marcgrav. Il Dr. Reichenow
recentemente (1. e), ponendo da banda ogni esitazione, ha ammesso come sicura quella
identificazione.
37. Columba thomensis, Boa
Columba trigonigera, Alien and Thoms. (nec Wagl.), Exped. Niger, II, p. 41 (Ilha das
Rollas) (1848).
Columba guinea, Hartl. (nec Linn.), Abh. naturw. Ver. Harab., II, pp. 60, 68 (1852). — id.,
J. f. O., 1854, p. 206 (Uba das Rollas, Thomson). — id., Orn. Westafr., p. 194 (1857). —
Greeff, Sitzb., Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46. — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 34
(1889); No. VI, p. 86 (1891).
Columba arquatrix vai-.?, Boc, Jorn. Se. Lisb., XII, No. XLVI, p. 82 (St. Thomé, sr. Quintas)
(1887). — Sousa, ibid., No. XLVII, p. 154 (1888). — Salvad., Cat. B., XXI, p. 277
(nota) (1893).
Columba arquatrix, vai-, thomensis, Boc, ibid., No. XLVIII, pp. 230, 232, 234 (Angolares,
Newton) (1888); (2), No. I, p. 35 (1889); No. II, p. 144 (lineo das Rolas, F. Newton) (1889);
No. VI, p. 82 (J ? ìlot das Rolas) (1891).
Columba thomensis, Boc Jorn. Se. Lisb. (2), No. XV, p. 186 (Tipo) (1896). - Relmw., Vog.
Afr., I, 2, p. 405 (1901).
Alien e Thomson (1. e.) asserirono di aver trovato la G. trigonigera nell'Isolotto
das Rollas; l'Hartlaub ed il Greeff hanno ripetuto la stessa cosa, riferendo la cita-
zione dell'Alien e Thomson alla C. guinea, ma il Barboza du Bocage inclina a cre-
dere che ciò non sia esatto, ed invero, dalla descrizione dell'Alien e Thomson, a me
sembra indubitato che si tratti della C. thomensis, che il Museo di Lisbona ha rice-
vuto tanto da S. Thomé, quanto dall'Isola das Rollas.
21 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 37
38. Turturoena malherbei (Verr.).
Turturoena nov. sp. '?, Boc, Jorn. Se. Lisb., I, p. 144(1867) (St. Thomé). — id., J. f. 0.,
1876, p. 315 (St. Thomas). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., XIII, p. 153 (1888).
Turturoena Malherbii, Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLVI. p. 81 (1887); No. XLVIII, p. 234
(1888); (2), No. VI, p. 82 (1891).
Turturoena malherbei, Sousa, op. cit., No. XLVII, p. 154 (1888). — Boc, op. cit. (2), No. I,
p. 35 (1889); No. Ili, p. 210 (Rio do Ouro) (1889). — Salvad., Cat. B., XXI, p. 331 (1893),
Rchnw., Vog. Afr., I, 2, p. 419 (1901).
a (103) 4 Agua Izé (m. 100), 7 gennaio 1901.
Maschio adulto bellissimo, non differente dalla femmina da me descritta nel
Catalogne of Birds. Anche il Reichenow dice che gli esemplari dei due sessi sembrano
egualmente coloriti.
Il Bocage menziona esemplari raccolti dal Sr. F. Newton in parecchie località
di S. Thomé (Jogo-Jogo, Angolares, Santa Cruz, Rio do Oiro e Ribeira Peixe) ed
anche di Ferreiro Velho nell'Isola del Principe.
39. Haplopelia simplex (Hartl.).
Turtur simplex, Haiti., Rev. et Mag. de Zojal., 1849, p. 497 (Ile St. Thomé). — id., Beitr.
in Wiebel's Verz.. pp. 1. 2, 37, 55 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas).
- id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, 2, pp. 1, 2, 37, 55, Taf. X (1852). — Greeff, Sitzb.
Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46. — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Haplopelia simplex, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I. p. 35 (1889): No. II, p. 144 (Jogo-Jogo);
No. VI, p. 83 (1891). — Salvar!.. Cat. B., XXT. p. 512 (1893). — Shell., B. Afr., I, p. 136,
n. 1873 (1896). — Fori,, and Robins., Bull. Liverp. Mus., II, p. 144 (1900).
Peristera simplex, L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn.
Se Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888).
Aplopelia simplex, pari, Rchnw., Vog. Afr., I, 2. p. 422 (1901).
a(58)cfjuv. Rib. Palma (300 m.), 6 agosto 1900,
Esemplare giovane colle piume del pileo, dei lati della testa e del petto, colle
scapolari, remiganti terziario e cuopritriei delle ali distintamente marginate di rossigno.
Il Bocage menziona esemplari di Xeves e di Praia das Conchas in S. Thomé.
ed uno dell'Isolotto di Rolas.
Il Reichenow ha 'riferito a questa specie anche Y Haplopelia principalis (Hartl.)
dell'Isola del Principe, la quale invece è al tutto diversa dalla specie di S. Thomé.
40. Coturnix delegorguei, Deleg.
Coturnix hystrionica, Hartl, Rev. et Mag. de Zool., 1849, p. 495 (St. Thomas). — id., Beitr.
in Wiebel's Verz., pp. 1, 38, 55 (1850). — id., Contr. Orn., 1850, p. 131. — id., Abh.
naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 38, 55, Taf. XI (1852). - id., J. f. O., 1854, p. 210. -
id., Syst. Orn. Westafr., p. 204 (1857). — Boc, Jorn. Se Lisb., I, p. 145 (St. Thomé,
sr. Gomes Eoberto) (1867). — Sousa, Mus. Nac Lisb., Gallinai-, p. 45, e, d (St. Thomé)
(1873). — Greeff, Sitzb. Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 46 (1884). — L. V., Instituto, No. 11,
p. 4 (St. Thome, Moller) (1887). — Sousa. Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 151, 152, 158
(St. Thomé) (1888).
Coturnix delegorguei, F. et H.. Vog. Ost-Afr., i». 591 (St. Thomé) (1870). — Boc, Jorn.
Se. Lisb. (2), No. III, p. 210 (Campos de Santo Antonio) (1889); No. VI, p. 83 (Praia das
Conchas, Muncadà) (1891). — Grant, Cat, B., XXII. p. 243, specim. a, b (St. Thomas)
(1893). — Rchnw., Vog. Afr., I. 2. p. 507 (1901).
38 TOMMASO SALVADORI 22
41. Numida meleagris, L.
Numida rendalli, Ogilby. — Hartl., Beitr. in Wiebels Verz.. pp. 1, 37 (St. Thonié) (1850).
— id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II,
pp. 1, 37 (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 208. — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
p. 151 (1888).
Numida meleagris, Hartl., Syst, Ora. Westafr., p. 199 (St. Thomé, Annobon) (1857). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888). - Boc, ibid. (2), No. VI, p. 87 (1891). —
Grant, Cat. B., XXII, p. 375 (1893). — Rchnw., Vog. Afr., I, 2, p. 434 (1901).
Inviata dal Weiss e forse introdotta nell'isola di S. Thomé.
Il Reiclienow esprime il dubbio che gli esemplari di S. Thomé possano appar-
tenere alla N. marchei, forma non ancora ben definita.
42. Ardea gularis, Bosc.
Ardea gularis, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. l,40(St. Thomé, TPms)(1850). — id., Contr.
Orn., 1850, p. 151 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 40 (1852). —
id., Syst. Orn. Westafr., p. 221 (1857). - Boc., Jorn. Se. Lisb., I, p. 146 (St. Thomé,
sr. Gomes Roberto) (1867). — P. et H., Vog. Ost-Afr., p. 691 (1870). — L. V., Instituto,
No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 151,
158 (St. Thomé) (1888). — Boc., Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII, p. 234 (St. Thomé) (1888).
— id., ibid. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Principe) (1889); No. II, p. 144 (1889);
No. Ili, p. 210 (Ilheo das Rolas; Rio do S. Miguel) (1889); No. VI, p. 83 (St. Thomé,
ilot das Rolas, ova) (1891).
Egretta gularis, Hartl, J. f. 0., 1854, p. 290 (St. Thomé).
Herodias gularis, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888).
Lepterodius gularis, Sharpe, Cat. B, XXVI, p. 114 (St. Thomas) (1898).
43. Herodias garzetta (L.).
Herodias garzetta, L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 154 (1888). — Boc., ibid. (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI,
p. 87 (1891).
Non è improbabile che a questa specie siano stati attribuiti esemplari nell'abito
bianco della specie precedente.
44. Butorides atricapillus (Afzel.).
Ardea thalassina, Sw. — Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 40 (St. Thomé, Weiss) (1850).
— id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St. Thomé). -- id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, 2,
pp. 1, 40 (St. Thomé) (1852). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Ardea atricapilla, Hartl., Orn. Westafr., p. 223 (St. Thomé) (1857). — Boc., Jorn. Se. Lisb.,
No. XXVI, p. 87 (St. Thomé) (1879).
Butorides atricapillus, Lopes Vieira, Instituto, 1887, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller). —
Boc, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 150 (Rio de Manuel Jorge) (1888); (2), No. I, p. 36
(St. Thomé, liba do Principe) (1889); No. II. p 144 (1889); No. Ili, p. 210 (Jogo-Jogo,
Rio de S. Miguel) (1889); No. VI, p. 83 (1891). — Rchnw., Vog. Afr., I, p. 370 (1901).
Butorides atricapilla, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, pp. 152, 158 (1888). — Boc, ibid.,
No. XLVIII, p. 234 (1888).
a (57) : juv. Rib. Palma (300 m.), 4 agosto 1900.
23 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 39
45. Butmlcus lucidus (Rafin.).
Ardeola bubulcus, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 40 (St. Thoiné, Weiss) (1850). -
id., Contr. Ora.. 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 40
(1852). — id., Syst. Orn. Westafr., p. 222 (1857). — F. et H., Vog. Ost-Afr., p. 694 (1870).
— Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Ardeola bubulcus, Hartl., J. f. O., 1854, p. 291 (St. Thoiné).
Bubulcus ibis (Hasselq.). — L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thoiné, Moller) (1887). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888). — Boa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII, p. 234
(St. Thomé) (1888). — Boa, ibicl. (2), No. VI, p. 83 (Diego Nunes, Angolares, iiot das
Rolas) (1891).
46. Ciconia alba, Bechst.
Ciconia alba, Hartl., Orn. Westafr., p. 275 (Ins. St. Thomé, Weìss) (1857).— Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (St. Thomé) (1888).
L'Hartlaub non annoverò questa specie fra quelle di San Thomé nei primi lavori
intorno agli uccelli raccoltivi dal Weiss.
47. Lampribis olivacea (Du Bus).
Comatibis olivacea, Boa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVIII, pp. 233, 234 (St. Thomé, F. Nenia»)
(1888); (2), No. I, pp. 35, 36 (1889); No. II, p. 144 (St. Miguel, Newton) (1889); No. Ili,
p. 210 (St. Miguel, costa occidentale) (1889); No. VI, p. 84 (Angolares, Newton) (1891).
48. Numenius phaeopus, L.
Numenius phaeopus, Haiti., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 41 (St. Thomé, Weiss) (1850). —
id., Contr. Orn., 1850, p. 131 (St Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 41
(1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 296. — F. et H., Vog. Ost.-Afr., p. 739 (1870). — Bea,
Jorn. Sa Lisb., No. XLVI, p. 83 (St. Thomé) (1887). - Sousa, Jorn. Sa Lisb., No. XLVII,
p. 151 (1888). — Boa, ibid. (2), No. II, p. 144 (1889); No. Ili, p. 210 (1889); No. VI,
p. 83 (Rio Quija, Jogo-Jogo) (1891).
Numenius haesitatus, Hartl., Syst. Orn. Westafr., p. 233 (St. Thomé, Weiss) (1857). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888).
" Nome volgare ' Còco-Piloto ' „ (Newton).
49. Arenaria interpres (L.).
Strepsilas interpres, Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI, p. 84 (Hot das
Rolas, Fernào Dias) (1891).
50. Totanus glareola (L.).
Totanus glareola, Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. I, p. 35 (St. Thomé, Newton) (1889); No. Ili,
p. 210 (Rio do Ouro) (1889); No. VI, pp. 84, 87 (Diego Nunes, Rio do Oiro, Newton) (1891).
51. Tringoides hypoleucos (L.).
Actitis hypoleucos, Boa, Jorn. Sa Lisb., No. XLVI, p. 83 (St. Thomé, sr. Quintas) (1887).
— Sousa, ibid., No. XLVII, p. 154 (1888). — Boa, ibid. (2), No. I,pp. 35, 36 (St. Thomé
e do Principe) (1889); No. VI, p. 84 (Jogo-Jogo, ilot das Rolas, St. Miguel) (18911
40 TOMMASO SALVADOEI 24
52. Rallus caerulescens, Gm.
Rallus caerulescens, Boc, .Tom. Se. Lisb., I, p. 148 (St. Thomé) (1867). — Sousa, ibid.,
No. XLYII, pp. 153, 158 (St. Thomé, 3r. Gomes Unì,, rio) ( 1888).
53. Crecopsis egregia (Peters).
Ortygouietra egregia, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 35 (St. Thomé) (1889); No. Ili,
p, 210 (Rio do Ouro, Newton); No. VI, p. 84 (Bio do Giro, Santo Amaro, F. Newton) (1891).
54. Gallinula chloropus. L.
Gallinula chloropus, Hartl., Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 3, 43 (St. Thomé, Weiss) (1850)
— id., Contr. Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1,
3, 43 (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 301. - id., Syst. Ora. Westafr., p. 244 (1857). —
P. et H., V6g. Ost.-Afr., p. 787 (1870). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No.XLVII, pp. 151, 152
(1888). — Boc., ibid. (2), No. III, p. 210 (1889); No. VI, p. 84 (Lagune de Pinheira) (1891).
Io ho qualche dubbio che gli esemplari attribuiti a questa specie appartengano
invece alla seguente, quindi essi dovranno essere esaminati ed identificati.
55. Gallinula angulata, Sund.
Gallinago (sic) angulata, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 158 (St. Thomé, sr. Gomes
Boberto) (1888).
Gallinula angulata, Heine u. Rchnw., Nomenel. Mus. Hein., p. 318 (St. Thomas) (1890). —
Sharpe, Cai B., XXIII, p. 181 (1893).
" Nome volgare 'Galla d'aua ' „ (Newton).
Le Gallinelle d'acqua dell'Isola di S. Thomé sono state riferite dall'Hartlaub e
dal Bocage alla G. chloropus, e dal De Sousa e nel Museo Heineano alla G. angu-
lata; io ho potuto esaminare l'esemplare di S. Thomé inviato dal Sr. Roberto al
Museo di Lisbona, e mi sono accertato che esso appartiene realmente alla Gallinula
angulata.
56. Phoenicopterus roseus, Pall.
Phoenicopterus erythraeus, Pinsch et Hartl. (nec Verr.), Vog. Ost.-Afr., p. 795 (St. Thomé,
Weiss) (1870). - Sousa, Jorn. Se, Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888). — Boc., ibid. (2),
No. VI, p. 87 (1891).
Finsch ed Hartlaub menzionano, sotto il nome indicato, un fenicottero di S. Thomé
inviato al Museo di Brema dal Weiss; è singolare che questa cosa non sia stata menzio-
nata dall'Hartlaub nei suoi precedenti lavori originali intorno agli uccelli di S. Thomé,
raccolti dal Weiss. A me viene il dubbio che si tratti del Phoeniconaias minor, che
si trova anche nell'Isola del Principe.
57. Sterna f uliginosa, Gm.
Sterna fuliginosa, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. Ili, p. 210 (1889); No. VI, p. 84 (1891).
Il Bocage ha ricevuto dal Sr. F. Newton un esemplare di questa specie preso
a bordo del piroscafo Ambacea a 25 miglia da S. Thomé.
25 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 41
58. Sterna anaestheta, Scop.
Sterna panayensis, Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. VI, p. 84 (ilots Sette-Pedras, F. Newton) (1891).
" Nome volgare ' Cóco-Sandja ' , (F. Newton).
59. Anous stolidus (L.).
Anous stolidus, L. V.. Instdtuto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). — Sousa, Jorn. Se.
Lisb., No. XLVII, p. 154 (1888). - Boa, ibid. (2), No. I, p. 35 (1889); No. VI, p. 84
(ilots Sette-Pedras et ilot das Rolas) (1891).
Nome volgare Padé do male, corruzione di Par dal do mar, ossia Passero di mare,
seoondo il Bocage.
60. Phaeton lepturus, Lacép. et Daud.
Phaeton candidus, Temm. — Boa, Jorn. Sa Lisb., I, p. 149 (St. Thomé, sr. Gomes Roberto)
(1867). — Sousa, ibid., No. XLVII, p. 153 (1888). — Boa, ibid. (2), No. I, p. 35 (1889).
Lepturus candidus, L. V., Instituto, No. 11, p. 4 (St. Thomé, Moller) (1887). - Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 159 (St. Thomé, sr. Newton) (1888). - Boa, ibid. (2), No. Ili,
p. 210 (Ciuco, nheo das Cabras, F. Newton) (1889); No. VI, p. 85 (ilot das Cabras, ilots
Sette-Pedras, ilot das Rolas, F. Newton) (1891).
Phaeton lepturus, Grant, Cat. B., XXVI, pp. 453, 455, specim. h (St. Thomas, F. Newton) (1898).
" Comune sugli isolotti intorno a S. Thomé ., (Bocage).
Il Bocage descrive anche le uova.
61. Sula leucogastra (Bodd.).
Sula fiber, Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. VI, p. 85 (ilots Sette-Pedras, F. Newton) (1891).
62. Phalacrocorax africanus (Gm.).
Phalacrocorax africanus, HartL, Beitr. in Wiebel's Verz., pp. 1, 44 (St. Thomé, Weiss) (1850).
— id., Contr. Ora., 1850, p. 131 (St. Thomas). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 1, 44
(St. Thomé) (1852). - id., J. f. 0., 1854, p. 308. — id., Syst. Ora. Westafr., p. 260 (1857).
— Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 151 (1888).
Graculus africanus, Boa, Jorn. Sa Lisb., No. XLVI, p. 83 (St. Thomé) (1887); No. XLVII,
p. 150 (Rio de Manuel Jorge) (.1888). — Sousa, ibid., p. 152 (1888). — Boa, ibid.,
No. XLVIII, p. 234(1888); (2), No. II, p. 144 (St. Thomé) (1889); No. Ili, p. 210 (Jogo-
Jogo, Rio Quija, Rio de S. Miguel, F. Newton) (1889); No. VI, p. 85 (St. Thomé) (1891).
" Nome volgare ' Fata d'aua ' „ (F. Newton).
Comune in tutta l'isola, secondo F. Newton.
63. Oceanodroma castro (Harcourt).
Procellaria sp., Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. VI, p. 84 (in mare fuori della costa d'Angolares,
F. Neivton) (1891).
" Nome volgare ' Caniboto ' „ (F. Neivton).
Il Bocage non ha potuto identificare un maschio adulto preso dai pescatori della
costa d'Angolare a grande distanza dalla spiaggia; egli dice che esso somiglia alla
Serie II. Tom. LUI. f
42 TOMMASO SALVADORI 26
Proc. leucorrhoa (Vieill.), ma che ha il colorito di un nero più cupo, meno tinto di
grigiastro; la fascia biancastra sull'ala meno distinta; le cuopritrici minori delle ali,
le ali, le remiganti e le timoniere di un nero lucente (brillant); le sopracaudali bianche,
terminate di nero, precisamente come nella P. pelagica; la coda più corta, debolmente
forcuta, quasi eguale; il becco molto più robusto; i tarsi e le dita più lunghi. Lungh.
tot. 195 mm., ala 160 mm. ; coda 75 mm. ; tarso 24 mm.; dito medio 25 mm.;
culm. del becco 19 mm.
Ho esaminato l'esemplare menzionato dal Barboza du Bocage; esso appartiene
alla specie indicata ed è similissimo a quelli del Capo Verde raccolti dal Fea, coi
quali l'ho confrontato. Questa specie si conosce anche dell'Isola S. Elena.
APPENDICE
Specie dubbie, od erroneamente indicate dell'Isola di S. Thomé.
1. Melaenornis edolioides (Sw.).
Melasoma edaloides (sic), Alien and Thoms., Exped. Niger, II, p. 42 (Ilha das Eollas) (1848).
Melaenornis edolioides, Hartl., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 60, 64 (1852). — id., J. f. 0.,
1854, p. 30 (Ilha das Rollas, Thoms.). — id., Ora. Westafr., p. 102 (1857).
Menzionata soltanto da Alien e Thomson fra quelle dell'Isola das Rollas.
2. Chlorophoneus olivaceus (Shaw).
Malaconotus olivaceus (Vieill.). — Alien and Thoms., Exped. Niger, II, p. 41 (Ilha das Rollas)
(1848).
Laniarius icterus, Hartl., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 60, 65 (1852). — id., J. f. O.,
1854, p. 96 (Ilha das Rollas, Thomson). — id., Ora. Westafr., p. 110 (1857).
Annoverata soltanto da Alien e Thomson, e se veramente una specie di questo
genere si trova nell'isola Rollas, credo che essa sia ancora da identificare con sicurezza.
3. Chlorophoneus sulphureopectus (Less.).
Malaconotus chrysogaster , Sw. — Alien and Thoms., Exped. Niger, II, p. 41 (Ilha das
RoUas) (1848).
Laniarius chrysogaster, Hartl, Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 60, 65 (1852). — id.,
J. f. O., 1854, p. 32 (Ilha das Rollas, Thoms.). — id., Ora. Westafr., p. 107 (1857).
Anche questa specie è annoverata fra quelle dell'Isola das Rollas soltanto da
Alien e Thomson, ed è da identificare.
27 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 43
4. Passer diffusus (Smith).
Passer simplex (Sw.). — Hartl., J. f. 0., 1861, p. 260 (St. Thomé, Gujon). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 153
La presenza di questa specie nell'isola di S. Thomé merita conferma.
5. Lamprocolius ignitus (Erm.).
Lamprocolius ignitus, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 102 (Ilha do Principe, St. Thomé, Weiss.). —
id., Orn. W. Afr., p. 116 (St. Thomé) (1857). — id., J. f. 0., 1861, p. 174 (St. Thomé,
Gujon). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (1888).
Lamprotornis ignitus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. I, p. 36 (St. Thomé, Ilha do Prin-
cipe) (1889).
Nei due lavori originali publicati dall'Hartlaub nelle Contributions to Ornìtìwlogy
e nelle Abhandlungen della Società di Amburgo, intorno agli uccelli di San Thomé
raccolti dal Weiss, questa specie non è annoverata, ma soltanto in lavori posteriori
e probabilmente per errore.
6. Neophron pileatus (Burch.).
Neophron pileatus, Hartl., Orn. Westafr., p. 1 (Ins. St. Thomé und do Principe, Lopez de
Lima) (1857). — F. et H., Vog. Ost-Afr., p. 35 (1870). - Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII,
p. 152 (1888).
L'esistenza di questa specie nelle isole di S. Thomé e del Principe si fonda sul-
l'asserzione poco attendibile del Lopez de Lima.
7. Psittacus erithacus, L.
Psittacus erythacus, Hartl., Orn. Westafr., p. 166 (Ins. St. Thomé u. do Principe, Lopez de
Lima) (1857). — Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152
L'esistenza di questo pappagallo nell'Isola di San Thomé si fonda sulla sola
asserzione del Lopez de Lima, e non è stata confermata da altri.
8. Agapornis roseicollis (Vieill.).
Agapornis roseicollis, Hartl., J. f. 0., 1861, p. 262 (St. Thomé, Gujon, Weiss).
Psittacula roseicollis, Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
Io credo che la presenza di questa specie nell'Isola di S. Thomé abbisogni di
essere confermata, non essendo molto probabile che in detta isola si trovino due
specie affini, VA. pullaria e VA. roseicollis. Non comprendo come l'Hartlaub menzioni
anche il Weiss come autorità comprovante la presenza dell'vl. roseicollis nell'Isola di
S. Thomé, giacche nei primi lavori dell'Hartlaub intorno alle collezioni inviate dal
Weiss dall'Isola di San Thomé è annoverata soltanto VA. pullaria, che anche il Fea
vi ha trovata.
44 TOMMASO SAI.VADORI 28
9. Cuculus canorus, L.
Cuculus canorus. Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 152 (8t. Thomé) (1888).
Il De Sousa menziona questa specie fra quelle annoverate dall' Hartlaub nel-
l'opera System der Ornithologie Westafrica's come trovate nell'Isola di San Thomé:
io non sono riuscito a rintracciarla nell'opera citata.
10. Ceryle maxima (Pall.).
Ceryle maxima, Hartl., J. f. 0., 1861, p. 106 (St. Thomé, Gujon). — F. et H., Vog. Ost-Afr.,
p. 173 (1870). — Sousa. Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
La indicazione relativa a S. Thomé mi sembra dubbia.
11. Halcyon sp.
Halcyon cancrophaga, Hartl. (nec Lath.), J. f. 0., 1861, p. 104 (St. Thomé, Gujon). — Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
Col nome di Halcyon cancrophaga l'Hartlaub menziona un esemplare che dice di
S. Thomé (Gujon) e che secondo lui sarebbe stato descritto dal Verreaux come appar-
tenente alla cancrophaga (sic). Io non trovo che il Verreaux abbia menzionato un
Halcyon cancrophaga, ma sibbene un Halcyon cinereifrons (Cancrophaga), cioè del sot-
togenere Cancrophaga (Rev. et Mag. de Zool., 1851, p. 265) senza indicarne la pro-
venienza.
12. Merops superciliosus, L.
Merops aegyptius, Hartl. (nec Forsk.), J. f. 0., 1861, p. 106 (St. Thomé). — Sousa, Jorn.
Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
Merops superciliosus. L. — Finsch et Hartl., Vog. Ost-Afr., pp. 179, 180 (St. Thomé, Gujon)
(1870). — Sousa, op. eit., p. 153 (1888).
L'Hartlaub afferma di aver esaminato un maschio giovane di S. Thomé (!) del
Merops aegyptius, ma secondo il Finsch e l'Hartlaub (1. e.) esso appartiene invece al
M. superciliosus.
Il Gujon è la sola autorità per annoverare questa specie fra quelle di S. Thomé.
13. Dicrocercus furcatus, Stanl.
Merops hiruudinaceus, Hartl. (nec Vieill.), J. f. 0., 1861, p. 107 (St. Thomé, Gujon). —
Sousa, Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
Merops hirundineus, Lieht. — F. et H. Vog. Ost-Afr., p. 193 (1870).
Il Gujon sarebbe la sola autorità per annoverare questa specie fra quelle di
S. Thomé.
14. Melittophagus pusillus (P. L. S. Mull.).
Merops erythropterus, Gm. — Hartl, J. f. 0., 1861, p. 107 (St. Thomé, Gujon).— Sousa,
Jorn. Se. Lisb., No. XLVII, p. 153 (1888).
Merops minutus, Vieill. — F. et H, Vog. Ost.-Afr.. p. 188 (1870).
Come per la specie precedente il Gujon sarebbe la sola autorità per ammettere il
M. pusillus fra quelle di S. Thomé.
29 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 45
15. Chalcopelia afra (L.).
Turtur chalcospilos ( Wagl.). — Alien and Thoms., Exped. Nig., II, p. 41 (Uba das Eollas)(1848).
Peristera chalcospilos, Hartl, Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 60, 68 (1852). — id., J. f. 0.,
1853, p. 208 (Una das Rollas, Thomson).
Perntera afra, Hartl., Orn. Westafr., p. 197 (Uba das Rollas, Thoms.) (1857).
Soltanto Alien e Thomson menzionano la Turtur chalcospilus fra quelle dell'Isola
das Rollas, ma non è improbabile che la loro citazione si riferisca alla Haplopelia
simplex.
16. Turtur semitorquatus (Rììpp.).
Turtur semitorquatus, Alien and Tboms., Exp. Nig., II, p. 41 (Ilha das Rollas) (1848). —
Hartl , Abb. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 60, 68 (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 207 (Ilha
das Rollas und Bimbia, Thomson). — id., Orn. Westafr., p. 196 (1857). — Greeff, Sitzb.
Ges. Marb., 1884, No. 2, p. 47. — Boa, Jorn. Sa Lisb. (2), No. I, p. 34 (1889).
Anche questa specie è stata menzionata fra quelle dell'Isola das Rollas soltanto
dall'Alien e Thomson, giacche il Greeff probabilmente la menziona sulla loro autorità;
il Barboza du Bocage dubita dell'esattezza di quella asserzione! Non è improbabile
che la loro citazione sia da riferire alla Turturoena malherbii.
17. Phyllopezus africanus (Gm.).
Parrà africana, Hartl., J. f. 0., 1861, p. 271 (St. Thomé, Gujon). — Sousa, Jorn. Se. Lisb.,
No. XLVII, p. 153 (1888).
La presenza di questa specie nell'Isola di St. Thomé merita conferma.
EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA
FUNZIONAMENTO DEI TRASFORMATORI
METODI DI MISURA ED APPLICAZIONI
MEMORIA
DEL SOCIO
Prof. GUIDO GRASSI
Approvata nell'adunanza dell' S Febbraio 1903.
Ebbi già occasione di pubblicare uno studio sul medesimo argomento, per mostrare
come varia la tensione secondaria di un trasformatore quando si fa variare nel cir-
cuito esterno lo sfasamento della corrente (*). Nel continuare tale studio giunsi a
diversi risultati che mi sembrano degni di nota, in quanto che non solo mettono in
evidenza alcune nuove particolarità nel funzionamento dei trasformatori, ma permet-
tono anche di ricavarne qualche metodo semplice per determinare sperimentalmente
o per mezzo del calcolo gli elementi più importanti dell' apparecchio.
Lo studio è basato su di una formola generale, dedotta dal diagramma ordi-
nario, simile a quella già da me esposta nella Nota citata. Però, siccome trovai
opportuno di introdurvi qualche modificazione, allo scopo di presentare una soluzione
più completa anche di quella parte della questione che già avevo trattata, così, per
rendere più chiara la discussione e non obbligare il lettore a ricercare altrove una
parte delle formole, riassumo in principio la dimostrazione della formola generale,
avvertendo che essa risulta poi un po' diversa da quella contenuta nella citata Nota,
perchè alcuni termini correttivi vi sono rappresentati in altra forma, e la formola
generale è presentata in modo da poter tener conto di tutti i termini, senza nulla
trascurare.
Il diagramma del trasformatore è quello della fig. 1».
Formole generali. — Prendo la OX come direzione del segmento che rap-
presenta in fase e grandezza il flusso magnetico, e propriamente quel flusso che si
(*) Vedi la mia Nota presentata alla R. Accademia di Scienze fisiche e matematiche di Napoli.
Rendiconti, marzo 1902, Sulla variazione della tensione secondaria nei trasformatori.
48
GUIDO GRASSI
concatena tanto colle spire primarie, quanto colle secondarie; OF è la direzione
della forza magnetizzante, in avanzo di fase di un angolo 0= XOF rispetto al flusso.
La f. e. m. indotta nel secondario ha la dire-
zione OD, in quadratura col flusso, e in ritardo;
la corrente secondaria avrà la direzione OC, spo-
stata di un angolo t = DOC rispetto alla f. e. m.
S'intende che noi supporremo questo angolo di un
valore qualunque, anche negativo, potendo essere
la corrente in avanzo.
Sia nel primario nx il numero di spire, 7X il
valor massimo della corrente, Ex la f. e. m. indotta
dal flusso che ha la fase OX; rx la resistenza del
circuito.
Nel secondario siano n2, J2, E2, r2, le quantità
corrispondenti; la r2 comprende anche il circuito
esterno.
Per costruire il diagramma del trasformatore
si prende sulla OF il segmento OB eguale alla forza
magnetizzante risultante, cioè
OB
Fig. 1°
0,4 ti
indicando con <t> il flusso considerato e con R la riluttanza del suo circuito magne-
tico. Poi sulla OC si prende
OE= n2T2
sarà EB = n^ ; cosicché, compiendo il parallelogrammo, si ha
OA = njx AB = n.,1,.
La f. e. m. di selfinduzione dovuta al flusso disperso, nel primario, sia e%.
Fatto
OB = r^! in fase colla corrente primaria,
RP=e1 in quadratura colla corrente primaria,
PQ = Ex in quadratura col flusso OX,
la OQ sarà la f. e. m. impressa, che diremo E0, da applicare ai morsetti del primario.
Abbassate le AG e BH perpendicolari ad OX, è facile vedere che si ha
(L4sen(cp + 6) = ABcosf -f OBsenQ
0^1 cos (q> -4- 9) = AB senf + OS cos 9.
Pongasi per brevità — -=- = «; e notando che -— -= — £-. si ottiene
r AB OA «[/,
(1)
(2)
«2^2
sen(q> -f- 9) = — *j- (cos y ~|- a sen0),
cos (q> -I- 9) = J"i~- (sen T + « cos 9) ,
Ht il
3 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 49
Rapporto delle correnti. — Dal triangolo AOB, riflettendo che
cos^OB = — sen(T + 9),
si ricava la relazione che lega fra loro le intensità primaria e secondaria:
(3) n\I\=n\I\ j 1 + a2 + 2a sen(T + 6) j-
Forza elettro-motrice impressa. — Dal triangolo POQ si ha
OQ2 = PO2 + OR2 + RP2 + 2PQ j PR cos(op + e) + OR sen(cp -f 6) j ■
Sostituendo i valori dei vari segmenti, e approfittando delle relazioni (1) e (2),
si ottiene la formola che dà la forza elettromotrice impressa:
(4) £,02=i,f+r?J? + «?+2JE1^je1(senT + «cose) + r1Z1(cosT+asene)|-
Rapporto di trasformazione totale. — Chiamo rapporto di trasformazione
totale o interno, quello che passa fra la f. e. m. impressa al primario e la f. e. m.
totale nel secondario; cioè tra E0 ed E2.
Ora si noti che
E\ »i
e indicando con p l'impedenza del secondario, si ha
E2 = I2p
pcosT = r2.
Infine potremo mettere la f. e. m. di selfinduzione sotto la forma
ex = Xj/j
chiamando \x la reattanza dovuta alla selfinduzione, più propriamente al flusso
disperso, nella spirale primaria. Con queste sostituzioni, dividendo tutta la (4) per È\,
si ottiene la seguente equazione, che dà il rapporto cercato:
<« (tr=(t)2+(^r^>+a2+2asen(T+e)Scos2T+
+ — j X,(senT + acos9) + ^(cost + «sen9)|cosT-
Dunque il rapporto di trasformazione totale risulta da una serie di termini, di
cui il primo dipende solo dal rapporto fra i numeri di spire primarie e secondarie,
e gli altri sono funzione, oltreché degli elementi del trasformatore, anche di quelli
del circuito esterno; e propriamente la resistenza esterna (compresami) è sempre
Serie II. Tom. LUI. a
50 GUIDO GRASSI 4
al denominatore, mentre invece appaiono come fattori le funzioni senr e cosr dello
sfasamento della corrente secondaria. — Il primo termine ha in generale valore pre-
valente sugli altri. — Però prima di decidere quali fra i termini seguenti siano tras-
curabili convien esaminarne il significato.
Valore del rapporto a. — Per definizione
OB _ <t>B
0 AB ~~ O^TTnj/j '
D'altra parte sappiamo che la f. e. m. E2 è data da
E2 = 10-82tt«<1>m2
indicando con n la frequenza della corrente. Eliminando <t> si ottiene il valore di a,
che si può scrivere
a = £■ : 2im ^- IO9.
h B.
Ma 2 non è altro che il coefficiente di selfinduzione della spirale secondaria,
e propriamente quello che si riferisce a tutto il flusso che, prodotto dalla spirale
secondaria, si concatena anche colla primaria. E dunque un coefficiente che differisce
dal vero coefficiente di selfinduzione soltanto della piccola frazione che corrisponde
al flusso disperso. Moltiplicato per 2mi e per IO9 ci dà (sempre a meno di una pic-
cola frazione) la reattanza della spirale secondaria in unità pratiche, che indicheremo
con A. Si ha dunque
Eì
che si può scrivere anche
(6)
P r2
A Aco9T
cioè si può dire che a è assai prossimamente eguale al rapporto fra l'impedenza del
circuito secondario e la reattanza che avrebbe la spirale secondaria se fosse sola.
Il valore numerico di a si determina più facilmente colla seguente sostituzione.
Sia B l'induzione massima nel nucleo, S la sezione, l la lunghezza, u la permeabilità;
avremo
Bl
0,4TtH,/2H
e, tenuto conto del valore di E2,
La potenza del trasformatore nel secondario è
5 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA "REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 51
Posto il volume SI — Q, risulta
(7) « = 2,5.10-^=$?^.
Siccome per trasformatori a carico normale il rapporto Q : W e poco diverso
da 1 (un po' maggiore nei trasformatori piccoli, e un po' minore in quelli di grande
potenza), si vede che a differisce poco da
2,5.10-8 — cost
a carico normale. Se fosse, per es., £ = 4000, n = 50, u = 1600, si troverebbe,
per cost = 1,
a = 0,0125.
Col diminuire del carico a aumenta.
Sostituiamo nella (5) il valore (6) di a; ossia poniamo
a cost 1
r2 A '
scriviamo inoltre
n2
otteniamo
(8) (J|)2=^+2 ^e + nsene _._ r£±V + ± ^+ Wcos9) senT C0ST +
Ht^ + W + ^H^
Si noti che gli elementi del circuito esterno, cioè r2 e y, entrano soltanto negli
ultimi due termini, i quali si annullano o per r2= °o (circuito aperto), o per cosy = 0,
cioè quando la reattanza è così grande da portare la corrente in quadratura. Tanto
in un caso, quanto nell'altro, il rapporto di trasformazione è lo stesso ; sempre mag-
giore del rapporto tra i numeri delle spire, sebbene di poco, specialmente se vi è
dispersione notevole di flusso.
Rapporto di trasformazione esterno. — Ciò che si misura direttamente
è il rapporto tra la f. e. m. impressa E0 e la tensione V ai poli del secondario; rap-
porto che si può distinguere dal precedente chiamandolo esterno. Ma nella pratica è
più semplice chiamarlo rapporto di trasformazione, senz'altra qualifica.
Nel diagramma della fig. la si prenda OD = E2, f. e. m. totale del secondario;
e quindi, fatto DC normale a OC, sarà:
OC=r2I2.
Chiamando r' la resistenza della spirale secondaria e r quella del circuito
esterno, faremo
OS = rh SC=r'L.
52 GUIDO GRASSI 6
Allora DC è la f. e. m. dovuta alla reattanza, che si compone della parte CU
corrispondente alla reattanza esterna, e della rimanente DU corrispondente alla
selfinduzione della spirale secondaria, cioè alla dispersione magnetica. Porremo, come
si è fatto pel primario,
DU = e2 = X2J2.
È chiaro che tirando la ST parallela a CD, e la UT parallela a CO, si avrà
in OT la grandezza e la fase della tensione ai poli ; cioè
OT = V
e lo sfasamento della corrente rispetto a V è SOT=$.
Dalla figura si ha direttamente
OD cost = OC = OS — = OTco&fi -^|
ossia, sostituendo i valori dei segmenti,
(9) #2cosy = ~ Fcosp.
Analogamente si trova
-E^seny = J^senjJ -j- X2/2
e siccome Fcos(3 = rJs, si ottiene
(10) #2senY = Fsenp 4- -^ Fcosp.
Quadrando e sommando le (9) e (10), si ha
(11) E<? = V* j 1 4- ^ senpcosp + 'S + W-f* Cos2p J .
Ora si moltiplichi ciascun membro della (8) per Et e si facciano le sostituzioni
(9), (10) e (11); raccogliendo i termini che contengono come fattore sen(3 cosfJ,
ovvero cos2(?, e ponendo per brevità di scrittura
t.2 J_ o X|CQ3e+r,sene , rf 4 \,a r , 2
si ottiene
(12) f ^ ) 2 = C0A:2 4- j: ( Ci^'X, + Xt 4- ^l^'" cos 8 ) 2senf?cosP 4-
4- X, j C0^(ri + ^-r2) +2(rtr2+ X1X2)4- ^±^ 4- 2 ^^ (r2sen9 + X2cos9) Jcos^
e questa è la formola completa.
Nella mia nota sopracitata si trova invece la formola (24), che corrisponde a
questa. Vi mancano però parecchi termini, che veramente sono quasi sempre tras-
curabili, ma che qui ho preferito conservare.
EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC.
53
Ora osservo che d'ordinario si costruiscono i trasformatori in modo che la den-
sità di corrente sia eguale nelle due spirali, primaria e secondaria; tuttavia per
maggiore generalità riteniamo che le densità siano diverse. Indichiamo con o^ e a.2
le sezioni dei fili, con lt e l2 le lunghezze medie delle spire nelle due spirali.
Posto
«Iai?2
(13)
è facile vedere che si ha
(14) rt = mk2r'.
Le parziali reattanze Xx e X2 sono misurabili come resistenze e sono in generale
quantità dello stesso ordine di grandezza delle resistenze delle rispettive spirali;
potremo quindi scrivere
(15) K=Pin h=P2r'
dove px e p.2 saranno numeri piccoli, cioè di poche unità, e talvolta anche minori
di 1, nei trasformatori a minimo disperdimento come in quelli ad anello.
Data la precedente relazione fra rx ed r' si avrà anche
(16) K = mp^r'.
Quanto ad m bisognerà poi ricordare che esso è = 1 quando le densità di cor-
rente sono eguali e le spire hanno eguali lunghezze medie; che d'ordinario se m
non è = 1, ne differisce poco.
Quanto ai coefficienti px e p2 conviene riflettere che molte volte le spirali pri-
marie e secondarie si trovano rispetto al nucleo in posizione simmetrica, tanto che
la dispersione magnetica probabilmente si fa nella eguale proporzione; in tal caso
se si vuol ritenere che \x e X2 siano le stesse frazioni dei coefficienti veri di selfin-
duzione, dovrà sussistere la relazione
X2 V «2 /
e quindi
m }>ik2
= k'
e infine
(17) mp1=ps.
Dunque quando si vorrà, nelle formolo seguenti, introdurre la condizione che
siano eguali i coefficienti di dispersione magnetica, bisognerà porre mpx = p2 (e non
già pi = p2).
Colle sostituzioni precedenti risulta
(18) C0 = l + ^- focose + sen e) m + (-^-)2(1 + p!)-
54 GUIDO GRASSI 8
La resistenza >■' della spirale secondaria sarà sempre piccolissima rispetto alla
reattanza totale A, e quand'anche px raggiunga parecchie unità, il 2° e il 3° termine
nell'espressione di C0 saranno sempre frazioni trascurabili. Noto poi che nell'equa-
zione (12) il termine prevalente nel 2° membro è il primo; i coefficienti di sen(3cosf5
e di cos2P sono frazioni piccole di C0k2. Perciò non si commette un errore sensibile
se in questi termini in luogo di C0 si mette il suo valore approssimato, cioè C0=l.
Con questa sostituzione il fattore di 2senpcosp diventa
_L(A*x, + x1 + -^cose)
e introducendo le precedenti espressioni di Xj e X2 si ha
k2 — \ mpt + p2 + m2 —■ (1 -j- pf) cose | .
Porremo per brevità
(19) Cx = -£ j mPl + p2 + m2 -£■ (1 -f p\) cos9 j .
Anche qui si può osservare che Cx sarà sempre una frazione piccola, perchè, a
carico normale , r' si riduce a qualche centesimo di r, spesso anche a meno di — ^ .
Per conseguenza il rapporto r' : A è ancora più piccolo, e si potrà quasi sempre
trascurare il termine ultimo, scrivendo semplicemente
(20) C1 = ^r(mp1+pì).
Finalmente il fattore di cos20 nella (12), posto C0 = 1, per le ragioni già dette,
e sostituendovi le espressioni di Xt e X2, si può mettere sotto la forma
k C'2
essendo
(21) C2= (^)2\2^{m + i) + m2--l+(,npì + P2)2 + 2m2(l+p\) we+^co.8 | ,
Dei termini tra parentesi il primo è sempre molto grande rispetto agli altri ;
perciò il valore di C2 nella maggior parte dei casi risulterà poco diverso da
(-£-)' '£*»+*
e riflettendo che r2 e >• differiscono pochissimo tra di loro, si avrà con molta appros-
simazione
(22) d = -^L(mj|_i)
cioè anche il coefficiente C2 è, in condizioni normali, una piccola frazione.
9 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 55
L'equazione generale (12) prende adunque la forma
(23) ~ (f?)2 = C0 + 2(7lSenPcos? + <72cos2P
ovvero
(24) ^(|°)2=(70 + J + Cl8en2p + ^cos2f5
avendo posto
(25) A = f-
Tensione a vuoto. — Quando il circuito secondario è aperto, i coefficienti Ci
e C2 si annullano. Chiamando V0 la tensione in questo caso, cioè la tensione a vuoto,
si ha
l <--0 '
Si sa che con molta approssimazione C0=l; però considerando l'espressione (18)
di C0 si vede che in generale V0 subisce una piccola variazione, e propriamente
varia nello stesso senso di A.
Ora A è proporzionale alla frequenza: dunque, a pari condizioni nel resto, V0 deve
crescere colla frequenza.
Ma A dipende anche dalla riluttanza magnetica del circuito, e questa a sua
volta dipende dalla induzione: ne si può dire che A segua sempre una stessa
legge di variazione, poiché, a seconda del grado di magnetizzazione, A può crescere
o diminuire al crescere di B. Però d'ordinario varia nello stesso senso. Ne viene di
conseguenza che col crescere della f. e. m. applicata al primario, aumentando l'indu-
zione, deve crescere anche il rapporto di trasformazione.
In ogni modo la correzione è piccolissima. Infatti si osservi che il rapporto r':A,
che entra nei termini correttivi dell'espressione di C0 è una piccola frazione. Sic-
come 6 è sempre piccolo, il 2° termine della espressione di C0 si può scrivere, rife-
rendosi alla (6),
o Pir o Pirn C09T
A fi
Abbiamo veduto che — ed a sono frazioni dell' ordine di pochi centesimi ;
perciò j- è dell'ordine di pochi diecimillesimi, e quindi per quanto pl (cioè la disper-
sione magnetica) sia grande, C0 differirà sempre ben poco dall'unità.
Nelle forinole seguenti riterrò sempre
Et = kV0.
Variazione della tensione secondaria con carico reattivo. — Posto
nella (24) quest'ultima espressione di E0, si ha
( -£. )2 = C0 + A + dsen2P + A cos2 p.
56 GUIDO GRASSI 10
Trasformando col solito metodo si ha
(26) (■£ f = C0 + A + Csen(2p + a)
dove
(27) C2 = C\ + ^42
(28) tana = 4-
La (26) si può trasformare in modo da mettere in evidenza la variazione di ten-
sione, con una semplice costruzione grafica.
Ritenendo C0 = l, e ponendo
A + Csen(2 P + a) = u
si può scrivere
•l + «
Ora, tenendo presente che u è una piccola frazione, sviluppando il radicale e
trascurando i termini d'ordine superiore al 2°, si ottiene
F=(l-f.+ J-M*)F0,
e sostituendo il valore di u
£ = 1 - f +| ^-| (l -| J) sen(2P + a) + | C8en»(2|5 + a).
Ma
sen2(2(5 + a)=-L- ^-senfép + 2a + -J-)
e risulta quindi
(29)^ = l-f + 4^+^^-f(l^-^)sen(2p + «)-Ac72sen((4p+2a+i).
Questa equazione rappresenta una curva formata da due onde sinusoidali, sovrap-
poste ad una ordinata costante. La 2a sinusoide ha ampiezza molto minore della
prima, e il suo periodo è la metà.
Questa curva rappresenta il modo di variare della tensione ai poli del secondario,
quando al primario si mantiene la f. e. m. costante, e nel secondario si fa variare p,
ma si mantiene costante la resistenza; perchè in tal caso A e C conservano i loro
valori.
Se si tien conto della piccolezza di A e C, si vede che con molta approssima-
zione la curva è rappresentata dalla equazione più semplice
(30) -£-=l-f-f sen(2p + a).
11 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 57
Valori approssimativi di A e C. — Siccome -4 = y e con molta appros-
simazione
si ha
c2 =
_ 2r
r
(m -1-1)
A
2
= —
m + 1
2
Tenendo conto delle relazioni (20) e (27) risulta
C
2 2
-j/(W + l)2 + (mp1+i>2)2.
Per farsi un concetto del significato di questa quantità, consideriamo il caso,
che corrisponde alle condizioni di un ordinario trasformatore, in cui all'incirca
m = 1 mpx = p2
perchè le spire primarie e secondarie hanno lunghezze poco diverse, la densità di
corrente si fa quasi eguale nei due circuiti, e per la simmetria dei due avvolgimenti,
rispetto al nucleo, la dispersione non differisce molto dal primario al secondario. Allora
si ottiene
C yV^ + x,1
2 r
Il numeratore di quest'ultima frazione esprime ciò che si può chiamare la impe-
denza apparente della spirale secondaria, cioè l'impedenza che risulta dalla sua resi-
stenza e da quella parte di reattanza che è dovuta al flusso disperso. La indiche-
remo con p'.
Con questa sostituzione la (30) prende la forma
V ._, r, + p'sen(2p+q)
(àl> V0~l r
che vale, naturalmente, soltanto nelle condizioni ora supposte.
In ogni modo si comprende che, anche in condizioni un po' diverse, il coeffi-
ciente p' avrà sempre un significato analogo e una grandezza dello stesso ordine.
L'espressione più generale di p' sarebbe
(32) p'=r'Ì(^U[^f^f.
Variazione di tensione nel funzionamento a resistenza costante. —
È questo il caso che io ho già discusso nella nota sopra citata (*). Ne darò qui una
discussione più completa, e in una forma alquanto modificata.
{*) Vedi anche il cenuo fatto in una breve comunicazione all'Associazione Elettrotecnica nel-
l'assemblea dell'ottobre 1902 (" Atti dell'A. E. I. ,).
Serie II. Tom. LUI. B
58
GUIDO GRASSI
12
Perciò disegno la curva rappresentata dall'equazione (31).
Comincio dall'osservare che essendo
si ha
tan a =
p'sena = r'.
La scala del disegno essendo arbitraria, supponiamo di far in modo che sia V0=l
ed r=l. Allora disegnata una sinusoide (fig. 2a) di ampiezza p', riferita a un asse PP,
Fig. 2*.
e quindi una parallela QQ a distanza PQ = r', le ordinate della curva contate dal-
l'asse QQ sono i valori di
r' -f p'sen(2P + a).
Per (3 = 0 si deve avere
r' + p'sena = 2r'.
Dunque P =0 corrisponde al punto O che si trova tagliando la sinusoide colla RR
parallela alla QQ e a distanza 2r\ Le ordinate di questa curva vanno sottratte dal-
l'ordinata 1 che rappresenta V0, poiché la (31) colla scala adottata diventa
V= 1 — jr' + psen(2P + a)j.
Fig- 3'.
Si ottiene così la curva della fig. 3, che è quella della fig. 2 cambiata di segno.
L'asse orizzontale V0 corrisponde alla tensione a vuoto. Per {$ = 0 la caduta di
tensione è OC; cioè OC rappresenta la caduta che si osserva quando si chiude il
secondario sulla resistenza (che nella scala del diagramma è=l, ma può essere una
resistenza determinata qualunque), priva di induttanza.
13 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 59
Se ora si produce un piccolo ritardo di fase (senza mutare la resistenza) la ten-
sione diminuisce, e la diminuzione continua fino in D. Poi, mentre la reattanza magne-
tica seguita a crescere, la tensione cessa di diminuire e va crescendo da D fino ad E
per raggiungere il valore F0 quando la corrente è in quadratura.
Il fenomeno della diminuzione di tensione (da C a D) col crescere dello sfasa-
mento non era stato avvertito, che io sappia. Io l'ho poi verificato con ripetuti espe-
rimenti, ed ho trovato che l'andamento del fenomeno corrisponde esattamente alla
teoria. Misurato VQ a vuoto, si chiuda il circuito del secondario su di una resistenza
formata da due spirali sovrapposte, con avvolgimento di verso contrario, per annul-
lare l'induttanza, e si noti la tensione V. Spostando una delle spirali, in modo da
produrre una reattanza crescente a poco a poco, la tensione comincia a diminuire;
poi, raggiunto un minimo, prende a crescere gradatamente, insieme colla reattanza.
Introducendo dei nuclei di ferro nelle spirali separate si può fare che lo sfasamento B
risulti assai prossimo a 90° e allora la tensione s'avvicina al valore che aveva a
vuoto. Nella curva vi corrisponde il punto E.
La nuova forma data alla soluzione del problema permette di ritenere questo
risultato come esatto (nei limiti dell'approssimazione ammessa nel ridurre le forinole);
mentre nella mia nota sopra ricordata avevo creduto di fare qualche riserva a questo
proposito.
E infatti quando 3 s'approssima a 90°, vuol dire che l'impedenza del circuito
. esterno è grandissima e allora, la corrente essendo minima, è naturale che la caduta
di tensione sia quasi nulla.
Quando R è negativo, vi corrisponde il tratto CBA della curva. Dapprincipio la
tensione cresce, raggiunge in B il valore che aveva a vuoto, poi lo oltrepassa, tocca
un massimo in M e decresce infine per riprendere ancora il valore V0 quando la
corrente è in avanzo di 90°.
E interessante notare che:
Il minimo di tensione si ha per (3 = 45° — a.
Il massimo si ha per B = — (45° -4- a).
La tensione diventa eguale a quella a vuoto, oltreché per B = ± 90°, anche
per 8 = — a.
La posizione adunque di questi punti dipende essenzialmente da a, cioè dal rap-
porto fra la resistenza della spirale secondaria e la reattanza dovuta alla dispersione
magnetica.
La curva ora discussa rappresenta il fenomeno soltanto per approssimazione,
perchè si è dedotta da una forinola ridotta; e s'intende sempre nell'ipotesi che tutte
le grandezze alternate in giuoco si possano considerare come sinoidali.
Se si vuol tener conto della equazione più esatta (29), bisogna fare alla curva
le seguenti correzioni :
1° La distanza tra PP e QQ (tìg. 2a) va leggermente diminuita, perchè, invece
di corrispondere ad — , dovrebbe essere
2 8 A 16 ° '
60 GUIDO GRASSI 14
2° L'ordinata massima della sinusoide va pure diminuita un poco, nel rapporto
di -g- a
3A
f X-2
3° Bisogna sovrapporre alla curva stessa una seconda sinusoide, di frequenza
_§_
16
doppia, di ampiezza j^ C2 e colla fase 2a -4- -jp Il valor massimo di questa sinusoide
si ha per
• = ~r
corrisponde adunque al punto di mezzo di 00'. Segnato questo punto è facile trac-
ciare la curva, con frequenza doppia della precedente.
Nella fig. 2a ho segnato questa seconda sinusoide, però in scala esagerata. In
condizioni ordinarie l'ampiezza di quest'onda è una piccola frazione di quella dell'onda
principale.
L'effetto dell'onda secondaria è di rendere la curva della fig. 2a più schiacciata
nel ramo positivo e più acuminata nel ramo negativo. Analogamente si modifica la
curva della fig. 3a. Il minimo valore di V anticipa; cioè quando p da 0 cresce, per
reattanza magnetica, la minima tensione ai poli si raggiunge più presto, cioè prima
che |3 abbia il valore 45° — a, ed il minimo è meno risentito.
Quando invece p diventa negativo, per effetto di capacità, la tensione ai poli
cresce più rapidamente e il massimo è più risentito.
Per (3 = ± 90° la tensione resta un po' minore di quella a vuoto.
In ogni modo però la deformazione della curva è piccola.
Funzionamento a corrente costante. — Per vedere come varia V quando
si mantiene la intensità costante, e varia (3, conviene considerare 1' equazione (23).
Colle semplificazioni già adottate, porremo
C0 = l
^ 2p2r 2A2
'"' - r - ~V
C* = %- (m + 1)
f =v0.
Con queste sostituzioni la (23) diventa
l-^r' = l -4- — senf3cosf5 -| cos^p.
D'altra parte se T è la corrente nel secondario, si ha
ri = FcosP
15 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 61
e quindi
(33) F02 — V = 2 VI 1 2\2 sen8 + r'(m + l)cosB j
che si può scrivere anche, nel caso di m = 1 ,
(34) F0a — V2 = 4 Vip' sen(8 -f- a)
dove a ha ancora il valore precedente.
Qualunque sia I si avrà V= V0 quando sia
e per B negativo, con valore assoluto >ct, si avrà sempre la tensione V maggiore
di quella a vuoto.
Per (5 compreso fra — a e 0, la tensione V è minore di V0; col crescere di B
oltre 0, la V seguita a diminuire; però raggiunge anche qui un minimo (come quando
si mantiene costante la resistenza) e precisamente per
Oltre questo valore di 8 la tensione torna a crescere.
Con metodo analogo a quello che ci ha servito per discutere il caso precedente
si può rappresentare graficamente la variazione della tensione.
Considerando che nella (34) la differenza tra V0 e Ve sempre una piccola fra-
zione di V0, potremo scrivere con sufficiente approssimazione
V= T"0 — 27p'sen(8 + a) 4- ^f- 9en2(3 + a).
' 0
Ma
sen»(P + a) = ± - |sen (23 + 2a -f-|) ;
e perciò si ottiene
(35) V= V0 + ^ - 2/p'sen(3 + o) - (-^sen (23 + 2a+ |)-
Abbiamo un'equazione che rappresenta una curva composta di due sinusoidi,
sovrapposte ad una ordinata costante. La seconda sinusoide ha un'ampiezza molto
minore della prima, e una frequenza doppia.
Il fenomeno è abbastanza bene rappresentato dalla prima sinusoide
(36) V = r0 — 2 Jp' sen(B + a)
di ampiezza 27p', che è quella disegnata nella fig. 4a con tratto pieno ABCD.
Anche qui
p' sena = >•'.
Perciò, scelta una scala opportuna per cui 21= 1, basta sottrarre dall'ordinata
costante V0 le ordinate della sinusoide.
62
GUIDO GRASSI
16
Per (3 = 0 la tensione è diminuita di OM=r' (nella scala scelta); col crescere
di p la tensione dapprincipio diminuisce, poi torna a crescere. Però anche quando fosse
(3 = 90° la tensione sarebbe sempre notevolmente minore di V0; la differenza è QE.
Per (3 negativo la tensione aumenta da M a B; passa pel valore Tr0 in corri-
spondenza di (3 = — a, nel punto C; poi continua a crescere fino a B.
Qualunque sia la grandezza di a, cioè qualunque sia il valore del disperdimento,
anche se nullo, la tensione continua a crescere per un avanzo di fase, rispetto a
quella che si ha per (3 = 0.
Invece la dispersione influisce nel rendere più o meno spiccato il passaggio dalla
diminuzione all'aumento della tensione, per valori positivi di [3.
Non si ha più aumento, ma soltanto diminuzione (da C a D nella curva),
quando sia a = 0, cioè la dispersione grande. Invece quando la dispersione è abba-
stanza piccola, a arriva a 45° e anche più; allora i punti 0 e Q si avanzano verso
destra, e si prolunga il tratto DE che corrisponde al rialzo della tensione.
Se la dispersione fosse trascurabile, sarebbe a = 90°, il punto M si porterebbe
in D, e per (3 = 0 si avrebbe la minima tensione. Producendo un ritardo o un avanzo
di fase, la tensione sempre aumenterebbe, per raggiungere il valore della tensione a
vuoto quando la corrente fosse in quadratura.
La tensione minima si ha per [3 = 90° — ■ a.
La tensione massima per (3 = — 90°.
La tensione diventa eguale alla tensione a vuoto per (3 = — a.
Per tener conto dell'equazione completa bisogna fare le seguenti modificazioni,
come risulta dalla (35):
1° Spostare verso l'alto l'asse V0 di una quantità ; quantità che eviden-
temente sarà sempre una frazione piccolissima di V0.
2° Sovrapporre alla sinusoide disegnata una 2a sinusoide di frequenza doppia
e di ampiezza, che sta a quella della 1" come
ip':2F0
e che sarà quindi una piccola frazione. La fase di questa 2a sinusoide è 2a -f- 9 ' ec'
il valor massimo si ha per
17 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 63
Dunque il massimo corrisponde al punto C, e partendo da questo punto, con
frequenza doppia, è facile tracciare la curva, che è quella segnata nella figura, però
con ampiezza esagerata rispetto a quanto si riscontra in pratica.
Si vede che la deformazione consiste essenzialmente nel rendere meno spiccata
la diminuzione iniziale di tensione, per piccoli ritardi di fase. Però la deformazione
è piccolissima e quasi inapprezzabile.
Anche qui ricordiamo che quando non siano soddisfatte le condizioni: m = 1 e
mpx =^2) la quantità p' si dovrà determinare mediante la forinola (32).
Funzionamento a potenza costante. — Se nella (33) si pone l'espressione
della potenza esterna
W= F/cosS
si ottiene
(37) IV - V2 = 2 PFJ2X2tanp + r\m + 1)J .
Questa relazione ci dice che passando 3 da + 90° a — 90°, la tensione V passa
in generale gradatamente da valori piccolissimi a valori grandissimi, se si vuole che
la potenza si mantenga costante. In particolare si osserva che quando f3 cresce, V dimi-
nuisce, il che significa che la corrente deve aumentare rapidamente; inoltre ($ non
può oltrepassare il limite che corrisponde a 7=0 e pel quale si ha
2\atanf$ = |£-r'(m + l).
Anzi non può neanche raggiungere questo limite, perchè con V=0 non si
avrebbe W costante (teoricamente vi corrisponderebbe una corrente infinita).
Praticamente (3 non potrà dunque variare di molto, se si vuol mantenere la
potenza costante, senza oltrepassare di troppo la intensità sopportabile dal trasfor-
matore.
Però della relazione ora trovata si può approfittare per risolvere due problemi.
Determinazione della resistenza interna del secondario. — Se si carica
il trasformatore con resistenze non induttive in modo che si possa ritenere tanfi = 0,
chiamando 1^ la corrente e Vx la tensione in questo caso, si ha
V0*-V1* = 2V1Ilr'(m+l)
e quindi
j — Fi*— Fi»
(38)
2VMm + i)
Si ha così un metodo facile per misurare la resistenza della spirale secondaria,
osservando semplicemente la caduta di tensione dovuta a un certo carico Ix ottenuto
con resistenza non induttiva.
In questa prova risulterà sempre che la caduta di tensione è piccola rispetto al
valore assoluto della tensione; perciò se la relazione precedente si scrive
r, __ (Vq+ Vi)(Vq- Vi)
2ViIl{m + l)
64 GUIDO GRASSI
si vede che con molta approssimazione si avrà
..' _ v0 - V,
(39)
(m + l)I,
Questo metodo è molto comodo; conviene adoperare un voltometro con una scala
ampia nell'intervallo in cui avviene la variazione di tensione; ma basta assicurarsi
che sia misurata con esattezza la differenza V0 — V, poiché il valore assoluto della
tensione non entra nella formola.
Se si ha il mezzo di assegnare il valore di m, prendendo misure sul trasforma-
tore, la formola permette di calcolare direttamente r'. Ora osservo che il metodo può
avere importanza quando la resistenza r' che si vuol conoscere è molto piccola, tanto
che sarebbe difficile misurarla direttamente coi metodi ordinari. Ciò accade pei
trasformatori con grande rapporto di trasformazione, per la spirale a bassa tensione,
la cui resistenza si riduce spesso a pochi millesimi di ohm e anche meno. In tal
caso però è sempre grande, relativamente, la resistenza dell'altra spirale. Ritenendo
che appunto questa sia rappresentata da i\ , avremo
>\ = mk2r'
e combinando questa colla precedente, si ottiene
j_*ì— Ti
(40)
/, k2
Qui gioverà ricordare che /» = 1 quando le spire primarie e secondarie hanno
lunghezze medie eguali, e sono eguali le densità di corrente nei due circuiti. Allora
si ha senz'altro
(41) '-' = J^-
Misura del rapporto di dispersione o della f. e. m. di selfìnduzione.
— Si può procedere in generale a questa determinazione facendo due prove succes-
sive con diverso fattore di potenza, e misurando nei due casi la corrente, la tensione
ai poli e la potenza; cioè, in conclusione, eseguendo le letture sui tre strumenti,
amperometro, voltometro e wattometro, che si trovano d'ordinario su qualunque cir-
cuito a corrente alternata.
Distinguendo coll'indice 1 i valori corrispondenti alla seconda prova, si avrà
un'equazione simile alla (33), cioè
(42) TV - IV = 2 r,/i j 2 X2 senih + r'{m + 1) cosp, j .
Siano w e u\ le indicazioni del wattometro nelle due prove; si avrà
cosp = -^ cosSj = -"! •
19 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 65
Con queste sostituzioni le (33) e (42) diventano
F02 — V2 = 4\2 }/V2P — w2 + 2{m + \)r'w
TV— VS=i\2 ^V1*Il*—u>l* + 2{m + l)r'wi
e quindi in generale
,43) x _ 1 »',( *V - V) - iv{ V? - TV)
4 «j, j/ rJ /5 - «»2 - «- • r,2 j,2 - V '
Però una forinola più comoda pel calcolo si ottiene, osservando, come si è fatto
sopra, che con sufficiente approssimazione si può scrivere
VJ* — v%
_l» 1_ — y„ v
Allora la (33) diventa
(44) ^°~^ = 2X8tanp + r'(m -f- 1).
Ripetendo la prova con f? = 0, e intensità I1 , si ha
A^Zt=r> + l)
e quindi
M tt v _ 1 / ^o - V F0 - V, \
v ' ò 2tan3 icosP /, /
In generale X2 si misura senza bisogno di conoscere le resistenze, ma soltanto
mediante le letture dei tre strumenti. Il valore di cosP si ha dall'osservazione del
wattometro; e nelle tavole si trova il valore corrispondente di tanfi.
Questo procedimento è migliore di quello in cui si ripetono le due prove con
valori di (3 entrambi diversi da zero, perchè quanto maggiore è la differenza fra i
due valori di p, più esatto è il risultato, e quindi conviene partire da 3 = 0.
Se si fanno le due prove con intensità eguali, si ottiene addirittura la f. e. m.
di selfinduzioiie, che dirò e2, cioè
<46> ^=^=2tb|-S~-(ro-Fl)|-
Si noti che in queste misure bisogna adoperare strumenti ben tarati, affinchè
riesca esatta la determinazione di cosg.
Ho eseguito parecchie misure su trasformatori di vario tipo per assicurarmi
dell'applicabilità del metodo, tanto per la misura della dispersione quanto per quella
della resistenza.
Per un trasformatore Ganz ad anello, del primo tipo, con rapporto di trasfor-
mazione da 18 a 1; potenza 4 chilowatt:
\2 = 0,022
r> = 0,0308.
Serik II. Tom. LUI. i
66 GUIDO GRASSI 20
La dispersione è piccola ; il coefficiente di dispersione sarebbe circa
p2 = 0,7.
Un altro trasformatore Ganz. ad anello, del tipo a ferro esterno, e di piccola
potenza, mi ha dato
\2 = 0,052
r' = 0,137
p2 = 0,38.
Com'era da aspettarsi qui il coefficiente di dispersione è piccolissimo ; anzi
appunto per la sua piccolezza la determinazione non si può ritenere molto precisa.
In ogni modo si vede che con questo tipo di costruzione si rende la dispersione quasi
trascurabile.
Invece un trasformatore di tipo recente, dell'officina di Savigliano, a nucleo
diritto coi due avvolgimenti sovrapposti, e circuito magnetico doppio; potenza 8 kw\
rapporto 10:1; ha fornito i seguenti risultati:
X2 = 0,216
r' = 0,050
p2 = 4,3.
Il disperdimento è notevole, ma evidentemente il risultato corrisponde al tipo
di costruzione.
Confronto fra la caduta di tensione con carico non reattivo, e la
caduta con carico reattivo. — Le formolo ora trovate ci permettono di mettere
in evidenza qualche altra particolarità interessante, paragonando i diversi risultati
che si ottengono, secondo che vi è o non vi è reattanza.
Il comportamento del trasformatore a questo riguardo è diverso e caratteristico
secondo che la dispersione è più o meno grande e raggiunge o meno certi limiti.
Supponiamo anzitutto la dispersione nulla. Avremo e8 = 0 e la forinola (46) ci
dà, a intensità costante,
(47) V0-V=(V0-Vì)cost.
Ricordiamo che V0 — V^ è la caduta per 3 = 0. Dunque: la caduta con carico
reattivo, se la dispersione è nulla, è sempre minore della caduta con carico non reattivo
per uguale intensità di corrente, e diminuisce proporzionalmente al fattore di potenza.
Questa particolarità, facile a riconoscere praticamente, permette appunto di giu-
dicare se la dispersione è piccola.
Invece se vi è dispersione, si ha
(48) V0 - V = ( P0 - PJ j cosp + f^ )
ed il comportamento è molto diverso da quello precedente.
21 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 67
Quando {3 è positivo, cioè vi è ritardo della corrente, la caduta di tensione con
carico induttivo è sempre maggiore di quella che si avrebbe se non vi fosse dispersione.
Però non si deve credere, come pure si afferma d'ordinario, che tale caduta sia sempre
maggiore necessariamente di quella che corrisponde al carico non induttivo.
Infatti dall'equazione ultima si vede che V0— V sarà minore di F0— Vi tutte
le volte che sia
Siccome dalla (39) si ha, per l'intensità I,
r X 1 + m
ed inoltre sappiamo che
e2 = X2/ X2 = p2r'
la precedente disuguaglianza si può scrivere anche
Vi < — 2 — tanT'
Dunque se p.2 è inferiore a questo limite, sì avrà con carico induttivo una caduta
di tensione minore che con carico non induttivo.
Evidentemente per ottenere questa condizione di cose bisogna che la dispersione
sia molto piccola; perchè d'ordinario m — 1 circa, e quindi p2 dovrebbe essere minore
di tan-|-, che è sempre una frazione. Però abbiamo riconosciuto, negli esperimenti
sopra indicati, che col tipo di trasformatore a ferro esterno, dove le spirali di rame
sono completamente circondate da ferro, il coefficiente p2 è così piccolo da potere
anche dar luogo a questo fenomeno.
Quando 3 è negativo, cioè la corrente in avanzo, la caduta di tensione con carico
reattivo è sempre minore di quella che si avrebbe se la dispersione fosse nulla, perchè
il termine che contiene e2 risulta negativo.
Col crescere di e2, e per un determinato valore negativo di p, si raggiunge la
condizione per cui la caduta è nulla, quando sia
ossia quando
Se la p2 cresce oltre questo limite, la V0 — V diventa negativa, e si ha il feno-
meno già considerato della sopraelevazione di tensione.
Applicazione delle forinole trovate al calcolo del numero di spire,
nel progetto di un trasformatore. — Quando si deve fare il progetto di un
trasformatore, i dati sono V, /e P, cioè gli elementi del circuito esterno; oltre la
ea =
r„-vt
2tanP
Pt =
. 1 + m
2tanP '
68 GUIDO GRASSI 22
f. e. m. impressa E0. La prima parte del progetto deve necessariamente consistere
nel scegliere il tipo di costruzione, e quindi la forma del nucleo. Ma propriamente
basta assegnare la forma della sezione, e la forma delle spire.
Allora si può calcolare le dimensioni della sezione, con una formola semplice.
che si può scrivere (*)
, > _S_ _ JO^ »t + l Pogi
l4yJ 7, ^2 m nBrt
dove S è la sezione cercata, B l'induzione massima, p0 la resistività del rame, ti la
percentuale di perdita nel rame.
Secondo la forma scelta della sezione S si può in ogni caso esprimere il rap-
porto S : li in funzione di una delle dimensioni. Per esempio, se la sezione si vuol
fare quadrata di lato x, e le spire circolari, si ha
S = xì h = atxxfZ
dove a è un coefficiente maggiore di 1, di cui si può assegnare facilmente il valore
approssimato sapendo quale spessore si vuol dare all'avvolgimento. Si ottiene così
3=10» 2"+!^.
Con forme diverse, varia il coefficiente numerico, ma sempre si ottiene una
espressione del medesimo tipo, che permette di calcolare direttamente le dimensioni
della sezione. Non occorre che questo calcolo sia fatto con forinole più precise; né il
suo grado di approssimazione influisce su quanto segue.
La grandezza della sezione S essendo determinata, avremo il numero delle spire
primarie
Wl = IO8 =
ti V2 nBS
Questo numero si può adottare come definitivo, senz'altra correzione, purché si
(*) Questa formola si ottiene supponendo che la f. e. m. applicata al primario sia eguale alla
f. e. m. d'induzione, cioè che il suo valore efficace sia
E = IO8 ^n,BS.
La perdita di energia per effetto Joule si rappresenta quindi come una frazione T, della potenza
apparente Ei% e si ha
•fiEH, =r,*1a + rt2
dove (') e i% sono le intensità efficaci. Posto quindi
>-, = mìtrr
i j = kii = k qt 0"i
"ì h
e fatte le sostituzioni nell'equazione precedente, si trova la formola (49), la quale si deve ritenere
come una relazione approssimata.
23 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 69
calcoli il numero di spire secondarie n2 colla forinola esatta; basta perciò risolvere
la (23) rispetto a k. Si ottiene
(50) n, = m, -£ |/C0+C1sen2p + (72cos2p.
Per mostrare l'applicazione della forinola e dare un'idea dell'aumento che deve
subire il numero delle spire secondarie rispetto al rapporto di trasformazione che si
vuol ottenere supponiamo che sia
Wl = 1000 E0=IOV
j» = l pa = B cosS = 0,866
e si voglia caricare il trasformatore in modo che la >• esterna sia 100 volte la resi-
stenza interna r' . Si avrà
C„ = l
C1 = 2pi^r = 0,06
Ct = (1 + m) ¥- = 0,04
Risulta dalla (50)
sen20 = 0,866 cos2p = 0,75.
Mg = 104,0.
Se si volesse caricare fino a che la r fosse = 50 r', i valori di Ct e C2 divente-
rebbero doppi e si troverebbe
«2 = 107,9.
Quando si debba lavorare con intensità costante conviene mettere l'equazione
sott'altra forma, ponendo
Fcosg
r^—j—
Si ottiene
(51) «a = «i !; j/l + 2 -^ ] 2/>2sen(5 + (in + 1) cosp j .
Con questa si può riconoscere in qual modo si deve far variare il numero di
spire secondarie per ottenere sempre la stessa tensione V ai poli, con corrente
costante, ma con sfasamento variabile.
Un esempio numerico mostrerà meglio l'andamento della cosa.
Suppongo come prima tit =- = 100 ed m=l; inoltre
ri _ 1 __,
v — 100 P* — b
e quindi dalla (51)
m2 = 100 j/l + ^ (lOsen? -f 2cosp).
70
Si ottiene
GUIDO GRASSI 24
— 45° 94,17 0 101,98
81 84
— 40 94,98 5 102,82
— 35 95,81 10 103,64
87 78
— 30 96,68 15 104,42
88 75
— 25 97,56 20 105,17
89 70
— 20 98,45 25 105,87
89 65
— 15 99,34 30 106,52
89 60
— 10 100,23 35 107,12
88 55
— 5 101,11 40 107,67
87 48
0 101,98 45 108,15.
Dalle successive differenze appare che col crescere di 3 positivo l'aumento nel
numero delle spire è sempre più piccolo.
Rendimento e determinazione di a sene. — Dal diagramma della fig. la,
si ricava una espressione del rendimento, che è utile tener presente, sia per calco-
lare questo elemento, sia per determinare sperimentalmente la quantità asen6 che
dipende dalle condizioni magnetiche del nucleo.
Indicando con \\> l'angolo AOQ di ritardo della corrente primaria rispetto alla
f. e. m. applicata, il rendimento n si esprimerà con
E0I, cos H>
Dalla fig. la è facile vedere che si ha
£0cosi|i = OR + P£sen(<p + e)
e per la (1)
K,cosy = rjl -f Ej, —■ (cost + «sene) .
Colle sostituzioni di cui ci siamo già serviti innanzi, e trascurando alcuni ter-
mini molto piccoli, si ottiene
1
n =
1 r cost
E se in luogo di T si mette in evidenza lo sfasamento P, che si misura nel
circuito esterno, si trova con sufficiente approssimazione
(52) n =
1 + — (m + 1) + «senel/l + tan2P f 2-y tanP
25 EFFETTI DELLA DISPERSIONE E DELLA REATTANZA NEL FUNZIONAMENTO, ECC. 71
Per determinare a sene basta adunque far funzionare il trasformatore con carico
non reattivo, cosicché sia 0 = 0, e misurare il rendimento con un wattometro nel
primario, un voltometro ed un amperometro nel secondario. Se wt e w2 sono i watt
primari e secondari, si avrà evidentemente dalla (52) la relazione
08ene = -^^--^(OT + l).
Ora riflettendo che si ha
wa=Vl rI=V
e ricordando la relazione (39), che si riferisce appunto al caso di un carico non
reattivo, risulta
(53) asene = -^^--^-^.
Si può dire che la quantità asen9 è la differenza fra la caduta proporzionale di
potenza e la caduta proporzionale di tensione con carico non reattivo. Evidentemente
asen8 è il termine che rappresenta l'influenza del nucleo di ferro, in quanto vi si
producono fenomeni d'isteresi e correnti parassite.
L'esperimento si riduce ad osservare la caduta di tensione quando si chiude il
circuito secondario su di una resistenza ohmica, misurando nello stesso tempo la
corrente secondaria, e leggendo il wattometro applicato al circuito primario.
ALCUNI SISTEMI DIOTTRICI SPECIALI
NUOVA FORMA DI TELEOBBIETTIVO
MEMORIA
DEL SOCIO
NICODEMO JADANZA
Appr. nell'Adunanza dell'8 Marzo 1903.
Consideriamo un sistema diottrico centrato composto di tre sistemi più semplici,
ai quali convengano i determinanti Klf k2, k3 che li caratterizzano. Sieno inoltre Aj
e A2 i segmenti che separano il secondo punto principale del primo sistema dal primo
punto principale del secondo ed il secondo punto principale del secondo sistema dal
primo punto principale del terzo. Il determinante k che caratterizza il sistema com-
posto dei tre è espresso da:
(1)
0
0
0
1
Ai
— 1
0
0
0
1
K2
— 1
0
0
0
1
A,
— 1
0
0
0
1
Supponiamo due casi.
1°) I tre sistemi sieno immersi in uno stesso mezzo e i due ultimi formino un
sistema telescopico; si abbia cioè:
(2)
*2
— 1
0
1
A2
— 1
0
1
"8
A2=-
1
1
= 1
= 0
<P2 +<P3
essendo q>2 e cp3 le distanze focali del secondo e terzo sistema.
2 ALCUNI SISTEMI DIOTTRICI SPECIALI ED UNA NUOVA FORMA DI TELEOBEIETTIVO 73
In questo caso, poiché si ha:
Ax
— 1
0
0
K2
— 1
0
1
Ko
— 1
0
+
1
A,
— 1
0
1
A,
— 1
0
1
K3
0
0
1
K3
K = Ki[A2K8 + 1] = K1 + K1KSA8.
Sostituendo in quest'ultima il valore di A2 ricavato dalla (2) si ottiene:
(3)
Indicando con cpn <p2 e cp3 le distanze focali dei singoli sistemi componenti e
con cp quella del sistema composto, sarà:
«
<p = .
La distanza focale del sistema composto 1°) eguaglia il prodotto della distanza focale
del primo sistema componente per l'ingrandimento lineare del sistema telescopico.
Un sistema telescopico composto di due sistemi convergenti ha l'ingrandimento
lineare negativo, cioè dà le immagini rovesciate. Un sistema telescopico composto di
due sistemi dei quali uno è divergente e l'altro convergente ha l'ingrandimento
lineare positivo, cioè dà le immagini diritte. Chiameremo, per brevità, il primo sistema
telescopico negativo ed il secondo sistema telescopico positivo.
La (4) può essere enunciata anche nel modo seguente:
Il sistema composto 1°) è un sistema della stessa natura del primo sistema com-
ponente (convergente o divergente) se il sistema telescopico è positivo; è di contraria
natura al primo sistema componente se il sistema telescopico è negativo.
Il primo fuoco del sistema composto coincide evidentemente col primo fuoco del
primo sistema, cosicché è:
(5) F=FX.
(6)
11 secondo fuoco, per una nota forinola dei sistemi telescopici è dato da:
F*=ìFt*-{-^-(F1*-F^,
da cui si deduce facilmente:
(7) F* — F1* = F,*-
F,-
(Ft* - F2)
la quale dà la distanza del secondo fuoco del sistema composto dal secondo fuoco
del primo sistema componente.
Conosciuti i fuochi e la distanza focale del sistema composto, sarà facile trovare
i punti principali.
Serie II. Tom. LUI. J
74
IO JADANZA
3
Nel caso particolare in cui il primo sistema si riduce ad una lente convergente
di distanza focale cpj ed il sistema telescopico è il cosidetto oculare di Campani che
è composto di due lenti convergenti aventi la medesima distanza focale cp2 = cp3 e
poste ad una distanza eguale al doppio della loro comune distanza focale, si ha la
teoria del cannocchiale terrestre il cui obbiettivo (composto) è appunto della forma 1°).
Ponendo nelle forinole precedenti q>2 = cp3 si deduce:
(8)
F=F,
F* - Ff = Fs
Fi = 4cp2
Ossia :
L'obbiettivo (composto) di un cannocchiali terrestri' t un sistema divergente (da imma-
gine reale diritta) avenk la medesima distanza focale dell'obbiettivo semplice. Il primo
fuoco coincide col primo fuoco dell'obbiettivo semplice: il secondo fuoco dista dal-
l'obbiettivo semplice (dal centro ottico di esso) di una quantità eguale a qpi -+- 4cp2.
La posizione del sistema di raddrizzamento può essere qualunque (Nella pratica si
mette in una posizione tale da ottenere la immagine diritta e reale fuori delle due
lenti che formano l'apparecchio di raddrizzamento).
T
F,
F'
2 l
•
Fisr. 1\
La figura qui unita rappresenta schematicamente l'obbiettivo composto del can-
nocchiale terrestre. M è l'obbiettivo semplice; le due lenti eguali N, 0 formano l'ap-
parecchio di raddrizzamento (oculare di Campani).
I fuochi principali del sistema composto sono F, F*, il primo coincidente con F1:
il secondo distante da M di cpx + 4q>2. I punti principali si trovano il primo E alla
sinistra di F, il secondo E* alla destra di F*.
La posizione dell'apparecchio- di raddrizzamento nella figura è quella comune-
mente adoperata dai costruttori; esso però potrebbe essere situato anche in vicinanza
della lente M; il secondo fuoco F* si troverebbe sempre dove è attualmente.
2°) I tre sistemi immersi in uno stesso mezzo, e i primi due formino un
sistema telescopico, cioè sia :
Ai
donde:
A,=-
f-J- = «Px +
4 ALCUNI SISTEMI DIOTTRICI SPECIALI ED UNA NUOVA FORMA DI TELEOBBIETTIVO 71
e poiché è:
K=l<3 + KiKgAj,
e quindi:
(9)
Ossia: la distanza focale del sistema composto di un sistema telescopico e di
un sistema diottrico di distanza focale cp3 è data dal prodotto dell' ingrandimento
angolare del sistema telescopico per la distanza focale del terzo sistema.
Se il terzo sistema è convergente ed il sistema telescopico è positivo, anche il
sistema composto sarà convergente, mentre sarà divergente se il sistema telescopico
è negativo.
Il secondo fuoco del sistema composto coincide col secondo fuoco del terzo
sistema, cioè si ha:
F* = F3*.
Il primo fuoco è quello che rispetto al sistema telescopico ha per coniugato F3
(primo fuoco del terzo sistema); esso sarà dato dalla equazione:
F-f^-^-tJi-J",*).
Nel caso di q>i = cp2, la precedente diventa:
F=Fl + Ft — Ft* = F, — (F2* - FJ
ossia :
F=F3 — 4cp2
cioè il primo fuoco è anch'esso un punto fisso che dista dal primo fuoco del terzo
sistema di un segmento eguale a quattro volte la distanza focale comune delle lenti
che compongono il sistema telescopico.
F» E*
'
.
Un cannocchiale terrestre può considerarsi come composto di un obbiettivo con-
vergente di distanza focale q>0 e di un oculare costituito come il sistema 2°) ora
studiato; codesto oculare è un sistema divergente di distanza focale cp = — ^s-"^"-
I punti cardinali di questo oculare sono situati nel modo indicato dalla qui unita
figura, nella quale M ed N sono le due lenti che costituiscono l'apparecchio di rad-
drizzamento (oculare di Campani), la lente 0 è l'oculare propriamente detto. La imma-
gine data dalla lente obbiettiva si formerà nelle vicinanze di F (a destra), l'oculare
composto la raddrizzerà e la ingrandirà.
76 NICODEMO JADANZA
Il teleobbiettivo ad ingrandimento costante.
Un sistema telescopico può essere costruito con due lenti una divergente e l'altra
convergente; dovrà la distanza focale della lente convergente essere maggiore del
valore assoluto della distanza focale della lente divergente.
La distanza A tra le due lenti deve essere eguale alla differenza (aritmetica) tra
le distanze focali di esse.
Fig. 3».
Nella figura (3a) si vede un sistema telescopico formato con due lenti M ed N,
la prima divergente di distanza focale — cp2, la seconda convergente di distanza
focale cp3: A = cpx — cp2-
L'ingrandimento lineare di codesto sistema sarà -| e sarà sempre maggiore
di uno. Qualunque sia la posizione dell'oggetto, la immagine data dal precedente
sistema telescopico avrà sempre la medesima grandezza, sarà sempre diritta rispetto
all'oggetto e sarà più grande di esso.
Dove si dovrà trovare l'oggetto affinchè la immagine di esso sia reale e quindi
la si possa o fissare sopra una lastra sensibile, o guardare per mezzo di un micro-
scopio?
La forinola, che dà la relazione tra l'ascissa £ di un punto dell'asse e l'ascissa £*
del suo coniugato dato da un sistema telescopico è, nel caso che stiamo esaminando :
ossia:
(10)
Fs* = A± (E — F2)
3 tp22 v 2>
£* — -Fa* _ JP%
e questa dice che le due differenze E — F2 e E* — F3* sono sempre dello stesso
segno, o amendue positive, o amendue negative. Tutte le volte che l'oggetto si tro-
verà alla sinistra di F2, la sua immagine si troverà alla sinistra di Fs*; essa rag-
giungerà la lente N quando _F3* — E* diventerà eguale a <p3. La massima distanza
dell'oggetto dal punto F.2 (alla sinistra di F.2) sarà data dalla (10) sostituendovi cp3
invece di Fs* — E*: si otterrà:
di) *-* = -*.,..
Tale distanza è sempre minore di cp2, quindi l'oggetto dovrà essere virtuale.
6 ALCUNI SISTEMI DIOTTRICI SPECIALI ED UNA NUOVA FORMA DI TELEOBBIETTIVO 77
Aggiungendo al sistema telescopico ora considerato un obbiettivo acromatico di
distanza focale qpx si otterrà un sistema composto convergente di distanza focale :
(12) «P = ^.<Pi
ovvero :
cp = JHPi.
Codesto sistema composto potrà servire come obbiettivo di cannocchiale astro-
nomico accorciato o come obbiettivo di camera oscura.
Esso è rappresentato dalla figura qui annessa.
Il
La lente acromatica 0 è l'obbiettivo semplice di distanza focale q>ù il sistema
delle due lenti AI ed Ne il sistema telescopico positivo d'ingrandimento lineare-^2 =v
(nella figura n = 3). La immagine Ft* P di un oggetto a distanza infinitamente
grande sarebbe situata nel secondo fuoco Fx* della lente 0. Il sistema telescopico MN
ne dà una immagine reale P*F* che è n volte FfP (in figura 3 volte FfP), e
questa immagine giace nel secondo fuoco F* del sistema composto.
La lunghezza del cannocchiale, cioè la distanza tra la lente obbiettiva ed il
secondo fuoco F*, è minima quando F* cade sulla lente N. Indicando con L tale
lunghezza, si avrà:
L = cpt + F2 — F±* +<p3 - 2q>2,
e siccome per la (11) è:
W 77 * "P» ~ "PS
<P:i n
sarà:
£ = <Pi + J <P2 + (»-2)q>2
ovvero :
(» - D2 „
(13)
L=cpi +
La lunghezza del cannocchiale, se l'obbiettivo fosse una semplice lente di distanza
focale equivalente, sarebbe »<Pi; quindi vi è un accorciamento dato da:
V= «cp! — L,
ossia :
(14) F=(M_l)(tPl— -5^-<p,)-
78 NICODEMO JADANZA ALCUNI SISTEMI DIOTTRICI SPECIALI, ECC. 7
Questo nuovo sistema diottrico convergente ha le seguenti proprietà che lo dif-
ferenziano da un comune teleobbiettivo.
a) Spostandosi il fuoco F* della lente 0 nell'interno del sistema telesco-
pico M, N, la grandezza della immagine dell'oggetto che si guarda rimane invariata.
Di qui il nome di teleobbiettivo ad ingrandimento costante.
b) Il fuoco anteriore di esso sistema coincide col primo fuoco F1 della lente 0.
Adoperato adunque come obbiettivo di cannocchiale distanziometro ad angolo paral-
lattico costante, esso funziona come il semplice obbiettivo 0 (pur essendo la imma-
gine dell'oggetto che si guarda n volte più grande di quella che darebbe l'obbiettivo
semplice 0).
e) La costruzione riesce più semplice e meno costosa , poiché nella maggior
parte dei casi, e specialmente quando si adopera come obbiettivo di cannocchiale
distanziometro, non è necessario rendere acromatica la lente divergente M, essendo
il sistema M, N sufficientemente acromatico per se stesso.
Abbiamo fatto costruire dal sig. Collo, meccanico dell'Osservatorio di Torino,,
un cannocchiale astronomico avente l'obbiettivo composto della forma ora descritta.
L'obbiettivo semplice 0 ha la distanza focale di 0m,260 e l'apertura libera =0m,030:
la lente divergente M ha la distanza focale = ()m,048 e la lente convergente N ha
la distanza focale = 0m,150. L'ingrandimento del sistema telescopico è poco più
grande di tre ed il cannocchiale che ha appena la lunghezza di 0m,36 funziona come
un cannocchiale che avesse l'obbiettivo di distanza focale = 0m,88.
Esso è perfettamente riuscito; le immagini degli oggetti sono nitide e non colorate.
Febbraio 1903.
ALFONSO COSSA
COMMEMORAZIONE
letta I'8 Marzo 1903 davanti alle Classi Unite
DAL SOCIO
ICILIO GUARESCH
È la seconda volta che ho l'alto onore di essere chiamato dal voto unanime dei
miei cari colleghi a parlare in pubblico a nome della nostra Accademia; la prima
volta ebbi a portare un saluto reverente ad un illustre scienziato straniero che la
sua patria onorava con mirabile slancio ; ora debbo dire le lodi di un nostro defunto
Presidente; occasioni solenni entrambe, e che avrebbero richiesta più alta e forbita
eloquenza che non sia la mia.
Purtroppo, specialmente in questo ultimo decennio, la nostra Accademia è stata
spesso crudamente colpita dalla morte, che ci ha rapito molti fra i migliori colleglli;
dopo gli illustri Presidenti Fabretti e Lessona, perdemmo in breve volger di tempo:
Galileo Ferraris, Nani, Giacomini, Bizzozero, Cognetti de Martiis.
Ma anche la morte, come la vita, di questi uomini, deve riuscire utile all'uma-
nità ; la loro onestà, la loro attività al lavoro, la loro produzione scientifica debbono
essere di esempio, di guida, ai giovani.
La nostra Accademia è fiera dei nomi illustri dei proprii Presidenti; nomi, che
sono rimasti chiari nei fasti della scienza e che tutto il mondo civile onora; non sono
certamente molte le Accademie che possano vantare nomi quali quelli di Lagrange,
di Prospero Balbo, di Plana, di Federico Sclopis, di Ariodante Fabretti, di Michele
Lessona. Il dire degnamente di uomini che hanno l'aggiunto un sì elevato posto
scientifico, non è facile, ne tanto meno adatto alle mie forze. Altri dei miei colleghi
ben più di me sarebbero stati degni di commemorare il nostro compianto Presidente,
prof. Alfonso Cossa; ma voi forse vi siete ricordati di Avogadro e di Malaguti, due
grandi che appartennero alla nostra Accademia ; ed al lungo studio ed al grande
amore ch'io dedicai a questi due illustri, debbo forse oggi l'onore di parlare qui di
un terzo membro di questa nostra Accademia.
Alfonso Cossa nacque il 3 novembre 1833 in Milano dal nobile Giuseppe e da
Maria Bagnacavallo. Il padre suo, bibliotecario nella Biblioteca di Brera, era studioso
della paleografia e della diplomatica.
80 ICILIO GUARESCHI -
Cossa, compiuti gli studi classici in Milano, fu mandato nel 1852 all'Università
di Pavia quale alunno del Collegio Borromeo, e, compiuti i cinque anni di medicina,
fu laureato nel novembre 1857. Ebbe il posto di assistente di Medicina legale e
Polizia medicategli anni 1857-58; 1858-59 e 1859-60; fu poi nominato assistente
stabile di Chimica generale nel maggio 1860 e nel marzo 1861 fu nominato farma-
cista aggregato. E rimase in Pavia come farmacista aggregato all'Università e come
professore di Chimica e direttore dell'Istituto Tecnico, sino al 1866. Riunita nel 1866
la Venezia al Regno d'Italia, fu il Cossa incaricato dal Sella di andare in Udine per
organizzarvi, o meglio, fondarvi l'Istituto Tecnico, nel quale istituto Egli rimase sino
al 1871 come professore e come preside. Stato per breve tempo nella Scuola di
Agricoltura di Portici, fu nominato nel 1871 Direttore della Stazione agraria di
Torino e poco dopo anche insegnante di Chimica mineraria presso il nostro Museo
Industriale, ed infine fu nel 1882 nominato professore di chimica docimastica nella
R. Scuola di Applicazione per gli Ingegneri in Torino, posto lasciato allora vacante
dall'illustre Sobrero ; poco dopo, avvenuta la morte del Curioni, fu il Cossa nominato
anche Direttore della predetta Scuola, carica che tenne sino agli ultimi giorni della
sua vita, ed alla quale dedicò tutto se stesso.
Cossa ebbe la rara fortuna di incontrarsi in un uomo potente, il quale, non ba-
dando da quale scuola egli uscisse, di qual maestro fosse allievo, si legò a Lui di
grande simpatia, e dallo Istituto Tecnico di Udine lo portò senz'altro a Torino, Diret-
tore della Stazione agraria, e poi alla Scuola degli Ingegneri. Quest'uomo, che aveva
il potere di mettere in posto chi a lui piacesse, era Quintino Sella. Ed a Quintino Sella
il Cossa fu sempre grato dei beneficii ricevuti; non lieve merito questo, perchè il
sentimento della gratitudine è purtroppo raro.
Nella sua commemorazione di Quintino Sella, il Cossa giustamente dice (1) : " Il
Consiglio di Presidenza della nostra Accademia volle incaricarmi di commemorare la
vita ed i lavori scientifici del Sella; accettai con entusiasmo questa offerta, che
ascrivo a somma ventura, perchè mi dà l'occasione di porgere un tributo di affetto
reverente all'illustre estinto, al quale mi legavano vincoli dolcissimi di gratitudine
e di amicizia ,,.
Alfonso Cossa dopo breve malattia morì nel mattino del 23 ottobre 1902, e noi
tutti ricordiamo l'imponente tributo di affetto che gli fu reso ai suoi funerali.
Fu commovente vedere fra i colleghi e gli amici, in quella rigida mattina, il
nostro venerando Vice-Presidente Bernardino Peyron, seguire il feretro del com-
pianto scienziato; era commovente vedere quei baldi giovani allievi ingegneri por-
tare la bara che racchiudeva la salma del loro amato maestro! Dolcissimo tributo
questo, che toglie alla morte quanto essa ha di spaventoso, per non lasciarle se non
quanto essa ha di solenne!
Alfonso Cossa fu eletto socio della nostra Accademia il 29 gennaio 1871 e fu
eletto Presidente a voti unanimi il 13 gennaio 1901. E qui sento il dovere di ricor-
dare come il Cossa dedicasse gran parte della sua attività scientifica ed ammini-
strativa al lustro ed al decoro della Accademia. Egli accettò l'alta carica conscio
(1) Su la vita ed i lavori scientifici di Q. Sella (" Atti della R. Accad. dei Lincei „).
3 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 81
di poterla degnamente sostenere. Ed è bene che egli abbia sempre oprato per tenere
alta la estimazione del pubblico per la nostra Accademia, che è una delle più antiche
di Europa e fu fondata da un uomo il cui nome è riverito in ogni angolo della
terra dove splenda appena un lume di civiltà. È questo un dovere del Presidente;
dovere che il Cossa ha sentito profondamente. Così fosse sentito e tenuto in consi-
derazione anche dai governanti, i quali più di tutti dovrebbero insegnare che il
rispetto, la stima e la gratitudine per gli uomini di scienza e di lettere che ono-
rano il proprio paese, sono il più sicuro indizio della grandezza di una nazione.
Quintino Sella fu accusato di aver dato forme troppo solenni alle manifestazioni
dell'Accademia dei Lincei, di cui egli può riguardarsi come secondo fondatore; ed
il Cossa ben giustamente, e molto facilmente, ribattè l'accusa e dimostrò erroneo
questo giudizio verso il nostro grande uomo di stato e di scienza.
A coloro che, per mal vezzo, o per ignoranza, gridano contro le Accademie, il
Cossa rispondeva (1): " Qui non è il luogo di confutare le trite e volgari accuse che
si lanciano contro le Accademie delle Scienze, da coloro che, confondendole col-
l'Arcadia, vanno ripetendo che il tempo delle Accademie è passato; senza nemmeno
sapere aggiungere, che per il bene e la gloria d'Italia il tempo di cotali Accademie
non avrebbe mai dovuto venire „.
E qui permettetemi una digressione. Tutti i paesi più civili sono orgogliosi delle
loro istituzioni scientifiche; così è della Francia pel suo grande Istituto, dell'Inghil-
terra per la Società Reale di Londra, della Germania per Y Accademia di Berlino, ecc.
E noi Italiani dobbiamo essere orgogliosi delle nostre istituzioni scientifiche ; tanto
più che furono le nostre antiche Accademie, e sovratutte quella del Cimento, col suo
fatidico motto : provando e riprovando, che hanno servito di modello alla creazione
delle altre. L'Europa, nei secoli XIV e XV, non era ancora entrata, può dirsi, nella
via della civiltà, e già in Italia rifioriva la coltura letteraria ed artistica; e poco
dopo, nel secolo XVII, la nostra grande Accademia del Cimento, a cui sono immortal-
mente legati i nomi di Galileo, di Viviani, di Torricelli, ecc., creava il vero metodo
sperimentale.
In certi momenti furono anche presso di noi tenute le Accademie scientifiche in
sì alta considerazione che il Matteucci, nel suo progetto di legge dell'Istruzione
del 1862, voleva che la nomina dei professori universitari fosse fatta, non per con-
corso per titoli, ma sopra terne presentate dalle Accademie di maggiore importanza (2).
Uno dei sintomi più consolanti e più sicuri del progresso umano è appunto
questa crescente tendenza ad onorare l'ingegno, a rendergli facili e piane le vie onde
possa svilupparsi, e a considerarlo come il più alto segno di nobiltà di cui l'uomo
possa fregiarsi. Bello esempio di ciò ci dà l'Inghilterra; là, le più grandi onoranze
sono tributate al sapere; nella storica abbazia di Westminster accanto alle tombe
dei re, delle regine , dei grandi uomini di stato e di guerra , sonvi le tombe di
Bacone, di Newton, di Darwin Di quel Darwin che per molti anni fu deriso da
(1) Su la vita ed i lavori scientifici di Q. Sella, pag. 41.
(2) Federico Sclopis, Notizie della vita di Carlo Matteucci (" Atti della R. Acc. delle Scienze di
Torino ,, 1868-69, t. IV, pag. 29).
Serie II. Tom. LUI. k
82 ICILIO GUARESCHI 4
ignoranti, o da uomini di malafede, che fu schernito come materialista, immorale e
dilettante di Scienze Naturali.
Nei tempi moderni i figli di re frequentano le pubbliche scuole, e le Università ;
accorrono a festeggiare i loro insegnanti; così l'attuale imperatore di Germania,
quando era studente all'Università di Bonn, prese parte alla fiaccolata in onore del
grande chimico Augusto Kekulé. Ed è sempre con viva emozione che si leggono le
pagine che descrivono i funerali solenni di Humboldt a Berlino nel 1859; quale
effetto non deve produrre sul pubblico, sulle masse popolari, il vedere il loro re. i
loro principi che là pubblicamente all'aperto, sui gradini della chiesa metropolitana,
si scoprono il capo davanti al feretro che racchiude il Grande Uomo?
Nei paesi ove si ha un più alto concetto del sapere, specialmente per parte di
coloro che occupano le più elevate cariche pubbliche, si osserva evidentemente il
fatto che allo sviluppo delle teorie scientifiche si accompagna un correlativo sviluppo
nel progresso delle scienze applicate e delle industrie, e, diciamolo pure, anche della
moralità e dell'onestà.
" Il trionfo universale della Scienza, scrive Berthelot, assicurerà agli uomini il
maximum possibile di felicità e di moralità „.
Quatrefages dimostrò facilmente in un brillante discorso (1873) come la scienza
non soffochi il sentimento e l'immaginazione, né uccida l'ideale ed impicciolisca l'intel-
ligenza nei limiti della realtà, come molti oscurantisti, o per ignoranza, o per mala-
fede, vogliono far credere.
Si leggano i Viaggi scientifici dello Spallanzani, i grandi Quadri della natura ed il
Cosmos di Humboldt, le Opere di Arago, gli Scritti scientifici e letterari di Biot, il
Discorso sull'ufficio scientifico detta immaginazione di Tyndall, le Opere del Darwin e la
sua Autobiografia ed altri capolavori di questa natura, e poi si abbia il coraggio di dire
che la scienza soffoca il sentimento e l'immaginazione. Kepler, Galileo, Newton, La-
grange, Leibnitz hanno provato a meraviglia l'alleanza del genio matematico e del-
l'immaginazione più feconda.
Un grande poeta-musicista, il Gounod, prendeva un giorno lezione di astronomia
dal suo amico Janssen, e nel punto in cui l'astronomo spiegava la gran legge delle
aree che lega in modo meraviglioso la velocità di un pianeta nella sua orbita alla
sua distanza dal Sole, gridò improvvisamente: " ah! come è bello! „ E le lacrime
spuntarono sul suo ciglio.
E, quanta poesia nell'analisi spettrale di Bunsen e Kirchhoff! Giustamente l'astro-
nomo oggi può esclamare : 0 stella, inviami uno dei tuoi raggi ed io scriverò la tua
storia. Ma il più grande esempio ci viene dal Sommo Poeta, dal nostro Dante, che
congiunse in un concetto ed in una forma insuperabili, la scienza e la poesia. Si
potrà essere fabbricante di versi e di rime, ma non si sarà poeta se non si ha il senti-
mento e la conoscenza profonda della Natura.
Perdonatemi questa, forse un po' lunga, digressione.
Ora dirò delle opere del Cossa, o meglio, del Cossa come chimico.
Sino da quando era studente egli dimostrò una spiccata predilezione per la chi-
mica, e specialmente per la chimica applicata. Se giustizia ci obbliga a non mettere
il Cossa fra coloro che più hanno contribuito al progresso della chimica moderna,
si devono però riconoscere in Lui non comuni meriti scientifici e didattici; meriti,
5 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 83
che hanno tanto più valore in quanto che Egli non ebbe un indirizzo preciso nel
principio della sua carriera, ma molto dovette imparare da se stesso.
Egli poteva ben a ragione dire di se quanto scriveva Arcangelo Scacchi in una
sua lettera autobiografica:
" Conchiudo la mia confessione col dirvi che il poco che ho fatto l'ho fatto tutto
da me, con la ferma volontà di vincere gli ostacoli che ad ogni passo mi si sono
presentati „.
Le eccessive ed esagerate lodi non tornano mai ad onore di colui che vuoisi
onorare; nel fare l'elogio storico di un sapiente, per quanto modesto o grande, non
dobbiamo mai dimenticare la verità; giustamente il Voltaire diceva: " chi loda sempre
ed ogni cosa, non è che un adulatore; sa lodare colui che loda con restrizione „.
Per capire bene come il Cossa abbia dovuto studiare la chimica da sé, inizian-
dosi in ricerche che solamente avevano indiretta relazione colla chimica, e diven-
tasse poi anche un buon autodidattico, bisogna pensare allo stato di questa scienza
in quel tempo; tra il 1850 e il 1860.
Quando in Francia fiorivano : Dumas, Laurent, Gerhardt, Cahours, Wurtz, Ber-
thelot, Deville; in Germania: Liebig, Wohler, Bunsen, Kolbe, Hofmann, Strecker,
Kekulé; ed in Inghilterra: Graham, Williamson, Frankland, Odling; in Italia, oltre al
Malaguti che viveva in Francia, non avevamo che Piria, Selmi e Sobrero, dei quali
uno solo aveva una cattedra universitaria con meschini mezzi di studio, il Piria,
prima a Pisa, poi a Torino.
Ma anche questi chimici, onore del nostro Paese, non avevano ancora una scuola,
lavoravano per proprio conto, con pochissimi allievi; erano come punti luminosi in
una notte oscura.
In quel tempo la maggior parte delle cattedre universitarie di chimica erano
occupate da uomini il cui insegnamento era puramente teorico, o meglio, cattedra-
tico, e anche questo fatto in modo assai poco conforme ai grandi progressi della
chimica di quel tempo. A Padova, a Pavia, a Roma, a Napoli, a Bologna, a Pa-
lermo, ecc., vi erano laboratori universitari, alcuni dei quali assai vasti e ben forniti
di materiale scientifico, come a Padova per esempio, ma nei quali non si studiava, non
si lavorava; l'insegnamento della chimica era nello stato in cui si trovava negli
altri paesi sessantanni prima, e forse peggio.
A Milano insegnava allora la chimica, nella Scuola annessa alla Società di Inco-
raggiamento, il Krarner; il quale aveva viaggiato, studiato a Parigi, era stato amico
di Laurent, che aiutò anzi in alcune ricerche. Il Cossa sino da quando era studente
seguì le lezioni del Kramer. Ma se questo chimico fu benemerito della industria lom-
barda, certamente non era da annoverarsi fra i maestri che potessero dare un indi-
rizzo scientifico. Ed il Cossa, per quanto fosse grato al Kramer, e spesso lo ricordasse,
confessa candidamente che nel 1858 non sapeva dove studiare chimica. Nella sua let-
tura tenuta il 3 novembre all'Accademia Olimpica di Vicenza Sulla vita e le opere di
Angelo Seda, cosi si esprime:
" L'idea di l'accogliere notizie sulla vita e le opere di Angelo Sala è sórta in
me già da molto tempo, risalendo essa all'anno 1858. Appassionato per la chimica,
ma costretto ad un amore platonico, perchè in quel tempo all'Università di Pavia
non era concesso ai giovani studiosi di dedicarsi a ricerche sperimentali in un labo-
84 ICILIO GUARESCHI 6
ratorio, cercava di assecondare la mia inclinazione coll'applicarmi, come sapeva e
poteva, allo studio della storia della scienza. Fu per tale circostanza, che mi accadde
di leggere ripetuta in diverse opere questa sentenza di Conringio, erroneamente dalla
maggior parte degli scrittori attribuita ad Haller: " Angelo Sala vicentino fu il primo
chimico che desistesse dal vaneggiare „. Angelo Sala? Chi era egli? „, ecc.
Eppure erano tempi in cui in altri paesi la mente dei chimici lavoratori, cioè
dei veri chimici, era agitata dalle idee berzeliane e dalle idee gerhardiane; e tutti
i. giovani chimici più intelligenti abbracciavano le nuove idee che con Dumas, Lau-
rent, Malaguti, Cahours, Williamson, ed altri avevano portato al sistema di Gerhardt,
di questo grande e sfortunato riformatore. Dal 1852 al 1856 Gerhardt pubblicò quel
suo grande Tratte de Chimie organique, che tanta influenza doveva avere sui progressi
della scienza.
I giovani chimici tedeschi ed inglesi prima ancora dei francesi, con a capo il
Williamson e specialmente il Kekulé, divennero tutti sostenitori della nuova teoria
dei tipi.
Ma venne il grande anno 1859, preparato dal 1848, e l'Italia rapidamente, anzi
forse un po' troppo rapidamente, entrò nel movimento civile, politico e scientifico
europeo. Il nostro nuovo reggimento costituzionale, che può anche essere essenzial-
mente democratico, perchè, come l'inglese, permette lo sviluppo delle idee più libere
e più progressiste, contribuì non poco alla diffusione del sapere nella nostra Penisola.
E qui permettetemi un'altra breve digressione, che è intimamente legata a me-
morie giovanili di quei tempi fortunosi.
Fatte le debite eccezioni, dobbiamo esser persuasi che i governi assoluti, quali
erano in Piemonte prima del 1848 e nel resto d' Italia ancor prima del 1859, non
hanno mai desiderato e promosso il progresso scientifico, come non lo poteva desi-
derare né promuovere il governo degli Stati Pontifici. A prova di ciò sta il fatto
che, come già nel secolo XVIII, cosi sul principio del secolo XIX, o per trascuranza
di governi, o per cause politiche, o per mancanza di mezzi» di studio in patii a,
molti nostri grandi connazionali dovettero spontaneamente, o per forza, abbandonare
l'Italia, e basti ricordare Lagrange, Berthollet, Pellegrino Rossi, Macedonio Melloni,
Malaguti, Mamiani e tanti altri.
La scienza, il sapere umano, per progredire, ha bisogno di libertà, ha bisogno
che la mente non sia inceppata da dogmi, siano essi politici o religiosi. Se in certi
periodi della storia sembra che almeno qualche volta i governi assoluti abbiano pro-
tetto la scienza, si è perchè non ne potevano impedire lo sviluppo, perchè sapevano e
sanno, se intelligenti, che le idee non si possono a lungo arrestare od inceppare, e che
il sapere è molto più potente di qualunque forza materiale, di qualunque forza brutale.
Dopo aver detto dei principi italiani del secolo XV, l'insigne nostro storico delle
scienze matematiche in Italia, il Libri, così continua (1) :
" Ecco quel che furono nel secolo quindicesimo i principi italiani e quei Medici
che si è voluto immortalare e a cui gli stranieri si ostinano ancora ad attribuire il
Rinascimento.
(1) Histoire des sciences mathématiques en Italie depuis In renaissance des letires, par G. Libri, 1838,
voi. II, p. 282.
7 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 85
" I veri benefattori dell'Italia, coloro che le resero il suo antico splendore, non
furono gli uomini che l'oppressero. Poiché, ed è bene ripeterlo, i tiranni non hanno
fatto mai la gloria di una nazione.
" L'Italia deve il suo splendore a quegli uomini coraggiosi che, in un'epoca di
barbarie, andavano in lontane contrade a cercare la scienza presso gli infedeli, nono-
stante i pregiudizi che avrebbero dovuto distoglierli, nonostante i mille pericoli che
li minacciavano. Non si può pensare senza commozione a quegli uomini infaticabili
che nulla spaventava e che, senza speranza di ricompensa, facevano tanti sforzi per
introdurre presso i cristiani le scienze degli Àrabi. Gherardo da Cremona e Platone
da Tivoli hanno fatto più per le scienze che non tutti i principi del quindicesimo
e del sedicesimo secolo. Dopo quei primi maestri, l'Italia deve la sua civilizzazione
agli uomini che l'hanno redenta dalla feudalità, ai poeti e agli artisti che le hanno
ispirato quel sentimento del bello tanto sparso ancora nel popolo italiano, a coloro
che le hanno aperto le sorgenti dell'antichità. È la democrazia che ha fatto tutto,
in Italia: il dispotismo ha voluto arrestare tutto. La lotta fra questi due principii
è stata lunga e ostinata; essa ricomincia ad ogni momento; ma se si domandasse
alla monarchia che cosa essa ha. fatto dell'eredità di Fibonacci, di Marco Polo, di
Dante, di Brunellesco, come essa ha continuato Colombo, Macchiavelli, Ferro, Leo-
nardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo, Ferruccio, glorioso deposito che la democrazia,
morendo, le aveva confidato, essa non saprebbe rispondere che indicando lo Spielberg „.
A proposito di queste parole del Libri si dirà forse da alcuni che sono viete
espressioni retoriche; ma chi ha visto, e sentito, almeno il 1859, chi ricorda lo stato
politico, morale e scientifico della nostra Italia, se si eccettui il Piemonte, prima
del 1859, quando il nostro Paese era ancora sotto il dominio straniero, o, peggio
ancora, sotto i piccoli principotti indigeni, non può a meno di fremere e sente tutta
la forza delle parole del Libri; e si pensi, che queste parole furono scritte nel 1836,
quando l'Italia tutta, compreso il Piemonte, era prostrata dalla più feroce reazione.
Tempi lontani ormai, è vero, ma che è bene non dimenticare.
Ed è con vivissimo entusiasmo che io penso come fra pochi giorni la vicina
Asti festeggierà il centenario del Grande suo Figlio, di colui che, dopo Dante e
Macchiavelli, è stato il vero precursore e fondatore della nuova Italia.
Lo stato della chimica in Italia, eccetto in pochissime Università, dal 1850
al 1860, era, come già dissi, tutt'altro che confortante. A Torino si traducevano le
Opere del Regnault, si pubblicavano gli Annuari di chimica ed i Trattati elementari
di chimica minerale ed organica del Selmi; gli Annali del Maiocchi, prima a Milano,
poi a Torino, ecc.; a Pisa si pubblicava il Nuovo Cimento diretto da Matteucci e Piria,
ed il Trattato di chimica inorganica di Piria. Queste erano le sole pubblicazioni che
tentassero di tenere al corrente dei grandi progressi della chimica.
Quando il Cossa incominciò la sua carriera scientifica, verso il 1860, avveniva
spesso che per necessità di cose e principalmente pel bisogno di numerosi inse-
gnanti, vere nullità scientifiche ottenessero splendidi posti. Basti il ricordare che a
Bologna fu dal Dittatore Farini creata una cattedra speciale di chimica organica,
unica in Italia, che fu affidata ad un professore chiamato da Parma ove insegnava
pure chimica organica ; e ciò senza che quel professore avesse nessun titolo scienti-
fico, oltre quello di essere stato due o tre anni nel laboratorio di Piria a Pisa, man-
gg ICILIO GUAEESCHI o
tenutovi a spese del Governo borbonico parmense d'allora; ed i colleglli del tempo
sanno, ed io posso farne certissima testimonianza, che la principale occupazione del
professore e degli addetti a quell'Istituto chimico consisteva nel passare il tempo
in allegra compagnia, essendo assolutamente vietato usare libri del laboratorio o
fare esperienze! E quella cattedra fu occupata in tal modo per 22 anni! E quando
nel 1883, quella cattedra avrebbe potuto essere affidata ad un vero chimico, certa-
mente con ottimi frutti, il Governo l'abolì, o meglio, la fuse insieme colla cattedra
di chimica inorganica.
È dunque non lieve merito del Cossa l'aver fatto da sé stesso; senza un grande
maestro, senza, come suol dirsi, una scuola, egli è riuscito a forza di volontà e di
fermezza a fare molto più di altri che hanno avuto delle guide sicure.
Il Cossa era ancora assai giovane quando nel 1856 tradusse dalla 2a edizione
quell'aureo libretto del Liebig intitolato: I principii fondamentali della chimica agraria
in relazione alle ricerche istituite in Inghilterra; egli dedicò questo suo primo lavoro
al sacerdote don Giuseppe Villa, aggiungendovi alcune note.
A questa, fece seguito nel 1857 la traduzione di un altro libro del Liebig:
La teoria e la pratica dell'agricoltura. E così il nostro Cossa contribuì non poco, in
quel tempo, a far conoscere libri utilissimi al progresso dell'agricoltura.
Nel 1859 (1), quando era ancora assistente alla cattedra di Medicina legale e
Polizia medica, nell'Università di Pavia, pubblicò il suo primo studio: Sull'assorbi-
mento delle vnìicì: considerazioni e ricerche; in cui si scorge già il desiderio delle
ricerche chimiche, ma insieme anche la mancanza di un vero indirizzo scientifico.
La Società di Farmacia di Torino aveva proposto un premio di L. 500 per lo
Studio dei semi di rìcino; il Cossa, insieme col prof. Nallino, nel 1862 presentò una
memoria che fu premiata con L. 200. Cossa fu allora nominato Socio corrispondente
di questa Società.
Il Cossa verso il 1867 non aveva ancora pubblicato delle ricerche chimiche che
rivelassero la via che intendeva seguire ; se si eccettuano tre o quattro lavori di
secondaria importanza, uno Sulla determinazione di alcune proprietà fisiche e chimiche
delle terre, coltivabili (nel 1866), e alcune ricerche Sulla dialisi (1863); un altro, fatto
insieme al suo amico Carpené nel 1864: Sulle reazioni caratteristiche degli alcaloidi; poi
Alcune osservazioni sull'ozonometria (1867) ed Alcune, osservazioni sul magnesio (1867).
Nel 1868 pubblicò un lavoro Su alcune, proprietà dello zolfo e sulla sua solubilità.
Le sue relazioni amichevoli col S.ella e col Gastaldi lo spinsero a dedicarsi alla
chimica mineralogica ed alla petrografia ; ed è qui dove l'opera scientifica del Cossa
si è maggiormente esplicata. Il suo primo lavoro presentato alla nostra Accademia
è una nota dal titolo: Ricerche di chimica mineralogica, letta il 27 dicembre 1868 e
pubblicata negli Atti, voi. IV, pp. 187-200. Il suo studio Su alcuni carbonati romboe-
drici (2) lo condusse a studiare la solubilità del carbonato di magnesio (magnesite)
nell'anidride carbonica a pressioni crescenti da 1 a 6 atmosfere. Però, ad onor del
vero, bisogna dire che queste ricerche non poterono essere confermate.
(1) " N. Cim. „ (I), IX, pag. 121-153.
(2) " Berichte „ 1869, pag. 697.
9 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 87
Cossa fu uno dei primi, se non il primo, a far notare l'azione dell'alluminio
sulle soluzioni metalliche, nel 1870; l'alluminio precipita le soluzioni di rame, di
mercurio, di piombo, ecc., e questo modo di agire corrisponde alle ricerche del
Wheatstone per stabilire la posizione dell'alluminio nella serie elettrochimica. Il
Cossa si occupò anche dell'amalgama dell'alluminio, il quale in certi casi può usarsi
come un buon agente riduttore.
Nel 1872 studiò inoltre l'azione del gesso sulla solubilità delle roccie; una solu-
zione di solfato di calcio agisce molto più rapidamente che non l'acqua pura sulle
roccie contenenti silicati alcalini; egli esperimento con gneis, trachite, granito, feld-
spato, basalto, ecc.
Il E. Gomitato Geologico Italiano, di cui egli stesso insieme a Sella e Gastaldi
era membro, lo incaricò di fare lo studio petrografico delle roccie italiane, pel quale
ebbe aiuti finanziari e di personale tecnico, non lievi. Egli studiò e classificò, special-
mente, un gran numero di roccie raccolte dagli ingegneri del Corpo Reale delle Miniere.
Il Cossa è stato forse il primo in Italia ad iniziare gli studi petrografici, già
in fiore nella Germania per opera principalmente dello Zirkel e del Kosenbusch. Ed
invero il C'ossa stesso riconosce che nelle prime sue osservazioni microscopiche sulle
roccie ebbe a guida specialmente il Rosenbusch, professore di petrografia prima in
Strassburg poi in Heidelberg. Questi studi petrografici egli raccolse in un grosso
volume dal titolo: Ricerche elamiche e microscopiche su roccie e minerali d'Italia (1875-
1880) con 12 tavole cromolitografiche, che fu pubblicato nel 1881 coi fondi notevoli
di cui dispone la Stazione agraria di Torino di cui Cossa era allora Direttore. In
questo lavoro ebbe a collaboratore il suo allievo ing. Mario Zecchini.
Nella prefazione a questo suo lavoro, egli così si esprime (pag. 1): " Tra i com-
piti affidatimi come Direttore del laboratorio chimico della Stazione agraria di
Torino, mi fu specialmente raccomandato lo studio chimico delle terre coltivabili del
Piemonte. Dovetti ben presto persuadermi che questo studio sarebbe riuscito di poca
importanza se non era accompagnato da quello delle roccie, che colla loro decompo-
sizione contribuiscono alla formazione dello strato coltivabile. Pertanto, a partire
dagli ultimi mesi dell'anno 1874, mi sono accinto a studiare la composizione chi-
mica e mineralogica delle principali roccie del Piemonte, attenendomi, per quanto mi
era concesso, ai più recenti progressi della petrografia „. E più innanzi scrive (pag. 18):
" Grazie ai mezzi di cui può disporre il laboratorio chimico da me diretto, ho potuto
in breve tempo ordinare una collezione di circa 1800 sezioni in piccolo formato
e 800 in grande formato. Questa collezione, che verrà inviata temporaneamente al Con-
gresso Geologico Internazionale di Bologna nel settembre 1881, si riferisce a circa
900 roccie italiane, inviatemi per la massima parte dal R. Comitato Geologico Italiano „.
In questo volume sono raccolte le sue analisi sulla sienite elei Biellese, la diorite
quarzifera porfiroide di Cossato (Biella), la diabase peridolifcra di Mosso nel Biellese, ecc.
Lo studio della Lherzolite di Locana è, come afferma il Cossa stesso, il primo
lavoro di chimica mineralogica pubblicato in Italia, nel quale siasi applicato l'uso del
microscopio (1).
(1) Rieerclie intorno alla Lherzolite di Locano in Piemonte, " Atti della R. Acc. delle Scienze di
Torino „, 1874, voi. IX.
88 ICILIO GUARESCHI 10
Dietro iniziativa del Cossa il Governo fondò in Roma un Laboratorio petrogra-
fia) annesso al R. Ufficio Geologico; laboratorio che funziona dal 1889 ed è diretto
da un allievo del Cossa, l'ing. Ettore Mattirolo, che fu collaboratore del suo maestro
in alcuni lavori.
Lo studio chimico delle roccie lo portò ad utili applicazioni alla chimica agraria.
Come già fecero Seufter, Stockhardt, Handke, Tschermak ed altri, egli determinò
l'acido fosforico in molte roccie italiane. Nella Introduzione alle sue: Ricerche chimiche
e microscopiche su roccie e minerali d'Italia, a pag. 7 dice:
" Mentre è già da molto tempo che venne richiamata l'attenzione degli agri-
coltori sull'importanza dell'introduzione dei fosfati nei terreno per sostituire quella
quantità di fosforo che gli si sottrae ogni anno colle diverse coltivazioni, solamente
da pochissimi anni si è generalmente riconosciuta la necessità di determinare la
quantità di fosforo che trovasi naturalmente nel terreno coltivabile e nelle roccie
dalla cui disgregazione esso deriva. Da analisi recenti risulta che quasi tutte le
roccie cristalline contengono del fosfato tricalcico sotto forma di apatite, in quantità
che sembrano, è vero, relativamente piccole, ma che pure sono considerevoli, quando
si pensi che anche il terreno più fertile raramente contiene più dell'uno per cento
di anidride fosforica ,.
Abbandonato lo studio delle roccie, iniziò nel 1885 delle ricerche sul platino, che
lo condussero alla conoscenza di alcuni fatti non privi di importanza; anzi le sue
ricerche sui composti ammoniacali del platino sono le più importanti ch'egli abbia fatto (1).
Magnus nel 1828, trattando il cloruro platinoso con ammoniaca, ottenne un bel
composto verde, che fu denominato sale verde di Magnus e che si considerò poi come
cloroplatinito di platosod lamina :
Pt . (NH3)1 . CI2 . Pt CP.
A queste ricerche del Magnus, che aprirono una nuova via, fecero seguito quelle
di Gros (1838), di Reiset (1840-1844), di Peyrone (1846), di Gerhardt e Laurent
(1850), di Raewsky (1848), di Cleve (1866-1871) e le speculazioni teoretiche di Ber-
zelius, di Hofmann, di Cleve, di Weltzien, di Kolbe e di Grimm, e poi gli studi
più recenti del Blomstrand (1869) e del Jorgensen (1878 e 1887).
Il Cossa nel 1885 scrisse la commemorazione di Q. Sella per incarico avuto dal-
l'Accademia dei Lincei, ed in quell'occasione dovette far cenno delle Ricerche sulle
forme cristalline di alcuni sali di platino a base di platinodiamina, che il Sella aveva
pubblicato nel 1856-57; queste ricerche gli suggerirono l'idea di accingersi a nuovi
studi sulle proprietà di alcuni dei derivati ammoniacali del platino; lo dice egli
(1) Sugli isomeri del sale verde di Magnus {' Atti della R. Acc. dei Lincei ,, I, pag. 318-319 e
" Bericlite „, XVIII ReC, pag. 429); Ricerche sulle proprietà di alcuni composti ammoniacali del platino
(" Atti della R. Aec. delle Scienze di Torino „, 1887, XXII; * Berichte .. XX Ref., pag. 462; " Gazz.
chim. „, XVII, pag. 1); Sopra un nuovo isomero del sale verde di Magnus (" Berichte „, XXIII, pag. 2503;
" Mem. della R. Acc. delle Scienze di Torino „, serie II, t. XLI ; Sulla costituzi
di platosemiammina f Uli della R. Acc. delle Scienze di Torino „, 1897, t. XXXII): Sulla reazione
di Anderson (" Atti della R. Acc. dei Lincei „, 1893 (5), II, 2° aem.); Nuove ricerche su/In e,
Anderson (ivi, voi. 5°, 1896): Riassunto 'li alcune lezioni sul /'ialino e sue principali combinazioni
(Opuscolo litografato, Torino, 1891).
11 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 89
stesso nella sua prima nota presentata il 3 maggio 1885 all'Accademia dei Lincei.
Queste ricerche l'occuparono poi per molti anni.
Ebbe la fortuna di poter disporre di grande quantità di platino; subito gli
furono dati i mezzi per l'acquisto di mezzo chilogrammo di questo prezioso metallo,
ed inoltre la Stazione agraria di Torino aveva grandi mezzi per ricerche scientifiche,
mezzi di cui possono disporre pochi laboratori universitari.
Egli ottenne alcuni composti ben definiti di una base del platino contenente
una sola molecola di "ammoniaca e che denominò, prima, platososemiammina, poi,
platosemiammina ; i due composti principali che egli ottenne sono: il cloruro di po-
tassioplatosem i< / ni m ina :
Cl-'PtNH3 . KC1 + H20
e un isomero del sale verde di Magnus :
(Pt^H3CI )2. Pt (NH3)4C12.
Questa nuova base del platino, che ora e anche denominata base di Cossa, non
si conosce libera sotto forma di idrossido quale:
p. /NH3 . OH
oppure :
HO\p./NH3.OH
HO/rt\OH
Nel 1887 indicò un nuovo metodo di preparazione del cloruro platinoso- cloruro
di cloroplatindiamina :
CI2 Pt (NH3)4 CI2 + Pt CI2
e del cloruro : Pt (NH3)4 CI2 + Pt CI4.
Queste ricerche lo condussero a studiare l'azione dell'acqua e del calore sui
cloroplatinati delle basi piridiniche, per vedere se anche questi composti subiscono
la reazione di Anderson; egli dimostrò che appunto anch'essi sottostanno a questa
reazione.
Mi piace qui ricordare che un altro distinto chimico italiano si era già occu-
pato con buoni risultati delle basi del platino. Michele Peyrone, di Torino, nel 1845
ottenne i sali di una base che fu detta base di Peyrone ; ad esempio il cloruro di
platososemidiamina :
p, /NH3 . NH3 . CI
rt\Cl
Il Cossa in seguito ai suoi studi di chimica mineralogica e di petrografia ebbe
ad occuparsi della diffusione in natura di alcuni metalli rari, quali il litio, il cerio,
il didimio. Nelle sue Ricerche di chimica mineralogica (1868) indicò la presenza del
litio nel gneiss erratico nella morena di S. Daniele nel Friuli, nella trachite di Monte
Chiaju, nel basalto di Monte Nuovo negli Euganei e nel granito di Baveno.
Serik II. Tom. LUI. l
90 ICILIO GUARESCHI 12
Trovato il cerio nelle apatiti, studiò la diffusione di questo elemento insieme al
didimio ed al lantanio (1). Egli anzi ebbe occasione di confermare il fatto della fre-
quente associazione del cerio al calcio, e perciò fece delle esperienze per tentare di
dimostrare l'isomorfismo ed altre analogie fra l'ossido di calcio e l'ossido di cerio:
CaO ossido di calcio
CeO ossido ceroso.
Ma oggi la gran maggioranza dei • chimici ammette 'che il cerio nei sali cerosi
funziona come trivalente o cerojone, Ce'", e nei sali cerici come tetravalente o ceri-
Jone, C", come ad esempio:
Ce2 (SO4)3 solfato ceroso
Ce (SO*)2 + 4H20 solfato cerico.
Ciò però, come giustamente osserva il prof. Piccini nel suo cenno necrologico su
Cossa (2), nulla toglie al lavoro in quanto riguarda la diffusione di questo metallo
in natura.
Nel 1873 il Cossa osservò, come aveva già trovato il Crookes, che lo zolfo di
Vulcano contiene del tallio, ma egli riconobbe di più, che il tallio sotto forma di
allume si trova nell'allume potassico che si fabbrica a Vulcano ; ed inoltre dimostrò
che questo allume contiene traccie di allume di cesio e di rubidio, e del solfato
di litio (3).
Il Cossa ha lavorato molto; incominciò tardi, è vero, i lavori di chimica, ma
proseguì per molto tempo ; sino a che in questi ultimi anni l' insegnamento, i pub-
blici uffici, e specialmente la Direzione della Scuola di Applicazione per gli Inge-
gneri lo distolsero in parte dalle ricerche scientifiche.
Alfonso Cossa, che ha fatto parte della nostra Accademia per più di trenta anni,
ha scritto molti cenni biografici, quali quelli su Piria, su Sella, sullo Scacchi, ecc., ma il
più importante di questi suoi lavori biografici è senza dubbio quello su Angelo Sala.
Colla sua lettura: Angelo Sala, medico e chimico vicentino del secolo XVII (Vicenza,
1894, pagg. 1-42) contribuì non poco a far conoscere questa gloria della chimica ita-
liana. Certamente il Sala non era tanto poco conosciuto come pensava il Cossa, perchè
ed il Kopp (4) e l'Hoefer (5) ed altri storici della chimica parlano con onore di A. Sala;
ma il nostro Cossa ha potuto esaminare nuovi documenti, ha raccolto alcune notizie
nelle biblioteche estere e nazionali, e ci ha dato un quadro, ampio, se non completo,
della vita e delle opere del Sala.
il) Sulla diffusione del cerio, del lantanio, del didimio, " Mera. Acc. dei Lincei ,, 1879 (3), voi. III.
(2) A. Piccini, Commemorazione del Socio Prof. A. Cossa, letta nella seduta 2 nov. 1902. " Atti
R. Acc. de' Lincei „, voi. XI, 2° sem, pag. 235-238.
(3) * Mem. Acc. Lincei „, 2 die. 1877.
(4) H. Kopp, " Ges. d. Chem. „, 1843, voi. I, pag. 115-116; è molte volte citato nei volumi II,
III e IV.
(5) F. Hoeff.r, Hist. de la Chimie, l1 ed., 1843-45, e 2* ed., 1866, voi. I, pag. 208-214. L'Hoefer
mette il Sala ed il Tachenius alla testa dei jatrochimici che si sono distinti nel secolo XVII.
13 COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 91
Farò notare che ad Angelo Sala si deve il primo concetto teorico-scientifico
sulla fermentazione, che egli definisce: un movimento intimo delle particelle elementari,
che tendono a raggrupparsi in un ordine differente, per dare origine ad un corpo nuovo (1).
Idea questa che fu poi sviluppata da Willis (1659), da Stahl (1697) e specialmente
dal Liebig (1837). Ed io stesso, che ho dovuto occuparmi dei lavori di Angelo Sala,
sono di avviso che si debba considerare questo chimico, non quale uno dei più grandi
precursori di Lavoisier, come vorrebbe il Cossa, ma certamente un precursore efficace
della vera chimica sperimentale del secolo XVIII, cioè un precursore di Black, di
Priestley e di Scheele; Lavoisier non solamente era grande esperimentatore, ma
grande chimico legislatore, o chimico-filosofo.
È spiacevole vedere dei trattatisti italiani anche recenti dimenticare affatto
Angelo Sala nella storia, ad esempio, della fabbricazione dell'acido solforico.
Chi ha conosciuto intimamente il Cossa può giudicarlo al suo giusto valore come
uomo e come amico, ed io non posso fare di meglio che trascrivere qui un brano
di un cenno necrologico letto dal prof. Luigi Gabba, amicissimo suo, alla Società
Chimica di Milano (2) :
" Del Cossa dobbiamo a questo riguardo dire che era un uomo di cuore, fedele
nell'amicizia, pronto a fare del bene, lontano da ogni leziosità, ed anzi naturalmente
inclinato ad essere, non dico ruvido e burbero, ma piuttosto severo e rigido. Sopra
ogni cosa egli poneva il suo ufficio di maestro ed il suo compito come scienziato,
sopra ogni cosa egli poneva l'adempimento della missione sua; alla religione del
dovere egli informò la sua vita sempre aliena da quell'utilitarismo egoista che pur-
troppo è un fenomeno sempre più frequente nei tempi moderni „.
Tali sono, brevemente riassunti, i lavori del nostro compianto Presidente; ma
non posso terminare di parlare di Lui senza prima esprimere un augurio al collega
carissimo, professore Enrico D'Ovidio, che gli è succeduto nella carica e che, ami-
cissimo suo, più di ogni altro ne ha sentito la perdita dolorosa; gli sia di conforto
il pensiero di continuare l'opera dell'amico estinto, sia Egli conservato per lunghi e
lunghi anni ancora a quest'Accademia di cui è decoro, e noi saremo lieti di salutare
in lui il saggio continuatore dei nobili ed elevati esempi di tanti suoi illustri pre-
decessori.
Non so se io sia riuscito a dire degnamente di Colui a cui era oggi dedicata la
nostra ora di riunione; noi tutti lo abbiamo conosciuto e la sua figura, quale ci
apparve per tanti anni al seggio presidenziale, è ancora viva dinanzi al nostro pen-
siero ; mandiamogli il mesto saluto dell'amicizia e l'omaggio che è dovuto a chi spese
nel lavoro onesto la vita. La commemorazione di un defunto è sempre cosa triste;
pure, qualche dolcezza, qualche segreta luce di serenità, deve venirci oggi dal pen-
siero che chi lavorò, non muore del tutto: e anche quando il suo corpo sia polvere, e
anche quando sul suo nome 1' onda assidua del tempo sia passata, qualcosa di lui
rimane, qualcosa che non può morire; ed è la parte, sia immensa, sia minima, ch'egli
ha avuto nel continuo evolversi del progresso umano.
(1) Hoefer, loc. cit., II, pag. 210.
(2) " Annuario della Soc. Chini, di Milano „, 1902, fase. Vili, p. 184.
92 ICILIO GUARESCHI COMMEMORAZIONE DI ALFONSO COSSA 14
E qui mi vengono alla mente le parole di Carlyle, il profondo, smagliante,
geniale autore degli Eroi: " l'uomo è nato per lavorare, non per godere!... lavorate
e producete; sia pure la più misera ed infinitesima frazione di un prodotto, producete!
Ogni genere di lavoro, dal più intellettuale al più manuale, è sacro, e dà pace allo
spirito umano „.
E noi, che al lavoro abbiamo consacrata la nostra vita, che al lavoro attin-
giamo la nostra forza e la nostra gioia, diciamo addio al compagno che ha raggiunto
il riposo, e proseguiamo la nostra via; ci stia nel cuore il ricordo amoroso di coloro
che furono, ci sorrida nell'animo la fede profonda nell'avvenire.
CONTRIBUZIONI
ORNITOLOGIA DELLE ISOLE BEL GOLFO DI GUINEA
in.
UCCELLI DI ANNO-BOM E DI FERNANDO PO
PER
TOMMASO SALVADOR!
Approvata nell'Adunanza dell' 8 Marzo 1903.
UCCELLI DI ANNO-BOM
L'Isola Anno-Bom, o Annobone, come è talora chiamata dagl'Inglesi, fu scoperta
nel 1473 dai Portoghesi, i quali la chiamarono col nome di Anno-Bom, ossia del
Capo d'anno ; essa è la più piccola e la più lontana di quelle elevate in una serie
lineare da azione vulcanica procedente dai Monti Cameron verso sud-ovest, e s'inalza
ripidamente dal mare profondo fino a circa 3000 piedi di altezza. Anno-Bom fu visi-
tata dalla nave da guerra " Wilberforce „ durante la spedizione del Niger, e nel
secondo volume della " Narrative of the Expedition „, pp. 47-66, se ne trova una
estesa descrizione. Ivi è descritta anche la caccia della Gallina di Faraone.
Ma fu soltanto nel 1892 cheli sig. Francisco Newton visitò l'isola di Anno-Bom
per ricerche scientifiche, trattenendovisi dal 19 novembre 1892 fino al principio di
gennaio del 1893; le collezioni che egli vi fece furono inviate al Museo di Lisbona,
ove furono studiate dal Barboza du Bocage ; la collezione ornitologica comprendeva
14 specie, delle quali due nuove (Terpsiphone newtoni e Zosterops griseorirescens), una,
la Turtaroena malherbeì, comune anche alle isole del Principe e di San Thomé, le
altre, per la maggior parte acquatiche e marine, aventi larga distribuzione in Africa.
Il sig. Leonardo Fea ha visitato recentemente anche l'Isola Anno-Bom, racco-
gliendovi 49 esemplari di uccelli appartenenti ad 8 specie, due delle quali non tro-
vate dal Newton, cioè una Scops ed una Haplopelia appartenenti ambedue a specie
nuove.
Sono quindi 16 le specie di uccelli che si conoscono di Anno-Bom; ma non è
improbabile che altre specie, particolarmente dell'ordine dei Passeres, e forse nuove,
vivano nell'interno dell'isola, ove all'altezza di 220 metri, circondata da alti picchi,
esiste una laguna, che occupa, a quanto sembra, il cratere di un vulcano estinto.
Ad ogni modo, povera è la fauna dell'isola, e tale povertà è in accordo colla
piccolezza della medesima.
94 . TOMMASO SALVADuRI
Bibliografia Ornitologica dell'Isola Anno-Boni.
(1893) Barboza du Bocage, J. V., Note sur deux oiseaux nouveaux de l'Ile Anno-Bora (Jorn. Se. Lisb. (2)
No. IX, pp. 17-18) (Terpsiphone neivtoni, Zosterops griseovirescens).
(1893) , Mammiferos, Aves e Reptis da Ilha de Anno-Bom (ibid., Aves, pp. 44-45).
1. Terpsiphone newtoni, Boc.
Terpsiphone newtoni, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), IX, pp. 17, 44 (Anno-Bom) (1893). — Dubois,
Syn. Av. (fase. IV), p. 281, n. 3885 (1900). — Sharpe, Hand-List, III, p. 265, n. 22 (1901).
Bibi, nome degli abitanti di Anno-Bom (F. Netctun).
a (26) <? ad. Laguna, Anno-Bom, 23 maggio 1902. " Becco e margine palpe-
brale azzurro-cobalto; piedi dello stesso colore, ma più sbiadito „ (Feo).
b (29) e ad. Monte Santiago, 300-350 m. alt., Anno-Bom, 31 maggio.
Questi due esemplari hanno le piume del corpo di color rugginoso vivo; le piume
della testa di un nero vellutato; le due timoniere mediane da 15 a 20 millimetri più
lunghe delle altre.
e, d (22,28) <?<? juv. Laguna, 22, 30 maggio.
Simili ai due precedenti, ma col colore rossigno-rugginoso meno vivo, colle piume
della testa più brevi e meno vellutate, colle due timoniere mediane meno lunghe, e
colle piume nere della gola marginate di bruniccio.
e-h (23, 24, 25, 27) ss Laguna, 24, 27 maggio.
Le femmine differiscono dai maschi per avere le piume della testa più corte e
di un nero meno intenso e meno vellutato, le piume del dorso e le cuopritrici delle
ali di color rossigno-olivastro e le parti inferiori di color rugginoso chiaro.
L'esemplare g, più giovane delle altre femmine, ha la gola nero-grigiastra.
Questa specie somiglia alla T. nigriceps, ma ne differisce principalmente per la
coda color plumbeo e non di color castagno. È un fatto singolare la somiglianza di
questa specie colla T. nigriceps di Fernando Po e non colla specie che si trova nella
interposta isola di S. Thomé.
2. Zosterops griseovirescens, Boc.
Zosterops griseovirescens, Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), IX, pp. 18, 44 (Anno-Bom) (1893). —
Shell., B. Afr., II, p. 186 (1900). — Finsch, Das Tierreich, Zoster o pitia e, p. 39 (1901). —
Dub., Syn. Av. (fase. X), p. 711, n. 9189 (1902).
a-c (2, 4, 13) dV Anno-Bom, 15, 8, 23 aprile.
d-h (1, 3, 5, 6, 14) 89 Anno-Bom, 16 aprile-I0 maggio.
" Abbondantissima tanto nella foresta, quanto nella parte diboscata dell'isola.
Nome indigeno Bicili „ (Fea).
Le femmine sono simili ai maschi.
3 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 95
Supra olivacea, sincipite et supracaudalibus vix laetioribus; annulo periophthalmico
niveo; loris et taenia suboculari nigris; gula et collo antico albis; gula interdum vix
flavido-tincta ; pectore et lateribus paullum fuscescentibus ; subcaitdalibus flavidis; remigibus
fuscis exterius olivaceo-, intus albo-limbatis ; rectricibus fuscis, olivaceo limbatis; rostro
fusco; pedibus fusco-corneis; iride brunnea (F. Newton). — Long. tot. irai. 125; alt. 60;
caud. 45; rostri culm. 12; tarsi 22.
Questa specie è notevolmente diversa dalle altre due delle isole del Golfo di
Guinea, cioè dalla Z. ficedulina dell'Isola del Principe e dalla Z. feae di S. Thomé,
dalle quali si distingue facilmente per le dimensioni maggiori, per le parti inferiori
bianchiccie e non giallognole, e per le parti superiori meno verdi e più olivacee.
3. Coccystes glandarius (L).
Oxylophus glandarius, Boc, Jorn. Soc. Lisb. (2), III, p. 44 (Anno-Bom) (1893).
4. Milvus aegyptius (Gm.).
Milvus aegyptius, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), III, p. 44 (Anno-Boni) (1893).
5. Scops feae, nov. sp.
Scops S. capensi similis, sed coloribus saturatioribus, lineis nigris in medio plu-
marum gastraei latioribus, ac praesertim maculis seu fasciis pallidis in pogonio interno
remigum tninus distinctis, basin versus evanescentibus. Long. tot. circa mm. 170;
alae 120-125; caud. 62; tarsi 24.
a (2) s Anno-Bom, 12 aprile 1902.
" Iride color paglierino verdognolo chiaro. Questo uccello abita nelle parti
boscose dell'isola; dal forte puzzo di acido urico che esso tramanda supposi che si
nutrisse di animali marini; invece lo stomaco non conteneva che frammenti d'insetti
e ragni. Nome indigeno Cucù „ (Feo).
b, e (8, 9) ,?<} Anno-Bom, 20 aprile 1902.
d (10) d" Anno-Bom, 24 aprile 1902.
e (11 ) cT Anno-Bom, 1° maggio 1902.
f (12) s .Anno-Bom, 21 maggio 1902.
" Rinvenni questo uccello abbondante in piena foresta fra i 400 e i 500 metri
d'altitudine. La sua voce ricorda quella del nostro Gufo (o Chili?), ma invece di una
sola nota risulta di un lieve trillo, molto simile a quello della Strix thotnensis, ma
d'un tono alquanto più alto. Odesi cantare anche di giorno „ (Feo).
Ho potuto confrontare gli esemplari suddetti con due della Scops capensis, l'uno
del Paese dei Niam-Niam (Piaggia) e l'altro dei Bogos (Antinorì); tanto gli uni, quanto
gli altri hanno i tarsi interamente rivestiti di piume e le dita nude; il principale
carattere che distingue la specie di Anno-Bom è nelle remiganti, che nella S. capensis
hanno il vessillo interno con fascie bianche fino alla base, laddove nella nuova specie
quelle fascie, non bianche, ma grigiastre, sono poco distinte verso l'apice ed evane-
scenti alla base.
96 TOMMASO SALVADOR] 4
Sembrandomi opportuno di confrontare questa specie col tipo della Scops hen-
dersoni Cass. (Pr. Philad. Acad., 1852, p. 186) di Angola, ho inviato l'esemplare e a
Mr. Nelson, conservatore de] Museo di Filadefia, ove quell'esemplare, tuttora unico,
si conserva. Esso fu preso in mare di faccia a Novo Redondo (Angola), e non è stato
mai identificato. La descrizione del Cassili corrisponde abbastanza bene cogli esemplari
di Anno-Bom, ma la grande distanza di questa isola da Angola non mi faceva credere
possibile l'identificazione degli esemplari di Anno-Bom colla specie del Cassin. Ed
invero il Nelson mi scrive di " avere diligentemente ■ confrontato l'esemplare da me
inviato col tipo de\Y Ephialtes hendersoni, e di aver constatato che esso è affatto
distinto. L'È. hendersoni, scrive il Nelson, è molto più chiaro e più grigio; ha la
macchiettatura molto più fina, le parti superiori molto meno macchiate di nero e di
bruno e le macchie bianche tanto sulle parti superiori, quanto sulle infei'iori in minor
numero e rese più oscure da vermicolazioni grigie. I due uccelli sono tanto differenti
nel colorito generale che si possono facilmente distinguere a distanza ...
6. Turturoena inalherbei (Verr.).
Turturoena malherbii, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), IX, p. 44 (Anno-Bom) 1893).
a. b (17, 18) fj Anno-Boni, 20. 27 aprile.
e (19) <? Anno-Bom, 3 maggio.
Simili in tutto agli esemplari di S. Thomé e dell'isola del Principe.
" Molto comune in piena foresta fra i 400 ed i 500 m. Il suo canto gutturale,
di una monotonia fastidiosa, odesi quasi incessantemente dall'aurora al tramonto.
Nome indigeno: Loia esalibavan „ (Feo).
7. Haplopelia hypoleuca, nov. sp.
<? ad. Fronte alba, sensim in colorem cinereum occipitis transeunte; collo postico
et interscapulio cinerei*, marginibus plumarum viridi, rei amethystino nitentibus; dorso,
uropygio, tectricibus alarum et supracaudalibus mediis fusco-cinereis ; gula alba; collo
antico et laterali griseo-margaritaceis, prò adjectu lucis viridi nitentibus; gastraeo medio
et subcaudalibus albis; lateribus cinereis; tectricibus alarum majoribus, supracaudalibus
lateralibus et rectricibus mediis cinereo- plumbeis , rectricibus reliquis saprà cinereo-
plumbeis, apice pallide cinereis ; cauda subtus nigra, fascia lata apicali albo-grisea; remi-
gibus fusco-griseis; subalaribus plumbeis; rostro nigro; pedibus in exuvie fuscis. Long,
tot. circa mm. 290; al. 150; caud. 92; rostri culm. 12; tarsi 30.
a (20) tf ad. Anno-Bom, 14 aprile.
" Sembra rara. Nome indigeno: Lola san-sàn „ (Fea).
L'esemplare descritto è un maschio adulto in abito perfetto.
Questa nuova specie è affatto diversa tanto dalla Haplopelia principalis, quanto
dalla H. simplex. Della prima ho potuto esaminare quattro esemplari, adulti e giovani,
e della seconda due, uno dei quali perfettamente adulto, inviatomi per esame dal
Prof. Barboza du Bocage. Le tre specie a me note del genere Haplopelia (non conosco
5 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 97
l'IT, poensis recentemente descritta) abitanti nelle isole del golfo di Guinea, si pos-
sono distinguere ai seguenti caratteri:
a) Dorso alisque brunneis H. simplex
(S. Thomé)
b) Dorso alisque cinereo-fuscis:
b') Gutture pectoreque plus minusve vinaceo tinctis . H. principalis
(Insula Principia)
e') Gutture pectoreque cinereo-margaritaceis ; abdomine et
subcaudalibus pure albis R. hypoleuca
(Anno-Bom)
S. Numida meleagris, L.
Guinea-fowl, Alien and Thoms, Narr. Exped. Niger, II, p. 60 (Anno-Boni) (1848).
Numida meleagris, Hartl., Orn. W. Afr. p. 199 (Ins. Anno-Bom, Thomson) (1857). — Boc,
Jorn. Se. Lisb. (2), IX, p. 44 (Anno-Bom, F. X. wton) (1893).
a (21) <? Anuo-Bom.
"Non pare rara. Nome indigeno: Gagrìì ghiné „ fi-
Li' esemplare suddetto, al tutto adulto, ha l'elmo poco elevato, le piume del col-
lare alla base del collo grigio-lilla, le caruncole rosse e mediocri, e non mi sembra
diverso dagli esemplari tipici della specie, sebbene non abbia potuto confrontarlo con
alcuno di questi.
9. Numenius phaeopus (L.).
Numenius phaeopus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), III, p. 44 (Ilheo-Tortuga) (1893).
10. Gallinula chloropus (L.).
Gallinula chloropus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), III, p. 44 (Anno-Boni) (1893).
Ho qualche dubbio che la Gallinula di Anno-Bom non sia la G. chloropus, ma
la G. (iugulata.
11. Butorides atricapillus (Afzel.).
Butorides atricapillus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), III, p. 44 (Anno-Boni) (1893).
12. Anous stolidus (L.).
Anous stolidus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), III, p. 45 (Ilheo-Tortuga) (1893).
a (16) 2 jun. Anno-Bom, 17 aprile 1902.
" Vive promiscuamente colla specie seguente, ma è meno abbondante „ (Fea).
L'esemplare non è adulto ; esso non ha il pileo di color grigio perla che sfuma
nel bruno delle parti superiori ; il vertice e l'occipite sono di color bruno-fuligginoso
come il dorso, soltanto la fronte è bianchiccia, ed i sopraccigli sono di un bianco puro.
13. Micranous leucocapillus (Gould).
Anous leucocapillus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), III, p. 45 (Ilheo-Tortuga) (1893).
a (15) 2 ad. Anno-Bom, 17 aprile 1902.
" Abbondantissimo nelle parti rocciose meno accessibili della costa dell'isola „ (Fea).
Serie II. Tom. LUI. m
98 TOMMASO SALVADORI 6
Non trovo esatta la descrizione che di questa specie dà il Saunders (Cai. B.,
XXV, p. 1-46), il quale menziona le gote di color plumbeo cupo, o nero fuligginoso,
laddove nell'esemplare soprannoverato le gote sono di color nero cupo, come le redini.
14. Phaeton lepturus, Lacép. et Daud.
Lepturus candidus, Briss. — Boc., Joru. Se. Lisb. (2), III. p. 45 (Pico Bstephania) (1893).
15. Sula leucogastra (Bodd.).
Sula fiber, Boc. (nec Linn.), Jorn. Se. Lisb. (2), III, p. 45 (Ilheo-Tortuga) (1893).
16. Puffinus griseus (Um.i.
Puffinus griseus, Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), III, p. 45 (Anno-Bom) (1893).
Il Barboza du Bocage menziona un maschio adulto preso dai pescatori in mare
presso la costa di Anno-Bom.
UCCELLI DI FERNANDO PO
L'Isola Fernando Po è la maggiore di quelle del golfo di Guinea ed è la più
vicina alla costa, dalla quale è separata da un breve stretto; essa è molto vicina
al Camerun ed è situata fra il 3° ed il 4° grado di latitudine a Nord dell'Equatore.
Fernando Po fu visitata ed esplorata specialmente pel rispetto faunistico durante
la spedizione del Niger, e Louis Fraser, che accompagnò quella spedizione nella
qualità di Naturalista, vi fece numerose collezioni. Nella narrativa di quella spedi-
zione, pubblicata dagli autori Alien e Thomson, si trovano numerose notizie intorno
agli uccelli raccolti. Il primo uccello cohosciuto di Fernando Po fu raccolto dall'Alien
e descritto dal Gould ( VaneUus albiceps).
Poscia il Fraser, lo Strickland, il Thomson ed il .lardine, fra il 1839 ed il 1851
pubblicarono numerosi lavori frammentari intorno agli uccelli di Fernando Po.
L'Hartlaub nel suo lavoro intitolato: Beitrag zur Ornithologie Westafrica's, pub-
blicato nel 1850, e ripubblicato identico nel 1852, annoverò gli uccelli conosciuti fino
ad allora dell'Africa occidentale, includendovi naturalmente anche quelli di Fernando
Po. Più tardi, negli anni 1853 e 1854, lo stesso Hartlaub, in un altro lavoro con-
genere, annoverò circa 45 specie di Fernando Po, e più tardi ancora, nel 1857, nel-
l'opera System der Ornithologie Westafrica's faceva salire il numero delle specie di uccelli
dell'isola predetta a 54, dandone una lista separata nella Introduzione a detta opera.
Da quell'epoca fino al 1895 furono aggiunte soltanto altre due specie di Fer-
nando Po, una che fu denominata dal Gray, ma descritta dall'Hartlaub (Onycognaihus
hartlaubi) e l'altra (Andropadus virens) menzionata dallo Sharpe (Cat. B. VI, p. 111).
Finalmente nell'anno 1895 il Barboza du Bocage pubblicò un lavoro intitolato:
Subsidios para a Fauna da Ilha de Fermio do Po, nel quale egli illustri' una collezione
7 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 99
di uccelli fatta nell'isola suddetta dal sig. F. Newton, comprendente 26 specie, oltre
a 17 che il raccoglitore aveva soltanto osservato; di esse circa 21 erano nuove per
l'isola e perciò la collezione del Newton costituì una notevole contribuzione alla orni-
tologia di Fernando Po.
Io nutriva viva speranza che il sig. Leonardo Fea, recandosi in Fernando Po,
avrebbe potuto farvi una importante collezione, tanto più desiderata, essendo gli
esemplari di quell'isola rarissimi nei Musei. Disgraziatamente il Fea nulla potè fare
per gli uccelli in Fernando Po, donde ha inviato soltanto due esemplari di Xylobvcco
scolopact us.
Invece il Capitano Boyd Alexander, recatosi nell'Isola di Fernando Po, nel no-
vembre e nel dicembre del 1902, nello spazio di forse meno di due mesi, vi fece, a
quanto pare, una estesa collezione, comprendente ben 36 specie nuove, che egli ha
recentemente descritte (*) (Bull. Brit. Orn, Club., XIII, pp. 33-38, 48-49), alcune delle
quali raccolte a più di 10 mila piedi di altezza, cosicché dobbiamo credere che gli
altri esploratori precedenti non si siano internati, ma si siano limitati a raccogliere
lungo la costa.
A giudicare dalle specie note precedentemente, pareva che nessuna fosse propria
dell'isola, per la quale cosa poteva sembrare che essa non avesse una avifauna con
forme proprie, forse per la grande vicinanza al continente; invece, giudicando dalla
collezione dell'Alexander, dobbiamo venire ad opposta conclusione.
Non avendo il Fea fatto alcuna collezione di uccelli di Fernando Po, a comple-
tare il mio studio, intorno alla ornitologia delle Isole del Golfo di Guinea, ho dovuto
contentarmi, per gli uccelli di Fernando Po, di investigare quali e quante specie vi
siano state trovate da altri, il quale studio non era senza interesse, tanto più che
non esiste alcun catalogo recente degli uccelli di Fernando Po, quello dell'Hartlaub
rimontando al 1857.
Dalle mie ricerche è apparso che 80 circa sono le specie di uccelli di Fernando
Po conosciute prima del viaggio dell'Alexander ed, aggiungendovi quelle che questi
vi ha recentemente scoperte, si ha un totale di 118 specie.
Tre generi sono finora confinati nell'isola, creati dallo stesso Boyd Alexander
(Urolais, Poliolais e Nesocharis), ma i tipi dei medesimi non sono forme molto diverse
da altre già note del continente Africano.
In complesso, ad onta del numero grande di nuove specie recentemente descritte,
l'avifauna di Fernando Po non ha carattere spiccatamente proprio, ma decisamente
continentale, nessuna forma molto distinta trovandosi nell'isola.
(*) Altre due specie sodo state descritte dall'Alexander durante la stampa del presente lavoro.
100 TOMMASO SALTADORI
Bibliografia Ornitologica dell'Isola Fernando Po.
(1834) Gould, J., Character of a New Species of Piover ( Vanellus, Linn.) collected by Lieut. Alien in
Western Africa (P. Z. S. 1834, p. 45) {Vanellus albieeps, p. 45).
(1839) Fraser, L., On a New Species of Corythaix (P Z. S. 1839, p. 34) (C. macrorhyncha).
(1841) Strickland, H., On some New Genera of Birds (P. Z. S. 1841, pp. 27-33) (Aethiops canicapillus,
p. 30, Fernando Po).
(1842) Jardine, W., Description of some Birds collected during the last Expedition to the Niger
{Ann. Nat. Hist. X, pp. 186-190) (Nectarinia stangeri, p. 187, Nectarinia chloropygia, p. 188).
(1842) Fraser, L., On some New Species of Birds from Fernando Po (P. Z. S. 1842, pp. 141-142. —
Ann. Nat. Eist. XII, pp. 131-132, 1843) {Flatysteira castanea, p. 141; Platysteira leucopygialis,
p. 142 ; Euplectes rufovelatus, p. 142).
(1842) „ On New Species of Birds collected in the Niger Expedition (P. Z. S. 1842, pp. 144-145.
— Ann. Nat. Hi.<t. XII. pp. 133-134) {Sylvia badiceps, p. 144; Coccothraustes olivacetts,
p. 144; Nigrifa fusconotus, p. 145; Amadina poensis, p. 145, Fernando Po).
(1842) „ On two New Species of Birds from Western Africa, belonging to the Genera Strix and
Pitta (P. Z. S. 1842, pp. 189-190. — Ann. Nat. Hist. XII, p. 366-367) (Strix poensis, p. 189).
(1843) „ On some New Species of Birds from Fernando Po (P. Z. S. 1843, pp. 3-5. — Ann. Nat.
Hist., XII, pp. 440-442 (Sylvicola stiperciliaris, p. 3; Bacco siibsulphureus, p. 3; Muscipeta
tricolor, p. 4; Halcyon leucogaster, p. 4).
(1843) , On eight New Species of Birds from Western Africa IP. Z. S. 1843, pp. 16-17). — Ann.
Nat. hist. XII, pp. 478-479) (Drymoica rufogularis, p. 17, Fernando Po).
(1843) „ On Orycetomis Gambianus and various Species of Birds from Western Africa (P. Z. S. 1843,
pp. 51-53) (Ispida bicincta Sw., p. 51, Ploceus textor, p. 51; Ploceus brackypterus Sw., p. 52;
Lamprotornis chrysonotis Sw., p. 52; Cuculus rubiculus Sw., p. 52; Zanclostomus flavi-
rostri.*, p. 52; Peristera tympanistria, Temm., p. 53, Fernando Po).
(1843) .Tardine, W., Naturalista Library — Sun-Birds (Necfarinia obscura, p. 253, Fernando Po).
(1843) Jardine, W. and Selby, P. J., Illustrations of Ornithology (Anthreptes fraseri, pi. 52).
(1844) Stricklaxd. H. E., Descriptions of some New Species of Birds brought by Mr. L. Fraser
(P. Z. S. 1844, pp. 99-102). — Ann. Nat. Hist. XV, pp. 125-129) (Acanthylis bicolor (Gray),
p. 99; Priniii olivacea, p. 99; Prinia icterica, p. 100 (= Sylvicola superciliaris, Fras.),
Cossypha poensis. p. 100: Andropadus latirostris, p. 100; Andropadus gracilirostris, p. 101;
Muscicapa fraseri. p. 101: Tephrodornis ochreatus, p. 102, Fernando Po).
(1848) Allen and Thomson, Narrative Exped. Niger. II, pp. 221-222 (Ornithology), Appendix, Aves,
pp. 488-508 (Scizorhis (sic) gigantea, pp. 221, 504, Corvus leuconotus , Zanclostomus fiavi-
rostris, Ohalcites auratus, Malaconotus chrysogaster, Lamprotornis ptilonorhynchus, L. chry-
sonotis, Oinnyris chloronax chàlybeia, Nectarinia chloropygia, Cinnyris stangeri,
p. 221, Fernando Po).
(1849) Fraser, L., Zoologia Typica (sono figurate in questa opera quasi tutte le specie di Fernando
Fo descritte dall'autore).
(1850) Bonaparte, C. L., Conspectus Generum Avium, I. (Tricophorus poliocephalus, p. 262, Afr. Oca).
(1850) Hartlaub, Dr. G., Beitrag zur Ornithologie Westafrica's (Verz. <ler offentlichen und Privat-Vor-
lesungen, welche am Hamburgischen akademiscken G-ymnasium u. s. w. géhalten verden.
Herausgegeben' voti K. W. M. Wiebel). Hamburg, 1850, pp. 1-47.
Sono annoverate in questo lavoro quasi tutte le specie di Fernando Po, descritte pre-
cedentemente dai diversi autori.
(1851) Jardine (and Fkaser?), Birds of Western Africa — Collections of L. Fraser (Contr. Orn. 1851,
pp. 151-156) (Nectarinia hypodilus, p. 153; N. cyanolaemus, p. 154; N. tephrolaemus, p. 154;
Psittaculapullaria,-p. 155; Bucco stellatus, p. 155; Estrelda occidentalis, p. 156, Fernando Po).
(1852) Hartlaub, Dr. G., Beitrag zur Ornithologie Westafrica's (Abh. Natane. Ver. Hamb., II, 2, pp. 1-47).
Ristampa del lavoro sopracitato, pubblicato dal Wiebel.
(1853) Fraser, L., Descriptions of Two new Birds from Fernando Po (P Z. S. \<^, pp. 13-14) (Bttbo
poensis, p. 13; Buceros poensis, p. li).
9 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 101
(1853-1854) Hartlaub, Dr. Gr., Versuch einer synoptischen Ornithologie Westafrica's (Joum. f. Orn. 1853,
pp. 385-400) (Gypohierax angolensis, p. 388, Fernando Po), (Joum. f. Ora. 1854, pp. 1-32,
97-128, 193-218, 289-308).
In questo lavoro sono annoverate circa 45 specie di Fernando Po, una delle quali,
VAnthus gonidi, a quanto pare, per errore.
(1855) „ Beschreibung einiger neuen [— ] Vogelarten (Joum. f. Orn. 1855, pp. 353-360) (Tricho-
phorus poliocephalus, Temm., p. 358, Fernando Po).
(1857) „ System der Ornithologie Westafrica's.
Nella Introduzione a questa opera, che comprende tutte le specie conosciute dell'Africa
occidentale, havvi una lista nella quale sono annoverate 54 specie di uccelli di Fernando
Po, già menzionate in precedenti lavori e due per la prima volta: Cypselus ambrosiacus,
p. 24, Numida rendali!, Introduzione.
(1858) , On New Species of Birds from Western Africa in the Collection of the British Museum
(P. Z. S. 1858, pp. 291-293) (Onycognatìvts hartlaiibi, G. R. Gr. Ms. p. 291, Fernando Po).
(1881) Sharpe, R. B., Catalogue of the Birds in the British Museum, voi. VI, p. Ili (Andropadus virens).
(1895) Barboza mi Bocage, J. V., Subsidios para a Fauna da Ilha de Fernào do P<5 (Jom. Se. Lisb. (2)
No. XIII, Aves, pp. 7-11).
In questo lavoro sono annoverate 26 specie di uccelli di Fernando Po raccolte dal
Sr. F. Newton, ed altre 17 da lui osservate, e di esse erano nuove per l'isola le seguenti:
Eurystomits gularis, Cinnyris oriti* (!), Xenocickla albigularis, Alethe castana). Stiphrornis
gabonensis, Turdinns sp., Nigrita luteifrons, Melanopteryx nigerrima, Actitis hyp
Psittacus erithacus, Corythaix erythrolopkus (?), Chrysococcyx smaragdineus, Treron coìrà.
Butorides atricapillus, Ardea gularis, Bubulcus ibis, Numenius phaeopus, Sterna sp., Leji-
turus candidus, Siila fiber, Anous stolidus.
(1903) Alexander, Boyd, Description of New Species of Birds from the Island of Fernando Po (Bull.
Br. Orn. Club, XIII, pp. 33-38; 48-49) (*).
1. Haplopelia poensis — 2. Halcyon lopezi — 3. Oypselus poensis — 4. Heterotrogon fran-
cisri — 5. Merops marionis — 6. Indicato)- poensis — 7. Campothera poensis — 8. Psali-
doprocne poensis — 9. Lioptilus claudei — 10. Diaphorophyia chlorophrys — 11. Batis
poensis — 12. Smitìtornis sharpei — 13. Cryptolopha herberti — 14. Phyllostrophus poensis
— 15. Stélgidillas poensis — 16. Urolais marine — 17. Apalis lopezi — 18. Euprinodes
selateri — 19. Poliolais eleonorae — 20. Camaroptera oranti — 21. Macrosphenus poensis
— 22. Hylia poensis — 23. Alethe tnoori — 24. Cattane roberti — 25. Caltene poensis —
26. Turdus poensis — 27. Calamocichla poensis — 28. Dryoscopus poensis — 29. Cyano-
mitra poensis — 30. Cyanomitra ursulae — 31. Cryptospiza élizae — 32. Sycobrotus poensis
— 33. Nesocharis shelleyi — 34. Phlexis lopezi — 35. Lamprocolius chubbi — 36. Astur lopezi.
(1903) Salvadori, T., Caratteri di due nuove specie di uccelli di Fernando Po (Boll. Mas. Tot: No. 442,
p. 1) (Speirops brunnea, Turdinus bocagei).
1. Psalidoprocne poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 34 (Bakaki) (1003).
<f Similis P. fuligrinosae, Shelley, sed gutture et pntepectore dilutius fuliginosis,
potius cinerascentibus, et subalaribus pallidioribus , cineraceo-brunneis, liana fuliginosis.
Long. tot. circa 5,6 poli., culm. 0,41, alae 4,35, caud. 3.5. tarsi 0,45.
2. Diaphorophyia leucopygialis (Fras.).
Platysteira castanea, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 141 (Clarence, Fernando Po). — id., Zool.
Typ., pi. 34, fig. inf. (s) (1849). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 24, n. 169 (Fernando Po,
Fraser) (1850). — id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 24 (1852).
(*) Durante la stampa del presente lavoro, il Boyd Alexander ha pubblicato la descrizione di
altre due specie di Fernando Po : Estrilda elizae e Melanopteryx maxicelli (Bull. B. O. C. XIII, p. 53,
March 30'h, 1903).
102 TOMMASO SALVADOBI 10
Platysteira leucopygialis, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 142 (Clarence, Fernando Po) (tf). — id,
Zool. Typ., pi. 34, fig. sup. (/) (1849). — Hartl., Beitr. Ora. Westafr., p. 25, n. 170
(1850). — id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 25 (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 27. — id.,
Ora. Westafr., p. 95(1857).
Diapharophyia castanea, Sharpe, Cat. B., IV, p. 140 (specim. a, b, Clarence, Fernando Po,
Fraser) (1879).
Diapharophyia leucopygialis, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 8 (Natividad e Bas-
silé) (1895).
3. Diaphorophyia chlorophrys, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 34 (Bakaki) (1903).
d" Nitente vìridi-nigra ; pectore et abdomine flavis, palpebra nuda pallida, viridi.
Long. tot. circa 3,9 poli., culm. 0,55, alae 2,1, caudae 0,9, tarsi 0,8.
4. Batis poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 34 (Bakaki) (1903).
<f Similis B. minutine, sed pileo nigro, minime scliistaceo, et torque praepectorali
nigro angustiore distinguenda. Long. tot. circa 3,6 poli., culm. 0,4, alae 2,2, caud. 1,4,
tarsi 0,5.
2 Similis 2 B. minutine, sed torque praepectorali rufo angustiore distinguenda.
Long. tot. circa 3,5 poli., culm. 0,4, alae 2,0, caudae 1,3, tarsi 0,5.
5. Terpsiphone tricolor (Fraser).
Muscipeta (Tchitrea) tricolor, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 4 (Clarence, Fernando Po). — id.,
Ann. N. H., XII, p. 441 (1843)
Muscipeta tricolor, Alien and Thoms., Narr. Esped. Niger, II, p. 492 (1848).— Hartl., Beitr.
Ora. Westafr., p. 25, n. 175 (1850). — id, Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 25 (1852).
— id, J. f. O, 1854, p. 28.
Tchitrea tricolor, Hartl, Orn. Westafr, p. 90 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Terpsiphone tricolor, Sharpe, Cat. B, IV, p. 359 (specim. a, Clarence, Fernando Po, Fraser).
— Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 8 (Bassapó) (1895).
6. Terpsiphone atrochalybea (Thoms.) (?).
Muscipeta atrochalybea, Thoms, Ann. Nat. Hist, X, p. 104 (1842). — Hartl, Beitr. Orn.
Westafr, pp. 25, n. 174 (Fernando Po, Fraser: St. Thomé, Mus. Hamburg) (1850). — id,
Contr. Orn, 1851, p. 132. — id, Abh. nat. Ver. Hamb, II, p. 25 (1852). — id, J. f. O.
1854, p. 29. — id, Orn. Westafr, p. 92 (1857).
Tchitrea atrochalybea, Alien and Thoms, Narr. Exped. Niger, II, p. 494 (Fernando Po) (1848).
Terpsiphone atrochalybea, Sharpe, Cat. B, IV, p. 362 (specim. a, Fernando Po, Thom-
son) (1879).
La presenza di questa specie in Fernando non è sicura, giacché, secondo quanto
mi hanno scritto il collega W. R. Grant del Museo Britannico ed il Boyd Alexander,
questi non ve l'avrebbe trovata, e quindi non è improbabile che l'esemplare tipico,
che è il solo che si credeva di Fernando Po, provenga invece dall'Isola di S. Thomé.
Aggiungo che trovandosi questa specie in S. Thomé, e non nell'Isola del Prin-
cipe, che è frapposta fra S. Thomé e Fernando Po, la sua presenza nell'ultima isola
riescirebbe quasi inesplicabile.
11 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 103
7. Smithornis sharpei, B. Alex.
Bull. B. 0. C. XIII, p. 34 (Mount St. Ysabel, 4000 piedi) (1903).
s Pileo cinereo; notaeo reliaùo rufescenti-brimneo, absque nigredine, vel albedine, in-
signis; gutture et abdomine flavicanti-albis; genis et praepectore laterali aurantiaco-rufis ;
gulae et pectoris lateribus nigro striolatis. Long. tot. circa 6,0 poli., culm. 0,7, alae 3,1,
caudae 1,8, tarsi 0,85.
8. Cryptolopha herberti, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 35 (Bakaki) (1903).
2 Similis C. laetae, Sharpe, et supercilio, facie laterali et gutture toto rufescen-
tibus, sed pileo nigro facile disiinguenda. Long. tot. circa 3,5 poli., culm. 0,5, alae 1,9,
caudae 1,1, tarsi 0,7.
9. Cassinia fraseri (Strickl.).
Muscicapa fraseri, Strickl., P. Z. S., 1844, p. 101 (Fernando Po, Fraser). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 491 (1848). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 25, n. 180 (1850).
— id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 25 (1852). — id., J. f. O., 1854, p. 29. — id., Syst. Orn.
Westafr., p. 95 (1857).
Cassinia fraseri, Sharpe, Cai B., IV, p. 466 (specim. a, Fernando Po, Fraser) (1879). —
Boc. -Tom. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 8 (Fernando Po) (1895).
10. Lioptilus claudei, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 34 (Mount St. Ysabel, 10,800 piedi) (1903).
<f Similis L. abyssinico (Rfipp.) (= Alcippe kilimensis, Shelley), sed inti
pulio et dorso summo cinereis pileo concoloribus distinguendus. Long. tot. circa 5,2 poli.,
culm. 0,55, alae 2,6, caudae 2,25, tarsi 0,9.
11. Fraseria ochreata (Strickl.).
Tephrodornis ochreatus, Strickl., P. Z. S., 1844, p. 102 (Fernando Po, Fraser). — Alien and
Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 489 (1848). — Fraser, Zool. Typ., pi. 36 (1849). —
Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 26, n. 192 (1850). — id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 26
(1852). - id., J. f. O., 1854, p. 32.
Fraseria ochreata, Hartl, Orn. Westafr., p. 102 (1857). — Sharpe, Cat. B., Ili, p. 303 (spe-
cim. a, Fernando Po, Fraser) (1877).
12. Dryoscopus poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 97 (Mount St. Ysabel) (1903).
<? Similis D. nig'errimo, sed multo minor; niger vix viridi-nitens ; abdomine ni-
gerrimo, haud cinerascente. Long. tot. circa 6,9 poli., culm. 0,85, alae 3,0, caud. 2,65,
tarsi 1,15.
11)4 OMMASO -ALVADOBI 12
13. Laniarius sulphureipectus, Less. (?).
Malaconotus chrysogaster, Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II. p. 221 (Fernando
Po) (1848).
Laniarius chrysogaster, Hartl., Ahh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 65 (1852). — id., Orn.
Westafr., p. 107 (1857).
Laniarius sulphureipectus, Gad., Cat. B., Vili, p. 159 (1883).
Cosmophoneus sulphureipectus, Neurn., J. f. 0., 1899, p. 395.
Soltanto Alien e Thomson hanno*asserito l'esistenza di questa specie in Fernando
Po, ma non credo che esemplari di questa località si conservino in qualche Museo.
Ad ogni modo, gli esemplari di Fernando Po dovranno essere identificati.
14. Ciniiyris chloropygius (Jaed.).
Nectarinia chloropygia, Jard., Ann. N. H., X, p. 188 (1842). — id., Sun-birds, pp. 171,
249, pi. Ili (1842). — Jard. et Selby, 111. Orn., n. s., pi. 50 (1843). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, pp. 221, 503 (Fernando Po) (1848). — Hartl, J. f. 0., 1854, p. 12.
Cinnyris chalybeia, Sw. (nec L.). — Alien and Thoms., op. cit. , p. 221 (Fernando Po) (1848).
Nectarinea chloropygia, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 20, n. 95 (1850). — id., Abh. nat.
Ver. Hamb., II, p. 20 (1852). — id., Orn. Westafr., p. 47 (1857).
Cinnyris chloropygia, Gad., Cat. B., IX, p. 34 (specim. r (Fraser), s Fernando Po) (1884).
— Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 7 (Pico de Santa Isabel a 2500 m.) (1895).
Abbondante (F. Newton).
15. Cinnyris angolensis, Less.
Nectarinia strangeri, Jard., Ann. N. H., X, p. 187, pi. 13 (Fernando Po) (1842'.
Nectarinia stangeri, Jard., Sun-Birds, pp. 198, 257 (1842-1843). — Jard. et Selb., 111. Orn.,
n. s., pi. XLVIII (1843). — Hartl., J. f. 0., 1854, p. 10 (Fernando Po, Thomson).
Cinnyris stangeri, Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 22 (Fernando Po) (1848).
Nectarinea stangeri, Hartl., Beiti'. Orn. Westafr., p. 20 (1850). — id., Abh. naturw. Ver.
Hamb., II, pp. 20, 63 (Fernando Po) (1852).
Nectarinia angolensis, Hartl., Orn. Westafr., p. 45 (Fernando Po, Thomson) (1857).
Cinnyris angoknsis, Gad., Cat. B., IX, p. 98 (Fernando Po) (1884). — Shell., Mon. Nectar.,
p. 279, pi. 87 (Fernando Po) (1876-80).
16. Cinnyris obscurus (Jard.).
Nectarinia obscurus (sic), Jard., Naturai. Libr., Sun-Birds, p. 253 (Fernando Po, Fraser) (1843).
Nectarinia obscura, Jard. et Selb., 111. Orn., n. s., pi. 51 (1843). — Hartl., J. f. O., 1854, p. 11.
Nectarinea obscura, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 20, no. 96 (1850). — id., Abh. nat. Ver.
Hamb. II, p. 20(1852). — id., Syst. Orn. Westafr., p. 50 (1857).
Cinnyris obscurus, Shell., Mon. Nect., p. 291, pi. 92 (1876-80).
Cinnyris obscura, Gad., Cat. B., IX, p. 77 (specim. /, m (Fraser), n, o, Fernando Po) (1884). —
Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 7 (Bassilé) (1895).
Il tipo di questa specie era di Fernando Po ; io ho potuto esaminare un maschio
di Bassilé, raccolto da F. Newton e menzionato dal Barboza du Bocage ; confrontato
con due esemplari di Denkera (Ussher), conservati nel Museo di Torino, questi sono
notevolmente più piccoli e non hanno il pileo tanto cupo e mi viene il dubbio che
13 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 105
essi siano specificamente diversi. Non ho poi alcun dubbio che la mia Eleocerthia
ragazzii dello Scioa, che lo Shelley recentemente (B. Afr., II, p. 125) ha voluto iden-
tificare col C. obscurus, sia assolutamente diversa. La E. ragazzii ha le parti su-
periori più verdi, le inferiori più giallognole, specialmente sulla gola, e non ha il
pileo più scuro e con distinta lucentezza metallica, come nell'esemplare del C. obscurus
di Fernando Po da me esaminato.
17. Cinnyris poensis (B. Alex.).
Cinnyris chloronatus (sic), Alien and Thoms. (nec Sw.), Narr. Exped. Niger, II, p. 221
(Fernando Po) (1848).
Nectarinia cyanocephala, part, Haiti., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, pp. 20, 63 (Fernando Po)
(1852). - id., J. f. 0., 1854, p. 11.
Nectarinea cyanocephala, part., Hartl., Orn. Westafr., p. 49 (1857).
Cinnyris oritis, Boc. (nec Rchnw.), Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 8 (Pico de Santa Isabel,
Fernando Po: F. Newton) (1895).
Cyanomitra poensis, B. Alex., Bull. B. 0. C, XIII, p. 38 (Bilelipi, Fernando Po) (1903).
■? Similis C verticali, sed pileo et gutture metalticis, sordide et obscure viridescen-
tibus; pectore et abdomine totis olivascenti-flavis, minime cinereis distinguendo;. Long. tot.
circa 4,8 poli., culm. 1,1, alae 2,45, caudae 1,65, tarsi 0,8.
Ho potuto esaminare l'esemplare (maschio adulto) di Fernando Po, che il Bocage
ha attribuito al C. oritis, Rchnw.; invece esso appartiene senza dubbio alla specie
sopra indicata.
18. Cinnyris cyanolaemus (Jaed.).
Nectarinia cyanolaemus, Jard. et Fras., Oontr. Orn., 1851, p. 154 (Clarence, Fernando Po,
Fraser). — Hartl, J. f. 0., 1854, p. 11, n. 114.
Nectarinia cyanolaenia, Hartl, Orn. Westafr., p. 51 (1857).
Cinnyris cyanolaemus, Shell, Mon. Nect., p. 297, pi. 95 (Fernando Po) (1876-80).
Cinnyris cyanolaema, Gad., Cat. B., IX, p. 78 (W. Africa, Fraser) (1884).
19. Cinnyris ursulae (B. Alex.).
• Bull. B. 0. C, XIII, p. 38 (Mount St. Ysabel) (1893).
i Sordide flavescenti-olivacm; subtus fumoso-cineracea, liypochondriis imis oliva-
scentibus; fasciis pectoralibus laete flammeis; pileo vix m< fallire chalybeo adumbrato. Long,
tot. circa 3,6 poli., culm. 0,75, alae 1,95, caudae 1,0, tarsi 0,75.
20. Anthodiaeta hypodila (Jard.).
Nectarinia collaris, part., Jard., Natur. Libr., Sun-Birds, p. 251 (Fernando Po, Fraser) (1843).
Nectarinia hypodilus, Jard. et Fras., Contr. Orn., 1851, p. 153 (Clarence, Fernando Po,
Fraser). — Hartl., J. f. 0., 1854, p. 12, n. 115.
Anthodiaeta subcollaris. Rchnb., Syn. Av., Scansoriae, p. 293, n. 686, pi. 590, ff. 4007-8 (1854).
Nectarinia hypodelos, Haiti, Orn. Westafr., p. 52 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Nectarinia subcollaris, Hartl, Orn. Westafr., p. 52 (Fernando Po, Frase/-) (1857).
Anthodiaeta hypodila, Shell., Mon. Nect., p. 345, pi. Ili, ff. 1, 2 (Fernando Po) (1876-80).
Anthothreptes collaris, part., Gad., Cat. B., IX, p. 116 (specim. u, Fernando Po) (1884).
Cinnyris hypodila, Boc. Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 8 (Natividad) (1895).
Serie IL Tom. LUI. "
106 TOMMASO SALVADORI 14
21. Anthodiaeta tephrolaema (.Tard.).
Nectarinia tephrolaeinus, Jard. et Fras., Contr. Orn., 1851, p. 154 (Clarence, Fernando Po,
Fraser). - Hartl., J. f. 0., 1854, p. 12, n. 116.
Nectarinia tephrolaema, Hartl., Orn. Westafr., p. 51 (1857).
Anthodiaeta tephrolaema, Shell., Mon. Nect., p. 333 (Fernando Po, Fraser) (1876-80).
Anthothreptes tephrolaema, Gad., Cat. B., IX, p. 120 (W. Africa. Fraser) (1884).
22. Anthothreptes fraseri, .Tard. et Selb.
Anthreptes fraseri, J. et S., 111. of Ornithology, n. s., pi. 52 (Fernando Po. Fraser) (1843).
— Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 21, n. 103 (1850). — id., Abh. Natnrw. Ver. Hamb., II,
p. 21 (1852). — id., .T. f. 0., 1854, p. 14. — Shell, Mon. Nect., p. 307, pi. 99.
Nectarinia fraseri, Hartl, Syst. Orn. Westafr., p. 50 (1857).
Anthothreptes fraseri, Gad., Cat. B., IX, p. 113 (specim. a, Fernando Po, Fraser) (1884).
23. Speirops brunnea, Salvad.
Boll. Mus. Tor., N. 442, p. 1 (1903).
Brunnea fere unicolor, pileo nigricante, macula cervicali castanea, gula vix albicante.
Differt a 8. melanocephala colore magis brunnescente, taenia supralorali alba
nulla, gula minus alba, subcaudalibusque haud albidis, sed gastraeo brunneo con-
coloribus. Long. tot. circa min. 125; alae 62; caudae 50: rostri culm. 11: tarsi 20.
Il tipo di questa specie, molto diversa da quelle congeneri conosciute, è un
maschio adulto raccolto dal sig. Francisco Newton sul Pico di Sta Isabel a 2500 metri
di altezza; esso fu ommesso nel lavoro del prof. Barboza du Bocage intorno agli
uccelli di Fernando Po, raccolti dal Newton ; l'ho inviato, affinchè l'esaminasse, al
Prof. Reichenow di Berlino, che ha dichiarato di non conoscerne la specie.
24. Turdus poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 37 (Bakaki) (1903).
</ Similis T. xanthorhyncho, Salvad., et rostro flavo, sed pedibus brunneis,
praepectore et corporis lateribus concoloribus, brunneis, mìnime squamulatis. Long. tot.
circa 8,2 poli., culm. 0,8, alae 4,2, caudae 2,9, tarsi 1,2.
25. Callene roberti, B. Alex.
Bull. B. O. O, XIII, p. 37 (Bakaki) (1903).
$ Similis C. cyornitliopsidi, sed rectricibus medianis nìgris, reliquis autem casta-
neis distinguenda. Long. tot. circa 5,0 poli., culm. 0,6, alae 2,6, caudae 1,75, tarsi 0,85.
26. Callene poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 37 (Bilelipi) (1903).
<f Similis C. isabellae, sed facie laterali cor,: , , gastraeo concolore, fascia alba
supralorali absente, ahdomine nudi,, flavicanti albo; rectricibus medianis brunneis, minime
nigris, reliquis saturate ferrugineis, extemis extus tintinna marginatis. Long. tot. 5,2
poli., culm. 0,65, alae 2,9, caudae 2,0, tarsi 1,05.
15 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 107
27. Neocossyphus poensis (Stbickl.).
Cossypha poensis, Strickl, P. Z. S., 1844, p. 100 (Fernando Po, Fraser). — Alien and
Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 496 (1848). — Fras., Zool. Typ.,pl. 37 (1849). — Hartì.,
Beitr. Orn. Westafr. p. 23, n. 144 (1850). — id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 23 (1852). -
id., J. f. 0., 1854, p. 22. — id., Syst. Orn. Westafr., p. 77 (1857). — Sharpe, Cat. B.,
VII, p. 35 (specim. a, Fernando Po. Fraser). — Boa, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 9
(Bassapó) (1895).
Neocossyphus poensis, Shell, B. Air., I, p. 85 (1896). — Rehnw, J. f. O., 1896, p. 66 (Ka-
rnerun). — Sharpe, Ibis, 1902, p. 95 (Cameroon).
28. Alethe poliocephala (Temm.) (?).
Oriniger poliocephalus, Temm. in Mus. Lugd. unde
Trichophorus poliocephalus, Bp. Consp. I, p. 262 (Afr. occ.) (1850). — HartL, Beitr. Orn.
Westafr., p. 24, n. 158 (1850). — id, Abh. nat. Ver. Hamb, II, p. 24 (1852). - id,
J. f. O, 1854, p. 25 (Guinea, Mus. Lugd.); 1855, p. 358 (Dabocrom, Fernando Po), p. 360
(Goldkuste, Pel). — id, Orn. Westafr, p. 85 (Dabocrom, Pei, Fernando Po, Mus. Lugd.,
Casamanze, Verreaux) (1857).
Criniger poliocephalus, Filiseli, .1. f. 0, 1867, p. 26 (Casamanze, Verreaux; Goldkuste, Pel;
Fernando Po, Mus. Lugd.). - G. R. Gr, Hand-List, I, p. 274, n. 4026 (W. Afr.) (1869).
— Gieb, Thes. Orn, I, p. 813 (1872).
Alethe castanonota, Sharpe, Cat. Afr. B, p. 20 (Fantee) (1871). — id, Cat. B. Br. Mas,
VII, p. 59, pi. II (ad. et jun.) (1883).
Alethe poliocephala, Buttik, Not. Leyd. Mus, VII, p. 177 (Liberia = castanotota) (1885);
X, p. 76 (Liberia) (1888); XI, p. 120 (Liberia) (1889). — Shell, B. Afr, I, p. 83 (— ca-
stanonota) (1896).
Callene hypoleuca, Rchnw, J. f. 0, 1892, p. 221, Taf. II, f. 3 (9 jun.) (Kamerun).
Alethe hypoleuca, Shell, B. Ali-.. [, p. 83 (1896).
Il Finsch (in litt.), al quale debbo in parte la sinonimia di questa specie, afferma
che la località di Fernando Po, attribuita ad un esemplare di questa specie nel Museo
di Leida, non è convalidata dal nome di alcun collettore.
29. Alethe castanea (Cass.).
Alethe castanea, Sharpe, Cat. B, VII, p. 57 (1883). — Boa, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII,
p. 9 (Bassilé, Fernando Po, F. Newton) (1903).
Ho potuto esaminare l'esemplare di Bassile' menzionato dal Barboza du Bocage
e la determinazione mi è sembrata esatta, corrispondendo quell'esemplare colla de-
scrizione data dallo Sharpe.
30. Alethe moori, B. Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 37 (Bakaki) (1903).
<f Castanea, pileo antico cinerascente ; plaga capitali aurantiaca nulla; pectore et
corporis lateribus schisfaceis ; abdomine albo; gtitture atbo, cinereo lavato; regione par 0-
tica castanea. Long. tot. circa 7,1 poli, culm. 0,8, alae 3,2, caudae 2,85, tarsi 1.15.
108 TOMMASO SALVADOEI 16
31. Cryptillas lopezi (Boyd Alex.).
Phlexis lopezi, B. Alex., Bull. B. 0. C, XIII. p. 48 (Moka. Fernando Po) (190
Cryptillas lopezi, Sharpe, Hand-List. IV.
. Similis P. rufescenti, sed gutture et abdomine fulvescentibus, hoc minime
ludalibus castaneo-rufis, facie laterali, gutture et pectore totis castaneis, et pedibus
nigricantibus, distinguendus. Long. tot. circa 5,5 poli., culm. 0,6, alae 2,25, caud. 2,21,
1,02.
32. Calamo cichla poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 37 (Bilelipi) (1903).
Similis C. brevipennì, sed major; rectricibus nigricanti-brunneis, remigum margi-
nibus et supracaudalibus rufeseentibus distinguenda. Long. tot. circa 6,8 poli., culm. 0,8,
alae 3,0, caudae 2.7">. tarsi 1,15.
33. Apalis lopezi, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 35 (Bakaki) (1903).
<f Similis A. sharpei, Shelley, sed pedibus nigricantibus ; subtus omnino fuliginoso-
schistacea, abdomine medio pallidiore, minime albo; gutture schistaceo, nec nigro distin-
guenda. Long. tot. circa 4,0 poli., culm. 0,6, alae 2,1, caudae 14, tarsi 0,9.
34. Urolais (*) mariae, B. Alex.
Bull. B. O. C. XIII, p. 35 (Mount St. Ysabel) (1903).
<f Viridis; supercilio angusto flavo; facie laterali viridi; genìs et corpore subtus
pallide sed laete cervinis; cauda schistacea, rectricibus albo terminatis, duabus medianis
longissimis ad apicem late albicantibus. Long. tot. circa 7,8 poli., culm. 0,6, alae 2,1,
caudae 5.0, tarsi 0,9.
35. Euprinodes rufigularis (Fraser).
Drymoica rufogularis, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 17 (Clarence, Fernando Po) — id., Ann.
N. H„ XII, p. 479 (1843). — Alien et Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 491 (1848;. -
Fraser, Zool. Typ., pi. 42, f. 1 (1849). - Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 21, n. 113 (1850).
— id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 21 (1852).
Drymoeca rufogularis. Haiti, J. f. O., 1854, p. 15. — id., Syst. Orn. Westafr., p. 58 (1857).
Euprinodes rufigularis, Sharpe, Cat. B., VII, p. 141 (specim. a, Fernando Po, Fraser).
36. Euprinodes olivaceus (Fraser).
Prinia olivacea, Stridii., P. Z. S., 1844, p. 99 (Fernando Po, Fraser). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 494 (1848). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 21, n. 107 (1850).
— id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 21 (1852).
Chloropeta olivacea, Hartl., J. f. O., 1854, p. 17. — id., Syst, Orn. Westafr., p. 60 (1857).
Euprinodes olivaceus, Sharpe, Cat. B., VII, p. 142 (specim. a, Fernando Po, Fraser).
(*) Urolais, n. gen. Genus simile quoad staìuram et colores generibus Apali» et Dryodromas
dictis, sed cauda longissima, corporis longitudine»! longe superanti, facili distinguendum.
17 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 109
37. Euprinodes sclateri, B. Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 36 (Mount St. Ysabel) (1903).
<t Similis E. cinereo, Sharpe, sed gastraeo foto cervino, abdomine minime albo
distinguendo,. Long. tot. circa 5,1 poli., culm. 0,6, alae 2,2, caudae 2,4, tarsi 0,85.
38. Eremomela badiceps (Fraser).
Sylvia badiceps, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 144 (Clarence, Fernando Po). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 495 (1848). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 122, n. 22 (1850).
— id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 22 (1852).
Drymoeca badiceps, Hartl., J. f. O., 1854, p. 16.
Stiphornis badiceps, Hartl., Orn. Westafr., p. 63 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Eremomela badiceps, Sharpe, Cat. B., VII, p. 164 (1883).
39. Camar opterà superciliaiis (Fraser).
Sylvicola superciliaris, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 3 (Clarence, Fernando Po). — id., Ann. and
Mag. Nat. Hist., XII, p. 440 (1843).
Prinia icterica, Strickl., P. Z. S., 1844, p. 100 (Fernando Po). — Alien and Thoms., Narr.
Exped. Niger, II, p. 495 (1848). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 21, n. 106 (1850). —
id., Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 21 (1852).
Sylvia (?) superciliaris, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 22, n. 123 (1850). — id., Abh. naturw
Ver. Hamb., II, p. 22 (1852).
Chloropeta icterica, Hartl., J. f. O., 1854, p. 17 (Fernando Po, Fraser). — id., Orn. Westafr.,
p. 60 (1857).
Camaroptera superciliaris, Sharpe, Cat. B., VII, p. 171 (specim. e, d, Fernando Po, Fraser).
40. Camaroptera granti, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 36 (Badasou) (1903).
<f Similis C. concolori, sed subtus cinerea, minime olivascens, pectore vix viridi
lavata; cauda et abdomine albidis distinguenda. Long. tot. circa 4,2 poli., culm. 0,6,
alae 2,2, caudae 1,2, tarsi 0,9.
41. Poliolais (*) heleonorae, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 36 (Bakaki) (1903).
Sordide fuscescenti-olivaceo-viridis ; pileo saturatiore, brunnescentiore; loris, superciliis
et facie laterali tota dilute castaneis; gastraeo foto schistaceo, gutture et abdomine albi-
cantibus; hgpochondriis imis et tibiis olivascenti-brunneis ; alis dorso concoloribus ; rectri-
cibus duabus medianis nigricanti-brunneis, reliquis dimidiatim nigris et albis, lateralibus
autem pure albis. Long. tot. circa 3,6 poli., culm. 0,6, alae 1,9, caudae 1,2, tarsi 0,9.
(*) Poliolais, n. gen. Genus Inter genera Sylviella et Camaroptera dieta intermedium, pedibus
caudam longe superantibus et rectrieìbiis externis pure albis dìstinguendum.
HO TOMMASO SALVADOBI 18
42. Hylia poensis, B. Alex.
Ball. Li. 0. C., XIII, p. 36 (Reboia) (1903).
2 Similis H. prasinae, sed supra sordidior, grisescenti-oliv ascenti-
viridis, pileo dorso concolore; superciliis et corpore subtus tato aìbicantibus , nec flavo
is, distinguenda. Long. tot. circa 4,2 poli., culm. 0,5, alae 2,4, caudae 1,45,
tarsi 0,75.
Ho esaminato un esemplare di questa specie, raccolto da F. Newton in Fernando
Po; esso non fu annoverato nella lista pubblicata dal Barboza du Bocage.
Confrontato quell'esemplare con uno della Hylia prasina di Bolama, raccolto dal
Fea, mi pare che la descrizione dell'Alexander non sia molto esatta e debba et
modificata come segue:
Similis H. prasinae, sed supra obscurior, grisescenti-olivascms, nec olivascenti-vi-
ridis, pileo saturatiore : superciliis albidis et corpore subtus tota griseo, nec faro tinctis
rida.
!.. Stiphrornis gabonensis, Shaepe.
Stiphrornis gabonensis, Sharpe, Cat. B., VII, p. 174, pi. VI, f. 2 (1883). - Boc. Jorn.
Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 9 (<? Bissé, Fernando Po, F. Newton) (1895 1.
44. Macrosphenus poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 36 (Moirat St. Ysabel) (1903).
-r Similis 31. navicanti, sed pileo sordide cinerascente et tectricibus externis cine-
rascentibus, gutture et pectore cinereis, corpore. reliquo viridescente, nec olivaceo-flavo,
distinguendus. Long. tot. circa 5,2 poli., culm. 0,72, alae 2,3, caudae 2,0, tarsi 0,35.
45. Turdinus bocagei, Salvad.
Turdinus sp.?, Boc. Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII. p. 9 (Bassilé, F. Newton) (1895).
Turdinus bocagei, Salvad. Boll. Mus. Tor., X. 442, p. 1 (1903).
Supra brunneo-rufescens, sincipite et genis ijriseis; gula et abdomine medio albis;
fascia praepectorali lata transversa lateribusque umbrinis; remigibus, redricibusque fuscis,
exterius rufo-brunneis. Long. tot. circa mm. 123; al. 68, caud. 47; rostri culm. 13;
tarsi 24.
Il tipo di questa specie (V) si conserva nel Museo di Lisbona, e mi è stato in-
viato in comunicazione dal prof. Barboza du Bocage.
Questa specie sembra affine al T. fulvescens (Cass.) del Gaboon, ma il prof. Rei-
chenow, cui ho inviato l'esemplare tipico per averne il suo autorevole giudizio, mi
scrive che esso appartiene a specie a lui ignota.
16. Xenocichla (?) tricolor (Cass.).
Criniger tricolor, Sharpe, Cat. B., VI, p. 82 (1881).
Xenocichla albigularis, Boc. (nec Sharpe), Jorn. Se. Lisb. (2), XIII, p. 8 (Bissé, Fernando Po,
F. Ni wton) (1895).
19 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 111
Per cortesia del prof. Barboza du Bocage ho potuto esaminare l'esemplare di
Bissé (un maschio) da lui attribuito alla Xenocichla albigularìs, Sharpe. La determi-
nazione non sembrandomi esatta, e volendo assicurarmi di ciò, ho fatto ricorso al
prof. Reichenow, il quale crede che l'esemplare appartenga alla specie sopra indicata,
sebbene, confrontato con un esemplare del Gabon, esso presenti il colore verde delle
parti superiori un poco più pallido; anche la coda olivaceo-rossiccia è alquanto più
chiara. Tuttavia, secondo il Reichenow, le lievi differenze non hanno valore specifico.
Anche lo Sharpe consente nella opinione del Reichenow.
47. Andropadus latirostris, Strickl.
Andropadus latirostris, Strickl., P. S. Z., 1814. p. 100 (Fernando Po, Fraser). — Alien and
Thoms., Narr. Exped. Niger, II. p. 496 (1848). — Hartl., Beiti'. Ora. Westafr., p. 24, n. 165
(1850). — id., Abh. nat. Ver. Bamb., II, p. 24(1852). - id., J. f. 0., 1854, p. 26. - id.,
Syst. Orn. Westafr., p. 87 (1857). — id., Sharpe, Cat. B., VI, p. 107 (specim. g, Fernando
Po, Fraser) (1881).
48. Andropadus virens, Cass.
Andropadus latirostris (juv.), Strickl, P. Z. S.. 1844, p. 100 (Fernando Po, Fraser). — Pras.,
Zool. Typ., pi. 35 (1849).
Andropadus virens, Sbarpe, Cat. B., VI, p. 109 (specim. t, Fernando Po, Fraser) (1881).
— Boa, Jorn. Se. Lisb. (2). No. XIII, p. 8 (Bissé, Bassilé, Fernando Po, F. Newton) (1895).
49. Stelgidillas gracilirostris (Strickl.).
Andropadus gracilirostris, Strickl., P. Z. S., 1844, p. 101 (Fernando Po, Fraser). — Alien
and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 497 (1848). - Hartl.. Beitr. Orn. Westafr.. p. 24.
n. 166 (1850). — id., Abb. nat. Ver. Hamb., II, p. 24 1 1852). — id., J. f. O., 1854, p. 27. -
id., Syst. Orn. Westafr., p. 87 (1857).
Chlorocickla gracilirostris, Sharpe, Cat. B.,VI, p. 114 (specim. «. Fernando Po. Fraser) (1881).
50. Stelgidillas poensis, B. Alex. (?)
Bull. B. O. C, XIII, p. 35 (Sipopo) (1903).
Similis S. gracilirostri, sed virescentior, pileo cinerascente; regione parotica cinerea;
subtus pallidior, gutture albicai//'', corpore reliquo subtus pallide cineraceo. Long. tot. 7,2
poli., culm. 0,8, alae 3,2, caudae 3,0, tarsi 0,8.
La presenza in Fernando Po di una seconda specie del genere Stelgidillas, tanto
affine alla S. gracilirostris, che, si noti, fu pure descritta di Fernando Po, è cosa da far
dubitare che la S. poensis non sia veramente diversa, ovvero che il Boyd Alexander
abbia confrontato gli esemplari di Fernando Po con altri del continente, i quali sa-
rebbero forse veramente diversi, e perciò da denominare.
51. Phyllostrophus poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 35 (Bakaki) (1903).
<? Similis Ph. placido, sed pileo fuscescentiore, notaeo reliquo sordide olivascente;
pileo fusco-brunneo, vix olivascente lavato; loris et regione oculari cinereis; regione pa-
rotica fusco-brunnea; corpore subtus (Ubicante, vix flavo lavato ; praepectore, pectore summo
et corporis lateribus olivascenti-brunneis. Long. tot. circa 7,4 poli., culm. 0,65, alae 3,4,
caudae 3,1, tarsi 0,9.
112 TOMMASO SALVADOR! 20
52. Anthus gouldi, Fra;. (?).
Anthus gouldi, Hartl., Beitr. Orn. Westal'r., p. 23, n. 13G (Fernando Po!) (1850). — id
Abb. nat. Ver. Hamb., II, p. 23 (1852). — id., J. f. 0., 1854, p. 21 (Fernando Po, Fraser
Sembra che per errore l'Hartlaub abbia indicato Fernando Po come patria di
questa specie, giacche il Fraser (P. Z. S., 1843, p. 27) la descrisse di Capo Palmas
tuttavia non è improbabile che essa si trovi anche in Fernando Po.
53. Linurgus olivaceus (Fraser).
Coccothraustes olivaceus, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 144 (Clarence, Fernando Po). — Alien
and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 500 (1848). — Fras., Zool. Typ., pi. 47 (1849).
— Hartl. Beitr., Orn. W. Afr., p. 31, n. 279 (1850). — id., Abb. natunv. Ver. Hamb..
II, pp. 31, 66 (1852).
Ligurnus olivaceus, Hartl, J. f. O., 1854, p. 110. — id., Orn. Westafr., p. 140 (1857).
Pyrrhospiza olivacea. Sharpe, Cat. B., XII, p. 434 (specitn. a, Fernando Po, Fraser) (1888).
Linurgus olivaceus, Shell., B. Air., III, p. 174 (Fernando Po, Fraser) (1902).
54. Nigrita canicapilla (Strickl.).
Aethiops canicapillus, Strickl., P. Z. S., 1841, p. 30 (Fernando Po).
Nigrita canicapilla, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 145. — id., Zool. Typ., pi. 48 (Fernando Po)
(1849). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 31, n. 270 (Fernando Po) (1850). — id., Abb.
naturw. Ver. Hamb., II, p. 31 (1852). — id., J. f. O., 1854, p. 110. - id., Orn. Westafr.,
p. 130 (Fernando Po, Fraser) (1857). — Sharpe, Cat. B., XIII, p. 315 (specim. b, e, d,
Fernando Po, Fraser) (1890). — Boa, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 9 (Mongola,
F. Newton) (1895).
55. Nigrita fusconota, Fraser.
Nigrita fusconotus, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 145 (Clarence, Fernando Po). — Alien and
Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 501 (1848). — Fraser, Zool. Typ., pi. 49 (1849).
Nigrita fusconotus, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 31, n. 271 (1850). — id., Abb. natunv.
Ver. Hamb., II, pp. 31, 66 (1852).
Nigrita fusconota, Hartl, J. f. O., 1854, p. 111. - id., Syst. Orn. Westafr., p. 130 (1857).
Nigrita pinaronota (nom. emend.), Sharpe, Cat. B., XIII, p. 318 (specim. a, Fernando Po,
Fraser) (1890).
56. Nigrita luteifrons, Veeb.
Nigrita luteifrons, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 317 (1890). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XÌII,
p. 9 (</ Natividad, Fernando Po, F. Newton) (1895).
57. Cryptospiza elizae, B. Alex.
Bull B. O. C, XIII, p. 38 (Bakaki) (1903).
a* Similis C. oculari et C. reichenowi, sed pileo et collo postico sordide olivascenti-
fuscis, et subcaudalibus nigris distinguenda. Long. tot. circa 4,3 poli., culm. 0,5, alae 2,2,
caudae 1,45, tarsi 0,75.
21 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA Ile
58. Spermestes poensis (Fraser).
Aniadina poensis, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 145 (Clarence, Fernando Po). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 500 (1848). — Fraser, Zool. Typ., pi. 50, f. 1 (1849). - Hartl.,
Beitr. Orn. Westafr., p. 32, n. 301 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 32(1852).
Amadina (Spermestes) poensis, Hartl, Syst. Orn. Westafr., p. 148 (1857).
Spermestes poensis, Hartl., J. f. O., 1854, p. 116. — Sharpe, Cat. B., XIII, p. 262 (specim. a,
b, e, Fernando Po, Fraser) (1890). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 10 (Nati-
vidad, F. Newton) (1895).
59. Nesocharis (*) shelleyi, B. Alex.
Bull. B. O. O, XIII, p. 48 (Moka, Fernando Po) (1903).
cT Viridi*, uropigio et supracaudalibus panilo laetioribus et flavicantioribus ; pileo,
facie laterali et gula nigerrimis; corpore reliquo subtus cinereo. Long. tot. circa 3,2 poli.,
culm. 0.35, alae 1,6, caudae 1,0, tarsi 0,5.
60. Estrelda rubriventris (Vieill.).
Estrelda occidentalis, Jard. et Fras., Contr. Orn., 1851, p. 156 (Clarence, Fernando Po,
Fraser). — Hartl., J. f. O., 1854, p. 118, n. 346. - id., Orn. Westafr., p. 140 (1857).
Estrilda rubriventris, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 393 (1890).
60Wb. Estrelda elizae, B. Alex.
Bull. B. 0. C. XIII, p. 54 (Moka, Fernando Po) (1903).
Estrelda similis E. ìioiniulae, sed gastraeo griseo tincto, subcaudalibus plumbei*.
Long. tot. circa 3,8 poli., culm. 0,4, alae 1,9, caudae 1,7, tarsi 0,66.
Specie descritta durante la stampa del presente lavoro.
61. Heterhyphantes melanogaster (Shell.).
Ploceus melanogaster, Shell., P. Z. S., 1887, p. 126, pi. XIV, f. 2 (Cameroons).
Syinplectes melanogaster, Rehnw., J. f. 0., 1890, p. 122.
Heterhyphantes melanogaster, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 417.(1890). — Shell, B. Ali., I,
p. 37, n. 512 (1896). — Dubois, Syn. Av., p. 565, n. 7496 (fase. VIII, 1901). — Boyd
Alex., Bull. B. 0. C, XIII, p. 49 (<? (?) Moka, Fernando Po) (1903).
Lo stato di questa specie non mi sembra bene definito. Lo Shelley descrisse un
esemplare indicato dal collettore come maschio: esso aveva la testa e la gola di
color giallo, il resto del corpo ed anche una stria a traverso l'occhio neri. Pare che
il Boyd Alexander consideri quell'esemplare non come maschio, ma come femmina,
e che i maschi da lui raccolti in Fernando Po differiscano dalla femmina per avere
il mento e la gola neri, ed una fascia prepettorale gialla.
A me viene il dubbio che gli esemplari di Fernando Po appartengano ad una
specie distinta, per la quale, se bene io mi appongo, propongo il nome di H. me-
lanolaema.
(*) Nesocharis, n. gen. Simile generi Spermestes dicto, sed rostro cyanescente debili, valde com-
presso et cauda brevi rotundata, pedibus caudam apicalem (sic) excedentibus, distiuguendum.
Serik II. Tom. LUI. o
114 TOMMASO SALVADORI 22
62. Sycobrotus poensis, B. Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 38 (Bakaki, 4000 piedi) (1903).
<r Similis S. nandensi, Jackson, sed gula squcmulata, minimi nigra, plumis gri-
sescenti-nigris, canescenti-flavo marginatis. Long. tot. circa 6,0, culm. 0,8, alae 3,3,
caudae 2,2, tarsi 1.0.
»;'.. Sitagra brachyptera (Sw.).
Ploceus brachypterus, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 52 (Fernando Po). — Hard., Syst. Orn.
Westafr., p. 28, n. 236 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 28 (1852).
Hyphantornis brachyptera, Haiti., J. f. 0., 1854, p. 107.
Hyphantornis brachyptei-us, Hartl., Syst. Orn. Westafr., p. 121 (1857).
Sitagra brachyptera, Sharpe, Cai B., XIII, p. 429 (specim. !•' . e', il'. e', Fernando Po,
Fraser) (1890).
61. Hyphantornis cuculiata (P. L. S. Mììll.).
Ploceus textor, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 51 (Cape Palmas, Cape Coast and Fernando Po). —
Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 28, n. 230 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II,
pp. 28, 65 (1852).
Hyphantornis textor, Haiti., J. f. O., 1854, p. 108. — id., Syst. Orn. Westafr., p. 124 (1857).
Hyphantornis cucullatus. Sharpe, Cat. B., XIII, p. 451 (1890).
Hyphantornis collaris. Boc. (nec Vieill.) Jorn. Se. Lisb. (2). No. XIII, p. 10 (rf1 Bassilé,
Fernando Po, F. Newton) (1895).
Ho esaminato l'esemplare di Bassilé, menzionato dal Bocage; esso è in abito
imperfetto ed appartiene a questa specie e non alla H. collaris.
65. Melanopteryx nigerrima (Vieill.) (?).
Melanopteryx nigerrima, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 476 (1890). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2),
No. XIII, p. 10 (d" Bissé, Fernando Po, F. Newton) (1895).
65' is. Melanopteryx maxwelli, B. Alex.
Bull. B. 0. C. XIII, p. 54 (Moka, Fernando Po) (1903).
Melanopteryx similis M. albinuchae," sed plumis notaei et gastrei omnibus basaliter
griseis, notaeo, gutture et pectore nigerrimis. Long. tot. circa 5,5 poli., culm. 0,7,
alae 3,0, caud. 2,1, tarsi 0,66.
Questa specie è stata descritta durante la stampa del presente lavoro. Non è
improbabile che essa debba prendere il posto della M. nigerrima, dalla quale forse
non fu discriminata dal Barboza du Bocage.
66. Malimbus rubricollis (Sw.).
Euplectes rufovelatus, Fraser, P. Z. S., p. 142 (Clarence, Fernando Po). — Alien and Thotns.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 500 (Fernando Po) (1848). — Fras., Zool. Typ., pi. 46 (1849).
— Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 30, n. 254 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb.. II.
p. 30 (1852).
Sycobius malimbus (Temm.) - Haiti., J. f. O., 1854, p. 105. - id., Orn. Westafr.. p. 132
(Fernando Po) (1857).
Malimbus rubricollis (Sw.) - Sharpe, Cat. B., XIII, p. 478 (specim. b, e, d, e, Fernando Po)
(1890). - Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 10 (Bisse. F. Newton) (1895).
23 CONTRIBUZIOHI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA Ili
67. Lamprocolius splendidus (Vieill.) (?).
Lamprotornis chrysonotis, Praser, P. Z. S., 1843. p. 52 (Fernando Po). — Alien and Thoms.,
Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) (1848).
Lamprotornis splendida, Haiti., Beitr. Orn. Westafr., p. 27, n. 217 (Fernando Po, Fraser)
(1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 27 (1852).
Lamprocolius splendidus, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 103. — id., Orn. Westafr., p. 117 (Fer-
nando Po, Fraser) (1857).
La presenza di questa specie in Fernando Po fu affermata dal Fraser, ma non
è improbabile che gli esemplari attribuiti alla medesima appartengano invece alla
specie seguente, che è stata discriminata soltanto recentemente.
68. Lamprocolius chubbi, Boyd Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 4S (Moka, Fernando Po) (1903).
s Similis L. spleudido, seti dorso medio et scapularibus viridescenti-chatybeis, gut-
ture metattice chalybeo vi.r purpurascente, corpore reliquo subtus chalybeo-eyaneo , nec
metallice violaceo, nitore aeneo eri bronzino nullo distinguendus. Long. tot. circa 11,5
poli., culm. 1,1, alae 6,0, caudae 4,7, tarsi 1,2.
69. Lamprocolius ignitus (Nordu.) (?).
Lamprocolius ignitus (Nordm.) — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1905).
Il sig. Newton, dice il Bocage, afferma che in Fernando Po si trova la stessa
specie che vive nell'Isola del Principe (!); ma, siccome in questa isola, oltre al
L. ignitus, vive anche il L. splendidus, od una specie affine, non è improbabile die
lo notizia del Newton si riferisca a questa specie e non al L. ignitus, che, a quanto
paté, è confinato nell'Isola del Principe.
70. Lamprocolius purpureus (P. L. S. Mull.) (?).
Lamprotornis ptilonorhynchus. Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fer-
nando Po) (,1848). — Hartl., J. f. 0., 1854, p. 103.
Lamprotornis aurata, Hartl., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 65 (Fernando Po) (1852).
Lamprocolius auratus, Hartl., Orn. Westafr., p. 117 (1857).
Lamprocolius purpureus, Sharpe, Cat. B., XIII, p. 175 (18901.
Nessun esemplare di Fernando Po è annoverato nel " Catalogue of Birds „, e
perciò la presenza di questa specie in Fernando Po deve essere confermata da ulte-
riori osservazioni.
71. Onycognatmis hartlaubi, G. R. Gr.
Onycognathus hartlaubii, G. R. Gr. in Hartl., P. Z. S., 1858, p. 291 (Fernando Po); 1859,
p. 36. — id., Abh. nat. Ver. Brem, IV, p. 87 (1874). — Sharpe, Cat. B., XIII, p. 106
(specim. g, h, Fernando Po, Thomson) (1890). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 11
(Fernando Po, F. Newton) (1895).
11fi TOMMASO SALVADOKI 24
72. Corvus scapulatus, Daud.
Corvus leuconotus, Alien and Thoras., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) (1848).
Hartl., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 65 (1852).
Corvus ourvirostris, Hartl., J. f. 0., p. 102. — id., Orn. Westafr, p. 114 (1857).
Corvus scapulatus, Sharpe, Cat. B., ITI, p. 22 (specim. g, Clarence, Fernando Po, Fraser)
(1877). - Boc, Jorn. Se. Lisb. (2). N. XIII, p. 9 (Mongola) (1895).
73. Cypselus poensis, B. Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 33 (Sipopo) (1903).
J Similis C. unicolori, sed multo minor, et gutture praepectoreque pallide cine-
raceis distinguendus. Long. tot. circa 6,2 poli., culm. 0,25, alae 5,2, caudae 2,4.
tarsi 0,4.
74. Tachornis gracilis (Sharpe).
Cypselus ainbrosiacus, Hartl. (nec Gra.l, Orn. Westafr., p. 24 (Fernando Po, Fraser!) (1857).
Tachornis gracilis, Hartert, Cat. B., XVI, p. 464 (specim. r, Fernando Po) (1892).
Il Fraser (P. Z. S'., 1844, p. 93) non menziona questa specie di Fernando Po,
ma di Accra, tuttavia FHartlaub indica quella località, dalla quale infatti sembra che
provenga un esemplare conservato nel Museo Britannico, menzionato dallo Hartert.
75. Chaetura sabinei, .1. E. Gray.
Acanthylis bicolor, Strickl., P. Z. S., 1844, p. 99 (Fernando Po, Fraser).
Acanthylis sabinii, Hartl, Beitr. Orn. Westafr., p. 17, n. 36 (1848). — id., Abh. naturw.
Ver. Hamb., II, p. 17 (1852).
Chaetura sabinei, Hartl., Syst. Orn. Westafr., p. 25 (1857). — Hartert, Cat. B., XVI, p. 487
(specim. b, Fernando Po) (1892).
76. Ceryle rudis (L.).
Ispida bicincta, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 51 (Fernando Po).
Ceryle bicincta, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 18, n. 58 (1850). — id., Abh. naturw. Ver.
Hamb., II, p. 18 (1852).
Ceryle rudis, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 5. — id., Syst. Orn. Westafr., p. 37 (1857). — Sharpe,
Cat. B., XVII, p. 109 (1892). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 11 (Mongola,
F. Newton) (1895).
77. Ispidina leucogaster (Fraser).
Halcyon leucogaster, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 4 (Clarence, Fernando Po). — id., Ann. N. H..
XII, p. 442 (1843). — Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 503 (1848).
Alcedo leucogaster, Fraser, Zool. Typ., pi. 32 (1849). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 18,
n. 60 (1850). — id., Abh. Naturw. Ver. Hamb., II, p. 18 (1852).
Alcedo leucogastra, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 4.
Alcedo (Ispidina) leucogastra, Hartl., Orn. Westafr., p. 35 (1857).
Ispidina leucogaster, Sharpe, Cat. B.. XVII, p. 193 (specim. h, Fernando Po, Fraser) (1892).
Ispidina leucogastra, Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 7 (Fernando Po) (1895).
25 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 1 1 i
78. Halcyon dryas, Hartl.
Halcyon cinereifrons pari, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 18, n. 53 (Fernando Po: Mus.
Brit.) (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., IT, p. 18 (1852). - id., J. f. 0., 1854,
p. 2 (Fernando Po, Fraser) — id., Orn. Westafr., p. 32 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Halcyon dryas, Sharpe, Cat. B., XVII, p. 248 (specim. g, h, Fernando Po, Fraser) (1892).
? Halcyon cyanoleuca, Boc. (nec Vieill. ?), Jorn. Se. Lisb. (2) No. XIII, p. 7 (Shark Eiver,
Fernando Po, F. Newton) (1895).
Lo Sharpe da ultimo ha creduto di dover riferire all'i?, dryas gli esemplari di
Fernando Po, raccolti dal Fraser, i quali invece dall'Hartlaub erano stati attribuiti
all'affine H. cinereifrons (Vieill.) (= malimbica, Shaw).
79. Halcyon lopezi, B. Alex.
Bull. B. 0. 0., XIII, p. 33 (Sipopo) (1903).
j Similis H. badio, sed major, et speculo alari cyaneo subquadrato distinguendus.
Long. tot. circa 8,5 poli., culm. 1,7, alae 4,0, caud. 2,2, tarsi 0,5.
80. Merops marionis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 33 (Bakaki) (1903).
Similis M. northeotti, Sharpe, sed torque iufragulari nigra latiore distinguendus.
Long. tot. circa 8,4 poli, culm. 1,4, alae 3,5, caudae 3,3. tarsi 0,4.
81. Eurystomus gularis, Vieill.
Eurystomus gularis, Sharpe, Cat, B., XVII, p. 32 (1892). — Boc., Jorn. Se. Lisb. (2)
No. XIII, p. 7 (Bissé, Fernando Po, F. Newton) (1895).
82. Ceratogymna atrata (Temm.).
Buceros poensis, Fraser, P. Z. S., 1853, p. 14 (9, Fernando Po). — id., Ann. N. H., XV,
p. 136 (9) (1855).
Buceros atratus, Hartl, Orn. Westafr., p. 162 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Ceratogymna atrata, Grant, Cat. B., XVII, p. 389 (1892).
83. Heterotrogon francisci, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 33 (Mount Si Ysabel) (1903).
9 Affinis H. vittato, sed multo minor, et fasciolis albis tectricum majorum et se-
cundariarum latioribus distinguendus. Long. tot. circa 9,8 poli., culm. 0,6, alae 4,4,
caudae 4,9, tarsi 0,6.
84. Turacus burloni (Vieill.).
Corythaix buffoni, Haiti, Beitr. Orn. Westafr., p. 33, n. 319 (Fernando Po) (1850). — id.,
Abh. naturw. Ver. Hamb.. II, p. 33 (1852). — id., Orn. W. Afr.. p. 156 (Fernando Po,
Fraser) (1857).
Turacus sp.? Boc., Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 10 (1895).
Questa specie fu annoverata fra quelle di Fernando Po sulla fede'del Fraser.
Secondo il F. Newton, le penne di un Turacus, che venivano adoperate dagl'in-
digeni di Fernando Po per ornamento dei cappelli, probabilmente erano di T. buffoni.
1 1 8 TOMMASO SALVADOKI 26
Turaeus macrorhynchus (Fkas.)i
Corythaix macrorhyncha, Praser, P. Z. S., 1839, p. 34 (Hab. — ?). — Alien and Thoms.,
Narr. Esperi. Niger, II, pp. 290, 505 (Bimbia and Cameroons) (1848). — Hartl., Abh. nat.
Ver. Hamb., II, p. 67 (1852). — Schal., J. f. 0., 1886, p. 36 (Fernando Po, fide Schleg, l :
Musopbaga macrorhyncha, Schleg. u.Westerm., DeToerakos,p. 15, pi. 17 (Fernando Poi (1860).
L'esistenza di questa specie in Fernando Po è asserita dallo Schlegel, ma non
mi sembra provata, giacche non trovo che sia confermata dal nome di alcun collet-
tore; tuttavia tale cosa non è improbabile, giacche il Thomson trovò questa specie
nell'isola di Bimbia, vicinissima a Fernando Po.
86. Turaeus erythrolophus (Vieill.) (?).
Corythaix erythrolophus (Vieill.). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 10 (1905).
F. Newton asserisce di aver visto questa specie a Bassiié, ma la sua esistenza
nell'isola di Fernando Po merita conferma.
87. Corythaeola cristata (Vieill.).
Scizorhis (sic) gigantea, Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) ( 1 S
Zizorhis (sic) gigantea, Alien and Thoms., op. cit., p. 504 (Fernando Po) (1848).
Corythaix gigantea, Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 33, n. 321 (1850). — id., Abh. naturw.
Ver. Hamb., II, p. 33 (1852).
Turaeus giganteus, Hartl., J. f. O.. 1854, p. 125. - id., Orn. Westafr., p. 159 (1857).
Corythaeola cristata, Shell, Cat. IL XIX. n..449 (specim. b, Fernando Po, Thomson) (1891).
88. Cuculus solitarius, Steph.
Cuculus rubiculus, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 52 (Fernando Po). — Hartl., Beitr. Orn. Wes
p. 36, n. 366 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 36 (1852). — id.. J. f. 0.,
1854, p. 202. — id., Syst. Orn. Westafr., p. 190 (1857).
Cuculus solitarius, Shell, Cat. B., XIX, p. 258 (1891).
89. Chrysococcyx cupreus (Bodd.) (?).
Chalcites auratus, Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) (1848).
— Hartl, Abh. nat. Ver. Hamb., II, p. 68, n. 370 (1852).
Chrysococcyx auratus, Hartl, J. f. O., 1854, p. 203. — id., Orn. Westafr., p. 190 (1857).
Chrysococcyx cupreus, Shell, Cat. B., XIX, p. 285 (1891).
Lo Shelley menziona un esemplare conservato nel Museo Britannico, indicato
dell'Africa occidentale, raccolto dal Fraser; forse è di Fernando Po.
90. Chrysococcyx srnaragdineus (Sw.).
Chrysococcyx srnaragdineus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Molto comune in Fernando Po (F. Newton).
91. Ceuthmochares aeneus (Vieill.).
Zanclostomus flavirostris, Fras. (nec Sw.), P. Z. S., 1843, p. 52 (Fernando Po). - Alien and
Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) (1848). — Hartl, Beitr. Orn.
Westafr., p. 36, n. 363 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 36 (1852). — id.,
.1. f. O., 1854, p. 201.
27 CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 119
Zanclostomus aereus, pari, Hartl., Syst. Orn. Westafr., p. 187 (Fernando Po, Fraser) (1857).
Ceutbrnocbares aeneus, Shell. , Cat. B., XIX, p. 402 (specim. d, Fernando Po, Fraser) (1891).
— Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), N. XIII, p. 7 (Bissò, Fernando Po, F. Newton) (1895).
92. Indicator poensis, B. Alex.
Bull. B. 0. C, XIII, p. 33 (Bakaki) (1903).
Similis I. exili, Cass., sed pileo cinereo concolore, ala extus laetiore aureo-flava
distinguendus. Long. tot. circa 4,3 poli.; culm. 0,35, alae 2,5, caudae 1,45, tarsi 0,45.
93. Barbatula subsulphurea (Fraser).
Bucco subsulphureus, Fras., P. Z. 8., 1843, p. 3 (Clarence, Fernando Po, Fraser). — id., Ann.
N. H., XII, p. 441 (1843). - Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 504 (1848). —
Fras., Zool. Typ., pi. 52 (1849). — Hartl., Beitr. Orn. Westafr., p. 35, n. 344 (1850).
— id., Abh. uaturw. Ver. Hamb. If, p. 35 (1852).
Barbatula subsulpburea, Hard, J. f. O., 1854, p. 195. — id., Orn. Westafr., p. 172 (1857).
— Shell, Cat. B., XIX, p. 46 (1891).
94. Xylobucco scolopaceus (Temm.).
Bucco sp., Fraser, P. Z. S., 1843, p. 4 (note) (Fernando Po).
Bucco stellatus, Jard. et Fras., Contr. Orn., 1851, p. 155 (Clarence, Fernando Po, Fraser).
Barbatula stellata, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 196, n. 412.
Barbatula scolopacea, Haiti., Orn. Westafr., p. 174 (1857). — Shell., Cat. B., XIX, p. 47
(specim. m, Clarence, Kiver Fernando Po, Fraser) (1891). -- Boc, Jorn. Se. Lisb. (2),
XIII, p. 7 (Fernando Po) (1895).
Xylobucco scolopaceus, Marsh., Mon. Capit., pi. 47 (Fernando Po).
a (1) <f Punta Frailes, 4 novembre 1901.
b (2) 9 „ „ 5 novembre 1901.
" Comune „ (Fea).
95. Campothera poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XIII, p. 33 (Besoso) (1903).
cf Affinis C. nivosae, sed gutture distincte nigro striato, notaeo virescenti-olivaceo,
nec aureo-olicaceo, et praecipue pileo cinerascente. nec brunnescente distinguendo. Long,
tot. 5,8 poli., culm. 0,75, alae 3,3, caudae 1,65, tarsi 0,65.
96. Psittacus erithacus (L.).
Psittacus erythacus, L. — Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 10 (Bahia de S. Carlos,
ilha de los Loros, F. Newton) (1895).
Abbondante (F. Newton).
97. Agapornis pullaria (L.).
Psittacula pullaria, Jard., Contr. Orn., 1851, p. 155 (Fernando Po, Fraser).
Agapomis pullaria, Hartl., J. f. 0., 1854, p. 194. — id., Orn. Westafr., p. 168 (1857). —
Salvad., Cat. B., XX, p. 510 (1891).
120 TOMMASO SALVADORI
28
98. Gypohierax angolensis (Gm.).
Fishing eagle, Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 221 (Fernando Po) (1848).
Gypohierax angolensis, Haiti., Beitr. Orn. Westafr., p. 14, n. 2 (Fernando Po, Fraser) 1 1850).
— id.. Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 15, n. 2 (Fernando Po, Fraser). — id., J. f. 0.,
1853, p. 388 (Fernando Po: Fras., P. Z. S., 1843, p. 51) (*). - Strickl., Orn. Syn.,
p. 14 (Fernando Po. Fraser) (1855). - Hartl., Orn. Westafr., p. 1 (Fernando Po, Fraser)
(1857). — Sharpe, Cat. B., I, p. 312 (specim. e, Fernando Po, Fraser) (18741.
99. Milvus aegyptius (Gm.).
Milvus aegyptius, Boc, .Tom. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 10 (Mongola, Fernando Po,
F. Newton (1895).
100. Astur lopezi, B. Alex.
Bull. B. O. O, XIII. p. 49 (Moka, Fernando Po) (1903).
s Similis A. toussenelii, sed minor, et gastraeo potius vinaceo-castaneo, tibiis et
abdomine rinaceo-castaneis, minime cinereo adumbratis distinguendus. Long. tot. circa 13,0
poli., cnlm. 0,9, alae 7,3, caudae 6.2, tarsi 2,3.
101. Bubo poensis, Fraser.
Bubo poensis, Fraser, P. Z. S., 1853, p. 13 (Fernando Po). — id., Ann. N. H., XV, p. 136
(1855). — Sharpe, Cat. B., II, p. 42 (Fernando Po) (1875).
Bubo fasciolatus, Hartl., J. f. O., 1855, p. 354. — id., Orn. Westafr., p. 18 (= poensis,
Fernando Po, Fraser) (1857).
Nyctaetos poensis, Fraser, Fernando Po, fide Hartl., Ardi. f. Naturg., 1856, 2, p 21.
102. Strix poensis, Fraser.
Strix poensis, Fraser, P. Z. S., 1842, p. 189 (Fernando Po). — id., Ann. N. H, XII, p. 366
(1842). — Alien and Thoms., Narr. Exped. Niger, II, p. 488 (1848). — Hartl., Beitr. Orn.
Westafr., p. 16, n. 30 (1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb.. II. p. 16, n. 30 (1852).
— id., Orn. Westafr., p. 22 (1857).
Strix flammea, part, Sharpe, Cat. B., II, p. 291 (1875).
103. Vinago calva (Temm.).
Treron calva (Temm.). — Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Osservata in Fernando Po dal sig. F. Newton.
Sebbene io non abbia potuto esaminare esemplari della Vinago di Fernando Po,
tuttavia credo cosa probabile che essi debbano essere riferiti alla stessa specie che si
trova nell'Isola del Principe (V. calva), della quale ho potuto esaminare quattro esem-
plari raccolti dal Fea (Meni. R. Acc. Se. Tor. (2), LUI, p. 11). Lo Sharpe (Ibis, 1902,
p. 99) attribuisce un esemplare dell'Isola del Principe, conservato nel Museo Britannico
(Cat. B., XXI, p. 23, specim. g) alla Vinago pytìriopsis, Bp., che secondo lui sarebbe
(*) Citazione errata.
29 FTKIBtTZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA 121
diversa tanto dalla V. calva, quanto dalla V. nudirostris pel colorito verde-olivaceo,
molto più oscuro e pel collare grigio a traverso la parte inferiore della cervice appena
tracciato. Senza volermi erigere a giudice del valore specifico della V. pytiriopsis, io
debbo far notare che i quattro esemplari dell'Isola del Principe da me esaminati sono
simili in tutto a due esemplari della Costa d'Oro (Ussher) conservati nel Museo di
Torino, e che credo realmente appartengano alla V. calva. Mi sembra che le osser-
vazioni del Reichenow e dello Sharpe intorno alle forme della V. calva non abbiano
ancora definito la questione.
104. Tympanistria tympanistria (Temm.).
Peristera tympanistera, Fraser, P. Z. S., 1843, p. 53 (Fernando Po). — Haiti, Beitr. Orn,
Westafr., p. 37, n. 383(1850). — id., Abh. naturw. Ver. Hamb., II, p. 37 (1852). — id.,
J. f. 0., 1854, p. 207. - id., Syst. Orn. Westafr., p. 197 (1857).
Tympanistria tympanistria, Salvad., Cat. B., XXI, p. 504 (1893).
105. Haplopelia poensis, B. Alex.
Bull. B. O. C, XII, p. 33 (Bakaki) (1903).
9 Simìlis H. principali, sed subcaudalibus cinereis nec <dbis distinguendo,. Long,
tot. circa 10,7 poli., culm. 0,85, alae 5,9, caudae 3,2, tarsi 1,15.
106. Numida meleagris, L.
Numida rendalli, HartL, Syst. Orn. Westafr. (Introduz., Lista delle specie di Fernando Po) (1857).
L'isola Fernando Po non è indicata fra le località abitate dalla N. meleagris
(= N.rendalli) a pag. 199 dell'opera citata dell'Hartlaub, ma soltanto nella Introduzione.
107. Xiphidiopterus albiceps (Gould).
Vanellus albiceps, Gould, P. Z. S., 1834, p. 45 (Fernando Po). - Alien and Thoms., Narr.
Exped. Niger, II, p. 508 (River Quorra, W. Africa) (1848).
Sarciophorus albiceps, Fraser, Zool. Typ., pi. 64 (Fernando Po) (1849).
Lobivanellus albiceps, Strickl. — HartL, Beitr. Orn. Westafr., p. 39, n. 410 (1850). — id., Abh.
natnrw. Ver. Hamb., II, p. 39 (1852). — id., .1. f. O., 1854, p. 216. — id., Orn. Westafr.,
p. 214 (Fernando Po) (1857).
Xiphidiopterus albiceps, Sharpe, Cat. B., XXIV, p. 147 (speóm.g, Fraser, h Fernando Po) (1896).
108. Trlngoides hypoleucus (L.).
Actitis hypoleucos, Boa, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 10 (Mongola, Fernando Po,
F. Neutou) (1895).
109. Numenius phaeopus (L.).
Numenius phaeopus, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. 13, p. 11 (1895).
Osservato dal F. Newton presso Mongola sul littorale di Fernando Po.
Serie II. Tom. LUI. P
122 TOMMASO SALVADORI 30
110. Àrdea gularis, Bosc.
Ardea gularis, Boc, Jorn. Se. Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Osservato dal F. Newton a S. Carlo e Conception durante la bassa marea.
111. Butorides atricapillus (Afzel.).
Butorides atricapillus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Osservato dal F. Newton sullo Shark-River.
112. Bubulcus lucidus (Rafin.).
Bubulcus ibis, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Osservato dal F. Newton a Bassilé, sulle terre coltivate.
113. Sterna sp.
Sterna sp.?, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), XIII, p. 11 (1895).
Una specie non determinata di Sterna fu trovata dal F. Newton presso Biapà.
114. Anous stolidus (L.).
Anous stolidus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Comune sulla spiaggia del mare (F. Newton).
115. Phaeton lepturus (Lacép. et Daud.).
Lepturus candidus, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Trovato dal F. Newton sulle roucie inaccessibili del littorale presso Biapà.
116. Sula leucogastra (Bodd.).
Sula flber, Boc, Jorn. Se Lisb. (2), No. XIII, p. 11 (1895).
Trovata molto abbondante dal F. Newton sulle roccie inaccessibili del littorale
presso Biapà.
31
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA
123
APPENDICE
Distribuzione geografica degli uccelli nelle Isole del Golfo di Guinea.
Hirundinidae
Hirundo rustica . .
Cotile cincta ....
Ckelidon urbica . .
'Psalidoprocne poensis
Muscicapidae
Diaphorophya leucopygiali
„ cblorophrys
*Batis poensis ....
"Terpsiphone trioolor
* „ newtoni . .
* „ atrocbalybea
*Smithorni.s sharpei . .
*Cryptolopha herberti .
Cassinia fraseri . . .
'Lioptilus claudei . . .
Melaenomis aedolioides ')
Dicruridae
'Dicrurus modestus . .
Prionopidae
"Cupbopterus dohrni . .
Fraseria ochreata .
Laniidae
"Lanius newtoni
"Dryoscopus poensis . . . .
Laniarius sulphureipectus ') .
Chloropboneus olivaceus (?) ')
Nectariniidae
'Elaeocertbia thomensis
Cinnyris obloropygius .
„ angolensis . .
, obscurus . . .
* „ poensis . . .
„ cyanolaemus .
* , ursulae . . .
* , newtoni . . .
* „ hartlaubi . .
Anthodiaeta hypodila .
„ tephrolaema
Antbothreptes fraseri
Zosteropidae
*Parmia leucophaea . .
*Zosterops ficedulina . .
* „ feae ....
* T griseovireseens
*Speirops lugubris . .
* „ brunnea . .
Turdidae
Pratincola rubetra . .
"Turdus olivaceofuscus .
* „ xanthorhyncbus
„ poensis . . .
Timeliidae
'Callene roberti . .
* , poensis . .
*Neoeossyphus poensis
Alethe poliocepbala .
„ castanea . .
* „ moori . . .
"Cryptillas lopezi . .
"Calaruocichla poensis
*Apalis lopezi . . .
"Urolais rnariae . .
Euprinodes rufogularis
* „ olivaceus .
* „ sclateri .
Eremomela badiceps .
C'ameroptera superciliar
* „ granti .
*Poliolais heleonorae
"Hylia poensis . . .
Stipbrornis gabonensis
'Prinia molleri . . .
*Macrospbenus poensis
"Turdinus bocagei
*Amaurocicbla bocagei
Brachypodidae
Xenocichla? tricolor . .
Andropadus latirostris .
„ virens . .
Stelgidillas gracilirostris
* „ poensis . .
*Pnyllostropnus poensis.
* Sono segnate con asterisco le specie peculiari alle isole.
') Isola Rollas.
124
TOMMASO SALVADORI
32
99
100
101
102
in:;
ini
105
ini;
107
108
109
LIO
IH
Motacillidae
Anthus gemitìi . . .
Fringillidae
Passer diffusus . . .
'Linurgus rufobrunneus
* „ thomensis .
* „ olivaceus .
*Neospiza concolor .
Serinus icterus . . .
Ploceidae
Nigrita bicolor . . .
„ canicapilla .
„ f'useonota . .
„ luteifrons . .
Vidua principalis . .
Steganura paradisea .
Pyromelaena aurea .
"Cryptospiza elizae .
Spermestes poensis .
„ cuculiata
*Nesocharis shelleyi .
Quelea erythrops . .
Lagonosticta thomensis
Estreltla astrild . .
„ rubriventris
, elizae . . .
'Heterhyphantes sancti thomae
„ melanogaster (?)
*Sycobrotus poensis . .
Sitagra brachyptera . .
'Hyphantornis grandis .
, princeps .
„ cuculiata
„ capitalis
Melanopteryx nigerrima
„ maxwelli .
Malimbus rubrieollia . .
Oriolidae
Oriolus cra8sirostris . .
Sturnidae
Lamprocolius splendidus
* „ chubbi . .
„ ignitus . .
„ purpureus
'Onycognathus fuìgidus .
* „ hartlaubi .
Corvidae
Corvus scapulatus . .
Cypselidae
Cypselus affinis . .
* , poensis . .
Taebornis gracilis . .
Chaetura sabinei . .
* , thomensis .
Alcedinidae
Ceryle rudis . .
maxima .
112 Corythornis galerita .
113 * „ thomensis
114 Ispidina leucogaster .
115 Halcyon dryas . . .
116 * „ Jopezi . . .
117
l'J'.i
l:;2
Meropidae
Merops superciliosus .
* „ marionis . .
Dicrocercus f'urcatus .
Melittophagus pusillus
Coraciidae
Coracias garrula . . .
Eurystomus gularis . .
Bucerotidae
Ceratogynma atrata . .
Trogonidae
*Heterotrogon francisci .
Musophagidae
Turacus buffoni (?) . .
„ macrorhynchus .
„ erythrolophus .
Corythaeola cristata . .
Cuculidae
Cuculus canorus ....
„ solitarius ....
Chrysococcyx cupreus . .
„ smaragdineus
Coccystes glandarius . .
Ceutmochares aeneus . .
Indicatoridae
'Indicator poensis ....
Capitonidae
Barbatula subsulphurea
Sylobucco scolopaceus . .
Picidae
"Campothera poensis . . .
Psittacidae
Psittacus erithacus . . .
Agapornia pullaria . . .
, roseicollis . . .
Vy.lturidae
Neophron pileatus . . .
Falconidae
Gypoliierax angolensis . .
Milvus aegyptius ....
*Astur lopezi
Strigidae
*Bubo poensis .
'Scops leucopsis
* . feae . .
33
CONTRIBUZIONI ALLA ORNITOLOGIA DELLE ISOLE DEL GOLFO DI GUINEA
125
141 *Strix thomensis
142
„ poensis ....
Columbidae
Vinago calva ....
* „ sancii thomae .
"Columba thomensis . .
"Turturoena malherbei .
Turtur seraitorquatus ').
Tympanistria tympanistria
Chalcopelia afra ') . .
'Haplopelia simplex . .
* „ principalis .
„ poensis . .
* „ hypoleuca .
Phasianidae
Numida meleagris . .
Perdicidae
Coturnix delegorguei
Glareolidae
Glareola melanoptera .
Parridae
Phyllopezus africanus .
Charadriidae
Xiphidiopterus albiceps
Arenaria interpres . .
Scolopacidae
Totanus glareola . .
, glottis . . .
Tringoides hypoleucus
Numenius phaeopus .
, arquata
Ancylocheilus subarquata
g
=
=
°
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—
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1(19
Rallidae
Rallus caerulescens . .
Crecopsis egregia . . .
Gallonila chloropus (?) .
„ angulata . .
Ibidae
Lampribis olivacea . .
Ciconiidae
Cìconia alba
Ardeidae
Ardea gularis ....
Herodias garzetta . . .
Butorides atricapillus .
Ijiihulcus lucidus . . .
Phoenicopteridae
Phoenicopterus roseus .
Phoeniconaias minor . .
Laridae
Sterna anaestheta . . .
sp
„ tuliginosa . . .
Anous stolidus ....
Micranous leucocapillus
Phaetontidae
Phaeton aethereus . .
„ lepturus . . .
Pelecanidae
Sula leucogastra . . .
Phalacroeorax africanus
Procellariidae
Puffinus griseus . . .
Oceanodroma castro . .
■-
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1
118
l'I
63
IH
') Isola Rollas.
TEORIA ELETTROMAGNETICA
DELL'EMISSIONE DELLA LUCE
MEMORIA
DI
ANTONIO GARBASSO
Approvata nell'adunanza dell'8 Febbraio 1903.
SOMMARIO. — 1. Concetto ed ordine della ricerca — 2. Oscillazioni di un conduttore complesso —
3. Conduttore ad una sola oscillazione — 4. Conduttore a due oscillazioni — 5. Conduttore
a tre oscillazioni — 6. Un altro conduttore a tre oscillazioni — 7. Conduttori a quattro e
cinque oscillazioni — 8. Conduttori per i quali si abbassa il numero delle oscillazioni : caso
particolare — 9. Oscillazioni di un sistema di conduttori — 10. Schermo di risonatori —
11. Sistema di due conduttori qualunque — 12. Due conduttori ad una sola oscillazione —
13. Due conduttori a due oscillazioni — 14. Sistema di due conduttori uguali — 15. Casi
particolari — 16. Sistema di tre conduttori qualunque — 17. Sistema di tre conduttori uguali:
caso particolare — 18. Ancora le oscillazioni di un sistema di conduttori — 19. Oscillazioni
di un sistema di sistemi — 20. Modello per gli atomi materiali — 21. Atomi di corpi chi-
micamente simili — 22. Modello per le molecole materiali — 23. Variazioni nello spettro —
24. Molecole di corpi isomeri — 25. Conclusione.
§ 1. Concetto ed ordine della ricerca. — In certi lavori di indole speri-
mentale, pubblicati alcuni anni or sono, feci vedere che un sistema di risonatori di
Hertz costituisce un modello accettabile della materia per un buon numero di feno-
meni (come l'assorbimento elettivo, il colore superficiale, la rifrazione e la dispersione
delle onde luminose); i quali tutti dipendono dalla struttura molecolare dei corpi.
Nel medesimo ordine di idee mi propongo di dare adesso una teoria dell'emis-
sione della luce. La cosa non pare priva di convenienza perchè i lavori, pubblicati
fino ad oggi su tale argomento da Lecoq de Boisbaudran, da E. Wiedemann, Julius,
Griinwald, Stoney e pochi altri, sono scarsi di numero e nessuno ha carattere defi-
nitivo. Mancando il più delle volte di una forma analitica conveniente, le conside-
razioni che essi contengono riescono quasi sempre difettose o male determinate ; quindi
ne viene come prima e più grave conseguenza una grande disparità di idee fra i
diversi autori.
Anche al quesito principalissimo della nostra ricerca, che è su la natura del
sistema, ai cui moti deve attribuirsi l'origine delle perturbazioni luminose, si danno
da varie parti risposte differenti. Per taluni autori (Kayser) le onde della luce sono
dovute ai moti degli atomi materiali, per altri (Lecoq de Boisbaudran) alle oscilla-
128 ANTONI') GARBASSO '1
zioni delle molecole, per altri ancora (E. Wiedemann) dipendono dai due movimenti
ad un tempo.
1 quali ultimi concetti, poco chiari, e senza dubbio lontani dal meccanismo della
natura, derivano dalla difficoltà, che si prova, nella ipotesi elastica del fenomeno
luminoso, per intendere come le vibrazioni caratteristiche si modifichino, quando
l'atomo passa a costituire delle molecole complesse.
Niente di simile accade se consideriamo le cose dal punto di vista delle teorie
elettromagnetiche, ma anzi la ricerca si svolge piana e sicura e conforme ai risultati
dell'esperienza diretta.
L'ordine del nostro studio è imposto dalla natura stessa del problema. Che l'ec-
citatore del Hertz non possa rappresentare senz'altro gli atomi dei corpi luminosi
riesce chiaro a priori; nella forma schematica di due capacità congiunte da un filo,
esso possiede infatti un unico periodo determinato di vibrazione, vale a dire uno
spettro di una sola riga. Le cose devono essere invece assai più complicate nella
natura, se per certi vapori di sostanze elementari le righe si contano a centinaia e
migliaia.
Bisognerà dunque in primo luogo porre e risolvere il problema delle oscillazioni
di un conduttore complesso. Ricercheremo in seguito come i periodi proprii si modi-
fichino, quando un conduttore è posto in presenza di altri; ed estendendo man mano
la generalità dei nostri calcoli studieremo da ultimo il caso di un sistema di sistemi.
A questo punto solamente si cercherà di vedere come i resultati della teoria
possano corrispondere a quelli più sicuri dell'analisi spettrale.
§ 2. Oscillazioni di un conduttore complesso. — Un conduttore com-
plesso sarà costituito in generale da certe p capacità, congiunte due a due da diversi
fili; e questi siano in tutto in numero di m.
Chiameremo ir, p, o", t gli indici correnti delle capacità, u, v gli indici correnti
dei fili. Ogni capacità si distinguerà con un indice solo (come tt): ogni filo si distin-
guerà con tre indici (come tt, p, u), il primo e il secondo relativi alle capacità che
il filo congiunge, il terzo relativo al filo stesso; finalmente ogni coppia di fili si di-
stinguerà con sei indici (come tt, p, u, o", t, v), i primi tre relativi al primo filo e gli
ultimi al secondo.
Diremo q le cariche, C le capacità, R le resistenze, L i coefficienti di autoindu-
zione, i le correnti, M i coefficienti di induzione mutua.
Si osserverà espressamente che %,£,,« è la corrente che va dalla n-esima alla
p-esima capacità, seguendo il u-esimo filo.
Si avrà:
C1)
tjT.lJ.lt *p,7T,/(.
Le equazioni del problema sono divise in due serie; la prima serie è relativa
ad ogni capacità e si scrive:
(2) Dqn + 19 ZP inw = 0 , (D = -|- )
3 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 129
la seconda è relativa ad ogni filo e si scrive:
(3) ~ qQ — *- qjr + £" *r 2> Nn.o.,a,a,ry ffl.r.v = 0 ,
intendendo che sia:
" 7T,Q,fl,Jt,Q,U =: JtjI,Q,ft T J-'-L'TCQ./lt , , >
D = 4- .
V 71/17" \ <" /
1'7t.Q,/J,,G,T,V 1JJ17T,Q.ll,C,ry-
Il numero complessivo di queste equazioni si ottiene sommando il numero totale
delle capacità col numero totale dei fili ; esse sono dunque tante quante sono le in-
cognite q ed i. Il resultato dell'eliminazione si esprime, come è noto, applicando a
ciascuna q ed a ciascuna i il determinante dei coefficienti. Ora, poiché ogni suo ele-
mento è al massimo di primo grado in D, il determinante sarà una funzione di D
di grado non superiore a
p + m.
In realtà però, svolgendo, si troverebbe che il grado è minore, e la cosa può anche
riconoscersi a priori. Si avrà infatti per le (1) e (2):
DI*q„= - IT8I.« i^,, = 0.
E quindi possibile fare in modo, con semplici addizioni di linee, che il D risulti fattore
in una orizzontale del determinante; allora il grado (t) di quest'ultimo diventa:
T = p + m — 1.
Se dunque si studia un condutture comunque complesso ogni sua carica ed ogni sua
corrente è determinata da un'equazione differenziale lineare ed omogenea (la stessa per
tutte le variabili), il cui ordine è inferiore di uno alla somma, che si ottiene aggiungendo
al numero delle capacità il numero dei fili.
La caratteristica di tale equazione, che per brevità chiameremo nel seguito ca-
ratteristica del conduttore, si scrive ponendo senz' altro a zero il determinante e con-
siderando in esso il D come un' incognita e non più come un simbolo operatorio ;
avrà in generale il grado p -f- ni — 1.
Così, per esempio, se si tratta di due capacità riunite da un unico filo, come nel
caso classico di Lord Kelvin, la caratteristica diventa di secondo grado.
Se le capacità sono due ed m i fili, il grado della caratteristica è m -f- 1.
Se si avesse un conduttore costituito secondo lo schema della benzina, come fu
disegnato dal Kékule, e si interpretassero gli atomi come capacità e i tratti di linea,
relativi alle valenze, come fili, la caratteristica risulterebbe di ventesimosesto grado.
In pratica il procedimento di calcolo che abbiamo seguito non suole essere con-
veniente, perchè, se appena la struttura del conduttore si complica un poco, l'ordine
del determinante appare elevatissimo, ed il suo svolgimento diviene lungo e penoso.
È più comodo eliminare le cariche dalle (3) per mezzo delle (2) ; si ottiene così
un sistema di m equazioni fra le m correnti, e l'ordine del determinante si riduce
Serie II. Tom. LUI. D
130
ANTONIO GAEBASSO
anche ad m. Naturalmente con questo non muta la natura e il grado della carat-
teristica.
Converrà anche distinguere i diversi fili con un solo numero progressivo, e mettere
le (3) sotto la nuova forma :
(4) ZvP(t,viv = 0,
la caratteristica si induce allora all'aspetto semplice:
•*1,1 -^ 1,2 • • • "l,m
H= 1. 2, ..., m
(5)
Pt,\ 1 i,ì ■ ■ ■ £%,v
PmAPm.t...Pm
= 0.
§ 3. Conduttore ad una sola oscillazione. — Passiamo adesso allo studio
di qualche caso particolare, sia per vedere come si applichi in pratica il metodo indi-
cato nell'ultimo paragrafo, sia per dedurre alcuni resultati, che saranno utili nel se-
guito della ricerca.
Il conduttore più semplice, che si possa imaginare, è costituito da due capacità
uguali, congiunte da un filo (Fig. 1 «); in questo caso il sistema (4) si riduce all'unica
equazione:
[(5 + LZ>)2> + -|]* = 0;
posto :
(J8 + LZ>)Z)+-§ = S,
si ha dunque come caratteristica:
8=0.
Se la resistenza è piccola il conduttore emetterà una riga, corrispondente al
periodo :
LC_
2
§ 4. Conduttore a due oscillazioni. — Si abbiano invece tre capacità iden-
tiche, riunite da due fili, uguali fra loro, rettilinei e ortogonali (Fig. 16). Distin-
guendo i fili con gli indici 1 e 2 si scriverà il sistema (4) sotto la forma:
( [(B + LD)D + -|] ». — \ h = 0 ,
se ora si pone:
5 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE
la caratteristica del conduttore diventerà:
8
131
S
S2 _ ,.2 _ (fl _ ,.) (S + r) = o .
Qui le onde sono due, e i loro periodi sono definiti dalle relazioni:
Tj. = 2tt \/LC,
Fig. 1. — «) Conduttore ad una sola oscillazione. 6) Conduttore a due oscillazioni.
e) Conduttore a tre oscillazioni, d) Conduttore le cui oscillazioni si riducono a due.
§ 5. Conduttore a tre oscillazioni. — Il caso immediatamente successivo
è quello di quattro capacità tutte uguali, congiunte da tre fili (1, 2, 3) rettilinei,
uguali fra loro, e paralleli ordinatamente agli spigoli di un triedro trirettangolo
(Fig. le).
Le equazioni (4) diventano:
[(JB + iD)D + 4-]<8--g-H = 0f
e con i soliti simboli la caratteristica si scrive:
8 r 0
r S r =8(8* — 2r2),
= S(S+r]/2){S— r\l2) = 0.
132
ANTONIO &ABBASSO
Vi sono dunque nello spettro tre righe, corrispondenti ai periodi:
7\ = 2ir]/-
T, = 2tt |/-
Ts = 2ti j/
■LC
2 — T'2"
XC
2+V2
§ 6. Un altro conduttore a tre oscillazioni. — Negli esempii, che ab-
biamo trattato al penultimo e all'ultimo paragrafo, il calcolo è reso semplice per il
fatto die l'induzione mutua è ridotta a zero. Le formole ottenute hanno però un'im-
portanza maggiore di ciò, che si potrebbe credere a prima vista; in quanto esse
valgono per approssimazione anche se i fili costituenti i conduttori si orientano in
altro modo, purché codesti fili siano lunghi in confronto del loro diametro.
L'esame di un caso particolare riesce opportuno per mettere in chiaro la pro-
prietà di cui si tratta. Supporremo che il conduttore sia nuovamente costituito da tre
pezzi di filo (uguali) e quattro capacità, anche uguali fra loro; ma i fili vogliamo che
siano secondo una medesima retta, e le capacità saranno dischi di lamiera, forati nor-
malmente nel centro (Fig. 4 b e ic).
Chiameremo M il coefficiente di induzione relativo a due fili vicini (1,2; 2,1 ;
2.3; 3,2) e m il coefficiente per la coppia di due fili lontani (1,3; 3,1); ponendo per
semplicità :
J_
C '
I = IPM
a = D*m ,
la caratteristica del conduttore diventa:
s 1
a
I s
I
0 I
S
: (S — a) (S2 + aS — 2P) = 0.
Se ora si effettua lo svolgimento, si trascurano le resistenze e si pone ancora:
a = L2 -f L»m — 2AP,
b = | (2L + m + 2M) ,
e2
risulta :
[(L — m) D* + -|-] («D* + ÒZ>2 + e) = 0
7 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 133
e quindi:
T2 = 2tt ]/-
(L — m) C
Adesso bisogna naturalmente calcolare M ed m, ma la cosa è subito fatta se si
suppone di conoscere L; perchè, chiamando l la lunghezza di ciascun tratto di filo,
verrà :
L(2/) = 2L(0 + 2.V.
e quindi:
M=}[L(2l)-2L(l)]; (*)
similmente :
L(3Z) = 3L(0 + 4M+2m,
e dunque:
m = -|-[L(30 — 8L(0-4JfJ- (**)
A questo punto si noti che, secondo una formola del Poincaré, è:
L(0 = 2z(logif-l),
ove con d si indichi il diametro del filo.
Sostituendo nelle (*) e (**) risulta dunque:
i¥=nog4,
27
w = nog~-
Le espressioni di L, M ed m fanno vedere che, mentre la prima grandezza di-
pende da l e dal rapporto -~ , le ultime due sono funzioni della sola l. E poi chiaro
che al diminuire della d la L cresce ; se dunque i fili sono lunghi e sottili l'induzione
mutua sarà piccola davanti all'autoinduzione.
La ragione fisica di questo fatto sta in ciò che una corrente, distribuita in un
mantello cilindrico, agisce all'esterno come se fosse concentrata su l'asse ; il risultato è
dunque generale, più che non possa apparire dal caso che si è considerato.
§ 7. Conduttori a quattro e cinque oscillazioni. — Volendo procedere
al calcolo di conduttori sempre più complessi noi supporremo precisamente che i fili,
di cui sono costituiti, siano lunghi e sottili.
134
ANTONIO CiAHBASSO
Se per esempio vi sono in tutto cinque capacità (uguali), riunite due a due da
quattro fili, uguali anche fra loro, come nella figura 4 a, la caratteristica si potrà scri-
vere sotto la forma :
S r 0 0
r S r 0
0 r S r
0 0 r S
dalla quale si deducono i periodi:
T, = 2tt
T, = 2tt
T3=2tt
r4= 2tt
S* — 3r2S2 + r* = 0,
LC
-t
3 + V5
k-n
-1
i
3 — V 5
2 +
1
3 + V5
Se le capacità sono sei, tutte uguali, congiunte due a due da cinque fili pure
eguali, viene come caratteristica:
S r 0 0 0
r S r 0 0
0 r S r 0
0 0 r S r
0 0 0 r S
e di qui si ricavano i periodi :
= S{S* — 4r2S2 + 3r±) = 0 ,
= 2*]/-
iC
2— j/3
T2=2ti|/LC,
LC
3
T4 = 2tt ]/-
r 2 + ^3
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
135
Sarebbe facile scrivere, con le solite ipotesi, le caratteristiche di sistemi sempre
più complessi, ma per ora non ne abbiamo bisogno. Ritorneremo su l'argomento
più tardi.
§ 8. Conduttori per i quali si abbassa il numero delle oscillazioni:
caso particolare. — La regola del paragrafo 2, secondo la quale il grado della
caratteristica si calcola con la forinola :
Y = p -|- m — 1 ,
assegna in realtà un valore massimo ; non è escluso che, per una scelta particolare
delle costanti, o una disposizione speciale dell'apparecchio, il grado si abbassi o certe
radici diventino doppie o multiple. Può servire come esempio il caso del conduttore
rappresentato dalla figura 1 d.
Si tratta di quattro capacità identiche, riunite due a due da tre fili rettilinei,
uguali, e disposti secondo gli spigoli di un triedro trirettangolo :
Il sistema (4) prende la forma :
[(2? + LZ))£ + -|]t1+-^i! + -|i3^0,
[{R + LD)D + -§] i2 + ± i, + ± i, =0 ,
[(R f LD) D + -§] i3 + -| h + ± H = 0 ,
e la caratteristica diventa:
S — r — r
r S —r
r —r S
= S{S* — r*) — 2r*{S + r),
= {S— 2r)(S+»-)'2 = 0.
Quindi rimangono solamente due righe, determinate dai periodi:
T, = 2tt \/LC,
2tt
1 LC
e una costituisce l'ottava dell'altra.
§ 9. Oscillazioni di un sistema di conduttori. — Imagineremo che il
sistema comprenda un numero qualunque a di conduttori, uguali o no, poco importa.
Chiameremo a, f? gli indici correnti dei conduttori ; tt, p, 0", t gli indici correnti
delle capacità ; u, v gli indici correnti dei fili.
Ogni conduttore si distinguerà con un indice solo (come a).
Ogni capacità con due indici (come a, ti), il primo relativo al conduttore e il
secondo alla capacità stessa. Ogni filo poi si distinguerà con quattro indici (come a,
1 ;i, ANTONIO GAEBASSO 10
ir, p, u), il primo relativo al conduttore, il secondo e il terzo alle capacità che il ilio
congiunge, il quarto al filo stesso ; finalmente ogni coppia di fili si distinguerà con
otto indici (come a, tt, p, u, p, cr, t, v), i primi quattro relativi al primo filo e gli ultimi
al secondo.
Per le cariche, le capacità, le resistenze, i coefficienti di autoinduzione, le cor-
renti e i coefficienti di induzione mutua manteniamo gli stessi simboli di prima.
Si osserverà espressamente che ia,n,e4i è la corrente che, nel conduttore a-esimo,
va dalla n-esima alla p-esima capacità, seguendo il u-esimo filo.
Si avrà:
la.TT.jr./i =- - >
(!)
1<x,jz,q,/i — la.o.jr.ti-
Le equazioni del problema sono divise in due serie; la prima serie è relativa
ad ogni capacità e si scrive:
(II) Dqa,n + le Z" ia^Q,/t = 0 ,
la seconda è relativa ad ogni filo e si scrive:
(III) ~- qa,Q — -^ qa,7t + & 21° £T *V NajT,Q,fi,p,Oxy ifi.Ct.v = 0 ,
intendendo che sia:
Na,n.g,/u.lJj,o,T,v = JJMa.jr.g.fi./la.Ty-
Il numero complessivo di queste equazioni si ottiene sommando il numero totale
delle capacità col numero totale dei fili ; esse sono dunque tante come le incognite
q ed i. Il risultato dell'eliminazione si esprime di nuovo applicando a ciascuna q ed
a ciascuna i il determinante dei coefficienti. Ora, poiché ogni suo elemento è al mas-
simo di primo grado in D, il determinante sarà una funzione di D di grado non su-
periore a
Ìa (Va + ma).
In realtà però, svolgendo, si troverebbe che il grado è minore, e la cosa può anche rico-
noscersi a priori. Si avrà infatti per le (I) e (II) :
B^qa,M= - **&** ìa.^,,, = 0,
per ogni valore di a. È quindi possibile fare in modo, con semplici addizioni di linee,
che il D risulti fattore in a orizzontali del determinante; allora il grado (T) di
quest'ultimo diventa :
r = Ìa{pa + ma)—a.
11
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
137
Se dunque si studia un sistema di conduttori comunque complessi ogni sua carica
ed ogni sua correnti- è determinata da un'equazione differenziale limare ed omogenea (la
stessa per tutte le variabili), il cui ordine si ottiene aggiungendo il numero delle capa-
cità a quello dei fili, e sottraendo dalla somma il numero dei conduttori, che costituiscono
il sistema.
La caratteristica di tale equazione (che per brevità chiameremo nel seguito carat-
teristica del sistema) si scrive ponendo senz'altro a zero il determinante e conside-
rando in esso il D come un'incognita e non più come un simbolo operatorio; avrà
in generale il grado Ta(pa -\- ma) — a.
Per i singoli conduttori costituenti il sistema il grado della caratteristica è:
viene dunque:
Ta = pa + ma — 1 ,
r = ZaYa •
Hi arriva così ad un teorema, che è fondamentale per la nostra teoria, e cioè :
il grado della caratteristica di un sistema di conduttori è la somma dei gradi delle
caratteristiche relative ai conduttori, che lo costituiscono.
La cosa è vera in particolare se ogni Ta è pari, e quindi un sistema emette uno
spettro, che contiene in generale un numero dì righe uguale alla somma di quelle, che
compongono gli spettri dei suoi conduttori.
In pratica il procedimento di calcolo che abbiamo seguito non suole essere con-
veniente. È più comodo eliminare le cariche dalle (III) per mezzo delle (II); si ottiene
così un sistema di Zawa equazioni fra le t.ama correnti, e l'ordine del determinante
i i
si riduce anche a Za;»a. Naturalmente con questo non muta la natura ne il grado
i
della caratteristica.
Converrà anche distinguere i diversi fili con un solo numero progressivo, e met-
tere le (III) sotto la nuova forum :
(IV)
Z.Vp/t,vÌv = 0,
1, 2, ..., n .
Z«ma,
la caratteristica si riduce allora all'aspetto semplice:
-M,l A,8 • • • -*l,n
(V)
"t,i -*!,:
P»,, P„,
P,.n
§ IO. Schermo di risonatori. — Per dare un primo esempio del modo, in
cui si utilizza nei casi pratici la teoria esposta nel paragrafo precedente, ne farò
Serie II. Tom. LUI. "
138
ANTONIO GAEBASSO
L2
l'applicazione ad un sistema, del quale mi sono occupato in una nota, che fu accolta
a suo tempo negli " Atti dell'Accademia „ (XXVIII, 816, 1893).
Sopra una tavoletta di legno avevo disposto in sei righe orizzontali 186 risona-
tori rettilinei, senza intervallo, tutti uguali, costituiti da un filo di rame terminato
da due dischi di latta; sperimentando con questo schermo trovai che esso rifletteva
assai bene i raggi di forza elettrica, ma la riflessione si poteva constatare anche per
mezzo di secondarii dotati di periodo assai diverso da quello, che era proprio degli
elementi del sistema.
Dedussi da questo risultato che " quando più risonatori sono messi molto vicini
gli uni agli altri le cose succedono come se la loro radiazione fosse multipla „.
L'accordo fra l'esperienza e la teoria è manifesto; il teorema, che abbiamo di-
mostrato, porta infatti a concludere, senza nemmeno far calcoli, che nel caso attuale,
avendosi nel sistema a risonatori con una oscillazione, ogni corrente deve risultare
dalla somma di a oscillazioni, le quali, in generale, saranno tutte differenti fra loro,
e differenti pure dall'oscillazione propria di ciascun elemento dello schermo, quando
lo si consideri isolato.
Gli svolgimenti analitici si fanno del resto con tutta facilità. Le equazioni (I) e (II)
prendono infatti la forma :
^ ^7cu -H„=0 .
2(1,1 7TT 2a,2 — I'3A'a„3 ì$ — 0 ,
Ca,ì
Cu,
1,2.
e però eliminando le q dal sistema (III) e introducendo ancora le notazioni:
DNa,p= Pa,p, a =j= P a,P = 1, 2, ..., a
DN™+-ch- + ^k = Pa<a> a=1'2 "
si ottiene:
£^P„,/}i/?=0.
Ogni ia è dunque un integrale dell'equazione:
PM Pu .-. Può
A, R, ... P*,„
»a = 0 ,
P,,, P... ... P„
che sarà lineare omogenea e dell'ordine 2 a, come avevamo previsto.
§11. Sistemi di due conduttori qualunque. — Se si sono scritte le equa-
zioni (5) per i diversi conduttori, che compongono il sistema, è molto facile costruire
la (V); in realtà l'eliminazione delle cariche dalle equazioni (III) si fa gruppo per
Vò
TEOEIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
139
gruppo, quindi le equazioni (IV) non sono che il complesso dei sistemi (4), modificati
nel senso che in ciascuna equazione si devono aggiungere dei termini della forma
che rappresentano l'azione induttiva, che i fili appartenenti ad altri conduttori eser-
citano sopra il filo a cui l'equazione si riferisce.
Si abbiano ad esempio due conduttori in presenza e uno contenga m fili e l'altro
ne contenga r ; distinguiamo i primi coi numeri da 1 ad m, i secondi coi numeri da
m -fi ad m -\- r.
Le equazioni (5) prenderanno la forma:
1H =
Pi,i P.,1
P,„,
P» P»
P,m
= c
PmA P„,2
■ Pm,m
fi P»+>,
+2
■■ Pm
+ !,«'+'
p-«*«
= 0
P,+v
+1 x m+r.m+J
e la (V) si scriverà senz'altro:
P,, Pi* ... P,,. D*Mhm+ì D*Mlim+t ... D*Mhm+r
P,i p2,2 ... pm i^-i/,,^ w,+ì ... Dmìm+r
p,l
Pra,s
. Pm,m
i»-'J/,„,m+l D*Mm,m+t .
• ■ Z>=M/m.„1 +
P^A,. ,,
/>M4+,,J •
• D*Mm+lim
P ,.»,»+, Pm+1,»+8 •
.. Pm+1,m+r
M^,
p^+2,* .
■ D*Mm+iim
J m h!,m i-l "m+2,m+2
■ ■ Pn+!,m+r
P2^,, p2i!A„+r,2 ... p2il/„,+r,„, Pm+I,m+1 pm+r,mH
p,+,„
= 0.
Dividiamo quest'ultimo determinante in due matrici, una di m e l'altra di r oriz-
zontali, e sviluppiamolo secondo i minori estratti dalla prima.
Fra i minori ci si presenta anzitutto BT e il suo complementare è IR; sicché
una prima serie di termini nello sviluppo del determinante grande è riassunta nel
prodotto m%
In tutti gli altri minori, che si possono estrarre dalla matrice superiore, vi saia
almeno una verticale formata coi termini aggiunti della forma D2i¥,t,v; e la stessa
cosa si deve dire dei complementari di questi altri minori; sicché i termini dello
140 ANTONIO GABBASSO 14
sviluppo del nostro determinante, che non sono già contenuti nel prodotto 2H|\, hanno
almeno due M„tV a fattore, potremo dunque scrivere:
intendendo per le A"„,v,„v dei polinomii, i cui termini sono al minimo di ordine zero
nei coefficienti .l/„,v.
Se ora le M„y sono piccole rispetto alle induttanze il secondo termine dell'espres-
sione di $1 è piccolissimo rispetto al primo. Ne viene dunque che se due conduttori
differenti si trovano in presenza (e non sono troppo rifinì) lo spettri), che essi emettono,
è poco diverso da quello, che si otterrebbe sopraponendo gli spettri, che ciascuno fornisce
quando è isolato.
§ 12. Due conduttori ad una sola oscillazione. — Gli spostamenti, che
le righe di un dato conduttore subiscono per la presenza di un secondo conduttore
di diversa natura, si lasciano calcolare agevolmente in alcuni casi semplici.
Supponiamo anzitutto che si abbiano due apparecchi, del tipo di quello che fu
studiato nel paragrafo 3.
Scriveremo :
(R1 + L1D)D + jr = Sl,
(R2±L2D)D + ^ = S2,
D3Mlt = D*M=s.
Con queste notazioni le caratteristiche, relative a ciascun conduttore isolato,
sarebbero :
51 = 0,
e:
52 = 0;
l'equazione (V) si presenta dunque sotto la forma :
S, s
s S2
Trascurando le resistenze viene
SA — s2 = 0.
(L1L2-Jf*)^ + 2(f+f)D*+1A_ = 0)
e pero :
Z\=2n
T,=2tt
ULi - M-
% + %-1[% + %)'-G£™
— Mì)
LtL, — M%
l+t+yilr+t)'-^^
— M2)
15
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
141
Delle forinole relativamente più semplici si ottengono se si suppone che le ca-
pacità (Fig. 2 a) o i fili (Fig. 2 b) siano uguali nei due conduttori.
Fig. 2. — a) e è) Sistemi di due conduttori ad una oscillazione; emettono spettri di due righe,
e) e d) Sistemi di due conduttori a due oscillazioni; emettono spettri di quattro righe.
§ 13. Due conduttori a due oscillazioni. — In secondo luogo si potreb-
bero prendere due conduttori del tipo di quello che è rappresentato dalla fig. 1 è e
disporli uno accanto all'altro, per modo che il primo filo agisca sul primo e il secondo
sul secondo solamente, e per di più i coefficienti delle due coppie risultino uguali.
In armonia con ciò che s'è fatto prima porremo:
1
-" 4=ri'
1
-■ ft=r"
e : D*Mlt3 = D*MiA = D2M = s.
Le due (5) prenderanno la forma:
Si
ri S,
= o,
= 0,
e però la (V) si scriverà:
Si >\ s 1
rx Sj 0
s 0 S2 r
0 s r, S
= {SiSs -
- 'Va — s2 —
^SA + ry-, — «*)■ — (rA + rA)"
riS2 - r&ìfàS, + nr2 - s* + rA + rA) = 0.
142 ANTONIO GABBA- 16
Trascurando le resistenze viene:
{LlL2-M*)& +(%+%)& + -£
e quindi :
T ■
9,r1 /
2(£,£, — il/-')
1 i -
e,
+t
+v(*+*)'-
e, e.
TV
2(£,Z,2 — M2)
c2
+t
-f(S+t)"-
LJ^ — M1
TV
2(£,£2 - M1)
i+t+ffè+tr-
Z,,L2-il/2
T
2(i,L2-JI/2)
^-l^ + ir)'-4-
Di nuovo si avrebbero delle forinole più semplici se le capacità (Fig. 2 e) o i fili
(Fig. 2 d) fossero uguali nei due conduttori accostati. Questi calcoli si potrebbero fa-
cilmente generalizzare, ma la cosa non ha importanza per le applicazioni, e quindi
preferisco non indugiarmi in proposito.
§ 14. Sistema di due conduttori uguali. — Quando i due conduttori in
presenza hanno la stessa forma e la stessa grandezza, ragionando come al para-
grafo 11, si può dimostrare che la caratteristica del sistema si svolge secondo una
forinola del tipo :
% = W + Iif„,v./,',v'itf«,v 3/„.,v .
E vuol dire che se si affacciano due conduttori uguali lo spettro che. essi mandano si
ottiene da quello, che ciascuno dei due fornirebbe quando fosse isolato, sostituendo ad ogni
riga una coppia (doublet).
Con quale legge poi si deduca il doublet dalla riga, che gli dà origine, non è
facile dire, almeno in generale; ma in un caso particolare notevole si giunge senza
molti calcoli ad un risultato semplice ed elegante.
Si consideri anzitutto un conduttore costituito da m-\-l capacità uguali, riunite
da m fili, anche uguali fra loro; ogni capacità sia incontrata da due fili, salvo la
prima e l'ultima. Supponiamo ancora che le cose siano disposte per modo che l'in-
duzione mutua sia trascurabile davanti all'autoinduzione: questo si verifica rigorosa-
17
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
14:1
mente nei conduttori studiati ai paragrafi 4 e 5 e può verificarsi per approssima-
zione in una infinità di altri apparecchi, come si è avvertito a suo tempo.
Con i soliti simboli la caratteristica del nostro problema (l'equazione (5)) si
scriverà :
M(S)
S r 0 0
r S r 0
0 r S r
0 0 0
0 0 0
0 0 0
0 0 0 0 . . . r S r
0 0 0 0 . . . 0 r S
= 0.
A questo primo conduttore se ne affacci un secondo identico in tutto, in modo
che il |u-esimo filo agisca solamente sul u-esimo, e i coefficienti di induzione mutua
per le singole coppie siano uguali. Di nuovo la cosa si può fare rigorosamente coi
tre conduttori studiati ai paragrafi 3, 4 e 5 e per approssimazione con molti altri.
La (V) del sistema prenderà in generale la forma :
S r 0 0
r S r 0
0 r S r
0 0 0 0
0 0 0 0
s 0 0 0
0 s 0 0
0 0 s 0
0 0 0 0
0 0 0 0
. 0 0 0 s 0 0 0
. 0 0 0 0 s 0 0
. 0 0 0 0 0 s 0
. r S r 0 0 0 0
. 0 r S 0 0 0 0
. 0 0 0 8 r 0 0
. 0 0 0 r S r 0
. 0 0 0 0 r S r
. 0 s 0 0 0 0 0
. 0 0 s 0 0 0 0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
s
0
0
0
s
0
0
0
0
0
0
0
0
0
r
s
r
0
r
S
Si imagini adesso di dividere il determinante in due matrici di m orizzontali, e
si aggiungano alle linee della prima le linee della seconda ordinatamente. Fatto questo
si spezzi il determinante in due matrici di m verticali, e si tolgano dalle colonne della
seconda le colonne della prima ordinatamente.
144
ANTONIO GAEBASSO
LS
Risulterà
S+s
0
0
r S+s r 0
0 r S+s r
0
0
0
0 .
. r
SH
r
0 0
0
0 .
. 0
0
0
0
0
0
0 .
. 0
r
N-. s
0 0
0
0 .
. 0
0
0
s
0
0 .
. 0
0
<>
S — s r
0
0 .
. 0
0
0
0
s
0
0 .
.. 0
0
0
r Ss
r
0 .
. 0
0
0
0
0
s
0 .
. 0
0
0
0 r
S—s
>■ .
. 0
0
0
0 0 0 0 ... 0 s
0 0 0 0 ... 0 0
0 0
0 0
/■ S-
0
= 0.
e quindi senz'altro:
ji =m (.s + s)]. [m (s-s)].
Se dunque i periodi delle righe, che emette il conduttore isolato, sono certe
funzioni dell'induttanza :
T1(L).T2{L)...T„(L),
i doublets relativi al sistema di due conduttori uguali si determineranno con le
forinole :
l T,{L-\-M) j T2(L + 3I) j T,„(L + i¥)
( TX{L — M)' ì r,{L — M) '" ì Tn{L — M).
Con un ragionamento semplice, fondato su la considerazione delle dimensioni, si
potrà poi riconoscere che le funzioni T devono essere proporzionali alla radice qua-
drata dell'argomento, e ne seguirà che il rapporto dei periodi, per le due righe di
uno stesso doublet, è costante in tutto lo spettro e uguale a :
1
L + M .
L — M '
in altre parole, essendo Tu il periodo di una oscillazione propria del conduttore iso-
lato, il doublet, in cui la riga si sdoppia quando al primo conduttore se ne affaccia
un secondo nel modo che s'è detto, corrisponde ai periodi :
2J.-V
L + M
r«.f
19
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL EMISSIONE DELLA LUCE
145
§ 15. Casi particolari. — È facile adesso sottoporre al calcolo gli apparecchi
rappresentati dalle figure 3 a, b, e, i quali rispondono alle ipotesi, che abbiamo am-
messo per la dimostrazione del teorema del paragrafo precedente.
Il primo (Fig. 3 a), che è formato con due conduttori del tipo di quello del pa-
ragrafo 3, darà un solo doublet corrispondente ai periodi :
| Ti=2Tt|/^+^l
(£ — M)C
Il secondo (Fig. 3 b), nel quale stanno affacciati due apparecchi, simili a quello
del paragrafo 4, emette due diversi doublets coi periodi :
( T1=2nftL + M)C,
/ T2=2tt\/(L— M)C,
f T4=2Tr|/
I L - M < ■
{L — M)C
Fig. 3. — o) Sistema di due conduttori uguali ad una oscillazione ; emette un doublet, b) Sistema
di due conduttori uguali a due oscillazioni; emette due doublets. e) Sistema di due conduttori
uguali a tre oscillazioni; emette tre doublets.
Il terzo finalmente (Fig. 3 e), che risulta dalla riunione di due conduttori, uguali
in tutto a quello da noi studiato nel paragrafo 5, avrà uno spettro di tre doublets
corrispondenti ai periodi:
~M)0
'2
f T2=2tt|/
(L — MìC
2 - V 2~
Serie II. Tom. LUI.
146
ANTONIO GAKBASSO
20
( T3=2nJ/-
[L + M)C
(L — M)C
(L + M)C
( r8=2nl/
r
= 2tt1
97r1/g-3f)c"
2 + y 2
§ 16. Sistema di tre conduttori qualunque. — Il problema delle oscilla-
zioni di un sistema costituito di tre conduttori differenti non presenta nessuna mag-
giore difficoltà di quello da noi trattato nel paragrafo 11. Anche le conclusioni a cui si
arriva nei due casi sono simili.
Supponiamo, per fissare le idee, che il primo conduttore abbia m fili, il secondo r e
il terzo s ; siano le loro caratteristiche :
1H = 0,
3R = 0,
$ =0,
L'equazione (V) del sistema complessivo si potrà scrivere simbolicamente:
IH Qi, <?i,s
Oli 31 02.3
V3,i Vm >3
^0
intendendo per le Q certe matrici formate di termini del tipo D'Mpy, relativi alle
azioni che s'esercitano fra fili appartenenti a conduttori diversi.
Se, per esempio, i fili del primo conduttore si distinguono coi numeri da 1 ad m,
i fili del secondo coi numeri da m -\- 1 a m + r, i fili dell'ultimo coi numeri da
m -\- r -f- 1 a ni + r ~\- s, sarà :
D2M,
D*Mlia+r
D*Mmi ,
D2Mm+r+ì
. . . D-M„.,m+,
.. DìMm+Tin
. . . D^^+m
. . . Z>2M„,+r+v,
Z>2ilf,
/>-'.!/.
. D2JHni+1,B+r+,
. D*Mm+r+1>m+t
. D>Mm+r+,,m+r
21 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 147
Dividiamo il determinante B in due matrici, una di m -\- r e l'alti-a di s oriz-
zontali, e sviluppiamolo secondò i minori estratti dalla prima.
Fra i minori ci si presenta anzitutto quello che fu chiamato Jl al paragrafo 11,
e il suo complementare è £> ; sicché una prima serie di termini dello sviluppo del de-
terminante grande è riassunta nel prodotto £1.5.
In tutti gli altri minori, che si possono estrarre dalla matrice superiore, vi sarà
almeno una verticale formata coi termini aggiunti della forma D2M/U,V; e la stessa
cosa deve dirsi dei complementari di questi altri minori. Tutti i termini dello svi-
luppo del nostro determinante, che non sono già contenuti nel prodotto $|$, hanno
dunque almeno due il/„,v a fattore.
Se ora si rammenta l'espressione del determinante % si potrà scrivere senz'altro :
B = MS + IA„,v.,cy i¥u,v Ma-y ,
avendo le A'„,v,/(\v il solito significato.
Se le Mu, v sono piccole rispetto ai coefficienti di autoinduzione, il secondo termine
dell'espressione di B è piccolissimo rispetto al primo.
Ne viene dunque che: se tre conduttori differenti si trovano in presenza (e non
sono troppo rifinii lo spettro che essi emettono è poco diverso da quello, che si otterrebbe
sopraponendo gli spettri relativi ni singoli conduttori isolati.
§ 17. Sistema di tre conduttori uguali: caso particolare. — Quando
i tre conduttori in presenza hanno la stessa forma e la stessa grandezza, ragionando
come al paragrafo precedente, si può dimostrare che la caratteristica del sistema si
svolge secondo una forinola del tipo :
B = M3 -1- I/vw.«y MuyMwx.
E però: se si affacciano tre conduttori uguali lo spettro che essi mandano si ottiene
da quello, che. ciascuno dei tre fornirebbe quando fosse isolato, sostituendo ad ogni riga
una tema (triplet).
La legge poi, con la quale si deduce il triplet dalla riga a cui corrisponde, non
si può esprimere facilmente a parole, anche se il sistema considerato è molto semplice.
Io mi accontenterò di supporre ch'e i tre conduttori uguali siano del tipo di
quello studiato al paragrafo 3, siano paralleli, disposti in un medesimo piano, nel
modo che appare dalla figura 5«, distando il primo dal secondo come il secondo
dal terzo.
Le tre caratteristiche hanno nel caso nostro la forma :
S=o,
scriveremo poi:
(V> = Q,, = <?2,3 = Qw = D2M= s ,
148 ANTONIO GARBASSO
e la caratteristica del sistema diventerà:
S s a
s s s ={S — o)(S* + oS — 2s*)
o" s S
22
= (S-g)U+" + ^ + «"
a — v a- 4- 8
*)-.,
i tre periodi sono dunque determinati dalle forinole:
U+'
ì+Ym^ + tìM*] „
[L +
2 JC
2
/_. , m-Vm*+8Mt\„
[L + -
2 y "
T,= 2tt
T3=2ti
§ 18. Ancora le oscillazioni di un sistema di conduttori. — Il teo-
rema, che abbiamo dimostrato nei paragrafi 11 e 16 peri sistemi composti di due e
tre conduttori, si può estendere senz'altro ad un sistema di a conduttori.
Se le caratteristiche di questi sono date sotto la forma :
Mo = 0, . a — 1,2 a
la caratteristica del sistema complessivo potrà scriversi simbolicamente :
Qui <?U ••• <?:.„
Qv % ft,i ••• Q»
0.
?.,. Qa., <?a,3 ..- IH
Di nuovo le Qa,p sono matrici di termini della forma D-M!iy, relativi all'aziono,
che si esercita fra i fili dell'ct-esimo e quelli del p-esimo conduttore. La Qa,p ha
a orizzontali e (J verticali, non è dunque la stessa cosa che Qp,a.
Col procedimento di prima si dimostrerà che è:
« = % . H. .- BZ. + I K„.:,.,ry M„,v Mu'y .
ed anche, quando tutti i conduttori siano uguali:
(E = Wa + £ Ku,vjty M„,v Micy .
23 TEOEIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 149
Possiamo dunque concludere che se a conduttori differenti si tronchi in presenza (e
non sono troppo vicini) lo spettro che essi emettono è poco diverso da quello, che si otter-
rebbe sopraponendo gli spettri relativi ai singoli conduttori isolati.
E ancora: se si affacciano a conduttori uguali lo spettro che essi mandano si ottiene
da quello, che ciascuno fornirebbe quando fosse isolato, sostituendo ad ogni riga una
banda composta di a righe.
§ 19. Oscillazioni di un sistema di sistemi. — Il problema delle oscilla-
zioni di un sistema di sistemi non è analiticamente diverso da quello di un sistema
di conduttori semplici ; in realtà dipende da noi di pensare i singoli conduttori iso-
latamente o di pensarli invece riuniti in gruppi. Nella pratica però, e nel risultato
dei calcoli, i due problemi sono diversi, perchè si dirà di avere un sistema di con-
duttori quando i coefficienti di induzione mutua, per ogni coppia di tali conduttori,
hanno il medesimo ordine di grandezza, si dirà invece di avere un sistema di sistemi
se i coefficienti relativi a certe coppie sono piccoli rispetto a quelli, che si calcolano
per altre coppie.
La caratteristica del sistema di sistemi si costruisce al modo solito con le carat-
teristiche dei sistemi componenti. E quindi i teoremi dell'ultimo paragrafo valgono
ancora quando alla parola conduttore si sostituisca la parola sistema.
§ 20. Modello per gli atomi materiali. — Volendo applicare i resultati,
che abbiamo ottenuto fino a questo punto, alla teoria dell'analisi spettrale, ci si pre-
senta anzitutto la quistione se gli atomi della materia debbano considerarsi come sem-
plici conduttori, o non piuttosto come sistemi complessi.
Si osserverà in proposito che in taluni casi particolari, nei quali, per conside-
razioni di altra natura, siamo certi che le molecole contengano un atomo solo, come
accade ad esempio del vapore di mercurio, i periodi proprii sono ancora moltissimi ;
in quest' ultimo spettro si rinviene anzi tutta una serie di triplets. Ora, se è possi-
bile imaginare e costruire dei conduttori che, quando sono isolati, emettono già delle
terne di righe, pare più semplice e più naturale e più conforme alla regolarità, con
la quale si trovano distribuiti i triplets negli spettri realmente osservati, il supporre
che il sistema vibrante risulti, almeno per la parte più considerevole, di tre conduttori
identici e distinti. In modo analogo quegli atomi che emettono degli spettri a doublets,
conterrebbero delle coppie di conduttori uguali.
Possiamo anzi fare in questo senso un passo ulteriore e stabilire che gli elementi
costitutivi degli atomi della materia si debbono considerare come conduttori a fili
uguali, lunghi e sottili, del tipo di quelli che abbiamo studiato nei paragrafi 3, 7 e 14.
Si arriva a tale risultato con alcune semplici considerazioni numeriche.
Come è noto Kayser e Runge hanno fatto vedere che tutti gli spettri degli ele-
menti contengono delle serie di righe legate fra loro da una forinola del tipo
xr' = 4- *--4-;
ti a
in questa A, B e C sono certe costanti e la n un parametro variabile, per il quale
si devono porre successivamente i singoli numeri naturali a cominciare dal 3. Ora
150 ANTONIO GAKBASSO 24
(e in questa circostanza si trova ad un tempo l'origine prima e la giustificazione
della presente teoria) il conduttore del paragrafo 5 soddisfa alla forinola di Kayser e
Runge con due sole costanti (^4 e E), e i conduttori del paragrafo 7 soddisfano alla
forinola più generale con tre costanti.
Io mi accontenterò di mostrare come si verifichi la cosa in un esempio particolare.
Prendiamo all'uopo il conduttore a quattro oscillazioni che fu studiato al para-
grafo 7.
I reciproci delle sue onde sono proporzionali ai numeri :
JM
*-±p- =0,62,
y.-y
:i-y_r>
1,17,
y/2+y/
!=H- = i,«2,
y/2+y/
i±£- = 1,90
Proviamoci dunque a scrivere:
B
0-62 = ^4 9 81
1,1, = J____f
1,62 = ^4 — — —
,U"J ^ 25 625
Si calcoleranno così i valori delle costanti A, B e C; portando questi ultimi nella:
Kl = A
4 B
e
A 36
1296
xr' = i.9i .
risulta:
che è appunto il reciproco della quarta onda.
Ma qui conviene fare subito un' osservazione. Se veramente gli atomi della ma-
teria fossero costituiti , come s' è detto , e disposti con le regole ammesse al § 14,
dovrebbe valere per essi il teorema secondo il quale il rapporto dei periodi per le
righe di un doublet è in tutto lo spettro medesimo ; questo non accade in realtà.
Si trova invece che il rapporto in quistione varia poco, ma varia, e non sempre
con una legge bene determinata.
L'imagine dunque è più semplice del processo, che si vuole descrivere; bensì
la semplificazione non dovrebbe essere eccessiva, per quello almeno che possiamo
giudicare.
25 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 151
§ 21. Atomi di corpi chimicamente simili. — Allo scopo di precisare
meglio e di completare lo schema degli atomi, che fu abbozzato nel paragrafo pre-
cedente, vogliamo porre adesso una nuova quistione.
I corpi chimicamente affini, quelli cioè che appartengono ad uno stesso gruppo
della serie naturale periodica, hanno, come si sa, degli spettri costruiti quasi sempre
in modo simile. E poiché la simiglianza della radiazione suppone la simiglianza dei
sistemi vibranti, vogliamo domandarci appunto come si debba intendere la cosa. Come,
ad esempio, quando si conoscesse la costituzione dell'atomo del Litio, se ne potrebbe
dedurre la struttura del Sodio, o del Potassio, o di un altro metallo alcalino qualunque.
Consideriamo all'uopo un sistema di conduttori, e supponiamo per un momento
che siano trascurabili le resistenze dei fili; supponiamo anche trascurabili i pesi di
questi ultimi davanti a quelli delle capacità, per modo che il peso dell'intero sistema
si ottenga sommando i pesi delle capacità, che esso contiene.
In queste ipotesi si dimostrano facilmente alcune proposizioni notevoli. E anzi-
tutto : se le dimensioni lineari di un dato sistema si moltiplicano per un numero k, le lun-
ghezze delle onde emesse dal medesimo sistema riescono moltiplicate anche per k.
Infatti il determinante, che annullandosi fornisce l'equazione caratteristica del
sistema proposto sotto la forma (V), sarà costituito da elementi, i quali contengono
termini di tre sole forme, e cioè:
D2L , D2M e -j- .
Ora se le dimensioni lineari del conduttore crescono nel rapporto di 1 a k anche
i coefficienti di autoinduzione e di induzione mutua e le capacità devono crescere nel
medesimo rapporto. I termini, che costituiscono gli elementi del determinante, pren-
deranno dunque le forme:
o anche:
D*kL, D'-kM e ~
DWL, DWM e ~ ,
perchè il significato dell'equazione non muta se la si moltiplica un numero qualunque
di volte per il parametro k.
Ciò posto se Dn era una radice dell'equazione primitiva -— — sarà certamente
una radice della nuova caratteristica, perchè i risultati delle sostituzioni di D„ nell'una
e di — r^ nell'altra coincidono.
k
Ma le radici come D„ sono inversamente proporzionali alle lunghezze delle onde
emesse dal sistema, al quale la caratteristica si riferisce; e però le onde crescono
nel rapporto nel quale le radici diminuiscono. Dal che segue la proposizione enunciata.
Se invece i fili conservano la loro lunghezza e la posizione reciproca, e le capacità
crescono nel rapporto di 1 a k, si riconoscerà con lo stesso procedimento che le onde
devono crescere nel rapporto di 1 a yk.
152
ANTONIO GAKBASSO
26
Ma in quest'ultima ipotesi i pesi risulteranno pur sempre moltiplicati per ks e
però indicando con P, P, K e X'„ i pesi dei sistemi e le onde corrispondenti (quelle
cioè che derivano da una stessa radice della caratteristica) prima e dopo la trasfor-
mazione, avremo senz'altro:
£ = »•.
V*
= Vh,
ed eliminando k,
i-t
Se si chiama, per comodità di linguaggio, famiglia di sistemi una serie di sistemi,
che s'ottengono uno dall'altro lasciando inalterati i fili e moltiplicando le dimensioni
lineari di ogni capacità per una stessa costante, potremo ritenere, per ciò che si è visto
or ora, che in una famiglia le onde corrispondenti stanno come le radici seste dei pesi.
Ciò posto, un confronto numerico insegna che è lecito interpretare gli atomi di un
dato gruppo della serie periodica appunto come una famiglia di sistemi, quando alle onde,
che abbiamo chiamato corrispondenti, si sostituiscano le onde omologhe di Kayser e
Runge, quelle cioè che derivano da uno stesso valore del parametro n.
La corrispondenza, che si stabilisce in questo modo fra i resultati teorici e i
resultati sperimentali, non è completamente rigorosa: e che non possa esserlo segue
già dalla considerazione della formula empirica :
secondo la quale il rapporto -^- non è sempre il medesimo, ma deve anzi variare
di continuo al variare del parametro n.
Se però si prova ad eseguire effettivamente i calcoli si riconosce che, per i va-
lori che si debbono attribuire nel caso pratico alle costanti, la variazione è lenta e
regolare, ed offre un andamento caratteristico.
Noi faremo il confronto prendendo in esame gli spettri del Litio e del Sodio.
Per le costanti di questi corpi Kayser e Runge hanno determinato i valori, che ri-
porto nella tabella seguente (*) :
A
B
C
Li
Na
28587
24475
109625
110065
1847
4148
(*) Riferisco ora e nel seguito i numeri relativi alla prima serie accessoria (erste Nebenserie),
perchè è quella per cui si ha la maggior copia di dati.
27 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LICE 153
dai quali valori si ricavano i rapporti di lunghezze d'onda segnati qui appresso:
«
3
4
5
6
7
i.
(U.v„
L,34
1,23
1,21
1,19
1,18
1,17
Avendosi d'altra parte:
risulta anche:
(JP)]fc = 28I
!
(P)Na
(PlLx
1,22.
Il rapporto dunque delle lunghezze d'onda relative alle prime righe dei due spettri
è notevolmente diverso da quello delle radici seste dei pesi atomici ; ma per le
coppie successive le cose cambiano, e la deviazione è al massimo del 3 per cento
del valore totale.
Se si fa la media dei cinque numeri:
si trova :
1,34 1,23 1,21 1,19 1,18
1,23,
che è vicinissimo al quoziente delle radici seste.
Fig. 4. — a) Conduttore a quattro oscillazioni, lì) e e) Conduttori a tre oscillazioni; i loro pesi stanno
come 7 e 23, e le onde corrispondenti come 1 e 1,22. mentre il rapporto delle onde omologhe
negli spettri del Litio e del Sodio è in media di 1 a 1,23.
Una cosa simile si osserva confrontando col Litio il Potassio, il Rubidio ed il
Cesio. I rapporti delle prime righe si allontanano infatti dal valore teorico, ma, dopo,
Serie II. Tom. LUI. t
154 ANTONIO GARBASSO 28
lo scostamento è sempre assai piccolo. Per la seconda e per la terza coppia si trovano
inoltre dei valori prossimi alla media di quelli forniti dalle prime cinque coppie, e
prossimi ai rapporti delle radici seste dei pesi atomici.
Riferisco qui sotto i numeri relativi ai confronti delle terze righe {n = 5) :
«
fè-w» $&=»*> &-»■»»
?;;:;,='.» ffs=^ IW=^-
Per i metalli non alcalini le cose vanno assai più semplicemente perchè le righe
omologhe di due corpi, contenuti nel medesimo gruppo, hanno dei rapporti, che va-
riano ben poco col parametro n.
Anche qui mi accontenterò di riportare alcuni dati, che si calcolano per n = 5:
fH=^ ?IH'°9 M=w
(X)z„ ~~ 1,,,D (X)a
fe = '.15 M = ^-
Questi numeri bastano, se non mi inganno, per stabilire che la regola delle radici
seste ha il valore di un fatto naturale, almeno nei limiti di approssimazione nei
quali è vera, ad esempio, la nota legge di Dulong e Petit.
Come si diceva a proposito della formola, secondo la quale si deducono i doublets
dalle righe semplici corrispondenti, la teoria è sempre schematica in confronto della
realtà. Essa determina infatti, per i rapporti delle righe omologhe, certi numeri, in-
torno ai quali i valori forniti dall'osservazione sembrano oscillare.
Per le prime righe lo scostamento è più forte, ma queste rispondono anche meno
bene alla formola di Kayser e Runge.
§ 22. Modello per le molecole materiali. — Se è lecito considerare gli
atomi come sistemi di conduttori, le molecole le potremo intendere come sistemi di
sistemi.
Per il primo teorema del paragrafo 18 dobbiamo dunque ritenere che lo spettro
di un corpo composto risulti sopraponendo gli spettri dei suoi componenti, e defor-
mandoli un poco. Dalla quale osservazione segue subito il perchè delle opinioni
discordi, che furono espresse da varii autori su questo argomento.
Se infatti i singoli sistemi componenti hanno dei periodi, che corrispondono a
regioni molto diverse nella scala luminosa, sarà facile riconoscere i loro spettri, anche
se un poco deformati; ma se le righe dei varii sistemi si alternano, il voler asse-
gnare le onde della molecola complessa al primo o al secondo o ad altro componente
è opera vana.
29 TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA I 155
A ragione dunque il Kayser ritiene arbitrarie le conclusioni del Griinwald e del
Ciamician, perchè in nessun modo giustificate ; il che non toglie che quelle conclu-
sioni qualche cosa di vero possano anche contenere.
Il Griinwald, per esempio, trova che lo spettro del vapore d'acqua si deduce
sopraponendo gli spettri dell'idrogeno e dell'ossigeno, dopo di aver moltiplicati i pe-
1 23 5
riodi del primo per -»- e quelli del secondo per ?-"r o — . Se la regola fosse desti-
tuita di fondamento non avrebbe permesso di calcolare un gran numero di righe
nell'ultravioletto, le quali furono poi riscontrate da Liveing e Dewar.
Del resto, un fatto simile a quello, che il Griinwald credette di riconoscere, si
verifica nel sistema (estremamente più semplice a vero dire) della figura '2</.
Se si prendono le formole del paragrafo 13 e si fa in esse:
LX = L, = L,
ciò che corrisponde appunto al sistema della figura citata, se si pone ancora:
M2
e se si ammette che e e - — siano delle piccole grandezze, tanto piccole che i
loro quadrati possano già trascurarsi, risulta:
T1 = 2ir^-^-(l+- €(
2(C,-Ca)
2(0,-0
772 = 2*|/-jy 1 r
Ti = 2ni/LC2(l 4-
eC,
2(C2-C,)
Confrontando queste espressioni con le formole del § 4 si vede subito che i
periodi Tx e Ts sono quelli del conduttore 1, a meno del fattore:
1 + eC'
2(C, - Ct) '
e i periodi T2 e T4 sono quelli del conduttore 2, a meno del fattore:
^ 2U4-CD '
Tutto succede dunque nel caso schematico della figura 2 d secondo le leggi, che
Griinwald ricavava dallo studio del vapor d'acqua.
Ma le relazioni da noi ottenute dicono anche qualche cosa di più; determinan-
dosi gli spostamenti con le uguaglianze :
TT «?2 _ €
1 2{C,-0 " „/C, ,\ »
K,=
€C,
2{CÌ-C,) 2(^-l
156 ANTONIO GARBASSO 30
riesce senz'altro evidente che, a parità delle altre circostanze, è tanto più spostato
lo spettro del primo conduttore quanto più grande è C2, ed è tanto più spostato lo
spettro del secondo conduttore quanto più grande è Cv
Questi resultati possono mettersi in relazione col fatto, riconosciuto da Mitscher-
lich, da Lecoq de Boisbaudran e da altri, che, quando si studiano successivamente
i cloruri, bromuri e ioduri di uno stesso metallo, si vedono certi gruppi di righe
spostarsi man mano, e sempre nel medesimo senso.
In un ordino di fenomeni più complesso fu trovato, molti anni or sono, dal
Bunsen che nello spettro dei composti del didimio certe righe si vanno avvicinando ad
un estremo, col crescere del peso molecolare.
§ 23. Variazioni nello spettro. — L'esistenza poi degli spettri a colonnati,
e le variazioni dovute al riscaldamento e alla pressione si spiegano semplicemente
col secondo teorema del paragrafo 18.
Perchè è chiaro in primo luogo che, diventando più complessa la molecola, come
è senza dubbio nei liquidi e nei solidi, le singole righe devono essere sostituite da
bande ; in secondo luogo è evidente del pari che l'influenza mutua delle varie molecole
potrà produrre l'allargamento delle righe caratteristiche.
In realtà quando fosse dato un sistema composto di a sistemi (molecole) uguali,
e lo si tenesse da principio distribuito in uno spazio relativamente grande, per poi
raccoglierlo man mano in un volume sempre minore, la caratteristica subirebbe essa
pure una modificazione progressiva, della quale è facile rendersi conto.
All'origine, essendo piccolissime le azioni induttive fra due elementi del sistema,
il secondo polinomio dello sviluppo si potrebbe trascurare rispetto al primo. Questo,
che nel caso attuale è la potenza a-esima del primo membro dell'equazione (V) rela-
tiva a ciascun elemento, determinerebbe annullandosi uno spettro, il quale non dif-
ferisce da quello caratteristico degli elementi isolati.
In seguito, diminuendo le distanze, il secondo polinomio comincerà ad assumere
valori, che non sono più del tutto trascurabili ; ogni riga dello spettro si scinde adesso
in a righe distinte, ma vicinissime. 0 meglio, in pratica, essendo a molto grande,
ogni riga dà luogo ad una banda di larghezza finita.
Tali bande poi si andranno allargando sempre più col diminuire dello spazio, in
cui il sistema è immerso.
§ 24. Molecole di corpi isomeri. — Il teorema del paragrafo 9 sembra
contraddire a un resultato notissimo dell'esperienza, secondo il quale corpi chimica-
mente isomeri hanno spesso degli spettri diversi non solo per la posizione, ma anche
per il numero delle righe. Però il disaccordo è più che altro apparente.
La forinola:
V = Ta(pa-\-ma) — a
i
assegna in realtà un valore massimo per il grado della caratteristica ; non è escluso
che, per una scelta particolare delle costanti, o una disposizione speciale dell'appa-
recchio, il grado si abbassi o certe radici diventino doppie o multiple.
31
TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE
157
Mi propongo di verificare la cosa con un esempio particolare, e scelgo all'uopo
il sistema, che fu studiato nel paragrafo 17. Se in questo l'ultimo dei tre elementi
fosse normale agli altri due (Fig. 5 b) bisognerebbe annullare tutte le Q che conten-
gono l'indice 3 e verrebbe:
S s 0
S s
s a o
= 8
s S
0 o s
il sistema avrebbe dunque, come prima, uno spettro di tre righe, ma sarebbero adesso
quelle, che corrispondono ai casi delle figure la e 3 a.
Fig. 5. — a) Sistemi di tre conduttori uguali ad una oscillazione; emette un triplet. b) Sistema
isomero del precedente; ha uno spettro di tre righe, e) Sistema isomero del 5«; ha uno
spettro di una sola riga.
Le cose si semplificano ancora se supponiamo che i tre conduttori siano disposti
in modo che ciascuno risulti in condizioni uguali rispetto agli altri due. E ciò che
accade così nell'ordinamento "a cilindro, della figura 6 «, come nell'ordinamento
"a triangolo „ della figura 6 è, come nell'ordinamento "a stella „ della figura 6 e.
Qui si può scrivere infatti:
e..i=
D-M=s,
e poi:
S s
s S
= (S — s)*(S 4- 2s) — 0 ,
la quale equazione significa che il sistema non emette più tre colori diversi, ma
bensì due soli.
Finalmente quando si disponessero, come nella figura 5 e, i tre conduttori secondo
gli spigoli di un triedro trirettangolo, verrebbe:
QlA = <?■>.. = &,3 = 03,8 = <?1,3 = QZA = 0 ,
158 ANTONIO GARBALO — TEORIA ELETTROMAGNETICA DELL'EMISSIONE DELLA LUCE 82
e quindi:
Fig. 6. — a) b) e e) Sistemi isomeri del 5 a; hanno spettri di due solo righe.
la vibrazione dunque si riduce ad una sola componente, quella stessa che è propria
dei singoli conduttori isolati.
§ 25. Conclusione. — Volendo riassumere in poche parole il contenuto della
presente memoria, ricorderò che ho risolto da principio il problema delle scariche
per un conduttore comunque complesso. Alcuni casi di codesto problema erano stati
bensì discussi in questi ultimi tempi da v. Geitler e Mizuno, da me e da Mandel-
stam, ma la quistione più generale rimaneva sempre insoluta.
Per dare un esempio del metodo ho studiato in seguito una classe notevole di
conduttori, a fili uguali, lunghi e sottili, la cui importanza appare anche meglio nel
progresso della ricerca.
E più avanti ho mostrato come si possano calcolare le oscillazioni di un sistema di
conduttori e di un sistema di sistemi. I problemi particolarissimi risolti dall'Overbeck,
dal v. Geitler e dal principe Galitzin rientrano naturalmente nelle mie forinole generali.
Uno studio più accurato dell'equazione caratteristica, che determina i periodi
proprii di ciascun sistema, mi ha permesso di stabilire più oltre alcune proposizioni,
le quali hanno un immediato riscontro nei resultati più sicuri dell'analisi spettrale.
Gli spettri a doublets e triplets, quelli dei corpi composti e dei gas soggetti a pres-
sione, e certi fatti dipendenti dall'isomeria trovano così un modello semplice e per
ogni parte soddisfacente.
Restava a vedersi fino a che punto l'applicazione fosse legittima, e ho stabilito
questo con un confronto numerico, mostrando come i conduttori a fili lunghi e sottili,
studiati da principio, rispondano alla forinola empirica di Kayser e Runge.
Ho dato finalmente una regola semplice, che mette in relazione gli atomi dei
corpi elementari, compresi in uno stesso gruppo del sistema periodico.
Torino, gennaio 1903.
CANALI VENOSI EMISSARI
TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI
RICERCHE MORFOLOGICHE
DEI DOTTORI
ALFONSO BOVERO
Settore-capo nell'Istituto anatomico di Torino, Libero docente di Anatomia umana normale
UMBERTO CALAMIDA
Assistente alla Clinica otorinolaringologica di Torino.
CON 2 TAVOLE
Approvata nell'Adunanza del 5 Aprile 1903.
È universalmente conosciuta la grande importanza funzionale assunta per i rap-
porti fra il sistema venoso endocraniano e quello extracraniano, oltreché dalle vie
principali di comunicazione rappresentate dalle vv. ophtalmica , meningeae mediae e
vertebrales, da quel complesso di formazioni accessorie che vanno sotto il nome
comune di venae emissariae di Santorini: cosi pure è ugualmente noto come in
genere le vie accessorie di comunicazione siano numerosissime, in quanto le radici
della v. jugularis externa e della porzione facciale della v. jugularis interna si intrec-
ciano con le- origini delle vene intracraniche su tutta la periferia del cranio, sulla
volta come sulla base (Romiti, Charpy, ecc.). Lasciando tuttavia in disparte e il
sistema delle venule diploidie e i complessi venosi, i quali accompagnano fuori del
cranio i tronchi di taluni nervi cerebrali ed assumono una specialissima impor-
tanza già in periodi molto precoci della ontogenesi di quasi tutti i vertebrati (Rabl,
Raffaele, Rex, Houssay, Field, Hochstetter, Gruby, Katschenko, Salzer, Grosser),
e possono eventualmente, almeno in parte, diversamente a seconda dei differenti
ordini e specie di Mammiferi, avere un notevole ufficio anche nell'età adulta [Hof-
mann (29)], offrono particolare interesse le vene emissarie propriamente dette situate
tutte sulla volta del cranio e cioè gli emissari parietali, mastoidei ed occipitali, che
sono i più costanti, come pure altri solo eccezionalmente occorrenti nella specie
nostra.
Nell'Uomo ad accrescimento compiuto questi emissari, oltre a costituire una
comodità fisiologica, in quanto per essi può eventualmente stabilirsi una specie di
equilibrio funzionale fra la v. jugularis interna , rappresentante la principale via di
deflusso del sangue venoso intracranico, e la r. jugularis externa, possono anche consi-
1(50 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMLDA -
derarsi come rappresentanti della via o delle vie tenute, in molte specie di Mam-
miferi, dal sangue venoso della cavità craniana per ritornare al cuore.
Lo studio descrittivo o statistico dei detti emissari è reso sufficientemente fa-
cile da ciò che non è sempre necessario, o per lo meno non assolutamente indispen-
sabile, ricorrere a iniezioni di sostanze speciali nelle vene, poiché esse lasciano
nello scheletro traccie così chiare in forma di solcature, di forami e canali, in guisa
da essere bastante l'esame dello scheletro per conoscerne le modalità principali di
decorso, il calibro, la costanza o meno, i rapporti, in una parola le particolarità più
interessanti del loro comportamento.
I detti canali, chiamati eziandio canali emissari [Calori (48)] si riscontrano o
nelle suture che riuniscono a completo sviluppo le varie ossa craniane, oppure
compaiono attraversanti la compagine stessa di un osso in corrispondenza però dei
punti di riunione di due o più centri primitivi di ossificazione, sia che questi deli-
mitino fra loro un semplice spazio suturale, oppure un vero spazio fontanellare,
i quali spazi scompaiono normalmente nell'età adulta (Calori, Broca, Staderini,
Maggi, Papillaut, Ranke, Staurenghi, Giuffrida-Ruggeri, Schwalbe, Fischer,
Zanotti).
Oltre l'importanza sovraccennata come vie di comunicazione fra i sistemi delle
due giugulari, è inoltre da ricordarsi il significato filogenetico eventuale dei vasi e
dei canali emissari quali rappresentanti i residui delle vene, o delle vie da queste
tenute, di organi ancestrali scomparsi più o meno completamente nella ontogenesi
dei vertebrati superiori: questo vale ad es. per il foro parietale in rapporto all'occhio
omonimo (Leydig , Duval, Papillaut, Maggi, ecc.), pel foro mediofrontale relati-
vamente alla parafisi (Zanotti).
Indipendentemente da ciò risulta chiaro che i canali destinati a dar passaggio
ai vasi emissari assumono la loro importanza speciale in relazione al modo con cui
si evolve la craniogenesi dei differenti ordini e specie di vertebrati. Si comprende
quindi facilmente ancora una volta come lo studio dei vasi emissari sia stretta-
mente connesso con quello dei canali ossei, che ad essi danno passaggio, e come
gli uni e gli altri possano avere un valore ed una importanza diversa a seconda
delle specie animali, delle regioni del cranio che si prendano in esame, dell'età, non
solamente, ma trattandosi di canali venosi e quindi come tali soggetti a variazioni
più numerose di quanto occorra per altri sistemi , anche per i differenti individui
della stessa specie o razza.
Data la correlazione sopraccennata, è ovvio pensare come nello studio morfolo-
gico di tali formazioni si debba tener conto di parecchi fattori e cioè del loro modo
di comportarsi nei diversi individui, della frequenza percentuale possibilmente nelle
varie razze, della loro ubicazione e rapporti, finalmente del loro significato onto- e
filogenetico, nonché della loro importanza funzionale. In realtà, se per molti di questi
canali emissari si hanno dati statistici e descrittivi numerosi, per il significato di
alcuni la discussione è tuttora aperta, in relazione specialmente ad idee emesse di
recente sul numero dei punti di ossificazione di talune ossa (Maggi, Staurenghi,
Frassetto) e, secondariamente a ciò, sulla genesi delle suture e sul numero delle
fontanelle craniche: in altre parole rimane ancora a stabilirsi perentoriamente, defi-
nitivamente, per taluni di tali emissari il significato in rapporto alla craniogenesi.
3 CANALI VENOSI EMISSAEI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI Kil
Per altri sono scarsi od assolutamente mancanti o contradditori i dati anatomo-com-
parativi, per altri infine è deficiente affatto la comparazione etnica: ciò posto, a
nostro avviso vi sarebbe in questo campo larga messe tuttora da mietere per
l'anatomico.
Tralasciando per adesso la questione più lata, noi ci siamo prefissi di riferire in
questa Memoria i risultati avuti dallo studio di un gruppo abbastanza ben localiz-
zato di tali emissari, e cioè di quelli che fanno comunicare i due sistemi venosi endo-
ed extracraniano attraverso l'osso temporale: ad essi appunto sono applicabili i cri-
teri generali sopra esposti ed il loro studio riesce interessante sotto i differenti punti
di vista ai quali abbiamo precedentemente accennato. Data la costituzione del com-
plesso temporale come risultante dalla riunione di tre ossa (os squamosum od osso squa-
mosozigomatico, os petrosum od osso petromastoideo, os tympanicum) nell'Uomo all'atto
disgiunte nella vita embrionale, parzialmente anche nella vita infantile, ed in con-
dizioni abnormi separate anche nell'età adulta (Calori. Amadei, Symington, Poirier) :
considerando ancora che ciascuna di queste tre ossa proviene da parecchi punti pri-
mitivi di ossificazione, tenuto finalmente calcolo dei rapporti fra le primitive vie
venose del capo cogli abbozzi dell'organo dell'udito, noi possiamo già a priori pen-
sare che le vie di comunicazione fra i due sistemi venosi debbano essere molteplici
e, per quanto trascurate per molto tempo dagli anatomici, di grande interesse per
l'importanza che assume nell'economia animale l'organo che vi è racchiuso. Dobbiamo
tuttavia subito avvertire come noi non intendiamo di occuparci qui delle molteplici
comunicazioni venose, costanti, per lo più estremamente fini, accompagnanti altri
organi (arterie, nervi, tuba, acquedotto di Falloppio, sacco endolinfatico) per i canali
appositi scavati nello spessore dell'os petrosum e per le quali necessiterebbe uno studio
proprio molto accurato e naturalmente anche di un'estrema difficoltà: noi ci limi-
tiamo per ora a riferire una parte delle nostre ricerche e più precisamente quelle
intorno ai canali emissari, che attraversano Yos squamosum direttamente, oppure in
rapporto delle primitive suture di detta porzione del temporale con Yos petrosum e
con il tympanicum. Con ciò noi non abbiamo sicuramente la pretesa di esporre cose
affatto nuove, in quanto tali formazioni, che noi aggruppiamo sotto la denominazione
comune di emissari squamosi e petrosquamosi, sono in verità conosciute già da molto
tempo dagli anatomici e dai zootomi con denominazioni assai dispaiate e, come ve-
dremo tosto, inni sempre proprie. L'interesse e l'opportunità di questo nostro studio
risultano a nostro parere anche da ciò che in questi ultimi anni, come vedremo dalla
letteratura, si sono grandemente modificate le nostre conoscenze sul modo con cui
procede lo sviluppo delle vie venose di deflusso del capo. Detti canali emissari nel-
l'Uomo adulto, benché non assolutamente infrequenti, occorrono solo come varietà,
in quanto la v. jugularis interna serve quasi esclusivamente da via di deflusso del
sangue intracraniano. Ciò non avviene invece, salvo eccezioni, nella maggior parte
dei Mammiferi inferiori ai Primati: considerando infatti la serie dei vari ordini, si
può verificare che la v. jugularis e. eterna nell' adulto può rappresentare o semplice-
mente una via sussidiaria, ma costante, di maggiore o minore importanza; od essere
equipollente alla v. jugularis interna ; oppure rappresentare da sola la via di sbocco
del sangue dalla cavità craniana. La esistenza di una via di sbocco attraversante
Yos temporale per mezzo di una radice di formazione secondaria (Salzer) della v. jugu-
Serie II. Tom. LUI. u
162 ALFONSO BOVEEO — UMBERTO CALAMIDA 4
laris externa, sia che essa rappresenti una condizione normale permanente come av-
viene in quasi tutti gli ordini di Mammiferi, escluso l'Uomo ed i Primati superiori,
sia che si presenti semplicemente come varietà, appunto come in quest'ultimi, è per
lo più collegata a disposizioni speciali dei vasi venosi endocraniani, i quali lasciano
pure sul tavolato interno delle ossa di rivestimento delle traccie più o meno evidenti
sotto forma di solcature o di canali; queste traccie invece mancano, ovvero sono
appena percettibili, certo assai meno pronunciate ed evidenti, nei casi (nell'Uomo adulto
nella maggioranza degli individui), in cui la via di deflusso del sangue endocraniano,
esclusi gli emissari che passano attraverso ad altre ossa (occipitale, parietale, frontale,
sfenoide, ecc.) e sono in gran parte tributari delle radici della v. jugularis externa,
è rappresentata quasi esclusivamente dalla v. jugularis interna.
Nell'Uomo, nei casi in cui la circolazione venosa endocraniana sbocca parzial-
mente all'esterno per mezzo di una radice (di formazione secondaria) della giugulare
esterna, radice attraversante la squama temporalis, vi hanno per lo più eziandio delle
ampie comunicazioni accessorie fra il sistema venoso della fossa cranica posteriore
e quello della fossa media: questa a sua volta riceve già in condizioni normali la
massima parte del sangue dalla fossa anteriore e specialmente dalla porzione basi-
lare (rr. meningeae rnediae, situi* sphenoparietalis di Bresciiet, ecc.). Le vie di comu-
nicazione accessorie fra i sistemi venosi delle fosse posteriore e media decorrono
precisamente in rapporto del limite di unione endocraniano dell' os squdmosum
con l' os petrosum : sono cioè essenzialmente rappresentate dal seno petrosquamoso
degli AA. (acquedotto di Verga, ecc.), il quale si dovrebbe ritenere nell' Uomo
(Luschka, Knott, Labbè, Hedon, Sperino, Trolàrd, ecc.) come occasionale, certo
non costante. E per lo più nell'Uomo come negli altri Mammiferi è precisamente
nell'ambito della porzione intermedia del seno petrosquamoso che avviene lo sbocco
all'esterno per mezzo di una radice più o meno sviluppata della r. jugularis externa.
Devesi tuttavia osservare che nell'Uomo, mentre la esistenza di questa via accessoria
anomala di deflusso è strettamente collegata, almeno nella grandissima maggioranza
dei casi, alla esistenza di un seno petrosquamoso e cioè di un'ampia comunicazione
ugualmente accessoria fra il sistema venoso della fossa cranica media e quello della
posteriore, rappresentante la porzione più ventrale del sinus transversus, che assume
così grande importanza colla maggior parte dei Mammiferi inferiori ai Primati, inver-
samente l'occorrenza di un seno petrosquamoso non implica sempre la esistenza di
un forame emissario omonimo, rappresentante la via tenuta dal ramo della giugulare
esterna destinata al deflusso più o meno parziale od anche totale del sangue intra-
craniano nei Mammiferi nei quali tale ufficio non spetta alla giugulare interna, ma
bensì all'esterna. Da ciò si può indurre che il seno petrosquamoso e le sue impronte
sotto forma di solcature o di canali ben evidenti suH'endocranio, saranno tanto più
costanti e pronunciate nella serie dei Mammiferi, quanto maggiore è l'importanza
della vena giugulare esterna come via di deflusso del sangue endocraniano.
Per la stessa ragione si capisce come nella specie nostra la occorrenza pure
eventuale di abnormi vie di comunicazione fra il sistema venoso della fossa media
del cranio e le radici della vena giugulare esterna vada soggetta a varietà nume-
rose, non solo nel calibro e nell' importanza di queste vie, ma anche nel decorso
delle stesse attraverso la sutura petrosquamosa obliterata o non, oppure diretta-
5 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 163
mente attraverso la porzione squamosa e nella conseguente ubicazione dell'apertura
esocranica dei canali medesimi.
Premesse queste considerazioni preventive speciali per i canali emissari da noi
studiati, quali emergono dalla conoscenza morfologica dello sviluppo del sistema ve-
noso e dalle osservazioni degli altri AA., come dalle nostre personali ricerche,
prima di esporre minutamente i risultati di queste ultime, premettiamo un po' dif-
fusamente la letteratura dell'argomento.
Cronologicamente il primo accenno molto chiaro ed esatto ad un emissario attra-
versante la squama dell'osso temporale e quindi rientrante nel gruppo da noi stu-
diato, è dato da Loder (42 a, b), il quale dice a proposito della descrizione della faccia
endocraniana della squama del temporale umano:
u Nach unten, nahe an der Vereinigung des Schuppentheiles unti Felsenbeines. bisweilen ein
Loeh, -workomint, das ein Kanal bildet, der sckrag aufwarts und vorwàrta geht imd sich iil
Ursprunge des Joekfortsatzes otfnet. Durch diesaci Kanal dringt ein emissarium Santorini aus deui
sinu petroso anteriori in die Venen des Musculi temporalis „.
Come risulta dalla precedente descrizione, Loder non dà al canale anomalo destinato
a ricettare una vena emissaria alcuna denominazione speciale e non si pronuncia
neppure sul suo significato morfologico e genetico : la sua descrizione in quanto ri-
guarda i rapporti del canale è tuttavia sufficientemente esatta ed in ciò il nostro
parere differisce alquanto da quello di Luschka (45), il quale asserisce che altri AA.,
ad es. Boc'Hdalek (2), intendono come seno petroso anteriore la porzione del sinus
petrosus inferior, che, fra il margine laterale della porzione basilare dell'osso occipi-
tale e la punta della piramide, si porta in alto e colla sua estremità anteriore si
unisce al seno cavernoso : noi osserviamo anzitutto che il manuale di Bochdalek in
cui è usata la terminologia, che potrebbe far cadere in dubbio sull'esattezza dell'os-
servazione di Loder, è di assai posteriore a quello di quest'ultimo ; secondariamente
già assai prima di Loder era stato descritto, da Winslow (74) e Malacarne (47'/).
come seno -petroso anteriore una formazione perfettamente identica a quanto più tardi
venne chiamato seno petrosquamoso; la denominazione di seno petroso anteriore d'altronde
venne ancora usata anche più tardi da molti AA., fra cui ci limiteremo a ricordare
Portal(53), Ch. Bell, Lauth (40), Cortese (10), Verga (72) con tale esattezza di
descrizione da non lasciare sussistere alcun dubbio.
E qui cade in acconcio riferire quanto, a proposito dei seni petrosi, dice Mala-
carne (47), anche perchè le osservazioni dell'anatomico Saluzzese vennero completa-
mente o quasi dimenticate dalla maggioranza degli AA., escluso il Labbè (37), che
si occuparono dei seni venosi craniani. Malacarne (47 a, pag. 133, § 198) afferma che
il s. petroso anteriore (s. petrosquamoso) è frequentissimo :
E sulla faccia anterior della rupe, di figura irregolare, e molto stretto vicino al foro spinosi)
dove molte volte si scarica del sangue, che a traverso della interna lamina della Dura M. col suo
colore ce ne indica il sito, e la estensione: altre fiate sbocca nel fine del petroso mezzano, dalla
parte del quale (aprendolo ben vicino all'angolo lambdoideo) vi si può far penetrare una setola o
una tenta sottile prima che la volta di questo seno anteriore per considerarne l'interno sia collo
scalpello distrutta ,.
Altrove (47 è) considera i sei seni petrali (tre per lato) e quindi anche il seno petro-
squamoso come normali. Ancora è da ricordarsi il caso descritto dallo stesso A. [(47/;)
16-1 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 6
§ 160, pag. 106] e riferentesi ad un u fatuo „ da lui dissecato ne! quale i seni laterali
" si votavano nelle jugulari esterne pei fori lambdoidei o del Valsalva . . . molto
"più del consueto capaci „; pare dalla descrizione di Malacarne fossero affatto man-
canti i fori laceri posteriori, per cui anche in questo caso la giugulare esterna avrebbe
rappresentato l'unica via di sbocco del sangue venoso intracraniano : questa disposi-
zione occasionale r. d'altronde abbozzata corno carattere quasi costante in tutti gli indi-
vidui (emissario mastoideo), ne è certamente priva di grande importanza morfologica.
Un'ampia descrizione del comportamento dei vasi venosi intracraniani in rap-
porto al sistema delle vene giugulari, venne data primieramente da Otto (50), il
quale fece oggetto di studio speciale i Mammiferi ibernanti: dice infatti l'A. (pag. 27):
" Ne in descriptione vasorum obscurus sim, nomen canalis temporalis, quo saepius utar, primo
illustrandum erit: hoc nomine enim significo foramen quoddam, aut fissuram, aut denique
inter os petrosum et os temporis, aut soluta in hoc et supra aurem situm, quo sinus cerebri trans-
versus cum vena iugulari externa commercium habet, ita ut in omnibus animalibus. a me descriptis,
maxima sanguinis oerebralis copia non ut in homine per foramen iugulare, sed per hunc canaletti
temporale™ profluat „.
In seguito enumera il modo di distribuzione della vena giugulare esterna, l'ubica-
zione del canale temporale mediante il quale essa si pone in rapporto col ramo ante-
riore del seno trasverso, nei Vespertilionidi, Sorices, nell' Erivaceus , nella Talpa,
Ursus arctos ed U. maritimus, Meles mlgaris, Castor fiber, Georhychi Lemmi, noi
Myoxidi, Muridi, Dipodes, Siuridi, nel Oricetus, Arctomys marmota, Hystrix cristata,
Hydrocliocrus, Cavia, ecc., ed aggiunge (pag. 77-78):
" Sanguinis maxima copia in omnibus non, uti in homine, per foramen iugulare, sed aequali modo,
atque in Equo, per venam cerebralem superiorem effluii, i. e. ex anteriori sinus transversi ramo per
canalem temporalem ad venam iugularem externam, quae hac de causa semper maxima est; posterior
sinus transversi ramus sanguinei!! minus per forameli venosuni ad venam iugularem internam,
quam ad venam vertebi-alem, quae itidem in venam iug. externam inserita:, perducit. Hunc pecu-
liarem sanguinis a cerebro refluxum, quo ammalia citata ab liomine discrepant, non minus in
permultis aliis animalibus inveni et facile, ni fallor, ex situ et directione capitis in omnibus quadru-
pedibus, multo diversis ab homine, declarandum esse puto. Iam in Simiis nonnullis canalem tempo-
ralem inveni, sed in Cercopithecis, Cynocepbalis, etc. adhuc parvus apparuit, in Simiis Americanis
vero et Lemuribus multo maior; porro eum observavi in Mustela Marte et Foina, Viverra Cana-
densi, Mephiti suffocante, Lutra, Gulone, in Canibus, Phocis, Myrmecophaga iubata et tridactyla,
Dasypode, Didelphibus pluribus, omnibus Ruminantibus et Equo: sed non in Tricheco rosmaro,
Bradypodibus, Sue et Cetaceis; in genere Felium canalem nonnisi in nonnullis iuvenilibus dete-
gere potui „.
Otto inoltre ricorda, a proposito della descrizione minuta del circolo venoso negli
ibernanti, come in alcuni abbia trovato delle vene, le quali, per sboccare nel canale
temporale entravano fra i due tavolati delle ossa limitanti la fossa omonima per
mezzo di foramina parva: questa particolarità ha la sua importanza in quanto può
avere riscontro con reperti eventuali nell'Uomo.
Anche Gurlt (23) accenna alla presenza sulla faccia esterna del temporale dei
Solipedi di " einige Locher durch welcho kleine Blutadern gehen „ : in questi animali
alla faccia interna scabra si trova una solcatura, la quale forma col parietale un
canale (Schlàfengang — Meatus temporalis), che si apre sopra il processo articolare
posteriore e serve per il passaggio di un vaso proveniente dal seno trasverso: nel
Vitello (1. e, pag. 76) il canale temporale sarebbe molto ampio, incomincia nella
cavità craniana " und nimmt ani Jochfortsatze noch zwei Ramile auf „. Trattando poi
7 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETKOSQUAMOSI 165
delle vene dice che nei Solipedi la vena temporale, affluente della vena facciale an-
teriore, ramo della giugulare esterna, è costituita dalla riunione delle vv. transversa
faciei, temporalis posterior e cerebralis superiori quest'ultima originerebbe dal seno
trasverso e, mediatamente, dal seno longitudinale per entrare nel canale temporale,
lo seguirebbe fino alla sua estremità inferiore fra la parte petrosa e la squamosa
per riuscire all'esterno fra il condotto uditivo esterno ed il processo articolare poste-
riore: una disposizione consimile si riscontrerebbe nei Ruminanti, nel Maiale e nei
Carnivori (1. e, s. 588-595).
In modo analogo a Gurlt si esprime pure Schwab (59), il quale descrisse il canale
temporale oltreché nei Solipedi e Ruminanti, anche nel Maiale, in cui si troverebbe
fra l'osso petroso e l'occipitale, alludendo con ciò chiaramente all'emissario mastoideo.
Hallmann (24) descrive un meatus temporalis specialmente sviluppato nei Soli-
pedi e Ruminanti, aprentesi alla superficie esterna della squama temporale sopra al
condotto uditivo esterno con un foro ragguardevole, che diminuirebbe però di am-
piezza col progredire dell'età.
Nel classico studio comparativo di Rathke (55) noi troviamo allargate di molto
e con criteri più positivi le nostre conoscenze nella partecipazione diversa nei vari
ordini e specie di Mammiferi delle vene giugulari interna ed esterna, al deflusso del
sangue endocraniano. Secondo Rathke (s. 5) nei giovani embrioni di quasi tutti
i vertebrati si originano dal cuore due tronchi venosi decorrenti superficialmente e
strettamente connessi con gli arti branchiali e confluenti coi canali di Cuvier: essi
prendono origine nella cavità craniana mediante parecchie diramazioni, le quali da
ciascun lato formano un ramo da considerarsi come l'inizio di ciascuno dei tronchi
predetti e che, più o meno chiaramente a seconda della specie, costituiscono un seno
trasverso.
Der Uebergaug dieses Geiasses aus der Schadelhohle nach aussen korant immer neben tieni
kiinftigen Ohrlabyrinthe seitwàrts von der Basis cranii vor, bei dem einem Tbiere niehr nach vorne,
bei dem andern mehr nach hinten. Daraus folgt schon dass das erwanhten Gefàss nichts anders,
als eine Vena jugularis sein kann. Die Oeffnung jedoch durch welche dasselbe aus der Schadelhohle
heraustritt, ist nichts das kiinftige Forameli jugulare, sondern eine seitwiirts von diese gelegene
besondere „.
E più oltre:
* Wàhrend sich bei der Natter und dem Hùhnehen die Venenverzwcigungen des Gehirnes und
seine Haute immer mehr ausbilden, vergehen die Sinus transversi, und es entsteht am Hinter-
hauptsloehe eine neue Verbindung jener Venenverzweigungen mit dem Jugularvenen : dies geschiet
mittelst ein Paares von Aesten, die von diesen Venen nach oben und hinten gegen das erwàhnte
Loch hinwachsen, voraus sich dann die Schadeloffnung durch welche der sinus transversus in die
V. jugularis uberging, verschliesst. Dio Jugularvenen geben also bei diesen Thiere ihre urspriingliche
Verbindung mit den Venen der Schadelhohle ganz auf, und gehen mit ihnen an einer ganz andern
Stelle eine neue ein, indess bei Fischen, Friischen und den meisten Saugethieren die urspriingliche
fur immer verbleibt. Auch bei den Eidechsen und Krokodilen ist die Verbindung der Drosseladern
mit den Venen der Schadelhohle, wie bei den Vògeln „.
Rathke enumera in seguito (s. 6) le specie in cui si formerebbe da ciascun lato
e permarrebbe un solo tronco venoso corrispondente, per la posizione, alla v. giugulare
esterna; quelle in cui si sviluppano da ciascun lato due tronchi venosi, uno superficiale
ed uno profondo, vale a dire la giugulare esterna e la giugulare interna: quest'ultima
rimane in alcuni animali (Topo) assolutamente esile, raggiunge appena colle sue ultime
diramazioni la base del cranio in guisa che serve esclusivamente al deflusso del
Igfj ALFONSO BOVEEO UMBERTO CALAMIDA
sangae dei muscoli faringei, laringei e boccali, mentre spetta alla giugulare esterna
l'ufficio di ricondurre al cuore tutto il sangue venoso endocraniano ; in altri (Cane,
Riccio, Faina, Ermellino) la giugulare interna, pur rimanendo sottile, riceve sangue
dall'interno della cavità craniana mediante un piccolo ramuscolo che attraversa il
forame giugulare ; in alcuni Mammiferi finalmente (Talpa, Maiale, Scimmie, Uomo) la
giugulare interna ha una ampiezza ragguardevole, solo però nell'Uomo e nelle Scimmie
serve quasi esclusivamente da sola come via di deflusso del sangue intracranico,
poiché anche la giugulare esterna nei rimanenti prende sempre una parte del sangue
stesso. L'apertura per la quale la giugulare esterna si unisce coi vasi della cavità
cranica
J befindet sich bei den meisten Saugethieren zwischen dem Kiefergelenke und den i
knochernen Theilen dea Gehorapparates, beim Maurwurfe dagegen dicht hinter diesen Theilen ,.
Dagli studi di Rathke risulterebbe quindi che lo sviluppo della vena giugulare
interna è secondaria a quella della esterna, sia che si consideri nella serie di tutti i
vertebrati, come anche nella ontogenesi stessa dei Mammiferi superiori, concezione
questa che venne accolta da tutti gli AA. specialmente da Luschka e che solo da
poco venne dimostrata completamente errata.
Per quanto riguarda le comunicazioni della giugulare esterna coi vasi endocra-
niani nell'uomo, Rathke dice (s. 7):
" Wahrseheinlieh koinint aneli beim Menschen anfangs hinter dem Kiefergelenke ein Foramen
;! spurium •■:••-. v t chwindet aber, wenn sich jener Zweig dei- Jugularis interna tìberwiegend
entwickelt „.
Dalla descrizione pure minuta di Rathke non risulta tuttavia, come già osser-
varono altri AA. (Luschka, Legge, Lowenstein), che egli abbia realmente intravve-
duto nell'Uomo adulto le traccie della comunicazione primitiva tra i seni della dura
madre e le radici della vena giugulare esterna.
Un breve cenno intorno alla occorrenza del seno decorrente fra la porzione squa-
mosa e la petrosa del temporale è dato da C. Krause (36), il quale lo denomina sinus
sqmmoso-petrosus e lo considera come sopranumerario descrivendone lo sbocco nel
seno trasverso.
Contemporaneamente Arnold (1) raffigura un osso temporale sinistro con par-
ziale divisione delle sue tre parti ed in cui è visibile fra la radice orizzontale de!
processo zigomatico ed il cono articolare, una piccolissima apertura, la quale non può
essere che lo sbocco esocranico di un emissario squamoso, senza però che l'A. ne
faccia menzione alcuna nella descrizione.
Stannius (63) non aggiunge nulla alle idee antecedentemente emesse da Otto e
Rathke, accettando lo schema della distribuzione rispettivamente differente nelle varie
classi di Mammiferi delle due vene giugulari, quale era stato dimostrato da detti AA.;
cosi pure Wagner (73), descrivendo il canale temporale nei Ruminanti, non accenna
ad altre particolarità degne di nota.
Per trovare un accenno alla occorrenza di un canale emissario squamosopetroso
nell'Uomo adulto è necessario, dopo Loder, giungere sino ad Hyrtl (30), il quale nelle
prime edizioni del suo trattato cosi si esprime:
" hi der Wurzel des Jochfortsatzea kommt eine anomales Foramen vor, welches an einem Kopfe
unserer Sammlung fast 3"' Durchmesser hat. Ea fiihrt in die Diploe des Schlafenknochens, und com-
9 (ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETEOSQUAMOS] 167
municirt durch eineni schragaufsteigenden Kanal niit deni Suleus meningeus der Schuppe. \\ ahr-
acheinlich làsst es eine Vena diploetica, welche zugleich Eniissarium ist, austreten. Bei vielen Sauge-
thieren existirt es als Norm, und wird von den Zootemen als Meatus temporali s bezeiehnet „.
Hyrtx quindi avrebbe ben conosciuto il significato morfologico di tale canale,
per quanto nelle successive edizioni, pur riportando la osservazione precedente e gli
studi di Luschka (1859-1862), anteriori ad esse, non faccia cenno alcuno delle iden-
tità dei casi di Luschka e del suo, trattandone anzi separatamente.
Schultz (58) descrive chiaramente le impronte lasciate sul cranio nel punto di
riunione primitiva dell' os petrosum coli' os squamosum (sutura petrosquamosa) ed
afferma che quivi nella maggioranza dei casi vi ha un canale, il quale, secondo le
sue osservazioni, unisce costantemente il seno petroso anteriore col seno trasverso
ed attraversa quindi la base dell'osso petroso (" zu dem Behuf die Basis des Fel-
" senbeins durchbohrt „), giacendo in altre parole nella sutura embrionale fra le due
parti del temporale qui convenienti; non pare dall'accenno di questo A. che egli
abbia realmente visto un emissario petrosquamoso, in quanto egli, ricordando il caso
di Loder, dice che questi fa terminare il canale alla faccia esterna del temporale : è
invece chiaro che egli ha veduto quanto più tardi venne descritto da Verga (72) col
nome di acquedotto di comunicazione.
Il Verga insiste primieramente sulla grande frequenza ed evidenza delle traccie
che il seno petroso anteriore lascia sulla superficie interna del cranio, ricordando che
il solco corrispondente in alcuni Mammiferi, come nel Cane e nella Volpe, si trova
sempre e molto scolpito.
" In qualche caso lo spigolo anteriore della piramide ove s'incontra colla squama forma qua e
là dei promontori e come dei ponti, sotto i quali ha più libero e più sicuro corso il sangue di quel
seno. Nelle sue vicinanze poi non è raro di trovare qualche forellino che attraversando l'osso tem-
porale termina al davanti del meato uditorio esterno; esso è evidentemente destinato a mettere in
relazione il nostro seno colle vene esterne, e merita d'essere annoverato fra gli emissari del San-
torini. Nel Cane e nella Volpe un tale emissario è straordinariamente sviluppato, e mette nella vena
temporale „.
Manifestamente Verga allude ai canali che noi stiamo studiando ed il cenno,
che egli ne dà, è di per sé interessante in quanto è il primo A. che ricordi la occor-
renza relativamente frequente dei detti canali nel cranio umano adulto. Il seno pe-
troso anteriore (anche s. squamoso), secondo Verga, comunica frequentemente, per
non dire sempre, con la porzione anteriore discendente del seno laterale mediante
un canaletto di comunicazione od acquedotto temporale, che attraversa lo spigolo supe-
riore della piramide alla sua base. Tale acquedotto decorre
" leggermente inclinato dall'indietro all'avanti, dall'esterno all'interno, sicché la sua apertura ante-
riore riesce un po' inferiore ed interna rispettivamente alla posteriore, la quale anzi talvolta fu da
me trovata incominciare al di sopra dello stesso spigolo, sicché concorreva a formarla col suo an-
golo posteriore-inferiore l'osso parietale corrispondente „.
Le due aperture del canale avrebbero per lo più l'aspetto di una fenditura : la
posteriore più grande è per lo più ricoperta dallo spigolo superiore della rocca, che
suole essere piegata all'indietro ; l'ampiezza del canale è per lo più minima sì da dar
passaggio appena ad una setola, raramente è tale da permettere il passaggio ad
uno stecco; per esso si stabilirebbe, secondo Verga, una via di comunicazione impor-
tante per la circolazione venosa della fossa cranica posteriore e quella della fossa
media [per il canale di Verga, vedi anche Strambio (64)].
168 ALFONSO BOVEEO — UMBERTO CALAMIDA 10
Anche Henle nella la edizione del suo trattato (2C) ricorda, come Hvktl e gli AA.
sopracitati, un canale attraversante la squama e corrispondente a quelli che stiamo
studiando; dopo aver accennato alla possibilità che un ramo dell'arteria meningea media
perfori la squama e raggiunga la fossa temporale [Gruber (22)] dice:
" Dicht uber dera hinteren Rande dei- Wurzel des Jochbogens liegt in einera Schlàf'enbeiu des
hiesigen Sammlung die Oeffiiung (1 nini. Durchm.) einea Canals, weleher schrag vorwarta durch die
Schuppe in die Schadelhohle f'iihrt „.
Henle non ricorda però alcun rapporto con quanto è normale negli animali, ne
parla degli organi che per avventura fossero stati compresi in tali canali ; nelle edi-
zioni successive invece, dopo gli studi di Luschka, ne tratta più diffusamente, rimet-
tendosi appunto a tutto quanto risultò dalle osservazioni di questo A.
A Luschka difatti dobbiamo primieramente (45 a, b) uno studio accurato e dif-
fuso, condotto con criteri comparativi degli emissari che ci occupano : fondandosi essen-
zialmente sulle asserzioni di Otto e di Rathke relative alla evoluzione onto- e filogene-
tica del sistema delle vene giugulari, Luschka è venuto per induzione nel concetto
che anche nell'Uomo fosse possibile constatare, almeno come anomalia, delle traccie
della via che sarebbe stata tenuta dal sangue endocraniano per sboccare all'esterno
nel periodo della ontogenesi in cui, secondo gli studi di Rathke, la via principale di
deflusso del sangue endocraniano non sarebbe rappresentata ancora dalla v. giugulare
interna, ma bensì dalla giugulare esterna, allo stesso modo che in molti Mammiferi.
Egli ha difatti trovato il residuo della via di unione, che egli crede primitiva, della
giugulare esterna col seno trasverso abbastanza spesso anche nell'Uomo adulto, sotto
forma di un canale aprentesi all'esterno nella maggioranza dei casi precisamente allo
stesso punto in cui venne riscontrato in molti Mammiferi e cioè fra l'articolazione (iella
mandibola ed il condotto uditivo esterno, immediatamente all'indietro del processus arti-
cularis posteriori l'apertura esterna di tale canale denomina Luschka, come già Rathke,
forameli jugulare spurkim; il canale (meatus temporalis), lungo 5-8 imi, attraversa il
temporale obliquamente in avanti ed in dentro per riuscire all'endocranio verso l'estre-
mità anteriore del sulcus petrosus squamosus; le due aperture hanno dimensioni diffe-
renti a seconda dei casi, sì da permettere l'introduzione di sottili sonde, o pure da non
essere permeabili che alle più fini setole; il canale può presentarsi curvo nel suo decorso,
ovvero presentare dei restringimenti; talvolta il canale ed il forame giugulare spurio
erano identici nel comportamento e dimensioni dai due lati, talora invece non erano
constatabili che da un lato solo e specialmente a destra. Luschka non ammette che
il forame giugulare spurio sia più frequente, o più ampio, nei bambini che nell'adulto.
Oltre l'accennata ubicazione del forame giugulare spurio , Luschka ne osservò pure
l'apertura immediatamente sopra la radice del processo zigomatico, o in direzione
verticale in alto dal processus articularis posterior od un po' in avanti od in addietro di
questa linea. Egli descrive succintamente la posizione ed i caratteri principali del
forame e del corrispondente canale nella Marmotta, nella Talpa, nei Ruminanti, nel
Cane e nel Gatto; per le Scimmie avverte che il foramen jugulare spurium è in alcune
ben manifesto [Macacus cynomólgus), in altre (linai* ecaudatus) manca completamente.
Relativamente alle traccie lasciate dalla presunta pi'imitiva via di deflusso del sangue
all'endocranio e cioè del prolungamento anteriore del sinus transversus, dal quale il
sangue nelle prime fasi di sviluppo dell'Uomo, permanentemente in quasi tutti i Mam-
11 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 169
miferi, passerebbe nella v. giugulare esterna, Luschka afferma che il solco, sulcus trans-
versus spurius, indicante il decorso originario del seno omonimo, decorre, quando esiste,
lungo la sutura petrosquamosa ; la sua occorrenza però non apparterrebbe alle eve-
nienze abituali, ma piuttosto alle eccezioni, per quanto non sia rara ; tale solco può
essere qua e là ricoperto da osso e può anche attraversare lo spigolo superiore della
piramide per gettarsi nel seno trasverso, nel punto in cui questo si continua come
fossa sigmoidea; generalmente, quando coesiste un forame» jugulare spurium rappre-
sentante lo sbocco esocranico del solco omonimo, questo termina di regola all'aper-
tura endocraniana del canale attraversante il temporale; può però eventualmente
continuarsi ancora in avanti sino al foro spinoso ; l'esistenza del sulcus transversus
spurius non è però strettamente collegata coll'esistenza di un forami n jugulare spurium,
che anzi il solco può essere ben sviluppato anche senza di questo ; con ciò non si può
tuttavia dubitare menomamente che le varie formazioni {foramen jugulare spurium,
meatus temporalis, sulcus transversus spurius) non abbiano il medesimo significato gene-
tico, la qual cosa risulta essenzialmente dall'esame comparativo delle disposizioni che
si riscontrano nel Macaco, nel Vitello, nel Cane, ecc. Luschka non dà nella sua ottima
trattazione alcun dato numerico sulla occorrenza delle varie formazioni, ne dice al-
cunché sulla quantità dei crani umani esaminati : del resto le referenze comparative,
per quanto esattissime e corroborate per lo più dall'iniezione dei vasi, sono anche
relativamente scarse.
Abbiamo di già veduto come Hyrtl ed Henle dopo le pubblicazioni di Luschka,
accolgano le spiegazioni di questo A. per il significato dei fori anomali da loro osser-
vati in singoli casi; similmente ricorderemo come anche Kolliker (33), trattando
dello sviluppo del sistema giugulare, accenni alla causale della persistenza del forame
giugulare spurio nel cranio umano adulto, riferendosi appunto a Rathke e Luschka.
Zuckerkandl (75) sopra 280 crani avrebbe trovato il foro giugulare spurio solo
3 volte con ampiezza diversa, mentre riscontrò 22 volte ben evidente il solco per il
seno petrosquamoso.
Kiesselbach (31), dopo aver accennato alla eventuale presenza del foramen jugu-
lare spurium dietro il processus articularis posterior , oppure in corrispondenza della
radice posteriore del processo zigomatico, sempre però come apertura di un seno petro-
squamoso, afferma che nel temporale destro di un bambino di un anno e mezzo, all'estre-
mità anteriore del solco petrosquamoso esisteva un'apertura dalla quale originavano
due canali: di questi uno inferiorposteriore, a decorso rettilineo, aveva il suo sbocco
sopra l'estremità anteriorsuperiore della porzione timpanica, dietro il processo arti-
colare posteriore, mentre il superiore raggiungeva la superficie della squama nel-
l'angolo da questa formato colla faccia superiore dell'arco zigomatico : in detto caso
di doppio forame giugulare spurio mancava la continuazione del solco petrosquamoso
col solco sigmoideo.
Il Cope (9) estese ancora di molto la conoscenza dei forami perforanti la squama
temporale e formanti lo sbocco di un canale connesso con il seno venoso laterale
in tutta la serie dei Mammiferi. La posizione dei diversi canali avrebbe, secondo il
Cope, una discreta importanza nella diagnosi differenziale delle varie specie : di questi
forami egli distingue sei specie e cioè : un foramen postglenoideum guardante in basso,
da cui origina un canale che sarebbe il principale, diretto in alto ed in dietro fra
Serie II. Tom. LUI. y
170 ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAMIDA 1 2
il petroso e lo squamoso, sboccante nella cavità craniana al margine superiore del
petroso: tale canale può riuscire di nuovo all'esterno in un punto dell'osso parietale,
spesso in corrispondenza o molto prossimo alla sutura squamosoparietale, mediante
un forame volto direttamente all'esterno, che Cope chiama postparietale: una branca
del canale può avere una direzione posteriore ed uscire all'esterno nella sutura fra
il petroso e l'occipitale con un forame aperto posteriormente, foramen mastoideum :
oppure una branca posteriore può uscire nella parte posteriore dello squamoso in
un forame laterale, f. postsquamosum. In alcuni Mammiferi il canale principale, dopo
breve decorso a se. può arrivare subito al di sopra della base del processo zigomatico
con un foramen supraglenoideum aperto in alto: finalmente l'apertura del canale può
essere situata subito sotto alla radice orizzontale del processo zigomatico in una
posizione posteriore ed esterna al foramen postglenoideum, costituendo un /'. subsqua-
mosum rivolto in basso.
Inoltre Cope ricorda le perforazioni della squama temporale degli Sdentati
per mezzo di un ramo dell'a. diploetica (Hyrtl, nella Tamandua tetradaetyla) ; un
altro foro, /'. postzygomaticum, dei Marsupiali e Monotremi, che perfora la base poste-
riore della porzione zigomatica dello squamoso ed è diretto in avanti; ed un f. supra-
tympanicum, il quale penetra fra il meato auditivo e comunica colla cavità del tim-
pano. Indipendentemente da questi ultimi il cui significato è anche molto diverso,
Cope fa notare come le varie aperture possano essere associate o non nelle varie
specie dei singoli ordini e come la loro presenza colle diverse modalità o la loro man-
canza siano caratteri abbastanza costanti sì da poter essere usati per una definizione
sistematica. Egli segue l'evoluzione dei detti forami in tutta la serie dei Mammiferi,
concludendo che la condizione primitiva dei vari ordini appare essere stata la presenza
di un numero limitato di forami: nei Roditori predominano quelli della parte infe-
riore dello squamoso: i Carnivori ed i Quadrumani cominciano con pochi forami, che
si obliterano nelle forme più evolute. Nei Perissodattili i forami sono pochi nelle
forme infime e nei Rinoceridi, più numerosi nella serie dei Cavalli. Finalmente, fra
gli Omnivori, negli Artiodattili si nota un'obliterazione progressiva dei detti forami :
l'aumento invece si verifica nel Cavallo e più specialmente nella Pecora, cioè negli
erbivori specializzati di questo gruppo.
Noi ritorneremo più tardi sui dati di Cope esponendo i risultati delle nostre
osservazioni: certamente il lavoro di questo A. per quanto ridotto ad una semplice
enumerazione delle particolarità delle singole specie e per quanto sia poco curata
l'importanza ed il significato dei detti forami e le osservazioni antecedenti, è il
più esteso di tutti per la comparazione morfologica.
Notiamo qui di passaggio che, già prima di Cope, anche Flower (15) aveva
accennato alla presenza od alla mancanza dei forami suddetti nelle varie specie di
Mammiferi: Flower diffatti (noi abbiamo potuto consultare solo la 3" ediz. del suo
libro) menziona un forame postglenoideo destinato al passaggio di una vena, che
shocca nel seno laterale, nel Cane, nell'Orso, nei Chirotteri, negli Artiodattili : tale
canale non esisterebbe come forame dichiarato nell'Uomo e, fra i Carnivori, nei Felidi.
Knott (32), accennando all'esistenza 'del seno petrosquamoso, ricorda come per
sboccare nel seno laterale contorni l'estremità posteriore del margine posteriore della
rocca, oppure passi attraverso un canale scavato nell'osso. In alcuni casi tale seno
13 W.I VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 171
comunicherebbe con un piccolo seno accessorio posto in un canale dell'osso comin-
ciante alla parte più declive del seno trasverso per portarsi al foro mastoideo:
questa disposizione riproducente il canale temporale dei Mammiferi sarebbe stata
riscontrata da Knott due volte. Anteriormente il seno petrosquamoso attraverse-
rebbe la porzione squamosa alquanto al disotto della radice zigomatica, talvolta al
di sopra della stessa pur imboccare le vene temporali profonde, riproducendo così
una condizione che sarebbe normale nella vita embrionaria. Knott avrebbe trovato
il seno petrosquamoso sopra 44 soggetti esaminati, 7 volte dai due lati, 19 volte
da uno solo (11 a sinistra e 8 a destra): egli non dice però se in tutti questi casi
il seno sboccasse sempre all'esterno con un foramen iugulare spurium.
Ai dati di Knott si accosta pure il Labbé (37) per quanto riflette il seno petro-
squamoso ed il suo sbocco all'esterno col foramen jugulare spurium (trou temperai):
dall'esame speculativo delle varietà relative dei seni da lui o da altri (Malacarne,
Knott) riscontrate e dal modo di sviluppo delle due giugulari, Labbé è indotto ad
ammettei'e come molto probabile che primitivamente il seno laterale sbocchi all'e-
sterno non solo per il foro giugulare spurio, ma anche per il foro mastoideo per
mezzo della vena omonima, in guisa che il foro temporale rimpiazzerebbe in taluni
casi il foro mastoideo: il residuo della branca mastoidea sarebbe, secondo Labbé,
rappresentato dalla vena auricolare posteriore da una parte tributaria della v. giu-
gulare esterna, dall'altra connessa con la v. occipitale : l'A. aggiunge che sarebbe
perciò interessante di ricercare se nei casi in cui manca il foro mastoideo non esista
forse un foro temporale molto sviluppato.
Sperino (62), che si riferisce esclusivamente ai dati di Knott, avrebbe trovato
abbastanza spesso la presenza del canale per il seno petrosquamoso in 512 crani:
afferma però di non aver tenuto calcolo del grado di frequenza.
Hedon (25) pare ammetta l'esistenza eventuale del seno petrosquamoso quale
fu descritto da Krause e Lusciika come un residuo della via originaria per cui il
sangue tenderebbe ad uscire dal cranio attraverso il foro temporale, avvertendo però
in nota che secondo il Bouchard l'esistenza di questo seno deve essere riattaccata
allo sviluppo dell'anello timpanico e della cartilagine di Meckel.
Per il Trolard (70) il seno petrosquamoso degli AA. precedenti non sarebbe
altro che la branca posteriore delle vene meningee medie; pare quindi che, secondo
quest'A., si dovrebbe negare ogni significato morfologico al detto seno, i cui rapporti
di continuità col foro sfenospinoso, punto di emergenza della v. meningea media,
sono tutt'altro che costanti, come abbiamo già detto, mentre sono assai più frequenti
invece con un eventuale forame emissario temporale.
Legge (42) nel cranio di un individuo adulto con molteplici anomalie riscontrò
d'ambedue i lati un foramen jugulare spurium aprentesi al di sopra ed in avanti al
forame uditivo esterno, in corrispondenza della radice superiore esterna dell'apofisi
zigomatica, superiormente all'articolazione mandibolare. A destra il foro, ampio 5 mm,
si approfonda per 2 cui., raggiunge la fossa sfenoidale ove sbocca in corrispondenza
della porzione anteriore di un solco diretto indietro e lateralmente, destinato ad ac-
cogliere il seno petrosquamoso: tale solco a livello dello spigolo superiore della
rocca è ricoperto da un piccolo ponte osseo (acquedotto di Verga) e sbocca come
di consueto nel solco del seno trasverso, il quale più in basso accoglie l'emissario
172 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 14
rnastoideo. A sinistra l'apertura esocranica è ampia solo 1 inni, raggiunge un solco
petrosquamoso come a destra, però assai meno pronunciato e comunicante con il
seno trasverso a mezzo di un canale ricurvo scavato nella porzione squamosa del
temporale e che, secondo Legge, rappresenterebbe un vero canalis tempomlis, quale
si riscontra in molti Mammiferi e quale esisterebbe pure negli Uccelli (Gallinacei);
Lecci: afferma inoltre che canalis temporalis dei Mammiferi ed acquedotto di Verga
dell'Uomo sono omologhi e che questo non è che un rudimento di quello.
Il Calori si occupò ripetutamente (5, a, b) dei forami emissari temporali. Egli
ricorda (5, è) come il forame giugulare spurio sia l'emissario del seno petrosquamoso e
come non si apra all'esterno sempre nel medesimo punto, che ora è all'estremità esterna
della scissura di Glaser, ora subito al davanti del meato uditivo esterno, ora infine
alla metà circa della radice esterna dell'apofìsi zigomatica. Accenna inoltre come del
pari nella cavità glenoidea e nella faccia articolare della radice trasversa dell'a-
pofìsi zigomatica occorra talvolta un qualche forellino vascolare; l'apertura endoera-
niana del forame giugulare spurio sarebbe situata nella sutura petrosquamosa o subito
all'esterno di questa. Detto canale, più sviluppato in molti Mammiferi, sarebbe più
frequente nei crani dei giovani che in quelli di adulti e dà passaggio ad una
venuzza tributaria della giugulare esterna direttamente od indirettamente per mezzo
della vena facciale posteriore.
In altra occasione (.">, u) Calori ha trovato che nella docciatura del seno petro-
squamoso del temporale di un fanciullo di 8 anni vi ha:
" la foce di una vena diploica temporale, dalla quale foce comincia come una lacuna che corre
obliquamente in basso ed in avanti per il tratto di 12 millim., al termine della quale ha un forame
emissario rotondo avente due millim. di diametro, il quale forame è comune a quelli di due canali
che discendono divergendo, ed uno è posteriore più stretto avente il suo sbocco al di sopra della
radice esterna dell'apofìsi zigomatica corrispondentemente al diametro trasverso alla parte media
della cavità glenoide, e tale sbocco è per un forame largo 1 millimetro; l'altro anteriore più largo
che ha il suo sbocco distante dal precedente 1 centimetro al di sopra della radici/ trasver
interna dell'apofìsi medesima per un forame rotondo avente 2 millim. di diametro ,.
In tal cranio cioè esistevano due forami giugulari spuri, aprentisi entrambi al di
sopra dell'apofìsi zigomatica. Calori aggiunge che anche nell'adulto si può trovare
tale canale od avvisarsene le traccie; in 50 crani aperti esso gli sarebbe occorso
2 volte dai due lati, una volta solamente a destra.
Poirier (52), dopo aver ricordato (pag. 417) come particolarità normale della
faccia endocraniana della squama temporale l'esistenza della docciatura per il seno
petrosquamoso, aggiunge ancora, descrivendo la faccia superiore concava dell'apo-
fìsi zigomatica (pag. 418), che:
" on trouve très souvent sur rette face des trous veineux, qui me paraissent représenter les
vestiges du sinus pétro-squameux, dont le trajet est visible sur la face endocranienne do l'écaille,
le long de la suture tynipano-squanieuse „.
In nota (pag. 430) osserva poi come la docciatura petrosquamosa talvolta prenda
origine in addietro non direttamente dalla docciatura per il seno trasverso, ma bensi
da un canale che o si apre nello spessore dell'osso o sbocca ugualmente nel seno
trasverso: l'estremità anteriore raggiungerebbe sempre il foro sfenospinoso , ma
qualche volta sboccherebbe ad un canale che si perde nello spessore dell'osso. In
15 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQUAMOSI 173
un caso la docciatura, trasformata in canale su una parte del suo decorso, si apriva
nella scissura di Glaser con un foro ampio 2 min. Due volte su 40 crani Poirier
avrebbe visto partire dall' estremità anteriore della docciatura petrosquamosa un
canale, che egli chiama canal zygomatiaue, il quale, dopo un tragitto contorto, si
apriva alla faccia superiore della base dell' apofisi zigomatica ; esso non rappresen-
terebbe altro che uno dei canali numerosi del fondo della docciatura ingrandito. In
un cranio il canale zigomatico era doppio ed una delle sue branche si apriva immedia-
tamente al di sotto del tubercolo zigomatico anteriore: in un altro temporale, impor-
tante per parecchie anomalie, Poirier avrebbe trovato (pag. 431) che il seno petro-
squamoso si apriva nella cavità glenoide con un orificio di 2 mm.
11 Lowenstein (44), sotto la guida di L. Stieda ed accettando ancora i dati di
Kathke e Luschka sulla cronologia dello sviluppo delle vene giugulari, si è prefisso
di studiare in una serie numerosa di crani adulti l'occorrenza delle eventuali traccie
della via tenuta dal sangue venoso endocranico nella vita embrionale per passare
nella giugulare esterna; in 663 crani di adulti e giovani, dei quali 118 erano aperti,
in 20 mezzi crani ed in 109 temporali isolati, egli ha ricercati il canale temporale
colle sue aperture endo- ed extracraniana, il solco petrosquamoso, l'acquedotto di
Verga : inoltre ha tenuto calcolo pure del comportamento del processus articularis
poslerior e cioè della rilevatezza, che stabilisce eventualmente il limite posteriore
della fossa mandibularis: tale processo fu riscontrato con sviluppo differente nell'81 %
dei casi. Per quanto riguarda il forame giugulare spurio di Luschka, considerato come
apertura esterna del canale temporale, sopra 663 crani egli l'avrebbe riscontrato in
61 (9,65 °/0) e più specialmente in 13 bilateralmente (1,96%) ed in 51 (7,69%) da
un lato solo (25 volte a destra, 3,77 r'/0; 26 a sinistra, 3,92 %). Nei rimanenti
129 preparati, dei quali 55 appartenevano alla metà destra del cranio e 74 alla metà
sinistra, incontrò il forame giugulare spurio 12 volte e cioè nel 9,3 °/„ (Svolte a
destra, 8,48%; 7 Volte a sinistra, 10 %). Relativamente alla posizione del forame
stesso all' esocranio , Lowenstein dice che nella maggioranza dei casi esso si apre
dietro il processus articularis posteriori talvolta tuttavia si troverebbe in immediata
vicinanza alla radice anteriore dell' apofisi zigomatica; il foramen jugulare spurium
può aprirsi nella sua posizione normale anche quando non esiste un processus artìcuhtri*
posterior. Nel massimo numero dei casi l'apertura misurerebbe 1 mm.; Lowenstein
ha però pure calcolato anche forami assai più piccoli.
Relativamente all'apertura interna egli potè studiarla solo nei 118 crani segati:
in questi l'apertura esterna esisteva 18 volte (15,22 %) e più esattamente 4 volte
(3,39%) dai due lati, 5 volte (4,22%) a destra, 9 volte a sinistra (7,62 %); l'aper-
tura interna venne riscontrata con chiarezza solo 6 volte (5,08 %) e cioè 3 volte
da entrambi i lati (2,54 %), 3 volte solo a sinistra (2,54 °/0). Negli altri 129 pre-
parati (55 destri, 74 sinistri) trovò l'apertura interna 8 volte, delle quali 3 a destra
(6,38 %), 5 a sinistra (8,06 %). Ordinariamente 1' apertura interna è meno chiara-
mente visibile dell'esterna, ha però la medesima ampiezza. In alcuni casi Lowenstein
potè trovare permeabile il canale ad una setola o ad un filo metallico: pei casi in
cui ciò non è possibile, ammette o un subitaneo restringimento del canale o un de-
corso a gomito. Lowenstein non riporta cifre per la percentuale del solco per il
seno petrosquamoso. assevera però che esso è raro nel cranio adulto : invece non
171 ALFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAMIDA
L6
gli sarebbe occorso mai di osservare il canale di comunicazione di Verga. Peri dati
anatomo-comparativi Lowenstein si rimette quasi completamente a quanto è stato detto
dagli A A. precedenti, limitandosi a riferire i risultati di alcune ricerche sui Primati.
Fra i Primati catarrini. in 9 crani di Cercopithecus, G di Oynocephalus, 3 di Semno-
pithecus egli avrebbe riscontrata la mancanza completa di foro giugulare spurio:
invece questo era presente tra l'estremità mediale del processo postglenoideo forte-
mente pronunciato e il condotto uditivo esterno in 11 crani di Inuus. Fra i Primati
platirrini trovò pure più o meno ampio il detto forame dietro il margine mediale
del processo articolare posteriore in 3 crani di Àteles, 5 di Cebus, 3 di Mycetes e 4 di
Rapale. Del resto nei Primati il modo di comportarsi riguardo al foro giugulare spurio
ed al canalis (meatus) temporalis sarebbe simile all'umano {menschenàhnlich).
Le ricerche di Lowenstein furono continuate coi medesimi intendimenti e sotto
la stessa guida dal Kopetsch (34) in un lavoro la cui conoscenza dobbiamo alla cor-
tese premura del prof. Stieda. 11 Kopetsch, i risultati del quale noi avremo campo
di esaminare con maggior diffusione più tardi, servendosi di un materiale molto ricco
per quantità di specie e per numero di crani delle stesse, conclude che posseggono
un forame giugulare spurio molto ampio le famiglie Bovina, Orina, Antilopim e Devexa:
un foro moderatamente ampio le famiglie Cebidae, Canidae, Ursidae, Chiroptera, Eri-
nacei, Moschidav, Camelidae, Equidae, Nasicornia, Tapyrina, Phascohmydae, e Macro-
podidae; un foro giugulare spurio piccolo i Gynopithecini, Arctopitheci, Lemuridae,
Viverridae, Mustelidae, Soricidea, Talpina, Myrmecophaga , Dasypus, Didelphyidae e
Dasyuridae. Ne sarebbe dubbia, secondo Kopetsch, l'esistenza nei Rodenti// , man-
cherebbe negli Anthropomorpha, Galeopithecidae, Felida<\ Hyaenidae, Phocina, Lamnun-
guia, Proboscide//, Obesa, Suina, Delphinidae, Manis, Orycteropus, Bradypoda e Phalan-
gistidae.
I risultati di Kopetsch concorderebbero quindi in generale con quelli degli A A.
precedenti: sarebbero reperti nuovi la dimostrazione dell'esistenza di un foro giu-
gulare spurio nei Nasicornia, Tapyrina, Phascolomyidae, Macropodidae e Dasyuridae.
Allo scopo di determinare il parallelismo delle a. carotidi esterna ed interna rispet-
tivamente colla v. giugulare esterna (vena carotide esterna) e colla v. giugulare interna
(v. carotide interna) Launay (39) segue ancora una volta nella filogenesi l'evoluzione
dei due sistemi venosi: relativamente alla questione però che ci occupa, egli osserva
che nei Mammiferi in cui la v. giugulare unica (v. giugulare esterna, vena carotide
esterna) serve esclusivamente #come via di deflusso del sangue intracraniano, questo
sangue ne esce specialmente per un foro postglenoideo posto dietro la cavità glenoide,
davanti il condotto uditivo, e per un foro sopraglenoideo posto sopra la radice dello
zigoma: i canali originanti dai due fori confluiscono in uno solo, canale temporo-
parietale, col quale si continua direttamente il seno trasverso, in corrispondenza del
margine superiore della rocca, là ove negli animali forniti di giugulare interna il
detto seno si continuerebbe col seno sigmoide : da questo punto parte pure il canale
che andrebbe a sboccare nel foro mastoideo: questa condizione sarebbe propria del
Montone e della Capra. Tali fori diminuiscono di numero e di importanza quando la
/iugulare interna compare come abbozzo ed è insufficiente: il primo a scom-
parire sarebbe il foro sopraglenoideo, rimanendo invece più o meno ampio il post-
glenoideo (Cane; alcune Scimmie). Infine anche questo scomparirebbe quando la giù-
17 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSE E PETROSQUAMOSI 175
gulare interna riesce sufficiente e preponderantemente sviluppata (Scimmie superiori,
Uomo). Launay trova un emissario della 2a categoria nel Coniglio, nel quale, pur
essendo la giugulare interna insufficientemente sviluppata, non esisterebbero fori
post- o sopraglenoidei , ma il sangue effluirebbe essenzialmente per i fori venosi
della base e per i plessi vertebrali. Nell'evoluzione dell'Uomo si troverebbero le
diverse tappe successive simili ai diversi stati che persistono nella serie animale.
Anche Charpy (6), parlando del seno petrosquamoso, riporta l'evoluzione del
sistema della giugulare nella serie dei Mammiferi e tratta del significato degli emis-
sari squamosi. Egli insiste inoltre ancora, come già Labbé e Launay, sul significato
differente dal punto di vista embriologico ed anatomo-comparativo delle due porzioni
costituenti il seno laterale; la porzione orizzontale o seno trasverso propriamente
detto sarebbe comune in tutti i Mammiferi, filogeneticamente primitiva e destinata,
nella gran parte dei Mammiferi che non hanno giugulare interna, a continuarsi, ven-
tralmente, in rapporto del margine inferiore della rocca, con una porzione che non
pare di norma nell'Uomo o per lo meno diminuisce sommamente d'importanza, la
quale corre poi fra l'osso petroso e lo squamoso e si apre all'esterno col foro tem-
porale; la porzione inferiore o seno sigmoideo sarebbe di sviluppo secondario, com-
parirebbe cioè solo quando la giugulare interna raggiunge la sua massima importanza
come scaricatoio del sangue endocraniano : contemporaneamente alla sostituzione di
questa porzione a quella orizzontale scomparirebbe pure il foro temporale.
Cheatle (8) sopra 2585 crani del " College of Surgeons „ di Londra avrebbe
trovato in 23 dei residui rudimentali dello sbocco all'esterno del seno petrosqua-
moso: l'apertura esterna risiedeva nella cavità glenoide 3 volte, 3 nel processo
zigomatico, 6 nella base dello zigoma, 11 precisamente all'esterno della scissura di
Glaser sopra la riunione del tubercolo postglenoideo con l'osso timpanico. Il residuo
del seno petrosquamoso in una o nell'altra forma sarebbe per Cheatle piuttosto
la regola che la eccezione in tutte le età, ma più specialmente nell'infanzia e nella
fanciullezza, nei quali può esistere il seno, senza che ne esistano ben marcate le
tracce nell'osso. Oltre alle corrispondenze anatomo-comparative, Cheatle richiama
ancora l'attenzione sull'importanza anatomo-patologica del seno venoso stesso, spe-
cialmente perchè in esso sboccano costantemente piccole venuzze provenienti dalla
cavità timpanica e che, come egli dimostra, possono rappresentare la via di diffu-
sione di un processo patologico alle meningi coi relativi seni.
Denker (12, a), inferendo i risultati delle sue osservazioni sull'osso temporale dei
Mammiferi eseguite, come già da Hyrtl (30), col metodo della corrosione, ricorda pure
come in molti di essi dalla fossa cranica superiore decorra in avanti ed in basso sopra
la parte mediale del condotto uditivo esterno un ampio canale vascolare {meatus o
canalis temporalis) attraverso cui viene esportata dall' endocranio la massa princi-
pale del sangue venoso. Detto canale sarebbe specialmente sviluppato nel Vitello e
nell'Orso bianco: esso mancava invece, fra gli animali da lui studiati, in Pithecus
gorilla, Felis pardus, Sus scropha, Phocoena phocoena ed Echydna ìujstrix. Denker
ricorda come nei Primati e nell'Uomo possano esistere in singoli esemplari rudimenti
del canale in forma di forame giugulare spurio interno od esterno.
Cabibbe (4) trattando del processo postglenoideo accenna incidentalmente al
foro omonimo, raffigurandone un bell'esempio in un cranio ($, anni 60, imbecille),
1 , 6 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 1 8
affermando che isso si riscontra nell'Uomo solo raramente e che ad esso è da attri-
buirsi l'identico significato del foro giugulare spurio (Luschka, Legge), dell'acquedotto
del temporale (Verga), deìVemissarium temporale (Krause).
Finalmente aggiungeremo per completare i dati statistici, che il Ledouble, il
quale nel 1897 aveva presentato alla " Société d'Anthropologie „ di Parigi uno spe-
cimen di forame giugulare spurio con la denominazione di canal prétympanique (41 a),
dopo la presentazione di una serie di preparati e fotografie fatte alla riunione di
Montpellier (1902) della " Association des Anatomistes „ a nome nostro dal Prof. Fusari,
ci avvertiva epistolarmente, autorizzandoci anche alla pubblicazione, che su 200 crani
della Turenna di ambo i sessi egli avrebbe riscontrato 9 volte un foro postglenoideo
più ampio di 1 millim. (6 volte dai due lati, 2 solo a destra, 1 solo a sinistra):
il foro postglenoideo esisterebbe , secondo Ledouble , nella maggioranza dei crani
umani, ma non sarebbe permeabile che ad una fina setola. Il foro sopraglenoideo
sarebbe più raro e più piccolo: una volta sola egli avrebbe riscontrato dallo stesso
lato e sul medesimo soggetto un foro sopraglenoideo ampio 2 millim. ed un post-
glenoideo di 3 millim.
Dobbiamo inoltre ricordare, a complemento di ciò che abbiamo di già riferito
per l'anatomia veterinaria, come generalmente gli AA. da noi consultati descrivano
il canale temporale degli animali domestici in modo affatto analogo a Gurlt ed a
Schwab: noi ci limitiamo a ricordare Patellani (51), Thomas [Montone, Capra (69)],
Strangeways (65), Frank (17), il quale avverte, contrariamente a Gurlt, che nel
Maiale manca un " eigentliche Sehlàfengang „, Chauveau et Arloing (7), Sussdorf (61),
Ellenberger e Baum perii Cane in particolare (13a) e per gli animali domestici in
generale (13, b) ed infine Krause (36), che nel Coniglio accenna ad emissari temporali
attraversanti il margine inferiore del processo squamoso del temporale. Infine, oltre
ai trattati già menzionati nel corso della nostra rivista, fanno in qualche modo cenno
delle varie formazioni che rientrano nel gruppo degli emissari squamosi e petrosqua-
mosi (canale giugulare spurio, canale temporale, seno petrosquamoso) riconoscendone
il significato morfologico ed anatomo-comparativo, però affidandosi unicamente agli
studi speciali sinora da noi riassunti (particolarmente a quelli di Luschka), Milne-
Edwards (48), Gegenbaur (18), Quain (54), Debierre (11), Langer-Toldt (38), Se-
bilau (60), Morris (49), Mac-Ewen (46), Testut (68), Romiti (56), Spee (611 ed altri
minori.
Abbiamo appositamente lasciato per ultimo l'esame dei risultati importantissimi
delle ricerche compiute da Salzer (57), sotto la guida del Prof. Hochstetter, sopra
lo sviluppo dei vasi venosi del cranio principalmente della Cavia, roditore fornito
nella età adulta di un forame giugulare spurio, e secondariamente di altri Mammiferi
(Coniglio, Gatto, Maiale, Uomo), in quanto detti risultati, tratti da ricerche condotte
su sezioni microscopiche rigorosamente seriali di embrioni dei vari stati e sui modelli
di ricostruzione degli stessi embrioni, rispetto ai reciproci rapporti cronologici dello
sviluppo delle due vene giugulari, sono completamente discordanti da quelli che
emergerebbero dalle ricerche di Rathke e di Luschka e che, come abbiamo ve-
duto, furono accolti senza ulteriore controllo di studio embriologico da tutti gli AA.,
che trattarono ex professo od incidentalmente di questo argomento. Secondo le ri-
cerche di Salzer il processo di sviluppo delle vene del capo avviene nei vari Mam-
19 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 177
miferi in un modo affatto analogo. In tutti la primissima via di deflusso del sangue
venoso della porzione cefalica del sistema nervoso centrale giace medialmente agli
abbozzi dei nervi cranici. In un secondo stadio il vaso mediale ai nervi viene sostituito
da un altro il quale, relativamente a questo, assume una posizione laterale: Io spo-
stamento di posizione avviene per la formazione di anelli venosi, dapprima attorno
airAcustico-Facciale, quasi nello stesso tempo attorno al Vago; quindi segue primie-
ramente lo spostamento della via venosa rispetto airipoglosso : rispetto al Trigemino
la vena rimane mediale per un tempo relativamente lungo. Formatosi lo scheletro
cartilagineo, il sangue della regione anteriore del cervello abbandona la cavità cra-
nica assieme al n. faciali*, mentre quello del cervello posteriore e del retrocervello
viene accolto da una vena, la quale decorre all'esterno attraverso il foro giugulare al
lato laterale del Vago : quivi si riuniscono i due vasi nella vena giugulare interna.
Tosto tuttavia, dopo la formazione di una anastomosi dorsalmente all'organo dell'udito,
si oblitera la vena decorrente accanto al n. facialis, cosicché la vena accollata al
Vago e corrispondente alla p. jugularis interna rappresenta l'unica via di deflusso
del sangue del cranio. In prosieguo di sviluppo occorrono secondariamente delle riu-
nioni anastomotiche dei vasi intracranici in parte colle vene facciali, in parte colle
vene spinali, e la via attraverso il forame» jugulare scompare o completamente op-
pure solo in parte. La riunione secondaria, occorrente nella maggior parte dei Mam-
miferi, è quella che passa attraverso il f or amen jugulare spurium; vi hanno tuttavia
anche animali (Gatto) nei quali una tale riunione non giunge a formazione, benché la
vena giugulare interna sia quasi scomparsa ; in questi casi entrano in gioco le riunioni
secondarie colle vene orbitali e colle vene del retrocervello. Con ciò la vena giugu-
lare interna, quale prosecuzione del seno trasverso e quale compare tipicamente nel-
l'Uomo e nei Primati, rappresenta, contrariamente alle asserzioni di Rathke, Luschka,
Koelliker, un comportamento più primitivo di quello che si verifica negli animali,
nei quali la vena giugulare esterna, che giunge a sviluppo completo assai dopo l'in-
terna, collo sviluppo cioè del cranio facciale, rappresenta la via principale di de-
flusso, se non l'unica, dall'interno del cranio.
Per questi risultati, perentoriamente confermati ed anche per certi aspetti com-
pletati di recente da Grosser (21) nei Chirotteri e più specialmente nei Microchi-
rotteri, da Fischer (13) nella Talpa europaea, e che si prestano come abbiamo veduto
a molte considerazioni generali di indole morfologica, oltreché per altre ragioni cor-
relative da noi pure precedentemente esposte, ci è parso opportuno riprendere lo studio
anatomico degli emissari squamosi e petrosquamosi nell'Uomo e negli altri Mammi-
feri partendo appunto dai criteri fissati da questi ultimi AA. Anzitutto è da avvertire
la concordanza del modo con cui evolve lo sviluppo del sistema venoso della porzione
cefalica del corpo dei Mammiferi, quale appunto è dimostrato da Salzer e da Grosser,
con le modalità di formazione e con le modalità di successione delle diverse dispo-
sizioni delle vene anche nella porzione cefalica degli altri vertebrati (Selaci: Rarl,
Raffaele, Rex, Hochstetter — Anfibi: Field, Houssay, Hochstetter, Gruby, Rex,
Goette, Grosser e Brezina — Uccelli: Kastschenko). Secondariamente, come già
avvertiva Salzer e come, con criteri però non esatti, anche altri AA. da noi ri-
cordati, sono da considerarsi quale o quali siano le condizioni (sviluppo della bulla
timpanica, portamento della testa, sviluppo diverso della muscolatura dorsale e di
Serie II. Tom. LUI. x
178 ALFONSO BOVEBO — UMBERTO C'ALAMIDA 20
quella ventrale della colonna vertebrale, rapporti di questa muscolatura colle vene?),
che permettono nella grande maggioranza dei Mammiferi inferiori ai Primati la
successione, cronologicamente secondaria, di uno stadio di sviluppo, che invece non
si verifica se non come anomalia, o per lo meno in forma rudimentale, nell'Uomo e
nei Primati superiori. Ritenute come effettivamente e definitivamente dimostrate le
modalità di sviluppo del sistema venoso del capo, quali emergono dagli studi di
questi ultimi AA., rimarrà a vedere quale significato si debba attribuire alle for-
mazioni eventuali che nell'Uomo, come anche negli altri Mammiferi in cui esse si
manifestano abnormemente, rappresentano la via o le vie di riunione stabilitesi in un
periodo relativamente tardivo dello sviluppo ontogenetico fra la giugulare esterna
e le vene intracraniane : indubbiamente i criteri adottati dagli AA., che precedettero
le ricerche di Salzee, vanno, se non completamente invertiti, per lo meno modificati
di molto, e per conseguenza anche sotto questo aspetto non ci pare ingiustificai a
una ricerca intesa a questo scopo.
Come causali delle nostre ricerche dobbiamo aggiungere che ci è parso non tutti
gli AA. abbiano tenuto sufficiente calcolo, per quanto riguarda l'Uomo, di ogni
modalità e dell'ubicazione differente con le quali possono comparire traccio del pas-
saggio attraverso la squama del temporale, oppure attraverso le suture della squama
con le ossa vicine, di rami venosi di deflusso del sangue craniano affluenti alla
vena giugulare esterna; o per lo meno ci è parso che non a tutte le dette vie si
assegnasse il medesimo significato morfologico, quale invece risulta dalla conoscenza
del modo col quale avviene realmente lo sviluppo del sistema venoso del capo. An-
cora, talune disposizioni sono siffattamente rare, da rendere desiderabile una dimo-
strazione più chiara di quanto sia stato fatto precedentemente. Anche dal lato an-
tropologico dobbiamo ricordare come in Italia, escluse le poche osservazioni di Calori
e quella isolata di Legge, manchino dei dati statistici sufficientemente ampi sulla
occorrenza delle dette formazioni. Finalmente, per quanto gli studi di Cupe e di
Kopetsch vertano su un materiale anatomo-comparativo molto ricco, pure, per le
stesse ragioni che abbiamo sopra enunciate relativamente alla nostra specie, allo
scopo di togliere alcune inesattezze e contraddizioni facili a verificarsi nella lettera-
tura, abbiamo cercato di estendere coi medesimi criteri le nostre ricerche ai vari
ordini di Mammiferi. Queste ricerche, che noi abbiamo potuto compiere per l'aiuto
cortesissimo dei nostri Maestri Prof.1' R. Ftjsabi e L. Camerano, vertono quasi essen-
zialmente su crani macerati, e solo in piccola parte su osservazioni che specialmente
uno di noi (Bovero) potè fare su cadaveri opportunamente iniettati. Coll'esame quasi
esclusivo dei crani, noi ci siamo d'altronde messi nelle identiche condizioni degli AA.
che ci precedettero in questo studio: inoltre è così particolare il comportamento dei
vasi emissari in generale e, nella fattispecie, degli emissari squamosi e petrosqua-
mosi, così esclusivi i rapporti che essi contraggono e chiare le traccie che lasciano
per rispetto alle ossa, da diminuire molto il valore di una possibile obbiezione alla
qualità del nostro materiale di studio.
Abbiamo di già veduto come i vari AA. usino una terminologia differente
relativamente al canale della squama temporale per cui decorrerebbe la presunta ra-
dice primitiva della giugulare esterna anomala nell'Uomo, normale in molti Mammi-
feri e relativamente alle aperture endo- ed esocranica dello stesso. Difatti mentre la
21 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 179
grande maggioranza degli AA. (Luschka, Hyrtl, Henle, Koelliker, Zucherkandl,
Legge, Lowenstein, Kopetsch, Calori, ecc.) chiamano l'apertura esterna del canale
osseo destinato ad allogare la predetta via di riunione foramen jugulare spurium,
seguendo in ciò Rathke, altri invece lo indicano come trou tempora! (Labbé, Charpv),
foro postfjlenoideo (Cabibbe), oppure moltiplicano le denominazioni a seconda del-
l'ubicazione differente dell'apertura stessa (Cope, Launay) : altri autori ancora danno
al canale propriamente detto, indipendentemente cioè dal suo sbocco esterno, il nome
di canalis temporali* (Schlafengang) (Otto, Rathke, Wagner, Lusciika, Knott, Legge,
Lowenstein, Kopetsch, Denker), oppure indifferentemente quello di meatus temporalis
(Hallmann, Hyrtl, ecc.), di canal zygomatique (Poirier), canal prétympanique (Ledouble),
caiiale petrosquamoso (Cheatle) od ancora (molti anatomici veterinari) di canale tem-
poropar letale; altri finalmente usano del nome canale emissario squamoso o petro-
squamoso (Calori), o più semplicemente quello di emissarium temporale (Krause). Il
solco posto all'endocranio tra la piramide del temporale e la squama e destinato ad
accogliere il sinus petrosus squamosus (Luschka, Charpy, Knott, Labbé, Hedon), sìnus
squamoso-petrosus (C. Krause), sìnus petrosus antcrior (Winslow, Malacarne, Loder,
Portal, Lauth, Cortese, Verga), vien chiamato anche da Luschka sulcus transversus
spurius ; Verga, nei casi in cui il solco è trasformato per un tratto più o meno lungo
in un vero canale, adopera, come è noto, l'espressione di acquedotto del temporale o
acquedotto di comunicazione.
Noi crediamo, oltre che per le ragioni sopra addotte, non assolutamente propria
la denominazione di foramen jugulare spurium adoperata dalla maggioranza degli AA.,
anche perchè non indica con sufficiente esattezza la possibile diversità della sua ubi-
cazione: inversamente ci paiono troppo esclusive talune delle altre espressioni usate,
a meno che queste cambino (Cope) a seconda della posizione differente.
Per le medesime ragioni, anche la terminologia di canalis temporalis pare a noi
troppo generale, in quanto si possono meglio localizzare, anche per riguardo alla
nomenclatura, i rapporti che esso contrae colle varie porzioni dell'osso temporale.
Noi preferiamo usare dei termini di canali (o vasi) emissari selliamosi o petrosquamosi
a seconda che il decorso degli stessi avviene esclusivamente nello spessore della
squama temporalis, oppure in rapporto della sutura di quest'osso colla pars petrosa.
Per rispetto alla apertura esocranica ci pare conveniente riferirci a parecchi punti
di repere e cioè alla posizione che essa assume: «) relativamente alla cavità glenoide
(fossa mandibularis) coll'eventuale conus articularis o tuberculum articulare posterius
[processus articularis posterior (Luschka), processo postglenoideo (Quain, Launay, Ca-
bibbe, ecc.), tubercolo auricolare (Sappey), tubercolo zigomatico posteriore (Poirier)]:
b) oppure relativamente alla apofisi zigomatica, di cui la linea temporalis costituisce
la radice sagittale, il processus articularis (interior ora accennato la radice frontale;
e) oppure ancora relativamente alla porzione squamosa propriamente detta (pars
verticalis della squama) del temporale. Per l'apertura endocranica le variazioni sono
relativamente minime, verificandosi essa quasi costantemente nel sulcus petrosus
squamosus più o meno manifestamente pronunciato e destinato ad accogliere il sinus
omonimo.
Veniamo ora alla descrizione dei reperti da noi avuti nei singoli ordini di Mam-
miferi, avvertendo che per la classificazione e per la nomenclatm-a degli individui dei
180 ALFONSO BOTERÒ — UMBERTO CALA5IIDA 22
vari ordini di Mammiferi .studiati ci siamo attenuti essenzialmente a quelle di
Forbes (16) e di Trouessart (71) (*).
Od. PBTMATES
Subord. Anthropoidea. Fam. Hominidae. Homo. — I crani di cui abbiamo tenuto
calcolo nelle nostre ricerche appartengono in massima parto alle varie raccolte del-
l'Istituto Anatomico di Torino e sono 1176. per il maggior numero intieri: ad essi si
devono aggiungere 120 temporali isolati di adulti conservati già da tempo, oppure j ri-
parati, previo accurato esame delle parti molli, da noi stessi. In complesso disponiamo
quindi di 2472 temporali di adulti. I 1176 crani sono rappresentati da 322 crani
della Collezione Normali, di ambo i sessi e di tutte le età fino ad un massimo di
106 anni; 321 crani della Coli. Varietà appartenenti pure ad individui normali e col-
lazionati anno per anno, perchè presentanti qualche particolarità; 115 della Coli. Mili-
tari: 340 della Coli. Criminali; 46 della Coli. Microcefali e cretini; 32 della Coli. Negri.
Oltre a questi abbiamo osservato un gran numero di temporali (150) di feti o di neonati,
o di bambini dei primi due anni di vita, isolati o non, per la massima parte preparati
da uno di noi (Boveko). In realtà il numero dei crani da noi studiati è assai superiore
a quello rappresentato dalle cifre sopra esposte, avendo pure prese in esame parecchie
altre centinaia di crani macerati negli anni 1900-1902 in diversi Istituti di Torino;
di essi però non abbiamo potuto per ragioni speciali tenere un calcolo sufficientemente
esatto, perchè i dati relativi possano trovare posto nell' esposizione delle nostre
ricerche. Per verificare il comportamento degli eventuali emissari nell'epoca fetale
noi ci siamo serviti eziandio di alcune serie di sezioni frontali di crani del 3°, i e
5° mese di vita intrauterina, fatte dal prof. Giacomini : dichiariamo però subito che,
riguardo alla esistenza o meno degli emissari stessi nelle dette epoche, le nostre osser-
vazioni non hanno avuto nessun risultato perentoriamente probativo, specialmente
perchè le sezioni non sono rigorosamente seriate, come pure per la qualità e per lo
stato di conservazione del materiale adoperato.
Noi crediamo di dispensarci qui da una particolareggiata descrizione anatomica
delle varie regioni dell'osso temporale nelle quali occorrono più frequentemente gli
emissari che stiamo studiando: tale descrizione è d'altronde riportata, oltreché in
tutti i trattati di anatomia, anche e minutamente nelle memorie di Luschka. di
Lowenstein e Cabibbe; stimiamo quindi inutile ripetere ciò che è universalmente noto.
Relativamente alle aperture endo- ed esocraniane degli emissari temporali squa-
(*) I risultati preliminari delle nostre ricerche furono già in precedenza comunicati con presen-
tazione dei preparati e fotografie alla R. Accademia ili Medicina ili Torino (seduta 10 luglio 1901),
alla IV' Session de V 'Associai ion des Anatomistes (Montpellier, aprile 1902), alla VI* Riunioni della
Società Otologica Italiana (Roma, ottobre 1902).
Aggiungiamo inoltre che, per quanto non si possa sempre e costantemente in modo assoluto
distinguer" rio che spetta più precisamente ;i ciascuno di noi, mentre il concetto informatore del
lavoro, le ricerche sui Mammiferi inferiori all'Uomo e le considerazioni morfologiche e descrittive
sono più specialmente opera del Dr Bovero, l'esame dei crani umani, la rassegna della letteratura,
le considerazioni pratiche spettano al Dr Calamida: si cercò tuttavia di fare in modo che le singole
ricerche itte p.irallelamente, in guisa da costituirci un vicendevole, continuo controllo.
23 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 181
mosi e petrosquamosi, noi dobbiamo primieramente notare come la ubicazione del-
l'apertura esoeranica vada soggetta assai più che non la endocraniana a variazioni
relativamente ampie a seconda dei differenti individui. Mentre difatti lo sbocco endo-
craniano si verifica quasi costantemente, per lo meno nella maggioranza grandissima
dei casi, in rapporto della solcatura petrosquamosa , più o meno pronunciata a se-
conda dell'età ed a seconda degli individui, o per lo meno in rapporto della linea che
segna nell'adulto la riunione avvenuta fra le porzioni squamosa e petrosa del tem-
porale, con oscillazioni solo leggere in senso anteroposteriore della posizione della
apertura stessa, noi vediamo invece come l'apertura esterna varii in tal guisa di
posizione che il canale propriamente detto può attraversare la squama temporale
direttamente e in direzioni diverse, oppure compiere il suo tragitto in rapporto delle
varie porzioni delle suture petrosquamosa o squamosotimpanica. In ogni caso però,
anche nella massima parte di quelli in cui il canale, diversamente diretto, è esclusi-
vamente scavato nello spessore della pars squamosa, la sua apertura endocranica si
trova, salvo eccezioni che noi vedremo, in un punto corrispondente alla preesistente
sutura petrosquamosa o per lo meno in tutta sua vicinanza. Per la medesima ragione,
e cioè per la minima variabilità nella ubicazione dell'apertura endocranica di canali
in casi differenti diversamente diretti, e quindi con aperture esocraniche in punti
ugualmente differenti, ciò che si può verificare anche in un medesimo cranio, come
pure per la possibile occorrenza dallo stesso lato di due canali emissari squamosi con
apertura endocranica comune, con le rispettive aperture esterne distinte e topogra-
ficamente diverse, noi crediamo che si debbano ritenere affatto analoghi, genetica-
mente e funzionalmente, i forami emissari abnormi nella nostra specie, i quali fanno
comunicare la circolazione venosa della fossa cranica media colle radici della v. giu-
gulare esterna, sia che essi sbocchino all' esocranio in una, sia nell'altra porzione
della squama temporale. Diciamo subito che, morfologicamente, le eventuali diversità
di posizione, come la molteplicità delle stesse aperture diversamente collocate nello
stesso lato di un cranio ci paiono di grande importanza, perchè possono riprodurre
esattamente le condizioni differenti che si riscontrano eventualmente come caratteri
fissi e costanti nei differenti Mammiferi, come pure perchè una data posizione di un
forame emissario temporale anomalo nell'Uomo può trovare esatto riscontro nella posi-
zione dell'emissario stesso in altri animali, nei quali esso compare tuttavia come
anomalia, in una forma però e con modalità relativamente più fisse che non nella
nostra specie.
La maggior variabilità nell' ubicazione dell' apertura esoeranica dell' emissario
squamoso in confronto all'endocranica e la correlativa direzione differente dei vari
(•anali, si spiega facilmente pensando che si tratta appunto di canali venosi di afflusso
ad una o indifferentemente all' altra (vv. temporali profonde anteriori , posteriori,
auricolari, ecc.) delle radici della v. giugulare esterna, canali indipendenti nel tragitto
da altri organi (arterie o nervi): ed essenzialmente si spiega ricordando come, mentre
lo schema di distribuzione dei vasi venosi endocraniani è presso a poco analogo nei
singoli ordini di Mammiferi, è invece nella serie degli stessi ordini assai mutevole
il punto in cui le vie di comunicazione, attraversanti l'osso temporale ed indipendenti
da altri organi, fra tale sistema venoso e la giugulare esterna di formazione onto-
e filogeneticamente secondaria sboccano all'esocranio.
182 ALFONSO BOTERÒ — UMBERTO CALAMIDA 24
Anche per questi caratteri quindi si può verificare nella disposizione degli emis-
sari petrosquamosi dell'Uomo, qualunque ne sia il significato morfologico ed onto-
genetico, una esatta ed ampia ricapitolazione delle disposizioni tipiche che si riscon-
trano nella filogenesi. Per la posizione differente dell'apertura esterna degli eventuali
canali emissari squamosi o petrosquamosi nella nostra specie, noi distinguiamo tre
categorie, in ciascuna delle quali possono occorrere anche delle varietà secondarie.
Anzitutto noi dobbiamo avvertire come la maggior parte di questi emissari
anormali interessino preferibilmente, per ragioni naturalmente troppo ovvie perchè si
debbano qui diffusamente esporre, la porzione basilare della squama, in rapporto o in
tutta vicinanza delle suture squamosotimpanica e squamosopetrosa, oppure la por-
zione immediatamente soprastante a quella basilare, mentre solo in via eccezionalis-
sima, e come disposizione secondaria a modalità di altro significato, possono interes-
sare la parte alta della squama. La distinzione in tre categorie si fonda appunto
essenzialmente sui rapporti che le aperture stesse contraggono con la apofisi zigo-
matica e con le parti differenti che costituiscono detto processo, il quale stabilisce
come un limite molto netto ed evidente fra la cosi detta porzione basilare e la por-
zione verticale della squama.
Nella prima categoria noi raggruppiamo tutti i canali emissari, i quali si aprono
all'esterno caudalmente alla radice posteriore o sagittale dell' apofisi zigomatica (linea
temporalis) e a questi noi potremo dare la denominazione di forami emissari squamosi
sottozigomatici.
Nella seconda categoria invece comprendiamo gli emissari il cui sbocco è situato
cranialmente alla detta linea temporale, forami emissari squamosi soprazigomatici.
Finalmente nella terza categoria si raccolgono alcuni pochi casi in cui l'apertura
esocranica degli emissari squamosi si riscontra al davanti della radice anteriore o
frontale (tuberculum articulare) dell'apofisi zigomatica, e cioè nella porzione posteriore
della fossa infratemporale, fonimi emissari squamosi prezigomatici.
È da avvertirsi come non sempre si possa stabilire nettamente se un eventuale
forame emissario appartenga all'una piuttosto che all'altra di dette categorie, poten-
dosi ad esempio riscontrare l'apertura di un emissario esattamente sulla sporgenza
della radice posteriore del processo zigomatico (Fig. 17): ancora, noi potremmo a rigore
fondere i pochi casi della terza categoria con quelli delle due precedenti, e rispet-
tivamente alla prima e alla seconda, quando lo sbocco si riscontra inferiormente o
superiormente alla crista infratemporalis, che rappresenta come un prolungamento
venti-ale della radice anteriore del processo zigomatico ; però il raggruppamento a parte
di questi ultimi è giustificato dal modo di comportarsi degli emissari complessiva-
mente alquanto differente da quello degli altri due gruppi.
Anche in ciascuna categoria, a parte il rapporto fondamentale colla linea tem-
poralis o col tuberculum articulare, si possono fare parecchi sottogruppi:
I. Nella prima difatti i forami emissari possono per rispetto al meatus acu-
sticus externus occupare posizioni leggermente differenti; le varietà nell'ubicazione
nono sia nei casi in cui è presente un conus articularis o tuberculum articulare
posterius, come in quelli in cui questo fa difetto. Quando il conus è presente, qua-
lunque ne sia lo sviluppo, lo sbocco dell'emissario può trovare sede:
1° sulla sua faccia posteriore, cosicché ne sarebbe giustificata fino ad un
25 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQTJAMOSI 183
certo punto la denominazione usata da taluni AA. di foro postglenoideo (sarebbe più
appropriata quella di foro postarticolare o sottozigomatico posteriore);
2° oppure sul margine mediale dello stesso processo (Fig. 1 fszm) più o
meno vicino alla base e quindi alla estremità laterale della fissura Glaseri;
■ '< oppure ancora sul margine laterale, più o meno in prossimità all'apice
od al punto di emergenza del conus articularis stesso (Fig. 2, Fig. 3 fszl); in que-
st'ultimo caso può accadere che il canale emissario eventuale si apra nell'interstizio
più o meno ampio, che sta fra la linea temporalis propriamente detta e il conus
articularis (Fig. 3 fszl, cu), cioè esattamente fra le due branche di biforcazione della
radice sagittale dell'apofisi zigomatica, biforcazione che appare tanto più evidente
quanto più è sviluppato il conus e rilevata la linea temporalis propriamente detta.
Nei casi in cui il cono manca, l'apertura esterna di un emissario può:
4° essere posta in rapporto della estremità laterale della scissura di Glaser,
quasi a rappresentare un allargamento della stessa, dalla quale però l'apertura ano-
mala, conducente in un canale che si apre all'endocranio nel seno petrosquamoso, è
costantemente separata (Fig. 6 fszl) mediante un ponticello osseo più o meno evidente;
5° anche quando manca completamente il cono articolare, oppure questo
si presenta sotto forma di una rilevatezza appena percettibile a ridosso della sutura
squamosotimpanica (Fig. 5 co), noi possiamo avere l'apertura di un emissario imme-
diatamente al di sotto della cresta sagittale, sviluppata diversamente a seconda
degli individui e dell'età, rappresentante la linea temporalis;
6° sempre nei casi di mancanza del cono articulare , l' apertura esterna
di un eventuale emissario petrosquamoso può occupare una posizione intermedia
fra le ultime precedentemente accennate, essere situata cioè nella parte posteriore
della fossa mandibolare (Figg. 7, 8 fpg), vale a dire nel punto in cui si impianta abi-
tualmente la base del cono articolare stesso: nei pochi casi da noi riscontrati di
questo sottogruppo 1' ampiezza relativamente grande dell'apertura (escludiamo natu-
ralmente le usure), come la loro ubicazione, sono appunto da riferirsi alla mancanza,
costante in detti casi, di un cono articolare anche mediocremente sviluppato (emis-
sario sottozigomatico postarticolare o postglenoideo);
7° in casi assai più rari ancora è possibile riscontrare, anche concomitante-
mente ad un cono articolare a maggiore o minore sviluppo, un esile forellino nella
porzione più mediale della fossa mandibularis, subito avanti alla scissura di Glaser.
Evidentemente, oltre alle ubicazioni meno frequenti, i siti principali di elezione
dell' apertura esterna degli emissari di questo gruppo, con o senza cono articolare,
sono due, e cioè: a) immediatamente sotto la radice sagittale del processo zigomatico,
a livello del quarto anteriorsuperiore del contorno del porus acusticus externus: gli
emissari di questo sottogruppo potrebbero comprendersi sotto la denominazione comune
di emissari sottozigomatici laterali: h) immediatamente all'esterno dell'estremità late-
rale della scissura di Glaser, vale a dire in un punto, che corrisponde alla porzione
anteriorsuperiore della parete del meatus acusticus eocternus, emissari sottozigomatici
mediali. Quest'ultima distinzione da noi fatta non può naturalmente avere sempre
un valore assoluto e ciò specie nei casi in cui manca un cono articolare, al posto
del quale, come abbiamo visto, può occorrere un emissario più o meno ampio, rap-
presentante come una forma di passaggio fra gli emissari sottozigomatici mediali e
quelli laterali nettamente distinguibili per la presenza di un cono eventuale.
1 , ( ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAMIDA 26
Dalle nostre ricerche, per quanto non possiamo riportare le cifre rigorosamente
esatte, appunto perchè è difficile pronunciare molte volte un giudizio perentorio sulla
esistenza di un conus artieularis, ci pare poter affermare che indubbiamente sono
assai più frequenti (come 2 a 1) i forami emissari posti sul margine mediale del
cono o in rapporto dell'estremità laterale della scissura di Glaser, che non quelli
occorrenti sul margine laterale dell' eventuale cono o immediatamente al di sotto
della sporgenza della radice sagittale del processo zigomatico. L'ubicazione di un fo-
rame emissario alla faccia dorsale del cono può anche sfuggire alla osservazione,
specialmente nei casi di grande sviluppo del cono stesso, per i rapporti che questa
formazione contrae colla opposta parete ossea del condotto uditivo; è probabile tut-
tavia che il progresso dello sviluppo del cono colla età costituisca, dati i detti rap-
porti, una condizione poco favorevole alla permanenza di un eventuale emissario, che
ne occupi collo sbocco la faccia posteriore.
La occorrenza di un cono articolare, modifica anche notevolmente la apparenza
esterna della apertura a seconda dell'ubicazione. Per le medesime ragioni enunciate
a proposito dei canali emissari sboccanti sulla faccia posteriore del cono, le aper-
ture situate medialmente a tale cono, per quanto più frequenti che non quelle poste
lateralmente, ci paiono complessivamente meno ampie, ridotte per lo più ad esilissinn
fori non sondabili. La riduzione del calibro degli emissari sottozigomatici mediali spiega
perchè il nostro reperto della maggior loro frequenza per rispetto a quelli laterali
contraddica chiaramente i dati degli altri AA. e principalmente di Luschka e Lo-
wenstein, i quali ammettono invece che la posizione più frequente di dette aperture
sia precisamente subito al di sotto della radice sagittale del processo zigomatico : è
probabile che questi AA. nel ritenere come emissari quelli che noi abbiamo classifi-
cati nel 2° sottogruppo {mediali), emissari che per altro possono sfuggire facilmente
all'osservazione, abbiano usati criteri più ristretti, il che si comprende anche com-
parando le loro cifre statistiche con le nostre. Nei casi in cui l'ampiezza è relativa-
mente grande, l'apertura situata sul margine mediale del cono è per lo più ovalare
e continuata in basso da una solcatura rivolta medialmente: invece, quando il conti*
artieularis manca (Figg. 7, 8), gli emissari di una certa ampiezza (1 rara.) del gruppo
mediale sono per lo più circolari, eventualmente disposti a fessura irregolare per la
sporgenza in un senso o nell'altro delle labbra della scissura squamosotimpanica: in
ogni caso i canali che fanno seguito alle aperture di questo sottogruppo hanno una
direzione presso a poco verticale per raggiungere il solco petrosquamoso. Anche la
lunghezza del tragitto è naturalmente pure più breve di quella degli emissari laterali.
Questi ultimi possono eziandio avere un'apparenza diversa ed i canali una dire-
zione differente a seconda della occorrenza o mancanza di un conus artieularis.
Nei casi in cui il cono manca completamente e 1' apertura è relativamente ampia
(mm. 0,5-1), essa è per lo più abbastanza regolarmente circolare, continuata all'esterno
da una solcatura trasversale più o meno evidente, concava in basso; il canale per lo
più ha una direzione verticale o quasi. Nei casi in cui la solcatura è molto evidente
e il cono articolare poco pronunciato, questo appare lateralmente come bifido; in
quelli invece in cui il cono articolare è potentemente sviluppato, oppure anche
quando, senza questa esorbitante sviluppo, il forame emissario è situato immediata-
mente al di sotto della sporgenza della radice sagittale dell'apofisi zigomatica, la
27 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 185
solcatura risulta meno evidente, assai più breve, e l'apertura stessa per lo più ha
una forma nettamente ovalare, talora imbutiforme ; il canale che ne deriva in questi
ultimi casi assume una direzione complessivamente orizzontale o per lo meno forte-
mente obliqua in alto e in dentro.
Indipendentemente dalla suddivisione in sottogruppi, fra i quali vi hanno pure,
come abbiamo veduto, differenze evidentissime nella frequenza colla quale compaiono,
gli emissari della la categoria sono di gran lunga più facili a riscontrarsi che non
quelli delle altre due (SI, 88 % dei casi): per questa ragione parecchi degli AA., che
studiarono questo argomento, nelle loro descrizioni si riferiscono esclusivamente ad
essi e, preferibilmente, per la facilità colla quale si dimostrano, a quelli del sotto-
gruppo laterale, trascurando completamente o quasi i forami emissari delle altre due
categorie. Ciò nullameno, come avremo occasione di vedere ancora riportando i ri-
sultati statistici nelle nostre ricerche, la percentuale dei canali della 2a categoria è
ancora tanto alta e le modalità colle quali compaiono quelli da noi aggruppati nella 3a
sono così caratteristiche , che non se ne può tralasciare in modo assoluto lo studio,
reso tanto più interessante d'altra parte per i riscontri anatomo-comparativi.
II. Anche gli emissari della 2a categoria, i quali rappresentano il 15,94 % dei
casi da noi complessivamente riscontrati, possono occupare posizioni leggermente dif-
ferenti; tuttavia la distinzione netta in sottogruppi presenta difficoltà ancora maggiori
che non per quelli della la categoria, mancando in questa regione formazioni anche
eventuali, che possano essere utilizzate come limiti topografici : ciò nondimeno, fatta
questa riserva, noi distinguiamo due sottogruppi di forami emissari sottozigomatici,
avvertendo subito che, come si possono riscontrare forme di passaggio alla 1" ed
alla '•' categoria, cosi non è sempre facile stabilire a quale sottogruppo della 2a
appartengano.
1° Come forami emissari soprazigomatici posteriori si possono ritenere quelli
che si aprono indietro del punto in cui il margine posteriore della porzione basale
del processo zigomatico si continua come linea temporalis: la loro apertura ha sede
o direttamente sulla rilevatezza di detta linea (Figg. 1 , 7 fszp), oppure subito al di
sopra della rilevatezza stessa (Figg. 3, 11 fszp), nella regione cioè del planum temporale,
che sovrasta immediatamente alla estremità superiore del porus acusticus externus.
2° Diamo invece il nome di forami emissari squamosi soprazigomatici anteriori
a quelli la cui apertura esocranica si trova nella porzione del planum temporale subito
sovrastante alla faccia superiore della base del processo zigomatico, fra i punti in
cui i margini anteriore e posteriore di questo processo si continuano rispettivamente
come erista infratemporalis e come linea temporalis (Fig. 10 fsza).
A proposito dell'ultimo sottogruppo dobbiamo osservare come, quasi costantemente,
la squama temporalis al di sopra della base dell'apofisi zigomatica presenti nell'adulto
una serie (2, 4 e più) di minutissimi, microscopici forellini ai quali naturalmente
non si può dare il valore di vasi emissari, rappresentando invece lo sbocco di sem-
plici vasi diploici, tributari delle vene temporali profonde, e la cui importanza mor-
fologica risulta precisamente dal fatto che essi possono eventualmente trasformarsi
in veri canali emissari, i quali corrispondono a loro volta ai canali venosi di quelle specie
di Mammiferi nei quali le comunicazioni del sistema venoso della fossa cranica media
colla giugulare esterna attraversano la squama temporale appunto al di sopra della
Serie II. Tom. LUI. y
186 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 28
base del processo zigomatico. Noi abbiamo voluto ricordare questo fatto normale
nella grandissima maggioranza degli individui, perchè ci è parso che, per quanto sal-
tuariamente notato da alcuni AA., e raffigurato spesse volte, non sia stato finora
considerato nel suo giusto valore.
Nei casi in cui un eventuale emissario soprazigomatico posteriore si apre sulla
rilevatezza formata dalla porzione iniziale della linea temporale, esso ha ordinaria-
mente la forma di una fessura ovalare a grande asse disposto sagittalmente : l'aper-
tura può essere limitata da margini netti, oppure assumere un aspetto imbutiforme
(Figg. 11, 17 fszp) in guisa che la linea temporale propriamente detta, indipenden-
temente dalla sua biforcazione inferiore rappresentata da un eventuale cnnus arti-
cularis, può apparire come bifida; ciò è specialmente evidente quando l'emissario ha
una certa ampiezza (1-3 min.). Nei casi in cui il forame soprazigomatico posteriore
è situato al disopra della linea temporale , l' apertura è generalmente circolare
(Figg. 1, 3 fszp): nel] 'un caso e nell'altro il canale più o meno ampio, che fa seguito
a tale apertura, decorre per lo più orizzontalmente in dentro, oppure obliquamente
in avanti e medialmente ; talvolta, in ispecie quando la linea temporale è robusta-
mente pronunciata o l'apertura dell'emissario è situata ad una certa distanza supe-
riormente alla linea temporale, il canale è più o meno accentuatamente discendente
in basso e medialmente.
Noi non possiamo dire con certezza se i forami emissari di questo sottogruppo
occorrono con maggior frequenza in corrispondenza della rilevatezza della linea tem-
porale, oppure al di sopra di questa, e ciò per le differenze grandissime (per età,
individuali, sessuali, etniche) nello sviluppo della linea temporale stessa: tuttavia ci
pare poter affermare che il sito di elezione, nei casi in cui la linea temporale è
assai manifesta, dei forami emissari di questo sottogruppo corrisponde appunto alla
parte più sporgente lateralmente della linea temporale stessa e cioè verticalmente
sopra il condotto uditivo.
I forami del sottogruppo anteriore, astrazion fatta dai forami semplicemente
diploici e dalle forme di incerta classificazione, ci sono parsi meno frequenti di quelli
del sottogruppo posteriore : invece la loro ampiezza e quindi anche quella dei canali
corrispondenti sono spesso, a parità di condizione, maggiori di quelli posteriori. In
parecchi degli esemplari da noi riscontrati, l'apertura esterna misurava 2-3-4 rara.
Tale apertura è d'ordinario più o meno regolarmente circolare e talora viene conti-
nuata (Fig. 10 fsza), in basso ed in avanti da una solcatura più o meno pronunciata,
che può anche essere manifesta sulla cresta infratemporale, risultando così evidente
l'afflusso del sangue portato dall'emissario alle vene del plesso pterigoideo. In un
caso (Fig. 13 fszp), in cui il forame emissario, per la sua posizione, può essere consi-
derato come una forma di passaggio fra i soprazigomatici anteriori e i posteriori,
esso assume l'aspetto di un'ampia fessura col maggior diametro (4 mm.) disposto
sagittalmente, situata appunto nell'angolo diedro delimitato dalla porzione posteriore
della faccia superiore del processo zigomatico col planum temporale: in questo caso
la fessura è come infossata per la presenza di una cresta dipendenza della linea
temporale, (li) descrivente una curva concava in avanti e in alto.
In generale i canali del sottogruppo anteriore hanno un tragitto assai breve,
attraversando la porzione inferiore verticale della squama temporale in direzione net-
29 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROStjUAMOSI 187
tinnente perpendicolare alle sue faccio: alcune volte però i canali, che fanno seguito
a dette aperture, hanno un decorso più o meno obliquo indietro e medialmente fram-
mezzo ai due tavolati della squama. In ogni caso i canali soprazigomatici dei due sotto-
gruppi decorrono esclusivamente nello spessore della squama; ma mentre quelli poste-
riori si aprono costantemente all'endocranio nel solco petrosquamoso (Fig. 4 eps, sps),
invece non di rado quelli anteriori si aprono all'interno alquanto lateralmente al solco
petrosquamoso, al quale possono essere tuttavia riuniti mediante una solcatura più
o meno pronunciata.
III. I forami emissari squamosi prezigomatici occorrono all'osservazione molto
raramente e ciò sia che si considerino nella serie degli emissari squamosi, rappre-
sentando essi il 2,17 " ,, dei casi, come se si esamini la serie dei crani (9 volte). Non
ostante la rarità noi possiamo dividere i pochi casi osservati in due gruppi, cioè a
seconda che si aprono all'esterno superiormente o inferiormente alla crista infratem-
poralis, che stabilisce come un limite topografico fra la porzione basilare e la verti-
cale della squama : si possono dare ad essi rispettivamente le denominazioni di
emissari prezigomatici superiori e di prezigomatici inferiori. Carattere di questi forami
è la loro ampiezza relativamente maggiore di quella degli altri, mancando invece
forami di calibro minimo, che ragionevolmente in questa regione si possano ritenere
in realtà come emissari. L'ampiezza dell'apertura esterna può raggiungere mm. 5,5,
come nel cranio di una donna di anni 64 {Collez. Criminali, n° 326), in cui (Fig. 12 fps)
il forame prezigomatico superiore, ovalare, è posto 1 cm. al di sopra della porzione
dorsale della crista infratemporalis ; cosi pure nel temporale sinistro isolato di un
individuo giovane (Fig. 15) l'apertura dell'emissario prezigomatico inferiore, regolar-
mente circolare, posta immediatamente in avanti del tubereulum articulare, misura
mm. 3,5. Negli altri casi l'ampiezza media dell'apertura esocranica (Figg. 8, 12 fps, fpi)
misura in media mm. 1,5-2,5, è quindi sempre di molto superiore a quella abituale
degli emissari delle altre categorie. L' apertura di questi emissari , esclusi i casi
sopracitati in cui 1' ampiezza è molto pronunciata, ha un aspetto per Io più imbu-
tiforme, il canale cioè che ne deriva si restringe tosto notevolmente. Dobbiamo
notare come, qualunque sia l'ampiezza dei detti emissari, i canali che hanno origine
dalle aperture esterne decorrono esclusivamente nello spessore della squama tempo-
rale, attraversandola perpendicolarmente alle sue superfici (Fig. 15), oppure con
decorso obliquamente diretto in avanti e medialmente (Fig. 12), oppure orizzontal-
mente in addietro e medialmente (per i fori prezigomatici inferiori). In ogni caso il
tragitto del canale è relativamente assai breve e l'apertura endocranica è posta o
in prossimità del margine sfenoidale della squama, oppure di poco più in addietro, ma
costantemente ad una certa distanza dal solco petrosquamoso (Figg. 9, 15, 18). L'aper-
tura endocranica è abitualmente al fondo di una docciatura ossea, la quale con dire-
zione diversa giunge per lo più al foro sfenospinoso, oppure alla porzione anteriore
del solco petrosquamoso ; parrebbe cioè che le vene emissarie decorrenti in tali ca-
nali non servano al deflusso del sangue contenuto nel seno petrosquamoso che in-
direttamente, potendo essere con questo riunite per diramazioni secondarie, che lasciano
egualmente traccie all'endocranio, ovvero per mezzo di una diramazione delle vene
meningee medie.
Dalla precedente rassegna risulta quindi che i forami emissari da noi studiati
188 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMiDA :>0
si aprono esternamente colla massima frequenza al di sotto della linea temporale
come forami emissari sottozigomatici (81,88 °/0 dei casi), appunto come già la mag-
gioranza degli AA., molti dei quali ritennero solo questi come emissari, hanno de-
scritto. Per ordine di frequenza vengono dopo gli emissari soprazigomatici (15,94 °/0
dei casi), e finalmente i prezigomatici (2,15 ° ,, dei casi). Noi abbiamo visto inoltre
come l'ampiezza cresca in complesso inversamente alla frequenza. Di più, mentre gli
emissari sottozigomatici, per lo meno nella grande loro maggioranza, come pure gli
emissari soprazigomatici posteriori si possono in realtà ritenere per il decorso del
canale, o per lo meno per la posizione della loro apertura endocranica, come emissari
■pel rompiamosi, buon numero dei soprazigomatici anteriori e tutti quelli prezigomatici si
debbono invece ritenere per il loro decorso esclusivamente come emissari squamosi.
Per quanto riguarda l'apertura endocranica, qualunque ne sia il calibro e la
posizione nel solco petrosquamoso più o meno marcato, oppure indipendente da detto
solco, essa assume le forme più diverse; e cioè può essere circolare, imbutiforme,
ovalare, in forma di fessura: spesso, in ispecie nei casi in cui il canale ha un de-
corso molto obliquo, il forame che ne rappresenta lo sbocco endocranico può essere
mascherato (Fig. 9) da sporgenze dentellate o variamente foggiate delle labbra del-
l'eventuale solco petrosquamoso, rappresentate dal tavolato interno dello squamoso
e dal margine anteriore del petroso, in guisa che una setola introdotta in detti ca-
nali può incontrare difficoltà, anche se questi sono molto ampi, ad entrare nella
cavità craniana. Il calibro di questa apertura è in generale corrispondente a quello
della apertura esterna; altra volta invece può essere leggermente più ampio: tuttavia
nella massima parte dei casi in cui sia rilevabile una differenza, essa è a favore del-
l'apertura esocranica. In complesso ancora i canali, per lo meno nei casi più classici
delle varie categorie, sono diretti dall'esterno all'interno e dorsalmente, presso a
poco cioè nella direzione della corrente sanguigna nel seno petrososquamoso, che si
può ritenere come la porzione ventrale della branca orizzontale del seno laterale.
Relativamente alla occorrenza degli emissari temporali per rispetto ai due lati
del cranio, noi non abbiamo notato nelle nostre osservazioni una preferenza granché
spiccata per un lato piuttosto che per l'altro: tuttavia ci è parso che i detti canali
fossero leggermente più frequenti dal lato sinistro (poco più di metà nei casi di
emissario unilaterale): per contro abbiamo notato, e questo è ovvio trattandosi di
canali venosi da ritenersi, anche quando sono presenti, come anormali, che difficilmente
si può riscontrare dai due lati una disposizione perfettamente simmetrica. Prima di
tutto, come vedremo tosto, è assai più frequente la presenza unilaterale di questi
canali che non quella bilaterale ; nei casi poi in cui vi ha questa seconda evenienza
è estremamente difficile riscontrare a destra e a sinistra una posizione perfettamente
identica delle aperture esocraniche come un calibro uguale: e cioè, da un lato si
può benissimo riscontrare un canale emissario di una data categoria, mentre dal lato
opposto questo o manca oppure presenta un'apertura esocranica appena percettibile,
oppure ancora questa può essere situata in una regione differente della squama ed
il canale avere quindi un calibro e una direzione differenti.
I canali delle differenti categorie possono occorrere anche dal medesimo lato
del cranio (Figg. 1, 3, 8): e cioè noi possiamo, ad es., avere dal medesimo lato un emis-
sario soprazigomatico anteriore o posteriore ed un forame sottozigomatico laterale
31 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 189
o mediale, oppure assieme ad un canale sottozigomatico o ad uno soprazigomatico
un altro prezigomatico. Ci è occorso eziandio ripetutamente di riscontrare due canali
della stessa categoria e dal medesimo lato del cranio, con differenze solo affatto secon-
darie nel punto del loro sbocco esocranico (Figg. 2, 12).
I casi di forami emissari multipli dal medesimo lato sono tuttavia molto rari,
in guisa che nelle nostre osservazioni, su 414 temporali con emissari, abbiamo ri-
scontrata tale molteplicità solo in 1S casi, e cioè nel 0,72 °/0 dei temporali, nel
4,34 °/0 dei casi di emissari : la rarità di questo reperto risulta anche chiaramente
dall'esame della letteratura dell'argomento.
Quando occorrono dal medesimo lato due emissari della medesima categoria
oppure di categorie differenti, essi possono essere: 1° nel loro decorso, come nella
loro apertura endo- ed esocranica, perfettamente indipendenti uno dall'altro (Figg. 1,
8, 9, 11, 12); 2° oppure dal solco petrosquamoso o dall'angolo diedro che lo rap-
presenta si originano a distanza varia uno dall'altro due canali, i quali convergono
per sboccare all'esterno con una apertura unica (Fig. 10); 3° inversamente accade
talvolta che due canali, aperti separatamente all'esocranio (Figg. 3, 4), confluiscano nel
medesimo sbocco all' interlinea petrosquamoso. Sempre nei casi di duplicità accom-
pagnati da un solco petrosquamoso molto pronunciato, trasformato parzialmente e
per un tratto più o meno lungo in canale dalle spicole ossee da noi ricordate, può
occorrere di introdurre, ad es., una setola in un forame soprazigomatico e di vederla
fuoriescire all'esocranio dall'apertura di un altro emissario sottozigomatico (Fig. 1),
reperto questo che riproduce esattamente quanto è facile constatare in crani di Mam-
miferi, in cui è normale la molteplicità degli emissari squamosi.
Per quanto si riferisce al calibro dei singoli canali emissari, già con la conoscenza
del loro significato morfologico si può capire a priori come sia enormemente variabile.
Noi abbiamo ritenuto come tali anche dei forami minutissimi, non sempre permeabili
per tutto il loro decorso anche alle più fini delle setole, quando per la ubicazione
delle aperture endo- ed esocraniche non poteva esistere alcun dubbio sul loro signi-
ficato. L'impedimento al passaggio di setole anche finissime, può spiegarsi assai bene
o per un cambiamento brusco nella direzione del canale, o per occlusione dovuta ad
una incompleta macerazione, od anche perchè realmente il canale possa essersi chiuso
alla sua parte intermedia. Per la diagnosi di canali emissari, mancando il criterio del
passaggio di una setola, noi siamo ricorsi parecchie volte con successo ad iniezioni
di liquidi colorati. Si devono già ritenere come abbastanza ampi i canali che misu-
rano 1 mm. di diametro nella loro apertura esocranica, e ciò specialmente per quelli
sottozigomatici concomitantemente ai quali occorra un eventuale conus articularis.
Sull'influenza di tale processo, il quale si sviluppa col progredire dell'età, mancando
come formazione completamente sviluppata negli individui giovani, sulla ubicazione
e sul calibro dei canali sottozigomatici, noi abbiamo già parlato trattando di questi
ultimi.
Aggiungiamo qui che, come abbiamo avvertito di già per l'Uomo, anche in altri
animali e specialmente nelle Scimmie è evidente il restringimento relativo degli emis-
sari sottozigomatici, o per lo meno l'affondamento della loro apertura esocranica fra
il tegmen tympani e la faccia posteriore di tale processo col progredire dell'età, in
guisa che esso può riuscire meno evidente ad un esame rapido. Nella nostra specie
190 ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAJIIDA 32
la presenza sia pure eventuale di un conus articularis, spiega perchè sia stato affermato
da taluni AA., che i forami emissari squamosi (foramen jugulare spurium di Luschka)
occorrono più frequentemente nel bambino che non nell'adulto. Noi non potremmo
sottoscrivere a tale opinione, se non perciò che si riferisce al calibro di detti emis-
sari, il quale senza dubbio è, relativamente, nei singoli casi più ampio nella giovane
età. Ammettiamo tuttavia che lo sviluppo progressivo di un tuberculum articulare
posterius possa favorire la occlusione di un eventuale emissario e ciò perchè, oltre-
passata una certa età, da 15 a 20 anni, la presenza percentuale ed il calibro
degli emissari temporali non mutano sensibilmente anche esaminando serie di crani
di età molto diverse. La concordanza nella frequenza degli emissari squamosi nel
bambino e nell'adulto si verifica poi chiaramente, ad esempio, per gli emissari sopra-
zigomatici, i quali compaiono con uguale percentuale nell'uno e nell'altro. Ad ogni
modo alle lievi diversità nella occorrenza percentuale dei forami emissari sottozigo-
matìei nel bambino e nell'adulto, anche perchè queste diversità non si verificano per
i soprazigomatici (tralasciamo i prezigomatici perchè in numero troppo scarso) si
deve dare un significato diverso da quello che vorrebbero gli AA., che ritengono la
presunta maggiore frequenza nel bambino come una prova della importanza ontoge-
netica che avrebbe l'eventuale emissario, come espressione di un comportamento pri-
mitivo della circolazione venosa; noi per l'esame anatomo-comparativo, come per i
caratteri assunti dai forami sottozigomatici, nei casi di mancanza del conus articu-
laris, crediamo invece che tale differenza, quando non sia solo apparente, sia rife-
ribile al conus articularis stesso.
Per ciò che si riferisce ancora all'età, aggiungiamo finalmente come siano occorsi
alla nostra osservazione dei forami emissari, relativamente ampi delle varie cate-
gorie anche in età molto avanzata (104 anni).
Per quanto riguarda i reperti statistici, tenuto calcolo delle osservazioni fatte
relativamente al calibro, su 2472 temporali esaminati noi non abbiamo trovato traccia
alcuna di emissari in 2058, cioè nell'83,25 °/0. Esistevano invece canali emissari delle
varie categorie in 414, vale a dire nel 16,74 °/0: di questi casi 339 (81,88%) appar-
tengono ai sottozigomatici, 66 (15,94 °/0) ai soprazigomatici, 9 (2,17 °/0) ai prezigomatici.
Fra i 1176 crani esisteva un emissario da un solo lato in 196, cioè nel 16,66 " 0
dei crani ; di questi casi, 103 appartenevano al lato sinistro, 93 invece appartenevano
al lato destro (7,90 °/0 a D, 8,75 °/0 a S): vi ha quindi una leggera preponderanza nella
frequenza dal lato sinistro (52,55 °/0) di fronte a quelli osservati a destra (47,44 %
dei casi di emissari unilaterali). Gli emissari invece erano bilaterali in 95 crani
(8,07 °/0 dei crani).
Su 120 temporali isolati noi abbiamo riscontrati i canali emissari in 28 casi;
dobbiamo però osservare che i 120 temporali staccati appartengono ad una serie
selezionata per altri studi, quindi le cifre percentuali sono indubbiamente superiori
a quelle che dovrebbero essere per gran parte della serie, non avendone noi a
tempo opportuno tenuto un calcolo sufficientemente esatto : considerando tuttavia i
28 casi come unilaterali, aggiungendoli ai 196 della serie dei crani studiati (224) e
facendo il computo percentuale della occorrenza degli emissari col numero dei tem-
porali, risulta che essi sono complessivamente unilaterali nel 9,14 °/0 dei temporali.
Nel computo percentuale dei casi delle varie categorie quale abbiamo sopra
33 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 191
riportato, abbiamo ritenuti i temporali con emissari doppi come appartenenti alla
categoria alla quale si potevano ascrivere per il canale emissario di calibro maggiore.
Esaminiamo ora un po' più particolarmente i rapporti eventuali fra i canali
emissari e le traccie lasciate sull'endocranio dai vasi che collegano la circolazione
venosa della fossa media con quella della fossa cranica posteriore.
I caratteri del solco per il seno petrosquamoso, i rapporti che esso contrae
dorsalmente colla docciatura per il seno sigmoide, ventralmente col forameli spinosum,
sono cos'i noti ed esattamente descritti da molti AA. (Verga, Luschka, Lowenstein,
Cheatle), che noi ci dispensiamo dal ripeterne ora una descrizione minuta. Diremo
solamente che la esistenza del seno venoso non è assolutamente legata alla esistenza
di un solco lungo la linea di riunione primitiva tra il petroso e lo squamoso. Diffatti
mentre il seno petrosquamoso esiste quasi costantemente, con diverse gradazioni di
sviluppo, ed anche eventualmente connesso in avanti con le vene meningee medie,
il solco per accoglierlo rappresenta tutt'altro che la disposizione più frequente: e
cioè può decorrere lungo la primitiva sutura petrosquamosa un evidentissimo ed
ampio seno omonimo, facilmente rilevabile nel cadavere mediante iniezioni speciali,
oppure semplicemente perchè ripieno di sangue, senza che si debba necessariamente
riscontrare, distaccando la dura madre, una solcatura ossea speciale per accoglierlo.
Così pure noi abbiamo visto talvolta l'apertura endocranica di un emissario della la o
della 2a categoria, e specialmente negli individui giovani, ma talvolta anche in età
avanzata, situata in corrispondenza della primitiva sutura squamosopetrosa, senza
che perciò si riscontrasse contemporaneamente un solco, il quale invece può compa-
rire anche indipendentemente da un eventuale emissario. Ciò vale tuttavia in gene-
rale solo per forami emissari di piccolo calibro e naturalmente non per tutti : Invece
noi abbiamo trovati quasi costantemente nell'adulto delle traccie più o meno pro-
nunciate del solco petrosquamoso, ogni qualvolta il calibro dei canali emissari
(sottozigomatici e soprazigomatici posteriori) era di una notevole ampiezza (1 min.).
Quando le labbra d'un eventuale solco petrososquamoso , delle quali quella laterale
appartiene al tavolato interno dello squamoso, quella mediale al margine anteriore
del petroso, sono fornite di sporgenze a dentelli, di spicole ossee fra loro confluenti,
possiamo riscontrare, invece di un semplice solco, dei tratti più o meno lunghi, anche
molteplici, di un canale osseo (Figg. 4, 9 et, sps), il quale era destinato ad accogliere il
seno corrispondente. La trasformazione in canale è tanto più evidente ed occorre con
tanta maggiore frequenza, quanto più noi esaminiamo una porzione dorsale del solco
petrosquamoso: quando la porzione di tale solco prossimo allo spigolo superiore della
piramide temporale si trasforma in canale, noi abbiamo allora il così detto acquedotto
temporale o canale di comunicazione descritto primieramente da Verga. Questa dispo-
sizione, contrariamente a quanto avrebbe notato Lowenstein, che dice di non averla
riscontrata in 118 crani, a noi è occorsa molto frequentemente.
Difatti in 772 crani segati noi abbiamo trovate delle traccie più o meno evi-
denti del solco per il seno petrosquamoso in 222 (33,03 %): esse mancavano invece
completamente in 450 (66,96 %); il solco petrosquamoso con sviluppo di tutte le
gradazioni esisteva bilateralmente in 149 crani, solo a destra in 28, solo a sinistra
in 45. Per quanto naturalmente il criterio per giudicare della esistenza o mancanza
di tale solcatura non possa essere sempre puramente obbiettivo, pure è interessali-
192 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA
34
fcissimo ricordare come in una serie piccola per numero, ma invece molto importante
per qualità di materiale, di microcefali, su 30 crani siasi riscontrato il solco petro-
squamoso per lo più nettamente marcato in 18 casi (60 % dei casi) e cioè in 13
bilateralmente, in 1 caso solo a destra, in 4 solamente a sinistra. La sproporzione
fra il comportamento del solco petrosquamoso nei crani di individui normali adulti
e, rispettivamente, nei crani di microcefali in massima parte giovani (da 4 a 30 anni)
è troppo forte perchè non debba essere rilevata: aggiungiamo tuttavia che in questi
ultimi gli emissari petrosquamosi non occorrono più frequentemente che nei primi,
e ciò pur tenendo calcolo della età relativamente giovane dei soggetti.
La copertura più o meno estesa del solco petrosquamoso nella sua porzione
posteriore, facendo cioè astrazione dei piccoli ponticelli ossei, dipendenza dello squa-
moso oppure del petroso, posti nella parte anteriore del solco predetto, la esistenza
cioè di un canale di Verga più o meno lungo, più o meno ampio e regolare, scavato
apparentemente all'estremità laterale dello spigolo superiore della rocca, continuan-
tesi in avanti col solco petrosquamoso, aprentesi in addietro colla parte alta della
docciatura per il seno sigmoide, venne da noi constatata, fra i 672 crani aperti in
93 casi, vale a dire complessivamente nel 13,83% dei crani: il canale di Verga è
bilaterale in 36 (5,35 % dei crani): esiste solo a destra in 25 (3,72 %), solo a sinistra
in 32 (4,76%): complessivamente cioè è unilaterale nell'8,48 %. Non ostante la spro-
porzione accennata fra i crani di microcefali e quelli di normali per il solco petrosqua-
moso, la proporzione della occorrenza del canale di Verga nei microcefali è affatto
analoga (13,33%) a quella degli altri.
Dobbiamo notare come è possibile l'esistenza di un canale di Verga, natural-
mente senza che vi siano traccie di canali emissari squamosi o petrosquamosi: come
pure non raramente ci è occorso osservare anche bilateralmente un canale di Verga
molto ampio, senza che la porzione del seno petrosquamoso posta ventralmente alla
apertura anteriore del canale stesso abbia lasciato delle traccie in forma di solca-
tura rilevabile. Non è qui luogo di aggiungere alcunché alle esattissime descrizioni
date da Verga e da Cheatle per tale formazione, quali noi abbiamo riportate nella
rassegna della letteratura; ne ricordiamo però l'importanza morfologica già accen-
nata specificamente da Legge, come riproduzione chiara, per quanto per lo più in-
completa, del canale temporale esistente in molti ordini di Mammiferi.
La correlazione fra il canale temporale dei Mammiferi ed il canale di Verga
acquista tanto maggiore certezza quando, come a noi è occorso di rilevare ripetu-
tamente, esso più che un canale esclusivamente temporale è un vero canale tempora-
'parietale appunto come avviene in molti Mammiferi. In parecchi dei casi da noi
esaminati, nei quali la incisura squamosomastoidea del temporale è molto pronun-
ciata e viene riempita come d'ordinario dall'angolo mastoideo del parietale, si nota
che il canale di Verga è delimitato nella sua porzione anteriore, come di ordinario,
da una parte dalla squama temporale, dall'altra dalla piramide; nella sua porzione
posteriore invece medialmente è chiuso dal margine superiore della base della pira-
mide temporale, lateralmente da una laminetta ossea dipendenza del tavolato interno
àell'angulus mastoideus del parietale. Evidentemente noi abbiamo in questi casi, com-
plessivamente però molto rari, una disposizione perfettamente identica a quanto è
normale in altri Mammiferi, nei quali il così detto canale temporale o meglio tempero-
35 i ANALI VENOSI IMMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETEOSQUAMOSI 193
parietale è costituito, almeno per una parte del suo decorso, da due semidoccie vòlto
l'una vei'so l'altra, di cui una scavata a spese del margine squamoso del parietale,
l'altra corrispondente alla sutura petrosquamosa ed, in addietro, alla base dell'osso
petroso. Può avvenire eziandio che, V augnili* mastoideus del parietale essendo sosti-
tuito da uno o più ossicina fontanellari (asteriche o preasteriche), l'eventuale canale
di Verga decorra, come a noi occorse tre volte osservare (2 a D ed 1 a S), nello spes-
sore dei tavolati delle ossicina stesse e si apra come di consueto nella parte alta
della docciatura per il seno sigmoide, oppure anche all'esterno analogamente a quanto
vedremo tosto. In condizioni normali però il canale di Verga del cranio umano decorre
realmente solo attraverso all'osso temporale, la sutura fra l'angolo mastoideo del
parietale e le parti contigue dell' osso squamoso comparendo all'endocranio ad un
livello superiore al canale stesso.
Su un'altra particolarità eccezionale di decorso del canale di Verga noi vogliamo
ora richiamare l'attenzione. In 3 crani di individui adulti, in 2 dal solo lato destro,
in 1 a sinistra, il canale di Verga molto ampio, invece di sboccare alla parte
alta del seno sigmoide, si mantiene da questo affatto indipendente, continua il suo
decorso in direzione dorsale, si immette fra i due tavolati dell'angolo mastoideo del
parietale e si apre all' esterno in corrispondenza della faccia esocranica dell' angolo
mastoideo stesso; anche in detti casi noi abbiamo cioè un canale temporoparie-
tale, il cui significato tuttavia è diverso da quello sopraccennato, in quanto ripro-
duce esattamente il reperto che si può avere in parecchi Mammiferi (Artiodattili,
Perissodattili), nei quali alla parte posteriore della faccia esterna dello squamoso e
alla porzione inferiore della stessa faccia del parietale possono occorrere dei piccoli
forami, dai quali partono canali comunicanti internamente col canale temporale pro-
priamente detto (foramina postsquamosa, postparietalia di Cope). Nei tre casi sovrac-
cennati in cui esisteva il forame anomalo, che si potrebbe chiamare emissario parietale
inferiore, come pure in 2 casi in cui, l'angolo mastoideo essendo sostituito da ossicina
fontanellari, il canale di Verga si apre nella sutura fra 1' ossicino posteriore e la
squama occipitale, sono tuttavia presenti, per quanto un po' ristretti, i forami emissari
mastoidei corrispondenti. In un cranio di donna, di anni 33 (Collez. Criminali, n" 2!).".,
assassina), dal lato destro il canale di Verga si comporta come abbiamo accennato
ora, e da questo lato si aprono nella sutura occipitomastoidea due ampi emissari
mastoidei: a sinistra invece il canale di Verga, molto esile, sì da dar passaggio appena
ad una fina setola, si apre all'esterno nella porzione mastoidea del temporale, imme-
diatamente al di sotto dell'angolo formato dal margine posteriore della pars squamosa
col margine supcriore della pars mastoidea. Un comportamento analogo a quello riscon-
trato a sinistra nel caso precedente noi abbiamo riscontrato a destra nel cranio di una
bambina di 11 anni (Collez. Normali, n° 23: anni 11), da questo lato però mancava
ogni traccia di altro emissario mastoideo. È curioso notare come in quest'ultimo caso
fosse bilateralmente presente un ampio canale emissario temporale soprazigomatico ante-
riore e all'endocranio un solco petrosquamoso ben evidente, in guisa che con opportune
manovre, una setola introdotta dall'emissario soprazigomatico poteva essere condotta
prima nel solco petrosquamoso, poi nel canale di Verga ed infine fuoriescire ancora
per mezzo del foro del processo mastoideo, senza che si potessero dimostrare comu-
nicazioni col seno sigmoideo.
Serie II. Tom. LUI.
1!(4 ALFONSO 130VERO — UMBERTO CALAMIDA 36
Tutte le disposizioni sovraccennate presentano un intei'esse morfologico non
dubbio in quanto, come vedremo, non sono che l'esatto ritorno a disposizioni facili
a riscontrarsi in parecchi ordini di Mammiferi.
Relativamente alla ipotesi di Labbé (37) che, nei casi di mancanza del foro
mastoideo, potesse esistere un forame temporale molto sviluppato, noi possiamo asse-
rire che non esiste alcun rapporto costante fra l'una e l'altra forma, poiché nella
massima parte dei 414 casi di emissari squamosi e petrosquamosi da noi riscon-
trati in crani completi, quasi costantemente vi ha pure e dal medesimo lato un
emissario mastoideo, nel cui calibro però occorrono le variazioni solite negli altri
casi. Anzi in parecchi dei casi da noi esaminati, in cui manca da un lato un emis-
sario mastoideo visibile, è deficiente pure dal medesimo lato ogni traccia di emissario
squamoso o petrosquamoso, mentre eventualmente, dal lato opposto, in parecchi rasi
esistono ben sviluppati entrambi : non vi ha cioè tra le due formazioni alcuna cor-
relazione evidente.
Similmente noi non abbiamo verificato mai, anche nei casi in cui il calibro degli
emissari è molto ampio, un rapporto qualsiasi fra l'ampiezza del foro giugulare e
l'eventuale emissario : la medesima asserzione possiamo ripetere relativamente all'am-
piezza dei fori sfenospinoso , grande rotondo ed ovale, attraverso i quali si scarica
pure, in condizioni normali, una certa quantità di sangue dall'interno del cranio.
Noi riteniamo tuttavia più probabile che nella fattispecie, anche se non se ne pos-
sano trovare traccie nel calibro dei fori predetti, data l'ampiezza rilevante colla
quale compaiono abitualmente, nei pochi casi osservati, gli emissari prezigomatici
come talune forme di sottozigomatici, la quantità del sangue decorrente nelle vene
che accompagnano la seconda e la terza branca del trigemino, le quali hanno tanta
importanza nella ontogenesi, come nelle vene satelliti dell'arteria meningea media,
possa eventualmente essere diminuita per la presenza degli emissari squamosi: in-
vece ci spieghiamo assai bene come per il calibro sempre relativamente minimo
degli emissari soprazigomatici e della maggior parte dei sottozigomatici non sia rile-
vabile mai un'eventuale diminuzione del calibro del forameli jugulare, il cui calibro,
anche quando vi hanno emissari zigomatici (sottozigomatici e soprazigomatici), non
si mostra specificatamente diminuito dal lato in cui esiste l'emissario squamoso.
Relativamente al seno petrosquamoso abbiamo veduto come Cheatle (S) an-
netta al seno stesso una grande importanza anatomo-patologica per la possibilità
di trasmissione di processi settici dalla cavità dell' orecchio medio al detto seno,
con possibile diffusione conseguente del medesimo processo al seno laterale ed alla
pia meninge del lobo temporoparietale. Il Cheatle corrobora le sue osservazioni
anatomiche con reperti anatomo-patologici, mediante i quali dimostra che la via di
diffusione è data appunto da piccole venuzze, che attraversano dalla cavità del tim-
pano il fondo della docciatura per il seno petrosquamoso costituente parte del tetto
della cavità medesima, per isboccare nel seno. L'esistenza di tali venuzze è appunto,
come afferma Cheatle, affatto costante, facilmente dimostrabile distaccando la dura
31 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 195
madre, per cui il fondo dell' eventuale docciatura petrosquamosa corrispondente al
tegmen tympani può presentare uno o parecchi minutissimi forellini di calibro vario,
difficilmente però sondabili, i quali danno appunto passaggio alle venuzze predette
tributarie del seno petrosquamoso , come anche a fini rami anteriori dipendenza
della branca posteriore della arteria meningea media [Giannelli (19) | e destinati
alla mucosa della cavità timpanica. Nei cadaveri in cui concomitantemente ad
una affezione auricolare purulenta si trova una meningite basilare ed una trombosi
limitata esclusivamente al seno petrosquamoso, col seno laterale integro, è più che
naturale pensare che il processo infettivo si sia fatto strada direttamente per i vasi
sanguigni attraversanti il tegmen, allo stesso modo che, per un'eventuale deiscenza
della parete esterna del golfo della vena giugulare interna, in rapporto della por-
zione posteriorinferiore della parete interna della cavità del timpano oppure uno
spessore assolutamente minimo di tale parete, spiegano la diffusione con relativa
trombosi direttamente alla parte alta della giugulare ed al seno sigmoide.
Anche gli emissari squamosi potrebbero, a nostro avviso, assumere una certa
importanza clinica ed anato mo-patologica : per quanto a noi manchi tuttora una
prova obbiettiva convincente, trattandosi tanto più di formazioni anomale, è ammis-
sibile che, dato, ad esempio, lo sviluppo di un flemone profondo o di ascessi nella
parte alta della regione parotidea, oppure anche di talune forme pericondrali di
ascessi del condotto ed un eventuale canale emissario sottozigomatico che può, come
abbiamo visto, avere talvolta un calibro di 2-3-4 mm., la venuzza che vi decorre,
direttamente, o indirettamente colle vie linfatiche che accompagnano costantemente
tali vene, possa rappresentare la possibile, se non sempre facile, via di trasmissione
del processo settico all'endocranio. A noi fanno difetto sinora osservazioni sia cli-
niche che anatomo-patologiche dalle quali si possa trarre un'affermazione perentoria;
enunciamo tuttavia la detta ipotesi, che non pare a noi certo illogica.
Abbiamo tralasciato dalla nostra descrizione molte particolarità non direttamente
attinenti all'argomento che ci interessa, limitandoci esclusivamente allo studio dei
canali venosi emissari. Come tali naturalmente noi non consideriamo parecchi casi
di forami occorrenti in punti differenti della squama e dovuti ad usura, a riassor-
bimento dei tavolati interno ed esterno della squama stessa, in guisa da risultarne
delle comunicazioni più o meno ampie tra la fossa temporale e la cavità craniana:
tali riassorbimenti non hanno in realtà alcuna importanza morfologica trattandosi di
lesioni di origine prevalentemente patologica. Similmente lasciamo parecchi casi,
molto interessanti d'altra parte anche per la rarità, di divisioni anomale della squama
temporale per suture complete o non, frontali o sagittali.
Piuttosto, mentre dobbiamo ricordare che in tutta la serie dei crani da noi esa-
minati non ebbimo mai occasione di imbatterci nel canale attraversante lo spessore
dell'apofisi zigomatica dalla sua faccia interna alla esterna quale venne descritto da
Giuffrida-Ruggeri (20) come canale, infrazigomatico, prima di accingerci a riferire i
risultati delle nostre ricerche sugli altri Mammiferi, desideriamo accennare ad un reperto
196 ALFONSO BOVERO — UMBERTO OALA5I1DA
avuto in due crani, in uno dai due lati, in un altro ed in modo molto dimostrativo
solo a destra, e che ci pare, per quanto non nuovo, di una eccezionale rarità. In
quest'ultimo caso (Gollez. Criminali, n° 47, 5 47 anni, da Torino, suicida — Fig. 14)
sulla faccia esterna della squama temporale di destra, verso la parte media della
porzione verticale, a 24 nini, sopra la faccia superiore della base del processo zigo-
matico esiste un esile forame in forma di fessura (fis), aperta in alto, dalla quale ori-
gina superiormente una solcatura superficiale, tosto diramantesi in due branche di-
vergenti, risolventisi a loro volta in altre solcature più piccole decorrenti sulla parte
alta della squama e sulla porzione inferiore del parietale [satpp). Dal foro stesso ha
origine in basso un canale verticale, decorrente per circa 3 cm. nello spessore della
squama, immediatamente coperto dal tavolato interno assottigliato, ed aprentesi
all'endoeranio in una fessura simile a quella esocranica, e che si continua verso il
foramen spinosum in una docciatura presentante i soliti caratteri delle impronte la-
sciate dall'", meningea media: la docciatura per questa è tuttavia indipendente dalla
precedente e la solcatura della branca posteriore dell'a. meningea incrocia superfi-
cialmente, decorrendo ad arco in addietro, il canale scavato nello spessore della
squama. È a notarsi inoltre come dalla apertura esocranica del canale squamoso
anomalo parta in avanti una sutura abnorme, visibile anche all'endocranio, ove per
altro tende a scomparire, lunga 20 mm., leggermente ondulosa, ma in complesso
sagittale (Fig. 14 a), la quale raggiunge la sutura squamoso-grande ala a 27 mm. al
disopra della sporgenza della cristo infratemporalis: detta sutura rientra evidentemente
fra quelle cui abbiamo precedentemente accennato e delle quali non è qui caso di occu-
parci piii in disteso. Dal lato sinistro del cranio stesso non vi ha particolarità alcuna
che si allontani dalle condizioni normali.
In un altro cranio ($ 19 anni) esiste bilateralmente un comportamento analogo;
solo l'apertura esocranica è assai più piccola, meno evidente per non dire mancanti
il solco temporoparietale esterno, appena percettibili le solcature endocraniche del-
l'", meningea media.
Per i rapporti della docciatura del favolato interno della squama, la quale fa
ito all'apertura endocranica del canale anomalo, col forame spinoso, per i
caratteri e per la ubicazione delle solcature esocraniche affatto corrispondenti a
quelle note già da molto tempo e descritte ancora recentemente da Ledouble (41 b)
come traccia del decorso dell'", temporalis profunda posterior, noi non esitiamo ad
affermare che, nei nostri due casi, l'arteria ora nominata, invece d'originarsi, come
di solito, direttamente dal tronco della ". maxillaris interna, pi-oveniva dall'", me-
ningea media dalla quale si originava nell'interno del cranio. Tale reperto, già
descritto da Gkuber (22) in un sol caso e da un solo lato e ricordato in seguito
da W. Keause (in ITenle), Poirier, Romiti, ecc., fu pure d'altronde constatato una
volta nella Sala dissettoria di questo Istituto direttamente da uno di noi (Bovero)
sul cadavere di una giovane donna e dai due lati: un piccolo tronchicino arterioso,
assolutamente esile ed originantesi dalla branca posteriore di biforcazione dell'". m< -
ningea inedia, raggiungeva a traverso la parte alta della squama la porzioni
dorsale della fossa temporale, coperto dalla parte corrispondente del muscolo omonimo:
la piccola arteria non potè essere seguita però più in alto della sutura squamoso-
parietale. In detto caso per altro esisteva tuttavia, per quanto ridotta, Va. temporalis
39 (ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 197
profunda posterìor della a. maxillaris interna; quindi al detto ramo anomalo si doveva
dare piuttosto il significato di un'", temporalis profunda posterìor accessoria, mentre
nei due casi sopracitati, data l'ampiezza del canale osseo e la mancanza assoluta di
traccie del solco temporoparietale esterno (Ledouble) nella parte bassa del planum
temporale, con ogni probabilità realmente il tronco della «. temporalis profunda posterìor
era fornito dall'", meningea media.
La disposizione ora descritta è interessante anche per l'argomento generale che
stiamo trattando, in quanto non è illogico pensare che la branca o le branche arte-
riose anomale, percorrenti dall'interno all'esterno il canale infrasquamoso ed origi-
nantisi dall'", meningea media, fossero accompagnate in tutto il loro tragitto da
diramazioni venose destinate a portare alle vv. meningee medie, ed eventualmente
ad un seno venoso petrosquamoso, il sangue raccolto dalla porzione corrispondente
della fossa temporale, in corrispondenza della quale possono comunicare con le vene
proprie della regione direttamente tributarie della v. jugularis externa: ne risulte-
rebbe cioè in tal guisa ancora una comunicazione speciale tra il sistema venoso en-
docraniano e quello extracraniano per mezzo delle vene satelliti di un'«. tempo-
ralis profunda posterìor anomala, sia questa direttamente originata dall'", meningea
media, oppure rappresenti puramente un ramo accessorio al ramo normale.
Per altra parte abbiamo riscontrata una corrispondenza molto evidente al re-
perto sopra accennato in alcuni crani di Cercopitecini, nei quali, come vedremo più
tardi (Figg. 22, 23), per quanto tale possibilità non sia stata finora a nostra scienza
accennata, pare che essa debba occorrere tutt' altro che raramente: qui notiamo
solo che, a corroborare la nostra ipotesi, che le vene satelliti dell'arteria anomala pos-
sano stabilire una comunicazione tra i sistemi venosi delle due giugulari, sta il fatto
che in un Cercocebus fuliginosus dai due lati l'apertura endocranica del canale infra-
squamoso anomalo è posta subito lateralmente al seno petrosquamoso essendo conti-
nuata verso la sua estremità ventrale e quindi verso la apertura endocranica del-
l'ampio emissario petrosquamoso da una ben marcata solcatura.
Finalmente anche l'arteria anomala merita per se stessa una speciale atten-
zione per il suo possibile significato morfologico, e ciò avuto anche riguardo alla
occorrenza diversamente frequente di detta disposizione in specie differenti. Dato il
significato filogenetico dell'», meningea media, sul quale uno di noi si è occupato altra
volta incidentalmente (3), e le connessioni che si possono verificare nella filogenesi
nella fossa cranica media fra i rami dell'", carotis externa e dell'», stapedia con Va.
diploètica magna (dell'a. carotis interna) scomparsa in tutti i Mammiferi ad eccezione
dei Monotremi, ricordando le diramazioni di quest'arteria ed i rapporti con la squama
temporale quali risultano dagli studi di Hyrtl, Hochstetter , Tandler (67, a, b), si
potrebbe forse ventilare l'ipotesi se non esista fra i rami arteriosi anomali da noi
ricordati e la detta a. diploètica magna o le sue branche alcun rapporto morfologico :
rimarrebbe, vale a dire, a ricercare se cioè la porzione extracraniana dell'arteria ano-
mala non potrebbe in qualche modo riferirsi ad un'", diploètica (o ad una delle sue
diramazioni collaterali), di cui sia andata scomparsa la porzione prossimale e nella
quale quindi il sangue abbia assunto una diversa direzione. Questa supposizione
avrebbe certo bisogno di essere lumeggiata e svolta assai più diffusamente di quanto
198 AXFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAMIDA 40
non sia permesso a noi in questo lavoro: noi non intendiamo perciò di dare alla
nostra idea alcun valore all'infuori di quello di una timida ipotesi.
Esponiamo ora i reperti avuti da noi negli altri Primati, relativamente ai
forami e canali emissari squamosi e petrosquamosi, avvertendo che, per le nozioni
contradditorie lasciate da altri ricercatori e per i fatti nuovi messi in luce dalle
imstre osservazioni, la descrizione dei reperti stessi risulterà necessariamente più
diffusa di quella degli altri ordini di Mammiferi.
Fani. Simiidae. — Nelle Scimmie antropomorfe, a quanto risulta dalla lette-
ratura, mancherebbero completamente traccie di canali emissari squamosi e petro-
squamosi: la loro ricerca avrebbe diffatti dato risultato negativo a Cope (9) per il
Gorilla e per il Cimpanzè, a Kopetsch (34) per l'Orang e per il Gorilla, a Cheatle (8)
per il Cimpanzè, il Gorilla e l'Orang, a Denker (12) per il Gorilla: il Kopetsch avverte
tuttavia che non intende di negare la possibilità della loro occorrenza in altri esemplari.
A questo riguardo i risultati delle nostre osservazioni discordano recisamente
dai reperti degli altri AA., perchè nel materiale da noi studiato (Istituto Anato-
mico e Museo di Anatomia Comparata di Torino) esistono delle traccie non dubbie
e, relativamente al numero esiguo di esemplari esaminati, assai più frequenti che
non nella nostra specie, di emissari squamosi e petrosquamosi. Per la ubicazione del-
l'apertura esocranica degli stessi, data la stretta rassomiglianza dell'osso temporale
degli Antropomorfi con quello dell'Uomo, vale la medesima classificazione da noi
adottata per quest' ultimo. Avvertiamo che nei pochi esemplari delle varie specie
da noi esaminati il foramen jugulare è costantemente molto ampio.
Simia Satyrus. — Complessivamente noi abbiamo avuto agio di osservare 6 crani
di Orang, tutti però appartenenti ad individui molto giovani (1 dell'Istituto Anatomico,
r> del Mus. d'An. Comp.), ed in ognuno di essi noi, per rispetto agli emissari in
questione, abbiamo avuto costantemente un reperto positivo.
Nel cranio di una 9 juv., di circa 2 anni (Ist. Anat.) (Fig. 19), a destra vi
hanno due fori esilissimi, disposti uno avanti all'altro, separati fra di loro da una
microscopica trabecola ossea {fszp), situati subito al di sopra dell'inizio della radice lon-
gitudinale del processo zigomatico, in corrispondenza di una linea che prolungasse ver-
ticalmente in alto l'asse trasversale della fossa mandibularis: entrambi i forami
danno passaggio ad una delle setole più fini e mettono in un canale unico, sonda-
bile per breve tratto, il quale riesce molto probabilmente ad un foro visibile dal-
l'endocranio nella fossa media, a metà circa della sutura petrosquamosa, nel fondo
di un'ampia solcatura diretta in senso sagittale, originantesi anteriormente alla estre-
mità laterale della fessura sfenosfenoidale e destinata probabilmente a dar ricetto
al ramo posteriore dell'», meningea media. Alla detta, apertura endocraniana riesce
pure a destra un canale sondabile con una setola, il quale si apre all'esocranio su-
bito medialmente ad un ben pronunciato conus articularis {fszm, co), fra questo e la
estremità laterale della fissura Glaseri; detto forame, alquanto più ampio degli altri
sopradescritti, si prolunga chiaramente sul margine mediale del conus ini iati uri*
mediante una superficiale solcatura; in altre parole abbiamo dal lato destro del
cranio di questo Orang, ad un tempo due emissari soprazigomatici posteriori ed un
emissari') sottozigomatico mediale, confluenti all'endocranio allo stesso punto della
41 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 199
sutura petrosquamosa. A sinistra vi ha un foro pure estremamente esile, posto sulla
sporgenza smussa della linea temporalis, nel punto ove questa continuasi col mar-
gine esterno dell'apofisi zigomatica, non permeabile però alla più fina delle setole:
ad esso corrisponde all'endocranio un'apertura come a destra, alla quale riesce un
solco sagittale similare.
Negli altri 5 crani di Orang, noi abbiamo trovato costantemente dai due lati
un foro circolare sempre molto piccolo (mm. 0,20-0,30), posto alla base del mar-
gine mediale del conus articularis, continuantesi in un canale aperto superiormente
nel solco per il seno petrosquamoso , talvolta in una fossetta molto approfondata.
alla quale in un caso conviene pure, come in quello prima descritto, la docciatura
dei vasi meningei medi. La solcatura petrosquamosa può presentarsi anche nel-
l'Orang delimitata da labbra frastagliate, talvolta confluenti fra di loro in guisa da
essere trasformata tratto tratto in un canale. Quasi costantemente 1' apertura eso-
cranica dell'emissario viene prolungata sul margine mediale del conus artici/lari? da
una solcatura più o meno manifesta.
Anthropopithecus Troglodytes. — Xel cranio di una y juv. di circa 2 anni (Ist. An.).
come in un cranio pure giovane del M. d'An. Comp., entrambi con conus articularis
relativamente ben pronunciato, non ci venne dato riscontrare traccia in nessuna re-
gione della squama di emissari saliamosi o petrosauamosi anomali. Nel solo caso in
cui ci è stato concesso di esaminare l'endocranio, abbiamo trovato ben evidente la
solcatura per il seno petrosquamoso.
Gorilla (3 crani). — Nel cranio di una £ di anni 2 Va circa (Istit. Anat.),
medialmente al conus articularis robustamente sviluppato, tra questo e la estremità
laterale della scissura di Glaser , vi ha un foro circolare , più ampio a sinistra
(mm. 0,35), appena percettibile a destra, dal quale ha origine un canale, permeabile
però solo a sinistra ad una setola, diretto verticalmente in alto per riuscire nella
fossa media del cranio in rapporto dell'unione del terzo mediale coi due terzi late-
rali della sutura petrosquamosa. Il solco per il seno petrosquamoso è superficiale,
però più marcato a sinistra e ad esso confluisce pure una solcatura sagittale, meno
regolare di quella riscontrata nell'Orang, per i vasi meningei medi.
In un altro Gorilla (9, ad.; M. d'Anat. Comp.) esiste bilateralmente, come nel
caso precedente, un forellino circolare sottozigomatico mediale, ampio lj2 mill., posto
fra la estremità laterale della scissura di Glaser obliterata ed il conus articularis
robustamente pronunciato.
In un terzo esemplare adulto nessuna traccia di emissari.
Hijlobates (5 crani). — In un H. hoolock ad. (Ist. Anat.) con quasi tutte le suture,
craniofacciali chiuse, con robusto conus articularis, manca ogni traccia di emissari
sottozigomatici o sopra zigomatici ; per contro dal lato destro si riscontra (Fig. 20 fps)
nella parte media della fossa infratemporale, 0,5 mm. superiormente alla sporgenza
della cresta omonima (ci), a 3 mm. posteriormente alle traccie della sutura squamoso-
alisfenoide un foro, emissario prezigomatico superiore, ampio tanto da dar passaggio a
una voluminosa setola, il quale conduce in un canale aprentesi nella fossa media in
rapporto dell'estremità anteriore della sutura petrosquamosa obliterata, resa evidente
da una stretta solcatura per il seno omonimo: questa è relativamente più manifesta
ancora dal lato sinistro. L'apertura esocranica del canale emissario di destra è con-
200 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAM1DA
12
tinuata in alto ed in avanti da una solcatura superficiale decorrente sulla parte an-
teriore della squama temporale. Detto forame manca completamente a sinistra.
In un H. leuciscus (M. d'A. C.) a destra si riscontra un esile forame sul margine
laterale del conus artieularis permeabile ad una setola; a sinistra vi ha un forellino
più ampio, medialmente allo stesso conus artieularis.
In un altro H. sp.? ad., vi ha dai due lati un esilissimo foro circolare, posto
alla faccia posteriore del conus artieularis, fra questo e il condotto uditivo osseo.
Finalmente in un H. albimana (M. d'A. C.) adulto, come in un H. sp.? giova-
nissimo, notevole per la presenza di un preinterparietale unico, manca ogni traccia
di emissari temporali squamosi o petrosquamosi.
Come si scorge dalla precedente rassegna, occorrono pure nelle Scimmie antro-
pomorfe, e con frequenza così grande sì da essere ritenuti in talune specie come
costanti (Orang), dei canali emissari temporali squamosi delle varie categorie. Anche
negli Antropomorfi, come nell'Uomo, questi occorrono più spesso come emissari squa-
mosi sottozigomatici mediali, eccezionalmente come sottozigomatici laterali (H. leuciscus a
sinistra), o soprazigomatici posteriori {S. satyrus, Hylobates sp.), oppure ancora come
prezigomatici superiori (H. hoolock). La disparità dei nostri reperti da quelli degli
altri A A. riconosce forse come causa i criteri meno ristretti da noi seguiti nella
diagnosi degli emissari ; certamente la giovane età dei crani di alcune famiglie può
avere, per le ragioni addotte per il cranio umano, la sua importanza sulla persi-
stenza degli emissari stessi, appunto perchè in tutti gli Antropomorfi pare carattere
costante lo sviluppo di un conus artieularis. Relativamente al Cimpanzè, di cui tut-
tavia abbiamo esaminati solo 2 crani, noi potremmo giudicando per analogia ai
reperti delle altre famiglie far nostro il dubbio espresso da Kopetsch che la man-
canza di tali emissari non significa punto che questi possano realmente far difetto,
anche se si esaminino delle serie di crani più numerosi di quanto non sia stato ad
altri e a noi concesso. Per il numero esiguo dei crani per ciascuna specie e per le
ragioni addotte non è lecito a noi stabilire dei paragoni sul grado di frequenza
degli emissari stessi nelle singole specie: a noi basta aver fissato perentoriamente
la possibile occorrenza degli emissari in questione, anche delle differenti categorie,
nei crani dei diversi Antropomorfi.
Fam. Cereopithecidae. — Noi sappiamo di già dal minuto esame fatto dalla
letteratura come i pareri dei vari AA. relativamente alla esistenza dei canali emissari
squamosi e petrosquamosi in questa famiglia di Catarrine siano molto discordanti : ricor-
deremo ancora come, mentre Otto (50) avrebbe trovato un piccolo canale temporale
nei Cercopiteci e nei Cinocefali, Lusciika (45 a, b) lo ammette nel Macacus cynomolgus,
negandolo neW'Inuus ecaudatus. — Cope (9) nega l'esistenza dei forami nel Semnopithecus
e nel Gynocephalus, affermando esistere invece un esile postglenoideo nel Macacus.
— Anche Lowexstein (44) non ha riscontrato traccie di foramen jugulare spurium
in 9 crani di Cercopithecus, 6 di Gynocephalus e 3 di Semnopithecus; esso invece esi-
steva in 11 di Inuus. — Kopetsch (34) avrebbe trovato traccie più o meno evidenti
dello stesso foramen jugulare spurium fra 3 crani di Semnopithecus, in uno solo
(S. priamus), mancanti in 2; su 9 crani di Cercopithecus, 4 volte (( . aethiops, C. sabaeus,
43 I ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUA3IOSI 201
C. ruber,C. nyctitans); sopra 21 crani di Inuus detto forame mancava completa-
mente in 3 soli, esistendo invece bilateralmente in 17 (16 /. cynomolgus, 1 /. neme-
strinus), da un solo lato in un I. nemestrinus ; finalmente, sopi-a 14 crani di
Gynocephalus, Kopetsch non riscontra il forameli jugulare spurium in 6, esistendo
invece bilateralmente in 3 C. babuin, in 3 C. mormon, 1 C, ursinus, 1 C. leucophaeus;
in complesso quindi, sopra 47 crani di Cinopitecini, il Kopetsch ha verificato l'esi-
stenza degli emissari che ci occupano in 31, vale a dire nei due terzi all'incirca
dei casi esaminati: se aggiungiamo i reperti avuti dallo stesso A. nelle Scimmie
platirrine e negli Arctopiteci, nei quali il cos'i detto foramen jugulare spurium è
costante, pur tenendo calcolo del reperto negativo in 4 crani di Antropomorfi, non
si comprende perchè egli affermi recisamente che un foramen jugulare spurium non
occorra nei Piteci generalmente, ma solo in via eccezionale; facendo un computo
percentuale di tutti i crani esaminati da questo A., risulterebbe invece che detti
emissari furono da esso osservati nel 72,6 % dei crani.
Cheatle ricorda come nei giovani Macachi sia ben conservata l'apertura ante-
riore od esterna del canale temporale, mentre nell'adulto l'apertura è abitualmente
chiusa o rudimentale, permanendo invece molto chiaramente la scanalatura petro-
squamosa. — Anche Cabibbe (4) ricorda un foro postglenoideo nel Cercopithecus
cattitricus. — Infine Fischer descrive, in un suo recentissimo lavoro sullo sviluppo del
cranio scimmiesco (14 b), il foramen jugulare spurium già in embrioni relativamente
giovani e più precisamente in un embrione di Macacus cynomolgus (25 millim.
Vertice-Coccige), in uno di Semnopithecus pruinosus (mm. 47,5 V.-C.) e in uno di
S. maurus (mm. 53 V.-C), raffigurandolo anche nei rispettivi modelli, appunto come
già 0. Hertwig (27) nel modello (Ziegler) di un embrione umano lungo 8 cm. (V.-C.)
Tutti gli AA. sovraccennati però si riferiscono nelle loro descrizioni ad emissari
occupanti colla loro apertura esterna una posizione dorsale e mediale ad un tempo
al eonus articularis: nessuno accenna a forami di altre categorie (sottozigomatici
laterali, sopra- o prezigomatici).
Data l'incertezza e la disparità dei giudizi dei vari AA. sopra ricordati, era
interessante anche a questo riguardo una ricerca il più possibilmente ampia.
Subfam. Semnopithecinae. — Abbiamo esaminati 4 crani del Museo d'A. Coinp.
ed 1 dell'Istit. Anat.: è in quest'ultimo (S. entellus, ad.), che si incontrano le dispo-
sizioni più complesse ; esiste invero , come del resto anche negli altri Semnopiteci
(Fig. 21 co), un conus articularis assai sviluppato sotto forma di una " lamina apo-
fisaria appuntata „ (Cabibbe) o di un processo conoide fortemente appiattito in
senso anteroposteriore e coll'apice evidentemente ricurvo in avanti e medialmente:
in addietro al cono articolare, ma più verso il suo margine mediale, fra questo e
la porzione laterale ed anteriore dell' osso timpanico, esiste dai due lati un ampio
foro ovalare (fpg), con un massimo diametro di mm. 3,5 disposto quasi frontal-
mente: esso ha margini regolari e si apre, dato il minimo spessore dello squamoso,
immediatamente all'endocranio con un forame pure ovalare, posto in rapporto della
sutura petrosquamosa obliterata, alla unione del terzo mediale coi due terzi late-
rali della stessa: dorsalmente all'apertura endocraniana la detta sutura è trasfor-
Sekie II. Tom. LUI. a1
202 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 44
mata dapprima in una doccia molto ampia limitata da labbra taglienti, appar-
tenenti rispettivamente al margine anteriore del petroso ed al margine inferiore
del tavolato interno dello squamoso: poi la docciatura viene trasformata in un
canale dall'apposizione del tavolato interno dell'osso parietale alla estremità po-
steriore del margine anteriore della piramide, in guisa che si ha qui un canale
di Verga, canale temporoparietale , perfettamente corrispondente a quelli ricordati
nella nostra specie. Il canale è più lungo a sinistra che a destra, ove per altro
la sutura parietopetrosa è per buon tratto scomparsa, rimanendo invece aperta
completamente a sinistra: il canale molto ampio (2-3 mm.) si apre posteriormente
nella parte alta del solco per il seno sigmoide e questa apertura è come ricoperta
da una lamina ossea dipendente dalla parte laterale del margine superiore dell'osso
petroso, il quale margine si presenta sotto forma di cresta tagliente molto pronun-
ciata e vòlta dorsalmente, per ossificazione del margine corrispondente di attacco
del tentorium cerebelli. Alla parte anteriore del contorno dell' apertura endocranica
dell'emissario riesce pure in entrambi i lati una fine e superficiale solcatura irrego-
larmente oudulosa, la quale decorre però complessivamente in senso sagittale sulla
faccia cerebrale della parte inferiore della squama temporalis, poi più in avanti sulla
faccia cerebrale àeW'ala magna sphenoidalis e dell'angolo sfenoidale del parietale,
sino alla estremità laterale del margine posteriore tagliente del pavimento della
fossa cranica anteriore, ove si continua con un canale comunicante con la cavità
orbitaria; tale solcatura è evidentemente destinata ai vasi meningei medi: di questi
le vene, mancando il foro spinoso , sono tributarie dell' emissario petrosquamoso,
le arterie invece originano dall'«. lacrimalis. Dal lato sinistro il fondo della doc-
ciatura per i vasi meningei medi presenta, in corrispondenza della sutura squa-
mosoalisfenoide , un orificio ovalare ampio 1 min., il quale dà origine ad un breve
canale aprentesi all'esterno nella fossa infratemporale, immediatamente al di sopra
della cresta omonima, con un altro orificio situato appunto in rapporto della sutura
squamosoalisfenoide, essendo tuttavia scavato per maggior parte nella squama
temporale.
Tale foro, che ha pure il valore di un emissario prezigomatico, manca completa-
mente a destra: da questo lato invece ve ne ha un altro scavato (fp) completamente
nella porzione posteriore della squama, ad 1 cm. circa posteriormente e superior-
mente alla parte alta dell'orificio auditivo esterno, subito al di sotto del prolunga-
mento posteriore smusso della linea temporalis, tra questo e la cresta assai pronunciata,
che continua in avanti ed in basso sulla squama temporale la linea curva occipitale
superiore: tale forellino è ovalare, ampio 1 mm., e conduco in un canale obliquamente
diretto in avanti e medialmente per sboccare all'endocranio nella porzione della
docciatura per il seno petrosquamoso trasformata in canale: una setola introdotta
dall'apertura esterna di questo canalino può con tutta facilità entrare nella cavità
craniana e fuoriuscire dall'apertura più ampia posta medialmente e dorsalmente al
cono articolare.
Riassumendo, nel cranio del nostro S. entellus noi troviamo tre specie di emissari:
1° dai due lati vi ha un canale, che, per la ubicazione della sua apertura esterna, si
può classificare come emissario sottozigomatico posteriore, da considerarsi come una
varietà dei sottozigomatici mediali, per quanto la sua posizione dorsalmente al cono
45 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 203
articolare sia puramente secondaria al grande e caratteristico sviluppo del cono
articolare stesso; 2° dal lato sinistro vi ha un emissario prezigomatico superiore e come
tale si può ritenere anche se si apre nella sutura squamosoalisfenoide ; 3° dal lato
destro ne esiste invece un altro, che, per la ubicazione della apertura esocranica, noi
potremmo chiamare emissario postsquamoso, giusta la denominazione di Cope per altri
Mammiferi. Che quest'ultimo, da noi mai riscontrato nell'Uomo, come anche il pre-
zigomatico, di cui pure abbiamo trovato non frequenti esempi nell'Uomo e negli An-
tropomorfi (Hylobates), abbiano realmente il valore di veri canali emissari è facilmente
e chiaramente dimostrato dai rapporti, che ciascuno di essi contrae colle solcature
endocraniane lasciate dal seno petrosquamoso e dai vasi meningei medi. Nessuna
traccia esiste di forami sottozigomatici laterali.
In un cranio di S. obscurus (ad.), come in uno di S. sp. ? mancano invece tutte
le traccie delle tre specie di emissari ora descritti : in un altro finalmente (M. d'An.
Comp.) esisteva subito medialmente al cono articolare un piccolo forellino circolare
del diametro di 1 min. {emissario sottozigomatico mediale).
Ancora in questa sottofamiglia il nostro giudizio è riservato per 2 crani di Colobus
(C. ursimts e C. guereza) per le condizioni di macerazione non adatte ad un accu-
rato esame.
Subfam. Cercopithecinae — Noi abbiamo avuto a nostra disposizione un materiale
molto abbondante di questa sottofamiglia, e cioè complessivamente 86 crani delle
varie specie (Cercopithecus, Cercocebus, Macacus, Oynopithecus, Theropithecus, Papio).
Dobbiamo avvertire che le condizioni di macerazione di taluni di questi crani im-
pedirono di poterci pronunciare recisamente sulla esistenza o mancanza degli emissari
squamosi; come pure è da ricordarsi che solo nella raccolta, però relativamente ricca,
dell'Istituto Anatomico di Torino ci fu possibile di esaminare contemporaneamente
anche la faccia interna del cranio.
Gen. Cercopithecus. — Degli 86 crani della sottofamiglia, 27 appartengono
al genere Cercopithecus p. d. e più precisamente 3 C. sabaeus, 1 C. griseoviridis, 1 C. la-
landii, 1 C. diana e 21 C. sp.?. Gli emissari squamosi e petrosquamosi, che occor-
rono nei Cercopiteci sono di due specie e più precisamente emissari sottozigomatici
laterali e sottozigomatici mediali; quest'ultimi sono anche più frequenti, enormemente
più ampi comparativamente a quelli laterali, la cui importanza, astrazion fatta dalla
loro presenza, è assolutamente minima.
Le due categorie di canali, data la maggior frequenza di quelli mediali, occorrono
naturalmente nello stesso tempo nel medesimo cranio. In complesso nei Cercopiteci
possiamo asserire che, sia nei giovani come negli adulti, i canali petrosquamosi sotto-
zigomatici mediali, i quali sono anche gli unici che per la loro ampiezza possono
realmente funzionare da emissari, esistono almeno in metà dei casi, avendoli noi
trovati presenti dai due lati e con caratteri costantemente identici in 12 casi, solo
dal lato destro in un unico caso; ne mancava ogni benché minima traccia in 11,
mentre in 3 l' incompleta macerazione e il mancato esame della cavità cranica ci
vietano dare un giudizio definitivo. Nei 13 crani di Cercopiteci, in cui noi abbiamo
avuto un reperto positivo (1 C. diana, 1 C. lalandii, 10 C. sp.? dai due lati; 1 C. sp.?
204 ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAMITA 46
solo a destra), l'emissario petrosquamoso si apre costantemente all'esocranio con una
apertura più o meno ampia (da min. 1 a 2,5), circolare nei giovani individui, ridotta
ad una fessura allungata in direzione frontale negli individui adulti; la ubicazione
di tale apertura è sempre medialmente al cono articolare ben sviluppato, in forma di
una lamina appuntita, fortemente schiacciata in senso anteroposteriore, emissario sotto-
zigomatico mediale pr. d.\ talvolta, e specie negli individui adulti a completo sviluppo
del cono, l'apertura dell'emissario appare situata posteriormente al margine mediale
del cono stesso, in guisa da costituire, come nel Semnopithecus, un emissario sotto-
zigomatico posteriore; in ogni caso però è in tutta vicinanza della fissura Glaseri dalla
cui estremità laterale è separata mediante un sottile ponticello osseo : la sporgenza
del cono posto anteriormente e quella dell' osso timpanico situato in addietro pos-
sono facilmente mascherare lo sbocco dell'emissario, in guisa da risultare necessario
un esame accurato per escluderne la mancanza. Dalla apertura ha origine un breve
canale, il quale ha per lo più una direzione alquanto obliqua medialmente ed in
avanti e riesce all'endocranio con uno sbocco circolare, ampio generalmente 1 min.
circa, posto nella sutura petrosquamosa. Dorsalmente allo sbocco endocranico la sutura
petrosquamosa si trasforma in una solcatura per il seno omonimo, solcatura che,
allargandosi e facendosi meno marcata in addietro, raggiunge la parte alta del solco
per il seno sigmoide.
Alla apertura endocranica dell' emissario petrosquamoso arriva pure costante-
mente una solcatura sagittale corrispondente ai vasi meningei medi, appunto come
abbiamo visto di già nel Semnopithecus. È da notarsi come, anche nei casi in cui
manca ogni traccia di canali emissari petrosquamosi dell'uno o dell'altro gruppo, è
costante la docciatura per il seno petrosquamoso , continuantesi in avanti con una
solcatura più superficiale e ristretta per i vasi meningei medi. Abbiamo osservato
parecchie volte una evidente asimmetria nell'ampiezza sia dei canali emissari sotto-
zigomatici mediali dei due lati, come della docciatura per il seno petrosquamoso. In
tutti i crani di Cercopiteci poi ci è parso che il foramen jugulare sia sempre rela-
tivamente ristretto per rispetto all'ampiezza del seno sigmoide corrispondente, onde
è logico ammettere che una buona parte del sangue endocraniano sia esportato per
mezzo dei seni e plessi venosi vertebrali, come anche probabilmente per mezzo del
furo, uni lacerum anterius, a cui arriva, come d'ordinario, il prolungamento anteriore
del seno petrosquamoso occupante la porzione della sutura omonima posta ventral-
mente allo sbocco dell'eventuale emissario petrosquamoso sottozigomatico mediale.
I canali emissari la cui apertura è situata lateralmente al cono articolare non
sono stati mai finora ricordati dagli altri AA. nei crani scimmieschi; la loro esistenza
è tuttavia indubbia almeno in un terzo dei casi da noi studiati. Infatti si riscontra in
corrispondenza del punto in cui il margine laterale del cono , più o meno robusto,
va via via allargandosi per confondersi colla faccia inferiore della radice sagittale
dell'apofisi zigomatica, immediatamente al di sotto della sporgenza più o meno pro-
nunciata di questa radice, un forellino minutissimo, veramente microscopico, sonda-
bile mediante uno dei più fini crini di cavallo per lo più solo per breve tratto: tali
forellini sono volta a volta doppi da ciascun lato, visibili nettamente solo con una
lente, talvolta apparenti solo sotto forma di una leggerissima, appena percettibile in-
taccatura dell'estremità basale del margine laterale del cono, continuati tal' altra
47 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOS1 205
verso l'esterno da un'esile docciatura ; e si potrebbe rimanere in forse nell'attribuire
ad essi il significato di veri emissari, se noi non avessimo potuto in due casi, e cioè
in un Maeacus nemestrinus (ad.) ed in un M. sp. ? (giov., Istit. Anat.) e dai due lati
far penetrare nel canale, che fa seguito a tale fine apertura, una esilissima setola:
il canale decorre nei due casi quasi orizzontalmente in dentro ed un po' in alto,
per riuscire all'endocranio nello stesso punto di sbocco dell'ampio canale sottozigo-
matico mediale, nel fondo della estremità anteriore allargata del solco per il seno
petrosquamoso. La loro estrema picciolezza spiega perchè difficilmente possano es-
sere dimostrati senza un esame molto accurato e spiega pure perchè siano stati
finora completamente trascurati : ma nello stesso tempo autorizza la supposizione
che il loro ufficio sia pressoché nullo: sarebbe al riguardo assai interessante stu-
diare comparativamente la occorrenza degli emissari dei due sottogruppi nei crani
fetali per stabilire se in un certo periodo gli uni e gli altri si equivalgano funzio-
nalmente.
E poiché la concomitanza dei canali dei due gruppi si verifica pure, come
vedremo, anche negli altri generi della subfam. Cercopithecinae con i medesimi rap-
porti di ampiezza, è d'uopo accennare qui come nei rari casi in cui, nella nostra
specie, occorrono dallo stesso lato due emissari che, per la ubicazione della loro
apertura esterna, siano da classificarsi rispettivamente come emissari sottozigomatici
laterali ed emissari sotto zigomatici mediali, mentre confluiscono all'endocranio in un'unica
apertura, si abbia una riproduzione esatta di quanto , con frequenza enormemente
maggiore, si verifica nei crani di queste Scimmie.
In tutta la serie dei Cercopiteci osservati non ci venne fatto riscontrare inai
degli emissari al di sopra od in avanti della apofisi zigomatica. In 2 crani però
{Cere, sp.?), una volta dai due lati, un'altra solo a destra, abbiamo constatato nella
parte alta delia squama e verso la sua metà, a 3-4 mm. dalla sutura parietosqua-
mosa, 1' esistenza di un esilissimo forame in forma di fessura aperta in alto, dalla
quale origina un canalino decorrente in basso e medialmente nello spessore della
squama ed aprentesi all'interno del cranio in tutta prossimità del punto della sutura
petrosquamosa a cui arriva la solcatura per i vasi meningei medi: detto canalino
era probabilmente occupato da un ramo della a. meningea media distribuentesi al-
l'esocranio come a. temporalis profunda posterior e dalle sue vene satelliti, appunto
come abbiamo visto di già nell'Uomo e come vedremo, in modo anche più complicato,
nei Cercocebus.
Gen. Cercocebus. — In due C. fuliginosus abbiamo avuto dai due lati reperto
completamente negativo, per ciò che si riferisce agli emissari sottozigomatici laterali,
positivo invece per gli emissari sottozigomatici mediali. L'apertura esocranica di
questi è esclusivamente mediale al cono articolare, di forma ovalare, ampia mm. 1,5,
situata tra la estremità laterale della scissura di Glaser ed il margine mediale del
cono articolare, a ridosso dell'osso timpanico. Il canale che le fa seguito è asso-
lutamente breve e si apre all'endocranio, come abbiamo verificato in un esemplare
molto interessante (Ist. Anat.), nel fondo del solco petrosquamoso (Fig. 23 eps, sj)s), nel
punto in cui la sutura omonima da sagittale si fa obliqua in avanti e medialmente :
il solco per il seno petrosquamoso è solo evidente dorsalmente allo sbocco dell'emis-
206 ALFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAMIDA 48
savio ed è tuttavia assai ampio, a labbra smusse. All'apertura endocranica dell'emis-
sario arriva, come abbiamo di già visto in altri crani di Scimmie, la docciatura
diretta sagittalmente, per i vasi meningei medi: vi hanno però differenze rilevanti
nei rapporti delle varie parti dai due lati. A destra esiste un foramen spinosum
molto ampio (Fig. 23 fs), a cui fa seguito lateralmente una netta solcatura, la quale
raggiunge con direzione quasi frontale la solcatura sagittale per i vasi meningei
medi. A sinistra invece il foramen spinosum e la corrispondente docciatura mancano
completamente; il forameli lacerum anterius è più ampio che a destra, così pure è
assai più largo il canale osseo che fa comunicare ventralmente la docciatura per
i vasi meningei con la cavità orbitaria sinistra. Le differenze dei due lati sono
secondarie alla presenza, pure con alcune diversità a destra ed a sinistra, di canali
anomali attraversanti la squama temporale, certamente in relazione con una origine
anomala dall'a. meningea media dell'a. temporalis profunda posterior, sulla quale ci
siamo per altro già a lungo intrattenuti.
A destra sulla superficie esterna dell'osso squamoso, a circa 15 mm. al di sopra
della base del processo zigomatico vi hanno (Fig. 22) due forami ovalari in forma
di fessura, tagliati molto obbliquamente a spese del tavolato esterno della squama :
di questi uno è posteriore, situato lungo una linea, che prolungasse verticalmente
in alto l'asse del cono articolare, a mm. 6 dal margine superiore della squama; ed
uno è anteriore posto 8 mm. ventralmente al precedente, a 9 mm. dal margine supe-
riore della squama, leggermente più ampio di quello posteriore. Detti forami rappre-
sentano l'apertura esterna di due canali indipendenti scavati nello spessore della
squama stessa, fra loro convergenti in basso e medialmente: dei due canali infra-
squamosi infatti l'anteriore (fisa) si apre nella parete esterna della solcatura sagit-
tale per i vasi meningei medi, nel punto in cui questa si congiunge con la solcatura
ben marcata a direzione frontale, che si inizia al foramen spinosum, in guisa che detto
canale pare continui direttamente nello spessore della squama il decorso della solca-
tura predetta a direzione frontale. Il canale posteriore invece sbocca all' endocranio
4 mm. più in addietro, subito lateralmente al punto in cui la solcatura sagittale
raggiunge lo sbocco superiore dell'emissario sottozigomatico (Fig. 23). Esso nella sua
porzione intermedia è, per un tratto di circa 2 mm. (a), scoperto dall'interno del
cranio, di modo che i vasi che vi decorrevano erano quivi ricoperti immediatamente
dalla dura: poi nella porzione inferiore il canale è di nuovo completo e si apre
infine con uno sbocco relativamente assai più ampio ed evidente che non quello ante-
riore (fisp).
Dal lato sinistro sulla faccia esterna della squama del temporale, a mm. 15
superiormente alla base del processo zigomatico, ad 8 mm. dal margine superiore
della squama si ritrova un forame ovalare, più ampio di quelli di destra, per rispetto
ai quali occuperebbe anche una posizione intermedia : esso si continua, come gli altri,
in un canale decorrente pure in basso e medialmente attraverso la squama tempo-
rale: il canalino poi si apre in basso nella fossa media del cranio, alla estremità
laterale di una breve docciatura diretta verticalmente, ampia 1 mm., la quale viene
a terminare allargandosi nella docciatura sagittale per- i vasi meningei medi (più
ampia che a destra), precisamente nel punto ove questa raggiunge l'apertura endo-
cranica dell'emissario sottozigomatico mediale.
49 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMoSI 207
Non è più il caso di insistere ancora qui sul significato dei canali infrasquamosi
ora descritti : piace a noi far rilevare però come è probabile che a destra esistessero due
rami arteriosi {aa. temporali profonde posteriori) originanti da una a. meningea media
proveniente, attraverso il foro spinoso molto ampio, direttamente dall'a. mascellare
interna, mentre il ramo dato dall'a. lacrimale aveva un'importanza affatto secondaria,
disposizione questa che sarebbe, già di per se , cioè indipendentemente dall' ori-
gine delle aa. temporali profonde posteriori, anomala nelle Scimmie di questa specie
[Tandler (67)]. A sinistra invece l'a. meningea media proveniva con tutta probabilità
esclusivamente dall'a. lacrimale, come deporrebbe l'ampiezza del canale scavato fra
l'angolo sfenoideo del parietale e le estremità laterali dell' alisfenoide e della pars
nrbitalis del frontale, mentre, se pure esisteva, il ramo della a. mascellare interna
entrava nel cranio a traverso il foro lacero ed aveva un'importanza secondaria. Per
noi poi è specialmente interessante verificare come i rapporti dei canali infrasquamosi
sia con le docciature per il seno petrosquamoso e per i vasi meningei medi, sia
con l' apertura endocranica dell' emissario sottozigomatico dimostrino chiaramente,
ciò che non si poteva asserire recisamente per l'Uomo, che detto emissario adem-
pieva parzialmente pure l'ufficio di via di deflusso per le vene satelliti alle aa. tem-
porali profonde posteriori abnormemente originate.
In un terzo Cercocebus fuliginosus (M. di A. Comp.) il reperto per gli emissari
petrosquamosi delle varie categorie fu assolutamente negativo.
Gen. Macacus. — I crani delle varie specie di questo genere da noi esaminati
sono in numero di 40 e più precisamente 20 Macacus nemestrinus, 6 M. cynomolgus,
4 M. rhesus, 5 M. inuus, e 5 di specie non determinata.
Anche nel genere Macacus, come già nel Cercopithecus, esistono degli emissari
sottozigomatici nettamente distinguibili per la ubicazione della loro apertura esterna
in due sottogruppi. Gli emissari sottozigomatici laterali, posti a ridosso della parte alta
del margine laterale del cono articolare, occorrono con frequenza di poco superiore
a quella dei Cercopiteci ; sono anche nei Macachi assolutamente microscopici , dif-
ficilmente permeabili ad mia finissima setola, precisamente come abbiamo visto prima :
solo in un M. nemestrinus ad. (Fig. 24 fszl) ci riusci con opportuni artifici (iniezione di
liquido colorato) e da un sol lato a dimostrare la comunicazione del canalino stesso
coll'endocranio con uno sbocco comune allemissario sottozigomatico mediale molto più
ampio: del resto valgano la descrizione e le considerazioni fatte per i corrispondenti
emissari del gen. Cercopithecus.
Invece la esistenza degli emissari sottozigomatici mediali va diventando nel
Macacus un fatto quasi costante: difatti, esclusi 7 crani (6 di M. nemestrinus ed 1 di
M. inuus), nei quali noi non possiamo per le condizioni di macerazione pronunciarci
sulla loro esistenza o sulla loro mancanza, noi abbiamo ritrovato detto emissario
bilateralmente in 28 crani (6 M. cynomolgus, 9 M. nemestrinus, 4 M. rhesus, 4 M. inuus,
5 M. sp.?): in un cranio di M. nemestrinus il canale emissario esisteva solo dal lato
sinistro, in altri 4 della stessa specie invece non siamo riusciti a persuaderci della sua
esistenza, avvertendo però che il nostro esame si riferisce solo alla faccia esocranica
della corrispondente regione. Anche la posizione dell'apertura esterna dell'emissario
è affatto costante e cioè medialmente al cono articolare, oppure subito posteriormente
j - ALFONSO BOYEKO — UMBERTO CALAMIDA
50
al margine mediale del cono stesso (Fig. 24 fszm), fra questo e la porzione corri-
spondente dell'osso timpanico. La posizione esclusivamente mediale è propria degli
individui giovani: coll'accrescimento in larghezza del cono l'apertura dell'emissario
appare spostata un po' posteriormente, onde si possono facilmente trovare le varie
forme di passaggio: nei giovani l'apertura è relativamente più ampia (2-3 mm), spesso
circolare; negli individui adulti invece essa è ovalare, più spesso a mo' di fessura,
talvolta mascherata dalla sporgenza del cono e dell'osso timpanico. Tre volte noi
abbiamo verificato una evidentissima asimmeti'ia nell' ampiezza dell' apertura stessa
da uno all'altro lato, fatto questo che si ripeteva pure all'endocranio nell'ampiezza
dell' apertura superiore e del solco per il seno petrosquamoso corrispondente: in
2 crani di M. nemestrinus Y emissario di sinistra aveva un calibro quasi triplo di
quello di destra, essendo questo ridotto ad un forellino appena permeabile ad una
fine setola; tale asimmetria spiega la possibilità (1 M. nemestrinus) della mancanza
completa dell'emissario di un lato.
Per ciò che si riferisce alla ubicazione dell'apertura endocranica dell'emissario,
come al comportamento del solco per il seno petrosquamoso, il gen. Macacus non
differisce punto dagli altri precedentemente studiati della sottofamiglia Cercopithecinae.
Il solco per il seno petrosquamoso però, comparativamente a quello del gen. Cerco-
pithecus, ci è parso generalmente, nella porzione posta dorsalmente all'apertura endo-
cranica dell'emissario, più ampio e più profondo anche negli individui giovani, deli-
mitato nei crani di adulti da labbra taglienti : in un cranio di M. cynomolgus dai due
lati la porzione posteriore di detta solcatura è trasformata in un ampio e lungo
canale, suturandosi fra loro il tavolato interno del parietale e il margine superiore
della base della piramide: una disposizione analoga, però assai meno accentuata, esiste
a sinistra in un cranio di M. nemestrinus, nel quale una ristretta lamella ossea dipen-
dente dal petroso si porta lateralmente a riunirsi col parietale. Le connessioni ed i
rapporti delle solcature per i vasi meningei medi, come nei Cercopiteci, dimostrano
chiaramente come l'emissario petrosquamoso serva non solo al deflusso del sangue
dal seno omonimo, ma anche di quello, o per lo meno di gran parte, delle vene me-
ningee medie. Il foramen jugulare come nei precedenti è, relativamente all'ampiezza
delle solcature dei seni, considerevolmente ristretto.
È infine da accennarsi come in un M. inuus, molto interessante per altre varietà
dello scheletro facciale, esiste a sinistra un canalino che dalla parte alta della super-
ficie esterna della squama temporale si porta in basso e medialmente nello spessore
della squama stessa per terminare nella fossa cranica media: il suo comportamento,
come il suo significato, sono perfettamente identici a quelli dei canali già da noi
descritti ripetutamente nell'Uomo, nel Cercocebus fuliginosus e nel Cercopithecus.
Gen. Cynopithecus, Theropithecus, Papio. — Aggruppiamo assieme i tre generi
precedenti perchè il comportamento degli emissari squamosi o petrosquamosi è affatto
identico in tutti, come è sostanzialmente simile a quello descritto pei Cercopiteci e
pei Macachi. Il nostro esame volge su 3 Cynopithecus nigrescens, 1 Theropithecus gelada,
2 Papio porcarius, 1 P. mormori, 1 P. sphinx, 3 P.hamadryas e 5 Cynopithecus sp.?
Anche in questi crani, come in quelli di Cercopiteci e di Macachi, occorrono le due
specie di canali emissari sottozigomatici mediali e laterali, gli uni e gli altri coi
51 (ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 209
soliti caratteri, sia per ciò che si riferisce alla frequenza, come alla loro ampiezza
ed importanza.
Dei canali sottozigomatici laterali noi accenneremo solamente come siano com-
plessivamente più rari di quelli mediali e come la loro presenza non appaia in rela-
zione diretta con l'età, potendo essere presenti in crani di individui giovanissimi,
come in crani di individui adulti e vecchi. I canali delle due categorie occorrono
generalmente dallo stesso lato del medesimo cranio: solo in un Theropithecus yelada,
mancando l' emissario sottozigomatico mediale dal lato sinistro , è da questo lato
alquanto più ampio che a destra un emissario sottozigomatico laterale, permeabile
ad una setola fino alla solcatura per il seno petrosquamoso , ristretto in forma di
fessura (Fig. 25 eps). Per contro in un Cynopithecus nigrescens ad., dal lato destro
mancando il forame sottozigomatico mediale, manca pure ogni traccia del laterale,
mentre a sinistra entrambi sono presenti con gli abituali caratteri.
Per il canale emissario sottozigomatico mediale i caratteri sono affatto analoghi
a quelli dei generi precedenti : 1' apertura esocranica è posta medialmente al cono
articolare sempre robustamente sviluppato, oppure subito in addietro del margine
mediale del cono stesso. Tale emissario è presente dai due lati in 2 Cynopithecus
nigrescens, in un altro invece manca completamente dal lato destro: in un Theropi-
thecus gelada, come in un Cynopithecus sp.? manca invece a sinistra: in tutti gli
altri sovra accennati esso esiste bilateralmente, alcune volte più ampio da un lato
che dall'altro : nei casi di asimmetria anche la solcatura petrosquamosa corrispon-
dente presenta differenze nell'ampiezza da uno all'altro lato. Del resto detto solco
offre i soliti caratteri, è costantemente molto marcato, spesso a labbra taglienti. La
sua chiusura a costituire un canale occorre abbastanza di raro, avendola constatata,
su 16 crani dei vari generi, solo 2 volte e dal lato sinistro e più precisamente in un
C. nigrescens (Fig. 25 ci) ed in un P. porcarius; in quest'ultimo la parte coperta dal
canale è lunga 12 mm.
Riassumendo, per quanto riguarda la subfam. Cercopithecinae noi possiamo asse-
rire che gli emissari petrosquamosi occorrono nei vari generi con una frequenza
molto maggiore di quanto non sia ammesso dai vari AA., che ci precedettero nello
studio di questo argomento. Lasciando in disparte i casi eccezionali di forami anomali
della parte alta della squama temporale (Gercocebus, Cercopithecits, Macacus inuus), il
cui significato è d'altra parte molto diverso, noi abbiamo potuto vedere come quasi
costantemente esistano degli emissari, che si aprono all'esterno in una posizione pure
costante nei vari generi, cioè medialmente al cono articolare: abbiamo notato anche
come quasi solo a questi si debba, per la loro ampiezza, dare il valore di emissari
venosi. Invece ad altri canali aprentisi all' esterno sul margine laterale del cono
articolare, straordinariamente piccoli e meno frequenti, pur non negando loro assolu-
tamente il valore di emissari, si deve assegnare un' importanza molto secondaria, per
quanto, non ostante la loro frequenza (1/3 dei casi), siano stati finora completamente
trascurati.
Fam. Cébidae. — I reperti dei vari AA. nelle Scimmie platinine sono un
po' più concordanti dei risultati riferiti per le catarrine. Tralasciando i cenni di
Otto (50) e di Luschka (45 a b), noi vediamo difatti come Cope (9) ammetta nel Cebus
Serie II. Tom. LUI. E1
210 ALFONSO BOTERÒ UMBERTO CALAMUIA
52
un foro postglenoide ed uno postparietale, mancando invece ogni traccia di foro nel-
ì'Ateles, Callitrix e Mycetes; Lowenstein (44) invece avrebbe riscontrato costantemente
dietro la porzione mediale del cono articolare il foramen jugulare spurium in 3 Ateles,
5 Cebus, 3 Mycetes: così pure Kopetsch (34) sopra 6 Mycetes avrebbe trovato il
forame» jugulare spurium dietro il robusto cono articolare, molto ampio in 4, appena
percettibile in 2; esso esisteva pure nei 3 Ateles e nei 7 Cebus da lui esaminati,
vale a dire più o meno pronunciato in tutte le 16 platirrine osservate. Cheatle (8)
ne afferma la esistenza nel Cebus e nel Crysotrix, mentre secondo Cabibbe (4) man-
cherebbe nel Cebus apella.
I nostri reperti confermano essenzialmente i risultati dei differenti AA., allar-
gando anzi di molto per certi riguardi le nozioni che si avevano sul numero e sul-
l'ubicazione dell'apertura esocranica degli emissari temporali stessi, in quanto si sono
sempre considerati quasi esclusivamente come tali solo quelli aprentisi all'esterno
caudalmente alla radice sagittale dell'apofisi zigomatica.
Subfam. Mycetinae. — I crani di questa sottofamiglia avuti in esame sono 8 :
fra essi dobbiamo però escludere un M. flavicauda perchè la condizioni di macera-
zione dello stesso impedivano di ben scorgere le regioni corrispondenti allo sbocco
degli eventuali emissari. Negli altri 7 (3 Mycetes seniculus niger, 4 M. sp. ?) noi abbiamo
trovato due specie di canali emissari venosi temporali e più precisamente da clas-
sificarsi rispettivamente come prezigomatici superiori e come sottozigoma fici mediali.
Gli emissari prezigomatici superiori sono assolutamente costanti e dai due lati
in tutti i 7 crani sovraccennati, in guisa che si può ben asserire che tale ubica-
zione, da noi riscontrata come rarissima anomalia nel cranio umano e come occor-
renza pure eccezionale in altre Scimmie (Hylobates), costituisce una caratteristica
fissa dei Mycetes. Il forame prezigomatico si apre nella porzione della squama, che
guarda la fossa infratemporale, essendo situato ad 1-2 mm. (Fig. 26 fps, ci) al disopra
della sporgenza della cresta omonima: il calibro di detta apertura varia molto nei
diversi esemplari, da un forame ampio mm. 1-1,5 ad un microscopico forellino, che
dà passaggio solo ad un fine crine di cavallo (1 M. sp.? ad.). Il calibro può variare
anche dai due lati ; a noi occorse infatti di verificare in un .1/. seniculus niger (Fig. 26)
che il forame di destra era doppio di quello sinistro; ciò è forse in relazione col
fatto che a destra mancava un emissario sottozigomatico mediale, esistente invece a
sinistra. L' apertura esocranica prezigomatica può essere anche doppia come in un
M. seniculus niger ad. (M. d'An. Comp.) a destra. Ad ogni modo il canale originante
da detta apertura si porta in dietro nello spessore della squama e, dopo breve tratto,
si apre all' endocranio , sotto forma di una fessura più o meno regolare nel fondo
della docciatura per il seno petrosquamoso : nel solo caso in cui noi abbiamo potuto
esaminare la cavità craniana {M. seniculus niger ad. ; Ist. Anat.), tale solco era poco
pronunciato, a margini smussi, confluente in addietro col solco sigmoide, mentre in
avanti, ventralmente allo sbocco dell'emissario prezigomatico, riceve la solcatura
sagittale più ristretta per i vasi meningei medi.
Gli emissari sottozigomatici mediali sono invece meno costanti ; diffatti fra i 7 casi
sovra ricordati, dovendosene ancora escludere uno perchè l'esame è reso impossibile
dalla macerazione incompleta, ne manca ogni traccia dai due lati in 1, nel quale
53 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 211
anche i prezigomatici sono pure bilateralmente piccolissimi, esiste solo a sinistra
molto piccolo in un altro (M. seniculus niger ad. ; Ist. Anat.), mancando invece a
destra. Del resto anche 1' ampiezza di tale emissario negli altri casi è, comparati-
vamente a quanto abbiamo riscontrato ad es. nei Cercopiteci, Macachi, Cebidi, Hapa-
lidi, assolutamente minima, sì da permettere solo il passaggio di una piccola setola.
Essi si aprono all'esterno immediatamente all'indietro del margine mediale, per lo
più tagliente, del cono articolare, fra questo e l'osso timpanico in guisa che l'aper-
tura stessa può essere mascherata: l'apertura endocranica, corrispondentemente pic-
cola, si fa pure, nel solo caso in cui ci è stato possibile l'esame endocranico, in fondo
della docciatura per il seno petrosquamoso , a 3 min. dorsalmente all'apertura del-
l'emissario prezigomatico. Dobbiamo notare ancora nei Mycetes la forma caratteristica
del cono articolare, il quale si presenta come una lamina sempre robustamente
sviluppata e fortemente ricurva in avanti ed in basso a mo' di un becco. Nei vari
casi non abbiamo potuto verificare l'esistenza di alcun altro emissario squamoso :
dato il rapporto fra il calibro dei canali delle due categorie è indubbio che i canali
sottozigomatici mediali, per quanto frequenti, giuocano nei Mycetes, comparativamente
ai prezigomatici, un ufficio affatto secondario.
Subfam. Cebinae. — In 2 crani di Brachyteles tuberifer ed in 1 di Ateles paniscus
noi abbiamo riscontrato dai due lati due specie di emissari squamosi; e cioè
un' apertura relativamente ampia (1 mm.) posta immediatamente dietro al margine
mediale del cono articolare ed inoltre un' altra fine apertura posta nella parte ante-
riore della squama subito al di sopra della crista infratemporalìs, in una posizione
cioè perfettamente identica a quella del foro analogo descritto nel Mycetes: da questo
il foro prezigomatico differisce solamente per la maggiore piccolezza relativa: dei
detti 3 crani ci manca 1' esame endocranico, in guisa che nulla possiamo dire rela-
tivamente al rapporto dei rispettivi canali emissari col solco per il seno petro-
squamoso.
Assai diversamente si comportano gli emissari nel gen. Cebus e le differenze si
differiscono sia all'ampiezza veramente grande degli emissari sottozigomatici, alla man-
canza assoluta di prezigomatici, come alla comparsa quasi costante di altri emissari,
da noi riscontrati nelle Scimmie finora solo eccezionalmente (Semnopithecus, Fig. 21),
e che chiameremo emissari postsquamosi.
In 14 crani di Cebus (6 C. capucinus, 3 C. fatuellus, 5 C. sp. ?) noi abbiamo riscon-
trato costantemente dai due lati, in individui giovani come in adulti, immediatamente
indietro al margine od alla metà mediale del cono articolare, nell'interstizio triango-
lare a base laterale compreso fra la faccia posteriore del cono ed il cercine timpanico,
un forame circolare od ovalare, relativamente ampio (2-3 mm.), a margini regolari,
che si può ben considerare come un emissario sottozigomatico posteriore, ritenendo
naturalmente questi, per le ragioni addotte ripetutamente, come una sottovarietà
degli emissari sottozigomatici mediali: talvolta vi ha dai due lati un' evidente asim-
metria nell' ampiezza di detta apertura : tal' altra questa è come scavata al fondo
di una doccia della faccia posteriore del cono articolare stesso. Date le dimensioni
generali del cranio, come degli organi circoscriventi la regione in cui si aprono
detti emissari, essi sono i più ampi ed i più regolari di quanti già abbiamo descritto
21 li ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 54
nelle altre famiglie di Scimmie. All'ampia apertura esocranica corrisponde all'endo-
cranio un foro pure ugualmente largo, per lo più regolarmente circolare, il quale
si apre alla estremità anteriore di un' evidente solcatura petrosquamosa , limitata
da due labbra nettamente rilevate: in uno dei crani in cui l'esame della cavità ci
fu possibile, tale solcatura è dai due lati, ma per un tratto maggiore a destra, tras-
formato in un canale da una spicola ossea che dal petroso si porta lateralmente
verso il tavolato interno dell'osso parietale. E interessante notare come in detto
caso, da ciascun lato, la docciatura si prolunghi in addietro nettamente marcata
oltre 1' estremità superiore del seno sigmoide , sino alla apertura endocranica del
foro mastoideo, posta alla parte alta della sutura occipitomastoidea, cioè esattamente
all'asterion.
Mentre il foro emissario sottozigomatico esiste in tutti i Cebus da noi esami-
nati, meno costante per la esistenza come per la ubicazione ci è parso l'emissario
postsquamoso. Anzitutto esso manca completamente dai due lati in 2 crani di C. sp. ?
ed in un C. capucinus (juv.); in un C. fatuellus manca a sinistra ed è appena per-
meabile dal lato destro. Nella maggior parte degli altri casi però (in 7 crani bila-
teralmente, in 1- solo a destra) il forame postsquamoso , per lo più regolarmente
circolare, ampio mm. 0,5-1,5, si trova situato nella sutura parietotemporale e più
precisamente nel punto in cui la sutura parietosquamosa, solo leggermente curva
per non dire appianata, si continua con la parietomastoidea, vale a dire nell'angolo
ampiamente ottuso delimitato dal margine superiore della squama e da quello della
pars mastoidea: esso si troverebbe cioè immediatamente al di sopra dell'estremo po-
steriore della linea temporale, in corrispondenza di una retta, che prolungasse verti-
calmente in alto l'attacco del corno posteriore del cercine timpanico; in tutti però, per
quanto collocato nella sutura, il forame interessa quasi esclusivamente la squama,
essendo solo chiuso per brevissimo tratto in alto ed in addietro dal tavolato esterno
del parietale. In 2 crani (1 C. fatuellus, 1 C. capucinus) dai due lati il forame pre-
detto, invece di trovarsi direttamente nella sutura, è per contro posto subito in avanti
di questa, scavato completamente nello spessore della parte alta e posteriore del
tavolato esterno della squama, essendo separato dalla sutura mediante un interstizio
di mezzo millimetro circa, in guisa che il parietale non entra punto a circoscriverne
l'apertura; tale disposizione si verifica pure dal lato destro di un altro C. fatuellus,
mentre a sinistra il forame, più ampio, corrisponde al punto in cui confluiscono le
suture parietosquamosa e parietomastoidea. In ogni caso tale forame, sia che cor-
risponda alla sutura, come alla squama, e specialmente in quest'ultimo caso, ha un
calibro sempre minore di quello costante posto dorsalmente al cono articolare: la
sua presenza coesiste anche sempre col foro mastoideo più o meno ampio, talvolta
in forma di larga fessura, posto a varia altezza della sutura occipitomastoidea o nel
margine posteriore della pars mastoidea del temporale. Vi hanno anche talvolta va-
riazioni nel calibro del canale dei due lati. Il canale che fa seguito al forame post-
squamoso è corrispondentemente ampio, si dirige in avanti ed alquanto medialmente
per aprirsi nella parete laterale della porzione posteriore della solcatura per il seno
petrosquamoso: nel caso sovra accennato, in cui questa è trasformata in canale,
l'apertura endocranica dell'emissario postsquamoso corrisponde appunto alla porzione
coperta, ed una grossa setola, introdotta dal foro postsquamoso, imboccando il detto
55 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 213
canale può facilmente fuoriuscire ancora dal cranio attraverso il forame emissario
sottozigomatico. Noi vedremo più esagerata ancora tale disposizione nelle Hapalidae.
Riassumendo, mentre i gen. Atéles e Bracìujteles per la presenza di un canale
prezigomatico concomitante ad uno sottozigomatico mediale si possono avvicinare
chiaramente al gen. Mycetes, il gen. Cebus se ne differenzia affatto perchè, concomi-
tantemente al sottozigomatico, possiede come carattere quasi costante, non più un
emissario prezigomatico, ma bensì un postsquamoso: non è escluso, ciò che potrebbe
risultare dall'esame di materiale più abbondante, che anche nel gen. Ateles e Bra-
cìujteles possa occorrere un postsquamoso e nei Cebus un prezigomatico: data tut-
tavia 1' affinità dei vari generi della detta sottofamiglia , non pare tuttavia inutile
accennare al comportamento diverso negli uni e negli altri degli emissari temporali.
Subfam. Pithecinae (Brachyrus). Subfam. Nyctipithecinae (Callitrix, Crysotrix). —
In un Brachyrus calvus ad. le condizioni di macerazione del cranio non ci permet-
tono di pronunciarci sulla esistenza di emissari posteriormente al cono articolare:
certamente mancano emissari postsquamosi.
Invece in 3 Callitrix ad. esiste dai due lati un foro ovalare, specialmente ampio
in 2 crani e dai due lati, esilissimo in un altro sì da permettere appena il pas-
saggio ad una fine setola, posto, come nei Cebus, subito dietro il margine mediale
del cono articolare. In un cranio solo esiste bilateralmente nella porzione anteriore
dell'angolo mastoideo del parietale un esile forellino, che conduce in un canale diretto
in avanti verso il solco per il seno petrosquamoso.
In 2 crani di Crysotrix sciurea juv. (Ist. Anat.), dietro e medialmente al cono
articolare relativamente ben sviluppato, fra questo e l'osso timpanico, vi ha da ambo
i lati un forame ovalare. ampio 2 mm. a destra, mm. 1,5 a sinistra, cui corrisponde
nella fossa cranica media un'apertura similare situata all'estremità anteriore di una
ampia solcatura per il seno petrosquamoso, delimitata da labbra taglienti e comu-
nicante dorsalmente colla solcatura sigmoide: tale solcatura, per quanto profonda, è
completamente scoperta. Manca ogni traccia di emissari delle altre categorie.
Fam. Hapalidae. — Negli Arctopiteci la esistenza degli emissari squamosi è
ammessa come carattere costante da tutti gli AA. (Cope, Lòwenstein, Kopetsch,
Cheatle, ecc.): quasi tutti però, salvo il Cope (9), che ricorda nell'Hapale un foro
postglenoide ed uno postquamoso, si riferiscono solo esclusivamente a! primo di questi.
I crani esaminati sono 7 e più precisamente 3 Hajxde jacchus , 1 H. melanura,
1 H. rosolia e 2 H. sp. ? . In tutti i detti crani il comportamento degli emissari è,
salvo un'eccezione, perfettamente simile: abbiamo cioè anche qui, come nel gen. Cebus,
due specie di canali emissari, cioè emissari sottozig ornatici ed emissari postsquamosi:
l'importanza però dei primi è assolutamente secondaria, in genere per la loro
ampiezza prevalendo di molto i postsquamosi, mentre nel Cebus occorre il fatto
inverso. I forami sottozigomatici sono cioè assolutamente esili, sondabili con estrema
difficoltà con una finissima setola, posti subito medialmente al cono articolare ben
pronunciato, in un caso solo immediatamente dietro il margine mediale di questo,
fra esso e il cercine timpanico: la loro picciolezza ed il fatto di essere collocati in
una specie di fessura delimitata dal cono articolare, fortemente appiattito e disposto
con la base obliquamente diretta in dentro e dorsalmente, e dall'attacco del corno
214 ALFONSO BOVEKO UMBERTO CALAJIIDA 56
anteriore del cercine timpanico, ne rende la ricerca spesse volte difficilissima. Tali
forametti conducono nella fossa cranica media al fondo di una ristretta docciatura
decorrente tra la piramide e la squama in addietro e lateralmente. Ventralmente
all'apertura endocranica degli emissari sottozigomatici la docciatura si continua con
una solcatura superficiale per i vasi meningei medi, medialmente si può seguire tra
la piramide e la squama fino al foro lacero anteriore. In addietro, dopo un tragitto
di 2-3 min, la docciatura petrosquamosa si trasforma, nei 2 individui da noi esa-
minati dall'endocranio, in un canale ugualmente ristretto, il quale riesce alla estre-
mità superiore del solco per il seno sigmoide: la parte coperta della solcatura per
il seno petrosquamoso è assai più lunga (5-7 mm.) della parte scoperta (2-3 mm .) :
in altra parola il canale petrosquamosoparietale è più lungo della porzione disposta
semplicemente a doccia, ciò per lo meno nei 2 casi da noi avuti in esame.
I forami emissari post squamosi mancano solo bilateralmente nell'i/, rosolia: negli
altri 6 crani interessano la parte posteriore della squama temporale, essendo scavati
completamente nello spessore di questa, per quanto in 3 casi dai due lati ed in
1 a sinistra il forame si presenti come una intaccatura quasi circolare della porzione
posteriore della squama, completata solo per minimo tratto dal margine opposto del
tavolato esterno del parietale. In ogni modo tali forametti sono più o meno regolar-
mente circolari, imbutiformi, posti immediatamente al di sopra della sporgenza della
linea temporale, nell'angolo ottuso aperto in alto determinato dall'incontro di questa
con la arista mastoidea, verticalmente al di sopra della parte media del poro acustico
esterno: essi sono ampi in media un po' meno di 1 mm. e conducono in un canale
lungo 2-3 mm., diretto obliquamente in avanti, in basso e medialmente per riuscire
nel fondo della docciatura petrosquamosa subito ventralmente al punto in cui questa
si trasforma in canale: la apertura endocranica dell'emissario postsquamoso, rela-
tivamente ampia, e quella ristrettissima dell'emissario sottozigomatico mediale distano
fra di loro 2 mm.: la porzione della docciatura per il seno petrosquamoso trasformata
in canale petrosquamosoparietale è situata affatto dorsalmente all' apertura endo-
cranica dell'emissario postsquamoso non solo, ma il suo sbocco posteriore nel solco
per il seno sigmoide è situato pure assai dorsalmente (3-4 mm.) dell'apertura eso-
cranica del medesimo emissario: data la direzione del canale emissario postsqua-
moso e la ristrettezza della parte scoperta della docciatura per il seno petrosqua-
moso, una setola introdotta dall'apertura esocranica del primo può, con tutta facilita,
cioè senza speciali manovre, quali non si possono compiere nei crani integri, fuori-
uscire ancora dal canale emissario sottozigomatico mediale: in questo caso il canale
postsquamoso funziona realmente come emissario principale per la fossa cranica media,
ufficio che non compete più che molto secondariamente, al canale sottozigomatico.
Subord. Lemuridae. — La esistenza degli emissari temporali nelle Prosimmie
è ricordata già da Otto (50): Cope (9) afferma che nei gen. Lemur, Chirogaleus e
Tarsius vi ha solo un forameli postglenoideum , il quale tuttavia non sarebbe asso-
lutamente costante secondo le ricerche di Kopetsch (34): infatti, mentre questo A.
descrive appunto dietro il cono articolare un forame emissario molto ampio in
2 Lemur mongoz ed uno finissimo in uno Stenops gracilis, ne ricorda invece la mancanza
unilaterale in 1 Nyctkebus tardigradus, compieta in 2 crani di Galeopithecus volans.
57 (ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQTJAMOSI 215
Anche Cablbbe ricorda un foro postglenoideo voluminoso nel Lemur albifrons e nel-
Ylndris brevicaudatus.
Disgraziatamente il materiale di cui abbiamo potuto disporre è assai scarso e
per di più non completamente utilizzabile per le nostre ricerche: in un cranio di
Lemur catta ed in uno di L. albifrons si può bensì escludere la esistenza di forami
posti superiormente alla radice sagittale dell'apofisi zigomatica, ma non possiamo
tuttavia pronunciarci sulla loro esistenza o mancanza nella regione del cono arti-
colare. Invece in un altro L. catta ed in uno L. nìger dai due lati, immediatamente
dietro al cono articolare assai robustamente pronunciato, fra questo e l'anello tim-
panico, in fondo di una evidente docciatura scavata sulla faccia dorsale del cono
stesso, si riscontra un'ampia apertura ovalare (mm. 1-1,5), la quale immette diret-
tamente nella cavità craniana; per la posizione quindi si tratterebbe anche in queste
due Lemuridi di un emissario sottozigomatico posteriore: nulla possiamo dire sul com-
portamento dei solchi vascolari corrispondenti dell'endocranio. Infine in un cranio di
Galeopithecus variegatus ad. possiamo con certezza escludere assolutamente ogni traccia
di forami emissari.
Dato il numero piccolissimo di crani di cui abbiamo potuto usufruire, non ci è
naturalmente permesso nelle nostre considerazioni andar oltre alla affermazione che
i nostri reperti si accordano in genere con quelli di Kopetsch; parrebbe cioè che
gli emissari squamosi sottozigomatici siano costanti nel gen. Lemur, non occorrano
invece nel gen. Galeopithecus.
Considerando ora in complesso i risultati ottenuti dall'esame diligente dei crani
dei Primati relativamente alla occorrenza degli emissari temporali delle varie cate-
gorie, noi vediamo come questi vadano aumentando d'importanza quanto più discen-
diamo dall'Uomo e dagli Antropomorfi agli Arctopiteci. Anzitutto si può affermare
che nelle Scimmie, quando non sono costanti, la loro occorrenza percentuale è pur
certamente superiore a quella che noi abbiamo trovato nell'Uomo. Nelle Scimmie
infatti generalmente, fatta eccezione del sito di elezione dello sbocco esocranico degli
emissari, è piuttosto da considerarsi anomala la loro mancanza che non la loro pre-
senza; inoltre nelle varie famiglie va appunto via via pronunciandosi la tendenza ad
aumentare non solo il calibro alle singole aperture, e ad assumere per lo più carat-
tere di formazioni fisse, ma eziandio la tendenza all'accrescimento del loro numero.
Noi sappiamo di già come, salvo la maggior frequenza, negli Antropoidi gli
emissari, per quanto più esili relativamente all'Uomo, hanno nella loro sede un com-
portamento diremo quasi umano, vale a dire prevalgono i sottozigomatici mediali
(Orang, Gorilla), sono invece più rari od affatto eccezionali, appunto come nell'Uomo,
i sottozigomatici posteriori (Orang) ed i prezigomatici superiori (Hylobales), gli uni e
gli altri affatto corrispondenti a quelli di ugual nome descritti nella nostra specie.
Nella fam. Cercopithecidae, i Semnopitecini portano preferibilmente un emissario sotto-
zigomatico mediale, comparendo come fatto speciale anche un forame emissario post-
squamoso; nei Cercopitecini va gradatamente crescendo l'importanza del sottozigomatico
mediale, che occorre nella grandissima maggioranza dei casi, contemporaneamente ad
un emissario sottozigomatico laterale di valore tuttavia assolutamente secondario al
precedente.
216 ALFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAMUIA 58
In parecchi esemplari dei vari generi della fam. Cercopithecidae occorrono poi
le traccie di una origine anomala dell'w. temporalis profunda posterior precisamente
e certo con frequenza maggiore che nella specie nostra.
Nella fam. Cebidae le Mycetinae hanno per caratteristica la esistenza costante
di un emissario prezigomaticò superiore e quella, per lo meno frequente, di un emis-
sario sottozigomatico mediale, quest'ultimo di importanza un po' secondaria a quella
del primo; nelle Cebinae il forame sottozigomatico mediale o posteriore, costante,
assume ancora una spiccata prevalenza sul postsquamoso , non costante ma frequen-
tissimo. La preponderanza si inverte nella fam. Hapalidae in cui il post squamoso è
molto più ampio ed assai più costante che non il sottozigomatico mediale.
Come si vede chiaramente, anche a riguardo degli emissari temporali, nelle varie
famiglie di Scimmie, ed in modo abbastanza diverso da famiglia a famiglia, si riscon-
trano come caratteristiche che si sono rese fisse, per lo più quasi immutabili se si
considerano generi affini, delle disposizioni che invece nell'Uomo rappresentano fatti
anche puramente eccezionali. Lasciando in disparte gli emissari sottozigomatici la cui
corrispondenza per la grande affinità di conformazione della regione nell'Uomo e nelle
Scimmie, è troppo ovvia, è in special modo persuasivo il raffronto che si può stabi-
lire, ad esempio, fra i forami prezigomatici superiori dell'Uomo, che sappiamo di una
estrema rarità, con i prezigomatici costanti dei Mycetes. A questo riguardo ancora
noi dobbiamo avvertire che non avremmo veramente trovato nelle Scimmie dei pre-
zigomatici inferiori, quali invece abbiamo descritto e raffigurato per l'Uomo: non
tenendo calcolo della possibilità che su un materiale più ricco questi ultimi si pos-
sano anche ritrovare nelle Scimmie, noi non possiamo però fare a meno di rilevare
come la posizione leggermente diversa sopra o sotto la cristo ìnfratemporalis, non
possa in realtà avere un gran valore morfologico, tanto più dato il grado diverso
con il quale spicca e sporge all'esterno la cresta stessa nell'Uomo e negli altri Pri-
mati, in guisa che possiamo ben insistere ancora sulla corrispondenza quasi perfetta
del gruppo prezigomatici dell'Uomo coi prezigomatici superiori anomali o normali degli
altri Primati.
Cosi pure non è meno interessante l'avvicinamento che si può fare fra i post-
squamosi aprentesi nelle Hapalidi preferibilmente nella parte posteriore della squama
temporale, nei Cebus prevalentemente nella sutura parietosquamosomastoidea, con
i rarissimi casi di sbocco esocranico del canale di Verga all'esterno da noi descritti
nell'Uomo.
Old. CHIROPTERA.
La conoscenza degli emissari temporali e della via tenuta dal sangue refluo
dalla cavità craniana attraverso al temporale nelle varie famiglie dei Chirotteri ri-
monta già ad Otto, il quale dice che la vena giugulare esterna " per foramen
quoddam satis amplum in osse temporum post foveam glenoidalem positum, in sinum
cerebri trasversum intrat „. Hyrtl (30 a) afferma che in parecchi Chirotteri la base
del processo zigomatico presenta una perforazione conducente in un canale, il quale
avrebbe parecchie aperture: una corrisponde alla cavità cranica fra la pars petrosa
e la squamosa, altre due si troverebbero nella sutura parietosquamosa; il canale
59 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQUAMOSI 217
quindi decorre per tutta l'altezza della squama e sarebbe destinato ad accogliere il
tronco della vena temporale, la quale prende un ramo dal seno petroso. — Cope accenna
all'occorrenza di un forame postglenoideo, di un subsquamoso e di uno postsquamoso
nel Pteropus, di un postglenoideo, di un postparietale e mastoideo nello Scotophilus,
mentre in altri generi esisterebbero solo il postglenoideo ed il postparietale. — Kopetsch
in 14 crani di vari generi avrebbe riscontrato dietro la cresta limitante posterior-
mente la fossa mandibolare, anteriormente e superiormente all'apertura uditiva esterna,
un forameli jugulare spurium pure costante e relativamente ampio.
Infine Grosser (21) nei Microchirotteri trova che il foramen jugulare spurium giace
immediatamente indietro del cono articolare, avendosi cioè un foramen postglenoideum
nel senso di Cope : la vena fuoruscente da questa apertura si immette nello stretto
spazio fra il cono e la bulla timpanica. In tale spazio sbocca anche la v. temporalis super-
fìcialis, la quale porta essenzialmente il sangue dalle parti superficiali del muscolo tempo-
rale: essa attraversa pure la radice dell'arco zigomatico mediante una stretta fine
apertura, corrispondente forse, secondo Grosser, ad un foramen supraglenojdale (Cope),
non accoglierebbe però nessuna vena cerebrale. Nei Vespertilionidi come nei Rino-
lofidi il seno trasverso decorre ventralmente nell'attacco del tentorio, poi si divide
in due branche di cui mia giace nell'interno della diploe e quivi avvolge l'a. me-
ningea media, mentre l'altra rimane dapprima nello spessore della dura e poi si fa
anch'essa diploica raggiungendo, assieme alla precedente, lo sbocco endocranico del-
l'emissario temporale: il seno trasverso sarebbe riunito con un fine ramo (s. sig-
moidei^) al foramen jugulare rerum. Nei Macrochirotteri la disposizione dei vasi e
dei rispettivi canali ossei è, secondo Grosser, alquanto diversa, in quanto il foramen
/ligulare spurium sarebbe un po' più piccolo e minore la quantità di sangue espor-
tata dall'emissario temporale: vi sarebbe cioè nei Pteropidi un indice come questo,
nell'ulteriore accrescimento degli emisferi, possa diventare di nuovo una via sem-
plicemente sussidiaria e come possa il comportamento primitivo (deflusso del sangue
per il foramen jugulare veruni) ritornare nuovamente in opera : del resto anche nei
Pteropidi, parallelamente con il seno trasverso durale, si forma anche un canale
diploetico, il quale porta però solo il sangue delle vene temporali profonde, come
dall'osso, non rappresentando punto un mezzo di riunione con le vene cerebrali. Per
la storia dello sviluppo Grosser conferma nei Chirotteri la cronologia delle varie
disposizioni successive del sistema venoso, già descritte da Salzer, e dalle quali
risulta che la porzione ventrale del seno trasverso, come lo stabilirsi dell'emissario
temporale, appartengono ad un periodo relativamente tardivo dello sviluppo.
Noi non possiamo aggiungere gran che di nuovo sull'argomento e ciò per pa-
recchie ragioni, fra le quali principali sono la mole molto piccola dei crani dei Chirot-
teri da noi esaminati, che rende i procedimenti di macerazione e l'esame naturalmente
molto difficili, come pure l'aver dovuto restringere esclusivamente sui crani il nostro
studio, essendo d'altra parte il sistema vascolare già classicamente compulsato da
Grosser. Le nostre osservazioni vertono esclusivamente sui Microchirotteri, e più pre-
cisamente sul Vespertilio murinus (9 cr.), Vesperugo noctula (4 cr.), Plecotus auritus
(3 cr.), Binolophus ferrum equitanti (6 cr.), i cui crani furono da uno di noi (Boterò)
appositamente preparati. Diciamo subito che vi ha un comportamento dei canali, che
ci occupano, fondamentalmente identico nei vari generi esaminati.
Sebi» IL Tom. LUI. cl
218 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 60
Esaminando con una lente la regione temporale del cranio di Binolophus e di
Plecotus si scorge abbastanza facilmente come sulla faccia dorsale di una crestolina
ossea, disposta in direzione frontale e rappresentante il cono articolare, in prossi-
mità del punto di attacco del cono stesso, cioè verso la sua base, si nota un forel-
lino regolarmente circolare, ampio da mm. 0,2-0,1, che guarda immediatamente all'in-
dietro: da questo ha origine un brevissimo canale, il quale attraversa obliquamente
diretto in alto, in avanti e medialmente la parte inferiore della squama temporale
per aprirsi all'endocranio nella parte più bassa della fossa cranica media in corrispon-
denza della sutura petrosquamosa: tale forellino per la sua posizione è nettamente
anteriore all'apertura uditiva esterna, non solo, ma per rispetto a un piano frontale,
appare situato subito lateralmente al contorno anteriore dell'apertura stessa. Nei crani
ben macerati esso è chiaramente visibile nella porzione descritta anche ad occhio nudo.
Nell'interstizio molto ristretto limitato dalla faccia posteriore del cono arti-
colare in avanti, dalla cresta tagliente rappresentante la linea temporale in alto
e lateralmente, dal contorno anteriore della bulla tympanica in dietro e medialmente,
in una posizione alquanto superiore e dorsale per rispetto al forame precedente-
mente descritto, vi ha ancora un altro minutissimo forellino costante, assai più pic-
colo del precedente, mascherato per lo più dalla sporgenza della crista temporalis,
sulla cui faccia inferiore è continuato verso il forame precedente da una fine ma ben
marcata docciatura: da tale forametto ha origine un canale difficilmente sondabile,
il quale corre quasi verticalmente in alto ed un po' in addietro nello spessore della
squama temporale, poi fra i due tavolati del parietale: la presenza di questo canale
diploico è avvertibile già all'ispezione esterna del cranio mediante una lente come
una rilevatezza rugosa della superficie, e può presentarsi anche, specie nella sua por-
zione inferiore, immediatamente al di sopra della linea temporale, parzialmente aperto
all'esterno; detto canalino si divide e si suddivide frammezzo ai due tavolati del
parietale, ciò che è avvertibile anche alla ispezione macroscopica, e in qualche caso
pare anzi che esso giunga fino a livello della sutura sagittale e più precisamente
giunga alla docciatura per il seno corrispondente: una setolina introdotta per l'aper-
tura inferiore del canalino può anche riuscire nella cavità craniana per una soluzione
di continuo del tavolato interno, analoga a quelle facili a riscontrarsi all'esocranio
immediatamente al di sopra della linea temporale.
Nel Vespertillo murinus come nel Vespertino noctula le difficoltà dell'esame aumen-
tano ancora di più per la piccolezza dei crani: in questi la sporgenza della cresta
limitante in addietro la fossa articolare è, anche relativamente, assai meno pronun-
ciata e l'interstizio fra la bulla, il conus e la linea temporalis è, sia pure relativamente,
assai più ristretto. Tuttavia usando i debiti artifici si può verificare che anche in
questi vi ha sulla faccia posteriore del cono, in una posizione relativamente più
affondata che non nel Binolophus e nel Plecotus, e cioè in tutta prossimità del mar-
gine mediale del cono stesso, una finissima apertura colla massima difficoltà sonda-
bile per mezzo di una minuta setola; ad essa fa seguito un canalino diretto in alto,
in avanti e medialmente, appunto come negli altri prima studiati. Il canale diploico
poi si apre, come nel Binolophus, in addietro e lateralmente al precedente e pare
che il suo sbocco, comparativamente al calibro di quello anteriore, sia più ampio che
nel Binolophus: una setola introdotta in detto canale diploico penetra costantemente
61 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI L'I'.I
nella cavità eraniana nella sutura parietosquamosa, essendo però continuato in alto
sul tavolato interno del parietale da una evidente docciatura ramificata in guisa da
ricordare quella dei vasi meningei medi.
Senza dilungarci oltremodo nella discussione e nella interpretazione delle partico-
larità ora descritte, noi crediamo che solo al canale aprentesi sulla faccia dorsale del
cono articolare in prossimità della sua base si debba dare il significato di un vero
forame emissario nel significato che abitualmente si dà a questa parola; come risulta
dalle ricerche di Grosser esso rappresenta precisamente la via tenuta dalla porzione
ventrale del sinus transversus per continuarsi con la v. jugularis externa, e noi
sappiamo come appunto per questa via decorra la massima parte del sangue refluo
del cervello per ritornare al cuore. Analogamente ad Hyrtl invece noi crediamo
che al secondo canale da noi descritto si debba dare piuttosto il significato di un
canale diploico, destinato ad allogare una vena tributaria della giugulare esterna
appena questa si è originata all'apertura esterna del forame sottozigomatico di cui
abbiamo prima parlato: o per lo meno detto canale diploico potrà servire come emis-
sario solo secondariamente, in quanto anche le vene della dura parietale possono
imboccare i tronchi venosi che vi sono contenuti: oppure anche perchè questi (specie
nel Rinolophus) possono parzialmente rappresentare una via più diretta di deflusso
alla jugularis externa del sangue del sinus sagittalis.
Ad ogni modo, a parte le scoperture del canale diploico, più evidenti e più
frequenti nel Riuoloplius che nei Vespertilionidi, dobbiamo notare che quasi costante-
mente in questi ultimi, oltre ai forami precedentemente descritti, occorre da ciascun
lato un ampio forame ovalare di min. 0,6-0,3, aprentesi nella parte posteriore della
squama temporale, indietro dell'apertura uditiva esterna, immediatamente al di sopra
ed in avanti del punto ove la linea temporalis si continua con la crista occipitalis: tale
forame, che può eventualmente anche essere in parte circoscritto dal margine inferiore
del parietale è, paragonato ad entrambi i fori sottozigomatici, molto ampio e mette
nell interno del cranio nel punto ove dalla porzione ventrale del solco per il sinus
transwrsus si distacca la tenue e poco pronunciata docciatura per il sinus sigmoideus
(Grosser). Anche nei Vespertilionidi però il foro postsquamoso può eccezionalmente
mancare da uno o dai due lati. Nel Rinolophus e nel Plecotus invece ne è eccezionale
la presenza: del resto negli uni come negli altri vi ha pure costantemente un emissario
mastoideo, per lo più abbastanza ampio, circolare od ovalare, o in forma di fessura
posta nella sutura occipitotemporale.
Concludendo quindi è normale nelle varie famiglie di Chirotteri la esistenza di
un ridiale emissario sottozigomatico laterale, attraverso cui si scarica il sinus trans-
iger sus: a quest'ufficio può essere secondariamente devoluto un canalino più ristretto
ma pure costante, decorrente nella diploe della squama temporale e del parietale;
infine nei Vespertilionidi vi ha pure come carattere fisso, nei Rinolofidi come ecce-
zione, un canale emissario postsquamoso.
Ord. TNSECTIVORA.
Vari accenni ai canali e forami emissari temporali in quest'ordine occorrono in
Otto (59), Rathke (55), Luschka (45) e Cope (9): quest'ultimo descrive un forame
postsquamoso nei gen. Blarina, Condyhira, Scalops, un postglenoideo ed un postsqua-
220 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 62
moso m\V Erinaceus e nel Mystomys (dalle figure di Allman), un postglenoide, un post-
parietale ed un mastoideo nel Centetes, un postglenoideo ed un postparietale nel
Solenodon (dalle fig. di Peter).
Kopetsch (3) in 6 crani di Erinaceus avrebbe trovato sotto la radice del pro-
cesso zigomatico, tra la squama e la piramide, un' apertura discretamente ampia,
entro la quale può penetrare verticalmente attraverso il cranio una setola: assieme
a tale forame ne esisterebbe ancbe un altro tra la squama ed il parietale o nello
spessore della squama stessa, dal quale la setola introdotta direttamente dal forame
sottozigomatico può ancora riuscire all'esterno. Kopetsch ritiene l'apertura inferiore
come forumai jugulare spurium, la superiore invece servirebbe all'ingresso nel
cranio di una vena destinata a portare il sangue refluo dai tegumenti. Nei Soricidi
tale A. descrive poi un' apertura capillare posta medialmente ad un cono articolare
ben sviluppato. Nelle Talpidae infine dietro alla superficie articolare, sopra e medial-
mente all'apertura uditiva esterna, esisterebbe un esile forame da cui prenderebbe
origine un canale diretto in addietro fino al solco trasverso : oltre a questo Kopetsch
descrive un' altra apertura più ampia posta dietro al canale uditivo esterno, la quale
conduce pure nel cranio: a quest'ultimo forame pare si riferisca eziandio Fischer (1 la)
e nella descrizione e nella figura, trattando appunto del forame» jugulare spurium in
embrioni di Talpa a vario stadio di sviluppo, nei quali l'A. studia col metodo delle
ricostruzioni lo sviluppo del cranio primordiale.
Fra gli Insettivori noi abbiamo preso in considerazione della famiglia Erina-
ceidae 6 crani di Erinaceus europaeus , della famiglia Talpidae 5 crani di Talpa
europaea, macerati da uno di noi (Bovero).
Fani. Erinaceidae. — Neil' Erinaceus europaeus la superficie inferiore della
base dell'apofisi zigomatica si presenta relativamente molto allargata, limitata poste-
riormente da un leggero rialzo apofisario, che si sutura direttamente col suo mar-
gine laterale alla porzione mastoidea del temporale, coprendo le due porzioni ossee
disposte medialmente a doccia il condotto uditivo esterno. Subito medialmente alla
crestolina predetta, rappresentante il cono articolare, si riscontra costantemente una
ampia fessura ovalare, col massimo diametro di 2 mm. disposto frontalmente, con
un diametro minore di mm. 0,5-1 : tale fessura, forame sottozùjomatico mediale, si pre-
senta essenzialmente come una incisura del margine posteriore della fossa mandibolare,
completata in addietro dall'osso petroso, in guisa che detta fessura potrebbe apparire
come un allargamento localizzato della sutura petrosquamosa ; la porzione timpanica
poi sovrappassandola in addietro tende a mascherarla più o meno completamente. Essa,
dato il minimo spessore dalla squama, si apre immediatamente nella cavità craniana
in fondo di una escavazione a margini irregolari, posta nella porzione laterale della
sutura petrosquamosa, escavazione alla quale convengono pure parecchi altri canali.
di calibro però tuttavia assai minore.
Uno di questi si apre all'esterno nella sutura parietosquamosa, con un forame
in forma di fessura, ampia si da dar passaggio ad una grossa setola, fessura però
che è scavata completamente nello spessore della squama, mentre il margine infe-
riore del parietale non fa che chiuderla medialmente, costituendo anche la parete
mediale del canale che da essa ha origino: in due casi però l'apertura predetta
fri CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PBTROSQUAMOSI 221
era localizzata completamento nello spessore della squama temporale. Dobbiamo
avvertire che, anche nei casi in cui detto forame è situato nella sutura squamoso-
parietale, la squama temporale presentando per delimitarlo una profonda incisura
ed essendo quindi molto bassa, esso non dista che di 1 mm. circa dalla estremità
posteriore del margine superiore più o meno smusso dell'apofisi zigomatica, in guisa
che esso si può ben considerare come un forami soprazigomatico. Da questo ha ori-
gine un canale diretto verticalmente in basso, o interamente nello spessore della
squama, oppure nella sutura squamosa per raggiungere la parte laterale e superiore
della incavatura visibile dall'endocranio fra la porzione squamosa e petrosa del tem-
porale, il cui fondo è rappresentato dall'apertura endocranica del canale sottozigoma-
tico mediale. Una setola introdotta dal forame soprazigomatico fuoriesce colla mas-
sima facilità dal forame sottozigomatico mediale, mentre è assai difficile far seguire
alla setola la direzione inversa.
In tutti i crani da noi esaminati sulla superficie esterna del processo zigomatico,
immediatamente in avanti e superiormente al punto in cui il margine inferiore
della base si continua colla cresta poco pronunciata rappresentante il cono artico-
lare, esiste un forellino microscopico, per lo più perfettamente circolare, in cui tut-
tavia può entrare nella maggioranza dei casi una finissima setola; da esso ha
origine un canale diretto orizzontalmente in dentro, attraversante cioè in direzione
frontale tutto lo spessore della squama, per riuscire nella parete laterale della esca-
vazione sopra descritta fra l'apertura del canale soprazigomatico e quella del canale
sottozigomatico. In un caso e da un solo lato l'apertura di questo canale, che noi
potremmo chiamare per i rapporti che contrae col cono articolare forame sottozi-
gomatico laterale, era spostata assai più in addietro del cono articolare, immediata-
mente in avanti della sutura squamosomastoidea rilevata a cresta, in guisa da
meritare il nome di forame postsquamoso.
Inoltre, in quasi tutti gli esemplari esaminati, nella parte alta della porzione
mastoidea del temporale, subito dorsalmente alla sutura squamosomastoidea si riscontra
un ampio forame pure permeabile ad una grossa setola, il quale conduce in un canale
diretto orizzontalmente in avanti ed aprentesi nella parete posteriore della escavazione
descritta nella fossa media fra l'osso petroso e l'osso squamoso: anche per questo
forame mastoideo osserviamo che una setola, che vi sia introdotta, può fuoriescire con
facilità dal forame sottozigomatico mediale.
Finalmente dobbiamo avvertire ancora che in alcuni casi la porzione del solco
trasverso immediatamente sovrastante al confluente dei vari canali nella fossa media
può essere trasformata in un canale completo, canale parietopetroso : in ogni caso è
interessante ricordare come nell'i?, europaeus sia caratteristica la molteplicità dei canali
emissari temporali, con spiccata prevalenza per il calibro del canale sottozigomatico
mediale: verrebbero poi per importanza il canale mastoideo ed il soprazigomatico [sopra-
squamoso di Cope) ; infine, per quanto assolutamente esile, è costante un canalino sotto-
zigomatico laterale: cos'i pure è caratteristica la confluenza dei vari canali in un
medesimo punto della fossa cranica media, il qual fatto dimostra che il canale
sottozigomatico mediale, appunto per il suo calibro maggiore, rappresenta la via di
deflusso collettrice del sangue decorrente negli altri canali. Per il canale soprazigo-
matico, astraendo da ogni possibile via arteriosa che vi decorra dalla cavità cranica
222 ALFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAMIDA 64
all'esterno, è probabilmente vera l'osservazione di Kopetsch, che sia destinato ad una
vena raccogliente il sangue degli involucri cutanei : questa, come pure la vena decor-
rente nel canale mastoideo, probabilmente funzionano da emissari solo in via affatto
secondaria.
Fam. Talpidae. — Assai diverso è il comportamento dei canali emissari nella
Talpa, per la quale vale completamente la descrizione data da Kopetsch. Manca com-
pletamente un cono articolare ; subito all'indietro ed in basso della superficie articolare,
a distanza di mm. 1,5-2 dalla faccia inferiore della base dell'apofisi zigomatica estre-
mamente esile, superiormente e medialmente all'apertura uditiva esterna assai spostata
in basso, si riscontra una finissima apertura, la quale si continua in un canale scavato
esclusivamente nello spessore della squama, decorrente orizzontalmente in dietro, de-
cussando perciò la parete superiore del condotto uditivo esterno nella sua porzione
laterale, per aprirsi, dopo un decorso da 2 a '■'< mm., nella fossa cranica media in
fondo di una docciatura più o meno evidente posta nella sutura petrosquamosa.
Questa docciatura continua a sua volta la direzione dorsale del canale sopra descritto
e, a livello della estremità posteriore della sutura petrosquamosa, si continua ancora
in un canale aprentesi all'esterno con una apertura ampia per lo più 1 mm., circolare
od ovalare, posta nella porzione posteriore della pars mastoidea in tutta prossimità
della sutura temporooccipitale : una setola introdotta dal forame prima descritto
(per la posizione corrisponde ad un sottozigomatico laterale), assai più esile del forame
mastoideo, che fu ritenuto da Rathke e Luschka come foramen jugulare spurium,
può colla massima facilità fuoriescire posteriormente attraverso quest'ultimo; così
pure si verifica il fatto inverso. Data la diversa ampiezza dei due canali è probabile
che la principale via di deflusso sia rappresentata appunto dal canale mastoideo.
È a notarsi come in crani di individui presumibilmente vecchi il solco petro-
squamoso sia in gran parte trasformato in un canale completo, rimanendo coperto
solo per un tratto di mm. 0,5-1.
Ord. CARNIVORA.
E inutile riportiamo qua ancora una volta i reperti avuti dai vari A A. sopra
l'esistenza dei canali emissari nelle diverse famiglie di Carnivori, avendo già rile-
vato dall'esame della letteratura, come quasi tutti gli AA. [Otto (50), Rathke (55),
Verga (72), Luschka (ihab), Flower (15), Ellenberger e Baum (13o), ecc.] ritengano
come carattere costante nella fam. Canidae la esistenza di un ampio forame posto
immediatamente all'indietro del conus articidaris potentemente sviluppato. Il medesimo
reperto è dato come caratteristico pure delle fam. Mustelidae, Vìver ridae e Ursidae
(Otto, Rathke, Flower) : al contrario tale caratteristica farebbe difetto, come nel-
l'Uomo, nella fam. Felidae (Luschka, Flower, Denker (12«)), o per lo meno esiste-
rebbe solo negli individui molto giovani (Otto).
Cope (!),' afferma che nei Carnivori i forami sono pochi di numero e assai bene
definiti, nessuno di essi ne avrebbe più di 3, mentre nelle forme specializzate terrestri
od acquatiche non ve ne sarebbe traccia: così esisterebbe solamente un forame post-
glenoide nei gen. Procyon, Nasua, Bassaris, Canis, Vulpes, Urocyon, Viverra, Mustela,
Putorius e Mephitis; nei gen. Ursus, Arcboiherium, Hyaenodon, Enhydrocyon, Temnocyon
65 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQUAMOS]
ed altri, esisterebbe, accanto al forame postglenoide, un forame postparietale e
in taluni anche un forame mastoideo: tra i Felidi il Gatto avrebbe talvolta un forame
postglenoide; ne mancherebbero completamente i gen. Hyaena, lincia, Cynadurus.
Kopetsch (34) ha trovato che, su 192 crani di quest'ordine. 150 posseggono un
forame»! juguìare spurium, solo 42 ne mancano affatto. Il forame giugulare spurio
venne da questo A. trovato costante nei crani delle fam. Canidae (81), Viverridae (10)
ed Ursidae (16), eccezionale ne sarebbe la mancanza nelle fam. Mustelìdae (su 45 man-
cava solo in 3) : invece ne sarebbe rarissima (1 su 37) la presenza nelle fam. Felidae,
costante la mancanza nella fam. Ryaenidae (3).
Le nostre ricerche confermano in generale, completandoli, i reperti avuti da
questo A.; per alcune famiglie tuttavia, specialmente per il Gatto, i nostri risultati
sono affatto diversi.
Fam. Canidae. — Noi abbiamo esaminato in complesso 89 crani di questa fa-
miglia, e cioè 30 di Canis familiaris di varie razze e delle età più disparate. 27 di
C. lupus, 1 di Lupulus mesomelas, 1 di Lupus magellanicus , 4 di C. Azarae, 24 di
Vulpes vulgaris di provenienze diverse. 2 di C. lagopus. Possiamo nella descrizione
dei reperti delle varie specie riferirci completamente a quanto occorre nel Cane, ap-
punto perchè, salvo leggere differenze, il comportamento dei canali che stiamo stu-
diando è perfettamente analogo in tutti.
Nel C. familiaris, come nelle altre specie sovraccennate, il processus articu-
laris posterior o conus articularis è costantemente molto sviluppato sotto forma di
" una robusta apofisi a faccia inferiore concava, posteriore convessa, margine esterno
più lungo dell'interno, base spessa ed apice arrotondato „ [Cabibbe (4)] ; l'apice più
o meno tagliente è costantemente rivolto in avanti a mo' di un becco. Sulla faccia
dorsale del cono articolare (Fig. 27 co), più verso il margine mediale di tale processo
che non verso quello laterale, nell'interstizio delimitato anteriormente da detta
faccia del cono, in alto e lateralmente dalla faccia inferiore della linea temporale
disposta sotto forma di una pronunciatissima cresta, in addietro e medialmente
dall'attacco dell'osso timpanico, alla estremità superiore di una docciatura fortemente
scavata nella faccia dorsale del cono e diretta verticalmente, si riscontra un'ampia
apertura che per la continuazione colla docciatura predetta appare ovalare e per la
ubicazione è da ritenersi come un foro sottozigomatico 'posteriore molto ampio (fpg)-
Tale apertura può essere più o meno ricoperta o mascherata, specialmente nei crani
di individui molto avanzati in età, dalla sporgenza del margine ricurvo in avanti
dell'osso timpanico.
La docciatura verticale (Fig. 27 a), scavata sulla faccia dorsale del cono artico-
lare, va via via affievolendosi e scomparendo verso 1' apice del cono stesso ed è
nella massima parte dei casi rivolta direttamente indietro; qualche volta, special-
mente nelle razze pure od incrociate a cranio relativamente largo, essa può essere
aperta in dietro, in basso e un po' lateralmente, come pure pare che, essendo l'aper-
tura inferiore del canale sottozigomatico spostata alquanto in alto e dorsalmente per
rispetto all'apertura del condotto uditivo esterno, la docciatura si mantenga non più
verticale, ma fortemente curva in alto ed in addietro : per queste disposizioni il forame
sottozigomatico sembra, a parità di condizioni, più ampio che non negli altri casi.
22 1 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 66
Per seguire l'ulteriore decorso del canale temporale è necessario, come osserva
Kopbtsch (34), di esaminare un cranio aperto, o meglio ancora le varie porzioni
dell'osso temporale isolate. Si scorge allora che il canale predetto attraversa obli-
quamente dal basso in alto, volgendosi anche dorsalmente, la porzione inferiore
della squama del temporale per aprirsi superiormente fra l'osso petroso ed il tavo-
lato interno dell'osso parietale in prossimità della estremità laterale dello spigolo
superiore della piramide: il canale presenta costantemente un calibro molto ampio,
abbastanza costante entro certi limiti anche per crani di volume molto diverso, da
2 mm. a 3-4-5 min., il qual fatto fa sì che il canale appare relativamente più ampio
nei crani piccoli: esso nella sua porzione inferiore è esclusivamente circoscritto dal-
l'osso petroso e dallo squamoso, è cioè esclusivamente un canalis temporalis; più in
alto invece, mentre la sua parete laterale è formata dalla parte superiore della
squama, la sua parete superiore è costituita dall'apposizione del tavolato interno del
parietale al margine opposto della piramide, si trasforma cioè in canalis temporo-
parietalis. Alla apertura endocranica (Fig. 28) fa seguito dorsalmente il solco molto
affondato per il sinus transversus, il quale dalla faccia interna dello squamoso passa
sulla faccia interna dell'angolo mastoideo del parietale per immettersi in seguito, in
rapporto della faccia cerebrale della squama occipitale, fra le due lamine del ten-
torium cerebelli ossificato. Data la grande ampiezza del canalis temporalis (et) ci si spiega
molto facilmente come, ciò che appunto avviene, la massima parte del sangue venoso
della cavità craniana defluisca alla v. jugularis externa attraverso il canale descritto.
Nel Cane, come nel Lupo e nella Volpe, il comportamento di questo canale nel
suo decorso, come nella apertura endocranica e nei suoi rapporti con il solco per il
sinus transversus, è perfettamente identico. Negli uni come negli altri possono occor-
rere delle piccole differenze individuali, o anche dipendenti dall'età del soggetto che
si esamina, nella lunghezza relativa del canale, occorrendo talvolta specie nei sog-
getti giovani di riscontrarne l'apertura superiore molto spostata in avanti quasi per-
pendicolarmente al di sopra dell'apertura inferiore : il canale in questi casi è esclu-
sivamente un canalis temporalis ed il sulcus transversus si presenta relativamente più
lungo per una non effettuata apposizione o sinostosi del tavolato interno dell'osso
parietale col margine opposto dell'osso petroso. Altre volte invece il sulcus trans-
versus è assai breve arrivando il canale temporale precisamente sino a ridosso della
estremità laterale dello spigolo superiore della piramide, od anche alquanto più dor-
salmente.
È a notarsi che quasi costantemente in rapporto della porzione anteriore del
contorno dell'apertura sottozigomatica, nel punto in cui questa si continua colla doc-
ciatura sovradescritta, attraverso alla quale, dato il calibro, si può introdurre anche
una sonda flessibile di calibro corrispondente, si riscontrano uno o due forametti
molto piccoli, che rappresentano semplicemente lo sbocco di canali diploici.
Come leggiere differenze da ciò che abbiamo sopra detto, ricordiamo come nel
C. lupus il forame sottozigomatico appaia relativamente più ampio che non nel Cane,
mentre in complesso la docciatura che continua il forame predetto sulla faccia po-
steriore del cono articolare, è indubbiamente meno nettamente pronunciata e meno
estesa. Nella Volpe infine l'apertura predetta occupa, come già notò Eopetsch per
il C. aureus e per il C. cerdo, una posizione alquanto superiore a quella occupata
67 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 225
generalmente dal forame corrispondente nel C. familiaris per rispetto al contorno
dell'osso timpanico.
Nel Cane ci è occorso anche alcune volte, oltre al forame sottozigomatico poste-
riore, di osservare in rapporto della base del margine laterale tagliente del cono
articolare, nel punto in cui esso si continua in avanti col margine laterale della
fossa mandibolare, un microscopico forametto non accessibile però neanche alla più
lina delle setole e che per la posizione corrisponderebbe precisamente ad un forame
sottozigomatico laterale, quale noi abbiamo riscontrato nell'Uomo ed in alcune Scimmie.
Data la piccolezza di tale canale e della sua apertura esterna, certamente non è da
assegnarglisi alcun valore come emissario: tuttavia noi abbiamo voluto ricordarlo in
quanto per la sua occorrenza non assolutamente infrequente nel C. familiaris, ma
per la costanza della sua posizione, come pure anche perchè non venne finora de-
scritto da altri AA., ci è parso non indegno di nota, ne privo di valore morfologico.
Accenniamo ancora a questo proposito come specialmente nel C. familiaris possano
occorrere saltuariamente al di sopra della base dell'apofisi zigomatica, in posizioni
diverse, come pure nella parte alta della squama, dei minuti forellini, affatto ana-
loghi a quelli che possono occorrere, a parità di condizioni, anche nella nostra specie,
ed ai quali si deve dare semplicemente il valore di canali diploici.
Nel Cane e nel Lupo è costante da ambi i lati un forame mastoideo più o meno
ampio, occorrente nella parte alta della sutura occipitomastoidea. Il calibro di tale
forame oscilla entro limiti molto ampi, a differenza di quanto avviene per il canalis
temporalis: per lo più si presenta sotto forma di una fessura irregolare col massimo
diametro secondo la direzione della sutura: tale fessura può anche mancare come
accade di frequente nella Volpe, oppure assumere delle dimensioni molto rilevanti
(6-7 mm. di lunghezza per 3-4 di larghezza). Si riscontrano anche evidenti delle asim-
metrie: nel cranio di un C. familiaris, molto interessante per altre particolarità (annul-
lamento completo della sutura sagittale per interposizione di ossificazioni anomale,
come in un caso già pubblicato da Staurenghi), il forame mastoideo a sinistra assume
l'aspetto di una vera soluzione di continuo, irregolarmente ovalare (6 mm. per 5 mm.),
mentre a destra è ridotto ad una fessura che dà appena passaggio ad una fine sonda.
In ogni caso il forame mastoideo si apre all' endocranio subito inferiormente al
solco per il sinus transversus. Il foramen jugulare nei Canidi è molto ristretto, certo
sempre meno ampio del canalis temporalis.
Fani. TJvsidae. — Noi abbiamo avuto a nostra disposizione complessivamente
23 crani delle varie specie (U. maritimus, U. arctos, U. americamts) e in tutti abbiamo
riscontrato il medesimo comportamento, non dissimile per altro da ciò che abbiamo
descritto nella precedente famiglia. Il conus articularis è robustissimo, concavo ven-
tralmente, convesso in addietro. Sulla sua faccia dorsale, in tutta prossimità del suo
margine mediale, in una posizione alquanto inferiore a quella riscontrata nella fam.
Canidae, si apre un foro sottozigomatico posteriore molto ampio, a cui fa seguito in
basso una docciatura meno evidente che nella fam. Canidae: il canale, che da
questa apertura ha origine, ha d'altronde i medesimi rapporti ; il forame sottozigo-
matico si differenzia solamente in quanto è più spostato verso la linea mediana.
Serie II. Tom. LUI. d<
226 ALFONSO BOVERO — ■ UMBERTO CALAMIDA 68
Fani. Cercoleptinae. — In 4 crani di Nasua socialis, nella parte intermedia
della faccia dorsale del cono articolare, in rapporto della sutura squarnosotimpa-
nica, si riscontra dai due lati un'apertura perfettamente circolare forame sottozigo-
matico posteriore: manca ogni traccia della gronda che continua nelle fam. Canidae
e Ursidae il forame predetto sulla faccia posteriore del conus .articularis.
Fam. Mustelidae. — Di questa famiglia noi abbiamo presi in considerazione
3 crani di Meles taxus (subf. Melinae), 3 di Mephitis suffocans, 6 di Mustela ermineti,
1 di M. Pennantii, 4 di M. martes, 1 di M. americana, 38 di M. fobia (subf. Mustelidae),
9 crani di Lutra (subf. Lutrinae). Anche per questi i nostri reperti sono complessi-
vamente analoghi a quelli di Kopetsch.
Nel Meles taxus il conus articularis si presenta sotto forma di una cresta molto
allungata ia direzione frontale e relativamente poco alta; la sua altezza va aumen-
tando portandosi verso la linea mediana ove misura in media mm. 2,5-3; in com-
plesso questa cresta è concava in avanti servendo cosi a delimitare posteriormente
la fossa mandibolare, la quale si presenta appunto assai allungata in direzione fron-
tale. La sua faccia posteriore è molto ampia, disposta obliquamente dal basso in
alto e dall'avanti all'indietro, in guisa che l'interstizio fra la sporgenza della cresta
e il contorno anteriore dell'apertura uditiva esterna è di circa 1 cm. A 6 nini,
medialmente all'apertura uditiva esterna, nella sutura squamosotimpanica, e quindi
ad un livello inferiore all'apertura uditiva stessa, alla base della faccia dorsale del
cono articolare più vicino alla sua estremità mediale che non a quella laterale, vi
ha un forame circolare, ampio mm. 1,5-2, forame sottozigomatico posteriore, da cui ha
origine un canale diretto in alto e dorsalmente nello spessore della porzione squa-
mosa, il quale si comporta superiormente nell'identico modo descritto per la fam.
Canidae. Da notarsi in un caso una evidentissima asimmetria nei forami sottozigo-
matici dei due lati, in quanto, quello di destra essendo normalmente sviluppato, quello
di sinistra invece è assolutamente ridotto di calibro in guisa da dare appena pas-
saggio ad una fine setola. Comparativamente il canale temporale ha un tragitto più
lungo che non nella fam. Canidae e nel suo decorso contorna come un semimanicotto
la doccia della porzione squamosa, che limita cranialmente il condotto uditivo esterno.
Nelle varie specie di Mustela noi abbiamo avuto costantemente un reperto ana-
logo al precedente. Il conus articularis è anche qui poco rilevato, è invece assai
esteso in larghezza, fortemente concavo in avanti; dorsalmente ad esso si estende
una larga superficie irregolarmente quadrangolare, rivolta in basso ed in addietro,
che ne costituisce come la faccia posteriore. In prossimità dell'estremità laterale della
scissura squamosotimpanica, e quindi in una posizione immediatamente superiore
alla apertura uditiva esterna, si trova situato un forame emissario sottozigomatico
posteriore, che noi abbiamo riscontrato in tutti i 51 crani delle varie specie, con
differenze solo leggere di posizione. Nella M. erminea, come nella M. foina, il forame
è relativamente più esile, completamente nascosto nei crani di adulti dal contorno
anteriore dell'anello timpanico, continuato sulla porzione mediale della larga super-
ficie dorsale del cono articolare da una docciatura nettamente pronunciata a mo'
di una intaccatura. Il canale che fa seguito a tale forame sottozigomatico posteriore
è, come nel Meles taxus, fortemente curvo indietro ed in alto, quasi ad abbracciare
69 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 227
il contorno anteriore della docciatura squamosa, che entra a delimitare l'apertura
uditiva esterna. AU'endocranio si apre nella solcatura petrosquamosa più o meno
completamente trasformata in un canale a seconda dell'età. L'apertura esocranica
di detto canale, essendo continuata dalla docciatura sopra descritta, appare ovalare
e misura in media da mm. 0,5 a 1 mm. In una .1/. americana (Fig. 29 fszl) l'aper-
tura di detto canale misura invece 2 mm. circa, si presenta situata subito superior-
mente all'apertura uditiva esterna, non mascherata cioè dall'osso timpanico.
In un Ermellino l'apertura esocranica del canale sottozigomatico è duplice, cia-
scuno dei due forami però dà appena passaggio ad una fine setola. Un comporta-
mento analogo a quanto abbiamo accennato per la Mustela si verifica nel Mephitis.
Nella Lutra, dietro il conus articularis, tra questo e il condotto uditivo esterno
si estende pure una larga superficie pianeggiante, rappresentante la superficie dor-
sale del cono articolare stesso, ampia cent. 1,5 nel senso frontale, cm. 1 sagittal-
mente. All' estremità esterna della sutura squamosotimpanica si apre un forame
sotto zigomatico posteriore, generalmente molto ampio (2-3 mm.), che è l'ingresso di un
canale diretto quasi orizzontalmente dall'avanti all'indietro, come nelle Mustelidae.
Per quanto l'apertura esocranica sia relativamente ampia, in alcuni casi il passaggio
di una setola è difficoltato dal decorso onduloso e probabilmente anche da restrin-
gimenti o da spicole ossee. Nel cranio di una Lontra adulta, ventralmente e late-
ralmente al foro sottozigomatico posteriore, sulla faccia dorsale della base dell'apotìsi
zigomatica, vi ha bilateralmente un forellino circolare, forame sottozigomatico laterale,
più ampio a destra (mm. 0,5) che a sinistra; esso conduce in un canale diretto
obliquamente in avanti e cranialmente, ove riesce sulla faccia superiore della base
dell'apofisi zigomatica mediante un'apertura esattamente corrispondente al forame
soprazigomatico anteriore da noi descritto nel cranio umano; con opportuni artifizi
però una setola introdotta dal forame sottozigomatico laterale invece di fuoriuscire dal
forame soprazigomatico riesce nella cavità craniana nella porzione anteriore del solco
petrosquamoso. A sinistra il forame sottozigomatico laterale è più esile, ne ci è
riuscito penetrarvi con la setola tranne che per breve tratto; da questo lato manca
pure ogni traccia di forame soprazigomatico.
È interessante ricordare come anche nel cranio di un' altra Lontra giovane
bilateralmente esista un esilissimo forellino sul margine laterale del cono artico-
lare immediatamente al di sotto della linea temporale, però non permeabile ad una
setola: cosi pure in una L. esanguis bilateralmente e in una L. brasiliensis solo a
sinistra, noi abbiamo riscontrato, oltre al foro sottozigomatico posteriore coi soliti
caratteri, nella posizione ora descritta, anche un forellino sottozigomatico laterale,
ampio circa mm. 0,5, il quale dà passaggio ad una robusta setola, che riesce nella
porzione ventrale del canale petrosquamoso.
Negli altri 5 crani di Lontra da noi esaminati, esiste esclusivamente il foro
sottozigomatico posteriore, mancando invece quello laterale. L'occorrenza di un canale
sottozigomatico laterale accompagnato o non da un eventuale forame sopra- o prezi-
gomatico ci pare quindi uu fatto non tanto raro nella Lontra, e giustifica l'accenno
che noi abbiamo fatto di una formazione presso a poco identica nel Canis familiaris:
oltre a ciò ci pare degna di rilievo tale evenienza anche per il fatto che non venne
ancora notata da altri AA. nelle varie famiglie dei Carnivori, e perchè il forame
228 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 70
sottozigomatico laterale, sia pure come fatto eccezionale, occorre in famiglie in cui
è normale una grande ampiezza del canale sottozigomatico posteriore, che rappre-
senta la via principale di deflusso del sangue (Cane, Lontra), potendo in questi even-
tualmente funzionare anche da vero emissario (Lontra), come pure, a quanto vedremo
tosto, in altri in cui il canale sottozigomatico posteriore è pure di molto ridotto per
ampiezza, come anche per- frequenza.
Pam. Hyaenidae e Viverridae. — Mentre Kopetsch (34) afferma che in
un cranio di Hyaena crocuta avrebbe trovato dai due lati, dietro il cono articolare,
una fine apertura solo parzialmente sondabile, a noi invece non riusci di trovarne
traccia alcuna in due crani di H. striata.
Similmente abbiamo pure avuto reperto negativo in un cranio di Herpestes
ichneumon, in cui per altro Kopetsch (34) avrebbe trovato anteriormente e superior-
mente all'apertura uditiva esterna un foramen jugulare spurium capillare.
Fam. Felidae. — I risultati delle nostre ricerche in questa famiglia discor-
dano notevolmente da quelli avuti dalla grande maggioranza degli altri AA., i quali
negano per lo più la esistenza di forami emissari temporali nelle varie specie. Noi
abbiamo esaminato a questo riguardo 43 crani di Felis catus di tutte le età e delle
provenienze le più diverse, ma a preferenza della varietà domestica, 5 crani di F. con-
color, 3 di F. pardus, 4 di F. tigris, e 4 di F. leo.
Per quanto si riferisce al Gatto è a notarsi che il conus articularis è relativa-
mente ben pronunciato, sotto forma di una apofisi laminare quasi verticale o per
lo meno solo un po' concava in avanti, più alta medialmente che lateralmente. In
14 crani senza distinzione di età noi abbiamo trovato assolutamente mancante ogni
traccia di forami o di canali che potessero con sicurezza riferirsi a canali venosi
emissari : negli altri 29 crani, e cioè nei due terzi dei casi, abbiamo invece trovato
dei veri canali emissari e di categorie nettamente diverse, con una proporzione
differente per ciascheduna.
Ordinariamente, in specie negli individui giovani, ma non raramente anche in
individui avanzatissimi in età come si può giudicare per la completa sinostosi delle
loro suture craniane, sul margine mediale del cono articolare, oppure sulla faccia
posteriore del cono stesso, però costantemente in tutta prossimità del margine
mediale, si riscontra un esile forellino circolare nettamente distinto dalla sutura
squamosotimpanica (Fig. 30 fszm), dalla quale è costantemente separato mediante
un lieve ponticello osseo. Tale forametto è nella massima parte dei casi assoluta-
mente piccolo, talvolta visibile solo coll'aiuto di una lente, mascherato tal'altra
dall'attacco anteriore del cercine timpanico : per quanto piccolo, tuttavia nella mas-
sima parte dei casi può dar passaggio ad un minutissimo crine di cavallo; si può
dimostrare quindi con relativa facilità come il canale, di cui il forame sottozigomatico
mediale, ora descritto, rappresenta l'apertura esocranica, riesce nel cranio attraverso
la squama del temporale nella porzione anteriore della sutura petrosquamosa, sutura,
che, specialmente nei giovani soggetti, si presenta ampiamente aperta e con dispo-
sizioni perfettamente simili a quelle del temporale di individui giovani della nostra
specie. Manca tuttavia all'endocranici un sulcus transversus aperto o trasformato in
71 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQUAMOSI 229
canale paragonabile a quello descritto nel Cane e negli altri Carnivori. Una volta noi
abbiamo riscontrabile anzi da ciascun lato un forame sottozigomatico mediale posto esat-
tamente al punto di attacco del margine mediale del cono articolare ed un altro
forame più piccolo posto sulla faccia posteriore del cono a mm. 1,5 di distanza dal
precedente: esistevano cioè dai due lati due forami sottozigomatici mediali.
Men frequentemente, ma però certo non estremamente di rado, assieme al fu-
rarne sottozigomatico mediale od anche indipendentemente da questo, si può verifi-
care sulla faccia dorsale del cono articolare stesso (Fig. 30 fszl), ma verso la sua parte
esterna ed anteriore, a distanza di 2-3 mm. al di sotto del margine superiore tagliente
della base dell'apofisi zigomatica, un altro forellino, foro sottozigomatico laterale,
sempre piccolissimo, difficilmente permeabile alla più fina delle setole, in guisa che
noi siamo una sol volta riesciti a dimostrare perentoriamente dai due lati la comu-
nicazione del canale, che fa seguito a tale apertura, colla porzione anteriore della
solcatura petrosquamosa.
Più raramente ancora, anzi solo come fatto estremamente eccezionale, si può
riscontrare una terza apertura, pure minutissima, immediatamente al di sopra della
linea temporale, in una posizione che corrisponderebbe esattamente a quella occupata
nella nostra specie dai forami soprazigomatici posteriori; tale apertura a noi occorse
in verità solo una volta (Fig. 30 fszp) e dai due lati, contemporaneamente alla esistenza
pure da ciascun lato di un foro sottozigomatico mediale e di uno sottozigomatico
laterale: per essa però non ci riuscì di far penetrare una fine setola altro che per
un tratto di circa 2 mm.
Noi abbiamo riscontrato un forame sottozigomatico mediale, sondabile o non, dai
due lati in 18 casi, 3 volte solo a destra, 2 volte solo a sinistra; in un caso il
forame sottozigomatico mediale era duplice da ciascun lato. Esisteva invece solo un
forame sottozigomatico laterale dai due lati in un solo cranio (Gatto del Pampas, ad.) ;
in due casi esistevano bilateralmente il sottozigomatico laterale e quello mediale, in
due il mediale occorse dai due lati, quello laterale solo a destra.
Data la piccolezza del calibro di questi differenti canali, evidentemente la somma
di sangue, che può esserne esportata, è assolutamente minima e il loro valore fisio-
logico come emissari è naturalmente trascurabile; la ubicazione delle varie aperture
però è così fissa e caratteristica per le differenti categorie ed anche così frequente,
per lo meno per i forami sottozigomatici mediali, nei crani di tutte le età, e non
solamente in crani di individui molto giovani, che stupisce non ne sia stato finora
rilevato esattamente e nella giusta misura il significato morfologico.
Fra 4 crani di F. leo mancava ogni traccia di forami emissari in 2 ; invece negli
altri 2 (1 5 ad. ed 1 5 juv.) sulla faccia posteriore del conus articularis straordi-
nariamente sviluppato, in prossimità della sua estremità laterale, al di sotto del mar-
gine arcuato tagliente della linea temporale nella femmina, spostato più medialmente
nel maschio, abbiamo veduto dai due lati un'apertura relativamente ampia, mm. 2,5-3,
corrispondente ad un foro sottozigomatico posteriore ; sull'ulteriore decorso del canale
che fa seguito a tale apertura noi non possiamo dare alcun schiarimento.
In 4 crani di F. tigris non ci riuscì verificare l'esistenza di alcun forame cui
si potesse dare il valore di emissario.
In un F. concolor e in due F. pardus manca pure ogni traccia di canali emis-
230 ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAMIDA 72
sari ; invece in un altro F. pardus ed in 4 F. concolor esiste, come nel Gatto, bila-
teralmente un foro esilissiino, appena permeabile ad una setola, alla parte superiore
della faccia dorsale del robusto cono articolare, in tutta vicinanza del margine me-
diale dello stesso, foro sottozigomatico mediale; manca invece ogni traccia di canali
sottozigomatici laterali.
Da quanto abbiamo esposto, senza che ci diffondiamo di più a discutere i risul-
tati ottenuti, emerge che, mentre nelle fam. Canidae, Cercoleptinae, Mustelidae ed Ur-
sidae il forame sottozigomatico posteriore rappresenta l'apertura inferiore di un canale
corrispondente alla via tenuta dalla gran parte del sangue endocranico per ritornare
al cuore, e cioè, più che considerarsi come semplice emissario, è da ritenersi come
la via principale di deflusso, nella fam. Felidae, i canali delle varie categorie sono
ridotti realmente al valore di emissari di importanza molto secondaria. Ancora è da
osservarsi che, mentre la costanza e la ubicazione dell'apertura inferiore del canalis
temporalis delle prime famiglie di Carnivori sono giustamente riconosciute dalla mas-
sima parte dagli AA., i reperti da noi avuti nelle fam. Felidae, e più specialmente
nel Gatto, si discostano notevolmente da quelli consegnati nella letteratura.
Ord. P1KNIPJEDIA.
Sono scarsissimi e contradditori i cenni sugli emissari temporali nelle varie specie
di questo ordine: difatti mentre Otto (50) nega l'esistenza di un canalis temporalis
nel gen. Trichecus, avrebbe avuto risultato positivo per il genere Phoca. Un reperto
analogo ha avuto Cope (9), il quale non trovò forami nel gen. Trichecus ed Arctoce-
phalus, solo un postglenoide rudimentale nella Phoca. Kopetsch (34) nega e canalis
temporalis e foramen jugulare spurium nei Pinnipedi (25 crani), non arrischiandosi
a dare tale significato ad una o due aperture non sondabili, che occorrerebbero in
tutti i casi dietro la cresta rappresentante il cono articolare.
Le nostre ricerche confermano completamente il risultato negativo degli altri AA.
per quanto riguarda il Trichecus rosmarus (fam. Trichecidae), non essendo noi riusciti
a verificare l'esistenza in 6 crani di alcun forame, che verosimilmente potesse interpre-
tarsi come emissario. I nostri reperti sono invece diversi per ciò che si riferisce
alla fam. Phocidae: di questi noi abbiamo esaminati 13 crani e cioè 7 di P. vitulina,
4 di P.cristata,l di P. groenlandica, ed 1 di P.hispida: solamente in 3 casi (P. groen-
landica, P. vitulina e P. cristata) dai due lati ed in un altro (P. vitulina) a sinistra,
noi abbiamo potuto escludere perentoriamente la esistenza di qualsiasi traccia di
eanali emissari temporali delle varie categorie.
Nella Phoca esiste costantemente un conus articularis lamelliforme, molto pro-
nunciato, più spesso e più alto medialmente. In alcuni casi (fig. 31 fszm) alla faccia dor-
sale di tale lamina apofisaria, in tutta prossimità del suo margine mediale, nell'inter-
stizio che sta fra il cono ed il contorno anteriore della bulla tympanica (bt), esiste un
forame circolare o leggermente ovalare, ampio mm. 1-1,5, continuato verso l'estre-
mità inferiore del cono articolare da una docciatura più o meno evidente. Da tale
t'orarne ha origine un canale diretto dapprima verticalmente in alto, poi quasi oriz-
zontalmente in dietro, per aprirsi in seguito nel pavimento della fossa cranica media,
1 cm. ventralmente alla sutura petrosquamosa, verso la quale è continuato da
una docciatura ben pronunciata: usando le debite precauzioni noi siamo riusciti a far
73 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI --''l
penetrare a traverso tutto il canale descritto una grossa setola : l'impedimento ad
entrare nel cranio può a nostro avviso essere rappresentato dal brusco cambiamento
di direzione del canale stesso e da ciò che questo nella sua porzione orizzontale è
coperto dal tavolato interno della squama, contro il quale viene ad urtare vertical-
mente una setola introdotta dal forame sottozigomatico mediale. Noi abbiamo riscon-
trato il forame sottozigomatico mediale, solo od accompagnato con forami di altra
categoria, e di cui ci riuscì dimostrare la comunicazione diretta colla cavità craniana,
3 volte dai due lati, una solo a destra.
Contemporaneamente all'apertura suddescritta (Fig. 31 fszl), oppure indipendente-
mente da essa, può occorrere nel cranio di Phoca, un forame sottozigomatico laterale,
posto sulla porzione esterna della faccia dorsale del cono, 6-7 mm. al disotto della
linea temporale più o meno sporgente: detto forame è volto direttamente all'esterno,
continuato però in alto da una docciatura più o meno pronunciata: è ampio mm. 1-1,5
e si continua medialmente con un canale a decorso orizzontale o solo un po' obliquo
in alto, il quale raggiunge il canale sovra descritto nel punto in cui da verticale si
fa orizzontale. Anche per l'apertura sottozigomatica laterale ci venne fatto di pene-
trare con una setola nella cavità craniana: la comunicazione con il canale sotto-
zigomatico mediale e colla cavità cranica si può anche dimostrare facilmente con
iniezioni di sostanze colorate. Il forame sottozigomatico laterale occorse nelle nostre
osservazioni 4 volte dai due lati; in un caso (Fig. 31) esisteva pure il sottozigoma-
tico mediale bilateralmente, in un altro quest' ultimo esiste solo a destra, in un
altro ancora al lato sinistro coesiste un esilissimo forame però non sondabile al di
sopra della base della apofisi zigomatica: finalmente in un caso dai due lati si veri-
ficò solo l'esistenza esclusiva del sottozigomatico laterale.
Ancora, noi abbiamo constatato l'occorrenza di un forame, situato 3-4 mm. supe-
riormente alla linea temporale, lungo una verticale che decussi il contorno poste-
riore dell'apertura uditiva esterna e per la sua posizione riferibile ad un forami-
emissario postsqaamoso : tali aperture sono per lo più assolutamente piccolissime,
quasi microscopiche: in casi eccezionali (1 P. frittata) il forame è ampio circa 1 mm.
ed il canale, che gli fa seguito, attraversa a tutto spessore la squama diretto dorsal-
mente e medialmente.
Finalmente anche al di sopra della base della apofisi zigomatica possono occor-
rere dei microscopici forametti, i quali, pur rappresentando per lo più lo sbocco di
semplici canali diploici, tuttavia possono talvolta (un caso e da un solo lato) dar
passaggio ad una finissima setola (foro soprazigomatico posteriore).
Risulta quindi evidente che nel gen. Phoca, a differenza di quanto asseriscono gli
altri AA., si riscontrano appunto dei forami emissari temporali molteplici e da classi-
ficarsi in categorie diverse: è tuttavia da avvertirsi come, specialmente per quelli posti
al di sopra dell'apofisi zigomatica e della linea temporale, si debba ventilare l'ipotesi
che essi siano ridotti a semplici canali diploici: certamente, pure ammettendo la im-
portanza complessivamente minima degli emissari delle varie categorie, i superiori non
sono in genere degni di nota altro che per il loro significato morfologico: a noi basta
aver dimostrato perentoriamente l'esistenza degli uni e degli altri.
In un cranio di Callorhynus ursinus (fam. Otariidae) bilateralmente, in altro solo
a destra, sul margine laterale del cono articolare abbiamo verificato la esistenza
232 ALFONSO BOYERO — UMBERTO CALAMIDA 74
di un forame, sondabile però solo per breve tratto, corrispondente affatto per la ubi-
cazione al forami' sottozigomatico Intende descritto per la Phoca.
Ord. RODENTI A.
11 decorso delle vie sanguigne di deflusso del sangue endocranico attraverso
l'osso temporale nella grande maggioranza dei Roditori è abbastanza ben conosciuto,
appunto perchè, come nel massimo numero dei Carnivori e degli Ungulati, esso costi-
tuisce una disposizione perfettamente normale: e noi abbiamo di già ricordato diffu-
samente nella letteratura i reperti dei vari A A. Noteremo qui solamente ancora una
volta come Salzer (57) abbia studiato il modo con il quale si stabiliscono tali vie
per rispetto alla cronologia dello sviluppo appunto principalmente nella Cavia, rodi-
tore in cui, come carattere permanente, lo sgorgo di gran parte del sangue si fa
attraverso il temporale. I vari ricercatori si limitano per lo più ad accennare vaga-
mente tale fatto, specialmente in relazione alla ubicazione della apertura esterna dei
canali ossei, che a detta via danno ricetto. Così secondo Cope (9) nei Roditori non
sarebbero mai presenti il forame sopraglenoideo ed il postparietale, il mastoideo è
raro, generalmente presente il subsquamoso, che si può facilmente confondere col
postsquamoso : in alcune specie (Lepus, Lagomys, Lagidium, Cercolabes) non esiste-
rebbe traccia alcuna dei vari forami, in altri invece esisterebbe un forame postgle-
noideo isolato (Lagostomus, Geomys, Erithizon), o confluente con un postsquamoso
(Hystrix, Hydrochaerus, Neotoma, Arvicola), oppure separato da questo {Castor, Oynomys,
Spermophilus).
Più esatte e più diffuse sono le descrizioni cbe dà Kopetsch (34) nelle varie
famiglie: dalle sue ricerche risulterebbe che non tutti i Roditori, relativamente alle
particolarità che abbiamo in esame, si comportano in modo identico: nei Leporidi non
esisterebbe alcun forame giugulare spurio, il quale invece, pur essendo piccolo, sarebbe
costante nei gen. Sciurus, Tamias, Oynomys, ('attor, Cercolabes, Cavia e Dasyprocta:
alquanto maggiore occorre pure nei gen. Arctomys, Georrychus ed Hydrochaerus : final-
mente il forame predetto raggiunge la massima ampiezza, presentandosi sotto forma
di una larga fessura semilunare, nei gen. Cricetus, Mtts, Meriones, Arvicola, Hystrix,
Coelogen/js e Myopotamus.
Le nostre ricerche confermano, in gran parte, dilucidandoli ed allargandoli, i
risultati di Kopetsch : per alcuni riguardi però i nostri risultati sono completamente
diversi da quelli di tale A.
Subord. Sciuromorpha ; Fam. Sciuridae. — Di questa famiglia noi abbiamo
esaminato 15 crani di Sciurus (3 S. concolor, 12 S. vulgaris), 1 di Xerus Erytropus,
6 di Arctomys marmata e in tutti, salvo leggere differenze, esiste un identico com-
portamento. Negli uni e negli altri, come del resto in tutti i Roditori, manca com-
pletamente ogni traccia di cono articolare e la fossa mandibolare si presenta
diretta sagittalmente, limitata lateralmente dalla faccia inferiore della base del pro-
cesso zigomatico, medialmente dalla porzione basilare della squama temporale: le
dimensioni della fossa mandibolare variano naturalmente a seconda della specie.
Nello Sciurus al di sotto della radice orizzontale del processo zigomatico, poste-
riormente al punto in cui da detta radico si distacca il margine dorsale tagliente
75 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 233
fortemente convesso in basso e posteriormente del processo stesso, a 2-4 mm. supe-
riormente ed anteriormente al contorno dell'apertura uditiva esterna, vi ha da ciascun
lato nello spessore della squama temporale, oppure nel limite fra l'osso timpanico
e l'osso squamoso un'apertura ovalare scavata a fossetta, larga da 1 a 2 mm., che
si può ritenere come un foro sottozigomatico laterale. Tale apertura è ordinariamente
il confluente di 3-4 canali, dei quali uno, più lungo, è diretto in alto e dorsalmente
fra la squama e l'osso petroso ed arriva nella cavità del cranio nella sutura petro-
squamosa subito in avanti e superiormente al braccio anteriore del canale semicir-
colare superiore ; questo canale non solo è il più lungo, ma è anche quello relativa-
mente più ampio in guisa che una grossa setola può percorrerlo con la massima
facilità.
Un altro canale invece, assai più breve, conduce quasi trasversalmente nella
fossa media, a 3-4 mm., al davanti dell'apertura endocranica di quello precedente-
mente descritto, sempre però nella sutura petrosquamosa ; una setola introdotta dal-
l'apertura endocranica del primo canale può riuscire, invece che all'esterno, nell'in-
terno del cranio dall'apertura superiore del canale aprentesi nella fossa media; vi
ha cioè un tratto della sutura petrosquamosa, corrispondente alla porzione ventrale
del solco per il sinus transversus, completamente chiuso e trasformato in un canale,
il cui comportamento, astrazion fatta dalle aperture esocraniche, è analogo a quello
del canale di Verga dell'Uomo.
Costantemente ancora alla apertura sottozigomatica laterale ora descritta giunge
pure un canale diretto verticalmente in alto, fra la faccia interna della squama e
il tavolato interno del parietale, ed aperto inoltre all'esocranio nella sutura parieto-
squamosa sotto forma di una vera fessura molto allungata in direzione sagittale:
la lunghezza di quest'ultimo canale varia da 1 a 2 mm. ed una setola introdotta
dall'apertura parietosquamosa può fuoriescire con eguale facilità o dal forame sotto-
zigomatico laterale, oppure dal forame endocranico situato nella sutura petrosqua-
mosa nella fossa craniana media. In 2 casi, invece di un forame parietosquamoso,
l'apertura superiore del canale verticalmente diretto era scavata esclusivamente nello
spessore della squama; data la minima altezza di questa si può ben parlare di un
forame soprazigomatico posteriore {soprasquamoso nel senso di Cope).
Finalmente nella massima parte dei casi alla apertura sottozigomatica laterale,
o per lo meno alla parte posteriore della fossetta, che la rappresenta, riesce pure
un fine canalino, il quale origina da un forametto situato subito posteriormente ad
essa, immediatamente al disopra della apertura esterna del condotto uditivo, essendo
separato dal sottozigomatico laterale mediante un esile ponticello osseo. Per la sua
ubicazione, quando non si voglia ritenere come uno sdoppiamento del sottozigoma-
tico laterale, si potrebbe ritenere come un sottosquamoso (Cope) ; certo è sempre molto
più esile dello altre aperture, ridotto per lo più ad una fine fessura, nella quale si
introduce colla massima difficoltà una minutissima setola; nei casi in cui esso manca,
si può ammettere siasi confuso col sottozigomatico laterale, appunto perchè quest'ul-
timo si presenta in tali casi assai più ampio e cioè sotto forma di una fessura semi-
lunare, quale noi riscontreremo, però più esagerata, in altri generi di Goditori. Nello
Sciurus quindi si deve ritenere come affatto costante l'esistenza di un forame sotto-
zigomatico laterale molto ampio, che rappresenta il confluente di parecchi altri canali
Serie II. Tom. LUI. ,
23-1 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 76
secondari, di cui due si aprono all'endocranio in punti diversi della sutura petrosqua-
mosa, un altro si apre superiormente come forame parietosquamoso o soprazigomatico,
un altro come sottosquamoao.
Neil' Arctomys marmata esistono disposizioni alquanto differenti da quelle descritte
per lo Sciurus: costantemente al disopra della radice sagittale dell'apofisi zigoma-
tica, ad 1-2 mm. di distanza dal margine tagliente di detta radice, in una posizione
complessivamente ventrale all'apertura esterna del canale uditivo, nello spessore
della parte bassa della porzione verticale della squama temporale, vi ha un'ampia
apertura ovalare (Fig. 32 fszp), con un massimo diametro di 5-7 mm. disposto sagittal-
mente e che corrisponde ad un forame soprazigomatico posteriore: all'apertura esterna
ne corrisponde un'altra perfettamente analoga sulla faccia cerebrale dell'osso squa-
moso isolato (Fig. 33 fszp). Dall'apposizione dell'osso petroso allo squamoso ne risulta
medialmente a tale apertura una specie di fossetta, che può considerarsi come il
punto di confluenza di parecchi altri canali. Di questi, uno ha origine da un forel-
lino per lo più molto esile apreatesi all'esterno sopra la radice sagittale del pro-
cesso zigomatico, immediatamente all' indietro del precedente, vale a dire subito
superiormente all'apertura esterna del condotto uditivo: e questo, quando non voglia
considerarsi come prodotto dallo sdoppiamento del forame soprazigomatico poste-
riore, potrebbe anche considerarsi, come un foro postsquamoso nel senso di Core:
esso tuttavia è tutt' altro che costante, avendolo noi riscontrato una sol volta dai due
lati ed in un cranio solamente dallato sinistro; in ogni caso il canale che lo continua,
del resto assai breve, riesce alla parte posteriore della fossetta prima descritta.
Più frequente è invece un altro forame (Fig. 32 fszl) posto caudalmente alla radice
orizzontale del processo zigomatico, che lo ricopre, mascherandolo lateralmente; esso
può considerarsi come un forame sottozigomatico laterale; è sempre, quando esiste,
assai più piccolo del soprazigomatico, per lo più ovalare, con un massimo diametro
di mm. 0,5-4, evi corrisponde nella faccia interna dello squamoso un'apertura affatto
corrispondente, distinta da quella, del soprazigomatico (Fig. 33 fszl) : il canalino, che
fa seguito all'apertura del forame sottozigomatico, riesce ad ogni modo alla parte bassa
della fossetta delimitata medialmente al forame soprazigomatico dalla apposizione
dell'osso petroso allo squamoso, in guisa che una setola o una sonda, introdotte ver-
ticalmente dal foro soprazigomatico, fuorescono immediatamente dal foro sottozi-
gomatico. Quest'ultimo non è tuttavia assolutamente costante: in 2 casi (uno gio-
vanissimo ed un adulto) non ci riusci di trovarne traccia alcuna.
Dalla sutura dello squamoso coll'osso petroso risulta che la fossetta sovraccen-
nata, a cui confluiscono i vari canali, è per lo più ampiamente aperta in alto e
medialmente, rappresentando cosi la via di deflusso del seno trasverso, che lascia
traccie molto evidenti in avanti ed in addietro nella sutura petrosquamosoparietale,
sotto forma di una pronunciatissima solcatura. Accade però, specie negli individui
adulti (Fig. 34 sps), che il sulcus transversus venga parzialmente trasformato in un vero
canale dalla riunione dell'osso petroso col tavolato interno dell'angolo mastoideo del
parietale; onde, osteologicamente, la fossetta descritta, posta fra la squama e la
piramide, si aprirebbe nella cavità cranica rispettivamente con una apertura ante-
riore (a) e con una posteriore (fi), corrispondenti appunto esattamente alle rispettive
aperture del canale teinporoparietalo.
77 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 235
Nella Marmotta quindi si deve ritenere come carattere fisso l'esistenza di un
forame soprazigomatico posteriore, molto ampio, attraverso cui defluisce la maggior
parte del sangue del seno trasverso: i forami sottozigomatico laterale e postsquamoso
sono meno costanti ed hanno anche per il loro calibro un' importanza piuttosto
secondaria.
Poiché stiamo discorrendo dell' Ar et omgs marmata crediamo interessante rile-
vare come in questo roditore gli apici delle due rocche petrose vengono a riu-
nirsi fra di loro, superiormente alla faccia endocranica del basisfenoide per mezzo
di due robusti prolungamenti ossei appiattiti in direzione craniocaudale, in guisa
da determinare la formazione di una sutura sagittale fortemente dentata, lunga 2-3 mm.
al disopra del basisfenoide (sutura crittica) : su questo fatto molto interessante e
così oscuro ritornerà prossimamente uno di noi (Bovero).
Ancora della fam. Sciuridae, nello Xerus Erythropus esiste solo un forame sopra-
zigomatico ovalare, ampio 2 mm., mancando invece il forame sottozigomatico.
Fam. Castovidae. — Nel Gastor fiber (6 crani) il condotto uditivo è molto
proeminente in alto e spostato in addietro, lasciando fra il margine posteriore del-
l'apofisi zigomatica e il suo contorno anteriore un interstizio di 17-18 mm. Subito
al disotto della linea temporale vi ha costantemente un forame irregolarmente ova-
lare o circolare di min. 1-2,5, forame sottozigomatico laterale, scavato completamente
nella squama, a cui segue un canale diretto in alto e dorsalmente per raggiungere
il sulcus transversus all'estremità posteriore della sutura pari etopetrosa : in un cranio
dai due lati, in altri 2 solo dal lato destro, invece di un solo forame sottozigo-
matico se ne riscontrano due, dei quali il posteriore è costantemente il più ristretto,
sì da dar passaggio appena ad una setola: il canale che gli fa seguito si riunisce
tosto al precedente. Quasi costantemente vi ha ancora un altro canalino, vertical-
mente discendente dalla sutura parietosquamosa a raggiungere il canale originante
dal foro o dai fori sottozigomatici.
Subord. Myomorpha; Fam. Muridae. — Di questa famiglia abbiamo preso
in esame 43 crani e cioè: 23 di Mus decumanus, 7 di M. rattus, 4 di M. musculus, 6 di
Cricetus frumentarius, e 3 di Arvicola amphibius, in grande maggioranza macerati da
uno di noi (Bovero), ed in tutti abbiamo verificato press'a poco l'identico comportamento.
Dietro la superficie articolare per la mandibola, allungata sagittalmente, caudalmente
alla linea temporale, che si fa tanto più smussa quanto più si considera in addietro,
nel limite fra il margine inferiore della squama temporale ed il contorno anteriore
dell'osso timpanico, esiste un'ampia soluzione di continuo sotto forma di fessura semi-
lunare, a grande asse obliquo in alto e dorsalmente, la quale mette direttamente
nella cavità craniana. Questa fessura è limitata specialmente nel suo margine supe-
riore da una concavità molto marcata del margine inferiore dello squamoso, poste-
riormente ed inferiormente dalla convessità dell'osso timpanico. Le dimensioni di
detta fessura, attraverso la quale defluisce la gran parte del sangue endocraniano,
variano naturalmente a seconda della specie: nel M. decumanus il diametro mag-
giore oscilla da 4 a 6 mm., quello minore verticale da 2-3 mm.: negli altri Mus queste
dimensioni sono notevolmente diminuite. AU'endocranio tale ampia fessura si apre
236 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA /8
nella fossa media, subito a ridosso della piramide e si continua dorsalmente e late-
ralmente con il solco transverso.
Oltre alla predetta apertura, i cui caratteri corrispondono abbastanza esatta-
mente a quelli descritti da Kopetsch, noi ne abbiamo ritrovata costantemente un'altra
piccolissima, talvolta veramente microscopica, raramente sondabile con un finissimo
crine, posta in alto ed in avanti alla fessura semilunare ora descritta, immediata-
mente al di sotto del punto in cui la linea temporale si continua col margine poste-
riore del processo zigomatico: tale minutissimo forellino è per lo più in forma di
fessura e dista, per lo meno nel M. decumanus, 1-2 mm. dalla porzione del margine
inferiore della squama delimitante la fessura squamosotimpanica : il canalino, che ne
origina, attraversa la squama a tutto spessore, obliquo in alto e ventralmente per
aprirsi nel cranio alquanto al disopra della precedente apertura: per distinguere le
due aperture sottozigomatiche ora descritte si potrebbe chiamare la prima fessimi
sottozigomatica, la seconda forame sottozigomatico laterale, avvertendo che quest'ultimo
sfuggi completamente a Kopetsch come agli altri AA.
Altre aperture, però non costanti ed evidenti, occorrono ancora nel gen. Mus:
frequentemente, in ispecie nel M. decumanus, come pure nel Cricetus frumentarius, nel
quale la mancanza è veramente l'eccezione, subito al disopra dell'estremità posteriore
della linea temporale, od anche sulla sporgenza stessa di quest'ultima, immediatamente
in avanti del prolungamento temporale della cresta occipitale, cui corrisponde la sutura
squamosomastoidea, si verifica l'esistenza di un forametto sempre esilissimo, microsco-
pico, notevole solo per la frequenza con la quale compare e per la costanza della
sua ubicazione, sì che ragionevolmente, anche senza che non vi si possa mai far
penetrare una fine setola, si deve ritenere come un emissario e più precisamente
come emissario postsquamoso nel senso di Cope : questo forametto venne pure osser-
vato da Kopetsch in un Cricetus ed in un Meriones.
Infine, ancora nelle varie specie di Mus, abbiamo riscontrato non raramente,
specie nel M. decumanus, l'esistenza di un forame sempre esilissimo (una volta ci fu
possibile farvi penetrare una fine setola) nella sutura parietosquamosa, nel punto
ove questa si fa orizzontale e cioè lungo una linea verticale, che decussa il margine
posteriore del processo zigomatico, a distanza di mm. 1-1,5 dalla sporgenza della
linea temporale : in un cranio di M. decumanus tale forame era dai due lati scavato
completamente nello spessore della squama, subito cranialmente alla linea temporale,
in guisa da costituire un forame soprazigomatico posteriore: questo assumeva per
rispetto all'esile forame sottozigomatico laterale, naturalmente astrazion fatta dal
calibro, la medesima posizione che il soprazigomatico costante nella Marmotta assume
per rispetto al sottozigomatico incostante.
Riassumendo, nel gen. Mus la via di deflusso principale del sangue venoso en-
docraniano decorre attraverso un'ampia fessura sottozigomatica o squamosotimpanica :
costantemente però vi ha inoltre un forame emissario sottozigomatico laterale, frequen-
temente un forame emissario postsquamoso, ed un forame parietosquamoso, eccezional-
mente un forame soprazigomatico posteriore.
Subord. Hystrichomorfa ; Fani. Hystricidae. — In 2 crani di Hystrix
cristata la sutura timpanicosquamosa è ampiamente aperta all'esterno. Alla parte
79 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 237
posteriore e superiore di questa sutura, e quindi cranialmente all'apertura del con-
dotto uditivo esterno, esistono due ampi forami irregolarmente ovalari, separati da
un esile ponticello osseo, i quali si aprono superiormente e isolatamente in fondo di
una spiccatissima, solcatura petrosquamosa. La loro apertura esterna è sormontata
da una specie di labbro osseo dipendenza della squama, che si prolunga avanti ed
in basso, servendo cosi a delimitare una docciatura obliqua caudalmente, in avanti
e lateralmente, il cui fondo è occupato dalla sutura petrosquamosa: all'estremità
anteriore di tale docciatura la sutura petrosquamosa cambia direzione per farsi
trasversale.
In un altro Hystrix sja.? e dai due lati, invece di due aperture, vi ha un'unica
ampia fessura squamosotimpanica, come descrive appunto neìY Hystrix il Eopetsch :
del resto il comportamento è identico ai casi precedenti.
Fam. Octodontiflae. — In 2 Myopoiamus coypus il reperto da noi avuto è
perfettamente analogo a quanto abbiamo visto néìl'Hystrix, osservando però che la
apertura squamosotimpanica è unica.
Fam. Lagostomi dae. — Anche in 2 Lagostomus tricodaetylus la porzione
squamosa ripara completamente, come ne\Y Hystrix, con un processo fortemente spor-
gente e disposto a semicanale, la porzione petrotimpanica. Superiormente ed ante-
riormente al condotto uditivo esterno la sutura petrosquamosa si apre a costituire
una specie di fessura dilatata posteriormente, e cioè un forame ovalare, che conduce
nella cavità cranica.
Fam. Dasyproctidae. — Noi abbiamo esaminato un cranio di Dasyproda
Azarae e 2 di Coelogenìs Paca (Paraguay): nell'uno e nell'altro le disposizioni sono
poco differenti. Il comportamento della regione che ci occupa nel D. Azarae è anche
perfettamente analogo a quello della Cavia : la squama temporale è completamente
distinta dall'osso petroso e la sutura fra le due ossa è fortemente curva colla
concavità posta al di sopra del condotto uditivo esterno : più che di una vera sutura
si tratta qui di una fessura anteroposteriore, qua e là più o meno allargata, sì da
dar passaggio ad una setola. Oltre a questo, al punto di riunione della regione ba-
silare colla porzione laterale della sutura petrosquamosa, immediatamente all'indietro
della fossa mandibolare, in una posizione cioè corrispondente al forame sottozigo-
matico laterale di altri Roditori, vi ha un esile forellino circolare separato dalla por-
zione ventrale della sutura predetta da un leggero ponticello osseo, forellino che dà
passaggio solo a una finissima setola.
Nel Coelogenìs Paca la rima delimitata dalla squama e dalla porzione petrosa è
assai più larga, aprendosi ampiamente all'interno del cranio, specialmente allargata
alla sua porzione anteriore: in uno dei 2 crani tale porzione anteriore è trasfor-
mata in un forame circolare, ampio 3 mm., perfettamente distinto dal resto della
porzione dorsale della fessura per l'apposizione al margine inferiore concavo della
squama di un robusto dentello osseo, dipendenza dell'osso petroso. Nel Dasyprocta,
come nel Coelogenìs, il labbro superiore della fessura sporge all'esterno assai più che
non il labbro inferrore costituito dall'osso petroso.
2 - ALFONSO BOVEEO — UMBERTO CALAMIDA 80
Fani. Caviidae. — In 6 crani di Cavia cobaya occorrono ancora le medesime
disposizioni riscontrate nel Coelogenis. La fessura petrosquamosa semilunare è tut-
tavia assai più ristretta, allargata solamente a costituire una specie di forame cir-
colare, ampio all' incirca 1 mm. alle sue estremità rispettivamente anteriore e po-
steriore: di questi due forami, che danno comodamente passaggio ad una grossa
setola, l'anteriore è posto immediatamente in addietro della fossa mandibolare, nel
punto in cui la porzione laterale della sutura petrosquamosa si continua con la
porzione basilare trasversale e questo rappresenterebbe un forame sottozigomatico la-
terale; il posteriore invece occupa per rispetto al condotto uditivo una posizione supe-
riore ed alquanto dorsale, in guisa che corrisponderebbe ad un sottosquamoso (Cope).
Subord. Lagomorpha. Fam. Leporidae. — I reperti da noi avuti in questa
famiglia non concordano punto con quelli di Kopetsch.
In 15 crani di Lepus timidus ed in 16 di L. cuniculus di differente età e di prove-
nienza diversa, noi abbiamo costantemente visto che la fessura squamosopetrosa, già
descritta in altri Roditori, è anche qui fortemente curva colla concavità rivolta in basso
ed alquanto dorsalmente, quasi ad abbracciare il contorno superiore del condotto udi-
tivo osseo. Più che una vera sutura si tratta della apposizione del margine inferiore
concavo della porzione posteriore della squama ridotta, come del resto in molte fa-
miglie di Roditori, ad una tenue lamella ossea, all'osso petroso, in guisa che questo
si trova coperto dal margine predetto della squama : in altre parole il margine della
squama delimitante la fessura sporge a guisa di un orletto al di sopra e lateralmente
all' osso petroso. Per la massima parte di questa fessura le due ossa vengono a
mutuo contatto in guisa da non lasciar passare neanche la più fina delle setole; solo
nella sua porzione anteriorsuperiore vi ha costantemente una vera soluzione di
continuo, e cioè un' apertura ovalare più o meno ampia (mm. 0,5-1 in senso antero-
posteriore, 1-2 mm. in senso verticale), che mette immediatamente nel solco petro-
squamoso. Contrariamente cioè a quanto asserisce Kopetsch (34), attraverso alla fes-
sura petrosquamosa e nella sua porzione anteriorsuperiore vi ha un' apertura, che
serve appunto per il decorso di un ramo venoso di deflusso della cavità craniana.
Indipendentemente da questa via e dalla rispettiva apertura ossea, ancora costan-
temente nel Coniglio e nella Lepre noi abbiamo verificato, subito indietro della
superficie articolare allungata trasversalmente sotto la base del processo zigomatico,
nell'interstizio fra il limite posteriore di detta superficie articolare e il margine poste-
riore della base dell'apofisi stessa, nel fondo di un solco arcuato disposto trasversal-
mente, fortemente concavo in basso, l'esistenza di un minutissimo forellino circolare
od ovalare, attraverso il quale, solo molto raramente, si può far passare una minu-
tissima setola e che per la posizione si può considerare come analogo ai forami
sottozigomatici laterali ripetutamente descritti. Esso, ripetiamo, costituisce un carat-
tere affatto costante, per lo meno in tutti gli esemplari da noi esaminati, qualche
volta è cosi fine da essere necessario l'aiuto della lente per dimostrarlo: altre
volte però può assumere delle dimensioni abbastanza rilevanti, come è dimostrato
da un caso (L. timidus, ad.) in cui a destra misurava 1 mm. di diametro, a sinistra
circa 0,5 mm., ed era perfettamente sondabile. In ogni caso esso- si continua con un
81 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETBOSQUAMOSI 239
canale, .che attraversa la squama del temporale e si apre nella fossa cranica media
superiormente alla porzione ventrale del sulcus transversus.
Ancora, nella Lepre come nel Coniglio, noi abbiamo riscontrato talvolta un altro
forametto pure estremamente esile immediatamente al di sopra del margine poste-
riore della base dell'apofisi zigomatica; attraverso ad esso però non siamo riusciti
mai a penetrare nella cavità cranica: noi lo ricordiamo solamente come foro sopra-
zigomatico posteriore per la costanza della sua ubicazione; certamente i due forami
sopra- e sottozigomatico devono avere un valore molto secondario come emissari, per
rispetto all'apertura situata più dorsalmente nella sutura squamosopetrosa : questa
a sua volta, paragonata alle ampie fessure riscontrate in altri generi, ha pure dimi-
nuita la sua importanza.
Riassumendo, nelle varie famiglie di Roditori noi troviamo delle disposizioni assai
differenti sulle quali d'altra parte ci siamo già fermati assai diffusamente. Anzitutto
è da ricordare come in tutti i Roditori, ciò che del resto è dimostrato dalla storia
dello sviluppo ed in parte è noto già per precedenti ricerche, gran parte del sangue
della cavità craniana fuoriesce dal cranio attraverso l'osso temporale e cioè mediante
canali perforanti preferibilmente ed esclusivamente la squama, oppure decorrenti lungo
le linee di riunione della squama con l'osso petroso: le vie di deflusso si possono
distinguere in principali ed in secondarie, costituenti quest'ultime, fisiologicamente,
dei veri emissari, il che del resto si verifica, come abbiamo visto, anche per altri
ordini di Mammiferi. Mentre nelle specie in cui la squama temporale si è ridotta di
molto nei suoi diametri verticali, le vie principali decorrono all'esterno attraverso la
sutura petrosquamosa, disposta a fessura di varia foggia, in altri Roditori (Sciurus,
Arctomys etc.) le medesime vie principali decorrono invece essenzialmente attraverso
la squama stessa (foro soprazigomatico, f. sottozigomatico), e ciò avviene nelle famiglie
in cui la squama temporale, pur mantenendosi per tutta la vita completamente distinta
dalla porzione petrosa, ha conservato delle dimensioni verticali relativamente grandi.
In questo gruppo di Roditori occorre anche un maggior numero di forami secondari,
veri emissari, fra i quali più frequenti sono il sottozigomatico laterale (costante o quasi)
ed il postsquamoso. Il sottozigomatico laterale si riscontra pure come carattere quasi
fisso anche in taluni Roditori (Lepre, Coniglio) in cui le vie di deflusso attraversanti
la fessura petrosquamosa sono relativamente ad altri (Coelogenys, Mus) diminuite di
valore fisiologico.
Ord. UNGULATA.
I rapporti del sistema venoso con l'osso temporale variano assai nelle differenti
famiglie di quest'ordine, perchè, mentre da una parte in parecchie famiglie il deflusso
del sangue endocraniano si fa prevalentemente per opera della vena giugulare esterna
attraverso il canale temporale, in altri invece il sangue refluo è esportato preva-
lentemente dalla v. giugulare interna, oppure dalla v. vertebrale, oppure ancora per
opera della giugulare esterna mediante gli emissari occipitali, sfenoidali, orbitari ed
anche per mezzo delle vene satelliti dei tronchi nervosi cerebrali. Il comportamento
dei canali ossei, che danno ricetto al vaso od ai vasi riunienti il seno trasverso
alla vena giugulare esterna, siano questi canali destinati a vie principali come a vii
accessorie decorrenti attraverso le varie parti costituenti l'osso temporale, è abbastanza
240 ALFONSO BOVERO UMBERTO CALAMIDA 82
ben conosciuto, in ispecie per ciò che riguarda i Mammiferi domestici, in quanto questi
fanno essenzialmente oggetto di studio dell'Anatomia veterinaria, come abbiamo del
resto visto minutamente dalle descrizioni dei vari AA. Per alcune famiglie tuttavia
il materiale studiato è ancora relativamente scarso, in guisa che non paiono inutili
ulteriori ricerche; per altri infine, relativamente a talune particolarità secondarie, noi
non troviamo cenni abbastanza chiari e concordanti, oppure anche questi mancano
completamente. Tralasciando ora i dati generali già riferiti nella rivista della letteratura
(Otto, Gurlt, Schwab, Hallmann, Rathke, Luschka, Flower, Denker, Lowenstein,
Legge, Chauveau e Arloing, Ellenberger e Baum, Sussdorf, ecc.) noi vediamo come
Cope (9) neghi l'esistenza di qualsiasi forame, che rappresenti l'apertura di canali venosi
attraversanti il temporale, negli Iracoidi, nei Proboscidei e in taluni Artiodattili omnivori
(Sus, Dycotiles, Phacochaerus): nei Perissodattili il numero dei forami va aumentando
dal Bhinocerus (postparietale) e dal Tapirus (postparietale e mastoideo) alla famiglia
degli Equidi (postparietale, postsquamoso, postglenoide e supraglenoide): fra gli Artio-
dattili omnivori, YHyppopotamus ed il Chaeropsis, a differenza dei Suini, avrebbero
parecchi dei forami sopra accennati : i Ruminanti, sia attuali che fossili, sono carat-
terizzati dalla presenza di un numero di forami superiore a quello di qualunque altro
ordine di Mammiferi.
Kopetsch (34) conferma la mancanza di ogni traccia di forame venoso emissario
temporale negli Iracoidi (7 crani), nei Proboscidei (3 cr.), negli Artiodattili non rumi-
nanti (Obesa, 4 cr. ; Suina, 17 cr.): negli Artiodattili ruminanti (Cavicornia, 80 cr.;
Cervina, 41 cr.; Deoexa, 1 cr. ; Moschidae, 1 cr. ; Camelidae., 1 cr.) è costantemente
presente un foramen iugulare spurium per lo più molto ampio, il quale conduce,
o direttamente o coll'interposizione di un breve canale (meatus temporalis), nella ca-
vità craniana: in modo analogo si comportano tutti i Perissodattili (Eauidae, 13 cr.;
Nasicomia, 2 cr.; Tapirina, 2 cr.).
Per le considerazioni prima esposte e per la conoscenza relativamente ampia
dell'argomento che ci occupa nei Mammiferi domestici vediamo ora, più succinta-
mente che per gli altri ordini, i reperti avuti dalle nostre ricerche.
Subord. Hyracoidea. — Fani. Procaviidae. — In un Byrax capensis il forame
giugulare è discretamente ampio dai due lati, il cono articolare enormemente svi-
luppato: manca tuttavia qualsiasi traccia di forame temporale, che si possa inter-
pretare come una via venosa.
Subord. Proboscidea. — Fara. Elephiintiilae. — In un Elephas indicus giova-
nissimo (Museo Se. Veter. di Torino) il cono articolare si presenta ancora sotto forma
affatto rudimentale, a mo' di una piccola cresta limitante dorsalmente la superficie
articolare: da ciascun lato sul margine esterno di detta cresta, inferiormente alla
radice sagittale del processo zigomatico, ventralmente al contorno anteriore dell'osso
timpanico, vi ha un esilissimo forellino circolare, ampio uu po' meno di 1 mm.,
non permeabile che per un tratto brevissimo ad una setola; questo forellino cor-
risponde con ogni probabilità ad un forame emissario sottozigomatico laterale. Inoltre
dai due lati, superiormente alla base del processo zigomatico, verso la parte poste-
riore della porzione del planum temporale immediatamente sovrastante a detto pro-
cesso, esiste un forellino circolare, ampio mm. 1,5 a sinistra. 1 mm. a destra, dal
83 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAHOSI 241
quale ha origine un canale diretto medialmente ; attraverso tale apertura, che per la
ubicazione rappresenterebbe un emissario soprazigomatico posteriore, non siamo riusciti
tuttavia a penetrare nella cavità craniana.
In altri due crani di E. indicus ad. (M. d'An. Comp.) con cono articolare enor-
memente sviluppato, i nostri reperti furono completamente negativi.
Subord. Perissodactyla. — Fam. Rhinocerotidae e fam. Tapiridae. —
Nel cranio di un Rhinocerus javanicus, analogamente a quanto ha riscontrato Kopetsch
in un R. indicus, noi abbiamo osservato, superiormente e alquanto medialmente alla
superficie articolare per la mandibola, un' apertura ampia 5 mm., cui segue un canale,
che sbocca superiormente nella cavità del cranio. Manca ogni traccia di forami sopra-
zigomatici.
In un Tapirus americanus il cono articolare è robustamente sviluppato ; indietro
e medialmente a questo vi ha un' apertura ovalare, ampia 2 mm., foro sottozigomatico
mediale. Al di sopra della radice sagittale del processo zigomatico esiste pure bila-
teralmente un forellino circolare, foro soprazigomatico posteriore, attraverso a cui si
giunge nella cavità cranica.
Fam. Equidae. — ì$ell'Equus caballus (10 ci\), come nell'i?, asinus (3 cr.), e
nell'i?, quagga (1 cr.), esistono disposizioni fondamentalmente identiche, in guisa che
le descrizioni dell'uno possono riferirsi anche agli altri.
Il cono articolare si presenta sotto forma di un robusto mammellone osseo,
schiacciato in senso dorsoventrale, più alto medialmente che non lateralmente: sulla
faccia posteriore del cono si riscontra un'ampia e profonda docciatura, decorrente
sagittalmente in addietro, limitata lateralmente e medialmente da due creste dipen-
denti dello squamoso: dalla apposizione dell'osso petrosotimpanico allo squamoso,
tale docciatura, conformata a semicanale rivolto in basso e dorsalmente, viene chiusa
e trasformata in addietro in un canale completo, la cui apertura è parzialmente
mascherata dalla sporgenza dell'osso timpanico. Essa ad ogni modo occupa una po-
sizione immediatamente posteriore al cono articolare, merita perciò di essere con-
siderata come un foro sottozigomatico posteriore: il canale, che si origina da detta
apertura, è dapprima compreso, come abbiamo detto, fra l'osso petroso e lo squamoso,
si volge obliquamente curvo in alto ed all'indietro, per farsi in seguito orizzontale;
in questa sua porzione orizzontale è limitato lateralmente dalla squama tempo-
rale, inferiormente dalla faccia superiore della base della rocca, medialmente dal
tavolato interno dell'osso parietale suturato o sinostosato coll'osso petroso. In ad-
dietro, giunto cioè a livello della estremità laterale dello spigolo superiore della
rocca, il canale viene a continuarsi ancora orizzontalmente sulla faccia interna del-
l'osso occipitale. Esso corrisponde cioè esattamente al decorso del seno trasverso
della dura madre e, date le ossa che lo delimitano, viene giustamente denominato
dalla maggioranza dei Zootomi canale temporoparietale. Tale canale al suo sbocco
inferiore, come nelle due porzioni petrosquamosa e parietoteinporale, ha una sezione
per lo più circolare ed un' ampiezza varia da 6-7 mm. ad 1 centim., corrispondente-
mente all'ampiezza del seno venoso cui dà ricetto, il quale, come è noto, è destinato
ad esportare dal cranio la massima parte del sangue refluo.
Il canale temporoparietale riceve nel suo decorso lo sbocco di parecchi altri
Serie II. Tom. LUI. f1
242 ALFONSO BOVEKO — UMBERTO CALAJIIDA 84
canali secondari. Anzitutto dobbiamo notare come posteriormente, al di sopra della
estremità dorsale della linea temporale costantemente molto rilevata nel Cavallo e
nell'Asino, assai meno sporgente nel Quagga, nella sutura fra il margine posteriore
della squama temporale ed il margine anteriore della squama occipitale, esista costan-
temente un' ampia soluzione di continuo, irregolarmente circolare od ovalare, oppure
in forma di fessura corrispondente alla così detta fessura mastoidea dei Zootomi: da
questa ha origine un breve canale, che raggiunge la estremità- posteriore del canali
temporoparietale nel punto in cui questo sta per continuarsi colla porzione occipitale.
Poiché il calibro del canale parietotemporale, come noi abbiamo potuto persua-
derci con sezioni opportune, è assai maggiore della porzione occipitale dello stesso
canale, è presumibile che attraverso il forame occipitosquamoso {fessura mastoidea)
entri nello spessore delle pareti craniane una parte del sangue refluo dalla porzione
posteriore dei tegumenti del cranio, per fuoriescire ancora assieme al sangue refluo
del cervello dal forame sottozigomatico posteriore.
Al canale temporoparietale, nella sua porzione orizzontale (canale parietosqua-
mosopetroso) confluiscono inoltre, aprendosi nella sua parete superiore, un numero
vario di piccoli canali, i quali si aprono all'esterno nella parte alta della squama
temporale {forami soprasquamosi), oppure talvolta anche nella sutura parietosquamosa,
od ancora nella porzione inferiore della faccia esterna del parietale (forami postpa-
rietali di Cope) : ordinariamente i fori soprasquamosi nel Cavallo e nell'Asino sono in
numero di 3-4, a breve distanza uno dall'altro, a 1-2 cm. al davanti della fessura occi-
pite-squamósa ed hanno un'ampiezza di 1-3 mm. I canali, che da detti forami hanno
origine, raggiungono il canale temporoparietale con un decorso per lo più verticale:
nell'i?, quagga da noi esaminato i fori soprasquamosi sono in numero di 9 a destra,
6 a sinistra, disposti in serie lineare in tutta prossimità della sutura parietosquamosa.
Non costantemente nella parete inferiore della porzione orizzontale del canale
temporoparietale del Cavallo e dell'Asino, si apre ancora un canale diretto obliqua-
mente in basso, in addietro e lateralmente, il quale sbocca all'esterno immediatamente
al di sotto della linea temporale, alla estremità superiore della sutura squamoso-
mastqidea, con un'apertura irregolare a margini frastagliati, ampia 2-3 mm. (foro
sottosquamoso).
Ancora, nella parete anteriore del canale temporoparietale, nel punto in cui la
porzione obliqua si continua con la porzione orizzontale, si apre un canale di am-
piezza varia, obliquamente diretto in avanti e lateralmente per sboccare all'esterno
nell'angolo diedro formato dalla base del processo zigomatico col planimi temporale, con
un forame di ampiezza variabilissima da 1 a 4 mm., foro soprazigomatico posteriori.
Mentre questo forame è affatto costante nei vari esemplari da noi esaminati, non
così costante invece ci è parsa la connessione del canale che gli fa seguito col con-
dotto temporoparietale, in quanto alcune volte per il piccolissimo calibro pare ridotto
ad un semplice canale diploico. Detto canale può d'altra parte comunicare col con-
dotto temporoparietale con parecchie aperture, una o due delle quali sono anche
visibili dall'esterno, in fondo del semicanale costituito dallo squamoso dietro il cono
articolare.
Per le connessioni dei forami soprazigomatico, soprasquamoso e sottosquamoso ora
descritti col canale temporoparietale propriamente detto, è chiaro che, mentre quest'ul-
CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 24:ì
timo rappresenta la via principalissiina di deflusso, agli altri sopranominati è preci-
samente riferibile il valore di semplici emissari.
oltre a questi ultimi però possono inoltre occorrere altri canali emissari indipen-
denti dal canale temporoparietale. Noi abbiamo trovato difatti in 2 casi, in uno da
entrambi i lati, in un altro solo al lato sinistro, in fondo di un'ampia fossetta situata
sulla faccia inferiore della squama temporale, subito medialmente al conus articularis,
un forametto circolare, ampio 1-2 mm., il quale si apre immediatamente, dato il mi-
nimo spessore della squama in questo punto, nella fossa craniana media, ove è con-
tinuato in avanti da una evidente fine docciatura: a questo forametto possiamo ben
dare il significato di un emissario squamoso sottozigomatico mediale; la sua presenza,
per quanto finora non ricordata da altri AA., si deve tuttavia ritenere più come una
condizione eccezionale che non come un carattere normale.
Negli Equidi quindi, oltre al canale temporale o temporoparietale dei Zootomi,
aprentesi con una apertura sottozigomatica posteriore, occorrono dei canali emissari
secondari, che si aprono all'esterno con forami delle varie categorie: così ancora
possono esistere nello spessore della squama dei canali, che si debbono ritenere pure
come emissari, però perfettamente indipendenti dal canale principale temporoparietale.
Subord. Artiodactyla. — Fani. Suidae. — Analogamente a quanto hanno
riscontrato tutti gli altri AA., in 1-4 crani di Sus scropha, var. domestica, delle razze
e provenienze più diverse, noi non abbiamo mai potuto riscontrare traccia alcuna di
forami emissari nelle diverse porzioni della squama temporale, per cui si deve ra-
gionevolmente ammettere che il sangue venoso endocraniano defluisca per altre vie
e più precisamente attraverso il forameli jugulare, discretamente ampio, riunito col
forameli lacerum anterius mediante una ristretta fessura.
I reperti sono alquanto diversi nel Cinghiale (Sus scropha, var. fera) di cui noi
abbiamo potuto esaminare 27 crani, eziandio di provenienze le più diverse. In 15 di
questi, in gran parte provenienti da San Rossore (Toscana) e dalla Sardegna, i reperti
sono pure affatto negativi, come nel Sus scropha, var. domestica. Invece in quasi tutti
gli altri 12, provenienti dall'America del Sud (Equador, Pampas) noi abbiamo tro-
vato delle traccie abbastanza evidenti di forami emissari.
Uno di questi è situato al di sopra della faccia superiore molto ampia della base
del processo zigomatico, in una posizione corrispondente al forame soprazigomatico
posteriore. Ordinariamente tale forame è situato nell'angolo diedro aperto all'esterno,
delimitato da detta faccia e dal piami m temporale: è circolare, ampio meno di 1 mm.,
difficilmente sondabile. In un cranio di individuo molto giovane (America) esso è
spostato in alto ed in addietro, in guisa che a destra si trova subito al di sotto della
sutura squamosa, a sinistra nella sutura squamosa stessa [forame soprasquamoso). Del
resto la ubicazione è abbastanza costante, come pure è normale la sua esistenza in
tutti i Cinghiali esotici da noi esaminati, poiché fra 12 crani esso mancava solamente
2 volte da un lato (a sinistra), esistendo invece dal lato opposto (a destra). Noi
non possiamo asserire alcunché di perentorio sul destino del canale, che da detto
forame ha origine, poiché non ci riuscì di far penetrare mai, probabilmente anche a
causa dello stato di macerazione, una setola entro di essi all'infuori di un breve
tratto: è probabile però che il foro soprazigomatico, tale almeno per la sua ubica-
244 ALFONSO BOVEEO UMBERTO CALAMIDA 86
zione. serva esclusivamente per il tragitto di una vena proveniente dalla mucosa tap-
pezzante le cavità pneumatiche scavate nello spessore della squama, ed invadenti
anche la base del processo zigomatico : tutt'al più si potrà pensare ad un vero foro
emissario nell'unico caso in cui l'apertura per la sua ubicazione era da classificarsi
fra i soprasquamosi.
Il medesimo significato si deve pure necessariamente dare ad un forame assai
meno frequente, riscontrato 2 volte bilateralmente nei Cinghiali d'America, una
volta pure dai due lati in un Cinghiale di San Rossore, situato medialmente e poste-
riormente all'ampia superficie articolare per la mandibola, verso la estremità mediale
della sutura squamosotimpanica, in una posizione cioè affatto corrispondente al foro
sottozigomatico mediale. Tale forametto è molto esile, ne ci riuscì che una sol volta di
introdurvi una minutissima setola, la quale riesce appunto sul pavimento di una delle
cellule della cavità pneumatica surricordata, cavità per altro perfettamente indipen-
dente dal cavo craniano: noi ci siamo persuasi dei rapporti che il canalino sotto-
zigomatico mediale contrae colla sua estremità superiore, demolendo dall'endocranio
la parete interna e superiore del recesso pneumatico stesso.
Noi non osiamo certamente pensare che funzionino come emissari ne i forami
soprazigomatici, ne quelli sottozigomatici ora descritti; tutto al più ci permettiamo no-
tare la costanza della occorrenza del soprazigomatico nei Cinghiali d'America e la posi-
zione perfettamente identica occupata dal sottozigomatico mediale nei 3 casi ricordati.
I canali corrispondenti con la massima probabilità sono destinati a dar ricetto a
venuzze provenienti dalla mucosa della cavità pneumatica e le loro aperture esterne,
come i eanali stessi, possono tuttavia ben considerarsi come un rudimento dei canali
e delle aperture, che in altre famiglie dello stesso ordine rappresentano o dei vari
canali principali o semplicemente delle vie emissarie.
Ci piace poi far rilevare la differenza veramente strana che si ha fra il Sus
scropha ed i Cinghiali nostrani da una parte ed i Cinghiali esotici dall' altra. La
esistenza dei canali da noi descritti, non ricordata da altri AA., ci pare possa clas-
sificarsi molto appropriatamente fra i caratteri di razza, potendo anche rappresentare
uno degli esempi molto netti di variabilità nella medesima specie.
In un Phacochaerus aetiopieus, come in 2 Potamochaerus sp. ? manca ogni traccia
di forami sopra- o sottozigomatici.
Fam. Hii>popotainitlae. — In un esemplare di Hippopotamus amphibhis noi
abbiamo riscontrato dai due lati, nella parte posteriore della fossa temporale, ad
1 cm. al di sotto della sutura squamosoparietale , un forame aperto obliquamente
in alto, forame soprasquamoso, cui segue un canale diretto in basso, in avanti e me-
dialmente, il quale riesce nella cavità cranica. Nello stesso individuo sul margine
inferiore del parietale vi ha un foro consimile (foro postparietale di Cope). In altri 2
Hippopotamus manca il foro soprasquamoso, esiste invece dai due lati il postparietale;
in uno di essi questo interessa la porzione posteriore della sutura parietosquamosa.
Fam. Camelidae. — In 2 Camelus dromedarius, al davanti del condotto udi-
tivo, sulla faccia dorsale del cono articolare, ad 1 cm. inferiormente alla sporgenza
della linea temporale, esiste un'apertura, ampia 4 mi., rivolta direttamente all'esterno
ed alquanto in basso; il canale che gli fa seguito, ugualmente ampio, si dirige oriz-
87 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 245
zoii tal mente in dentro verso la cavità craniana; data la direzione di questo canale
e la posizione della relativa apertura, forame sottozigomatico posteriore, fatta astrazione
del calibro molto maggiore, tale formazione corrisponde abbastanza bene a quella
descritta con egual nome nell'Uomo, come in molte altre specie dei diversi ordini.
Oltre a detto forame ve ne ba pure un altro relativamente ampio, meno però
dei precedenti (2,5-3 mm.), posto al disopra della base del processo zigomatico, forame
soprazigomatico posteriore, cui segue pure un canale diretto orizzontalmente in dentro
e dorsalmente.
In 5 crani di Llama il comportamento degli emissari temporali è presso a poco
analogo a quanto abbiamo descritto per il Cammello. Vi esistono cioè un foro sot-
tozigomatico posteriore ed un foro soprazigomatico posteriore meno ampio: i due
canali , che fanno seguito ad essi , raggiungono fondendosi uno all' altro il sulcus
transversus : alcune volte però (in un cranio bilateralmente) il foro soprazigomatico è
doppio da ciascun lato e dei due canali, che seguono a tali fori, uno si apre im-
mediatamente in quello che continua il forame sottozigomatico, l'altro può sboccare
isolatamente nella cavità craniana. In 2 casi abbiamo riscontrato pure due forami
postsquamosi nella parte alta della squama temporale in tutta vicinanza della sutura
squamosoparietale; in un altro invece detto forame corrispondeva alla sutura stessa.
Fam. Cervidae. — In 39 crani di parecchie specie (Cervus alces 2 cr.; C. elaphus
21 cr.; Rangifer tarandus 3 cr.; C. Wapiti 2 cr.; C. gymnotus 4 cr.; C. canadensis
1 cr. ; C. capreolus 6 cr.) il comportamento dei canali venosi attraversanti il temporale
è fondamentalmente identico in tutti ed anche analogo, salvo leggere differenze, a quello
riscontrato nelle precedenti famiglie. Vi ha cioè costantemente un'apertura molto
ampia (3-4-5 mm.), posta dorsalmente al cono articolare, rappresentante lo sbocco
di un canale temporoparietale affatto simile a quanto abbiamo in questo stesso
ordine diffusamente descritto. È da notarsi solo che l'apertura inferiore di detto
canale, forame sottozigomatico posteriore, destinato al tragitto della principalissima via
sanguigna di deflusso, può presentarsi abnormemente divisa in due, di modo che
esistono allora due forami sottozigomatici posteriori, posti uno medialmente all' altro
(C. elaphus di Sardegna a destra, C. canadensis bilateralmente): in ogni caso il forame
sottozigomatico posteriore occupa preferibilmente la parte mediale del cono arti-
colare ; alcune volte però l'apertura è spostata alquanto lateralmente, rivolta in basso
ed all'esterno.
Mentre il comportamento di detto canale nella ubicazione e nel calibro della sua
apertura esterna è relativamente costante, si notano invece differenze sensibili, indi-
viduali o di razza, per rispetto al numero ed alla ubicazione di altri forami posti
al di sopra del processo zigomatico e della linea temporale, che continua dorsal-
mente tale processo. Ordinariamente subito al disopra della base del processo zigo-
matico esistono 1, 2 o più forami aggruppati, oppure in numero maggiore (6-8)
scaglionati a livello diverso nello spessore della squama, in guisa da rappresentare
delle forme di passaggio fra i forami soprazigomatici, i soprasquamosi e i post-
squamosi. Quando esiste un unico forame soprazigomatico posteriore, posto cioè im-
mediatamente al disopra della base del processo zigomatico, esso può avere un ca-
libro molto diverso, da 1 mm. a 4 mm., e il canale che gli fa seguito si riunisce
■_> 1 6 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 00
per lo più al canale principale aprentesi dietro il cono articolare. Quando invece
abbiamo parecchi forami soprazigomatici, uno di essi ha per lo più un calibro mag-
giore (2-3 mm.), gli altri sono assai più esili sì da dare per lo più passaggio solo
ad una setola: tuttavia questi forami soprazigomatici possono mancare anche total-
mente, contemporaneamente alla mancanza di forami posti pure subito al di sopra
della linea temporale, oppure mancare nella loro posizione abituale al di sopra della
base dell'apofisi zigomatica, pure essendo presenti uno o più postsquamosi ed uno o
più soprasquamosi. La mancanza di forami soprazigomatici posteriori è stata da noi
verificata dai due lati in 3 C. gymnotus su 4, e in 2 C. capreolus su 6.
Per lo più vi hanno pure nelle varie specie di Cervus dei forami nella sutura
parietotemporale in numero di 1-2 : oppure questi possono essere spostati un po' più
in basso nello spessore stesso della squama. Quasi costantemente ancora noi abbiamo
verificato l'esistenza di 1-2 forami, ampi 1-2 mm. al disopra della estremità poste-
riore della linea temporale, subito ventralmente alla cresta squamosoccipitale. Così
pure quasi costantemente al di sotto della estremità posteriore di detta linea, nella
parte alta della sutura squamosomastoidea, come nella sutura mastoidoccipitale
esistono dei forami venosi di calibro diverso.
Nei Cervidi quindi, accanto al canale temporoparietale aprentesi all' esocranio
con un forame sottozigomatico posteriore, canale che rappresenta la via tenuta dalla
massima parte del sangue endocraniano nel suo decorso refluo, vi ha una serie mu-
tevole per numero, per ubicazione, per costanza, di altri canali in ogni caso di ca-
libro minore, aprentisi all'esocranio con forami delle varie categorie (soprazigomatici,
soprasquamosi, postsquamosi, sottosquamosi, mastoidei nel senso di Cope), i quali canali
comunicano per lo più direttamente col canale temporoparietale, oppure con la por-
zione del solco transverso situata dorsalmente alla apertura endocranica del canale
stesso, oppure ancora direttamente colla cavità craniana, indipendentemente cioè dal
solco trasverso : la piccolezza del calibro, come la variabilità numerica e disposizione
del loro sbocco esocranico, dimostrano chiaramente come ad essi si debba dare il
significato di veri emissari venosi del seno trasverso.
Relativamente poi ai reperti che noi abbiamo avuto nel C. gymnotus e nel C. ca-
preólus, possiamo affermare che nell' aggruppamento e nella posizione, come nella
mancanza di taluni di detti forami, sono da ricercare, più che delle variazioni indi-
viduali, delle vere variazioni di razza o di specie.
Fani. Giraffidae. — Nella Giraffa (2 cr.) vi ha dai due lati, dietro al cono
articolare, un largo foro circolare, ampio mm. 10, rappresentante lo sbocco inferiore
del canalis temporoparietalis, diretto obliquamente in alto, in avanti e medialmente.
Un altro forame bilaterale, aperto superiormente alla base dell'apofisi zigomatica, si
continua con un canalino, che imbocca il canale temporale dalla sua parete anteriore
in tutta vicinanza dell'apertura sottozigomatica.
Fam. Bovtdae. — Subfam. Neotraginae. — In due Pediotragus campestris vi
ha un comportamento identico a quello della Giraffa, e cioè un canalis temporalis
aperto inferiormente con un forame sottozigomatico posteriore ed un piccolo forametto
soprazigomatico posteriore. Quest' ultimo in un Oreotragus saltatoi- è spostato più in
89 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETKOSQUAMOSI 24 !
addietro, sopra la linea temporale, è esilissimo sì da non permettere il passaggio
ad una setola.
Subfam. Antilopinae. — Noi abbiamo preso in esame un cranio di Aepyceros
melampus, 10 cr. di varie specie di Antilope (Antilope Saiga, A. Alcini, A. Somme-
ringi, Gazzella subgutturosa, Colui elipsiprymnus), nei quali tutti vi hanno le mede-
sime disposizioni. Esiste cioè un ampio foro sottozigomatico posteriore dietro la cresta
appena accennata rappresentante il conus articularis : tale apertura è ordinariamente
circolare, talvolta però in forma di fessura; più che un vero canale temporale si
verifica, per lo meno nei giovani soggetti, che all'apertura esocranica corrisponde
immediatamente dall'endocranio un'apertura similare, posta nella porzione anteriore
del solco trasverso.
Costantemente vi hanno inoltre 1-3 aperture, il cui calibro è sempre minore
del foro sottozigomatico, poste immediatamente al di sopra della base del processo
zigomatico, comunicanti pure direttamente colla cavità craniana: quando vi ha un
unico foro soprazigomatico, questo può continuarsi con un breve canale, diretto alquanto
dorsalmente per isboccare nel contorno anteriore del foro sottozigomatico.
Nel Colus elipsiprymnus il foro soprazigomatico, a differenza delle altre Antilopi,
assume uno sviluppo preponderante per rispetto al sottozigomatico ; si presenta cioè
circolare, ampio 1 cm. e si apre direttamente nella parte anteriore del solco trasverso.
Spesso esiste inoltre un piccolo forame, ampio da 1 a 2 mm„ superiormente alla
porzione posteriore della linea temporale ; altre volte ve ne ha un altro in rapporto
della parte alta della squama, oppure in rapporto della sutura parietosquamosa : la
presenza di questi ultimi però non appartiene certo alle condizioni assolutamente
costanti, mentre invece si deve ritenere tale nelle Antilopinae la esistenza dell'emis-
sario soprazigomatico, funzionante vicariamente al canale temporale.
Subfam. Hippotraginae. — In un Hippotragus equinus, assieme al canale tem-
porale comportantesi come d'ordinario, vi hanno da ciascun lato due piccoli forami
soprazigomatici; mancano invece gli emissari postsquamosi e soprasquamosi.
Subfam. Traghelaphinae. — In questa sottofamiglia (Traghelaphus scriptus 1 cr.;
T. Spekai 2 cr.; Tragocamelus pallas 1 cr.; Strepsiceros Kudu 1 cr.; S. capensis 1 cr.)
si mantiene ancora il rapporto sovraenunciato tra il canale temporale, aprentesi
in basso dietro il conus articularis appena accennato, ed i forami soprazigomatici
posteriori, occorrenti per lo più in numero di 2 nell'angolo diedro delimitato dal
planum temporale colla faccia superiore della base del processo zigomatico: i canali
od il canale corrispondenti si aprono per lo più nel contorno anteriore del canale
temporale.
Più frequentemente che nelle Antilopine, nella grande maggioranza dei crani
sopraricordati esistono inoltre 1-2 piccoli forametti, posti subito superiormente alla
estremità posteriore della cresta temporale e comunicanti pure col canale temporale,
forami postsquamosi. Costantemente ancora, indietro del foro uditivo, nella sutura squa-
mosomastoidea, ad 1 o 2 min. al disotto della sporgenza della cresta temporale, vi
ha un esile forametto ampio mm. 0,5-1, forame emissario sottosquamoso, che rap-
presenta pure un emissario del canale temporale. Forami analoghi si possono anche
248 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 90
talvolta constatare nella parte alta della squama temporale, oppure direttamente nella
sutura parietosquamosa.
Nel Traghelaphus scriptus, fra la porzione inferiore e posteriore del margine
superiore della squama ed il margine anteriore dell' angolo mastoideo del parietale,
vi ha un' ampia fessura , alla quale viene a sboccare una diramazione del canalis
temporalis, appunto come abbiamo verificato negli Equidi.
Subfam. Rupicaprinae. — In un Haplocerus americanus, oltre all'ampia apertura
sottozigomatica del canale temporale, occorrono da ciascun lato un forame emis-
sario soprazigomatico, un postsquamoso ed un sottosquamoso, come nelle precedenti
famiglie.
Subfam. Caprinae. — Le nostre ricerche vertono su 8 crani di Capra ibex, 6 di
C. oegagrus, 10 di C. hircus, 7 crani di Ovis aries, 2 di 0. nahoor, 9 di 0. mussimi»!,
nei quali occorre una straordinaria concordanza di comportamento. Dietro al cono
articolare, presentatesi sotto forma di una cresta tagliente disposta in direzione
frontale ed assai più alta medialmente, inferiormente all'apertura esterna del con-
dotto uditivo si scorge una ampia apertura circolare, scavata completamente nello
spessore della squama temporale; da questa ha origine un canale decorrente curvo
in alto ed in addietro, per aprirsi sulla cavità craniana a livello della estremità
laterale del margine superiore della piramide, essendo nella sua porzione posteriore
delimitato superiormente dall'osso parietale, canale petrosquamosoparietale. Il foro sotto-
zigomatico posteriore ha un diametro che oscilla fra 5 mm. ed 1 cm.; può tuttavia
essere suddiviso in 2-3 aperture secondarie , poste una medialmente all' altra e di
calibro naturalmente assai piccolo; per questa via fluisce, come è noto, gran parte
del sangue venoso endocraniano.
Oltre a detto forame vi ha ancora al disopra della base del processo zigomatico
un'altra apertura, pure molto ampia, in nessun caso minore della precedente, spesso
anche maggiore (da 5 a 12 mm.), forame soprazigomatico posteriore. I forami sopra-
e sottozigomatici si corrispondono un l'altro di guisa che il breve canale, il quale li
riunisce, pare attraversi verticalmente la base del processo zigomatico: al contorno
posteriore di questo canale infrazigomatico giunge la estremità ventrale del canalis
temporalis propriamente detto. In altre parole il forame soprazigomatico ha assunto,
nella sottofamiglia Caprinae, come carattere fisso un' ampiezza per lo meno pari a
quella del sottozigomatico, cui nella grande maggioranza delle famiglie di Ungulati
fin'ora esaminate, nelle quali il deflusso del sangue endocraniano avviene appunto
prevalentemente attraverso l'osso temporale, spetta la maggior importanza funzionale
corrispondentemente al maggior calibro. Il foro soprazigomatico cioè rappresenta, non
più lo sbocco di un semplice emissario, ma bensì una delle aperture principalissime
del canalis temporalis.
Il valore di semplici emissari è invece conservato nelle Caprinae ad altri pic-
coli forami, che occorrono quasi costantemente nella parte alta della squama, oppure
nella porzione posteriore della sutura squamosoparietale (fori soprasquamosi nel senso
di Cope), oppure immediatamente al disopra della cresta temporale, che continua in
addietro il margine laterale del processo zigomatico, oppure direttamente sulla spor-
91 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 249
genza laterale della stessa cresta più o meno in prossimità della sutura squamoso-
mastoidea (fori postsquamosi di Cope). Sia i forami soprasquamosi come i postsqua-
mosi hanno generalmente un'ampiezza da 1 a 2 min, ; sono per lo più unici, talvolta
invece, specialmente i soprasquamosi, in numero di 1, 2, 3 o più: i canali, che da
essi hanno origine, confluiscono con decorso a direzione diversa al canale temporale.
La presenza dei canali delle due categorie, semplici o molteplici, appartiene alle
condizioni normali, tuttavia ci pare più costante la esistenza dei forami soprasqua-
mosi, mentre non di rado mancano il forame od i forami postsquamosi, oppure sono
ridotti estremamente di calibro, sì che a mala pena danno passaggio ad una fine setola.
Subfam. Bovinae. — In 12 crani di Boa taurus di provenienze, sesso ed età
diverse noi abbiamo verificato un comportamento presso a poco analogo a quanto
abbiamo ora descritto nella subfam. Caprinae. La differenza essenziale sta in ciò che
il forame soprazigomatico posteriore ha caratteri meno fissi di quanto non occorra
nella subfam. Caprinae. Mentre cioè talune volte, ciò che succede specialmente nei
Vitelli, tale apertura ha un'ampiezza anche superiore a quella del forame sottozigo-
matico, altre volte occorre, e in modo speciale negli individui adulti ma anche in
quelli giovani, che esso abbia un calibro ridottissimo, sino a mm. 0,5-1-2. Alcune
volte invece i forami soprazigomatici, costantemente piccoli, sono in numero di 3-4;
del resto, qualunque ne sia il calibro, essi si comportano per rispetto al canale tem-
porale ed alla sua apertura sottozigomatica nell'identico modo da noi di già ripetuta-
mente descritto. Per il foro sottozigomatico dobbiamo notare, che in 2 Vacche si pre-
senta da ciascun lato suddiviso in due forami secondari, disposti frontalmente uno
accanto all'altro: l'ampiezza del forame sottozigomatico unico, oscilla da 3-4 mm. (negli
individui giovani) fino ad 1 cm.
Quasi costantemente al disopra della estremità posteriore della cresta temporale,
oppure sulla sporgenza stessa di questa cresta, si nota un forametto ovalare o cir-
colare [forame postsquamoso), talvolta anche 2 o più scaglionati sagittalmente, i quali,
con canali propri attraversanti la squama in avanti e medialmente, raggiungono il ca-
nale temporale in prossimità della sua apertura endocranica. Costantemente pure esi-
stono uno o due altri fonimi soprasquamosi, nella parte alta della porzione posteriore della
squama temporale, oppure nella sutura parietosquamosa, immediatamente in avanti
della cresta occipitomastoidea. Altro forame, però meno frequente, si può ritrovare
al disotto della cresta temporale nella parte alta della sutura squamosomastoidea
(forame sottosquamoso).
Nei Bovini quindi noi dobbiamo ritenere che costantemente la via principalis-
sima di deflusso del sangue venoso endocraniano è rappresentata dal canale tem-
porale; nei giovani soggetti, come talvolta anche nell'adulto, il forame soprazigoma-
tico, il quale pure nella maggioranza dei casi, ha il valore di un semplice emissario,
può diventare equipollente funzionalmente al sottozigomatico. Il valore di emissari
è conservato ai forami sottosquamosi e postsquamosi.
Riassumendo quindi noi vediamo come negli Ungulati i rapporti dell'osso tem-
porale colle vie venose di deflusso del cranio siano molto diversi nei vari sottordini :
difatti, mentre in alcuni di questi (Iracoidi, Proboscidei, Tapiridi, Rinocerotidi, Suidi)
i canali venosi emissari temporali dei vari gruppi mancano o sono estremamente
Serie II. Tom. LUI. a*
250 ALFONSO BOTERÒ — UMBERTO CALAMIDA 92
ridotti, invece in tutti gli Artiodattili ruminanti e, fra i Perissodattili, negli Equidi
non solo l'osso temporale è scavato dal canale omonimo, percorso cioè dalla via
principale di deflusso del sangue venoso, ma anche vi esistono per lo più un numero
abbastanza rilevante di canali accessori destinati a dar ricetto a vie di deflusso
semplicemente sussidiarie. I canali accessori raggiungono il loro numero maggiore
negli Artiodattili ruminanti, e più ancora in talune famiglie (Ovinae, Bovinae), che
non in altre. Dei vari forami sussidiari al canale temporale il più frequente è il foro
soiim zigomatico posteriore ed è pure quello che va soggetto alle maggiori oscillazioni
nel calibro, fino a raggiungere (Caprinae ed eventualmente anche Bovinae) un'am-
piezza tale da doversi considerare necessariamente come equipollente al sotto-
zigomatico. Gli altri forami emissari (soprasquamoso , postsquamoso e sottosquamoso)
conservano per lo più un calibro relativamente minimo, come pure, esaminati nella
serie delle varie famiglie, sono anche meno costanti e nella posizione e nella loro
esistenza stessa. Le nostre ricerche poi se da una parte confermano i reperti nega-
tivi degli altri AA. relativamente agli Iracoidi, dimostrano pure per altri sottordini,
ad es., per i Proboscidei, per gli Obesa (Hippopotamus), come anche per la fam. Suidai .
contrariamente alle affermazioni degli altri ricercatori, la esistenza di formazioni che
possono essere interpretate come traccie o rudimenti di canali emissari venosi delle
varie categorie. Relativamente a questi ultimi noi ricorderemo ancora una volta il
fatto caratteristico riscontrato nel Cinghiale, in cui la esistenza di un emissario sotto-
zigomatico mediale può essere considerata come un vero carattere di razza.
Ord. SIBERIA. — Ord. CETACEA.
In un Manatus australis (Sirenia), in 6 crani di Delphinus Delphis, come in 1
di Beluga leucas ed in 1 di Balenoptera (Cetacea), non venne a noi dato mai di
verificare l'esistenza di forami nella regione temporale, che si possano ricondurre a
canali venosi emissari, analogamente ai dati di Otto (50), Denker (11, b), Cope (9),
e Kopetsch (34). È da notarsi tuttavia come, data la scarsità del materiale da noi
e da altri studiato, come pure le difficoltà di una macerazione veramente completa
del cranio, non è impossibile che tali emissari vengano appunto dimostrati in pro-
sieguo da altri ricercatori.
Ord. EDENTATA.
Negli Sdentati le conoscenze dei rapporti, che le vie venose contraggono even-
tualmente con l'osso temporale, sono scarsissime, però sufficientemente concordanti
fra loro. Difatti Otto (50) ammette l'esistenza del canalis temporalis in Myrmeco-
phaga jubata, in .1/. tridaetyla e nel Dasypus, negandolo invece nel gen. Bradypux.
Cope (9), come già Hybtl (30, a), e come più tardi venne più diffusamente descritto
da Tandler (67«, b) anche nei Monotremi, accenna al fofame d'ingresso per l'arteria
diploetica magna, in una posizione molto prossima al forame emissario venoso sub-
squamoso, nella Tamandua : nel Dasypus sexcintus vi sarebbe un foro postglenoideo
ampio, un postsquamoso ed un sottosquamoso, nel Clamydophorus un postglenoideo
unico, nel Manis un postzigomatico ; mancherebbe invece ogni traccia di forami nel
Bradypus e nel Cholaepus. Kopetsch (34) conferma l'esistenza di un foramen jugulare
93 (.'ANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETR0SQUA1I0SI 251
spurium nei gen. Myrmecophaga e Dasypus, nei quali anzi sarebbe doppio, mentir
nei gen. Manis, Orycteropus e Bradypus non se ne troverebbe traccia.
Noi abbiamo potuto usufruire anche di un materiale relativamente assai scarso
ed i risultati che noi abbiamo avuti sono puramente confermativi. In 2 Bradypus
tridaetylus mancano tutti i forami, che si possano interpretare come emissari venosi
della porzione basilare del temporale: in un solo cranio ed esclusivamente dal lato
destro esiste sul prolungamento dorsale del margine superiore del processo zigoma-
tico un forame comunicante con la porzione dorsale del seno trasverso.
In 3 Myrmecophaga 'tubata alla parte posteriore della superficie articolare, nella
sutura squamosotimpanica vi ha una irregolare fessura unica o divisa in due porzioni
(1 cr. bilateralmente) in guisa da costituire due piccoli forami posti uno a lato dell'altro
e ampi poco più di 1 mm.: sia la fessura, come i due forami, attraversano la squama
temporale per aprirsi verticalmente in alto nel fondo del solco trasverso (forami
sottozigomatici posteriori). In un caso al di sopra della base del processo zigomatico
rudimentale vi hanno da entrambi i lati due piccoli forami, attraverso i quali può
penetrare nella cavità cranica una piccola setola, foranti soprazigomatici posteriori.
In 3 Dasypus novemeintus, in avanti e superiormente al condotto uditivo esterno,
vi ha bilateralmente un forame, ampio 1 mm., corrispondente per la posizione al
soprazigomatico posteriore, dal quale si può penetrare nella cavità craniana: in
2 casi vi ha inoltre sul prolungamento posteriore della radice zigomatica un forame
ovalare ampio all' incirca 2 mm.; in un altro da ciascun lato vi sono nella parte
alta della squama parecchi minuti forellini non permeabili però ad una setola.
In un Manis Temninki esiste un forame irregolarmente ovalare sulla superficie
esterna dell'ampio processo zigomatico: il detto forame si continua con un canale
diretto orizzontalmente in addietro e medialmente verso la cavità craniana.
Facendo quindi astrazione dallo scarso materiale e dai rapporti più complicati
con branche arteriose proprie dei Mammiferi inferiori (Sdentati e Monotremi), quali
cioè non compaiono normalmente negli ordini di Mammiferi sinora studiati, si può
asserire che anche negli Sdentati una parte del sangue venoso endocraniano può
defluire all'esterno attraverso l'osso temporale, sboccando all'esocranio in punti cor-
rispondenti all'apertura delle vie principali (sottozigomatico) od accessorie (soprazigo-
matico, soprasquamoso, postsquamoso) dei Mammiferi finora studiati.
Ord. MARSUPIALIA. — Ord. MONOTREMATA.
Anche nei Marsupiali una parte del sangue venoso endocraniano decorre per
imboccare la giugulare esterna attraverso l'osso temporale. Secondo Cope (9) i tipi
di quest'ordine hanno generalmente il foro postglenoide e quasi mai il supraglenoide
o il postparietale; essi si distinguerebbero generalmente per la presenza del sotto-
squamoso, il quale in alcuni (Phascolarctos) può rappresentare l'unica via di deflusso
del seno laterale: nei Marsupiali inoltre esisterebbe sopra il meato uditivo esterno
un forame sopratimpanico, comunicante con la cavità dell'orecchio medio. Kopetsch (34)
a sua volta afferma che, ad eccezione del gen. Phalangista, tutti gli altri Marsupiali
posseggono un foranien jugulare spurium.
252 ALFONSO BOVEEO — UMBERTO CALAMIDA 9 l
In 8 crani di Macropus halmaturus giganteus ed in un M. Bennettii, immediata-
mente al davanti dell'apertura esterna del condotto uditivo, sulla faccia posteriore
di un con us articularis costantemente ben sviluppato, più in prossimità del suo
margine mediale che non di quello laterale, vi ha un forame sempre relativamente
ampio, da mm. 1,5 a 3-4 mm., più o meno regolarmente circolare, cui segue un canale
diretto verticalmente in alto, il quale sbocca nella cavità cranica, nella porzione
anteriore della sutura petrosquamosa : a detto forame si può assegnare il valore di
un sottozigomatico posteriore.
Costantemente ancora, al disotto della radice sagittale del processo zigomatico,
immediatamente al disopra del porus acusticus externus, vi ha un forellino ovalare,
ampio 1 mm., aperto al fondo di una specie di docciatura, cui segue un canale obli-
quamente diretto in basso ed in avanti e comunicante con la cavità timpanica. Molto
probabilmente è appunto a questo forame, destinato certo al decorso di vasi arteriosi
o venosi, che allude Cope parlando del forame sopratimpanico.
Oltre a quelli ora ricordati, quasi costantemente al disopra della radice sagit-
tale del processo zigomatico, nello spessore della squama temporale, verticalmente
al di sopra del poro acustico e quindi del foro sopratimpanico di Cope, esiste un
forellino circolare ampio 2 mm., cui corrisponde un canale attraversante la squama
per aprirsi nel solco petrosquamoso. Alcune volte tale forame venne da noi riscon-
trato esattamente sulla sporgenza della linea temporale ; nell'un caso come nell'altro
questo forame soprazigomatico posteriore è sempre relativamente ampio ed è facile
dimostrarne la comunicazione diretta col solco petrosquamoso, a cui giunge per lo
più nel medesimo punto in cui sbocca il canale sottozigomatico. Infine in un cas< i i
dai due lati {M. giganteus ad.), oltre al forame soprazigomatico, al sottozigomatico
ed al sopratimpanico, esisteva pure dai due lati un foro post squamoso. E a notarsi
che nei Macropus, come del resto anche negli altri Marsupiali, vi ha un'ampiezza
relativamente grande del forameli jugulare.
In un Phascolomys, nella parte verticale della squama, subito al disopra della
base del processo zigomatico, vi hanno bilateralmente 3 piccoli forami aggruppati,
forami sopra zigomatici posteriori, ampi circa 1 mm. caduno, i quali si aprono in un
unico canale, che sbocca nel seno petrosquamoso; un altro foro della stessa cate-
goria è posto più dorsalmente, sopra la linea temporale a livello del condotto uditivo
e si apre isolatamente nel solco petrosquamoso; le condizioni di macerazione ci im-
pedirono di ben esaminare la porzione basilare della squama.
In un Didelphys Azarae e in un I). vìrginiana, dorsalmente al eonus articularis
molto sviluppato, in prossimità del suo margine mediale, vi ha un forame ovalare
ampio 4 mm., che si apre immediatamente in alto nel seno petrosquamoso. Nel D. vìr-
giniana, lateralmente al cono articolare, subito al disotto del margine tagliente della
radice sagittale del processo zigomatico, vi ha un piccolo forellino (1 mm.), il quale
mette nel seno petrosquamoso unitamente al precedente; in questo cranio quindi
esistono due forami sottozigomatici, uno mediale ed uno laterale.
Per i Monotremi noi non abbiamo criteri personali, in quanto nell'unico esem-
plare da noi avuto in esame di Echydna histrix le condizioni di macerazione ci impe-
divano assolutamente di poter pronunciare un giudizio: ricorderemo solamente come,
mentre Tandler (67 b) descrive e raffigura solo il foro per l'ingresso dell'a, diploetica
95 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PBTBOSQTJAMOSI 253
magna nell'Echydna aculeata tipica, Cope (9) nel Tachyglossus oltre ai forami per la
detta arteria, accenna pure ad un forame postzigomatico, nell' Ornithorhyncus ad un
postzigomatico e ad un postsquamoso. In ogni caso però questi ultimi hanno sem-
plicemente il valore di emissari, poiché, come è noto, specialmente per le ricerche
di Hochstetter (28), il seno trasverso dei Monotremi, invece di imboccare o un forameli
iugulare spurium oppure il forameli jugulare veruni, segue la via della vena capiti
lateralis, contraendo cioè rapporti molto stretti colle varie porzioni dell' osso tem-
porale, seguendo all'incirca il decorso del n. facialis, e mantenendo quindi come defi-
nitivo un comportamento che è abbozzato di già nelle prime fasi di sviluppo del
sistema venoso anche degli altri ordini di Mammiferi. Oltre a ciò, come abbiamo di
già osservato altra volta per le eventuali branche venose accompagnanti attraverso
la squama temporale un'a. temporale profonda posteriore abnormemente originata
dall'a. meningea media (Uomo, Cercocebus, ecc.), anche per gli Sdentati e per i Mono-
tremi non è assurdo ammettere che i forami ed i canali scavati nella squama tem-
porale e destinati a dar ricetto alla, diploetica magmi normale possano accogliere
pure diramazioni venose satelliti dell'arteria stessa, alle quali competa precisamente
l'ufficio di canali venosi emissari della circolazione endocranica.
Del resto, data la complessità di rapporti e le modificazioni profonde che avven-
gono nella conformazione della regione temporale degli ultimi ordini di Mammiferi
studiati (Sdentati, Marsupiali, Monotremi) relativamente agli altri, i quali d'altronde
sono anche a questo riguardo meglio conosciuti, si capisce come, mentre per noi è
sufficiente aver dato un cenno rapido delle particolarità che possono eventualmente
aver rapporto con l'argomento che siamo andati studiando, per una più minuta cono-
scenza delle stesse, sarebbe necessario un materiale assai più ampio e differentemente
conservato e uno scopo più lato di quello che noi ci siamo prefissi.
Abbiamo finito così la lunga rassegna dei reperti avuti da noi in tutte le classi
dei Mammiferi attuali, dall'Uomo ai Marsupiali, relativamente alle vie tenute dal
sistema venoso refluo dalla cavità craniana per giungere all'esterno attraverso l'osso
temporale. La nostra descrizione è necessariamente stata assai diffusa come era in-
dispensabile per rendere possibile la comparazione dei diversi risultati. Per quanto
una parte dei reperti da noi avuti collimi abbastanza esattamente con quelli di altri
ricercatori, pure noi ci siamo persuasi, come emerge d'altronde dalla lunga serie
delle nostre ricerche, che la questione delle comunicazioni fra il sistema venoso endo-
craniano e la e. jugularis externa è assai più complessa di quanto non appaia dalle
osservazioni prima d'ora eseguite. In realtà difatti noi abbiamo pure esposto un gran
numero di constatazioni obbiettive, le quali si devono ritenere affatto nuove, di modo
che è giustificata appieno la nostra convinzione di aver notevolmente allargata la
conoscenza delle vie venose emissarie temporali in quasi tutti gli ordini di Mammiferi
esaminati, o per lo meno in moltissimi generi delle varie famiglie dei differenti
ordini, spesso anche in generi sui quali più completo era l'accordo fra i molteplici AA.,
che prima di noi si occuparono di questo argomento.
A parte le considerazioni puramente descrittive, noi abbiamo tenuto dietro passo
a passo alla evoluzione seguita dalle sovraccennate comunicazioni attraversanti il
254 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 96
complesso osso temporale, sia che queste rappresentino delle vie semplicemente ausi-
liarie, o pure delle vie di importanza vieppiù crescente sino a diventare le princi-
palissime, se non le uniche, per il decorso del sangue refluo dall'encefalo e dai suoi
involucri.
Nei Primati, e fra questi precipuamente nell'Uomo e nelle Scimmie antropo-
morfe, i canali venosi temporali squamosi e petrosquamosi, costanti od eventuali,
tributari della giugulare esterna, sono per lo più rudimentali, di modo che si pos-
sono funzionalmente classificare fra le vie semplicemente emissarie, appunto come
altri canali più o meno costanti, i quali attraversano le ossa della calvaria e della
base cranica, in quanto le venuzze a cui detti canali danno passaggio suppliscono in
parte la via principale rappresentata dalla vena giugulare interna. Ma noi vediamo
che, a differenza dell'Uomo e dei Primati superiori, in molti altri ordini di Mammiferi
la via principale di deflusso del sangue venoso endocraniano non è rappresentata più
dalla vena giugulare interna, ma bensì dalla giugulare esterna, riunientesi alla por-
zione ventrale del seno laterale attraverso il canale temporale: in questo caso la vena
giugulare interna stessa, se pure esiste, può rappresentare a sua volta semplicemente
una via sussidiaria, certo di importanza minore, alla giugulare esterna: in questo
caso ancora, attraverso all'osso temporale, oltre al canale omonimo, possono eventual-
mente aver decorso altre vie pure egualmente sussidiarie, le quali si aprono all'esterno
indipendentemente dal canale temporale, col quale pure, qualora non si originino
direttamente dalla cavità cranica, possono avere delle ampie comunicazioni.
Dallo studio da noi fatto risulta quindi che la via principale di deflusso va grada-
tamente spostandosi dalla giugulare interna (Uomo, Antropoidi) alla giugulare esterna
considerando la serie stessa dei Primati e la diminuzione di importanza della prima
va di pari passo, parallelamente all'aumento di calibro e quindi di importanza, alla
maggiore frequenza e quindi anche al maggior numero dei canali che nell'Uomo,
occorrendo eventualmente, rappresentano delle semplici vie ausiliarie.
Discendendo infatti dall'Uomo agli Arctopiteci, noi abbiamo viste le modifica:
zioni, sulle quali è ora inutile ritornare, che subiscono, nella frequenza e nell'am-
piezza, i canali venosi temporali. Discendendo tuttavia negli altri ordini di Mammiferi
si può verificare facilmente ancora come, quanto più ci allontaniamo dai Primati,
tanto più aumenta abbastanza costantemente l'importanza delle vie, o almeno in modo
speciale di una di queste, attraversanti l'osso temporale e come parallelamente au-
mentino anche e nel numero e nell' ampiezza i canali temporali che, relativamente
a quello principale, canale temporale propriamente detto o canal- temporoparietale, sono
da ritenersi come sussidiari.
In altre parole, data la successione cronologica dei vari periodi dello sviluppo
del sistema venoso della cavità cranica, quale si deve ritenere definitivamente e
perentoriamente dimostrata dagli studi di Salzer, Hochstetter, Grosser e Fischer
pei Mammiferi, nell'Uomo o nei Primati superiori si mantengono, come in altro modo
nei Monotremi, delle condizioni che appartengono ad un periodo più primitivo dello
sviluppo, mentre nei Primati inferiori e nella massima parte degli altri Mammiferi
acquistano carattere permanente di fissità delle disposizioni, che rappresentano nella
storia dello sviluppo, un periodo più evoluto.
Quali siano le cause che favoriscono nell'Uomo e nei Primati superiori la per-
97 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 255
manenza di condizioni, che si stabiliscono in un periodo più precoce della ontogenesi,
noi non possiamo certamente affermare: è probabile tuttavia che il grande svi-
luppo della massa encefalica, o il modo con cui evolve la craniogenesi della capsula
labirintica, oppure ancora la posizione occupata rispettivamente ai tronchi nervosi
dalle vie venose, oppure tutte queste cause sommate assieme rendano inutile se non
impossibile la formazione delle vie attraverso all'osso temporale; o per lo meno queste
pur comparendo mantengono costantemente un carattere rudimentale.
Anche come formazioni rudimentarie però esse sono passibili di una schema-
tizzazione abbastanza facile, in quanto le varietà della ubicazione esterna delle aper-
ture dei canali destinati a dette vie ausiliarie si possono ricondurre ad alcuni tipi
fondamentali, in ciascuno dei quali le oscillazioni di posizione e di frequenza ripetono
esattamente le eguali condizioni di ubicazione e di frequenza che noi ritroviamo nella
serie degli altri Mammiferi. Così ad esempio noi sappiamo come nell'Uomo, sia pure
come varietà, i canali emissari temporali si aprano più frequentemente all' esterno
in una posizione tale per cui sono da classificarsi come sottozigomatici mediali o late-
rali; e noi vediamo pure ripetersi nella serie dei Mammiferi con continuo crescendo
di importanza la medesima posizione di ubicazione dell'apertura esterna del canalis
temporalis. Ancora, noi abbiamo osservato come ai canali emissari sottozigomatici
seguano immediatamente per frequenza e per importanza i soprazigomatici, e noi
abbiamo verificato in egual modo come in quasi tutta la serie di quei Mammiferi,
in cui, ripetiamo, occorre quale carattere fisso un canalis temporalis aprentesi sotto
la radice sagittale del processo zigomatico, fra i canali semplicemente emissari delle
varie categorie, sia pure il soprazigoma^co quello che, dopo il sottozigomatico, ha
la maggiore frequenza e la maggiore importanza, fino a diventare equipollente (Ca-
prinae) o quasi (Bovinae) al sottozigomatico.
Ma anche esaminando le variazioni che avvengono nell'ambito di ogni singolo
tipo, in un dato ordine, noi possiamo seguire il passaggio graduale, quasi diremmo
sistematico, da un sottogruppo all'altro: difatti dei due sottogruppi in cui noi ab-
biamo distinto, ad es., i forami sottozigomatici, noi sappiamo come nell'Uomo il
sottozigomatico mediale sia quello più degno di nota sotto l'aspetto della frequenza
ed, in certe condizioni, anche dell'ampiezza: ora nella serie degli stessi Primati in-
feriori all'Uomo è appunto il forame sottozigomatico mediale, che va aumentando
gradatamente d'importanza discendendo agli Arctopiteci, aumento che, salvo ecce-
zioni, si va pronunciando ancora di più negli altri ordini di Mammiferi ; coll'aumento
d'importanza e di calibro del canale stesso, noi possiamo pure seguire lo spostamento
graduale di detto forame dal margine mediale del cono articolare alla faccia poste-
riore dello stesso.
Anche per i forami più raramente occorrenti, ad esempio, per il prezigomatico,
come per i postsrpiamosi, gli uni e gli altri veramente eccezionali nell'Uomo, noi
abbiamo veduto come essi, nell'ordine stesso dei Primati, si riproducano con mag-
giore frequenza, si da diventare per talune sottofamiglie o generi anche un carattere
fìsso (foro prezigomatico dei Mycetes, foro postsquamoso delle fam. Cebidae, Hapalidae).
Abbiamo accennato anche alle variazioni che sono possibili nella occorrenza di
un dato canale in varietà diverse del medesimo genere, in guisa che la presenza o
la mancanza dell'emissario stesso si può ritenere, fino ad un certo punto, non comi'
256 ALFONSO BOVERO — UMBERTO CALAMIDA 98
una variazione individuale, ma bensì come una variazione di razza (Cinghiali esotici,
C. nostrani). Noi non abbiamo criteri sufficienti per giudicare se questo fatto si possa
verificare anche per la specie nostra: non sarebbe strano però ammettere tale pos-
sibilità aprioristicamente, tenendo calcolo di quanto avviene per altre particolarità
osteologiche del cranio.
Queste poche considerazioni ci pare facciano risaltare a sufficienza il valore
morfologico delle formazioni che noi abbiamo preso in esame e giustificano anche
la diffusione che noi abbiamo dato al nostro studio.
È impossibile riassumere ora in poche semplici proposizioni i reperti da noi
avuti nei singoli ordini di Mammiferi: questo d'altra parte è stato parzialmente
fatto a mò di conclusione per i reperti avuti in ciascun ordine ; e noi abbiamo volta
a volta paragonato, quando ciò era possibile, i reperti avuti nelle famiglie più o
meno numerose di uno stesso ordine; sarebbe quindi una ripetizione inutile riferire
ancora una volta i paralleli da noi fatti precedentemente. Le considerazioni generali,
alle quali noi siamo venuti ora, possono servire benissimo di conclusione alla somma
delle constatazioni obbiettive fatte per ogni singola famiglia di ciascun ordine, come
la parte descrittiva del nostro lavoro rappresenta lo schiarimento delle considera-
zioni morfologiche derivanti dalla conoscenza della letteratura ed esposte come spie-
gazione dei criteri fondamentali ai quali ci siamo attenuti nelle nostre ricerche.
Dall'Istituto anatomico dell'Università di Torino, diretto dal prof. R. Fi-sari.
Marzo 1903.
99 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETROSQUAMOSI 257
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48. Milne Edwards H., Lecona sur la physiologie et l'anatomie comparée de Vhommi et dea animaux.
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101 CANALI VENOSI EMISSARI TEMPORALI SQUAMOSI E PETKOSQCAMOSI 259
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52. Poibier P., Tratte d'Anatomie inondine. Tome I. Osteologie, pag. 417, 418, 430, 431, Paris, 1893.
53. Portal A., Ciiurs d'Anatomie medicale ou Éléments ili l'Anatomie de l'homme. Paris, 1804, Tom. IV,
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54. Quain, Elements uf Aliatomi' [editeci 1>.\ Schàefeb a. Thane). Ninth Edition, Voi. I, pag. 505. —
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55. Rathke H., Ueber den Bau und die Entwickelung des Venenst/stems des Wirbélthiere. Dritter Bericht
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56. Romiti G., Trattato di anatomia dell'uomo. Voi. I. Osteologia, pag. 258.
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58. Schdltz G. J., Bemerhungen iiber den Bau der normale» MenschensckOdel. Leipzig, ls.V2. s. 31-32.
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60. Semlau P., Démonstrations d'Anatomie. Paris, 1892, pag. 91.
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66. Sussdorf M. , Lehrbuch der vergleichenden Anatomie des- Haussàugethiere. 1 Bd. . s. 185-186,
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67. Tandler J., (a) Zur vergleichenden Anatomie des Kopfarterien bei den Mammalia, " Denkschriften
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s. 677-784. — (bì Id., " Anatomiscbe Het'te „, LIX, 1901, s. 327, 368.
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del R. Istituto Lombardo „, Tomo VI, fase. 36, 1855 — ristampa in A. Verga, Studi anatomici
sul cranio e sull'encefalo, Voi. I, parte anatomica, 1896, pagg. 48-54.
73. Wagner L, De partibus mammalium os temporum constituentibus. Dorpat, 1858, s. 35.
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260 ALFONSO BOVERO - UMBERTO CALAMIDA — CANALI VENOSI EMI 102
SPIEGAZIONE DELLE FIGURE
Indicazioni generali: st squama temporalis — ot os tympanicum — pp pars petrosa — pm pars
mastoidea — fG fìssura Glaseri — mpst margo parietalis equamae temporalis ■ mpst margo
petrosus squamai; temporalis — bt bulla tympanica — satpp sulcus arteriae temporalis
profundae posterioris — pz processus zigomaticus ci «rista infratemporalis — It linea
temporalis — ca conus articularis — fin fossa mandibularis — pae porus acu bicus externus
— pai porus aoustious internus — e in crista mastoidea — sps sulcus petrosquamosus _—
et canalis temporalis — fszl foro sottozigomatico Litorale — fszm l'oro sottozigomatico
mediale — fpg foro sottozigomatico posteriore — fszp foro soprazigomatioo posteriore —
— fsza foro soprazigomatico anteriore — fps foro prezigomatico superiore — fpi foro pre-
zigomatico inferiore — fp foro postsquamoso — fin foro infrasquamoso — fj forameli .iugu-
lare — eps emissario petrosquamoso — font forameli occipitale niagnum — co condylus
occipitali» — rm condylus maxillaris — op os parietale — oo os occipitale — oz os zygoma-
ticum — ama ala magna sphenoidalis — fs forameli spinosum — samm sulcus arteriae
meningeae mediae.
(Le fig. 1-14 sono tratte da fotografìe eseguite dal prof. R, Fusahi).
Fig. 1". Cranio J ad. (Collez. Crim., N. 3 Cat., assassino) - Regione temporale, dal basso e da sinistra.
„ 2*. „ 6 ad. (Collez. Var„ N. 310 C), „
„ 3*. „ 9 an. 34 (Collez. Crim., N.107C, prostituta) -Regione temp., da destra e dall'indietro.
4». m „ - Fossa cerebrale media e faccia superiore
della piramide, dall'alto.
5». „ § an. 58 (Collez. Nomi., N. 141 C.) - Regione temporale sinistra, dall'esterno.
6». „ 9 an. 60 (Collez. Crim., N. 259 C.) - , , dal basso.
7". , 5 ad. (Collez. Var., N. 252 C.) - , „ dal basso e dall'avanti.
8*. , $ ad- (Collez. Var., N. 337 C.) - „ „ dal basso e dall'esterno.
(11 processo zigomatico fu resecato presso alla base).
9". n „ „ - Fossa cranica media sinistra, dall'alto.
„ 10°. „ 9 ad. (Collez. Var., N. 47 C.) - Regione temporale sinistra, dall'alto e dall'esterno.
„ 11». , è ad. (Collez. Var., N. 312 C.) - „ „ » dilato.
, 12\ , 9 ad. a. 64 (Collez. Crini., N. 326 C.) - Regione temporale ed infratemporale di
sinistra, di lato e dall'avanti (Il processo zigomatico fu resecato in prossimità
della sua I
„ 13". „ c5 ad. (Collez. Var., N. 290 C.) - Regione temporale sinistra, di lato e un po' dall'alto.
„ 14\ „ $ a. 47 (Collez. Crim., N. 47 C, suicida) - Regione temporale destra, di lato e dal-
l'indietro — a Sutura sagittale anomala della squama.
, 15a. Osso temporale sinistro di $ giov. (9-10 anni) - Faccia cerebrale, dall'alto e dall'indietro.
„ 16". „ destro di 9 di 6 anni - Faccia inferiore della piramide e della squama.
17a. „ sinistro di J giov. - Dal basso e lateralmente (Il tegmen tympani fu com-
pletamente asportato assieme al condotto uditivo osseo).
, 18". Osso squamoso di sinistra isolato di J giov., faccia cerebrale.
„ 19a. Satyrus Orang 9, 2 anni - Regione temporale destra, dal basso e di lato.
„ 20*. Hylobates hoolok - Fossa infratemporale destra, dal basso.
„ 21*. Semnopithecus entellus, ad. - Regione temporoparietale destra, di lato e dall'indietro.
„ 22*. Cercocebus ftUiginosus „ » » di lato e dall'avanti.
„ 23». » - Fossa craniana media, dall' alto — a tratto scoperto del canale
infrasquamoso posteriore.
„ 24*. Maeaeu» nemestrinus, ad. - Piramide temporale sinistra, dalla taccia inferiore.
„ 25*. Oynopithecus nigrescens - Piramide temporale destra, faccia cerebrale dall'alto e dall'indietro.
„ 26:i. Mycetes seniculus niger - Fossa infratemporale di destra, di lato e dall'alto.
„ 27». Canis familiaris - Regione temporale di sinistra, dal basso — a docciatura verticale sulla
faccia dorsale del cono.
„ 28*. , - Fossa cranica media, dall'alto.
„ 29". Mustela americana - Regione temporale sinistra, dall'esterno.
„ 30*. Felis Catti*, ad. - Regione temporale, dalla faccia inferiore e di lato.
„ 31*. Phoea vitulina, iuv. - Faccia inferiore regione temporale sinistra, dal basso e dall'avanti.
„ 32*. Arctomys mai-mota 9 ad. - Regione temporale destra, di lato.
„ 33*. „ „ - Osso squamoso destro, faccia cerebrale.
34». „ - Metà destra del cranio dalla Faccia ìerebrale e di lato —
pertura endocranica anteriore, g id. posteriore del canale temporale.
BOVERO e CALAMIDA-Canali venosi emissari temporali ecc
ì
GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE
MEMORIA
DI
GUIDO FUBINI
Approvata nell'adunanza del 22 Febbraio 1903.
Il problema della trasformazione delle equazioni dinamiche fu assai studiato in
recenti lavori : io mi sono proposto di determinare quei problemi dinamici le cui traiet-
torie ammettono un gruppo continuo di trasformazioni in sé stesse, e che presentano
perciò speciali proprietà per la loro integrazione. Ho cominciato naturalmente dal caso
di forze impresse nulle ; in questo caso il problema si può tradurre geometricamente nel
problema di trovare tutti gli spazii, che ammettono un gruppo, che conservi le geode-
tiche: a questo problema è riservato il presente lavoro. Sotto questa forma il problema
non è nuovo; già il Lie lo affrontò per il caso delle superficie senza riuscire a risolverlo.
Il Koenigs (cfr. p. es. la Nota del Koenigs aggiunta al 4° volume della Théorie des
surfaces del Darboux) indica (*), partendo da ricerche generali, un mezzo, con cui si
potrebbero per le superficie completare i risultati del Lie. Una parte del problema
in questione fu già completamente da me risoluta (" Annali di Matematica „, 1902),
quando ho risoluto il problema di determinare tutti gli spazii che ammettono un
gruppo continuo di movimenti. Però ne i' metodi da me seguiti in questa memoria,
né i metodi del Lie, con cui l'illustre analista non riuscì a risolvere il problema per
il caso delle superficie, possono certo bastare per la trattazione generale del pro-
blema. In questa memoria svolgerò dei nuovi procedimenti che possono bastare per
il caso di spazii a 2 o a 3 dimensioni e che anche completano quasi interamente la
trattazione per il caso generale di spazii a un numero qualsiasi n di dimensioni.
Solo appunto in questo caso generale si presenta uno specialissimo caso particolare,
per cui non mi riuscì di esaurire interamente la discussione. Esempii particolari, dal
cui studio non riuscii a trarre un procedimento generale, mi fanno credere però
che i miei metodi possano essere sufficienti per studiare con bastante rapidità anche
(*) Cfr. anche Raffy, " Journal de Mathématiques „, 1894. — Quando il presente lavoro era già
in corso di stampa, in una nota dei " Comptes Rendus „, Bodlangek trova un elemento lineare a
tre variabili, che ammette un gruppo geodetico a un parametro ; il metodo usato conduce però a
equazioni, che allo stesso autore sembrano inestricabili.
262
GUIDO FUBIXI
questi specialissimi casi eccezionali; cosa del resto che, credo, il lettore riconoscerà
facilmente. Come esempio di trattazione, io svilupperò poi completamente il caso di
n = 3, e accennerò al caso di n = 2, senza però sviluppare per w=2 tutti i calcoli
relativi, che sarebbero senza interesse, dopo la memoria del Koenigs. Il principio
fondamentale della presente memoria consiste in questo: mentre le equazioni, cui
devono soddisfare i coefficienti delle trasformazioni infinitesime del nostro gruppo
sono alle derivate parziali del secondo ordine, ciò che rende difficilissima la discus-
sione, si riesce con particolari artifici a ridurre il sistema al successivo studio di
sistemi di equazioni alle derivate parziali del primo ordine e molto spesso di sole
equazioni alle derivate ordinarie.
Sia
(1)
§ 1. Formule preliminari.
ds'2 = Z (/,t dx, dx,,
l'elemento lineare di uno spazio a n dimensioni. Indicheremo con |a| il discriminante
di questa forma, con Atlc il complemento algebrico di a,k in questo discriminante
diviso per \a\ stesso. Naturalmente questo è lecito, perchè |« |=H= 0. Indicheremo
con ' ' dove i, k, l sono tre indici qualunque della serie 1,2, .... n l'espressione:
. . J_ / ò"ii i orna 9a
W 2 ' ftxt ' te, dxi I '
(3)
Porremo poi:
i?i=s^ra-
Indicheremo con (rk, ih) dove al solito r, k, i, h sono indici qualunque i sim-
boli di Riemann:
*■ •* 2 \ ÒXi ftafc ' ÒXrÒX), ÒXhÒXk teròx, I ' Z-é \ L m J L l J
Questi simboli come si sa soddisfano alle identità:
(kr, ih) = — {rk, ili) = (ih, kr) = — (kr. hi)
(5)
[rk, ih) + (ri, hk) + {rh, ki) = 0.
Porremo poi, indicando con r, v, i, h indici qualsiasi:
:J[T]:
(6)
!>-v. i//j = Ii„(ri, ih)
:ì
•i?j
!)x\
òx,
>s~ì i Sh) '
3 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 263
Come è noto è:
(7) \rv, ih{ = — }rv, hi[.
Dalle formule precedenti, si trae:
raditi
(8)
(rk, ih) == I «,.., 1 /7, /A '.
Queste notazioni sono le stesse che il prof. Bianchi usa nella sua Geometria Dif-
ferenziale. Un teorema di Schur ci dice che affinchè lo spazio in discorso sia a cur-
vatura costante K è necessario e sufficiente (se n > 3) che esso sia a curvatura
costante K in ogni singolo punto per qualsiasi orientazione. Tradotto analiticamente (*)
questo teorema ci dice che se è:
(9) (rk, ih) — K(a„ aM — a , <>.,..) = 0
(ciò che ci esprime costante in ogni punto la curvatura K) è K una costante; e lo
spazio è a curvatura costante K. Moltiplicando questa relazione per A,r, dove v è un
indice qualsiasi e sommando rispetto a k da 1 a n, la precedente formula diventa:
(10) )rv, ih j — K(ar:€h, — arhet,) = 0
dove £/,»(«„) sia nullo se A==v(< — v) e sia uguale a " 1 „ nel caso contrario.
Ricorderemo ancora che se xlt ..., ~xn sono un nuovo sistema di coordinate, e se:
To,.,I.,\iÌj'
è l'elemento lineare espresso con esse sarà:
/-, , v V"* _ te òxk . ST1 te te
i,ì i,k
Forinole analoghe valgono per ogni sistema covariante della forma, come è ben
noto. In particolare se con (rs,tk) indichiamo i simboli a quattro indici per la forma
trasformata è:
,i,n z r~i V1 , ■ , ,n te àxk tei òxi
(12 (rs,tv)= > (ik,lil)-z= c=- -5= 5= —
y ' v ' ' Lj te- òx, dxt te
ik.hl
Consideriamo ora ima trasformazione infinitesima:
(*) Bianchi, Sui simboli a 4 indici, ecc., " Rendiconti dei Lincei „, 5 gennaio 1902.
264 GUIDO FL'BINI 4
Denotiamo con e una costante infinitesima: e applichiamo questa trasformazione
al nostro elemento lineare; esso diverrà:
(14) La,i.dx,dxt -|- eX[Xa, -<lx.<lx |
che noi scriveremo per semplicità sotto la forma :
Taikdx,dx,: -f- £Ì-a'ikda
dove, come sappiamo dalle formuli' del Killing, o. come si verifica tosto, ricor-
dando che :
X{Z.ailldxidx1) = 'ZX(aik)dx,dxk + TarlldX(xr) dx* + laridX(xr)dxi,
abbiamo che:
r
È per noi ora importante la seguente considerazione. Per passare dall'ele-
mento (1) all'elemento (14) si può anche procedere col seguente metodo: fare dap-
prima il cangiamento di coordinate seguente:
x, = ./, + a,{x\ ... x'„) {i = 1, 2, .... n)
dove le E, si deducono dalle E, che compariscono nelle (13) sostituendovi alle x^.-.x,,
le x'1...x'n; e nell'elemento lineare trasformato con questo cambiamento di variabili
porre le xx ... xn al posto delle x-l ...x'„. Mostrerò ora dapprima come da questo punto
di vista le (15) si deducono subito dalle (11). Poniamo :
Za„dxrdxs = 1b,t(ìx't<ìx'h.
Avremo :
, V ÒZr ÒX,
r,s
Prendiamo nel secondo membro le x\ ... x'n come variabili indipendenti e diamo
alle er, , efa il significato più sopra stabilito. Avremo :
2>.<* m|è=S[(^¥)(.+^)|^^)}
Da cui sviluppando, ordinando secondo e, trascurando le potenze di e di espo-
nente maggiore di 1 troviamo che:
„ =«,M + e ^W) *& + 2*40 ^ + £«»<*') ^
Ponendo le x% al posto delle x,' troviamo precisamente le (15). Questo stesso
ragionamento si può applicare a ogni sistema Xr,,„. .,.„ covariante ad ni indici.
5 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 265
Noi disegneremo sempre d'ora in poi sei è una quantità qualunque relativa
alla (1) con A + e A' la quantità analoga corrispondente alla (14). Avremo allora
con ragionamenti analoghi ai precedenti:
Se Xr,r,...r„ è un qua ! u nque sistema covariante ad m indici, varranno sempre le
formule :
(16) A",,, ..,. = £ [> £ <*" ■'-> + X- — • "•' &{ + - ]
t
dove nel secondo membro t si sostituisce successivamente a r,, r2, r3) ... rm.
In particolare otteniamo :
(17) (ih,kl)'=^lZr~(ih,ty+(rh,kl)^+(ir,kl)^^^
che è per noi una equazione di importanza fondamentale.
Se noi seguissimo per le Aik un metodo analogo a quello tenuto pei sistemi
covarianti, potremmo pure trovare le A'm; e con metodi analoghi trovare le formule
anàloghe alle (16) per i sistemi controvarianti. Noi procederemo per maggior brevità
cosi. Dalle:
(a) ZaikJih = elch
si deduce:
Z(a'ikAih + aikA'ih) = 0.
Moltiplicando per Aky e sommando rispetto a k otteniamo:
J\v + I-Ó,.l,. ,i,, = o
donde, per la (15) si trae:
(18) A>^{Z,^-A^-Ah,-
Dalla (2) si trae:
., \' i k "y 5«'.i j
òxì dxi
Ricordando le (15), sostituendo, otteniamo con facili riduzioni:
(-)[?j=i[-£fe+^C"]+i-v]£+mt+L?j^]-
Dalle (3) otteniamo:
Ricordando le (18) e le (19) troviamo le formule fondamentali seguenti:
<9M \iki'— a'e» | yr? a jik) , \ir\ ae, , \kr\ as, \>kj di.
( ' }v S ~ ÒXiòXH "T" Li L ' j7r|v( + |v|tet|»U \ r )■ dxr J
r
Serik II. Tom. LUI. i1
(» 2[?] = -tf+Ì
266 GUIDO FUBINJ 6
Troviamo infine il valore di )r\,ih\'. Dalla (6) si ha:
|rv, ih{' = Z[A'„(rl, ih) + A Ari. ih)' \
donde per le (17), (18) si ricava con facili riduzioni:
(21) !,v,^;' = 2[E'àirv'^-^^!'6+^i7C+''-v-/A^^!''v'^
t
La trattazione in alcuni punti acquisterebbe di simmetria se noi considerassimo
anche le variazioni dei primi membri delle (9), (10); ma, tanto per non introdurre
fin da principio nuovi simboli, useremo soltanto quelli finora descritti, anche so l'ele-
ganza e la semplicità dovessero un pochino essere diminuite.
In ogni modo la considerazione delle )rv, ih\' è uno dei punti fondamentali del
presente lavoro.
§ 2. Formule fondamentali.
Noi diremo che una trasformazione infinitesima è geodetica per un dato spazio.
quando il gruppo da essa generato permuta tra loro le geodetiche dello spazio stesso :
un gruppo generato da trasformazioni infinitesime geodetiche sarà detto geodetico.
Noi ora ci chiediamo quando una trasformazione (13) sarà geodetica per (1). Ciò,
com'è ben chiaro, avverrà allora e allora soltanto che su (1) e (14) si corrispondano
le linee geodetiche. Noi troveremo ora le semplici equazioni, che traducono questo
fatto; esse sono di grande importanza, e contengono le derivate seconde delle £
rispetto alle x.
Per lo spazio (1) l'equazione delle geodetiche è:
m ^.ydx^dx^^ikl (i,k,t=l,2 n).
yl> <fea ' Li às ds ì ! s y
i,k
Indicheremo con A, il primo membro della (1); al sistema di queste potremo
chiaramente sostituire il sistema equivalente:
(2) A,^-A,.-^ = 0 (•**) (M = l, 2, •..,«)•
Però mentre nelle (1) la variabile " s „ è l'arco delle geodetiche, nelle (2) la " s .,
può avere un significato qualunque o, in altre parole, nelle (2) la " s „ è un qual-
siasi parametro individuante i punti di una geodetica. Osserviamo ora che nella (2)
il coefficiente di *"%** se i<¥t, k^t è 2J'*j; il coefficiente di **f^
k- ■-,: k^t, è 2J'*J-2J*j; infine il coefficiente di -^- è 2 j'« \- \™\-
Scriviamo ora le equazioni analoghe alle (2) per l'elemento (14); esse natural-
mente si dedurranno dalle (2) col semplice scambio di ogni simbolo yl l (1=1,2 n)
7 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 267
j„ 'ykt _|_e J'7'"!'; e ciò, appunto perchè nelle (2), il significato del parametro * s ,
non è determinato. Affinchè dunque sugli elementi (1) e (14) del § 1 si corrispondano
le linee geodetiche dovranno essere nulli i coefficienti di " e „ nelle nuove equazioni
testé costruite per l'elemento (14), ossia dovranno essere verificate le:
(3) 2!?(- j?j'HVf=° (^M^;M,*=i,2,... ,»).
Le equazioni (3) ci danno sotto una semplice forma simbolica le equazioni
richieste, che sono le equazioni fondamentali del nostro problema. Ma lo sviluppo
effettivo del sistema (3) conduce a un sistema di equazioni, che è tutt'altro che facile
approfondire. Altri saranno i metodi che noi useremo.
È tale però l'importanza delle (3) che noi le vogliamo ritrovare in un'altra ma-
niera, che ci darà un' altra forma elegante delle nostre equazioni fondamentali.
Consideriamo una geodetica qualunque, di cui individueremo i punti per mezzo
di un parametro qualunque t ; poniamo :
dxi ■■ <fxi ,/-^ ; — ; —
'' = -,— , *t = — S3-1 v = K X'^.r.x,. .
ut dt
Le equazioni della geodetica si potranno scrivere:
W ZL¥^]-2£|ZvM=0 ('=!.*. )
La variazione del primo membro corrispondente alla X deve essere identicamente
nulla in virtù delle (4) stesse.
Ciò che dà, posto W= Za'npinip:
V( 1 òa'tk 1 òaa W ì . . , d V r a'a 1 w 1 •
Poniamo ora t=s, dove con s indichiamo l'arco della geodetica; col che v=l,
le (4) diventano equivalenti alle (1); sostituendo nella (5) la 1 al posto di v e ponendo
in luogo delle sk i valori che se ne traggono dalle (1) otteniamo con facili riduzioni:
(6) ^ AJ.',\.h = — 2/^.-.'',. ^7 (£«'>,,<<'■ ) (J=l, 2, ..., »).
dove :
Uhi'
Per le (1) la
(8) — (la'^à, ; I
che comparisce nel secondo membro delle (6) si può considerare come una forma di
terzo grado nelle x, (i=l, 2, ..., n). Essa ha un notevole significato geometrico, come
268 91 11)0 Fl'BINl b
risulta dalla (14) (§ 1). Per le (6) abbiamo dunque che — (Za'mpxmxp) dev'essere in
virtù della ?.am,Amx,, = 1 uguale a una forma di primo grado nelle x,; e che a questa
medesima forma devono essere uguali tutti i quozienti:
£.1' iltXiXt
(GÌ —£-= : (/=1. 2 »).
k
Questa condizione non è altro che un'altra forma della condizione (3). Ciò che
si conferma del resto facilmente col calcolo effettivo. Infatti moltiplichiamo numera-
tore e denominatore della (9) per Alv; e sommiamo tanto al numeratore quanto al
denominatore rispetto a l. Essendo tutte le (9) uguali, otterremo così un'altra fra-
zione uguale ad esse, che per la (7) è:
,.k I r \
Affinchè questo quoziente sia una forma di primo grado nelle x, deve essere
appunto y '( =0 per iM=v, A- =!=?>. Questo quoziente diventa allora:
(8'» »[jvf*+,,S{':j*]
dove i percorre tutti i valori, eccettuato il valore v. Questa ultima espressione d( ve
essere poi indipendente da v\ ciò che dà che se iM=v devono essere verificate le:
w/' -> S' r)'
I , S " - / r S ■
Queste equazioni sono appunto le (3). Quanto di nuovo abbiamo perii appreso
da questa discussione è l'elegante significato geometrico (8) della espressione:
(b ) Li > >• \ ds
e le altre semplici forme sotto cui questa stessa espressione si può scrivere. Questa
forma (8") è covariante, nel senso che non muta il suo significato col variare del
sistema coordinato; ciò che ce ne dà una assai curiosa particolarità; essa ci misura
la derivata seconda rispetto all'arco di una geodetica dell'incremento che per la X subisce
l'arco stesso (diviso per (.).
§ 3. Equazioni del primo tipo
alle derivate parziali del prim'ordine per le E..
Come abbiamo già detto nell'introduzione, noi vogliamo trovare delle equazioni
alle derivate parziali del primo ordine per le lT. Con due particolari artifici noi ne
troveremo due sistemi; e comincieremo intanto dal primo.
9 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 269
Dalle (6) del § 1 abbiamo chiaramente:
Ariì' Arhr
che naturalmente dev'essere equivalente alla (21) del § 1. Sia ora p. es. v — r, v=M,
v=#/i. Otterremo per le (3) del § 2:
iv|-iv|-U'
Cosi pure dei termini che compariscono nella sommatoria del secondo membro
sono differenti da zero soltanto i termini (se è ancho r =4= i, r =4= li) :
{riì'krhì iril'Uh). \ r i ì ivhì' _ \rhYiril \rhY Ufi l Wi J IviJ'
!fi!v|t!n|vjt[v}(ȓ f r H v J (Mfvi |vjiv|
Ma per le (?>) stesse:
JrrfJ'lvtJ' \riY_ir\V JvAl'_J**J'
Se ne conclude che anche tutta la somma del secondo membro della (1) è nulla.
Avremo perciò che:
(2) \rv,ih\' = 0 (v4=r, v=K v=4=/t)
nel caso che sia anche r=M, r=j=A. Ma si vede tosto che queste disuguaglianze
ultime sono superflue. Intanto osserviamo che se i = h la (2) è identica; cosicché
supposto p. es. r = i , potremo ammettere r =4= h. In questo caso unici termini non
nulli tra quelli che compariscono nella sommatoria del secondo membro di (1) sono:
liiì'lihì | iiiìivhì' |f*J'U»; Uhl'iiil UA)jv»7
Mlf»)"*"!»)!») ìmIvì f f n v j [vii»!
E questa espressione è ancora nulla, perchè per le (3) del § 2, ij :
(t f {'_ o J*<ì'_ 9$ Vi 1' _ Uf )' , J» *)'. \ v/, )' _ l*«'
La (2) è perciò dimostrata in generale.
Sia ora r = v , r=4= i, r =4= A.
In questo caso avviene ancora che la sommatoria del secondo membro delle (1)
è nulla perchè unici termini non nulli sono :
iriì'irhì i^riì'iihì j_iri) irh)' Irhl'Lriì irh)' ihi\ _ irkì iriV
} r \\A + \iS}r\+\r\\r\~\ r \ \ r%\ \ h \ \r j \ r \}r]
che si riduce a:
270 GUIDO FUBIN'I 10
che è nulla per le (3) del § 2; il termine:
per le (3) del § 2 è uguale a
e dipende perciò soltanto dai valori di i, h e non da quello di r; cosicché, se abbiamo
un quarto indice s tale che s =+= i , s =4= v , sarà :
(2') )rr, ih\' — \ ss, ih[ = U (s#=i, s4=A) (r=j=i, r=(=A).
Se s = r, oppure i=h quest'equazione è un'identità.
Sia ora v = h; allora si trova facilmente che per le (3) del § 2 se r-
Ari)'
•w
ÙXh
'.''.
1
[•IVI'
•{Yil
•2
ÒXh
dxt
rh, ihl' —
dx, -T | r J ? ft J "T" | » H M "+" 4J ? I 5 ? /' *
_ s '•/' i' }*•**_$ »■* n *'i _ i r/' ì i **ì' —
di rri'
2 òxì * 2 La} l Sì l\ >) h\ì h \ 2 ') h\ ] h S
irrì'
+ 2 Zj n «
2 dm ~T 2 Là') 1 S I I \
i
Questa espressione non dipende evidentemente da " h „. Indicando con k un
quarto indice avremo perciò:
(2") ) rh, ih (' — ) ?•/,-, i k[' = 0 (r =!-=/<, »={=A, *•#=&, i=!=A-)
Si verifica infatti analogamente a quanto abbiamo fatto più sopra che questa
equazione vale anche se r = i.
Le (2), (2'), (2") ci danno un semplice sistema di equazioni alle derivate par-
ziali del primo ordine per le Sr, sistema che è naturalmente per noi della massima
importanza. Noi vedremo infatti più tardi che non useremo quasi mai delle equa-
zioni (3) del § 2, alle derivate parziali del second'ordine nelle " E „. E in particolare,
useremo specialmente delle (2) che, com'è chiaro, sono più semplici che le (2'j e le (2").
§ 4. Prirne conseguenze delle equazioni del § 2.
Una prima conseguenza immediata è questa: Se una trasformazione conforme è
insieme geodetica, essa è una trasformazione simile. Infatti se una trasformazione X è
conforme, avremo che a'it = \a,,, ; dove X è funzione delle coordinate. Dico che se X è
11 SUI GRUPPI DI TKASFORMAZIONI GEODETICHE 271
anche geodetica, deve essere X costante. Infatti dalla a'ai=\aik si trae perla (a) (§ 1)
A'tk — — \Alk e per la (t) dello stesso paragrafo:
La (P) del § 1 ci dà:
Fikl' . I ikl , 1 T dX , òX dX 1
E l'equazione precedente diventa dunque per le (a) del § 1 :
Ma se i =4= v, A; =4= v questa espressione dev'essere nulla per la (3) del § 2 anche
se i = k. E poiché a,* =4=0, se » = & (perchè restiamo nel campo reale) sarà:
2
4,-^ = 0
qualunque sia poi l. Poiché il determinante \AU\ che è reciproco di \a\ è differente
da zero, è ben chiaro che - — =0 ossia X = cost. Viceversa è evidente che una tras-
òxi
formazione simile è geodetica conforme.
Dimostreremo ora che dalle (3) del § 2 si possono dedurre le derivate terze
delle it1 £2, ..., E„ in funzione delle E, stesse e delle loro derivate prime e seconde.
E poiché le (2) del § 3 ci danno espresse tutte le derivate seconde in funzione
delle E,, delle loro derivate prime e delle -r-4- , ne risulterà che una trasformazione
r dx \
geodetica è determinata quando sono dati i valori delle E,-, delle 5— edelle ^—t(i,k=l,2..n),
ossia quando sono dati n (n + 2) costanti ; il gruppo geodetico di uno spazio qua-
lunque non può perciò contenere più di »(« -f- 2) costanti arbitrarie. Le equazioni
del § 3 dovranno naturalmente potersi ottenere come condizioni per l'integrabilità
del nostro sistema; il numero massimo n(n-\-2) di costanti arbitrarie non potrà esser
raggiunto, che quando queste equazioni siano identità.
È intanto ben chiaro che dalle (3) del § 2 si possono ottenere tutte le deri-
da
vate -t— t — r — (l^=i, l=\=k) in funzione delle E,, delle loro derivate prime e seconde.
Per far questo basta ricordare che è sempre in questa ipotesi:
_J_W_o
dx, Uì
Supposto poi sempre i =f= l, l =)= k, la :
ci permetterà di ottenere . " , in funzione di -, . "', — , delle E, delle loro derivate
OXioari riXiO.rhO.ri
272 GUIDO FUBINI 12
prime e seconde ; ossia per il risultato precedente anche in funzione soltanto delle £,
delle loro derivate prime e seconde. Infine dalla:
[ì'/f-i ì'/ì'j-» e*«
otteniamo, ricordando il precedente risultato relativo a ^ , . che si potrà espri-
mere anche f-J- in funzione al solito delle E e delle loro derivate prime e seconde.
Sari
A noi non interessa però di scrivere effettivamente le formule definitive.
Soltanto osserveremo che quando lo spazio ammette un gruppo geodetico con
n(n-\-2) parametri, esso è uno spazio a curvatura esimiti-, e il gruppo corrispondenti
ciò propria il gruppo proietti m degli spazii ad " n „ dimensioni.
Infatti in tal caso (Lie, Transformationsgruppen, tomo 1°, teor. 112) il gruppo è
appunto simile al gruppo proiettivo su n variabili; da ciò si deduce facilmente che
lo spazio è geodeticamente applicabile p. es. su uno spazio euclideo ed è quindi a
curvatura costante per un noto teorema di Beltrami.
Daremo ora un esempio particolare di applicazione delle precedenti formule,
risolvendo una questione interessante per la geometria degli spazii a tre dimensioni,
che ammettono un gruppo G± di movimenti a 4 parametri. Se noi p. es. prescindiamo
dalle questioni di realità, abbiamo, come dimostrò il prof. Bianchi {Sugli spazii a tri-
dimensioni, ecc. " Memorie della Società Italiana delle Scienze „, 1897J, due soli tipi
di tali spazii, i cui elementi lineari sono :
(I) dx\ -\- dx\ -\- 2 x1dx2dx3 -4- (x\ -\- l)dxl
(II) dx\ + i-'ulA -\- 2neXìdx2dx3 4- dx\ (m=cos t
i cui gruppi di movimenti non sono simili. Noi ci chiediamo: Sono questi due spazii
applicabili geodeticamente l'uno sull'altro? Se questo fosse, dovrebbe esistere una
trasformazione che conducesse le geodetiche dell'uno su quelle dell'altro, e quindi
anche il massimo gruppo geodetico del primo sul massimo gruppo geodetico dell'altro.
E poiché i due spazii hanno ciascuno un gruppo G4 di movimenti non simile a quello
dell'altro, bisognerà intanto che l'uno e l'altro posseggano un gruppo geodetico a più
di 4 parametri. Sarà dunque da risolvere la questione preliminare. Ammette, p. es.,
lo spazio I un gruppo geodetico a più di 4 parametri? Noi dimostreremo ora di no;
e sarà allora dimostrato che gli spazii I, II non sono geodeticamente applicabili. Per
vedere questo costruiamo intanto i simboli a 3 indici per lo spazio 1°. Si trova: che
tutti sono nulli, eccetto che i seguenti:
\SSi_ i 12 i x, U'^_l S 23 ^ J_ \13t_ 1-A . M3/ | x,
? 1 S~ _ Xl' ? 2 \ 2 ; 1 3 )~ T' ? 1 S~~ 2 ' ) 2 S ~ 2 ' ì 3 W 2 '
Le equazioni (3) del § 2 diventano così:
w / 1 1 ò.r2, ' ' dar, dx3 L bx3
W In- òxsbx3 "T" 2 (V, 2 d.T3 2 dx2 Xl òxt
13
(T)
W
(€)
(2)
(n)
(6)
(0
SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE
273
US
ò%
Ò^'i
da:2
1 d.r,
+ (1-^)
d£3
òri
!828f=ft+^-&-'
hr
4 Hi'.
? 3 S
I22i'
j 3 \
ii2 e
/ 8 \
d;£2
da^da^
da:,
1-a:2, d£2
da;2
-^-+1^+^ = 0
da;-, Ò^l 0#1
a*ga
da-22
d2E3 . .r, ò£3 1 d£3
da:,da'2 2 da:» 2 òx3
4^ = o
ox3
a, ò£a | 1— &\ àii . 1— a:2, j)E3
" "2~ da-3 ' 2 òxi ' 2 òx3
J_ d£, |J_^fi_l_*lÒ£3 0
2 da;, •" " »-- " " " A~
a-, _d£j
~2~da^
= 0
2 da-2^ 2 da
l Jlli'_)12i'_<18i' 1_ i 22 i' ( 21 1' < 23 i' 1_ } 33 i' _ V 13 4' _ 1 23 i'
Fhi~|2!_(3Ì; 2 ? 8 I — f 1 J C S ? ' 2 ? 3 S ~ ? U ì 2\
Le equazioni:
M
diventano infine:
(X)
(M)
(v)
(0)
(tt)
(p)
1 d2s,
2 da-2,
ò%
da-,da:2
d3E3
ih
da-,da:3~^ 2 *'
J_d^
' 2 d*3
1-a;3, dj
2 da;2
a^dj^ ■ 1 -x\ d£3
2 daji ' 2 da:2
A--"1" 2 da;,"1" ° »-
2 da-,
1 d% a-, d£^ __ d2£, , a;, jfa
2 da;22 2 da-a da:,da-2 ' 2 da:
d2£
1 d£,
2 da;3
J^d£,
2 da-,
da;3da;2 ' 2 da:, ' 2 da;2 "T" 2 da:3
\r-
da-,da;3
agi \ _ re
t;2d
1 —a:1, d£, a-, d£,
d2£3 >„ B.-Lr *3l\ — ò*** " 4- J ^ _ iì
'^d*, "r"^ daj ~~ da;2da-3 "•" 2 da-, 2 da-3
a-, d£, , 1— a;2, d£.
da:2
da:2
J_ d£a _ x d%
2 da;3 2 da;, x da;.
Se noi deriviamo la (a) rapporto x2, la (P) rapporto (%) e sottraggiamo, ricor-
dando le seguenti otteniamo:
da;2
= 0
per cui dalla (t) si ottiene:
■'■:.
da?g
= 0
ossia
ossia
h = h (*i, *»)
: £3(^1, X3).
Dalle (p), (1) sottratte l'ima dall'altra si ottiene :
0 ossia 52 = £2 (xt, xs)
Ì..C-2
Sebie li. Tom. LUI.
274
GUIDO PUBENI
col che le (8), (i)
Ihnno:
mentre la (v) dà:
dii = te3
ÒX3
ÒE, _ dls
14
Le quali due ultime equazioni ci dicono intanto che EXl S2 sono funzioni armo-
niche coniugate delle variabili a;, , x3. Le (b), (e) sommate ci dicono che anche E3 è
armonica nelle variabili ;ru .<y Per le precedenti equazioni la (a) si potrà scrivere:
■-«.) = »■.<<-'
E la (n) si può scrivere:
Quindi anche ■riè1, y-3 Eg sono armoniche coniugate. Poiché £j e .r, E, sono
ambedue armoniche, dovrà essere r-1- =0, donde:
A/-': a» dar,
Ma la -T-T- = 0 si può scrivere: -r — j^-=0.
OX 3 r !<.,'/
Questa equazione insieme alla - ", =0 ci dice che ?— =k dove &=cost. Da
cui si deduce, indicando con h, l nuove costanti:
Es = te, + A
Él = — *». + l.
E poiché .r1El è coniugata armonica di -y1 E2 si deduce indicando con m una
nuova costante:
h = -j iA — «!) — i-r-s + w •
Il gruppo geodetico più ampio dello spazio in discorso ha perciò soltanto 4 pa-
rametri e coincide quindi col gruppo di movimenti dello spazio stesso.
La nostra questione è perciò risoluta.
Un metodo analogo si può naturalmente applicare alla ricerca del gruppo gì -
detico più ampio dello spazio II, anzi di uno spazio qualunque.
§ :>. Secondo tipo di equazioni
alle derivate parziali del primo ordine per le Er.
Daremo in questo paragrafo delle nuove equazioni alle derivate parziali del primo
ordine per le E, che in alcuni casi offrono il mezzo più comodo per la discussione
15
SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE
■li:
del nostro problema, e specialmente nel caso di n = 2, in cui le equazioni del § 'A
si riducono a identità, danno un mezzo diretto per la risoluzione del problema di Lie.
Per ottenere queste equazioni, ricordiamo che, come abbiamo già osservato, aftinché
una trasformazione infinitesima sia conforme, devono essere soddisfatte le equazioni:
(«)
U".).
dove u sia una funzione delle coordinate dei punti dello spazio; se poi u è costante,
le (a) ci esprimono le condizioni necessarie e sufficienti, affinchè la trasformazione in
discorso sia insieme conforme e geodetica. Noi cercheremo ora di generalizzare le (a)
e di ottenere un sistema di equazioni di tipo analogo, che valgano per ogni trasfor-
mazione geodetica non conforme. Per ottenere questo ricorderemo i noti risultati del
prof. Dini (che già il Lie stesso conosceva) generalizzati dal prof. Levi-Civita alle
varietà di un numero qualunque di dimensioni. Il risultato del prof. Levi-Civita è
il seguente (Cfr. " Annali di Matematica „, Sulle trasformazioni delle equazioni dina-
miche, 1896):
Se due spazii S„ sono geodeticamente applicabili l'uno sull'altro, i loro elementi lineari
sono riducibili alla forma:
(1)
(2) da*--
ds*
TT/(y;,, . — ij/„,) I KTSdxTdx,
1 ',»=ph+i
{«■VP, + &)(<iVr?-\-t)-{.<*'Vpn-
' & Zj ayp.
<*M>Pi + P
TT', {yp
Hip) I A' ,</./■. dx,
'r.«=pi_1-t-l
Ecco ora il significato dei varii simboli. 1 numeri
Po , Pi, Pi,
Pn-m - .
sono numeri posti in ordine crescente, tali che p„_m+l= r, y0 = 0; m è un intero non
maggiore di n. Si può supporre anche che le p si susseguano in modo che le dif-
ferenze di due p consecutive non vadano crescendo; i simboli a, R indicano costanti
qualsiasi. Quanto alle yPì, se p,^ -f- 1 = pt , allora *pPi è una funzione di xPl ; se invece
i > 1 allora ty,,, è una costante. Le \\>Pl devono però in ogni caso essere distinte
l'una dall'altra. Li' K... dove r, s sono indici compresi tra p,_[-j-l e p, sono funzioni
qualsiasi di xPl_l-\-l,xPli-\-2, ...,xPr Se p, — p,_, = 1, allora di tali K„ havvene una
sola, a cui si può dare il valore 1.
Infine nei fattoriali Tì't(}i>p — hiPì), / percorre tutti i valori 1, 2, ..., n — m-{ 1
eccetto che il valore j=l.
Noi faremo anzi sempre la convenzione che accentuando il simbolo di fattoriale
(sommatoria) si debbano escludere quei valori dell'indice variabile, che danno un fat-
tore nullo (un addendo infinito o indeterminato).
Facciamo ora alcune osservazioni sugli elementi lineari (1), (2). Se fosse m = n,
le p e le ijj si ridurrebbero alla p0 = Q, aliaci e alla vy,,,; la \\>Pì sarebbe una costante
e i due elementi lineari sarebbero simili; noi escludiamo senz'altro questo caso. Divi-
276 GUIDO FUBINI 16
deremo allora le variabili .f, .r, e„ in tanti gruppi ponendo in un medesimo gruppo
le XiX2 .... :/>,; in un secondo gruppo le xPt+i , xPì+2....xp, e così via. Diremo che duo
variabili sono della stessa specie, o anche che i loro indici sono della stessa specie,
quando appartengono a uno stesso dei precedenti gruppi. Se alcuni di tali gruppi
sono formati di una sola variabile, essi per l'ipotesi fatta saranno i frinii di tutti.
Noi diremo che le variabili e gli indici corrispondenti sono del primo sistema : cosicché
se di tali gruppi ve ne sono t noi diremo che il primo sistema contiene t variabili
e indici ; denominazione che conserveremo anche se t fosse uguale a zero. Le varia-
bili e gli indici poi di specie t+1, t+ 2, si diranno rispettivamente del secondo,
del terzo sistema e così via. Il sistema cui appartiene un indice si indicherà con un
affisso; p. es. con r, indicheremo un indice del v-esimo sistema; con ri"' invece indi-
cheremo un indice di specie v. Infine diremo elemento lineare aggiunto dell' ele-
mento (1) l'elemento
dsi = n'z\T]/(wPj— VPl)~\dxl
Se ognuno dei numeri p supera di 1 il precedente, l'elemento lineare. (1) coin-
cide col suo elemento aggiunto.
Faremo poi la seguente semplice osservazione, che insulta senz'altro chiara dalla
Memoria del prof. Levi-Civita citata.
Data la corrispondenza geodetica tra gli spazii (1), (2), il sistema delle xx, x2,.... x„
è completamente individuato, se ogni specie contiene una sola variabile. In caso opposto
vi è una indeterminazione, la quale proviene dal fatto che alle m variabili di una stessa
specie possiamo sostituire come coordinate, in loro funzioni indipendenti qualunque. Quest'os-
servazione sarà nel seguito per noi abbastanza importante.
Consideriamo ora una trasformazione infinitesima X, che supponiamo geodetica
non conforme per il nostro spazio (1) del § 1. E consideriamo una trasformazione
generica T del gruppo G1 da quella generato. La trasformazione T stabilirà una cor-
rispondenza geodetica non conforme tra due pezzi distinti della varietà e perciò nel-
l'intorno di un punto 0 regolare per X e per la varietà, ci definirà un sistema
coordinato (di cui abbiamo già vista la eventualmente possibile indeterminazione) che
dovrà fare assumere all'elemento lineare la forma (1) del paragrafo attuale. Facciamo
tendere ora la trasformazione T verso l'identità. Questo sistema coordinato tenderà
verso un sistema limite, che noi diremo un sistema canonico relativo alla nostra tras-
formazione. La sua possibile indeterminazione è precisata dall'osservazione precedente.
La trasformazione infinitesima X dovrà mutare l'elemento (1) in un elemento del
tipo (2) però infinitamente vicino al tipo (1). Quando mai può avvenire che un ele-
mento lineare (1) e un elemento (2) siano infinitamente vicini? Ciò non può avvenire
che quando a, 8-1 siano quantità infinitesime che noi potremo indicare rispettiva-
mente con
/) q
— e — e — - —
n — m -f- 1 n — m
dove p, q sono nuove costanti. Fatte queste posizioni, dovrà l'elemento (2) essere
uguale al trasformato di (1) per A", ossia esso dovrà essere uguale a:
ZaadXidx* + tX('Za,i.<l.r..dxk) — Iff,,,f/.r//.;\. + eJ.a'ilcdXidxl
17 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 277
dove con Ta,kdx,dxk indichiamo l'elemento (1). Sviluppando i coefficienti di (2) rispetto
a € e trascurandone le potenze superiori alla prima, si trova infine:
(3) (l=l,2,...,n— m + l)(*>*=|>l_i + llpw + 2,...,l»0;
'<',l—(l„:['l + PH>l -\-P(Wp, + M'ft+ — + %'„_„, + ,)]•
Sono queste le equazioni cercate, che, com'è chiaro, dipendono soltanto dalle derivate
prime delle l. Naturalmente le (3) del § 2 sono una conseguenza differenziale di
queste, che si deduce da esse, eliminando le costanti p, q. Ma non viceversa dalle (3)
del § 2 si possono dedurre queste ultime equazioni ; le quali , com' è ben chiaro,
non valgono che se il sistema coordinato è già sistema canonico per la trasforma-
zione. Se noi facciamo p = 0 otteniamo le (a) relative alle trasformazioni simili.
Del resto anche per queste valgono le precedenti considerazioni; se non che in
tal caso il sistema canonico è formato tutto di variabili della stessa specie ed è
quindi completamente indeterminato. Se nelle (3) è p=k=Q, la corrispondente tras-
formazione è geodetica non conforme; poiché poi aggiungendo alle V una stessa
costante, l'elemento lineare non cambia, potremmo in questo caso servircene per fare
5 = 0. Moltiplicando la X per — si può poi fare p=l. Ma dalle formule (3) ri-
sulta una proprietà notevolissima, per giungere alla quale noi ci proponiamo la seguente
domanda: Quando mai a un sistema canonico possono corrispondere più trasforma-
zioni geodetiche non conformi?
Prima di rispondere a questa domanda, vogliamo vedere quando mai uno spazio
può ammettere un gruppo GT a più di un parametro di similitudini, che non siano
tutte puri e semplici movimenti. Per veder questo ricorriamo alle (a), ossia alle
dove ur è una costante che varierà dall'una all'altra trasformazione infinitesima
Xu X2, ..., X\ del gruppo, e almeno per una di queste trasformazioni dovrà essere
differente da zero. Sia p. es. u, =t= 0. Allora alle trasformazioni infinitesime distinte
ut A', — u, Xj (*= 2, 3, ..., n)
corrisponderanno evidentemente costanti nulle, ossia esse saranno dei puri movimenti.
Dunque :
Se un S„ ammette un Gr di trasformazioni conformi geodetiche (simili) ammette
almeno un Gr_! di movimenti, invariante in Gr.
Ritorniamo alla questione precedente. Esista un gruppo Gr = (X1, X2, ..., Xr) le
cui trasformazioni infinitesime corrispondano tutte allo stesso sistema canonico. Var-
ranno per ciascuna delle X{ le (3) dove si faccia p=Pi, q=qt- Se tutte le p, fossero
nulle il gruppo sarebbe un gruppo conforme; sia p. es. pi-=0; allora alle trasforma-
zioni p±Xi — piX1(i = 2, 2, ..., n) distinte corrispondono valori nulli delle costanti p;
esse sono perciò conformi. Quindi:
Se a un sistema canonico corrisponde un gruppo Gr, questo Gr {se r > 1) contiene
un Gr_, di trasformazioni simili e questo almeno un fir_, di movimenti.
GUIDO FCBINI
L8
versa se Y è la pia generale trasformazione simile di uno spazio in sé, e X è
una trasformazione geodetica non conforme, le trasformazioni infinitesime X + jiY, dove
jì = cost, ammettono uno stesso sistema canonico; nessun' altra trasformazione geodetica
dello spazio ammette lo stesso sistemo canonico.
§6. Applicazione dei risultati precedenti al problema di Lie.
Noi vogliamo ora indicare come i precedenti risultati conducano a un metodo
diretto per risolvere il problema di Lie, cioè a trovare quelle superficie che ammet-
tono un gruppo geodetico. Noi non svilupperemo tutti i calcoli, che dopo i risultati
del Koenigs e del Raffy non avrebbero più alcun interesse, ne tratteremo completa-
mente il problema. Ci arresteremo soltanto al punto fondamentale della questione,
quello appunto di cui il Lie non riuscì a trionfare, alla ricerca cioè delle superficie
che ammettono una trasformazione geodetica non conforme. Ci varremo appunto delle
formule del § 5. Scriviamo l'elemento lineare della superficie sotto la forma:
ds* = (Uì — U2){dx* — dx%\
dove l\ è funzione di xu U2 è funzione di x2-t x2 si deve supporre puramente imma-
ginario, se si suppone ^j reale. Le equazioni del § 5 assumono la forma (ricordiamo
che si può fare p = 1, q — 0):
a'll = all(2Ul + £-,); a'„ = aw{U1 + 2Ut)i o'12 = 0
ossia :
O <^l , ì,U,'— Ì2C2 9r- _l_ TT
(i) ,--^.;v:^^r1 + 2^
I te, _ te. _
~ * bx,
Queste equazioni sono molto più semplici di quelle da cui parte il Lie, che natu-
ralmente contengono le derivate seconde delle E.
Da esse discende :
_ ò2 | te,
òxidrs \ fa dxidx3 \ òm
ossia:
d* i „ te, \ __ _ dj I ,} te
Sostituendo a 2 ^'-,2-'^ i valori che si traggono da (1). eseguendo le opera-
nx, BXa
zioni, ricordando le:
)Es j d'h __ a àj| \
'.r j \ Ò ^S
19 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 279
e le analoghe, otteniamo, dopo facili riduzioni, l'equazione:
W ' t£l I " ' iC,-r,f 2 (Ui-Utfl ^ da:, \ D,-D, 2(,D-D8)S/J
+ 'TW.-W 2 lOi-DiJV 9xsId3-D, 2 (DS-D,)3JJ
__ 3 ft f PJPJ' \ ■ 1 /ir I nrrW Pi" 3 D,a \
-T-^Tl^ai' + T^ + ^^H Di-Di 2 (D,-D2)»J
-1(^ + 2^)1
Quando mai questa equazione può essere identica? Si vede che in tal caso
potremmo integrare le (1) prefissando a piacere i valori iniziali di El7 E2, —A = ~
E poiché Ej = S2 = 0 non è una soluzione del sistema (1) avremmo quattro trasfor-
mazioni infinitesime linearmente indipendenti geodetiche non conformi con lo stesso
sistema canonico ; la superficie ammetterebbe perciò almeno un G3 di similitudini e
quindi almeno un G.2 di movimenti e sarebbe perciò a curvatura costante. Notiamo
anzi che, essendo nelle (1) nulla la costante q che compare nelle equazioni generali (?>)
del § 5 si potrebbe facilmente riconoscere che il G3 teste citato è addirittura un
gruppo di movimenti.
La (2) si può supporre perciò non identica; noi potremo risolverla rispetto Et o E2,
e sostituire poi nelle (1). Troveremo così p. es. le derivate di S2 in funzione lineare
della Eg stessa; anzi una delle derivate sarà data sotto due forme.
La condizione di integrabilità e la condizione che le derivate siano ben deter-
minate daranno infine cosi due equazioni lineari per E2. Se esse fossero identità, vor-
rebbe dire che il valore iniziale di E2 è indeterminato; la superficie ammetterebbe
almeno due trasformazioni infinitesime con lo stesso gruppo canonico; e perciò per
l'osservazione precedente, sarebbe una superficie di rotazione che ammette un Gl
geodetico non conforme (oltre al G1 di movimenti). Se esse invece non fossero iden-
tità, si otterrebbe da esse la determinazione di £2 e quindi per la (2) di lu ecc. ecc.
Risostituendo i valori così trovati di tx e H2 nelle (1), si avrebbero equazioni in '',.
U2 che integrate risolverebbero il nostro problema. Si noti ancora che i calcoli si
possono un po' abbreviare, quando si pensi che le equazioni tra l\ e U2 sono equa-
zioni tra funzioni di due variabili indipendenti tra di loro. Io non svilupperò tutti i
calcoli, facendo soltanto osservare qual è la causa che rende il nostro metodo più
semplice di quello di Lie. Essa è semplicemente questa, che mentre il Lie dà equa-
zioni che valgono per ogni trasformazione geodetica, noi scindiamo il problema cer-
cando una alla volta queste possibili trasformazioni e dando equazioni che valgono
solo per una di esse, considerata indipendente dalle altre. La rapidità dei nostri me-
todi si riconoscerà meglio in un caso specialmente importante, nel caso cioè di w = 3,
che vogliamo ora trattare completamente.
280 GUIDO FUBINI 20
§ 7. Risoluzione completa
del problema di determinare gli spazii a tre dimensioni
che ammettono un gruppo geodetico.
Comincieremo intanto a determinare quegli spazii a tre dimensioni che ammet-
tono una trasformazione geodetica non conforme, e ne cercheremo poi il gruppo
geodetico più ampio. Il resto della ricerca, come è intuitivo e noi rapidamente
mostreremo, non presenta poi alcuna difficoltà.
Se uno spazio a tre dimensioni ammette un gruppo geodetico non conforme, il
suo elemento lineare sarà (§ 5) riducibile a una delle due forme seguenti:
(1) ds2 = T[T]/(U,-U,)cH\
(2) ds2 — ( Ux — a) \dx\ + Edx\ + 2Fdx<idx-., + Gdxl]
dove le U, non dipendono che da #,, a è costante, E, F, G non dipendono da xx.
Il caso (1) è caratterizzato dalla proprietà di coincidere con l'elemento aggiunto (§ 5).
Noi comincieremo dallo studio di questo caso. Si verifica facilmente che tutti i sim-
boli a 4 indici relativi ad esso sono nulli, eccetto che i simboli
|12,12{ = — J12.21J; )23,23( = — ì 23, 32 ( ; |31, 31 < = — J31, 13| .
Se perciò, indicando con i,j, k i simboli 1, 2, 3 scritti in un ordine qualunque,
scriviamo (§ 3) l'equazione:
5 ij, ki \' = 0
otteniamo l'equazione
(3) [|<M*l-l*;,i;|]H- = o.
Si verifica facilmente che
[ ' {Uj—m)au
è simmetrica nei tre indici i,j,k; noi la indicheremo con A; cosicché la (3) si scrive:
J^ = 0.
Analogamente avremo per simmetria:
A *!l = o A P- = 0
A^- = 0 A^ = 0
Se dunque A=¥§ sarà certamente
A —
òxj
da-j d?k à-c, ò-r, dar, d.n
21 SUI GRUPPI DI TEASF0EMAZI0N1 GEODETICHE 281
ossia:
(5) E, = £.('-.).
Vediamo un poco che cosa avverrebbe se A = 0. In tal caso dovrebbe essere
chiaramente
(6) \ij, i;| = }»*,«*!
e, per simmetria:
(6') I /*,;'* j = i ;"•>/»(
(6") )ì-i,ki\ = )kj,kjl.
Le ultime tre equazioni si possono anche scrivere:
(/,/, /,/) _ M . .//■■,i^ __ (./'■■/«) . (A-- »,/-•/) _ (fc/, *-y)
«i/i «tt "^ «" "jj
oppure anche su ito la forma:
(7) '''■''■''■'■' = '/;;-''-'= !/
^ ' (ludi, OitflWt «;;"/.;.
che (§ 1) dimostrano essere lo spazio a curvatura costante in ciascun punto e quindi
a curvatura assoluta costante. Noi possiamo ora ricercare la natura dell' elemento
lineare (1) in questo caso, ossia riconoscere che specie di superficie sono le x1,x2,xs.
Se noi procedessimo alla discussione analitica del precedente sistema, troveremmo
che esso ci dà (in generale):
(8) U'i = aU\ + blT\ + cU\ + d
dove a, b, e, d sono costanti. Ma assai più rapido e il metodo sintetico. Il sistema
coordinato xu x2, x3 per l'elemento (1) è (§ 5) il sistema canonico per una trasfor-
mazione g geodetica non conforme del nostro spazio, che ora supponiamo a curva-
tura costante. Sia T il suo assoluto e V la varietà trasformata di T per g; nella
trasformazione g havvi certamente per ogni punto 0 una (e per ipotesi una sola) terna
di rette ortogonali che resta ortogonale anche se trasformata per g (questa terna è
precisamente quella delle normali in 0 alle superficie coordinate passanti per 0). Ma
questa terna non è che la terna degli spigoli del triedro che ha il vertice in 0 e che
è autoconiugato rispetto a T, T, ossia è la terna delle direzioni uscenti da 0 nor-
mali (rispetto all'assoluto T) alle quadriche inscritte nella sviluppabile circoscritta a
T, T', ossia alle quadriche omofocali con T".
Il sistema delle xu x2, x3 è dunque un sistema di quadriche omofocali. E osser-
viamo di più che la supposta trasformazione infinitesima che ha questo sistema orto-
gonale per sistema canonico lo trasforma in se stesso. Ma però naturalmente le altre
trasformazioni geodetiche del nostro spazio, che non hanno il sistema coordinato per
sistema canonico non sono certamente tutte di questo tipo.
Viceversa si può dimostrare che preso un sistema di quadriche omofocali come
sistema coordinato in uno spazio a curvatura costante, si può in generale porre l'ele-
Serik II. Tom. LUI. k1
282 GUIDO FUBINI 22
mento lineare sotto la forma (1) dove siano verificate le (8). Per lo spazio euclideo
ciò è cosa ben nota. Nello spazio ellittico, in cui si usino coordinate di Weierstrass
legate dalle x\ + x\ -\- x\ -j- x\ — 1 l'equazione di un sistema triplo ortogonale di qua-
driche omofocali si può porre sotto la forma:
P> ZfeTT =
dove le kx sono costanti, X è il parametro variabile da quadrica a quadrica del
sistema. La (9) si può anche suppone essere l' equazione che determina i valori
Xi,X2,X3 del parametro \ corrispondenti alle 3 quadriche del sistema passanti per
un punto 0. Si dimostra allora, con procedimento analogo a quello che si si
nello spazio piano, che:
3
ds* = dx\ -f- Ciri + dxt + dx\ = ^T TT',^)X') d\\
1=1
dove P{\) è un polinomio di quarto grado in X. Mutando i parametri X, nei para-
metri I dXi l'elemento lineare diventa appunto della forma (1), dove le V sod-
J l P(K)
disfano alle (8). Abbiamo così trovato in più modi il teorema:
II sistema canonico relativo a una trasformazione geodetica di uno spazio a curva-
tura costante è un sistema di quadriche omofocali (in generale).
A cui si può aggiungere l'altro, che si dimostrerebbe in maniera analoga:
Nella rappresentazioni geodetica ili due spazii a curvatura costante l'uno sull'altro
esiste (se la rappresentazione non è una similitudi terale uno <■ un solo si
ortogonale, che si conserva ortogonale. Questo sistema è un sistema di quadriche confocali.
Esaurito così lo studio del caso A = 0, passiamo al caso di vi =4=0, in cui, come
abbiamo dimostrato, è:
£=g,(x.) (i=l,2,3).
Allora ogni trasformazione infinitesima geodetica, trasforma in se il sistema triplo
ortogonale delle xu x.2, x3. Questo è dunque senz'altro il sistema canonico relativo a
qualsiasi trasformazione infinitesima del gruppo geodetico e varranno quindi per
qualsiasi trasformazione geodetica le formule (3) del § 5. Di più se il gruppo ha
p. e. r parametri, siccome esso deve per ipotesi contenere almeno una trasformazione
geodetica non conforme, possederà (§ 5) se r > 1 un sottogruppo a " r — 1 „ para-
metri di similitudini e questo se r > 2 possederà almeno un sottogruppo a " r — 2 „
parametri di movimenti. Scriviamo intanto le equazioni (3) del § 1. Esse diventano:
(10) 2-^+ i>n'rlf'3+ K*')?* =P + 2gP1 + gpi r1r*
0 .i'| ' i — U3 I :: — (-1
ed analoghe, dove p, q sono costanti. Poiché £, = £,(*,) ne deduciamo che
hV^zM±-qUl-qUs
2 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 283
non dipende da x2 e quindi per simmetria neppure da xx. Questa espressione è dunque
una costante effettiva e3 e noi potremo porre
(11) ^:f' =qU1 + qUa + ea
oltre alle equazioni analoghe che si ottengono rotando gli indici.
La (10) diventa cosi
(10')
donde si deduce indicando con \x, \2, X3 nuove costanti
(12) E, = | (P - e2 - e3)*i + y
e le analoghe. La (11) ci dà allora:
I due membri di questa uguaglianza dipendendo rispettivamente soltanto da xx
e da x2, saranno ambedue uguali a una stessa costante n3. Ripetendo le stesse con-
siderazioni, ma scambiando gli indici 2, 3 troviamo così:
(11') \i±(p-e.2-e3)x1^^U'ì = qU\ + e3Ul+r]3 = qU-i+e2U1 + r]2
e le analoghe che si ottengono rotando gli indici. Dalla (11') si trae:
(13) (€3-62)^ + %-n^O.
Cosicché se non è ?71=cost, sarà €2=63, 1;> = 1'3- Analogamente se U2^=cost,
sarà e1 = e3, 11 = 13- Ossia se almeno due delle Ux, U2, U3 non sono costanti è
€, = €3=e3, ni=la=l3. Poiché le U1, TJ2, U3 non sono tutte e tre costanti (nel
qua! caso lo spazio sarebbe euclideo, ciò che escludiamo), se due delle U, sono
costanti, la terza è certamente variabile. Sia p. es. ?7i=f=cost, mentre U2, U3 sono
costanti (naturalmente distinte, che altrimenti l'elemento (1) sarebbe degenere). Sarà
intanto per la (13)
(1-1) €2 = £3; 12=1:;
e si avrà poi la seguente equazione analoga alla (13):
(^-e^+tn, — r,3)=:0
ossia per (14)
(ex— e2)U2 + {rìl-rÌ2) = 0
(e1-e2)P3 + (ni-n2) = 0.
Poiché U2^=U3l queste due equazioni danno di nuovo
*i=*y, 1i=l2-
GUIDO TUBINI 24
In tutti i casi è dunque e1=€2=e3; Hi— 12— %• Noi potremo perciò senz'altro
sopprimere gli indici delle e e delle n. La (12) e la (11') diventano cosi:
(IT.) E, = \ (p - 2e).r, + *' (/ = 1.2,3)
(16) ±-[(p-2e)xi + \i]U',=;qUii-\- eUi + r,- (» = 1,2,8)
E la nostra questione è così ridotta alla facile discussione del sistema (15). (16).
Le (15), (16) ci danno però un assai elegante risultato che può servire a semplificare
ancora il calcolo. Per ottenerlo notiamo che se q = 0 la trasformazione è, come
dimostrano le (10), conforme. Supponiamo ora che sia g=t=0 e che nessuna delie t\
sia costante, nel qual caso lo spazio ammetterebbe già il movimento — . Allora cer-
tamente aggiungendo a tutte le U, una stessa costante (che può anche essere com-
plessa) (ciò che non muta l'elemento lineare (1)) si può fare chiaramente nelle (16)
n = 0.
Poiché per ipotesi nessuna delle U{ è costante, e quindi nessuna delle nuove Ut
può essere nulla, potremo mutare le U, in --- . Con questa trasformazione si passa
per i risultati di Levi-Civita, ad uno spazio applicabile geodeticamente sul prece-
dente. Infatti gli spazii
sono per le formule già citate al § 5 applicabili geodeticamente. Se noi poniamo
ora C, = -=r nelle (10) in cui sia fatto n = 0, troviamo
(1 6') | [(p - 2e) x, + X,] V\ = - e V, - q.
Quindi la trasformazione geodetica per il primo spazio iniziale e quindi anche
per lo spazio
Z[U',(V,— Vt)]dx\
è una trasformazione conforme per questo ultimo spazio, perchè nei secondi membri
delle (16') manca il termine in V;2.
Dunque: Se uno spazio del tipo (1) ammette una trasformazione geodetica esso è
geodeticamente applicabile su un nitro spazio, per cui questa trasformazione è soltanto
una similitudine; esclusi luti' al più quelli ili questi spazii per cui una delle U, è costante
e che perciò ammettono un movimento puro.
Escludiamo perciò il caso che una Ci sia costante ; allora, poiché, com'è evidente
per la natura stessa della nostra questione, noi non dobbiamo considerare come
distinti due spazii geodeticamente applicabili, basterà che risolviamo il semplice pro-
blema di riconoscere quando uno spazio (1) ammette una similitudine, ossia quando
è risolubile il sistema delle (15), (16), dove si ponga '/=0. Ciò che si risolve senz'altro.
25 SUI GKUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 285
Poiché nessuna delle U, è costante non potrà per la (16) essere nulla una dello E,, né
potrà essere contemporaneamente e = r| = 0 ; e quindi le (16) si potranno scrivere:
f \ 7 k n
eUi + r) "" (p— 2€)r, + X, -
Distingueremo ora parecchi casi.
I) Sia e =#= 0 , p — 2e ={= 0 ; aggiungendo alle U, una stessa costante e alle x,
delle altre costanti potremo fare assumere al sistema (17) la forma:
(17') d-^ = h^- (A = cost)
x ' ili xì
che ci dà
(A) U, = taf . (A-, = cost) (» = 1, 2, 3)
II) caso: Sia e = 0, p — 2e=)=0. Mutando lo spazio in uno spazio simile e
aggiungendo alle xt convenienti costanti, le (17) si possono ridurre alla forma:
X,
donde
(B) U{ = log hXi . {h = cost) (i = 1 , 2, 3)
III) caso: Sia e— ^ = 0. Indicando con k, delle costanti, le (17) si scrivono
sotto la forma:
dUi = k,dxi
donde, aggiungendo alle x% convenienti costanti,
(C) Ux = hx, .
IV) caso: Sia p — 2e = 0, e =4=0. Con i soliti mutamenti si vede che le (17)
si possono scrivere:
l£- = kidxt (*, = cost)
donde si trae:
(D) Ui= htekiXi . (h, = cost; k, = cost) {i = 1 . 2, 3)
Prima di studiare questi 4 tipi passiamo al caso che vi sia qualche Ui costante ;
ve ne sia dapprima una sola costante, p. es. la TJX che si potrà supporre nulla;
perchè se fosse p. es. Ul =±= 0 basterebbe aggiungere alle Ut la — Ul per renderla nulla.
Noi dovremo ricorrere alle (15), (16).
Posto nelle (16) s' = l, se ne trae:
n=0
cosicché per le Ut, U3 varranno le:
(18') \ [X, + (p - 2e)*,] U/= U,(qUt+ e). (t = 2, 3)
286 GUIDO FUBINI 26
Se fosse q = € = 0, allora sarebbe, poiché TJ'2 =4= 0, U'3 =j= 0,
\2 = \3 = p — 2e = () ossia E, = -~ ; 23= £2 = 0
e la trasformazione sarebbe la v- . Escluso questo caso possiamo supporre q ed e non
contemporaneamente nulli e scrivere l'equazione precedente sotto la forma
Discutiamo ora la (18). Sia g = 0; sarà allora e =4=0.
I) 3e p — 2e = 0; la (18) integrata ci darà indicando con h2,h3,k2, k3 delle
costanti :
(E) &i = 0, U2 = h2<*&, U3 = h3e*#*.
II) Sia p — 2e=4=0. Aggiungendo alle z2, #3 opportune costanti, possiamo
tare \2 = X3 = 0; la (18) integrata dà, indicando con h,k2,k3 delle costanti:
(F) C, = 0, U2 = k2x\, I
Sia ora invece g =4= 0. Se fosse e =4= 0, sostituendo alle C, le 1 — £ = F,
otterremo uno spazio applicabile geodeticamente sul nostro, per cui V1=0; e si
verificherebbe che la nostra trasformazione sarebbe simile per questo spazio, ossia
si tornerebbe ai tipi (E), (F). Supponiamo dunque e == 0.
I) Sia p = 0; la (18) integrata dà, indicando con k2,k3 delle costanti
Ci =0; r =k2x3; — =
tipo che rientra nel precedente per h = — 1 .
II) Sia p =4=0. Aggiungendo alle x2,x-ò opportune costanti, si può fare \,= 0;
le (18) integrate danno indicando con h,k2lk3 tre costanti:
(G) 17, = 0; -~ = hlogk2x2 -^r = h\ogk3x3.
Siano ora invece due delle C, costanti, p. es. la C, e la U2.
Passando a uno spazio simile e aggiungendo alle U, una stessa costante si
potrà fare
C,= 0; 17,= 1.
Lo spazio ammetterà intanto i due movimenti t— , -z — .
Facendo nella (16) successivamente »=1, i = 2, troviamo:
«1 = 0, e = — q.
Si riconosce come al solito che per una terza trasformazione infinitesima geo-
detica che non appartenga al G2 generato dai precedenti movimenti la (16) si può
scrivere (per i = 3)
/ , q-v dUz p dri
1 ' sDi(Di— « (p + '2q)x3+\3
dove 5=4=0. Come abbiamo già osservato al § 5 si potrà senz'altro porre 2 = 1.
27 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 281
I) Sia p + 2 = 0. La (19) ci darà
= hdxs (h = cost)
DifPi-1)
e si potrà faro, mutando .r3 in ot3 -f- cost
Di
ossia
(H) Pi=0 UB=1 U,
1 — e1'1-
II) Sia invece p -\- 2 =4= 0. Potremo supporre a3=0.
E la (19) integrata dà, indicando con k, h due costanti
:V7 = **S -
ossia
(i) cr, = o v2=i u3 =
1 - A:.r3"
E abbiamo dunque: Se uno spazio del tipo I ammette una trasformazione geodetica
[oltre al movimento ^— nel caso che una delle U, sia costante <> ai due movimenti
\ òr,
-jr— , -v — se Ui, Uk sono costanti) esso è geodeticamente applicabile su uno degli spazii
di uno dei tipi (A), (B), ...(I) con conservazione del sistema ortogonale xl,xi,x3; e
quindi dai precedenti si può dedurre con le formule del prof. Levi-Civita.
Se noi perciò, di tutti questi tipi di spazii, determineremo il gruppo geodetico
più ampio, avremo completamente risoluta quella parte della nostra ricerca, che si
riferisce agli spazii (1).
Tipo A) U, = £,.«•;' fi = 1,2, 3) fc,4=0 {h =4=0).
Sostituendo nelle (16) si trova
J_ [(p _ 2e).r, + \^hhxtl = qkìxf -f ek.xl + 1 •
Supponiamo dapprima /*=i«l. Ne traggiamo
ti = 0 e = \ (p - 2e).
Se anche /j=4= — 1 è inoltre ^ = 0, q — Q e si ha la sola trasformazione infini-
tesima (conforme) la;, t-. Il caso poi di /* = — 1 si può trascurare, poiché sosti-
tuendo alle U{ le loro inverse (con che lo spazio resta geodeticamente applicabile
su se stesso), si può fare /* = 1. In questo caso la più generale trasformazione geo-
detica è
ò
\yx,— + u) -r- s— (^. u costanti arbitrarie).
Lj òr, L-à !', Òx,
'_>- GUIDO FUBINI 28
Lo spazio ammette perciò un gruppo generato dalle
yti vii
«_J ' a** — *'■ da-.
Quindi il tipo (A) dà origine ai due tipi:
I) Il = krf (£, = cost =4= 0) (i = 1, 2, 3) (h = cost #= 0) (A =4= + 1)
che ammette la
Si
x, ^— (conforme).
II) tr, = £,a+1 (A, = cost =4= 0) (i = 1,2, 3)
che ammette le
/Ai- (conforme) > y r- (conforme).
Ili) Il tipo (B), come si verifica in modo analogo, ammette sempre una sola
trasformazione infinitesima. Per esso è:
Ut = log k\ ./',
E la trasformazione infinitesima corrispondente è
ò
y Xj-j — (conforme).
Del tipo (C) è inutile occuparci, perchè rientra nel tipo (A), anzi coincide col
tipo (A), dove si ponga A=l.
IV) Come si verifica, sostituendo come sopra nelle 16, il tipo (D) per cui è
l\ = hi e"<*<
ammette la sola trasformazione infinitesima geodetica:
Si -à (conforme)-
V) Il tipo (E) è definito da:
Ul = 0 U2 = h2ek^ U3 = h3ek*> .
Sostituendo in (18)' i valori di U2, U3 si trova:
q=p — 2e = 0 ^-^7 (»=2,S).
Dove = è simbolo di proporzionalità. Se ne deduce che esiste soltanto il gruppo
generato dalle trasformazioni
è; - £ k + h k (confonni>-
29 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 289
VI) Studiamo il tipo (F) in cui
CTj = 0 Ih = k2 4 U3 = k3xl
Sostituendo in (18) si trova che se h=¥= — 1 esistono le sole trasformazioni
infinitesime
3
d
(conformi).
óxt
VII) Se invece /; = — 1, esistono le tre trasformazioni:
i
Vili) Il tipo (G), in cui è
Ui = 0 -jjr = /( log A2 r2 — = /« log As .cs
ammette soltanto, come si verifica coi soliti metodi, le:
3
d
IX) Il tipo (H) è definito dalle:
Pj = 0 17,1 = 1
Esso ammette i movimenti —, ^-; per trovare le altre possibili trasformazioni
geodetiche si ricorra alla (19); e si troverà che esso ammette inoltre soltanto la ~— .
dx3
X) Il tipo (I), definito dalle:
17. =0 U. = l Ua= — —-,
1 2 3 1— fce3* '
ammette soltanto le trasformazioni :
— — y x —
ì
come si verifica tosto, ricorrendo alla (19).
Ora facciamo una semplice osservazione : Se noi non vogliamo considerare come
identici spazii geodeticamente applicabili, dovremo ai tipi precedenti aggiungere
quelli che si deducono da essi col metodo del Prof. Levi-Civita, anche usando di
costanti complesse, e che corrispondono a essi con conservazione delle geodetiche.
Ma se noi, come pare più naturale, riguarderemo identici dal nostro punto di vista
spazii geodeticamente applicabili, potremo ridurci ai 10 casi precedenti, anzi potremo
senz'altro trascurare i primi casi fino al VI) incluso , le cui trasformazioni geodetiche
sono tutte delle pure similitudini (caso che noi studieremo più avanti) e considerare
soltanto i 4 tipi VII, Vili, IX, X.
Serie II. Tom. LUI. Ti
290 GUIDO FUBINI 30
Con questa convenzione dunque abbiamo che gli spazii del tipo (1) danni) oltrt gli
spazii a curvatura costante <• oltre spazii ••<>» un gruppo di sole similitudini soltanto
quattro nuovi casi: il VII, l'VIII, il IX, il X.
Per trovare tutti i possibili 58 che ammettano un gruppo geodetico, non com-
pletamente composto di trasformazioni conformi, ora ci basta studiare gli spazii del
tipo (2). Per ottenere anche qui delle formule semplici ed eleganti in modo che una
trasformazione geodetica
/—A rVT,
1
sia sempre del tipo
i
ricorreremo a un semplice artificio; introdurremo cioè come variabili x2, x3 i para-
metri delle linee di lunghezza nulla delle x1 — cost ; dovremo però sempre ricordare
(poiché noi trattiamo sempre soltanto del caso, in cui spazio e trasformazioni sono
reali) che x2, x3 sono variabili immaginarie coniugate. Così l'elemento (2) diventa
del tipo
1 20 1 ds2 = ( Ut — ot ) {dx\ — 2 X dx% dx3 1
dove a = cost,
l\= Ul(x1),\ = \(x2,xì).
Scritto sotto forma reale, l'elemento (20) si scrive
(20') ds- = ( Di — a) [difi — 2 m (ch/l -\
dove
y! = Xi ; x2 = t/2 + i ih ■ ->*3 = ìli — i Ih, : x (-r2, »s) = M I .'/„• , Jfo I.
Posto
H— 1 /tfMogn , tf logn\ A_ V _3_I_U'_)2
2\ dy\ "r" dy\ ) U-a 2 U—a '
le equazioni:
j 23, 23 {' = 5 21, 21 (' ; j 31, 81 }' = 1 32. 32 ('
J23, 12j' = |82, 13 (' = 0
J21, 23 {' = ) SI, 32 J' = 0
per l'elemento (20') danno (se indichiamo con X= //li 5— la supposta trasforma-
zione geodetica):
V , Il - uA) + 2 (H— m A) |^ = X(H— uA) + 2 (H— uA) ^ = 0
ry/2 0^3
(fl- uA)?? = {H _ uAl |13 = (ff_ A) *u = (J7_ A) *k = 0
' °</, rtl/, Ò'Jì 02/3
e quindi è
(21')
dna ^h .
ònj _
9yi
*n3
9» "
_ òni
31 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 291
L'equazione H — uA = 0 è equivalente alla
|21, 21| = |23,28| = |81, 81 1
ossia alle
(21,21) _ (23,23) _ (31,31)
e dimostra perciò costante in ogni punto e quindi anche in tutto lo spazio la curva-
tura. Escluso questo caso è perciò
H— MA =4=0
Chiaramente dunque anche con le variabili dell'elemento (20) avremo indicando
con / £, r— la trasformazione geodetica in queste nuove variabili che dovrà essere
(211 d£i __ d£| __ fó2 __ d£3 _ q
> ' dar, dx3 dx, dx,
Osserviamo ora che le equazioni:
122)' _ \33l' _ (32)' U22)' _ 132)' _ 1 (33)' _ .
\b] —U) ~U) tU) ~"U) 2/3}
per l'elemento (20') dimostrano per le (21') che r)2 1- n.3-7— è una trasforma-
zione geodetica per le superfìcie xy = cost; se essa fosse conforme, dovrebbe essere
£2 = £2 (x2), £3 = £3 (x3) perchè le linee di lunghezza nulla dovrebbero restare linee
di lunghezza nulla. Se non fosse conforme, potremmo supporre (§ 6) l'elemento lineare
delle #i = cost già ridotto alla forma di Lionville e varrebbero equazioni del tipo
seguente (dove alle antiche y3, n.3 si sono sostituite le i y3, i n3)
(a) u = U2 (ij2) — U3 (y3)
(T) 2 |J. + "'^-y-1' = U2 + 2 Ua
0!)2 ^2 <->3
(b)
insieme alla
dia _ dr^
ày3 <tya
Sia __ J^fo
che si ricava dalle (21'). Quest'ultima equazione unita alle (|$), (y) darebbe U2 = J7S
e quindi per la (a) u = 0 ; ciò che è assurdo. Si può dunque supporre £2 — £2 (z2) ;
£3 = £3(0:3). 0, più semplicemente, le (21) dimostrano che per ogni trasformazione
292 GUIDO FDBINI :^2
geodetica di (20) il sistema delle .>\, x2, x:. forma il sistema canonico e quindi (§ 5)
devono valere le equazioni (3) del § 5, che qui diventano (*) :
(22) £17&+2^T = a + 2^
(23) ^ + ^+E3A^ + £ + ||=f/1 + 2«
■941 ?! = dh = 9£l \ dh = ò£| K ò£a = 0
* ' d#2 òa;3 da;2 òxt òx3 dx,
Le (2-!) dirimi] appunto che E2 — ?2 fe), 23 = E;; [x3 . Di queste forinole io ho
anche data la precedente dimostrazione, perchè apparisca più chiaro che il sistema
coordinato è per ogni trasformazione geodetica proprio il sistema canonico e si pos-
sono quindi applicare le (3) del § 5; ciò che poteva non riuscire abbastanza chiaro
per l'indeterminazione, già da noi precisata al § 5, del sistema canonico in questo
e in simili casi. Se noi dunque vogliamo trovare tutti gli spazii del tipo (2) oltre a
quelli a curvatura costante che ammettono un gruppo geodetico, tale che almeno una
delle sue trasformazioni infinitesime non sia conforme, dovremo intanto cercare (piando
si possono integrare le (22), (23) con valori non tutti nulli delle E„ E2, £8, in cui
sia E, = E, (xì). Se noi poi vogliamo cercare quelli degli spazii (2) per cui il gruppo
citato sia un gruppo a più di un parametro, dovremo poi determinare quelli tra gli
spazii determinati per cui si ammette ancora una trasformazione simile^E, (.r,) — .
Risolviamo intanto la prima parte di questo problema; ricerchiamo cioè quando
è integrabile il sistema delle (22), (23) quando E; (* = 1, 2, 3) sia funzione della
sola xt. Si riconosce facilmente che, indicando con k una costante, la (23) si può
scrivere :
(25) g1_El__(U1 + 2a)=:-*
,0R, ? e) log* _i_ z dlog* i dE. i oh _ k
(26) ^ ^r + 3 ò*s + d*s ^ à*, - A •
Dalle (22), (25) si ricava
(27) 2^=U1-a + k = all + k.
E il sistema delle (22), (23) è equivalente al sistema delle (25), (26), (27). Poiché
noi vogliamo sempre studiare soltanto spazii e trasformazioni reali, le l2,h ° *"IK)
ambedue nulle, o sono ambedue differenti da zero; in questo secondo caso potremo
(essendo H2 = i2(^2), h—hi^sì), cambiando i parametri delle linee x2,x3, supporre
E2=l, E3 = l; cosicché la trasformazione geodetica considerata si potrà supporre
di uno dei due tipi:
(28) «iWi
(29) M*j£4 £ + £•
(*l Qui, trattandosi di una trasformazione geodetica non conforme, abbiamo posto 7 = 0, p — 1;
ciò che abbiamo già notato essere sempre lecito.
33 SUI «RUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 293
Nel caso (28) la (26) dà £ = 0; e X può essere qualunque; per la (27) poi
essendo an=\= 0, si ha .à- =4=0. Eliminando quindi £7, fra le (25), (27) si ottiene:
(30) Mi" = 3a£/ + 2E/2
dove per l'osservazione precedente è Ei=f=cost.
I) Se a = 0 la (30) ci dà integrando, indicando con d, e due costanti (d H= 0)
2i =
«, + e ' n (x,-(-C)2-
Mutando a^ in .<-, + e, si può fare e = 0 ; passando quindi a uno spazio simile
si può fare d=l, cosicché si ha infine:
(A) E1 = - ; a11 = -—ì.
II) Sia a =4= 0. Presa (poiché £t 4= cost) la Et come variabile indipendente y,
la 2/ come incognita z, posto a' = — , la (30) diventa :
yz' = 2z + 3a
ossia
dz _ dy
2z + 3a — y "«""" ~ 2 "'
Integrando e indicando con e una costante si trova:
a
2St' — c£2 — 3a oppure Ei' = 5- <*•
Reintegrando e indicando con d un'altra costante, si trova che
_l/!^ 1 + 4'iWr-M . a _ 12a d/3^r,+ (i
oppure
Si = — ax! + rf «11 = — 3a.
Nel primo di questi due casi, otteniamo prendendo \/3ca. xx -\- d come parametro
delle x, = cost, passando a uno spazio simile e moltiplicando la trasformazione infi-
nitesima per un conveniente fattore che si potrà porre:
(C)
1 _ & ~" (1 _ e*>f
Nel secondo caso troviamo, con procedimenti analoghi, che si potrà fare:
(C) £,=*, «n = l.
Risolviamo intanto la questione: Quando i tre spazii dei tipi definiti dalle (A),
(B), (C) possono ammettere un gruppo geodetico a più di un parametro, ossia, per
294 GUIDO FUBINI -'.4
quanto abbiamo già dimostrato, quando mai possono dessi ammettere una trasfor-
mazione simile
3
a
&w£
E noi risolveremo dapprima la questione generale: Quando mai lo spazio (20)
ammette una trasformazione simile, che sarà necessariamente della forma precedente?
Varranno in tal caso chiaramente le (22), (23) in cui si ponga una costante " h „
nei secondi membri al posto di 2J7, + a, [7, + 2a. E la (28) cosi modificata si sdoppia
di nuovo in due equazioni; cosicché, indicando al solito con k una nuova costante
avremo il sistema :
E, -K + 2 -**- = h
MogX. .àlogX + d£, + ò^ = k
v ' J àx2 ' à òx3 ' dx* ' òx3
E la prima e l'ultima di queste danno:
(y) 2^= k ossia E] = -5- flJj + e (e = cost).
La (a) dimostra, ciò che sapevamo, che E2 t^~ + ^3 Tjr è una similitudine per
le xt = cost, e se ne deduce (ponendo e == k = h = 0).
I) Lo spazio (20) ammette come similitudini (che sono del risto puri movimenti)
tutti i movimenti E2 ^ r~ ^3^ — ammessi eventualmente da ds2= — 2\dr.,<l,i,.
0'r2 nX3
h
Ponendo k = 0, e 4= 0 si ha Ei = e e per la (3) —^ = — ossia an=-les , dove
fu €
^ è una costante che, passando a uno spazio simile, o mutando xx in xx -\- cost
(se 7* =4= 0), si può rendere uguale ad 1.
II) Gli spazii (20) dove an= Ul — a = e**' (ò = cost) ammettono la trasfor-
mazione simile —- — (-E2r — (- E3 t — , se E2 "a h 23 -r — è il più generale movimento
di ds2= — 2\dx2dxs.
Se A 4=0, allora mutando «1 in asj -f- cost, e moltiplicando la trasformazione per
un conveniente fattore, si può fare in (y)A;= 2, e = 0 ossia E, = xt. La (B) dà, allora,
integrando :
U1 — a = an = lx\~-
dove al solito si può fare l=\. Posto h — 2 = ò si ottiene per (a) :
III) Gli spazii (20) dove sia an — Ux — a = x§ (ò = cost) ammettono
Ò*l ÒXl ÒX3
35 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 295
come trasformazione simile, quando £2 ~i H^'~S — sia la più generale eventuale trasfor-
mazione simile di
ds- = — 2\dx% '/>',;
per cui " 2 „ sia il rapporto di similitudine, ossia tale che
r2 IT ""■" £S "dlT ) (Xrf*2^) = 2 Xffa2 '/'' ■
Abbiamo così determinati tutti i casi, in cui uno spazio (20) può ammettere
una trasformazione simile (oltre al caso in cui (20) fosse a curvatura costante).
E ne otteniamo subito:
Il precedente tipo (B) non potrà ammettere altre trasformazioni geodetiche che se
le xt = cost ammettono dei movimenti (che saranno in tal caso dei movimenti per tutto
lo spazio), ossia se le xy = cost sono di rotazione o a curvatura costante.
Il tipo (A) rientrn nel ci/so del teor. Ili precedente ; esso non potrà ammettere altre
trasformazioni geodetiche dir nel <'<iso in cui le Xi = cost ammettono delle trasformazioni
simili. Se E2-r 1- ^3^ — è ^a più generale trasformazioni' simile per le xx = cost e se
con k indichiamo il corrispondente rapporto di similitudine, sarà — -e f- £*-k- — h £3^ —
la più generale ulteriore trasformazione geodetica per gli spazii del tipo (A), (oltre natu-
ralmente alla trasformazione geodetica che abbiamo già determinata).
Analogamente si trova: Il tipo (C) oltre alla trasformazione geodetica .rt — — e al
movimento -5 — ammette tutte le trasformazioni simili ammesse eventualmente dalle x, = cost.
òr,
Il nostro studio dei tipi (A), (B), (C) ossia degli spazii (20) che ammettono una
trasformazione geodetica (28) è cosi completamente esaurito (*). Ne è più difficile Io
studio di quelli, che ammettono una trasformazione (29). La (26) dimostra in tal caso
che -^ 1 — - — deve essere simile per ds2 = — 2\dx2dx3 ; integrata la (26) ci dà:
02*2 O^.t
(31) X = q> (x2 — xt) e *«•
(*) Esso è ricondotto alla ricerca ben facile e nota delle superficie che ammettono un gruppo
di similitudini; ecco qui sotto i varii tipi di tali superficie.
Superficie con un G; di similitudini : ds1 = dy% -f- dy1} (piano).
Superficie con un G3 di similitudini (che sono anzi puri movimenti):
dsi = dy\-\-BeD.tyIdy*a ds1 = dy*3 -f- e2x\fa-sa (sfera e pseudosfera).
Superficie con un G2 di similitudini : d& = (y3 -f- y3)m (dy\ + dy23) (in = cost) che ammettono la
9 d b , d
r — — t~ e la }'2 c \- ih 5— •
òijì oy3 dyt dy3
Superficie con un G, di similitudini: ds* = <p ( — j(t/a -|- y3)m (dy\ -\- dy\) dove <p I — I è funzione
arbitraria di — I che ammette la y, t \-y3x — .
yj * ày% Jiò;h
Superficie' che ammettono un G3 integrabile di similitudini ds'2= ext{dx\-\- dx23) che ammettimi)
le A- ì
296 GUIDO FUBINI
dove q> è funzione arbitraria di x2 — x3. La (27)
(27') Di - o = «„ = 2 -||l - *
dà, sostituita in (25),
(32) 2E1E1"=(2E1'-i)2 + (Sa-*) (2 E/ — *).
.1 ogni integrale Ej di questa equazione alle derivate ordinarie (che si può ridurre
facilmente del prim'ordine) corrisponde un corrispondente spazio del tipo (20) cow ««a
trasformazione geodetica (29) definito dalle (27'), (31).
E noi ci chiediamo: Quando mai un tale spazio ammetterà anche un gruppo
geodetico a più di un parametro, ossia ammetterà qualche trasformazione simile?
Per i teoremi I, II, III teste dimostrati ciò potrà avvenire soltanto in tre casi.
I) La funzione qp è tale che le x1 = cost ammettano anche qualche movi-
mento, che sarà anche un movimento della q>3; dalla nota precedente lo studio di
questo caso è esaurito.
II) La funzione an definita dalla (27') è della forma heòr' (h,b costanti). Il nostro
spazio ammetterebbe in tal caso le trasformazioni simili -^- e S2 -^- + h^~ , quando
E2^ f-£3—^— fosse il più generale movimento infinitesimo ammesso eventualmente
dalle Xi = cost. Tratteremo a parte il caso di ò = 0 ossia di an = cost; ma sup-
posto ò=t=0 è per la (27')
-fr = l + ir^ ossia E^e+A^ + JLe*,,
dove e è una nuova costante. Sostituendo in (32) si trova h = Q e quindi au = 0,
ciò che è assurdo. Di questo caso è perciò inutile occuparci.
Ili) La funzione an definita dalla (27') è della forma hxf (h,b costanti). Esclu-
deremo il caso in cui fosse ò = 0 ossia an = cost. E ne trarremo in modo analogo
al precedente:
»»+-! -&=i + i*? *.=«+£«.+-!-&•
Nel primo di questi casi si trova, sostituendo, l'eguaglianza assurda h = 0. Nel
secondo si trova, ricordando che b =1= — 1, b =4- 0, sostituendo in (32) che deve essere
b = — 2. E perciò si ritorna al caso (A) già studiato.
Ed anche del caso au = cost è inutile occuparci, perchè esso rientra nel tipo (C)
precedente. Ci basta perciò determinare ora soltanto quelli dei nostri spazii che. am-
mettono oltre agli eventuali movimenti delle xt = cost un gruppo geodetico a non
più di un parametro; e bisogna perciò integrare la non semplice equazione (32). Noi
ci serviremo del seguente artificio per semplificarla: Se non si considerano distinti
spazii geodeticamente applicabili si può supporre nella (32) 3 a — k = 0. Sia infatti
3 a — k =4= 0; poniamo per semplicità U— a = M/;P = 3a — ft; dyx = 77=4=; H= ,jrjpjr
37 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 297
Lo spazio (2)
ds2 = \\i (dx\ — 2 X dx2 dx3)
è geodeticamente applicabile per il teor. di Levi-Civita sullo spazio:
(2') ds'* = H j dy\ — -j- dx2 dxJ .
La trasformazione
- Ò , . Ò Irò" _ Ò I r Ò | - Ò
dove rii ^ *P +P = ii sarà perciò geodetica su (2'). Io dico ora che essa è per (2')
proprio una trasformazione simile. Dal confronto delle (25), (f3) si vede che, poten-
dosi supporre u; #= cost, come abbiam già notato, si vede che basterà dimostrare
che ri, -5— log H è costante ossia che è costante £, r — log — -?-=-.
0;/] ° * bxt ° Hi-(-g
Ma infatti per la (25) è :
Dunque se esiste un gruppo a un solo parametro, questo si può se 3 a — k =4= 0
supporre senz'altro un gruppo simile.
Si può dunque supporre
3a — k = 0
col che la (32) assume la forma più semplice:
(32') 2£1£1" = (2E1'-À-)*.
Gli altri casi rientrano in quello degli spazii con un gruppo geodetico tutto
formato di similitudini; problema che ora noi tratteremo.
Come abbiamo testé osservato, per la risoluzione completa del nostro problema,
manca ora soltanto la ricerca di quegli S3, che ammettono un gruppo geodetico tutto
formato di similitudini; perchè, come abbiamo visto, tutti gli altri si riducono ai
quattro tipi citati a pag. 30, ai tipi (A), (B), (C) di pag. 33, al tipo definito dalle
(31), (27'), (32') e agli spazii a curvatura costante (*).
Spazii che ammettono un Gj di similitudini. Se con t- indichiamo la trasforma-
ne
zione generatrice, le equazioni — — = u (u cost) danno
aik = e-"r' cik {x2l x3).
Spazii che ammettono un G2 di similitudini (e che quindi ammettono un Gx di
movimenti). Prima di studiare questo caso, dimostreremo il seguente teorema generale:
Nessuno spazio può ammettere due trasformazioni simili con le medesime traiettorie.
(*) Le considerazioni seguenti si potrebbero semplificare, valendoci dei risultati della mia nota
sui gruppi conformi, pubblicati negli Atti di codesta Accademia, dopo già cominciata la stampa del
presente lavoro ; da essa si deduce che gli spazii ora cercati sono conformemente (non geodeticamente)
applicabili sugli spazii, che ammettono puri movimenti.
Serik II. Tom. LUI. Mi
298 GUIDO FUBINI 38
Questo teorema corrisponde al teorema analogo del prof. Bianchi (Sugli spazzi
a tre dimensioni, ecc., " Memorie della Società Italiana delle Scienze „, 1897) che dice
non potere esistere uno spazio, che ammetta due movimenti infinitesimi con le stesse
traiettorie. Però, mentre il teorema del prof. Bianchi vale in generale, nella dimo-
strazione del presente teorema, io farò uso della condizione che lo spazio sia reale :
unico caso del resto che c'interessi. La nostra dimostrazione è naturalmente perciò
un po' più complicata e distinta da quella, che il prof. Bianchi dà per i gruppi di
movimenti (*).
Siano .Xj , X2 due trasformazioni simili con le stesse traiettorie ; per il teor. del
prof. Bianchi esse non potranno essere ambedue due movimenti. Esisterà però (§ 5)
una loro combinazione lineare che è un movimento puro ; e per semplicità diremo A',
questa combinazione lineare; indicando con X2 un' altra combinazione lineare distinta
da X, , sarà X2 una trasformazione simile, ma non un movimento e per essa varranno
le formule: a'ik= uà*, dove u è una costante non nulla, che, moltiplicando la X8
per — , si può rendere uguale ad 1. Poniamo:
1 Lj òzi
dove con n indichiamo il numero delle dimensioni dello spazio; indicando con X una
funzione di x1,xt,...,xn sarà
*=^±-
Poiché Xt è un movimento, avremo
E poiché X2 è una trasformazione simile per cui 1 è il rapporto di similitu-
dine, sarà:
(34) 2i LXEr i^r + a" ~hr + a* -^r J = ""■ ■
Sottraendo dalla (34) la (33) moltiplicata per X si ottiene:
v r r 9X . _ ÒX _i
(35) Lla'X^ + ak'Ir^.\ = 'U-
Ponendo nella (35) i = k si ottiene:
dX
(36) 2-^ £«*£, = a ,..
Moltiplicando la (35) per 2 ^- ^- e ricordando che per (36) si ha:
otteniamo
/«,„■* là* \* i / ÒX 2 n ^ <^
(*) Cfr. la mia Nota citata per un teorema più completo.
39 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 299
Ma ora, trattandosi di elementi reali, è
(38) lan akk — 4<4 > 0. (i=¥=k)
Moltiplicando la (38) per (-%— * — ]2 otteniamo,
se t— -5 — =4= 0. Se invece fosse -t — t — = 0 dovremmo nella (39) al posto del
ÒXi OXk 0X, OXìt v > *
segno > sostituire il segno = . Ma ora la (39) diventa per la (37)
Mas) Masr) -W^r) +°»l-sr) J >0
ossia
che è un'uguaglianza assurda. E dunque sempre:
Se dunque fosse p. es. -ì =4= 0 dovrebbe essere
ossia
X = X (x'j).
Cambiando le coordinate, si vedrebbe che dovrebbe essere perciò X = cost, e
quindi sarebbe assurda la (35). Ma anche più chiaramente si può procedere così:
Ponendo nella (35) t=t=l, fe=)=l si otterrebbe per le (40)
0 = a,,; (*'4=1, A- =4=1)
uguaglianza, che è evidentemente assurda. È perciò assurda la nostra ipotesi; né
quindi potrà mai esistere uno spazio reale con due trasformazioni simili che ammet-
tano le stesse traiettorie.
Premesso questo teorema, noi possiamo ritornare alla nostra questione che è
immediatamente risoluta. Siano, p. es., Xlt X2 le due trasformazioni simili dello
spazio. Per i noti teoremi di Lie noi potremo supporre o
(X, X2) = (i oppure (X, X2) = X,.
Una combinazione lineare delle X1, X2 dovrà essere un puro movimento ; nel
primo caso possiamo supporre che questo movimento sia proprio la X1; nel secondo
caso potremo supporre che esso sia la Xx o la Xa. Anzi, poiché il gruppo di movi-
menti è invariante nel gruppo totale di similitudini, dovranno essere o ambedue le
Xa, À'2 puri movimenti (caso del prof. Bianchi) oppure la Xx sarà un movimento.
300 GUIDO FUCINI ^O
Poiché le Xu X2 sono linearmente indipendenti, potremo, per i teoremi di Lio, porre
nel primo caso
^ * = £' X>=h<
Nel secondo caso potremo porre
Nel caso (41), indicando con u la costante di similitudine di ars, avremo:
ò '. „ ògg
da -, c\i_, ^ ,k
ossia
dove le c,fc sono funzioni di ,r3. Nel caso (42) troveremo, con notazioni analoghe,
dai* __, dn,t , à(e-*s) . d(f— *0 rt
^- = M«, e -^-gj- + «., -^- + aw ^ = 0
donde
rtu = e."*»cu(a;s); a13 = e."-^,..^); a33 = f"'V:;:j(.rs)
«12 = «-"H^ic^^s) + c12(.r3)] a32 = ef^ixiCuixs) + c23(*3)]
,/,,„ = e/*" [2aj,Ci2(a!3) + c22(a;3) + ajfcls(a;8)] .
Spazzi 83 che ammettono un S3 di similitudini. Essi ammetteranno un gruppo G2
di movimenti; perciò (Bianchi, loc. cit.) il loro elemento lineare si potrà supporre
di uno dei due tipi:
(43) ds2 = dx\ + adx\ + 2$dx2dxs + i<!r
(44) ds'2 = dx\ -4- adxi -j- 2({5 — ax2)dx2dx:i -4- {axì — 2$x2 -4- i)dx\
dove a, (5, T sono funzioni di x1. Nel primo caso il G2 corrispondente è generato
dalle Xi = - — , -3T2 = -r — ; nel secondo caso dalle X1 = a — ; À'2=e2!3 . . Poiché
noi trascuriamo il caso in cui il G3 sia tutto composto di movimenti (che allora si
ritornerebbe al problema del Prof. Bianchi) questo G2 è un sottogruppo invariante
del nostro G3; cosicché se X3 è una terza trasformazione infinitesima di questo
gruppo, indipendente da Xu X2 avremo delle equazioni del tipo :
(45) ( XtX3) = aXt + bX2 (X2X3) = cX, + dX2
dove a, b, e, d sono costanti. Prima di procedere oltre nella discussione dimostreremo
un altro teorema generale:
Se uno spazio S„ ammette un gruppo Gm di similitudini, e questo un sottogruppo
(?„,_! di movimenti, e se i gruppi Gm, Gm^ hanno le stesse varietà minime invarianti
V„_k (k > 0), allora il gruppo G„, è un gruppo di movimenti.
Infatti in tal caso l'elemento lineare del nostro spazio si può porre sotto la forma
ds* = dx\ -4- ^ atlidx,dxi
41 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 301
e il gruppo Crm_! ha trasformazioni generatrici del tipo
>\A dove ^=0
La Aav da;f
(Cfr. la mia meni.: Sugli spazii a un numero qualunque di dimensioni che ammettono
un gruppo continuo di movimenti, § 1°, " Annali di Matematica „, 1902). Se indi-
chiamo con
H=I>i
la w-esima trasformazione generatrice di Gm oltre a quelle di 6rm_, sarà per l'ipotesi
fatta n, =0. Sia ora u il parametro di similitudine di questa trasformazione; sarà
a'ik = [xaik
e in particolare
a'u = M«n
ossia (poiché «u=l, alk — 0 se fc=f=l, r)i = 0):
0 = |*.
Quindi anche H è un movimento; il gruppo Gm è tutto formato di movimenti.
Ritorniamo ora al nostro problema; siccome il G3 supposto non è un gruppo
di puri movimenti, non potrà per il teorema precedente essere intransitivo; ossia,
posto :
X,
La *'T>
dovrà essere S^O. Per gli spazii (43) troviamo per (45) che sarà:
^L=È!l — o- ò^-=a- ^- = c- ò-^- = b- ^*- = d
dx, à.r3 ' dx? ' òx3 ' *x3 ' <Vr,
e quindi, indicando con Hi, 12,13 delle funzioni di xt, avremo:
X3= m -$£ + («e, + c«3 + lo) -^r + (&*2 + cfe3 + n3) ^ •
Indichiamo con 2u la costante di similitudine per questa trasformazione. Otter-
remo dalle:
a'n=2\xan; «'12=2u«12; «r/13= 2ua13
che:
2ti'1(»1) = 2u on'a -f Pi'* = 0 rn's + Pn'a = 0
ossia, poiché ay — 32 > 0
n'i(.*'i) = M n's = Tl'3 = °-
Cambiando il parametro xx in xy + cost , moltiplicando la X3 per un conveniente
302 GUIDO FUBIN1 42
fattore costante e sottraendone una conveniente combinazione lineare di X, , X2
vediamo perciò che si potrà fare:
A':; = xl j^ 4- {ax2 + c^3) ^- 4- (&e2 + cfo3) ^- .
Le «'22 = 2«22, «'33 = 2a33, «'23 = 2a23 danno un sistema di equazioni lineari
per le a, (3, y che s'integrano con le solite regole.
Nel caso (44) la condizione:
(T.fXX,) ) + (A,(A:;A,) ) + (WA) ) = 0
dà a=c = 0. Togliendo poi da Xs un conveniente multiplo di X2, si ha per le (4."))
che si può supporre b = 0. Per le (45) avremo, che indicando con ni,n2,n3 delle
unzioni di .r,, si può porre:
* = m-£ + [n, + (* + n,)*l£+n.-£.
Si riconosce, come sopra, che si può fare ih = .'i e che è n2 = cost, n3 = cost.
Sottraendo da A'3 la Xt moltiplicata per la costante n3, mutando .r2 in :r2 + cost,
si vede facilmente che si può fare
Z3=*i^+-^ oppure X,= *1^|;-+*.-4.
Le equazioni corrispondenti, tanto nell'uno che nell'altro caso, si integrano
senza difficoltà.
Non è poi necessaria la ricerca degli S3 che ammettono un gruppo simile a più
di tre parametri; perchè, ammettendo essi allora un gruppo di movimenti ad almeno
tre parametri, essi rientrano tutti nei tipi studiati dal prof. Bianchi. Il nostro pro-
blema è così completamente risoluto (*).
§ 8. Ricerca generale degli spazii ad n dimensioni
che ammettono un gruppo geodetico.
Poiché il problema della determinazione degli spazii ad n dimensioni, che am-
mettono un gruppo continuo di movimenti è già stato da me ampiamente trattato
in una Memoria già citata, e poiché uno spazio che ammette un Gr geodetico con-
forme, ammette anche un G ._, di movimenti, noi considereremo già risoluto il pro-
blema della determinazione degli spazii che ammettono un gruppo geodetico tutto
formato di trasformazioni conformi ; e ci accontenteremo di ricordare oltre ai risul-
tati, che si possono dedurre dalla mia Memoria, quelli ottenuti per il caso generale
nelle ultime pagine del § 7 e quelli della mia Nota citata. E ricercheremo ora quegli
spazii ad n dimensioni, che ammettono una qualche trasformazione geodetica non con-
(*) Per i risultati della mia nota citata un S3 con un G, di similitudini dovrebbe essere appli-
cabile conformemente su uno dei tre tipi di spazii che ammettono un (?4 di movimenti, il cui
gruppo 6r3 derivato dovrebbe ancora essere un G3 di movimenti: la ricerca è perciò una cosa faci-
immediata.
43 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE
forme. I loro elementi lineari devono essere del tipo (1) del § 5 e di più il sistema
coordinato deve essere il sistema canonico di qualche trasformazione infinitesima.
Cominciamo intanto a studiare quelli di questi spazii, il cui elemento lineare coincide
con l'elemento aggiunto, ossia gli spazii del tipo
(i) «fo» = £rn/(q*— ¥,)]&£.
Fondamento della nostra ricerca è la semplice osservazione che tutti i simboli
a 4 indici di seconda specie di questo spazio sono tutti nulli eccetto che i simboli
del tipo \ij, ij\ = — )ij,ji\ (*=f=/) e che tra questi valgono le due seguenti identità,
di cui la prima fu già da noi trovata nel caso particolare di n = 3.
I) Le quantità — ,1J . _^_' ' ' * per i =#=/#= &4= i sono simmetriche nei tre
indici i,j, k; noi le indicheremo con (i,j,k) e potremo quindi scrivere:
(i, j, k) = (j, i, k) = {i, k, j) = (k, j, i) = (k, i,j) = (/, k, i). (i =j=j dp /
II) Se i,j, li, k sono quattro indici distinti qualunque, è:
(2) (ip. — H>,) (* i j) + (% - mi») (kj h) 4- (Và - Vl) (Jfc A j) = 0.
Questa identità si verifica facilmente con l'effettivo sviluppo.
Premesse queste due serie di identità, il nostro problema per gli spazii (1) si
risolve rapidamente. L'equazione
)ij,ki\' = 0 {i^j=^k)
dà:
[ ; ij, ij j - ) i k, ik ( ] -gL = o ossia (i kj)-gr = 0.
Se non è quindi .' = 0 (j=hk) sarà qualunque sia i, purché differente da j, k
(3) (ikj) = 0 (i~k.i^j).
Siano i, h due indici distinti tra loro e differenti da ;', k; sarà per (3)
(ikj) = (hkj) = 0.
E quindi per (2) sarà
(3') {khi) = 0 (i^h:i^=k.i^j-h^kj,-\i\.
Le (3), (3') danno che sarà sempre
{3") {khi) = 0 {h^i^k^h).
Sia t un indice distinto da /•, h, i. Avremo
(3'") (kti 0 (t^=k, li, i;k^i).
Le (3"), (3'") insieme all'equazione che si deduce da (2) ponendovi k. t, li, i al
posto di k, h, j, i danno infine
(4) (ith) = Q
304 GUIDO FTJBIN1
44
con la sola condizione che i =*= t 4= /t =#= ». Dunque se anche una sola delle derivate —
non è nulla 0'=t=/fc), dovranno essere verificate tutte le (4) ossia avremo sempre
\it,it\ = \i h, i li (i =f= M =#= &)
ossia
(< <, t Q (i h, i h)
mi ahh
ossia le espressioni Ji^L («=)=*) saranno tutte uguali; e per un teorema di Schur
lo spazio sarebbe a curvatura costante. Quanto al sistema delle xu x2, x3 x„ ba-
sterebbe poi ora ripetere le considerazioni già svolte per « = 3. Escluso questo caso
anche per n > 3 potremo perciò scrivere E, = 2, (x,) ; e quindi il sistema coordinato
sarebbe canonico per ogni Gt geodetico e si avrebbero quindi le:
La discussione di questo sistema per n > 3 è in parte analoga e in parte no a
quella svolta per il caso n = 3. Noi la svolgeremo rapidamente. Dalle (5) si deduce,
come nel caso n = 3 che
Ei W,' — irV/r i i -v
ip, — njr 1 VT '
è una costante, che noi indicheremo con n,r = nri. Ne traggiamo
E, ip,' — q Vi2 — Htr V. = gr Mi/ — g vp,'2 — n„ i(i,.
Queste due espressioni saranno uguali ad una stessa costante eir = er,. E noi
avremo :
(ti) 2, Vi = 2 W + n,r Y, + e,r-
Le (5) diventano così
(7) 2 g =p-(n-8)jM.i-2'nfr = 0
dove nella sommatoria del secondo membro si deve escludere che sia r = i. Dalle (6)
si ha poi che
Air Mi. + Ut
non dipende dal valore dell'indice r, (naturalmente però differente da i). Ora, siccome
per ipotesi lo spazio non è a curvatura costante nulla, si potrà supporre che una
delle iji almeno, p. es. la \\>1, non sia costante.
Poiché le riir Vi 4- £ir sono uguali, se ne deduce che nlr, elr non dipendono dal
secondo indice; cosicché si potrà scrivere
Hlr = n «ir = £
dove n, e sono due costanti. Ma ora per l'osservazione precedente, se r, s sono due
indici distinti fra loro e da 1, sarà
(Tiri — HrS) Vr + (<Vl — *rs) = 0
(l,i — r\„) mi, + (e,i — £.,r) = 0.
45 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 305
Poiché
n,i = n,i = n, n» = n.,-, e« = e«-, «,., = e„ = e,
si ha:
(ti,. - n) Vr + («« - e) = 0
(ìl„ — n) Y. + K - e) = o.
Poiché r=f=s, è certo i|»r=l=»p, perchè altrimenti l'elemento (1) sarebbe degenere.
È perciò
n„ = n e,, = e
qualunque siano gli indici r, s.
Le (6), (7) diventano:
(8) £, w,' = <ì Vi2 + n M>, + e
2 £,' = j3 — (w — 1) n — (« — 3) ^ l|),
e scrivendo ^? in luogo di p — (n — 1) n
(9) 2 l'—p — (n — S)qWi-
Dalla (8) ricaviamo, poiché tutte le ijj, sono distinte:
Se alcuna delle 4», è costante e lo spazio (1) ammette una trasformazione geode-
tica, le y, costanti saranno soluzioni di una stessa equazione di secondo grado; non
possono perciò esistere più di due ip; costanti.
Studiamo dapprincipio il caso in cui nessuna delle iy, sia costante. Si può allora
dimostrare un teorema generalizzazione di uno già trovato per n = 3.
Se uno di questi spazii ammette una trasformazione geodetica X, esso è applicabile
geodeticamente su un altro spazio per cui X è una trasformazione simile. Infatti se in (8)
fosse g = 0 la trasformazione sarebbe per (5) simile. Supponiamo dunque q =4= 0. Allora
aggiungendo alle tp, una stessa costante si può fare e = 0. Osserviamo ora che lo
spazio (1) è geodeticamente applicabile su
(10) =^y^^=^dxi
Mutiamo i parametri x„ ponendo
dtj\ = ni"-3 dx\.
L'elemento (10) si scriverà con le nuove coordinate
(il) JjTT/w-rodtf
dove V — — , Vi = — .La trasformazione X= 7 £, -» — diventa X = 7 n, dove
1 % Vt Lj ox, /_i di'.
, dx,
e la (8) diventa (poiché e = 0)
(8') ni^==_T|Fi-j
Serie II. Tom. LUI. N1
306 GUIDO FUBIXI i6
che è analoga alla (8) dove manchi il termine che contiene il quadrato di V,. La
nostra trasformazione è perciò una similitudine per (11).
Come per w = 3, abbiamo qui dovuto escludere il caso che una delle i\> iniziale
fosse costante, perchè altrimenti avrebbe potuto una delle V, diventare infinita.
Ma noi ora possiamo per il caso n>3 completare il precedente risultato. Per il
risultato precedente possiamo porre g = 0 nelle (8), (9).
Esse diventano così :
(8") E, ip,' — imi, + r
(9"). 2Zi'=P ossia £,= ;; a
dove X, sono costanti. La (8") diventa quindi
(12) ■-. +X, )Vl' = imi, 4-e.
Naturalmente di tutti questi spazii non ci interessano che quelli che oltre alla
supposta trasformazione simile ammettono eventualmente una qualche trasformazione
geodetica non conforme; per cui oltre alla (12) dovranno sussistere altre equazioni
come le (8), (9) in cui il valore di q non è nullo. Indicando con j,; n,, p,, «, delle
costanti, dovranno sussistere le equazioni :
(13) li hV = g, m + li Vi + €, (gì =t= o)
,/E;
dxi
(14) 2 g = px-(« -3)glV,
dove naturalmente è Hj = S^ (»<).
Noi studieremo un po' più tardi questo sistema di equazioni; e vogliane
minare dapprima il caso in cui una o due delle i)J, siano costanti. Se lo spazio cor-
rispondente ammette solo un gruppo G1 geodetico (oltre al movimento -— se la
sola i)j, è costante, oppure oltre ai movimenti a -r 1- B -j— (a, S costanti) se sono
costanti le ip„ %.) si possono ripetere ragionamenti analoghi a quelli tenuti per il
caso n = 3. Si deve cioè supporre nelle (8), (9) q =f= 0, e si deve ammettere che il
polinomio del secondo membro delle (8) si annulli quando al posto di ip, si sostitui-
scano i valori di quella o di quelle ty che si suppongono costanti. L'eliminazione
dalle (8), (9) delle l ci dà poi un'equazione alle derivate ordinarie per quelle iy, che
non sono costanti, e che serve a definirci tutti gli spazii cercati.
Noi ora vogliamo risolvere la questione di cercare quelli di questi spazii che
ammettono oltre alle trasformazioni ora citate, qualche altra trasformazione geode-
tica, ossia (§ 5) qualche trasformazione conforme. Anche qui, come precedentemente,
il problema si riduce alla ricerca di quei sistemi di valori delle iy, per cui valgono
le (12) e si possono integrare le (13). E alla discussione di questo problema noi ora
ci rivolgeremo.
I" caso. Siano due delle iy„ p. es. le ij»i, H»2, costanti. Ponendo in (12) i= 1,
i = 2 si trova n i^ -f- e = n ip2 -f- e = 0 ; poiché i)^ =i= n>2 sarà ti = £-0 e quindi
(-£- Xi + \ ) v/ — 0. Poiché se i =4= 2,1 è qi/ 4= 0, sarà dunque p = 0, X, = 0 (i =4= 1,2);
47 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 307
quindi le uniche trasformazioni conformi possibili sono i movimenti noti a priori
— , ^-; di questo caso è perciò inutile occuparci più oltre.
II0 caso. Sia una sola al più delle ijj„ p. es. al più la \yu costante.
Se p = 0, aggiungendo alle x, opportune costanti, si può fare X, = 0.
Se n 4= o, aggiungendo alle iji; una stessa costante si può fare e = 0.
Sia p. es. p=4= 0, n =f= 0. Avremo dalla (12) che sarà H>, — k\ x,0 (A„ ò costanti).
Dalla (14) otterremo, indicando con v, delle costanti:
2 E, = v, + Pl Xi - (n - 3) ch ^~- x^ (se b =H - 1)
2 li = Vi + px cui — (n— 3) g fc, log a', (se b #= — 1).
Sostituendo in (13) troviamo nel secondo caso, poiché ^ #= 0, »-3=)= 0, che
sarebbe fc, = 0 ; ciò che è assurdo. Nel primo caso (osservando che b =4= 0) troviamo,
paragonando i coefficienti di scf" ,
2l/^= — (« — B)q1k\ -j^-
che è assurda, poiché
3x4=0, A-, == 0 (i > 1), »>3, ò=*=0, b=i=— 1.
Sia ora invece p = 0, n=t=0: si potrà supporre e = 0. Dalla (12) otteniamo:
yi = hieWi dove h„\Xi sono costanti e /ì, =!= 0, u, =4=0 (se « > 1).
Per la (14) è, indicando con v, delle costanti:
2 2, = v, + p, .r, £■ 2x «"** (» - 8) (» > 1) .
Sostituendo in (13) e uguagliando a zero il coefficiente di e2^» si trova l'ugua-
glianza assurda:
- (n — 8) -|- *J e*?"*< j, = gr, h] e-'"-- .
Sia ora p ==0, ti — 0. Si potrà supporre \, = 0. E dalla (12) si ottiene che, indi-
cando con €, p, delle costanti, si può fare:
H>, = e log Xi 4- p, (e =4= 0)
donde, per la (14),
2 2, = v, -f [px — (« — 3) gx p,] .r, — (» — 3) ft € (r, log a* — j\)
— v. + bi + (w — 3) 2i (e — P')J x< ~~ (" — 3) 2i € ''• lo= ''■■
Sostituendo in (13) e confrontando i coefficienti di log2 .r, si trae l'uguaglianza
assurda
- («-3)gi4 = 2i€2-
Dovremo dunque supporre j> = n = 0. Se anche e fosse nullo dalla (12) si trar-
rebbe X, = 0 per i>l e anche per i = 1 se ^1 =*= cost-
Non vi sarebbe perciò nessuna nuova trasformazione conforme. Sia dunque e =1=0;
308 GUIDO FUBINI 48
sarà allora per (12) ip,'=!=0 anche per * = 1; ossia nessuna ip, sarebbe costante: e
potremmo porre per (12)
4», = 2 k, x, (À-, = cost).
La (14) ci dà:
2 l: = v, + ^- x, — (n — 3) g, /,
che sostituito in (13), dà un'uguaglianza che dev'essere identicamente soddisfatta.
Annullando il coefficiente di x\ abbiamo:
— («— -3) v,A-; = 4 qxk\
che è assurdo. Possiamo dunque dire:
Lo spazio (1) se non è a curvatura costante e se nessuna delle u», è costante non
può per ii > '■'<■ ammettere più di una trasformazione geodetica noti conforme; e per un
teorema precedente si può perciò restringere la ricerca a quei casi in cai una <> dm
delle i)i, sono costanti. E anche lo studio di questi casi si trova completato nelle
pagine precedenti.
Volgiamoci ora all'altro caso: al caso cioè di quegli elementi lineari del tipo (1)
del § 5 che non coincidono con l'elemento lineare aggiunto.
Imprendiamo le notazioni e le denominazioni del § 5. Risolviamo intanto il pro-
blema di determinare tutti gli elementi (1) per cui il sistema coordinato sia inva-
riante e quindi anche canonico per qualche trasformazione geodetica dello spazio e
di trovare corrispondentemente tutte queste trasformazioni. Osserviamo per maggior
precisione, che con ciò intendiamo dire che queste trasformazioni > £r -z — sono tali
che le H; il cui indice è, p. es., della v-esima specie sono funzioni soltanto delle x,
della v-esima specie. Scriviamo intanto le (3) del § 5. Esse sono:
r, rW
Nella (16) la specie £-esima non deve essere del primo sistema; >\ prende natural-
mente soltanto i valori degli indici del primo sistema, mentre i, k, r prendono soltanto
i valori degli indici di specie ^-esima. Se poi indichiamo con i, k due indici di specie
differente avremo le:
ht, . V òi
d7) «'<■=!>.. A + 5>
_ 0
O.T,
dove ;' percorra tutti gli indici della stessa specie di i, li tutti gli indici della specie
di k. Queste equazioni (77) sono nella nostra ipotesi identicamente soddisfatte.
Come precedentemente, dalle (15), 1(5) le quantità
(18) e„ = e„ = ^r_Vft - 9 fa* -
49 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE
sono effettive costanti; cosicché dalle (15) si trae, posto u = « — m + 1,
(19) 2 g = p - £'e* - (fi - 3) g ift,
dove nella sommatoria del secondo membro è s=M.
Il sistema delle (18), (19) si discute come i sistemi analoghi precedentemente.
La (16) in virtù delle precedenti diventa poi:
(1
La (20) dimostra che N lT -y- è una similitudine per
r(i]
Zk,h d.i\ d.r
se i, k variano, restando di specie ^-esima. Poiché i gruppi simili furono da me già
studiati in memorie citate, noi potremo senz' altro riguardar note le Er di specie
Z-esima (/=i=l) e le K,k relative. Le Er del primo sistema si ottengono dalle (18), (19)
(■oii metodi analoghi a quelli usati nelle pagine precedenti.
È così risoluto completamente il problema di trovare gli spazii (1) del % •"> che am-
mettono trasformazioni geodetiche, per cai il sistema coordinato è invariante, e di deter-
minare queste corrispondenti trasformazioni infinitesime.
Noi ora dimostreremo che, tranne al più qualche caso specialissimo, tutte ti
trasformazioni geodetiche 'li un qualsiasi spazio del tipo (1) del § 5 lasciano invariato
il sistema coordinato; e. per il teorema precedente si potrà quindi immaginare risoluto,
eccetto al più in questi specialissimi casi, il nostro problema. Di più troveremo una
lunga serie di equazioni che anche per questi specialissimi casi permetterebbero cer-
tamente, volta per volta, di completare senza difficoltà la discussione, sebbene io non
sia riuscito a dimostrar questo per il tipo generale e per n qualsiasi. Prima di di-
mostrare quanto abbiamo ora enunciato, voglio fare due osservazioni, che sono assai
utili per semplificare volta per volta la discussione degli eventuali casi eccezionali
testé citati.
1...T
Se / £>--^— è una trasformazione geodetica per il nostro spazio, allora ^ E,,—
(>\ del primo sistema) è geodetica per l'elemento lineare.
T
Za ile
l
quando nelle lr, si riguardino come parametri arbitrarvi le " x ., del secondo, del terzo ecc
sistema .
Così pure più in generede la
dove r percorre gli indici di un certo numero di sistemi /compreso il primo) è geodetica
,,er quell'elemento line ire dir si ottiene do quello del nostro spazio annullando i coeffi-
;ll(l GUIDO FUBIXI 50
denti che moltiplicano differenziali di variabili degli altri sistemi, 'piando nella (a) a
queste variàbili si dia il significato di parametri arbitrarli.
Per vedere questo basta osservare che questi elementi lineari sono chiaramente
elementi lineari di varietà totalmente geodetiche nello spazio ambiente. Questa osser-
vazione fa sì che lo studio dei nostri spazii (1) del § 5 con t sistemi distinti di indici
si potrebbe parzialmente ridurre allo studio di spazii con soli t — 1, t — 2, ecc. sistemi
di variabili ; di più, dall'osservazione che il gruppo geodetico di una varietà è sempre
d'un numero finito di parametri, riesce in parte determinata la forma delle nostre
trasformazioni geodetiche; perchè al variare delle x, che nel teorema precedente si
devono considerare soltanto come parametri arbitrarli, le trasformazioni (a) devono
generare un gruppo con un numero finito di parametri.
Cosi, p. es., esistano due sistemi di variabili, e il primo sistema sia formato di
almeno due variabili. Allora indicando con Xx. A', Xa delle trasformazioni geo-
detiche per l'elemento lineare che si deduce da quello dello spazio dato, annullando
i differenziali delle variabili del secondo sistema, avremo che la più generale trasfor-
mazione geodetica del nostro spazio dovrà essere del tipo
(a) Z <p, (xr.) A', + 8,
dove le tp, siano funzioni delle variabili del secondo sistema, ed S sia una trasfor-
mazione infinitesima su queste variabili, con coefficienti che possono anche dipendere
dalle variabili del primo sistema. Se esistessero tre sistemi di variabili, e il primo
fosse formato di almeno due variabili, la più generale trasformazione geodetica del
nostro spazio sarebbe del tipo:
IP) Z <p. (*ra ) V, Uv, ) A, + Z X, ir,, ) S, + Z u, (avs ) 3
i
dove le qp e u sono funzioni delle variabili del secondo sistema, le ip e le X delle
variabili del terzo, le St (/?,) sono trasformazioni infinitesime sulle variabili del se-
condo (terzo) sistema, con coefficienti che possono anche dipendere dalle variabili del
primo sistema. E così via. La dimostrazione delle (a), (P) si compie facilmente con
semplici artifici; la ricerca generale si può quindi suddividere nella ricerca di trasfor-
mazioni (et), di trasformazioni (p), ecc.
Ritorniamo ora al problema generale; e premettiamo alcune semplicissime osser-
vazioni: Tutti i simboli a quattro indici relativi al nostro spazio sono tutti nulli, se
gli indici non sono tutti della stessa specie, eccetto che nel caso che il secondo in-
dice è uguale al terzo o al quarto, mentre gli altri due sono della stessa specie.
Se poi quattro indici sono della stessa specie, p. es., della v-esima, i simboli saranno
evidentemente nulli se gli indici sono del primo sistema. Ora insieme al nostro spazio
consideriamo l'elemento aggiunto e l'elemento che si deduce dall'elemento iniziale,
ponendo uguali a costanti le variabili che non sono della specie v ; i simboli relativi
a questi due ultimi elementi lineari si distingueranno rispettivamente con un affisso a
e con un affisso v. Possiamo allora dare sotto la seguente forma i valori dei simboli
a quattro indici non identicamente nulli
(21) P,V»f»\ = -)&f*,j*W\>=)t8,t8'„klk (s
51 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETI 311
dove naturalmente, se la specie t fosse del primo sistema e quindi i = k, sarebbe
fr* = l.
(22) |*.;„*>U = l»i,*J|. (?=^h,j=hl) (s=4=l)
. i h,\ = \i i, jh\, + 4- Y— ? — — — fO'* /" i ■■■ >
Tutti i simboli a quattro indici, che non entrano in uno dei tipi (21), (22). (23)
sono certamente nulli. Ammettiamo ora che esistano almeno tre specie di indici ossia
che l'elemento aggiunto contenga almeno tre variabili. L'equazione
JiWjfcW JMJM(' = 0
dove s, t, h sono simboli di specie distinte ci dà
ossia per la (21)
A-„ [ }sm, swj„ — J**,s*(«J -^- =0.
Òli A
Poiché fctì H= 0, ne deduciamo che se -r— =4= 0
J SW, SW j„ = j St, SÌ f0
qualunque sia s, purché distinto da £, u. Ripetendo ragionamenti già usati, ne dedu-
ciamo che lo spazio aggiunto è a curvatura costante.
Dunque, se lo spazio aggiunto non è a curvatura costante, e se esistono almeno
tre specie di variabili, certamente i coefficienti di una trasformazione geodetica, corri-
spondenti alle variabili della v-esima specie, non possono dipendere che da queste stesse
variabili.
Già di qui si vede che il caso da noi discusso è il caso generale; noi vedremo
subito che se le £ corrispondenti a variabili di una certa specie fossero funzioni
anche di variabili di altra specie dovrebbe essere soddisfatta anche un' altra lunga
serie di equazioni. La
\ith„k,l,[' = 0 (h =4= k =4= l =4= h) (s =4= *) (s =4= 1 )
dà
ossia per (22)
La equazione
}»**>* >,!<-/>■' !' -;;v r./"1. /,M,:' = o (4=4= Z)
dove u è indice d'una specie distinta dalle specie v, s e queste sono distinte tra loro dà
(supposto naturalmente che la specie s non sia del primo sistema) :
312 GUIDO FUBINI 52
r«) ri')
(a) ^l^i^+S^^lS-
ri«) rni
Diciamo ora t la curvatura, supposta costante dello spazio aggiunto, avremo,
indicando con Zbkk dx\ (fe = 1, 2, ... >* — m + 1) quest'elemento aggiunto :
|sri,sHJa = Y&« (s=#=H).
E quindi per la (21)
jr<" «;w, Z(sì <"*»( = feri )« M, a uja = fer! T6„=Tart.
L'equazione (a) diventa così:
Le equazioni (24), (25) si possono porre sotto una forma più simmetrica. Po-
niamo (Cfr. § 1):
[i k,lt] = (i k, lt) — f (a,, au — a,, al:l) =
= Xa,*[|*v, lt\ — T(e„ a« — e,, a,,)].
V
Queste quantità, se fossero nulle dimostrerebbero lo spazio a curvatura costante ;
e soddisfano alle stesse equazioni lineari cui soddisfano i simboli di Riemann (§ 1).
Le (24), (25) si possono scrivere:
£ [jr h, k l{ + eu t«h - e,,, T«*r] || = 0.
Moltiplicando per ahv e sommando rispetto ad h si trova mutando gli indici h, v:
(26) S[r*'*']-& = °
che vale dunque se h, le, l sono indici qualunque di una stessa specie che non sia
del primo sistema, e ì è un indice di un'altra specie qualunque. Naturalmente la (26)
è molto più simmetrica delle (24), (25), perchè con lecite permutazioni si può por-
tare l'indice r, rispetto a cui si somma, ad un posto qualunque, oltre che al primo.
Sia ora v una specie del primo sistema, s una specie che non sia del primo
sistema. La
|AW,w #4 JW|' — o
dà, analogamente alle precedenti equazioni:
E; fcw ,.o fcw y, t *Zl _ j h i, i i { pi — ) h i, k i { U = 0
53 SUI GRUPPI DI TRASFORMAZIONI GEODETICHE 313
ossia
I
r, dà i SE, OS,
)hr,kl[-^- -^fau^ — fahkT^ = 0
ossia, posto
i-M
[)hl,km\] = 'ZAnlhv,km~\,
ci dà:
(27) £D*r'^G £=0-
Formule analoghe si troverebbero nel caso che esistessero 2 sole specie di indici.
Dalle (26), (27) si vede a quante equazioni lineari dovrebbero soddisfare le de-
rivate delle i di una specie rispetto alle variabili di un'altra specie; se esse non
fossero tutte nulle dovrebbero esistere tra i simboli a quattro indici citati più sopra
lunghe serie di relazioni che non sono certo soddisfatte in generale; ciò che con-
ferma quanto abbiamo enunciato. Del resto le (26), (27) insieme alle (a), (f5), ecc.,
di pag. 64, danno un sistema di equazioni, che assai probabilmente bastano in ogni
caso particolare a completare la discussione; io però non sono riuscito a discutere
il caso generale (*). Si deve ancora ricordare che il sistema coordinato si deve sup-
porre canonico per almeno una trasformazione geodetica non simile; per la quale,
oltre alle equazioni precedenti, valgono le (15), (16), (17).
Detta / 5r -r— questa trasformazione, le (16) dimostrano che
2>
ò
dav<"
dove r varia, prendendo i valori di tutti gli indici di specie v, è una trasformazione
conforme (che eventualmente potrebbe anche non essere simile) per l'elemento
lineare I Ku dx, dxu ; dove i, k variano restando di specie v-esima ; lo studio degli
spazii con trasformazioni conformi, cui ho dedicato una nota, pubblicata teste negli
" Atti dell'Accademia „ , dà perciò un nuovo metodo per la discussione di quegli
eccezionalissimi casi eventuali per cui non fosse sufficiente la precedente discussione.
Nel caso n = 3 del resto abbiamo già visto p. es. come i nostri metodi permettano
di studiare il caso eccezionale (per la teoria generale) di un elemento lineare aggiunto
a due sole variabili.
(*) A queste equazioni se ne può anche aggiungere un'altra assai semplice; se i è di specie
distinta dagli indici h, I supposti pure distinti tra loro, dalla < > = 0 si deduce che :
(a)
(dove r varia restando della stessa specie di h, 1) è indipendente da xv, ossia la (a) dipende soltanto
dalle variabili della specie di h, I. Naturalmente nella discussione generale si dovrebbe anche tener
conto delle equazioni del § 2.
Serie II. Tom. LUI.
ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA
MEMORIA
DEL DOTTOR
CARLO AIRAGHI
Appr. nell'Adunanza del 5 Aprile 1903.
Nel Veneto le formazioni del cretaceo superiore, che da più d'un secolo passano
sotto il nome di scaglia, sono molto sviluppate e si può dire che dal Garda si esten-
dono senza interruzione alcuna fino all'Isonzo. Talora, com'è noto, sono costituite da
calcari bianchi o rossi, compatti o mandorlati, a struttura scagliosa, a frattura irre-
golare, tal' altra da calcari marnosi , rosei , alternati da calcari bianco-gialli con
traccie di selce.
Di queste formazioni molti geologi si sono occupati e tra i principali noto Ca-
tullo (1), De Zigno (2), Secco (3), Taramelli (4), Rossi (5), Muniek (6), Nicolis (7),
Balestra (8), Dal Lago (9), ma, caso tutt'altro che raro, questi geologi non giunsero
tutti alle medesime conclusioni, e mentre alcuni ritennero la scaglia veneta senoniana,
altri conclusero essere la scaglia daniana, altri ancora senoniana in parte e in parte
daniana, conclusioni queste che discuterò in base allo studio degli echinidi che, per
la stratigrafia, come venne già dimostrato da molti autori, hanno un'importanza
tutt'altro che trascurabile.
Alcuni echinidi della scaglia veneta vennero fin dal 1827 descritti da Catullo
nel suo Saggio di Zoologia fossile, e benché di poi essi siano stati oggetto di osser-
(1) T. A. Catullo, Saggio di Zoologia fossile delle provincie venete, Padova, 1827.
(2) A. De Zigno, Osservazioni sul terreno cretaceo dell'Italia sett. (" N. saggi d. Acc. di Padova ,,
voi. VI), Padova, 1846. — Id., Nouvelles observ. sur les terr. crét. de l'Italie sept. (" Bull. Soc. Géol.
de France „, 2e sér., voi. VII), Paris, 1849. — Id., Sulla costit. geol. dei M. Euganei (" ,R. Acc. di
Padova ,), Padova, 1861.
(3) A. Secco, Guida geologico-alpina di Bassano e dintorni, Bassano, 1880.
(4) T. Taramelli, Geologia delle provincie venete (" Mem. B. Acc. dei Lincei „), Roma, 1882.
(5) A. Rossi, La provincia di Treviso (" Boll. Soc. geol. ital. „), Roma, 1883.
(6) Munier Chalmas, Étud. du Thit., du Crét. et du Tert. du Vicentin, Parigi, 1891.
(7) E. Nicolis, Carta geologica della provincia di Verona, Verona, 1882.
(8) A. Balestra, Contrib. geol. al periodo cret. del Bassanese (" Boll. Ann. del Club Alpino Bassa-
nese ,, voi. Ili), Bassano, 1897.
(9) D. Dal Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, Valdagno, 1899.
316
CARLO AIRAGHI
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3 ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 317
vazioni da parte dell' Agassiz (1), Desor (2), D'Orbigny (3), Quenstedt (4), Munier (5),
pur tuttavia non si può dire che quest'echinofauna sia tra le meglio conosciute. Gli
ultimi autori citati non hanno fatto altro che ricordare le specie illustrate da Catullo
con poche aggiunte; aggiunte di cui spesso non si può tener conto, entrando alcune
specie, considerate come autonome, nella sinonimia d'altre già note per la formazione
scagliosa.
Una revisione quindi si faceva necessaria, tanto più potendo disporre d'un mate-
riale veramente ricco, come è quello dei R. Musei geologici di Torino, Pavia, Padova,
del Museo civico di Milano, delle private collezioni del Cav. Uff. Ing. Nicolis, e degli
egregi Dott. Dal Lago e Fabiani, materiale che mi ha permesso non solo d'indicare
nuove località per le specie già note, ma d'aumentare l'echinofauna d'alcune specie,
tanto ch'essa attualmente risulta formata dalle 16 che qui appresso elenco.
In questo mio computo però faccio notare di non aver tenuto conto di diversi
esemplari classificati da Catullo, molto mal conservati e, secondo il mio parere,
affatto indeterminabili, così pure non ho compreso il Pericosmus latus e il Macropneustes
Beaumonti ricordati dal D'Orbigny (6) e dal Desor (7), poiché con tutte le probabilità,
come del resto ha già fatto notare il Lambert nella sua Monografia del genere Mi-
craster (8), almeno per quanto riguarda il Pericosmus latus, si debbono ritenere forme
terziarie.
Dal quadro compilato si vede che alcunespecie non permettono dei raffronti con
altre località, essendo, almeno fino ad ulteriori ricerche, esclusive della scaglia ve-
neta, ma che altre invece, quali il Cidaris pseudopistillum Cott., il Tylocidaris cla-
vigera Koemg, Y Echinocorys vulgaris Breyn. sp., la Stenonia tuberculata Defr. sp.,
YOffaster pillila Lam. sp., il Cardiaster subtrigonatus Cat. sp., YOvulaster Zignoanus
D'Orb. sp., il Micraster fastigatus Gauth., sono specie del senoniano, e precisamente
il Tylocidaris clavigera Koenig del turoniano e senoniano dell'Yonne, il Cidaris pseu-
dopistillum del corberiano e campaniano dell'Aquitania e della Turenna, le altre del
eampaniano dell'Apennino Centrale, della Svizzera, della Francia, della Spagna, della
Germania del Nord. Le conclusioni di Munier quindi, che ritiene la scaglia daniana,
non si possono accettare, e ciò è anche confermato dal fatto che nell'Apennino Cen-
trale gli strati a Stenonia e a Stegaster (Stegaster Bonarellii n. sp.), la formazione
omotipica della scaglia veneta, non sono gli ultimi della serie senoniana propriamente
detta, e che i depositi di Mancha Real in Spagna, in cui per la prima volta vennero
trovati alcuni rappresentanti dell'echinofauna della scaglia, e dal Munier presi come
termine di paragone, recentemente dal Grosseuvre (9) furono riferiti al senoniano
anziché al daniano ch'egli toglie dal cretaceo e riferisce al cenozoico.
(1) L. Agassiz, Catal. syst. (" Ann. Se. Nat. Zool. ,1, 1846.
(2) E. Desor, Synop. des échin. foss., Parigi, 1857.
(3) A. D'Orbigny, Échin. crétac. (" Paléont. frani;. „), Parigi, 1853-55.
(4) P. A. Quenstedt, Petref. deut., ecliin., Leipzig, 1872-75.
(5) Munier Chalmas, loc. cit-
(6) A. D'Orbigny, Échin. crét. (1. e.), voi. 6, pag. 277, tav. 901.
(7) E. Desor, Synop. des échin. foss., pag. 411.
(8) J. Lambert, Monogr. du genre Micraster in A. de Grossouvre, Recherc. sur la craie super.
(* Mém. pour servir à l'expl. de la carte géol. détail. de la France „), Parigi, 1901.
(9) Loc. cit.
318 CAELO AIRAGHI 4
Né maggiori ragioni si avrebbero, volendo sostenere l'ipotesi di Munier, anche
considerando, come vorrebbero alcuni, il Micraster fastigatus Gauth. come una varietà
del M. gibbus, perchè allora non solo si avrebbero dei legami coll'echinofauna di
Reims, zona ad Àctinochamax quadrata, ma anche con quella della zona ad Am. cam-
panensis di Palarea presso Nizza e col campaniano di Coesfeld, Lagerdorf, Helgoland
nella Germania del Nord.
Concludendo adunque la scaglia veneta si deve riferire nella maggior parte al cam-
paniano ; ma poiché il Gauthiericeras Margae (1), come ha fatto notare il prof. Parona,
specie caratteristica del coniaciano, venne trovato negli strati più bassi di tale for-
mazione, e poiché il Cidaris pseudopistillum oltre che del campaniano è anche del
coniaciano e del santoniano, e il Tylocidaris clavìgera compare già alla fine del turo-
niano, bisogna ritenere ch'essa rappresenti in tutto il suo complesso il senoniano (cor-
beriano e campaniano). Il daniano, considerato come parte più recente del senoniano,
nella scaglia sarebbe rappresentato dal solo Coraster, genere caratteristico, secondo
Grosseuvre, di tale piano; ma a proposito di ciò credo utile ricordare che il Coraster
nei Pirenei Occidentali si trova insieme al genere Stegaster proprio del senoniano, e
che però le conclusioni del ricordato autore, secondo il mio modo di vedere, hanno
tutt'ora bisogno d'una conferma.
Ed ora adempio il gradito compito di ringraziare i chiar.mi Prof. Omboni, Tara-
melli, Mariani, nonché i sigg. Nicolis, Dal Lago e Fabiani per l'invio dei loro
echini. Al Prof. Parona che, oltre all'aver messo le collezioni del Museo che dirige a
mia disposizione, mi fu largo di consigli e d'aiuti, esprimo i sensi della mia più viva
riconoscenza.
Torino, R. Museo Geologico, 1903.
DESCRIZIONE DELLE SPECIE
Cidaris pseiulopistillum Cott.
1860. Cidaris pseudopistillum Cotteau et Teiger. Échin. de la Sarthe, pag. 255, tav. 41, fig. 10, 12.
Sono solamente dei frammenti di radioli che mi permettono d'annoverare questa
specie tra gli echinidi della scaglia rossa del Veneto. Essi sono cilindrici, più o meno
allungati, ornati da aculei o spine molto forti e lunghi, ineguali e disposti in serie
più o meno regolari. Nessuno è fornito del capo.
La somiglianza che questi radioli presentano con quelli del Cidaris figueiroensis
De Lor. (2) è veramente sorprendente, e forse di essi se ne sarebbe fatta una sola
specie, benché provenienti da piani alquanto diversi, l'una dal senoniano. l'altra dal
(1) C. F. Parona in A. Balestra, Contrib. geol. al periodo cret. del Bassanese (1. e), p. 93.
(2) De Loriol, Descript, d. échin. du Portugal, Faune crét. (" Comm. d. trav. géol. du Por-
tugal, 1887 „), pag. 9, tav. 1, fig. 15, 20.
5 E< HINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 319
cenomaniano, se non si conoscessero i gusci degli echini da cui provengono, alquanto
diversi.
Questa specie è già nota per il coniaciano, santoniano, campaniano, dordoniano
dell' Aquitania, e pel campaniano della Turenna.
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Torino) (1).
Tylocidaris clavigera Koenigh sp.
1822. (Marti clavigera Koenigh in Mantell, Geol. of Sussex, pag. 194, tav. 17, flg. 11, 14.
Anche di questa specie ho in esame solamente dei radioli, che però stante la
loro caratteristica forma, non lasciano alcun dubbio sulla loro determinazione spe-
cifica. Sono claviformi, allungati, arrotondati e rigonfi alla loro estremità superiore,
cilindrici alla base, coperti da piccole costole dentellate e spinose, che scompaiono
nella parte superiore. È una specie nota per diversi giacimenti del senoniano e del
turoniano.
Località trevigiane: Possagno (R. M. Geol. di Torino).
Echinocorys vulgaris Breyn.
1732. Echinocorys vulgaris Breynius, Schediasma d. Echin., tav. 3, fig. 1, 2.
1857. Ananchytes ovata (pars) Desob, Synops. des Échin. foss., pag. 330.
1870. Echinocorys Beaumonti Bayan, Note sur le terr. tert. de la Vénétie (" Bull. Soc. Géol. de France ,),
pag. 444.
1882. Ananchytes ovata Nicolis, Note ili. della carta yeol. della prov. di Verona, pag. 72, 73.
1891. , Beaumonti Munier, Étud. du Tith., du C'rét. et du Tert. du Vicentin, pag. 11.
I897 Balestra, Contrib. geol. al periodo cret. del Bassanese (1. e), pag. 92
1897. „ ovata Balestra, Ihid., pag. 93.
1899. , ovatus Dal Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, pag. 48.
1899. „ Beaumonti Dal Lago, Ibid.
1899. „ sulcatus Dal Lago, Ibid.
Nella scaglia veneta questa specie colle sue varietà ovata e conica è veramente
comune, e benché nella maggior parte dei casi si tratti d'esemplari alquanto defor-
mati, pure diversi permettono di stabilire con certezza il loro riferimento specifico, e
per la loro fisionomia generale, per le dimensioni, formazione degli ambulacri, delle
assule, ecc.
Tra essi alcuni sono di grandi dimensioni, di forma ovale, arrotondati all'avanti,
ristretti posteriormente, colla faccia superiore subconica, e quella inferiore piana, col
peristoma lontano dal margine, cogli ambulacri lunghi, larghi, con pori allungati
(var. ovata); altri invece sono regolarmente conici, colla faccia inferiore non piana
in causa dei margini molto arrotondati, cogli ambulacri meno larghi, e più acuti alla
sommità, composti d'assule molto alte con pori ovali (var. conica).
Questa specie è comune nel senoniano di Hainaut, Halden, Coesfeld, Ciply, ecc.
(1) Il nome messo tra le parentesi indica la collezione; le abbreviazioni: Coli., M. Geol., M. Civ.,
significano: Collezione, Museo Geologico, Museo Civico.
320 CARLO AIRAGHI fi
Località veronesi: S. Perette di Negrar, Prun, Naveya, Cerna (Coli. Nicolis). Negrar
(R. M. Geol. di Padova).
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Padova, Torino), Valdagno
(Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Padova), Monte Magre (R. M. Geol. di Padova,
M. Civ. di Milano), Solagna, Chiampo (R, M. Geol. di Pavia, Padova).
Località trevigiane: Cavoso (R. M. Geol. di Pavia).
Località bellunesi: Lamon (R. M. Geol. di Padova).
EcJiinocorys concava Cat. sp.
Tav. I. fig. 1.
1527. Ananchytes concava Catullo, Saggio di Zoologia fossile, pag. 222, tav. 4.
1882. , , Nicolis, Note ili. della carta geol. delia prov. di Verona, pag. 73.
1891. Scagliaste!- concavus Munier, Étude da Tith., du Crét., du Tert. du Visentin, pag. 11.
1899. „ „ Dal Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, pag. 48.
1900. Cardiaster „ Schlutek, Uéber fin. Kreide Echin. (' Zeitschr. deuts. geol. „), pag. 376.
Dimensioni: Lungh. mm. 120, largii, mm. 115, alt. mm. 50.
Questa bella specie illustrata da Catullo fin dal 1827 pare sia stata da diversi
echinologi dimenticata, e da altri male interpretata. Infatti non è citata ne dal-
l'Agassiz, ne da Desor e D'Orbigny ; dal Munier e dal Del Lago venne considerata
uno Scagliaste); dallo Schluter un Cardiaster. ma di queste varie interpretazioni dirò
più avanti a proposito del Cardiaster subtrigonatus.
Come ha fatto notare Catullo, questa specie pel suo volume si discosta dalle
altre, come pure la caratterizza la sua faccia inferiore pianeggiante e i margini
molto acuti. Catullo, avendo in esame un esemplare colla faccia inferiore molto de-
pressa e quindi concava, ritenne una tale deformazione un carattere costante, e ha
chiamato la specie coll'aggettivo concava.
È una specie leggermente cuoriforme, larga anteriormente e ristretta posterior-
mente, colla faccia superiore conica, quella inferiore piana.
Apice ambulacrale subcentrale, allungato; ambulacri larghi, lunghi, acuti alla
loro estremità apicale, composti da pori piccoli allungati, disposti ad accento circon-
flesso. Peristoma lontano dal margine, infossato, semilunare; periprocto grande, molto
vicino al margine; tubercoli grossi, rari, disposti attorno al margine e sulla faccia
inferiore.
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Padova, Torino), Valdagno
(R. M. Geol. di Torino), Magre, Chiampo (R, M. Geol. di Torino).
Località veronesi : Valecchia, Negrar, Cerna (Coli. Nicolis).
Stenonia taberculata Defr. sp.
1816. Ananchytes tuberculata Defrance, Dict. de se. nat., 2, pag. 41, n. 3.
1855. „ , D'Orbigny, Éehin. crét. (1. e), pag. 67. tav. 807 (cum syn.).
1857. Stenonia „ Desor, Sinops. dei Échin. foss., pag. 333, tav. 39, fig. 10.
1861. Ananchytes , De Zigno, Salla costit. geol. dei M. Euganei (1. e), pag. 17.
1872. Stenonia , Quenstedt, Petrefact. Echin., voi. I, pag. 601, tav. 85.
1882. „ „ Nicolis, Note ili. della carta geol. delia pror. di Verona, pag. 73.
7 ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 321
1891. Stenonia tuberculata Mcnieb, Étud. du Tith., du Crii et du Tert. du Vicentin, pag. 11.
1897. , , Balestra, Contri!/. lodo eret. del Bassanese (1. e), pag. 92.
1899. „ , Dal Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, pag. 48.
1900. „ » Schluteb, Ueber fin. Kreide Echin. (1. e), pag. 376.
È questa la specie la più comune della scaglia rossa del Veneto, inquantochè
gli esemplari che ad essa riferisco sono delle centinaia. Le descrizioni e le figuro
date per questa specie dai diversi autori in generale sono buone, e però non credo
necessario darne nuovamente delle altre.
Oltre che nel Veneto questa specie' venne trovata anche nella scaglia rossa del-
l'Apennino centrale: a M. Nerone in provincia di Urbino-Pesaro, a Sassoferrato in
prov. di Ancona, sui Monti Sibillini in provincia di Ascoli Piceno (1), e in Spagna
nei calcari a Stegaster ed Ovulaster di Mancha Real nei Pirenei riferiti dal Seunes (2)
al senoniano superiore.
Credo che sia poi utile ricordare che il genere Stenonia recentemente venne tro-
vato dal signor De Morgan nel senoniano della Persia (3).
Località veronesi: Mazzurega (Coli. Nicolis, R. M. Geol. di Pavia), da Negrar a
Brun, Cerna (Coli. Nicolis).
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, Nicolis, R. M. Geol. di Padova, Torino),
Valdagno (R. Museo Geol. di Padova, Torino, Pavia, M. Civ. di Milano),
Crespadoro, Chiampo, Gallio, Magre (R. M. Geol. di Padova, Torino, M. Civ.
Milano), Macheri presso Bolca (Coli. Nicolis), S. Giovanni Barione (R. M. Geol.
di Padova), Marano, S. Vito presso Schio, Valrovina, Piana (R. M. Geol. di
Torino), M. dei Donati sugli Euganei (R. M. Geol. di Padova).
Località bellunesi: Lamon (R. M. Geol. di Padova), Quero (Coli. Fabiani).
Località trentine: Trento (Coli. Fabiani).
Offaster pillila Lam. sp.
1816. Ananchytes pilula Lamakck, An. s. vert., 3, pag. 27, n° 11.
1827. Nucleolites coravium Catdllo, Saggio di Zoologia fossile, pag. 226, tav. 2, fig. E.
1827. Nucleolites convexus Catullo, Ibid., pag. 228, tav. 2, fig. G.
1855. Cardiaster pillila D'Orbigny, Échin. crét. (1. e), pag. 126, tav. 824.
1872. Dysaster „ Quenstedt, Petrefact. Echin., voi. I, pag. 624, tav. 86, fig. 33.
Di questa specie, citata già da Catullo sotto nome specifico errato, e quindi
da Quenstedt, ho in esame degli esemplari veramente cattivi, e certo l'esemplare
migliore finora trovato nel Veneto è quello figurato da Quenstedt.
h'Ojfaster pillila è comune nel senoniano della Francia e della Svizzera, e credo
che sia utile ricordare come questo genere sia stato trovato anche in regioni alquanto
(1) G. Bonarelli, I foss. senoniani dell' Apennino centrale, ecc. f Atti R. Accademia di Torino „,
voi. XXXIV, pag. 1).
(2) * Bull. Soc. géol. frane. „, serie 3°, voi. XVI, 1888, pag. 820.
(3) " Compt. rendus d. séances de la Soc. géol. de France ,, Séance du 1" dèe. 1902, pag. 193.
Sebik II. Tom. LUI. pl
322 CARLO AIRAGHI O
lontane; il Drd (1) infatti lo cita tra i fossili senoniani di Kislovodsk, Piatigorsk
nel Caucaso.
Località vicentine: Valdagno (Coli. Dal Lago).
Località trentine: Roveredo (Vedi Quenstedt).
Lampadocorys sulcatus Cott. sp.
Tav. II, fig. 1, 2.
1873. Holaster sulcatus Cotteau, Échin. nota: ou peu comi. (" Rev. et Mag. de Zoologie ,), pag. 399,
tav. 7, fig. 5, 6.
Dimensioni: Lungh. mm. 45, largii, mm. 45, alt. inm. 40.
Specie di mediocri dimensioni, tanto larga quanto lunga, arrotondata all'avanti,
più stretta e subtronca posteriormente. Faccia superiore alta, rigonfia all'avanti ;
faccia inferiore quasi piana, fornita all'avanti da un solco profondo che intacca for-
temente il margine, ma che non si prolunga sulla faccia superiore. Sommità ambu-
lacrale eccentrica all'avanti. Area ambulacrale impari diritta, superficiale, senza traccia
di solco alcuno, formato come gli altri ambulacri da pori ineguali. Aree ambulacrali
pari leggermente rigonfie e convesse, specialmente vicino all'apice ambulacrale, com-
posti da pori disuguali, allungati, subvirgoliformi quelli esterni, subrotondi quelli
interni. Vicino al margine poi gli ambulacri tendono a restringersi, i pori diventano
più piccoli, quasi eguali e si avvicinano sempre più tra di loro. Peristoma subcir-
colare, infossato, posto all'estremità d'un solco profondo; periprocto circolare, sub-
marginale.
Questa specie riferita dapprima al genere Holaster divenne di poi il tipo del
genere Lampadocorys Pomel, e finora è l'unica specie del genere che si conosca.
L'esemplare descritto da Cotteau è di località ignota, ma il signor Lambert (2)
dice d'aver avuto dal signor Klian un altro esemplare di questa specie trovato a
Rioufroid presso Lus (Dróme) in un calcare, secondo il signor Lory, del cenomaniano ;
ma che un echino passi dal cenomaniano al senoniano mi pare un po' difficile; d'altra
parte non potendo separare i miei esemplari dalla specie descritta da Cotteau e
non essendovi alcun dubbio sulla loro provenienza, non posso che supporre che il
signor Lort abbia commesso un errore di stratigrafia. L'unica diversità che si os-
serva in due dei miei esemplari, confrontati colla figura di Cotteau, consiste nell'es-
sere il peristoma meno lontano dal margine, ma in altri tre esso è alquanto più
lontano, più di un terzo del diametro longitudinale, epperò maggiormente identici al
tipo della specie.
Località vicentine : Novale (Coli. Dal Lago), Sette Comuni (R. M. Geol. di Padova).
il) Note sur la geologie et hydrologie de hi région du Bechtaou t Rassie-Caucase), (" Bull. Soc. géol.
frani;. „, voi. 12, ser. 3, pag. 514).
(2) Échin. du Madagascar (1. e), pag. 317.
9 ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 323
Stegaster Dàllagoi n. sp.
Tav. I, fig. 2.
Dimensioni : Lungh. min. 70, largii, mm. 70, alt. mm. 50.
È una nuova specie non solo per l'echino fauna senoniana del Veneto, ma anche
per la scienza. Essa è cuoriforme, pressoché larga che lunga, colla faccia superiore
molto alta, conica, gibbosa nell'area impari posteriore, quella inferiore quasi perfet-
tamente piana. Il solco anteriore è largo e profondo vicino al margine, ma scompare
totalmente prima di arrivare all' apice ambulacrale. Questo è allungato. Ambulacri
diritti, lunghi, aperti, composti da pori quasi eguali, più grandi e forse leggermente
oblunghi gli esterni, molto bene sviluppati presso l'apice ambulacrale, più avvicinati
vicino al margine, ma sempre posti alla base delle assule, che si fanno sempre più
alte partendo dalla sommità verso i margini.
Le dimensioni e la conformazione della faccia superiore e del solco anteriore
chiamano alla mente i Stegaster del senoniano dei Pirenei occidentali illustrati dal
Seunes, se non che le assule molto più basse, specialmente vicino all'apice ambula-
crale, non permettono alcuna confusione.
Tra le specie illustrate dal Seunes certo quelle che si avvicinano di più a quella
che presento come nuova sono lo Stegaster Bouillei Cott. e lo Stegaster altus Seunes.
Ma lo Stegaster Bouillei ha la faccia superiore più alta non solo, ma molto più conica
e l'area interambulacrale posteriore meno allungata e quindi anche meno carenata.
Lo Stegaster altus invece differisce dallo Stegaster Dàllagoi non solo per la faccia poste-
riore più alta e diritta, ma anche per la faccia superiore più depressa e meno conica.
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago).
Cardiaster subtrigonatus Cat. sp.
Tav. II, fig. 3.
1827. Nucleolites subtrigonatus Catullo, Saggio di Zoologia fossile, pag. 226, tav. 2, fig. 8.
1827. , cordiformis Catullo, Ibid., pag. 229, tav. 2, fig. 4.
1840. Holaster italicus Agassiz, Cat. syst.(ì.c), pag. 1.
1855. Cardiaster , D'Orbigny, Échin. crét. (1. e), pag. 142, tav. 831.
1857. Holaster „ Desob, Synops. des Échin. foss., pag. 337.
1861. Cardiaster , De Zigno, Sulla costit. geol. dei M. Euganei (1. e), pag. 17.
1871. , , Quenstedt, Petrefact. Echin., voi. I, pag. 625.
1891. , , Mumer, Étud. du Tith., du Crét. et du Tert. du Vicentin, pag. 11.
1897. „ „ Balestra, Contrib. geol. al periodo cret. del Bassanese (1. e), pag. 92.
1899. „ „ Dal Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, pag. 48.
Dimensioni: Lungh. mm. 55, largii, mm. 50, alt. mm. 48.
È una specie dalla faccia superiore molto varia, talvolta quasi perfettamente
conica, tal'altra quasi uniformemente convessa. Ciò ha fatto sì che alcuni autori oltre
che la specie stabilita da Catullo ne distinguessero un'altra {Cardiaster italicus Agass),
specie però che di poi dal De Loriol (1) venne considerata come una varietà del
(1) De Loriol, Échinologie helvétique (1873, " Mat. pour servir a la Paléont. suisse „, 6e sèrie),
II p., pag. 336, tav. 28, fig. 3. — Id., Descript. des Échin. des env. de Camerino (" Mém. Soc. de
Phys. et Hist. nat. „, 1882), pag. 11, tav. 1, fig. 4.
324 CARLO AIKAi.lII 10
Nucleolites subtrigonalus Cat. Recentemente il Doti. Bonakelli (1J tentò di nuovo
di considerare le due varietà come due specie distinte; ma l'esame de' miei nume-
rosi esemplari non mi permette di convalidare un tale modo di vedere, e perchè nei
due tipi diversi nguale è la loro fisionomia generale, uguale è la conformazione degli
ambulacri, uguale il solco anteriore, uguale è la posizione del periprocto e del peri-
stoma, uguale è l'andamento della faccia inferiore e posteriore, e gradatamente si
passa, mediante forme intermedie, dalla varietà a faccia superiore alta, subconica, a
quella a faccia superiore meno alta e quasi uniformemente convessa.
Questa specie e lo Spatangus truncatus Gold., Cardiaster pigmeus Forbes, Ovu-
laster Zignoanus D'Orb., vennero dal Pomel inglobati in un sol genere, Stegaster,
benché tipi tanto diversi , epperò il Seunes (2) trovò facile verificare un tale er-
roneo modo di vedere, e dimostrare come il Cardiaster Zignoanus sia un Ovulaster,
ì'Holaster subtrigonalus e il Cardiaster pigmeus dei veri Cardiaster. Se non che Munieb
più tardi, della specie in questione ne fece il tipo di un nuovo genere. Scagliaster,
ma che cosa sia questo genere, e quali siano i suoi confini, credo impossibile il po-
terlo dire, poiché in esso l'autore riunisce il Cardiaster subtrigonatus coli' Echinocorys
concava Cat. sp., due specie troppo diverse, anche per un profano, per poterle avvi-
cinare tra loro, per cui è impossibile tenere in alcun conto un tale genere. Ed è
forse nell'aver voluto tenere in considerazione questo genere che il Dott. Bonarelli (3)
confuse tra loro i generi Cardiaster e Stegaster. Le figure 1,2, 3, 4, date dal Bona-
relli {Scagliaster italicus, Stegaster subtrigonatus, Stegaster cfr. subtrigonatus) rappre-
sentano sempre la stessa specie, ossia il Cardiaster subtrigonatus Cat., e il suo
Scagliaster sp. ind., fig. 6, è un vero Stegaster, che in omaggio, chiamerò Stegaster
Bonarellii (4).
11 Cardiaster subtrigonatus da Seunes venne trovato a Mancha Beai in Spagna
insieme alla Stenonia tubercidata, da Bonarelli a Penne nei Monti Sibillini in pro-
vincia d'Ascoli Piceno, a Taverne presso Macerata, a Costano presso Bastia nel-
l'Umbria, alla Villa di Costacciaro sulle pendici del M. Cucco pure nell'Umbria, al
Colle di Serra presso Sassoferrato, dal Canavari nella scaglia rosata nei dintorni di
Camerino, da me alla Rocchetta di Arcevia, e da De Loriol in Svizzera a Seewen.
Località veronesi: Cerna (Coli. Nicolis). M. Baldo, Negrar (K. M. Geol. di Padova),
Fumene (R. M. Geol. di Pavia).
(1) G. Bonarelli, I foss. senonianì dell' Apennino centrale (1. e, pag. 5, fig. 1.
(2) Échin. crét. des Pyrén. ore (* Bull. Soc. géol. frani;. „, 1889), pag. 811.
(3) / foss. senonianì iteti' Apennino centrale (1. e), pag. 4.
li Stegaster Bonarellii n. sp. L'esemplare figurato da Bonarelli (1. e.) senza alcun dubbio, come
ha fatto notare anche Lambert nella Rivista del Cossmann (Anno 1900, pag. 133), è uno Stegaster.
La faccia superiore è alta, fortemente intaccata all'avanti, acuminata posteriormente, le aree ambu-
lacrali, come si può vedere nelle figure 6°, 6C, sono larghe, le zone porifere molto strette, formate
da pori piccoli, rotondi, eguali, posti alla base delle assule, che al contrario sono grandi e spe-
cialmente molto alte, peristoma lontano dal margine, periprocto rotondo, posto molto in alto, tutti
caratteri questi proprii del genere Stegaster. Questa nuova specie poi si distingue da quelle illu-
strate dal Seunes, quali lo Stegaster altus e lo Stegaster Bouillei, che maggiormente le assomigliano,
per il periprocto posto molto più in alto, per essere più arrotondata posteriormente e più unifor-
memente convessa sulla faccia superiore.
Questa specie venne trovata nella scaglia senoniana di Sassoferrato in provincia d'Ancona.
11 ECHIXIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA
32E
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Padova, Torino, Pavia),
Magre (R. M. Geol. di Padova, Torino, M. Civ. di Milano), Chiampo (R, M.
Geol. di Padova, M. Civ. Milano), Asiago, S. Pietro Montagnola (R. M. Geol.
di Padova), Bastia Euganei (R. Istituto Tecnico di Padova), Marami (R. M.
Geol. di Torino).
Località bellunesi: Lamon (Coli. Fabiani, R. M. Geol. di Padova, Pavia).
Località trevigiane: S. Pietro di Possagno (R. M. Geol. di Padova).
Cardiaster Dallagoi n. sp.
Tav. II, fig. 4.
Dimensioni: Lungh. mm. 71, largh. mm. 61, alt. mm. 20.
Il Cardiaster che presento come nuovo è molto affine al Cardiaster Cotteanus
D'Orb., da cui si distingue oltre che per le maggiori dimensioni in modo speciale per
l'apice ambulacrale molto più spostato all'avanti e la faccia superiore più depressa e
allargata.
È una specie cuoriforme, depressa, più lunga che larga, intaccata fortemente
nella parte anteriore del solco, ristretta e allungata posteriormente, avente la mag-
giore larghezza in corrispondenza dell'apice ambulacrale che è spostato molto all'avanti.
a un terzo circa della lunghezza totale. La faccia superiore ha la sua maggior altezza
in corrispondenza dell'apice ambulacrale, da cui discende regolarmente a forma di
tetto verso i margini. La faccia inferiore è piana. Il solco anteriore è grande e pro-
fondo, provvisto da due forti carene laterali. Gli ambulacri sono molto mal conser-
vati specialmente vicino alla sommità, composti da pori disuguali. Peristoma ovale,
trasversale; periprocto ovale, posto appena al disopra del margine; dei fascioli nes-
suna traccia.
Tra i Cardiaster è una di quelle specie che ricordano maggiormente il genere
Guetharia, come il Guetharia Bocardi Cott. (1), se non che diversa è la disposizione
e il numero dei pori genitali.
Oltre questa specie si dovrà forse annoverare tra l'echinofauna della scaglia
veneta anche il Cardiaster Cotteanus D'Orb., raccolto nel senoniano della creta bianca
di Dieppe (Seine Inf.), ina l'unico esemplare che potrebbe rappresentarlo e di cui
dispongo, è troppo deteriorato e non permette una determinazione specifica certa.
Località vicentina: Valdagno (Coli. Dal Lago).
Cardiaster? sp. n.
Tav. II, fig. 5.
È con dubbio che riferisco questa specie al genere Cardiaster perchè l'esemplare
che lo rappresenta mentre è perfettamente conservato nella parte posteriore, manca
quasi totalmente della parte anteriore, e però non si può conoscere né l'ambulacro im-
pari, ne il peristoma. La sua forma si avvicina molto a quella di una pera, colla faccia
superiore alta, subconica, appuntita in corrispondenza della sommità apicale. Gli
(1) Cotteau in Lambert, Échin. du Madagascar (1. e), pag. 311
326 CARLO AIRAGHI
12
ambulacri pari sono larghi, lunghi fino al margine, leggermente convessi, con zone
porifere pure larghe, formate da pori piccoli gli interni, lunghi gli esterni, disposti
ad accento circonflesso. Aree interambulacrali formate da assule molto alte e legger-
mente convesse ; quella impari posteriore fornita d'una leggera carena, sotto cui sta
il periprocto tutto quanto sopramarginale.
Tra le specie illustrate essa assomiglia maggiormente a\Y Ananchytes perconicus di
Quenstedt (1. e, tav. 85, fig. 15), da cui si distingue per la faccia superiore meno
piriforme, più conica, il periprocto maggiormente lontano dal margine, l'area inter-
ambulacrale posteriore carenata, la conformazione degli ambulacri molto diversa.
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago).
Ovulaster Zignoanus D'Orb. sp.
1854. Cardiaster Zignoanus D'Ordiony, Échin. crét. (1. ci, pag. 145, tav. 832.
1857. Offaster „ Desor, Synops. des Échin. foss., pag. 335.
1888. Ovulaster , Seunes, Échin. crét. des Pyrénées occ. (1. e), pag. 802.
1891. „ „ Munikb, Étud. du Tith., du Crét. et du Tert. du Vicentin, pag. 11.
1897. „ „ Balestra, Contrib. ijeol. al periodo cret. del Bassanese, pag. 92.
1899. „ „ Dai. Lago, Note geol. sulla Val d'Agno, pag. 48.
È una specie alquanto comune nella scaglia veneta, e ritenuta dapprima un Car-
diaster venne di poi inglobata nel genere Offaster, e quindi da Pomel insieme al
Cardiaster subtrigonatus nel suo genere Stegaster, e si deve a Seunes se finalmente essa
venne bene classificata genericamente.
Nella sua sinonimia entra YOvulaster Gauthieri Cott., e ciò credo sia bene ricor-
darlo poiché serve a dimostrare sempre più l'affinità della echinofauna della scaglia
veneta colla echinofauna di Mancha Real in Spagna, dove appunto YOvulaster Gauthieri
venne trovato insieme alla Stenonia tubercolata e al Cardiaster subtrigonatus.
A questa specie si dovrà pure a mio avviso riferire anche YHolaster nasutus
Quenstedt (1. e, pag. 626, tav. 86, fig. 32) trovato nella scaglia di Chiampo; sembra
infatti esso un cattivo esemplare della specie in questione e alquanto deformato, col
peristoma forse esageratamente disegnato lontano dal margine.
Località vicentine: Novale (Coli. Dal Lago, R. M. Geol. di Padova), M. Magre (R.
M. Geol. di Padova), Marana, Crespadoro (R. M. Geol. di Torino).
Località veronesi: Mazzurega (R. M. Geol. di Padova).
Località padovane: Teolo (R. Istituto Tecnico di Padova).
Coraster sp. ind.
Questo genere venne per la prima volta trovato nella scaglia veneta dal Munier,
e di poi venne citato da Seunes, Balestra e Dal Lago. Il Seunes crede poi che
esso sia molto abbondante nel Veneto, mentre invece io credo ch'esso sia veramente
molto raro, poiché tra le centinaia d'esemplari che ho in esame, uno solo si può rife-
rire con certezza al genere Coraster, ma che sgraziatamente non posso classificare
specificamente stante l'abrasione della parte anteriore. La disposizione però degli
ambulacri, dei pori, del fasciolo paripetalo non lasciano alcun dubbio che si tratti
del genere Coraster.
13 ECHIXIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 327
Questo genere oltre che nel daniano di Mancha Real, dei Bassi Pirenei, venne
trovato anche nel senoniano di Tersakhan nel Turkestan (1).
Località veronese: Veronese (Coli. Nicolis).
Micraster fastigatus Gauthier
Tav. II, fig. 6, 7.
1887. Micraster fastigatus Gautuikr, Descript, des esp. de la craie de Beims (" Bull. Soc. de» Se. hist. nat.
de l'Yonne „), pag. 237, tav. VI, fig. 1, 5.
Dimensioni: Lungh. ram. 42, largh. mm. 40, alt. mm. 29.
Specie di mediocri dimensioni un po' più lunga che larga, cuoriforme, intaccata
fortemente dal solco anteriore, tronca posteriormente. Faccia superiore subconica,
alta, fortemente inclinata verso i margini, tranne che nell'area interambulacrale po-
steriore perchè carenata; faccia inferiore leggermente rigonfia, terminante nella parte
posteriore con due protuberanze alquanto marcate.
Apparecchio apicale con quattro pori genitali e leggermente spostato all'avanti.
L'ambulacro impari è posto in un solco abbastanza profondo vicino al margine che
viene così intaccato. E un po' meno lungo e largo degli ambulacri pari anteriori,
con pori leggermente disuguali, gli esterni più oblunghi degli interni.
Ambulacri pari anteriori posti in una depressione, alquanto svasata, più larghi
e lunghi di quello impari, con pori molto più sviluppati, più lunghi gli esterni degli
interni. Ambulacri pari posteriori lunghi quanto quello anteriore, ma meno larghi di
quelli pari anteriori.
Peristoma semilunare, labiato, posto molto vicino al margine anteriore; peri-
procto rotondo, posto alla sommità della faccia posteriore, che si eleva fin quasi alla
metà dell'altezza totale dell'echino.
I due esemplari che riferisco a questa specie sono un po' meno cuoriformi dei
tipi figurati da Gauthier, un po' più trigonali, colla carena posteriore un po' più
marcata, e colla faccia superiore pure più alta, caratteri questi secondo me che ren-
dono meno facile la riunione di questa specie col Micraster gibbus Lam. sp., come
sarebbe d'avviso il Lambert (2). Infatti paragonando i miei esemplari con quelli di
Palarea (M. cordatus , M. gibbus Sism.) che sarebbero i tipi del vero M. gibbus, li
trovo alquanto diversi, tanto che credo sia più conveniente considerare il M. fasti-
gatus una vera specie che una varietà del M. gibbus, da cui si distinguerà, a mio
modo di vedere, per la forma meno circolare, più allungata, per la faccia superiore
non regolarmente conica, ma gibbosa e carenata posteriormente, per la faccia poste-
riore più alta, fornita alla base da due forti mammelloni, per il solco anteriore molto
più profondo al margine, per la faccia inferiore più rigonfia e infine per i margini
più rotondeggianti.
Del resto sia che il Micraster fastigatus lo si consideri come una specie auto-
noma, sia che lo si consideri come una varietà del Micraster gibbus, è sempre inte-
(1) Cotteau, Note sur un exempl. du Coraster Villatiovae de Tersakha (Turkestan) (" Bull. Soc.
géol. frane. „, voi. 17, ser. 3).
(2) Monogr. du genre Micraster in lìech. sur la ernie sup. par M. De Gkossouvre (1. e.).
328 CARLO AIRAGHI 14
ressante che un altro echino della scaglia permetta di fare dei confronti con altre
località. Lo si consideri come una specie autonoma e allora si avranno dei gradi di
parentela tra il senoniano del Veneto e la creta a B. quadrata di Reims, lo si con-
sideri invece una varietà del M. gibbus e allora si avranno dei legami di parentela
anche col senoniano di Palarea presso Nizza, di Sens, ' di Breteuil (Oise), Beauvois,
dell'Allemagna, della Polonia, ecc.
È utile però ricordare che il vero M. gibbus è pure una specie della scaglia, se
non del Veneto, dell' Apennino. Un esemplare infatti del R. Museo geologico di
Pavia trovato a Montepallaro presso Chieti, corrisponde perfettamente, nelle dimen-
sioni, nella conformazione degli ambulacri, della faccia superiore, posteriore, inferiore,
al tipo della specie di Palarea.
Località bellunesi: Lamon (Coli. Fabiani, 11, M. Geol. di Padova).
Micraster massalongianus Zigno
Tav. I, fig. 3.
— Micraster massalongianus Zigno. In schaedis.
Dimensioni: Lungh. mm. 40, largh. mm. 39, alt. mm. 29.
In verità è un esemplare allo stato di modello interno troppo malandato per
poter classificarlo specificamente con una certa sicurezza, epperò lascio il nome dato
da Zigno provvisoriamente, fintantoché altri esemplari meglio conservati possano
stabilire con maggiore certezza se si tratti veramente d'una specie autonoma o d'una
varietà delle tante che si conoscono di questo genere.
È un esemplare di mediocri dimensioni, cuoriforme, colla faccia superiore uni-
formemente convessa, leggermente carenata sull'area impari posteriore, quella infe-
riore piana, coi margini arrotondati, col solco anteriore quasi nullo superiormente e
molto largo al margine e più profondo vicino al peristoma, cogli ambulacri pari pe-
taliformi, depressi, quelli anteriori sviluppatissimi, col periprocto subrotondo posto
alla sommità della faccia posteriore che è molto alta e verticale, col peristoma poco
lontano dal margine, ma mal conservato.
Conoscendo la difficoltà grandissima che si incontra volendo classificare un echino
allo stato di modello interno, mi rivolsi alla gentilezza e alla erudizione del signor
Lambert comunicandogli una discreta fotografia dell'esemplare in questione; ma anche
egli mi rispose essere troppo difficile il volerlo classificare specificamente. Esso visto
di profilo si avvicina alquanto al Micraster Brongniarti Hebert, ma resta sempre
però caratterizzato dalla forma allargata del solco anteriore, dalla lunghezza dei
petali pari anteriori, dall'apice ambulacrale postato all'avanti, dalla sua faccia po-
steriore alta e verticale.
Oltre a questo esemplare nel senoniano veneto vennero trovati altri due modelli
interni di Micraster a Vernasso presso S. Pietro al Natisone, ma non permettono
una determinazione specifica (1).
Località veronesi: Veronese (R. M. Geol. di Padova).
(1) Tommasi, Contrib. allo studio della fauna cret. del Friuli C Atti R. Ist. ven. se. lett. „, t. II,
ser. VII), pag. 1110.
15 ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 329
Tsojmeustes Lamberti sp. ri.
Tav. I, fig. 4.
Dimensioni: Lungli. inni. 32, largii, mm. 30, alt. mm. 18.
E non senza qualche dubbio che riferisco la nuova specie al genere Isopneustes,
epperò sarebbe necessario il rinvenimento di altri esemplari meglio conservati per
poter stabilire con certezza la presenza di questo genere nella scaglia veneta. L'esem-
plare infatti che ho in esame se lo distinguo dal genere Epiaster per i pori del suo
ambulacro impari simili a quelli degli altri e dall' Hyspaster per la mancanza del
solco anteriore e il peristoma labiato, dai generi Gyclaster e Isaster per quattro pori
genitali, non posso asserire se esso sia fornito o no di fascioli, essendo il suo guscio
abraso.
L'esemplare che rappresenta la nuova specie è di mediocri dimensioni, colla
faccia superiore alta due terzi della lunghezza, avente la sua maggior altezza in cor-
rispondenza dell'apice ambulacrale, coll'area interambulacrale posteriore regolarmente
inclinata a foggia di tetto, con quella inferiore piana, e quella posteriore alta e incli-
nata all'avanti.
Apice ambulacrale con quattro pori genitali, spostato molto all'avanti. Solco
anteriore nullo alla faccia superiore, appena accennato sul margine. Ambulacro im-
pari anteriore conservato solo per metà, ma composto da pori eguali a quelli degli
altri ambulacri. Ambulacri pari differenti, gli anteriori più lunghi e divergenti dai
posteriori, forniti da pori disuguali, gli esterni più lunghi degli interni. Peristoma
alquanto vicino al margine, labiato; periprocto subrotondo posto alla sommità della
faccia posteriore.
Questa se è un vero Isopneustes sarebbe la seconda specie del genere, compren-
dendo esso fin'ora il solo Isopneustes Bourgeoisi Cott. Le specie descritte dal Seunes
e riferite a questo genere, come giustamente ha stabilito il signor Lambert nella
sua insuperabile Monografia del genere Micraster, si debbono considerare come dei
Gyclaster, poiché sono provviste non di quattro pori genitali, ma di tre, e per avere
l'ambulacro impari diverso dagli altri.
Località padovane: S. Pietro Montagnoli (R. M. Geol. di Padova).
Serie IL Tom. LUI.
330 CARLO AIRAGHI ECHINIDI DELLA SCAGLIA CRETACEA VENETA 16
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA I
1. Echinocorys concava Cat. sp. . . Collezione R. M. Geol. di Padova
2. Stegaster Dallagoi n. sp. . . . „ Dal Lago
3. Micraster Massalongianus Zigno „ R. M. Geol. di Padova
4. Isopneustes Lamberti n. sp. . . „ „
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA II
1, 2. Lampadocorys sulcatus Cott. sp. Collezione R. M. Geol. di Padova
3. Cardiaster subtrigonatus Cat. sp. „ „
4. „ Dallagoi n. sp. . . „ Dal Lago
5. „ ? n. sp , „
6. Micraster fastigatus Gauth. . . , R. M. Geol. di Padova
7. , „ ... „ Fabiani.
A I R A G H I G . Echinidi. Tav. I.
^Itcmotic cfl. deca?. cc((c Sciente
?i ?oti uo . Ser. II. Voi. 53
Stab. Eliotipico Ing. Molfese-To:
A I RAG H I G . Echinidi. Tav. II.
S)ÌLcmo:ic alt. diccad. ce ffc Scienza
ci Sozino . Ser. II. Voi. 53
Stab. Eliotipico Ing. Molfose-Tori
I FUNGHI IPOGEI ITALIANI
RAI COLTI DA
0. BECCARI ■ L. CALDESI - A. CARESTIA - V. CESATI • P. A. SACCARDO
ILLUSTRATI DA
ORESTE MATTIROLO
Approvata nell'adunanza del 22 Marzo 1903.
Appena sotto alla superficie del suolo o più profondamente in esso, in tutti i
climi e sotto tutte le latitudini, vivono numerosi funghi, appartenenti a tipi svaria-
tissimi, la cui importanza, apprezzata un tempo unicamente in rapporto al loro impiego
nell'arte culinaria, viene oggi in ben altro modo valutata dalla scienza; dopo che
essa riuscì a provare che i micelii di detti funghi vivono nel terreno, mantenendosi
ivi in stretto mutualismo simbiotico colle radici delle piante.
La scienza è giunta di fatto a dimostrare che nessuna pianta può bastare a se
stessa; nel senso cioè, che nessuna pianta può vivere da sola, senza contrarre rap-
porti mutualistici con esseri ad essa inferiori nella organizzazione, che l'aiutano nel-
l'esercizio di quelle funzioni le quali, unanimemente, si riteneva fossero senz'altro eser-
citate dalle radici.
Una immensa categoria di forme fungine, prive di clorofilla, prive quindi della
facoltà di assimilare il carbonio atmosferico, vive al disotto della superficie del ter-
reno all'infuori dell'influenza diretta delle radiazioni che si percepiscono come luce
ordinaria, espandendo i loro micelii ovunque fra le particelle del terreno, contraendo
ivi Ultimissimi rapporti cogli apparati radicali che le piante sviluppano nel terreno
stesso e che loro servono ad un tempo come mezzo di sostegno degli organi assimi-
latori e fruttificatori epigei e come organi di assorbimento dei liquidi nutrizì conte-
nuti nel terreno.
Tanto le piante arboree, quanto quelle erbacee contraggono relazioni simbiotiche
con questi esseri, la cui azione funzionale incomincia oggi appena ad essere inve-
I micelii degli Ipogei, che rivestono le parti apicali delle radici delle piante, che
ne avvolgono a guisa di guanto le estremità, che sostituiscono, espandendosi do-
vunque nel terreno, i peli assorbenti ; che penetrano e si annidano anche nei tessuti
ipodermici, esplicano le loro proprietà enzimatiche sui materiali che compongono il
terreno, rendendoli atti ad un impiego utile nell'economia dei vegetali superiori, aiu-
332 ORESTE MATTIROLO 2
tano i processi osmotici delle radici, traggono dal terreno l'acqua e i sali sciolti in
essa, necessari ai bisogni delle piante; mentre essi stessi ricevono, in compenso della
loro attiva cooperazione, dalla pianta che li ospita, i materiali idrocarbonati di cui
necessariamente hanno bisogno.
Gli apparati riproduttori di questi micelii costituiscono i cosidetti funghi ipogei,
la cui conoscenza viene oggi a rivestire una importanza tutto affatto speciale.
I funghi ipogei rappresentano uno dei fattori principali nella vita delle piante,
e la conoscenza esatta dei loro rapporti colle radici, potrà permettere in avvenire
di procedere razionalmente nell'esame delle principali questioni che hanno rapporto
coll'arboricultura, ed è perciò che lo studio della Flora sotterranea riveste un doppio
interesse, botanico cioè ed agricolo.
D'altra parte è notissima cosa, che alcuni di questi funghi, specialmente quelli
appartenenti ai Tuberacei, costituiscono un cibo ricercatissimo per la delicatezza del
profumo, e che la coltivazione razionale di essi, basata essenzialmente sulla propa-
gazione e coltivazione delle piante sulle radici delle quali vive in relazione simbiotica
il loro micelio, potrebbe rappresentare, anche da noi, una sorgente non indifferente
di guadagno, quale da tempo si verifica in Francia.
Al difficile lavoro di censimento di queste forme fungine ipogee e agli studi di
indole biologica che riguardano tanto la loro storia di sviluppo, quanto il modo di
estrinsecarsi delle loro proprietà funzionali, si sono rivolti gli sforzi dei moderni
ricercatori, e ogni giorno che passa, si può dire, segna un progresso in questo diffi-
cilissimo campo di studi. Per essi si schiuderanno orizzonti nuovi che porteranno alla
scoperta di verità, quali pochi anni or sono neppure si sarebbero potute sospettare ;
quando ogni vegetale era ritenuto capace di bastare da solo al suo sviluppo e tutte
indistintamente le forme fungine si consideravano senz'altro come parassite o sapro-
fite, nel significato stretto di queste parole.
Molto già si è fatto in questa via, ma moltissimo rimane da fare e ciò anche
per la ragione che oggi ancora straordinariamente monche e scarse sono le cogni-
zioni nostre intorno alla morfologia dei principali tipi di funghi adattatisi a vivere
la vita sotterranea.
Le difficoltà gravissime che il micologo sa di incontrare quando si dedica alla
ricerca di questi strani esseri che vegetano nascosti e che nascostamente si ripro-
ducono nel terreno, sono tali e tante che non ci permisero ancora di giungere nem-
meno lontanamente ai risultati che si sono invece verificati nella sistemazione delle
forme fungine epigee.
Mentre alcuni (e questi sono perciò stesso i più noti) fruttificando emettono
odori speciali che ne denunciano la presenza agli animali che educhiamo per la loro
ricerca, che attirano insetti, uccelli, roditori, incaricati forse di ingerire e di
influenzare le spore rendendole atte, dopo il passaggio nell'intestino, a germinare;
altri invece non ci concedono segni della loro presenza nel suolo, e vi rimangono
nascosti, vi si distruggono spappolandosi, refrattari alle ricerche più minuziose.
Queste forme quindi non si scoprono altrimenti che rovistando, razzolando con
enorme dose di pazienza il terreno che le protegge nascondendole, e ciò ancora solo
riesce, quando si è potuto avere una idea dei luoghi di loro predilezione!
Tralasciando di trattare di quanto si è fatto presso altre nazioni, possiamo dire
8 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 333
che nel campo degli studi che riguardano gli Ipogei, la lodatissima Monographia
Tuberacearum, edita a Milano nell'anno 1831 da Carlo Vittadini, costituisce oggi
ancora il lavoro fondamentale intorno alle forme fungine che vivono nel sottosuolo
italiano, e che, a partire da quell'epoca, nessuno più tra noi si occupò di proposito di
questo argomento, al quale mi sono da molti anni dedicato, nel duplice intento di
riescire ad un censimento delle varie forme ipogee italiane, e allo studio dei pro-
blemi che ne riguardano gli scopi e l'attività fisiologica.
Il presente lavoro (come altri consimili già da me fatti di pubblica ragione),
rappresenta una parte del lungo studio preliminare destinato a servire di base al
lavoro monografico che ho speranza di riescire a condurre a termine fra non lunga
serie di anni.
Illustrando i materiali italiani raccolti da Odoardo Beccari, Lodovico Caldesi,
Antonio Carestia, Vincenzo Cesati, P. A. Saccardo, rimasti per la massima parte
indeterminati negli Erbari, intendo dare un saggio dei risultati ottenuti dai più illu-
minati micologi italiani che, dopo Carlo Vittadini, si occuparono della ricerca degli
Ipogei e segnalare le forme che per opera loro siamo giunti a conoscere.
In questo scritto non farò che l'enumerazione delle specie ipogee, trovate dai
predetti autori, senza alcuna esclusione e senza tentarne una sistemazione, la
quale verrà fatta nel lavoro monografico, al quale è destinato lo studio di questi
materiali.
Odoardo Beccari raccolse prevalentemente in Toscana e nell'Emilia ed inviò le
sue collezioni, assai prima dell'anno 1882 (1) a Vincenzo Cesati, perchè servissero ad
un lavoro di cui non rimase altro che il titolo " 1 Fungi Hypogaei Beccariani „; poiché
ad esso non potè attendere il compianto botanico, in causa della lunga malattia
che doveva trarlo a morte il 13 febbraio 1883. Rimasero quindi sino all'anno 1900
perduti fra la congerie di materiali accatastati prima del riordinamento dell'Erbario
Cesatiano operatosi per cura di R. Pirotta nei locali del R. Istituto botanico di Roma,
ed in quell'anno furono affidati alle mie cure per lo studio.
I materiali raccolti in Romagna da Ludovico Caldesi, provengono dall'Erbario
Caldesi da lui lasciato in eredità all'Istituto botanico dell'Università di Bologna. In
parte già da me studiati (1896-97) a Bologna, mi vennero cortesemente ora concessi
per lo studio dal Prof. Fausto Morini.-
Gli Ipogei del Reverendo Abate Antonio Carestia mi furono da lui amichevol-
mente inviati ; mentre devo quelli dell'Erbario di Vincenzo Cesati alla cortesia del-
l'amico R. Pirotta.
Da P. A. Saccardo ebbi in esame la parte del notevolissimo suo erbario riguar-
dante le Tuberacee e le Hymenogastree, ed in esso potei studiare le specie raccolte
in Italia, tanto dall'eminente micologo, quanto dai corrispondenti suoi.
Mi è quindi graditissimo il dovere di ringraziare i colleghi 0. Beccari, A. Ca-
restia, F. Morini, R. Pirotta e P. A. Saccardo; ricordando ancora il compianto
Professore M. Cornù e il Sig. Dott. Paul Hariot del Museo di Parigi, per la gentile
(1) Esistono due lettere del Cesati, 15 giugno 1882 e 22 luglio dello stesso anno, relative allo
smarrimento e alla ricerca delle Tuberacee raccolte dal Beccari; nel pacco rinvenni poi un foglietto
di mano del Cesati, sul quale egli aveva iniziata la enumerazione dei Fungi hypogaei Beccariani.
334: ORESTE MATTIROLO *
loro cooperazione alle mie ricerche, avendomi affidato rarissimi autoptici che mi ser-
virono come tipi di paragone. Devo avvertire che gli Ipogei da me esaminati nella
Collezione Beccari si conserveranno nell'Erbario Cesati (Roma), e in parte passeranno
al Museo di Firenze; che la raccolta Cesati rimarrà a Roma; quella di Caldesi potrà
essere consultata nell'Erbario dell'Istituto botanico di Bologna, e quella di P. A. Sac-
cardo si potrà studiare nell'Erbario Saccardo a Padova (1).
TUBERACEI
Genea Vitt,
Genea liispidula Berk.
Genea hispidula Berk. in " Ann. and Magaz. of Nat. History », XVIII, 76. — Tulasne, F.H.,
p. 121. — Corda, le, p. 59, tab. XIII, fig. 109 (sub. G. papillosa). — Hessb, H. D.,
voi. II, p. 57. — Fischer, Tub., p. 20.
La Genea hispidula già nota in Europa per l'Inghilterra, la Francia e la Ger-
mania, viene oggi per la prima volta registrata per l'Italia. I paragoni da me fatti
cogli esemplari autoptici di Berkeley (Herb. Tulasne) e quelli istituiti coi materiali
dell'Erbario di Strassburgo (Herb. De Bary), favoritimi dalla cortesia del Prof. Solms
Laubach, non lasciano alcun dubbio sulla identità della specie, raccolta nell'ottobre 1862
nella Selva Pisana al Palazzetto, da Odoardo Beccari.
La forma delle sculture periniali, larghe, emisferiche, toccantisi le une colle
altre; il feltro che ricopre la faccia esterna del peridio, la colorazione delle spore...
sono i caratteri che distinguono questa dalle specie congeneri, tutte distribuite sopra
larghissime aree. La G. hispidula fu registrata anche da H. W. Harkness per la
California (2).
Genea verrucosa Vitt.
Genea verrucosa Vitt.. .1/. T., p. 28, tab. II, fig. VII e tab. V, fig. I. — Tulasne, F. H.,
p 119. _ Hesse. IL D., voi. II, p. 55. — Mattirolo, Ipogei di Sardegna e di Sicilia
(V. ivi la bibliografia e la sinonimia), " Malpighia „, anno XIV.
Di questa specie eminentemente pleomorfa, distinta per la regolarità, la piccolezza
delle protuberanze emisferiche o coniche del perinio albuminoso delle spore, esistono
moltissimi individui nella Collezione Caldesi ; mentre altri, raccolti pure da L. Caldesi
in Val di Sennio (Romagna) nell'inverno del 1872-73, notai nell'Erbario Beccari.
(1) Avverto il lettore che, per brevità, nel testo, la classica opera di L. René et Chables Tulasne
Fungi Hypogaei verrà indicata colle lettere F. H.
La Monographia Tuberacearum di Vittadini con M. T.; e con H. D. si indicherà l'opera di
Rudolph Hesse, Die Hypoyaeen Deutsehlands.
Al nome " Fischer , corrisponderà il noto lavoro Tuberaceen und Hemiasceen che fa parte della
Eabenhorst Kryptogamen Flora, V Abtheil. Leipzig, 1897.
(2) H. W. Harkness, Califomian Eypogaeus fungi, " Prooeedings of the California Academy of
Sciences „, III serie, voi. I, N. 8. Botanik. 1899, S. Francisco.
5 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 335
La G. verrucosa, comune in Piemonte, in Lombardia, nell'Emilia e nella Toscana,
fu raccolta pure in Sicilia ; mentre in Sardegna fu da me notata una sua varietà, la
var. badia Matt. che descrissi come sinonimo di G. papillosa Vitt e di G. Kunzeana
Lobel (V. Mattirolo, loc. cit.).
La G. verrucosa è pure annoverata fra gli Ipogei californiani di Harkness.
Genea Klotzschii Berk.
Genea Klotzschii Berk. et Broome, " Ann. and Magaz. of Nat. History „, XVIII, p. 78. —
Tulasne, F. H., p. 120. — Hesse, H. D., p. 56, voi. II. — Fischer, Tub., p. 23 (Vedi
ivi letteratura e sinonimia).
Di questa Genea, che io ricordai già per l'Italia (1), incontrai N. 7 esemplari
indeterminati od erroneamente determinati nell'Erbario Caldesi, raccolti tutti nel
gennaio 1875 nei dintorni di Faenza (Scavignano, Marzeno, Osservanza, Olmatello...),
di Castelbolognese e di Brisighella.
Un tipico esemplare trovato a Novi Ligure da Pietro Modesto Ferrari, deter-
minato da De Notaris per G. verrucosa, incontrai pure nell'Erbario Tulasne del Museo
di Parigi (Erbario Dott. Roussel).
Genea sphaerica Tul.
Form, sporis splnuloso-tuberculatis Mattirolo.
(Tav. fig. 17).
Genea sphaerica Tul., Champignons hypogés de la Famille des Lycoperdacés observés dans
leu environs de Paris et les départements de la Vienne et d'Indre et Loire , " Ann. Se.
Nat. „, 2" sèrie, tom. XIX, pag. 378, 1843. — Tulasne, F. H., p. 120, tab. TV, fig. II,
tab. XII, fig. 1 et tab. XIII, fig. VI. - Hesse, H. D., voi. II, p. 54, tab. XII, fig. 9
et tab. XVI, fig. 32. — Fischek, loc. cit, p. 14 et p. 24, fig. 1, 2, 3.
A Boscolungo nell'Apennino Pistoiese sotto gli Abeti, nell'agosto 1900, 0. Bec-
cari raccoglieva e gentilmente mi comunicava alcuni esemplari di una Genea, identica
ad altra già da me raccolta il 17 luglio 1899 alle Cascine di Firenze, corrispondente,
sia per i caratteri generali, come per il tipo e le dimensioni delle spore, alla Genea
sphaerica di Tulasne; ma differente per la forma dei depositi periniali; che perfet-
tamente regolari, emisferici, minuti e regolarmente disposti nella Genea sphaerica,
sono invece nettamente e grossolanamente spinuloso-tuberculati nella presente forma
(V. Tav. fig. 17).
La descrizione generale della Genea sphaerica si adatta, è vero, a questa forma ;
ma essa, pare a me, che meriti di essere segnalata e distinta, perocché, in tutti
gli esemplari esaminati, le spore si mostrarono sempre differenti da quelle della
forma tipica. Pure avendo lunga pratica della polimorfia che possono presentare
i depositi periniali delle spore nelle differenti specie del genere Genea (talora anche
in |quelle racchiuse in uno stesso asco), sarei stato propenso, vista la costanza di
(1) V. Mattirolo, " Malpighia „, voi. XIV, I funghi Ipogei di Vallombrosa ; e Gli Ipogei di Sardegna
e di Sicilia.
336 ORESTE MATTIROLO O
questo carattere, ad assegnare a questa, che, per ora, considero come una forma, il
valore di specie, ove avessi potuto esaminare uu numero maggiore di esemplari e
studiarli nelle naturali condizioni e non essiccati come mi avvenne di dover fare.
Devo notare che l'attenzione di Tulasne fu pure fermata sopra questa forma.
Egli raccolse infatti alcuni esemplari, identici ai miei, nel Bois de la Dame rose a
Meudon presso Parigi, nel settembre dell'anno 1843. Questi esemplari conservati
nel Museo di Parigi, come risulta dal cartellino, furono dapprima da lui determinati
come appartenenti alla Genea verrucosi! di Vittadini, quindi indicati col nome di Genea
sphaerica Tul. forma insolita; traspare di qui il dubbio che l'eminente micologo ebbe
intorno a questo tipo meritevole di studi ulteriori, quali spero di poter istituire quando
potrò disporre di materiali freschi.
A proposito di questa forma e della Genea sphaerica, credo utile accennare qui,
che molto materiale già da me determinato come appartenente alla Genea sphaerica
di Tulasne, rappresenta invece la discussa Genea Lespiaulti Corda ; e che, parte degli
esemplari della Genea sphaerica da me ricordata fra gli Ipogei delle Foreste di
Vallombrosa, rappresentano invece la Genea Lespiaulti, che pure incontrai fra i ma-
teriali determinati da Tulasne come appartenenti alla Genea sphaerica (1).
Stephensia Tulasne.
Stephensia bombycina Tul.
Genea bombycina Vitt., M. T., p. 29, tav. Ili, fig. XIII et tav. IV, fig. Vili. — Bekk., in
" Ann. Magaz. of Nat. Hyst. „, voi. XIII, p. 357.
Stephensia bombycina Tul, F. H., p. 130, tab. XII, fig. IV. — Fischer, loc. cit., p. 29.
Questa curiosa specie, che io trovai frequente in Toscana, nel terreno stesso
del R. Orto Botanico (Orto dei Semplici) nel centro di Firenze (V. Mattirolo, Gli
Ipogei di Sicilia e di Sardegna, p. 6); che rinvenni in Lombardia, nel Canton Ticino
(Stabio) e nell'Emilia ; fu raccolta anche da 0. Beccari nel R. Orto Botanico di Pisa
nell'ottobre 1860.
A proposito di questo ipogeo giova ricordare che il diametro delle sue spore
(le quali hanno il perinio liscio e mai verrucoso, come ammette il Berkeley, v. loc.
cit.) varia assai collo stato di maturazione. Questo fatto dà ragione delle differenze
metriche che si notano nelle descrizioni. Tulasne (loc. cit.) fissa i limiti diametrali
fra 19 e 22 micra: mentre il Fischer (che pure esaminò esemplari autoptici delle Rac-
colte Vittadini e Tulasne) assegna loro limiti fra i 21 ed i 28 micra, ciò che è secondo
la verità, come lo dimostra una serie di misurazioni da me fatte tanto sopra esem-
plari miei, quanto sopra esemplari autoptici di Vittadini e di Tulasne, ottenendo una
media di 25, con un minimum di 24 ed un maximum di 28 micra. L'esemplare di
Vittadini presentò una media di 26, sopra 12 misurazioni, con un minimum di 21 ed
un maximum di 28; mentre diametri uguali a quelli segnati dal Tulasne e certe
\\) V. Mattirolo. loc. cit,, " Malpighia „, anno XIV.
I FUNGHI IPOGEI ITALIANI
337
volte anche minori, osservai in individui giovani. Lo stato di maturazione può essere
valutato col criterio della prova del glicogeno (1), nonché con quello del colore delle
spore, che vanno ingiallendo colla maturazione perfetta; ed infine coi criteri che ci
sono forniti anche dalle dimensioni stesse dell'individuo.
Pachyphloeus Tulasne.
" Giornale Botanico Italiano ,, anno I, fase. 7, 8, 1844, L. R. e C. Tulasne, Fungi nonnuUi
hypogaei novi v. minus cogniti — Choeromgcis sp. Tulasne et Berk. " Ann. and Magaz.
of Nat. ffist. „, voi. XIII, p. 359.
Pachyphloeus Saccardoi Mattirolo nov. sp.
(V. Tavola, fig. 11 a 15).
Questo ipogeo, caratterizzato dal tipo e dalle dimensioni delle spore, fu trovato
nel giugno 1872 dal Prof. P. A. Saccardo " ad terram „ nel R. Orto Botanico di
Padova (2) ; epperò mi sembra cosa naturale che io , presentandone la descrizione,
lo onori del nome dell'illustre micologo.
Non potendo parlare ne della forma esterna, probabilmente irregolarmente glo-
bosa, tuberculosa, né dei caratteri cromatici del peridio, ne del decorso delle vena-
ture, né infine delle proprietà organolettiche del nuovo Pachyphloeus, perchè non vidi
altro che materiale essiccato e sezionato, limiterò forzatamente la illustrazione ai
dati che ho potuto desumere dall'esame microscopico del materiale secco, nella spe-
ranza di poter completare le lacune descrittive sopra nuovo materiale.
Il P. Saccardoi presenta un Peridio di color bruno intenso (nel secco), avente
spessore non uniforme; pseudoparenchimatico all'esterno, fibroso invece all'interno,
dove si continua formando le venature della trama. Da queste si origina Yimenio
regolarmente formato da aschi e da ife sottilissime, che rappresentano le parafisi e
si continuano nelle cosi dette vene esterne, interimeniali.
Gli aschi numerosissimi, stipati fra di loro, sono irregolarmente disposti a mo' di
palizzata sopra tutta la superficie delle venature della trama, formando degli strati
imeniali ondulati nastriformi, tra loro separati dal tessuto componente le vene esterne,
il cui decorso nei materiali esaminati, non si potè esattamente orientare.
La forma degli aschi è clavato-cilindrica ; ma non raramente sono essi anche
ripiegati, ondulati con parvenze che stanno forse in rapporto colle condizioni nelle
quali si svolgono, stipati gli uni contro gli altri e gli uni più degli altri sviluppati.
Gli aschi di questa nuova specie, allungatissimi, ripieni di materiale glicogenico
quando ancora non sono sporificati, sono fortemente rifrangenti e raggiungono una
lunghezza che varia dai 250 ai 300 micra e largh. di 30-45 micra e quindi sono essi
più lunghi che in tutte le altre specie del genere, finora note ai micologi.
(1) V. 0. Mattirolo, Sul valore sistematico del Choiromyces meandriformis, e del Choiromyces gan-
gliformis Vitt., " Malpighia „, anno VI, 1892, pag. 20 e 21.
(2) Nell'Erbario Saccardo trovavasi aistemato sotto il nome di Choiromyces meandriformis Vitt. (?).
Serie II. Tom. LUI. R'
338 ORESTE MATTIROLO O
Per la forma, la disposizione e per i caratteri esterni essi ricordano quelli del
vicino genere Stephen sia Tul. Alla base presentano costante il noto ingrossamento
laterale d'attacco.
Neo-li aschi si contengono generalmente otto spore (che raramente tutte matu-
rano) disposte in generale sopra una serie, stipate nella parte apicale.
Queste spore presentano un perinio elegantemente munito di numerosissime punte,
brevi, esilissime, coniche, più minute, più lunghe (misurando esse da 2 a 4 micra),
più appuntite e numerose che non nelle altre specie del genere. Queste spinule ricor-
dano quelle caratteristiche del perinio delle spore del Tuber brumale Vitt. ad es.,
ma sono ancora più minute, numerose ed eleganti.
Le spore, sferiche, hanno color bruno, quando sono mature; misurano 18 a
24 micra (senza gli aculei) di diametro — e quindi si presentano assai più grandi di
quelle appartenenti alle specie congeneri a spore pure spinulose (P melanoxanthus Tul.
e P. citrinus Berk.).
Le parafisi sono filiformi, sottilissime, stipate fra gli aschi, cementate in una
massa gelatinosa, che forma come un tessuto di riempimento fra gli aschi; tanto
che per studiarne il decorso ho dovuto ricorrere alla colorazione loro col rosso di
Rutenio.
Le parafisi di questa specie ricordano quelle che caratterizzano il vicino genere
Stephensia, col quale il P. Saccardoi ha pure molti punti di affinità.
Il nuovo fungo si distingue dalle vicine specie P. citrinus Berk. e P. melanoxan-
thus Tul. per le dimensioni e la forma degli aschi e per le dimensioni delle spore e le
spinulosità caratteristiche del perinio; differisce dal P. conglomeratus Berk. {—Cryptica
lutea Hesse) e dal P Ligericus Tul. per la forma dei rilievi periniali ottusi, bitor-
zoluti, in queste specie. Dalla Stephensia bombycina Tul. si allontana perchè manca
di spore perfettamente liscie.
Da quanto si è esposto, risulta che la determinazione di questa specie riesce
facilissima anche sui materiali essiccati, essendo sufficienti i caratteri accennati per
farla distinguere fra tutte le forme ipogee finora note.
La frase diagnostica si potrebbe riassumere nel seguente modo :
PachijpJdoeus Saccardoi Mattirolo, nov. sp.
Fungus vix hypogaeus, irregulariter globosus - Pendio brunneo (sicco) laeviter
tuberculato, crasso - externe pseudoparenchymatico - interne fibroso. Caro (sicca) brunnea,
venis duplicis notata - Ascis elongatis cylindricis, clavatis (250 a 300 micra long.,
30-45 lat.) - Sporis sphaericis brunneis diam. 18-24 - eleganter minutissime spinulosis;
spinulis rigidis conicis acutissimis (2-4 micra long.).
Hab. Ad terram in B. Horto botanico Patavino, ubi Clarissimus Saccardo detexit -
20 juni 1872 (In Herb. Saccar diano) .
9 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 339
Pachyphloeus conglomeratus Berk. e Broome.
Pachyphloeus conglomeratus Berk. et Broome, " Ann. and Magaz. of Nat. Hist. „, XVIII, 79.
— Tulasne, F. H., p. 132.
Pachyphloeus luteus (Fischer), Fischer in " Rabenhorst Krypt. Fior. „, voi. I, p. 34.
(V. Tavola fig. 16).
Di questo Ipogeo, che Berkeley prima del 1857 aveva già raccolto nei dintorni
di Lucca e comunicato al Tulasne (v. F. K, pag. 132), trovai un esemplare nella
Collezione Cesati, frammisto alle specie del genere Oetaviania e portante scritto:
Odaviania inquirenda. Biella, 1857. Settembre.
La superficie peridiale liscia ed i diametri delle spore varianti da 18 a 20 micra;
la membrana loro di color brunastro, le verruche ottuse che le rivestono, nonché la
forma degli ascili, confermano questa determinazione e mi permettono di asso-
ciarmi all'opinione di Fischer, che la Cryptica lutea, della quale esaminai preparati
tolti da un autoptico conservato nel Museo di Firenze (gentilmente favoritomi dal
Prof. Baccarini), sia realmente da considerarsi come sinonimo di questa forma rara.
Tuber Micheli.
Tuber aestivum Vitt.
Tuber aestivum Viti, M. T., p. 39. — Tulasne, F. H., p. 137. — Hesse, H. D., p. 14,
voi. II. — Fischer, loc. cit., p. 38.
Alcuni saggi di questa specie assai comune (nelle più deplorevoli condizioni di
conservazione) raccolti dal Beccari a Bologna nel marzo e nel giugno del 1864,
concordano mirabilmente con quelli che, sopra indicazioni dello stesso Beccari,
scavai più volte nell'inverno e nell'estate degli anni 1897, 98-99, tanto nell'antico
Orto botanico di Firenze, come nell'attiguo giardino di Boboli e nei giardini dei din-
torni della città.
Lo studio di questi esemplari di Toscana, raccolti nel luogo classico citato dal
Micheli (1), mi hanno portato alla identificazione del Tuber albidum di Cesalpino (2),
di Micheli (3), di Fries (4); attorno al quale nulla ancora si sapeva di positivo, dopo
la dubbiosa sinonimia accettata da Vittadini col suo T. (estivimi e le strane frasi
(1) Micheli, Nov. Plant. genera. Florentiae, 1729, pag. 221 : Tuber aestivum, pulpa suboscura, minus
sapida, ac odora. Tuber alludimi Caesalp. 613: Tartufo nostrale — In Boboli viridario , atque aliis
similibus locis sylvosis circa Florentiam, julio mense, plerumque viget.
Nel manoscritto inedito della Flora Toscana (R. Orto botanico di Firenze) si trovano le seguenti
parole:
" Tuber aestivum, pulpa suboscura, minus sapida ac odora. Micheli, Nov.pl. gen., p. 221. Tuber.
albidum Casalp., 613. Tartufo nostrale. Per le selve attorno alla città, ed in quelle dell'istessa
città ancora, come in Boboli dove si osservano in luglio „.
(2) Caesalpino, Lib. XVI, p. 613.
(3) Loc. cit.
(4) Fries, Syst. Mycolog., voi. II, p. 291.
340 ORESTE MATTIROLO
10
del Fries (1). Questi ammetteva che il T. aìbidum di Cesalpino e di Micheli avesse
relazione col caotico Tuber cibarium degli autori antichi, nel quale si concretarono
tutte le descrizioni e tutto quanto si scrisse sui Tartufi, prima di Vittadini, da
Teofrasto (2), da Plinio (3), da Mattioli (4), dall' Anguillara (5), da Castore
Durante (6), da Tabernamontanus (7), dall'ameno Baldassar Pisanelli (8), medico
bolognese, dal reverendo Padre, Abate Filippo Picinelli (9) e da quanti altri mai
autori, che in un modo o nell'altro hanno parlato di queste cibarie delicate, copiando
l'uno dall' altro le castronerie inventate dagli antichi sopra i prodotti della Terra
condensata !
Il Tuber aìbidum di Cesalpino, rappresenta (e in questo mostrò indirettamente
di aver ragione il Vittadini) (10) il T. (estivimi tipico, non ancora maturo. Nel
Tuber aìbidum la polpa fruttifera è molto chiara ; perciò, che le spore, non essendo
in essa pure anco sviluppate, non lasciano trasparire il loro colore, che a maturità
si risolve nel noto colore brunneo, più o meno intenso, caratteristico degli individui
perfetti del T. cestivum. Nel T. aìbidum la enorme quantità di glicogeno contenuto
negli aschi e nelle ife ascogene (11); gli aschi ancora sterili; la mancanza di odore;
la carne ancora omogenea, facilmente risolventesi in frustuli sotto la pressione delle
dita, dimostrano la verità della mia asserzione, fondata sull'esame di materiali rac-
colti nella località e nell'epoca indicata dal Micheli.
Il T. cestivum, colle sue varietà, così impropriamente battezzato dal Vittadini,
si incontra da noi in tutte le epoche dell'anno, tanto maturo, come immaturo. È specie
eminentemente calcicola, a grande area di distribuzione. In Italia io 1' osservai in
Piemonte, in Lombardia, nella Liguria, nell'Emilia, nel Veneto, nelle Marche, in
Romagna, in Toscana, nell'Umbria, nel Napoletano. Per la Sicilia lo notò Inzenga
(v. Mattirolo, loc. cit., p. 68) e per la provincia di Campobasso lo ricordò Pedicino.
(1) Sunt qui praecedentis (T. cibarium) aetatem juniorem statuunt; alti cum Rhi:op. albo confundunt;
forsan quaedam e prioribus varietatibus huc pertinent (Fries, loc. cit.).
(2) Thbophr. Ekesii, de Hist. Flant., lib. I, pag. 27 (sub Yovov). (Ediz. J. B. Stapel).
(3) Plinio, Historiae Naturalis, lib. XIX, cap. 2°.
(4) P. A. Mattioli, Discorsi sul secondo Lib. di Dioscoride. Venezia, 1581, Eredi di V. Valgrisi.
pag. 388, ediz. lat. Venezia, 1565.
(5) Anguillara L., Semplici li quali ecc. Venezia, Valgrisi, 1561, p. 118.
(6) Castore Durante, Herbario dì Castore Durante di Gualdo Medico et cittadino Romano, p. 433.
Ediz. a cui manca la data.
(7) Tabernamontands J. Th., Eicones plantarum ecc., pag. 1119.
(8) Baldassar Pisanelli, Trattato dei Cibi et del Bere. Carmagnola, M. A. Bellone, 1589.
(9) F. Picinelli, Mondo Simbolico formato da imprese scelte, spiegate ed illustrate. Milano, Fran-
cesco Vigone, 1669.
(10) Ecco le parole che il Vittadini adopera parlando del T. aìbidum Fries, pag. 40 Monographia
Tuberacearum : " Obs. IL Tuber aìbidum Fries. ob Michela phrasim huc tantum itti synonimon allegavi;
ceterum diversa species videtur, certe immatura. Color externus albidus in Tuberibus muricatis mihi
prorsus extraneus, suspectus. Hinc Albidi nomen ambiguum, Tuberibus cortice nigro et carne alba
(immaturis), et cortice albo, carne subnigra (maturis) saepius appositvm, perpetuo rejicendum „.
(11) Ho ampiamente trattato del valore diagnostico che può avere per il sistematico l'esame del
o-licogeno, mediante il quale si pub giudicare con esattezza lo stato di maturazione delle Tuberacee,
la quantità di glicogeno contenuta negli aschi e nelle ife ascogene essendo direttamente proporzio-
nale allo stato evolutivo delle Tuberacee. V. a questo riguardo 0. Mattirolo, Sul valore sistematico
del Choiromyces gangliformis Vitt. e del C. meandriformis, pag. 20 e seg., " Malpighia „ anno VI, 1892.
11 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI
341
Numerosi individui di questa specie determinai pure nei materiali dell'Erbario
Cesati, in gran parte però allo stato di residui; essendo il T. cestivum uno degli
Ipogei maggiormente appetiti dagli insetti che rovinano le collezioni. Anche nel-
l'Erbario Caldesi trovai esemplari raccolti nel 1856 dal De Notaris; e altri dal Bagnis
trovati a Monte Mario di Roma, figurano nell'Erbario Saccardo, unitamente ad indi-
vidui raccolti in località non precisata del Veneto.
Tuber mesentericum Vitt.
Tuber mesentericum Vitt., M. T., p. 40, tab. Ili, flg. XIX. — Tulasne, F. K, p. 139. —
Hesse. H. D., p. 17.
Tuber aestivum 3 mesentericum, Fisohek, loc. cit., p. 39.
Nella collezione Beccavi trovai dei residui di esemplari provenienti da Vulturara
Irpina, nei quali esistono ancora delle spore concordanti con quelle di altri esemplari
che io ebbi da Ascoli Piceno, da Avellino e da Vulturara Irpina stessa, apparte-
nenti a quella varietà di T. mesentericum che Berkeley e Broome (1) indicano col
nome di T. bituminatimi; e che Ferry de la Bellone distinse ancora in altre due
varietà: 1) Tuber bituminatum (sphaerosporum); 2) Tuber bituminatimi (ellipsosporum)
(Ferry de la Bellone, La Truffe, Paris 1888, pag. 142 e seg.).
Anche nella raccolta Cesati notai alcuni individui di questa specie e più preci-
samente di questa forma del T. mesentericum Vitt. trovati nei monti del Lazio nel
mese di settembre 1847.
Tuber macrosporum Vitt.
Tuber macrosporum Vitt., M. T., p. 35, tab. 1, flg. V. — Tclasne, F. H., p. 139. — Hesse,
H. D., Band II, p. 23. — Fischer, loc. cit., p. 41.
Il T. macrosporum, che finora rinvenni abbastanza comune in Piemonte, nel-
l'Emilia, nella Lombardia, nella Romagna, nel Veneto, nella Toscana e nelle Marche,
è rappresentato nella collezione Cesati da due esemplari, i quali però non portano
indicazioni di località. L'Erbario Caldesi ne possiede tre dei dintorni di Faenza. Il
T. macrosporum fu da Passerini pubblicato nell' anno 1868 al N. 195 dell' Erbario
Crittogamico italiano, Serie II.
Tuber brumale Vitt.
Tuber brumale Viti, il. T.. p. 37. — Tilasne. F. H., p. 135 (V. Bibliografia). — Hesse,
loc. cit., Band II, p. 7. — Fischer, loc. cit., p. 42.
Un solo individuo raccolto nel marzo 1873 da L. Caldesi sulle colline di Faenza
è rappresentato nella collezione Beccari. Parecchi esemplari di Piemonte si notano
in quelle di Cesati e di Caldesi e molti altri si conservano nell'Erbario Saccardo. Il
T. brumale, specie prettamente invernale, è comune in Piemonte, in Lombardia, nel
Veneto, nel Trentino , in Liguria , nell' Emilia, nelle Marche , nella Romagna , nella
(1) Berkeley et Broome, " Annals of Nat. History „, voi. VII, p. 183.
342 ORESTE MATTIROLO 12
Toscana e nell' Umbria. Esso non solo abita il piano , ma si incontra pure nelle
regioni montuose e non fa difetto anche nelle regioni alpine (Alpi Cozie); però ivi
non si incontra nelle elevate altitudini, ma nei boschi che tappezzano lateralmente le
grandi vallate, e che si svolgono sopra terreno essenzialmente calcareo. Il T. brunitili
è ovunque in Italia ritenuto edule, ma, a ragione, vi è poco pregiato.
Dal Beccaei, negli anni 1897 e 1901 ricevetti alcuni esemplari di T. brumale
raccolti in ottobre e sul principio di novembre nella sua villa di Bagno a Ripoli
presso Firenze, sotto a piante di nocciuolo. Detti esemplari di color rosso-ferrugineo,
con verruche assai più piccole di quelle normali, mi parvero rappresentanti di una
specie nuova, e non mi riuscì che più tardi di identificarli col T. brumale, quando
venni a conoscenza di una osservazione del Tulasne (1) il quale accenna di aver
raccolto nelle colline calcaree del dipartimento dell' Ardèche , esemplari giovani di
T. brumale, che gli indigeni indicavano col nome di rougeottes, i caratteri dei quali
collimano perfettamente con quelli degli individui raccolti dal Beccaki. Devo aggiun-
gere poi, che anche recentemente alcuni esemplari immaturi identici a quelli raccolti
dal Beccari, vennero da me scavati nel mese di gennaio del corrente anno nelle
colline dell'anfiteatro morenico di Rivoli presso Torino, in territorio di Trana.
Tuber melanosporum Vitt.
Tuber melanosporum Vitt., M. T., p. 36. — Tulasne, F. H., p. 136. — Hesse, loc. cit.,
p. 9, voi. IL — Fischer, loc. cit., pag. 43 sub. Tuber brumale Vitt. B melanosporum.
Di questa profumata Tuberacea che incontrasi in Italia : in Piemonte , nella
Liguria (2), nel Veneto, nel Trentino, nell'Emilia, in Romagna, nelle Marche, in
Toscana, nell'Umbria, alcuni esemplari di origine piemontese, furono determinati fra i
materiali della raccolta Cesati (inverno dell'anno 1854).
Tuber rapaeodorum Tul.
Tuber rapaeodorum Tul., " Ann. Se. Naturelles ,, 2e serie, tom. XIX, 1843, pag. 380. —
Tulasne, F. H., 1851, p. 147, tab. V, fig. IV et tab. XVIII, fig. 1. - Hesse, H. D.,
p. 28, tav. XVI, fig. 18.
Questo Tartufo da me trovato nel maggio del 1898 sotto i Lecci nel giardino di
Boboli a Firenze; che già indicai nell'Elenco delle Tuberacee di Vallombrosa, fu rac-
colto dal Beccari nell'anno 1862 nelle località seguenti:
Ottobre 1862 — Macchie di Castagnolo presso Pisa.
„ „ — Selva Pisana
Autunno 1862 — ,
(1) Tulasne, Fungi Hypogaei, p. 135, Obs.
(2) A Rocca di Perti presso Finalborgo nel gennaio del 1858, Fossati raccolse pure questa specie
che distribuì al N. 45 dell'Erbario Crittogamico italiano.
13 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 343
Tuber Borchii Vitt.
Tuber Borchii Vitt., M. T., p. 44. — TWsne, F. H., p. 145. — Hesse, loc. cit., p. 24. —
Fischer, loc. cit., p. 46.
Di questa specie , propria anche alla regione insulare d' Italia (v. Mattirolo,
loc. cit., pag. 20), esistono nella raccolta Beccari alcuni campioni in cattive condizioni
di conservazione, raccolti (da quanto si può arguire da cartellini non stati fissati) in
Toscana; nonché altri (ben conservati) provenienti dalla Romagna (colli di Faenza,
nel gennaio dell'anno 1873), ivi raccolti da Caldesi. Gli esemplari di Toscana
parrebbero provenienti nella Selva Pisana (?). Del resto è questa specie primaverile
comunissima in Piemonte, in Toscana, nell'Emilia, in Lombardia, nelle Marche, in
Romagna, nell'Umbria, ecc., e non manca anche nelle valli alpine (Cellio in Valsesia,
secondo esemplari comunicatimi dall'Abate A. Cabestia). Anche nella raccolta Cesati
si conservano individui di T. Borchii fatti essiccare nel 1848 nel mese di marzo
nell'oltre-Po pavese; e 13 individui sezionati osservansi pure nella collezione Caldesi,
tutti provenienti dalla Romagna (Faenza e Castelbolognese) (gennaio, marzo) negli
anni 1874-75. Nell'Erbario Saccardo osservai gli esemplari pubblicati dal Cavara e
dal Bizzozero.
Tuber dryophilum Tul.
Tuber dryophilum Tul., * Giornale Bot. Italiano „, loc. cit., pag. 7 (Estratto), 1844; F. H.,
p. 147, tab. V, fig. Ili e tab. XIX, fig. Vili. — Schrotek, Kryptogamen Flora voti
Schlesien, III voi. Breslau, 1893, p. 195 (pr. parte). — Hesse, H. D., p. 25, voi. IL —
Fischer, Tub., loc. cit., p. 51.
Alcuni saggi di questa Tuberacea, già molte volte da me osservata in Piemonte
e nella Toscana, furono raccolti sotto i pioppi nella Villa Beccari in Firenze il
1° luglio 1902 e dal Beccari gentilmente favoritimi unitamente ad altro materiale
della stessa specie da lui raccolto pure in detta località nel marzo 1898.
Il T. dryophilum fu da me pubblicato nell'anno 1887 per il Piemonte (v. " Mal-
pighia „, anno II, 1888-89, pag. 124).
Tuber Magnatum Pico.
Tuber Magnatum Pico, Vittadini, M. T., p. 42, tav. I, fig. IV et tab. II, fig. IX (V. ivi
antica bibliografia). — Tulasne, F. H., p. 150. — Fischer, loc. cit., p. 52.
Di questo ipogeo, comune in Piemonte, nell'Emilia, nella Romagna, nella Toscana,
nelle Marche e nell'Umbria, la collezione Beccari contiene un esemplare raccolto dal
Caldesi a Faenza nel novembre 1863 ed un altro dal Beccari nella primavera del-
l'anno 1859 negli orti del Collegio di Lucca. L'indicazione di data è assai curiosa,
poiché in generale, mentre il T. Magnatum matura nell'autunno e nell'inverno, compa-
rendo immaturo e inodoro già nell'agosto, per quanto io mi sappia, non si trova più,
oltre il gennaio. Nell'agosto e nel settembre incontrai anche in Toscana questa specie,
ma casualmente, ed è ivi allora immatura ed inodora come in Piemonte. Una sola
344 ORESTE MATTIROLO 14
volta in provincia di Torino a Gassino (30 luglio 1894) raccolsi esemplari, giova-
nissimi, non ancora sporificati, ricchissimi di glicogeno (1).
Caldesi pubblicò nel N. 880 dei Fungi Europaei di Eabenhorst il Tuber Magnatum
dei contorni di Faenza (novembre 1864) (Herb. Cesati). — Molti altri individui rac-
colti dal Caldesi, dal Cesati e dal Malinverni determinai ancora nell'Erbario Caldesi,
provenienti, al solito, dai dintorni di Faenza ed ivi raccolti negli anni 1863-64-73-74;
e alcuni anche trovai nell'Erbario Saccardo.
Tuber excavatum Vitt.
Tuber excavatum Vitt., M. T., p. 49, tab. I, fig. VII. — Tulasne, F. H., p. 144. — Hesse,
//. D. — Fischer, in " Rabenliorst „, loc. cit., p. 55.
Un solo esemplare proveniente da Lazzisi sul Lago di Garda trovai nella collezione
Cesati. Il T. excavatum (colle sue varietà) è ipogeo assai comune in tutta l' Italia
continentale, ma non nelle isole: nel Piemonte cioè, nel Veneto, nella Lombardia,
nell'Emilia, nella Toscana, nelle Marche, nella Campania, ecc.
Tuber rufum Pico.
Tuber rufum Pico, Melethemata inauguratici de Fungorum generatione et propagatione. Aug.
Tarn-., 1788, con 2 tav. col., pag. 80. — Vittadini, M. T., 1831, p. 48, tab. I, fig. I.
— Tulasne, F. H., 1851, p. 141 (ivi bibliografia). — Hesse, H. J>., 1894, p. 11. —
Fischer, in " Rab. Crypt. Flora „, pag. 57.
Questa Tuberacea nota oramai, si può dire, di tutta Italia e anche delle isole (2);
che Vittadini, vorrebbe riconoscere già ricordata dalle parole enigmatiche che allu-
dono al Tuba-uni tertium genus di Mattioli (3), è rappresentata nella collezione Bec-
cavi da un unico individuo raccolto da Ludovico Caldesi nel gennaio 1873 nelle
colline di Faenza.
La raccolta Cesati contiene pure, senza indicazione di epoca, un individuo di
questa specie trovato a Biella. L'Abate Carestia raccolse e mi trasmise il 1° di-
cembre 1895 questo ipogeo da Cellio in Valle Sesia. N. 10 esemplari (1872-75)
(1) Una statistica, tolta dal registro riguardante il T. Magnatum, dimostra che io, sopra 100 volte,
raccolsi detta specie 1 volta sola in luglio; 4 volte in agosto; 5 in settembre; 17 in ottobre; 30 in
novembre; 31 in dicembre e 12 in gennaio.
(2) Nei miei registri trovo il T. rufum raccolto in : Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia,
Toscana, Romagna, Marche, Campania, Sicilia e Sardegna.
(3) Ecco le parole testuali del Mattioli [Edizione di V. Valgrisi , Venezia, 1565, testo latino]
nelle quali il Vittadini vorrebbe trovare indicato il T. rufum : " Est et tertium genus in Ananiensi
et Tridentino tractu proveniens laevi corticc, colore subrufo, caeteris longe minus , insipidimi et gitslu
iniucundo „. — Queste parole nel testo italiano [Venezia, 1581, Eredi di Vincenzo Valgrisi] sono
così tradotte: " Trovatisi nella Valle Anania della giuridittione di Trento di quelli (Tartufi) che oltre
all'esser piccioli, hanno la scorza liscia et pallida, sciapiti et poco aggradevoli al gusto ,.. — Ora, io
reputo, che trattando il Mattioli di specie eduli, voglia alludere al T. excavatum di Vittadini e alle
sue varietà comuni nel Trentino (olivacee e subrufe, mai rufe), che ancora si mangiano in Lombardia
(Canton Ticino e monti del Lago di Como) dove si conoscono sotto il nome di " Tartufi bianchi .,
( Trifui bianch), che sono poco pregiate.
15 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 315
dei dintorni di Faenza, figurano nell'Erbario Caldesi, tutti scavati nei mesi di dicembre
e gennaio ; ed un esemplare proveniente da Conegliano (veneto) si trova nell'Erbario
Saccardo.
Tuber nitidum Vitt.
Tuber nitidum Viti, M. T., p. 48, tab. II, fig. X. — Tulasne, F. H., p. 142. — Hesse, H.D.,
p. 12, voi. II, tab. XVI, f. 4. — Mattirolo, Gli Ipogei di Sardegna e di Sicilia, p. 29,
loc. cit.
Due esemplari (in gran parte rovinati), figurano nella collezione Caldesi, l'uno
proveniente dai dintorni di Forlì, l'altro da quelli di Faenza (gennaio 1875). Intorno
a questa specie, che va ritenuta sinonima dell' Oogaster Venturii di Corda {Tuber
Vmturii, menzionato da Tulasne, F. H., p. 151, fra le specie " nondum descriptae ,)
e al suo valore sistematico mi sono già espresso nel lavoro sopracitato.
Bafsamia Vitt.
Balsamia vulgaris Vitt.
Balsamia vulgaris Vitt., ,1/. T., p. 30. — Tulasne, F. H., p. 123. — Hesse, H. D., Band II,
p. 35. — Fischer, loc. cit., p. 63.
Questo ipogeo veramente volgare in Italia ; dove occorre, secondo le mie ricerche,
ovvio, in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, nell'Emilia, nella Romagna, in To-
scana, nelle Marche, in Sicilia, ecc., è rappresentato da un solo frustulo di esemplare
nella raccolta Beccari, trovato da L. Caldesi, nell'inverno dell'anno 1872-73 presso
Casola in Val di Sennip. La B. vulgaris, che conta fra le specie eduli più vili a ca-
gione del suo intenso odore nauseabondo, è rappresentata poi da ben 25 esemplari
nella collezione Caldesi, provenienti: N. 20 dai dintorni di Faenza (località diverse),
gli altri da Forlì e da Castelbolognese; esemplari tutti stati raccolti negli anni
1872-73-75. Nell'Erbario Saccardo trovai, oltre ai tipi autoptici classici, individui
provenienti da Ascoli Piceno, ivi raccolti dal Mascarini.
GhOÌromyceS Yittaclini.
Choiromyces meandriformis Vitt.
Choiromyces meandriformis Vitt,, Vittadini, M. T., 1831, p. 51, tab. II, fig. 1. — Tulasne,
F. H., 1851, p. 170, tab. XIX, fig. 7. — Zobel, in " Corda Icon. Fung. „, voi. VI,
1854, p. 68. - Hesse, H. D., Bd. II, 1894, p. 37, tab. XII, fig. 22 e tab. XVI, fig. 22.
— Fischer, Tuberaceen und Hemiasceen, in " Rabenhorst Kryptog. Flora „, p. 68, 74.
Per la sinonimia di questa specie vedi Mattirolo, Sid valore sistematico del
" Choiromyces meandriformis „ Vitt. e del " Ch. meandriformis „ Vitt. " Malpighia „,
anno VI, 1892.
Alcuni esemplari raccolti nel Trentino da Beesadola si conservano nell'Erbario
Saccardo. Il Choiromyces meandriformis, specie relativamente comune in Piemonte, in
Lombardia, nell'Emilia, nella Toscana, è da ritenersi velenoso.
Serie II. Tom. LUI. s1
346 ORESTE MATTIROLO 16
Terfezia Tulasne.
Terfezia Leonis Tul.
(Vedi la Bibliografia relativa, nei lavori di Tulasne, di Chatin e in quello recente di Pirotta
e Baldini (1)).
Nell'Erbario Caldesi si trovano gli esemplari N. 242 e 91 dell'Erbario Crittoga-
mico italiano, raccolti rispettivamente da Inzenga e da Gennari; nonché l'etichetta
errata del N. 241 dei Fungi Europaei di Rabenhorst, di cui ho trattato in altro
lavoro; mentre nella collezione Saccardo esistono esemplari raccolti da Bagnis a Civi-
tavecchia nell'anno 1875.
Terfezia Magnusii Matt.
(Vedi Mattirolo, Illustrazione di tre nuove Tuberacee, " Meni, della K. Acc. delle Scienze di
Torino „, 1887, e " Bollettino della Soc. Bot. Italiana „, 1896. Firenze (2)).
Di questa specie, sotto il nome errato di Choìromyces meanolriformis Sardous, esiste
nella collezione Caldesi l'esemplare N. 185 dell'Erbario Crittogamico italiano pubblicato
dal Gennari nel 1864.
Delastria Tulasne.
Delastria rosea Tul.
Delastria rosea Tul., F. H., p. 178, tab. Vili, fig. I et tab. XVI, fig. 1. — Corda, Icones
fung., voi. VI (curante Zobel), tab. XX, fig. 145, p. 67. — 0. Mattirolo, La Delastria
rosea Tul. in Italia, " Bollettino della Società Botanica Italiana „, 14 giugno 1896.
Numerosi esemplari di questa specie, molti dei quali rovinati dagli insetti, si
trovano nella collezione Beccari. Essi furono trovati nella stessa località nella quale
Pietro Savi ed Odoardo Beccari raccolsero nell'ottobre 1862 gli individui pubblicati
nell'Erbario Crittogamico italiano, Serie II, N. 346.
Per ordine di data i cartellini dei 5 cartocci segnano:
I. Selva Pisana in S. Rossore. Ottobre 1862.
II. „ „ in Palazzetto, sui tomboli arenosi. 9 ottobre 1862 (3).
III. „ „ Autunno 1862.
IV. , „ in S. Rossore. Ottobre 1862.
V. „ „ Autunno 1863.
(1) R. Pirotta e A. Albini, Osservazioni .sulla biologia del Tartufo giallo {Terfezia Leonis Tul.),
" Rendiconti Accademia dei Lincei „, voi. IX, 1° sem., serie 5, fase. I, gennaio 1900.
(2) 0. Mattirolo, Che cosa sia il " Choiromyces meandriformis „ (Sardous) di Gennari e De Notaris,
pubblicato nel!" Erbario Crittogamico Italiano „ al N. 185 (1185), anno 1864.
(3) Avverto il lettore a cui interessassero ragguagli intorno alla località precisa (Viale del Gombo
a S. Rossore), dove certo ancora si potrebbe raccogliere questo raro ed elegante ipogeo, di leggere
la mia nota. Gli esemplari raccolti da Pietro Savi e comunicati all'" Erbario Crittogamico „, portano
la data 1867; mentre quelli che di lui si conservano nel R. Orto botanico di Pisa (come ho saputo per
gentile comunicazione del Prof. Arcangeli) segnano il 22 ott. 1862 come data di raccolta. Il Beccari
invece scrive 9 ottobre; da ciò mi pare lecito arguire che il merito della scoperta della Delastria
in Italia spetti al Beccari.
17 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 347
Elaphomyces Nees v. Es.
Elaphomyces mutabilis Vitt.
Elaphomyces mutabilis Vitt., M. T., p. 65, tab. IV, fig. 14; Mori. Lycoperd., " Meni, della
E. Acc. delle Scienze „, serie 2*, tom. V, 1843, p. 213. — Tulasne, F. H. , p. 103,
tab. Ili, fig. I; tab. XIX, fig. III. — Hesse, H. D., voi. II, p. 65. — Fischer, loc.
cih, p. 84.
li Elaphomyces mutabilis (che io trovai abbondante in Piemonte, in Lombardia,
che incontrai pure in Toscana), è, nel solo Erbario Saccardo, rappresentato da alcuni
autoptici di Spegazzini già pubblicati nelle Decades Mycologicae Italicae al N. 6.
Elaphomyces citrinus Vitt.
Elaphomyces citrinus Vitt., M. T. , p. 65, tav. IV, fig. 16; Monog. Lycop., p. 214. —
Tulasne, F. H., p. 103. — Spegazzini, Decades, n. 5. — Fischer, in " Rabenhorst
Kiypt. Fior. „, p. 85-86. — Saccardo, Bytlog., Vili, p. 864.
L'Erbario Saccardo contiene gli autoptici di Vittadini e di Spegazzini già pub-
blicati nei lavori sopracitati.
Elaphomyces anthracinus Vitt.
Elaphomyces anthracinus Vitt., M. T., p. 66, tav. Ili, fig. Vili; Monograph. Lycoperd.,
p. 72. — Tulasne, F. H., p. 106. — Fischer, loc. cit., p. 89.
Il cartellino accompagnante i frustuli di un esemplare contenuto nella Collezione
Beccavi, lo dice raccolto a Riva Valdobbia nell'anno 1865, sulla terra, in una selva,
dall'Abate Carestia. Lo stato veramente deplorevole dell'esemplare mi ha obbligato
a fare la determinazione avendo riguardo, quasi unicamente, ai caratteri morfologici e
metrici delle spore, che risultarono perfettamente identiche a quelle degli esemplari
autoptici di Vittadini. Nell'Erbario Saccardo invece si conservano i tipi di Spegazzini
pubblicati al N. 4 delle Decades, e ricordati sulla Michelia, IV, p. 416.
Elaphomyces variegatus Vitt.
Elaphomyces variegatus Vitt., M. T., p. 68; Mon. Lycop., p. 220. — Tulasne, F. H., p. 108
et " Annal. Scienc. Nat. „, 1841, p. 23. — Hesse, H. D., Band II, p. 72. — Fischer,
loc. cit., p. 91.
La raccolta Beccavi non contiene altro che un esemplare dimezzato di questo
ipogeo, ovvio in Piemonte, Lombardia, nel Veneto, nel Trentino, nell'Emilia, in To-
scana. Questa metà di esemplare con corteccia di colore ocraceo, con verruche poco
sviluppate, concorda colla forma " pallens „ di Tulasne (V. IV, p. 108).
Nell'Erbario Cesati figura un esemplare raccolto in Oropa il 17 maggio 1865 ;
mentre nella collezione Saccardo, esistono numerosi individui raccolti da Spegazzini,
da Massalongo, da Bizzozero e già da loro pubblicati.
348 e IRESTE MATTIROLO 18
Elaphomyces decipiens Vitt.
Elaphomyces decipiens Vitt., M. T., p. 68; Monog. Lycop., p. 75, tab. Ili, fig. IV. — Tulasne,
F. H., p. 108. — Sacoardo, Michetta, TV, p. 416. — Spegazzini, Decades, N. 3. —
Fischer, in " Rabenhorst „, ecc., p. 93.
L'Erbario Saccardo, oltre agli autoptici di Vittadini e di Spegazzini, contiene
anche quelli di Bizzozero. L'È. decipiens, forma assai curiosa, sul valore sistema-
tico della quale non è detta ancora l'ultima parola, risultò finora propria dell'Italia
settentrionale (Lombardia- Veneto), della Francia e della Boemia (Vittadini, Spegaz-
ztni, Bizzozero, Tulasne e Corda).
Elaphomyces Persoonii Vitt.
Elaphomyces Persoonii Vitt., M. T. Milano, 1831, p. 70, tav. IV, fig. XVIII e tav. V, fig. II;
Monographia Lycoperdineorum , Aug. Taurinoram, 1842, " Mem. Acc. delle Scienze di
Torino „ serie II, tom. V, p. 79 (Estratto). — Tclasne, F. H., p. 112. — P. A. Sac-
cardo, Michelia, IV, p. 417. — Spegazzini, Decades Mycol. Hai., N. 2. — Bizzozero,
Fior. Veti. Critt., p. 362. — E. Fischer, in * Rabenhorst Krypt. Fior. „, Tuberaceen
und Hemiascee». Leipzig, V Abth., 1897, p. 99. — P. A. Sacoardo, SyUoge, voi. Vili,
pag. 870.
Di questo elegante Elaphomyces, che si può ritenere caratteristico della Flora
idnologica italiana, alcuni esemplari ancor giovani, raccolti sul Monte Pisano a Vico-
pelago, nell'autunno del 1863, si osservano nella collezione Beccari. L'È. Persoonii,
che io raccolsi in migliaia di esemplari nei boschi di quercia e di castagno dell'alta
Lombardia (intinti del lago di Como e di Varese), nei boschi dell' Apennino Toscano;
che fu trovata da Spegazzini, da Bizzozero, da Cuboni nel Veneto (V. Erbario di
P. A. Saccardo) e altrove, ci presenta, per un caso singolare, uno strano errore di
sinonimia che, copiato successivamente, rimase per oltre mezzo secolo nella scienza e
nei libri che si occupano di Ipogei, e nel quale incorsi io pure (Elenco degli Ipogei
di Vallombrosa, p. 14).
La storia di questo errore è. brevemente riassunta, la seguente: L. R. Tulasne
nell'anno 1853 (Editio altera) trattando (V. F. H., p. 112) dello E. Persoonii, di cui
egli aveva soltanto veduto esemplari secchi, segnò come sinonima di questa specie
una ipotetica Phlyctospora Persoonii Corda, ap. Sturm, Deutschlands Fiora, 19-20,
p. 21 (1), incorrendo con questa citazione in due errori; poiché:
I. Corda nel libro, citato dal Tulasne, descrisse e figurò un fungo che egli
indicò col nome di Phlyctospora fusca, senza parlare ivi di una P. Persoonii.
IL La descrizione è a p. 51 e non 21. Curioso particolare che è prova evi-
dente dei successivi errori.
(1) Corda si occupa in due lavori del genere Phlyctospora. Nella Flora tedesca di Sturm
1841, ne dà la figura e la descrizione; quindi a pag. 95 dell' Anleituny zum Studium der Mycologie
riferì la frase latina precedentemente pubblicata e sistemò il fungo fra le Sclerodermaceae coi
generi Hyperrhiza, Melanogaster, CeratogaBter, Elaphomyces, Pompholix, Scleroderma, Calostoma, Diplo-
derma, Mylitta e Anixia.
19 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI
349
E ciò che maggiormente stupisce in questa citazione è il fatto che Tulasne
stesso si occupò diffusamente del genere Phlyctospora e della P. fusca (V. F. H.,
pp. 98. 99); facendo rilevare, ciò che poi venne confermato più tardi, che questo ge-
nere doveva avere relazione col genere Scleroderma " Phlyctospora forsan scleroderma
subterraneum foret „.
Dopo il lavoro di Tulasne, senza che venisse dato uno sguardo né agli esem-
plari, ne alla figura di Corda, ne al testo, lo Zobel si impadronì dell'errore e
nel 1854, nel volume VI delle Icones di Corda, edito dopo la morte dell'eminente
micologo (sventuratamente spentosi nell'anno 1849 nelle acque americane) nella
Osservazione II, a p. 52, portò nuova confusione nella questione ; parlando, anche
lui, dopo il Tulasne, della ipotetica Phlyctospora Persoonii che Corda non aveva mai
sognato di descrivere e di figurare! Lo Zobel, basandosi sul criterio desunto dalle
spore reticolate, ritiene che tanto Y Elaphomices Persoonii di Vitt. quanto YE. cianosporus
Tulasne, debbano far parte del genere Phlyctospora, e ciò gratuitamente, discutendo
senza aver mai osservato i detti funghi! Tanto è vero, che al Corda non era venuto
in mente che il genere Phlyctospora potesse essere confuso col genere Elaphomycesl
Più tardi si occuparono del genere Phlyctospora: Rabenhorst (1) che lo classi-
ficò fra i Trichogastres (2) di Fries. Tulasne (3) che lo annoverò fra gli Hymeno-
gastrei, come fecero Winter (4) e Saccardo (5). Gunther Beck (6) che in uno studio
interessantissimo sul modo di formazione delle spore, ne dimostrò le relazioni coi
Melanogastrei fra gli Eymeuoyastrei. Fischer E. (7) che ne curò la sistemazione fra
le Sclerodermataceae(Plectobasidiineae), facendone un sottogenere del gen. Scleroderma;
e finalmente F. Bucholtz (8) che parimenti classifica le due specie ben note del ge-
nere Phlyctospora nel genere Scleroderma di Pers. nell'antica divisione degli Sclero-
derma di Fries, fra i quali egli comprende pure i generi Melanogaster, Corditubera,
Scleroderma, Pompholyx, Pisolithus e Sclerangium.
Da questa breve inchiesta, risulta adunque provato: I. Che il genere Phlyctospora
(ora Scleroderma p. p.) fu fondato da Corda e da lui giustamente classificato in vici-
nanza del genere Scleroderma; IL Che Tulasne (non si può saper per quale ragione!),
inventò (con citazione errata) una Phlyctospora Persoonii Corda, e che la sua citazione,
gonfiata da Zobel, fu copiata tale e quale, da E. Fischer (9), da Saccardo (10)
(1) Rabenhorst, Deutschland Kryptog. Flora, I, s. 296 (1846).
(2) E. Fries, Syst. Mycolog., 1829, voi. Ili, p. 3.
(3) Tulasne, Fungi Hipogaei, p. 98, 99.
(4) Winter- Rabenhorst, Krypt. Flora, II ediz., 1884. — Winter, Die Pilze, voi. I, p. 884, classifica
il genere Phlyctospora fra i generi dubbiosi degli Hymenogastrei, e riferisce la figura di Corda.
(5) P. A. Saccardo, Sylloge, voi. VII, pag. 179. Il genere Phlyctospora figura quivi fra i " Genera
minus nota „ delle Hymenogastree.
(6) G. Beck, Ueber die Sporenbildung der Gattung Phlyctospora Corda, " Berichte d. Deut. Bot.
Gesell. „, 1889, p. 212.
(7) E. Fischer in Engler e Prantl. Pflanzenfamilien, 1897, p. 336.
(8) F. Bucholtz, Beitrage zar Morphologie und Systematik der Hypogaeen. Praga, 1902, p. 173,
ricorda le due specie di Phlyctospora fusca Corda e di P. Magni Ducis di Sorokin, nel genere
Scleroderma, senza entrare in questioni minute di sinonimia.
(9) E. Fischer in " Rabenhorst Kryptog. Flora „, II, Die Filze, "V. Abt. Tuberaceen und Hemiasceen,
pag. 99.
(10) P. A. Saccardo, Sylloge fungorum, voi. Vili. Tuberoidee = auct. J. Paoletti, p. 870.
350 ORESTE MATTIROLO 20
(Paoletti) e purtroppo anche da me (1); ragione per cui ora ho creduto dover fare
questa rettifica, perchè l'errore non rimanga nei cataloghi e nelle Flore.
Nello studio dell'i?. Persoonii va tenuto presente che gli individui singoli, pure
conservando le caratteristiche proprie del tipo, possono tra loro variare nel colore
del Peridio pseudoparenchimatoso, che a seconda dell'età va dal bianco dei giovani
individui (parte interna), al bruno scuro di quelli perfettamente maturi, prossimi
cioè a disgregarsi. La massa delle spore varia essa pure di colore collo stato di matu-
razione; di color glauco nei giovani, è verde scuro negli individui maturi; carnosa
nei primi è pulverulenta nei secondi.
La grossezza e la regolarità delle verruche (in certi individui identiche a quelle
dei Tuber (T. brumale, tnelanosporum ad es.), varia essa pure; imperocché queste ver-
ruche alcune volte e per estesi tratti cedono il posto a superficie tubercolose o a
superficie liscie. Varia anche assai notevolmente la forma complessiva dei singoli
individui e la grossezza; alcuni si presentano piriformi, altri lenticolari, altri sferoi-
dali, altri infine bilobi o differentemente formati; variabile è pure la base general-
mente conica e i tratti occupati dal caratteristico micelio giallo che decorre rego-
larmente fra le verruche.
L'È. Persoonii di Vittadini, a spore con perinio reticolato, quale è magistralmente
descritto dall'Autore, risulta specie essenzialmente italiana — ed io continuerò a ri-
tenerla tale, sino a quando la citazione, di E. Fries nella Stimma vegetabilium Scafi-
lii mirine (1846-49, p. 445) (2), venga confermata — parendomi un fatto assai strano,
che un fungo noto finora di paese relativamente meridionale, si debba anche trovare
nell'ambito di una alta ree/ione boreale limitata, mancando in tutto l'immenso tratto
di paese che corre tra l'una e l'altra regione; dove (trattandosi di un fungo di dimen-
sioni vistose) non avrebbe potuto sfuggire alle ricerche degli Idnologi.
HYMENOGASTREAE
Hymenogaster Vitt.
Hymenogaster luteus Vitt.
Hymenogaster luteus Vitt., M. T., p. 22, tav. Ili, fig. IX. — Ti-lasxe, F. H., tab. I, fig. III.
— Corda, le. Fung., p. 40, tav. VIII, fig. 76. — Hesse, B. D., tab. VII, fig. 41 e
pag. 130, voi. I. — Winter, in " Rabenhorst Krypt. Fior. ,, p. 875, voi. I.
N. 18 esemplari di questa specie distinta per la tessitura del Peridio, per il
color della carne e per il tipo delle spore (ellittiche, oblunghe, ottuse od acute, prive
di papilla, provviste di un tenue residuo di stilo, liscie, trasparenti, di color giallo
pallido) figurano nell'Erbario Caldesi. Di esse N. 16 furono trovate in località vicine
alla città di Faenza (Sarna, S. Giorgio, Scavignano, Pergola, Guaiola, Errano, ecc.) ;
(1)0. Mattirolo, Elenco dei "Fungi Hijpogaci „ raccolti nelle foreste di VaUùnibrosa negli
anni 1S99-900 (estratto, p. 14).
(2) Ivi è semplicemente (.letto: " E. Persomi Vitt., 1. Seau. „.
21 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 351
e due a Castelbolognese e a Montecchio. presso Brisighella. Questa specie che Vit-
tadini trovò in Lombardia e nella Lomellina, fu da me già ripetutamente raccolta
anche nell'Emilia, in Toscana ed in Romagna.
Hymenogaster Bulliardi Vitt.
Hymenogaster Bulliardi Vitt., M. T., p. 23, tab. Ili, fig. V. — Ti lasse, ' Ann. Sciences
Naturelles „, tom. XIX, 2' sèrie, fig. 14-16; F. H., p. 71. — Hbssb, H. D., p. 120,
voi. I. — Witter, in " Eabenhorst ,, voi. I, p. 876.
L'Rym. Bulliardi Vitt., che io già raccolsi in Piemonte e nella Toscana, figura
in due esemplari dell'Erbario Caldesi; l'uno raccolto il 17 gennaio 1875 a Scavignano
presso Faenza; l'altro due giorni dopo a Castelbolognese. Gli esemplari di Caldesi
corrispondono perfettamente agli autoptici di Tulasne.
Hymenogaster calosporus Tul.
Hymenogaster calosporus Tul, F. H., p. 70, tab. X, fig. IV. — Hbsse, H. D., voi. I, p. 129,
tav. VII, fig. 34.
Di questa Hymenogastrea sinora nota di Francia e di Germania, un solo esem-
plare fu trovato da 0. Beccari a Ripoli nell'aprile 1898, e da lui gentilmente comu-
nicatomi. La forma delle spore, la tessitura del Peridio, ecc., corrispondono perfet-
tamente a quella degli esemplari autoptici Tulasneani, coi quali ebbi la ventura di
poter fare dei paragoni. Anche nell'Erbario Caldesi osservai un Hymenogaster raccolto
a Campiano presso Faenza il 9 gennaio 1875, che pur avendo molte analogie con
quello ora ricordato, ne differisce per riguardo alla struttura delle spore, più lunghe,
più strette.
Hymenogaster Klotzschii Tul.
Hymenogaster Klotzschii Tul., F. H., p. 64, tab. X, fig. XII. — Hesse, H. D., voi. I,
p. 123, tav. II, fig. 10-13; tav. VII, fig. 48. — Exicc. " Rabenborst „ , Fungi Europaei,
N. 242. — Schkòter, Filze Schlesiens, N. 1679.
Questo Hymenogaster distinto fra gli altri per la piccolezza delle spore (10-14x6-9),
trasparenti, ocracee, ovali, finamente bitorzolute, ad apice ottuso, generalmente prive
di un qualsiasi accenno ad un ispessimento papillare, e nelle quali è appena appena
riconoscibile l'attacco stilare, è rappresentato nella collezione Caldesi da un solo indi-
viduo raccolto il 26 gennaio 1875 a Celle presso Faenza.
Noto che YHym. Klotzschii ha un' area di distribuzione vastissima, come si os-
serva in genere in tutti gli Imenogastrei e nelle Tuberacee, abbracciante l'Europa,
Francia (Tulasne), Germania (Hesse-Klotzsch), Svezia (Fries), Inghilterra (Berkeley),
Italia (Mattirolo), Australia occidentale (V. Saccaedo, Silloge, VII, p. 170). In Italia
trovai già questa specie in Toscana e nella Sicilia (V. Mattirolo, loc. cit.).
352 ORESTE MATTIROLO
22
Hymenogaster muticus Berk.
Hymenogaster muticus Berk. et Broome, " Annal. and Magaz. of Nat. History „, serie II,
voi. II, p. 267 (ott. 1848). — Tulasne, F. H., p. 65, tab. X, fig. VII. — Hesse, H. D.,
voi. I, p. 118.
Nella raccolta Beccavi, trovansi due individui di questa specie provenienti dalla
Selva Pisana (Sotto i Lecci, ottobre 1862 e 1863); ed un altro mi fu pure comu-
nicato dal Beccari, raccolto a Ripoli (Villa Beccari) nell'aprile 1898.
L'Erbario Caldesi è ricco di N. 10 individui, tutti provenienti dai dintorni di
Faenza, Castelbolognese, Brisigbella, Sarna.
L'area di distribuzione di questa specie in Italia deve essere ritenuta assai
vasta ; mentre io l'aveva finora indicata della Sicilia e della Toscana, posso regi-
strare ora la sua presenza anche in Piemonte, nella Romagna e nell'Emilia. Le
spore obovate oblunghe, prive di papilla, misuranti 18-23X10-13, distinguono questa
specie.
Hymenogaster Lycoperdineus Vitt.
Hymenogaster Lycoperdineus Vitt., M. T., p. 22, tab. II, fig. V. — Tulasne, F. H., tab. X,
fig. V e pag. 64.
Di questa specie, distinta per la forma e le dimensioni delle spore, trovai N. 9
esemplari nell" Erbario Caldesi, tutti raccolti in differenti località nei dintorni di
Faenza, nel gennaio e nel febbraio del 1875. A Bologna e a Firenze, e quivi anche
nell'Orto botanico dei Semplici a S. Marco, avevo già incontrato questo fungo che
Vittadini dice abbondante nei colli e nei monti transpadani, dove vive unitamente
al Tuber Borchii, col quale, per i caratteri esterni, potrebbe essere confuso.
Questo ipogeo, secondo le indicazioni della Sylloge, sarebbe stato trovato anche
in Francia e nella Fennia.
Lo Splanchnomyces lycoperdineus di Corda (le, voi. VI, p. 42, tav. Vili, fig. 81)
non pare, a giudicare dalla descrizione e dalle figure, possa essere ritenuto sinonimo
della specie vittadiniana.
Hymenogaster Populetorum Tul.
Hymenogaster Populetorum Tul., " Ann. Se. Naturelles », 2" sèrie, tom. XIX; F. H., p. 66,
tav. X, fig. X. — Hesse, H. D., voi. I, p. 119.
Di questo Hymenogaster, la cui determinazione riesce difficilissima sul materiale
secco, incontrai tre soli esemplari nella collezione Caldesi, raccolti in Romagna nel
gennaio e nel febbraio del 1875 (dintorni di Faenza e di Castelbolognese). La deter-
minazione fu decisa dietro a paragoni cogli esemplari autoptici di Tulasne. Trat-
tandosi di una specie appartenente ad un gruppo estremamente critico, ed operando
io sopra materiale secco, ho dovuto ricorrere a questo mezzo di determinazione,
l'unico che, in tanta confusione di descrizioni, permetta di intuire il pensiero ed i
criteri diagnostici del Tulasne.
23 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI
L'H. populetorum, che vive in Francia ed in Germania (dove fu incontrato da
Tulasne e da Hesse), fu già da me ricordato fra le specie componenti la Morula
ipogea dell'Orto botanico fiorentino dei Semplici (V. Mattirolo. Gli Ipogei d
degna e di Sicilia).
Hymenogaster tener Berk.
Hymenogaster tener Berk., " Ann. and Magaz. of Nat. Hystory „, XIII, 349 et XVIII, 75.
Hymenogaster argenteus Tul., " Giornale Botanico Italiano „, anno I, fase. 7-8, p. 55, 1844.
Hymenogaster tener Tul., F. H., p. 72, tab. I, fig. IV; tab. X, fig. I. — Hesse, H. D.,
voi. I, p. 122, tav. VII, fig. 47. — Wintek , in " Rabenhorst Krypt. Flora „, voi. I,
p. 877, N. 2602. — Mattieolo, loc. cit., Ipogei di Sardegna.
Nella raccolta Cesati esiste un solo individuo di questa specie, trovato il 3 di-
cembre 1873 in H. hot. Neapolitano, in Vallecula, sub Ollis.
Non credo errata la determinazione, quantunque essa sia stata fatta su materiale
secco, mancante per conseguenza, dei caratteri cromatici ed organolettici, per ciò
che le spore si presentarono binate, ternate, a contorno ovato ellittico (non obovate
come nel vicinissimo H. arenarius Tul.), asperate da piccoli bitorzoli, attenuate
inferiormente in un piccolo residuo stilare e superiormente in una minuta papilla
diafana, mancante nelle spore dell'IT, arenarius, come ho rilevato sui materiali autoptici
di Beoome e di Tulasne e sopra altri già da me raccolti in Toscana.
L' Hym. tener, noto di Inghilterra, di Francia, di Germania e di California
(Hartkness) ; che fu già da me ricordato fra le specie componenti la Florida degli
Ipogei viventi nell'Orto botanico di Firenze nel centro della città (V. Mattieolo,
loc. cit., Ipogei di Sardegna, pag. 7), fu, a mio avviso, illustrato dal Cavara, sotto
il nome di Hym. cerebellus (1).
Coli' Hym. tener probabilmente dovrà essere confuso YH. niveus di Vittadini. il
quale, da questo e d&ll'Hym. arenarius, come risulta dalle 'descrizioni, differirebbe
solo per caratteri cromatici ed organolettici.
Le spore delle specie arenarius, tener (Cerebellus) esigono, per essere differen-
ziate, un esercizio continuato ed una pratica lunga : queste specie necessitano ancora
di diagnosi più precise.
Hymenogaster niveus Vitt.
Hymenogaster niveus Viti, M. T., p. 24, tab. IV, fig. IX. — Tulasne, F. H., p. 71. —
Hesse, H. D., p. I, p. 121. — Wintek, " Krypt. Flora di Rabenhorst ,, voi. I, p. 876,
N. 2601.
Registro fra le Hijmenogastreae della collezione Beccari anche questa specie, affi-
nissima all'IT, tener Berk., perchè il cartellino dell'esemplare, portando scritto di pugno
del Beccaei Hym. niveus, mi affida che all'acutezza di tanto micologo non saranno
sfuggiti i caratteri diagnostici accennati dal Vittadini, i quali si possono riassu-
(1) F. Cavara, Intorno alla morfologia e bioloffia di una nuora specie di lli/menoffctster, " Atti del
Laboratorio Crittogamico di Pavia „, 1893, voi. III.
Serie II. Tom. LUI. t!
354 ORESTE MATTIROLO 24
mere nell'odore particolare, nel nitore sericeo del peridio (bianco niveo). rufescente al
tatto, e nella mollezza della carne. Hesse assegna alle spore di questo Hymenogastreo
(di cui non mi fu possibile vedere esemplari autoptici) 10-14X9-10; episporio
rugoso, rosso bruno, munito di piccole papille, e di residuo stilare come nell'i?, tener.
Secondo Vittadini YH. niveus odorerebbe di Pelargonium, mentre secondo Tulasne
ed Hesse YH. tener avrebbe odore fungino debole e le vicine specie H. arenarius
odore alliaceo intensissimo (acerrimus); YH. pusillità odorerebbe pochissimo. Tutte e
quattro queste specie hanno peridio bianco, gleba dapprima carnicina poi bruna. Del-
YH. niveus manca qualsiasi figura che accenni ai caratteri morfologici delle spore e
l'indicazione di Vittadini, scritta nel 1851, — sporidia ovata — non è sufficiente a
distinguere questa specie che dovrebbe essere frequente in Lombardia e che io non
riuscii a trovare ancora, quantunque ivi io abbia raccolto YH. tener di Tulasne.
Beccari trovò questo ipogeo nell'ottobre 1862 nella Selva Pisana a Palazzetto,
sotto le foglie delle quercie.
Hymenogaster citrinus Vitt.
Hymenogaster citrinus Vitt., M. T., p. 21, tab. Ili, fig. II. — Tulasne, F. H., p. 69, tab. I,
fig. I; tab. X, fig. Ili; " Annales des Sciences Naturelles „, 2" sèrie, voi. XIX, tab. 17,
fig. 9-io. — Corda, le, tona. V, tab. IX, fig. 87. - Hesse, H. D., voi. I, p. 112,
tav. VII, fig. 29. — Berkeley, " Ann. and Magaz. of Nat. Hystory „ , tom. XIII, 346,
" British Fung. „, fase. IV, 284. — Fries, Sion. Veget. Scand., p. 436. — Winter, in
" Rabenhorst „, voi. I, p. 875, N. 2597. — Exicc. Rabenhorst Fung. Europaei , N. 34.
Di questa elegante specie distinta, sia per il colore giallo citrino del peridio nei
giovani individui, sia per quello della gleba, come anche per le spore limoniformi
papillate. opache, rugose, fornite di una appendice stilare molto spesso ripiegata
(20-30 X 10-14), incontrai due esemplari nella raccolta Caldesi; ambedue provenienti
dalla Komagna (dintorni di Faenza e di Castelbolognese, gennaio dell'anno 1875).
L'Hy. citrinus, che Vittadini notò frequente nei colli e nei monti traspadani, è
specie ubiquitaria. Fu trovato in Italia, in Francia, in Inghilterra, Svezia, Germania
e ancora nell'America boreale (V. Sylloge, VII, pag. 169). In Italia incontrai finora
questo Hymenogastreo in Toscana, in Komagna ed in Sicilia (V. Mattirolo, loc. cit.,
pag. 49).
Hymenogaster vulgaris Tul.
Hymenogaster vulgaris Tul., " Ann. des Se. Naturelles „, serie 2\ tom. XIX, tab. 17, fig. 15
(sub. Hym. griseus Vitt.). ; F. H., p. 67, 68, tab. X, fig. XIII (non Hesse).
Di questo Hymenogaster (che a me pare debba presentare intimi rapporti co\YHy»t.
griseus di Vittadini, del quale, per mancanza di materiale adatto, non ho potuto ancora
avere un concetto preciso) trovai due esemplari nell'Erbario Caldesi, raccolti a Savi-
gnano presso Faenza il 17 gennaio 1875. La forma delle spore, oblunghe, fusiformi,
coll'apice acuto e col residuo stilare allungato, coll'episporio rugoso e intensamente
colorato; le dimensioni loro di 30 circa per 14, e più di tutto i paragoni da me fatti
con esemplari autoptici Tulasneani, mi permettono di segnalare questa specie fra
le specie italiane, quantunque io non abbia potuto ancora osservare altro che mate-
riale essiccato.
25 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 355
Hymenogaster Thwaitesii Berk. et Broome.
Hymenogaster Thwaitesii Berk. et Broome. " Ann. and Magaz. of Nat. History „, voi. XVIII,
p. 75. — Tulasne, F. H., p. 71, tab. X, fig. XI. — Hesse, H. D., p. 125.
Di questo ipogeo, finora osservato in Inghilterra ed in Germania, trovai tre esem-
plari nelle raccolte Beccavi e Caldesi. La forma quasi globosa delle spore (differenti
da tutte quelle delle altre specie), scabre, papillate, ed i paragoni colle figure di
Tulasne, mi autorizzano a ritenere esatta la determinazione fatta su materiale secco.
Lo H. Thwaitesii fu raccolto dal Beccari due volte nell'Orto botanico di Pisa nel
settembre e nell'ottobre 1862 ; dal Caldesi nei dintorni di Faenza, il 12 febbraio 1875.
Octaviania Vittadini.
Octaviania asterosperma Vitt.
Octaviania asterosperma Vitt., M. T., p. 17, tab. Ili, fig. VII. — Tulasne, F. H., p. 77,
tab. XI, fig. 1. — Corda, Icon., VI, p. 35. — Hesse, E. D., p. 72, voi. I.
Di questa Octaviania che io già incontrai in differenti località di Lombardia, del
Canton Ticino e della Toscana, esiste nella collezione Cesati, 1 esemplare da lui stesso
raccolto nell'anno 1845, nel mese di settembre, a Costalunga, località che non mi fu
concesso di specificare, ma che deve essere piemontese, poiché in quell'anno il
Cesati non si scostò dalla provincia di Novara (Vercelli-Biella).
Hydnangium Walroth.
Hydnangium carneum Walr.
Octaviania carnea Corda, Icon., tom. VI, p. 36, tav. VII, fig. 66. — Tulasne, F. H., p. 75.
- Hesse, H. D., p. 82, tav. II, fig. 18 e 19; tav. V, fig. 16.
Questa Hijmenogastvea, caratteristica degli Ericeti (V. Broome, Klotzsch, Tu-
lasne, HESseì, che io non raccolsi finora, ma ebbi dalla cortesia dei colleghi
Prof. Baccarini e Dr. Petri; che Broome aveva già trovata in Italia (a Lucca),
presenta una strana predilezione (V. Tul., F. H.t pag. 75) pel terreno dei vasi delle
aranciere degli orti botanici, dove a mia conoscenza ebbero già a raccoglierla De Bary,
Schroter, Hoffmann, Hesse, De Notaris, Cesati, Baglietto, Canepa, Baccarini e
Petri. Nell'Erbario Cesati esistono esemplari raccolti nell'anno 1845 nelle serre del
Parco Reale di Monza (in calidarii H. B. (Modiciensis) ) ; e nell'Erbario Crittogamico
Italiano, sotto il nome di Octaviania mollis (N. 51) si riscontrano individui raccolti
dal De Notaris, da Baglietto e da Canepa durante gli anni 1854, 1861 e 1862
nelle aranciere dell'Orto Botanico di Genova, nei vasi con terriccio di castagno e di
brughiera contenente piante delle famiglie delle Mirtaceae e delle Rhamnaceae (1);
mentre a Firenze la stessa specie fu riscontrata da Baccarini e Petri nei vasi di
Mirtacee e Cesalpiniee.
(1) Intorno a questo Ipogeo vedi le pagine scritte da De Notaris nel " Comm. della Soc. Critt.
italiana „, N. 1, febbraio 1861, Genova, 1861, p. 33. 35, tav. II, fig. IV.
:;;,l, ORESTE MATTIROLO 26
Le differenze che De-Notaeis invoca nel Commentario per segnare l'autonomia
della sua nuova specie, e le differenze tra essa e VE. carneum, dopo minuzioso esame
e misurazioni, mi parvero doversi riguardare come insufficienti.
Leucogaster Hesse.
Hesse. Die Bypogaeen Deutschlands. Halle, 1891, p. 68.
Leucogaster badius Mattirolo nov. sp.
(Vedi Tavola, fig. 1, 2, 3).
Nel luglio 1862, 0. Beccari raccolse, quasi epigei, nell'Abetina di Boscolungo
nell'Apennino Pistoiese, alcuni esemplari di un Leucogaster, affluissimo a quello da
me trovato nelle Abetine di Vallombrosa e descritto sotto il nome di Leucogastt r
fragrans (1); ma da esso differente, sia per il colore del pendio, come per quello
della gleba e conseguentemente delle spore; e per le maggiori loro dimensioni.
In omaggio al significato della parola creata dall'HEssE, per servire di appel-
lativo ad un raggruppamento di specie aventi un peridio bianco, l'ipogeo raccolto
dal Beccari di colore castaneo-badio (2). non andrebbe compreso sotto il nome di
Leucogaster, ove la costituzione anatomica e istologica di esso non consigliasse la
infrazione alle leggi che dovrebbero regolare l'uso delle parole aventi un significato
determinato. Ma però i funghi del Beccari, quantunque non sieno bianchi, tuttavia
sono siffattamente concordanti colle specie ascritte al genere Leucogaster, che io non
esito a riferirli a questo, avvertendo però che io mi affido in questa descrizione
unicamente allo esame di esemplari essiccati; e che sfortunatamente ancora non
posseggo indicazioni intorno ai caratteri del nuovo Leucogaster, in natura.
A giudicare adunque dagli esemplari d'Erbario, il Leucogaster badius presenta un
corpo fruttifero irregolarmente sviluppato, grosso come una nocciuola od una piccola
noce, mammellonato, di colore castaneo-badio, sulla superficie del quale (come si os-
serva anche nel L. fragrans), decorrono delle fibrille rizomorfiche. La superficie è
liscia, qua e colà notata da screpolature lineari e la tessitura del peridio è fibrosa.
La polpa fruttifera, o gleba, è pure di colore castaneo-badio, più scuro di quello
esterno; e in essa si notano le areole sporifere poligonali, assai evidenti, come nelle
specie del genere Melanogaster (Melanogaster variegatus e rubescens); alle quali per
gli esterni caratteri si può avvicinare il nuovo Leucogaster.
Le areole per lo più sono esagonali, o anche pentagonali o irregolarmente
poligonali, ripiene di una polpa, derivante dalla gelatinizzazione delle ife imeniali
(basidii e ife) che cementano fra loro le numerosissime spore chiuse nelle areole limi-
tate da setti fibrosi, formati da ife sottilissime incolore, gelatinose e molto rifrangenti.
Mentre (nel secco) le areole della porzione più esterna della gleba sono ripiene
di polpa sporifera, si mostrano invece lacunose e vuote quelle della porzione interna,
(1) 0. Mattjbol », Elenco dei " Fungi Hypogaei „ raccolti nelle Foreste di Vallombrosa negli
anni 1899-900, ivi a pag. 20, 21, 22 dell'estratto " Malpighia „, voi. XIV.
(2) Almeno negli esemplari essiccati in Erbario.
27 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI '■'■'>!
come succede in genere nei Mejlanogaster, nelle Octavìanit e come fu già segnato da
Messe per il Lene, floccosus e come pure io riconobbi nel Leno, fragrali*.
L'imenio che tappezza dette lacune non è differenziato e regolare come nella
Octaviania e nella Martellia, ecc., ma invece assai poco differenziato, come nel vicino
genere Melanogaster, dove esso è formato dalle ife che decorrono lungo la parte
esterna delle reticolature; le quali si erigono, dirigendosi verso l'interno delle lacune,
gonfiandosi alla loro parte apicale e diventando terminazioni basidiali.
Negli esemplari secchi non fu possibile studiare il numero delle basidiospore;
ma posso dire però che l'imenio, e conseguentemente i basidii, si mostrano costruiti
sul tipo di quelli descritti dall'HESSE e da me studiati nei giovani esemplari di Leuc.
fragrane.
Le spore presentano cortissime appendici sterigmatiche, le quali diffìcilmente
si possono ancora riconoscere nelle spore mature.
Esse sono in generale sferiche e presentano la proprietà che caratterizza le
spore del genere Leucogaster; possiedono cioè una parete leggermente bernoccoluta,
avente la parvenza quasi di essere ricoperta da un reticolo a maglie sottili, av-
volta da un involucro, ialino, rifrangente, gelatinoso (1). Le spore del Leuc. badius
si differenziano da quelle delle specie congeneri, per il colore molto più intenso, di
un giallo scuro, se viste isolate al microscopio, e di un castaneo-badio, se vedute in
massa, come nell'interno delle areote.
La membrana gelatinosa è meglio visibile nelle spore giovani, ancora poco colorate
e aventi dimensioni minori; mentre quasi interamente scompare nelle spore mature,
aventi diametro maggiore e colorazione assai intensa.
In media, i diametri delle spore variano fra i 12 e i 15 miera, la forma è ge-
neralmente sferica, quantunque non rare sieno le spore allungate, ovoidali.
Il nuovo Leucogaster, da quanto si è detto, risulta vicinissimo al Leuc. fragrans,
differendone in specie per il colore ; poiché anche gli esemplari vecchi del Line.
fragrans, mantengono, essiccando, il loro colore bianco-giallastro, che nemmeno lon-
tanamente si avvicina al colore del Leuc. badius, le cui spore sono evidentemente
anche più grosse, in complesso, di quelle delle altre specie.
I particolari della struttura delle spore; le piccole prominenze che in esse
simulano, come nel Leucogaster fragrans, una reticolatura, appaiono bene evidenti
colorando i preparati colla tintura di iodio od anche col rosso di rutenio.
La nuova specie vive (secondo le indicazioni del Beccaei), quasi epigea, mentre
assolutamente sotterranee vivono, secondo Hesse, le altre specie del genere {streng
subterran), ed io stesso trovai fra le radici dei Faggi e degli Abeti di Vallombrosa,
al disotto della superficie del terreno il Leucogaster fragrans.
Lasciata alquante ore nell'acqua distillata una sezione di Leucogaster badius,
essa le comunicò una colorazione brunastra assai marcata, ciò che avvenne, in molto
minor proporzione, per alcune sezioni di Leuc. fragrans mantenute nelle identiche
condizioni.
(1) Va ricordato che questo involucro gelatinoso fu notato e descritto anche dal Tulasne nelle
spore di Scleroderma. V. Tulasne, Fructification du scleroderma, " Ann. de Sciences Nat. „, IP serie,
tom. XVII, et planche lc, fig. 9.
358 ORESTE MATTIROLO 28
Trattate con alcune goccie di una soluzione di percloruro di ferro, le due solu-
zioni diventarono scure in proporzione della intensità della colorazione primitiva,
rivelando la presenza di sostanze tanniche come materiali coloranti.
Riassumendo, i caratteri più salienti della nuova specie, si potrebbero espri-
mere cosi:
Leucogaster badius Mattirolo nov. sp.
L. irregularis, globosus, vel gibberosus, castaneo-badius (siccus), nucis avéllanae, aut
ovi magnitudine. Peridium fibrosum laeve, tenue, micelii ramulis radiciformibus adhae-
rentìbus Saltini instructum. Gleba castaneo-badia loculis sporiferis, plerumque pólygonis,
magnitudine varia faretti — loculis, ob basidio, dein labe, dia, sporis plerumque repletis,
quae 12-15 mirra circiter diam. mentiuntur. Exosporium minutissime tuberculatum, rattì-
culum simula iis, gelatina hyalina cinctum.
Habitat in Abetinis Boscolungo prope Pistorium Oppidum ubi C/ar. 0. Beccavi
detexit, anno 1862 mense juli.
Rhizopogon Fries.
Rhizopogon rubescens Tul.
Rhizopogon rubescens Tul., Fungi nonnulli hypogaei, novi vel minus cogniti, " Giornale Bota-
nico Italiano „, amio I, fascicoli 7, 8, 1844. — Tul., F. H., p. 89.
Hysterangiurn rubescens Tul., Champignons hypogés de la Famttle des Lycoperdacées observés
dans les environs de Paris et les départements de la Vienne et d'I, aire et Loire, " Ann.
des Sciences Naturelles „, 1843, 2° sèrie, tom. XIX, p. 375.
Hysteromyces vulgaris Vitt., Notizie naturali e civili della Lombardia, voi. I. Milano, 1844.
Rhizopogon rubescens, var. Vittadinii, Titlasxe, F. H., p. 89.
Rhizopogon rubescens Tul., Hesse et Aut.
Le raccolte Beccavi e Cesati contengono buon numero di esemplari di questo
ipogeo caratteristico del suolo delle Pinete; alcuni furono trovati dal Cesati nella
estate (1860?) nelle Pinete di Sciolze (Piemonte); altri invece furono dal Beccari
raccolti nel giugno e nel settembre dell'anno 1862, lungo lo stradone del Gombo
(Pisa-S. Rossore); e nell'ottobre e nel novembre dello stesso anno nella Selva Pisana
in Palazzotto.
A proposito di questo comune Hymenogastreo, che si incontra epigeo o appena
appena ipogeo, e allora visibile attraverso alle screpolature del terreno, credo oppor-
tuno indicare che il Tulasne fu il primo a descriverlo sotto l'attuale nome di Rhi-
zopogon rubescens, dopo averne fatto menzione un anno prima, fra gli Hysterangium
(V. loc. cit.).
La descrizione di Tulasne, apparsa nel medesimo anno (1844), nel quale Vit-
tadini pubblicava lo stesso fungo e lo illustrava, battezzandolo col nome di Hyste-
romyces vulgaris (1) (V. Vitt., loc. cit.), e la pubblicazione di Vittadini, rimasta
(1) Il genere Hysteromyces di Vittadini comprendeva due specie: Lo H. vulgaris di cui ora
stiamo trattando e VHyst. graveolens che (a giudicare dalle osservazioni di Tulasne, il quale ebbe
agio di studiare un frammento di un esemplare autoptico : v. F. Hyp., p. 88) deve essere riguardato
come identico al Rhizopogon luteolus del Tulasne: Sporae finn forma cuoi colore et erassitudine ab
illis Eh. luteoli non clifferunt, dice, dopo la descrizione, il Tulasne.
29 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 359
quasi ignota ai micologi (1), contribuirono all'abbandono del genere Hysteromyces,
e alla definitiva sistemazione del Rhizopogon rubescens nel genere Rhizopogon già isti-
tuito da Fries nel 1817 (Symbolae Gasteromycorum ad illustrandam Floram suecicam.
Lundae, 1817-18, pag. 5).
Ciò che sorprende, è la creazione di una speciale varietà istituita dal Tulasne
per gli esemplari inviatigli dal Vittadini, i quali vennero da lui classificati sotto
il nome di Rhiz. rubescens P Vittadinii, avendo ritenuto il Tulasne che essi fossero
differenti da quelli di Francia.
Specìmina Hysteromycetis mlgaris Vitt. quae copiosa exsiccata a ci. Vittadinio ipso
Mediolani olim accepimus formam a typo ob crassitudinem vulgo majorem et sporas
subminores dilutioresque forsitan paulo discrepantem sistere videntur. Fungis typicis
commixtam liane formam nonnunquam videmus in Pinetis Olbiis.
Avendo avuto occasione di raccogliere durante parecchi autunni a Roderò (Prov.
di Como) alcune migliaia di esemplari di Rliizopogon rubescens; e avendo studiato
e paragonato questi, con esemplari autoptici di Tulasne (avuti dalla cortesia del
compianto M. Cornu), credo poter affermare che i due funghi non differiscono fra
loro; e che la grossezza dei corpi fruttiferi e la minor colorazione delle spore, si
osservano saltuariamente anche in individui che paiono provenire dalle briglie di uno
stesso micelio; e che differenze apprezzabili di grossezza nelle spore, degli individui
più grossi e meno colorati, io non sono riuscito a trovare, paragonandoli a quelli
tipici. Anche Hesse (Hip. Deutsch., pag. 94), trovò concomitanti gli individui grossi
e meno colorati, cogli altri più piccoli e più intensamente colorati nella parte spo-
rifera. " Sie triti gar nicht selten an denselben Platzen auf, an denen Rh. rubescens
Tid. vorhommt, und zwar haiifig. epigaisch „.
Il Rhiz. rubescens è esempio degli Ipogei ubiquitari, a vastissima area di distri-
buzione. Nel giro di una quindicina di anni mi fu dato esaminare esemplari di
questa specie, provenienti dalla Russia (Bucholtz), dalla Francia, dalla Germania,
dall'Inghilterra, dall'America (Carolina del Sud, Ravenel), N. Jersey (Ellis), dall'Au-
stralia e dal Giappone. In Italia osservai la specie e la raccolsi in Piemonte, in
Lombardia, nel Canton Ticino, in Toscana, nel Trentino, nel Modenese.
Specie congeneri in Italia non mi fu dato ancora di osservare, quantunque, a
giudicare da quanto scrisse il Vittadini, debba incontrarsi pure da noi Y Hysteromyces
graveolens Vitt., che il Tulasne considera come specie sinonima del suo Rhizopogon
luteolus.
L' Hysteromyces graveolens, fu da Vittadini, trovato presso Uboldo (circa Medio-
lanum) humo semi-immersus vere, haud frequens (V. loc. cit.).
Facilissimo riescirebbe a distinguere questo e il Rhiz. provincialis Tul. dal Rhiz.
rubescens, perchè queste due prime specie hanno un peridio relativamente spesso,
subcoriaceo, avvolto da un capillizio di fibrille rizomorfiche miceliari, e cellule ime-
nifere minutissime, che negli individui essiccati di Rhiz. luteolus sono completamente
riempite di spore.
Dall'esame degli autoptici di Tulasne, posso assicurare che il fungo cornu-
ti) Perchè rappresenta un solo capitolo di un'opera assai nota avente riguardo alle condizioni
politiche e naturali della Lombardia (V. cit).
360 !' - ''• MATT1ROLO 30
nicato da J. Babla (1), nell'Erbario Crittogamico italiano al N. 350, raccolto nelle
pinete dei dintorni di Nizza marittima, nell'autunno dell'anno 1859, non rappresenta
altro che il Rhizopogon rubescens identico a quello di Piemonte e di Lombardia.
Dell' Hysteromyces graveolens di Vittadini, per quanto io abbia cercato, non potei
riescire a procurarmi un esemplare.
Melanogaster Curia.
Melanogaster variegatus Tul.
Octaviania variegata Viti, M. T., p. 16, tab. Ili, fig. IV. — Tdlasne, u Ann. d. Sciences
Naturelles „, tab. 17, fig. 22, 2" serie, toni. XIX, pag. 377. — He-<e. //. D., p. 59 et
r. - Tulasne, F. H., p. 92, tab. II, fig. IV et tab. XII, fig. VI.
Questa Hymenogastrea che io raccolsi ripetutamente in Lombardia, in Toscana,
in Piemonte e che vive anche nel Lazio, che mi fu inviata dalla Sardegna (Cavara,
Belli), è rappresentata: nella raccolta Cesati da alcuni esemplari scoperti nel 1845
e nel 1847 in Val Verde (S. Gottardo) nell'autunno; nell'Erbario Saceardo da cam-
pioni provenienti da Lecce (Cuboni, ottobre 1889) e da Monte Serva nel Bellunese
(Spegazzini, 2Q ottobre 1878).
Il Melanogaster variegatus, menzionato anche da Bizzozero, appare adunque come
un ipogeo comune a tutta Italia.
Melanogaster ambiguus Tul.
Octaviania ambigua Viti, M. T., p. 18, tab. IV", fig. III.
Melanogaster ambiguus Tul, " Ann. Se. Nat. „, 2° serio, toni. XIX, p. 378; F. H., p. 94,
tab. II, fig. V e tab. XII, fig. V. — Elesse, H. D., p. G2 et fig.
vri raccolse a Biella nell'autunno dell'anno 1850 questa specie, di cui finora
io non avevo avuto che alcuni esemplari dal sig. Marzichi Lenti di Firenze, rac-
colti a Collegalle, presso Greve nel Chianti, nell'anno 1900 (10 marzo), sotto ai Lecci.
Gali fiera Vittadini.
Gautiera graveolens Vitt.
Gautiera graveolens Vitt., M. T., p. 27, tab. IV, fig. XIII. — TYlasne, F. IL, p. 63. —
Cokda, Icon. Fung., tom. VI, p. 34, tab. VII, fig. 63. - Hessb, H. !>., p. 106-108,
tav. II, fig. 5-9; tav. V, fig. 9-10; tav. VII, fig. 4-6; tav. IX, fig. 27-34.
L'Erbario di P. A. Saccardo contiene un autoptico vittadiniano di questa rara
specie che io già trovai in Toscana (V. Mattirolo, I, loc. cit.) e che mi fu comu-
nicata in un certo numero di esemplari dai dintorni di Serravalle Sesia, dal signor
Cacciami Italo, studente in medicina, nel dicembre dell'anno 1902.
(1) 6. Pollacci, Micologia Ligustica, Genova, " Atti della Società Ligustica di Scienze Naturali „,
voi. Vili, fase. I, 1897, ricorda fra gli Ipogei di Liguria il Rh. provinciali* di Barla, che vuol essere
quindi corretto in Rh. rubescens Tul. e V Octaviania mollis De Notaris, sinonimo di Hydnangium
carneum.
31 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 361
HYMENOMYCETES (?)
Cenococcum Fries.
Cenococcum Fries, Syst. Orò. veget, 1, p. 364; Syst. myc, IV, p. 65.
Cenococcum geophilum Fries, Scler. Suec. exic. Dee, XXXVII; Fries, Syst. Myc, III, p. 65.
— Vittadini, Nonographia Lycoperdineorum, p. 85, tab. Ili, fig. V. — Tulasne, F. H.,
p. 179, 180, 181, tav. XXI, fig. Vili.
Queste curiose formazioni , che in Italia trovansi frequenti nella terra di
castagno in Piemonte ed in Lombardia, furono pure raccolte nell'autunno del 1863,
dal Beccari nei monti Pisani a Vicosi, e quivi pure immerse nell'humus. Quantunque
i recenti studi di Boudier e Patouillard (1) e di Van Bambeke sul Cenococcum
xylophilum Fr. (ora Coccobotrys xylophilus Boud. et Pat.) abbiano fatta conoscere la
vera natura di analoghi granuli, che il Fries cosi efficacemente definisce: gru ut/In
exacte globosa, libera, omne thallo et radice destituta, laevia, glabra, aterrima, magni-
tudine seminis viciae, in humo atro copiosissime nidulantur, pure ho creduto bene ricordare
fra i Funghi Ipogei anche questo, perchè dalla maggior parte dei botanici ed anche
da specialisti eminenti, come Vittadini, Tulasne, ecc., fu ritenuto per lungo tempo
avessero le specie del genere Cenococcum relazione con quelle del genere Elaphomyces.
Ora i rappresentanti del genere Cenococcum pare si devano ritenere come stadi
vegetativi scleroziati di un micelio; forme miceliari per cosi dire transitorie, perchè
quelle appartenenti al Cenococcum xylophilum di Fries (ora Coccobotrys xylophilus di
Boudier et Pat.) si dimostrarono appartenere al ciclo di sviluppo della Lepiota
Meleagris (Sow) Sacc. Ed è curioso che Fries (lo scopritore) considerasse i Ceno-
coccum come Sclerozii dapprima, e poi li avvicinasse agli Elaphomiceti, avendo cre-
duto di trovare in essi delle spore, che pure il Tulasne descrisse nella sua opera,
ma che mancano affatto in natura.
Nessuno finora sa però quali relazioni abbia il Cenococcum geophilum, né quale
possa essere il presumibile basidiomiceto che dovrà rappresentarne la forma perfetta,
la quale a me non è riuscito ancora, malgrado i tentativi fatti e quelli che sto fa-
cendo, di poter ottenere. Ricordo che notevoli differenze si riscontrano fra il Ceno-
coccum geophilum e il Cenococcum xylophilum.
LYCOPERDINEAE
Gastrosporium Mattirolo, nov. gen.
Gastrosporium simplex Matt. nov. sp.
(Vedi Tavola, fig. 4 a 10).
Singolare tipo è quello rappresentato dal fungo, che Odoardo Beccari raccolse
fra le radici delle graminacee in due località differenti: S. Giuliano (Monte Pisano,
die. 1862) e Sasso (Bologna, aprile 1864) e lasciò indeterminato nella sua collezione.
(1) Boudieb et Patouillard, Note sur deux chcimpignons hypogés, " Bull. Soc. Myo. de France „,
t. XVI, 1900, fase. Ili, p. 141. — Van Bambeke, Le Cenococcum Coccobotrys xylophilus (Fries) Boudier
et Patouillard (Cenococcum xylophilum Fries) est le Mt/celium des Lepiota meleagris (Sow) Sacc.
" Soc. Roy. de Bot. Belge ,, Séance dèe. 1900.
Serie IL Tom. LUI. u»
362 ORESTE MATTIROLO 32
Esso è ili costruzione assai semplice ; ma di sistemazione difficile, anche perchè
le conclusioni risultanti dal suo studio, si basano soltanto sopra l'esame dell'apparato
riproduttore giunto allo stato di perfetta maturazione.
Il Gastrosporium, come indica il nome, è formato da una cavita ripiena di innu-
merevoli minutissime spore, limitata da una parete doppia (V. Tavola, fig. 4 a 7).
Il corpo fruttifero globoso o globoso-Iobato è di color bianco latteo, di grossezza
che varia da quella di un pisello a quella di una noce, misurando il più grosso esem-
plare esaminato un diametro di circa tre cent.
Il Pendio è formato da due strati nettamente differenziati (V. Fig. 8).
L'esterno, dello spessore di circa * 2 mill. pulverulento, calceo, risulta (negli esem-
plari essiccati) composto di un materiale farinoso, facilmente esportabile colle dita.
In esso si notano ife sottilissime lassamente fra loro intrecciate, immerse in una
massa di sostanza microcristallina, che agisce sulla luce polarizzata e che calcinata
annerisce, lasciando un residuo bianco, il quale, coll'acido solforico, dà luogo a cristalli
aghiformi geminati a ferro di lancia (V. Fig. 8, S. E.).
Quanto alla natura dell'acido combinato colla calce : l'insolubilità in acido acetico
e la solubilità in acido cloridrico, lasciano giudicare si tratti, con tutta probabilità,
di acido ossalico. La sostanza microcristallina adunque sarebbe ossalato di calcio
cristallizzato.
L'interno strato, spesso circa 1/8 di mill., e quindi meno sviluppato di quello
esterno, nettamente dal primo differenziato, risulta di ife saldate fra di loro intima-
mente da una gelatina tenace, brillante (V. Fig. 8, S. /.).
Col rosso di Rutenio la massa gelatinosa si colora e più intensamente si colorano
le ife, dimostrando cosi la natura pectica delle loro membrane.
La colorazione indicata permette di seguire il decorso sinuoso delle ife sottili,
intrecciate, aggrovigliate, ramificate, qua e colà inspessite, presentanti nel loro de-
corso diametri differenti (1).
Questo strato molto rifrangente limita le cavità della gleba, dentro la quale, e
per breve tratto, si vedono sporgere le ife parietali.
Gleba. — La gleba è formata da una massa di sostanza avente colore olivaceo
chiaro, composta niente altro che da spore piccolissime, misuranti nel diametro circa
3 micra, a contorno circolare o leggermente ovale, le quali, solamente a forte ingran-
dimento, lasciano scorgere ancora il punto di attacco colla sterigma (V. Fig. 8, 10).
Queste spore sono liscie, hanno colore verdastro chiaro, sono trasparenti, con-
tengono nell'interno un materiale molto rifrangente, oleoso. Col rosso di Rutenio la
loro membrana si colora debolmente.
Su tutta la gleba, manca qualsiasi accenno ad ife appartenenti ad una trama,
ne si notano traccio di capillizio; null'altro ho notato nella gleba, che una quantità
di spore.
La frase diagnostica, la quale vale tanto per il genere, come per l'unica specie,
può quindi essere così riassunta :
(1) Queste ife più grandi, presentanti dei rigonfiamenti, si potrebbero considerare analoghe alle
note ife vascolari.
33 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 363
Gastrospoi'ium .simplex. — Fungus hypogaeus globosus vet globoso-irregularis,
pendio crasso, exterm lacteo, pulverulento ; interne gelatinoso hyalino intente, Gleba omo-
genea, sine lacunis; sporis, innumeris minutissimis sphaericis, laevibus, hyalinis, olivaceis
3 micra diam. composita.
Capillitio ìndio.
Hab. — Inter radices graminum Etruria-Emilia. Sept. Dee. leg. Clar. 0. Beccari.
Posizione sistematica. — La posizione di questo genere nella seriazione naturale
delle forme è assai difficile a concretarsi ; perocché se indubbiamente possiamo assi-
curare che la nuova forma appartiene ai Gastromycetes , non possiamo ugualmente
indicare a quale dei gruppi di questi funghi debba essere ascritta, mancando l'esame
degli stadi di evoluzione.
Fra i Gastromycetes, come è noto, si contano parecchie serie e da tutte si distingue
il Gastrosporium per caratteri importanti e facili a rilevarsi. Così esso differisce :
I) Dagli Hymenogastrei, per la mancanza assoluta nella gleba delle tipiche
concamerazioni tappezzate dall'Imenio; per la struttura del peridio e per il tipo
delle spore.
II) Dalle Lycoperdineae, per la mancanza, nella gleba matura, di capillizio; per
il tipo strutturale del peridio, che pure è doppio.
Ili) Dalle Phalloideae, perchè privo di una glejsa a concamerazioni imeniali;
perchè manca di un ricettacolo, di una volva, e perchè differentemente si comporta
durante lo sviluppo.
IV) Dalle Nidulariaceae perchè privo dei Peridioli concamerati, ecc.
Il Gastrosporium adunque non può essere altrimenti classificato che fra le forme
più semplici dei Gastromycetes; fra quelle, che per non essere state ancora sufficien-
temente studiate in tutti i periodi della storia di sviluppo, Edoardo Fischer cre-
dette recentemente di riunire in un gruppo, a cui diede il nome di " Plectobasidineae „ .
Le Plectobasidineae però non rappresentano una unità sistematica indipendente,
ma un gruppo artificiale, nel quale si comprendono forme relativamente semplici ap-
partenenti alle vai'ie sezioni dei Gastromycetes ; imperocché fra le Plectobasidineae di
Fischer, le Sci eroder mataceae hanno rapporti evidentissimi colle tipiche Hymenogastreae;
le Calostomataceae e le Tulostomataceae e forse anche le Podaxineae, colle vere Lyco-
perdineae; il genere Pisolithus colle Nidulariaceae; mentre il genere Spliaerobolus si
connette alle Phalloideae.
Il Gastrosporium adunque sarebbe, per ora, da riguardarsi come una Plectobasidinea,
nel senso che rappresenta un Gastromicete semplicissimo, con gleba priva di conca-
merazioni, senza vene sterili, risolventesi a maturità in una massa pulverulenta priva
di capillizio, con peridio formato da due strati ; ma però come un tipo che presenta
moltissime analogie colle Lycoperdineae, dalle quali unicamente differisce per la man-
canza del capillizio; imperocché le spore sono morfologicamente identiche a quelle
della maggior parte dei tipi ascritti a questa famiglia, e il peridio è duplice, e pul-
verulento come in alcune specie del genere Lycoperdon e l'aspetto generale è analogo
a quello delle Lycoperdineae.
364 ORESTE MATTIROLO 34
La sistemazione del nuovo genere non può ancora essere ritenuta definitiva,
poiché, per ora, mancano quei dati indiscutibili di giudizio, i quali allora soltanto si
potranno avere, quando i botanici ritroveranno questa forma e la potranno studiare,
avendo riguardo ai primi stadi evolutivi dell'apparato sporifero.
SCLERODERMATACEAE Fischer.
Phlyctospora.
Phlyctospora fusca Corda.
Phlyctospora fusca Corda, in " Sturm Deutschland Flora „, III Abth. , 19-20 Heft, 1841,
p. 51, tab. 16. — Tulasne, F. H., p. 99. — Winter, in " Rabenhorst Plora „, p. 885,
voi. I. — G. Beck, Ueber die Sporeribildung der Gattung Phlyctospora Corda, " Bericbt.
d. d. Boi Gesell. „, Band VII, 1889, p. 212-216.
Scleroderma fuseum E. Fischer, in " Engler und Prantl. Naturi. Pflanzenfaniilien „, toni. I,
Abt. I, 1900, p. 336.
Un solo esemplare di questa specie, nota finora di Boemia (Corda), di Francia (Tu-
lasne), di Moravia (Welwich) , di Russia (Bucholtz, " Beitrage zur Morphologie und
Systematik der Hypogaeen „, Riga, 1902, p. 172 e seg.), di Portogallo (Saccardo,
Sylloge, VII, p. 179), esiste nella collezione Cesati, raccolto nel 1859 a Biella
(S. Giovanni). Lo Scleroderma fuseum è qui menzionato per riguardo alla sua stazione
quasi ipogea. L'esemplare di Cesati concorda esattamente con un autoptico di Hollos,
raccolto nell'agosto 1899, in Transilvania.
ONYGENACEAE (Fischer).
Onygena Fers.
Onygena equina (Wild) Pers.
(Vedi la Bibliografia relativa a queste specie in: Fischer, Tuberaceen und Hemiasceen e
" Kabenborst Kryptog. Fior. „, V Abth. Leipzig, 1897, p. 103, e nel recente lavoro di
Marshall- Ward).
Di questa specie, la cui parentela cogli Elaphomycetes e cogli Aspergini è stret-
tissima, trovai alcuni esemplari nelle raccolte Cesati e Beccari, provenienti:
Da Riva Valdobbia, 26 dicembre 1863 ed ivi raccolta dall'Abate Carestia (sul-
l'unghia putrescente di un bovino) — (V. Bresadola e Saccardo, Enumerazione dei
Funghi della Valsesia, Genova, " Malpighia „, 1897). Da Bocca d'Arno, 1863 (O. Bec-
cari) (sullo zoccolo di un cavallo).
DISCOMYCETES
Hydnocystis Beccari Mattirolo.
Hydnocystis Beccari Mattirolo, Gli Ipogei di Sardegna e di Sicilia, " Malpighia „, anno XIV
1900, p. 57 e seg.
Senza indicazione precisa di località, contiene la raccolta Beccari, alcuni fru stuli
di questa specie che, già da me indicata per la Toscana e la Sicilia, venne nel maggio
35 I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 365
del corrente anno scoperta dal Dott. G. Gola, fra le radici di un Oistus proveniente
dalla Scaffa presso Cagliari.
Nel lavoro citato, ho abbastanza ampiamente trattata la questione relativa alla
sistemazione del genere Hydnocystis Tul. fra i Diseomycetes, per dovervi ritornare sopra
in questa occasione; in appoggio alle mie conclusioni credo opportuno accennare ora,
che in un esemplare di questa specie, della raccolta Tulasne del Museo di Parigi,
osservai il parassita classico delle Pezize limicole (della Lachnea art nieola Quél, ad es.).
La presenza della Melanospora Zobelii Corda sull'imenio delle Hydnocystis (fatto
già osservato da Tulasne, v. F. H., p. 186) mi pare una nuova conferma delle re-
lazioni intime fra le Pezizae e le Hydnocystis.
L'esemplare della raccolta Tulasne, determinato col nome di Hyd. arenaria Tul.,
concorda esattamente colla mia Hydn. Beccavi e non si adatta alla descrizione
della Hyd. arenaria; cosicché io non dubito di affermare che, anche la mia specie
debba esser ritenuta propria della Flora idnologica di Francia. L'esemplare da me
esaminato proveniva dalle isole di Ht/ères.
OOPHYCOMYCETES (?)
Endogone Link.
Endogone lactiflua Berk.
Endogone lactiflua Berk., Notices of british hypogaeus Fungi, " Annal and Magaz. of Naturai
Hystory „, voi. XVIII, 1846, p. 81. - Tulasne, F. H., p. 183. — Hesse, H. D.,
Band II, 77, 78. — Fischer, loc. cit, p. 126. — Mattirolo, Elenco chi " Fungi Hypogaei „
raccolti nelle foreste di Vallombrosa, " Malpighia „, 1900.
Questa bella specie, da me già raccolta in alcune località della Toscana (Vallom-
brosa, Bivigliano), venne incontrata dal Beccaei nell' ottobre 1862 nella Selva
Pisana, nei luoghi umidi sotto le foglie, nei boschi di Quercie. La determinazione fu
avvalorata col paragone di materiali autoptici di Berkeley appartenenti al Museo di
Parigi. Per le ricerche di Baccarini e Pampaloni (1) pare accertato che i funghi
ipo o semi-ipogei del genere Endogone debbano riguardarsi come appartenenti agli
Ooficomiceti.
(1) Baccarini, So2>ra i caratteri di qualche Endogone, App. al " Nuovo Giorn. Bot. Ital. „, voi. X,
1903, N. 1. — Id., Sopra alcuni microrganismi del Dissodile di Melilli, " Bull. Acc. Gioenia „. Catania.
— Pampaloni, Microfauna e microflora del Dissodile di Melilli, " R. Acc. Lincei „, voi. XI, 2° sem.,
serie 5', fase. 9". — Id., / resti organici nel Dissodile di Melilli in Sicilia, * Paleontografia italiana,,
voi. Vili. Pisa, 1902.
366 ORESTE MATTIROLO I FUNGHI IPOGEI ITALIANI 36
SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA
Fig. 1, 2. — Leucogaster badius Mattirolo, nov. sp. Aspetto esterno di un individuo essiccato
e sezionato.
,3. — Spore, dello stesso. Obb. 8; Ocul. 2 Hartnack; Cam. lucida Nachet; i, involucro
gelatinoso.
, 4, 5, 6. — Gastrosporium simplex Mattirolo, nov. sp. Aspetto esterno di alcuni individui
in grandezza naturale.
n 7. — Id. Id. Aspetto di un individuo sezionato conservato in Erbario. G, Gleba.
„ 8. — Id. Id. Sezione del peridio. 5. E. strato esterno; 8. I. strato interno. S. spore;
Obb. 4 Hartnack; Ocul. 2; Cam. L. Nacb. (per segnare i contorni della figura).
, 9. — Id. Id. Ife decorrenti nello spessore dello strato peridiale interno gelatinoso (colo-
rate con rosso di Rutenio). Obb. 10 Hart. irnni. ; Ocul. 2; C. L. N.
„ 10. — Id. Id. Spore. Ocul. 2; Obb. 8 Hartnack; C. L. N.
, 11. — Pachyphloeus Saccardoi Mattirolo, nov. sp. Sezione, per far vedere: TV. trama;
V. E. vene esterne; As. aschi. Obb. 2; Ocul. 2. Figura a metà schematica.
, 12, 13. — Id. Id. Aschi giovani. Nella fig. 12 è rappresentato un asco ancora sprovvisto
di spore; mentre esse sono già iniziate nella fig. 13. Obb. 8; Ocul. 2 Hartnack; C. L. N.
1 14. — Id. Id. Parafisi filamentose, decorrenti fra gli aschi, colorate col rosso di Rutenio.
Obb. 10 imm. acqua. Hartnack; Ocul. 2; C. L. N.
„ 15. — Id. Id. Spore. Obb. 8 Hart.; Ocul. 2; C. L. N.
„ 16. — Pachyphloeus conglomeratus Berk. Spore. Obb. 8; Ocul. 2 Hartnack; C. L. N.
s 17. — Genea sphaerica Tul., forma sporis spinuloso-tuberculatis Mattirolo. Spore. Obb. 8;
Ocul. 2 microm. Hartn. ; C. L. N.
MATTI ROLO O.-l funghi ipogei.
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MEMORIA
DEL SOCIO
ANGELO MOSSO
Approvata nell'Adunanza del 26 Aprile 1903.
§ 1.
Le variazioni personali nella produzione dell'apnea.
La presente memoria è un tentativo per studiare l'apnea sull'uomo. Le espe-
rienze fatte sopra noi stessi hanno il vantaggio che oltre al tracciato dei movimenti,
uno sente cosa succede dentro di sé. È stato nelle esperienze fatte sopra me stesso
che mi accorsi essere la funzione del ritmo una cosa indipendente da quella della
forza dei movimenti respiratori.
Il tracciato 1 fu scritto con un pneumografo doppio applicato sopra le mammelle
e stretto bene intorno al torace (1) : mi ero proposto di produrre l'apnea mentre ero
coricato orizzontalmente, e di respirare subito appena che, dopo finite le dieci inspi-
razioni profonde, venisse un impulso interno. Ero pronto a respirare al minimo cenno
di un bisogno che si svolgesse spontaneamente senza partecipazione della volontà,
avendo per parte mia solo il desiderio di dargli sfogo quando si presentasse: ma
trascorsero 38 secondi (come si vede sotto nel tracciato del tempo scritto ogni 2 se-
condi) prima che questo impulso venisse, e quando comparve, le respirazioni erano
più forti del normale. Ritornerò in seguito su questo argomento mostrando come in
altre persone possa dopo l'apnea diminuire la forza dei movimenti respiratori. Questo
è un altro tipo di apnea, nel quale si forma dopo il riposo una scala ascendente di
inspirazioni successivamente più forti, mentre in me sono decrescenti le respirazioni
che faccio dopo l'apnea. In questo tracciato si vede pure che la tonicità del torace
diminuisce durante l'apnea, cos'i che il torace prende una posizione espiratoria più
pronunziata che non avesse prima. Questa diminuzione della tonicità per effetto del-
ti) In tutte le esperienze contenute in questa memoria adoperai il pneumografo doppio quale
trovasi nel catalogo del meccanico Verdin, di Parigi, figura 22.
368
ANGELO MOSSO
l'apnea è molto più notevole nel diaframma e può considerarsi come un fatto costante.
Finita l'apnea, nel tracciato 1, occorrono circa 8 respirazioni perchè si ristabilisca
la tonicità primitiva.
Sapendo che si può trattenere volontariamente il respiro, sembra a primo aspetto
che tali ricerche non debbano dare risultati sicuri : ma basta fare una sola, e meglio
parecchie inspirazioni profonde, per sentire che il respiro cessa spontaneamente per
un tempo molto più lungo di quanto non possa farsi colla inibizione volontaria, e si
prova una minore molestia, anzi nessuna mentre dura l'apnea. Le esperienze procedono
del resto con tale regolarità che scrivendo il respiro uno s'accorge dalla costanza
Fig. 1.
dei risultati che non entra una perturbazione dovuta all'elemento incostante della
volontà.
Negli animali l'apnea si produce artificialmente dilatando i polmoni per mezzo
di un soffietto, nell'uomo le inspirazioni profonde sono fatte volontariamente. Questa
è una differenza che merita di essere esaminata subito. Generalmente si crede che
non esista la fatica nei muscoli della respirazione, ma ho già pubblicato i tracciati
dai quali si vede che anche dai muscoli respiratori si può ottenere una curva della
fatica simile a quella che si ottiene nei muscoli delle estremità per mezzo dell'ergo-
grafo (1). Basta fare 15 o 20 inspirazioni profonde l'una dopo l'altra con un ritmo
più frequente del normale per conoscere gli effetti della fatica respiratoria.
Nelle esperienze sulla apnea non è tanto la diminuzione successiva nella forza
delle inspirazioni profonde che dobbiamo prendere in considerazione quanto il fatto
centrale della fatica che tende ad abbreviare il periodo di riposo dell'apnea se si
prolungano per un tempo troppo lungo le inspirazioni profonde. Per dare un esempio
del rapporto che passa fra il numero delle inspirazioni profonde e la durata del-
l'apnea riferisco una esperienza fatta sopra di me. Dopo il numero delle inspirazioni
profonde è scritto il tempo in secondi che ha durato l'apnea. Fra una esperienza e
l'altra intercedono 3 minuti.
1 = 18' 3 = 22"
6
24" 9 = 22" 12 = 18" 15 = 18".
Il massimo effetto l'ottenni facendo 6 inspirazioni profonde, e dopo il tempo
dell'apnea diminuiva, sebbene io sentissi una leggera vertigine per i mutamenti suc-
(1) A. Mosso, Fisiologia dell'uomo sulle Alpi, 1898. p. 34.
3 LA FISIOLOGIA DELL'APNEA STUDIATA NELL'UOMO 369
ceduti nella circolazione del sangue. Sopra di me bastavano dunque 6 inspirazioni
profonde per produrre la durata massima dell'apnea. Ma questo vale solo per questo
giorno. Infatti nel primo tracciato si vede che per dieci inspirazioni l'apnea fu molto
più lunga e durò 38". Per evitare la complicazione della fatica respiratoria, mi limitai
nel maggior numero delle esperienze a produrre l'apnea con un numero minore di
inspirazioni.
Comincierò colle esperienze eseguite facendo una sola inspirazione profonda.
Occorre a tale scopo di lasciare libero il respiro e respirare tranquillamente secondo
gli impulsi automatici senza cercare di dominarli, rimanendo il più che sia possibile
distratti. Le esperienze fatte stando in piedi non riescono bene, perchè presto uno si
affatica; anche da seduti non sono sempre paragonabili i tracciati, perchè gli organi
dell'addome possono modificare i movimenti del diaframma; da coricati non si è
sempre comodi a cagione della posizione del capo e del peso del corpo che preme
orizzontalmente, e perchè sono diverse le curve della colonna vertebrale nelle inspi-
razioni profonde. Per evitare tali inconvenienti ho preferito di fare queste esperienze
appoggiandomi ad un piano inclinato in modo che il mio corpo faceva un angolo
di 45° colla verticale : a tale scopo serve comodamente la bilancia a tavola costrutta
dal meccanico Corino per studiare i mutamenti della circolazione ; ma qualunque tavola
larga, ricoperta da una materassa, può servire a tale scopo. Più che tutto occorre
in queste esperienze di rimanere tranquilli, e questo l'ottenevo, lavorando solo in una
stanza coll'aiuto di un assistente e cercando di mantenermi distratto, senza che però la
distrazione fosse troppo completa. I movimenti del respiro tanto per il ritmo come
per la forza procedono in tali condizioni con grande regolarità.
Fig. 2.
Il tracciato 2 rappresenta una serie di inspirazioni profonde fatte da me al mat-
tino, mentre sto poggiato contro il letto a 45°. Il pneumografo doppio è messo intorno
al torace, all'altezza delle mammelle, ed oltre che dalla cinghia è tenuto in tale posi-
zione da un nastro che passa intorno al collo. Ad ogni inspirazione profonda succede
una pausa apnoica di circa 20" ; verso il fine della medesima sento che il cuore batte
più forte, come succede in me nel leggero grado di asfissia, quando si ferma il re-
spiro. Le inspirazioni che compaiono dopo finita l'apnea sono più profonde che non
siano le normali e vanno rapidamente decrescendo. Ad ogni 45" un assistente mi
avverte che devo fare una nuova inspirazione profonda. Il tempo è segnato ogni
2 secondi. Dopo la pausa apnoica solo la forza delle inspirazioni cambia e va decre-
scendo: il ritmo è quello primitivo. Nell'ultima parte si vede il tempo che occorre
perchè le inspirazioni diventino normali.
Sebie IL Tom. LUI. v1
370
ANGELO MOSSO
Il tracciato 3 è una esperienza eguale fatta sopra me stesso, scritta con velocità
maggiore del cilindro. Anche qui il tempo come in tutti i tracciati successivi è segnato
ogni 2 secondi e per brevità non ripeterò più tale avvertimento. L'ultima apnea
I invece di durare 20", durò solo 14". Questo esempio indica
l'errore massimo che si produce in me quando faccio una
serie di inspirazioni profonde egualmente forti.
Tale errore non può recare una perturbazione, perchè
nella discussione che farò dell'apnea non occorre tenere cal-
colo di simili differenze. Qualche volta le variazioni dipendono
da ciò che le inspirazioni che generano l'apnea non furono
fatte egualmente profonde. Per economia ho tagliato la parte
superiore della curva e quindi il lettore non può più giudicare
di queste differenze; sarebbe stato uno spazio troppo grande
di sfondo nero, e ho creduto meglio sopprimerlo nei tracciati
per poterne riprodurre un numero maggiore. Ma i tracciati
delle inspirazioni saranno dati per intero anche in altezza,
quando sarà indispensabile di mostrare che le inspirazioni
profonde erano egualmente forti in una serie dove sianvi dei
raffronti importanti.
Ripetendo queste esperienze e vedendo che il respiro
^ dopo l'apnea si rinforza senza che uno cerchi di trattenerlo,
g e sentendo che il cuore batte più forte verso il fine dell'apnea,
subito si pensa che succederà in noi quanto Gad aveva osser-
vato sul coniglio (1). Levando lo sterno senza aprire la pleura
e facendo la respirazione artificiale egli vide che l'orecchietta
destra del cuore aveva il suo colore venoso ed era invece
più rossa e quasi di colore scarlatto la sinistra: prodotta
l'apnea, Gad vide che i movimenti del respiro incominciavano
solamente quando l'orecchietta sinistra era diventata notevol-
mente più scura che in condizioni normali. Questo prova se-
condo Gad che per mezzo delle manipolazioni del respiro ar-
tificiale si è diminuita la eccitabilità del centro respiratorio.
L'aumento della forza delle respirazioni che osservasi
nel mio tracciato dopo l'apnea può sembrare a primo aspetto
che dipenda dall'arresto volontario del respiro: ma il fenomeno
è più complesso, esso corrisponde ad un mutamento della ecci-
tabilità del centro respiratorio il quale vedesi anche negli
animali profondamente addormentati quando si produce l'apnea
per mezzo della respirazione artificiale.
Nel tracciato 4 si scrive il respiro di un coniglio del peso di 1700 grammi, leg-
germente addormentato colla iniezione di un grammo di cloralio nell'addome. La
trachea aveva un tubo a T il quale da una parte era libero e serviva al passaggio
dell'aria, dall'altra era in comunicazione con un timpano di Marey che scriveva sul
(1) J. Gad und Heymans, Kurzes Lehrbuch der Physiologie des Menschen, 1892, p. 414.
5 LA FISIOLOGIA DELL'APNEA STUDIATA NELL'UOMO 371
cilindro rotante: il tempo è segnato in secondi. La respirazione artificiale si fa per
mezzo di un soffietto : durante la medesima si ferma il cilindro e si chiude, compri-
mendo il tubo di gomma, il passaggio dell'aria nel timpano a leva di Marey. La
prima volta si fanno 12 respirazioni; la seconda 15; la terza 18. A queste piccole
differenze nel numero delle respirazioni da 12 a 15 a 18 corrisponde un aumento
crescente nella intensità e nella durata dell'apnea.
Fig. 4.
Quando ricomincia il respiro le prime inspirazioni sono deboli e vanno succes-
sivamente crescendo. Sorpassano anche qui l'altezza della respirazione normale e dopo
decrescono. Nel ritmo succede dopo l'apnea un leggero rallentamento e quindi cresce
la frequenza nelle respirazioni successive.
L'interpretazione più semplice di questi tracciati è che essi rappresentino una
azione diminuita del centro respiratorio, il quale riprendendo a funzionare dopo la
pausa, trova una quantità di anidride carbonica nel sangue maggiore del normale,
come dimostrò Gad nel coniglio.
Vi sono delle persone che non riescono a produrre l'apnea con una semplice
inspirazione profonda in nessuna epoca del giorno, mentre altre riescono al mattino
e non nel pomeriggio, a digiuno e non dopo aver mangiato. Qui appare subito una
prima differenza colle ricerche fatte dal Lcevy, il quale trovò che la eccitabilità del
centro respiratorio non varia, mentre invece vedremo in una prossima memoria che
essa è variabilissima nell'uomo: ma costante per determinate condizioni.
Le persone da me studiate trovai che possono dividersi in tre gruppi :
1° quelle in cui è difficile produrre l'apnea; nelle quali poche respirazioni,
cioè quattro o cinque, per quanto siano profonde e rapide l'una dopo l'altra, non
bastano per dare un arresto del respiro;
2° quelle nelle quali si riesce con una inspirazione profonda a produrre l'apnea,
ma non sempre, cosicché di regola occorre farne parecchie ;
3° quelle nelle quali si ottiene l'apnea con una sola inspirazione profonda.
Al primo gruppo appartengono generalmente le persone giovani fino oltre i
20 anni. Nel secondo stanno comunemente le persone fino ai 50. Nell'altro (ed anche
qui la cosa non può affermarsi in modo assoluto) le persone di un'età più avanzata.
Per brevità non riproduco alcun tracciato delle persone del primo gruppo che
diedero risultati negativi; e comincierò con quelle del secondo gruppo. Fra queste
ho studiato bene l'inserviente del mio laboratorio , Giorgio Mondo , di anni 44, che
da oltre 22 anni mi serve per gli studi sulla respirazione. In lui una sola respira-
zione non basta generalmente a produrre l'apnea, e questo succede specialmente nel
pomeriggio quando è un po' eccitato per il lavoro e le occupazioni sue e dopo che
ha mangiato. Al mattino a digiuno, o alla sera e nel pomeriggio, quando stando co-
372
ANGELO MOSSO
ricato viene preso dalla sonnolenza, è più facile che si produca l'apnea per una sola
inspirazione profonda come si vede nella fig. 5.
Mentre nei miei tracciati la scala delle inspirazioni dopo l'apnea è decrescente,
cioè finita l'apnea comincia una serie di inspirazioni più forti del normale le quali
formano una scala decrescente, qui come in altre persone, e come nel tracciato 4 del
coniglio, la scala è crescente: cioè le respirazioni incominciano coll'essere deboli e
gradatamente si rinforzano.
Dimostrerò meglio in un prossimo lavoro come la funzione del ritmo e della
forza della respirazione siano due funzioni distinte del centro respiratorio e studierò
quali siano i fattori che le modificano. Per ora basta supporre che in questo caso la
funzione del ritmo divenga attiva prima di quella che accresce la forza delle inspi-
razioni; mentre invece sopra di me si desta meno presto la funzione del ritmo e
diviene solo attiva quando l'altro meccanesimo dal quale dipende la forza delle inspi-
razioni ha già ripreso tutta la sua attività. Iu alcune persone l'apnea non si manifesta
come un arresto del respiro, ma si produce solo un rallentamento considerevole del
ritmo. Esaminerò questi casi in una prossima memoria sull'azione dell'aria rarefatta.
Il tracciato 6 ve nne scritto dal Dott. Alberto Aggazzotti, di anni 25, nelle ore
del pomeriggio in condizioni analoghe alle precedenti: cioè stando appoggiato al
piano inclinato a 45°. Anche in lui si produce in modo costante una serie di inspi-
razioni crescenti. Invece di una sola il Dott. Aggazzotti faceva quattro inspirazioni
profonde e molto rapide l'una dopo l'altra. Ciò malgrado il respiro non si arrestava,
e l'apnea si manifesta solo con una diminuzione nella forza delle inspirazioni che
vanno dopo gradatamente rinforzandosi, essendovi nel principio un leggiero aumento
nella frequenza del respiro.
La diminuzione di eccitabilità del centro respiratorio nell'apnea.
Il tempo che dura l'apnea e il numero delle inspirazioni che bisogna fare per
produrla sono estremamente variabili e dipendono dallo stato di eccitabilità del centro
LA FISIOLOGIA DELL APNEA STUDIATA XELL UOMO
373
respiratorio. I mutamenti che si producono nei gas del sangue per la ventilazione
maggiore o minore nei polmoni, si rendono evidenti solo in quanto essi riescono a
modificare la eccitabilità del centro respiratorio per produrre una sospensione dei
moti del respiro; essi sono il mezzo per agire sul centro
respiratorio, ma non sono essi i fattori preponderanti.
Per vedere come si spengano i movimenti del respiro
nell'apnea occorre prendere un animale che abbia una ec-
citabilità forte del centro respiratorio come si vede nel
tracciato 7.
È un cane del peso di 9 Kg., il quale fu avvelenato
col curare, esso ha i vaghi intatti e tutti i muscoli sono
paralizzati eccetto il diaframma che si contrae con forza e
basta a mantenere la respirazione. Faccio la respirazione
artificiale per mezzo di un soffietto messo in comunicazione
colla trachea. La respirazione artificiale non fa scomparire
subito le respirazioni normali e queste vanno lentamente
decrescendo fino a che cessano. Sospesa la respirazione arti-
ficiale l'apnea dura poco. Il tempo è scritto ogni 2 secondi.
Ripeto nuovamente la respirazione artificiale e questa
volta invece di 9 il cane eseguisce spontaneamente solo
4 respirazioni decrescenti. Ripeto una terza volta la respi-
razione artificiale e succedono solo 3 inspirazioni spon-
tanee.
In questo tracciato nel quale sono scritte contempo-
raneamente le inspirazioni naturali e quelle artificiali, si
vede come va diminuendo l'eccitabilità del centro respira-
torio fino alla produzione dell'apnea. La frequenza del ritmo
dopo l'apnea è minore, ed è anche minore l'altezza delle
inspirazioni: e nelle tre volte che si produsse l'apnea fu
necessario un numero decrescente di inspirazioni artificiali
per arrestare i moti spontanei della respirazione.
Nel diaframma diventarono più evidenti e più forti le
ondulazioni della tonicità muscolare: e di questo fenomeno
parlerò in un prossimo lavoro.
Per mostrare che i gas del sangue non hanno un'im-
portanza decisiva nella produzione dell'apnea, ma che questa
può ottenersi più o meno rapidamente, più completa o
meno, secondo lo stato di eccitabilità del centro respira-
torio, si può fare la seguente esperienza.
Ad un cane amministrai due grammi di cloralio nella
vena giugulare e quando era profondamente tranquillo gli
feci la tracheotomia e vidi che sei inspirazioni profonde produc evano regolarmente
un arresto del respiro di circa 20". Lasciato l' animale tranquillo, dopo un'ora era
cessata l'azione del cloralio e l'animale si era bene svegliato; il medesimo numero
di inspirazioni fatte col soffietto non bastava più a produrre 1' apnea e neppure il
374
ANGELO MOSSO
doppio bastava; ma bisognava prolungare la respirazione artificiale per un tempo
quattro volte più lungo onde ottenere l'apnea.
Esamineremo con altre esperienze simili i risultati che ottenni facendo l'analisi
del sangue; posso intanto affermare che la condizione dell'apnea non dipende dallo
stato momentaneo dei gas del sangue: perchè questo può essere eguale e mancare
l'apnea, quando non si riesca colla ventilazione polmonare a diminuire l'eccitabilità
del centro respiratorio.
Onde convincersi che nell'apnea è depressa la eccitabilità del centro respiratorio
basta guardare il tracciato 8. Esso è preso da un coniglio del peso di 1700 gr. al
quale si era iniettato un gramma di cloralio nell'addome: quando fu addormentato
si legò nella trachea un tubo a T, un ramo lo si mise in comunicazione con un tim-
pano di Marey che scriveva sul cilindro i movimenti della corrente dell' aria respi-
rata che passava nell'altro ramo aperto. Nel punto A si ferma il cilindro e si fanno
Fig. 8.
12 forti movimenti respiratori col soffietto e poi torna a mettersi in movimento il
cilindro. Il respiro si ferma per 48'': ma i movimenti non tornano più all'altezza di
prima, se non dopo un altro minuto dalla fine del presente tracciato. Il tempo è
scritto ogni 2 secondi.
Che l'eccitabilità del centro respiratorio sia diminuita durante l'apnea, l'aveva
dimostrato primieramente Rosenthal, quando trovò che l'eccitazione elettrica del mon-
cone centrale del vago rimane senza effetto nell'apnea (1).
Dopo lo dimostrarono Kronecker e Marckwald irritando direttamente il centro
respiratorio nell'apnea (2). L'azione dell'apnea si estende a tutto il sistema nervoso
perchè la pupilla si restringe quando cessa il respiro, e la pressione nelle arterie
diminuisce perchè si dilatano i vasi sanguigni, e Leube trovò che cessano le convul-
sioni prodotte dalla stricnina.
Knoll (3) aveva già veduto che per mezzo del cloroformio e dell'etere è più facile
produrre l'apnea negli animali e che essa dura più lungamente, e lo stesso avevano
trovato Kionka e Filehne (4) per mezzo della morfina, e quanto più intenso era l'av-
velenamento tanto maggiore era l'apnea.
Anche nell'uomo succede una diminuzione nell'eccitabilità del centro respiratorio
per effetto dell'apnea simile a quella che osservammo nel tracciato 7 preso su di
un cane. Riferisco una esperienza fatta sopra di me (fig. 9). Dopo colazione alle 14
(1) ' Archiv f. Phys. „ 1879, p. 593.
(2) " Arch. f. An. und Phys. „, 1867, p. 629.
(3) Knoll, " Akad Berichte, Wien „, 1876, p. 233.
(4) Filehne und Kionka, " Pfliiger's Archiv „, 1896, p. 234.
LA FISIOLOGIA DELL APNEA STUDIATA NELL UOMO
37.:
mi seggo e applicato il pneumografo doppio sul torace all'altezza delle mammelle sto
15 minuti immobile, perchè il respiro diventi normale e regolare. Ad un certo punto
un assistente mi dice di fare tre profonde inspirazioni. La pausa che succede dura
solo 9". Il tempo è scritto ogni 2 secondi. Dopo l'15"
che feci la prima inspirazione profonda sono nuova-
mente avvertito che devo fare tre inspirazioni pro-
fonde. Questa volta l'apnea dura 16". Dopo un tempo
eguale al primo, ripeto tre profonde inspirazioni e
l'apnea dura 22". Faccio una quarta volta tre inspi-
razioni e l'apnea dura nuovamente 22" e dopo conti-
nuando non cresce più ma rimane costante 22".
Aspetto 15 minuti senza fare alcun esercizio di
apnea, stando seduto perchè il centro respiratorio
torni ad essere nelle condizioni di prima: facendo nuo-
vamente tre inspirazioni il periodo di arresto è sempre
di 20" a 22".
Delle esperienze simili le feci con eguale risul-
tato sul meccanico del mio Laboratorio, Luigi Corino,
d'anni 51, ma non mi riuscirono su altre persone e
ricorderò fra queste l'inserviente Giorgio Mondo e il
Dott. Aggazzotti, nei quali sono meno evidenti e
spesso mancano completamente i fenomeni dell'apnea
per tre ed anche per sei inspirazioni profonde.
Malgrado queste eccezioni si può tuttavia consi-
derare come una regola confermata nel cane e nel
coniglio, che quando si produce per la prima volta
l'apnea con un numero determinato di respirazioni,
questa ha una durata minore che non abbia l'apnea
successiva fatta con un numero eguale di respirazioni,
e questa è più breve della terza.
Tali differenze si osservano solo se l'apnea viene
fatta ad intervalli di tempo non troppo lunghi, e di-
pendono dalla diminuzione di eccitabilità che produce
nel centro respiratorio ogni singola apnea, cosi che
riprendendo la respirazione artificiale il centro respi-
ratorio non ebbe ancora tempo a rimettersi comple-
tamente dal disturbo subito nelle precedenti apnee.
Qualche volta succede di trovare delle persone nelle
quali l'eccitabilità del centro respiratorio è così grande
che invece di scemare la forza delle respirazioni dopo
averne fatte alcune profonde invece aumenta.
Dei vari esempi che mi capitarono ne riferisco uno solo : Depaoli Maria è una
donna robusta di 22 anni nella quale non è possibile produrre l'apnea con una serie
di inspirazioni profonde. Si osserva anzi il fenomeno contrario; perchè quanto più
durano le inspirazioni profonde e sono più numerose, altrettanto cresce dopo la forza
376 ANGELO MOSSO
10
del respiro per effetto della fatica. In questa donna un arresto di 20" dei movimenti
respiratori non produce alcun effetto, come si vede nel tracciato 10. Essa è appog-
giata alla tavola imbottita nell'inclinazione di 45°. Con un pneumografo doppio sul
torace stretto sopra le mammelle ed un altro sull'addome fissato all'altezza dell'om-
bellico. La linea superiore è quella del torace, la inferiore dell'addome. Le chiudo
le narici comprimendole colle dita durante 20", e si vede che non succede alcun
mutamento nel torace e nel diaframma, e i movimenti respiratori ricominciano inal-
terati colla medesima forza di prima. Ripeto una seconda volta l'esperienza con eguale
assenza di reazione. Questa insensibilità del centro respiratorio ai mutamenti del
sangue, apparve anche più evidente quando le feci respirare dell'anidride carbonica;
ma di questo parlerò in una prossima memoria. Dirò solo che la respirazione in me
si cambia in modo profondo per delle inalazioni di anidride carbonica, che in questa
donna non producevano alcun effetto e questo dimostra che esistono delle differenze
profonde nella eccitabilità del centro respiratorio.
Fig. 10.
È noto per le ricerche di vari autori, e per quelle recenti di Aronson (1) che
nei neonati non si riesce a produrre l'apnea e nei gatti anche una ventilazione che
durasse cinque minuti non era capace di produrre una pausa del respiro. La spiega-
zione che diede Aronson di questo fatto non mi persuade; per comprendere questo
stato refrattario del centro respiratorio ai mutamenti del sangue che succedono ad
una forte ventilazione, a me pare molto più semplice di ammettere che le cellule del
centro respiratorio funzionino per virtù propria e non si lascino influenzare da questi
mutamenti dei gas del sangue.
Questo vale per uno stato di grande vitalità del centro nervoso, e specialmente
negli animali neonati e molto giovani. Quando coi cambiamenti del respiro, facendo
una ventilazione forte del polmone si riesce a produrre l'apnea, è segno che la vita-
lità non è più così grande, e che si può facilmente produrre una depressione nella
eccitabilità delle cellule nervose. Ritornerò su questo argomento in una prossima
memoria sulla fisiologia generale della respirazione; per ora mi basta mostrare che
le persone nelle quali per mezzo di una serie di inspirazioni profonde non sono riu-
(1) H. Aronson, Ueber Apnoe bei Kaltblutern und neugeborenen Saugethieren , ' Arch. f. Phys. ,,
pag. 267.
11
LA FISIOLOGIA DELL APNEA STUDIATA NELL UOMO
377
scito a produrre l'apnea, erano anche insensibili alla diminuzione dell'ossigeno e ad
un aumento dell'anidride carbonica nel sangue.
Un fenomeno simile lo si può osservare in modo molto più evidente nei cani
leggermente curarizzati che hanno tutti i riflessi esagerati. Questo lo vediamo in
questo cane della Fig. 11 : In alto è scritta la respirazione toracica, in basso l'ad-
dominale; il tempo è segnato ogni 2".
Tutte tre le volte che facciamo il respiro artificiale aumenta la forza delle re-
spirazioni, e poi queste vanno rapidamente decrescendo. L'aumento della forza è
maggiore nel diaframma che non sia nel torace.
Fig. 11.
I tracciati riprodotti in questo capitolo mostrano quali siano le difficoltà che
presentansi in questo studio per le variazioni individuali, e per i cambiamenti che
succedono nella stessa persona in condizioni differenti. Quando però le esperienze
siano limitate a delle persone che si conoscono bene e queste si studino nelle condi-
zioni del determinismo sperimentale, le variazioni non sono punto di ostacolo, anzi
costituiscono un mezzo efficace per l'analisi dell'apnea, perchè lavorando nelle stesse
condizioni, i fenomeni sono costanti in ogni individuo e le variazioni individuali aiu-
tano a conoscere meglio la natura dell'apnea.
§ 3.
Inspirazioni coli 'ossigeno — l'anidride carbonica e l'idrogeno.
Facendo una inspirazione profonda coll'ossigeno non si trova un effetto diverso
da quello che si produca facendo una inspirazione egualmente profonda coll'aria: e
neppure respirando a lungo l'ossigeno si produce più rapidamente l'apnea di quanto
succeda coll'aria atmosferica. Queste esperienze hanno una grande importanza per la
dottrina dell'apnea, ed è stato Hoppe-Seyler il primo che abbia fatto notare come
l'aumento dell'ossigeno nel sangue non abbia importanza nella produzione dell'apnea.
Vi fu intorno a questo argomento un lungo dibattito che non è qui il luogo di pren-
dere minutamente in esame perchè si trova riferito in quasi tutti i lavori sull'apnea.
Seme II. Tom. LUI. x1
378 ANGELO MOSSO 12
Dirò solamente che le ultime ricerche di Fredericq (1) colle quali determinò la ten-
sione dell'ossigeno nel sangue arterioso di cani che respiravano dei miscugli gassosi
ricchi in ossigeno, permisero di troncare tale questione mostrando che l'aumento del-
l'ossigeno nel sangue ha pochissima influenza nella produzione dell'apnea. Infatti la
tensione dell'ossigeno raggiunge il 70 °/0 di un' atmosfera nel sangue di un cane il
quale respira dell'ossigeno puro, senza che si produca l'apnea.
Venne cosi definitivamente abbandonata la dottrina di Pfliiger il quale ammetteva
nelle prime ricerche fatte per analizzare l'apnea, che nel sangue vi sia una provvista
di sostanze facilmente ossidabili le quali producono la dispnea, e che devono essere
continuamente distrutte dall'ossigeno. Quando si produce una lunga ventilazione dei
polmoni, facciamo aumentare il contenuto dell'ossigeno libero nel plasma e nei tes-
suti e diminuisce, o si distrugge, questa provvista di sostanze facilmente ossidabili.
In seguito a tale modificazione del sangue l'animale nell'apnea consuma meno ossi-
geno, o quasi punto, perchè non esistono più queste sostanze facilmente ossidabili ;
e solo lentamente tornano ad accumularsi. Ammesso che la mancanza di ossigeno
fosse la causa dei movimenti respiratori, Pfliiger credeva di aver spiegato in questo
modo l'apnea.
Anche Rosenthal (2) al quale dobbiamo la parola apnea, e che studiò profonda-
mente questo fenomeno, credeva che il grado di attività del centro nervoso della
respirazione si dispiegasse in ragione inversa del contenuto in ossigeno del sangue,
e che succedesse l'apnea quando il sangue era saturo di ossigeno ; ma queste dottrine
insieme a quella di Hoppe-Seyler (3) che faceva dipendere l'apnea dalla stanchezza
dei muscoli respiratori non servono per spiegare l'apnea.
Per brevità non riproduco i tracciati delle esperienze che feci respirando l'ossi-
geno, non essendosi osservato alcuna differenza in raffronto coll'aria, tanto nelle per-
sone nelle quali si produceva facilmente l'apnea, quanto in quelle nelle quali era più
difficile e nelle altre in cui non si poteva ottenere.
Che l'ossigenazione più abbondante del sangue non sia il fattore dell'apnea era
già risultato dalle esperienze di Thiry fin dal 1865, il quale era riuscito a produrre
l'apnea con una mescolanza a parti eguali di aria e di idrogeno (4). Ma è stato
Head (5) il fisiologo che recentemente ha studiato meglio la respirazione dei gas
indifferenti e riuscì a produrre l'apnea nel coniglio, insufflando per mezzo di una
pompa dell'idrogeno puro nei polmoni.
Esperienze simili possono anche farsi sull'uomo, come si vede nel tracciato 12.
Mi servo di due cilindri della capacità di circa 50 litri, come quelli che si trovano
nel commercio per trasportare l'ossigeno compresso a 10 atmosfere. Uno di questi
cilindri è pieno di aria compressa a 2 atmosfere e l'altro è pieno di idrogeno a
2 atmosfere. Una maschera che serve a coprirmi la faccia è messa in comunicazione
con un cilindro pieno di idrogeno compresso. La corrente di idrogeno è così forte
(1) " Centralblatt f. Physiologie ,, 1894, p. 34.
(2) J. Rosenthal, Altes und Neues ilber Athcmbewegungen, " Biologisches Centralblatt „, I B., p. 121.
(3) Hoppe-Seiler, Ueber die Ursache der Athembewegungen, " Zeitschrift f. phys. Chemie „, 1879,
m B., p. 105.
(4) Fbedehicq, Dictionnaire de Physiologie par Charles Richet, Tome I. 634.
(5) Head, On the Regulation of Respiration, " Journal of Physiology „, Voi. X, 1889, p. 40.
13
LA FISIOLOGIA DELL'APNEA STUDIATA NELL'UOMO
379
quando si apre la chiavetta, che sono sicuro di respirare solo idrogeno. Dopo fatta
questa prima parte della esperienza nella quale si vede in R che l'apnea durò 16", un
poco meno di quanto per solito succeda in me dopo una inspirazione profonda, faccio
una esperienza coll'aria contenuta in un cilindro eguale e compressa egualmente a
2 atmosfere. Adopero la medesima maschera e faccio una sola inspirazione mentre
che passa una forte corrente d'aria, e non si vede in A una differenza notevole nella
durata dell'apnea.
Fig. 12.
Il tracciato 13 è un'esperienza fatta sopra Giorgio Mondo, a digiuno, stando
coricato, dopo che aveva dormito. Nel cilindro avevo fatto una mescolanza di aria
compressa e di idrogeno in modo che l'analisi dava 7,3 °/0 di ossigeno. Dopo una
Fig. 13.
inspirazione profonda, l'arresto durò 26". La curva è diversa da quella del tracciato 5
preso sulla medesima persona. Ma questa differenza 1' attribuisco alla sonnolenza
nella quale trovavasi Giorgio Mondo e la medesima curva si ottiene talvolta anche
se respira l'aria normale.
Se però invece dell'aria atmosferica facciamo una inspirazione con dell'anidride
carbonica, anche se questa trovasi mescolata a molt'aria, succede un mutamento no-
tevole nel respiro. Analizzerò meglio queste esperienze con un tracciato fatto sopra
me stesso.
Nella fig. 14 faccio una inspirazione di anidride carbonica servendomi della stessa
maschera che aveva servito per l'idrogeno e per l'aria. Un assistente, nel punto se-
gnato C02 , mentre stavo compiendo una inspirazione, fa passare una forte corrente
di anidride carbonica dentro la maschera ; succede un leggero arresto e dopo l'inspi-
razione procede senza essere molto profonda.
Eccetto il sapore acido dell'anidride carbonica, durante l'inspirazione e l'espira-
zione successiva, non provai alcuna sensazione. Anche nella prima inspirazione che
feci dopo coll'aria normale non sentii nulla di variato dentro di me: ma nella seconda
380
ANGELO MOSSO
14
si manifestò una leggera ambascia, sentii che diventava più forte il bisogno di respi-
rare e anche nel capo ebbi una impressione di molestia, come di una fugace sen-
sazione di vertigine e di ronzìo nelle orecchie. Il tempo è segnato ogni 2 secondi.
Il ritardo di oltre 10 secondi nella sensazione soggettiva, è dovuto non solo al
tempo che occorre perchè il sangue più ricco di ossigeno arrivi al midollo ed al cer-
vello, per questo basterebbero due o tre secondi, ma i 10 secondi sono necessari
perchè si accumuli l'anidride carbonica nelle cellule del midollo. E dunque piuttosto
la funzione del lavaggio e della ripulitura che è impedita e il C02 non agisce av-
velenando colla sua penetrazione, che in tale caso sembra dovrebbe essere più rapido,
l'effetto della sua presenza nel sangue.
Fig. 14.
Quanto alla durata così lunga dell'azione dell'anidride carbonica, quando certa-
mente l'aria nei polmoni ed i gas del sangue ritornarono normali, è una questione
che studierò con maggiore attenzione in un prossimo lavoro.
Nell'inserviente Giorgio Mondo l'anidride carbonica produce il medesimo effetto.
Il tracciato 15 è un' esperienza fatta scrivendo la respirazione toracica nella quale
Fi*. 15.
l'anidride carbonica viene inspirata insieme a molt' aria, perchè la maschera è tenuta
lontana quasi 5 centimetri dalla faccia. Vi fu una sola inspirazione fatta colla mesco-
lanza di aria ed anidride carbonica, ma l'effetto è grande: non solo manca l'apnea
che prima mi ero assicurato che producevasi con una inspirazione egualmente pro-
fonda coll'aria e che vedemmo prodursi anche coll'idrogeno nella Fig. 13; ma i mo-
vimenti del respiro, rinforzatisi, impiegano un tempo lungo prima di tornare allo stato
primitivo.
Tali esperienze avendo mostrato che nell'apnea si produce una diminuzione della
eccitabilità del centro respiratorio e le osservazioni fatte coll'idrogeno avendo pro-
vato che l'apnea non dipende da un aumento di ossidazione del sangue, resta un solo
15 LA FISIOLOGIA DELL'APNEA STUDIATA NELL'UOMO 381
fatto che noi dobbiamo considerare come causa dell'apnea ed è la diminuzione del-
l'anidride carbonica nel sangue.
Avendo io dato il nome di acapnia alla diminuzione dell'anidride carbonica nel
sangue ed ai fenomeni che essa produce, devo considerare come una forma dell'acapnia
l'arresto del respiro e i fenomeni che si producono nell'organismo, quando per mezzo
di una ventilazione più attiva dei polmoni scema nel sangue l'anidride carbonica.
§ 4.
Analisi dei gas del sangue nell'apnea.
La dottrina dell'apnea si fonda in parte sulle analisi del sangue apnoico fatte
da Pfliiger (1) e da Ewald (2), e i risultati delle loro ricerche sono noti. Augusto Ewald
trovò che nell'apnea il contenuto di ossigeno nel sangue arterioso è aumentato fino
quasi alla sua completa saturazione, mentre che è molto diminuito il contenuto di
anidride carbonica.
Ho voluto ripetere le analisi del sangue arterioso e mi servii a tale scopo del-
l'apparecchio di Barcroft e Haldane (3), il quale permette di fare analisi esatte dei
gas del sangue con delle quantità molto più piccole di sangue di quelle che si ado-
peravano prima per simili studi.
Ad un cane da pastore del peso di circa 10 chilogrammi iniettiamo alle ore 15.5'
4 grammi di soluzione di cloralio nella cavità dell'addome per renderlo più tranquillo.
Ore 15.55 prendiamo 1 ce. di sangue dalla carotide destra. Vediamo che il sangue
è meno rosso del normale
02 = 16.65% C02 = 39.50%
Ore 16.7 si fa agire il soffietto per 35" fino a che si produce l'apnea, e si prende
un ce. a cominciare da 15" fino alla fine del respiro artificiale
O2 = 20.1% C02 = 27.35%.
La quantità di anidride carbonica contenuta nel sangue apnoico di questo cane
è molto maggiore che non siasi trovato nelle ricerche di Ewald, il quale in alcune
analisi trovò appena la sesta parte di anidride carbonica nel sangue arterioso durante
l'apnea, essendo scese da 35.1 a 6.5 %. La quantità maggiore di anidride carbonica
da me trovata dipende dal tempo molto più breve che ha durato la ventilazione; perchè
la ventilazione durava nelle esperienze di Ewald mai meno di 15 minuti. In questo
cane avevo prodotto il sonno per mezzo del cloralio e anche questo contribuisce a
rendere maggiore la quantità di anidride carbonica.
(1) E. Pfluger, Ueber die Ursache der Athembewegungen, sowie der Dyspnoe und Apnoe, * Arch.
f. d. g. Physiol. „ I Bd., 1868, p. 101.
(2) Adgust Ewald, Zur Kenntniss der Apnoe, " Arch. f. d. g. Physiologie „, VII B., 575, 1873.
(3) Barcroft and J. S. Haldane, A method of estimuting the oxygen and carbonio acid in sinall
quantities of blood, " Journal of Physiology „, Voi. XXVIII, p. 232.
382
ANGELO MOSSO
Ui
Nella esperienza della Fig. 16 appare evidente che l'apnea non si produce quando
i gas del sangue hanno raggiunto un valore determinato: ma quando invece essi modi-
ficarono la eccitabilità del centro respiratorio in modo tale di depressione da pro-
durre l'apnea. Si tratta di un cane nel quale ho fatto l'analisi del sangue arterioso
preso nella carotide in due condizioni differenti di eccitabilità procurando di ottenere
colla respirazione per mezzo del soffietto le medesime variazioni nei gas del sangue.
Fi?. 16.
Per rendere più eccitabile il midollo amministro all'animale 5 ce. di una soluzione
di curare, del quale 0.2 bastano per paralizzare una rana, il cane pesa circa 9400 gr.
Quando l'animale è paralizzato quasi completamente e funziona solo più il diaframma,
mi assicuro che non può ottenersi l'apnea nel modo ordinario. Nel punto segnato P e
fino nel segno { prendo il sangue che analizzo:
0,= 16.91 °/0
C02 = 22.44 °/0.
Fig. 17.
È dunque un sangue che ha i caratteri dell'apnoico, e sebbene contenga meno
ossigeno e meno anidride carbonica del sangue precedente, che ho riferito per raf-
fronto, non si riesce a produrre l'apnea.
Aspetto che sia passata l'azione del curare e dopo un'ora somministro ripetuta-
mente quattro schizzetti che contengono ciascuno 1/2 gr. cloralio. Diminuita a questo
modo la eccitabilità del midollo compare l'apnea quando si fa la respirazione artifi-
ciale. La Fig. 17 rappresenta la continuazione della esperienza, in alto è scritta la
respirazione toracica, in basso l'addominale: poi viene il tracciato del tempo scritto
ogni 2 secondi.
17 LA FISIOLOGIA DELL' APNEA STUDIATA NELL'UOMO 383
Quando è finita la respirazione artificiale che continuai per un tempo quasi eguale,
prendo dalla carotide un altro campione di sangue da a in ai.
L'analisi diede
02 = 17.59% C02 = 22,94%.
La quantità del C02 era dunque quasi eguale a quella dell'esperienza precedente
e poco superiore l'ossigeno, ma questa volta si produsse l'apnea, mentre è mancata
nell'altra.
§ 5.
Influenza della posizione del corpo sulla durata dell'apnea.
È noto che il respiro ed il polso cambiano la loro frequenza secondo le posizioni
del corpo. Se studiamo la durata dell'apnea stando in piedi, o coricati, osservasi una
differenza ; nella posizione eretta dobbiamo fare uno sforzo e la contrazione dei mu-
scoli ci stanca: ma il fenomeno è più complesso. Esaminerò meglio in un prossimo
lavoro come varii il respiro nelle varie posizioni del corpo, per ora mi , limito a dire
che l'apnea dura meno nella posizione orizzontale, che nella posizione verticale. In
queste esperienze, come nelle precedenti, le persone per non affaticarsi si appoggia-
vano contro il letto inclinato a 45° ; e questo poteva facilmente mettersi in posizione
orizzontale senza che la persona si movesse, perchè la tavola era fissa con due perni
intorno ai quali poteva girare facilmente prendendo l'inclinazione da noi voluta.
Nell'inserviente Giorgio Mondo stando in posizione orizzontale l'apnea prodotta
da quattro inspirazioni profonde durava circa 18 secondi: mentre che per un egual
numero di inspirazioni profonde fatte stando inclinato a 45° l'apnea durava in media
24 secondi. Riferisco per maggiore esattezza le cifre di una serie di simili esperienze.
Posizione orizzontale. Fa quattro profonde inspirazioni: durata dell'apnea 17". Dopo
10 minuti fa altre quattro inspirazioni: durata 20" e dopo altri 10 minuti durata 17".
Mettiamo Giorgio Mondo nella posizione inclinata a 45° girando la tavola, sulla
quale è coricato. Facendo quattro inspirazioni egualmente profonde e alla medesima
distanza l'una apnea dall'altra, otteniamo i seguenti valori 22", 24", 25".
Nel Dott. Marro una serie di esperienze eguali diede un risultato analogo. Stando
orizzontale e facendo quattro inspirazioni profonde, in lui si produce un'apnea più
lunga che nell'inserviente Giorgio Mondo; ecco i risultati di due serie.
Posizione orizzontale. Durata dell'apnea in tre osservazioni fatte l'una dopo
l'altra alla distanza di 10 minuti: 30", 25", 25".
Lo si mette nella posizione di 45°, girando la tavola colla materassa. Fa nuova-
mente una serie di tre osservazioni alla distanza di 10 minuti, con quattro inspira-
zioni profonde per ciascuna, la durata dell'apnea è maggiore, perchè l'arresto del
respiro dura 33", 34", 35". Dice che sente la vertigine più forte che non provasse
nella posizione orizzontale, e che compare prima, cioè a 14" e 15" dopo la prima
inspirazione profonda, mentre che nella posizione orizzontale la vertigine per anemia
cerebrale compariva dopo 16" a 17" ed era più debole.
384
ANGELO MOSSO
18
Facendo queste esperienze ci eravamo messi davanti ad un grande orologio a
pendolo che segnava i secondi, cosi che potevasi vedere il tempo. Eguali esperienze
fatte sopra di me ed altre persone diedero i medesimi risultati.
In un prossimo lavoro dimostrerò che la quantità d'aria misurata non cambia
se facciamo una inspirazione profonda stando coricati, o stando nella posizione di 45°.
Le differenze che osservammo ora dipendono dai mutamenti che succedono nella
circolazione del sangue per effetto delle inspirazioni profonde.
§ 6.
La pressione del sangue nell'apnea.
Studiando nell'uomo l'apnea collo sfigmomanometro si vede che la pressione del
sangue diminuisce.
La fig. 18 è un'esperienza fatta sul Dott, Colombo. L'altezza delle pulsazioni co-
mincia già a diminuire durante le 8 inspirazioni profonde e diventa minore nell'apnea
Fig. 18.
per crescere durante le prime inspirazioni. Le ondulazioni di Hering e Traube che
prima erano bene evidenti scompaiono. La pressione era 11 cent, di mercurio.
Sopra di me (fig. 19) appare meno evidente la diminuzione nella forza del polso,
ma pure è notevole la diminuzione della pressione sanguigna durante l'apnea, che
prima era uguale a 12 cm. di mercurio.
Qualche volta, come si vede in questo tracciato preso su me stesso collo sfigmo-
manometro, vi è un aumento successivo della pressione sanguigna, il quale corrisponde
al periodo dell'incipiente asfissia, quando sono anche più forti le respirazioni.
La diminuzione della pressione sanguigna durante l'apnea e il successivo au-
mento, quando ricominciano i moti respiratori, si può vedere meglio nel tracciato
preso sopra di un cane (fig. 20).
In un cane del peso di 10.500 gr., al quale si è fatta la tracheotomia, si scrive la
pressione del sangue per mezzo di un manometro a mercurio messo nella arteria
19 LA FISIOLOGIA DELL'APNEA STUDIATA NELL'UOMO 385
femorale. Un pneumografo di Marey applicato sul torace trasmette i movimenti della
respirazione ad un timpano a leva. Le curve sono rovesciate, cioè, contrariamente a
tutte le altre riprodotte prima, la linea scende nella inspirazione e sale nella espi-
razione. La pressione oscilla fra 12 e 14 centimetri di mercurio nel principio del trac-
ciato. Devo avvertire che fu trattenuta la penna del timpano che scriveva il respiro
perchè non toccasse la curva della pressione, cos'i che le inspirazioni non furono
scritte in tutta la loro escursione, dal punto dove comincia la respirazione col sof-
fietto fino dove finisce. La pressione si abbassa notevolmente durante la respirazione
artificiale. Appena questa cessa, sale la pressione sanguigna. La frequenza del polso
è maggiore durante l'apnea, ma di poco. Quando la pressione ha raggiunto e supe-
rato il valore primitivo non è ancora ricominciato il respiro.
Fig. 20.
Finita l'apnea il torace si porta in una posizione fortemente espiratoria. Anche
nell'uomo vi è questa diminuzione di attività del centro respiratorio, come abbiamo
detto in principio, cosi che il torace prende una posizione espiratoria più pronunciata.
Tale depressione del torace la vediamo in quasi tutti i tracciati precedenti ed è un
segno che l'attività del centro respiratorio è scemata nell'apnea. Ma si vede pure nei
Sekie II. Tom. LUI. i1
386
ANGELO MOSSO LA FISIOLOGIA DELL APNEA STUDIATA NELL UOMO
20
tracciati che la tonicità si ristabilisce rapidamente e torna normale la condizione di
riposo dei muscoli del torace e quella del diaframma.
Riferisco ancora una esperienza fatta sul coniglio. La pressione sanguigna nella
carotide era 13 cm. di mercurio nel principio del tracciato 21. L'animale aveva una
cannula nella trachea a tre vie, un tubo a T, da una parte vi era un timpano a leva
di Marey il quale scriveva la corrente dell'aria inspirata ed espirata come si vede
nella linea superiore.
Fig. 21.
Al coniglio si era iniettato 1 gr. di cloralio nell'addome. Quando si faceva la
respirazione col soffietto da a in uu dovevamo chiudere comprimendolo il tubo di
gomma che metteva la cannula della trachea in comunicazione col timpano a leva
per non guastare la sua membrana coi colpi del soffietto.
La pressione scende di oltre 2 centimetri durante la respirazione artificiale e
cresce rapidamente appena cessa il movimento del soffietto. Durante l'apnea cresce
ancora e supera il livello che aveva prima. È questo un fatto costante il quale cor-
risponde al periodo asfittico che osservasi nell'apnea per la forte depressione nella
eccitabilità del centro respiratorio. Tale aumento lo osservai in modo costante, così
che può dirsi che tanto nell'uomo, quanto negli animali, vi è una contrazione dei vasi
che precede ed accompagna le prime inspirazioni quando cessa l'apnea.
Questo almeno lo verificai sempre, quando cessa l'apnea nei casi in cui le respi-
razioni sono più profonde; e dopo lentamente la pressione torna al valore di prima,
mentre pure le respirazioni vanno prendendo l'aspetto normale.
Mostrerò in una prossima memoria come un rapido abbassamento della pressione
sanguigna possa arrestare i movimenti del respiro. Nei casi qui esposti non credo che
tale mutamento della circolazione fosse da solo capace di produrre l'apnea; ma l'ab-
bassamento della pressione del sangue che precede l'apnea in modo costante, è certo
un fattore non trascurabile della medesima. La diminuita eccitabilità del centro respi-
ratorio da cui dipende l'arresto del respiro nell'apnea si produce più facilmente, se
insieme all'acapnia vi è una incipiente anemia del centro respiratorio.
L'APNEA
QUALE SI PRODUCE
NEI CAMBIAMENTI DI POSIZIONE DEL CORPO
MEMORIA
DEL SOCIO
ANGELO MOSSO
Approvata nell'adunanza del 24 Maggio 1903.
§ 1.
Salathé (1) fu il primo a studiare nel Laboratorio di Marey col metodo grafico
i mutamenti che succedono nella respirazione di un coniglio legato sopra una tavo-
letta di Czermak, tenuto verticale colla testa in alto e i piedi in basso. In questa
posizione i movimenti del respiro vanno rallentandosi e diminuiscono di ampiezza
fino a che cessano completamente, mentre il cuore continua ancora a battere.
Si tratta qui di un fenomeno molto complesso. Salathé fa dipendere la diminu-
zione e l'arresto del respiro dall'anemia del cervello e dai mutamenti che succedono
nella secrezione del liquido cerebrale, io ho preso in considerazione altri fattori. Il
metodo più comodo per tale studio è di legare un cane che dorma per mezzo del
cloralio, sopra un sostegno girevole di Rothe ; e di scrivere con due pneumografi il
respiro addominale e toracico. Quando dalla posizione orizzontale si gira il sostegno
in modo che l'animale abbia la testa in alto, succede un arresto del respiro, cui segue
un rallentamento molto notevole del ritmo respiratorio, senza che cresca in propor-
zione corrispondente la forza dei movimenti respiratori. Si produce una vera apnea,
come si vede nel tracciato 1. In questo come in tutti i tracciati seguenti si scrissero
in alto i movimenti della respirazione toracica e in basso quelli del diaframma. Per
brevità non starò più a ripetere tale avvertimento pei tracciati successivi (2).
A prima vista questo tracciato potrebbe lasciar credere che per il cambiamento di
posizione siasi modificato il bisogno di respirare, perchè il cane rimase mezzo minuto
senza respirare, e dopo il torace e l'addome cominciarono a muoversi con un ritmo
(1) Salathé, De l'anemie et de la congestion cérébrales provoquées mécaniquement . Travaux du Labo-
ratoire de M. Mabey, II, 1877, pag. 259.
(2) Il respiro fu scritto con due pneumografi fatti da un timpano a bottone colla membrana
elastica; il movimento veniva registrato sul cilindro colla trasmissione ad aria per mezzo di un
timpano a leva del Marey. Le penne erano così disposte che nella inspirazione la linea si alza, e si
abbassa nella espirazione. Per brevità mi servirò di questo segno ° per indicare la posizione
verticale colla testa in alto ; e di questo o— per indicare la posizione orizzontale.
388
ANGELO MOSSO
lentissimo quale si vede nella seconda parte della fig. 1. È però facile convincersi
che l'arresto del respiro produce un'incipiente asfissia e che il ritmo è divenuto troppo
lento per provvedere in modo sufficiente allo scambio dei gas.
lavimi» """ ■"' L»"""""* L*"" ' X^*"**
Fig. 1.
La fig. 2 rappresenta le fasi successive di un'altra esperienza simile. E un cane
grosso leggermente cloralizzato. Scrissi il tracciato della respirazione addominale
e toracica, ma per brevità riproduco solo quello della respirazione del torace; la
penna che scriveva era messa in modo che la linea scende nella inspirazione e si
alza nella espirazione. Il cane era legato sopra il sostegno di Rothe; nel principio
si trova in posizione orizzontale »-, quando lo metto verticalmente °, succede un
arresto del respiro che dura 24". Il tempo è scritto sotto ed ogni interruzione
Fig. '2.
corrisponde a 2"; per brevità non ripeterò più tale avvertimento. Dopo una inspira-
zione più profonda il respiro ricomincia colla stessa forza di prima, ma il ritmo è
ridotto quasi alla metà. La parte superiore della curva che segna la espirazione
va leggermente rafforzandosi. Quando mettiamo nuovamente il cane orizzontale nel
segno o- succede un rapido aumento della frequenza e i movimenti respiratori sono
più intensi di quelli che vedonsi in principio del tracciato. Torniamo a mettere il
cane in posizione verticale nel segno i e si riproduce l'apnea come prima.
Per ottenere questa apnea dovuta ai cambiamenti di posizione del corpo occorre
che gli animali siano addormentati con un narcotico qualunque.
In altre esperienze, come già osservammo nello studio dell'apnea nell'uomo, le
respirazioni formano una serie crescente, mentre che l'animale persiste nella posizione
colla testa in alto e le gambe in basso.
l'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo
389
Il tracciato 3 è preso sopra un cane cloralizzato, e fisso sul supporto di Rothe,
nel quale si scriveva il respiro per mezzo di un tubo a T messo nella trachea: per
per un ramo passava l'aria e l'altro stava in comunicazione con un timpano di Marey.
Era un piccolo cane del peso di 4700 gr.
Anche qui sebbene per brevità non sia riprodotto il tracciato normale della
posizione »•— prima dell'apnea, si vede il fenomeno dell'aumentata respirazione pas-
sando alla posizione orizzontale. La reazione che succede colla intensità maggiore dei
Fig. 3.
movimenti respiratori, e la frequenza cresciuta, mostrano che l'animale mentre
era nella posizione verticale non respirava a sufficienza e dalla forma della scala
crescente e decrescente possiamo farci fino ad un certo punto un'idea dei bisogni
respiratori e del modo col quale si è riparato al disturbo succeduto. Nella seconda
parte della fig. 3 vediamo come si ristabilisce spontaneamente il respiro nella inci-
piente asfissia per mezzo di una serie crescente di respirazioni.
Fig. 4.
Facendo delle esperienze sui conigli si vede che l'apnea è tanto più lunga e
completa quanto più diminuiscono le forze dell'animale ed è profondo l'assopimento.
Il tracciato 4 è una esperienza fatta sopra di un coniglio del peso di 1800 gr., al
quale iniettammo 32 ce. di soluzione di cloralosio 1 °/0. Si era messa nella trachea
una cannula a T, un ramo della quale era in comunicazione con un timpano di Marey
e scriveva i movimenti del respiro sul cilindro, mentre l'altro serviva al passaggio
dell'aria. Si scrive un primo tracciato A sollevando il coniglio nel segno °: esso non
era legato alla tavoletta, e lo tenemmo semplicemente per le orecchie alzandolo,
mentre le gambe pendevano in basso. Aspettiamo che l'assopimento sia divenuto più
profondo e torniamo a sollevarlo nello stesso modo. La curva sottostante B rap-
390 ANGELO MOSSO 4
presenta questa esperienza: vediamo nel segno ° che il respiro cessa completamente
e tale arresto è durato più di un minuto.
Qualche volta l'arresto è tanto completo che l'animale muore.
Quando il respiro è molto lento e debole questo metodo della cannula a T non
basta per decidere se sono cessati i moti respiratori.
Per convincersene basta guardare il tracciato 5. Si tratta di un coniglio clora-
lizzato che ha una cannula a T nella trachea colla quale si scrive il respiro con un
timpano Marey ; mettendolo in posizione verticale, nel segno f il respiro si arresta ;
ma tale arresto è solo in apparenza completo: chiudendo la cannula tracheale in
modo che i polmoni restino in comunicazione solo col timpano registratore subito
appaiono evidenti i moti del respiro.
Fig. 5.
Nel tracciato 5 è pure evidente che successe una diminuzione profonda nella fre-
quenza del ritmo e nella forza dei movimenti respiratori passando dalla posizione oriz-
zontale alla verticale. Nell'ultima parte della fig. 5 appare quanto sia intensa la reazione
che succede nella forza e nella frequenza del respiro quando si torna alla posizione
orizzontale , e dalla forma delle curve vediamo che prevale la corrente espiratoria.
Oltre all'anemia cerebrale di cui si è già occupato Salathé (senza averla però
analizzata con sufficiente estensione) nasce il dubbio che questo arresto del respiro
sia un fenomeno riflesso, ed una inibizione simile a quella che studieremo fra poco
nell'uomo, dove osserveremo rallentarsi il respiro nel passare dalla posizione oriz-
zontale alla verticale. Avendo però veduto che alcuni conigli profondamente clora-
lizzati possono morire, quando si mettono in posizione verticale, senza poter più ese-
guire alcun movimento respiratorio, si deve respingere il dubbio che si tratti di una
inibizione in via riflessa.
§ 2.
La circolazione sanguigna nei cambiamenti di posizione del corpo.
L'influenza che la forza di gravità esercita sulla circolazione del sangue venne
già studiata da L. Hill (1).
Interessandomi di analizzare meglio questa influenza per i rapporti che essa ha
coi fenomeni dell'apnea, ho voluto fare alcune esperienze scrivendo contemporanea-
(1) L. Hill, The influence of the force of gravity on the circulation of the blood, " Journal of Phy-
siology ,, Tome 18, pag. 15.
l'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo
391
mente il respiro e la pressione del sangue con un manometro a mercurio, come si
vede nel tracciato 6. È un coniglio del peso di 1900 gr. avvelenato con 15 ce. di solu-
zione satura di cloralosio iniettato nella vena giugulare. Ho messo nella trachea un
tubo a T e dal ramo libero scrivo nella linea superiore i movimenti della corrente di
aria respirata. Noi vediamo che la pressione sanguigna diminuisce quando l'animale
passa dalla posizione orizzontale a quella verticale. Se si tiene per breve tempo il
coniglio in questa posizione succede un abbassamento della pressione di 60 o 70 mm.
e si sarebbe inclinati a credere che questa sia la causa dell'apnea; ma prolungando
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Kg. 6.
per un tempo più lungo 1' osservazione come succede in questa esperienza (fig. 6)
vediamo che la pressione da 130 mm. scende a 76 mm., poi si rialza e supera il valore
primitivo per scendere nuovamente a 100 mm.
L'influenza che la posizione del corpo può esercitare sulla circolazione del sangue
e sulla funzione del respiro appare evidente nella sincope la quale succede nelle per-
sone molto deboli, se dopo una lunga malattia passano improvvisamente dalla posi-
zione orizzontale a quella verticale.
Hill attribuisce a questi mutamenti della circolazione un'influenza inibitrice sul
respiro; egli crede che nel cambiamento di posizione vi sia uno stimolo dei nervi
sensibili e che le terminazioni dei vaghi siano eccitate da una tensione dovuta al
cambiamento di posizione. Ma vedremo che l'apnea ed il rallentamento del respiro
si producono anche negli animali che hanno i vaghi tagliati: onde tale fatto deve
spiegarsi in altro modo.
§ 3.
Influenza della gravità sui movimenti del respiro.
Il peso degli organi contenuti nella cavità dell'addome e del torace, quando questi
gravitano e tirano in basso il diaframma e il torace, può diventare un ostacolo per
il libero funzionamento dei moti respiratori. Un coniglio normale, come un cane, può
respirare per un certo tempo, quando è messo in posizione verticale: ma se per
mezzo del cloralio, o dell'anemia, o di un mezzo qualunque, si diminuisce la forza
392 ANGELO MOSSO 0
dei centri nervosi e dei muscoli, esso non può più respirare bene, ed è specialmente
il diaframma che ne soffre.
L'esperienza della fig. 7 venne fatta sopra un coniglio coi vaghi tagliati, che
pesava 1600 gr., al quale iniettammo 1 gr. di cloralio nella cavità addominale. L'ani-
male è legato sul supporto di Czermak e scriviamo il respiro per mezzo di una can-
nula a T messa nella trachea, essendo un ramo del tubo in comunicazione con un
timpano a leva. Nel passaggio dalla posizione orizzontale alla verticale il respiro
quasi scompare nel tracciato tanto sono deboli gli impulsi che la corrente dell'aria
trasmette al timpano registratore. Mettendo nuovamente il coniglio in posizione oriz-
zontale, succede una forte reazione. I movimenti espiratori sono essi che colla intensità
insolita producono questo effetto, che sembra sproporzionato alla causa della breve
interruzione che lo ha prodotto.
Per eliminare gli effetti della gravità pensai di immergere gli animali nell'acqua.
Preparai un grande recipiente pieno di acqua tiepida a 36°. Nella fig. 8 si vede nel
principio il tracciato normale, poi nel segno f il cambiamento di posizione. Quando
si mette il coniglio verticale il respiro si arresta, ma appena in A si immerge il
coniglio nell' acqua fino al collo, cessa 1' arresto del respiro. Evitata l'azione della
gravità, il diaframma e l'addome funzionano bene.
Torno a rimettere il coniglio in posizione orizzontale o- e manca la reazione, od
è piccola. Nel segno ° si rimette il coniglio nell'acqua in posizione verticale e manca
l'apnea.
L'arresto del respiro non è dunque dovuto all'azione dei vaghi che siano stirati,
perchè qui erano recisi; e neppure è la circolazione che basti a produrlo, ma la
influenza preponderante è meccanica. Il peso dei visceri che agiscono sul dia-
framma (e che prenderò meglio in esame fra poco) l'animale può sollevarlo nella
espirazione, finché sono normali le sue forze, ma se per mezzo del cloralio, o di altro
narcotico, si indebolisce l'animale, i movimenti del respiro cessano. Succede pel dia-
framma, quanto vediamo nei muscoli flessori delle dita coll'ergografo, che non sono
più capaci di muovere un peso, quando questo supera colla sua resistenza lo sforzo
del quale i muscoli sono capaci.
Fenomeni simili di arresto avvengono pure nell' uomo, benché in grado meno
spiccato. È noto che la frequenza del respiro cambia secondo la posizione del corpo,
la media che trovasi nei trattati per la frequenza del respiro nell'uomo adulto è di
13 movimenti al minuto stando coricati, 19 seduti, e 22 stando in piedi.
Questo non lo si verifica più stando per qualche tempo orizzontali e passando
7 l'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo
dopo alla posizione verticale. Se nelle circostanze comuni della
vita la respirazione è più frequente stando in piedi, ciò dipende
da altre cause che sono più influenti per accelerare il respiro
di quelle che ora studiamo.
Il tracciato 9 fu preso prima in posizione orizzontale su
Giorgio Mondo. Dopo aver scritto la respirazione toracica e ad-
dominale inclino il tavolo sul quale esso è coricato. Nel passare
alla posizione ° di 45°, il torace si deprime portandosi in una
posizione più espiratoria, mentre il diaframma si abbassa por-
tandosi più in inspirazione. Giorgio Mondo in questa come in
393
Tor
Ad
Fig. 9.
tutte le altre esperienze simili sente una leggera vertigine nel
momento che passa dalla posizione orizzontale a quella di 45°:
è questo un segno di un'incipiente anemia cerebrale. I movi-
menti del torace si rinforzano, ma divengono più lenti ; e poco
per volta tendono a prendere la frequenza e la forza di prima.
I movimenti dell' addome rimangono più deboli nella posizione
verticale di quanto non fossero nella orizzontale.
Sopra di me il rallentamento del respiro nel passaggio
dalla posizione orizzontale alla verticale dura più a lungo e
anche la forza delle inspirazioni toraciche diviene maggiore, come
si vede nella figura 10 dove è scritta solo la respirazione tora-
cica. Verso la metà venne inclinata la tavola su cui ero coricato
e passai dalla posizione orizzontale a quella di 45°. In me non
si produce la sensazione della vertigine, sebbene il peso degli
organi addominali che agiscono tirando in basso il torace e il
diaframma sia maggiore. Infatti io sono più grasso e peso
85 chilog. con una statura di 1,78, mentre Giorgio Mondo pesa
solo 64 chilog. ed è alto 1,69. Osservai che nelle persone magre
e giovani succede un rallentamento del respiro meno notevole,
quando passano dalla posizione orizzontale alla verticale.
Gli organi che agiscono sul diaframma pesano più di 4 chilog.
Serie II. Tom. LUI.
394
ANGELO MOSSO
Il fegato pesa da solo quasi 2 chilog. La milza, lo stomaco non li contiamo, ma il
cuore gravita certo sul diaframma nella posizione eretta, e sono 350 gr. pel muscolo
cardiaco e 360 per il sangue contenuto nei ventricoli senza contare le orecchiette
ed i grossi vasi. I polmoni pesano in media 1300 grammi, ma varia molto il peso
del sangue che possono contenere. Questo peso, che può calcolarsi ad un minimum di
Fig. 10.
4 chilog. ma che certo lo supera, agisce in due direzioni dal disopra e dal disotto
del diaframma e tirando injbasso il diaframma produce un aumento^, della capacità
dei polmoni, come si vede nel tracciato della fig. 11.
Io ero nel principio coricato sulla tavola in posi-
zione orizzontale. Sotto il tempo che segna i 2 se-
condi vi è una linea spezzata fatta per mezzo di
una penna che si alza quando passo dalla posizione
orizzontale alla verticale e viceversa torna ad ab-
bassarsi ad ogni movimento orizzontale che viene
impresso alla tavola. In FP è indicata la posizione
delle penne. Faccio alcune inspirazioni profonde in
modo da produrre 1" apnea , poi chiudo la narice
destra con un tappo di cera modellato prima sulla
apertura della mia narice destra in modo che la
chiuda bene. Questo tappo è attraversato da un
tubo di vetro che comunica con un timpano a leva
di Marey. Chiudo la narice sinistra comprimendo
col dito contro il setto nasale. L'aria dei polmoni,
mentre tengo aperta la laringe, forma una cavità
chiusa dal timpano e si scrivono le pulsazioni del
cuore. Nel punto A si abbassa la tavola dalla
parte dei piedi e passo alla posizione di 45°,
l'aria nei polmoni si dilata e la leva si abbassa.
Subito dopo si torna a mettere la tavola in posi-
zione orizzontale e la leva si alza e torna alla posizione di prima. In B passo nuo-
vamente alla posizione verticale e torna a dilatarsi la cavità toracica e la pressione
diventa negativa. Ritorno alla posizione orizzontale e l'aria torna alla pressione di
prima. In C si ripete ancora una volta il passaggio alla posizione di 45° e torna a
prodursi una rarefazione dell'aria.
Il restringimento del torace che producesi tutte le volte che noi passiamo dalla
Fig. il.
9 l'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo 395
posizione orizzontale alla verticale, è dunque compensato dall'allungamento del dia-
metro verticale per l'abbassarsi del diaframma.
Per conoscere il valore reale di questi mutamenti della capacità polmonare, ho
messo un manometro in comunicazione colle narici. Era un semplice tubo di vetro
piegato ad U pieno di acqua, con una divisione in millimetri. Feci l'esperienza che
ho riferito colla fig. 11, solo che invece di scrivere i cambiamenti di pressione col
timpano di Marey, si leggevano i valori della pressione sul manometro. Ripetendo
queste esperienze, facendo precedere una leggera apnea, trovai che passando dalla
posizione orizzontale alla verticale di 45° producesi una pressione negativa di 15 mm.
di acqua nei polmoni.
La differenza di volume deve essere maggiore (1), come dimostrai studiando la
circolazione nei polmoni in seguito ai movimenti del respiro, nel mio lavoro sulla
circolazione del sangue nel cervello dell'uomo (Capitoli IX e X). Esaminerò ancora
in una prossima memoria sulla fisiologia comparata del diaframma e del torace i
mutamenti che succedono nel respiro pei cambiamenti di posizione del corpo.
(1) Supponendo che in me l'aria residua e di riserva, cioè 1' aria contenuta nei polmoni alla
fine di una espirazione moderata, come succedeva in queste esperienze, sia di 2800 ce, la diminu-
zione di volume che si produrrebbe passando dalla posizione orizzontale alla verticale, sarebbe solo
di 4 o 5 ce.
MOVIMENTI RESPIRATORI
DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
KICEBCHE
ANGELO MOSSO
Approvata nell'adunanza del 24 Maggio 1903.
I.
L'azione dei centri nervosi sui movimenti del respiro.
I problemi fondamentali della respirazione intorno ai quali da lungo tempo discu-
tono i fisiologi sono essenzialmente due: si tratta di sapere se i movimenti del respiro
siano riflessi od autoctoni ; se vi sia solo un centro respiratorio nel midollo allungato,
o se pure esistano altri centri nel midollo spinale e nel cervello.
Mi sono già occupato due volte di questo argomento: nel 1878 (1) e nel 1885 (2).
Ora comunico altre esperienze le quali dimostreranno meglio che i movimenti del
respiro sono autoctoni, e che i movimenti del torace, del diaframma, della faccia e
dell'addome funzionano in modo indipendente per mezzo di centri nervosi speciali fra
loro associati.
Comincierò con una esperienza fatta sopra un animale coi vaghi tagliati, per
vedere subito cosa succede facendo la respirazione artificiale in un cane dove sia
eliminata la variazione ritmica dei gas del sangue che si produce nella respirazione
normale, e dove sia esclusa la sensibilità dei polmoni.
Si tratta di un cane del peso di 8500 grammi, il quale in ripetute iniezioni aveva
ricevuto 9 grammi di cloralio nella vena giugulare, ed al quale si erano dopo tagliati
i due nervi vaghi. Quando incomincia il tracciato (fig. 1) è più di un minuto che fac-
(1) A. Mosso, Sui rapporti della respirazione addominale e toracica nell'uomo, " Archivio per le
scienze mediche ,, 1878.
(2) Id., La, respirazione periodica, " Memorie della R. Acc. dei Lincei ,, 1885.
Tor
Ad
398 ANGELO MOSSO 2
ciamo la respirazione artificiale per mezzo di un soffietto messo in comunicazione colla
trachea, senza che ci riesca di modificare i movimenti del respiro. In alto è scritta la
respirazione toracica ed in basso l'addominale. Adoperai a tale scopo due timpani
messi intorno al torace come quelli del pneumografo di Marey, i quali per mezzo di
un tubo a forchetta comunicavano con un timpano a leva, il quale scriveva sul ci-
lindro di un motore Baltzar. Un altro timpano che portava sulla membrana elastica
un bottone sporgente di sughero, poggiava sull'addome in corrispondenza della regione
epigastrica, ed era tenuto in posto da un tubo di piombo pieghevole per adattarlo
meglio per mezzo di un sostegno nella posizione voluta. In questo come in tutti i
tracciati seguenti le linee si alzano nella inspirazione e scendono nella espirazione:
il tempo è scritto in modo che ogni dente corrisponde a un intervallo di due secondi.
Per brevità, non dirò più nulla riguardo al tempo, bastando questo avvertimento
anche pei tracciati successivi.
Quando si sospende la respirazione artificiale vediamo che il ritmo del respiro
spontaneo procede inalterato, che i movimenti del torace e del diaframma non cam-
biano menomamente. Una respirazione artificiale intensa che aveva durato più di un
minuto non era dunque bastata a produrre l'apnea, e dobbiamo conchiudere che
questo animale sia insensibile ai mutamenti dei gas del sangue che si producono per
mezzo della respirazione. Nel tracciato 1 ricominciamo due volte a far la respira-
zione artificiale per circa 40 secondi e tutte due le volte vediamo che il respiro non
subisce alcun mutamento.
Da questa esperienza appare che anche dopo il taglio dei vaghi esiste un go-
verno della respirazione, e che i mutamenti del sangue quali si producono anche nella
respirazione più intensa, non bastano a modificare il ritmo e la forza dei movimenti
respiratori e che per ciò dobbiamo considerarli come automatici, od autoctoni, come
il Gad propose di chiamarli.
Tutte le modificazioni del respiro che succedono negli animali coi vaghi intatti
si possono riprodurre dopo recisi questi nervi, solo che bisogna adoperare degli sti-
moli più forti. Questo lo vediamo nel tracciato 2.
È un coniglio del peso di 1600 gr. al quale si amministrò un grammo di cloralio
nell'addome. Fatta la tracheotomia, quando fu bene addormentato gli si tagliarono i
vaghi, e legammo un tubo a T nella trachea: un ramo fu messo in comunicazione
con un timpano di Marey; l'altro libero serviva alla respirazione. La cur.va scritta in
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
399
questo tracciato rappresenta la velocità della corrente dell'aria inspirata ed espi-
rata, e siccome il coniglio impiegava un tempo più lungo ad inspirare che non ad
espirare, così nel tracciato normale quasi non si vede l'inspirazione e solo appare
l'espirazione colla linea ascendente.
Nel punto a segnato da una freccia } avviciniamo un debole getto di anidride car-
bonica al tubo della trachea donde penetra l'aria nei polmoni. La inspirazione si
rinforza, ma la espirazione diviene più energica che non sia l'aumento della inspira-
zione. In w cessa l'amministrazione di anidride carbonica che penetrava nei polmoni
mescolata con molta aria.
Sebbene fossero inattivi i vaghi, vediamo che si è prodotta una modificazione
profonda del respiro. Le due curve, quella che unirebbe il vertice di tutte le espi-
razioni da a in iu; e quella sottostante che unirebbe il principio di tutte le espira-
zioni, non si rassomigliano. Questo dipende da ciò che per eifetto dell'anidride car-
Fig. 2.
bonica reagirono in modo diverso il centro inspiratorio e quello dei muscoli espiratori.
L'effetto sulla espirazione, come vedesi nella curva guardando il vertice delle espi-
razioni nella linea superiore, si mantiene più lungamente elevata che non la linea
che passerebbe per la base di tutte le inspirazioni verso il basso.
Questa esperienza è istruttiva per coloro che ancor oggi non ammettono che la
espirazione sia attiva. Qui appare evidente che l'anidride carbonica agisce per un
tempo più lungo e più intensamente sul centro espiratorio che non su quello inspi-
ratorio. L'anidride carbonica esagera i fenomeni respiratori nell'animale coi vaghi
tagliati dove vediamo entrare in azione i muscoli espiratori dell'addome e spesso
anche quelli della faccia in modo più forte che non succeda nel respiro normale.
Ritornerò su questo argomento con altre esperienze più evidenti dove scriveremo
le contrazioni dei muscoli retti dell'addome.
L'animale è così profondamente addormentato per mezzo del cloralio che non
reagiva più al dolore. Per tale ragione dobbiamo ammettere che l'anidride abbia
agito direttamente sui centri della respirazione. Non può essere un riflesso" dovuto
ai nervi della pelle, o ad altri nervi sensibili, perchè comprimendo forte le zampe
con una tanaglia non erasi ottenuto prima alcun effetto.
Non mi fermo a discutere se la respirazione dipenda da riflessi che si producono
per influenza della sensibilità generale; dirò solo che ad un cane avvelenato profon-
damente col curare e nel quale solo il diaframma si muove, si possono stritolare le
400 ANGELO MOSSO 4
ossa delle dita, senza che succeda la più piccola modificazione nel ritmo e nella forza
delle contrazioni diaframmatiche.
Ho già pubblicato i tracciati di cani resi insensibili col cloralio (1), nei quali
aprii largamente l'addome e il diaframma, e i muscoli del torace continuavano a
funzionare, mentre i polmoni erano in collasso, cosicché i movimenti respiratori erano
inutili.
La stessa anidride carbonica, che forse è lo stimolo più potente del centro respi-
ratorio, può diventare anch'essa inattiva. Amministrando ripetutamente del cloralio
ad un coniglio si ottiene un sopore così profondo, che la temperatura rettale può
scendere a 24°. I movimenti del respiro diventano estremamente deboli. Se in tali
condizioni si chiude la trachea, spesso gli animali muoiono di asfissia senza reagire.
I movimenti del respiro si rallentano e crescono pochissimo di profondità, fino a che
cessano completamente.
Centri respiratori cerebrali.
Ho già dimostrato in un altro lavoro le relazioni dei centri respiratori cerebrali
coi muscoli della faccia; ora vedremo meglio come agiscano sul respiro i centri respi-
ratori cerebrali e le funzioni psichiche. Quando scrissi il tracciato 3 io ero coricato
Fig. 3.
sopra un sofà ed avevo intorno al torace un pneumografo doppio (2) ; ero solo nella
stanza e sul tavolo dinanzi a me stava il motore Baltzar, sul quale scrivevasi il
tracciato del respiro. Stando profondamente tranquillo compaiono delle ondulazioni
nel tracciato, e mi accorgo che esse corrispondono ai fenomeni psichici. Quando,
sto attento, il tracciato forma una linea orizzontale: ma tutte le volte che mi
distraggo, la serie delle respirazioni si abbassa. Quando mi accorgo che nella mia
coscienza appaiono delle imagini e delle cose alle quali prima io non pensavo, e si
stabiliscono dei fatti psichici che non hanno più una concatenazione collo stato pre-
cedente delle idee, guardando il cilindro vedo che la penna si è alzata e il torace
(1) La respirazione periodica e di lusso. Tav. VII, pag. 43.
(2) In tutte le esperienze fatte sull'uomo in questa memoria, adoperai il pneumografo doppio
di Ch. Verdin che non descrivo perchè la figura trovasi a pag. 102 del suo catalogo. Dirò solo che
feci sempre attenzione perchè la membrana elastica dei due timpani fosse egualmente tesa. Una
cinghia di cotone inestensibile serviva a fissare il pneumografo per mezzo di una fibbia intorno al
torace o all'addome. La tensione giusta della membrana elastica si ottiene facendo scorrere late-
ralmente 1' uno o 1' altro timpano che sono mobili e si fissano per mezzo di una vite a pressione.
Nella inspirazione la penna si alza.
5 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 401
è passato in posizione inspiratoria più forte. Le inspirazioni diventano più piccole e
la tonicità dei muscoli toracici aumenta.
La differenza nei mutamenti del torace e dell'addome durante l'attenzione, la
distrazione ed il sonno l'ho già descritta in due lavori precedenti, ma non avevo
tenuto calcolo della rapidità colla quale si compiono queste modificazioni. Nel sonno
è facile dimostrare che la coscienza ed il pensiero si destano e funzionano prima che
abbia potuto modificarsi la circolazione. In un mio prossimo libro sul sonno pubbli-
cherò le osservazioni che feci in tale riguardo studiando la circolazione sanguigna
nel cervello dell'uomo. I riflessi si compiono nell'uomo con ritardi abbastanza lunghi,
ed è lunghissimo fra tutti quello della deglutizione.
Fra l'eccitazione dei nervi sensibili e la contrazione successiva dei muscoli inter-
cede un tempo percettibile; ma per i mutamenti del respiro, non ho potuto accorgermi
di questo ritardo; quando succede il mutamento psichico succede contemporaneamente
il mutamento nel respiro. Guardando il tracciato appena cessa la distrazione e si
ristabilisce il fenomeno dell'attenzione, vedo che si è arrestata nella discesa la penna
e che è già cominciata una inspirazione più alta. Sono dunque fenomeni sincroni e
diversi dai riflessi comuni, onde si deve ammettere l'esistenza di centri respiratori
cerebrali.
Pur riconoscendo che vi sia nel midollo allungato un centro che manda impulsi
ritmici ai centri spinali del respiro, dobbiamo ritenere che fra la corteccia cerebrale
ed il centro del midollo allungato devono esistere delle relazioni più intime e più
dirette che non siano quelle che producono i riflessi ordinari, i quali si compiono con
lentezza molto maggiore.
Differenze individuali, e mutamenti nella eccitabilità del centro respiratorio.
Il concetto che noi dobbiamo farci di un eccitamento è quello di una causa che
produce un mutamento nella condizione della vita delle cellule; di una causa cioè che
è capace di alterare la costituzione chimica delle cellule. Quanto maggiore è la vita-
lità delle cellule, tanto più sarà grande la resistenza che esse oppongono agli agenti
perturbatori. È questa una affermazione che a primo aspetto lascia dubbiosi ; ma per
comprendere come dobbiamo tenere distinto il concetto della vitalità da quello della
eccitabilità, basta pensare a cosa succede negli animali neonati, che sono i più refrat-
tari all'asfissia. Invecchiando gli animali e l'uomo diventano sempre meno resistenti
alle cause perturbatrici del respiro.
È questo un fatto importante per la fisiologia generale della respirazione che ho
già accennato in una precedente memoria sull'apnea, e che torna utile di esaminare
meglio. Loewy in un lavoro che fece sulla eccitabilità del centro respiratorio giunse
alla conclusione che " la eccitabilità del centro respiratorio presenta una grande
(auffallend) costanza „ (1). Le esperienze che ho fatto sull'uomo mi diedero dei risul-
tati che contraddicono tale affermazione.
(1) A. L(ewt, Zur Kennlniss der Erregbarkeit des Athemcentrums, " Arch. f. d. g. Physiologie
voi. 47, pag. 620.
Sesie II. Tom. LUI. a2
402
G LO MOSSO
Non mi fermerò qui a fare la critica del metodo di Lcewy, né a cercare la
ragione di questa differenza. Credo clie ad impugnare tale affermazione del Lcewy
siano sufficienti le esperienze che ho già pubblicate intorno all'apnea e quelle che
esporrò adesso.
Il metodo che adoperai in queste ricerche consiste nel chiudere il naso e sospen-
dere la respirazione per un tempo eguale p. e. 10" e vedere quali sono le modifica-
zioni che succedono nel respiro. Mettendo un pneumografo intorno al torace e scri-
vendo i movimenli respiratori si osserva una grande costanza nei tracciati quando
le persone stanno tranquille. Per maggiore regolarità dei tracciati è meglio chiudere
le narici sempre alla fine di una espirazione.
Fi" 4.
Il primo fatto che risulta da queste esperienze è che le persone giovani sono
generalmente più refrattarie all'asfissia che non gli adulti od i vecchi, cioè un arresto
del respiro produce nei giovani una reazione meno intensa che negli adulti e nei vecchi.
Questo lo vediamo nei seguenti tracciati: Al ragazzo del laboratorio Gay Giu-
seppe, che ha l'età di 15 anni, applico un pneumografo doppio di Marey intorno
all'addome. Come nelle precedenti ricerche sull'apnea, per evitare la fatica di stare
in piedi, le persone da me studiate si appoggiavano contro una tavola imbottita che
stava inclinata a 45°.
Nel tracciato 4 chiudo per 3 volte successive il naso, comprimendogli colle dita
le narici. L'addome si rilascia e passa in una posizione espiratoria maggiore durante
la pausa del respiro ; l'altezza delle inspirazioni rimane quasi costante, solo la toni-
cità e la posizione espiratoria del diaframma si è modificata e dopo si ristabilisce.
Il tracciato 5 rappresenta pure il respiro del diaframma e fu preso sopra di una
donna coricata in posizione orizzontale. Il tempo nel quale le tenevo chiuse le narici
è più lungo e varia da 16" a 20".
Anche qui vediamo che la pausa del respiro non produce alcun effetto e le inspi-
razioni che succedono dopo tale arresto non sono cambiate, ne per il ritmo, ne per
la forza.
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
403
Il tracciato 6 lo prendemmo sopra un garzone del laboratorio meccanico, certo
Clhiffa, di anni 15: esso rappresenta la respirazione del torace scritta mentre stava
coricato orizzontalmente. Gli chiudo le narici e dopo 24" le apro: succede una inspi-
razione più forte, ma questo non è un fatto costante, perchè era mancata nell'esperienza
precedente e manca pure nella successiva. L'importante è di vedere che un arresto
così lungo produce un effetto minimo sulle respirazioni successive.
Nelle persone adulte non vi è più questa impassibilità del respiro per una pausa.
Dei molti esempi che potrei riferire, ne prendo due a caso nella serie delle esperienze
fatte e li riproduco colle figure 7 ed 8. Un vecchio di 76 anni, certo Manini Carlo,
404 ANGELO MOSSO O
ha il pneumografo doppio intorno al torace (fig. 7). Per quattro volte gli chiudo le
narici comprimendole colle dita durante 10". In tutte queste esperienze, come nelle
precedenti, e nelle successive fatte in altri giorni per raffronto, ottenni sempre una
reazione più forte del respiro che non succeda nei giovani per una pausa eguale del
respiro, o per una molto più lunga.
Il tracciato 8 fu preso sopra Agostino Caudana, un uomo robusto dell'età di 51 anno,
sul quale feci le mie prime ricerche sulla respirazione ora sono già più di 25 anni.
Anche in lui, come succede in me, l'arresto del respiro fatto per 10" produce una
reazione costante e molto più grande che nelle persone più giovani.
In queste esperienze non possiamo dire che l'eccitamento fosse minore: anzi
siamo certi che nello stesso tempo si accumula nei giovani una quantità maggiore di
anidride carbonica nel sangue. Forse era doppia la quantità di anidride carbonica che
per il medesimo peso in chilogrammi produceva il ragazzo di 18 anni e la donna
di 22, in confronto del vecchio di 76, secondo avevano già mostrato le esperienze di
Scharling. In questo sono tutti d'accordo che il ricambio materiale sia più attivo nei
giovani che nei vecchi, e malgrado che l'intensità dell'eccitamento sia maggiore (se
vogliamo chiamare con tale nome la diminuzione dell'ossigeno e l'accumularsi del-
l'anidride carbonica nel sangue) è minore la reazione del centro respiratorio nei gio-
vani, mentre è più intenso l'effetto negli adulti e nei vecchi.
Il prof. Benedicenti fece nel mio Laboratorio una serie di ricerche con altro
metodo, le quali diedero il medesimo risultato (1) : studiando il tempo che uno può
resistere tenendo il naso chiuso, trovò delle grandi differenze, come era già noto ; ma
analizzando l'aria espirata dopo la pausa, vide che la durata più o meno lunga non
dipende dalla capacità polmonare, ne dalla quantità di ossigeno consumata, ne da
quella dell'anidride carbonica eliminata, ma che le differenze sono dipendenti dalla
maggiore, o minore resistenza dei centri nervosi nei diversi individui.
Ho pubblicato nel mio libro sulla Fisiologia dell'uomo sulle Alpi, a pag. 274, una
tabella grafica nella quale si vedono i rapporti fra la capacità polmonare e il tempo
che uno può resistere quando gli si chiude il naso. Facendo queste esperienze sugli
studenti che frequentano le mie lezioni ho trovato delle differenze personali inaspet-
tate, che certo non possono spiegarsi coll'eccitamento per l'accumularsi dell'anidride
carbonica nei polmoni, o coll'azione che la diminuzione dell'ossigeno può avere come
eccitamento sul centro respiratorio.
Uno studente di Veterinaria, il sig. Gambarotta, di aspetto piuttosto debole e
pallido, ci sorprese colla grande resistenza che egli presentò all'asfissia. Credo sia un
caso eccezionale, perchè in parecchie esperienze poteva stare un minuto e mezzo senza
respirare; e questo succedeva anche quando non faceva una inspirazione profonda
prima che gli chiudessi le narici, come si vede nel tracciato 9. In questo foglio vi
erano due tracciati eguali fatti sopra di lui. Ho dovuto tagliarne uno in due per non
riprodurre una figura troppo lunga. Il respiro fu scritto nel solito modo con un pneu-
mografo messo intorno al torace. La penna scende nella inspirazione e si alza nella
espirazione. Non ho scritto il tempo, perchè lo contavo coll'orologio a secondi. In
(1) A. Benedicenti, Sull'arresto del respiro nell'uomo e cause che ne modificano la durata, R. Acca-
demia di medicina, aprile 1897.
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
405
questo tracciato da a in w sono passati 91 secondi prima che aprisse la bocca. Per
quasi un minuto il tracciato del torace è perfettamente immobile e si vedono i bat-
titi del cuore. In principio della seconda linea il torace non sta più fermo ed immo-
bile come prima, ma vedesi un leggero tremito coll'accenno a dei moti inspiratori.
Questo tracciato fa uno strano contrasto con altri che pubblicherà fra poco il
prof. Galeotti, che pure essendo giovane e robusto resiste normalmente solo 8 secondi
alla chiusura delle narici, e deve qualche volta aprire anche prima la bocca per
respirare.
Degna di meraviglia in questo tracciato è la durata minima della reazione che
manifestasi quando il signor Gambarotta apre la bocca e respira spontaneamente.
Dopo due inspirazioni profonde il respiro era normale. Lo stesso è succeduto anche
Fig. 9.
in un tracciato dove stette 98 secondi senza respirare. Non ho riprodotto questo
tracciato perchè nell'ultima parte il torace era meno immobile che in questo della
figura 9.
Nei suoi compagni della medesima età e dello stesso corso il respiro si potè
trattenere in media solo circa 30", alcuni anche solo 17", senza che vi fosse alcun
rapporto colla capacità polmonare, il peso, o la statura, come appare dai dati miei e
da quelli che pubblicò il prof. Benedicenti.
Questi fatti mostrano quanto sia diverso lo stato di eccitabilità del centro
respiratorio e come non siano attendibili le conclusioni alle quali è giunto Lcewy,
che ammette essere costante in tutte le persone e in tutte le circostanze e le ore
della giornata la eccitabilità del centro respiratorio, facendo dipendere tutto dagli
eccitamenti che agiscono irritando il centro respiratorio.
Critica delle dottrine fisiologiche per mezzo delle esperienze fatte sull'uomo.
Gli studi grafici che ho pubblicato e che pubblicherò in seguito sulla respirazione
spero avranno per risultato di convincere i colleghi che gli esperimenti sull'uomo
siano per molti problemi preferibili alle ricerche che si fanno sugli animali. Fu un
errore di non aver cercato sempre prima di enunciare una dottrina, se non era possi-
bile di rettificarla sull'uomo. I conigli, sui quali vennero fatte fino ad ora la maggior
parte delle esperienze per fondare la dottrina generale della respirazione, hanno
l'inconveniente di respirare con un tipo diverso dal nostro. La vivisezione, l'uso dei
frenografi e degli strumenti che si applicano direttamente al diaframma aprendo la
40G ANGELO MOSSO 10
cavità dell'addome sono metodi violenti che servono meno bene dello studio grafico
fatto sull'uomo.
Dopo le ricerche di Hering e Breuer (1) tutti i fisiologi danno una grande im-
portanza alle eccitazioni dei rami nervosi terminali , colle quali i nervi vaghi si
distribuiscono al polmone.
È noto come Breuer ed Hering abbiano affermato in seguito alle loro espe-
rienze che i mutamenti di volume dei polmoni, cioè la loro estensione e il loro
restringimento, influiscono per mezzo del nervo vago sui moti della respirazione; così
che la distensione dei polmoni agisce in via riflessa paralizzando l'inspirazione e
producendo l'espirazione, e viceversa che per mezzo della diminuzione del volume
polmonare si ferma la espirazione, e si eccita una inspirazione.
Questi risultati non si ottengono nell'uomo. Esaminando molte persone in varie
ore della giornata, alle quali chiudevo le narici per un tempo più o meno lungo
Fig. 10.
e ripetutamente con metodo nelle varie fasi della rivoluzione respiratoria, mi accorsi
che non si verifica nell'uomo la legge dei riflessi enunciata da Breuer ed Hering.
Questo disaccordo si vede nel tracciato 10 preso sopra Agostino Caudana, dove
essendosi chiuse le narici alla fine di una inspirazione, non incomincia dopo una espi-
razione, ma succede invece un' altra inspirazione. Nella 'seconda esperienza avendo
chiuso le narici alla fine di una espirazione si produsse una inspirazione dopo l'ar-
resto. Nella terza ripetendo la chiusura alla fine di una inspirazione si ottiene non
già una espirazione, ma un'altra inspirazione, e così successe parecchie volte di seguito.
Per eliminare il contatto colla pelle ho ripetuto queste esperienze servendomi di
una maschera di guttaperca modellata sulla faccia delle persone che servivano alle
mie esperienze. Il tubo di vetro messo in corrispondenza del naso poteva chiudersi
facilmente por mezzo di un tappo conico di sughero . o di gomma , che chiudeva
ermeticamente l'apertura. La maschera era a tenuta d'aria per mezzo di mastice da
vetrai messo intorno sul bordo. La persona dopo essersi riposata respirando spon-
taneamente, sapeva che bisognava lasciar funzionare liberamente il respiro senza
intervenire in nessun modo colla volontà. Durante la chiusura la linea decorre
orizzontale.
(1) Breuer, Die Sélbststeuerung der Athmung durch den Nervus Vagus, * Sitzungsberichte k. Ak.
der Wiss. Wien „, 1868, pag. 909.
11
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
407
Il tracciato 11 fu preso sopra Giorgio Mondo; esso ha un timpano doppio intorno
al torace e sta coricato nella posizione di 45°.
Nella prima esperienza, chiudendo l'accesso dell'aria alla fine di una inspirazione,
non vi è alcun cenno di una espirazione e siamo incerti se si verifichi la legge di
Breuer ed Hering, ma nelle due esperienze successive non si verifica più. Quindi non
possiamo ammettere che nella respirazione normale l'azione del centro nervoso sia
influenzata dagli stimoli meccanici che vengono dalla periferia per mezzo del nervo
vago. Qui vediamo che la distensione polmonare dovuta all'inspirazione non produsse
l'inibizione del movimento inspiratorio : la prima volta si ebbe un prolungamento della
inspirazione, e nelle due ultime esperienze il respiro cominciò con una inspirazione.
Bastano, credo, questi esempi per mostrare che la dottrina di Breuer ed Hering
non può applicarsi all'uomo e ritornerò in seguito su questo argomento.
Respirazione coli' idrogeno.
Dopo essermi convinto con queste esperienze che manca la sensibilità tattile e
per cosi dire meccanica per i movimenti del polmone, uno può facilmente convincersi
che manca pure la sensibilità chimica nelle terminazioni periferiche del vago. Respi-
Fig. 12.
rando l'idrogeno, l'azoto, e l'acido carbonico mi assicurai che questi gas non eccitano
il polmone, e che per essi il polmone è insensibile.
L'idea di servirsi dell'idrogeno per eliminare l'azione dell'ossigeno nella respi-
razione, fu una delle prime che venne ai fisiologi: ma non si trasse da queste espe-
rienze molto profitto, perchè si faceva respirare troppo lungamente questo gas in
modo da produrre l'asfissia. Bisogna fare solo due o tre inspirazioni.
Riproduco una esperienza fatta coll'idrogeno sopra me stesso (Fig. 12). Mentre
sono coricato in posizione orizzontale col pneumografo doppio sul torace e si scrive il
408 ANGELO MOSSO 12
respiro, mi viene messa sopra la faccia una maschera di metallo dalla quale esce una
forte corrente di idrogeno puro che trovasi compresso a 5 atmosfere in un cilindro.
La corrente è così forte che sono quasi certo di respirare tutto idrogeno. Faccio tre
inspirazioni profonde e non ho alcuna sensazione, i movimenti profondi del respiro
si compiono liberamente come se respirassi dell'aria, manca ogni riflesso che accenni
menomamente a modificare il respiro, anche l'apnea che succede è normale: ma i
movimenti quando cominciano sono molto più forti che non fossero quando respiro
dell'aria. Questo si spiega perchè i polmoni erano pieni di idrogeno e il sangue cir-
colando per essi ha potuto liberarsi dell'acido carbonico, ma non ha potuto trovare
l'ossigeno occorrente.
Head (1), al quale dobbiamo le prime esperienze fatte col metodo grafico per
studiare l'apnea nella respirazione coll'idrogeno, esperimentando nei conigli per mezzo
di una pompa colla quale insufflava il gas, trovò che la durata dell'apnea è minore
di quanto non si trovi respirando l'aria atmosferica o l'ossigeno. Questo mio trac-
ciato è più dimostrativo che non sia la curva V della Tav. V di Head. Nell'uomo
questa esperienza riesce dunque meglio che nel coniglio. E non trovai che la durata
dell'apnea sia molto minore.
Ho ripetuto nel giorno che feci questa esperienza sei altre eguali e tutte dettero
un risultato identico a questo tracciato che riprodussi. Non riproduco per brevità
alcun tracciato dell'apnea ottenuta respirando l'aria atmosferica con tre inspirazioni
profonde, perchè simili tracciati li pubblicai nella memoria precedente sull'apnea.
La cosa importante non sta nel vedere che per mezzo di un gas indifferente
possa prodursi l'arresto del respiro, il che prova che non è l'aumento di ossigeno
del sangue che generi l'apnea; ma piuttosto che la diminuzione dell'anidride carbo-
nica produca l'apnea. Non possiamo però dire che in questo tracciato non si veda
alcun effetto per la deficienza dell'ossigeno.
Paragonando le respirazioni che succedono dopo l'arresto del respiro nell'aria
atmosferica, troviamo in modo costante che esse sono meno alte di quello che siano
dopo la respirazione dell'idrogeno. Dopo la respirazione dell'idrogeno si osserva un
aumento di tonicità maggiore che non si osservi dopo aver respirato l'aria atmosfe-
rica. Il ritardo che succede prima che si manifesti questa reazione ed il piccolo effetto
per la mancanza di ossigeno, ci mostra come l'azione di questo gas nei limiti di
queste esperienze sia meno importante dell'anidride carbonica, nell'intimo meccane-
simo della respirazione. Malgrado che i polmoni siano pieni di un gas irrespirabile,
vi fu una pausa del respiro che ha durato 16 a 20 secondi.
(1) H. Head, On the regulation of respiration, " Journal of Physiology „, voi. 10, pag. 40.
13 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 409
n.
Il ritmo, la forza dei moti respiratori
e il tono dei muscoli che servono al respiro sono fra loro indipendenti.
Il numero dei muscoli che prendono parte alla funzione del respiro è troppo
grande, perchè sia ragionevole il supporre che tutti vengano messi in azione dalle
poche cellule nervose che stanno nel midollo allungato. La differenza fra le funzioni
del diaframma e del torace che tratterò fra poco in un capitolo speciale, sono così
profonde che certo devono essere dei centri nervosi diversi quelli che entrano in
azione. È possibile che nel midollo allungato esista il centro coordinatore di tutti i
centri secondari, ma vedremo che ciascuno di questi centri può funzionare in modo
indipendente, con delle variazioni sue proprie nel ritmo, nella forza delle contrazioni
e nella tonicità dei suoi muscoli.
Uno dei fatti più comuni nello studio grafico, quando si confronta la forza dei
movimenti respiratori, è di trovare nei tracciati una serie crescente, o decrescente
di movimenti respiratori, la quale si forma mentre che rimane costante la frequenza
del ritmo. Questo dimostra che la trasformazione delle energie chimiche dalla quale
si generano gli eccitamenti succede con un ritmo il quale si sviluppa e funziona in
modo indipendente dalla intensità delle conflagrazioni. Cosicché dobbiamo supporre
che esistano dei congegni estranei al ritmeggio i quali regolano l'intensità del pro-
cesso distruttivo che genera gli impulsi nervosi, che vengono mandati ai muscoli
sotto forma di eccitamenti, ora deboli ed ora più forti, ora limitati ad alcuni muscoli
ed ora estesi ad altri. La tonicità ossia l'azione persistente colla quale le cellule dei
centri respiratori tengono in un leggero grado di contrazione i muscoli che servono
al respiro, è anch'essa una funzione che si estrinseca senza dipendere dalle altre. Per
conoscere l'economia energetica delle cellule nei centri nervosi dell' attività respi-
ratoria non abbiamo altro mezzo che studiare queste tre funzioni, che sono:
E la ritmicità che può chiamarsi ritmo e forse meglio ritmeggio ;
F la forza ossia l'intensità dei movimenti respiratori;
T la tonicità ossia il tono dei muscoli che presiedono al respiro.
Le combinazioni possibili di R ed Fsono otto che possono esprimersi coi seguenti
segni :
l°i?>.^>. 2°R<.F>. 3°R<.F<. i°R>.F<. 5° R costante . F > .
6° R costante . F < . 1° R <.F costante. 8° R>. F costante.
Le prime tre combinazioni possono facilmente verificarsi sopra un medesimo
animale. Sappiamo infatti dalle ricerche di Winterberg sulla nicotina (1) che le pic-
cole dosi di questo veleno agiscono affrettando il ritmo ed approfondendo la inspira-
zione cioè R >. F >. Le dosi medie rallentano il respiro e lo approfondiscono R <. F>.
(1) Winterberg, Ueber die Wirkung des Nicotins auf die Athmung, " Arch. f. exp. Path. und
Pharmak. „, XL1TI, pag. 406.
Serie II. Tom. LUI. b2
410 ANGELO MOSSO 14
Le forti dosi rallentano la frequenza dei moti respiratori e fanno diminuire la loro
forza fi < . F < .
Le esperienze sul dolore sono quelle dove senza volerlo si vede più spesso l'in-
fluenza del sistema nervoso sul respiro, e dove appaiono le altre combinazioni, che
mostrano disgiunti la profondità ed il ritmo del respiro. Per impressioni deboli ge-
neralmente si accelera solo il ritmo e non cambia la profondità, ma possono anche
crescere entrambe in modo imponente: oppure si possono col dolore far entrare in
azione altri muscoli che non funzionano normalmente nel respiro, e specialmente quelli
espiratori dell'addome; come pure si modifica profondamente la tonicità dei muscoli.
Nella febbre, nella tachipnea prodotta dal caldo, è facile osservare nei cani che
la respirazione è molto frequente e superficiale. La debolezza, le fatiche, le emor-
ragie, le emozioni psichiche e molti farmaci producono il medesimo effetto che può
rappresentarsi col simbolo E>.F<. Nell'avvelenamento col cloralio e nelle inala-
zioni fatte con anidride carbonica si presentano le due combinazioni R costante .F>
oppure R costante . F < . La settima forinola si ottiene per mezzo del cloralio o del
dolore R <.F costante. L'ottava R >.F costante può aversi respirando dell'aria che
contenga 20 a 30 % di anidride carbonica.
Non riferisco altri esempì, che sarebbe facile mettere insieme una lunga lista di
citazioni prese dal campo della farmacologia : mi basta affermare che esistono tutte
queste otto combinazioni, e con esse viene dimostrato che le due funzioni fonda-
mentali del ritmo e della forza sono fra loro indipendenti.
Nel cuore il ritmo varia direttamente con la eccitabilità : nel respiro queste
funzioni non sono collegate fra loro da un intimo rapporto. Però anche nello studio
della respirazione appare con evidenza l'applicazione di una legge generale nei pro-
cessi della vita, che la diminuzione della temperatura rallenta e scema l'intensità dei
processi chimici e quindi anche delle funzioni delle cellule : mentre quando aumenta
la temperatura delle cellule nervose diventano più intense le loro funzioni.
Ho già detto nella precedente memoria sull'apnea come io sento dentro di me
la funzione del ritmo cessare in modo indipendente da quella della forza; mentre in
alcune persone quando si produce l'apnea le respirazioni incominciano essendo pic-
cole e vanno crescendo, in me, come in altre persone, succede il fenomeno inverso,
che le inspirazioni dopo la pausa sono più forti del normale e vanno decrescendo
formando una scala inversa.
Siccome sento che durante l'apnea manca dentro di me lo stimolo a respirare e
quando questo si ristabilisce trovo che sono più forti i movimenti respiratori, devo
conchiudere che sono due funzioni fra loro indipendenti, perchè l'una diminuisce e
scompare mentre l'altra cresce.
Tale indipendenza può anche osservarsi negli animali. Il tracciato 13 fu preso
sopra un grosso cane al quale avevamo iniettato 4 gr. di cloralio nella giugulare ed
al quale erasi chiusa la trachea in modo da produrre l'asfissia. Si era aspettato che
cessasse completamente il respiro, e dopo cominciammo la respirazione artificiale col
soffietto, la quale durò circa un minuto senza che l'animale ricominciasse a respirare
spontaneamente. Questi tracciati Tor e Ad sono scritti per mezzo di due pneumografi
di Marey messi l'uno sul torace e l'altro sull'addome, in modo che le due penne dei
timpani registratori si alzano nella inspirazione e scendono nella espirazione.
15 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 411
Nel principio del tracciato 13 si vede come fosse cessata la respirazione arti-
ficiale, il torace in alto e il diaframma in basso sono completamente immobili. In A
si comincia nuovamente la respirazione, il cane fa una inspirazione spontanea, con-
tinuasi per poco il respiro artificiale e subito dopo l'animale comincia a fare delle
respirazioni forti che formano una scala decrescente. La frequenza dopo le prime
respirazioni si accelera alquanto e dopo si rallenta.
Anche qui il congegno nervoso che regola la forza dei movimenti respiratori era
pronto a funzionare; mentre quello del ritmo, malgrado la respirazione artificiale
Tor
Ad
Fig. 13.
prolungata per circa un minuto, non era in condizione da poter funzionare. Nel torace
col ristabilirsi della funzione respiratoria vediamo che si solleva lentamente la posi-
zione di espirazione, il che accenna ad un aumento di tonicità che non compare nel-
l'addome.
Quando per azione della fatica, della corsa o dell'acido carbonico o del freddo
facciamo variare profondamente il ritmo e la forza delle respirazioni, è la forza dei
movimenti respiratori che torna prima allo stato normale (e qualche volta diviene
anche più piccola) senza che la frequenza del ritmo siasi ancora ristabilita al valore
di prima.
È dunque la funzione del ritmo che dura più a lungo alterata: ed è questa la
più sensibile, in cui appaiono più facilmente le modificazioni per delle cause minime,
come si vede nei fenomeni psichici e nel dolore.
Esperienze sulla tonicità dei muscoli respiratori.
Ho già scritto un capitolo intorno alle oscillazioni della tonicità dei muscoli che
servono alle funzioni del respiro (1), ora riprendo questo studio per analizzarlo meglio
e mostrare la sua indipendenza dalla funzione del ritmo e della forza dei movimenti
respiratori. Vedremo pure che il tono presenta delle oscillazioni indipendenti nei
vari centri, così che le oscillazioni del tono diaframmatico non corrispondono a quelle
della cassa toracica.
(1) A. Mosso, La respirazione periodica, * Memorie della R. Aocad. dei Lincei „, 1885, cap. VI.
412
ANGELO MOSSO
Iti
Guardando un coniglio che respiri tranquillo si vede che l'addome presenta oltre
ai movimenti del respiro, dei sollevamenti e degli abbassamenti dovuti ai cambia-
menti di tonicità del diaframma. Questi movimenti si compiono in modo lento ed è
per ciò escluso il dubbio che dipendano dai muscoli dell'addome.
Il tracciato 14 rappresenta i movimenti del respiro di un grosso coniglio. Si era
messo sotto all'addome un timpano che aveva nel mezzo un bottone di sughero: un
tubo di gomma faceva comunicare questo timpano con un altro timpano a leva capo-
volto, cosicché la linea scende quando l'addome si dilata e la curva rappresenta i
movimenti dell'addome come si vedono coll'occhio e come sono effettivamente nel
diaframma. Il coniglio era libero ed in condizioni perfettamente normali.
La prima idea che viene vedendo questi cambiamenti continui che presenta la
posizione del diaframma, che ora si innalza ed ora si abbassa, mentre respira tran-
quillamente, è che si tratti di fenomeni psichici. Guardando i vasi dell'orecchio per
trasparenza vedo però che i loro movimenti di dilatazione e di restringimento non
corrispondono ai mutamenti di tonicità del diaframma.
Fig. 15.
Per decidere se hanno un rapporto con dei fenomeni psichici che non si rivelino
con un cambiamento nello stato dei vasi, provo ad addormentare il coniglio iniettan-
dogli mezzo grammo di cloralio nella cavità dell'addome.
Quando il coniglio dorme profondamente torno a scrivere i movimenti del re-
spiro (fig. 15), trovo che sono rallentati e meno forti: male oscillazioni della tonicità
esistono egualmente, anzi sono divenute più forti. Non dobbiamo dare importanza alla
diminuzione nell'ampiezza dei movimenti respiratori, perchè può dipendere in parte
dalla posizione dell'animale: ma erano realmente più deboli guardandoli direttamente.
Inietto un altro mezzo grammo di cloralio per produrre una narcosi più profonda
e trovo che le oscillazioni nella tonicità sono completamente scomparse. Per due
minuti la linea è perfettamente orizzontale ed uniforme.
Il tracciato 16 fu preso in queste condizioni: poco prima che cominci il tracciato
gli amministrai dell'anidride carbonica e per ciò la serie delle respirazioni va leg-
17 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 413
germente decrescendo per ritornare allo stato normale ; in S si grida forte nell'orecchio
e non succede alcun mutamento.
In a avvicino alla testa dell'animale una debole corrente di anidride carbonica.
Le respirazioni si rinforzano, ma il ritmo cambia poco. Entrano in funzione i muscoli
dell'espirazione attiva ; in w cessa l'inalazione di anidride carbonica e il respiro torna
lentamente allo stato di prima.
In S faccio un suono forte per mezzo di una campana e anche questa volta non
vi è più alcun effetto per l'azione del cervello sul respiro. Noi vediamo come siano
scomparse le oscillazioni della tonicità, mentre persistono le altre due funzioni del
ritmo e della forza.
Ora viene spontanea la domanda se questa tonicità abbia il suo centro di azione
nel midollo allungato, o nel midollo spinale: se cioè lo stato di leggera contrazione
nella quale sono tenuti i muscoli del respiro abbia per origine una relazione di sen-
sibilità che esiste nel midollo spinale (come succede per gli altri muscoli) : oppure
se dobbiamo ammettere che tali mutamenti abbiano la loro sede nel midollo allungato.
Coi progressi della tecnica si misureranno con esattezza questi tempi e sarà
questo un campo fecondo di studi; per ora possiamo solo dire, giudicando grossola-
namente, sia più logico l'ammettere che i fenomeni della tonicità da noi riferiti pei
muscoli respiratori abbiano la loro origine nel midollo spinale e nel cervello.
Nella fig. 17 scrivo contemporaneamente sopra di me i movimenti del torace e
dell'addome e vediamo che si corrispondono nelle loro variazioni. Tutte le volte che
diminuisce la tonicità del torace nella linea superiore Tor, diminuisce pure l'am-
piezza dei movimenti del diaframma linea Ad: e quaildo cresce la tonicità del torace
cresce anche la forza dei movimenti del diaframma. Vi è qui una corrispondenza
simile a quella che ho descritto nella fig. 2 della Memoria sulla respirazione perio-
dica nell'uomo studiando gli effetti della distrazione e dei fenomeni psichici. Vi è
dunque una relazione immediata fra i centri della respirazione toracica e del dia-
framma colla tonicità dei muscoli che entrano in azione, e la forza dei movimenti
respiratori presenta delle variazioni sincrone coi mutamenti di tonicità del dia-
framma e del torace.
Colle impressioni sui nervi della pelle può modificarsi profondamente la tonicità
dei muscoli respiratori.
Per economia riferisco solo la parte inferiore di un grande tracciato nel quale
scrissi sopra me stesso la respirazione del torace e dell'addome durante l'azione del
freddo.
Il tracciato 18 rappresenta la parte inferiore delle respirazioni come furono scritte
dall'addome e vediamo in esso i mutamenti che successero nella posizione del dia-
framma per l'azione del freddo. Nel principio del tracciato le respirazioni sono rego-
lari. Nel punto segnato dalla prima freccia, mentre mi trovavo nella posizione incli-
nata di 45° coi piedi scoperti, il meccanico li bagna con acqua a 14° coll'inaffiatoio
che serve alla pulizia del laboratorio. Dove c'è la seconda freccia in basso cessa il
getto dell'acqua sui piedi. Per azione del freddo il torace si portò in forte posizione
inspiratoria e cosi pure il diaframma, tanto che nel tracciato non si vedono queste
prime inspirazioni che furono molto rapide e forti e la loro base nella espirazione
passò sopra il vertice delle inspirazioni. La stessa cosa successe pure nel torace, come
414
ANGELO MOSSO
18
vedremo meglio in seguito parlando del tetano inspiratorio. Mentre durava ancora il
getto dell'acqua fredda sui piedi il diaframma si rilasciò e prese una posizione di
X
espirazione profonda, nella quale però eseguiva dei movimenti molto più ampi. Il
torace e l'addome si comportarono in modo diverso, ma sarà questo uno studio che
faremo in seguito, per ora basta notare quanto siano profondi i cambiamenti nella
tonicità del diaframma e come questa diminuisca, mentre ancora persiste l'azione
19 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 415
eccitante; che la frequenza del respiro è diventata quasi doppia di quanto fosse
prima, che i moti del diaframma si fecero profondissimi e che l'azione ha durato
lungamente quando già era cessata la sensazione del freddo. Alla fine malgrado un
moto cosi violento del respiro continuato per un tempo cosi lungo, io non ebbi alcuna
sensazione di stanchezza, mentre meno di venti respirazioni volontarie egualmente
profonde avrebbero bastato a stancarmi.
Quale sia la ragione di questa reazione cos'i intensa è difficile comprendere.
Certo questi riflessi della pelle fanno parte di un congegno regolatore. Ma la rea-
zione che succede per 'una causa cosi piccola, è tanto intensa, che non sembra pro-
porzionata all'effetto utile cui devono tendere i movimenti riflessi per la conserva-
zione dell'individuo producendo una intensità maggiore del respiro. Questa forte e
prolungata diminuzione del tono nel diaframma appare come un effetto patologico
dovuto forse alla stanchezza che si produce nel centro diaframmatico in seguito ad
una eccitazione troppo forte.
Per effetto del freddo e del dolore sembra che la costituzione chimica delle
cellule dalle quali dipendono i movimenti respiratori sia divenuta più instabile. Si
comprende che questo sia utile nei processi moderatori, e che i nervi sensibili alla
superficie del corpo regolino i processi del metabolismo nel centro respiratorio. Qui
vediamo nella sua massima intensità la funzione di questi congegni e questo ci
spiega come l'effetto del freddo e del dolore durino così a lungo per la conservazione
dell'economia.
Il fatto che entrino in funzione i muscoli dell'addome e l'azione degli stimoli
respiratori in un campo più esteso di muscoli, fa comprendere l' intento cui sono
destinati questi riflessi, che è quello di mantenere il sangue nelle condizioni migliori
che occorrono per la nutrizione efficace degli organi, quando giunge dall'esterno una
causa perturbatrice.
Tetano inspiratorio.
Si crede giustamente che i movimenti riflessi siano tutti coordinati ad uno scopo
utile che è quello della conservazione dell'individuo; ma spesso non riusciamo a sco-
prire il lato utile dei riflessi: e questo lo si vede anche nei movimenti della respi-
razione.
Riferisco come esempio il tracciato 19 dove io respirai una mescolanza di 20 %
di C02 : 30 ossigeno e 50 aria. In un cilindro stava compresso a 5 atmosfere questa
mescolanza di gas, eguale ad ossigeno 40 %, anidride carbonica 20 °/0, azoto 50 %•
Nel punto segnato dalla linea superiore, quando mi si avvicina alla faccia la ma-
schera dalla quale esce un forte getto di questa mescolanza di gas, la linea si
abbassa, e quando cessa si alza; succede un tetano inspiratorio, simile a quello che
produce il freddo: non saprei come chiamare altrimenti questo fatto pel quale le
contrazioni dei muscoli del torace diventano rapidamente più piccole e più alte.
Prima che sia finita l'inalazione cominciano già a diminuire le respirazioni e
dopo la tonicità scende sotto il normale. Non ebbi alcuna sensazione spiacevole, solo
mi accorsi dal gusto acido che respirava anidride carbonica, ebbi un po' di caldo
alla testa e sentii rinforzarsi il respiro. Vedendo che il torace si portò in posizione
416
ANGELO MOSSO
20
inspiratoria e che i movimenti sono divenuti più piccoli, non si comprende quale sia
l'effetto utile di questo riflesso dove insieme alla dilatazione profonda del torace
succede una serie di inspirazioni più piccole e più frequenti. La tonicità del torace
subisce dopo una diminuzione, e anche di questo non sappiamo comprendere l'utilità.
L'accasciarsi del torace che a primo aspetto si sarebbe inclinati a considerare come
un fenomeno di fatica non è cosa costante e lo vidi mancare anche quando l'azione
dell'anidride carbonica fu più intensa.
Nel tracciato 20 per poco non perdetti la coscienza. Io ero coricato, e si scri-
veva il respiro toracico come al solito. Il meccanico Corino mi avvicinò la maschera
al volto dopo aver aperto il robinetto del cilindro pieno di anidride carbonica
compressa. Avevo fatto alcuni minuti prima un'esperienza simile, ma non avevo
potuto resistere perchè l'azione irritante del gas mi aveva prodotto un leggero colpo
di tosse.
Fig. 20.
Nel tracciato 20 respiro l'anidride carbonica da a in w. La maschera non era
ermeticamente chiusa sulla faccia; ma fu questa la volta che ne respirai di più
perchè l'ambascia e l'affanno furono profondissimi e mi sentii male: però il ronzio
negli orecchi e la palpitazione del cuore cessarono presto; tenni gli occhi chiusi e
mi parve che si offuscasse la coscienza poco dopo aver fatto segno colla mano di
allontanare la maschera.
In questa esperienza sebbene sia stato più forte l'eccitamento, se così è lecito
esprimersi, fu minore l'effetto che nel tracciato precedente quanto alla tonicità del
torace.
21
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
417
Nei movimenti del diaframma per l'azione dell' anidride carbonica si osser-
vano tali variazioni nella stessa persona, adoperando la stessa mescolanza, che per
spiegarle dobbiamo ammettere una variazione di eccitabilità dei centri respiratori.
Ho già riferito una esperienza fatta coll'anidride
carbonica su Giorgio Mondo, qui ne riproduco
un' altra dove l' effetto sulla tonicità del dia-
framma e del torace è più intenso (fig. 21).
Egli stava in posizione orizzontale: e nella
fig. 21 si vede che per 1' inalazione fatta con
anidride carbonica a 20 % essendo il resto di Tor
aria, compare un forte tetano inspiratorio nel to-
race e nel diaframma.
Quando si fanno le esperienze in posizione
verticale sono meno evidenti le variazioni nella
tonicità del diaframma perchè il peso del fegato
e dei visceri addominali tirano in basso il dia-
framma. Questo spiega in parte le differenze:
ma non basta a spiegarle completamente, come
dimostrerò meglio nel capitolo seguente.
Quando si trattiene il respiro succede un
aumento della tonicità del torace. Nel tracciato
della fig. 22 venne scritta con due timpani la
respirazione toracica e addominale. Una persona
mi chiudeva le narici e quando facevo un segno Pi„ 21.
colla mano mi lasciava libero il naso ed io co-
minciavo a respirare profondamente. La tonicità del torace si mantiene elevata per un
certo tempo e l'effetto è maggiore nel torace che nell'addome. Per vedere se le penne
Ad
Fig. 22.
a leva scrivevano bene essendo eguali i quattro timpani sull'addome e sul torace nel
segno X faccio fermare il cilindro ed invertire i tubi. La linea del torace viene in basso
e quella dell'addome in alto. Ripeto l'esperienza. L'asfissia compare meno presto perchè
fermai alla fine di una inspirazione e dopo ricomincia con una inspirazione profonda.
Serie IL Tom. LUI. e2
418
ANGELO MOSSO
22
La fig. 23 rappresenta un'esperienza fatta su Giorgio Mondo, egli era in posi-
zione orizzontale ed aveva la maschera sul volto. Nel punto segnato da una freccia
applico nel tubo della maschera il tubo di gomma che comunicava colle valvole di
Muller. Queste erano molto grosse: in quella che serviva all'uscita dell'aria espirata
Tor
Ad
"" ' ' """" "■■■"■■«■ ■ .,m...,....iii.i.ii.miimmim
Fig. 23.
vi era appena tant'acqua che bastasse a chiudere ed impedire che nelle forti inspi-
razioni l'aria penetrasse nel recipiente. In quella che serviva all'entrata dell'aria per
l'inspirazione vi erano 55 mm. di acqua sopra il livello inferiore del tubo per cui
Tor
Ad
Fig. 24.
doveva entrare l'aria inspirata. Anche qui 1' effetto è immediato : aumenta la forza
delle inspirazioni e si rallenta il ritmo.
Non si tratta dunque di un effetto chimico, ma di un riflesso di natura mecca-
nica; non è in altre parole un aumento nella forza dei movimenti respiratori causato da
un mutamento succeduto nel sangue. Quando si leva il tubo immediatamente il
respiro torna normale senza alcun segno di fatica. Questa resistenza di 55 mm.
23 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 419
viene superata senza che si modifichi la tonicità, e scompare senza che la tonicità
si alteri.
L' aumento di tonicità si osserva non solo per le cause chimiche , per il
freddo, ecc., ma anche per le cause meccaniche.
Sopra Giorgio Mondo chiudo bene la maschera con mastice da vetrai sulla faccia;
un tappo di gomma conico entra esattamente nel tubo di vetro della medesima e lo
chiude. Nel punto segnato da una freccia { nella fig. 24 chiudo il passaggio dell'aria,
ma non completamente, metto solo un ostacolo ed una piccola parte può ancora pas-
sare. Vediamo che la seconda inspirazione diviene più forte, e il ritmo si rallenta.
Succede come un tetano inspiratorio: appena levo il tappo torna al normale la toni-
cità del torace, e la respirazione un poco più forte ricomincia collo stesso ritmo.
Durante la chiusura non vi fu un effetto di asfissia, ma agirono dei semplici movi-
menti riflessi che rinforzarono i movimenti del l'espiro e la tonicità dei muscoli.
Anche qui appare la legge generale che quando mettiamo un ostacolo alle inspirazioni,
è il torace che reagisce ed ha la prevalenza, perchè sono diventate più piccole le
contrazioni del diaframma.
A primo aspetto si potrebbe credere che si tratti di un fatto dipendente dal
senso muscolare, e che l'impulso che deve mettere in moto i muscoli si rinforzi spon-
taneamente quando incontra un ostacolo che impedisce al muscolo di raccorciarsi
in misura proporzionata allo stimolo. Ma la modificazione del ritmo e il rallentamento
del respiro, non può spiegarsi a questo modo : per esso deve esistere un riflesso cen-
trale. Vedremo in seguito che un ostacolo messo sopra il torace con un peso di
40 chilogr. non basta per produrre questo rallentamento, cosi che sono probabilmente
i nervi vaghi che servono alla produzione di questi riflessi.
Influenza della fatica sulla tonicità dei muscoli respiratori.
Per studiare la fatica dei muscoli respiratori bisogna eliminare l'apnea e cercare
di mantenere costante e normale la composizione del sangue. A tale fine adoperai
Fig. 25.
un grosso e lungo tubo capace di contenere tutta l'aria complementare. Applicata
la maschera sul volto facevo il tracciato della respirazione toracica. Dopo con un lungo
tubo di gomma della capacità di circa 1500 ce. facevo delle inspirazioni profonde.
Nel tracciato 25 ho fatto una tale esperienza sopra me stesso. Dopo aver ese-
guito 14 inspirazioni profonde nel tubo di gomma si vede che è diminuita la toni-
cità del torace e che va lentamente scomparendo tale effetto, mentre che le respi-
razioni rimangono per un certo tempo più intense di prima.
420
ANGELO MOSSO
24
Tutto induce a credere che in questa esperienza si tratti non di fatti bulbari,
ma di fenomeni corticali e spinali dovuti agli impulsi volontari, ed è probabile che
gli impulsi che in questa esperienza fecero agire i muscoli del respiro non siano
passati per il centro respiratorio come ho già- detto parlando dell'azione del freddo.
Che nella stanchezza si produca una diminuzione della tonicità è facile vederlo
anche senza fare un grande lavoro muscolare. Al ragazzo del laboratorio Giuseppe
Gay applicavo il pneumografo doppio intorno al torace lasciandovi sulla pelle solo
una maglia di lana bene aderente. Il pneumografo era fissato non solo circolarmente
all'altezza delle mammelle, ma per mezzo di due grossi nastri inestensibili si fissava
pure sulle spalle anteriormente e posteriormente in modo da essere sicuri che non
si movesse correndo.
Dopo aver scritto il tracciato normale (fig. 26) mentre era appoggiato in posi-
zione di 45°, si alzò, prese in mano il sostegno di ferro che portava il timpano
Fig. 26.
registratore e fatta una breve corsa fino in fondo al corridoio del laboratorio, salì
sulle soffitte, poi scese in cantina, tornò sulle soffitte e poi sceso al 1° piano donde
era partito, ritornò in l'30" a coricarsi sul letto in posizione di 45° avendo percorso
due volte 16 metri in altezza sopra una scala di 94 gradini. Prima di scrivere nuo-
vamente il tracciato mi assicuravo per mezzo dei segni fatti che il pneumografo
fosse a posto come prima.
Come si vede, le respirazioni sono molto accelerate e profonde. La tonicità del
torace è diminuita. Per un po' si mantiene alla medesima altezza la posizione espi-
ratoria del torace e poi diminuisce.
Questo fatto lo riscontrai in tutte le esperienze che feci su questo ragazzo. In
altri questa seconda parte era meno evidente; ma in tutti la posizione del torace
dopo una corsa faticosa con affanno del respiro, portavasi in basso, come si vede in
questo tracciato.
Il prof. V. Aducco pubblicò già una serie di tracciati interessanti sulle varia-
zioni della tonicità muscolare respiratoria nei cani che gli servirono per i suoi studi
sull'azione della cocaina sul centro respiratorio bulbare (1). In questo lavoro il
prof. Aducco vide che si manifestavano dei cambiamenti di tonicità nei muscoli della
(1) V. Aducco, Sur l'existenee et sur la nature du centre respiratoire bulbaire, " Arch. ital. de
Biologie „, Tome XIII, pag. 116.
25
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
421
cassa toracica, mentre era completa la paralisi bulbare ed esisteva l'assenza dei
movimenti respiratori spontanei.
Il tracciato 27 fu preso sopra un cane avvelenato col cloralio nel quale si pro-
dusse l'asfissia chiudendo la trachea. Quando cessò il respiro si aprì la trachea, il
cuore batteva forte, e si cominciò la respirazione artificiale col soffietto, che durò più
Tor
di due minuti senza che l'animale respirasse spontaneamente. Nel tracciato 27 si
vede in alto la respirazione toracica in basso l'addominale. Al cessare della respira-
zione artificiale succede una espirazione forzata e dopo lentamente il torace riprende
la posizione di riposo. Nell'addome succede un movimento inverso. Ripeto tre volte
queste pause e tutte tre le volte si produce un tracciato identico al pezzo riprodotto
nella fig. 27.
Nel tracciato successivo, mentre si fa la respirazione artificiale dopo l'asfissia,
come si vede nella fig. 28, succedono tre cambiamenti che per la lentezza colla quale
Tor
Ad
Fig. 28.
si producono non sappiamo bene decidere se siano movimenti respiratori o semplici
cambiamenti di tonicità. Per la durata loro di 12 e più secondi, cioè di 5 al minuto,
sarebbero dei moti come non si osservano generalmente. Ma la cosa più singolare
è che riprendendo il respiro artificiale, benché questo si compia in modo uniforme,
compaiono differenze nel tracciato delle singole respirazioni, che sono dovute ai cam-
biamenti di tonicità nei muscoli del torace e del diaframma.
422 ANGELO MOSSO 26
Il cambiamento di tono dei muscoli è una delle questioni difficili che abbiamo
nella fisiologia; mi occupai già di questo studio colle ricerche che feci per mezzo
dell'ergografo sulla contrattura nell'uomo (1). Dopo ritornai su questo argomento
colle ricerche fatte col miotonometro insieme al prof. Benedicenti (2). Se ne occupò
pure il prof. Aducco nel mio Laboratorio (3), pubblicando dei tracciati simili a quelli
che qui ho riprodotto colle fig. 27 e 28.
In questa esperienza vediamo come la tonicità non solo sia una funzione dei
muscoli indipendente da quella del ritmo, e dalla forza delle contrazioni, ma appare
qui come il primo segno della influenza che il centro nervoso respiratorio risveglian-
dosi esercita sui muscoli. L' interpretazione più semplice di questi fatti è quella
di ammettere, come abbiamo già sostenuto prima, che il centro respiratorio abbia solo
la funzione di coordinare e di regolare i vari centri che costituiscono il sistema re-
spiratorio. Comunque sia essendo la tonicità un riflesso prodotto da una eccitazione
debole e permanente che giunge ai muscoli dal midollo per mezzo dei nervi motori,
dobbiamo riconoscere che la sensibilità per produrre il tono si risveglia nelle cellule
nervose centrali prima dell'attività dalla quale dipendono il ritmo e la forza dei
movimenti respiratori.
Considerazioni sulla natura dei centri respiratori.
Tra la funzione del cuore e quella dei centri respiratori vi è una rassomiglianza
profonda, perchè entrambi questi organi trasformano l'energia loro interna in un'altra
forma di energia che si manifesta periodicamente per mezzo del ritmo, della forza
delle contrazioni e della tonicità muscolare. Ritornerò su questo argomento in una
prossima memoria sulla respirazione periodica. Le ricerche contenute in questa serie
di pubblicazioni alla quale mi accingo, confermarono i concetti esposti da Luciani (4)
e da me ora sono già passati più di venti anni, cioè che le funzioni dei centri re-
spiratori non dipendono dall'azione diretta ed immediata degli stimoli esterni ed
estrinseci ad essi, ma dai processi chimici delle cellule nervose inerenti alla loro
vita e dei quali non conosciamo ancora il meccanesimo.
Il centro respiratorio dobbiamo considerarlo come un complesso di energie chi-
miche le quali si tramutano ritmicamente in altre forme di energia. Certo la vita di
queste cellule è legata alle condizioni generali dell'organismo, ed abbiamo veduto
come si modifichino le loro funzioni per gli agenti estrinseci, ma ciò nulla meno queste
cellule hanno dei processi chimici loro propri che le rendono indipendenti dagli sti-
moli esterni. Come in ogni organo fisiologicamente attivo, dobbiamo ammettere l'esi-
stenza di una corrente centripeta che porta il materiale per la nutrizione delle cellule
nervose; ma questo anabolismo sono pochi i fatti che lo mettano in evidenza; e così
pure l'altra corrente di ripulitura e di lavaggio dei congegni nervosi per mezzo della
(1) A. Mosso, " Arch. ital. de Biologie „, XIII, pag. 168.
(2) Benedicenti, " Archives ital. de Biologie „, Tome XXV, 1896, pag. 385.
(3) Aducco, Ibidem, Tome XIII, p. 116.
(4) L. Luciani, Del fenomeno di Cheyne e Stokes in ordine alla dottrina del ritmo respiratorio,
Sperimentale „. Firenze, 1879.
27 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 423
circolazione linfatica e sanguigna è difficile studiarla. La parte che conosciamo meglio
è quella del processo distruttivo, ossia del catabolismo, che appare manifesta nei
movimenti respiratori.
Lo studio della respirazione è interessante per la fisiologia generale, perchè dal-
l'azione che queste cellule esercitano automaticamente sui muscoli, noi desumiamo
quale sia il corso e l'intensità dei processi chimici che succedono in esse.
La mancanza di ossigeno, l'accumularsi dell'anidride carbonica, le emozioni psi-
chiche, l'azione del freddo e del caldo, modificano i processi chimici nelle cellule del
centro respiratorio, rendendo più instabile l'equilibrio del loro edificio e promoven-
done un disfacimento più rapido.
I fenomeni per mezzo dei quali si estrinseca il catabolismo nelle cellule dei
centri respiratori sono come delle conflagrazioni periodiche; e vi sono dei processi
regolatori i quali impediscono che l'energia accumulata nelle cellule, sviluppi con un
processo continuo la sua forza fino all'esaurimento delle energie nervose motrici.
Le cellule nervose dalle quali partono gli impulsi che fanno muovere i muscoli
della respirazione, essendo le sole che indiscutibilmente abbiano un'attività periodica
loro propria, lo studio di questa loro proprietà è utile non solo per controllare lo
studio controverso della innervazione cardiaca, ma noi possiamo con esso estendere
meglio le nostre conoscenze sulla vita delle cellule nervose.
La struttura dei centri respiratori è foggiata sul medesimo tipo degli altri centri
nervosi; essi sono probabilmente costituiti da cellule afferenti o centripete, da cel-
lule intermediarie nelle quali si sviluppano gli eccitamenti autoctoni e da cellule
efferenti o centrifughe che trasmettono gli impulsi ai muscoli, ma è anche possibile
che non esistano le cellule intermediarie.
Le scorie e i prodotti chimici dovuti alle trasformazioni che succedono nelle
cellule per effetto della loro attività non dobbiamo considerarle come dei prodotti inutili
e nocivi, perchè essi prendono parte nei processi regolatori. Così ad esempio, l'ani-
dride carbonica respirata produce un forte aumento nella forza e nel ritmo del respiro,
mentre che la sua diminuzione nell'apnea e nell'acapnia li diminuisce entrambi.
Quando vediamo che il cervello modifica tutti i riflessi anche i più lontani, che
esso può inibire od eccitare i muscoli involontari, quando in una rana senza cervello
vediamo che le comunicazioni fra le cellule del midollo spinale sono così facili e com-
plete che basta pungere la pelle in un punto qualunque, perchè tutti i muscoli delle
estremità e del tronco si contraggano, sembra inutile il voler ammettere che solo in
un centro, cioè nel midollo allungato, esistano le cellule che rispondano in modo coor-
dinato agli impulsi che generano i moti del respiro.
La velocità dei processi nervosi è così grande ed i moti del respiro sono così
lenti che possono sussistere fra le cellule dei centri spinali e cerebrali addetti alle
funzioni del respiro, delle relazioni molto più complesse di quanto non si creda ora
generalmente.
I lavori recenti degli istologi e specialmente quelli del Golgi che mostrarono
nelle cellule nervose una rete tanto fitta di terminazioni delle fibre sensibili e delle
ramificazioni del cilindro dell'asse, vengono indirettamente a dare una base anatomica
alla dottrina del decentramento, cosicché possiamo ammettere l'esistenza di un sistema
respiratorio costituito dalle cellule che si trovano in varie parti dei centri nervosi.
424 ANGELO MOSSO 28
III.
Fisiologia comparata del diaframma e del torace.
In due miei lavori precedenti (1) ho già iniziato questo studio: oravi aggiungo
altre osservazioni.
La differenza fisiologica tra il diaframma e i muscoli del torace appare evidente
nell'azione del curare. Il tracciato 29 rappresenta le respirazioni del torace e dell'ad-
dome scritte contemporaneamente in un cane con due pneumo grafi. Era un cane del
peso di 8500 grammi al quale in C iniettiamo lentamente 10 ce. di una soluzione
Tor
Ad
Fig. 29.
di curare, della quale 0,2 ce. bastano per curarizzare una rana ; vediamo che la forza
delle contrazioni toraciche diminuisce rapidamente, mentre cambia poco quella del
diaframma. Nel segno \ cessa l'amministrazione del curare. Poco dopo il ritmo si
rallenta e le contrazioni del diaframma si mantengono per lungo tempo forti e costanti
nel ritmo, mentre la respirazione toracica va poco per volta scomparendo comple-
tamente.
Questa maggiore resistenza del diaframma pel curare era già nota e Tillie (2)
l'ha osservata e descritta. Viceversa nell'avvelenamento colla sparteina, Cushny e
Matthews (3) trovarono che i muscoli del torace e dell'addome si contraggono quando
(1) A. Mosso, Sui rapporti delia respirazione addominale e toracica nelV uomo, " Archivio delle
scienze mediche „, 1878. — Id., La respirazione periodica e di lusso, " Memorie della R. Accademia
dei Lincei „, 1885.
(2) Schmiedeberg, Grundriss der Arzneimittellehre, 3. Auflage, pag. 62.
(3) Cdshnt und Matthews. Ueber die Wirhung des Sparteins, " Arch. f. exp. Path. u. Pharm. „
XXXV, pag. 136.
29
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
425
il diaframma è già paralizzato per modo che anche irritando il nervo frenico colle
correnti non si muove più. Ancora recentemente nel Laboratorio farmacologico di
Tokio, Hayashi e Muto (1) studiando l'Andromedotossina, videro che quando il nervo
frenico era ineccitabile, non erano ancora paralizzati il centro respiratorio e gli altri
muscoli respiratori del torace e della testa.
Nel mio lavoro del 1878 sui Rapporti della respirazione addominale e toracica
nell'uomo, ho già dimostrato la differenza e l'antagonismo che si produce nel sonno
fra la funzione dei muscoli del torace e del diaframma ; per cui mentre quest'ultimo
scema la forza dei suoi movimenti, quelli del torace la rinforzano. Altre osservazioni
che mostrano delle differenze nel modo di funzionare del torace e del diaframma le
pubblicai nella Memoria sulla respirazione periodica e di lusso del 1885, dimostrando
come dovesse abbandonarsi il concetto dell'esistenza di un solo centro respiratorio.
Ora pubblico altre esperienze che servono a svolgere meglio tale concetto per mezzo
dei movimenti riflessi.
Riflessi meccanici.
' Mettendo improvvisamente una resistenza ai movimenti di inspirazione, o di espi-
razione si producono nell'uomo dei mutamenti nello stato di contrazione o di rila-
sciamento dei muscoli del torace, e nel diaframma. Ho già parlato di queste espe-
Tor
ilSiìiluif itlfcil
:yy\jyyvj
Ad
wm mmWMWw
Fig. 30.
rienze in un capitolo precedente nel quale dimostrai che le conclusioni degli studi
fatti sugli animali da Breuer ed Hering non possono applicarsi all'uomo. Adesso
riferisco altre esperienze dalle quali si vede che nei movimenti riflessi per un impe-
dimento alla respirazione, si comportano in modo diverso il torace e il diaframma.
Invece di chiudere le narici colle dita per evitare ogni contatto colla pelle e chiu-
dere improvvisamente il passaggio dell'aria nella trachea, preferisco servirmi della
(1) Hayashi und Muto, Ueber Athemversuche mit einigen Giften , * Archiv f. exper. Path. und
Pharmak. ,. XLVII, pag. 209.
Serie II. Tom. LUI. D*
426
\.\(.i:i.u MU--ÌU
30
maschera di guttaperca bene modellata sul volto, in modo che chiuda ermetica-
mente mettendovi intorno un po' di mastice da vetrai rammollito con vasellina od
olio. Un tappo di sughero, o di gomma, leggermente conico, chiude pure ermetica-
mente il tubo di vetro piantato nel mezzo della maschera e può mettersi dentro,
per chiudere l'accesso dell' aria, e levarsi dopo con eguale facilità. Il tracciato 30
rappresenta una di queste esperienze fatta su Giorgio Mondo mentre stava inclinato
a 45° con due pneumografi , 1' uno intorno al torace Tor, e l'altro sull' addome Ad,
colla maschera bene applicata sul volto. Per tre volte chiudo alla fine di una inspi-
razione e tutte tre le volte, come del resto succede sempre, si arresta la respira-
zione, ma in modo diverso ed opposto nel torace e nel diaframma. Il torace fa
ancora una leggera mossa inspiratoria e poi si ferma. Il diaframma si rilascia imme-
diatamente e tutti due fanno dopo un movimento inspiratorio contrariamente alla
legge di Breuer ed Hering.
Se invece, come avviene nel tracciato 31, chiudiamo alla fine di una espirazione,
succede un rilasciamento del torace ed una contrazione del diaframma che appena
Tor
Ad
Tor
Ad
Fig. 31.
Ficr. 32.
iniziata si arresta. Vediamo cioè che nel torace i fenomeni si compiono perfettamente
al contrario di quanto avevano stabilito Breuer ed Hering. Essi infatti affermarono che
la diminuzione del volume dei polmoni arresta l'espirazione e subito produce l'inspi-
razione, mentre che la dilatazione dei polmoni arresta in via riflessa la inspirazione
e produce la espirazione successiva.
Il riflesso che si produce tanto nel torace quanto nel diaframma quando si mette
un ostacolo che permette all'aria di penetrare, ma con una certa difficoltà, ed in
proporzione molto minore di quanto succede normalmente, è assai istruttivo. Il tubo
della maschera per cui passa l'aria ha un diametro interno di 15 millimetri. Vi met-
tevo dentro un tappo che lasciava intorno uno spazio un po' minore ad un millimetro,
e lo tenevo colle mani, solo per metà circa di un atto inspiratorio.
Nel tracciato 32 sono scritte contemporaneamente la respirazione toracica e
quella addominale. Nel punto segnato da una freccia si vede che con un ostacolo
31 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 427
momentaneo al passaggio dell'aria, subito l'inspirazione si rinforza e diventa più lungo
il tempo nel quale si compie. Tale fatto dipende certamente da un riflesso centrale:
siccome le respirazioni successive sono quasi eguali alle precedenti, dobbiamo escludere
ogni azione chimica, e considerarlo come un riflesso dovuto ad un'azione meccanica.
Anche in altra maniera può vedersi che funzionano in modo diverso il centro
dei movimenti del torace e quello del diaframma. La mancanza di sincronismo nel
sonno che ho già descritto, studiando i rapporti della respirazione addominale e tora-
cica, fino dal 1878, appare spesso evidentissima in condizioni normali e sempre quando
si mette un ostacolo alla inspirazione.
Il tracciato 33 rappresenta una esperienza fatta sopra Giorgio Mondo, mentre sta
in posizione di 45° ed ha il pneumografo doppio intorno al torace ed un altro intorno
Tor
Ad
Fìet. 33.
all'addome. Gli avevo messo sulla faccia la maschera di guttaperca chiusa ermeti-
camente, col tubo della maschera si erano messe in comunicazione per mezzo di una
forchetta le valvole di Miiller. Quella per la espirazione conteneva appena tant'acqua
che bastasse per impedire il passaggio dell'aria inspirata: nella valvola dove passava
l'aria inspirata vi erano 55 mm. di acqua, che serviva come di resistenza alla inspi-
razione. Questi tracciati rassomigliano a quelli già pubblicati da Marey nei suoi primi
studi sui movimenti respiratori (1), ed io non mi fermerò a descrivere le modifica-
zioni che produce un ostacolo alla inspirazione. Solo che nel presente tracciato, oltre
la respirazione toracica scritta in alto, vi è anche l'addominale sotto. Il tempo è
scritto in secondi, si vede dai punti di ritrovo segnati in corrispondenza della posi-
zione delle penne che il diaframma entra in azione prima del torace e si rilascia
quando i muscoli del torace sono ancora in azione. La differenza del tempo è note-
vole, perchè il torace funziona nell'espirazione con un ritardo di oltre un secondo, ciò
che per i fenomeni nervosi costituisce una mancanza di sincronismo troppo grande
perchè tali movimenti possano avere un centro comune dal quale ricevano l'impulso.
Le esperienze che feci colle inalazioni di anidride carbonica, vengono pure ad
appoggiare tale concetto.
(1) Maket, Pneumographie, " Journal de l'Anatomie „, 1865, pag. 447.
428 ANGELO MOSSO 32
Nel tracciato 34, Giorgio Mondo sta in posizione inclinata di 45° col pneuino-
grafo doppio intorno al torace e all'addome e sul principio del tracciato si scrive il
respiro normale. In a si avvicina la maschera alla faccia e si fa passare una cor-
rente di aria mescolata a 26,5% di anidride carbonica; si era preparata prima
questa mescolanza in un cilindro per mezzo dell'aria compressa a 5 atmosfere; così
che bastava aprire la chiavetta del recipiente per avere un getto abbondante di
quest'aria. Appena incomincia la respirazione di quest'aria, succede un forte tetano
inspiratorio nei muscoli del torace, mentre il diaframma si mantiene nella sua posi-
zione e rinforza molto i suoi movimenti.
Tor
Ad
Fig. 34.
Anche qui entrano in azione due centri che hanno un modo diverso di compor-
tarsi per l'anidride carbonica; ne si può ammettere, come per il curare, che si tratti
di un'azione periferica diversa sui muscoli. 11 ritmo si accelera molto, come nelle
esperienze precedenti: mentre che per mescolanze dove l'anidride era in quantità
minore, Gad, Marcuse e Lcewy non trovarono una differenza nel ritmo.
La differenza fra le contrazioni del diaframma e dei muscoli toracici appare in
modo costante per poco che la tecnica grafica sia buona.
Nel tracciato 35 sono le curve del respiro toracico e addominale scritte sopra
di me nel solito modo. Dopo aver fatte 10 inspirazioni profonde, succede l'apnea.
Come ho già mostrato in un mio precedente lavoro (1), si accumula del sangue nei
polmoni durante l'attività maggiore del respiro.
Sebbene io sia coricato in posizione orizzontale ed una parte del peso del sangue
accumulatosi, sia sopportata dalla cassa toracica, ciò nulla meno la dilatazione dei
polmoni, e forse anche quella dei grossi vasi sanguigni, spinge il diaframma verso
la cavità dell'addome.
Vediamo infatti che nell'addome succede un movimento inverso a quello del torace.
La tonicità varia in modo differente nel torace e nell'addome : infatti guardando
la parte inferiore delle curve si vede che la linea la quale passerebbe per la posi-
ci) A. Mosso, La circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, " Memorie della R. Accademia dei
Lincei „, 1880, capitolo X.
33
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
429
zione della base espiratoria delle singole respirazioni addominali e toraciche ha un
decorso diverso, e cosi pure la forza delle respirazioni non si comporta in modo iden-
tico nel torace e nel diaframma. Qui abbiamo la gravità ed il peso del sangue che
agiscono allungando il diametro verticale della cassa toracica abbassando il diaframma.
Tor
Ad
Fig. 35.
Quando l'azione meccanica della gravità è meno intensa, e si tratta di persone
giovani che hanno una tonicità maggiore dei vasi sanguigni, e nelle quali il diaframma
!B....ii.i.iii.ii.iii..i..iM.ii..iiiMiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiniiiiiiiuiuii;t':i;iiiiiii
Fig. 36.
è più resistente, come nel ragazzo del Laboratorio, Giuseppe Gay, durante un arresto
del respiro osservasi un movimento inverso del diaframma, cioè un sollevamento del
medesimo in posizione maggiormente espiratoria, così che la linea scende come si
vede nel tracciato 4.
Per eliminare il dubbio che questa differenza tra le due esperienze ora riferite
dipenda dall'apnea, riproduco un altro tracciato, fig. 36, preso su Giorgio Mondo, che
ha 44 anni. Vediamo che in esso, durante un arresto di 14 .secondi per chiusura
delle narici, si produce un abbassamento del diaframma come succede in me e una
430 ANGELO MOSSO 34
dilatazione della cavità toracica. Anche in questa esperienza la persona era in posi-
zione orizzontale. Dopo ricominciando il respiro vi è un forte aumento della tonicità
nel torace, mentre che nel diaframma succede il fatto inverso. Nei punti segnati da
una -f- si ferma il cilindro, si aspetta un minuto e dopo torna a mettersi in movi-
mento. Queste differenze nel modo di comportarsi della tonicità del diaframma nei
cambiamenti di posizione sono importanti perchè mostrano il modo diverso di com-
portarsi dello stesso muscolo in persone di differente età e complessione.
Paragone fra la forza del diaframma e dei muscoli toracici inspiratori.
Dopo le ricerche di Hutchinson (1) vennero quelle di Valentin (2), il quale per
primo fece delle misure attendibili per mezzo del suo pneumatometro. Vi sarebbero
molti autori che dovrei citare i quali studiarono la forza dei muscoli inspiratori ed espi-
ratori. Fra i lavori più recenti, ricorderò quelli di Aducco (3), di Sewall e Pollard (4).
Questi ultimi facendo su loro le misure, trovarono che si respira di più col torace
che non col diaframma, facendoli contrarre separatamente.
Non è difficile dominare i muscoli respiratori in modo da far contrarre solo il
diaframma, o solo i muscoli del torace.
Hultkrantz (5), dimostrò in questo esercizio una abilità tecnica non ancora su-
perata ; trovò sopra se stesso che la parte centrale del diaframma nella inspirazione
tranquilla si abbassa di 10,5 mm. Nelle inspirazioni profonde 42 mm.
Egli faceva fare delle escursioni al diaframma come massimo dalla posizione
espiratoria di 58 a 63 mm.
Hultkrantz trovò delle differenze nella medesima persona secondo le ore della
giornata, i vestiti, il riempimento dello stomaco, ecc. La stessa cosa riscontrai nelle
misure che feci per mezzo di un contatore su varie persone che mi servirono a
questi studi.
Per assicurarmi che il torace stesse immobile quando doveva contrarsi il dia-
framma e viceversa, facemmo prima degli esercizi preparatori; ci mettevamo un
pneumografo intorno al torace e un altro intorno all'addome e guardando le penne
che scrivevano sul cilindro, cercavamo di ottenere delle curve indipendenti e questo
non riesce difficile. Il contatore era bene equilibrato e funzionava con soli 2 o 3 mm.
di pressione di acqua.
I seguenti numeri sono presi sopra di me mentre ero in posizione inclinata di 45°.
Colla inspirazione toracica inspiro 2025 ce.
addominale „ 1350 ,
(1) John Hutchinson, Voti der Capacitàt der Lungeti, 1849.
(2) Valentin, Lehrbuch der Physiologie, I Bd., 1847, pag. 530.
(3) V. Adocco, Centro espiratorio ed espirazione forzata, " Atti R. Accademia delle Scienze di
Torino ,, marzo 1899.
(4) Sewall e Pollard, Oh the relations of diaphragmatic and costai respiratioii, " Journal of
Physiology „, voi. II, pag. 159.
(5) W. Hultkrantz, Ueber die respirato risene n Bewegungen des menschlichen Zwerchfells, ' Skand.
Arch. f. Physiol. „, II Bd., pag. 70, 1891.
35
I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA
431
Per brevità non riferisco i tracciati e neppure le cifre che ottenni sopra Giorgio
Mondo e Carlo Foà, perchè variavano sensibilmente da un giorno all'altro ed anche
ripetendo una serie di osservazioni successive, presentavano delle variazioni. I risul-
tati che ottenni sono come quelli di Sewall e Pollard.
Più costante invece è la forza del diaframma e del torace, perchè la misuravamo
col manometro a mercurio che è uno strumento di misura meno sensibile del contatore.
Queste ricerche furono fatte servendosi della maschera di guttaperca, o per mezzo
di un'altra metallica che aveva un bordo fatto con un tubo di gomma pieno di
aria per modo che comprimendo la maschera sopra la faccia si chiudeva ermetica-
mente sulla pelle del naso, delle guancie e del mento, e si poteva, facendo una inspi-
razione, rarefare l'aria e sollevare la colonna di mercurio del manometro.
Fig. 37.
Fig. 38.
Il tracciato 37 fu scritto dal Dott. Carlo Foà. La prima linea discendente segna
la forza della inspirazione quando si contrae solo il diaframma; la seconda quando
si contraggono solo i muscoli del torace e la terza quando si fa una inspirazione
completa, facendo agire i muscoli del torace insieme al diaframma. Sapendo che
dobbiamo moltiplicare per 2 questi valori di 1,1,6,2,8, avremo che la forza del dia-
framma nel Dott. Carlo Foà è tale che il diaframma solleva 20 mm. di mercurio: 32 il
torace e 56 tutti due insieme. Si ripete poco dopo la medesima esperienza, i valori
sono un poco più piccoli e stanno fra loro presso a poco nel medesimo rapporto.
Il tracciato 38 è un'esperienza fatta sopra Giorgio Mondo: vediamo in questa
persona, che ha la medesima statura, una forza maggiore dei muscoli inspiratori
toracici, mentre che la forza del diaframma è presso a poco eguale. I rapporti sono:
Diaframma 10 X 2 = 20 Torace solo 20 X 2 = 40
Inspirazione completa 38 X 2 = 76.
Misurando la forza inspiratoria diaframmatica sopra di me (fig. 39) , trovai dei
valori più piccoli che sopra Foà pel diaframma, cioè 5 X 2 = 10 ; la mia inspirazione
toracica invece era più forte 19 X 2 = 38.
Vedendo questi valori in mercurio, uno può illudersi sulla reale forza del torace
e del diaframma, ma dobbiamo pensare che quando noi solleviamo, colla contrazione
432
ANGELO MOSSO
36
dei muscoli del torace, una colonna di mercurio alta 30 o 40 mm., succede nel nostro
torace e sul diaframma ciò che vediamo nel torchio idraulico. Le pressioni dei gas
come quelle dei liquidi si trasmettono in tutti i sensi. La pressione che si produce
sulla colonna negativa di 30 o 40 mm. di mercurio del manometro e la solleva, agisce
nella stessa direzione e colla stessa forza su tutta la superficie della cassa toracica
e del diaframma, e per ciò è grandissima la forza che noi produciamo colla semplice
inspirazione dei muscoli toracici e del diaframma.
/ywwwvwww
VvV/^vvvvwm.,
WV.V.VVVVVVVVV
+MAww<m<AM^
V V-V ■ » » V n V V uv V
lor
Ad
Fig. 39.
B
Fig. 40.
Il tracciato 40 rappresenta una esperienza fatta sopra di me, nella quale il to-
race sollevava 40 chilogrammi. Mi coricai orizzontale sopra una tavola stretta ed
imbottita, larga 40 centimetri, sul torace aveva messo una forte cinghia di tela che
scendeva in basso da una parte e dall'altra per la lunghezza di circa 60 centimetri.
Questa forte cinghia, larga 20 centim., portava alle sue estremità due uncini metal-
lici ai quali si potevano attaccare dei grossi pesi di 10 chilogrammi, due per parte.
Il bordo inferiore della cinghia è un poco sotto il capezzolo delle mammelle e mi
copre in alto tutto lo sterno.
Comincio a scrivere in A il tracciato normale. Intorno all'addome ho il pneu-
mografo doppio, sulla cinghia che sta sul torace poggia il bottone di un timpano con
membrana elastica che scrive i movimenti del respiro e nella curva si vedono anche
le pulsazioni del cuore.
Ho tagliato il foglio nel quale scrissi questa esperienza e ne pigliai tre pezzi A, B, C.
Il primo rappresenta la respirazione normale del torace e dell'addome quando vi è
la fascia senza pesi sul petto all'altezza delle mammelle. In B metto 10 chilog. per
parte, il torace si deprime, il diaframma si abbassa, ma in proporzione minore che non
siasi abbassato il torace, le sue inspirazioni si rinforzano, i movimenti del torace solle-
vano questo peso di 20 chilog. senza che io ne senta molestia, solo che diventarono un
poco meno estesi. Nel terzo pezzo si mettono altri 10 chilogrammi per parte. Il torace si
accascia di meno, il diaframma si abbassa e le sue contrazioni si rinforzano. Io non provo
alcuna sofferenza e posso rimanere parecchi minuti, respirando sotto la pressione di
40 chilogrammi. I movimenti del torace sono poco diversi dal normale e solo alquanto
37 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 433
meno estesi. Guardando la penna che scrive, sento il ritardo col quale si compiono
i movimenti del torace. L'inspirazione del diaframma produce una corrente di aria
alle narici prima che incominci a muoversi il torace e così sento che il diaframma
si rilascia prima che cominci la espirazione toracica, come abbiamo veduto nel trac-
ciato 33 mettendo un ostacolo alla inspirazione per mezzo delle valvole di Miiller. Il
ritmo non essendosi modificato, malgrado la pressione di 40 chilog., è probabile che
nei riflessi meccanici che ho studiati prima il riflesso sia di origine interna. Forse
si può conchiudere che il riflesso si compia per mezzo del nervo vago, vedendo che
un ostacolo così grande applicato esternamente non rallenta la frequenza del respiro.
Levando i pesi e tornato alla respirazione libera, i movimenti del torace diven-
tano più forti, ma poco più del normale; quelli del diaframma si indeboliscono.
Tor
Ad I
La compressione sull'addome essendo molesta, ho cercato di paragonare la forza
del diaframma e del torace per mezzo del vento che producevo nel seguente modo.
Nel mio laboratorio ho una camera di ferro nella quale, per mezzo di una pompa,
posso comprimere l'aria per studiare sull'uomo l'azione dell'aria compressa. Messe
in moto le pompe, comprimevo l'aria dentro la camera fino ad 1 atmosfera e mezzo.
Quindi per mezzo di un grosso tubo di gomma che terminava in una maschera, po-
tevo, aprendo una grossa chiavetta, far passare una corrente fortissima di aria sulla
faccia, come succederebbe nel vento il più impetuoso. La figura 41 rappresenta una
di queste esperienze fatta sopra di me. Io ero in piedi accanto alla camera di ferro,
ed il tubo che veniva alla faccia era lungo appena 41 centim. Quando un assistente
apre la chiavetta, il torace che era alla fine di una inspirazione, tende a passare in
espirazione, ma non vi riesce.
Il diaframma spinto da questa pressione di una atmosfera e mezza, si abbassa
maggiormente. Il respiro si arresta spontaneamente. Io sento che non posso respi-
rare. Quando cessa la corrente impetuosa dell'aria che mi ha raffreddato fortemente
la faccia, succede una serie di inspirazioni più profonde. La corrente era tanto forte
che dovevo stringere con forza le labbra perchè non mi aprisse la bocca. Anche in
questa prova si vede la prevalenza del torace che è più forte.
Serie II. Tomo LUI. e3
434
ANGELO MOSSO
38
Nello stesso giorno e colla stessa pressione di 1 atmosfera e mezzo dell'aria
compressa, ho fatto una esperienza su Giorgio Mondo. Credevo che avrebbe resistito
meglio di me, perchè la forza del suo diaframma, misurata al manometro, è quasi
Tor
Ad
Fisr. 42.
doppia della mia. Ma il [suo diaframma cedette molto più del mio alla pressione
interna, come si vede nel tracciato 42.
Tor
Ad
Fig. 43.
In queste esperienze non abbiamo 1 atmosfera e mezzo che agisca sul polmone,
perchè la maschera non toccava la faccia e l'aria prima di arrivare nei bronchi
doveva vincere tutte le resistenze delle anfrattuosita del naso: certo però agiva con
39 I MOVIMENTI RESPIRATORI DEL TORACE E DEL DIAFRAMMA 435
molta violenza e queste non sono esperienze scevre di pericoli, come racconterò in
un altro lavoro.
La cosa singolare è che mentre il torace si contrae mostrando una minima dif-
ferenza nella forza delle sue inspirazioni quando è caricato di 40 chilog., quando
è libero, presenti invece delle variazioni fortissime nel ritmo e nella forza pei cam-
biamenti di posizione, come ho mostrato in una precedente memoria (1). Il trac-
ciato 43 rappresenta una di queste esperienze fatta sopra il ragazzo del laboratorio,
Giuseppe Gay. Nella prima parte ° si scrive il respiro toracico ed addominale coi
soliti pneumografi mentre trovasi in posizione inclinata di 45° : nel punto o- si gira
la tavola e lo si mette in posizione orizzontale, il respiro toracico si rinforza, abbiamo
una dilatazione del torace che passa in posizione inspiratoria : il diaframma si innalza
e prende una posizione espiratoria più pronunziata.
Il fatto che i movimenti del torace e del diaframma si modifichino in modo così
profondo per un semplice cambiamento di posizione del corpo, fa nascere il dubbio
che anche il volume dell'aria inspirata sia diverso nella posizione orizzontale ed in
quella verticale. Ho già studiato questo argomento nelle ultime pagine della prece-
dente memoria (1): per completare queste indagini ho fatto delle misure per mezzo
di un contatore e della maschera applicata sulla faccia colle valvole di Miiller e nel
caso presente come in altre persone trovai differenze poco notevoli tra la posizione
orizzontale del corpo e quella inclinata a 45°.
Queste esperienze si riattaccano a quelle del paragrafo precedente sui riflessi
meccanici e ci obbligano ad ammettere una regolazione automatica che funziona solo
per stimoli meccanici. Siccome respiriamo generalmente una quantità di aria mag-
giore di quanto occorra per i bisogni chimici dell'organismo, vedendo che malgrado
i mutamenti nella forza della resph-azione toracica e diaframmatica noi respiriamo
egualmente lo stesso volume di aria, si deve ammettere l'esistenza di un potere
regolatore automatico che compensa reciprocamente ed in modo meccanico le diffe-
renze nei moti inspiratori del torace e del diaframma.
I congegni nervosi che provvedono ai movimenti del respiro appaiono tanto più
complessi quanto maggiormente si approfondisce lo studio della loro funzione.
(1) A. Mosso, L'apnea quale si produce nei cambiamenti di posizione del corpo, " Mera. Acc. Scienze
Torino „ 1903.
(L'arco elastico senza cerniere, Memoria del Prof. C. Guidi, Tomo LE, pag. 294).
ERRATA-CORRIGE
Pag. 35, lin. 11 e 12 dal basso . . . otto leggasi quattro
„ 5 . . . P P
Nella Fig. 10, Tav. II, la retta dei segmenti relativa al poligono funicolare p2' dev'essere
ruotata fino a divenire parallela all'asse X\. Analoga correzione devesi intendere eseguita
per l'altro poligono funicolare che fornisce lo stesso segmento nt; come pure nella Fig. 19
e nella Tav. VI; sebbene per tutte e tre le figure il risultato, cioè il segmento «i, per
compenso fra i vari termini della sommatoria, non resti influenzato da tale correzione.
SCIENZE
MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE
INDICE
CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE
E FILOLOGICHE
La vita oltremondana ; Memoria del Socio Giuseppe Allievo . . . Pag. 1
Il -pensiero pedagogico di L. A. Muratori; Memoria del Prof. Stefano Grande „ 65
Studio intorno alla Vita di Carlo Botta tracciato con la guida di lettere in gran
parte inedite; Memoria della Dott. Emilia Regis „ 147
Per un'opera inedita di Pietro Giannone; Memoria della Prof. Maria Begey „ 181
Vita di Carlantonio Dal Pozzo arcivescovo di Pisa, fondatore del Collegio Puteano;
Memoria di Domenico Valla „ 221
Esame storico critico dell'opera del sig. Jules De Gaultier, intitolata : " Da Kant
a Nietzsche „; Memoria del Prof. Romualdo Bobba „ 253
LA VITA OLTREMONDANA
MEMORIA
del Socio
GIUSEPPE ALLIEVO
Approvata nell'Adunanza del 18 Gennaio 1903.
INDICE SOMMARIO
Introduzione.
Osservazioni preliminari intorno i due fenomeni della vita e della morte: il trapasso delle sostanze
dal non essere all'essere e la loro ricaduta dall'essere nel non essere : origine del problema
della vita futura oltremondana: importanza di questo problema considerato in se e nel suo
rapporto coll'ideale supremo della vita: osservazione relativa al positivismo contemporaneo:
difficoltà del problema.
La vita oltremonusma.
Concetto generale del problema: come esso non si riduca alla sola disamina dell'immortalità del-
l'anima umana: questione intorno la vita fisica futura: forinola generale del problema: pro-
blemi elementari in cui si risolve: come la vita futura sia oggetto non solo della ragione, ma
di tutte le potenze dell'anima: il sentimento religioso ed il culto dei morti: compito speciale
della ragione riguardo alla vita oltremondana : se la ragione debba aver riguardo alle afferma-
zioni delle altre potenze: suoi limiti imposti 1° dal dovere di riconoscere la natura umana in
tutte le sue potenze, 2° dall'armonia propria dell'umano soggetto : conseguenza che ne deriva
— Commento di un passo di F. Panlhan intorno questo punto.
Discussione storica del problema — Considerazioni preliminari — Sistemi negativi, il materialismo,
il panteismo: concetto generale del materialismo e suo rapporto col problema: se esso renda
ragione delle facoltà mentali proprie dello spirito: l'immortalità degli atomi e l'immortalità
dell'anima — Principio fondamentale costitutivo del panteismo — Suo rapporto col problema
della vita futura e col positivismo — Sistemi affermativi: osservazioni generali: come il pro-
blema della vita futura sia stato differentemente concepito e risolto dalla sapienza antica e dal
pensiero moderno: processo del pensiero moderno fondato sul puro concetto della spiritualità e
dell'immortalità dell'anima — La dottrina dell'antica sapienza riguardo alla vita futura: suo
punto di partenza: cenni storici; il sistema Sankhya : i filosofi platonici ed alessandrini: la
trasformazione dell'essere umano alla morte del corpo: le ombre infernali: l'immaginazione
popolare e poetica — Il concetto della vita futura dell'anima nella Divina Commedia: le potenze
dell'anima; la sua virtù formativa od animatrice: il ritorno alle funzioni della vita sensitiva;
riscontro di tale concetto con alcuni fenomeni dello spiritismo odierno : la dottrina della metem-
psicosi riguardo alla vita futura — La teoria di Carlo Bonnet: come egli abbia concepito il
problema sotto nuovo aspetto : le ipotesi sulla vita futura : dottrina dell'autore intorno la natura
dell'uomo: dipendenza dell'anima dal corpo: il problema della vita futura quale consegue dalla
sua dottrina antropologica: come venga sciolto: osservazioni critiche riguardanti 1° la dottrina
dell'autore intorno le attinenze tra l'anima ed il corpo, 2° il valore scientifico della sua teoria
Serib II. Tom. LUI. 1
2 GIUSEPPE ALLIEVO
intorno la vita futura — La teoria di Claudio Turlot intorno l'atomo organico: cenno sulla
dottrina di Keratry, di E. Martin — Sguardo sintetico sui sistemi affermativi compiuti: l'opinione
degli antichi filosofi: la metempsicosi, suo concetto fondamentale; sotto qual riguardo sia accet-
tabile: la dottrina dell'involucro corporeo aereo: la teoria dell'atomo organico; quali elementi
di verità essa contenga, e come si colleghi colle ricerche della moderna fisiologia e col sistema
dell'atomismo: il valore scientifico del principio di identità: conclusione. — Sistemi affermativi
incompiuti: carattere loro proprio: concetto erroneo intorno la natura dell'anima umana: inse-
parabilità della spiritualità e della sensitività nell'anima umana, della vita mentale e della
fisica: compenetrazione delle due vite nell'unità dell'io umano : origine di questi sistemi ricer-
cata nel concetto dell'unione tra l'anima ed il corpo, e nell'evoluzionismo : il progresso continuo
della natura dall'imperfetto al perfetto, e la formazione dell'uomo attraverso la trasforma-
zione delle specie: la terra ordinata al cielo: l'uomo spiritualizzato nell'esistenza oltremon-
dana : osservazioni relative all'evoluzione delle specie, al progresso influito, all'alterazione della
natura umana: l'infinitamente piccolo della materia e l'infinitamente grande dell'universo. —
Il concetto dell'anima forma del corpo, in rapporto colla vita futura: la teoria di Aristotele su
questo punto; conseguenza che ne deriva: il concetto psicologico di Aristotele seguito dalla
filosofìa scolastica: contraddizione e difficoltà nella teoria scolastica: la definizione dell'anima
data da S. Tommaso: sviluppo di questo concetto: dipendenza dell'anima dal corpo: se S. Tom-
maso abbia risolto le difficoltà: il concetto dell'anima, forma del corpo, riscontrato nella dot-
trina pitagorica : l'anima del mondo e le anime particolari : importanza de' due concetti di
spirito e di materia, e difficoltà di definirli.
Il problema esaminalo in se stesso — Condizioni dell'esistenza oltremondana: 1° la conservazione
della personalità individua; 2° la memoria della vita passata; esame di un passo di Pierre
Leroux su questo punto; l'essenza della vita e le sue manifestazioni; il vincolo di continuità
tra le medesime; la personalità dell'io umano e la facoltà della memoria; 3° l'attività della
vita; 4° le condizioni di luogo e di tempo — Metodo conveniente all'esame del problema; due
.specie di processo metodico, razionale ed empirico: critica del processo razionale per la dimo-
strazione della vita futura : esame delle prove dell'immortalità derivate dalla natura dell'anima,
la sostanzialità, la semplicità, l'intelligenza, l'attività: il principio di finalità come fondamento
della dimostrazione, secondo la teoria di C. Piat (La destinée de l'homme) : procedimento da lui
seguito nella sua opera: i fatti psicologici; il loro soggetto, la vita dello spirito : come, secondo
lui, la semplicità dell'anima non valga a dimostrarne la spiritualità, e quindi l'immortalità: il
principio della finalità e la vita futura; prove della medesima: esame dell'opera dell'autore:
punti dominanti: osservazioni critiche riguardanti, 1° il suo concetto della sostanzialità dell'anima
e il suo procedimento, 2° l'applicazione del principio biologico della finalità ; studio dei fatti
psicologici attinenti alla vita futura: 1° l'istinto dell'immortalità; sua natura razionale; suo
carattere universale; suo contrasto col potere distruggitore delle cose: 2° il desiderio della feli-
cità; analisi de' suoi elementi; suo carattere razionale; suo antagonismo colla infelicità: 3° la
brama della verità e l'istinto del conoscere; opposizioni e contrasti al possesso della verità:
4° l'aspirazione all'ideale morale; la lotta coi sensi e colle passioni; risultato di questa lotta —
fatti di psicologia sociale: la credenza universale del genere umano nell'immortalità: il culto
dei morti : la vita futura presso gli antichi poeti e filosofi — Parte critica di questo studio psi-
cologico: le contraddizioni tra le tendenze dell'anima ed il loro oggetto in rapporto coll'ordine
universale della natura e col disegno provvidenziale divino : l'immortalità riservata alla specie
umana e negata ai singoli individui : il pessimismo e la negazione dell' immortalità : valore
della credenza del genere umano nella vita futura: accordo tra la ragione ed il sentimento su
questo punto: distinzione tra la ragione universale comune a tutta l'umanità e la ragione par-
ticolare propria del pensatore.
Attinenze tra il problema dell'immortalità e la filosofia antropologica, la psicologia , la metafisica,
l'etica, la teodicea, la storia universale e la letteratura — Il problema considerato sotto il suo
aspetto soggettivo — Conclusione.
LA VITA OLTREMONDANA
INTRODUZIONE
Il mutabile umano.
È un pronunciato del positivismo trasformistico, che nell'essere umano niente vi
ha di permanente, di assolutamente immutabile, che tutto è mutabile e fenomenico.
La disamina di questa sentenza ci porta allo studio del mutabile umano, e per ab-
bracciare con larghezza di pensiero il proposto argomento occorre anzi tutto innal-
zarci al concetto di cangiamento preso in tutta la generalità sua.
Il cangiamento è il gran fatto universale, che si avvera in ogni momento del
tempo, in ogni punto dello spazio, che si mostra in noi, fuori di noi, in ogni essere
della natura ; è il fenomeno dei fenomeni, o meglio la forma universale di ogni feno-
meno. Un antico filosofo greco della scuola jonica, Eraclito, già insegnava, che le
cose sono in un perpetuo scorrimento, in un continuo flusso e riflusso, che mai non
s'arresta; nascono e periscono in un punto, spuntano, scompaiono, e più non sono.
Tutto passa, niente permane, tutto cangia, niente- è. L'universo è come una gran fiu-
mana, che tutto trascina nel suo corso irrefrenabile. Tu stesso non potresti tuffarti
una seconda volta nel medesimo fiume, perchè in ogni momento vi scorre altr'acqua,
e tu non sei più quel medesimo di prima. Siccome la vita delle cose sta nell'inces-
s ante mutamento, cosi ciò, che comincia ad esistere, non acquista mai un essere fermo
e determinato, una natura propria, che lo distingua da ogni altra cosa.
Così filosofava Eraclito, ed a' dì nostri Hegel riponeva in questa assoluta muta-
bilità universale il supremo principio dell'essere e del sapere, per cui tutto diventa
e niente è, e questo medesimo concetto è il punto di mossa del positivismo evolu-
zionistico contemporaneo.
Ho detto, che il cangiamento si manifesta da per tutto, in noi e fuori di noi (1).
La natura esteriore tutta quanta è un immenso teatro di incessanti mutamenti, di
sorprendenti trasformazioni. Essa ci apparisce dominata da una perpetua forza tras-
formatrice, che la porta a mutare senza posa il proprio aspetto. La materia inor-
ganica e bruta si trasforma di continuo scomponendosi ne' suoi elementi, e nessuno
sa seguire coll'occhio e col pensiero gli infiniti volteggiamenti e le metamorfosi di
(1) " Un continuo cangiamento si compie nella materia tutta, che senza posa si rinnovella, sicché
un animale, pur conservando le medesime apparenze, non conserva punto ne lo stesso sangue, ne
la stessa carne, ne le medesime ossa, perchè le particelle, onde consta, scorrono senza posa e sempre
ne sopravvengono delle nuove che prendono il loro posto. L'anima soggiace a tali vicende quanto
i corpi: i suoi costumi, le sue abitudini, le sue opinioni, i suoi desiderii, i suoi gusti, i suoi dolori,
i suoi timori provano frequenti rivolgimenti, le sue conoscenze medesime non ne vanno esenti ,
(Platone, Il Convito).
4 GIUSEPPE ALLIEVO
un piccolo atomo di idrogeno attraverso l'immensità dello spazio. Gli esseri organici
ed animati manifestano la loro vita sotto forme sempre diverse. Ma gli è segnata-
mente nelle sorprendenti metamorfosi degli insetti, che si mostra in tutta la sua luce
questa virtù trasformatrice della natura, tantoché si direbbe che ad ogni nuova fase
di sviluppo il vivente non sia più quello di prima. Il bruco diventa crisalide, che sta
assopita fra le tenebre del suo carcere, pressoché senza organi, senza moto, senza
nutrimento. Dalla crisalide spunta la farfalla con una struttura organica affatto nuova,
la quale la pone in un rapporto affatto diverso collambiente esteriore.
Malgrado i cangiamenti incessanti e profondi, a cui soggiace, la natura si man-
tiene pur sempre ordinata e costante nel suo processo ; il che prova che essi sono
governati da leggi generali, che segnano i limiti, a cui debbono arrestarsi, e la mi-
sura, che li circoscrive ; altramente il disordine ed il caos sarebbero inevitabili. I can-
giamenti non ispuntano quasi per incanto, ne avvengono per caso e senza ragione,
ma sono regolarmente determinati dalla natura specifica degli esseri, in cui si com-
piono. Sarebbe ridevole cosa l'aspettarci da un sasso inanimato i mutamenti proprii
di una pianta o di un organismo animale. Le metamorfosi della mitologia non hanno
leggi naturali, che le governino, ma per ciò appunto sono mere creazioni della fan-
tasia poetica, senza verun fondamento nella realtà. L'immaginazione omerica ci ritrae
l'infelicissima Niobe tramutata in una rupe, la nave de' Feaci in pietra, la figlia di
Pandoro in usignuolo ; ed il Proteo della favola, che veste per incanto le più disparate
sembianze, simboleggia lo sfrenato trasmutamento di tutte le cose mondiali.
Che se le cose tutte quante cangiano senza posa, diremo noi, che il mutamento
finisca nella distruzione dell'essere, nel nulla? Se cosi fosse, verrebbe un punto, in
cui il cangiamento stesso avrebbe termine, ma siccome esso si perpetua senza fine,
quindi è che sempre vi debb'essere alcunché, il quale muti, vai quanto dire, che
l'essere è indistruttibile. Mercurio Trismegistro nel Pimandro afferma, che " nihil
eorum, quae in mundo sunt, interit „ (1). Ovidio nel libro XV delle Metamorfosi pone in
bocca a Pitagora questa sentenza: u Omnia mutantur, nihil interit „. Il che significa
che il cangiamento tocca la forma, e lascia intatta l'intima sostanza o l'essenza. E
veramente il cangiamento sta appunto nel trapasso di un essere da un modo di esi-
stere ad un altro, ossia è una modificazione dell'essere stesso. Chi dall'ignoranza
passa alla conoscenza, muta modo di esistere, ma la sua individualità permane sostan-
zialmente. Un cangiamento di natura od essenza e non di semplice forma, non sa-
rebbe più cangiamento o trasformazione nel senso naturale del vocabolo, bensì un
trasnaturamento, e tali sono appunto le metamorfosi della mitologia.
Che se l'essere sempre muta riguardo alla forma, omnia mutantur, e permane
indistruttibile nella sua sostanza, nihil interit, sorge il problema, dove risieda questa
indestruttibilità sostanziale, problema che può essere risolto in sensi diversi. Il pan-
teismo sostiene, che l'essere primitivo ed assoluto esso solo è veramente indestrutti-
bile e permanente, essendo l'unica ed eterna sostanza, della quale le altre cose tutte
non sono che forme passeggiere e continui cangiamenti. Lo Spencer anch'esso con-
dì Lo stesso concetto riscontrasi in Ippocrate nel libro De Dieta, in Lucrezio, lib. 1°, versi 264, 265,
in Seneca nell'Epistola 36, in Macrobio, nel libro 2", capo 12 intorno il Sogno di Scipione.
LA VITA OLTREMONDANA 0
cepisce l'essere primitivo siccome la forza unica persistente, di cui tutte le forze par-
ticolari ed i fenomeni non sono che altrettanti modi, ma che però ci è assolutamente
ignoto in sé medesimo.
Il positivismo evoluzionistico contemporaneo si avvicina sotto un certo riguardo
a questa dottrina e si può considerare siccome una forma speciale di panteismo,
essendoché sentenzia, che le varie specie di esseri non conservano indestruttibile l'es-
senza sostanziale loro propria, ma si trasformano le une nelle altre passando per una
serie progressiva di cangiamenti governati dalla legge di continuità e di perfettibilità
indefinita, sicché rimontando il corso delle passate metamorfosi ci troveremmo di
fronte ad una sostanza unica primordiale. Un altro modo di risolvere il problema sta
nell'ammettere, che le sostanze esistenti sono molteplici e varie, e non già una sola,
e che le sostanze composte dissolvendosi cangiano e si distruggono perdendo l'indi-
vidualità propria, mentre le sostanze semplici ed indecomponibili, quali sarebbero da
un lato gli ultimi atomi della materia, dall'altro le anime razionali, rimangono in-
destruttibili.
Ognun vede che il proposto problema varca i limiti proprii della scienza antro-
pologica e si stende nel campo della filosofia superiore, siccome quello, che ricerca
la parte mutabile e la immutabile non nel solo essere umano, ma nell'intiero universo.
Ragion voleva però che ci elevassimo a concepire il problema in tutta l'universalità
sua, essendoché l'uomo è di tutta la natura la parte più sublime e comprensiva.
Premesso il concetto del cangiamento in generale, discendiamo a studiare di
proposito la parte mutabile dell'essere umano. E qui lascio da banda il gran mondo
umano esteriore o sociale, giacché il contemplare gli immensi e svariati mutamenti,
che l'umanità ha percorso attraverso i secoli, è ufficio che appartiene alla storia ed
alla filosofia della storia.
Lo studio nostro sta tutto raccolto in quel piccolo mondo psicologico, che si
svolge dentro ciascuno di noi; e per procedere con ordine occorre esordire da una
classificazione dei cangiamenti, a cui soggiace il soggetto umano individuo. L'uomo
ha duplice natura, fisica e mentale ; quindi abbiamo due classi di mutamenti, gli uni
proprii dell'organismo corporeo, gli altri dello spirito. La vita umana scorre per i
successivi periodi dell'infanzia, dell'adolescenza, della virilità, della vecchiaia, mani-
festandosi sotto forme diverse corrispondenti: di qui altre categorie di mutamenti
proprii di ciascuna età della vita. L'uomo esplica il suo essere interiore mediante la
triplice potenza del sentire, dell'intendere e del volere; quindi presenta tre specie
diverse di cangiamenti, secondochè riguardano ciascuna delle tre potenze : esso muta
sentimenti, pensieri e voleri. Soltanto di quest'ultima classe di cangiamenti qui ter-
remo discorso, giacché delle altre due abbiamo già fatto parola ne' nostri Studi an-
tropologici, e negli Studi psicofisiologici.
Basta interrogare per poco la storia del nostro cuore per rilevare che la vita
del sentimento e dell'affetto mai non rimane immobile nel medesimo stato. Si passa
dalla gioia al dolore, dall'amore all'odio, dalle pili brillanti e confortatrici speranze
alle ore dello scoraggiamento e del disinganno. I nostri sentimenti mutano d'intensità
sotto l'impero del tempo, mutano di oggetto nel loro processo. L'anima colpita da
irreparabil sciagura si veste a lutto, si abbandona al sentimento di una opprimente
malinconia, e vorrebbe essere morta per sempre alla vita. Il tempo vi passa sopra
GIUSEPPE ALLIEVO
ed a poco a poco vi sparge l'obblìo cancellando le impronte del dolore, che semina-
vano indelebili, distruggendo quelle meste e care ricordanze, che si credevano eterne
e si rientra nel corso della vita, si sente di nuovo l'esistenza. La forza trasformatrice
del tempo non solo modera ed attuta la profonda intensità del dolore, ma scema e
spegne le gioie più vive e più incantevoli. Infatti l'anima perdutamente innamorata
di un oggetto, vive tutta quanta raccolta nel desiderio di possederlo, anelandovi
come a termine della sua felicità suprema: il suo ardente desiderio è adempiuto:
essa possiede l'oggetto unico del suo amore, si sente beata : ma il suo paradiso a
poco a poco scompare, la sua beatitudine va scemando d'intensità ed energia, finche
a canto dell'oggetto amato finisce per vivere con una calma, che pare indifferenza.
La sazietà del possesso ha smorzato il fervido entusiasmo del desiderio. Anche l'am-
biente fisico e sociale, in cui la nostra vita si espande, produce mutazioni continue
nella nostra natura affettiva. Ogni oggetto, che ci impressiona, suscita in noi un sen-
timento, il quale cede il posto ad un altro in presenza di un nuovo oggetto : quindi
è che nell'età della fanciullezza i sentimenti sono freschi, sempre nuovi e mutabili,
perchè allo sguardo del fanciullo la natura apparisce sempre nuova e svariata, mentre
apparisce arida e fredda all'anima del vecchio già ammaestrata da lunga e dura
esperienza. Per lo contrario, il vivere monotono e sempre circondato dai medesimi
oggetti o suscita il desiderio di andare in cerca di nuove impressioni o genera la
noia e l'apatia.
Nell'unità del soggetto umano il cuore, potenza del sentimento e dell'affetto, non
vive isolato dall'intelletto e dalla volontà; epperò queste due potenze sono anch'esse
cagione de' mutamenti, che in esso si avvicendano. Quando il pensiero si spossa in
un meditar incessante, faticoso, profondo, anche il cuore ne soffre e sentesi inaridito,
mentre ogni nuova verità scoperta dall'intelligenza, ogni atto generoso e nobile della
volontà è accompagnato da un gradevole sentimento. Per lo contrario l'anima passa
dal più fervido ed elevato sentimentalismo alla fredda indifferenza, alloraquando l'ideale,
che lo sorreggeva, o si eclissa davanti al pensiero, od illanguidisce davanti alla volontà.
Non meno frequenti e notevoli sono i cangiamenti, che si avvicendano nella
nostra potenza intellettiva, siccome quella, che passa di continuo dall'uno all'altro
oggetto conoscibile, oppure discorre dall'uno all'altro dei molteplici elementi del me-
desimo oggetto. Il primo cangiamento, da cui si inizia la vita dell'intelligenza, sta
nel trapassare che essa fa dall'ignoranza alla conoscenza, vai quanto dire dalle te-
nebre alla luce: il pensiero si desta alla vita, quando la luce della verità discende
ad illuminarlo. Ad ogni acquisto di cognizione la vergine intelligenza del fanciullo
muta aspetto, si rinnova, si amplia, si ringagliardisce. Poi viene lo sviluppamene
progressivo della cognizione acquistata, poi altre cognizioni anch'esse nuove, poi il
loro intreccio e coordinamento od unità ideale; anche queste sono mutazioni, che
sopravvengono ad imprimere all'intelligenza una nuova forma più ampia e più com-
prensiva. Se non che le cognizioni acquistate con tanta fatica ed affidate alla me-
moria, possono eclissarsi, confondersi con altre, od andare smarrite del tutto ; il pen-
siero può dalla conoscenza ripiombare nell'ignoranza, dalla luce ricader nelle tenebre
obliando l'appreso: ecco qui un cangiamento di ben altra natura, che compromette
le sorti di tutta la nostra vita intellettiva. La storia ricorda pensatori, che per una
repentina perdita della memoria passarono ad un miserevole idiotismo.
LA VITA OLTREMONDANA I
Tutti questi sono cangiamenti comuni, di cui ognuno può essere testimone in se
stesso e che non oltrepassano il consueto procedimento del pensiero. Ma sonvene
altri tanto profondi e radicali, che rompono il filo del passato e gittano il pensiero
in lotta con se medesimo. Non mancano potenti intelligenze, che rinnegarono il pro-
prio sistema filosofico, frutto di lunghe ed intense meditazioni e passarono ad una
teoria in tutto od in parte opposta. Queste forme straordinarie di cangiamenti sono
rivoluzioni mentali, sono apostasie del pensiero ; e la storia ci porge non pochi esempi
di queste scosse mentali. Schelling (per tacere di parecchi altri pensatori) dopo l'a-
pertura del suo corso a Berlino nel 1841, professò principii filosofici, che contraddi-
cono al suo primitivo sistema dell'idealismo trascendentale.
Come si spiegano questi radicali mutamenti del pensiero? La legge psicologica
della continuità importa, che ogni nuovo fenomeno, che spunta nella coscienza, abbia
la sua ragione e la sua causa nel fenomeno, che lo ha preceduto; ma ognun vede
che balzando da una dottrina filosofica alla sua opposta o contraddittoria, l'una non
può di certo essere causa e ragione dell'altra. Che anzi ci troviamo di fronte al
problema, come si possano conciliare queste rivoluzioni ed apostasie del pensiero
colla legge psicologica della continuità.
Anche la potenza volitiva soggiace a mutamenti conformi alla sua natura : essa
cangia di oggetto, di intensità, di forza, vuole e disvuole, passa dal bene al male,
dalla virtù al vizio, e vi ritorna, cade e risorge. Ma un certo qual grado di fermezza
e di stabilità le è pur sempre necessario, perchè possegga quella dote tutta sua pro-
pria, il carattere, ed il carattere è inconciliabile con una volontà sempre mutabile,
volubile, incostante. La fermezza della volontà riposa sopratutto sui principii morali
e religiosi direttivi della vita, immutabili ed assoluti: ripudiando questi principii,
abbiamo le apostasie della volontà, come abbiamo le apostasie del pensiero. Ricer-
cando la cagione di questo radicai mutamento della volontà, la quale rinuncia alle
pristine credenze, talvolta la ritroviamo nella lotta, che entro di noi si dibatte tra
la ragione e la fede. Teodoro Jouffroy ci ha lasciato una commoventissima ed inte-
ressante pagina di storia della sua vita intima (1), nella quale ritrae le atroci tor-
ture, che dilaniarono il suo spirito allorquando ripudiò le credenze religiose, nelle
quali era nato e fu educato, per seguire la pura ragione, che poi lo abbandonò in
balìa dello scetticismo.
Come il sentimento è la potenza affettiva, come l'intelligenza è la potenza pen-
sante e conoscitiva, cosi la volontà è la potenza essenzialmente e propriamente ope-
rativa, siccome quella, che ha per ufficio di tradurre in atto l'ideale della vita, che
le sta davanti. Sotto questo riguardo abbiamo ragione di distinguere i cangiamenti
della volontà in due specie, secondochè essa nel suo operare si allontana dall'ideale
proposto e discende nella bassa sfera degli istinti animali e delle ignobili passioni,
oppure si innalza all'ideale conformandosi ai principii immutabili, del vero, del giusto,
dell'onesto e del divino. La nostra vita operativa è un' alternata vicenda di questi
due movimenti, discensivo ed ascensivo. Quando ci troviamo caduti in basso loco, av-
voltolati nel fango della realtà materiale, il sentimento della nostra dignità umana
suscita in noi il desiderio di rialzarci, di rifare la nostra vita, di ritornare là, dove
(1) Vedi P. Lerroux, De la mutilation d'un écrit de Jouffroy.
GIUSEPPE ALLIEVO
la voce del dovere ci chiama , allora si cangia indirizzo ; succedono le conversioni
dell'anima, conversioni per lo più lente, faticose, oscillanti, e qualche rara volta re-
pentine, straordinarie, inaudite, avvolte nell'arcano, come quella di S. Paolo, che col-
pito sulla strada di Damasco da forza misteriosa, si mutò da persecutore in apostolo
della nuova fede. Sonvi poi certe tempre di volontà ferree, adamantine, che si man-
tengono ferme, incrollabili intorno l'ideale della vita, ne mai lo abbandonano per
volgere di anni e di vicende; anch'esse cangiano, ma il loro cangiare è un progres-
sivo innalzarsi, un avvicinarsi sempre più da presso al sublime ideale, un avanzare
continuo nella via della perfezione. Queste volontà rarissime davvero e tanto privi-
legiate dalla natura, trovano la loro corrispondenza in quelle elette intelligenze, che
giunte alla più tarda vecchiaia, conservano l'operosità ed il vigore proprii degli anni
giovanili (1).
Queste brevi considerazioni intorno i cangiamenti della volontà sono poi feconde
di pratiche applicazioni nella scienza e nell'arte pedagogica. Educare la volontà del-
l'alunno non significa punto annientarla, condannandola all'inerzia, all'immobilità,
all'impotenza, non significa violentarla, togliendole il suo libero movimento e trasfor-
mandola in un meccanismo di cieche ed automatiche abitudini, bensì risiede nell'am-
maestrarlo intorno l'ideale della vita, nel rafforzare la sua volontà a conseguirlo,
tenendo vivo nell'animo suo il sentimento della sua responsabilità e la coscienza del
suo operare, e sorreggendolo nella formazione del suo carattere.
Ricordiamo le cose fin qui discorse e raccogliamoci. La nostra vita scorre per
una serie continua di cangiamenti, i nostri sentimenti, i pensieri, i voleri non riman-
gono mai immobili un solo istante. Ma non vi è dunque nulla di permanente, di
inalterabile nel nostro essere? Certo che si, e la risposta affermativa ci viene data
in modo incontrastabile dalla coscienza. Noi siamo consapevoli, che la nostra per-
sona, pur mutando modo di esistere, non diventa un' altra persona, che essa soprav-
vive ai cangiamenti, a cui soggiace, e si mantiene sempre lei in tutto il corso della
sua esistenza, che essi toccano soltanto la sua forma esteriore, ma lasciano intatta
l'intima sua sostanza. L'io umano sa di essere qualche cosa di superiore a' suoi can-
giamenti, sa che sono suoi, che appartengono a lui, vai quanto dire che è una so-
stanza, e non già un mero complesso di modificazioni o di fenomeni. Egli è fornito
della coscienza della sua identità personale, mercè di cui non solo avverte i suoi
cangiamenti attuali, ma ricordando il suo passato sa di essere ancor di presente la
persona, che ha provato tali e tali altri sentimenti, che ha acquistato queste o quelle
altre cognizioni.
Distinta ed esaminata la parte mutabile del soggetto umano, abbiamo conchiuso
che esso mantiene immutabile la sua individua sostanzialità personale in tutto il corso
della terrena esistenza. Ma il nostro io rimarrà esso indestruttibile passando ad una
seconda vita successiva alla presente? Ecco il problema della vita oltremondana.
(1) Platone scriveva ancora all'età di 80 anni, Isocrate componeva il Panegirico a 96 anni, l'ora-
tore Gorgia applicava allo studio già varcati i 100 anni, Varrone compose il suo trattato Delle
occupazioni rustiche a 80 anni, Sofocle, ancora più vecchio, dettò il suo Edipo a Colono, Teofrasto
scrisse i suoi Caratteri a 99 anni e nella stessa età Fontenelle poetava ancora.
LA VITA OLTREMONDANA
La vita oltremondana.
La vita è moto, ed il soggetto umano percorrendo il circolo della sua vita ter-
rena si muove passando per una serie continua di sentimenti, di pensieri, di voleri
sempre nuovi e cambia forme e modi di essere, finché giunge all'ultimo e radicai
trasmutamento, che si manifesta nel fenomeno della morte. La vita e la morte, il
nascere ed il perire, il cominciamento ed il termine di un essere, ecco i due più
solenni cangiamenti delle sostanze esistenti.
Il trapasso di qualche cosa dal nulla (la non esistenza) all'esistenza, la sua rica-
duta dall'esistenza nel nulla, sono i due supremi fenomeni, in cui si risolvono gli
esseri cosmici, e che si richiamano perpetuamente come due contrarii si richiamano
l'un l'altro. Tutto ciò, che vive e sussiste in natura, possiede un' individualità sua
propria, che lo distingue da tutta la rimanente realtà. Esiste un fiore, un uccello, un
uomo, ma queste individualità da prima non esistevano, erano un nulla : già preesi-
stevano gli elementi, le molecole, gli atomi, onde constano, ma appartenevano alla
natura in generale, non ancora a quel dato essere singolare, ossia non erano ancora
riuniti insieme in virtù di certe forze, secondo certe leggi e proporzioni da costituire
una sostanza individua, e potevano altresì comporsi insieme in altra foggia, sotto
l'impero di altre forze. Così spuntano i singoli esseri viventi della natura fisica : ciò,
che prima esisteva in modo generico, indistinto, indeterminato, passa ad assumere
un aspetto particolare, distinto, determinato, si circoscrive in un dato punto del tempo
e dello spazio, rivestendo una individualità incomunicabile. Ma a questo solenne fe-
nomeno succede e fa corrispondenza il suo opposto, la vita termina nella morte. ,Un
essere dalla natura scompare, quando la sua individualità vien meno, quando cioè i
suoi componenti non più congiunti insieme dalla forza, che li governava, si disgre-
gano qua e là abbandonati al potere generale della natura; gli elementi ultimi riman-
gono ancora in forma generica, indeterminata, ma l'individuo non è più. Però questi
medesimi elementi possono rientrare nel cerchio della vita, e ricomporre una nuova
esistenza. Così la vita rinasce dalla morte per ricadérvi di nuovo.
Anche l'essere umano passa dalla vita alla morte, nasce e perisce, ma i suoi
sostanziali componenti, spirito e materia, rimangono essi indestruttibili, oppure pe-
riscono e cadono nel nulla? Ciascuno di noi ha cominciato ad esistere, dacché anima
e corpo si composero insieme ad unità di essere ; la morte li separa ; che ne sarà di
ciascuna di queste due sostanze? Il mio essere perisce tutto quanto, oppure avvi una
parte di me, che sopravvive conservando l'individualità sua? La morte disfà e dis-
solve il mio organismo corporeo, ma il mio spirito proseguirà esso la sua vita e si
ricomporrà il suo materiale involucro? Ecco il problema della vita oltremondana.
Importanza del problema.
Se la vita nostra personale si spenga tutta quanta e per sempre, oppure si ri-
componga con un altro atteggiamento e quale nuova forma essa rivesta, è il pro-
blema di tutti i secoli, di tutte le menti, di tutta l'umanità. Questo problema sovrasta
Serie II. Tom. LUI. 2
10 GIUSEPPE ALLIEVO
ad ogni altro problema filosofico per la sua gravità ed importanza, siccome quello,
che interessa ciascuno di noi e tocca le sorti supreme della nostra esistenza. Esso
s'impone al pensiero di ogni uomo, che seriamente rifletta, e ricerchi la ragione per
cui vive quaggiù. Se siam venuti al mondo ignari del nostro avvenire, non possiamo
abbandonarlo senza preoccuparci della sorte, che ci attende, e del dove andremo a
finire (1). C'interessa sommamente di sapere, se l'istinto indestruttibile della propria
conservazione, questa continua protesta contro l'annientamento della nostra perso-
nalità, sia un preludio della vita futura, oppure una mera illusione della nostra mente.
La somma importanza di questo problema apparisce vieppiù manifesta dalla sua
intima connessione coll'ideale supremo della vita umana. Poiché, se gli è vero che
la vita nostra ha un ideale, a cui è naturalmente ordinata, sorge tosto la dimanda,
se quest'ideale si assolva nella cerchia della vita presente, oppure consegua il suo
pieno avveramento in una vita oltremondana. Tutti i viventi tendono alla perfezione
propria della loro specie, siccome a loro ideale , con questo grande divario , che i
viventi irragionevoli vi aspirano ciecamente e per impulso irrefrenabile di natura,
l'uomo, con cognizione d'intelletto e libertà di volere. Il granellino, che si schiude dal
proprio germe, tende a trasformarsi in perfetta spica; è il suo ideale, ma è la na-
tura, che ve lo conduce. L'uomo conosce il suo ideale, e liberamente lo vuole. L'ideale
della vita nostra presente è molteplice e vario: ogni età, ogni genere di vita, ogni
individuo ha il suo ideale particolare, ma tutti vanno a metter capo nell'ideale su-
premo della vita umana.
Intorno a questo supremo ideale si agita e si muove tutta la nostra vita pro-
sente. Esso è il centro delle nostre aspirazioni, il principio motore di tutto il nostro
operare, il nostro entusiasmo ed il nostro tormento (2). Ma esso si compenetra col-
l'idea della vita futura, in virtù della quale assume un più alto significato ed un
indirizzo affatto speciale e supremo. Chi ha fede in una esistenza oltremondana, com-
pone ed atteggia la vita sua in modo conforme a quella credenza. Chi non crede ad
un al di là, vive come se tutta la sua esistenza dovesse finire quaggiù. Si vive e si
opera come si crede e si pensa ; epperò mal si appongono coloro, che negano alla
vita futura una vera efficacia sulla nostra vita operativa e morale.
Il positivismo contemporaneo riducendo la vita tutta quanta ad un intreccio di
fenomeni passeggieri senza sostanza vivente, a cui appartengano, rigetta siccome
antiscientifico ogni problema riguardante la destinazione finale degli esseri, e quindi
anche il problema della vita oltremondana. Ma in ciò non procede a dirittura di
(1) L'imperatore Adriano, presso a morire, rivolse alla sua anima questi versi: " Animula vagula.
Manchila — Hospes, comesque corporis — Quae nunc abibis in loca? — Pallidula, rigida, nudula
— Nec ut soles, dabis jocos „ (Sr-AHTiANus, Vita Hadriani, e. XXIII).
(2) Questo concetto dell'ideale della vita trova uno spontaneo riscontro nella scienza e nell'artp
pedagogica e richiama a se tutta la meditazione dell'educatore. Senza un ideale non si riesce a
nulla di buono in nessun ordine di cose. Un educatore senza ideale cammina alla ventura, sempre
inconsapevole se avanzi od indietreggi nel suo magistero. Poniamo che quest'ideale o non risplenda
vivo e vero davanti alla mente dell'educatore e dell'alunno, o rimanga oscurato dall'ignoranza o
dalle passioni, o peggio ancora adulterato da false idee o da pregiudizi, allora l'educazione fallisce
al suo scopo. Occorre impertanto illuminare la mente dell'alunno perche riformi l'ideale della vita
sceverandolo da ogni ideale chimerico, ingannevole o disperato, e disciplinare la sua volontà perchè
operi conforme a quel vero ideale.
LA VITA OLTREMONDANA 11
logica: poiché è un fenomeno, che reclama la sua ragione spiegativa anche questo,
che cioè l'uomo, raccogliendosi nell'intimità della sua coscienza, dimanda a se me-
desimo : quando il flusso e riflusso dei cangiamenti, fra cui scorre la mia vita, avrà
chiuso il suo ciclo, che ne sarà di me? Il positivismo non può logicamente rifiutarsi
dal rispondere a questa dimanda, rendendo ragione anche di questo fenomeno. Ci
risponderà, che dove vada a finire questo perpetuo ritornello di fenomeni che chia-
mano vita, non se ne sa proprio nulla ; e sia pure : sarebbe questa una soluzione
negativa del problema, e la critica sentenzierà se sia vera o falsa. Ma di tal modo
voi non avete respinto il problema, bensì lo avete accolto e discorso, essendoché
anche per averlo risolto in modo negativo occorre averlo disaminato. Come l'ombra
suppone il corpo, che la proietta, cosi il fenomeno importa la realtà sostanziale, in
cui si radica. Fenomeno e sostanza, morte e immortalità sono due concetti, che si
presentano al pensiero indisgiungibili: e Platone già scrisse nel Fedone che i filosofi
bramano effettivamente di morire, perchè nella vita futura, liberi dalle illusioni de' sensi
corporei, acquisteranno la vera sapienza.
Alla somma rilevanza del proposto problema corrisponde la somma difficoltà che
presenta ad essere di tutto punto risolto. Il mistero della morte diffonde una certa
qual ombra di oscurità su questo problema, il quale perciò è stato contemplato e
risolto in sensi i più disparati ed ha fornito argomento alle affermazioni più ardite
ed esorbitanti, senzachè mai siasi giunto a dissipare il punto nero, che lo adombra.
Furono messe in campo le opinioni più strane a spiegare la vita futura, e basti ri-
cordare quella degli stoici, i quali (a quanto ne riferisce Plutarco nel suo opuscolo
Delle sentenze dei filosofi, lib. 4, cap. 7) sentenziarono, che alloraquando l'anima se
ne esce dal corpo, muore insieme col composto, se è imbecille, quali sono quelle
degli idioti; per contro se è potente, quali quelle dei sapienti, dura sino alla confla-
grazione universale. Essere o non essere; è la questione suprema: essere così o così;
è questione secondaria. La ragione può dimostrare, che nel mondo di là ci saremo
ancora; ma in che modo ci saremo? questo essa non ce lo può spiegare con tanta
lucidità e certezza da dissipare ogni ombra di dubbio.
Concetto generale del problema.
La vita oltremondana o futura ci si presenta quale una sopravvivenza alla
morte, epperò contiene in sé il concetto dell'immortalità. Ora questo concetto è for-
nito di tanta universalità ed ampiezza che può essere riscontrato dovunque apparisce
un essere vivente ; epperò potrem dimandare, se sia immortale non solamente l' io
umano individuo, ma altresì la specie umana, tutti gli esseri viventi, tutto quanto il
visibile universo. S'intende da sé che il nostro problema è circoscritto alla disamina
della vita oltremondana propria dell'io umano individuo; ma anche riguardato sotto
questo speciale aspetto esso non va rimpicciolito oltre il convenevole, bensì contem-
plato in tutta la sua naturale ampiezza. Alcuni ristringono tutto quanto il problema
alla sola disamina dell'immortalità dell'anima e reputano di averlo risolto quando
siano riusciti a dimostrare che l'anima di ciascuno sopravvive sola al dissolvimento
12 SEPPE ALLIEVO
del corporeo organismo. Costoro non avvertono che i componenti sostanziali dell'io
umano sono spirito e corpo, stretti insieme da un vincolo personale cotanto intimo,
che l'anima cesserebbe di essere umana, se venisse considerata come uno spirito
puro sciolto da ogni rapporto colla materia. Quando avrete posto in sodo, che l'anima
dura oltre tomba, voi vi troverete in faccia a questa inevitabil questione: che ne è
di tutta la sua vita fisica, che essa aveva vissuto quaggiù nel suo intimo e lungo
commercio col corpo? Si spegnerà essa tutta quanta? E allora come potrà reggersi
la sua vita mentale, che nel suo sviluppo temporaneo si era intimamente compene-
trata colla vita corporea? Come mai l'anima potrà ancora percepire il mondo ma-
teriale esterno ed accoglierne l'impressione ? Oppure quella vita fisica continuerà
ancora? In questo caso, sotto qual nuova forma diversa dalla presente terrena si ma-
nifesterà essa mai? L'anima si comporrà un altro involucro materiale, che le tenga
luogo del corpo, che non ha più, siccome necessario strumento del suo lavorìo razio-
nale, oppure si ricostruirà in altra guisa il suo organismo corporeo precedente?
Da questa considerazione appar manifesto, che l'immortalità dell'anima umana
non comprende in tutta la sua compitezza il problema della vita futura oltremondana,
perchè non si tien conto di amendue i sostanziali componenti dell'umano soggetto,
e che perciò ad abbracciare tutto quanto e quale è il proposto problema va formu-
lato nei termini seguenti : se il dramma della nostra esistenza abbia nella morte del
corpo il suo finale e definitivo scioglimento, oppure il nostro io personale sia desti-
nato ad una seconda vita futura oltremondana. Questa è la forinola generale e com-
plessiva del problema: qui ci troviamo di fronte alla grande, alla suprema questione
dell'essere o non essere, dalla quale però scaturisce una seconda questione, che riguarda
il modo di essere. Quindi quel concetto generale del problema viene a scomporsi in
questi altri problemi elementari: in qual guisa l'io umano ricomporrà nell'unità del
suo essere personale la sua duplice vita, fisica e mentale, spezzata dalla morte? Qual
nuovo atteggiamento prenderanno le sue potenze in ordine al loro oggetto? Come si
svolgeranno in lui le impressioni esterne, i sentimenti, gli affetti, i pensieri, i voleri?
Qual rapporto avranno tutti questi fenomeni con quelli della vita presente? Ricor-
deremo il nostro passato, penseremo alle persone ed alle cose di quaggiù, che furono
tanta parte della nostra terrena esistenza?
Tale è il concetto generale del problema inteso nel suo significato supremo e
ne' suoi integrali elementi. Come la morte è la solenne e radicai trasformazione di
tutto il nostro essere, cosi la vita futura oltremondana non solo s'impone alla ragione
per essere meditata e discussa, ma preoccupa altresì e richiama a se tutte le altre
potenze dell'anima. Poiché essa è una costante aspirazione del cuore, che attende al
di là l'ideale supremo de' suoi amori e delle sue speranze non mai raggiunto quaggiù :
è un'affermazione dell'istinto indomabile della propria conservazione, che rifugge
dall'annientamento della nostra esistenza personale: è una verità naturale di senti-
mento, suffragata dal consenso universale del genere umano: è un mondo arcano,
che apre all'immaginazione un campo svariatissimo ed immenso alle sue fantastiche
creazioni, come apparisce nella Divina Commedia, dove l'Alighieri ritrae con insupe-
rabile magistero di fantasia poetica lo stato dell'anima nella vita futura. La facoltà
del libero volere, mentre da un lato genera la responsabilità del nostro operare, dal-
l'altro importa una sanzione, la quale avrà il suo compiuto avveramento nella vita
LA VITA OLTREMONDANA 13
futura. Infine anche il sentimento religioso, facoltà indestruttibile della natura umana,
afferma recisamente l'esistenza oltremondana. Il culto dei morti e la riverenza dei
sepolcri sono un fatto universale e costante nella storia dell'umanità, che rimarrebbe
inesplicabile qualora si negasse l'esistenza della vita futura. Giambattista Vico ne' suoi
Principi di una Scienza nuova, esordisce osservando che " le religioni tutte ebbero
gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di
vivere eternalmente „ ; ed altrove scrive che " è un placito, nel quale certamente son
convenute tutte l nazioni gentili, che l'anime restassero sopra la ferra inquiete, ed an-
dassero errando intorno a' loro corpi insepolti; e in conseguenza che non muoiano
co' loro corpi, ma che siano immortali „ (1). ÀI culto dei morti accennava il cantor
dei Sepolcri rilevando la celeste corrispondenza d'amorosi sensi tra i viventi ed i tra-
passati, corrispondenza, che suppone la sopravvivenza delle anime oltre la tomba,
sebbene poi rinneghi l'immortalità degli spiriti proclamando che Anche la speme,
vittima dea, fugge i sepolcri, e di tal modo contraddicendo a se medesimo. Il cantore
della Dirimi Commedia vide anch'egli scritto al sommo di una porta: Lasciate ogni
speranza o voi ch'entrate; ma non era la porta del Camposanto, bensì dell'Inferno, dove
entrano le anime dannate, ed egli cantava che gli spiriti umani si risveglieranno un
giorno dal sonno della morte corporale.
La facoltà della ragione e della scienza in riguardo alla vita futura oltremon-
dana ha un compito speciale suo proprio, diverso da quello delle altre facoltà fin
qui enumerate. Qui non si tratta più di tendenze istintive, di aspirazioni, di senti-
menti, di immagini fantastiche, di credenze universali: la ragione medita intorno il
gran problema dell'immortalità dell'io umano, riflette, discute, dimostra, lavora nel
campo della scienza teorica e dell'astratta speculazione, pone in sodo la verità sce-
verando il certo dall'incerto, il probabile dal dubbio. Ma qui sorge una questione
assai rilevante, che non va trascurata. La ragione scientifica può essa mantenersi
estranea ed indifferente alle affermazioni delle altre umane potenze intorno a questo
gran punto, e senza riguardo di sorta imporre i suoi ragionamenti e le sue conclu-
sioni quali che siano, oppure sonvi limiti, a cui deve arrestarsi, riguardi da rispettare?
Ha essa un diritto assoluto di impugnare a priori e rigettar fra le chimere le aspi-
razioni del cuore, le tendenze istintive della natura umana, le intuizioni spontanee
dell'intelligenza, le creazioni tutte della fantasia, le credenze universali del genere
umano e del sentimento religioso? Io non lo credo punto. Poiché primo dovere della
ragione speculativa e della scienza è questo, di riconoscere e rispettare la natura
umana in tutte le manifestazioni della sua attività, in tutta l'integrità de' suoi ele-
menti. Ora è un fatto, che le potenze tutte quante, che costituiscono il soggetto
umano, si sentono per così dire attratte verso il gran punto della vita oltremondana;
e per conseguente la ragione non ha diritto di serbarsi libera ed indipendente asso-
lutamente dalle loro affermazioni e discutere il problema della vita futura all'infuori
della natura umana. L'io umano -non è tutto quanto ragione, non è esclusivamente
(1) Principi di scienza nuova, Opere, voi. 0. Milano 1830, pag. 143. Lo Spencer ripone nel culto
dei morti l'origine primitiva e la genesi di tutte le religioni. Anche il Guyot a pag. 358 della sua
L'Irréligiori de l'avenir, scrive che * in mezzo allo sfasciarsi di tutte le religioni sussisterà la
rimembranza e la venerazione de' trapassati „ .
14 GIUSEPPE ALLIEVO
pensiero e niente più, ma è altresì sentimento, è libertà, è religiosità, è imma-
ginazione.
Inoltre l'umano soggetto non è soltanto molteplice e vario nelle sue potenze,
ma altresì uno ed armonico nel suo essere. Quell'io, che ragiona e ragionando
costruisce la scienza, è quel medesimo, che sente, immagina, vuole, intuisce e crede.
Le molteplici potenze non sono forze, opposte e contrarie, che si urtano e si elidono,
ma compongono una forza unica e vivente. Questa legge dell'armonia o del sinte-
sismo psichico esige che la ragione scientifica armonizzi le sue conclusioni ed i suoi
pronunziati colle affermazioni proprie delle altre potenze anche in riguai'do a questo
gravissimo argomento della vita oltremondana. Non è vera scienza quella, che su-
perba di sé sola, si pone in antagonismo con tutto ciò, che è oggetto del sentimento,
dell'affetto, dell'istinto morale e religioso e conculca le giuste aspirazioni del cuore,
le legittime speranze dell'umanità. La scienza vera non introduce il dissolvimento e
lo scompiglio nell'intimo dell'io umano, ma l'unità e l'armonia ; non accumula rovine,
ma lavora; non distrugge, ma edifica sul fondamento, che natura pone.
Questa naturale armonia propria dell'umano soggetto ci conduce ad un' altra
rilevantissima conseguenza. La ragione speculativa non solo non ha diritto di invadere
il dominio proprio delle altre potenze, di tiranneggiarle, di chiamarle come giudice
infallibile al proprio tribunale e pronunciare sopra di esse una sentenza di vita o di
morte, ma non basta a se sola, come nessuna potenza basta a se medesima, bensì
abbisogna del concorso di tutte le altre per lo stesso suo lavorìo scientifico. Infatti
ci sono verità di senso comune intuite per natura, ammesse dal consenso del genere
umano, sentite dal cuore, inspirate dall'affetto e dall'istinto, verità che non furono
scoperte dalla speculazione, né dimostrate dalla scienza, ma che la ragione medesima
è costretta ad accogliere o riconoscere siccome dati fondamentali, da cui deve pi-
gliare le mosse. La scienza abbisogna altresì dell'immaginazione, che la sorregga
alloraquando nelle sue speculazioni trascendentali le idee assolutamente pure ed
astratte vengono meno e sottentrano le immagini, che ne facciano le veci. Come vi
ha un' immaginazione poetica, che ha per oggetto il Bello dell'arte, così si dà un' im-
maginazione schematica o simbolica propria della scienza, che raffigura il vero. Nes-
suno contesterà alla ragione scientifica il diritto ed il dovere di sceverare ciò, che
vi ha di meramente fantastico e fittizio da ciò, che evvi di sodo, vero e reale nella
Divina Commedia di Dante, e nel Fedone di Platone in riguardo alla vita oltremon-
dana; ma non perciò deve riguardare que' due capolavori siccome mere creazioni di
fantasia poetica, destituiti di ogni valore scientifico. Infine la ragione non può far
senza nemmanco della facoltà della fede e dell'autorità. Si suol dire, che la scienza
non crede, ma ragiona, non si piega all' autorità, ma discute, non dommatizza, ma
dimostra. Voi adunque riputate la ragione valida e potente a scoprire di per se sola
la verità e dimostrarla; ma io non mi sto pago della vostra parola; dimostratemi
che la ragione è fornita di tanto valore. La dimostrazione vi torna impossibile, perchè
vi sarebbe giuocoforza adoperar la ragione per dimostrar la ragione, epperò la vostra
dimostrazione non ha valore di sorta. Se adunque la ragione non può dimostrare la
propria efficacia e virtù speculativa, ciò vuol dire che essa esordisce col dogmatismo,
incomincia con un atto di fede nella sua autorevolezza. Quando si aggiunga, che la
scienza non solo è dogmatica ed autoritaria nel suo inizio, ma che nel suo arduo
LA VITA OLTREMONDANA 15
cammino s'incontra ad ogni pie sospinto in difficolta insuperabili ed in profondi mi-
steri, che la avvolgono, si scorgerà di leggieri, che le credenze religiose nella vita
futura fondate sull'autorità vuoi umana, vuoi divina, vanno dalla ragione non disco-
nosciute, ma tenute in quel conto, che si meritano.
" La scienza (scrive a questo proposito F. Paulhan) non ha per iscopo di conso-
larci e divertirci : essa cerca di conoscere il vero e diffonderlo ; contenta quando vi
riesce, e non si cura di altro Conviene considerare la vita futura soltanto come
l'oggetto di un desiderio o di una speranza, non come una verità dimostrata sia dal-
l'intelligenza incapace di sciogliere la questione, perchè l'osservazione vien meno, sia
dal cuore, a cui non dobbiamo affidarci quando si tratta di stabilire un fatto „ (1).
Io convengo che la scienza non ha per iscopo di consolarci; aggiungerò anzi, che
essa non ha mai asciugato una lacrima ; ma neanco ha diritto di strapparci dall'anima
quelle credenze naturali, che sono il conforto della vita ed il fondamento della di-
gnità umana, di gittarci la disperazione nel cuore e trascinarci a maledire l'esistenza.
Sarebbe scienza disumana questa, epperciò insussistente e fallace. Primo carattere
della scienza vera questo è, che sia umana, non distruttiva dell'umanità, ma perfe-
zionativa. La scienza, dice l'autore, cerca di conoscere e diffondere il vero e non si
cura di altro; ed io osservo, che ciò, che è propriamente e realmente vero, non può
trovarsi in contraddizione colle altre manifestazioni dello spirito umano, perchè la
ragione, che ha per oggetto il vero, non può contraddire al bello, al buono, al giusto,
alla felicità, oggetto delle altre potenze umane. Se la scienza non si cura di altro,
abbia però cura di non iscambiare la verità vera, mi si passi l'espressione, con la
verità apparente ed illusoria. Ma veniamo più di proposito al nostro argomento.
In sentenza dell'autore, la vita futura è l'oggetto di un desiderio e di una spe-
ranza. Ma io vi dimando : questo oggetto, in cui si appunta il nostro desiderio e la
nostra speranza, è vero e reale, oppure vano ed ingannevole ? Se è una realtà, voi
rimanete d'accordo con noi. Se una mera apparenza e vanità, provatemelo ; ma in
tal caso avvertite bene, che voi distruggete anche la vostra scienza e la stessa ragione
umana; poiché siccome questo desiderio e questa speranza di una vita futura è radi-
cato in noi per mano medesima della natura, sarebbe giuocoforza ammettere che è
la natura medesima, che c'inganna, e se essa ci illude su questo gravissimo punto,
chi ci assicura che non inganni altresì la ragione, la quale si crede potente di sco-
prire la verità e dimostrarla, di comporre la scienza e sceverare il vero dal falso,
il certo dal probabile e dal dubbio? Così saremmo involti in uno scetticismo uni-
versale.
L'autore considera la vita futura come oggetto di un desiderio, non come una
verità dimostrata. Ma forsechè tutte le verità possono e debbono essere dimostrate?
No certamente. Ci sono verità sia di principio, sia di fatto, che non si dimostrano,
perchè non hanno bisogno di prova, e che tuttavia non cessano di essere splendide
e incontrastabili verità, pari all'onore, che si sente e non si discute. Che anzi tutte
le grandi e solenni verità, che tornano necessarie al genere umano siccome fonda-
mento della sua vita operativa e guarentigia delle sue sorti non furono scoperte né
(1) Physiologie de l'esprit, pag. 184, 185.
16 GIUSEPPE ALLIEVO
dimostrate dalla scienza, bensì impresse dalla mano di natura nella mente di tutti,
e dalla natura tutelate contro la lotta di tanti sistemi e dottrine contrarie ed opposte,
che la ragione crea e distrugge nella storia del pensiero umano. E giacche l'autore
asserisce che la vita futura non è una verità dimostrata, alla nostra volta noi pos-
siam dimandargli: la verità della vostra dottrina positivistica l'avete voi dimostrata?
E la vostra dimostrazione è forse cosi rigorosa, e stringente, che regga inconcussa
alla logica?
Voi confortate la vostra asserzione osservando che la vita futura non è verità
dimostrata ne dall'intelligenza, né dal cuore: non dall'intelligenza, perchè le manca
l'osservazione, non dal cuore, perchè in cose di fatto non è meritevole di fede. Con
ciò voi supponete, che ogni qualvolta l'intelligenza imprenda a dimostrare una verità,
non abbia altra via che l'osservazione dei fatti, mentre anche le idee possono fornire
alla dimostrazione il suo punto di mossa, come occorre appunto nelle scienze esatte
e matematiche. Però nel caso nostro non manca l'osservazione psicologica di fatti
interni, su cui si può condurre una dimostrazione della vita futura, giacché non tutta
l'osservazione va ridotta alla cerchia del mondo fisico esteriore. Che poi il cuore non
sia autorevole testimone lorchè si tratta di stabilire un fatto, è tal sentenza che viene
smentita dalla stessa esperienza interna. Per altra parte non è dal cuore, che, come
vorrebbe l'autore, vuoisi attendere la dimostrazione di una verità. Il cuore mostra,
ma non dimostra.
La discussione del problema.
Il pensiero, che medita intorno il proposto problema, può riuscire a queste tre
conclusioni diverse: 1° L'esistenza della vita futura oltremondana è una credenza na-
turale del cuore, che la ragione deve rispettare, ma che non può dimostrare né vera,
né falsa colla virtù del ragionamento. 2° L'io umano perisce alla morte del corpo.
3° L'io umano è personalmente immortale. Secondo la prima conclusione né si afferma,
né si nega ; il problema rimane insolubile tra il sì ed il no. La seconda conclusione
è negativa; la terza è affermativa. Lasciamo da banda la conclusione della prima
classe, siccome quella, che non porge argomento a discussione di sorta, e facciamoci
tosto ai sistemi negativi.
Sistemi negativi.
Il materialismo ed il panteismo sono i due precipui sistemi, che conducono a
filo di logica alla negazione della vita futura oltremondana. Pronunciato fondamentale
del materialismo è questo, che l'uomo tutto quanto è niente più che una compagine
di materia organata secondo certe forze fisiche, governata da certe leggi fisiologiche.
Le facoltà mentali della ragione e della libertà morale, che noi attribuiamo ad una
sostanza distinta dal corpo, cioè all'anima, sono funzioni dell'organismo corporeo.
Come il fegato è l'organo che secerne la bile, cosi il cervello è l'organo che forma
i pensieri, ed i movimenti delle fibre nervose sono l'organo dell'attività volontaria.
Ciò posto, siccome l'organismo corporeo si dissolve alla morte del corpo, e con lui
il cervello e le fibre nervose, cosi per logica necessità anche le facoltà mentali del-
LA VITA OLTREMONDANA 17
l'intendere e del volere si spengono e l'io umano individuo scompare. Sarà quindi
vero che non esiste vita futura, a condizione che sia vero il principio fondamentale
del materialismo, da cui consegue siffatta conclusione negativa. Ma tale sistema è
esso fondato in verità? Lascio alla critica il facilissimo compito di dimostrare l'in-
sussistenza della grossolana dottrina dei materialisti, che Cicerone già appellava filo-
sofi plebei. Io mi ristringo a questa dimanda: Se l'io umano è niente più che una
compagine di materia per quantunque ben organata, spiegatemi come mai il pensiero
s'innalza al di sopra della materia sino alle sublimi regioni ideali del vero, del giusto,
del divino, che trascendono il mondo delle cose corporee e sensibili? Se la mia libera
volontà è anch'essa un movimento nervoso della materia, come si spiega la lotta
continua, che si dibatte nell'intimo della coscienza umana tra lo spirito e la materia,
tra gli ignobili istinti animali ed i generosi propositi, come si spiega il sentimento
della dignità umana, il sentimento morale e religioso, lo slancio dell'anima verso
l'infinito, l'immenso, l'eterno, mentre ogni organismo di materia è per necessità cir-
coscritto in un limitato punto dello spazio e del tempo? Spiegatemi come mai il con-
cetto medesimo della materia possa originare dalla materia, mentre possiede caratteri
affatto opposti? Come mai il pensiero può essere un movimento delle fibre cerebrali,
mentre esso le esamina, le giudica, e con ciò mostrasi superiore alle medesime?
Il materialismo nega l'immortalità all'anima e la attribuisce agli atomi materiali,
che, dissolvendosi il nostro organismo corporeo, si sperperano qua e là e rimangono
indestruttibili. Ma conoscete voi il secreto lavorìo della natura fisica, allorché adope-
rando certe forze, seguendo certe leggi, attenendosi a certe proporzioni compone
insieme un determinato numero di atomi formanti un io umano individuo? E se igno-
rate questo lavorìo, voi non avete sicura ragione di negare l'immortalità dell'io
umano, essendoché potrebbe darsi che tutti quegli atomi, in cui si scioglierà alla
morte il presente mio organismo corporeo, si riuniscano di bel nuovo nel medesimo
atteggiamento e ricompongano redivivo il mio io personale.
Il materialismo non solo è impotente a dare una ragione spiegativa dei fatti fin
qui accennati, ma si chiarisce insussistente davanti al fatto medesimo del problema
dell'immortalità. Questo problema potrà essere discusso e risolto in un senso o in
un altro ; ma il solo proporlo riuscirebbe impossibile se l'io umano fosse tutto quanto
materia e niente più. Infatti il concetto di immortalità, che giace in fondo di questo
problema ed essenzialmente lo costituisce, non potrebbe nemmeno cadere nella mente
umana, se essa fosse onninamente materiale. Il concetto di immortalità trascende i
confini della materia.
Il panteismo anch'esso conduce per altra via alla negazione della vita oltremon-
dana, propria dell'io personale umano. Tutto è Dio, è il suo principio fondamentale,
espresso dallo stesso significato etimologico della parola. Niente esiste o sussiste
fuori di lui e distinto da lui, tutto fa parte di lui. Egli è la sostanza unica univer-
sale, che in se assorbe ed identifica tutto quanto esiste. Gli esseri cosmici non sono
vere sostanze, vere realtà sussistenti ciascuna in sé stessa e fornite di individualità
loro- propria, ma sono forme, manifestazioni, evoluzioni della sostanza divina, o illu-
sioni della nostra mente. Questa sostanza unica, universale è l'infinito, l'assoluto,
l'indeterminato, l'identità di tutte le cose, l'unità di tutto quanto esiste, la grand'anima
universale. Jupiter est quodcumque vides, quodcumque movetur.
Serie IF. Tom. LUI. 3
18 GIUSEPPE ALLIEVO
Uscirei fuori di argomento, se qui mi facessi ad esporre in tutta la sua esten-
sione questo sistema, dividendone le diverse specie, narrandone le tante forme, che
ha rivestito nella storia, instituendone la critica. Io devo restringermi a notare come
esso conduca per logica necessità alla negazione dell' immortalità personale dell' io
umano. Infatti questa immortalità importa che l'io umano possegga e conservi una
personalità, una vita tutta sua propria, incomunicabile, distinta da tutte le altre so-
stanze, ed abbia coscienza della vita sua. Per lo contrario è un pronunciato della
dottrina panteistica, che io non vivo una vita mia personale, non ho sentimenti, pen-
sieri, voleri, che siano miei, ma è l'essere assoluto, che vive in me, opera, pensa,
sente, vuole in me. L'io umano non esiste, come una realtà distinta, bensì è una
mera parvenza dell'Assoluto. Per lui adunque non si dà una esistenza futura oltre-
mondana, perchè non si dà neanco una vera esistenza presente e terrena. L'antica
dottrina panteistica indiana, il Sankhya, ripone la liberazione definitiva dell'anima
nella cessazione della nostra personalità empirica, la quale si smarrisce nella inco-
scienza universale, nel gran nulla, come una goccia d'acqua si perde nell'immenso
Oceano, da cui si era evaporata, e conchiude con questa proposizione, siccome verità
unica, definitiva, incontrastabile : Né l'io, né tutto ciò, che riguarda l'io, esiste; ogni esi-
stenza individuale è una chimera.
Cosi la povera navicella della nostra vita, sbattuta da tanti venti contrarii, agi-
tata da tante tempeste, finisce per naufragare nel mare dell'infinito. L'esistenza nostra
aveva esordito coll'inconsapevolezza di se e termina coll'inconscienza assoluta, ossia
nel nulla, poiché una creatura intelligente, che viva, ma non sappia punto di vivere,
vai quanto non esistesse, pari ad un insensibile tronco. L'inconscienza è la negazione
della ragione; ed in questo concetto dimora, secondo me, la confutazione del pan-
teismo, il quale nega allo spirito umano la coscienza della sua personalità sostanziale,
mentre un soggetto intelligente e ragionevole, che ignori se medesimo, è una contrad-
dizione nei termini. Però se io fossi forzato a scegliere tra il materialismo ed il pan-
teismo, abbandonerei il primo per appigliarmi al secondo: anziché finire nel fango,
meglio smarrirsi negli immensi spazii dell'etereo idealismo e ripetere i versi del
Leopardi :
Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
(L'Infinito).
Il panteismo presenta alcuni punti di contatto e di rassomiglianza col positivismo
in riguardo al problema della vita oltremondana. Entrambi negano agli esseri finiti
la sostanzialità loro propria concedendo ad essi un' esistenza meramente fenomenica
e fluttuante, con questo divario però, che il panteismo toglie la realtà sostanziale
agli esseri finiti per attribuirla esclusivamente e tutta quanta all'essere assoluto,
mentre il positivismo nega ogni sostanza e riduce tutte quante le esistenze a meri
fenomeni trattando le ombre come cosa salda. Ma gli è evidente che anche il positi-
vismo si chiarisce inconciliabile coll'immortalità, la quale importa la sostanzialità
dell'io, opperò va aggiunto alla classe dei sistemi negativi.
LA VITA OLTREMONDANA 19
Sistemi affermativi.
Tutti questi sistemi convengono nell'ammettere l'immortalità dell'io umano, ma
diversificano nel concepire e discutere il nuovo atteggiamento e la forma della vita
novella, che esso va assumendo. Tornano quindi opportune alcune considerazioni ge-
nerali intorno l'argomento.
Anzi tutto vuoisi porre ben mente di non confondere il certo col probabile e
col dubbio intorno a questa gravissima ed ardua questione. Poiché se egli è certo
che l'io continuerà la sua esistenza nella vita futura, non si può pretendere pari cer-
tezza nel determinare lo stato psicologico dell'io, e parimenti, dacché non si possono
avere che opinioni più o meno probabili su questo secondo punto, non vuoisi arguire
che abbiasi a negare l'immortalità dell'io.
Una seconda considerazione riguarda il genere di dimostrazione relativa alla vita
futura. Alcuni pretendono una dimostrazione rigorosamente matematica, e dacché
essa torna impossibile, ne arguiscono che non si dà vita futura. Costoro non avver-
tono che la natura di una dimostrazione corrisponde alla natura della materia, intorno
a cui versa, epperciò assume un valore logicamente rigoroso e concludente da questa
corrispondenza. Onde consegue che una dimostrazione matematica possiede tutto il
suo valore irrepugnabile nel dominio delle discipline matematiche, ma non può, né
deve aver luogo in altre materie, quali sarebbero la psicologia, la giuridica, la politica,
le scienze sociali e via discorrendo.
La sapienza antica ed il pensiero moderno, pur convenendo tra di loro nell'am-
mettere una vita futura oltremondana, discordano nel concepire e nel determinare
la nuova forma propria di essa, ossia il nuovo atteggiamento, che prenderà l'io umano
nell'esercizio delle sue potenze. Il pensiero filosofico moderno generalmente riguardato
ne' suoi più illustri rappresentanti, e salve le eccezioni, ridusse il problema della vita ■
futura al problema dell'immortalità dell'anima, e fu risolto in questo senso esclusivo,
come se l'organismo corporeo potesse tornare indifferente e pressoché estraneo alla
vita dell'anima stessa. Delle due vite, fisica e mentale, che l'umano soggetto possiede
nell'unità del suo essere, la prima fu lasciata da banda, e la questione fu ridotta a
quest'unico punto: se l'anima razionale sopravviva alla morte del corpo. Abbiamo
quindi ragione di suddividere i sistemi affermativi in compiuti ed incompiuti : quelli
ammettono l'immortalità dell'io umano nella sua duplice vita, fisica e spirituale,
questi sostengono la sopravvivenza dell'anima anche sciolta da ogni contatto colla
materia.
20 GIUSEPPE ALLIEVO
A..
IL PROBLEMA ESAMINATO STORICAMENTE
Sistemi affermativi compiuti.
1. — La Sapienza antica.
L'antica sapienza riconobbe in tutta la sua integrità la duplice natura dell'uomo,
fisica e razionale, e conformemente a questo concetto ammise una duplice vita futura
corrispondente, corporea e spirituale. Certamente non intese con ciò di proclamare
immortale questo ammasso di materia grossolano, pesante, visibile e palpabile, che
chiamiamo nostro corpo nella vita presente, ma essa si formò della materia e dei
corpi un concetto alquanto diverso da quello che abbiamo noi moderni.
Il sistema Sankhya dell'antichissima filosofia indiana distingue nei viventi e
quindi anche nell'uomo il corpo materiale grossolano, il corpo sottile o Unga e l'anima
razionale, e concepisce il corpo sottile siccome un fluido etereo, impalpabile, invisibile,
che avviluppa l'anima accompagnandola attraverso il corso delle sue migrazioni, e
con essa sopravvive al dissolversi del corpo materiale organico (1). Giovanni Filopono,
filosofo alessandrino, vissuto tra il sesto ed il settimo secolo, commentando i libri di
Aristotele intorno l'anima, riferisce essere opinione di antichi filosofi che oltre di
questo corpo terreno e materiale un altro corpo sottilissimo ed etereo denominato
spirito rimane vincolato coll'anima non solo nella vita presente, ma altresì dopo la
morte. Era concorde opinione dei platonici, che le anime umane discesero dalle re-
gioni celesti in questi corpi terreni già rivestite di un corpo etereo, e che con questo
medesimo involucro ritornano lassù dopo la morte del corpo materiale. Il filosofo pi-
tagorico Jerocle commentando il verso 67 degli Aurei Carmi, scrive che il soggetto
intelligente cominciò la sua esistenza congiunto con un corpo datogli dall'artefice su-
premo, per guisa che per quantunque non sia corpo, non può tuttavia andar privo
del corpo; ma pur essendo incorporeo, la sua virtù fosse tutta nell'informare il corpo.
Di qui egli definì l'uomo un' anima ragionevole, congiunta con un corpo immortale
secolei generato, attribuendo così l'immortalità della vita non all'anima sola, ma ben
(1) Questo concetto antropologico dell'antica filosofia fu seguito da alcuni scrittori cristiani dei
primi secoli della Chiesa. Taziano, uno degli apologisti del Cristianesimo, riguarda anch'egli l'uomo
siccome composto del corpo formato di materia, dell'anima materiale e dello spirito divino. Anche
secondo Origene l'uomo consta di tre elementi, che sono la ragione, l'anima corporea identica col-
l'anima dei bruti e la carne. Questo concetto antropologico ha generato la gravissima questione
agitata nella filosofia moderna tra gli animisti ed i vitalisti, sostenendo gli uni che l'anima razio-
nale umana è essa stessa il principio originario di tutte le funzioni fisiologiche ed animali, gli altri
riponendo esso principio in una forza vitale distinta dall'anima razionale e dall'organismo.
LA VITA OLTREMONDANA
21
anco al corpo suo. Questo suo concetto intorno l'animo umano venne da lui esteso a
qualunque sostanza intelligente, ai genii, agli angeli, ai demoni, agli eroi, ai quali
tutti egli applica la definizione di animi ragionevoli e congiunti con un corpo lucido
ossia etereo, siccome quelli, che in sua sentenza non possono sussistere senza muo-
vere ed agitare un corpo (1). Questo medesimo concetto riscontriamo nei filosofi neo-
platonici. Plotino nella Enneadi (lib. 3, cap. 4) scrive che l'anima nostra anche dipar-
tendosi dal corpo suo, non è mai separata del tutto da ogni corpo. Porfirio nelle
Sentenze, § 31, esprime la stessa idea : " Allorché l'anima esce da questo solido corpo,
lo spirito (cioè il corpo spirituale e sottile) che essa aveva raccolto dalle sfere, la
accompagna „.
Posto che l'essere umano consti di un corpo materiale terreno, di uno spirito
etereo sottile e di un' anima razionale, quale trasformazione subisce alla morte l'umano
composto secondo l'antica sapienza? Il corpo materiale si scompone nel suo orga-
nismo e si perde fra gli elementi della terra. Le animo umane, che quaggiù vissero
schiave delle cupidigie de' sensi, i quali accecarono la loro ragione, discendono nei
luoghi infernali insieme col loro involucro o fluido aereo, mentre le anime di coloro,
che vissero incontaminati, o consacrarono la vita alla ricerca ed amorosa contempla-
zione della verità, o morirono per la patria, salgono alle regioni celesti, dove si cin-
gono di un corpo etereo luminoso, mentre il loro corpo sottile e sensitivo discende
sotterra. Di qui le ombro infernali separate dal corpo rimasto in terra e dalla mente
salita al cielo, specie di simulacri impalpabili, intangibili, sfuggevoli, che ritengono
le inclinazioni dell'anima e le sembianze del corpo. Ennio pitagorico presso Lucrezio
(De rerum natura, lib. 1) le appella " quaedam simulacra modis pallentia miris „. Vir-
gilio pone in bocca a Didone queste parole : " Et nunc magna mei sub terris ibit
imago „ (Aeneis, lib. IX); ed Ovidio parlando di Cesare scrive: " Qui cecidit ferro,
Caesaris umbra fuit; Ille quidem caelo positus Jovis atria vidit „ (Fast., 1). Anche
Omero accenna a certa corporea immagine, che accompagna l'anima nell'atto di uscire
dal corpo. Di qui la costumanza degli antichi gentili, che alle anime dei loro morti
parenti apponevano cibo e bevanda, immaginandosi che fossero incorporate, epperciò
bisognevoli di essere confortate con materiale alimento. Anche presso gli Ebrei vigeva
tale consuetudine, come apparisce dal libro di Tobia, cap. 4.
Tali erano i pensamenti de' filosofi: l'immaginazione popolare e poetica intervenne
a colorirli colle sue leggende e colle finzioni della mitologia, rappresentando il luogo
dove vivono le anime ed il genere della loro vita. L'antica sapienza immaginava il
regno sotterraneo delle anime diviso in tre regioni. La prima conteneva quelle anime
che potevano purgarsi delle loro macchie e ricuperare la pristina mondezza. Nella
seconda, dai poeti denominata i Campi Elisi, vivevano le anime, che uscirono monde
dal carcere terreno. La terza, appellata il Tartaro, era abitata dalle anime, che con-
giunte coi loro simulacri erano dannate a pene eterne per le loro scelleraggini. Di
questi luoghi infernali Virgilio nel sesto dell'Eneide ci porge una mirabil pittura. La
(1) Fra i filosofi moderni Leibnitz riprodusse questo concetto. Nella tesi 75 della sua Monado-
logia scrive : * neque etiam dantur animae separatae „ ; e nella sua Epistola a Bierlingium dice :
" Non est necesse ad animae separatae immortalitatem tuendam ut sit substantia separata; potest
enim induta manere subtili corpore, quale etiam angelis attribuo „.
22 GIUSEPPE ALLIEVO
fantasia poetica e popolare ha immaginato Plutone, l'imperator del doloroso regno,
che governa quella sterminata folla di anime e le tiene a segno; Cerbero, che ve-
gliando alle porte d'inferno latra caninamente con tre gole, rispondenti alle tre regioni
sotterranee; Rodomonte, Minosse, Eaco, che giudicano le anime; Mercurio, che loro
addita la via, per cui si discende ai luoghi bui; Caronte, che le raccoglie nella barca
e le approda all'altra riva. Sono personaggi non vivi e reali, bensì fantastici e fit-
tizii; ma in fondo a queste creazioni dell'immaginazione sta il concetto del pensiero
filosofico.
2. — La Metempsicosi.
La dottrina della metempsicosi può essere riguardata siccome un tentativo per
risolvere il problema se e come de' due elementi spirito e materia, da essa ricono-
sciuti nell'umano composto, il primo rimanga superstite al secondo alla morte del
corpo. Secondo l'antica filosofia indiana, il corso dell'umana esistenza è un'incessante
peregrinazione dell'anima di corpo in corpo. Ogni qualvolta la morte spezza l'orga-
nismo corporeo, con cui l'anima è congiunta, essa rinasce trasmigrando nel corpo di
una pianta, o di un bruto, o di un uomo, o di un dio, a seconda del merito o del
demerito della sua vita anteriore; ma il dolore è inesorabil compagno dell'esistenza
terrena in ogni suo stadio, sotto ogni sua forma. La vita è agitazione, instabilità,
trasformazione, travaglio, dolore; ma è ad un tempo aspirazione continua, indestrut-
tibile ad una quiete assoluta, eterna, imperturbabile, ad un al di là, che più non sia
il mondo del dolore, e dove l'anima, compiuto il suo peregrinaggio, non più condan-
nata a nuova rinascita, riposi sicura dal timor della morte. Il mondo presente è il
mondo del cangiamento, della vanità, della trasmigrazione, del dolore ; il mondo fu-
turo è il mondo della verità, del riposo, della realtà e della liberazione. Il trapasso
dall'uno all'altro dei due mondi si compie mediante la conoscenza filosofica, la quale
dissipando l'illusione e la vanità della vita presente, ci rivela il vero nostro essere
sostanzialmente identico coll'essere assoluto, unico, universale, che, secondo il Ve-
danta, è Brahma, l'uno tutto, secondo il Sankhya, il Se individuale nella sua assoluta
purezza, l'anima sciolta da ogni elemento eterogeneo, empirico, materiale, secondo il
Buddismo, l'ignoto, l'indefinito, il gran nulla, il Nirvana. Il Buddismo cerca di metter
termine alle rinascenze ed alle trasmigrazioni metamorfiche assegnando come scopo
finale dell'esistenza e destinazione umana la distruzione di ogni velleità di esistenza
personale ed individua, spegnendo il desiderio medesimo della vita nel suo in-
timo fondo.
La trasmigrazione delle anime fu altresì una credenza del popolo egizio. Si co-
minciò col ritenere siccome una verità di fatto il passaggio delle anime di Iside e
di Osiride in corpi di animali prima di giungere agli astri, e generalizzando quel
fatto immaginario si giunse a credere come verità dogmatica, che ogni anima uscendo
dal corpo suo passi in quello di altro uomo, o di un bruto, continuando ad espiare i
suoi falli per una lunga circolazione di penitenze, finche purificata dalle sue colpe e
libera dalle sue cupidigie giunga ad abitare la stella od il pianeta, che le fu asse-
gnato a dimora. Secondochè riferisce Erodoto intorno questa credenza egizia, l'anima
per tre mila anni abita corpi di animali prima terrestri, poi acquatici, infine aerei;
dopo questo periodo ritorna ad animare un uomo.
LA VITA OLTREMONDANA 23
Dall'Egitto Pitagora trasportò iti Italia il dogma della metempsicosi, e di se
medesimo affermava che una volta era appellato Euforbo e che aveva combattuto
sotto le mura di Troia. Secondo i pitagorici questo trasmigrare dell'anima in un altro
corpo non avviene per caso e comechesia: essa si unisce a quel corpo soltanto, con
cui vi corra una certa corrispondenza e secondo le leggi generali della natura. Inoltre
essi ammettevano che l'anima anche fuori dell'organismo corporeo può vivere una
vita affatto speciale, vita imperfetta simile a quella delle ombre infernali e riposta
in una specie di sogno: tale è quella che essa vive nel periodo di tempo intermedio
tra la sua uscita da un corpo organico ed il suo trapasso in un altro.
Il Ritter nella sua Storia della filosofia antica, attribuisce ai pitagorici l'opinione
che i demoni e gli eroi fossero anime, che non informarono ancora corpi di animali,
o già ne uscirono (1).
Raffrontando fra di loro le tre forme speciali, che presenta la dottrina della
metempsicosi presso gli indiani, gli egizi ed i pitagorici, riscontriamo in tutte questi
elementi comuni, che la trasmigrazione delle anime di corpo in corpo è una specie
di punizione, una espiazione delle colpe commesse in una vita anteriore, che questa
trasmigrazione terminerà e sarà seguita da uno stato dell'anima definitivo, perma-
nente e finale, in cui sarà sciolta da ogni mistura corporea e materiale, e che perciò
l'unione dell'anima con i corpi successivi è meramente transitoria. Ma questi tre
punti comuni sono accompagnati da altri punti di discrepanza. Poiché secondo la
filosofia indiana e specialmente il sistema Sankhya il trapasso di ciascuna trasmigra-
zione è governato da una cieca ed inesorabile necessità denominata la legge del me-
rito, che però non ha nessun carattere morale, bensì risiede in una forza invisibile
e ferrea della natura, per cui le condizioni e le azioni proprie di ciascuna forma del-
l'esistenza sono già fatalmente predominate da quelle dell'esistenza anteriore: ogni
nuova migrazione dell'anima accumula e porta con se le disposizioni di tutte le pre-
cedenti: è il determinismo nella metempsicosi. Per lo contrario, secondo la dottrina
pitagorica, l'unione dell'anima con un nuovo corpo è governata dalla legge di conve-
nienza. Secondo la metempsicosi indiana, l'anima compiuto il ciclo delle sue trasmi-
grazioni andrà a confondersi in seno all'Essere infinito perdendo la coscienza di se
medesima, mentre secondo le credenze egizie essa fermerà la sua dimora nelle sfere
celesti.
Parecchie osservazioni occorrono intorno questa dottrina, delle quali le une ri-
guardano il periodo delle successive trasmigrazioni dell'anima, le seconde lo stato
finale, a cui essa perviene, compiuto quel periodo di prova. Quanto al primo punto,
ognun vede che la morte del corpo non segnerebbe più l'ultimo termine della nostra
esistenza terrena ed il principio di una vita oltremondana, poiché i nuovi corpi, in
cui l'anima trasmigra, appartengono a questo mondo terreno, che abitiamo, ed il suo
peregrinare di corpo in corpo si compirebbe quaggiù. Quindi sorge tosto questa di-
manda: perchè mai l'anima, anziché passare in nuovi corpi, non prosegue la sua vita
terrena insieme con quel corpo medesimo, con cui è congiunta? Si risponderà, che la
trasmigrazione è una giusta punizione delle colpe commesse dall'anima, una espia-
ti) Tomo I, libro IV, cap. 2. Diogene Laerzio nel libro ottavo del suo De vita et moribus phi-
losophorum scrive che le anime erranti nell'aria sono dai pitagorici appellate dèmoni ed eroi.
24 GIUSEPPE ALLIEVO
zione necessaria, affinchè essa purgata e pura diventi degna di salire al cielo. Anche
Platone opinava, che le anime umane, da prima beate in seno agli Dei, furono in-
truse nel corpo attuale come in un carcere, per pagare il fio di colpe commesse lassù.
Ma il considerare l'organismo corporeo siccome una dura prigione, una schiavitù, uno
strumento di castigo, è un concetto erroneo, perchè contraddice alla natura stessa
dell'uomo, essendoché a costituire l'essere umano sono essenziali tanto il corpo,
quanto l'anima, amendue ne fanno parte integrale e necessaria. Perciò il corporeo
organismo non va riguardato come alcunché di ostile e di contrario all'anima, e la
sua vitale unione con essa come un castigo, uno stato transitorio o deplorevole, bensì
come uno stato naturale affatto. Quindi appare ragionevolissimo e conforme alla na-
tura umana il dogma cristiano della risurrezione finale de' corpi umani. Inoltre l'anima
umana, per ciò appunto che è di natura umana, non solo richiede un corpo organico,
con cui sia congiunta e conviva, ma altresì esige un corpo organico umano, e non
un corpo qualsiasi, quale sarebbe quello di un bruto, o di una pianta (1). Quindi
anche da questo lato apparisce riprovevole la dottrina della metempsicosi, la quale
condanna un'anima umana a passare nel corpo di un bruto: sarebbe un'anima
davvero abbrutita, epperò impotente ad espiare i suoi falli, a ricuperare la sua spi-
rituale purezza ed innalzarsi in alto (2).
Passando all'altro punto, la dottrina indiana insegna, che l'anima compiuto il
ciclo delle sue trasmigrazioni, si inabissa nell'essere infinito, perdendo la sua indivi-
dualità personale e passando ad uno stato di incoscienza assoluta. Ma questo stato
sarebbe la morte, e non la vita dell'anima; sarebbe il suo annullamento: se il mio
io scompare, che importa a me di esistere ancora, mentre non so nemmeno di esi-
stere ed ignoro tutto il mio passato? Tanto varrebbe che esista altri in vece mia.
3. — Platone.
Platone ripensò la dottrina della metempsicosi sotto una forma più ampia, nuova
ed originale. Alcuni commentatori tedeschi distinguendo nelle opere del pensatore
ateniese una parte mitica e simbolica dovuta all'immaginazione ed alle credenze po-
polari dalla parte rigorosamente filosofica dovuta alla ragione speculativa, asseriscono,
che la sua dottrina della metempsicosi è meramente immaginaria e fittizia ; ma è
questa una sentenza, che non regge alla critica, poiché tale dottrina si compenetra
intimamente colla sua metafisica, colla psicologia e colla morale, e quindi viene ad
assumere da tutte le altre parti della sua filosofia un carattere speculativo.
Dio e la materia sono per lui i due opposti principii universali. Dio è spirito
puro, mente perfetta contenente in sé le idee tipiche di tutti gli esseri, principio e
(1) Contro la metempsicosi, osserva il Bormet nella sua Palingenesi filosofica a pag. 201 del
tomo 1°, che " la memoria ha la sua sede nel cervello : un'anima che trasmigrasse da un corpo in
un altro, non vi conserverebbe nessun ricordo del suo stato precedente ,. L'osservazione è giusta,
non già perchè la memoria è, come egli sostiene, una facoltà essenzialmente corporea, sibbene
perchè la vita mentale dell'anima nella presente esistenza terrena rimane tutta quanta compenetrata
colla vita fisiologica dell'organismo corporeo, con cui essa e attualmente congiunta.
(2) Al perpetuo peregrinare dell'anima di corpo in corpo i moderni fisiologi hanno sostituito il
perpetuo circolare degli atomi, che escono dai disciolti organismi, ed entrano a comporre nuovi
organismi viventi.
LA VITA OLTREMONDANA 25
termine della verità pura : da lui originano le anime razionali, destinate appunto a
contemplare la verità nella sua natia purezza, sgombra da ogni immagine sensibile.
La materia, identica collo spazio, è principio passivo, informe, indeterminato, capace
di ricevere tutte le forme, e quindi mutabile, contingente principio dell'imperfezione,
della limitazione, della negazione, del disordine, della deficienza, del male: da essa
provengono i corpi colle loro forme distinte, circoscritte nei limiti dello spazio. Dio
formò il mondo improntando nella materia da prima informe i tipi ideali, presenti
alla sua mente. Le anime umane nella loro originaria esistenza vivevano sciolte da
ogni vincolo colla materia, e con Dio unite contemplavano le essenze ideali delle cose;
poi ribellatesi da Dio vennero intruse nella prigione di questo corpo mortale, dove
attraverso le ingannevoli immagini dei sensi vennero ad oscurarsi le loro idee pri-
mitive. La scienza, che vanno acquistando quaggiù, riesce una mera reminiscenza
delle verità già intuite nella vita anteriore alla presente. Questa prima caduta del-
l'anima dal suo stato originario e tutto spirituale in un corpo mortale, dal mondo
dello spirito nel mondo della materia, segna il punto, in cui esordisce il ciclo delle
metempsicosi.
Incatenata all'organismo corporeo, l'anima viene acciecata dai sensi e trascinata
al male dalle passioni e dagli istinti animali, poiché la materia è pur sempre la
fonte di ogni disordine: essa però può e deve mediante la ragione dissipare le illu-
sioni de' sensi e sommettere le passioni al suo imperio. In mezzo a questa continua
lotta si agita tutta la vita presente, e l'anima aspira al possesso ed alla contempla-
zione spirituale della pura verità come a termine finale della sua destinazione. La
morte viene a troncare momentaneamente questa lotta. L'anima sopravvive, perchè
la vita anteriore alla presente, che essa aveva già vissuta in cielo, è manifesto ar-
gomento che la sua esistenza è indipendente dalla sua unione col corpo attuale (1).
Che ne è adunque di lei, separata che sia dal corpo? Tale sarà, quale avrà vissuto
quaggiù nella sua lotta col principio del male. Ogni nuova trasmigrazione dipenderà
dall'uso, che essa avrà fatto della sua ragione per dominare la parte materiale, con
cui visse congiunta. Le anime, che uscirono dal loro corpo aggravate dal peso delle
sensazioni terrene, vanno errando fra le tombe e migrano in corpi animali conformi
alla loro viziata natura. Quelle, che praticarono le virtù civili e sociali procacciate
senza il sussidio della riflessione e della filosofia e per via di abitudini, rivestiranno
la forma di api o di formiche, o rientreranno di nuovo in corpi umani. Ma elevarsi
sino al consorzio degli Dei non è dato se non a coloro, che accesi dell'amore della
sapienza consacrarono la vita all'acquisto della pura verità col mezzo della filosofia
e puri uscirono dal carcere terreno. Ogni mille anni si compie una nuova trasmi-
grazione seguita da un giudizio divino, poi da una pena o da una ricompensa, com-
piuta la quale però l'anima sceglierà da se un' altra esistenza. Il filosofo solo può
dopo tre vite consimili risalire alla sua pristina vita divina, mentre le altre anime
vi giungono dopo diecimila anni e dieci esistenze.
In questa dottrina della metempsicosi riscontrasi il concetto metafisico di Pia-
ti) Altro argomento dimostrativo dell'immortalità trae Platone dall'idea medesima dell'anima,
sostanza in se sussistente e semovente, che non comporta la morte perchè l'energia vitale costituisce
la sua atessa essenza, sicché se essa venisse a morire, la vita ed il moto verrebbero meno nel mondo.
Serie II. Tomo LUI. 4
26 GIUSEPPE ALLIEVO
tone intorno lo spirito e la materia, il suo concetto morale delle punizioni e delle
ricompense ed il concetto psicologico della parte razionale dell'uomo dominante sulla
parte materiale. Egli ripone l'io umano nella pura razionalità e riguarda il corpo
siccome estraneo ed opposto alla sua natura, epperò egli ammette la metempsicosi
come una punizione dell'anima, e non già perchè le abbisogni un involucro corporeo
per vivere una vita oltremondana. " L'anima è intieramente distinta dal corpo ; in
questa vita medesima essa sola ci costituisce quel che siamo ; il nostro corpo non è
che un' immagine, che accompagna ciascuno di noi, e con ragione si dà il nome di
simulacri ai corpi dei morti. Il nostro essere individuale è una sostanza immortale
di sua natura, appellata anima. Dopo la morte quest'anima va a trovare altri dèi per
render loro conto delle sue azioni, secondo la tradizione „ (1).
4. — La Divina Commedia.
Il concetto dell'anima, che al di là della tomba si riveste di un involucro ma-
teriale, si riscontra presso alcuni Padri della Chiesa seguaci delle dottrine platoniche
di Origene, e più tardi lo ritroviamo stupendamente espresso nella Divina Commedia.
Nel canto XXV del Purgatorio il poeta ci ritrae l'anima, che esce dal corpo suo ter-
reno, portando con sé l'umano e 'l divino, cioè le potenze della sensibilità animale e
le spirituali; quelle rimangono inerti per manco degli organi de' sensi, queste, cioè
memoria, intelligenza e volontà, divengono più energiche e più operose. Essa va tosto
ad occupare il luogo o di espiazione, o di pena, o di ricompensa, rispondente al me-
rito od al demerito delle sue azioni. Giunta al luogo suo, irraggia intorno a sé la
virtù formativa ed animatrice tutta sua propria, e l'aria circostante assume quella
nuova forma, che le viene impressa dall'anima, in quella guisa che l'atmosfera, quando
è inumidita, si colorisce della luce solare, che dentro vi si riflette. Così dell'aria cir-
costante l'anima si forma un corpo sottile pari nelle fattezze e nell'estensione a quello,
che essa animava quaggiù, un corpo etereo, dove ciascun senso ha il suo organo,
ciascun pensiero la sua esterna espressione, e l'anima ritorna così alle funzioni della
sua vita corporea sensitiva, e manifesta i suoi interni desiderii colle parole, colle la-
crime, coi sospiri. Fu detto, che nella Divina Commedia Dante abbia seguito la filo-
sofia scolastica dominante ; ma su questo punto si attenne alla sapienza antica ed al
suo maestro Virgilio, scostandosi dal principe della Scolastica S. Tommaso, che soste-
neva la dottrina dell'anima separata da ogni involucro corporeo.
Cosa singolare ! Questo concetto dell'anima, che dell'aria circostante si compone
un corpo sottile suo proprio mediante la sua virtù formativa, ai giorni nostri è ri-
sorto sotto nuova forma in quella specie di fenomeni dello spiritismo designati col
nome di materializzazione degli spiriti. Consiste essa nella formazione temporanea di
un oggetto materiale o di un involucro organato, intorno ad uno spirito, mediante
l'opera di un medium. Intorno al medium collocato in luogo oscuro si presentano delle
forme materializzate, che possono da lui allontanarsi di qualche metro, o anche cam-
minare, parlare, scrivere. Quando la materializzazione raggiunge il suo massimo grado,
il fantasma ha tutte le apparenze del corpo umano senza averne la densità e sembra
(1) Le leggi, lib. XII, verso il fine.
LA VITA OLTREMONDANA 2(
vivere come un essere umano. Dopo un certo tempo questi fantasmi scompaiono rapi-
damente e spesso si assiste alla loro dissoluzione. Questi fenomeni accertati suppon-
gono l'intervento di una intelligenza, la quale, quando fosse provato che appartiene
agli spiriti dei trapassati, porgerebbe buon argomento dell'esistenza oltremondana del-
l'anima.
Un altro punto di contatto qui ci si presenta tra lo spiritismo contemporaneo
e la dottrina della Divina Commedia. Dante attribuisce alle anime di oltretomba la
facoltà di penetrare i desiderii altrui non manifestati, di leggere il pensiero non
espresso. Beatrice ha conoscenza dei sentimenti e dei pensieri di Dante (1). Virgilio
stesso è dotato di questa facoltà sopranaturale (2).
5. — Carlo Bonnet (1720-1793).
Fra i moderni filosofi, che ripigliarono e svolsero il concetto antico intorno la
vita futura, emerge il ginevrino Carlo Bonnet, illustre naturalista non meno che in-
signe psicologo. Egli pubblicava nel 1760 un Saggio analitico sulle facoltà dell'anima,
e nove anni dopo la Palingenesi filosofica, o idee sullo stato presente e sullo stato futuro
degli esseri viventi. Il titolo di questa seconda opera mostra come egli affrontò il pro-
blema della vita futura, tenendo rivolto lo sguardo non alla sola destinazione propria
dell'essere umano, ma a tutti i viventi dell'universo. A qualunque specie apparten-
gano, i viventi di quaggiù tutti quanti risorgono da morte a vita novella, rinnovati
nell'organismo per guisa da potersi elevare al più sublime grado di perfezione ; tale è
il concetto, che informa la sua Palingenesi filosofica, e che già appariva nel Saggio
analitico sulle facoltà dell'anima, ristretto però allo studio della vita futura dell'uomo.
Che l'anima sopravviva alla dissoluzione del corpo, è tal sentenza, che il Bonnet
non pone menomamente in forse. Ciò posto, egli pone il problema, in quale stato
rimanga l'anima durante quel periodo di tempo che intermedia fra la morte del corpo
e la sua risurrezione. Nessuno, che io mi sappia, ha saputo, come l'autore, concepire
e propoi-re il problema dell'immortalità dell'anima sotto questo specialissimo e mo-
mentoso aspetto, che riguardala vita intermediaria o mediana, come egli la denomina;
tutti, in generale, riguardano l'anima, che dalla morte del corpo trasmigra in altro
organismo, come adoperano i fautori delle metempsicosi : oppure già ricongiunta col
proprio corpo nel risorgimento finale. Lo stato dell'anima separata dal suo materiale
involucro è argomento profondamente filosofico, e non so se più rilevante per natura
o più arduo ad essere risolto, siccome quello, che tocca la destinazione finale della
nostra esistenza.
Intorno la vita intermediaria dell'anima tre ipotesi si presentano alla mente del-
l'autore. Primamente è lecito supporre, che l'anima giaccia immersa in un sonno
incessante e profondo tanto, che né senta, né pensi alcunché di particolare; e sic-
come mancandovi la successione delle idee, viene meno anche il tempo, così il pe-
riodo intermedio tra la morte del corpo ed il suo risorgimento, fosse pure di migliaia
di anni e di secoli, non sarebbe per l'anima che un istante indivisibile. La seconda
U) Farad., XXIX, v. 10-13.
(2) Inferno, X.
28 GIUSEPPE ALLIEVO
ipotesi sarebbe quella di chi ammette, che la vita intermediaria dell'anima sarà una
successione di sogni più o meno frequenti, più o meno connessi. Una terza ipotesi
sarebbe quella, che riguarda la vita intermediaria siccome una vita attiva, una veglia
continua, in cui l'anima prosegue non solo ad esercitare le sue potenze, ma ben anco
a perfezionarle, perchè congiunta con un corpo etereo, che le fornirà nuove perce-
zioni e queste composte insieme colle idee acquistate nella vita terrena, imprimeranno
alla sua attività un nuovo impulso. L'autore non instituisce un raffronto critico di
queste tre ipotesi appena accennate in una nota al paragrafo 742 del citato Saggio
analitico, ma si appiglia alla terza e si argomenta di confermarla nel corso del libro.
Il Bonnet concepisce l'uomo un composto di anima e di corpo naturalmente
distinti ed assolutamente inseparabili, e muovendo da questo concetto antropologico,
va contemplando la vita dell'anima siccome compenetrata indissolubilmente coll'orga-
nismo corporeo in tutto il corso della sua esistenza da prima terrena, poi oltremon-
dana. Secondo la dottrina dell'autore, l'unione dell'anima e del corpo nell'uomo è un
fatto incontrastabile e ad un tempo un mistero impenetrabile, perchè sono due sostanze,
che non hanno alcunché di comune.
Che cosa sia l'anima in se stessa e quali operazioni possa compiere separata dal
corpo, a noi non è dato saperlo. Siccome non agisce se non col corpo e sul corpo,
né può conoscere se medesima e verun' altra cosa se non pel ministero de' sensi, così
va studiata non già in se stessa, bensì nelle funzioni dell'organismo in cui rivela sé
medesima ; e parimenti le sue idee vanno studiate non in se stesse, ma nel movimento
delle fibre, che ne sono gli organi e che soggiacciono alla nostra osservazione sensi-
bile, per quantunque ignoriamo come mai il movimento di una fibra produca un'idea,
e come all'occasione di un' idea si ecciti il movimento. L'anima si fornisce di idee,
ma originano dai sensi e le nozioni più astratte sono niente più che idee sensibili
lavorate dalla riflessione e rivestite di segni o termini, che cadono anch'essi sotto i
sensi, per modo che l'intelligenza non è che una sensibilità più elevata della sensi-
bilità fisica e fornita anch'essa di fibre intellettuali, che però in fondo sono fibre
sensibili. Parimenti l'attività o forza, di cui essa è fornita, e che in se stessa ci è
affatto ignota, prende forma ed atteggiamento diverso dalle diverse movenze dell'or-
ganismo, e produce sensazioni e volizioni in occasione de' movimenti, che gli oggetti
eccitano nelle fibre sensibili.
In breve, tutto ciò che l'anima prova, sente, pensa ed opera, tutto quell'insieme
di modificazioni che in essa si avvicendano, e di cui si compone la sua vita personale,
nasconde le sue prime origini nelle latebre dell'organismo, ed occorre pur sempre
risalire alla parte fisica dell'uomo per conoscerne la parte mentale : il mondo umano
si rispecchia nel fisico. " Il corpo è la prima sorgente di tutte le modificazioni del-
l'anima, l'anima è tutto ciò, che il corpo la fa essere „ {Saggio analitico ecc., § 25).
Ciò nullameno l'autore ripudia incisamente la nota di materialista, avvertendo
che la sensazione ed il pensiero proprii dell'anima, sono assolutamente semplici ed
inestesi, epperò escludono la materialità (1), e che la sensazione si trasforma bensì
(1) Vedi l'Analisi abbreviata del Saggio analit., cap. XIX, contenuta nella Palingenesi, ed il Saggio
analitico, § 509.
LA VITA OLTREMONDANA 29
in idea, ma il movimento delle fibre cerebrali è sibbene condizione necessaria, che
precede la sensazione, ma non diventerà mai sensazione, che è tutta propria dell'anima.
Rimane a vedere, come, secondo l'autore, i sensi intervengano in tutte le opera-
zioni dell'anima. Gli oggetti corporei operando sugli organi de' sensi esterni vi susci-
tano un movimento, che mediante i nervi si propaga sino al cervello, e là l'anima
sente ed avverte le impressioni ricevute. I nervi racchiudono un fluido, la cui sotti-
gliezza ed elasticità pressoché pari a quella della luce o dell'etere, porge ragione
della celerità, con cui le impressioni si comunicano all'anima, e con cui l'anima
compie tante differenti operazioni. Però non tutto quanto il cervello piglia parte ai
movimenti nervei, bensì soltanto una piccola parte, dove vanno a riunirsi tutte le
impressioni sensibili. Esso è il punto centrale di tutto il sistema nervoso, il sensorio,
ossia l'organo, dove all'impressione materiale succede la sensazione, e quindi la sede
dell'anima, lo strumento immediato del sentimento, del pensiero e dell'azione. Quando
una fibra nervosa è scossa la prima volta dall'impressione di un oggetto, produce
nell'anima una sensazione affatto nuova, ma quella medesima fibra messa in moto
dal medesimo oggetto una seconda, una terza volta, diventa sempre più flessibile e
disposta a ripetere il medesimo movimento risuscitando l'impressione passata, e quindi
permette all'anima di distinguere la sensazione riprodotta dalla sensazione nuova;
nel che dimora la facoltà della reminiscenza, mercè di cui l'anima riconosce che già
altra volta è stata quale è di pi-esente. Onde si scorge che la reminiscenza o me-
moria è di origine corporea, siccome quella, che dipende dalla conservazione de' me-
desimi movimenti delle fibre cerebrali e dalla disposizione a ripeterli. La memoria
conferisce ad un essere senziente il sentimento della personalità sua propria, del suo
me. Quando pronunciamo il vocabolo io, intendiamo di significare l'insieme delle idee,
che l'anima nostra è andata successivamente acquistando ; ma le idee acquistate pos-
sono andar perdute, e l' Io si conserva in quelle, che la memoria ha ritenuto, sicché
la personalità verrebbe meno del tutto collo spegnersi della memoria.
Fin qui ho compendiato le idee dominanti dell'autore intorno la vita psicologica
umana di quaggiù. Ma egli ammette una vita futura oltremondana, nella quale l'Io
umano conserverà la sua personalità individuale mantenendo la ricordanza di ciò che
fu nella vita terrena, essendoché senza questo ricordo non sarebbe più l'essere nostro
proprio, che farebbe passo ad una seconda esistenza, bensì un nuovo individuo, che
ne prenderebbe il posto. Ma io domando: se i sensi corporei sono la fonte originaria
di tutta la vita fìsica e mentale, che costituisce il nostro io, e se la morte tronca
ogni comunicazione dell'anima coi sensi e coll'organismo corporeo, come mai essa
anima priva di sensi e di corpo, che sono lo strumento necessario del suo operare,
potrà ancora esercitare le sue facoltà spirituali, sentire, pensare, volere, insomma,
conservarsi vivente nel mondo futuro ? Se la memoria, alla quale dobbiamo il senti-
mento della nostra identità personale, è talmente complicata colle fibre cerebrali
da " non poter essere distrutta senzachè l'anima cessi di ragionare „ (1), come potrà
ancora l'anima priva del cervello e delle sue fibre sensibili conservare la ricordanza
della sua vita terrena e la coscienza della sua identità personale? Ecco il problema
dell'immortalità, quale spunta dalla dottrina dell'autore, e che egli affronta, pur te-
(1) La Palingenesi, t. 1, pag. 39.
30' GIUSEPPE ALLIEVO
nendo per fermo, che l'anima separata dal corpo non solo giacerebbe immemore del suo
passato, ma più non avrebbe di che vivere ed operare.
Ciò posto, il Bonnet non vede altre vie, per cui l'anima conservi nella vita fu-
tura il ricordo della sua vita terrena, se non queste tre sole: 1° una rivelazione'
interiore fatta da Dio all'anima stessa; 2° la creazione di un nuovo corpo, in cui il
cervello conterrebbe fibre proprie a risvegliare davanti all' anima questo ricordo ;
3° una preordinazione, per cui il cervello attuale ne contenga un altro, su cui esso
faccia impressioni durevoli, e che sia destinato a svilupparsi in un'altra vita (1). Egli
si appiglia alla terza ipotesi sostenendo che l'anima si congiungerà un giorno con un
nuovo corpo, per non esserne separata giammai, e ritenendo siccome probabile che sif-
fatto corpo già preesista germinalmente inchiuso in quello, che essa abita di presente.
Questo germe corporeo conserva le impressioni, che il cervello vi stampa durevol-
mente nella vita presente e quando si sarà esplicato nella vita futura, quelle impres-
sioni risvegliandosi ridaranno all'anima le ricordanze del suo passato. Il corpo gros-
solano e terreno, che noi vediamo e palpiamo, ha un rapporto diretto ed immediato
col mondo che abitiamo, ed è un mero involucro del corpo novello, opperò soggetto
al potere dissolvente della morte; il corpo futuro ha un rapporto col mondo, che
abiteremo un giorno, durerà imperituro ed indestruttibile, ed avrà per ufficio di re-
care al sommo della loro perfezione tutte le facoltà dell'anima. Poiché " il corpo
etereo, con cui essa non cesserà punto di essere congiunta, libero dai legami del
corpo grossolano, potrà fornirle percezioni di un nuovo ordine, le quali ricomposte
colle idee acquistate nella vita terrena, daranno un nuovo slancio alla sua attività „ (2).
L'autore si ingegna di chiarire la ragionevolezza della sua ipotesi con argomenti de-
sunti dal germe della farfalla racchiuso nel bruco, dal germe della pianta nascosto
nella sementa, e conforta il suo asserto coi pronunciati della rivelazione, secondo la
quale questo corpo corruttibile rivestirà l'incorruttibilità, questo corpo animale risorgerà
spirituale. Questo germe corporeo, che ora rinchiuso nel sensorio, si svilupperà poi in
un nuovo corpo umano, consta di una materia sottilissima, analoga a quella del fuoco,
della luce, dell'etere ammesso dai filosofi moderni, epperò durerà inalterabile, incor-
ruttibile; e siccome il fuoco e la luce non hanno pesantezza, così il nostro corpo
risorto potrà a grado della nostra volontà trasportarsi da un punto all'altro dello
spazio, forse colla celerità medesima propria della luce (3). E dacché il germe, di cui
facciamo parola, ha natura analoga a quella del fuoco o della luce, consegue pur
anco, che da una materia simile a quella del fuoco o della luce attingerà la virtù
necessaria per esplicarsi in un nuovo corpo umano incorruttibile ed imperituro.
L'autore non si arresta a questo punto; ma passando dal Saggio analìtico sul-
l'anima umana alla Palingenesi universale applica il suo principio psicologico a tutti
i viventi cosmici assegnando anche agli animali uno stato futuro oltremondano, in
cui rinasceranno a nuova e perfettissima vita. Superstite alla morte l'anima del bruto
rimarrà unita con quel piccolo corpo etereo, indestruttibile, che già preesisteva entro
il corpo grossolano e distruttibile. Quel corpicciuolo germinale, avendo ritenuto le
(1) Saggio analitico, § 730.
(2) Idem, ibidem, § 742 in nota.
(3) Vedi op. cit, § 747, 748, 738, 752.
LA VITA OLTREMONDANA 31
impressioni osterne prodotte nella vita presente sulle fibre sensibili, che sono la sede
della memoria, conserverà al bruto la sua esistenza e la sua personalità mediante la
ricordanza dello stato passato, e si trasformerà in quel corpo novello, che il bruto
rivestirà nel suo stato futuro. Questo futuro corpo degli animali consterà di una
materia siffattamente sottile ed eterea da guarentirlo da ogni corrompimento, e di-
verserà dal corpo presente nella forma, nella struttura, nelle parti, nella grandezza,
sicché la sua meccanica sovrasterà di gran lunga a quella, che osserviamo di presente.
Come all'uomo, cos'i al bruto, il Bonnet attribuisce un'anima anch'essa incor-
ruttibile ed immortale non solo, ma chiamata ad una perfezione finale, che trascende
financo la sua medesima specie. Partendo con Leibnitz dalla legge di continuità, in
virtù della quale tutti gli esseri della natura si inanellano in una sola catena per
guisa, che non si può segnare il punto preciso, in cui una specie finisce e l'altra
comincia, egli ne arguisce, che tutti sono suscettivi di un progresso illimitato. La
perfettibilità delle anime è in ragion diretta del loro organismo corporeo, esercitando
esso sul loro sviluppo una influenza immensa. Nella vita futura il corpo risorgerà
rifornito di organi affatto nuovi e di sensi più squisiti, da cui le facoltà psichiche
attingeranno un singolare incremento ed uno sviluppo meraviglioso, essendoché
il numero e la portata de' sensi determina il vario grado di perfezione. L'anima
umana progredirà tant' alto da abbracciar l'universo colla sua triplice facoltà di co-
noscere, di amare e di operare. L'anima del bruto, che quaggiù è circoscritta nell'an-
gusta cerchia dell'istinto, raggiungerà la virtù della ragione conquistando quel primo
posto, che l'uomo occupa oggidì fra gli animali del nostro pianeta, e " in mezzo alle
scimmie ed agli elefanti potranno trovarsi i Newton ed i Leibnitz „ ; ed in questa
universale rinascenza, mentre il bruto sale al rango dell'uomo, la pianta si innalza
progredendo dalla vita vegetativa propria della sua specie alla vita animale». Così
il nostro mondo ne' suoi primordii vestiva la forma apparente di verme o dibruco;
di presente la forma di crisalide ; nella sua suprema trasformazione diventerà farfalla.
Ingegnosa certamente e meritevole di considerazione è questa teoria dell'autore,
ma troppo si risente del lavorio dell'immaginazione, la quale nelle speculazioni filo-
sofiche deve cedere il campo alla severa e rigorosa ragione. Egli medesimo riconosce
che cammina sopra un terreno malfermo ed incerto, giacché presenta la sua opinione
non come verità inconcussa, ma quale una mera ipotesi più o meno probabile, rinun-
ciando ad ogni pretesa di penetrare il mistero di oltretomba, ed asserisce che lo stato
dell'anima nella vita futura cotanto diversa da quello in cui ci troviamo di presente,
che alla stessa Rivelazione divina non sarebbe stato possibile darcene idee chiare
senza mutare la nostra costituzione attuale (1). Ma un'ipotesi non va campata in
aria, bensì abbisogna di ragioni speciali che la sorreggano ; e siffatte ragioni mi pare
che manchino nel caso nostro. Poiché la sua teoria posa tutta quanta sul pronunciato,
che preesiste latente nel cervello un germe corporeo etereo, sottile, preordinato a tras-
formarsi in un novello organismo nella vita futura. Ciò posto, né l'osservazione, né
l'esperienza, a cui deve, secondo l'autore, conformarsi la scienza dell'anima egual-
mente che del corpo in tutto il suo processo, non ci attestano né punto, né poco,
l'esistenza di siffatto corpicciuolo primordiale, non ce ne rivelano la natura eterea,
(1) Vedi Saggio analit., § 742 in nota, e Palingenesi, t. 2, pag. 410, 413.
32 GIUSEPPE ALLIEVO
o luminosa, o elettrica, la quale per altra parte ^ tuttora avvolta nel mistero, né
tanto meno c'informano, che sia fornito di tale virtù germinativa da tradursi in un
nuovo organismo più svariato e più potente del corpo attuale. Io non dirò già che
in tutto ciò siavi alcunché di impossibile e di ripugnante: dico soltanto, che è una
mera e pura asserzione non confortata da ragione, che renda probabile l'esistenza
del fatto supposto. Né punto approda all'autore il riconoscere oltre la conoscenza
intuitiva appoggiata ai sensi ed all'osservazione, la conoscenza riflessa appoggiata al
ragionamento; poiché questa seconda guisa di conoscere origina, secondo lui, tutta
quanta dalla prima, epperò non può trascenderne la cerchia (1); per conseguente il
ragionamento non può rivelarci alcunché là, dove mancano i dati del senso, come
incontra nel caso nostro.
Riguardando alla duplice natura dell'uomo, fisica e spirituale, l'autore saggia-
mente sostiene l'intimo ed assoluto congiungimento dell'anima col corpo e nella vita
presente e nella futura; ma non mi sembra che abbia giustamente determinato il
valore comparativo di queste due sostanze costitutive dell'uomo. Poiché egli troppo
esalta la virtù operativa del corpo, troppo detrae alla natura propria dell'anima, la
quale, in sua sentenza, deve ai sensi fisici il suo pensare e conoscere, il suo operare
e volere, tutte le sue idee anche più elevate e trascendentali, insomma diversamente
si atteggia a seconda delle diverse impressioni dell'organismo corporeo.
In quale funzione dell'organismo, mi si dica, in quale lavorìo del sistema nervoso
troveremo noi la spiegazione di un generoso proposito, o di un eroico sacrificio com-
piuto dall'anima, o di una sublime speculazione metafisica? Come mai un movimento
delle fibre cerebrali potrà renderci ragione di un'idea della mente, se quello è tut-
t'altra cosa da questa ? Occorrerebbe in tal caso ammettere tante specie diverse di
movimenti, quante sono le diverse specie di idee corrispondenti. Sostiene l'autore, che
tutte le nozioni, anche più astratte, più elevate e soprasensibili sono niente più che
trasformazioni delle idee, che dobbiamo ai sensi fisici esterni. Ma come mai la rifles-
sione potrà ritrarre dall'osservazione del mondo corporeo o materiale le idee del di-
ritto, del giusto, dell'onesto, del divino, della libertà morale, che non ci sono, né ci
possono essere in verun modo? Da ciò, che le funzioni dell'organismo concorrono
nelle operazioni dell'anima e nella formazione delle idee, l'autore erroneamente ar-
guisce, che in quelle risieda l'origine e la ragione spiegativa di queste. Tanto var-
rebbe quanto il dire, che lo scultore deve la sua virtù scultoria non al proprio genio,
ma allo scalpello, che maneggia, ed al marmo, che adopera. Il vero si è, che l'anima
e fornita della facoltà dell'osservazione interiore, mercè di cui può studiarsi ne' suoi
fenomeni mentali, siccome quelli, che rampollano dalla sua attività intima originaria.
e non già dai sensi corporei. Per lui l'anima umana non è una sostanza pensante, ma
una sostanza che può pensare; e penserà di fatto, quando glielo consentirà il movi-
mento delle fibre sensibili; e le stesse fibre da lui denominate intellettuali, mercè
di cui essa ragiona, sono una dipendenza della vista e dell'udito, perchè i vocaboli
o segni artificiali delle idee astratte, che entrano nel ragionamento, agiscono sul cer-
vello per mezzo della vista o dell'udito (2). Egli non fa differenza specifica tra l'anima
(1) Palingenesi, t. 2, pag. 146 e seg.
(2) l'alili, /, a, . 1, pag. 134.
LA VITA OLTREMONDANA 33
ragionevole dell'uomo e l'anima sensitiva del bruto; anche questa è indestruttibile
ed immortale; e se quaggiù i bruti sono dominati dal solo istinto e non mostrano
la virtù della ragione, gli è per ciò solo, che " la meccanica del loro cervello non
contiene tutte le condizioni necessarie alla generalizzazione delle idee „ (1); e queste
condizioni saranno adempiute dal nuovo organismo, che rivestiranno nella vita futura.
Ciò vuol dire, che l'anima non è razionale od irrazionale per natura sua propria,
bensì è tale, quale la fa il diverso congegno e la diversa squisitezza dell'organismo,
che la involge ; dottrina questa, che troppo consuona col materialismo, da cui tuttavia
il Bonnet si dichiara ricisamente alieno. A lui, per non essere schierato fra i mate-
rialisti, basta il ritenere distinta dal corpo l'anima per ciò solo, che il sentimento,
che essa ha di sé stessa, essendo semplice, indivisibile ed uno, esclude la materialità ;
il suo spiritualismo si arresta qui, mentre egli ripone nel corpicciuolo cerebrale il
principio motore di tutta la vita psichica, e non avverte, che semplice, indivisibile
ed uno lo è altresì un punto dello spazio, una forza della natura, un atomo inde-
componibile di materia.
L'autore, seguendo il cartesianismo, sostiene che l'anima ed il corpo sono due
sostanze siffattamente eterogenee, che non hanno alcunché di comune fra di loro.
Questo suo pronunciato riesce in aperta contraddizione collo smodato ingerimento
dell'organismo corporeo nei fenomeni psichici dell'anima, da lui sostenuto. Se queste
due sostanze non hanno alcunché di comune e rimangono perciò divise da un abisso,
come mai il corpo può essere il principio originario di tutte le modificazioni dell'anima?
Questa predominanza del principio corporeo sullo spirituale mostrasi vieppiù
manifesta nella sua teoria del risorgimento universale degli esseri della natura, in
cui un nuovo grado di perfezione organica determina una forma più elevata di perfe-
zione psichica. L'anima del bruto risorta diventerà razionale al pari di quella del-
l'uomo, in grazia del nuovo e più squisito organismo corporeo, sicché su per l'im-
mensa scala della perfettibilità universale gli è pur sempre il corpo, che organandosi in
forma più comprensiva e più prestante, innalza con sé l'anima ad un punto più alto
di progressivo sviluppo. L'autore vagheggia e ritrae coi più splendidi colori della sua
immaginazione poetica il tempo avvenire, in cui gli esseri della natura risorti da
morte a nuova vita progrediranno al di là della propria specie.
Certamente questo sublime ideale di perfezione concepito dall'autore può eserci-
tare qualche attrattiva sull'anima umana, innalzarla molto al di sopra della presente
misera realtà e confortarla nella lotta contro il male. Ma è un vero ideale questo ?
Abbiamo noi ragione di ritenere, che verrà tempo, in cui sparirà dal creato universo
ogni ombra di male fisico e morale e gli esseri tutti quanti conseguiranno una per-
fezione assoluta e permanente? Se dobbiamo argomentare dal passato e dal presente,
non possiamo trarne tanto augurio per l'avvenire, giacché la storia dell'umanità è
tutta quanta una storia continua di dolori, che la affliggono, di delitti, che la disono-
rano. Ed anche la storia naturale non ci porge esempio di specie viventi, che abbiano
progredito sino a trasformarsi in altre specie superiori più perfette. L'autore ha di-
menticato il grande e perpetuo problema dell'origine del male ; e quando ci sarà dato
(1) Saggio analitico, § 823.
Serie II. Tom. LUI.
34 GIUSEPPE ALLIEVO
di scoprire donde esso origini, allora soltanto potremo divinare, se in un tempo av-
venire scomparirà affatto dall'umanità.
Darwin ed i moderni propugnatori dell'evoluzionismo trasformatore delle specie
incontrano in lui un ardito precursore della loro dottrina, con questo notevolissimo
divario, che l'autore della Palingenesi addita l'immortalità degli esseri in una vita
futura oltremondana, in cui la gran legge universale del progresso indefinito toccherà
il suo compiuto avveramento. Ben vide il pensatore ginevrino, che quaggiù la storia
della natura non presenta veruna prova di fatto in conferma della trasformazione
progressiva delle specie ; ma alla sua volta la teoria della rinascenza degli esseri da
lui propugnata è una mera ipotesi, che per manco di buone ragioni si perde nei
campi aerei dell'immaginazione. E veramente il collocare, come fa l'autore, un'anima
immortale in un otre, in un aragno, in un insetto, l'attribuire ad una violetta un
sentimento di dolore allorché ne stacchiamo una foglia per respirarne il profumo,
tutto ciò non è un pensare con serietà, bensì un sostituire ai concetti severi della rifles-
sione filosofica le finzioni di un'immaginazione poetica.
Malgrado queste censure, l'autore ben si appose al vero sostenendo, che l'anima
umana non essendo uno spirito puro, è di sua natura tale, che la sua esistenza non può
mai essere separata da qualche involucro corporeo tanto nella vita presente, quanto
nella vita oltremondana, e giustamente avvisò, che la nostra presente costituzione
mentale, tutta implicata nell'attuale organismo corporeo, non ci consente di formarci
un chiaro e giusto concetto dello stato oltremondano dell'anima. Che se non gli venne
fatto di addurre buone ragioni, che conferiscano un grado di probabilità alla sua ipo-
tesi, noi alla nostra volta non abbiamo ragioni che valgano per rigettarla siccome
irragionevole ed assurda. Giacche la fisiologia medesima non è ancora giunta a deter-
minare qual parte della massa cerebrale concorra direttamente alla produzione dei sen-
timenti e dei pensieri.
6. _ Francesco Claudio Turlot (1745-1824).
Francesco Claudio Turlot nella sua opera pubblicata a Parigi nel 1810 col titolo
Études sur la théorie de l'avenir, ripigliò la teoria del Bonnet e tentò di consolidarne
le fondamenta confortandola con ingegnose e nuove considerazioni. A' suoi occhi il
Bonnet si mostrò troppo modesto, collocando nel novero delle ipotesi la sua scoperta,
mentre facendo tesoro delle grandi cognizioni fisiologiche, di cui era fornito, avrebbe
potuto avvalorare la sua opinione elevandola al di sopra della verosimiglianza. Egli
adunque ebbe in animo di supplire al modesto ritegno del celebre naturalista di Gi-
nevra dimostrando, come l'esistenza di una sostanza semimateriale latente nel cervello,
mentre risolve il problema della vita futura, gitta altresì una chiara luce sulla miste-
riosa unione dell'anima col corpo e sul vicendevole operare di queste due sostanze l'ima
sull'altra.
Io mi tengo sicuro, che la più nobile parte di me medesimo sopravviverà alla
morte del corpo ; ne ho l'intimo sentimento. Ma qual nuova maniera di essere terrà
dietro a questa finale trasformazione? Qual sorta di gaudii debbo io sperare, qual
guisa di felicità attendere ? Non cessando punto di esistere, bisogna pure che io con-
tinui la mia esistenza in qualche luogo: dove esisterò io? dove vado ? Cosi egli formola
il problema della vita futura. A tal uopo, seguendo il Bonnet, pone intermedio tra
LA VITA OLTREMONDANA 35
l'anima ed il corpo nell'uomo un atomo organico, sostanza semimateriale dotata della
facoltà di ricevere le impressioni materiali esteriori, focolare impercettibile di tutte
le sensazioni e suscettivo di un perfetto sviluppo dopo la morte nella vita futura.
Inseparabile da quest' atomo organico l'anima nostra può portare con se dopo la morte
il ricordo delle sue azioni, la coscienza di sé e l'impronta di tutti i suoi sentimenti,
e da questa forma corporea più pura dell'attuale grossolano organismo ritrarre sensi
più perfetti. Così l'autore reputa di avere risolto il problema ammettendo tra le so-
stanze corporee una tutta speciale, la cui tenuità e sottigliezza è tanta e tale da
potersi ravvicinare ad una sostanza spirituale, qual è l'anima umana, e con essa com-
penetrarsi.
Giova chiarire viemeglio il pensiero dell'autore intorno la natura propria di
quest'atomo organico, il suo ufficio e la sua reale esistenza. Dacché l'anima umana
non è uno spirito puro, per ciò stesso debb'essere essenzialmente ed inseparabilmente
congiunta colla materia ; e siccome è semplicissima ed indivisibile, così non può essere
posta in immediato e diretto contatto colla materia grossolana, estesa e divisibile
quale è quella, che cade sotto i nostri sensi, bensì soltanto con una particella di
sostanza materiale sottilissima, semplice ed attenuata a segno da non avere più né
forma sensibile, né colore, né estensione, insomma nessuna delle proprietà conosciute
della materia e diventare per così dire smaterializzata, spiritualizzata. Tale è appunto
l'atomo organico: esso forma, tra ciò che è materiale e ciò che non lo è, una grada-
zione, che sembra tenere dell'uno e dell'altro; è di natura semimateriale (1). In virtù
della sua semplicità esso si compenetra coll'anima tanto da formare con essa una sola
e medesima sostanza; in grazia poi della sua facoltà sensitiva, è il punto centrale,
dove si riuniscono tutte le vibrazioni comunicate dai sensi esteriori e pone l'anima
in corrispondenza con le fibrille impercettibili del cervello. " Durante la vita presente
questa sostanza rimane compressa dall'azione del corpo, a cui soggiace, ma nell'istante
della morte se ne svincola, si sviluppa, si schiude in qualche guisa, si avvicina alla
natura angelica rivestendo sensi più perfetti e nella sua nuova maniera di essere con-
serva tuttavia l'eterna impronta de' suoi sentimenti e pensieri „ (2).
L'esistenza di siffatto atomo organico è una verità fisiologica di fatto. Poiché la
natura medesima presenta a chi attentamente la osserva, sostanze semplici, impercet-
tibili e tali, che non cadono menomamente sotto la nostra esperienza sensibile, ed
una di queste sostanze le più perfette è appunto quella che forma l'impercettibile
involucro dell'anima umana, compenetrandosi colle facoltà intellettuali.
La teorica dell'autore posa tutta quanta sul concetto dell'atomo organico, ed è
contro di questo che la critica rivolge le sue censure. Il suo medesimo pensiero mo-
strasi così incoerente ed oscillante su questo punto, che già se ne intravede l'insus-
sistenza della sua dottrina. Poiché ora egli confonde l'atomo organico colla stessa
anima in una sola ed identica sostanza, ora ne lo distingue chiamandolo un mero
involucro dell'anima stessa, un suo strumento, che la pone in corrispondenza coli 'or-
ganismo corporeo ; ora lo riguarda come onninamente differente dalla materia propria-
mente detta sino a denominarlo smaterializzato, spiritualizzato, ed ora si sta pago di
(1) Opera citata, tomo 1, p.ig. 382-384.
(2) Idem, ibidem, pag. 481.
36 GIUSEPPE ALLIEVO
appellarlo semimateriale. Egli ammette una differenza tra la materia bruta, inorganica,
inanimata e grossolana e la materia per cosi dire eterea e suscettiva di sensazioni
ed anche di idee ; ma con tutto ciò egli non esce mai dal mondo della materia, giacche
la differenza da lui posta sarebbe una mera distinzione di grado e non di essenza.
Sforziamoci pure di rimpicciolir col pensiero la materia o un pezzo di materia tanto
da ridurlo ad un punto impercettibile; avremo noi con ciò tolto ad esso le qualità
inseparabili della materia, quali sono l'estensione, la divisibilità, la forma spaziale?
No certamente; ci sarà giuocoforza arrestarci davanti ad un atomo di materia sia pur
semplicissimo, giacche la materia non è divisibile all'infinito, e quell'atomo non diven-
terà mai alcunché di spirituale. Già prima di lui il Cudwort erasi ingegnato di spie-
gare l'unione dell'anima col corpo escogitando il suo mediatore plastico, che ponesse
in corrispondenza queste due opposte sostanze: il nostro autore assegna al suo atomo
organico il medesimo ufficio ma non ha migliore fortuna.
Il Bonnet si era fermato alla sua ipotesi del germe corporeo riguardato come
una sostanza eterea, sottilissima, senza punto muover questione, se essa appartenga
al mondo della materia o dello spirito; il Turlot per lo contrario si sforza di dimo-
strare che il suo atomo organico partecipa dell'una e dell'altra natura, e quindi invi-
luppa la sua teorica in difficoltà inestricabili.
E noto, che Cartesio aveva scavato un abisso tra lo spirito e la materia, riguar-
dandole come due sostanze non solo essenzialmente distinte, ma assolutamente sepa-
rate ed incomunicabili per guisa, che l'una esclude da sé tutti gli attributi dell'altra,
né hanno verun elemento comune, verun punto di contatto. Quindi torna impossibile
che la materia senta, o pensi, impossibile che lo spirito sia esteso, materiale, divisi-
bile in parti. Questo reciso ed assoluto dualismo lo portò poi a negare agli animali
la facoltà di sentire e riguardarli come meri automi semoventi meccanicamente, e
questo medesimo dualismo ci porta a considerare l'anima razionale non come la forma
animatrice del corpo, ma come uno spirito puro ed intelligente.
Ora il Turlot colloca il suo atomo organico tra lo spirito e la materia, partecipe
dell'una e dell'altra di queste due sostanze, partendo dal principio supposto, ma non
dimostrato, che nell'ordine della creazione esistono esseri intermediarii partecipanti
egualmente delle proprietà di due specie e formanti una gradazione tra l'una e l'altra,
come i zoofiti tra i vegetali e gli animali.
7. Augusto Barione Keratrij (1769-1859). — Enrico Martin.
Il Keratry pubblicò a Parigi le sue Introduci ions morales et physiologiques collo
scopo di chiarire l'armonica corrispondenza, che esiste tra la fisiologia e la morale.
Muovendo dal concetto dell'Essere propriamente detto, che è Dio, discende a discor-
rere partitamente dell'essere materiale e dell'essere spirituale, poi della loro unione
nell'essere animato, quindi della loro separazione ossia della morte, infine del loro
ricongiungimento, ossia della immortalità; e qui discute il problema della vita oltre-
mondana dell'anima. Egli non fa buon viso alla teorica di coloro, i quali insegnano,
che l'anima staccandosi dal corpo, rimane unita ad una sostanza eterea, germe del-
l'organamento cerebrale ed atta ad identificarsi con una nuova vita sensitiva. Egli
rigetta la dottrina di Carlo Bonnet, che ammette la persistenza di un germe corporeo
LA VITA OLTREMONDANA 37
rinnovatore dell'organismo, avvertendo che " l'aderenza dell'anima ad un germe inde-
struttibile ed immateriale (se una sostanza eterea potesse esserlo) non è che o una
duplice spiritualità assolutamente inutile, poiché essa non saprebbe adempiere le con-
dizioni volute, o una complicazione di difficoltà, se gli elementi ne appartengono in
qualsiasi modo alla materia „ (1).
In sua sentenza, l'anima dell'uomo (essere spirituale) si unisce al corpo (essere
materiale), poi alla morte se ne separa, non già per proseguire solitaria ed isolata
la sua esistenza, ma per ricongiungersi con un altro organismo più squisito e più
perfetto, di cui Dio solo conosce il secreto, e che non aveva nessuna radice germinale
nel corpo presente, senza avere nessun domicilio fisso in qualche astro o pianeta.
L'anima umana è viaggiatrice e peregrina per natura: essa percorre tutta l'infinità
dello spazio, ed ha per misura l'universo. I pianeti ci attendono l'un dopo l'altro.
" Come mai vi saremo trasportati? Quali sono gli organi che ci saranno aggiunti ?
Quali percezioni ci daranno essi? fin dove queste si potranno estendere? È il secreto
della Divinità: sarà il nostro secreto in pochi anni, forse in poche ore „ (2). L'autore
immagina che l'anima rivestita di un involucro assai più leggiero del pesante orga-
nismo corporeo attuale, potrà a suo grado attraversare qua e là lo spazio, superare
le distanze in un batter d'occhio ed essere presente ad un tempo a luoghi i più
separati.
Ma quali prove egli adduce in appoggio della sua teoria? Egli si abbandona alla
onnipotenza e saggia bontà del Creatore e biasima il Bonnet, che si è conformato
alla debolezza del nostro spirito ed al corso ordinario delle nostre idee, anziché avere
riguardo ai mezzi immensi, di cui Dio può disporre. Ma almeno il Bonnet ha tentato
di dimostrare la ragionevolezza della sua ipotesi, mentre il Keratry si abbandona ad
un aereo illuminismo.
Ài dì nostri T. Enrico Martin pubblicava un volume, intitolato La vita futura, in
cui ragiona del problema dell'immortalità con profonda penetrazione di mente e gran
sentimento di verità. Ricercando la ragione, per cui i corpi viventi, in mezzo alla
continua trasmutazione delle loro molecole, conservano l'identità della loro natura
specifica e della loro individualità sostanziale, è condotto ad ammettere qualche cosa
a noi ignoto, che costituisce il loro principio di identità. Questo qualche cosa è reale,
ed egli congettura, che questo misterioso principio sia imponderabile, e che negli esseri
composti di anima e di corpo, quale è l'uomo, si trova coll'anima in un certo rap-
porto, il quale conservasi indestruttibile, sopravvivendo alla dispersione totale della
materia nella morte, come sorvive al continuo rinnovarsi delle molecole durante la
vita. Nella sua costante unione coll'anima questo principio può forse per volontà del
Creatore ricostruire e riprodurre il corpo distrutto.
Sguardo sintetico sui sistemi affermativi compiuti.
Abbiamo esordito accennando l'opinione di quegli antichi filosofi, i quali ritene-
vano che l'anima umana per sua stessa natura richiede un organismo corporeo che la
rivesta, e per conseguente anche nella sua esistenza oltremondana vivrà congiunta
(1) Op. cit., lib. VI, cap. IV, pag. 400, 2" ediz. Parigi 1818.
(2) Pag. 429, 430.
38 GIUSEPPE ALLIEVO
con un involucro materiale. Ma in che modo queste due sostanze disgiunte dalla
morte si ricongiungeranno insieme a vita novella? Quei pensatori non proposero una
teoria speciale, che risponda a tale inchiesta.
Nella storia dell'antica sapienza la metempsicosi apparisce un primo tentativo
per risolvere il problema della vita futura. La metempsicosi fu una credenza religiosa
professata da quasi tutti i popoli dell'antico Oriente, ed ancora oggidì è seguita dagli
Indiani della riva del Gange e dalla gente Chinese ; e quella credenza fu trasformata
in una dottrina filosofica dai pensatori dell'antica Grecia, Pitagora, Empedocle, Pla-
tone, poi penetrò nella letteratura latina, segnatamente presso Virgilio ed Ovidio, che
fu appellato il poeta della metempsicosi. Il concetto fondamentale, che la informa, è
l'immortalità dell'anima, la quale passa di corpo in corpo in punizione ed in ricom-
pensa delle sue cattive o buone azioni; e la critica accoglie come razionale e giusto
questo concetto dell'anima immortale e moralmente responsabile del proprio operare;
ma non può egualmente ammettere il migrare dell'anima in corpi di animali irragio-
nevoli e bruti, siccome quelli, che ripugnano alla natura intelligente e libera dell'anima
umana e ne deturpano la dignità e l'eccellenza con una specie di brutale ibridismo.
La dottrina platonica professata da Virgilio e riprodotta nella Divina Commedia,
che l'anima separata dal corpo attuale informi l'aria che la circonda e se ne com-
ponga un involucro materiale, se per una parte riconosce giustamente il potere, che
essa esercita sul mondo corporeo, per l'altra mostrasi insufficiente in quantochè questo
involucro prettamente etereo ed inconsistente non può tener luogo di quell'organismo
corporeo saldo e perfetto, con cui l'anima deve tutta quanta compenetrarsi sino a
convivere insieme. L'unione delle due sostanze riesce meramente esteriore.
La teoria del Bonnet e del Turlot è assai più soddisfacente delle dottrine pre-
cedenti, e sebbene non sia confortata da argomenti cos'i saldi e rigorosi, da uscire
dal campo della probabilità ed essere accolta come una verità dimostrata, tuttavia
possiede alcuni concetti giusti e meritevoli di considerazione. Poiché qui è essenzial-
mente riconosciuta l'intima unione tra l'anima ed il corpo e la continuità tra la vita
presente e la futura, essendoché l'organismo corporeo, con cui l'anima si congiungerà
nell'esistenza oltremondana, già aveva il suo germe latente nel suo attuale organismo.
Anche la memoria del passato, che è una delle condizioni della vita futura, trova
suo luogo in questa teoria, perchè le impressioni, che riceviamo nel mondo presente,
sono conservate in quel corpicciuolo impercettibile della massa cerebrale, dove l'anima
ha la sua sede. Il concetto del Bonnet, il quale ammette esistente nella massa ce-
rebrale un corpicciuolo sottilissimo, etereo, impercettibile, siccome punto centrale, in
cui vanno a riunirsi tutte le vibrazioni e le impressioni, che ci vengono dal di fuori,
si collega col pronunciato della moderna fisiologia, la quale riguarda il sistema ner-
voso siccome l'organo essenziale della vita sensitiva ed intellettiva, posto in contatto
immediato e diretto coll'anima e lo riconduce tutto quanto ad un punto cerebrale,
da cui muovono ed in cui si riuniscono tutti quanti i nervi sparsi per la compagine
dell'organismo corporeo. Similmente il concetto dell'atomo organico, ammesso dal
Turlot, trova il suo riscontro nella moderna teoria de' microbi, i quali altro non sono
che organismi impercettibili, ossia atomi di materia vivente, organica ed animata.
Però la dottrina degli atomi vuoi organici, vuoi inorganici, è assai controversa e
dibattuta dalla critica sia nella storia della filosofia, sia nelle scienze naturali, perchè
LA VITA OLTREMONDANA 39
sta implicata nella questione sempre agitata e non ancora risolta, se la materia sia
divisibile all'infinito, senza mai incontrare un punto, a cui si arresti, oppure finisca
in elementi semplici ed indecomponibili, quali appunto si suppongono gli atomi.
Venendo per ultimo al principio di identità, mercè di cui il Martin risolve il pro-
blema della vita futura, esso è certamente un concetto giusto, originale, fornito di
valore scientifico e fecondo di sviluppo, quando esso sia preso in se stesso ; ma l'au-
tore applicandolo al proposto problema, lascia sussistere il dubbio, se esso risieda
nell'anima stessa, oppure costituisca un principio distinto, che collega l'anima coll'or-
ganismo corporeo, una specie di forza vitale, che pervade l'organismo e lo conserva so-
stanzialmente identico fra i suoi continui cangiamenti.
Quale conclusione scaturisce da questo rapido sguardo sintetico intorno i sistemi
affermativi compiuti? Essi sono concordi nell'ammettere l'immortalità dell'io individuo
umano nella sua duplice vita corporea e mentale; e questa è una verità, che conforta
l'animo di tutti coloro, che pensano in sul serio alle sorti finali, che ci attendono.
Ma quale sarà la nuova forma della nostra vita oltremondana, e quale nuovo vincolo
ricongiungerà insieme l'anima ed il corpo? In riguardo a questo gran punto noi ci
troviamo avvolti in mezzo ad ipotesi controverse, ad incertezze, ad opinioni mal
ferme, a difficoltà gravissime, non abbiamo nulla di rigorosamente dimostrato e certo;
e questa incertezza ci sconforta assai, perchè ci sta tanto a cuore ed immensamente
ci interessa di sapere come vivremo la vita. Se ignoriamo il nostro dimani, non è
forse soverchia pretesa il voler conoscere in modo lucido e sicuro la nostra nuova
esistenza attraverso l'infinita durata del tempo? Eppure non giungeremo mai a questa
nitida e sospirata conoscenza? Sì certamente : ognuno di noi porta dentro di sé, nel-
l'intimo dell'animo il problema della sua destinazione oltremondana, ed ognuno ha il
suo giorno, la sua ora, in cui questo problema se lo vedrà risolversi da sé, quando la
mano della morte straccierà il velo, che ricopre il mistero.
Sistemi affermativi incompiuti.
Questi sistemi ammettono l'immortalità, ma la riguardano come una prerogativa
propria dell'anima, e non come una proprietà essenziale all'organismo corporeo, con
cui è congiunta. Quindi essi derivano le prove dell'immortalità dell'anima esclusiva-
mente dalla sua natura spirituale, non tenendo nessun conto del corpo, come se essa
non potesse partecipare alla vita futura se non a condizione che si svincoli dall'ani-
malità e l'organismo dovesse venire rimosso come un impedimento. I seguaci di questi
sistemi partono da un erroneo concetto dell'anima umana, la quale non è esclusiva-
mente spirituale, ma altresì essenzialmente sensitiva : la sensitività animale è tanto
necessaria alla sua natura, quanto la stessa spiritualità. Togliete ad essa la sua virtù
sensitiva, e voi la avrete convertita in un puro spirito, avrete alterata la sua natura.
Quindi consegue che l'anima riunisce in sé la duplice vita, fisica e spirituale ; e questa
duplice vita le è essenziale tanto nella presente esistenza, quanto nella oltremondana,
perchè la natura dell'anima non va alterata.
È un fatto incontrastabile ed evidente, che nella nostra vita presente l'organismo
corporeo col suo sistema nervoso e coll'attività de' suoi sensi fisici contribuisce essen-
40 GIUSEPPE ALLIEVO
zialmente a svolgere le facoltà spirituali del pensare e del volere, sicché il cooperare
vicendevole di queste sostanze è tanto intimo, che le due vite si compenetrano senza
confondersi nell'unità dell'io. L'anima vive nell'organismo corporeo informandolo ed
atteggiandolo colla sua virtù, ed alla loro volta i pensieri, i desiderii, le voglie del-
l'anima vivono in immagini empiriche, in movimenti de' sensi. Sono per cosi dire due
esistenze, i cui destini stanno insieme stretti da un vincolo indissolubile. L'anima
riguarda il corpo non come un estraneo, che incontra per via, ma come un compagno,
che è cresciuto con lei, che ha diviso con lei le lotte dell'esistenza, le gioie ed i do-
lori della vita, e quando interviene la morte, essa sente tutta l'amarezza del distacco,
gli augura il riposo del sepolcro, quasi dicendogli: a rivederci in altre regioni, sotto
altro cielo. Cosi nella Basvilliana, di Vincenzo Monti, l'anima di Ugo Basville stac-
casi dal corpo suo:
Dormi in pace, dicendo, o di mie pene
Caro compagno, insin che del gran die
L'orrido squillo a risvegliar ti viene.
Un erroneo concetto dell'unione tra l'anima ed il corpo può condurre a filo di
logica alla dottrina dell'anima separata, propria di questi sistemi incompiuti ed esclu-
sivi. Se noi ammettiamo con Platone, che l'unione tra queste due sostanze è analoga
a quella, che passa tra un nocchiero e la nave, allora siamo portati a concepire la
vita futura dell'anima siccome solitaria e separata dal corpo. Poiché l'unione tra il
nocchiero e la nave non è intima ed operosa, ma meramente estrinseca, non è essen-
ziale, ma accidentale; la nave non esercita nessuna attività sul nocchiero, ed il noc-
chiero le si accosta, o se ne stacca secondo il bisogno e l'opportunità del momento,
quindi non formano un essere unico ed individuo, mentre l'anima ed il corpo si com-
penetrano insieme sino a costruire l'unità personale individua dell'io umano. Così
l'anima alla morte del corpo se ne stacca e vive separata da se (1). Inoltre Platone
riguarda il corpo siccome un carcere, in cui l'anima umana fu rinchiusa in punizione
del suo fallo, epperò l'unione tra l'una e l'altro viene ad essere uno stato anormale,
violento e contrario alla natura stessa dell'anima, e la morte riesce una liberazione
da un'abborrita prigione. L'anima separata nella vita futura è una necessaria conse-
guenza di tale concetto antropologico.
L'evoluzionismo concepito da alcuni suoi seguaci in senso esclusivamente spiri-
tualistico e metafisico li ha portati ad ammettere l'anima separata da ogni organismo
corporeo nella sua esistenza oltremondana. Il progresso continuo, infinito, dall'imper-
fetto al perfetto è, secondo questa dottrina, la legge suprema della natura, la quale
procedendo per questa via ha trasformate le specie inferiori degli esseri in ispecie
superiori sempre più perfette. L'uomo è il capolavoro della natura: la natura ha
formato l'uomo compendiando in lui tutto il lavorio da essa compiuto attraverso la
serie successiva di tutte le sue metamorfosi dagli esseri infimi più imperfetti sino a
(1) L'idea dell'anima, che esce solitaria e scompagnata dal suo organismo per vivere una vita
separata, si scorge poeticamente espressa nei versetti dell'imperatore Adriano superiormente citati
a pag. 2, dove l'anima 'e appellata nudula, cioè spoglia del suo materiale ammanto ed isolata dal
corpo, già suo ospite e compagno.
LA VITA OLTREMONDANA 41
lui. Ma lo sviluppo progressivo della vita umana non si arresta quaggiù: la terra
non segna l'ultimo limite del suo perfezionamento. Il campo di attività dell'anima
umana si stende per tutta la immensa distesa dei mondi, rivestendo nuovi e sempre
più perfetti organismi. La terra è scala al cielo, e nel cielo si chiude il ciclo della
perfezione umana. Noi siamo passeggieri quaggiù ; e per quantunque meravigliosa e
stupenda apparisca la struttura del nostro attuale organismo, pure l'anima è ancora
in balìa de' sensi ; essa non avrà raggiunto l'ultimo stadio del suo perfezionamento
se non allora quando si sarà del tutto svincolata dagli istinti dell'animalità.
Il cielo è la vera sede suprema dell'anima umana: colà soltanto può toccare
l'apogeo della sua grandezza, conquistare tutta la nobiltà, che le spetta. Così l'uomo
ne' 8uoi primordii sN confondeva cogli esseri più infimi e più imperfetti della natura
materiale, giaceva nei più bassi fondi della terra: ora è in cielo, ha deposto il suo
involucro materiale, non ha più bisogno dell'aiuto de' sensi, si è spiritualizzato, è
tutto anima, nient'altro che mente, è uno spirito, la cui purezza non è più offuscata
da nessun contatto colla materia. Però anche in questa nobilissima e suprema tras-
formazione egli è sempre lui ; sebbene partecipi della natura angelica, rimane pur
sempre uomo. L'organismo corporeo non fa parte necessaria della natura umana,
come l'universo non fa parte della natura di Dio. Gli angeli e le creature celesti
sono esseri, che ci hanno preceduto lungo l'infinita via della perfezione, e non ci
sono ragioni, per cui dobbiamo arrestarci allo stato di quaggiù. L'anima separata
nella sua esistenza oltremondana, ecco la final conclusione di questo evoluzionismo
esposto nell'opera Terra e Cielo di Giovanni Reynaud.
È grandiosa, è seducente, è poetica questa teoria, ma troppo più poetica, che
scientifica, più immaginosa, che razionale. Essa posa tutta quanta sul supposto prin-
cipio della trasformazione radicale delle specie per via di una graduale evoluzione
progressiva; ma questo principio è una mera ipotesi, non una verità dimostrata, è
una asserzione non confortata ne dall'osservazione, né dal ragionamento. Infatti se
le specie degli esseri inferiori si fossero davvero trasformate nelle superiori, avreb-
bero per ciò stesso cessato di esistere e sarebbero scomparse dal teatro della natura
vivente, mentre l'osservazione ci attesta che le specie imperfette sussistono tuttora
accanto alle più perfette nella gerarchia universale degli esseri. Anche il ragiona-
mento sta in contrario, poiché o la specie inferiore contiene in se il germe, che si
svolgerà nella specie immediatamente superiore, o no; nel primo caso il vegetale par-
teciperebbe altresì della natura animale, e non sarebbe più specificamente vegetale
nel vero e proprio senso della parola; nel secondo caso lo svolgimento è impossibile,
perchè dal nulla esce nulla.
Un' altra considerazione riguarda la legge del progresso continuo indefinito della
natura quale è inteso dal Reynaud. Se questo progresso non riconosce limiti, perchè
riguardare la spiritualizzazione dell'uomo nella vita oltremondana siccome il punto
più sublime a cui deve arrestarsi il suo perfezionamento ? Perchè non escogitare un
altro ideale di perfezione più elevato? Perchè attribuire la perfezione finale esclusi-
vamente all'anima dell'uomo e negarla al corpo? Forsechè anche il suo organismo
corporeo non poteva progredire ad una forma di sviluppo superiore all'attuale e
corrispondente al perfezionamento dell'anima? Se il campo di attività dell'anima si
stende per tutti i mondi dell'universo, essa dovrebbe pur sempre possedere un orga-
Serik II. Tom. LUI. 6
42 GIUSEPPE ALLIEVO
nismo corporeo per sentirli questi mondi ed acquistarne una vita più ampia e più
intensa. L'uomo ha abbandonato la terra, ha conquistato il cielo, ma ha perduto una
parte essenziale di se medesimo. Invano si asserisce, che l'uomo spiritualizzato, seb-
bene partecipi della natura angelica, rimane sempre lui : il vero si è, che la sua na-
tura viene alterata, mutilata. L'uomo destituito di corpo non è più uomo, come non
lo sarebbe senza spirito: esso non è ne un angelo, ne un bruto, ma una vivente armonia
di spirito e di materia: tale è la sua costitutiva natura.
Il nostro evoluzionista ha cercato le prime origini dell'uomo nei bassi fondi della
natura materiale, dove non poteva trovarsi, ha additato la sua finale destinazione
in un cielo, dove non è più. Ha cominciato coll'abbassarlo al di sotto della sua nobil
natura, ha finito coll'esaltarlo troppo sino a confonderlo coli' angelo. La verità non
trascorre sino agli estremi, ma si adagia nel giusto punto di mezzo. Malgrado però
queste censure la critica riconosce in questa dottrina una certa impronta di spiritua-
lismo, che la nobilita, la solleva al di sopra di tante altre teorie, le quali rassegnano
l'uomo tra i bruti, affogando negli istinti animali la libertà del volere, il sentimento
morale e religioso. Il progresso continuo della natura ci porta all'infinitamente grande,
l'universo, come la divisibilità continua della materia conduce all'infinitamente pic-
colo, l'atomo.
Abbiamo cominciato lo studio dei sistemi affermativi incompiuti esaminando il
concetto psicologico di quei filosofi, i quali ripongono tutta l'essenza costitutiva del-
l'anima umana nella pura e mera spiritualità, riguardando la sensibilità animale sic-
come accidentale alla sua natura, e quindi abbiamo veduta la ragione, per cui essi
riuscirono ad ammettere l'anima separata dal corpo nella vita futura. Ora ci si pre-
senta al nostro esame un concetto psicologico ben diverso e contrario, che nella storia
della filosofia si è propagato dai tempi antichi fino a noi, voglio dire il concetto
dell'anima riguardata come la forma del corpo. S'intende da se, che qui il vocabolo
forma non è preso nel senso del linguaggio moderno siccome la figura, che presenta
il corpo nel suo organismo, bensì nel senso antico latino, siccome il principio infor-
matore e vivificatore del corpo, il principio cioè, l'energia, a cui il corpo deve il suo
organismo vivo ed operoso, giusta la sentenza " forma est, quod dat esse rei „. Tale
è il concetto psicologico di Aristotele. Egli definisce l'anima il principio vitale di un
corpo naturale organico, quindi nella sua teoria appartiene all'essenza dell'anima l'in-
formare un organismo corporeo, come appartiene all'essenza di un corpo organico
l'esserne avvivato. Un' anima separata dal corpo perderebbe la sua essenza, non sa-
rebbe più anima, non sussisterebbe più : il simigliante accadrebbe ad un corpo sepa-
rato dall'anima, non sarebbe più organico, non vivrebbe più. Perciò l'anima ed il
corpo, la forza vitale e la materia organica sono due entità distinte, ma inseparabili ;
l'una non è l'altra, ma Luna non può stare senza l'altra. La conseguenza, che deriva
da questa teoria in riguardo alla vita futura, si manifesta da se: o l'anima cessa di
esistere alla morte del corpo, e allora anche il corpo finisce, o continua a sussistere,
ed anche allora informerà un organismo corporeo: in altri termini, o l'anima incor-
porata anche nella vita futura, o non più anima; o l'immortalità di tutto 1 io umano,
o nessuna immortalità. Aristotele non ammette esplicitamente l'immortalità dell'io
umano ; è bensì vero che attribuisce all'anima umana la facoltà razionale, e sostiene
che la ragione per sua stessa natura è eterna e non muore mai, ma questa ragione,
LA VITA OLTREMONDANA 43
di cui proclama l'immortalità, non è la ragione umana propria di ciascuno di noi,
bensì la ragione divina ed universale.
Questo concetto aristotelico dell'anima, forma del corpo, fu seguito, discusso ed
ampiamente disvolto dalla filosofia scolastica, ma invece di accettarne la conclusione,
che ne fluiva a filo di logica, essa si mise in contraddizione con se medesima e si
impigliò in difficoltà inestricabili. Gli Scolastici da un lato consentivano con Aristo-
tele, che l'anima umana è forma del corpo, dall'altro professavano la dottrina del-
l'anima separata dal corpo nella vita futura, ecco la contraddizione. Se appartiene
all'essenza dell'anima l'informare un corpo, come mai potrà continuare la sua vita
separata da esso? Ecco la difficoltà. Essi riconoscevano, è vero, le facoltà razionali
dell'anima umana, che costituiscono la sua natura spirituale, e di qui argomentarono
la sua immortalità, ma dacché la riguardavano siccome forma o principio animatore
del corpo, ciò vuol dire, che consideravano siccome essenziale all'anima non la sola
spiritualità, ma altresì la sensitività corporea e le ritenevano inseparabili l'una dal-
l'altra. L'anima non può perdere uno di questi suoi elementi costitutivi senza smarrire
anche l'altro, non sarebbe più anima umana, ma spirito puro.
Lucrezio seguendo le traccie di Epicuro si argomenta di dimostrare la mortalità
dell'anima, muovendo dal concetto che essa conferisce al corpo la sua virtù sensitiva,
ma alla sua volta e per se stessa, quando sia scissa dal corpo, perde ogni sentire,
e quindi perisce coll'organismo corporeo disciolto. Ne il corpo può sentire senza
l'anima, ne questa senza di quello (1). Quest'argomentazione epicureistica perde ogni
valore, anzi non ha più ragione, quando si ammetta con noi la inseparabilità del-
l'anima dal corpo anche nella vita futura sebbene sotto nuova forma, ossia la duplice
vita dell'io umano, fisica e mentale.
Giova disaminare in quale guisa il principe della Scolastica, San Tommaso, si
argomenti a dimostrare la sua dottrina dell'anima separata nell'esistenza oltremon-
dana. Egli definisce l'anima umana " intellectualis substantia corpori unita ut forma „
(S. e. g. II, e. 68); e bene sta: con ciò egli riconosce nell'essenza di essa la spiritualità
e la sensitività. Riconferma questo suo concetto scrivendo: " Corpus non est de essentia
animae, sed anima ex natura suae essentiae habet quod sit corpori unibilis „ (S. Th., I,
qu. 75, art. 7, ad 3m), ed aggiunge che " si anima non esset corpori unibilis, tunc
esset alterius naturae „ (II, Dist. I, qu. 2, art. 4, lm): è una verità anche questa, con
cui si pone che l'anima non solo è distinta dal corpo, ma che ad un tempo non
potrebb'esserne separata senza perdere la propria natura. Ma come e fino a che segno
(1) At neque seorsum oouli, neque nares, nec manus ipsa
Esse potest anima, neque seorsum lingua, nec aures
Absque anima per se possunt sentire, nec esse.
Et quoniam toto sentimus corpore inesse
Vitalem sensum, et totum esse animale videmus,
Si subito medium celeri praeciderit ictu
Vis aliqua, et seorsum partem secernat utramque ;
Dispertita procul dubio quoque vis animai,
Et discissa simul cum corpore disiicietur;
At quod scinditur, et porteis discedit in ullas,
Scilicet aeternam sibi naturam abnuit esse.
(De rerum natura, lib. 3, versi 630-641).
44 GIUSEPPE ALLIEVO
essa dipende dal corpo? Questa sua dipendenza è proprio assoluta sicché senza di
esso non possa sussistere in verun modo? Ecco il punto della questione, che si
tratta di discutere.
Secondo il nostro filosofo, l'anima dipende dal corpo in quanto che separata da
esso non rappresenta più la specie umana, in cui trova la sua naturale perfezione,
bensì una parte soltanto di esso, ma non ne dipende al punto da non poter esistere
senza di esso. L'anima può sussistere per se, ma per se non possiede la perfezione
propria della sua natura, se non è unita col corpo. Essa è bensì una forma semplice,
come l'angelo, ma non riceve l'essere suo proprio se non nel corpo (1). In tutti questi
pronunciati si asserisce, ma non si dimostra punto, che l'anima possa effettivamente
sussistere separata dal corpo e mantenere inalterata la sua specifica natura; che anzi
dal loro logico costrutto dirittamente si argomenta la proposizione contraria. Infatti
se essa non è una natura angelica, ma riceve il suo essere nel corpo, se è nata fatta
per comporre con esso la specie umana per guisa che senza questo suo congiungi-
mento sarebbe di altra naturai ne consegue che isolata e scissa da ogni commercio
coll'organismo corporeo non solo non avrebbe ragion di esistere, perchè fallirebbe alla
sua propria natura e rimarrebbe mutilata, ma non esisterebbe di fatto. Noi possiamo
bensì in virtù dell'astrazione separare nella specie umana l'anima dal corpo e con-
siderarle disgiuntamente; ma alla nostra astrazione non risponderebbe la realtà:
avremmo davanti a noi non un'anima sussistente e viva in natura, ma una mera entità
astratta. Il nostro filosofo con un ingegnoso sforzo di mente tenta di dimostrare, che
l'anima anche separata dal corpo suo, conserva pur sempre l'attitudine e la inclina-
zione a ricongiungersi con esso, opperò può continuare ad esistere quantunque non ne
sia la forma in atto, senza perdere la sua natura (2). Questa distinzione tra la pos-
sibilità che ha l'anima di essere congiunta col corpo ed il suo attuale congiungimento,
tra la sua attitudine e tendenza ad informarlo e lo informarlo di fatto, è ingegnosa
e sottile, ma fallisce al suo intento, conduce ad un'anima meramente possibile, ma
non sussistente. Egli stesso ha definito l'anima umana non una sostanza intelligente,
che può essere congiunta col corpo, siccome forma, bensì che è " corpori unita, ut
forma „. Non ci fu tempo, in cui essa fosse solamente in potenza ad informare il corpo,
ma ne fu la forma sostanziale fin dal primo punto della sua esistenza; epperò lo
debb'essere in tutta la sua durata. In breve, appartiene all'essenza dell'anima umana
l'informare effettivamente il corpo suo, epperò essa non può esistere, quando questa
(1) " Anima aliquam dependentiam habet ad corpus, in quantum aine corpore non pertingit
ad complementum suae speciei, non tamen dependet a corpore , quin sine corpore esse possit ,
(De anima, art. 1 ad 12m). — * Licet anima humana per se possit subsistere , non tamen per se
habet speciem completam „ (Ibid-, ad 4m). — " Anima cum sit pars humanae naturae , non habet
perfectionem suae naturae nisi in unione ad corpus „ (De spirti, creat., art. 2, 5m. ld., Stimma Th., 1,
q. 90, art. 4, e). — " Etsi (anima) possit per se subsistere, non tamen habet speciem completam,
sed corpus advenit ei ad complementum speciei , (De anima, art. 4 ad lm). — " Quamvis anima
sit forma simplex, sicut et angelus, tamen non recipit esse, nisi in corpore „ (S. Th., I, qu. 90,
art. 4, e).
(2) " Corrupto corpore, non perit ab anima natura, secundum quam competit ei, ut sit forma,
licet non perficiat materiam aetu, ut sit forma , (De anima, art. 1, ad lm). — " Anima humana manet
in suo esse, cum fuerit a corpore separata, habens aptitudinem et inclinationem naturalem ad cor-
poris unionem „ (S. Th., I, qu. 76, art. 1, ad 6m).
LA VITA OLTREMONDANA 45
sua virtù informativa cessi di fatto o si supponga meramente possibile. Alessio Lé-
picier nella sua opera Uno sguardo al di là della tomba, a pag. 62 si argomenta di
risolvere la difficoltà, che presenta la dottrina di S. Tommaso su questo punto, ma
la sua difesa non regge, dacché egli stesso a pag. 66 dichiara che " l'anima separata
dal corpo, trovasi in uno stato preternaturale, direi quasi contro natura „, citando
S. Tommaso (1).
Questo concetto dell'anima riguardata siccome la forma sostanziale del corpo,
che Aristotele pose a fondamento della sua dottrina psicologica, assai prima di
lui era già stato intuito dagli antichi filosofi sotto il suo amplissimo ed universale
aspetto e riguardato come il più elevato principio filosofico spiegativo dell'universo.
Abbracciando in un solo concetto lo spirito e la materia, essi si innalzarono col pen-
siero dalle anime particolari all'anima universale del mondo, dai corpi particolari, alla
materia universale. Essi facevano differenza tra la materia pura, universale, ed i
corpi particolari, che cadono sotto i nostri sensi: quella esiste per sé stessa, ed è
sostanza, che conservasi incorrotta, inalterabile, immortale, questi si corrompono, mu-
tano forma, atteggiamento, positura, compaiono e scompaiono. Pei Pitagorici (secondo
Alessandro presso Diogene Laerzio) la materia prima ed originaria è l'etere, di cui
scrive Cicerone nel De natura Deorum (2), e che veniva riguardato siccome una so-
stanza ignea, un fuoco sottilissimo, uno spirito, che penetra in tutti quanti gli esseri
corporei e vi diffonde la vita animandoli, opperò fu detto anima del mondo; anima
universale, di cui le anime particolari dei singoli viventi sono altrettante emanazioni,
corruscazioni, irraggiamenti. Queste anime emanate dall'anima del mondo, ossia
dall'etere supremo, costituiscono appunto quel corpo sottile ed invisibile, che avvi-
luppa e circonda le sostanze intelligenti qualichesiano, la mente dell'uomo, i demoni,
i genii, gli eroi. Non sono materiali, come i corpi grossolani, che cadono sotto i sensi,
ma neanco sono identici alla sostanza intelligente, sono alcunché di incorporeo come
l'etere animatore del mondo (3). Quest'etere universale avviluppa altresì la mente
divina, è il suo gran corpo, che essa muove ed adopera come strumento per operare
sul mondo, diffondervi e mantenervi la vita (4), come i fluidi particolari eterei avvol-
gono le nature intelligenti finite, a cui servono di veicolo e di strumento per eser-
(1) * Esse separatum a corpore est praeter rationern suae (animae) naturae „ (S. Th., I, qu. 89,
art. 1, e.). — " Esse sine corpore est sibi (animae) contra naturam , (Ibid., qu. 118, art. 3).
(2) " Aether vero est ultimus, et a domiciliis nostris altissimus, omnia cingens, et coercens
coeli complexus, extrema ora et determinatio mundi, in quo cum admirabilitate maxima igneae
formae cursus ordinatos definiunt „ (lib. 2, cap. 40).
(3) Qui ricorre al pensiero il corpicciuolo cerebrale del Bonnet e l'atomo organico del Turlot.
(4) Virgilio ritrasse mirabilmente questo concetto pitagorico dell'anima universale nel sesto libro
dell' Eneide, versi 724 e seg.:
Principio coelum ac terras camposque liquentes,
Lucentemque globum lunae, titaniaque astra
Spiritus intus alit, totamque infusa per artus
Mens agitat molem, magnoque se corpore miscet.
Inde hominum, pecudumque genus, vitaeque volantum
Et quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus.
Igneus est illis vigor et caelestis origo
Seminibus
46 GIUSEPPE ALLIEVO
citare la loro virtù sull'organismo corporeo terreno (1). L'etere era dai pitagorici
contemplato siccome il principio animatore di tutti gli esseri viventi, ossia il corpo
sottile e fluido, che avvolge l'anima intelligente ossia la mente, era esso stesso un'anima
particolare, uno spirito distinto ad un tempo sia dalla mente, sia dal corpo grosso-
lano e terreno, in altri termini era il principio animatore dell'organismo corporeo (2).
Che esista davvero in natura quest'anima del mondo riposta dai pitagorici nella
materia eterea, incorruttibile, distinta ad un tempo dallo spirito intelligente e dalla
materia corporea corruttibile, è cosa assai discutibile. Essi però ben si apponevano
riguardando lo spirito ed il corpo siccome i due concetti supremi dominatori del
pensiero umano, inseparabili l'uno dall'altro, e tentarono di ravvicinarli mediante il
principio unitivo della materia eterea sottilissima senza materializzare lo spirito, ne
spiritualizzare la materia (3). Il problema della vita futura posa tutto quanto su questi
due grandi concetti e sul loro rapporto, ed ognuno sa le ardue difficoltà, che s'incon-
trano nel determinare in modo netto ed esatto la natura intima e costitutiva della
materia. Si suol definirla comunemente ciò, che cade sotto i nostri sensi, definizione
affatto insussistente sia perchè la materia potrebbe esistere anche nell'ipotesi, che
non esistessero i nostri sensi, e sia perchè i sensi fisici sono già essi stessi impli-
(1) A' dì nostri la scienza fisica ha ripigliato questo antico concetto dell'etere e lo va intima-
mente perscrutando coll'intendimento di comporre una teoria, la quale porga la ragione spiegativa
di tutti i fenomeni della luce, dell'elettricità e del calorico.
(2) Anche questo concetto riscontrasi con altro nome nella scienza moderna. Questa particella
di etere, questo corpo fluido, invisibile, involucro della nostra mente, è appunto ciò che i moderni
fisiologi appellano forza vitale, i psicologi anima animale, principio della sensitività e del movimento
spontaneo. Tutte le difficoltà, che la critica può muovere contro quel concetto antico, ricadono sulle
opinioni professate dai moderni su questo punto. Le due opposte scuole dell'animismo e del vitalismo
discutono fra di loro, se nell'umano soggetto l'anima animale e l'anima razionale rimangano essen-
zialmente distinte, o si confondano in una sola. Il principio animatore riposto dai pitagorici in un
sottilissimo fuoco presenta qualche aspetto di probabilità, essendoché il fuoco è luce e calore, senza
di cui non esiste vita corporea ed animale. L'organismo muore allorché il calore vitale lo abban-
dona e vi sottentra il freddo gelido della morte, la rigidità cadaverica
(3) L'accusa di materialismo mossa a moltissimi Padri e scrittori dei primi secoli dell'era cri-
stiana ebbe appunto origine dal diverso significato, in cui erano allora presi i vocaboli anima, corpo,
spirito, intelligenza. Origene scrisse essere proprio di Dio solo il poter essere concepito esistente
senza sostanza materiale, scevro di ogni involucro corporeo ')• San Giustino asserisce, che se noi
chiamiamo Dio incorporeo, non è già che tale sia in realtà, ma perchè usiamo appropriare certi
nomi a certe cose. Lattanzio ed Arnobio professavano la materialità dell'anima, e S. Agostino sostiene
che gli angeli sono congiunti con corpi diversi dai nostri e Claudiano Mamerto è dello stesso avviso 2).
S. Ilario vescovo di Poitiers, Giovanni vescovo di Tessalonica, S. Gregorio Nazianzeno 3), S. Am-
brogio *) opinano che Dio solo è affatto immateriale , incorporeo , non così gli angeli , le anime, i
demoni. Secondo Metodio s) gli angeli posseggono una sostanza formata d'aria pura e di fuoco, che
niente ha della natura terrestre. Scrive Macario 6) che " l'angelo, l'anima, il demonio, considerati
nella loro sussistenza, figura ed immagine, sono corpi sottili, siccome la nostra sussistenza consiste
in un corpo grosso „.
') De princip., lib. I, cap. 6.
2) De staiu animae, 1. III.
3) Orat., 37.
' De Abraham, II, e. 8.
') Apud Photium, cod. 234.
e) Homilìa IV.
LA VITA OLTREMONDANA 47
cati nella materia, sicché quella definizione si risolverebbe in quest'altra: materia è
ciò, che cade sotto la materia. Altri la definiscono il complesso dei corpi componenti
l'universo visibile; ma forsechè l'universo visibile non è sinonimo di universo mate-
riale? Anche qui adunque abbiamo una definizione tautologica. Inoltre giova avver-
tire, che i corpi particolari, sebbene specificamente distinti gli uni dagli altri, hanno
qualità comuni, per cui rientrano tutti nella categoria di materia. Ora in che risiede
questa qualità a tutti comunissima di materia? Ecco quello, che la definizione doveva
chiarire e che lascia nell'oscurità. Cartesio e Spinoza hanno preteso di determinare
l'essenza della materia definendola una sostanza estesa. È una definizione, che esprime
qualche cosa di positivo, ma va incontro a due problemi insolubili. Primamente la
materia essendo estesa importa divisibilità : ora è essa divisibile all'infinito, oppure
si risolve in atomi inestesi, in punti indivisibili? E in questo secondo caso, come mai
l'inesteso può formare l'esteso? Secondamente, l'estensione, ossia lo spazio è tutto
quanto occupato da materia, oppure si danno parti dello spazio affatto vuote? Il con-
cetto dello spirito presenta assai meno difficoltà che la materia perchè sorge spon-
taneo dalla osservazione interiore. Infatti la coscienza psicologica ci attesta, che esiste
in noi un principio, il quale intende e vuole, ossia che il nostro io è una sostanza
formata di intelligenza conoscitiva e di attività volontaria la quale appunto denomi-
niamo spirito. Sembra cosa naturalissima, che allo spirito riesca più agevole inten-
dere se stesso, che ciò, che non è lui, vale a dire la materia.
48 GIUSEPPE ALLIEVO
IL PROBLEMA ESAMINATO IN SE STESSO
Sin qui abbiamo contemplato il problema della nostra esistenza oltremondana
attraverso la mente dei pensatori, che lo hanno studiato, chiamando a rassegna cri-
tica le differenti classi di sistemi, che lo riguardano. Ora dobbiamo far passo dal
campo storico al campo speculativo disaminando il problema in se stesso; ed anzi
tutto occorre ricercare le condizioni richieste per la nostra esistenza oltremondana
e determinare il processo metodico conveniente alla risoluzione del problema.
Condizioni dell'esistenza oltremondana.
Queste condizioni devono scaturire dalla natura medesima dell'io umano, il quale
passa dalla esistenza presente alla futura. Ora l'essenza costitutiva del nostro io ri-
siede nella personalità: è una sostanza individua fornita di intelligenza e di libera
volontà, conscia di se ed arbitra del proprio operare, vitalmente congiunta con un
organismo corporeo. Quindi nella sua esistenza oltremondana deve conservare la sua
personalità individuale: ecco la prima condizione. La dottrina panteistica di qualunque
specie essa sia, non può logicamente ammettere l'esistenza oltremondana, propriamente
intesa, siccome quella, che spoglia l'io umano della sua individualità personale assor-
bendolo nell'essenza infinita dell'Assoluto. L'io possiede la coscienza di se medesimo,
per cui sa di essere personalmente identico con se stesso attraverso lo sviluppo
successivo della sua vita; di qui sorge una seconda condizione: egli conserverà la
memoria della sua vita passata, la quale si compenetrerà intimamente colla sua vita
futura. Anche la nostra esistenza attuale è un tutto indisgiunto e continuo, in cui
il presente s'intreccia col passato e s'inanella coll'avvenire. Togliete ad un uomo
la memoria di ciò, che fu ; egli non è più lui, è per così dire una nuova persona, che
comincia in questo punto la sua esistenza. Interrogando il nostro passato, talvolta
non vediamo che rovine sui nostri passi; rimaniamo sgomentati osservando che tutto
passa, tutto è fugace in noi ed intorno a noi. Ciò nullameno il nostro passato ci sta
incancellabile davanti al pensiero, e rivive col nostro presente, si fonde nel nostro
avvenire. Noi non rivivremo lassù se non a condizione che ci ricordiamo d'aver vis-
suto quaggiù.
Pierre Leroux nella sua opera De l'humanité muovendo dal principio che la nostra
identità, la nostra personalità, il nostro io non risulta dalla memoria, deride coloro,
i quali asseriscono che io non sarò più io, se non mi ricordo più, e pretendono che
per credere alla vita futura, loro si dimostri che portano con se nell'altro mondo
tutto l'attuale bagaglio dei loro ricordi e delle loro manifestazioni. " Quest'idea (egli
scrive) che costoro si fanno della vita futura, è presa non dall'essenza della vita, ma
LA VITA OLTREMONDANA 49
dalle sue manifestazioni. Voi rimarrete tanto più voi medesimi, quanto più vi ricor-
derete meno... Una tale persistenza delle nostre anteriori manifestazioni non accre-
scerebbe il nostro essere, ma lo opprimerebbe atrofizzandolo... Gli antichi erano assai
più nel vero col loro mito del fiume Lete... Noi esisteremo, noi ci ritroveremo. Ma
abbiamo noi per ciò bisogno di ricordare le nostre forme, le nostre esistenze ante-
riori? „. Questo passo dello scrittore francese ci suggerisce alcune considerazioni cri-
tiche relative all'argomento. Egli giudica erroneo il concetto della vita futura quando
sia attinto non già dall'essenza della vita, bensì dalle sue manifestazioni; ma forsechè
la vita non è una continua manifestazione di se medesima? In motu vita, dicevano gli
antichi: la vita è essenzialmente attività, discorrimento, sviluppo, come la morte è
immobilità assoluta. Che è il viver nostro? Amare ed odiare, volere e disvolere, spe-
rare e temere, soffrire e godere, pensare ed operare, ecco la vita nostra. Ora tutte
queste manifestazioni della nostra vita succedendosi le une alle altre ed intreccian-
dosi insieme costituiscono la storia del nostro passato e stampano un'impronta inde-
lebile nel nostro essere e questa impronta la portiamo con noi sulle soglie della nostra
esistenza oltremondana. Non è adunque erronea, come pretende l'autore, l'idea della
vita futura, presa dalle manifestazioni della vita, essendoché una vita, che non si
manifesti sotto nessuna forma, si converte nel nulla. A conferma di questa verità
giova riflettere, che le manifestazioni della vita non solo si succedono le une dopo
le altre, ma le seguenti conseguono dalle precedenti come altrettanti anelli formanti
una sola catena. Tutto il corso della nostra esistenza costituisce un'unità continuata
ed inscindibile per modo che se questo filo di continuità venisse spezzato, il
nostro essere medesimo cesserebbe di esistere. Non vi è interruzione, non distacco
tra la nostra infanzia, l'adolescenza, la gioventù, la virilità, la vecchiaia. Ognuno di
noi è di presente quale lo ha fatto il suo passato, e sarà quale va ora diventando
passo passo. Se adunque la vita è essenzialmente un ciclo, che si svolge senza inter-
ruzione di sorta, consegue che la nostra presente esistenza si addentella con vincolo
indissolubile colla futura, e l'autore, che ammette la seconda disgiunta dalla prima,
mostra di non avere un giusto concetto dell'essenza medesima della vita. Supponiamo
con lui, che nell'atto di porre il piede sulla soglia della vita futura io debba deporre
tutto il bagaglio de' miei ricordi e delle mie manifestazioni passate, sicché in me non
vi rimanga più nulla di quello, che fui, in tal caso che cosa sarei io mai? La mia
personalità sarebbe certamente scomparsa: ed in vece mia sorgerebbe un nuovo es-
sere, che spunta come per incanto dal nulla.
Scrive l'autore: " Voi rimarrete tanto più voi medesimi, quanto più vi ricorde-
rete meno „ ; e conchiude con queste parole: " Noi esisteremo, noi ci ritroveremo „.
Qui egli riconosce la personalità del nostro essere, e ad un tempo disconosce la facoltà
della memoria, che le è affatto essenziale. Il nostro io non sarebbe persona, se non
avesse la coscienza di sé, e della sua identità personale, per cui egli è consapevole
di rimanere sempre lui attraverso le fasi successive della sua esistenza. Egli non solo
vive, ma sa di vivere; non solo sente, pensa, vuole, ma sa che i pensieri, i senti-
menti, i voleri, tanto presenti, quanto passati, sono suoi, appartengono a lui. Spo-
gliatelo della ricordanza del suo passato, e voi gli avrete tolto la coscienza di se, e
quindi la sua natura personale, lo avrete confuso con le piante, col bruto, i quali
vivono e non sanno di vivere, non hanno consapevolezza della vita, che si va in essi
Serie II. Tomo LUI. 7
50 GIUSEPPE ALLIEVO
svolgendo. Ci ritroveremo, dice l'autore; ma come potremo ritrovar noi, se non sap-
piamo neanco di essere già stati, di avere vissuto? A che la natura ci avrebbe for-
niti della facoltà memorativa, se essa anziché contribuire al perfezionamento del nostro
essere, lo opprime e lo atrofizza? Senza il ricordo della nostra vita passata come si
giustifica la sanzione del premio e della pena, che accompagnerà la vita futura?
La ricordanza della vita passata siccome necessaria condizione dell'immortalità
dell'io venne implicitamente riconosciuta dallo stesso Lucrezio. Poniamo, egli dice,
che dopo morte gli atomi del nostro corpo venissero raccolti e ricomposti in quello
stesso ordine, che formava il nostro organismo primitivo sicché rivedessimo la luce
della vita, ciò non importerebbe punto a noi, dacché la morte ha spezzata la conti-
nuità delle nostre azioni e spenta la memoria di quel che fummo altra volta (1).
Mi sono di proposito indugiato su questo capitalissimo punto della coscienza di
sé e della ricordanza del passato, inseparabile dalla personalità umana, che è il con-
cetto fondamentale e dominante del problema dell'esistenza oltremondana. L'attività
della vita è anch'essa una delle condizioni necessarie, di cui facciamo parola, siccome
quella, che è proprietà essenziale della persona. In motti vita; quest'apoftegma vale
altresì per l'esistenza di oltre tomba. Se l'io rimanesse in uno stato di assopimento
universale e di immobilità assoluta, non sarebbe più vita la sua, bensì una inerte
incoscienza pari alla morte. Si può muover questione intorno il nuovo atteggiamento,
che prenderanno le umane potenze, intorno il grado ed il lavoro del loro progressivo
sviluppo, il maggiore o minore vigoreggiare delle une rispetto alle altre (2), ma il
loro operare non può venire impedito o sospeso, perchè necessario alla vitp dell'io
personale, che è di sua natura attività incessante e conscia di sé. Lo stato dell'anima
separata dal corpo fu dai gentili riguardato come un silenzio, una quiete, un riposo
assoluto, un sonno: così il sonno, che nella vita presente vien simboleggiato sotto
l'immagine della morte, sarebbe lo stato definitivo della vita futura. I morti dormono;
ma se la morte è un sonno, esso accenna alla sveglia.
Ogni vivente finito soggiace alle condizioni, del tempo e dello spazio. Anche la
vita futura importa un tempo, ossia una durata, per cui scorra, un luogo in cui si
svolga: ecco altra condizione, che viene ad aggiungersi a quelle accennate fin qui.
La storia delle credenze religiose e mitologiche ci presenta una moltiplicità svaria-
tissima di opinioni intorno al soggiorno de' trapassati, dai più reconditi luoghi del
globo, che noi abitiamo, sino alle più elevate regioni dello spazio celeste. La dottrina
egizia additava gli astri come finale e stabile dimora dell'anima, che abbia compiuta
(1) Nec, si materiam nostrani conlegerit aetas
Post obitum, rursumque redegerit, ut sita mino est,
Atque iterum nobis fuerint data lumina vitae,
Pertineat quicquam tamen ad nos id quoque factum,
Interrupta semel oum sit repetentia nostra.
{De rerum natura, lib. 3, versi 859-863).
(2) Il Bach nel suo opuscolo pubblicato a Rouen nel 1835 col titolo: De V ètat de V àme depuis
le jnur de la mori jusqu'à eelui dn jugement dernier d'apri» Dante et Saint Thomas, ha raffrontato fra
di loro la dottrina tomistica e l'opinione contenuta nella Divina Commedia intorno l'esercizio delle
potenze dell'anima nella vita futura. Anche il Lépicier nel capo secondo dell'opera superiormente
citata svolge quest'argomento in senso tomistico.
LA VITA OLTREMONDANA 51
la serie delle sue trasmigrazioni (1). I cuori cristiani collocano la sede dell'anima buona
in alto (il sursum corda) nel cielo, quella delle anime perdute in tasso nell'inferno.
Alcuni immaginano che l'anima eletta prima di giungere all'empireo, sede della Di-
vinità e della beatitudine, salga di sfera in sfera come per altrettanti gradini del-
l'immenso universo per giungere sino al Creatore. In generale poi la natura triste o
serena del soggiorno sta in corrispondenza coll'infelicità o colla beatitudine dell'anima,
conseguente dalla sanzione futura (2).
L'altra categoria del tempo o della durata riguarda più propriamente la san-
zione ed il miglioramento progressivo dell'anima, come si scorge segnatamente nei
periodi successivi della metempsicosi. La durata interminabile della vita futura
consegue per logica necessità dalla immortalità dell'io rigorosamente dimostrata.
Poiché questa immortalità riuscirebbe vana ed illusoria, quando nel corso dell'esistenza
oltremondana avvenisse un tempo, in cui la vita dell'io umano venisse a cessare, o
fosse mestieri che se ne ponesse nuovamente in sodo l'esistenza. Mentre il materia-
lista attribuisce l'eternità della durata al più piccolo atomo di materia, sarebbe
la più solenne stranezza che venisse negata allo spirito umano, il quale per eccel-
lenza di natura sorpassa quanti mai atomi di materia esistano o possano esistere in
tutto l'universo, e colla sua mente percorre l'immensità del tempo e dello spazio.
Processo metodico per lo scioglimento del problema.
La logica distingue due guise di processo metodico : l'uno muove dall' intima
natura delle cose, dalle proprietà necessarie, che ne costituiscono l'essenza, ed appel-
lasi metodo a priori, o razionale, l'altro esordisce dai fatti, che si svolgono dall'es-
senza propria di un essere, e si denomina a posteriori, od empirico. Il primo di questi
due procedimenti è universalmente seguito da quanti imprendono a dimostrare l'esi-
stenza della vita futura ; ma procedendo per questa via essi rimangono ad ogni passo
intricati in tali difficoltà e si trovano di fronte a tali controversie, che loro non
vien fatto di approdare a buon porto. Tutti partono dall'idea dell'anima umana ri-
guardata nella sua natura e nelle sue proprietà essenziali, e di qui intendono di ar-
gomentare la sua immortalità. Ma perchè separano fin dalle prime l'anima dell'uomo
dal suo organismo corporeo per proclamar immortale essa sola, mentre la vita del-
l'una e la vita dell'altro formano nell'unità dell'io umano un tutto indisgiungibile ?
Chi vi dà ragione di smembrare in tal modo la natura umana? Ecco già una diffi-
coltà, che si presenta.
(1) Il Maspero ne' suoi Étucles de mythologie et d'archeologie égyptiennes, I, 343, distingue tre
sorta di soggiorni de' morti secondo le credenze egiziane: 1° la vita della tomba, o sotterranea;
2° il paradiso, luogo al di là delle abitazioni degli- uomini al nord-est del Delta del Nilo; 3° il
viaggio del morto con Rà o Dio del sole intorno al mondo.
Leone Feer ha pubblicato una monografia intorno il soggiorno dei morti secondo le credenze
degli indiani e de' greci, nella Revue de l'histoire des religions, tomo 17, anno 1888.
(2) Intorno a questo punto scrisse il P. Casto Innocente Ansaldi nella sua opera pubblicata in
Torino l'anno 1775 col titolo: Saggio intorno alle immaginazioni ed alle rappresentazioni della felicità
somma; e nell'altra: Della speranza e della consolazione di rivedere i nostri cari morti nell'altra vita.
52 GIUSEPPE ALLIEVO
1. — Esame del processo metodico a priori.
Ma esaminiamo i punti di questo procedimento. — L'anima umana è una sostanza,
che forma un tutto da sé, distinto dal corpo. — No, vi risponde qui il materialista
arrestandovi al primo passo : l'anima non possiede una sostanzialità sua propria, ma
fa parte dell'organismo corporeo, è un risultato delle funzioni fisiologiche. Eccoci av-
viluppati nella gravissima questione del materialismo. Ma poniamo pure che abbiate
dimostrata la sostanziai distinzione tra l'anima ed il corpo : con ciò non avrete pro-
vata la vostra tesi, poiché da ciò, che l'anima è distinta dal corpo, consegue sol
questo, che essa può esistere anche senza di esso, ma non già che esisterà di fatto.
— L'anima è semplice di sua natura; ma tutto ciò, che è semplice, è incorruttibile
ed immortale ; dunque essa è immortale. — Questo ragionamento non ha maggior
valore del primo : a questa stregua anche l'anima sensitiva dei bruti, anche l'atomo,
anche il punto matematico sarebbero immortali. Dacché una sostanza é semplice, ne
viene che non può disfarsi in parti e corrompersi, ma punto non consegue che non
possa cessar di esistere. — Altra proprietà dell'anima umana è la sua virtù intellet-
tiva o facoltà di pensare e di conoscere. L'intelligenza umana (cosi si ragiona) ha
per essenziale oggetto la verità; ma la verità è di sua natura eterna ed imperitura;
dunque l'anima nostra essendo essenzialmente intellettiva, e quindi essenzialmente
unita alla verità, che è eterna, ha un' esistenza corrispondente, vai quanto dire inde-
fettibile, imperitura, immortale. La dimostrazione è speciosa ed appariscente, ma non
regge alla critica. Se l'anima nostra intelligente é fatta per pensare e conoscere la
verità, ciò vuol dire che finché esiste, di necessità intuirà il vero, ma io posso sup-
porre che essa cessi di esistere, e con tutto ciò non cesserà la verità, eterna di sua
natura, perchè vi sarà pur sempre l'intelligenza divina, la quale la abbraccia tutta
quanta e la comprende in sé. Così il mio occhio è fatto per vedere la luce, suo
essenziale oggetto, e finché esiste, continuerà a contemplarla; ma la luce non si
spegnerà, anche scomparso l'occhio mio e quello di tutti i viventi dotati del senso
visivo. Una dimostrazione consimile è quella di Platone, il quale partendo dal con-
cetto, che la natura dell'anima sta nell'essere un principio intrinseco di vita, di atti-
vità, di energia, per cui si muove per virtù sua propria, e non per un impulso
esteriore, ne argomenta che è immortale, perchè la vita non può perire. Platone non
ha avvertito che l'anima non esiste per sé, ma deve il suo principio di vita e di
attività all'Essere assoluto. Egli non ha punto dimostrato, che l'anima sia sempre
esistita e siasi sempre mossa per virtù sua propria: il suo movimento ha cominciato
colla, sua esistenza, e non è eterno.
Il concetto razionale della spiritualità dell'anima preso come fondamento della
dimostrazione della sua immortalità venne recentemente disaminato sotto un nuovo
aspetto da C. Piat nella sua opera Destinée de l'homme, pubblicata a Parigi nel 1898.
Egli riconosce che questa base di argomentazione posta nella spiritualità sembra
momentaneamente scossa e crede di raffermarla mediante il principio universale della
finalità, che è il fondamento supremo della biologia. Sotto questo punto di vista il
suo procedimento metodico apparisce razionale, essendoché il concetto teleologico ha
la sua prima origine dalla facoltà della ragione. Il suo lavoro mostra un'impronta
originale, per cui merita di esser preso in serio esame.
LA VITA OLTREMONDANA 53
" Il soggetto, che costituisce la nostra personalità, è esso radicalmente distinto
dalla materia, e se tale è in realtà, può ancora e pensare e volere lorchè si trova
allo stato separato ? „ In siffatti termini l'autore formola il problema della vita futura,
ed avvisa che riesca impossibile il risolverlo mediante la sola analisi ontologica dei
fenomeni interni e delle operazioni dell'anima. Egli divide il suo lavoro in tre parti,
nella prima delle quali segna i punti certi ed irrepugnabili, che presenta lo studio
dell'anima, nella seconda espone gli sbagli ed i traviamenti, in cui si incorre nella
discussione del problema, nella terza adduce le prove, su cui si appoggia la nostra
credenza nell'immortalità dell'anima. Esaminiamo anzi tutto i fenomeni interni, in cui
si manifesta la nostra attività mentale, quali sono i pensieri, le emozioni, i desiderii,
i voleri, e ci verrà dato di constatare, che essi non sono un movimento organico
della materia, ossia non sono ne estesi, ne divisibili in parti, ma semplici di loro na-
tura. Ecco un punto certo ed incontrastabile. Questi fenomeni interni si riuniscono
nel nostro io, a cui tutti appartengono, e che è perciò semplice ed uno, e permane
sempre identico a se stesso in mezzo a' suoi cangiamenti. Ecco un secondo punto
anch'esso certo ed inconcusso, quanto il primo. L'io manifesta la sua attività e vita
nei fenomeni interni del pensare e del conoscere, nel sentire e nel volere, ed anche
questa sua vita psicologica non è un movimento della materia, ma è tutta propria
di lui, sebbene egli rimanga unito coll'organismo corporeo, unito ma pur distinto.
Che se Io spirito umano ha la sua vita in se stesso, non ne consegue forse che
questa vita, la quale è tutta sua propria, possa conservarla anche quando è disfatto
l'organismo corporeo, con cui è attualmente congiunto ? No, risponde l'autore. I feno-
meni interni dei pensieri, delle emozioni e dei voleri, in cui si manifesta la vita del-
l'anima, dimostrano bensì, che essa è un soggetto semplice, uno, indivisibile, perma-
nente, ma non provano punto la sua spiritualità, sulla quale soltanto si fonda la sua
immortalità. Finche non avremo posto in sodo la spiritualità pura dell'anima, prove
salde e sicure della vita futura non ne avremo mai. S'ingannano a gran partito e
sbagliano la via tutti coloro, che s'ingegnano di ritrarre dai fenomeni interni del-
l'anima gli argomenti dimostrativi della sua spiritualità. Infatti se noi esaminiamo
quei fenomeni psicologici, che appellansi emozioni e passioni, noi scorgiamo sempre
in fondo alle medesime alcunché di ignoto, di inconscio, di inconoscibile, che non ci
consente di rilevare, se l'anima nostra sia radicalmente distinta da tutto il rimanente.
Esse non contengono verun indizio di spiritualità pura, assoluta, indipendente dalla
materia. Anche l'esame dei fenomeni intellettuali fallisce allo scopo. Infatti le idee
sono bensì eterne, universali, necessarie, ma per ciò appunto non appartengono a
nessuno in particolare, epperciò non attestano la personalità della vita futura, propria
di ciascuno di noi. L'intelligenza poi niente può pensare, niente conoscere senza l'in-
tervento delle percezioni corporee e de' fantasmi sensibili, epperò essendo vincolata
nel suo esercizio alle funzioni cerebrali dell'organismo non ci consente di penetrare
nell'intimo fondo dell'anima a fine di rilevare se la sua spiritualità sia assolutamente
pura, e radicalmente distinta ed indipendente dalla materia. Arroge che lo sviluppo
della nostra intelligenza non solo dipende dalla sensibilità fisica, ma varia secondo
il variar dell'età, si risente delle fatiche del pensiero, e può crescere o scemare di
vigoria all'indefinito. Come l'analisi delle passioni e delle idee, cosi quella della libertà
mostrasi impotente a stabilire la spiritualità dell'anima umana. Del nostro libero
54 GIUSEPPE ALLIEVO
operare noi non possediamo che una conoscenza incompiuta, e la nostra coscienza
mai non può comprenderlo in tutta la sua interezza. Così apparisce errato il nostro
calcolo, avendo noi ricercate le prove della spiritualità dell'anima nei fatti interni
delle passioni, delle idee, della libera volontà; ma dal canto suo anche il materia-
lismo non ha prove salde e convincenti contro l'immortalità.
Che rimane a fare ? Allo spiritualismo rimane aperta una nuova via per giungere
all'intento, ed è il principio di finalità, su cui si fonda tutta quanta la biologia. E
legge suprema direttiva di tutti gli esseri viventi e quindi anche dell'uomo questa,
che ogni funzione vitale è acconciata all'ambiente; non si dà funzione biologica, che
non abbia il suo punto correlativo nella realtà. Alla luce di questa legge teleologica
occorre scandagliare gli intimi penetrali dell'anima e ricercare se vi sia alcunché,
che trascenda la sua vita psicologica ordinaria e riveli la sua spiritualità pura e
sciolta da ogni vincolo col suo materiale organismo, occorre ricercare se tra le fun-
zioni vitali dell'anima ve ne siano alcune così elevate e trascendenti, che non rin-
vengono quaggiù il loro naturale ed adequato oggetto, e che perciò in virtù della
legge di finalità esigono un aldilà oltremondano, che loro corrisponda, una vita futura.
Or bene esaminiamo la vita razionale dell'anima, e qui ci troveremo le prove della
sua spiritualità pura, della sua immortalità. Il nostro pensiero non rimane circoscritto
in un punto del tempo e dello spazio, ma si muove nell'eterno, nell'immenso, nell'in-
finito ; dunque non raggiunge il suo ideale nell'ambiente passeggiero della vita pre-
sente, ma è ordinato ad una durata infinita. Come il pensiero, così anche il cuore
esige un' altra vita, che corrisponda alle sue aspirazioni, poiché sente profondamente
la vanità di tutte le cose e concepisce l'universo come insufficiente alle sue brame.
Anche la vita operativa dell'anima può trovare soltanto nel concetto della vita futura
lo scopo, a cui è ordinata, le norme, che la dirigono, i mezzi pratici, che le occor-
rono per raggiungere l'ideale del dovere. Così la credenza spiritualistica nell'immor-
talità posa su prove, che posseggono la stessa certezza delle leggi della scienza spe-
rimentale, vale a dire sul principio biologico della finalità.
L'opera dell'autore presenta non pochi cospicui pregi, concetti nuovi e originali,
parecchi punti di psicologia sono contemplati con larghezza di vedute, discorsi con
vigore di ragionamento, esaminati con analisi acuta e profonda. È poi sopratutto
lodevole il suo intendimento di ricercare un nuovo fondamento alla dimostrazione
dell'esistenza oltremondana. Tutto il suo lavoro posa su due punti dominanti: il con-
cetto della spiritualità ed il principio di finalità, e su questi due punti raccoglierò
il mio esame critico. Dal tenore medesimo, con cui ha formolato il problema, appa-
risce che per lui l'anima umana non avrà un'esistenza oltremondana se non a con-
dizione che diventi uno spirito puro, sciolto affatto da ogni organismo corporeo, una
natura schiettamente angelica. Ciò non è conforme a verità, perchè l'anima umana
avrebbe cambiata natura o la sua vita futura non sarebbe più la continuazione della
presente, ma specificamente diversa dalla vita umana. Egli considera l'organismo
corporeo siccome contrario ed opposto alla vita dello spirito, e citando la sentenza
di S. Tommaso (1), che " perfectio animae consistit in abstractione quadam a corpore „,
ripone l'ideale della perfezione umana nella libertà dello spirito, il quale è svincolato
(1) S. philos., II, 79, 325.
LA VITA OLTREMONDANA ÓÒ
dai legami materiali in cui si trova inceppato per vivere in sé e per se e rinchiu-
dersi nel mondo intelligibile. Se così fosse, andrebbe incolpata la natura, che ha
creato l'uomo in contrasto ed antagonismo con se medesimo. L'autore deplora che
lo spirito sia schiavo dei sensi ed esalta lo spirito libero e puro, che non ha più di
che lottare colla materia. Ma forsechè lo spirito umano è di sua natura condannato
alla schiavitù dei sensi? Forsechè la sua eccellente e sublime libertà non si manifesta
appunto nel tenerli soggetti al suo impero ed adoperarli in servizio del suo perfe-
zionamento? Mediante il senso visivo lo spirito percepisce le forme svariatissime degli
oggetti, la bellezza delle persone e delle cose, la specie infinita degli esseri viventi ;
coll'udito sente le armonie de' suoni e la potenza della parola umana ; colla voce
manifesta il suo mondo interiore; colla mano lavora la materia e trasforma l'uni-
verso circostante ; mediante il ministero de' sensi le anime umane s'intendono, si
associano, convivono insieme, e la persona umana mostra in sé alcunché di angelico
e di divino, allorché sacrifica le sue passioni, i piaceri della vita, le voluttà de' sensi
ad un sublime e santo ideale.
L'autore ci pone sott'occhio lo spirito schiavo de' sensi, tiranneggiato da ignobili
passioni : noi gli opponiamo il martire, che versa il sangue per il trionfo di un prin-
cipio divino, l'anacoreta del deserto, che mortifica la carne, ma ha occhi per guardare
al cielo, lingua per inneggiare al suo Dio. No, uno spirito puro non è uno spirito
umano: calpestando il mondo della materia, voi vi smarrite in un aereo idealismo e
siete uscito fuori del mondo dell'umanità.
L'avere scambiato lo spirito propriamente umano con uno spirito essenzialmente
puro e separato fu cagione, per cui nella dimostrazione della spiritualità dell'anima
l'autore tenne un procedimento tortuoso, che fallisce allo scopo. Egli mal si appone
sostenendo che dall'analisi de' fatti psicologici si argomenta bensì la semplicità del-
l'anima umana, non però la sua spiritualità. Poiché i costitutivi dello spirito, di qua-
lunque specie esso sia, sono l'intelligenza pensante e l'attività volontaria: e questi
due costitutivi egli stesso li aveva rilevati nell'esame che fece de' fenomeni interni
psicologici. Immaginandosi che questa supposta spiritualità pura e separata non po-
tesse dimorare altrove che in una parte recondita ed arcana dell'anima, egli si pose
a ricercarla in un alcunché, che trascende la vita psicologica, scisso affatto dalla ma-
teria, mentre nell' io umano, di cui abbiamo coscienza, i fenomeni interni più sem-
plici ed umili si svolgono insieme implicati co' più complessi e sublimi e se si tra-
scende la sfera della coscienza si cade nel vuoto. Il fatto è, che l'autore ricercando
gli indizi della spiritualità fu costi-etto a rintracciarli in quell'analisi medesima dei
fenomeni psicologici, che aveva rigettata siccome insufficiente all'uopo, essendoché
quelle supreme ed elevate forme dell'attività dell'anima, in cui scorge gli indizi della
spiritualità, si svolgono dal pensiero e dalla libera volontà insieme colle forme infe-
riori della sensitività animale.
Parve all'autore di avere posta sopra una base salda la dimostrazione dell'im-
mortalità dell'anima fondandola sul principio biologico della finalità, in vn-tù del quale
le forme spirituali dell'attività psichica non ritrovando nella realtà presente terrena
il loro corrispondente oggetto, esigono un al di là oltremondano, in cui si svolgano.
Ma anzi tutto questa legge di finalità verrebbe qui ad essere dimezzata, anziché ri-
conosciuta nella sua integrità, essendoché essa importa una effettiva corrispondenza
56 GIUSEPPE ALLIEVO
delle funzioni vitali col loro ambiente, e quindi la loro simultanea esistenza, mentre
nel caso nostro le forme spirituali della vita dell'anima già esisterebbero quaggiù,
pur non avendo ancora nella realtà presente il loro corrispondente oggetto. Oltre di
che l'autore ha preso dalla biologia il principio di finalità, che è tutto proprio dei
viventi, organici o materiali, intorno ai quali si travagliano le scienze fisiologiche e
sperimentali, e lo ha applicato alla psicologia. Ma ognun vede quanto e qual pro-
fondo divario ci corra tra le funzioni vitali proprie degli esseri organici e le funzioni
spirituali proprie dell'anima, tra l'ambiente materiale proprio degli uni ed il mondo
ideale proprio dell'altra. Toccava quindi all'autore il proporre e risolvere il dubbio, se
il principio biologico della finalità, senza perdere punto il suo valore, possa applicarsi
alla vita spirituale dell'anima umana.
2. — Esame dei fatti psicologici attinenti alla vita futura.
Due opposte vie, abbiamo detto, si affacciano a chi tenta lo scioglimento del
problema della vita futura: luna esordisce dal concetto razionale della natura del-
l'anima, l'altra da certi fenomeni speciali, in cui si manifesta la vita psicologica. La
prima di queste due vie ci apparve malsicura e fallisce allo scopo. Ci rimane la via
del procedimento empirico ; ma qui occorre notare che l'esperienza segna soltanto il
punto di mossa del nostro studio ; essa ci ammannisce i fatti psicologici, i quali, esa-
minati da prima in se stessi, poi contemplati nelle loro supreme ragioni, ci guidano
alla meta.
Fra i fenomeni interni, che si rivelano alla nostra coscienza, va segnalata la
tendenza, che proviamo, a persistere senza mai fine nella nostra esistenza personale,
e che potrebbe propriamente denominarsi istinto dell'immortalità. Noi ci teniamo
avviticchiati alla vita con una tenacità veramente indestruttibile, e per ciò appunto
abborriamo la morte, abbiamo in orrore la distruzione, il nulla. Quest'istinto dell'im-
mortalità è tutto proprio della natura umana, e non va confuso coll'istinto fisico
della propria conservazione, che è comune anche ai bruti, poiché il bruto non sa la
misura del tempo, ignora il suo dimani, mentre l'istinto dell'immortalità importa
l'idea di una durata senza fine alla quale s'innalza il pensiero umano, che concepisce
l'eternità dell'essere e l'assurdità di un nullismo. Il bruto non solo vive alla giornata
ignorando lo scorrere successivo del tempo, ma muore pur non sapendo che cosa sia
il morire, mentre l'uomo possiede un concetto dell'immortalità e della morte, e questo
concetto attesta già di per se la persistenza del suo essere, poiché l'idea d'immor-
talità supera l'apprensiva di una natura mortale (1). Per tal guisa l'istinto dell'im-
mortalità fa parte della natura razionale dell'uomo e riveste un carattere religioso,
perchè trova la sua ragione suprema nell'eternità di Dio: di qui si spiega il perchè
la morte ci inspira orrore ; tanto ci pare ripugnante che la divina eccellenza della
nostra persona vada a finire nel nulla. Inoltre giova aggiungere che l'istinto, di cui
facciamo parola, non' solo ha una natura razionale, che essenzialmente lo differenzia
dall'istinto della conservazione animale, ma altresì è universale e costante, giacché
non si manifesta soltanto in alcune nature privilegiate ed in alcuni singolari momenti
della vita, ma si fa sentire in tutte le umane coscienze, in tutti i tempi e luoghi,
(1) " Nulli naturae mortali natura immortalis cognita est „ (Sallustio, De diis et mando, eap. Vili).
LA VITA OLTREMONDANA
57
tanto negli uomini grandi che colla potenza del genio cercano l'immortalità della
fama colle stupende creazioni della scienza e dell'arte, quanto nelle anime comuni e
modeste, che hanno cura del loro buon nome.
Plutarco nel suo opuscolo Che non si può vivere felicemente seguendo la dottrina
di Epicuro, pone in luce questo fatto psicologico, che di tutte le nostre affezioni, di
tutti i nostri desiderii, di tutti i nostri istinti il più antico, il più persistente, il più
vivo è il desiderio di essere. Il non esistere è per tutti gli uomini uno stato contro
natura. Questo concetto di Plutarco è confortato dal racconto biblico del fallo del-
l'uomo primo, che fu dannato alla morte perchè peccò contro Dio e contro la legge
della vita, sicché non la morte, ma l'immortalità era conforme all'ordine delle cose.
Il racconto biblico riapparve sotto forma mitica nella credenza religiosa dei popoli
ancora incivili ed incolti, i quali reputavano che lo stato originario ed incorrotto
dell'uomo primitivo escludeva la morte.
Se non che questo amore persistente della vita soggiace quaggiù a durissime
prove, che lo scuotono nel suo intimo fondo. Se noi volgiamo lo sguardo fuori di
noi, scorgiamo che in tutta quanta la natura animata accanto alla legge della vita
domina la legge della morte. Tutto ciò, che nasce, perisce, tutto ciò, che sorge al-
l'esistenza, tramonta; tutto ciò, che si forma, si disfà e scompare; niente rimane
stabile nel proprio essere, tutto si distrugge. Se entriamo in noi stessi, rimaniamo
sgomentati delle ruine accumulate sul nostro passato. Il tempo affievolisce i nostri
sentimenti, scolorisce le nostre immagini, scrolla i nostri più saldi propositi, sparge
l'obblìo sui nostri più cari affetti, che credevamo eterni, sicché la nostra esistenza
ci diventa quasi indifferente ed ignobile. Di fronte a sì desolante spettacolo l'istinto
della nostra immortalità rimane profondamente scosso, e ci domandiamo: se tutto
corre alla distruzione, rimarrò io incolume in mezzo alla ruina universale, oppure
anche per me verrà giorno in cui tutto sarà finito per me?
Il desiderio della felicità è un altro fatto psicologico, che si presenta al nostro
esame ed ha un' intima attinenza colla vita futura. Questo desiderio vien dal cuore
ed ha per forma l'amore. La felicità è il riposo imperturbabile del cuore nel possesso
dell'oggetto amato. Il cuore cerca la felicità amando le persone e le cose, amando
la gloria, la scienza, l'arte, amando la famiglia, la patria, l'umanità, Dio; e il suo
amore può essere più o meno potente, può essere una soave e subitanea emozione,
una passione, un entusiasmo, un' estasi. Ma qualunque siasi l'oggetto che si ama ed
il grado dell'amore, questo desiderio della felicità ha una natura razionale tutta propria
dell'uomo, per cui essenzialmente si dispaia dalla cieca e sensuale felicità comune
ai bruti, in quella guisa che l'istinto dell'immortalità si differenzia dall'istinto ani-
male della propria conservazione. Poiché la felicità, a cui aspira il cuore umano, è
illuminata dall'intelletto, che gli rivela l'amabilità degli esseri dalle creature finite
sino all'infinità di Dio. Ma anche questo desiderio della felicità soggiace ad aspris-
sime lotte, che lo convertono in un vero tormento. L'amore è sempre inseparabile
dal dolore, e non vi ha anima umana, che non provi di quando in quando più o men
vivo il sentimento dell'infelicità propria. Una forza ignota ed insuperabile ci rapisce
l'uri dopo l'altro gli oggetti, su cui posava il cuore, ed alla felicità vi succede una
serie di disinganni e di sconforti. Talvolta il cuore medesimo per una certa quale
mutabilità ed irrequietezza insita in lui sente inconsciamente languire l'affetto, che
Serie U. Tom. LUI. 8
58 GIUSEPPE ALLIEVO
nutriva verso una creatura, la quale gli diventa pressoché indifferente, mentre da
prima era il suo paradiso. Che più? L'amore stesso di Dio, che arde in alcune anime
sante, ha dei periodi di languore e di sconforto, che tocca la disperazione. In mezzo
a tanti amori contrastati, a tante lotte del cuore noi siamo portati a dimandarci :
o felicità, che tu non sii altro che un vano fantasma, un' atroce derisione?
Accanto all'istinto dell'immortalità ed al. desiderio della felicità sta l'amore della
verità e la brama incessante di conoscerla e possederla tutta quanta, in tutta la sua
immensità. Il nostro intelletto va continuamente scrutando la ragion delle cose, aspira
a comprendere la realtà tutta quanta, avanza di cognizione in cognizione, e mai non
si arresta, mai non si sazia, se il Ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si
spazia (1). Per certo non abbiamo tutti una pari energia intellettiva, ne la medesima
indole e tempra d'ingegno; epperò nell'immensa distesa delle cose conoscibili chi ri-
volge l'occhio della mente sovra un punto e chi sopra un altro, come pure vi ha chi
si sofferma col pensiero ad un dato segno e chi si spinge più oltre assai. Quale smi-
surata distanza tra il genio filosofico di Platone ed il semplice buon senso di un po-
polano! Pur tuttavia in mezzo a tanta disparità di menti l'istinto del sapere si fa
sentire in tutte le intelligenze umane, e ciascuna nell'ordine suo prosegue la sua via
senza mai intravederne il termine ; più se ne sa, e più se ne vorrebbe sapere, giacche
nel mondo intelligibile rimane sempre alcunché di nuovo e di inesplorato, e la novità
di sua natura esercita un' attrattiva sul pensiero e suscita la curiosità del conoscere.
Ma la verità è pur sempre l'aspirazione suprema ed incessante dell'umano intelletto :
non si pensa unicamente per pensare; non ci appaga un conoscere quale che siasi;
l'istinto del sapere ci porta a conoscere le cose non già alterate e contrafatte, ma
quali sono realmente in se stesse, vai quanto a conoscere il vero, giacché la verità
è per appunto quello, che è.
Ma la nostra intelligenza raggiunge essa sempre la pura e schietta verità, a cui
naturalmente aspira e la raggiunge tutta, quanta è nel suo costante desiderio ? Anche
qui l'esperienza ci risponde, che la nostra potenza intellettiva si trova di fronte a
forze nemiche ed ineluttabili, che le contrastano il cammino. Il traviamento e l'aber-
razione dei sensi fisici esterni, la prepotenza delle passioni, l'intemperanza dell'im-
maginazione non solo rendono faticosa all'intelletto la conquista della verità, ma lo
travolgono in un labirinto di errori alterando la schietta realtà delle cose. Fu agitata
la questione, se nella vita umana prevalgano le gioie od i dolori; si potrebbe qui
ricercare, se sia maggiore o minore il numero delle conoscenze vere di fronte alle
erronee. Sentenziava Democrito che la verità è in un pozzo; vai quanto dire che
non sempre si riesce a trarla fuori alla luce del giorno in mezzo all'acciecamento
delle passioni, alle lusinghe de' sensi, al contrasto delle opinioni. Né soltanto il volgo
è avviluppato in errori di ogni sorta, che talfiata rendono raro perfino quel senso,
che appellasi senso comune, ma anche la storia dell'umano sapere accanto alla sco-
perta di belle e grandi verità ci presenta un perpetuo conflitto di sistemi e di dot-
trine, che compaiono e scompaiono distruggendosi a vicenda, e sulle loro rovine si
innalza lo scetticismo, che grida protervo: la verità è una chimera. Alle opinioni
instabili ed ai sistemi erronei vengono ad aggiungersi i tanti problemi insolubili,
(1) Dante, Divitut Commedia, Parad., canto 4°, vers. 124-126.
LA VITA OLTREMONDANA 59
giacché nell'intimo fondo di tutte le cose giace un mistero indecifrabile, come la
sfinge egizia, che intima alla ragione: non muovere un passo più in là. In conclusione,
la natura ha posto nell'intelligenza umana una brama insaziabile di tutto conoscere,
tutto sapere, ed invece della verità pura e compiuta, a cui aspira, essa non vede
che un impercettibile punto luminoso, che riluce in mezzo a dense tenebre universali.
Il Vero, oggetto dell'intelligenza, è indisgiungibile dal Buono, oggetto della vo-
lontà, giacché la verità conosciuta viene tradotta in atto mediante la libera attività.
Quindi ci si presenta un quarto fatto psicologico attinente alla vita futura, ed è l'aspi-
razione continua dell'anima al possesso dell'ideale morale mediante l'adempimento
del dovere ed il culto della virtù. L'uomo vagheggia quest'ideale della sua perfe-
zione, scorge nel dovere alcunché di divino, che a sé lo attrae, ammira la virtù sic-
come il titolo più sublime della dignità umana, e la esalta al di sopra della scienza,
dell'arte, di ogni altro bene umano. " Virtus clara, aeternaque habetur „ (1). Quest'ideale
costa sacrificii, il dovere è inconciliabile cogli ignobili istinti e colle turpi passioni,
e l'uomo combatte, ma la sua lotta è un'alternata vicenda di trionfi e di sconfitte, di
generosi propositi e di infelici ricadute, e l'ideale vagheggiato non lo raggiunge mai;
che anzi quest'ideale più di una volta si eclissa davanti a' suoi occhi; egli si scon-
forta pensando che il giusto è oppresso, l'iniquo trionfa, e che anche la virtù, questo
bene divino acquistato con tanta fatica, si può perdere da un giorno all'altro, e sta
per rinunciare alla lotta, come se una forza bruta, arcana, insuperabile trascini dietro
a sé tutti i voleri umani cancellando ogni divario tra la virtù ed il vizio. " 0 virtù
(esclamava Bruto morente), non sei tu altro che un nome vano? „. Così anche quest'aspi-
razione dell'anima verso il suo ideale morale patisce una disdetta, tende ad esso con
incessante sforzo e non lo raggiunge mai.
Abbiamo preso ad esame quattro specie di fatti psicologici, i quali si collegano
col problema dell'esistenza oltremondana: l'istinto dell'immortalità, il desiderio della
felicità, la brama della verità, l'aspirazione all'ideale morale. Per dare a questo studio
la maggior compitezza possibile occorre contemplare altri fatti, che ci somministra
non più la psicologia individuale, ma la psicologia sociale, e che hanno cogli altri una
intima corrispondenza: così i due esami si rinforzano e si compiono a vicenda.
La storia dell'umanità è unanime nell'attestare, che tutte le genti umane e an-
tiche e moderne, e barbare e civili professarono il dogma dell'immortalità dell'anima,
e che questo dogma fa parte delle credenze religiose di tutti i popoli (2) insieme con
quello dell'esistenza di Dio. Dio esiste; l'anima è immortale; ecco i due cardini fon-
damentali della religione universale, la sostanza delle credenze religiose in mezzo alle
loro svariatissime forme. Qui ci ristringiamo a constatare il fatto storico lasciando
da banda le forme diverse che ha rivestito questa credenza, quale sarebbe la me-
tempsicosi. Questa fede di tutti i popoli nell'immortalità è confermata da un altro
(1) Sallustio, Catilinaria, 1.
(2) Si consultino all'uopo Strabone, Rerum geograph., 1. 15, pag. 7, 15; Diodobo Siculo, lib. V,
n" 212, pag. 13; Psello presso Stanleio, Hist. phil., t. 2, p. 1128; Giulio Cesare, De bello gallico,
lib. Ili; Plutarco, De orami, defeclu, dove scrive: " Tutti i misteri hanno rapporto colla vita futura
e collo stato delle anime dopo la morte „; Valerio Massimo, lib. IT, cap. 6; Erodoto, lib. V, num. 1;
Pellout, Storia dei Celti, t. 11, cap. 18; Ugo Grozio, De verit. relig. christ., e. 1, 1. 2; Ranieri, Storia
generale delle cerimonie, usanze e costumi religiosi di tutti i popoli del inondo, t. 5.
gQ GIUSEPPE ALLIEVO
fatto di psicologia sociale, quale è la cura delle sepolture ed il culto dei morti. Un
corpo umano fatto cadavere ha per noi alcunché di sacro e ci inspira una pia rive-
renza, perchè fu la dimora di un'anima, che non è morta con esso. A questi consen-
timenti del genere umano nella credenza dell'immortalità fa bella corrispondenza il
consenso degli antichi poeti e filosofi. Omero, Esiodo, Pindaro ci ritraggono le anime
giuste dei trapassati, che vegliano sulle sorti dei viventi. Talete, Pitagora, Socrate,
Platone, Cicerone. Seneca ci lasciarono nei loro lavori filosofici meditazioni profonde
intorno all'esistenza oltremondana.
Abbiamo esaminati in se stessi i fatti psicologici attinenti alla vita futura e
siamo giunti a questa conclusione finale : esiste un profondo conflitto, una dura con-
traddizione tra l'istinto dell'immortalità ed il fenomeno universale della morte, tra
il desiderio della felicità ed il dolore, tra la brama insaziabile della verità e l'errore
ed il mistero, tra l'ideale morale e la corruzione e l'impotenza a raggiungerlo. Ora
dobbiamo passare alla parte critica e razionale del nostro studio, ricercare il come
possa risolversi questo conflitto, dimandare se esso sia conforme all'ordine universal
delle cose, sia rispondente alla ragion divina.
L'istinto dell' immortalità è radicato in noi dalla mano medesima della natura,
epperciò la morte, ossia l'annientamento della nostra persona, la distruzione del nostro
io non può essere negli intendimenti della natura, non può entrare nel disegno prov-
videnziale di Dio, perchè è un disordine, e perchè noi medesimi troviamo ripugnante,
che la nostra mente, la quale per l'eccellenza della sua natura percorre tutto l'uni-
verso e spazia nell'infinito, vada a finire nel nulla. Se si ammette la Provvidenza di-
vina, necessita ammettere altresì una vita futura in cui l'istinto dell'immortalità abbia
il suo adempimento. Tolta l'immortalità, riesce inutile la Provvidenza. " Inutilis
est Providentiae doctrina, sublata animae immortalitate (1) „ ; e Rousseau nella Pro-
fessione di fede del Vicario savoiardo lasciò scritto: " Se l'anima è immateriale,
può sopravvivere al corpo; e se gli sopravvive, la Provvidenza è giustificata „. Quindi
si scorge come nelle credenze religiose dell'umanità i due concetti dell'esistenza di
Dio e dell'immortalità dell'anima siano inseparabili e ne costituiscano l'intima sostanza.
I materialisti e gli atei, essi soltanto, possono rigettare l'immortalità dell'io umano e
rifugiarsi nel nulla; e sono logici, poiché negata l'eternità di un Dio personale, riesce
impossibile l'immortale durata degli spiriti umani, e ridotto tutto l'uomo a pura ma-
teria, la sua individualità scompare col dissolversi dell'organismo. Costoro sostengono
l'immortalità del genere umano, ma non quella dei singoli individui, e sentenziano
che i singoli uomini debbono scomparire gli uni dopo gli altri affinchè si conservi
perpetua la specie umana, mentre in realtà non sussistono che individui e la specie
è una mera astrazione. Questa dottrina del nullismo professa con un'audacia, che
tocca il cinismo, un seguace di Hegel, Luigi Feuerbach, che trasse il materialismo
dal sistema del suo maestro. " Nulla adunque (egli scrive) dopo la morte? Nulla! Né
questo debbe punto sorprendervi: giacché se vivendo siete stati tutto, giusto è che
siate nulla dopo la vita. Mentre l'uomo è mortale, il genere umano non lo è. Voi
uscirete una volta dal mondo della coscienza umana ed altri vi entreranno, a persone
succederanno persone, né il genere umano soffrirà per la scomparsa vostra e di chiunque
(1) Leibnitz, Epistola ad Bierling responsio ad epist. XII.
LA VITA OLTREMONDANA 61
altri. Io non ambisco di andare ad incontrare Socrate, Carlo Magno o S. Agostino nel
regno delle ombre, e preferisco immergermi nel nulla, giacche l'azione morale e ma-
teriale di tutta la mia vita ha finito per istancarmi (1); lasciatemi dormire in pace
il sonno eterno. Io discendo nel nulla, ma nel tempo stesso un altro uomo entra nel
mondo (2) a surrogarmi , (3).
Le altre contraddizioni, che si riscontrano nel mondo psicologico della coscienza,
tra il desiderio della felicità ed il dolore, tra la brama della verità e l'errore accom-
pagnato dal mistero, tra l'ideale morale e l'impotenza di conseguirlo, non possono
anch'esse risolversi altrimenti se non ammettendo la vita futura siccome richiesta
dall'ordine universale della natura e dal disegno divino provvidenziale. La vita presente
oppressa da tanti dolori e da tante tristizie, e non confortata dall'idea di una vita
migliore, ci porterebbe ad imprecare alla natura, non più provvida madre, ma spie-
tata matrigna, che si compiace di creare tanti infelici: l'uomo dovrebbe invidiare la
pietra, che non sente dolore, od il bruto, che vive senza sentire disinganni e scon-
forti, e muore senza saper di morire. Il pessimismo sarebbe inevitabile.
Il consenso del genere umano nella credenza della vita futura ha un gravissimo
peso ed un sommo valore che non può essere disconosciuto, perchè essendo univer-
sale e costante è l'espressione di una voce della natura la quale è infallibile nei suoi
pronunciati. " Opinionum commenta (scrisse Cicerone) delet dies, naturae judicia con-
firmat „. È egli possibile, che le genti umane tutte versino nell'errore in cosa disi
alto momento, che riguarda le sorti della loro finale destinazione? Ma non potrebbe
forse darsi che questa credenza, quando fosse sottoposta alla rigorosa critica della
ragione si risolvesse in una vana illusione del sentimento e del cuore, in una chimera
dell'immaginazione? (4). Questo dubbio suppone che la ragione sia essa la sola e su-
prema fonte della verità, la sovrana ed infallibile giudice di tutte le aspirazioni del
cuore, e che tra l'una e l'altro vi possa essere un conflitto naturale ed assoluto, ciò,
che non è. Il sentimento e la ragione hanno un punto comune, in cui armonizzano;
e sta nelle aspirazioni primigenie proprie dell'uno e nelle intuizioni delle verità uni-
versali proprie dell'altra. Le verità primissime ed universali, su cui si fonda la vita
dell'io individuo e dell'umanità, sono ad un tempo sentite dal cuore ed intuite dalla
ragione e su questo punto l'armonia tra le due potenze umane è perfetta e neces-
saria. Non si confonda la ragione, che intuisce le verità primissime universali, e che
è la stessa in tutte le intelligenze umane, colla ragione, che medita e contempla, e
che è propria del dotto e del filosofo: quella è infallibile, perchè costituisce il lume
medesimo della ragione; questa è fallibile. Nell'argomento, che abbiamo per le mani,
(1) Che linguaggio ributtante ! Quanta abbiettezza ed ignobilità di sentire ! Ben altrimenti sentiva
Catone il maggiore, al quale Cicerone nel termine del suo libro De Senectute mette in bocca queste
nobili parole: " 0 praeclarum diem, quum ad illud divinum animorum concilium, coetumque profi-
ciscar, et quum ex hac turba et colluvione discedam „.
(2) Confortiamoci che altri verranno a prendere il nostro posto nel mondo ! È curioso quel-
l'hegeliano, che vagheggia il nulla dopo la morte, mentre, secondo il sistema di Hegel, l'immorta-
lità della vita futura è un privilegio riservato ai soli idealisti contemplatori dell'Assoluto hegeliano.
(3) Essenza della religione — Morte ed immortalità.
(4) Vedi i capitoli Sur l'immortalité de Vaine contenuti nell'opera di M. Guizot, Méditations et
étttdes morales. Bruxelles 1852.
62 GIUSEPPE ALLIEVO
la credenza universale degli uomini nella vita futura non può essere dalla critica giu-
dicata erronea e rigettata siccome una vana illusione del sentimento e del cuore,
perchè la storia della filosofia e della scienza registra nelle sue pagine i nomi glo-
riosi d'innumerevoli e potentissimi pensatori e filosofi, i quali non solo non rigetta-
rono siccome insussistente la vita futura, ma validamente la sostennero e la propu-
gnarono colla potenza del loro pensiero. Il Feuerbach audacemente rinnegando la
esistenza oltremondana siccome un vano fantasma dichiarava che non recava danno di
sorta alle persone strappando ad esse i loro convincimenti religiosi, che anzi appa-
riva il loro benefattore, il loro salvatore, perchè le riconduceva alla verità ed alla ra-
gione. Come se di fronte al genere umano egli solo fosse nel vero ! Come se soltanto
la sua ragione fosse infallibile, e non contasse per nulla la ragione di infiniti altri
pensatori assai più potenti di lui, che profondamente meditarono e riconobbero sic-
come verità solenne la vita futura! Ma a lui piacque meglio innalzarsi al di sopra
di tutti costoro, e soffocare nel nullismo la dignità della persona umana e delle sue
sublimi aspirazioni ideali. Certo è, che la discussione del problema presenta dissidii,
controversie e disparità di pareri fra i filosofi storici, che lo risolsero in senso affer-
mativo; ma occorre avvertire, che il loro disaccordo cade soltanto sul modo e sulla
forma nuova, che assumerà la vita futura dell'io umano, mentre sono concordi nel-
l'ammetterne l'esistenza: il che sommamente importa al nostro intendimento.
Conclusione.
Volgendo uno sguardo al cammino, che abbiamo percorso intorno l'argomento,
che abbiamo preso ad oggetto del nostro studio, noi possiamo ora misurarne tutta la
gravità e l'ampiezza. Il problema dell'esistenza oltremondana non è una questione di
nervi od uno scatto di isterismo, come potrebbe apparire agli spiriti superficiali ed
agli animi volgari, ed io non ho fatto che sfiorare quest'immenso problema toccan-
done il punto più saliente; ma prima di abbandonarlo è pregio dell'opera segnarne la
grandissima ampiezza indicando i punti di contatto e le attinenze, che lo collegano
colle altre parti dell'umano sapere. Anzi tutto esso si collega con quel ramo di filo-
sofia antropologica, che contempla l'origine dell'uomo e la sua natura personale, es-
sendoché i tre sommi problemi — donde vengo, che cosa sono, dove vado — sono inse-
parabili e si chiariscono a vicenda. Secondamente ha una stretta dipendenza con
quelle parti di psicologia, che hanno per oggetto di ricercare il legame tra l'anima
ed il corpo e determinare il vario operare delle umane potenze. In terzo luogo esso
presuppone che la scienza filosofica abbia determinato il concetto di spirito e di ma-
teria (1) e risolta la questione, che si dibatte tra il materialismo e lo spiritualismo.
In quarto luogo dipende dalla scienza etica, alla quale spetta discutere la sanzione
morale, tanto intimamente connessa colla vita futura, come pure dipende dalla teo-
dicea, che contempla la giustizia e la provvidenza divina in riguardo al mondo. Infine
ha pur anco un punto di contatto colla storia civile e colla letteraria, la quale re-
(i) Discuterò di proposito questo punto in altro mio lavoro intitolato: Lo spirito
nell'universo, l'anima ed il corpo nell'uomo.
LA VITA OLTREMONDANA 63
gistra la credenza di tutte le nazioni nella vita futura e le tradizioni mitologiche
espresse nelle opere degli scrittori greci e latini. Noi italiani abbiamo nell'autore
della Divina Commedia il sublime cantore della vita futura.
L'immortalità dell'io è una solenne e costante aspirazione del cuore, un teorema
della ragione, un pronunciato della sapienza comune, una credenza religiosa del ge-
nere umano. Questo principio dell'esistenza futura si presenta sotto differenti aspetti
alle persone, che lo contemplano. La sua gravità è diversamente sentita, ed il suo
significato differentemente inteso dall'apatico che, vive alla giornata senza pensare
al dimani, e dal melanconico, che sente l'infelicità della vita; dal giovane fervido di
speranze rivolte al mondo presente, e dal vegliardo, che vede i suoi giorni volgere
al tramonto ; dallo sventurato, che piange sulla tomba di una persona caramente di-
letta, e dal filosofo, che fa di questo gran problema una questione meramente astratta
come se toccasse né punto, ne poco la sua individua persona.
Raccogliamo la conclusione finale. La morte non è l'annientamento del nostro
io, ma una solenne trasfigurazione della nostra vita fisica e mentale ; è una sincope
temporanea del nostro essere, alla quale succede il risveglio di un'attività vitale af-
fatto nuova. Nella crisalide la scintilla della vita non è spenta, ma sopita; essa rompe
il suo involucro e ne esce farfalla, che riveste una nuova vita e vola liberamente per
lo spazio aereo. Quando si chiudeva nel suo bozzolo come in un piccolo sepolcro da
lei costrutto, avrebbe potuto dire: tutto è finito per me: ora può ben dire: tutto
ricomincia per me.
Ho detto che la morte non è l'annientamento del nostro io: ecco quanto di vero,
di certo, di saldo emerge dalla discussione di questo formidabil problema, il punto,
in cui sono concordi l'aspirazione del sentimento e l'intuizione della ragione, le cre-
denze universali del genere umano e la filosofia. Ho aggiunto che la nostra è una
solenne trasfigurazione della nostra vita presente: ma in che consiste questa trasfi-
gurazione? Qual'è la nuova forma di vita psichica, propria dell'esistenza oltremondana?
Ecco la parte insoluta, e forse insolubile del problema, involta in difficoltà, ipotesi,
dubbiezze, opinioni controverse (1). Chi può rintracciare le vestigia delle migliaia di
persone umane, che sono scomparse dalla faccia della terra? Ma dall'altro lato for-
sechè questo piccolo globo, che abitiamo, è di tutto l'immenso universo l'unico sog-
giorno delle creature viventi? Eppoi anche gli atomi, in cui si è disciolto un orga-
nismo animale, sono scomparsi dai nostri occhi , e veruno può seguirne le traccie ;
eppure son forse caduti nel nulla?
(1) Luigi Bourdeau nel suo volume : Le problhne de la mori, ses soluiions imagìnaires et la science
positive, discorrendo con una leggerezza umoristica sconveniente ad un serio pensatore, le condizioni
di luogo e di durata dell'esistenza futura, e le funzioni fisiologiche e psichiche relative alle mede-
sime, affastella le tante dubbiezze, in cui è intricato siffatto argomento e sotto la loro valanga
si immagina di avere sepolta la credenza universale nella vita oltremondana. Ma dacché non si
riesce a determinare per bene la forma della vita futura dell'io umano, non evvi ragione di negarne
l'esistenza. Il mistero va rispettato, e non rigettato in nome di una così detta scienza positiva, che
non è scienza, e davanti ad una pleiade di potentissimi pensatori e filosofi, che discussero ed ammi-
sero col genere umano l'esistenza oltremondana.
IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI
MEMORIA
DEL
Prof. STEFANO GRANDE
Approvata nell'Adunanza del 19 Aprile 1903.
NOTIZIE GENERALI
I. — Gli Italiani nella storia della pedagogia.
Gabriele Compayrè, nella sua notissima " Storia della Pedagogia „ (1), non re-
gistra, in tutto il decorso della nostra storia, che due soli nomi di pedagogisti ita-
liani: Vittorino da Feltro e Pietro Siciliani, quest'ultimo poi appena in nota. Come
si può spiegare tanto vuoto in questa scienza da parte degli Italiani? Non vantiamo
noi nella nostra storia sommi indagatori del vero, illustri creatori di scienze, acuti
rinnovatori di metodi, buoni filosofi, insigni maestri? Galileo e Vico, Machiavelli e
Leonardo da Vinci, Andrea Cesalpino, Romagnosi, Aporti, Gino Capponi, Lambru-
schini, Tommaseo, Gioberti, Rosmini, Rayneri, Angiulli, Gabelli, e molti e molti altri,
per non parlare dei viventi, tutti costoro sono dunque per l'illustre storico della
pedagogia altrettanti Cameade?
Secondo noi, la lacuna, o meglio il silenzio del Compayrè si deve riguardare
sotto un duplice aspetto, per cui, da una parte è conforme a verità, dall'altra le
è superiore.
È verissimo che noi, prima e dopo Vittorino da Feltre, manchiamo di proprii e
veri pedagogisti, sì nella teorica che nella pratica riflessa dell'educazione; ma se il
buon metodo nelle diligenti esperienze, nelle sottili ricerche, nelle nuove applicazioni,
nell'ammaestrare con sicurtà popoli e nazioni, nel procacciare utili cognizioni, riguar-
dano la scienza dell'educazione, o almeno la pedagogia applicata, noi ben per tempo
conoscemmo la metodica e l'arte dell' educazione in generale. Ecco : non si pensò
presso noi a coltivare espressamente la pedagogia, a scrivere veri e proprii trattati
intorno ad essa ; ma pensieri, idee, teorie pedagogiche disseminate a larghi tratti nelle
opere dei nostri dotti non mancano. Il fatto dell'educazione ha preceduto la scienza,
la pratica naturale precede la teoria speculativa, e noi fino alla metà del secolo XIX
vaghiamo nel periodo dell'arte spontanea dell'educazione. Ma arrivati a questo tempo,
è certo, indubitato, che anche per noi incomincia l'arte riflessa, consapevole, razionale,
(1) G. Compayrè, Storia della Pedagogia. Traduzione ed aggiunte di Angelo Valdarnini. Terza
edizione, Paravia, 1899.
Serie II. Tom. LUI. 9
66 STEFANO GRANDE 2
incomincia la vera scienza, e i nostri nomi possono sostenere il confronto con quelli delle
altre nazioni. Così si deve interpretare la lacuna dell'illustre storico della pedagogia.
Nel periodo pertanto che dicemmo dell'arte spontanea, ove insigni filosofi, giu-
risti, letterati italiani ci diedero cognizioni, idee, teorie pedagogiche, cade la grande
figura del Muratori, che noi ci proponiamo di studiare. Anche per lui si verifica quello
che già dicemmo per altri grandi : non è già che vi manchi il pensiero pedagogico,
sia pur spontaneo, manca piuttosto chi lo voglia rintracciare e studiare. Del resto
che così stia la cosa, che questo periodo sia non meno ricco di quello dell'arte ri-
flessa, lo dimostra chiaramente fra gli altri, l'opera dell'egregio Professore G. B. Ge-
rini, che tante elaborate pagine scrisse nel campo della nostra storia pedagogica,
che tanti nomi richiamò dall'oblìo, tanti dimenticati portò alla luce del giorno.
II. — Scritti del Muratori più attinenti alla pedagogia.
Il posto che occupa nella Storia Letteraria Italiana Ludovico Antonio Muratori,
il suo ben noto valore, la sua immensa attività, ci dispensano dal tesserne la biografia
ed anche la bibliografia. Dotato d'ingegno veramente universale, d'amore intenso agli
studi, di desiderio ardente di essere utile alla società, all'umanità intera, nessun lato
dello scibile umano lasciò intentato. La figura del Muratori offre ancor ora, nella
sua grandezza, molti aspetti di considerazione allo studioso. Storico, letterato, filo-
sofo, ovunque rivolse il suo ingegno riuscì splendidamente, e l'opera sua ci prepara
ancora grate sorprese. Nessuna meraviglia pertanto se accanto al Muratori storio-
grafo può sorgere il Muratori poeta; se accanto al Muratori filosofo tenta sorgere
il Muratori pedagogista.
Fra le molte opere muratoriane alle quali dobbiamo rivolgere il nostro esame,
non è mestieri dirlo, presentano più ampia messe al nostro scopo le filosofiche, e
più particolarmente ancora , il trattato della Filosofia Morale (1) , per la necessaria,
evidente relazione che corre fra la filosofia e la pedagogia.
Ma anche altrove il Muratori ha occasione di trattare di questioni e di fatti
attinenti a pedagogia e didattica, e noi rivolgemmo pure particolare attenzione ai
suoi trattati: Delle Riflessioni sopra il Buoy, Gusto nelle Scienze e nelle Arti, Delie-
Forze della Fantasia Umana, Della Forza dell'Intendimento Umano, Della Pubblica
Felicità, ecc. ecc., e cioè ad ogni opera riferentesi comunque a filosofia; perchè se
è un fatto certo che ogni grande pedagogista è un vero filosofo, è pur certo che
ogni vero filosofo ha in qualche modo parlato di educazione.
Ma speciale, specialissima attenzione rivolgemmo al suo copioso epistolario, alla
sua larghissima corrispondenza coi letterati, filosofi, eruditi italiani, e coi numerosis-
simi amici, favoriti come siamo dall'accurata e benemerita opera del Marchese Matteo
Campori, che dell'Epistolario del Muratori pubblicò già — 1902 — con metodo vera-
mente felice e diligenza non comune, quattro grandiosi volumi. Ma qui non è tutta la
corrispondenza muratoriana e parecchi volumi devono ancora veder la luce, i quali
attendono con ansia gli studiosi, persuasi di aver campo di esaminare il Muratori
sotto nuovi aspetti. Ci fermammo più specialmente sulle lettere, perchè esse dilu-
1) La Filosofia Morale esposta e proposta ni giovani da L. A. Muratori. con gli avvertimenti di
Monsignor Cesari Sjj '" ''' Cremona. Venezia, Remondini, 17G3.
3 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 67
cidano non solo la vita e le opere dell'autore, ma ne seguono passo passo le vicende,
ne rivelano limpidamente l'animo, gli atteggiamenti dell'intelletto e del cuore. La
lettera è, per esprimerci così, una pagina di psicologia intima, perchè segna il pen-
siero parlante dell'autore, di cui estrinseca l'indole, il carattere, il giudizio partico-
lare e minuto sugli uomini e sulle cose.
Per la sua biografia scientifica poi, cercammo di mettere in rilievo un solo fatto
particolare, importantissimo e nello stesso tempo trascuratissimo, ricordando che il
Muratori non fu solamente insegnante privato, ma pur anche istitutore e precettore
del Principe Ereditario di Modena. Ci parve questa una qualità molto propizia ad
essere esaminata per lo scopo nostro, ed importantissima, perchè come precettore di
tanto allievo il Muratori può contribuire, quantunque indirettamente, a dare forza
e valore a quelle idee e precetti pedagogici che per avventura noi raccogliemmo nei
suoi scritti.
Ma noi non pretendiamo di presentare qui il Muratori come un vero e grande
pedagogista, balzato fuori dall'oblìo in cui l'aveva condannato l'incuria degli studiosi;
a noi è sufficiente stabilire che alla luce dei suoi pensieri pedagogici indirettamente
riflessi, si rivela un raggio nuovo, o almeno non prima osservato, nell'opera del grande
erudito italiano. In questo senso solo poi abbiamo cercato di fare un lavoro com-
piuto, raccogliendo cioè quanto il Muratori potè aver scritto riferentesi a pedagogia
e didattica, o comunque avente relazione con gli studi e colle discipline scolastiche,
ordinando il tutto secondo i criteri, le leggi e le divisioni della scienza pedagogica
dettate dai migliori pedagogisti.
Osserviamo poi fin d'ora che non si deve, in sintesi generale, pretendere dal Mu-
ratori idee e teorie del tutto nuove, o strettamente particolari ed esclusive ; questo
non poteva, e viste le sue intenzioni, non doveva darci egli: ma considerando
tali idee e teorie' in riguardo ai suoi tempi, alle condizioni civili e sociali del se-
colo XVIII , allo stato stesso di questi studi , riconosceremo che esse racchiudono,
almeno in germe, una scienza nuova rassodata poi dai tempi più recenti, ed aprono
nel tempo stesso un nuovo indirizzo per gli studi pedagogici.
III. — Divisione della pedagogia.
La pedagogia, che è scienza logicamente ed immediatamente subordinata alla
antropologia — checché si blateri di fisiologia — , come l'antropologia, ci presenta
una triplice divisione. Essa considera l'educazione umana:
1) Nella sua essenza suprema ed universale, quindi studia il concetto, il me-
todo, la durata, i caratteri, i mezzi, ecc. dell'educazione.
2) Nelle forme e specie particolari del suo sviluppo, quindi educazione fisica,
intellettuale, morale, ecc.
3) Nella sua sintesi ed oggetto finale, quindi formazione, cultura, ecc. del
carattere (1).
Noi cercheremo di esaminare le idee pedagogiche muratoriane sotto questi diversi
aspetti, raccogliendo le parole ed i pensieri suoi sotto la cerchia di questa divisione,
col metodo più sistematico e razionale che ci sarà dato.
(1) G. Allievo, Studi pedagogici. Torino, Tip. Subalpina, 1893.
68 STEFANO GRANDE
PARTE PRIMA
IV. — L'educazione considerata nella sua essenza universale.
Concetto, Necessità, Ragione dell' educazione. — Che l'antropologia porga il suo
fondamento scientifico all'arte educativa, è un fatto certo anche pel Muratori. Egli
che à meditato lungamente e profondamente intorno all'uomo, sì da procurarsene
una conoscenza profonda e verace, è naturalmente portato ad esaminare pure la sua
educazione, e con uno sguardo comprensivo e sicuro, se non razionale e sistematico,
l'abbraccia tutta quanta.
L'uomo, esordisce egli nel suo trattato della Filosofia Morale, è fra tutti e tutto
l'essere più nobile e mirabile, il suo studio quindi il più importante e necessario.
" S'io chieggio, qual sia fra tante creature che si mirano sopra la terra, la più no-
bile, la più mirabile e stimabile, non sarebbe già degno di esser chiamato Uomo,
chi non rispondesse tosto, che è l'Uomo. Adunque ragion vuole, che più a conoscere
l'Uomo che l'altre creature s'applichi lo studio de' Mortali: e tanto più perchè essendo
ancor noi compresi in questa avventurosa schiera, si tratta di conoscere noi stessi;
il che è di somma importanza, e non solamente utile, ma necessario per ben rego-
lare la vita presente, e sperar buon esito nell'altra che aspettiamo. Il Nosce te ipsum
cioè studia ed impara a ben conoscere te stesso, fu una delle celebri sentenze degli
antichi amatori della sapienza, verissima in tutti i tempi, e che dovrebbe scriversi
in ogni facciata di casa per non dimenticarla giammai „.
Accennato cosi al " Nosce te ipsum „, si ferma a chiarirne il vero e profondo
significato, perchè egli sa che è facile cosa il mutilarlo. E continua: " Il conoscere
l'Uomo, e per conseguenza sé stesso, consiste nello scoprir tutte le differenti se-
grete ruote che il muovono, come creatura Ragionevole, a tante azioni morali, o
buone, o cattive, o indifferenti; e le sorgenti della Virtù, dei Vizi, delle Passioni,
dei Costumi; e le regole che s'hanno da osservare per reggere saviamente sé stesso.
per praticare lodevolmente con altri e per soddisfare a tutti i doveri verso il pa-
drone supremo dell'Universo, verso se stesso, verso altri Superiori, eguali ed infe-
riori. Questo è propriamente studiar l'uomo, e penetrar ne' gabinetti dell'Uomo „.
Così il Muratori ci ha dato il primo abbozzo del suo piano d'educazione, e noi
possiamo di già arguire, in sintesi generale, le sue idee e teorie. Giova pertanto qui
osservare, giacché ce ne porge occasione l'accenno al suo Trattato, che come la scienza
dell'educazione non può fare a meno della filosofia, così necessariamente essa deve
informarsi alle sue teorie, e però l'indirizzo filosofico d' uno scrittore segna pure il
suo indirizzo pedagogico.
Ora il Muratori è, in filosofia, un seguace schietto della scuola spiritualistica, di
quello spiritualismo antico e universale riconosciuto già da Socrate e da Platone, che
non sostiene punto che lo spirito abbia a sussistere esso solo sulle rovine del mondo
materiale e la vita terrena annientata col corpo, ma bensì che lo spirito umano è
subordinato al divino, la vita presente alla futura.
5 - IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MUEATOEI b'9
Di qui si ricava clie l'educazione deve rispondere a questa duplice destinazione:
allo spirito immortale e alla creatura che si estingue. E lo schietto indirizzo tradi-
zionale italiano.
Ma pur troppo questa scienza, che è la regina delle scienze, la scienza delle
scienze, è fra tutte la più trascurata e nella vita e nelle scuole pur anche, e il buon
Muratori se ne duole amaramente. " Non ho io mai lasciato di meravigliarmi al
vedere, come nelle scuole, e fino in alcune celebri Università dei nostri tempi, si
poca cura si tenga di questa, che pure è il nerbo principale di ciò, che si appella
Filosofia. Chiamisi pure con questo nome, ch'io non voglio oppormi, la Logica, la
Metafisica e la Fisica, non potrà già negarmi chiunque rettamente giudica delle
cose, che il meglio, e il più importante di essa Filosofia non consista nella scienza
de' Costumi, e nello studio delle azioni morali dell'Uomo „ (1). Insiste pertanto, quel-
l'anima candida, sulla necessità di tale studio che deve informare e regolare tutta
la nostra vita, che deve reggere tutte le scienze, che più da vicino ci tocca e ci
interessa, che più d'ogni altro può costituire la nostra felicità, e senza cui non si
dà scienza, coltura, progresso; " Maximum enim sapientiae argumentum est se ipsum
nosse „ (2). — Informandosi invece a questi principii, non si può non avere buoni
risultati per le scienze e per la società, anzi ottimi risultati, perchè, mentre per le
altre scienze il progresso dipende dalla perspicacia ed acutezza dell'intelletto, che
non può certo il maestro comunicare al discente, qui anche un mediocre ingegno di
leggeri ne intende gli insegnamenti, non essendo questione che di volontà, di cui
nessuno scarseggia. Che se poi qualche volta l'effetto non corrisponde alle aspetta-
zioni, e quest'arte si riduce ad essere inefficace, non si deve in tal preconcetto tra-
scurarla. " Può essere, che la nave non arrivi al porto, ma intanto la prudenza esige,
che essa non entri in mare senza buon corredo, e senza buon Piloto bene informato
del viaggio, e delle tempeste „ (3).
Metodo. — Con queste ultime parole viene indirettamente dichiarato un grande
principio pedagogico, che l'educazione non è tutto nella vita dell'uomo. Questi, secondo
il Muratori che ritorna spesso alla carica, sorte da natura tal gagliardia di indole, che
non potrà mai del tutto esser domata. Naturarti expellas furca, tamen usque recurret.
Per lui educazione è sviluppo, ma sviluppo che implica e presuppone un intimo
principio di vita che spontaneamente e per propria virtù interiore si evolve, e non
già per meccanica sovrapposizione di parti esterne. E l'indirizzo opposto al sensismo,
che alla educazione attribuisce illimitata efficacia; l'educazione coopera bensì a rad-
drizzare e a modificare una cattiva inclinazione, concorre bensì alla formazione del
carattere, ma non ne è la creatrice. Difficilmente infatti, osserviamo noi, si può am-
mettere quanto il Locke, ad esempio, afferma, che cioè i nove decimi degli uomini sono
buoni o malvagi, utili o no, secondo l'educazione ricevuta, causa prima delle grandi
differenze del genere umano. Né quanto osserva un altro sensista, l'Elvezio, mi pare
conforme a verità, che cioè l'uomo sarà nella vita quello che l'educazione l'avrà fatto,
perchè queste teorie ritraggono forza da un principio molto discutibile, che il bara-
ti) Filosofia Morale, cap. I, pag. 14-15.
(2) Lettera a 6. Benedetto Borromeo Arese, 1699, Epistolario del Campori, voi. II, pag. 416-418.
(3) Filosofia Morale, cap. I, pag. 16.
70 STEFANO GRANDE 0
bino è una cera od una carta bianca da maneggiare e modificare a beneplacito del-
l'educatore. Oh! quante buone madri, osserviamo al Locke, all' Elvezio, al Con-
dillac ecc., non abbiamo visto noi, di carattere candido, di schietta indole, che hanno
fatto dei loro pargoletti i cittadini più onesti e utili, contravvenendo del tutto ai
precetti pedagogici da loro predicati.
L'educazione, lo ripetiamo, perchè il Muratori ci insiste (1), non crea nell'alunno
nessuna nuova potenza o virtù, ma solo esplica ed attua quelle che già vi preesi-
stono, e come nulla crea, così nulla può distruggere di quanto la natura ha creato.
Chiarito ciò, viene legittimo e spontaneo il principio generale pedagogico che il Mu-
ratori ammette e segue: l'arte educativa compie e perfeziona il portato della natura,
e di questa segue il metodo, secondando l'attività personale dell'alunno ed atteg-
giandosi alle sue attitudini speciali caratteristiche.
Il metodo di natura fu già intuito fin da Quintiliano, da Dante, e proclamato
poi solennemente, fra gli altri, dal Rousseau, e più degnamente ancora dal Pestalozzi,
e seguito quindi dai migliori pedagogisti. È pertanto questo un bel merito del nostro
autore, il quale poi al metodo educativo naturale connette strettamente il principio
dell'esperienza, e dell'osservazione.
Il Muratori infatti è uno strenuo propugnatore dell'esperienza che egli eleva a
sicuro, efficacissimo coefficiente dell'educazione umana, senza però intaccare od esclu-
dere i principi universali della ragione. Egli vuole che si miri al fatto, al concreto, al
pratico, e nemico delle formole rigide, assolute, propende verso il sistema, anche sover-
chiamente pratico, degli Spartani (2). Ma particolarizzando, egli vuole che si pongano
davanti agli occhi dei giovani, con esempi pratici e palpabili, i vantaggi che si rica-
vano dalla pratica della virtù, e i danni che derivano dal vizio ; che si dimostri loro
la bellezza interna ed esterna di quella, e la bruttezza e detestabilità del vizio; le
soddisfazioni di chi pratica il bene, e i rimorsi dei malvagi; i premi che ci atten-
dono o le punizioni che ci sovrastano. E nel suo profondo senso pratico delle cose,
egli loda anche quel padre di famiglia che conduce alla bettola il giovane figlio per
apprendergli il triste spettacolo, il ripugnante aspetto di chi s'ubbriaca, persuaso che
tener os animos aliena opprobria saepe absterrent vìtìis (3).
Data questa efficacia della pratica, si devono praticamente proporre al giovane
grandi esempi di imitazione, di virtù, scienza, coraggio, pietà, affinchè l'animo suo
si scuota, li senta, e tenda a raggiungerli. E diciamo che debbonsi raccogliere tali
esempi nella vita reale, fra persone di conoscenza, in luoghi noti, perchè di gran
lunga torna più gagliarda ed efficace 1* impressione. Così occorre coltivare l'animo
nostro e allevarlo alla scuola dell'osservazione, indicandogli tutto, facendogli osser-
vare tutto, di tutto dandogli ragione, di tutto deducendogli le conseguenze (4). Ma
(1) Cfr. Filosofa Morale, cap. IV. pag. 50 e seg.; cap. Vili, pag. 99-100, ecc.
(2) Idem, cap. XXV, pag. 228; cap. XLII . pag. 393-96, ed anche Della Forza della Fantasia
Umana, pag. 154, ecc.
(3) Idem, cap. XXV, pag. 228, e cap. X, pag. 116 e 117.
(4) 11 Muratori, studiosissimo di Orazio, doveva pensare qui certamente all'osservazione oraziana:
. . . insuevit pater optimus hoc me
ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando
[Satira IV, 1. 1).
7 IL PENSIERO' PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 71
l'osservare non basta, occorre poi andarlo avvezzando a giudicare rettamente di ciò
che è lodevole o biasimevole, da imitare o da fuggire nelle azioni altrui, affinchè
su quelle sagge osservazioni e deduzioni modelli la sua vita.
Molti mezzi ci si offrono per questa pratica ed efficace educazione, e molti ce
ne suggerisce egli stesso, quali considerare il giovane un po' superiormente alla sua
età, metterlo alla confidenza degli affari domestici, farlo partecipe delle nostre in-
tenzioni e speranze ... ed altri parecchi, dei quali tratteremo a tempo opportuno.
Educazione ed Istruzione. — Anche in L. A. Muratori è sentitissima la distin-
zione fra educazione ed istruzione. L'educazione è la coltura del cuore e della vo-
lontà e mira all'operare e alla virtù; l'istruzione invece è la coltura dell'intelligenza
e mira al pensare e al conoscere. E qui c'è posto di scrivere una bella pagina sul
Muratori, la cui vita, le cui opere, i cui pensieri sono tutti informati a questo grande
principio, che non incombe tanto all'uomo d'esser dotto, quanto d'esser virtuoso ; che
in capo al pensiero dello studioso non deve star tanto la scienza quanto l'onestà.
Come lo studio deve guidare la ragione, così l'onestà deve guidare lo studio. Sotto
la scorta dello studio, la ragione è guidata nella scelta e nel giudizio delle cose
mediante la riflessione e l'esame ; senza di esso più che di bene è fonte di molte
rovine (1). Saper male si è lo stesso che saper nulla (2); saper molto e operai-
male, è una grande ignoranza (3). Il sapere pertanto non è ciò che più importa,
esso non è in sé che un nobile ornamento dell'uomo, un soccorso alla buona vita,
ma esso suppone qualche cosa al di sopra di se per cui acquista valore e pregio (4).
Tolto questo, esso diventa indifferente, ed anche pernicioso. ." Scompagnata la Let-
teratura dalla Sapienza e dalla Virtù, può anche cangiarsi in uno strumento d'in-
famia, e del comune biasimo „ (5).
Questi ed altri simili pensieri espone magistralmente il Muratori in una delle
sue più importanti lettere (6), ove descrive l' importanza dell'istruzione e la neces-
sità dell'educazione. In essa tutto è esaminato, vagliato, ponderato; anche le sacre
scritture sono portate in campo: " ove non è la scienza quivi non v'è la felicità
d'animo „, ed anche: " perchè tu abborristi il sapere, ancora io abborrirò la tua
persona, né ti vorrò per mio sacerdote „. Ma se il sapere è sì gran pregio, pregio
maggiore è l'impartirlo a prò' degli altri. " Gran lode, gran consolazione è il sapere
per se stesso, ma di gran lunga è maggior pregio il convertire in prò' d'altri il
proprio sapere „ (7).
Ma l'insegnamento non consiste solo nell'impartir a voce agli altri la nostra
dottrina, esso presenta più modi, e noi ne saremo altrettanto benemeriti " togliendo
via gli abusi degli studi, ampliando i confini dell'Erudizione, incitando allo studio,
(1) Cfr. Filosofìa Morale, cap. VII, pag. 79.
(2) Id., cap. X, pag. 110.
(3) Id., cap. XXVI, pag. 241.
(4) Della Pubblica Felicità, oggetto de' buoni principi. Lucca, 1741, pag. 166.
(5) Filosofia Morale, cap. XVII, pag. 157, ed anche Della Forza dell'Intendimento Umano. Prefa-
zione, pag. V.
(6) Lettera ai Capi, Maestri, Lettori ed altri Ministri degli Ordini Religiosi d'Italia, 1705, Cam-
pori, II, pag. 800-15.
(7) Lettera ai Generosi Letterati d'Italia, 1705, Campori, II, pag. 789-94. Fa pur parte d'un opuscolo
del Muratori: / Primi Disegni della Repubblica Letteraria d'Italia, di cui diremo in seguito.
72 STEFANO GRANDE O
scoprendo miglior sentiero agli studi traviati „ (1). Chiude quell'elaborata ed eru-
dita lettera colla massima sacra: " quelli che saranno dotti, riluceranno come lumi
del firmamento, e quelli, che ammaestreranno gli altri nella giustizia, risplenderanno
come stelle per eternità perpetue „.
Il fine degli studi, delle arti e delle scienze, nota il Muratori, è triplice: am-
maestrare, giovare, dilettare. Ammaestrano e giovano le varie discipline coll'inse-
gnare e persuadere all'intelletto e alla volontà il vero e il buono, dilettano con la
scoperta di questo vero, di questo buono prima ignoti (2). Ma nell' insegnare o co-
municare comunque agli altri le scienze ed arti, noi ci incontriamo in parecchi eccessi
che intralciano il nostro metodo. Fra i giù generali notiamo il credere troppo ai
nostri sensi e il credervi troppo poco; il dubitare di tutto ed il dubitare di nulla;
l'acconsentire alla sola ragione quando basta l'autorità e l'accontentarsi dell'autorità
quando si richiede la ragione; il cercare di soverchio questioni frivole e minute e il
trascurare le necessarie, ecc. ecc. Venendo poi al particolare, ogni scienza presenta
i suoi eccessi. Tali, nella filosofia dei costumi, il voler sradicare dall'uomo tutti gli
affetti, a guisa degli Stoici, o il soddisfarli pienamente, a guisa degli Epicurei; nella
Teologia Morale il troppo restringere od allargare la giurisdizione della coscienza,
esser rigorista o troppo liberale; nella Storia narrare solo i biasimi e i difetti altrui,
oppure i soli pregi e le lodi; nella Rettorica e nella Poesia l'amare ed il rifuggire
troppo l'acutezza, la brevità, il fantastico, il naturale, il sentenzioso ... e così pel-
le altre scienze. Occorre pertanto scegliere il giusto mezzo e uniformarsi pienamente
all'opportunità e verità del ne quid nimis.
Ma il Muratori, e nelle scienze e nelle scuole pur anche, da quell'acuto osservatore
che egli è, vede introdursi un ben grave male: l'istruzione che tenta assorbir tutto.
Ormai la scienza dell'educazione è passata in seconda linea, e scopo principale di chi
studia si è arricchirsi la mente di cognizioni di scienza, non di pratica moralità. Il
medievo ha fatto il suo tempo, e mentre allora l'educazione era tutto, l' istruzione
ben poca cosa, ora si invertono i termini e si preparano i tempi in cui tutto deve
essere pel sapere, ben poco per l'onesto operare e per la coltura del carattere mo-
rale. È il preludio dei nostri tempi, osserviamo noi, in cui si promuovono con ardore
febbrile gli studi, e si guarda con indifferenza all'educazione del cuore. Ma io non
dico bene: intorno al grande edificio dell'educazione si lavora dappertutto, presso
ogni stato, da privati cittadini e pubblici magistrati, da municipi o governi, da chie-
rici e laici, si opera assai insomma, ma si opera male. Conseguenze funeste sono
l'antagonismo fra l'istruzione e l'educazione, fra lo stato e la chiesa, fra gli istituti
governativi e i privati, fra l'educazione classica e la tecnica, fra l'autorità domestica
e la politica, fra l'istruzione religiosa e la profana, in una parola, antagonismo e
lotta dappertutto (3).
Ai tempi del M. in realtà, le cose non erano ancora a questo punto, ma già
l'enciclopedismo incominciava la sua opera deleteria per l'educazione. Il M., conscio
(1) Lettera citata ai Generosi Letterati d'Italia, ecc.
(2) Cfr. Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto nelle Scienze e nelle Arti di Lamindo Pritannk. (pseu-
donimo anagramrnatico di L. A. Muratori). Venezia, Pezzana, 1723, parte II, pag. 50.
(3) Vedi Giuseppe Allievo, Studi Pedagogici, p. 21.
9 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 73
del grave male, se ne lamenta e molto fortemente: si rimpinza la memoria di idee
indigesto, e si lascian vuote la ragione e la coscienza (1).
" Bene, scrive egli (2), è l' imparar a pensar bene, a guardarsi dalle proprie e
dalle altrui fallacie ne' ragionamenti: di questo filo ed aiuto lian bisogno tutte l'altre
vie del sapere, ed anche il quotidiano uso della vita nostra. Bene è parimenti il cono-
scere nella Fisica l'opere mirabili della mano di Dio, quantunque tale Scienza per
molti altri non sia, che un vano riempimento del loro intelletto, perchè non cercano
punto Dio nelle loro fisiche osservazioni. Bello è il sapersi alzare sopra la Materia,
e acquistare e vagheggiare l'Idee Intellettuali, potendo tutto questo servir molto
bene di scala a conoscere lo stesso Dio. Ma dopo sì fatti studi, certo di maggiore
utilità ed importanza dee confessarsi l'imparare ad operar bene, ad operar da Crea-
tura ragionevole. Perciocché a che serve l'ornare, ed anche il perfezionare l'inten-
dimento nostro, l'empierlo di notizie, e il sapere raziocinare, se in tutt'altro si
adopera poi la forza e '1 sapere dell'intelletto, che a dirigere la Volontà nostra
nell'Elezione del Bene, e nella fuga del Male? dal che dipende la felicità, o l'infe-
licità, la gloria, l'infamia di noi viventi, e insieme il buon o cattivo stato della
Repubblica „.
Così il M. passa in rassegna le diverse discipline scientifiche, esamina l'utilità
loro, ma conchiude all'eccellenza e superiorità della scienza dei buoni costumi, del
retto ed onesto operare. A lui poi preme di fare una distinzione nella scienza, che
stava già a cuore ad un altro grande maestro italiano, e per molti rispetti simile
a lui, a G. B. Vico (3). " Non bisogna confondere la Scienza colla Sapienza. Sarà
la piirna ne i Dotti; trovasi la seconda in quei solamente che sanno ben vivere
con Dio, con gli altri uomini e in sé stessi. Ora l'essere Dotto o Dottore appar-
tiene a pochi; ma il ben vivere saggiamente, è, o certo dovrebbe essere il me-
stiere d'ognuno „ (4).
Ma frattanto scienza e sapienza devono trovarsi unite, perchè si ottenga il fine
ultimo dello studio : fare prima dell'alunno un galantuomo, poi un dotto. Ora sì no-
bile intento si può ottenere con un mezzo sicuro, stabilendo grandi punti di corri-
spondenza fra la scuola e la vita. Non scoine sed vitae discendimi. L' intelligenza
dev'essere svolta in bell'armonia colla realtà della vita, il ben pensare col ben ope-
rare, l' istruzione della mente coli' educazione del cuore (5). Ora la disarmonia fra
la scuola e la vita la sentiva già fortissima il M., come sentiva pure, per logica
derivazione, i mali che ne erano il frutto. Ma la realtà della vita, si gridi fin che
si vuole, non esclude l'idealità, e il M., conforme all'indirizzo schiettamente spiritua-
lista da lui professato, ammette e propugna un ideale che deve reggere ogni scuola,
a cui deve informarsi tutta la nostra vita, perchè senza ideale non c'è vita. Questo
ideale pel M., non fa mestieri dirlo, è il principio supremo, infinito, creatore, Dio.
(1) Cfr. 6. Allievo, La riforma dell'Educazione moderna mediante la riforma dello Stato. Torino,
Tip. Subalpina, 1879.
(2) Filosofia Morale, cap. I, pag. 15.
(3) Vedi G. B. Gekiw, Le idee pedagogiche di G. B. Vico, Estr. dal " Nuovo Risorgimento ,,
Torino, 1898.
(4) Filosofia Morale, cap. I, pag. 15.
(5) Idem, pag. 16-17.
Serie II. Tomo LUI. 10
74 STEFANO grandi: 10
Il moderno positivismo pedagogico ha cercato di fugare dalla scuola, e relegare fra
le chimere ogni ideale, mal distinguendo forse fra idea e ideale, ma finora esso s'è
dimostrato impotente a crearne dei nuovi. Si vuole, si reclama la forza coll'ideale,
ma il dì che la forza adeguerà l'ideale, che dire dell'anima che aspira alla perfe-
zione, di un popolo che si sacrifica e muore per la libertà? (1).
Ma noi varchiamo i limiti prefissici, e della concezione ideale parleremo altrove,
a proposito dell'educazione religiosa.
Durata dell'educazione. — Diciamo che la gioventù è il tempo dell'educazione,
ma impropriamente, perchè tutta la vita dev'essere come un'educazione continuata.
Il M. è grandemente persuaso di questa verità, ma non trattando egli direttamente
di educazione, non si ferma a dare una netta ed esplicita distinzione fra educazione
infantile, scolastica, autonoma, ecc.; ma non trascura tuttavia di darci precetti
e consigli per questi diversi periodi. Non c'è l'ordine sistematico nella sua esposi-
zione, ma la materia prima non manca. L'educazione deve incominciare dalla culla;
i primi educatori sono i genitori; la prima palestra la casa, ed importa assaissimo
che a questa prima educazione si attenda colla massima cura, e senza por tempo
in mezzo. " In primo luogo è da desiderar la buona educazione de' figliuoli, argo-
mento trattato da varj eccellenti Maestri. Chi ben alleva quelle tenere piante, può
sperar buon frutto a suo tempo. Convien dunque piantar di buon'ora nel loro capo
delle salutevoli Idee, ispirando ad essi le Massime sante del Vangelo, l'amore delle
azioni buone, Tabborriuiento delle cattive, e mostrando loro la bellezza ed utilità
delle prime, la deformità e le perniciose conseguenze delle altre . . . Fortificata per
tempo l'anima giovanile con saggi documenti e colle Idee della Virtù, e tenuta lungi
dall'aspetto di certi lusinghieri Vizi, finche sia formato il Giudizio, si può dir prov-
veduta d'armi potenti per far fronte a i fantasmi incitatori del mal fare . . . „ (2).
Non è già per questo, continua egli, che sia in salvo " la rocca dell'anima „,
ma ad ogni modo si sarà gettato il primo buon seme. Mutar la natura, già lo sap-
piamo, è impossibile, ma correggerla, ma istradarla al bene, oh! questo sta nelle
nostre mani, e questo è appunto il compito diretto dell'educazione. E qui il M. in
una riuscita, sentita, efficacissima pagina abbraccia e risolve, si può dire, i princi-
pali quesiti dell'educazione infantile. Qui ammonimenti pei genitori, qui precetti da
seguire, qui verità da praticare, qui davvero egli ci si rivela padre, maestro, sacerdote.
" Mettere al mondo figli, e alimentare i lor Corpi, è un gran benefizio. Pure il
più rilevante consiste nel ben educare gli Animi loro ; perchè in fine l'aver de' Fi-
gliuoli non è quel che rallegra e consola, ma sì bene l'averli buoni. Né è per un
Figliuolo felicità il venire al Mondo, se poi dovesse riuscire un malvivente, e d
norare e perdere sé stesso, e solamente recar affanni per ricompensa a Genitori
proprj. Han questi adunque da educare il meglio che possono la lor prole, né per-
donare a spesa e attenzione, affinchè ben s'allevino queste tenere piante. Fino a
una certa età i fanciulli non son dissimili dalle bestiuole; talora ancora hanno men
giudizio che le bestiuole stesse; esposti a far mille mali, anche in danno di sé
(1J Vedi G. Allievo. Del realismo in Pedagogia. Tonno, Roux, 1878.
(2) Della Forza della Fantasia Umana. Ediz. 5a. Parma, 1770, Fratelli Borsi, pag. 154. — Vedi
anche Introduzione alla Filosofia Morale, cap. V e VI-
11 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 75
stessi, perduti sol dietro alla bagatelle; già vaghi di operare a loro capriccio. Cre-
sciuti poi, e privi di esperienza del Mondo cattivo, imitano chi primo loro si pre-
senta davanti, e più facilmente il Vizio, che la Virtù. E se manca loro, chi gli
aiuti con salutevoli consigli, e tenga le briglie a i loro passi, alle lor voglie ed
inclinazioni, eccoti de i solenni scapestrati, peso ed obbrobrio della Repubblica, e
rovina delle proprie Case. Cura pertanto ha da essere dei Genitori, parte colla
dolcezza e co i premj, parte con un modesto rigore, e sempre col buon esempio,
di ben condurre questi orgogliosi poliedri, rompendo il torrente delle lor sregolate
passioni, istruendoli, mettendo loro in capo delle Massime buone, e facendo loro
conoscere le cattive conseguenze dell'operar male, le utili dell'operar bene. Non
carezzarli troppo, non lasciar che si accorgano del troppo amore paterno e ma-
terno ; ma nello stesso tempo non disgustarli senza ragione ; non far apparire mag-
giore parzialità per l'uno che per l'altro; non continuamente intonar loro ingiurie
e minaccie, e massime non batterli senza de i gagliardi motivi. Ove si possa ot-
tenere (e questo convien bene procurarlo) che un Figliuolo concepisca amore e
rispetto per gli suoi Superiori, non è difficile conseguire il resto. A questo fine,
utile è l'ammetterli alla confidenza de gli affari domestici. Ma sopratutto tenerli
lungi da chi può far loro scuola di Massime perniciose, o dare esempi di pazzie,
e di biasimevoli costumi „ (1).
Sono cose note, idee comuni se volete, e per giunta, messe lì alla rinfusa, ma
esse racchiudono tanta verità e tanto insegnamento, che rivelano nel Nostro tutta la
potenza d'un vero pedagogista. Ma già a questi grandi precetti della prima educa-
zione poco si bada in generale dai genitori, i quali o abbandonano in mani merce-
narie i loro giovani figli, confondendo malamente istruzione ed educazione, o li
trascurano per attendere alle necessità della vita. Dei primi già dicemmo, e diremo
ancor molto in seguito, e per gli altri il M. riconduce a queste cause la mancata edu-
cazione: incuria, ignoranza, impossibilità paterna. " 0 non vogliono i poveri Genitori
durar la fatica e cura convenevole, acciocché la lor prole non apprenda e non pra-
tichi i Vizi, e i Viziosi, o non possono, perchè mal 'allevati anch'essi, e difettosi, man-
cando d'arte e d'accortezza per ben educare gli altri. Ed è anche un'arte, assai difficile,
e saputa da pochi, quella di ben educare quel superbo Animale, e sì impaziente di
freno, che Uomo si chiama, e massimamente nell'età priva di Giudizio „ (2).
Ma a noi sembra di aver detto a sufficienza della prima educazione; delle altre
forme poi, dell'extradomestica, scolastica, ecc. avremo occasione di parlare altrove,
trattando dell'educazione fisica, intellettuale, morale.
Carattere dell'educazione. — L' Educazione deve essere essenzialmente e sovra-
namente personale, cioè opera di intelligenza e di libera volontà sia rispetto all'edu-
catore che all'educando. Qui il M. non può darci grandi cognizioni, essendo questo un
principio di pura pedagogia, su cui solo indirettamente doveva egli fermarsi. Questo
carattere di personalità esige — ciò che stava tanto a cuore a lui — che mai atto,
cenno e azione sia compiuto dall'educatore, che possa in qualche modo offendere la
dignità umana.
(1) Filosofia Morale, cap. XXV, pag. 227-28.
(2) Id., cap. XLII, pag. 395.
76 STEFANO GKANDE 12
Ma se il M. non può darci qui gran che di strettamente particolare al campo
della pedagogia, in compenso ci dà molto nel campo filosofico, perchè non mirando
tanto all'educazione d'un fanciullo che d'una società, egli riguarda le cose da un
punto di vista più generale, e imprende una terribile guerra contro l'autorità dei
sistemi e delle scuole che ai suoi giorni tiranneggiavano lo spirito e la mente dei
discenti. Noi che sappiamo in quali strettoie si erano ridotti allora gli studi, non
possiamo ch'essere doppiamente riconoscenti al M. per questa dupplice lotta contro
i principi soverchiamente autoritari dei maestri, e il dispotismo delle scuole, assolu-
tamente e del tutto contrari ai tre grandi caratteri che vuol avere l'educazioue, di
ragionevole autorità, di libertà personale dell'alunno, di consapevole universalità delle
azioni educative.
Cosi il M. riconosce implicitamente questi tre grandi principi, e li sostiene, e li
propugna vittoriosamente in un campo più vasto del pedagogico e del didattico, nella
filosofia universale.
" Certo è che molti, scrive egli al Conte di Porcia (1), con tutto il lor divorar libri,
non giungono mai a levarsi di capo certi falsi pregiudizj conficcati nel loro cervello
fin dai teneri anni; perciocché non cade mai loro in pensiero, che in quelle opi-
nioni, o maniere di procedere negli studj, bevute da lor' primi maestri, ci possa
esser difetto, o darsi meglio. Ma entrino un po' in sé stessi, riflettendo che se può
esser male il dubitar di tutto, né pure è bene il dubitar di nulla; e che un giorno
insegna all'altro ; e che i fanciulli vanno per dove son guidati, ma gli uomini fatti
hanno da cercare la via migliore, se c'è „.
Ecco dunque il pensiero del Muratori : autorità sì, ma non dispotismo nell'inse-
gnare e nell'educare, e autorità non come fine a sé stessa, ma come mezzo alla libera
e spontanea cultura dell'alunno (2).
Ma il M. va ben oltre ancora, e sotto ai suoi strali Ville dixit, cagione non
ultima della poca tenerezza muratoriana verso i Metafisicanti e gli Aristotelici da
strapazzo, corre davvero poco buon tempo. Ma egli è pur sempre ragionevol
scrive (3): "Ne gli anni teneri il giogo dell'autorità è salutevole. Convien seguire
qualche scorta, e lasciarci reggere ne' passi, finché siamo discepoli. Ma non contenti
di ciò noi vogliamo obbligarci d'esser sempre fanciulli, ove sia d'uopo tener sempre
dietro a quel Maestro, che o la nostra elezione, o l'altrui comandamento ha ren-
duto tiranno dei nostri studj. E chiamo tirannia de gli studj, chiamo sciocchezza
questo non volere adoperare la libertà dell'Ingegno, per andare in traccia del Vero.
Chiamo un evidente pericolo di errore, il fidarsi così ciecamente a chi non è infallibile,
e l'addurre per sola ragione l'autorità altrui, o il darsi così in preda ad uno, clic piut-
tosto si voglia seco talora fallare, che abbandonarlo. Siano quanto esser si vogliano
valentuomini Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro; sono però uomini: e più di loro ci
ha da essere cara la Verità, la quale può trovarsi, e non trovarsi nelle loro sentenze „.
(1) Lettera al Conte Giovanni Artico di Pureia. nella quale il M. dà conto de' suoi studi. È in
parte la sua autobiografia scientifica. Modena, 10 uov. 1721. — Fu pubblicata la prima volta nell'Ar-
chivio Muratoriano: Scritti inediti di L A. Murai, pubblicati a celebrare il secondo centenario dalla
sua nascita. Bologna, Zanichelli, 1872. Ce ne serviremo in seguito molto.
(2) Cfr. pure Filosofia Morale, cap. Vii, pag. 90.
(3) Delle Riflessioni sopra iì Buon Gusto, parte I. cap. IV.
13 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 77
Occorre quindi che l'alunno, il discente, l'uomo goda di una libertà personale,
perchè egli è una attività conscia di sé e del suo operare, e non deve già essere
contrastato, ma secondato e favoreggiato nell'esplicazione e nello svolgimento delle
sue attitudini e delle sue potenze. Ma anche questa libertà non deve trasmodare e
cambiarsi in licenza, ma l'una e l'altra, l'autoritì. di chi insegna, e la libertà di chi
apprende, devono essere vincolate dai sicuri limiti della reciproca dignità personale.
E qui, e a proposito dell' universalità delle azioni educative , noi conosciamo già e
conosceremo ancor meglio, le idee muratoriane, delle quali pur demmo un bel cenno
a proposito della teoria del mezzo fra gli estremi.
Mezzi educativi. — Intendendosi per mezzo educativo tutto ciò che in qualche
modo giova ad eccitare o svolgere le facoltà educative dell'alunno, dobbiamo distin-
guere tanti ordini di mezzi quante sono le forme, funzioni, parti, specie ecc. del-
l'educazione. Ma tutti questi ordini di mezzi, quantunque diversi fra loro, hanno, per
esprimerci così, un centro comune a cui tendono, perchè tutti devono essere adope-
rati in armonia fra loro, e conformemente alla dignità della natura umana. In virtù
di quest'armonia e conformità, noi ci limiteremo a raccogliere ed ordinare i diversi
mezzi suggeriti dal M. solamente sotto un dupplice aspetto:
1 Mezzi che mirano alla formazione del carattere.
2° Mezzi che l'uomo fatto somministra a se stesso per raggiungere il fine
ultimo della sua destinazione.
/ premi, la lode, la gloria. — Fra i mezzi educativi più efficaci si devono anno-
verare i premi, i quali esercitano un'influenza grandissima non solo sull'animo dei
giovani, ma ben anche dei dotti stessi. L'amore della gloria, il premio della coscienza
non sono i cardini precipui del lavoro, e il sudore piace in quanto è fruttifero.
" Equidem querulus homo non sum, — scrive egli (1), — quum homines sine grafia,
aut ambitione, ipsius tantum conscicntiae pretio ad virtutem arbitrer devehendos.
At in aperto quoque est praecipuos laboris cardines in praemii spe versari, sudo-
reinque ideo piacere, quia fructiferum ,. Il M. è troppo uomo pratico per non rico-
noscerlo: il lavoro conferisce pregio, va bene, ma prima ci deve conferire la vita,
e Orazio quando osanna ha la pancia piena. " Qualunque operazione facciano gli
uomini, nota egli chiaramente, siccome animali per natura pieni d'amor proprio, e
intenti sempre all'unico e principale oggetto di giovare a se stessi, e di acquistare
qualche porzione di beatitudine ancora in questa vita, l'indirizzano essi al bene
proprio, e vogliono che o gli Animi loro, o i Corpi loro ne ritraggano qualche uti-
lità o diletto „ (2). Ma egli altrove determina anche quali sieno questi premi, chi
possa distribuirli, e non trascura il lato materiale. * La speranza del Premio è la
nutrice degli Ingegni, è il più possente stimolo alle famose imprese. Ne gli onori,
ne gli pubblici gradi, nella gloria, nell'accrescimento degli agi della vita e della for-
tuna, ed in altre cose, può consistere questo premio „ (3).
Coll'appetito del premio il M. unisce strettamente il sentimento della lode, uno
dei primi motori delle azioni umane, e a proposito di esso egli si rivela altrettanto
(li Lettera a Girberto Borromeo Arese. Mutinae, Idibus Jul. MLKJXCIII. Càmpobi, 1, 10-35.
(2j Delle Riflessioni sopra il lima Gusto, ecc., parte li, p:
(3) / Primi Disegni della Repubblica Letteraria d'Italia di Lamindo Pkitannio. Napoli (leggi
Venezia), 1703. Fanno pure parte del trattato s. e. delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, ecc.
7g STEFANO GRANDE
14
schietto, che profondo conoscitore degli uomini, e scrive una bella pagina di psicologia
intima. È inutile dissimularlo, osserva egli, la lode piace a tutti, o perchè è dolce
cosa sapere che altri fa gran conto di noi, e in noi riconosce delle buone prerogativa
o perchè essa ci conferma nella nostra opinione di aver noi dei pregi e dei beni da
ammirare; o per l'una o per l'altra ragione insieme. Temistocle, interrogato qual
musica gli fosse tornata più gradita; quella, rispose, che cantò le mie lodi. E il Mu-
ratori, nella schiettezza del suo carattere, l'afferma e l'ammette egli pure. " Non c'è
musica più grata e armoniosa alle nostre orecchie, quanto udire i rapporti delle
nostre lodi, e benché talora facciamo gli schivi, pure ne pur ci dispiace, che sul
volto nostro si canti, purché con qualche garbo, questa melodiosa canzone „ (1).
È così; il sentimento della lode è un fatto universale, è un appetito regalatoci da
natura, e vecchi e giovani, grandi ed umili, tutti lo sentiamo. " Mirinsi attentamente
i fanciullini ancor più teneri: appena spuntano in essi i primi raggi dell'intelli-
genza, che all'ascoltare il suono della Lode si ringalluzziscono, e godono, provando
anch'essi diletto al vedere incensate le loro azioni, e apprezzate le lor persone e
coserelle „ (2).
Ma non si ferma qui il M., e stabilito il fatto, si eleva a dedurne un efficace
precetto pedagogico. Favorite, sviluppate questo sentimento, proponete al bambino
la lode, e non negategliela quando se la merita; voi avrete in mano un mezzo po-
tentissimo di buona educazione. " Quei Genitori che sanno ben prevalersi di questa
facil moneta non rade volte comperano l'animo de' Figliuoli, e l'incamminano alle
azioni virtuose, ispirando loro all'incontro orrore del Biasimo per le cattive „, e
termina il suo dire, con una nota, significantissima massima, " A' Cavalli sprone e
freno, a' Fanciulli vergogna e lode „ (3).
È questa una sentenza nota, l'abbiamo detto, comunissima, ma essa non è messa
li a caso, e racchiude un grande principio pedagogico: La lode o la vergogna che
derivano dalle proprie azioni, siano al giovane il premio o la pena del suo operare.
È il principio propugnato già dal Locke, ad esempio, poi dal Rousseau, ed in generale
da tutti i pedagogisti moderni. Non è bene dare ai ragazzi il castigo come castigo,
sarà più efficace la lezione morale, la vergogna che ne verrà dalla loro cattiva
azione (4). È ben vero che bisogna ancor vedere se le tenere menti dei fanciulli
siano proprio capaci di questo sentimento dell'onore e della vergogna, ma data questa
potenza, il buon effetto è sicuro. Ma d'altra parte, osserviamo, se la lode piace ed è
sentita anche dal fanciullo, perchè è la conferma dei suoi pregi, non s'intende perchè
non debba sentire anche la vergogna o il biasimo che ne è la negazione e che rintuzza
aspramente quell'innata credenza. Non c'è asino, canta il proverbio popolare, il quale
non prezzi sé stesso al pari dei cavalli del re
Ma comunque sia in ragione, l'esperienza prova che il sentimento del premio e
della vergogna agisce potentemente sull'animo dell'uomo, sia esso fanciullo o adulto, ed
il M. se ne rese davvero benemerito, consigliandolo come efficace principio di educazione.
(1) Filosofia Morale, cap. XVII, pag. 154.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. G. G. Rousseau, Emilio, II.
15 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATOSI 79
Col sentimento della lode è strettamente congiunto quello della gloria, di cui il
M. fu ghiottissimo, tanto da considerarlo di origine divina. Dicano pure gli altri, che
la gloria è un fumo, un vento, un'ombra: " la verità si è: che l'Amor della Gloria,
o sia l'inclinazion di distinguersi da gli altri, d'alzarsi e di acquistar la stima uni-
versale, viene dal Sapientissimo Autor della Natura, che anche di questo si serve
per istimolarci alla Virtù, per farci apprendere l'Arti e le Scienze, e divorar le
fatiche occorrenti, senza le quali niun giunge alla Gloria, e nello stesso tempo per
difenderci; o allontanarci dalla viltà, dalla pigrizia, e dalle operazioni malvagie „ (1).
Data questa celeste origine e natura della gloria, è spiegabilissimo l'ardor del
M. verso di essa, che però, bisogna pur dirlo, per lui non è punto la gloria che viene
dalla letteratura, dalle scienze, o dalle dignità umane, ma bensì la gloria del retto
operare, e dei buoni costumi. " La vera gloria, scrive egli (2), è fondata nelle vir-
tuose azioni, e queste hanno il lor fondamento sulla corrispondenza con le leggi del
Cielo, e con gli ammaestramenti della retta maestra de' costumi, la Filosofia „.
Come si vede, è questa del M. una gloria più pura, più nobile, più santa, ma è
pur sempre quella grande aspirazione delle anime nostre, a cui, per essere schietti,
non possiamo del tutto rinunziare giammai. " Ma chi è mai così fortunato, così pa-
drone di se stesso, che si muova con ardore a imparare o insegnare le Scienze, e
pubblicare de i Libri, e possa giurare di non desiderare lode, e gloria, o altro ancora
men utile vantaggio, da quella sua tanta fatica? Si vogliono adunque tollerare ne
gli studiosi queste altre passioni, giacché servono anch'esse per incitare gli uomini
maggiormente alla correzione e all'accrescimento delle lettere, e giacché per dir
meglio, poco o niun profitto, e pochi o niun seguace possono sperare le lettere, se
non s'aggiungono all'uomo questi altri men lodevoli sproni „ (3).
Ma devesi poi ancor notare che il premio della gloria è incerto ed infido, e
" ut ad scientias, ac artes instaurandas et augendas, homines compellamus, praeter
ipsam rei honestatem et delectationem, alia, medius fidius, sunt incitamenta adhi-
benda „ (4). Questi più potenti incitamenti, già lo vedemmo, sono i premi materiali,
i quali per lo più stanno in mano di buoni protettori, di munifici mecenati (5), il cui
fiorire è correlativo al fiorir delle scienze. " Da mini fautores ingenuos, da opum et
honorum proposita proemia, et complures intueberis voluti cestro percitos ad scientias
convolare, atque in iis mirum in modum progredì „ (G).
Castighi corporali. — Accennammo or ora all'efficacia dei castighi morali nell'edu-
cazione della mente e del cuore, vediamo ora, per logica concatenazione, de' castighi
corporali. In sentenza del M. è da respingersi la sferza dai genitori non solo, ma
anche, e principalmente, dall'educatore. Tale mezzo non eccita né la coscienza, né la
vergogna del fallo, su cui tanto contava il M.; ma al contrario abitua il giovane
alla simulazione, e crea in lui un carattere servile. Sopratutto poi è da rigettarsi la
! Filosofia Morale, cap. XVII, pag. 155.
"2\ Lettera ;i Gian Simone Enriquez de Cabrerà, 1707, Campori, 451-52.
(3) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, ecc., parte I, pag. 143.
(4) Lettera di Jacopo Gronovio (.leggi Lod. Ant. Muratori) ad Antonio Magliabechi. Lugduni
Batavorum, XU Kal. Quintilis MDCCIII. Fa pur parte dei Primi Disegni della Repubbl. Lett. d'Italia, ecc.
(5) / Primi Disegni della Repubbl. Letter. d'Italia, ecc.
(6) Lettera citata del Gronovio al Magliabechi.
3TEFAN > GRANDE
Ili
sferza, perchè non solo soffoca ogni propensione allo studio " ma fa sembrare ai gio-
vani una galera la scuola, e non può infine metter l'ingegno ove non c'è „ (1).
Devesi saper grado al M. per questa mitezza di punizioni corporali, proclamata
in tempi in cui la sferza doveva esser Io stendardo della scuola. Tuttavia alle volte
il castigo corporale pare si imponga, e il M. in un caso, ma sol o, lo per-
mette: nei falli dei costumi. Di quest'avviso era già stato G. Locke, che pure in
un caso solo acconsentiva che il fanciullo fosse battuto, quando si mostrava ostinato
e ribelle; ma anche allora in guisa che non il dolore, ma la vergogna avesse la
parte principale nel castigo.
Del resto prima di loro, fra i molti altri, anche Michele de Montaigne nel suo
aureo Libro dei Saggi, che fu giustamente appellato dal Cardinale Du Perron " il
'• breviario dei galantuomini „, aveva già scritto contro le pene corporali usate contro
i discenti (2).
In seguito il sistema d'educazione, a base di battiture, andò sempre scompa-
rendo sotto i colpi dei dotti, ma non tanto rapidamente e facilmente, se da noi solo
nel 18K) fu definitivamente abolito, quale del tutto antipedagogico e servile.
Ma per ritornare a noi, siccome il M. intendeva far notare la gravità dei falli
dei costumi, ci pare non s'apponesse male ricorrendo, in quell'unico caso, alla gravita
ed eccezionalità della punizione. Del resto il suo scopo era evitare assolutamente ogni
avversione alla scuola, ed in questo modo egli riusciva benissimo nel suo intento.
Ad evitare poi le occasioni di questi castighi che avviliscono non meno l'educando
che l'educatore, il M. suggerisce di ricorrere alla ragione, e di dimostrare al giovane
che volontariamente erra, il torto che fa a chi cerca il suo bene e non bada a pre-
mure e sacrifizi (3). Se questo pure non vale, è inutile ricorrere alla forza, perchè
difficilmente si ottiene con essa quanto fu negato alla prudenza e alla ragione.
I sistemi moderni, l'abbiamo già detto, hanno dimostrato che il M. aveva ra-
gione, e a noi non resta che registrare questo merito di più nell'opera civile mu-
ratori a na.
La parola indirizzata al cuore, e la conversazione coi dotti. — Ma primo, principa-
lissimo mezzo pedagogico si deve considerare la parola che lega l'educatore all'educando.
(1) Lettera al Conte Giovanni Artico di Porcia.
(2) " J'accuse toute violence en l'éducation d'une ame tendre, qu'on dresse pour l'honneur et
" la liberto. Il ny a ie ne scais quoy de servile en la rigueur et en la contrainete ; et tiens que se
" qui ne se peult taire par la raison, et par prudence et addresse, ne se faict iamaia par la force.
* On m'a ainsin eslevé: ils disent qu'en tout rnon premier ange, ie n'ay tasté des verges qu'à deux
" coups, et bien mollement „. Egli pertanto usa il medesimo trattamento coi figli suoi, per i quali
non adopra per correggerli " que paroles, et bien doulces: et quant mon desir y seroit frustré, il
" est assez d'aultres causes ausquelles nous prendre sans entrer en reproche avecques ma discipline,
" que ie scais estre iuste et naturelle. Je n'ay veti aultre effect aux verges sinon de rendre les ames
" plus laches, ou plus malicieusement opiniastre „ (M. de Montaigne, Essate. Parigi, 1843, libro II,
cap. Vili, pag. 239-40,1 Ed altrove riferendosi al comune uso della scuola, di " imparar il verbo al
suon di nerbo „ si esprime con non minor forza ed efficacia. " Cette institution „ — l'insegnamento
— " se doibt conduire par une severe douleeur, non comme il se faiet; au lieu de convier les enfants
" aux lettres, on ne Ieur presente, a la verité, que horreur et crauté. Ostez moy la violence et la
" force: il n'est rien, à mon advis, qui abastardisse et estourdisse si fort une nature bien nee „
(Kb, libro I, cap. XXV, pag. 89).
(3) Cfr. Filosofia Morale, cap. XX, pag. 175.
17 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI
81
Mercè la parola maestro e discepolo comunicano insieme, si interrogano, si rispondono ;
mercè la parola si ammaestra, si erudisce, si compie in fine il più alto magistero
educativo. " La lingua dell'Uomo è uno strumento mirabile delle umane azioni, a lui
dato da Dio, acciocché l'uno possa comunicare coll'altro gl'interni suoi pensieri per
mezzo delle parole „ (1). Ma anche la parola deve essere educata e guidata da
sagge regole, e perchè essa riesca veramente efficace deve essere rivolta al cuore.
Si deve mirar sempre, e prima di tutto al cuore, consiglia continuamente ed insi-
stentemente il M., bisogna parlare al cuore, indirizzarsi al cuore, lusingarlo colla lode,
coll'approvazione, coll'amor proprio, che è il primo mobile delle azioni umane (2).
Ma anche qui occorre badare che il discente non luceva passivo la parola del-
l'educatore, ma essa sia l'effetto del loro lavoro mentale, e alla sua formazione
concorra l'opera d'entrambi. A tal uopo utilissima torna la conversazione coi dotti,
che si può davvero dire la più dilettevole e facile palestra d'istruzione. Il M. ne
fu sempre vaghissimo, ed essa appunto formava il desiderio più imperioso della
sua gioventù. È commovente vedere come egli scrive a venticinque anni: " Haec una
me tangit cupido, hoc unum mihi votimi inhaeret, ut ab eruditis literarum culto-
ribus amoiis communionem obtineam „ (3). Ed in seguito: " Dulce est erudictionis
sectatoribus quotidie cum mortuis (= libri) versari, dulcius profecto futurum cum
vivis, a quibus brevi facilique compendio eruditior in die discedas „. E con dolce,
affettuosa compiacenza ricorda ancora quel giorno (4), in cui per la pubblicazione di
alcuni versi potè aver l'adito alla dotta conversazione di alcuni felici ingegni e let-
terati. Oh! possano questo intendere taluni, e persuadersi una volta che grande, im-
menso bene può a volte derivare da una sola parola loro, da un solo sguardo, da
un saluto. Se lo ricordino cui tocca, se lo ricordino cui sta a cuore il progresso delle
scienze, che l'inaccessibilità non è mai virtù, ma debolezza perniciosa, e che nessuno
mai nacque maestro.
Imitazione. — L'imitazione è un fatto necessario, naturale alla creatura umana,
perchè dal di fuori questa deve prendere gli elementi che le abbisognano per lavo-
rarli internamente e uniformarli a se, onde formare il carattere. Grande importanza,
secondo il M., occorre quindi dare all'imitazione, e grande cura aversi perchè gli ele-
menti che essa si assimila siano sani. Occorre pertanto che il bambino sia circondato
da persone che si comportino bene, perchè più potente e gagliarda che mai è l'imi-
tazione nei verdi anni. Infatti come il bambino si appropria della lingua loro, così
si appropria dei loro costumi, e un abito contratto in gioventù resta generalmente
compagno per tutto il rimanente della vita. Indicibile è la forza dell'ambiente, e
quelle stesse leggere impressioni che noi crediamo senza conseguenza, finiscono col
t^mpo di imprimersi nella mente del bambino con tanta forza, che egli seguiterà
adulto a fare, od evitare, ciò che allora gli piaceva, o ripugnava. Devesi inoltre av-
vertire che la forza delle impressioni cattive è maggiore di quelle buone, vuoi per
l'innata tendenza al male, vuoi perchè la fantasia nostra propende maggiormente pel
piacere immediato che suol seguire alle azioni cattive, che non pel remoto che ci
(1) Cfr. Filosofia Morale, cap. XX, pag. 170.
(2) Id., cap. XII, pag. 126.
(3) Lettera a Corrado Janning. Milano, VII Kal. Aprili*, 1627, Camfori, I, 316-17.
(4) Vedi lettera al conte di Porcia.
Sekie II. Tom. LUI.
82 STEFANO GRANDE 18
offre la virtù. " Certo se non mancassero a questo dovere i Genitori, e se tutti sa-
pessero dare, come il latte per cibo a i Corpi, cosi il latte dei buoni Costumi a gli
Animi de' loro figliuoli, non sarebbe così copiosa al mondo la schiera dei malviventi
e degli scapestrati „ (1).
Ma non basta che l'imitazione sia spontanea, non basta che si lasci imita]
deve far imitare, e favorire l'imitazione, ma imitazione riflessiva e consapevole di se.
Questa imitazione poi suppone due termini armonici: il tipo da imitarsi, e l'azione
di chi scientemente imita ; termini che abbracciano, si può dire, tutta la scienza pe-
dagogica, e dei quali non ci occorre parlare partitamente, perchè intorno ad essi si
aggira tutto il complesso della nostra trattazione.
Emulazione. — Frutto dell'imitazione riflessiva e consapevole di sé, si può rite-
nere l'emulazione. È questa un potente mezzo, e una forza di primo ordine pel pro-
gresso scientifico e per la coltura in generale. Occorre pertanto che il buon istitutore
la favorisca, ma nello stesso tempo abilmente la guidi, affinchè non fuorvii e degeneri
dal suo scopo. " Concordia nimirum, et collatis consiliis res literaria crescet, ac ubi
aemulationem ingenia conceperint, non nisi uberrimi fructus in literis videntur spe-
randi „ (2). Ma essa è un' arma di difficile uso, e il M. stesso che, per trar frutto
da una sana emulazione, aveva tentato di riunire in una Repubblica Letteraria i più
valorosi ingegni d'Italia, se ne ricredeva tosto, persuaso che ne verrebbe più scandalo
che vantaggio, perchè quella che egli proponeva per emulazione, si sarebbe tosto
cambiata in ringhiosa invidia. " E al vedere in lontananza, scrive egli (3), le mene,
le brighe, le invidie, i sotterfugi, le calunnie di quella gente (i Letterati), che sarà
da vicino?.... Che non farebbero quei grandi animali della gloria (sic), cioè gli uomini
di lettere, posti tutti in un serraglio (continua la metafora, scriverebbe il Giusti!)
e tutto dì gli uni sul volto degli altri?.... Pur troppo allora più che mai si vedrebbe,
che il bollor degl'ingegni, la diversità delle sentenze, e l'ostinazione in esse, il cre-
dersi, o almeno il desiderarsi superiore agli altri, e il concorrere a' medesimi premj,
o pure al sol premio della gloria, son tutti troppo gagliardo incentivo alle gare et
invidie „ (4).
Ma è un fatto innegabile che usata in più modeste proporzioni, e saggiamente
interpretata, l'emulazione non può a meno di dare buonissimi frutti. Occorre col-
tivarla senza timore, ma insieme con maestria e destrezza; ed allora è così certa
la sua efficacia, che in base ad essa principalmente il M. stesso non dubita di
anteporre le scuole pubbliche alle private, ove essa manca, riconoscendo che " essa
è la fonte prima di quel diletto che rende agevole ed anche dolce ogni fatica, e
il quale con gran cura dovrebbe studiarsi per farlo nascere in cuore ai giova-
netti „ (5).
Ma anche altrove (6) il M. si dimostra assai favorevole alla saggia emulazione,
ed anzi nella sua importantissima lettera del 1721 al Conte di Porcia, afferma che
(1) Filosofia Morale, cap. XLII, pag. 395.
(2) Lettera a Girberfco Borromeo Arese, 1699, Campobi, li, 416-18.
(3) Lettera al Conte di Porcia.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Cfr. Filosofia Morale, cap. XXX, pag. '-'77.
19 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 83
all'emulazione sopratutto egli doveva i suoi progressi giovanili. E pertanto da con-
siderarsi essa come un grande mezzo educativo, e molto da consigliarsi, se ebbe il
vanto di ottenere sì lusinghiera confessione da tanto maestro.
Ordine e (/irida negli studi. — Accanto ai grandi mezzi pedagogici citati dob-
biamo riporre l'ordine che deve esser ispirato, nel suo magisterio, da chi educa e
da chi insegna. " Uno dei pregi grandissimi e di chi insegna, e di chi pubblica (e
di chi studia, aggiungiamo noi) è l'ordine che facilita la memoria, che favorisce
l'intelletto, e da cui nasce la scienza, ed un Ingegno mediocre, ben regolato, e
infaticabile nello studio, può giungere a fare cose mirabili, e superar di lunga
mano altri Ingegni grandi, e vasti, ma non regolati, ma impazienti, ma incapaci
di applicazione, e di fatica „ (1). Il danno che deriva dalla mancanza del buon
ordine è incalcolabile, e molti ingegni vanno cosi sciupati, perchè " o non istruiti
o mal regolati sulle pi-ime, gittano mesi ed anni in imparar quello, che nulla deve
loro servire; e troppo tardi conoscendo quel buono, o quel meglio, che si doveva
loro ispirare o insegnare nell'età giovanile, o niun frutto poi danno, o ne danno
assai meno di quel che avrebbero potuto „ (2). Si va dicendo che l' Italia è povera
di grandi ingegni, che essa ha fatto il suo tempo ; niente di più errato. Ingegni non
ne mancano, ma noi li strozziamo nella culla per non saperli istradare e favorire (3).
Grande pertanto è il vantaggio che viene dall'ordine negli studi, ordine che
necessariamente ci deve esser ispirato e suggerito da una saggia guida e dal saggio
criterio altrui (4).
Tali concetti propugna pure il M. nella celebre lettera, già ricordata, ai " Capi,
Maestri, Lettori, ecc. degli Ordini religiosi „ ed altrove ancora (5), dove saggia-
mente tratta pure del metodo e dell'ordine degli studi, disapprovando di sana pianta
il sistema delle scuole dei suoi tempi, principalmente religiose, e alla mancanza di
esso attribuendo la mancanza di dotti religiosi, ed anche di grandi ingegni italiani.
Bellissime parole intorno al buon ordine negli studi, e alla scelta del metodo
scrisse pure il M. nella sua eruditissima lettera al Conte di Porcia, più volte citata,
ma noi dobbiamo accontentarci di questo breve accenno, per non dilungarci troppo
nella nostra trattazione.
Veniamo ora ai mezzi della seconda specie, cioè a quelli propri dell'educazione
che l'uomo fatto dà a sé stesso per raggiungere il fine ultimo della sua destinazione.
Anche questi si differenziano secondo le diverse forme del mondo fisico e sociale in
cui l'uomo assolve la sua vita, e secondo quell'ordine dovrebbero essere distribuiti,
ma noi ci limitiamo ad esporli semplicemente in base al criterio citato.
Lettura. — È questo uno dei più potenti e facili mezzi che l'uomo ha in sua
facoltà di adoperare per la propria educazione, e la sua efficacia è così evidente che
in nessun trattato pedagogico o filosofico essa è trascurata. Dato questo universale
accenno, non bisogna qui aspettarci dal M. gran che di nuovo, ma in questo campo,
(1) Delle Riflessioni, parte II, cap. VII.
(2) Lettera al Conte di Porcia.
(3) Cfr. Delle Riflessioni, parte I, cap. I, pag. 122.
(4) Cfr. Lettera al Porcia.
(5) Cfr. Delle Forze dell'Intendimento Umano, o sia il Pirronismo confutato. Venezia, Pasquali,
1745, pag. 340.
84 STEFANO GKANDE 20
del resto mai del tutto sfruttato, più che altrove " repetita juvant „. La lettura,
osserva il M., deve essere ordinata e saggia; non è col divorare libri che si istruisce
e si educa la mente, ma col leggere buoni libri, morigerati, dettati da persone di
dottrina e pietà. Senza grande e buona lettura difficilmente s'otterrà gloria e fama
nel mondo letterario, né giammai si potrà mirare con ampiezza il grande orizzonte
delle scienze e delle arti. Colla lettura si sveglia l'ingegno, si facilita lo stile, si
invoglia allo studio, si scopre la nostra distanza dai grandi ingegni, si giudica con
più riguardo delle virtù e dei difetti altrui, si apprendono i principi, gli assiomi, le
massime generali delle scienze, gli argomenti poco o male trattati, ci prepariamo
un vasto e fertile campo d'azione . . . (1).
Frutto di mancanza di lettura, o di disordinata lettura, è quel fare da saputelli
che distingue i giovani appena usciti dalle pubbliche scuole (2), i quali si danno a
giudicare e sentenziare di tutto temerariamente (3). Il M. con riuscito paragone li
confronta alla mosca di Esopo, che dal razzo della ruota dove si era posta, pavo-
neggiandosi, mormorava: " Quantum pulverem moveo! „. Ora tale difetto non può
esser meglio corretto che dall'abbondante e sana lettura, che ci fa intendere la vera
portata delle nostre forze e delle altrui. E infatti universalmente ammesso che più
si impara, più si conosce che c'è da imparare, perchè viemeglio si rivelano alla
nostra mente gli sconfinati orizzonti della scienza.
" Bisogna confessarlo, benché sospirando; per quanto l'uomo studj, e si discer-
veili nelle Scuole, e su i Libri, oppure sul vivo e vastissimo libro del Mondo ; in-
comparabilmente sempre sarà più quello, che gli resterà da sapere; e sempre, se
ha senno, e non è un misero adulator di se stesso, potrà e dovrà confessare, es-
sere maggiore senza comparazione la sua Ignoranza, che la Dottrina sua „ (4).
Data questa nostra insufficienza, il M. deduce che la scienza, anzi che superbia,
deve ingenerare umiltà (5).
Così essendo in realtà le cose, ecco quale dev'essere la bandiera dello studioso :
" Bisogna primieramente studiar molto, leggere molto, meditar molto, e mettere un
buon capitale di pi-imi Principi, di Riflessioni, e d'Erudizione, nella guardaroba della
Memoria. Ma questa è una trafittura ai melensi, ai neghittosi, ai troppo agiati Pro-
fessori del sapere, e della Letteratura, i quali forse si aspettavano una facile e
nuova strada per giungere in quattro passi alla Gloria. Altra io per me non ne
so ; ed altra non se n'è finora conosciuta, né si conoscerà, quando il Cielo non
voglia far de' miracoli „ (6).
Questa pertanto la via alla vera scienza, alla gloria, via erta e difficile, ma
resa sommamente più agevole dalla pratica delle cose suggerite, e sopratutto dalla
buona lettura. A complemento di queste osservazioni mi piace riferire quanto il M.
dice di sé stesso, quando giovane ed inesperto, pasceva la sua fervida mente delle
fole, e delle trovate fantastiche de' romanzieri.
(1) Ct'r. Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, pai-te II, pag. 315-25.
(2) Cfr. Filosofìa Morale, cap. XXXIX, pag. 372.
(3) Cfr. Delle Riflessioni sopra il Buon Gasto, parte II, pag. 318.
(4) Filosofia Morale, cap. X, pag. 112.
eap. XXXIX, pag. 373.
(6) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 317.
21 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 00
- Ne' miei più teneri anni mi avvenni in alcuni Romanzi, i quali tanto mi sol-
leticarono il gusto, che quanti ne potei ottenere, tutti con incredibile avidità i-
vorai, fino a portarli meco alla mensa, pascendo con più sapore allora di quelle
favole la mia curiosità, che il corpo de' cibi. S'io dirò che questa lettura serv'i non
poco a svegliarmi l'ingegno, a facilitarmi lo stile, e ad invogliarmi sempre più di
leggere, forse dirò il vero. Ma debbo nello stesso tempo intimare massimamente
a i giovanetti, che non venisse lor mai talento d'imitare un sì pericoloso esempio;
perciocché quand'anche potessero qualche cosa guadagnare dalla parte dell'ingegno,
potrebbono perdere molto da quella de' costumi . . . „ (1).
Il M. parla per esperienza, e noi non sappiamo, se non avessimo altra via da
contemperar la scienza colla virtù, se sarebbe bene ritentare liberamente la sua
prova; ad ogni modo questo è il fatto, che ci devono più star a cuore i' buoni co-
stumi che le scienze, perchè il mondo, fu già detto, può viver.e senza grandi ingegni,
ma non senza galantuomini.
Giornali. — Dopo la lettura in generale, riguardata come mezzo pedagogico, si
devono considerare per importanza, popolarità ed efficacia, i giornali. Ma il M. non
ha occasione di occuparsi di giornali politici e quotidiani, che questi sono un regalo
dei tempi nostri: egli si riferisce più particolarmente a giornali d'erudizione, di
lettere, di scienze, dei quali si augura larga diffusione, lontano di molto dal pen-
siero che essi avrebbero un giorno inondata la società. " L'Italia nostra, scrive
egli (2), ha da rallegrarsi, che se ne sia ripigliata la fabbrica anche presso di noi
altri ne' Giornali che oggidì si stampano in Venezia, con gloria de' loro Autori, ed
utilità e diletto del pubblico. Egli è da desiderare, che loro abbondino i buoni Libri,
e che la savia Lode o la savia Critica invaghino sempre più i Lettori di comporne
de i migliori „.
Propugna frattanto alacremente nuove istituzioni di riviste di scienza, annuali
e mensili, sull'esempio delle nazioni più progredite, affinchè si dia notizia dei migliori
libri composti sì italiani che stranieri, perchè se ne adornino le biblioteche e se ne
approfittino gli studiosi. Ma il marchio doveva farsi sentire già fin d'allora, perchè
il M. si lamenta che esse sieno talora troppo ligie e partigiane, miranti spesso non
tanto a raccomandare un buon libro, quanto a compiacere un amico, o ad adulare
un influente personaggio (3).
Ad ogni modo i suoi desideri furono effettuati dai tempi posteriori, con immensi
vantaggi davvero per la coltura e per le scienze, ma non senza gravi strappi a quella
parte che stava più a cuore al M., e noi non sapremmo se egli, ai tempi nostri,
rinunzierebbe piuttosto alle sue idee o a questo progresso.
Stampa. — Considerati gli effetti, è naturale risalire alle cause, e trattato della
lettura e dei giornali, si presenta spontanea la questione della stampa in genere, e
della sua utilità. Noi siamo usi, e a ragione, di parlar della stampa, come di una
delle più maravigliose invenzioni dell'ingegno umano, ma il M. considerando la que-
stione dal lato morale, si propone di esaminare se questo nostro naturale giudizio
(1) Lettera al Conte di l'orchi.
(2) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 328.
(3) Idem, parte I, cap. [, e Lettere ad A. Vallismeri, Campori, IV, pag. 1329-331, 1545, 1553-54.
86 STEFANO GBANDE l'I
sia proprio giusto, e dà sentenza che può credersi arrischiata. " Ingens Bibliotheca
— scrive egli (1) — ingens malum est, et si rogetis quid commodi Ars Impressola
non intulerit, ego reponam, quid non incommodi? „. E la questione de' tempi, e il
male, si può osservare, era già sentito fin da quando, prima della stampa, il libro
costava tante noie e disturbi prima che entrasse in circolazione, ed era già lamen-
tato da Cicerone stesso. Ma, continua egli, " nisi aliquando tempus cribrimi admoveat,
quo progressura est insana haec cudendi libros prurigo? „ (2). E qui che cosa dob-
biamo rispondere noi del secolo vigesimo? Che diremo noi, non già della quantità dei
libri, che sarebbe il meno male, ma dell'immorale, indecoroso uso della stampa, che
è fatta ormai ministra di corruzione? Non ci farebbe sorridere l'esortazione del M.
agli stampatori di consigliarsi con uomini dotti e savi, prima di intraprendere la
stampa di un libro? (3).
In tal questione poi il M. viene a trovarsi nell'imbarazzo, e alla revisione di stampa
che allora esisteva, e come!, verrebbe quasi ad aggiungere un'altra opera simile, per
frenare le intemperanze e gli eccessi degli scrittori. Cosi egli che si dimostra altrove
tutt'altro che tenero per la revisione, tanto da invocare piuttosto il tempo dei ma-
noscritti, ora si professa tutt'altro che proclive alla libertà della stampa. E per l'una
scrive: " Un' (sic) incomparabil beneficio noi certo riconosciamo dalla mirabil'inven-
zione della stampa, potendo noi oggi, se vogliamo, con poca spesa, divenir dotti.
Ma dappoiché senza misura, senza scelta alcuna han faticato, e faticano i torchi,
per imprimere tanti libri, che non meritano la luce e tanti ancora che meritavano
di perderla, abbiamo anche di che lagnarci di questo beneficio , (4). D'altra parte
poi lamenta la crassa ignoranza e grettezza dei censori, la loro completa dipendenza
e partigianeria, per cui egli stesso è obbligato a non dir ciò che sente e gli " re-
stano nella penna molte osservazioni, forse non inutili, le quali vorrebbero pure la
licenza di scappar in Pubblico, ma son costrette a restar in casa „ (5). E ricorda
un increscioso incidente che gli capitò, in grazia di questa revisione, a proposito
della pubblicazione del suo trattato: " De Ingeniorum moderatione, ecc. „. È questa
un'opera della più sana ortodossia (6), compenetrata del più giusto rispetto agli uo-
mini e alle cose, ove il M. dimostra che la religione, di origine divina, e quindi di
natura infallibile, deve far chinare la fronte agli ingegni umani di natura fallaci;
esser pertanto da biasimarsi coloro che lasciano troppo la briglia ai loro cervelli,
ma tuttavia esser necessaria una certa giusta libertà di pensiero. Ora in grazia di
una gretta revisione " in una delle gran città d'Italia, scrive egli (7), non se ne
volle permettere la stampa, perchè si pretendeva che in un punto io non dessi assai
al Capo visibile della Chiesa di Dio; e né pure in Francia all'incontro mi si voleva
permettere, perchè si pretendeva, che in quel medesimo punto io gli dessi troppo
Il libro pertanto fini coli' esser pubblicato a Parigi, ma con giunte e parentesi che
il M. dovette poi pubblicamente riprovare.
(1) Lettera citata a Gilberto Borromeo Arese.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. / Primi Dissenni della Repubblica Letteraria, ecc.
(4 Della Pubblica Felicità, ecc., pag. 76.
(5) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 22.
(6) Cfr. Campori, voi. Ili, pag. 914-15; 920; 1100-1.
(7) Lettera al Porcia.
23 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 87
Inconvenienti gravissimi pertanto da una parte e dall'altra, rimediabili, nella
mente del M., gli uni coll'istruzione, ..." imperciocché non fanno già paura a i Let-
terati i Censori dotti e savi, ma bensì gli ignoranti e gli imprudenti . . . „ (1) e gli
altri coll'educazione. Ma ai giorni nostri il male si acuì siffattamente da una parte
e dall'altra, che pur riconoscendo le buone intenzioni del M., non possiamo a meno
di paragonare la sua voce a quella del " clamantis in deserto „.
Belle Arti. — Ci sono delle occupazioni e degli studi che possono cooperare mol-
tissimo alla cultura della mente e del cuore, e nel tempo stesso ricreare lo spirito :
tale la moderata applicazione alle Belle Arti. La pittura, la musica, ecc. sono oppor-
tunissime a sollevare la mente profondamente immersa negli studi gravi, e il M. non
cessa di raccomandarle agli studiosi. Così scrive (2) al matematico Gian Simone
Enriquez de Cabrerà: " Ella può temperar bene un'applicazione sì seria (le matema-
tiche) con la dolcezza ed amenità delle arti liberali, e massimamente della musica
e pittura. E per verità non è solamente convenevole, ma necessario ancora agli animi
nostri, questo dolce tradimento che si fa agli studi gravi „.
Alla musica e alla pittura poi egli unisce la loro indivisibile sorella, la poesia,
" il cui proprio fine è quello dei dilettare „ (3). Altrove, in verità, il M. è disposto
a vedere altri più nobili intenti nello studio della poesia e delle arti belle, e pensa
alle loro alte concezioni etiche e morali, ma qui non può che riferirsi al loro scopo
ricreativo, a cui evidentemente e mirabilmente servono. " La poesia è da lodare
perchè dirozza l'Intelletto ed aguzza l'Ingegno, e se non altro, può dilettare: il che
è un Bene a cui non manca il suo pregio „ (4).
Ma anche il fatto di mutar momentaneamente occupazione, può esser di sollievo
al nostro spirito, ed in questo senso appunto, più che altrimenti, devesi intendere
il metodo suggeritoci di alternar il profondo studio coll'applicazione alle arti amene.
Ed egli canta ai giovani:
Non La quiete, ma il mutar fatica
Alla fatica sia solo ristoro (5).
È un metodo un po' duretto, ma non fallisce giammai. u Si meraviglia talora la
gente oziosa in veder persone di lettere, che non sanno levar gli occhi da' libri,
sempre studiando, e senza perdonarla neppure alla villeggiatura. Ve', dicono, quel
buon uomo ! ne sa tanto o crede di saperne tanto, e non sa che egli è dietro a farsi
seppellire prima del tempo . . . „ (6).
Ma io non vorrei che si prendessero troppo alla lettera queste espressioni, e si
pensasse al mio M. come ad un cupo e taciturno cultore delle scienze, o ad un mi-
santropo ; egli pure ama il divertimento, lo consiglia, lo esige anzi (7). Il soverchio
lavoro gravita troppo sul cervello e lo affatica eccessivamente, sicché lo stesso sistema
nervoso è sinistramente scosso. È necessario, doveroso il sollievo ed il diverti-
ti) Delle Riflessioni, ecc., parte II, pag. 22.
(2) Lettera dedicatoria del 1° libro della Vita di C. M. Maggi, Campori, II, 452.
(3) Delle Riflessioni, parte I, cap. IV.
(4) Della Pubblica Felicità, ecc., pag. 171.
ritti inediti di L. A. Muratori, pubblio, pel suo secondo centenario, pag. 45.
(6) Lettera al Porcia.
(7) Cfr. Filosofia Morale, cap. VIII, pag. 97.
STEFANO GRANDE
24
mento (1), ed il M. pure sapeva a tempo e luogo prenderselo ed anzi egli, l'ardente
ed infaticato cultore delle scienze, arriva perfino a raccomandare al suo principe di
istituire pubblici spettacoli, giuochi, divertimenti, accademie, ecc., tome un bisogno
e sollievo del popolo.
Teatro. — " E perciocché il mondo vuol ridere, e sarebbe un misantropo (sic),
chi non ammettesse pubblici e privati divertimenti, io non ho difficoltà di dire, che
anche le Commedie potrebbono influire non poco nel medesimo fine „ (2). Grandis-
sima importanza infatti dà il Muratori al teatro, e non dubita punto di considerarlo,
se interpretato bene e guidato da buon fine, come una grande scuola intellettiva e
morale. " Francamente oso affermare, scrive egli (3), che fra tutti i pubblici spetta-
coli, approvati dalla Politica e dalla Morale per ricreazione de' popoli, il più profit-
tevole, e quasi direi il più dilettevole, è quel delle Tragedie e Commedie, purché
queste siano composte secondo le Regole, che loro e dalla Filosofia Morale, e dalla
Poetica sono prescritte, e purché siano recitate da valorosi attori „. Più che alla
tragedia poi, egli dà importanza etica alla commedia, perchè più piana e semplice,
e più direttamente parla al cuore del popolo; ripetutamente pertanto consiglia agli
studiosi d'occuparsi di questa parte della letteratura, che è fra le più feconde e le
meno coltivate (4).
Ma anche sotto altri aspetti è da approvarsi e promuoversi il teatro. Di-
cemmo già che esso può servir di palestra di buon costume, ed ora aggiungiamo
che può anche servire al principe come buon mezzo di popolarità e di ben operare.
" Il teatro per sé stesso non è illecito. Tale lo fan divenire le oscenità dei Comici,
e le Commedie di cattivo costume; il che troppo disdice ad un ben regolato Governo,
e molto più alla purità del Cristianesimo. Il veder quivi insegnate le malizie, scre-
ditata e messa in ridicolo la Virtù, il Vizio allo stringer de' conti felice, non ci vuol
già un Catone, per riconoscere la deformità di un tale abuso, tanto più pernicioso,
quanto maggiore è la folla degli spettatori. Commedie adunque o in prosa o in versi,
le quali sapessero far ridere, correggessero il ridicolo de' costumi, delle usanze mal
concertate, delle Opinioni stolte del volgo, e destramente porgessero buoni ammae-
stramenti, o almeno nuocere non potessero: renderebbero il Teatro una scuola se-
greta del ben' operare, e però utile alla Repubblica. Se i Principi saggi oggidì im-
piegassero stipendi e regali a chi provvedesse il Teatro di Commedie tali, s'ha egli
da dubitare, che non ne riportassero lode ed onore nel Mondo, e dirò anche paga-
mento da Dio? Lo stesso è da dire delle belle e varie Tragedie; ma di queste non
ne scarseggia l'Italia „ (5).
Dato questo ottimo fine e questa innocenza, il M. non teme di venir meno alla
sua gravità, e alla santità del suo ministerio, occupandosi egli stesso di recitazioni
teatrali, incaricandosi di scegliere gli argomenti, di distribuire le parti, di provve-
dere i personaggi per le rappresentazioni le quali, principalmente per merito suo,
si allestivano alle Isole Borromee, a Cesano, ed altrove, dove il M. andava coi suoi
(1) Cfr. Lettera al Porcia.
(2) Filosofia Morale, cap. XXVIII. pag. 259.
(3) Della Perfetta Poesia Italiana. Venezia, Coleti, 1730, pag. 47
(4) Cfr. Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(5) Della Pubblica Felicità, ecc., pag. 172-73.
25 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI »y
protettori a villeggiare. " Finora, scrive egli stesso (1), ci siamo ricreati con burlette
improvvise, che son riuscite a meraviglia bene. A me è toccata la cura di trovar
ogni giorno i soggetti nuovi e poi di essere il direttore di tutto con fatica e diletto „.
Il M. era troppo uomo pratico per non conoscere i bisogni della natura umana,
e cercando di appagarli nei giusti limiti, non farne buon tesoro (2). Bisogna con-
temperar la fatica coll'opportuno sollievo, perchè anche questo è una necessità della
natura nostra, ed il M. stesso, come desiderava primeggiare nello studio, nelle occu-
pazioni intellettuali così non ricusava di cercar la lode anche nel divertimento. " Se
si potesse avere qualche relazione di quel prodigioso e dilettevole giuoco di T(arocco?),
in cui fate prodezze, scrive all'amico Gatti (3), mi farei grande onore in questa città „.
In un piano di studi pertanto, o in un trattato pedagogico, devesi pur tener conto
del divertimento, e sia questo il teatro o siano i tarocchi, purché non si trasmodi,
si provvederà ad un ragionevole bisogno della natura umana. Ma del teatro e di
altri divertimenti e giuochi terremo parola altrove.
Conferenze. — Posto non trascurabile fra i fattori delle scienze hanno le con-
ferenze, le quali in un piano di studi dovrebbero aver larga parte. Il M. nella famosa
lettera ai Capi, Maestri, Lettori degli Ordini religiosi, suggerisce insistentemente
questa pratica, della quale vede tutta l'efficacia, e pel vivo incitamento allo studio,
e per la soddisfazione dell'allievo. L'efficacia delle conferenze è sociale, perchè ri-
guarda un pubblico intero, che molto più facilmente s'adatta ad apprendere le no-
zioni generali d'una qualunque scienza esposte a voce, che non su libri; è scolastica
perchè scuote la mente, per lo più soverchiamente passiva del discente, sicché questi
segue con attenzione particolare l'oratore, per approvarlo ed imitarlo se per lui ha
stima già prima concepita; per criticarlo, o almeno per giudicarlo, se l'oratore gli
è nuovo, o press'a poco della sua portata. Propone pertanto il M. che si stabiliscano
dei giorni fissi, destinati esclusivamente alle conferenze, ed ogni allievo per turno
tenga la sua, potendosi così formare un'utile palestra di emulazione, di gara, di studio.
Noi moderni possiamo esser giudici delle rette opinioni del M., noi che sappiamo
qual voga abbiano preso ai dì nostri le conferenze, ciò che non sarebbe davvero un
male, se la tendenza ad esse non si fosse cambiata in vera manìa.
Molti altri mezzi usa l'uomo ancora per continuare la sua coltura individuale,
e raggiungere il suo fine nel mondo in cui deve vivere; e molti in realtà ne sug-
gerisce ancora qua e là il M., viaggi, passeggiate, accademie, foro, ecc.. ma a noi
pare di aver detto abbastanza per rivelare il pensiero e l'attitudine pedagogica mu-
ratoriana, tanto più che di alcuni di essi avremo occasione di parlare ancora lungo
la nostra trattazione.
(1) Lettera a Gio. Jacopo Tori. Cesano, 7 ottobre 1699, Campori, II, 410-11; cfr. inoltre la lettera
a Carlo Borromeo Arese, 1699, Campori, II, 410; e quella ad Apostolo Zeno, 1699, Campori, II. 394-95.
(2) Cfr. Filosofia Morale, cap. XXVIII, pag. 260.
(3) Lettera ad Antonio Gatti, 1701, Campori, II, 503.
Serie IL Tomo LUI. 12
90 vo graxde 26
PARTE SECONDA
L'educazione considerata nelle sue forme.
V. — L'Educazione Fisica.
Seguendo l'ordine naturale della scienza, considereremo i pensieri pedagogici
muratoriani secondo la comune divisione dell'educazione in Fisica, Intellettuale e Mo-
rale, prendendo le mosse dalla prima.
L'educazione fisica ha la sua origine fondamentale nella necessaria unione fra
lo spirito e il corpo; e siccome lo spirito si serve del corpo come strumento della
sua operosità esteriore, appare facilmente quanto importa che questo sia conve-
nientemente educato. Tale certa ed evidente corrispondenza, affermata più o meno
incondizionatamente fin dai tempi più antichi, è pur notata in tutta la sua ampiezza
dal nostro diligente maestro. " È da por mente, che se non in tutto, almeno in gran
parte, l'animo umano non può operare senza ajuto de' Sensi, e dipendenza dagli
organi del Corpo. Ed in oltre lo stesso corpo, coi suoi movimenti, spiriti, ed umori,
ha bene spesso una potente influenza sopra dell'animo „ (1).
Organi del pensiero sono segnatamente quelli proprii dei sensi fisici esterni, i
quali tutti hanno il loro centro nel cerebro. E qui il M. scrive parecchie eruditissime
pagine — Capitoli II, III, IV della " Filosofia Morale „ — dimostrandosi informatissmo
dei pronunziati e dei progressi dell'anatomia e fisiologia, sorprendendoci talora della
competenza e precisione delle sue cognizioni. I sensi fisici sono le finestre per cui le
impressioni del mondo corporeo entrano nell'anima, che su di esse elabora le sue
conoscenze, le quali quindi saranno tanto più perfette quanto più perfetto è l'ufficio
dei sensi.
Da quanto egli espone possiamo fra l'altro, stabilire: 1° che havvi una inces-
sante e intima corrispondenza d'azioni fra l'anima e il corpo; 2° che lo spirito si
sviluppa mercè il sussidio dei sensi fisici esterni. Da questi due punti pertanto emanano
due grandi conseguenze pedagogiche:
a) che la vita corporea ben sviluppata esercita una benefica influenza sulla vita
della mente ;
b) che lo spirito umano ha nel corpo uno strumento adatto alla sua attività.
se esso, mediante l'educazione fisica, è cresciuto agile, sano e vigoroso.
Sono due grandi leggi pedagogiche di indiscutibile verità ed universalmente am-
messe, le quali devono pure indicare qualche cosa nella concezione scientifica murato-
riana. Ma procediamo.
È variamente discussa la questione dell'eredità fisiologica in pedagogia, se cioè
i figli sortano dalla nascita un organismo preformato e predestinato ad un avvenire
patologico simile ai genitori. Il M. l'accetta e vi riconosce una moderata influenza,
ma a questa contrappone un' altra forza, l'ambiente fisico, il quale fa pure sentire
(1) Filosofia Mordle, cap, 11, pag. 25.
27 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 91
vivamente la sua virtù modificatrice sul nostro corpo. Ed ecco come ragiona : " Do-
vrebbe un Uomo dotato di felicissimo ingegno , o sia di un Cerebro lavorato con
gran parzialità d'artificio, produrre un altro Uomo affatto simile; dovrebbe la testa
meschina d'un altro mirarsi copiata a puntino ne' suoi figliuoli; e in fatti nella prole
si trasfondono non di rado i lineamenti, le inclinazioni, e massimamente le malattie
de' Padri. Ma questi innesti noi li osserviamo non poche altre volte poco simili al
tralcio loro. E non per altro, se non perchè l'Uomo, quantunque solo principio vero
della generazione corporea dell'altr'Uomo, non può senza il concorso altrui formare
un altro se stesso: e concorrendo il Sangue, gli Spiriti, il Latte e insino la Fan-
tasia della sua Compagna a concepire, a formare, a perfezionare ed alimentare il
feto, vien questo perciò a sortire bene spesso configurazioni, forze, spirito, ed umori,
che son tutti diversi da quei del Padre, e dissomiglianti ancora da quei della Madre :
non potendo se non troppo difficilmente in un miscuglio di tali spiriti mantenersi
quella sola architettura, che proveniva dal Padre „ (1).
Non è quello che si può dare di più rigorosamente scientifico, tuttavia il con-
cetto muratoriano balza fuori chiaro e netto. Ma oltre alla ragione fisiologica, deve
pur tenersi conto, nella produzione e nello sviluppo umano, della ragione fisica, ed
il Capitolo IV della " Filosofìa Morale „ è in gran parte destinato dal M. a dimostrare
l'influenza degli oggetti fisici esterni sulla nostra formazione e costituzione. Il clima
caldo pi-oduce ingegni più vivaci, perchè il calore solare sviluppa calore interno nel
corpo; il freddo esterno genera forza e vigore alle fibre e ai muscoli, ma general-
mente produce spiriti grossolani. L'aria è pure un efficacissimo coefficiente fisico. I
paesi umidi, paludosi e bassi difficilmente produrranno spiriti di egual vigore che le
colline e i monti, mentre l'aria pura, asciutta, colla sua maggiore elasticità confe-
rendo maggior brio, " e per così dire un certo fuoco al sangue „, produrrà ingegni
più sottili e pronti. Altrettanto è da dirsi per chi abita al mare, o lontano da esso,
in paesi soggetti a venti secchi o a venti umidi, ecc. ecc., cause tutte che influiscono
sulla salute e sullo sviluppo del corpo.
Ma il M. non si contenta di stabilire così semplicemente il fatto, egli vuol de-
durne norme etiche e pedagogiche. Questo infatti è il magistero dell'educazione fisica,
che studiando le cause e ponendole in armonia colle leggi fisiologiche, ne ricava
norme e mezzi che contribuiscono ad assolvere il suo compito. Questi mezzi pertanto,
secondo i migliori pedagogisti (2), si riducono a tre: Igiene, Ginnastica, Coltura dei
sensi fisici.
Riguardo all'igiene osserviamo, che se poco può darci il M. sotto l'immediato
rispetto pedagogico, intorno ad essa in generale considerata, scrisse erudite disserta-
zioni " De potu vini calidi „ e buoni trattati " Del Governo della Peste „ ecc., e parte
della " Filosofia Morale „ ; per lo scopo nostro particolare detta poi sagge osserva-
zioni sulla casa, sui vestiti, sulla nettezza e pulizia del corpo, salubrità dell'aria,
nutrizione, sonno, ecc., ed in generale su tutti i fenomeni della vita vegetativa (3).
(1) Filosofia Morale, cap. Ili, pag. 49-50.
(2) Cfr. G. Allievo, Studi Pedayogici, pag. 375.
(3) Si può dire che tutto il Trattato del Governo della Peste sia basato su norme igieniche , e
ad esso mandiamo pei- questa parte.
92 STEFANO GRANDE 28
Ma più abbondanti sono i suoi accenni al secondo mezzo dell'educazione fisica,
alla ginnastica, la quale egli considera anche dal punto di vista morale. " Nei secoli
barbari si esercitava la nobil Gioventù in Giostre, Tornei, ed altri armeggiamenti,
in Caccio e Giuochi faticose e in suonar vari strumenti. Ne sapevano più de' nostri
tempi, ne' quali veggiamo di che tempra sieno i solazzi della nobil Gioventù. Quanto
meno sarà essa in Ozio, dandosi ad applicazioni e fatiche oneste, tanto più sarà
lungi dall'abbandonarsi a i Vizi. Giacché molti non hanno mente capace d'alti i
nobili applicazioni, almeno tengano il corpo applicato a onesti esercizi, o ad arti
convenevoli a persone civili. Io non oserei dire che i Giovani de' vecchi tempi, fos-
sero migliori de' nostri: ma si può ben dire che nel loro contegno comparisse più
del virile, non perdendosi essi le due ore alla Toletta, per addottrinar la zazzera
colle maniere femminili, e per prendere in prestito dai bussolotti quel colore che la
natura lor negò „ (1).
Cosi egli dalla ginnastica, mezzo di educazione fisica, si eleva a considerazioni
morali e sociali , e raccomanda ai Principi , e in generale ai Capi del governo, di
aver a cuore la prosperità fisica dei loro popoli, di non lasciarli infiacchire nel-
l'ozio e nella quiete, di allestir per loro pubblici spettacoli ginnici, corse di cavalli,
giostre, carroselli, regate ecc. (2).
Colla ginnastica hanno strettissima relazione i divertimenti e in generale tutte
le azioni che suppongono moto, e al bisogno del moto è subordinata tutta la vita, e
principalmente la giovanile. Ma il M. non si contenta di parlar in generale di diver-
timenti ed esercizi fisici, egli viene anche al particolare, e li considera e li individua-
lizza dal punto di vista di convenienza a ciascuna età, condizione, sesso, luogo ecc.
" V'ha di que' giuochi, che non solamente son leciti, ma anche tali, che se ne può
lodare e raccomandar l'uso a i Giovani, e son quelli, che entrano nella schiera degli
esercizi corporei, e contribuiscono alla conservazione d'un importante bene, cioè della
Sanità. Sono da annoverare fra questi la Lotta, la Racchetta, la Palla (non osando
io parlare si francamente del pallone) il Trucco da Tavola, o sia il Bigliardo, il
Pallamaglio, le Poma ecc. Altri son leciti e lodevoli per le persone gravi, come i
giuochi d'ingegno, purché onesti, gli Scacchi, lo Sbaraglino, ecc. Altri infine sono o
pericolosi, o cattivi, se non per loro natura, certamente per l'abuso, che ne fan d'or-
dinario gli stolti mortali, col cagionare o a se stessi, o ad altri, un grave danno .. (3).
Cosi ottemperando alle esigenze ed ai bisogni della natura, il M. informa tutti i
divertimenti giovanili al moto ed alla ginnastica. Alla lotta, palla, bigliardo ecc.
egli unisce altrove l'equitazione, la caccia, il nuoto ecc., ma prima di tutte e in
modo speciale, le passeggiate. E non è poco pel secolo XVIII, e dico anche pei
tempi nostri, in cui falsandosi un giusto intento, si obbligano maestri e scuolari a
far nella scuola capitomboli, salti, l'uomo volante, e simili giuochi da acrobatici della
piazza (4).
(1) Della Pubblica Felicità, pag. 39.
(2) Id., eap. 26.
(3) Filoso/io Morale, eap. Vili, pag. 98.
(4) Cfr. G. Allievo. La riforma dell'Educazione modi ma, ecc., pag. 61 : ed 0. Turchetti in " Gaz-
zetta di Torino „, 29 ottobre 1878.
29 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI t. A. MURATORI
Ma il M. nel campo dell'educazione fisica è benemerito anche sotto altri aspetti.
Egli vuole che si lasci alla natura di formar il corpo come crede, e senza incorrere
nelle esagerazioni degli Spartani, bandisce gli eccessivi riguardi, le soverchie atten-
zioni che rendono delicati e viziati i fanciulli, e irresistenti alle menome contra-
rietà (1). E questo già il pensiero di Quintiliano, che insorge contro la soverchia
accondiscendenza fisica verso i fanciulli: u Utinam liberorum nostrorum mores non
" ipsi perderemus. Infantiam statini deliciis solvimus: mollis illa educatio, quam indul-
" gentiam vocainus. nervos omnes et mentis et corporis frangit „ (2). Non diversamente
la pensava il Montaigne, il quale pure scriveva (Mi: L Endourcissez l'enfant à la sueur
" et au froid, au vent. au soleil, et aux hazards qu'il lui fault mespriser: ostez luy
" toute mollesse. et delicatesse au vestir et coucher, au manger, et au boire ; accou-
" stumez le à tout: que ce ne soit pas un beau garson et dameret, mais un garson
* vert et vigoreux. Enfant, nomine vieil, i'ay tousiours creu et jugé de mesme „. Punto
diversamente scriveva il Locke, e in tempi piti vicini a noi il Rousseau ed in gene-
rale tutti i più insigni maestri dell'arte pedagogica.
Di qui alla morale è breve e facile il passo pel M.. il quale si ferma attorno
a questa, tanto più volentieri, in quanto che per lui la ginnastica non è solo l'indice
più sicuro della buona sanità, ma anche, e giustamente, un valido mezzo di pratica
moralità.
Ma anche dei mezzi opportuni pel buon mantenimento della salute parla il M..
e tra i primissimi ricorda la Temperanza " virtù cotanto essenziale, che da i saggi
è riposta fra le primarie, e che sobrietà si nomina, in quanto ci ammaestra, affinchè
non rechiamo nocumento a questa material parte di noi stessi, ed essa noi rechi
all'altra, cioè all'Anima nostra „ (4). Nocivi al corpo sono pertanto tutti gli eccessi
di qualunque genere, " imperciocché ogni eccesso che si commetta nei piaceri corporei,
snerva o infievolisce il Corpo stesso, e gli prepara una dura penitenza di febbri e
d'altri malanni „ (ó). Qui egli passa in esame le funzioni, gli usi, gli scopi dei sensi,
di tutti notando le intemperanze e gli eccessi, e sopratutto fermandosi sul Gusto. " Del
" Ne quid nimis „, celebre documento d'un antico filosofo, dappertutto deve farsene
conto: e qui specialmente, essendo evidente, che l'opprimere col cibo e colla bevanda
il Corpo, o presto o tardi si ha da pagar caro colle Malattie, e spesso ancora con
quelle che non han rimedio „ (6). II male è vecchio e il M. cita l'epistola XCV di
Seneca, dove i cuochi non sono davvero considerati come i più grandi benefattori
dell'umanità: " Nunc quam longe processerunt mala valetudinis! Has usuras Volu-
" ptatum pendimus, ultra modum fasque concupitami ni. Innumerabiles esse Morbos
" miraris ? Numera coquos „.
Non meno utili e sagge osservazioni ci dà sugli altri sensi, la vista, l'udito, il
tatto ecc., per il che, anche senza poterlo oltre seguire, ci pare di poter rilevare qui
(1) Filosofi» Morale, cap. XXXIV, pag. 318. — Identici concetti espone pure nel lib. T, cap. XXV.
pag. 81, e lib. II, cap. VI, pag. 227 dei suoi Saggi il Montaigne, che al Muratori non doveva certo
essere ignoto.
(2) Quintiliano, Istituzioni Oratorie.
(3) Mohtaighb, Essais, lib. 1. cap. XXV. pag. 89.
4 Filosofia Morale, cap. XXXIII, pag. 301.
(5) Idem, pag. 302.
(6) Ìbidem.
9 | STEFANO GRANDE 30
un nuovo merito del M. Egli infatti senza punto piccarsi di pedagogia, non solo non
trascura nessuna parte di essa, ma parla anche diffusamente della coltura dei sensi (1),
ciò che altri della professione, e sensisti convinti, si dimenticarono di fare.
Molti altri mezzi di educazione fisica, che possiamo dire indiretti, si pò
raccogliere nel M., quali la tranquillità e serenità dell'animo, la moderata applica-
zione del pensiero, l'integrità del costume ecc., ma questi mezzi s'accostano di troppo
alla filosofia morale, ed è forse sufficiente l'accennarli semplicemente così.
Chiudiamo pertanto queste poche cose sull'educazione fisica, ritornando ancora
>ul inerito del M. il quale, in tempi in cui la sana cultura del corpo era del tutto,
o quasi, trascurata, si riferiva ad essa insistentemente, dando regole e precetti se
non del tutto originali, certo non trascurabili, sulla conservazione della salute cor-
porale, e sullo svolgimento delle forze fisiche; scopo la prima dell'igiene, il se-
condo della ginnastica.
VI. — Educazione Intellettuale.
Dopo l'educazione del corpo si presenta a noi spontanea e diretta la trattazione
dell'educazione della mente, che si divide in intellettuale, estetica, morale e religiosa.
L'educazione intellettuale deve essere formale e materiale; quella ha per ufficio
il pensare, questa il conoscere. Tale divisione misconosciuta da alcuni, che tutta la
cultura intellettuale riducono all'apprendere, cioè all'istruzione, troviamo accennata
dal M. nella sua definizione dell'intelligenza e dell'ingegno. " Quantunque Intelletto
ed Ingegno o siano o paiano la stessa cosa, tuttavia per nostro modo d'intendere,
nel nome d'Ingegno, noi siamo soliti a significare la forza dell'Intelletto, perciocché
tutti gli uomini hanno Intelletto, ma non tutti Ingegno „ (2). Ingegno pertanto è la
forza dell'intelletto. " e col nome di Intelletto (3), che anche si vuol appellare Mente,
intendiamo la Facoltà o Potenza, che ha l'anima nostra, di pensare, cioè di appren-
dere le Idee delle cose, di combinarle, di dividerle, di astrarre, di giudicare, di formar
assiomi universali, di raziocinare, di far altre simili azioni, delle quali è solamente
capace un Ente ed Agente reale spirituale, ed è incapace la Materia, per quanto si
voglia organizzata e sottilizzata „.
Da tutto questo pertanto si deduce che pel M. l'ingegno è l'intelligenza cono-
scente, scopo della cultura materiale; l'intelletto la pensante, scopo della cultura
formale. Ma quantunque non siano l'identica cosa, il pensare e il conoscere hanno il
loro centro d'unità nella medesima potenza, e per conseguenza anche le due specie
di cultura intellettuale devono integrarsi a vicenda, e in guisa armonizzare che l'una
sia il necessario complemento dell'altra. Ma il M. rilevato cosi il fatto, non può fer-
marsi a dar precetti separati per queste due funzioni dell'intelligenza, e a noi non
rosta quindi a considerarle che come miranti ad un fine solo, l'istruzione.
Relazione fra le scienze. — Cominciamo col metter in evidenza il merito del M.
di aver notata e propugnata, sì in teoria che in pratica, la necessaria corrispondenza
ed armonia fra le scienze. Non è una novità, il M. stosso ne conviene, e ricorda che
(1) Cfr. Filosofia Morale, cap. XXIII. XXI V. XXV.
(2) Delle Forze dell'Intendimento Umano, ecc., pag. 338.
(3) Della Forza della Fantasia Umana, pag. i.
31 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI I.. A. MURATORI 95
già Aristotele scrisse (1): " èmKoivoùo"i iràffai éTno"rrmai àXXiiXais „; e Cicerone: " omnes
" artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum, et
" quasi cognatione quadam iater se contineatur ., (2). Data quest'universale corrispon-
denza delle scienze, si vede subito la grande utilità che deriva dall'applicarsi con-
temporaneamente ad esse. " Non si può dire, quanto gran vantaggio possa trarre
l'ingegno umano da tanto apparato, mentre le ragioni, i fondamenti, le divisioni, e
tant'altri lumi di una Scienza possono poi servir di base, prova, ornamento ed esempio
dell'altre. E ci ha alcune d'esse, che necessarie assolutamente sono per ben inten-
derne, e ben trattarne alcune altre, inquantochè chi manca nelle prime, sicuramente
non passerà franco per le seconde „ (3).
Ma il M. non vuole consigliare agli studiosi la coltura contemporanea di tatti-
le discipline, perchè sa benissimo che spesso, al dir di Eraclito, " TroXuuàGiv voòv où
òiòàffKe'. ,,-"A me basta di dire, che la cognizione di molte scienze ed arti e la
diversa Erudizione, qualora s'accoppiano con Ingegno e Giudizio singolari, possono
produrre effetti mirabili, e cagionare, che allora perfettamente si truovi e mostri il
Bello di quella Disciplina, che si vuol trattare ex professo. E Plutarco nel Libro
dell'Educazione dei Figliuoli è di parere che almeno s'abbia da assaggiare l'Enciclo-
pedia, in guisa che non ci arrivino nuove le varie Discipline „ (4).
Il pensiero del Muratori pertanto si è, che occorre applicare la mente giovanile
contemporaneamente in un vasto campo, non in uno studio solo, perchè cosi essa può
esplicarsi e fortificarsi meglio. Il voler subito restringerla in una data materia, è
volerle precludere ogni altra via di azione e di estrinsecazione, cosa che sarà poi
necessario praticare quando, corroborata dai principi generali comuni fra le scienze,
essa si sarà rivolta da se, spontaneamente, ad una scienza particolare. Cosi fece egli,
senza punto temere di cadere in un lavoro vano, o in una confusione di materie e
studi. Del resto, la varietà delle opere stesse del M., le diverse scienze da lui feli-
cemente trattate, nel tempo stesso che ci rivelano l'universalità del suo ingegno, ci
provano luminosamente la verità delle sue asserzioni.
Ma primo frutto di questa generale coltura delle scienze è l'indecisione, e il Mu-
ratori stesso, a 22 anni, quando ha già dato prova di non comune ingegno, quando
ha già scritto brillantemente una celebre e dotta dissertazione sulla lingua greca, e ne
prepara un' altra non meno insigne sulla storia — le vedremo tutte due — e sta pub-
blicando il primo tomo dei suoi Aneddoti, il M. stesso, dico, indeciso, sconfortato,
piena la testa di studi, ma incerto dove piegare il suo ingegno, mestamente scrive:
" Equidem nonnunquam et nunc temporis potissimum sollicitari non desino, quum
nullam ^istituendi studii rationem comperiam, et inter tot, quibus animum possem
advertere, nulla se meis obiiciant oculis, quae certam fructus olim referendi spem
faciant „ (5). Passate pertanto in breve rassegna le scienze, a ino' di conclusione ri-
batte: " quod obiici posset nosco, sed quo pendere mens debeat hactenus non vidi,
et quidem unde mihi honor lucrumque sii obventurum ignoro „. Ma questa inde-
(1) Aristotele, Analitici Posteriori.
(2) Cicerone, Orazione a furor d'Archia.
(3) Delle Riflessioni, ecc., pag. 321.
(4) Ibidem, pag. 322.
(5) Lettera a Francesco Caula. Mutinae, V Idib. Feb. 1694, Campori, I. 478.
96 STEFANO GRANDE 32
cisione gli tornerà utile, ed egli non lascierà di compiacersene, e di proporla all'altrui
imitazione. " Non si sarà già maravigliata V. S. Illustrissima — scrive egli tutto sod-
disfatto, un quarto di secolo dopo, al Conte di Porcia — ma potrebbe ben maravi-
gliarsi e ridere alcun' altra persona al vedere tanta mia instabilità, e tanto mio
caracollare per varie arti e scienze, potendo parer questa un' intemperanza d'ingegno,
e una voglia di non imparar nulla, per voler imparar tutto; ma chi giudicasse cosi
non si scoprirebbe testa di gran circonferenza. Ne si può dire, che aiuto e che nerbo
dia un' arte all'altra e che legame abbia insieme la maggior parte della erudizione
e della scienza „.
Ne il M. si cura di suggerir piuttosto questo o quello studio, tutti sono buoni,
purché si coltivino con serietà e giudizio, e tutti si danno infine la mano, essendo
comune a tutti lo scopo ultimo. I difetti che nelle scienze e nelle arti noi riscon-
triamo, non sono veramente difetti loro, ma di noi stessi che, o non le sappiamo
bene, o le studiamo male, o le esercitiamo peggio (1). Non è che tutte le scienze
abbiano eguale importanza, ognuna ha un valore proprio, ma qualunque esso sia, qua-
lunque siano le nostre occupazioni intellettuali, esso ci sarà utile, perchè ogni scienza
riceve dall'altra forza, lume ed aiuto per progredire.
Fermata così la corrispondenza fra le scienze, facciamo una corsa fra esse.
La Repubblica Letteraria Italiana.
L. A. Muratori aveva 21 anni quando sognò di unire in una grande lega tutti
i letterati d'Italia, fondendo in essa le numerose accademie italiane, frivole e stec-
chite. Fu un sogno, ma uno di quei sogni di cui sono capaci le sole anime grandi,
bisognose di estrinsecarsi. Lo scopo della grande Repubblica era l'accrescimento e
la perfezione delle arti e scienze, e la gloria d'Italia; il mezzo triplice: a) determi-
nare le cause del fiorire e del decadere delle lettere ; b) descrivere i difetti delle
singole arti e scienze, e proporne i rimedi; e) correggere e migliorare l'insegnamento
delle scuole, determinando le vie da seguirsi. Troppo giovane per acquistarsi l'uni-
versale fiducia per sì grandiosa impresa, ricorse allo pseudonimo, e pubblicò a Venezia,
colla falsa data di Napoli, nel 1703, i suoi Primi Disegni della Repubblica. Letteraria
d'Italia, firmandosi Lamindo Pritanio (anagramma del suo pseudonimo Antonio Lam-
pridi). II progetto fece rumore, i migliori approvarono, i più arditi applaudirono, ed
il M. rinvigoriva il suo sogno con lettere, con scritti, con nuovi incitamenti. Qual-
cuno anche si oppose, il dotto e pio Padre Bianchini — Lettera del 7 febbraio 1705
da Roma — che scambiava i generosi sentimenti del M. per una sete perniciosa di
gloria mondana. Entrano in campo i cortesi e generosi Letterati d'Italia, i Lettori
dell'Università di Padova, i Principi più munifici e potenti ... e il sogno si va con-
cretando, se non nella realtà del fatto, almeno negli effetti desiderati dall'autore.
Fra gli effetti più immediati, e per noi più benefici, di questo grandioso disegno,
ricordiamo l'opuscolo ora citato dei Primi Disegni, ecc. e il trattato del Buon Ghisto
nelle Scienze e nelle Arti, opere interessanti ed erudite, le quali, scambiate per que-
stioni formali ed accademiche, sono forse fra le opere Muratoriane le meno note e
(1) Cfr. Delle Riflessioni, pag. 155 e seg
33 ' IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 97
studiate. Lo scopo di quest'ultima era fornire ai giovani sagge norme per l'ordine
e il criterio nello studio, dimostrando loro gli eccessi e i difetti delle varie scienze
ed arti. I Primi Disegni ecc. invece, ci danno il grande abbozzo d'un piano sistema-
tico di studi da praticarsi dalla futura repubblica. Vi sono proposti dieci professori :
due per Lettere, e cioè uno per l'Eloquenza e la Poesia, l'altro per la Storia; due
per la Filosofia naturale e Medicina; due per l'Astronomia, Geografia e Matematica;
due per la Teologia Dogmatica e per la Storia ed Erudizione Ecclesiastica ; due per
le Lingue Orientali e per l'Erudizione profana.
Questo il piano di studi ideato dal M. a sostituire il rancido ed acefalo de' suoi
giorni. Dall'ordine delle discipline e dal numero dei professori si può già in qualche
modo arguire l'importanza che loro avesse assegnata il M., ma noi chiariremo meglio
le sue idee, essendo nostra intenzione di passare in rassegna le diverse scienze e
discipline scolastiche in quanto formano un sistema di studi, oggetto della Pedagogia
e Didattica.
La Storia.
Incominciamo la nostra rassegna dalla Storia, cioè da quella scienza ove si rese
più benemerito il M., e cerchiamo di chiarirne il concetto e le leggi. " Niuna parte
della Letteratura ci è, scrive egli (1), che sia tanto capace d'esser sempre mai trat-
tata con utilità, e novità insieme, perchè utili mai lasciano d'essere le Cose dette e
ridette . . . Ora utilità e novità può essere o per le sole Cose, o per la Scelta, e per
l'Ordine delle Cose, o per le Riflessioni; egli è da avvertire che l'Istoria per se
stessa altro non porge che avvenimenti, detti e fatti altrui, e descrive cose, che già
furono o son tuttavia. E questo è il fine suo immediato. Un altro fine di lei anche
più nobile si è quello d'insegnare alle genti a ben vivere e a ben governarsi. Ella
è, dico, una scuola pratica di Morale, una scuola di Religione, di Politica, di Eco-
nomia, di Filosofia, e d'altre simili Discipline, conforme al soggetto ch'ella tratta „.
Due fini pertanto scopre qui il M. nella storia: porgere dei fatti e dedurne degli
ammaestramenti, ma ad essi altri ancora vanno uniti, e noi non mancheremo di
ricercarli.
Facciamo nostro punto di partenza un'importantissima ed eruditissima lettera
del M. (2) diretta tutta a scopo didattico, e quindi opportunissima a noi. In essa alle
osservazioni dottrinali sono intrecciate abbondantemente le considerazioni pratiche,
e il M. ci si rivela in tutta la forza del suo giudizio, descrivendo con mano maestra
tutta l'efficacia intellettuale non solo, ma morale, etica, pratica della storia.
" Tu leggi ogni giorno la storia, dice al giovine Conte Borromeo, tu scruti con-
tinuamente i fatti degli antichi e fai bene: " optimum sane consilium, si et utile;
neque enim lectio tantum amanda, quia delectat, sed quia prodest „ . Ecco due grandi
doti della storia: il diletto, e prima di esso l'utilità. " Quid autem Historiis ad ro-
bustam eruditionem hauriendam commodius ? Quid ad vitam recte effingendam acco-
modatius? . . . „. Noi dobbiamo molto alle età passate, perchè l'uomo dall'esempio è
tratto, con muto tirocinio, alla prudenza ..." alienis in erroribus nostros emendandos
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte li, pag. 253.
(2) Lettera al Conte Giovanni Benedetto Borromeo Arese. Caesani, 7 Idib. Novembr. MDCXCV
È una vera gemma del primo volume dell'Epistolario del Campori, pag. 107-110.
Serie II. Tom. LUI. 13
98 STEFANO GRANDE 34
deprehendiinus, alicnis in virtutibus nostras amamus, sique vitiorum imperium pa-
timur, alienis expensis discimus ea posse puniri „. E un altro grande principio storico.
Dai fatti passati, dai loro nessi e rapporti con noi, coi nostri interessi, coi tempi
nostri, dobbiamo attingere la norma direttrice della nostra vita, imparando a spese
dei nostri maggiori ad evitarne gli errori, e dalle loro generose azioni a superarne
l'esempio. È la più grande affermazione che la storia è la maestra della vita e la
prima palestra di etica dignità.
Ma la storia, continua egli, non offre solo un vantaggio individuale, essa riguarda
il tempo, l'uomo, la sua vita, il suo operare in generale, e generale è perciò il suo
intento, sociale il suo scopo. " Aliquis saepe tibi e lectione reponendus est fructus,
tibi non modo profuturus, sed in humani Consortii condimentum transiturus „. Ecco
frattanto come dal fatto storico, a prova di quanto ha detto, egli risale ad una
norma astratta, ad un principio etico: Nerone dopo l'incendio di Roma, beneficò
molto generosamente il popolo, eppure non gli restò, nella sua rovina, nemmeno un
amico ; ognuno dimenticò il principe liberale, per non ricordarsi che del tiranno :
" Praeter alia heic animadvertas velim quam sapienti sit aequalitas necessaria „. E
un principio fondamentale che può servire di norma tanto all'uomo privato che al
principe, tanto all'individuo che alla società. Ma il M. procede : Si raddoppiano i be-
nefizi della storia, se a questo studio portiamo alcune doti della ragione, informata
ad una retta disciplina morale. Ed egli scolpisce con mano maestra queste norme,
esprimendo con riuscita e potente efficacia alcuni precetti di filosofia morale. " Clau-
dicat virtus, quum suam in societatem vitium aliquod adsciscis: Prima in nomine
virtus est vitiis carere, proxima abundare virtutibus... „. Come la presenza d'una
nube può oscurare il sole, così la presenza d'un vizio può oscurare la virtù. Cesare
fu grandissimo principe, " eximiae in ilio virtutes, sed non sine suspicione superbiae „
tanto bastò perchè ci rimettesse l'impero e la vita. " Sibi igitur in virtutibus aequalis
sit sapiens, quum et ipsa aequalitas in nomine virtutum sit culmen „.
Così continua egli, intrecciando ai principi della storia sani precetti di morale,
ribadendo sempre più il concetto che anzi tutto la storia deve essere la famosa
magistra vitae. Togliete questa fonte di dignità, e voi toglierete ogni pregio, distrug-
gerete anche la scienza. " Hac sublata, sapientis eximium perit ornamentimi, quin
immo et ipsa sapientia „. Al contrario forti di essa nulla si ha da temere, e il pro-
fitto è certo. " Hanc artem si tenes, cur peiora sectaris? Cur non poenitendae rei te
poenitebit? Ad scopulos non deflectit, neque per ludum, nauta cogitans portum „.
La lettera finisce con alcuni precetti di morale al giovane Conte. " Quaeris quid
nomini ad gloriam sit opus : optimi mores. Quid ad gloriae perennitatem ? Aequalitas.
Virtutes, affectusque compressi id impetrabunt, ut plurimum amorem tibi promerearis,
aequalitas ut nullius odium „. Questa pertanto è la via della gloria e della virtù, da
seguirsi dallo storico non solo, ma da ognuno che tenda al bene. Coefficiente della
gloria sono i buoni costumi, coefficiente della sua durata, la coerenza a noi stessi, e
ai buoni principi.
Tale è la sostanza di quell'eruditissima lettera che non sembra certo scritta
da un giovane di 22 anni, ma da un provetto ed esperto cultore delle scienze sto-
riche, tanta è la maturità d'ingegno, e la sicurezza nel giudicare gli uomini e i grandi
periodi della storia.
35 IE PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 99
Ma questo non è che il preludio della grande concezione storica muratoriana,
il cui degno esame non è fatica poco ardua, e del resto per lo scopo nostro inop-
portuna. Ci limiteremo pertanto a poche osservazioni e conclusioni.
La Storia pel M. è l'incarnazione della morale ai fatti umani in modo da pro-
curar la loro verità, da scoprirne dei nuovi, da presentarne l'insegnamento e dare
al tutto forma organica. Sono quattro leggi, o meglio quattro grandi principi infor-
matori della storia (1).
La prima legge pertanto è la verità, che è l'ideale e la vita della nostra mente,
la luce che ci rischiara, la fonte da cui ritraggono pregio tutte le scienze e ci por-
gono utili insegnamenti. Non è la storia una narrazione ordinata a dilettarci sem-
plicemente o lusingarci, essa è il santuario più fedele delle più solenni verità. Ma
alla verità, in fatto di storia, si può venir meno in tre modi ; o per deliberato pro-
posito, o con pie frodi mirando anche a fini buoni, o per colpevole inettitudine. Ma
in contrapposizione è universalmente saputo che la verità finisce sempre col venir
a galla, che essa non ha bisogno di puntelli, e che disdegna i mezzi termini e le
accomodature. Ecco come si esprime il M.: " Che si trovino letterati, i quali cre-
dendo di insegnare la verità, e facendo quanto possono per raggiungerla vendano
per inavvertenza il falso, noi lo veggiamo tutto dì; ma questi abbagli, siccome non
figliuoli della loro volontà, sono errori, non colpe. Che si siano poi trovati anche di
coloro, che ad occhi aperti, abbiano spacciato in vece della verità, le menzogne, non
ne mancano le prove, e gli esempi ; e forse di costoro non sarà finita la razza mal-
vagia. (Il M. pensa qui ai Giguera e ai Zapati in Spagna; ai Curzi Inghirami, ai
Ligori in Italia, ecc.). Ma fra queste due schiere ve ne ha un' altra di mezzo, et è
di coloro, che vogliono, e non vogliono dire il falso. Noi vogliono, perchè se sapes-
sero di dirlo se ne guarderebbero, e lo vogliono perchè volontariamente eleggono
la via per cui chi non v'ha ben l'occhio, di leggieri abbandona la verità: Parlo di
chi troppo avidamente pensa a crescere di fortuna, a salire a gli onori, a empiere
la borsa. Il principale oggetto di questi tali suol facilmente essere più che la brama
di trovare il vero quella di piacere. Perciò anche senza pensarci eccoli adulatori, eccoli
sostenitori di tutto ciò che è più in grado a chi dispensa la buona ventura e l'oro.
Mancano (chi noi vede?) mancano a gente sifatta i primi principj de' veri letterati.
Niun principe, niun premio ha mai da essere bastante a fare che uno scrittore onorato
sostenga se non quello, ch'egli dopo sincero esame conosce, o crede di conoscere
giusto e vero ,, (2).
Così parla, e così continua egli, salariato di un principe, a dar prova di ammi-
rabile indipendenza e libertà di giudizio in omaggio alla verità.
Ma non basta non propalar menzogne ed errori, occorre anche appurare quelli
che ci tramandarono i nostri avi. Dobbiamo studiare fra gli autori chi erra per ma-
lizia, per personalità o ignoranza; dobbiamo confrontar le traduzioni cogli originali;
l'intenzione dell'autore e il senso che ne venne fuori; paragonare i luoghi, i tempi,
le citazioni ; conciliare le differenze, ricorrere ai manoscritti più antichi, e non dispe-
rare di trovare un buon soccorso talora da un semplice accenno, da una citazione,
da una parola sola. Ma qui entriamo nella critica, e di questa parleremo altrove.
(1) Lettera al Conte di Porcia.
(2) Cfr. Scritti Inediti di L. A. Muratori, eco. Sezione Storica.
100 STEFANO GRANDE 36
La seconda grande legge storica consiste nel far conoscere cose nuove, e di essa
possiamo senza timore asserire che si rese il M. più benemerito che di tutte le altre
ancora. Il ridire le cose dette, osserva egli, non è un gran merito per uno studioso;
occorre cercare di allargare il campo degli studi, e spingere in avanti lo sguardo.
E qui egli distingue i lavori che dico di schiena, da quelli dell'ingegno; i primi
possono giovare per diffondere utili conoscenze e risultati noti, ma gli altri più par-
ticolarmente ed efficacemente giovano al progresso delle scienze, rinforzandole ed
ampliandone i confini. Ne possa da taluno ritorcersi a danno del M. questa verità.
perchè egli nell'immensa mole del suo lavoro storico dà campo a sagge osservazioni,
all'estensione e perfezione di certe conoscenze, di certi principi, notando negli avve-
nimenti umani le relazioni, le cause, gli effetti; facendo dappertutto buona scelta di
autori e di documenti, scoprendo, correggendo, confrontando, vagliando . . .
Ma noi dobbiamo riconoscere a proposito di questo secondo principio storico
dei meriti singolarissimi nel Muratori. Infatti nella sagacia del suo giudizio, egli
intravvide una nuova miniera di studi sommamente giovevoli alla storia, e con co-
raggioso tentativo ne rassodò la via: alludo ai suoi studi numismatici e paleografici.
I tempi moderni hanno dimostrato che egli aveva veramente ragione, e i benefizi
che derivarono alla storia dalla cultura di quegli studi sono davvero meravigliosi.
Chi prende in mano un'opera di storia antica, od anche solo medievale, composta
mezzo secolo fa, e la confronta con un trattato recente, riconosce di leggeri la ve-
rità delle nostre osservazioni. Ora il M. colla sua raccolta di iscrizioni " hi ,
stantia et usu veterum Inscriptionam „ diede valida spinta a questi studi, spinta che
fu in seguito sempre più aumentata fino ai tempi moderni, ai quali fu riservato di
abbattere del tutto quell'immensa mole di favole e fantastiche leggende che avevano
inondato la storia di quei tempi.
Ma rifulse non meno chiaramente il sottile discernimento, e il sicuro giudizio
del M. nel conoscere tutta l'importanza della storia dell'età di mezzo. Quivi non si
vedeva che orridume, che rozzezza, che barbarie, e pochi pensavano che vi si potesse
pure trovare il lato bello. Tra i pochi è il M. Anch'egli dapprincipio, piena la testa
della grandiosità, sontuosità ed eleganza classica, segue le viete idee dei puliti uma-
nisti e dei signori della rinascenza, ma tosto si ricrede, e a discapito stesso dell'età
classica, afferma che non in questi, ma nei tempi di mezzo, si deve ricercare la più
abbondante e giovevole messe di studio (1). Ed egli inoltratosi nella " selva sel-
vaggia „ di quei secoli di mezzo, ne usciva colle sue più importanti opere storiche.
A questo merito del M. nel campo di questa seconda legge storica, va aggiunto
l'altro non meno insigne, di aver chiaramente veduto l'importanza e la necessità
degli studi sacri, delle storie ecclesiastiche. Vasto è pur questo campo, vastissima
la messe, ma pochi i buoni cultori. Il pensiero comune essendo rivolto all'erudizione
profana, si disconosce in generale l'importanza di questi studi, anche da coloro cui
dovrebbero stare più a cuore, e il M. se ne richiama vigorosamente agli studiosi, a
cui descrive tutta la vastità delle materie, a cui suggerisce persino gli argomenti
da trattare (2).
(1) Lettera al Porcia.
(2) / Primi Disegni della 'Repubblica Letteraria, ecc.
37 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 101
Ma anche altrove il M. si riferisce a questi studi che sono una delle più sen-
tite necessità dell'erudizione, e formano uno dei più vivi desideri della sua Repub-
blica " potendosi ben francamente dire, che in sì ricca miniera si possono tutto dì
scoprire nuove gemme, e materia per acquistar nuova gloria ,, (1). Ma anche indi-
pendentemente da questi vantaggi, osserva egli, incombe ad ogni buon cristiano
di attendere seriamente a questi studi, in questi tempi in cui la storia è divenuta
tanta parte della nostra vita, perchè essa è una terribile arma in mano de' nostri
avversari, e al lume della storia 'ormai si devono esclusivamente provare le nostre
ragioni.
La terza grande legge della concezione storica muratoriana è l'insegnamento
che devono i fatti porgere alla vita e alla condotta degli uomini. È il principio etico
che guida al retto giudizio, e alla giusta interpretazione dei fatti e delle istituzioni,
secondo le norme d'una sana morale, e di una saggia economia politica. Già vedemmo
la dotta lettera del M. al Conte Borromeo Arese, informata massimamente a questo
principio, il quale non consiste già nell'inserire lezioni morali nelle esposizioni, ma nel
guidare lo studioso a conoscere ed apprezzare la giustizia, l'utilità, la bellezza dei
fatti, in modo che, pur cibandosi da sé, non possa cadere nell'errore.
La mente dello storico poi deve essere retta da grande amore alla giustizia,
all'onestà, alla virtù, ed egli deve lodare senza restrizione gli stessi nemici, e ri-
provare senza parzialità anche gli amici ; così operando egli si acquista più credito
presso gli altri, e maggior soddisfazione per se.
" La Storia è una Maestra della Pratica, facendoci vedere nelle azioni altrui
ciò, che la Teoria degli altri c'insegna; cioè quello, che han saputo operar bene tanti
saggi Principi, ed Uomini illustri, o di male tanti altri o imprudenti o cattivi. La
storia dei tempi passati serve a regolare il mondo presente. La gioventù, e princi-
palmente i giovani Principi debbono studiarla, ma lasciando da parte le questioni
cronologiche e la memoria di tante battaglie e persone „ (2). E a proposito di Prin-
cipi, egli richiama tutta la loro attenzione sullo studio della storia, perchè per essi
principalmente è istruttiva e significativa (3). Nella storia poi hanno più efficacia e
potenza sulle anime nostre le vite degli uomini illustri, per il loro fascino più di-
retto ed insegnamento più immediato; e noi sappiamo che l'illustre G. G. Rousseau
permetteva al suo Emilio la lettura del solo Plutarco, per l'efficacia appunto delle
sue splendide biografie (4).
La quarta legge è la forma organica e il giusto criterio che deve reggere e
vivificare i fatti della storia. Questa in realtà è norma non tanto della materia che
dello scrittore, che deve saper dare alla sua esposizione una bella struttura, e stabilire
un legame continuo con quello spirito, con quel colorito che meglio risponde ai bisogni
di chi legge. Quivi pertanto più che altrove si distingue il valore dello storico che
vaglia, pondera, discerne, dal inerito del raccoglitore che raduna e ammassa.
(1) / Primi Disegni della Rep. Leit.
(2) Della Pubblica Felicità, pag. 163.
(3) Idem, pag. 9.
(4) Ricordiamo che il Rousseau non permetteva al suo Emilio nemmeno la lettura di Tucidide,
che pur riconosceva come un modello di sobrietà di stile e di pensiero, perchè egli s'occupa esclu-
siTamente di guerra.
i | |2 STEFANO GRANDE 38
Questo per sommi capi l'ideale storico del M., questo il midollo della sua con-
cezione storica efficacemente ed essenzialmente utile e pratica. Qui pertanto si im-
porrebbe un confronto fra il M. e il Vico, fra lo storico che afferma e discerne i
fatti, e il filosofo che li indaga e li scruta. Si tratta di due forze disgiunte, osservò già
il Manzoni, ma promettenti nello stesso tempo un mirabile effetto dalla loro possibile
unione. Ma noi non possiamo indugiarci in uno studio critico di tal fatta, fatica punto
per le nostre spalle, e d'altra parte troppo superiore al nostro scopo. Queste poche
cose abbiamo voluto esporre, perchè ci parvero indispensabili nel pensiero storico
del M., al quale ci inchiniamo riverenti, come a colui che fu salutato il Padre della
Storia Italiana.
Le Lingue.
L'italiano. — Dicemmo che fra le opere più trascurate del M. devonsi porre le
Riflessioni sopra il Buon Gusto nelle Scienze e nelle Arti, e / Primi Disegni della Re-
pubblica Letteraria Italiana. In tanto allagare di moderno realismo, le concezioni ideali
e filosofiche sono ridotte in proprietà di pochi eletti ; ne più si vede in esse ciò che
è più pratico e positivo di tutto il positivismo moderno. Questi Disegni e quelle Ri-
flessioni infatti, che sono spesso scambiate per questioni formali, rappresentano invece
il lato vero e reale delle cose, la critica dello stato delle lettere e delle scienze nel
secolo XVIII. Ma esse, per di più, non si limitano a descrivere la sola malattia, ma sug-
geriscono financo i rimedi stessi, sicché a noi non pare andar errati osservando che
osse, vedi mo' contraddizione !, sono una delle più belle prove della praticità dell'eru-
dizione muratoriana, e dei suoi pratici intenti nel campo delle lettere e delle scienze.
Ai mali letterali d'Italia il M. trova un rimedio nello studio delle lingue, ma
studio pratico, come richiedeva il suo intento di esser prima uomo utile che dotto.
È il rimedio già notato da G. B. Vico che col M. s'accorda qui perfettamente. Ed
ancor qui si potrebbe stabilire un bellissimo parallelo fra questi due grandi maestri,
i quali simili in molti casi della vita, negli studi, negli uffici, dissimili sotto altri
rispetti, qui si integrano in un' unità di vedute (1).
Le lingue rappresentano un fatto civile, sociale, perchè sono lo specchio più sin-
cero delle condizioni materiali d'un popolo e riflettono nello stesso tempo i suoi mo-
menti più pratici, le sue gloriose o dolorose epopee, i prodotti più genuini ed autentici
del suo spirito. Esse sono il mezzo più potente per la formazione dell'umana società,
e si nell'insegnamento, che in una esposizione pedagogica, devesi incominciare dallo
studio di esse, tanto più perchè esse s'acquistano, in generale, nella prima età e colla
memoria che nei fanciulli vale moltissimo (2).
Prima fra tutte le lingue, per debito di riconoscenza, dobbiamo studiare l'italiana,
che è la lingua nostra, già maestra di civiltà, e studiata e riverita un giorno presso
tutti i popoli. Ma noi non sembriamo compresi di questa importanza, e le scuole
nostre, scrive il M., " è forza confessarlo con dolore, perchè non si può, senza ver-
gogna „, la trascurano per ridursi ad un più o meno felice insegnamento della grain-
(1) Per lo studio delle lingue secondo il Vico, e per le sue idee pedagogiche, vedi G. B. Gerini,
Le idee educative di G. B. Vico. Torino, 1898. Estr. dal period. " Il Nuovo Risorgimento „, pag. 23.
(2) Cfr. G. B. Vico, De nostri tempori» studiorum ratione, ed altra orazione del 1707, ricordate
pure dal Cerini, monografia citata.
39 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 103
matica latina e della retorica. Che si insegni, che si insegni il Latino, ma in modo
che da tale studio si avvantaggi pure l'Italiano, e non si verifichi il doloroso fatto che
si esca dalle scuole ignoranti del nostro idioma patrio (1). E rivolto alle scuole, e prin-
cipalmente alle religiose dove è più trascurata, ricorda la necessità di questo studio,
principalmente in gioventù, perchè quando " si son fatte l'ossa „ l'intelletto sta tutto
rivolto ad imparar cose, né più ci basta l'animo di ritornare allo studio della Gram-
matica. Il M. parla per esperienza, perchè figlio di tali scuole, risente del loro difet-
toso insegnamento, e nelle sue opere, bisogna pur confessarlo, non sono soverchia-
mente rare le forme punto punto eleganti e le scorrette, e fin anche le mende gram-
maticali. D'altro lato poi è doloroso veder lui, il diligente, lo studioso Muratori, rivol-
gersi nelle sue lettere ai più insigni letterati toscani per informazioni precise sull'uso
di certi vocaboli, di certi suffissi, pronomi, particelle... Date queste condizioni, ci spie-
ghiamo perchè egli insista così fortemente su questo studio " che ci è raccomandato
da natura „ e che noi non dobbiamo per niuna ragione trascurare, principalmente in
gioventù, quando l'animo nostro docile e pieghevole si preoccupa più particolarmente
dello studio della parola e della forma. " Siamo nati in Italia, esclama egli, e tuttodì
parliamo la Lingua Italiana, adunque e la gratitudine e il bisogno richiede, che noi
non solamente impariamo questa Lingua, ma che le apportiamo con tutte le forze
onore „ (2). Questa è lingua nobile, è lingua maschia, ed egli si adira contro " un
impertinente scrittore francese „ che aveva osato dire che Carlo V usava solamente
la lingua italiana parlando colle donne, e si rivolge tutto offeso all'amico Maglia-
bechi (3) pregandolo di appurargli alcune indicazioni, perchè egli non può sopportare
l'ingiuria, e si prepaia a respingerla.
La parte più raccomandata poi di questo studio è la Grammatica e la Eetorica.
Sì anche la retorica è necessaria, perchè noi naturalmente, o per forza d'educazione,
tendiamo al bello, all'ingegnoso, epperò anche quelle dottrine, quelle verità che ci
sono esibite in forme vaghe e ingegnose, ci dilettano e ci colpiscono maggiormente (4).
Si impone pertanto lo studio della retorica, ma non di quella concettosa e sdolcinata
che insegna a infrascare, a gonfiare leziosaggini, concettini inzuccherati, e sbrigliate
metafore, la quale così melensamente si impartisce nelle scuole, ma della sana re-
torica che ci fa padroni dello stile, delle forme, delle parole più proprie ai diversi
bisogni, e ci sforza insensibilmente allo studio, giacché " le materie più aspre e sot-
tili addimesticate e pulite piacciono agli ignoranti medesimi „ (5).
Questo studio poi è indispensabile specialmente per la poesia, ed il M. ne è
così compenetrato, che ci spende attorno gran parte del suo trattato Della perfetta
poesia Italiana. Per lui questo studio è utile e necessario, perchè costituisce una so-
praveste indispensabile alle nostre parole, e sopraveste luminosa " di cui troppo vo-
lentieri si adorna la verità per maggiormente piacere al guardo degli uomini, e senza
cui compare meschina, o ruvida, o spiacevole „ (b').
(1) Vedi: Vita di Carlo Maria Maggi, di Lod. Art. Muratori. Milano, Malatesta, 1700, pag. 86.
(2) i" Primi Disegni delia Repubblica Letteraria.
(3) Lettera ad Antonio Magliabechi, 1701, Campoki, II, 547.
(4) Vedi in seguito il cap. dell' Educazione Estetica, pag. 59-62.
(5) Lettera ai Capi, Maestri, Lettori, eco.
(6) Ibidem.
104 STEFANO GRANDE 40
Quanto tin qui dicemmo della lingua italiana si può pure riferire, come norma
astratta, e in generale, alle altre lingue, avvertendo però che il M. non si riferisce
affatto alle lingue vive, quantunque di alcune di esse avesse perfetta conoscenza.
Così egli nella sua concezione letteraria passa in rassegna " l'Italiano che ci è
vivamente raccomandato dalla Natura, il Latino dalla Necessità, il Greco dall'Eru-
dizione, l'Ebraico dalla Santità „ (1), a cui aggiunge ancora in generale le Lingue
Orientali, di utilità indiscutibile, e necessarie per una perfetta coltura.
Latino. — A proposito del latino il M. non spende molte parole, essendo ab-
bastanza studiato, e premendogli di più lo studio del greco che ebbe già in Italia
tanti e sì illustri cultori. Ma il latino ha una superiorità incontrastata sul greco,
" nam si conferatur uterque sermo, Latinus omnibus, Graecus quam plurimis mea
sententia necessarius videtur ; ille communi utilitate, hic propria nobilitate magis
commendabilis, ille amplectendus, iste non negligendus „ (2).
Ed ecco perchè il latino è necessario : " Essendo noi figliuoli della Chiesa Latina,
che con la Lingua sua ci fa udire i suoi misteri, ed avendo altresì con essa tanti
Santi Padri, e tanti Autori Sacri e profani spiegata la loro dottrina e i loro concetti;
constando ancora, che non c'è Lingua in Europa più comune, e più praticata della
Latina, sia nei Tribunali, sia nelle Scuole, sia fra gli studiosi, è manifesto che dob-
biamo per necessità impararla „ (3).
Sono ragioni addotte pure dal Vico in favore di questa lingua, il quale inoltre
propone che in ogni studio letterario si incominci da essa appunto e dal greco. Anche
il Montaigne è di questo parere, ma trova che queste lingue si acquistano a troppo
grave prezzo: " C'est un bel et grand adgencement sans doubte que le grec et latin,
" mais on l'achete trop cher „ (4).
Ma se il M. approvava lo studio di questa sì importante lingua, non approvava
certo il metodo in uso, che obbligava " le tenere teste dei fanciulli a riflettere, ad
argomentare, e per di più a metafìsicare „. Egli invece, più pratico e più ragionevole,
suggerisce che si coltivi e si eserciti la loro memoria, si arricchisca di nozioni e di
regole facili, perchè i fanciulli " in quell'età sogliono essere, per così dire, sola me-
moria, e però questa fa d'uopo coltivarla allora, e arricchirla, per quanto si può, di
cose facili, senza imbrogliarla in sottigliezze, e nozioni inutili e metafisiche „ (5). Di
qui appare il metodo essenzialmente pratico che suggeriva il M. doversi tenere nel-
l'insegnamento, sul quale, giacché ci si presenta l'occasione, giova fermarci alquanto.
Il M. è grandemente favorevole a quelle teorie che vorrebbero esclusi, o quasi,
i libri di testo; per lui il profitto del giovane è perfettamente correlativo all'opera
dell'insegnante; questi è che dà la scienza, che erudisce, poco monta l'adoperare
questa o quella grammatica, questo o quell'autore (6).
(1) 1 Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(2) Lettera a Girberto Borromeo. Mutinae, Idib. Julii 1693, Campori, I, 10-35.
(3) / Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(4) M. de Montaigne, Essate, cap. XXV, pag. 94.
(5) Lettera al Porcia.
(6) A conforto di quest'opinione del M., mi piace riportare qui parte d'una sua lettera al Padre
D. Lodovico Siena, Proposto dell'Oratorio di Sinigallia. 30 giugno 1735. " Archivio Murator., pa-
gina 327-28 „ : " S'io debbo parlare schiettamente a V. R. non credo, che nella scelta della Gram-
matica, consista il profitto, che si cerca da' fanciulli, perchè ogni Grammatica (e ve n'ha infinite)
H IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 105
È lecito qui essere di parere diverso dal M., e ognuno vede di leggeri la forza
delle obbiezioni che gli si possono muovere. E press' a poco la nota questione cui
alludemmo poco fa, della maggiore o minore utilità dei libri di testo, strenuamente
combattuta e difesa da valorose persone. Ma che sia indifferente dare in mano al
giovane la più infelice grammatica di tre secoli fa, purché contenga " il massiccio
delle regole „, od una delle moderne più elaborate, non si può davvero ammettere
senza fare troppo grave torto a tanti valentuomini, che in questi studi consumarono
tanto tempo, e senza disconoscere i progressi grammaticali apportatici dall'esperienza
stessa. Tuttavia queste idee del M. si possono chiarire ed anche rinforzare. Infatti lo
scopo del primo insegnamento del latino, non essendo la scienza della grammatica, la
linguistica (non so se si possa dire nata quando scriveva il M.), ma bensì l'intelligenza
della lingua, non la legge del fatto, ma il fatto stesso, si può quasi ritenere che a
questo possa bastare, con un po' più di sforzo, l'opera solerte del maestro, e l'aiuto,
comunque sia, di una qualunque grammatica. Così la teoria muratoriana acquista
maggior tinta di verità e forza, ma non si può negare che offra altri lati alla critica.
Il M. ritorna pure altrove, e più accanitamente ancora, all'assalto. I ragazzi
fanno poco profitto ? È colpa del maestro ignorante, o dell'ignoranza del buon me-
todo. " Nella guisa che hanno i maestri con istento appresa la Lingua Latina, in
quella eziandio quantunque imperfettamente l'insegnano agli altri, e nulla di più si
cerca. E pure uomini eccellenti han proposto e praticato varj Metodi più utili e spe-
diti Io so che il Cardinale Sirleto, Flaminio de' Nobili, e il Maffeo Gesuita, celebri
persone, approvavano di molto il dar prima un poco di tintura di Grammatica, e
sopra tutto delle Declinazioni, e poscia il far rivolgere tutto lo studio a conoscere le
voci e a metterle a memoria, e ad esercitarsi in esse in guise varie e dilettevoli,
senza badar per anche a' solecismi, e barbarismi. Finalmente consigliavano, che s'in-
segnassero le Regole, mercè delle quali si emendassero poi gli errori della lingua
appresa In effetto la natura c'insegna a cosi fare, perchè nella stessa maniera im-
pariamo la lingua materna, che poi correggiamo coll'arte, e conciossiachè le Lingue
propriamente consistono nell'uso della Memoria, più che in quello del Raziocinio, più
ancora ad arricchire ed esercitare la memoria dei fanciulli si deve attendere, che a
farli raziocinare „ (1).
Non sappiamo se si possa pretender tanto dal maestro, privarlo del testo, e
fors'anche obbligarlo a foggiarsene uno in testa propria, e crearsi una serie di eser-
cizi corrispondenti alle inclinazioni d'ognuno ; ma senza indagare la giustezza e l'op-
portunità delle idee del M., sta il fatto che il metodo tenuto ai suoi tempi non do-
contiene il massiccio delle Regole Grammaticali, se non che Fune sono più corte e ristrette, e ser-
vono a dirizzare e dare il primo buon abbozzo ; ed altre più diffuse, perchè contenenti anche il
minuto di molte osservazioni, ed eccezioni, e la Prosodia, ecc. Ora secondo me dipende il profitto
dal sapere, e giudizio de' maestri, e dall'esercizio degli scolari. Mi dia queste due qualità, con
qualunque Grammatica, che abbia qualche credito, si otterrà l'intento . . . Però torno a dire che
non dovrebbero cotesti signori darsi gran pensiero per l'elezione di questa, o di quella Grammatica,
perchè tutte le più usate possono servire, ma pregare Iddio che i loro figliuoli siano ricchi di
memoria e di intendimento, e che il maestro sappia fondatamente il suo mestiere, e faccia loro
conoscere nella spiegazione dei buoni autori le Regole, e il meglio del parlar latino „.
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 260.
Serie IL Tomo LUI. 14
1Q6 STEFANO GRANDE
42
veva essere il più felice, se già egli, fin da quando giovanetto sedeva sui primi
banchi della scuola, sentiva la necessità di modificarlo (1).
Il metodo poi di applicare allo studio delle lingue morte le norme colle quali si
impara la lingua materna, non è affatto un mezzo di ginnastica intellettuale, come
dovrebbe essere, e più che metodo pratico si può dire meccanico. Anche il Montaigne,
il Locke, il Vico, l'Elvezio, il Rousseau, il Bain, ecc. ecc. propugnano simile metodo,
e fra i moderni non si sente parlar d'altro, ma questo non esclude che si possa esser
persuasi dell'efficacia della grammatica, quale disciplina intellettuale — scopo delle
lingue classiche — e che essa formi davvero una delle materie che meglio addestrano
il ragionamento e il giudizio de' giovanetti. La lingua materna, è vero, si impara
coll'uso e colla pratica; ma essa è la lingua del paese, dei genitori, degli amici ;
tutto quanto ci sta attorno ci parla in quella lingua, ogni suono, ogni accenno è in
quella lingua, di quella lingua è il costume, le istituzioni, la vita.
Se adattandosi a tutte queste circostanze, si vorrà apprendere una lingua, non
lo neghiamo neppure noi, la si imparerà bene, ma essa sostituirà verisimilmente la
materna. Ne fece chiaro esperimento il padre di Michele de Montaigne, che circondò
rigorosamente il figlio di persone che parlavano esclusivamente latino, dal maestro
e dalla madre, al servo e alla cameriera. A sei anni M. Montaigne dava lezioni ai
suoi maestri, a sette preferiva la lettura di Ovidio a qualunque altro autore (2).
Ma tanto profitto fu effimero, e M. Montaigne a tredici anni era forse ancora
il primo della sua scuola in latino, ma del latino incapace a valersi (3).
Non so se sia veramente cosi che si vuole intendere lo studio d'una lingua col
metodo della materna, ma so che anche dopo questo celebre esempio, si continuò a
pensare a quella guisa. Così se voi chiedete, ad esempio, a Claudio Adriano Elvezio,
punto punto tenero del latino, come dovete insegnare al vostro allievo questa lingua.
" Entourez l'enfant, vi risponde, d'hommes qui ne parlent que latin „ (4).
Ma in realtà altro è studiar il latino collo scopo pratico di quei nostri buoni
avi, altre studiarlo come mezzo di ginnastica intellettuale, o per scopo linguistico:
pel primo caso l'esempio del Montaigne ci pare molto significativo, per l'altro ci pare
di poter asserire che a tredici anni, molti, senza aver l'ingegno del Montaigne, riu-
scirono a fare più di lui, sotto la guida della grammatica, non punto del metodo
della lingua materna.
(1) Cfr. Lettera al Conte ili Porcia.
(2) M. Montaigne, Essais, cap. XXV, pag. 94 : * Quant a moy, i'avoy plus de six ans, avant que
i'entendisse non plus de francois ou de perigordin que d'arebesque ; et, sans art, sans livre, sans
grammaire ou precepte, sans fouet et sans larmes, i'avois apprins du latin tout aussi pur que mon
maistre d'eschole le scavoit; car ie ne le pouvois avoir meslé ny altere „. Ed altrove ancora, pag. 95:
" Le premier goust que j'eus aux livres, il ine veint du plaisir des fables de la Metamorphose
d'Ovide: car environ l'aage de sept ou huict ans, ie me desrobois de tout aultre plaisir peur les
lire; d'autant que e.ette langue estoit le plus aysé livre que ie cogneusse. et le plus accomodé a la
t'aiblesse de mon aage, à cause de la rnatière „.
(3) Montaigne, Essais, luogo citato: " Mon latin s'abastardit incontinent, duquel depuis par
desaccoustumance i'ay perdu tout usage; et ne me servit cette mienne inaccousturnee institution,
que de me taire eniamber d'arrivee aux premieres classes ; car. à treize ans que e sortis du college,
i'avois achevé mon cours (qu'ils appellent), et, à la verité, sans aucun fruict que il peusse à present
mettre en compte ».
(4) Elvezio, De l'Somnie, ili- ses facultés,
43 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 107
Ma questo era il pensiero del M., e noi lo riferimmo nella sua integrità, liberi
di non sottoscriverlo.
Greco. — Ma dove il M. rivolge più fervide le sue esortazioni si è allo studio
del Greco, del quale riconosce tutta l'utilità e l'importanza. Il greco nel secolo XVIII
si era ridotto in mano di pochi privilegiati, ed il M. se lo volle conoscere, dovette
studiarselo da sé. Fu fatica grave e sorprendente, ma è più sorprendente ancora il
vedere come egli in poco tempo se ne rese padrone.
Come già per la Storia, anche qui ci somministra ampia messe di studio una
sua eruditissima lettera, scritta a vent'anni, nella quale egli, con rara facondia e
competenza, discorre della bellezza, importanza, utilità di questa trascuratissima
lingua (1). È una dottissima dissertazione la quale, si può ben dire raccolga tutti
gli argomenti più importanti comunemente citati in favore di questa lingua, e riesce
a noi in modo speciale di vera attualità pel poco buon vento che spira presentemente
nelle scuole pel greco.
La lettera s'apre con uno sguardo all'infelice condizione letteraria d'Italia: * Oh
Italia jam non illa, quae dudum reliquas orbis plagas imperio non minus temperasti,
quam scientiis excellueris; non illa, inquam. quae postremo hoc aevo, barbaris de-
pulsis, bellorumque ingruentium impetu fracto, prior optimas artes, ac studia resti-
tuisti, quumque sub Turcis Graecorum res penitus excidissent, heres una et illorum
gloriam reparasti, tuamque ulterius promovisti! „. Per colpa del tempo, del poco amore
allo studio, dell'infelice metodo, della mancanza di saggi protettori, della nostra stessa
indifferenza, scadiamo continuamente nella considerazione dei popoli e disconosciamo
l'importanza degli studi. " Mehercle nostris adolescentibus summum scientiarum in
Musis colendis constitutum videtur, eisque quod in literis humillimum omnium stat
loco. Et utinam in hoc etiam praecellerent, saltem enim forent aliquid in parvo, et
quid pusillum in nihilo „. Ma nemmeno questo è loro dato, e frattanto urge a noi
alzare in alto lo sguardo, e ricercare i rimedi a si triste condizione di cose. E rimedio
primo, efficacissimo, è da ritenersi lo studio delle lingue, e sopratutto del Greco, che
quasi quasi conosciamo solo più per fama, come una cosa che fu. Deserte ne sono
le scuole " nemo publicum ad praeceptorem confluit et vidua sedent toto anno con-
stituta ad hoc gymnasia „. Ma intanto, quando si studiava il greco non si giaceva
in si infelici condizioni, il nome nostro risuonava ben alto nelle scienze, e si produ-
cevano buone cose. " Erant, et heic prestantissimi homines publica conducti pecunia,
ut Graecis literis adolescentes erudirentur, quorum e disciplina celeberrimi saepe viri
prodierunt „ . Ora invece siamo ridotti ad ammirarli solo, senza seguirli, senza inten-
derli quei benemeriti, e siamo anche ridotti, ciò che è più sconfortante, ad ammirare
le loro stesse donne, insigni in tali studi, e per giunta dichiararci ad esse inferiori.
Il M. dice il vero, e la Storia Letteraria registra accanto ai nomi celebri del Castel-
vetro, di Francesco Porto, del Molza, del Sigonio, quelli non meno insigni di Tar-
quinia Molsa, di Lucia Ploppa, di Lodovica Foliana " aliaeque non inferiores erudi-
tione mulieres sub vulto foemineo animum et ingenium virile complexae „.
(1) Lettera a Girberto Borromeo Arese, ecc. Fu già da poi più volte citata, ed è comunemente
conosciuta sotto il titolo di dissertazione De Graecae Linguae usa et praestantia. Fu già da pa-
recchi autori stampata e riprodotta. Vedi fra gli altri Giuseppe Pecci : Dei pregi della Lingua Greca,
Napoli, 1742, in una prolusione che ristampò più volte.
108 STEFANO GRANDE 4 1
Noi pertanto dobbiamo scuoterci e studiarlo il Greco, che nell'erudizione dovrebbe
occupare uno dei primissimi posti. " Vin rationem ? En tibi illam: Siquidem in ipsa
sermonis Graii cognitione, si bene perpendas, eruditio simul taciteque ebibitur, quod
versa vice non accidit, et uno hoc in animum alte immisso constantissime in alia
studia mere homines adnimadvertimus, quasi sibi sat virium inde fecerint ad ma-
lora curanda, aut sat cupiditatis. Veluti enim qui humanioribus litteris se addicunt
humanitatem quandam plerumque, et dulcem morum facilitatem inde hauriunt, ita
qui in Graecas incumbunt Litteras magnos plerumque contrahunt animos et mirandum
quoddam eruditionis robur, ut excellere deinde mirum in modum cernantur Deinde
quo pacto vere aliquem eruditimi appellas, si Graecae is est linguae imperitus, quae
una et parens, et altrix eruditionis merito venit nuncupanda? „.
Ecco dunque perchè dobbiamo studiare il greco: da esso succhiamo erudizione,
riceviamo robustezza di giudizio e mirabile forza per poggiar in alto ; da esso è ap-
pianata la via al più grande progresso, da esso parte il più forte stimolo per la
cultura generale.
E volete sapere perchè al di là delle Alpi si è dotti, si è celebri, e si lavora
utilmente? Là si studia il greco, e non dagli uomini solo, ma financo dalle donne,
che così l'apprendono " quantum ad constituendum magnum inter nos virum satis
foret„. Nessuna meraviglia pertanto se se ne percepiscono i vantaggi, e vantaggi
grandi, i quali derivano dalla grande parentela del greco con tutte le scienze. Questa
relazione in verità potrà forse a taluno sembrar molto discutibile per alcune scienze,
come per la Morale, per la Metafisica, per la Matematica, che in realtà sono le meno
collegate col greco " at in reliquis scientiis uti in Theologia doctrinali et exposititia,
in Medicina, Astronomia, Geographia, sacra profanaque Historia, et sexcentis aliis
huiusmodi studiis adeo Graeei eloquii necessitas nobis incumbit, ut nulla ex iis per-
fecte hauriri, ac possideri sine hac ope queat „. E non è punto difficile la prova.
il greco è necessario per gli studi Ecclesiastici perchè continuamente si com-
batte cogli eretici su canoni, su interpretazioni, su asserzioni, e giova ricorrere per
quanto si può alla fonte più genuina e pura (1). È necessario per i Medici che di
greco infarciscono le loro opere, con nomi greci indicano le malattie e i rimedi, e la
Grecia fu la culla dei più insigni medici. È necessario per la Giurisprudenza, perchè
dalla Grecia derivarono non poche delle produzioni legislative, là si elaborarono le
leggi, si applicarono certi principii, e di là emana in gran parte il diritto canonico.
È necessario per la Poetica, giacché i Latini stessi ci rimandano ad Aristotele, e
Dante, Tasso, Ariosto non sanno far di meglio, e noi di quei principi fummo già
cosi schiavi da ritenerli sacri come voce d'oracolo. Cosi è necessario per le altre
scienze, né potrà alcuno, che giudichi colla propria testa, disconoscere quali vantaggi
arrechi alla Storia, alla Geografia, alla Filosofia, alla Cronologia, ecc., scienze tutte
che dal greco prendono le mosse, e nella Grecia hanno toccato il massimo della
perfezione del tempo.
Ma la lingua greca ci si impone pure per altri rispetti, giacche essa ci offre le
più incomparabili bellezze. Anche lasciando stare l'antichità, l'estensione, l'universalità,
la ricchezza, l'armoniosità, l'originalità sua, dobbiamo riconoscere sotto molti altri
(1) Cf'r. pag. 37, e in seguito pag.
46.
45 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 109
aspetti la sua incontrastata superiorità sulle altre lingue nelle produzioni scienti-
fiche, artistiche e letterarie. E noto infatti il valore degli uomini che essa vanta, il
numero delle opere che produsse, la profondità delle teorie in essa svolte in tutto il
campo dello scibile umano.
Ammessa questa evidente superiorità, se studiamo, ad esempio, il latino e ne
ammettiamo la necessità, perchè altrettanto non facciamo ed ammettiamo pel greco?...
" Nani si Latinis ideo operam impendimus, quia per vetustos illius Linguae auctores
nobis eloquentia insinuatur, et quidquid scientiarum, et eruditionis tum sacrae tum
profanae in illa habetur, discendi facultas nobis aperitur, quanto magis deferendum
est Graecis, qui pluribus in quacumque rei literariae notitia laboribus fulserunt, et
adhuc fulgent? „ Ma si può dir di più, ed io vi chiedo: Chi ha fatto i Latini? " Illa,
illa Graecia Latinos fecit, et quum Latinos laudas illorum parentem Graeciam iis
involvi laudibus scias „.
Ma e le versioni? " Alienis oculis videt, alieno palato gustat, qui ad unius ver-
sionis normam se regit... Te miserum interpres fefellit, et cum caeco caecus aberras „.
Ma vogliamo essere generosi: A parte che la versione non ci rivela il metodo di
scrivere e pronunziar rettamente molti vocaboli, non ci rivela la loro etimologia, la
struttura di certi metri storpiati, o comunque mal interpretati, a parte moltissimi
altri inconvenienti, come si possono gustare nelle versioni certe bellezze, siano pure
involte sotto una veste accurata, studiata fin che si vuole, ma che non è la propria?
Chi non vede la differenza fra un'opera originale e la sua traduzione, tra Virgilio
latino, e la versione, quantunque classica, del Caro? Tra Omero e i suoi numerosi
traduttori? La versione non può riferire la forma, la precisione, la scultorietà d'una
lingua, e riesce di necessità incolora, indecisa, incerta. D'altra parte come tradurre
tutte le opere greche? E scoprendosene altre, dobbiamo rinunziare a sì facile campo
di gloria? Ma ancora: e i difetti intrinseci del traduttore? Ognuno, lo si sa, ha un
metodo proprio e segue un punto di vista che gli pare più opportuno, ma data
l'indole diversa delle lingue, volendo esser fedele, sciupa la forma dell' originale,
volendo essere libero sciupa la fedeltà. Chi leggendo Pindaro, Aristofane, oserà af-
fermare che quegli è il principe della lirica, questi della commedia? I Latini stessi
lamentavano già questi mali, e Quintiliano esclamava: " Quam male latine loquuntur
" Demosthenes, Plato, Homerus, Xenophon, aliique Graeci „. Se cosi per.il latino
che col greco ha strettissima relazione, che dovremo dire dell'italiano? Ma non ò
ancora tutto qui : Ogni lingua presenta delle frasi, dei modi di dire proprii, intradu-
cibili, che obbligano il povero interprete a ricorrere a lunghe e oziose circonlocu-
zioni, in cui se il senso non è sempre sforzato, è sempre almeno sciupata la forma.
E chi d'altronde può dire d'aver tanta pratica, e padronanza di una lingua da tro-
vare sempre, e in tutti i casi, la frase, l'elocuzione, la parola corrispondente all'ori-
ginale? E se è così, dove se ne va la chiarezza, la proprietà?
Né questi sono da stimarsi difetti di poca entità, perchè essi intaccano i car-
dini d'una lingua: il contenuto e la forma. Che intacchino la forma lo vedono fino i
ciechi: che intacchino il contenuto lo sappiamo noi, che vediamo cadere alle volte
dei grandi sforzi d'erudizione, dei veri edilìzi di meditazione, fondati sulla cattiva
interpretazione d'un passo d'un autore od anche d'un semplice verso, d'una sola pa-
rola, che vediamo tuttodì imbrattar carta per sostenere o combattere questa o quella
HO STEFANO GRANDE 46
lezione, questo o quel significato Occorre quindi conoscere il testo primo, l'origi-
nale, e saggiamente operano coloro che non ammettono a continuare negli studi, se
non chi si è prima impadronito di questa lingua. Del resto conoscere le lingue è
conoscere il mondo che fu, è abbracciarne lo spirito e l'estrinsecazione. " Mihi pro-
fecto videtur iis, qui plures capiunt linguas, magna quaedam et vasta mens esse,
quum orbem praeteritum quodammodo, lapsaque tempora animo complectantur, neque
aliter se gerant, quam si cum illius oevi doctissimis viris corani loquerentur. Et
hinc Ennius tria se habere corda dicebat, quod loqui sciret Graece, Osce, et Latine ...
Ma il M. dalla cultura di questi studi si eleva anche ad arguire le condizioni
politico-sociali di una nazione, e stabilisce dei veri e grandi principi etici e morali.
Egli sa che il tempo dell' ignoranza è il tempo dell' eresia, e lo studio delle buone
lettere ed arti è il mezzo più potente per far trionfare la verità e la ragione.
Pertanto dopo uno sguardo alle infelici condizioni letterarie del sec. XVI, egli
termina la sua preziosa dissertazione, molto adatta ai nostri tempi, e alla generale
diffidenza pel greco, opportunissima poi per il nostro scopo presente, perchè ci lascia
vedere la condizione degli studi dell'età muratoriana. Ma anche altrove il M. si rife-
risce allo studio del greco, sempre ed ovunque insistendo sulla necessità di appren-
dere e di conoscere bene questa lingua, e là dove comanda egli, nella sua ideale
Repubblica, esige che essa sia diffusa e studiatissima e che i Colleghi " ne predichino
i pregi e l'utilità, confortando i giovani ad apprenderla, e risvegliando per le Uni-
versità e pei Collegj, le Cattedre d'essa „ (1).
Ebraico. — Accanto al greco, devono pure esser coltivate altre lingue antiche,
di importanza non dubbia, e fra esse prima l'Ebraico. Come già il greco, il M. si
studiò da se questa lingua, con quella fatica che si può ben immaginare, e di essa
conservò sempre buonissima opinione, come di una lingua importantissima per gli
studi sacri. " L'ossequio e lo studio che noi dobbiamo alle sacre scritture, la maggior
parte delle quali fu a noi tramandata dalla lingua Ebraica, assai medesimamente ci
dà a vedere quanto sia il pregio e la santità di quella lingua e quanto giovi la sua
cognizione „ (2). Ma essa è assai poco studiata, e quantunque abbia dato e dia tut-
tora dei buonissimi frutti, pure se ne disconosce l' importanza e l'utilità. " Molti
uomini di valore in essa ha vantato e vanta ancora oggidì l'Italia, ma converrebbe
accrescere il numero dei professori e degli amanti di essa „ (3).
Lingue Orientali. — Ma il M. non si ferma qui, e consiglia pure, come molto
utile, lo studio delle Lingue Orientali in generale: " Uno dei nostri desiderii si è pure,
che lo studio delle altre Lingue fiorisca nella nostra Repubblica, e fra questa rac-
comandiamo l'Arabica, lingua anch'essa di vasta erudizione, e di cui come di altre
lingue pellegrine, si sono stabilite in Italia ai giorni nostri le stampe. Certo è che
sarà presso di noi una grande raccomandazione l'essere addottrinati in sì fatte Lingue,
ma molto più l'insegnarle e l'illustrarle „ (4).
Questo è quanto ci parve bene di dire a proposito dello studio delle Lingue
secondo il M., ne possiamo più a lungo fermarci sopra, essendo le cose dette di
estrema evidenza, e d'altra parte essendo appieno rivelato il pensiero muratoriano.
1.1) I Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
47 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 111
Eloquenza e Poesia.
L'importanza di queste due arti non è tanto in se, quanto nel servizio che pos-
sono rendere agli altri studi : sotto questo aspetto pertanto occupano il primo gradino
nella scala degli studi, sotto l'altro, l'ultimo. Ma sì l'una che l'altra, sì nell'uno che
nell'altro caso, abbisognano di fine sagacia e di grande erudizione, perchè riescano
bene e diano buoni frutti.
La potenza dell'eloquenza è tale che il suo studio si impone, e al Muratori stesso
che dirigeva tutto il sapere, e dico di più, tutta la filosofia, ad uno scopo pratico.
non sfugge questa importanza, opperò stabilendo un piano di studi, non dubita di
considerarla la prima. L'animo nostro è tale che rifugge dall'ordinario, dal triviale.
e tende al nuovo, al bello (1); ne diversamente opera l'ingegno, ma si compiace di
più di quel buono che gli vien esibito in forme vaghe, in maniere ingegnose ed
adorne. È questo un bisogno di natura, e noi anche inconsciamente cerchiamo di
appagarlo. " Desideriamo, scrive egli (2), che la verità, le notizie, e le ragioni delle
cose si lascino vedere in abito non sordido, non deforme, non troppo rustico, e spia-
cevole, ma con gli ornamenti, che si convengono alla loro dignità e con quel decoro,
che in tutte le cose dee cercarsi, che s'ama, e si cerca da gli animi veramente no-
bili, e di gusto perfetto „. Perciò si impone lo studio dell'eloquenza e della retorica,
ma non della verbosa e lussureggiante, ma della grave e buona retorica (3), per cui
distinguiamo lo stile sano dal corrotto, il proprio dall'affettato; si impone lo studio
dell'efficace eloquenza, perchè di essa adorniamo le nostre immagini, i nostri pen-
sieri sì bellamente che sforzano e piacciono. " La vera eloquenza, scrive egli (4), non
consiste in frasche e sole parole, non in concetti o sterili amplificazioni, ma sì bene
in dir cose di sostanza con bella grazia, e in far che l'Ingegno e la Fantasia s'ac-
cordino in saviamente esporre la Verità, le Ragioni, e gli Ammaestramenti intorno
a chi legge od ascolta „. Ma noi parleremo ancora in seguito di stile e di retorica,
di bellezza e di perfezione, a proposito dell'Educazione Estetica, e là completeremo
questi pochi accenni.
Ma il M. nel tempo stesso che raccomanda questo studio, esige che sia guidato
da buon discernimento e fine sagacia affinchè non degeneri dal suo scopo. " L'Elo-
quenza e la Poesia sono giardini, ove spuntano erbe disutili e maligne. L'andarle di
mano in mano sbarbicando è una provvidenza necessaria, affinchè non crescano di
soverchio, e non affoghino le speranze migliori dell'agricoltura „ (5). Ma purtroppo
l'eloquenza allo stato attuale è tutt'altro che arte perfetta, molto e molto resta a
fare, e molto deve ripromettersi ancora da lei la nostra Repubblica. Il M. poi non
dimentica nulla, e coll'eloquenza, dirò, profana, raccomanda lo studio della sacra,
per la quale pure dà utili insegnamenti e precetti, e invita i suoi più insigni colleghi
(1) Vedi indietro pag. 39.
(2) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, ecc. parte I, pag. 216.
(3) Vedi pag. 39.
(4) Della Pubblica Felicità, pag. 170.
(5) / Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
]12 STEFANO GRANDE
48
della Repubblica ad occuparsene in modo degno " sia col trattarla più ampiamente,
sia col correggerla „.
Venendo alla Poesia, molto e molto ci sarebbe da dire sulle orme del M.
Come l'eloquenza serve ad allettare l'animo nostro ad apprendere le cose, così la
poesia serve a ricrearlo. Forse non tutti saranno disposti ad accettare come fine
della poesia il puro diletto, ma, rigorosamente parlando, non si può nemmeno dire
che il M. sia strettamente di questa opinione, da quanto appare là dove parla delle
norme della perfetta poesia. Tuttavia partendo dal lato pratico, bisogna riconoscere
ch'egli le riserva l'ultimo posto nel suo piano di studi. * L'ultimo luogo par che si
dovesse alla poesia, il cui proprio fine, essendo quello di dilettare, può perciò farla
restare inferiore a tutte l'altre Arti liberali, nonché alle Scienze „. Ma tosto si ri-
piglia e soggiunge: " E non è già poco suo pregio quel del dilettare, poiché avendo
o-li animi umani bisogno di qualche ricreazione, e sollievo, qual più onesto, nobile e
spiritoso diletto può trarsi che dalla Musica, dalle belle Immagini, dalle bizzarre
Invenzioni, e dalle Acutezze degl'Ingegni poetici? „ (1).
Ma altrove il M. si dimostra più favorevole ancora verso lo studio della poesia,
ed egli stesso non disdegna di occuparsene " ex professo „ ; di scrivere un trattato
di poetica " Della Perfetta Poesia Italiana „, di raccogliere e commentare le rime di
un poeta " Vita e Rime di Carlo Maria Maggi „, e finalmente in una celebre lettera,
di considerarla coll'eloquenza la prima fra le arti a cui dobbiamo rivolgere i nostri
studi (2). Ma egli distingue fra verseggiatore e poeta, e lamenta nel citato trattato (3),
la moltitudine dei primi e dei maestri dell'arte poetica, e la scarsezza dei veri poeti.
Bisogna persuadersene una buona volta: la poesia è arte difficile e delicatissima, e
alla sua coltura occorre l'opera continua, solerte, indefessa della nostra volontà non
solo, ma anche il contributo della natura. " Senza buon fondo di sapere e senza gran
lettura, e massimamente di quegli eccellenti originali, che han prodotto le lingue
greca, latina, et italiana sarà un mezzo miracolo, che alcuno ottenga la gloria di
gran poeta „. ...Ma non basta ancora, e il M. continua: " E suppongo sempre che a
sì fatto studio si porti vivacità d'ingegno, e inclinazione naturale; altrimenti con
tutto quel fondo e lettura si saprà forse dire dei bei sensi in versi, ma non si potrà
mai fare delle poesie leggiadre e perfette „ (4).
Così la pensava, e molto giustamente, il M. su quest'arte che è pur tanta parte
della nostra vita, e dei nostri studi; ma egli si dilunga assai in essa, e noi non pos-
siamo seguirlo, trattenuti dalla modesta indole del nostro lavoro.
Scienze Fisiche.
Così denominiamo le scienze che il M. comprendeva sotto il nome generico di
Filosofia Naturale. Qui dalla sua mente pratica che tutto riduceva ad uno scopo reale,
positivo e utile, non dobbiamo aspettarci che una concezione essenzialmente pratica
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, ecc., parte I, pag. 158. Cfr. pure cap. IV della nostra
trattazione.
(2) Lettera dell'abate N. N. (leggi L. A. Muratori) arconte della Repubbl. Letter. d'Italia al
signor N. N. Modena, 12 Agosto 1703, Campoki, II, 642-47. Fa pure parte dei Primi Disegni, ecc.
(3) Della Perfetta Poesia Italiana. Venezia, Coleti, 1730, cap. II.
(4) Lettera al Conte di Porcia
49 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 113
e immediatamente attinente alla vita reale. Nessuna meraviglia pertanto se egli tuona
contro Aristotele e gli Aristotelici, contro gli Scolastici, i Metafisici, ecc. Tuttavia egli
non eccede, e la condizione di tali studi a' suoi tempi scusa, o meglio, spiega le sue
acerbe invettive.
I vecchi Peripatetici sono asciutti e ostinati , i moderni seguaci della filosofia
naturale, audaci e sospetti, noi inoltriamoci nella via di mezzo, senza darci pensiero
che della verità, e senza il preconcetto di dover difendere o seguire una scuola o un
maestro, sia egli antico, o sia moderno.
Con questi ottimi pensieri egli entra nell'arringo, propugnando con sommo vigore
il metodo essenzialmente pratico, sperimentale di questi studi. Tutta la Filosofia
naturale pertanto egli aggira sopra due cardini, l'esperienza e il raziocinio, alla cui
luce, egli osserva, devono cadere le sofistiche ed astruse teorie di cervelli vaganti
fra le tenebre d'una incompresa filosofia. Ma egli sopratutto ha di mira la Sofistica
alla quale propone la più spietata guerra. Ma ci resta ben altro e " ancora bramiamo
che alla Logica, e alla Metafisica si taglino molte penne, acciocché non facciano inutile
pompa di sé stesse, vagando qua e là senza verun profitto, ma fedelmente e con
pronta ubbidienza accompagnino la Mente nostra allo scoprimento della Verità „ (1).
Cosi alle sottigliezze metafisiche, alle astruse sofisticherie sottentra una scienza
più pratica e più corrispondente ai bisogni della vita e della realtà. Ecco le sue
parole: " L'attenta osservazione degli effetti e delle cagioni delle cose, i Cimenti, o
vogliamo dire gli Esperimenti nuovi, il ritrovar nuove Macchine, e mezzi per giun-
gere più da vicino a conoscere la fabbrica, le virtù, l'origine, gli artifizj occulti, la
lega, o inimicizia, ed altre infinite qualità di tanti e si varj corpi della natura, for-
manti il Mondo terreno, e celeste, moventisi, o privi di moto; sono questi studj che
noi vorremmo principalmente coltivati dai nostri Filosofi, e che possono aiutati dal
raziocinio porgere gran soccorso alla storia della Natura. Qui dunque si debbono
esercitare le nostre forze, qui procurar di far cammino, perciocché le sole specula-
zioni dell'Ingegno non sono sempre bastevoli cannocchiali per raggiungere la verità
delle cose fisiche „ (2).
Cosi si esprime il M. nel campo della Fisica. Esacerbato dall'infelice condizione
in cui si eran ridotti questi studi, non vuole più la fisica speculativa, ma la speri-
mentale, la pratica, affinchè le menti di tanti, che spaziano in nebulose ed insipide
argomentazioni, siano attratte in un campo più sodo e positivo. Ed egli stesso ci
spiana la via e ce ne dà un forte esempio, giacché il M. si occupò sempre, quan-
tunque non " ex professo „, di questi studi, ed anzi appena ventenne, componeva una
brillante ed eruditissima dissertazione sul barometro, sostenendo l'abbassamento della
colonna mercuriale per effetto della tensione dei vapori acquei, ed ottantenne ancora
scriveva un'importantissima e davvero fatidica lettera sull'elettricità (3).
Medicina. — Dopo la fisica in generale, vediamo la Medicina, a proposito della
(1) / Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(2) Ibidem.
(3) Vedi Opinioni e Scritti di L. A. Muratori intorno a cose fisiche, mediche e naturali, per opera
del Cav. Prof. L. Salimbesi, in " Memorie della R. Accad. di Scienze, Lettere ed Arti in Modena „,
tomo XIII, parte II, 1873. Cfr. anche alcune sue lettere, tra cui, a proposito di applicazioni baro-
metriche, quella a G. G. Leibniz. Campoki, IV, pag. 1293-94.
Serie II. Tom. LUI. 15
1 1 | STEFANO GRANDE 50
quale il M. preme assai la mano. Questa scienza, è giusto ricordarlo, ha ultimamente
ampliato le sue cognizioni, riformati molti abusi, ma pur dista sempre immensamente
non solo dalla perfezione, ma dalla stessa mediocrità. Ben sa il M. che alla più parte
dei suoi inconvenienti non si può riparare, perchè di natura irrimediabili, ma sa pure
che si può umanamente pretendere molto di più, e che si deve ottenere, essendo questo
uno studio molto utile, e di utilità non già individuale, ma sociale. " Ma intanto i
mali non scemano, dice egli (1), ne gli infermi sono più facilmente curati di prima.
Troppo è frale la natura, e ha da signoreggiare nel Mondo questa gran torma di mali
che vi intromise il primo Padre, e che noi vi conserviamo a gara coll'intemperanza
dei Corpi e dell'Anime „.
Questa pertanto, secondo lui, la grande cagione dei mali, la nostra intempe-
ranza ; ne è poi tutto torto degli studiosi, se questa scienza poco procede, e quan-
tunque sia così faconda, magniloquente e dotta sui libri e sulle cattedre, riesca in
pratica così poco efficace. Ma prescindendo da particolari osservazioni, il M. era troppo
dotto per essere ciecamente ligio a questi studi, nei quali riconosce un progresso,
ben caratteristico davvero! sui tempi passati, il progresso " non leggiero di far sì
che la medicina se non può molto giovarci, non ci possa neppure molto nuocere „ (2).
È un po' poco pei seguaci di Esculapio, ma pure il M. la pensava proprio così E
questa non è opinione d'uomo profano, perchè il M. si intendeva pur parecchio di
medicina, e ad essa attese assai utilmente, come ci provano le sue numerose opere
mediche, che riscossero le lodi e l'ammirazione generale dei dotti. E a tal proposito
ricordiamo il suo trattato Del governo della peste, la dissertazione De potu vini calidi,
l'opera citata II Cristianesimo Felice nelle Missioni de' Padri della Compagnia di Gesù
nel Paraguay, propriamente argomento di scienza naturale, la Biografia del medico
Torti, diversi capitoli del trattato Della Pubblica Felicità, parte del trattato Delle
Riflessioni sopra il Buon Gusto, alcuni capitoli della sua Filosofia Morale, e finalmente
moltissime lettere ai più insigni medici contemporanei, a B. Ramezzini, ad A. Yal-
lisnieri, professori dell'Università di Padova, a F. Torti, A. Pacchioni, D. Sancassani,
F. Bertini, ecc. ecc., dei quali tutti godeva la massima stima.
Ma non deve stupire l'opinione del M. così pessimista riguardo alle scienze me-
diche, perchè egli aggraverà ancora la mano, tanto da scrivere che può valere tanto,
e spesso meglio che un medico, la vecchierellà del paese che scongiura colle sue
magiche medicine tutti i malanni umani (3). Ma quello che può stupire si è che l'esempio
del M. non è unico, è molti altri filosofi e pedagogisti, intendentissimi di medicina,
dimostrarono lo stesso e maggiore disprezzo ancora, per quest'arte. G. Locke, ad
esempio, suggerisce egli i piccoli ed efficaci rimedi pei fanciulli, e non vuole che si
ricorra al medico, ma si lasci agir spontanea la natura. G. G. Rousseau va più avanti,
e scrive (4) che la medicina " è arte più perniciosa agli uomini di tutti i mali che pre-
tende di guarire, e funesta al genere umano „.
Riguardo poi al M. bisogna confessare che peggio de' medici ancora tratta un'altra
(1) / Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(2) Ibidem.
(3) Vedi Della Pubblica Felicità, oap. XI.
(4) Rousseau, Emilio, I.
51 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 115
specie di eruditi, i Grammatici, ma dopo questi chi hanno, per lui, spacciato al mondo
più frottole sono senza dubbio i medici (1).
Matematiche. — Ben diversamente egli la pensa a proposito delle Matematiche.
Questo è un campo vastissimo e fecondo di bei trovati, di paesi nuovi, di ricchezze
non prima osservate, e il progresso che tali scienze fecero ai nostri tempi, è dav-
vero meraviglioso. Ma anche qui il M. non pensa alla matematica puramente specula-
tiva, ma bensì alla applicata, alla pratica. " A noi piacerà maggiormente chi facendo
servire le Matematiche alla Filosofia, alla Medicina, e ad altri argomenti, coll'aiuto
di esse penetrerà in miniere finora incognite „ (2). E acutamente parla dell'applica-
zione loro, non solo alle scienze citate, ma alla Meccanica, alla Geometria, alla Nau-
tica, all'Ottica, all'Architettura, alla Musica, ecc., citando i grandi vantaggi e com-
modi che ne possono derivare.
Ma il M. vede nello studio delle matematiche un altro vantaggio, quello cioè di
sviluppare l'intelletto e la penetrazione giovanile, e di riuscire di mirabile ginnastica
intellettuale. Ma anche qui non bisogna smodare, ed egli stesso disapprova le ecces-
sive lodi di Cartesio e dei Cartesiani (3).
Anche G. B. Vico partecipa di queste idee. Egli in una lezione universitaria, ripro-
dotta nella sua Autobiografia, e in appendice al De antiquìssima Italorum sapientia,
dichiara che s'addice bene alle menti giovanili la Geometria, ma moderata, la quale
sviluppa l'intelligenza, la dispone ad intendere le cose astratte, formando così la
logica della loro età ; ma pure apertamente biasima Cartesio e i Cartesiani che rim-
pinzano la mente dei giovani di magnifici vocaboli di evidenza, di dimostrazione, di
assiomi " come se dovessero uscire nel mondo degli uomini, il quale fossesi com-
posto di linee, di numeri, di specie algebriche „.
Così è infatti: lo studio della matematica, nei suoi giusti limiti, ha certo un'im-
portanza pedagogica, la quale da taluni è perfin creduta superiore ad ogni altra
disciplina, in base a quali seri e provati argomenti non sappiamo, dimenticando che
in ogni caso si deve pure pensare che la nostra vita è formata di realtà ben più
vive e concrete delle cifre e dei numeri ; che essa non è dominata dalla rigidità ed
inflessibilità delle matematiche, e che queste infine non sviluppano ne punto, né poco
il senso pratico e l'esperienza. Anche Platone, Quintiliano ed altri molti nell'antichità
ne sostennero l'efficacia, ma est modus iti rebus, e il considerarle come il più efficace
esercizio del pensiero, e la ginnastica intellettuale più potente, è tirarci addosso gli
strali di insigni pensatori, Bénard, Hamilton, Girard, Pascal, Berkeley, Gravesande,
D'Alembert, Ledere, Basedow, Weiller, ecc. ecc.
Geografìa. — Dei vantaggi delle matematiche partecipano pure la Geografia,
l'Astronomia, ecc. per le loro reciproche relazioni. Il M. è ben favorevole a questi
studi, di cui conosce tutta l'utilità, e nel tempo stesso tutta l'imperfezione del mo-
mento, e caldamente invita i futuri socii della sua Repubblica ad occuparsene seria-
mente, perchè esse tuttodì ci rivelano fatti nuovi, principi, computi, determinazioni
non prima affermate, e continuamente allargano l'orbita del loro campo e delle loro
(1) Della Pubblica Felicità, cap. XI.
(2) I Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
(3) Ibidem.
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utili investigazioni. Che il M. pur si mantenesse al corrente di questi studi ne abbiamo
ampie prove, e noi lo vediamo in parecchie lettere rivolgersi agli amici, ai dotti in
materia, per avere informazioni di pubblicazioni, di scritti, di carte, di atlanti (1).
Anzi egli va più in là, fino a suggerirci gli argomenti più bisognosi delle cure e delle
investigazioni nostre, augurandosi studi su una più regolata e precisa determinazione
della longitudine e latitudine, sull' ubicazione delle città, sulla cartografia, ecc. ecc.
Parlato così di queste discipline, veniamo a quella che in modo speciale stava
a cuore al M., alla Filosofia.
Filosofia.
Dopo quanto siamo venuti fin qui esponendo, e particolarmente nel Cap. IV,
appare chiaro quale dovette essere il pensiero del M. sulla filosofia. Ogni scienza è
importante, ogni scienza è buona per sé, ma su ogni altra importante e buona è la
filosofia. Quelle sono scienze, questa è sapienza : a questa pertanto devono essere indi-
rizzati i nostri sforzi, a questa che è di utilità prima, immediata, infallibile; a questa
che formò già uno dei pregi principali degli antichi popoli ; a questa infine che è la
fonte più copiosa di etica saggezza, e la maestra prima della vita e della virtù. Sono
questi pensieri comuni a tutti i grandi pensatori dei secoli, ma nel caso presente, ad
un sommo italiano più volte citato, a G. B. Vico, ed anche, e principalmente, a Michele
de Montaigne, che certo non fu ignoto al Muratori (2).
Intorno a questi pensieri s'aggira tutta la sua vita pratica e scientifica, e al
loro svolgimento consacra lettere, dissertazioni, opuscoli, libri, trattati, dimostran-
dosi ovunque amatore indefesso della prima utilità dell'uomo, della vera sapienza, e
sopratutto acuto e profondo indagatore di principi etici e morali. Ma dopo tanti
sforzi, egli pure s'accorge che a questa vera scienza poco si bada, ed è forza confes-
sare che, purtroppo, il suo non è più che un nome vano.
Ma scendiamo ai particolari. Qua! sia il concetto generico della filosofia già lo
sappiamo e lo sapremo meglio (3) ; in larga sintesi, essa ci rivela i primi principi, le
massime, le cagioni, le ragioni, le relazioni delle cose, le applica seguendo le idee
della mente, mirando non ad arricchir la memoria, ma a regolar l'intelletto; essa
è perciò scienza pratica perchè prende le mosse dai fatti e si eleva ai principi delle
cose; è scienza sovr'ogni altra stimabile perchè mira all'intelletto, sede della ragione,
non alla semplice memoria, sede dell'erudizione. Nel suo ampio circuito abbraccia
particolarmente la logica, la metafisica, la morale, ma entra in tutte le scienze " e loro
(1) Cfr. Lett. ad Ant. Magliabechi, Campoei, II, 547 ed altra a Giambattista Bianconi, 1727. Archiviti
Muratoriano, pag. 356 ecc. ecc. Prova degli studi geografici del M., oltre che dalle sue opere sto-
riche, ci è pure data dalla sua corrispondenza coll'illustre bibliotecario di Oxford, Giovanni Hudson,
il quale anzi gli dedicava il tomo III dei suoi Geografi Minori Greci. Campoki, IV, pag. 1581-82 ecc.
(2) M. uè Montaigne, Essais, cap. XXV, pag. 84-85 : " Entre les artes liberaux commenceone par
l'art qui nous faict libres: elle servent toutes voirement en quelque maniere à l'instruction de
nostre vie, et à son usage, comme toutes aultres choses y servent en quelque maniere aussi; mais
choissisons celle qui y sert diréctement et prof'essoirement... Si nous s9avions restreindre les appar-
tenances de nostre vie à leurs iustes et naturels limites, nous trouverions que la meilleure part dea
sciences qui sont en usage est hors de notre usage: et en celles mesmes qui le sont, qu'il y a des
estendues et enfonceures que nous ferions mieuls de laisser là, et suivant l'institution de Socrates,
borner le cours de nostre estude en icelles où fault l'utilité „.
(3) Vedi avanti pag. 57-58.
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contribuisce il nerbo migliore e l'interno buon sugo, siccome la Rcttorica suole con-
tribuir loro l'esterna vaghezza „ (1). Senza di esse le materie si trattano superficial-
mente, i libri riescono incerti, imperfetti, vuoti, perchè solo chi sa ben filosofare sa
ben maneggiare le scienze. È un precetto che dovrebbe scriversi a caratteri cubi-
tali sulle pareti delle scuole.
Riguardo alla Logica il M. scrive: " Tale e tanta è, non dirò l'utilità, ma la
necessità, che chi non è ben fondato in questa non può mai ripromettersi di discor-
rere con lode in qualsivoglia alta o bassa materia, sia scienza, sia arte „ (2). Ma
della Logica il M. ha un concetto particolare, elevatissimo; egli l'incorpora colla cri-
tica, essendo identico, o quasi, il fine loro di cercare l'ordine, la precisione, la per-
fezione nelle scienze. Ma di essa parleremo a proposito dell'arte critica.
Per la Metafisica il M. è tutt<ro che tenero : ammette che sia, almeno in ori-
gine, scienza utilissima, ma ora, per l'abuso che ne fu fatto, non è più scienza consi-
gliabile. " Quattro mesi bastano per insegnarla, qualora i maestri non si perdano in
frasche „ (3). Purtroppo di questa infelice condizione partecipa pure la Fisica, ma
non la particolare, pratica, scienza importantissima e di grandissime speranze, ma la
generale, speculativa, nella quale " non si veggono se non battaglie, senza mai sa-
pere, chi abbia vittoria „ (4). Dominarono già padroni, osserva egli, Platone e Ari-
stotele, detroneggiati dai Gassendisti e Cartesiani, battuti alla lor volta dai Newto-
niani, Leibnitziani, Wolfiani che stanno aspettando egual fortuna.
È il regno dell'oscurità e dell'incertezza, e il M., niente pratica e positiva per
eccellenza, ne rifugge naturalmente. Ma per queste scienze in particolare vedi il Cap. VI.
E veniamo alla Morale. " Oh ! qui sì che ci vuole Iddio, e ci chiama tutti, tanto
Idioti che Letterati; e qui fa d'uopo che ognuno studj „ (5). Il fine di essa è di inse-
gnare ad essere saggi, cioè sapienti, ed essa formò già il pensiero primo dei più
grandi ingegni dell'antichità. " A questa infatti più che ad altro badavano, ed in
questa incanutivano gli antichi Filosofi, tali non già chiamati unicamente per lo
studio della Logica, Fisica e Metafisica, né per l'Astronomia e Matematica, né per
l'Eloquenza, né per altri studj scientifici; ma sì bene per questa Filosofia „ (6).
E l' anima candida del M. sviscera tutta la sua affettuosa, cordiale , persuasiva
eloquenza a favore di questo studio che dovrebbe star a capo dei pensieri di tutti,
che dovrebbe informare tutte le scienze, che dovrebbe dominare vivissimo nelle
scuole, nei libri, nella vita. " Gran vergogna de' nostri tempi, per altro sì studiosi,
e liberati dalla ruggine de' Secoli barbari — scrive egli con toccante affetto — che
oggidì si occupi in tanti studj o di Lingue, o di Belle Lettere, o di Fisica, o di Metafisica,
o di Giurisprudenza, o di Matematiche l'età fiorita de' Giovani; e che questi poi ter-
minino il corso delle Scuole, senza avere né pure appreso, che e' è al mondo una
Scienza, appellata Filosofia Morale. Questa, questa più d'ogni altra è quella, che ha
da insegnarsi, e impararsi. Questa spezialmente, e non altra, questa è, che giusta-
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, cap. I, pag. 59.
(2) Della Pubblica Felicità, ecc., cap. XIII, pag. 151.
(3) Idem, cap. XIII, pag. 155.
(4) Idem, pag. 156.
(5) Filosofia Morale, cap. I, pag. 13.
(6) Idem, pag. 14.
118 STEFANO GRANDE 54
mente da Tullio viene appellata Medicina degli Animi. Possono altri studj giovare;
ma senza d'essi può anche passarsela l'Uomo. Non dovrebbe già veruno all'incontro
compiere la carriera delle Scuole, senza aver procurato a sé stesso l'ornamento e
sussidio di quella Scienza, che insegna a ben regolare la Vita Morale dell'Uomo
Mi si perdoni, se ritocco un tasto già toccato altrove (in realtà molto sovente) : per-
ciocché il bisogno richiede, che si scuota in questo la sonnolenza de' nostri tempi „ (1).
Così altrove^ ritornando sull'argomento, fa pubbliche, sentite lodi al re di Sardegna,
Carlo Emanuele III, ancor in vita, per aver istituito nell'Università di Torino la
cattedra di Filosofia Morale (2).
Anche il Montaigne riconosce la necessità di studiar, prima d'ogni altra scienza,
la Morale, e perchè ci deve anzitutto star a cuore di esser saggi e onesti, e perchè
essa facilita mirabilmente lo studio di tutte le altee scienze, che su di essa debbono
poggiare (3).
Posto non inferiore occupa l'insegnamento della Morale nei disegni scolastici e
pedagogici di altri insigni pensatori, in Locke, ad esempio, in G. G. Rousseau stesso,
che, come sappiamo, si mostrava invece così rigoroso verso la Storia e la Grammatica.
Un ramo di questa sì importante scienza si può ricondurre alla Pedagogia, che
colla Teologia forma una delle sue più dirette emanazioni (4).
La Teologia, scienza importantissima nella concezione filosofica e morale del M.,
è ridotta, lamenta egli, dai vigenti sistemi di studio in uno stato lacrimevole. Essa,
si può dire, è tanto importante quanto mal trattata, una selva di inutili questioni,
di barbari sermoni, di strane ed intemperanti opinioni, un infarcimento di filosofia
profana, una continua e spinosa metafisica ne ha invaso e sterilizzato il campo. E
sentita la necessità di una riforma che tagli tante frasche e filastrocche, appiccatele
da barbari commentatori, che regga e guidi la nostra mente nei giusti limiti, nelle
sane opinioni, negli utili argomenti. Il M. si fa apostolo appunto di quest'opera di
riforma, e alla Teologia considerata nella sua divisione di Dogmatica, Scolastica,
Polemica, e Morale, cerca di provvedere con uno studio più sodo e di maggior attua-
lità della Dogmatica e della Polemica, fondendo in esse lo studio delle altre due,
fattosi campo di triboli e di spine.
Questo il pensiero muratoriano nel campo della Filosofia, della Morale, e della
Teologia: queste le linee generali della riforma, le quali noi cercammo brevemente
chiarire, per quanto ci permetteva la ristrettezza del nostro argomento.
E qui sarebbe il luogo di vedere dell'ortodossia del M. accusato di giansenismo,
e di non so quale illecita relazione coi dotti protestanti della Germania, se quanto
si disse, si scrisse, si stampò su di lui, sacerdote, proposto della Pomposa, filosofo,
teologo, non fosse noto a tutti, e notissimo che da ogni accusa riuscì vittorioso e
più illustre. Le sue contraddizioni infatti, i suoi sogni, i suoi principi giansenistici,
le sue idee libere ed antiromane, non sono che illusioni di nemici, e per convincer-
sene basta pensare alla difesa che di lui fece Cristoforo Migazzi, arcivescovo di
(1) Filosofiti Moro/,-, cap. I, pag. 96-97.
(2) Della Pubblica Felicità, ecc.. cap. Vili.
(3) Montaigne, Essate, cap. XXV, pag. 85.
(4) / Primi Disegni, ecc.
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Vienna, e lo stesso pontefice Benedetto XIV (1). Egli è riformatore, innovatore pur
anco, ristucco delle rancide opinioni, delle spinose metafisicherie che invadevano e
tiranneggiavano gli studi, specie filosofici e morali dei suoi tempi, ma egli è pur
sempre cattolico, apostolico, romano (2).
Lo studio delle Leggi.
Il M. è poco favorevole allo studio della Giurisprudenza, pur riconoscendone
tutta l'importanza. È questa una scienza utile, ed anche necessaria, osserva egli, e
che durerà quanto l'uomo, ma essa più d'ogni altra ha bisogno di essere emendata,
migliorata, riformata. L'infelice condizione di questi studi, l'infelice loro applicazione
ai casi pratici, avevano già suscitato lo sdegno del M. fin da quando, giovanetto, per
assecondare il desiderio del padre, si era dato per qualche tempo alle leggi.
Tuttavia nella sua vita il M. non trascurò mai del tutto questi studi, ed intorno ad
essi scrisse un trattato Dei Difetti della Giurisprudenza ecc., e non già per disprezzo
di essa, ina per promuoverne la riforma. È vero che il M. vede quivi un'infinità di
difetti, di abusi, di mali, e a stento si adatta ad accettarne i rappresentanti nella
sua Repubblica, ma tale condizione non è per anco disperata. Pertanto egli scrive
" che sarebbe molto grata la Repubblica Letteraria, e più la Repubblica civile, a
quei valentuomini i quali tentassero la purgazione di tanti abusi, di tante sentenze
comuni fra loro contrarie, di tanti autori, che vagliono più ad avviluppare che a
decidere le questioni, e insomma di tutti quegli ostacoli che rendono eterne le liti
e infiniti i processi „ (3).
Dei difetti della Giurisprudenza, secondo il suo trattato, altri sono intrinseci
alla materia, altri esterni. Fra i primi ricordiamo: a) la mancanza di chiarezza nelle
leggi, per cui non si vede netta la mente del legislatore, ed è necessità sofisticare
su ogni sillaba, su ogni punto, su ogni virgola; b) l'insufficienza delle leggi, non
potendo esse provvedere a tutti i casi della vita, che sono infiniti; e) la difficoltà
di interpretare la mente degli uomini, per esempio nei contratti, testamenti, costi-
tuzioni di società, matrimoni, dotazioni, ecc., sicché si può veramente dire che il
notaio lavora per l'avvocato.
Fra i difetti esterni, che sono numerosissimi, citiamo le debolezze, i capricci, e
spesso l'ignoranza dei giudici, i difetti di varia natura degli avvocati, la voluta vizio-
sità delle cause, le ingerenze esterne, le prerogative dei governanti, ecc. ecc.
Ma il M. non è uomo da lasciarsi spaventare da questo ammasso di difficoltà, e
se non è possibile riparare ai difetti di natura, suggerisce di rimediare almeno ai
formali. Si potrebbe pertanto a ciò provvedere:
1° Col ridurre in un corpo solo tutte le sentenze più fondate, sparse nelle dif-
fusissime opere legali, le quali, quantunque non siano ancora state decise chiara-
mente dalle leggi, sono però state approvate dal consenso dei più saggi legisti, o
de' tribunali più famosi.
(1) Vedi Archivio Muratoriano : Scritti inediti, ecc., pag. 126-30.
(2,i Per l'avversione del M. ai principii giansenisti e protestanti vedi sua corrispondenza con
Celso Cerri. Campobi, IV, pag. 1459-61 ; 1464 ecc., e sopratutto la sua lettera a Paolo Segneri. Idem,
pag. 1471-80.
(3) I Primi Disegni della Repubblica Letteraria.
120 STEFANO GRANDE 56
J Coll'insegnare il modo di applicare le sentenze generali ai casi particolari.
3° Col dimostrare quanto si scosti l'uso presente del foro dalle leggi, e dagli
statuti composti per sbrigar con prontezza le liti.
4° Col proporre quei disinteressati espedienti che ogni persona di senno crede
atti a liberare questa scienza dalla sofistica e dagli abusi da cui è contaminata.
Questi i rimedi principali proposti nei suoi Primi Disegni, ma altri molti suggerisce
ancora nel suo trattato sulla Giurisprudenza, e qua e là nelle lettere; ma purtroppo
noi dobbiamo riconoscere che in gran parte sono essi ancora oggi pii desiderii, alla
effettuazione dei quali, molto e molto volentieri ci sottoscriveremmo ancor noi moderni.
Ma nella giurisprudenza non si deve veder tutto difetto , e il lato bello non
manca, e lato molto persuasivo e solleticante, il lucro e una più appariscente carriera.
Siamo sinceri, è così, " e se tanti volsero confessarla senza corda, direbbono che,
quando pure vi truovano gusto, non vien già questo dall'essere saporite od amene
quelle scienze, ma bensì dal guadagno, che si spera un giorno o attualmente si ricava
dalla professione di quelle „ (1).
A tale è ridotto lo studio delle leggi, o almeno così rigidamente è descritto
dal M., che di natura ne rifugge una mente libera, e un intelletto generoso. " Cer-
tamente un intelletto libero, cioè non legato da comando di superiori, e un intelletto
generoso, che voglia fare sua comparsa nel mondo, difficilmente troverà sua delizia
in sacrificarsi tutto alla Morale o alle Leggi „ (2).
Ma egli rincara ancora la dose, ed apertamente asserisce che questo studio " è
più tosto fatica, per così dire di schiena, che industria di ingegno „ (3) e cerca pro-
vare la sua asserzione coli' esempio dei più grandi ingegni, Petrarca, Ariosto,
Tasso, ecc. ecc. che si ribellarono sempre a esso.
Questa così poco confortante descrizione della giurisprudenza fu al M. dettata
da una parte dalla giusta considerazione delle esose prerogative ed ingerenze delle
persone più potenti, per cui la giustizia non era altro che il loro volere (4), dall'altra
dalla sua indole dolce e mite, amante della quiete e della tranquillità, epperò natu-
ralmente contraria ai rumorosi studi del foro. Infatti ce lo dice egli stesso : " Quid
de juris scientia sperari liceat in compertum habeo; hoc unum scio, genio meo non
arridere prorsus hujusmodi studia; is enim sum, qui mini quietem potius optem, ac
venalem jurisperitorum loquacitatem et tricas effugere dulcissimum putem „ (5).
Non fa pertanto meraviglia che chi scriveva così a ventidue anni, nell'età del-
l'irrequietezza e dell'ardore, premesse di più la mano nell'età matura, naturalmente
portata alla tranquillità.
L'arte critica.
A proposito di critica si pronunziarono già sul M. i più disparati giudizi, ed io
non so che cosa non si disse e si scrisse dagli studiosi delle sue opere. Il vero, il ra-
gionevole si è che noi non dobbiamo pretendere da quest'arte, nel M. ancora bam-
(1) Lettera al Conte di Porcia.
(2) Ibidem.
(3) Vita di C. M. Maggi. Milano, Malatosta, 1700, pag. 7.
(4) Vedi pag. 78-79 a proposito del contegno del Principe nell' esercitare la giustizia.
(5) Lettera a Francesco Caula, Mutinae, V Idib. feb. 1694, Campori, I, 47-48.
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bina, quanto essa darà poi fattasi adulta; né sarebbe giusto, nell'immensa mole delle
opere di lui, ricercare quel sottile raffinamento critico che caratterizza i tempi moderni.
Ma checche si sia detto, è un fatto certo che della critica il M. sentì tutta l'impor-
tanza e la necessità, e se tentennò alquanto non fu sull'arte in se, ma piuttosto sulla
persona dei critici " i quali facilmente si conducono a mirar dall'alto con superio-
rità, anzi con dispregio quasi tutti gli altri, che non sono cosi ben forniti del sapere
medesimo. Costoro sono gl'Iinperadori delle Lettere, e la fanno da Dittatori e da
Maestri sopra qualunque più riverito scrittore . . . , e rara cosa è, che uno sia un
gran Critico, e insieme un gran Modesto „ (1). Di qui emerge quella diffidenza che
il M. suggerisce doversi avere per le opere di cotestoro, pur ammettendo che per
essi procedono mirabilmente le scienze; si scoprono molte verità, molti fatti nuovi;
si distruggono molte favole e credenze assurde. " Né perchè se ne abusino alcuni,
continua egli, s'ha ella da riprendere, o levare dal Mondo, siccome non hanno perciò
a tagliarsi tutte le viti, perchè taluno s'ubbriaca „ (2).
Ma per la critica, considerata come arte, il M. è molto meglio disposto, e non
solo ne riconosce e ne predica l'incondizionata utilità, ma ben anche l'assoluta neces-
sità nelle scienze. " Egli è da dirsi che chi non è fornito di Giudizio Critico, e non
sa l'arte critica, presa in tutta la sua maggior estensione, costui farà sempre una
infelice comparsa fra i veri Letterati „ (3).
Ma la critica pel M. è molto affine alla filosofia, e non andrebbe forse errato
chi affermasse che in ultima analisi esse si danno la mano, e si integrano a vicenda.
Si pensi infatti al concetto che aveva il M. della filosofia, per la quale, dice, " noi
vogliamo far intendere la virtù del raziocinare, del ritrovare colla speculazione le
ragioni, le cagioni, gli effetti, e le amicizie, corrispondenze, e relazioni delle Cose,
o pur le loro nemicizie o disuguaglianze, e la virtù del saperle ordinare; e sopra
tutto quella di distinguere il Vero dal Falso, il Buono dal Cattivo, il Bello dal Brutto,
l'Apparenza dalla Sostanza, l'Opinione dalla Scienza, e l'Incerto dal Certo, senza
lasciarsi abbagliare da' Sofisti, dai Mentitori, dagl'Ignoranti, dai Declamatori, dai
pessimi Gusti ed usi de' tempi, e da altri somiglianti nemici della Verità, e della
vera Bellezza. Ora questa filosofia si è quella, che in ogni Scienza ed Arte nobile
entrando, loro contribuisce il nerbo migliore, e l'interno buon Sugo, siccome la Ret-
torica suole contribuir loro l'esterna vaghezza „ (4).
È la vera critica insomma, l'arte che deve informare ogni scienza, ogni studio,
e che egli definisce altrove con presso che identiche espressioni (5).
Uno dei più grandi principi informatori di quest'arte, si è d'apprendere sulle
spalle altrui " imparando a conoscere gli altrui diffetti ed errori per nostro vantaggio
e per disinganno altrui „ (6). Ma purtroppo non tutti sanno trarre partito da essa e
" oggidì fa pietà, per non dir peggio, il veder alcuni, che dopo tanti lumi, de' quali
ci ha provveduto la diligenza critica de' due prossimi passati secoli, tuttavia citano
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 293.
(2) Idem, pag. 300.
(3) Ibidem.
(4l Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, cap. I, pag. 53.
(5) Delle Forze dell'Intendimento Umano, pag. 333.
(6) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 300.
Serie II. Tomo LUI.
]22 STEFANO GRANDE
;.-
Autori apocrifi, e Libri già supposti per ignoranza o per malizia ad uomini ragguar-
devoli, oppure seguitano a prestar fede a tante imposture, o favole nate ne' secoli
barbari, fondando sopra sì fatte menzogne o inezie la forza o l'erudizione de' loro
ragionamenti. Fa pietà il vedere, elio senza discernimento di tempi, di luoghi, di
persone, e d'autori, osano alcuni trattar materie erudite, e massimamente le sacre „ (1).
Il M., persuaso della grande utilità di questa scienza, ne raccomanda lo studio
anche ai giovani, affinchè per tempo si addestrino a conoscere le mende degli scrit-
tori, a censurare o a difendere queste o quelle opinioni, questi o quegli autori. Ma
eo-H ben conosce l'arditezza del suo consiglio, e tosto lo tempera con una buona con-
dizione, osservando che i giovani devono bensì attendere a questo studio, ma sotto
la scorta di un saggio maestro, che guidi il loro giudizio, che li avverta degli errori
in cui possono essi stessi cadere, che moderi la loro presunzione, che loro indichi
quanto distino dalla perfezione. « Questo consiglio, vaglia il vero (2), il riconosco
anch'io, per un poco pericoloso, ma la condizione da me aggiunta, gli toglie per av-
ventura, tutta la comodità di nuocere ai giovani, e alle Lettere stesse „. Lo studio
delle opere critiche infatti, ben inteso e disciplinato, non può a meno di non eser-
citare grande influsso sulla mente del giovane, naturalmente portato ad osservare
ed a notare i difetti altrui, ma a parlar sinceramente, anche a noi pare indispensa-
bile la condizione imposta dal M., checche egli altrove vagamente accenni in essi a
sufficiente maturità di giudizio.
Altro principio direttivo della critica è la sincerità, l'imparzialità, e perciò si
richiede in essa una mente calma, serena, spassionata, che veda i difetti altrui
non solo, ma anche i propri, che non sia guidata da presunzione, da secondi fini, da
preconcetti. " Io, scrive il M. (3), per superbia o rancore non criticherò mai alcuno.
ma stimo ben necessario lo scoprire i difetti di chi ha stampato, acciocché se ne
guardino gli altri; e in fatti quando lo comporta il luogo, non lascio d'accennare
quelli ancora dei grandi uomini, che noi veneriamo come capi della Poesia „ (4).
Così concepisce il M. la critica, arte nobile ma difficilissima, ed arma a doppio
taglio, che solo i veri prudenti sanno utilmente usare.
Ora da quanto egli ha praticato nelle sue opere, e da quanto abbiamo noi fug-
gevolmente accennato, si può, almeno all'ingrosso, giudicare se il M. non si sia reso
pur anche benemerito di quest'arte, e se non siano esagerati i giudizi troppo recisi
pronunziati talora a suo riguardo.
Agraria.
Ci piace terminare la nostra rassegna delle discipline scolastiche sotto la scorta
del M., coll'accenno ad un'arte troppo dimenticata dai dotti dei secoli passati: l'Agraria,
Abbiamo più volte accennato allo spirito pratico che informa tutte le vedute e i pen-
sieri del M., al suo grande e disinteressato amore a tutto ciò che può tornar utile
alla società; l'abbiamo visto dar l'ostracismo alla poesia, all'arti belle, alle matema-
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte I, cap. VII, pag. 215.
(2) Idem, pag. 300.
(3) Lettera ad Apostolo Zeno, 15 luglio 1701, Campori, II, 516-17.
(4) Pensa sopratutto alla sua critica del Petrarca di cui pubblicò le Rime, Padova, 1711, e
cfr. lettera dedicatori;! ad Antonio Bambaldo di Collalto. Campori, IV, p. 1346-59.
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tiche astratte, alla filosofia mal intesa, alla medicina teorica, or lo vediamo con oppor-
tuno intendimento portar al grado di scienza di prima utilità l'agricoltura. " Più a
mio credere è da stimare un Libro che insegna a un Mercatante, ad un Marinaio, a un
Giardiniera o Agricoltore, ad uno Speziale, ecc., il suo mestiere col meglio di quel-
l'Arte, che cento libri di secca filosofia, di smilza erudizione, e di poesie poc' altro
contenenti che infilzate parole „ (1).
Ma questo in larga sintesi, ed egli venendo al particolare dedica l'intero Capi-
tolo XV del suo trattato " Della Pubblica Felicità „ alla Scienza dei Campi, e rac-
comanda vivamente al suo Principe di averla a cuore, di farla coltivare e progredire.
Ogni grande questione relativa all'agronomia è presa da lui in esame, ed egli tratta
dei vari prodotti che danno o dovrebbero dare le regioni, delle diverse coltivazioni,
dei climi più adatti, dei vari metodi di coltura, di ingrassi, di seminagioni, di pian-
tamenti, ecc., ecc., dappertutto trasfondendo quell'aura di affetto e di persuasione
che spirava la sua competenza e il suo gran buon cuore.
Ma egli vorrebbe che si istituissero scuole particolari di agraria, che si tenes-
sero conferenze, che si insegnasse ai contadini, se non di più, almeno nei giorni
festivi, che si sistemasse, che si coltivasse questa scienza che come le altre, e più
delle altre, ha ragione di vita, e si merita una cattedra speciale... e non dice di più
perchè teme di farsi un augurio ineffettuabile. I tempi moderni invece hanno dimo-
strato l'effettuabilità del suo progetto, e noi abbiamo scuole e cattedre di agraria, la
piena attuazione cioè del voto del M., e noi non ci peritiamo qui di asserire che
quel capitolo muratoriano, potrebbe servir benissimo di prolusione storica ad uno di
quei corsi.
Il M. come altrove, anche qui precede i tempi suoi, e giova metter in luce
questo suo merito guadagnato in pieno secolo XVIII, a dispetto di rancide opinioni,
e affermato con tal forza che quest'arte, ritenuta vile e spregevole, egli pone al di
sopra di molte altre, e sopra tutto della milizia, proclamandola onorifica perfino ai
nobili, il che vuol pur dire qualche cosa pei suoi tempi.
Qui terminiamo l'esposizione delle idee muratoriane relative alla coltura intellet-
tuale, senza indugiarci più oltre a trarre nuove conclusioni pedagogiche, contenti se
da quanto esponemmo potrà essere assodato il gran principio del M., che l'intelli-
genza va educata ed ammaestrata in servigio della vita. E pensatamente chiudemmo
la nostra rassegna delle discipline scientifiche coll'agricoltura e col voto del M., perchè
cosi più che mai ci parve indicato che l'istruzione non deve essere fine a se stessa,
ma mezzo e tirocinio alla vita.
VII. — Educazione Estetica.
Non da tutti è riconosciuta come parte essenziale del magistero pedagogico
l'educazione estetica, e pedagogisti insigni trascurarono di considerarla " ex professo ...
Per vero dire questa lacuna non è del tutto involontaria in alcune scuole. Locke,
Elvezio, Rousseau, Spencer, Barn, ecc., che in essa non vedono che un semplice, ed
anche superfluo ornamento della mente, o se meglio piace, una coltura di lusso, ila
(1) Della Pubblica Felicità, eap. V, pag. 51.
124 • NO GRANDE 60
in realtà anche questa parte dell'educazione ha la sua ragione di essere nella natura
dell'uomo, ed il M. stesso, che non si occupa direttamente e particolarmente di peda-
gogia, l'intuisce e la propugna, senza però, ben si intende, poter darne esplicite e siste-
matiche regole, ne comporle ad unità scientifica.
L'educazione estetica è la coltura delle potenze aventi per oggetto il bello. Ma
che cosa è questo bello? " La grandiosità, e maestà, la proporzion delle parti, un
grazioso e ben ordinato movimento, un vivace e delicato colore, e massimamente se
ben compartito, la soavità e il concerto delle voci, l'essere lucente, la finezza del
lavoro (venga essa dall'arte, ovvero dalla Natura), le varietà, le novità, ed altre
simili configurazioni e qualità nelle cose corporee cadenti sotto il senso della Vista
e dell'Udito, son quelle, che combinate insieme ora più, ora meno, danno occasione
a noi di dirle Belle. Cosi tutto ciò, che ha del grande, del nuovo, del delicato, e
mostra acutezza, possanza, e chiarezza dell'Ingegno altrui, con farci sentire, che ne
abbiamo ancora noi la parte nostra, o che ci guida a scoprire una rara maestria,
leggiadria o Virtù in altrui, e altre somiglianti doti, concorrenti negli oggetti intel-
lettuali, impetrerà ad essi il titolo di Bello „ (1).
Questa è 1' espressione del Bello nell' arte e nella natura, nelle quali esso ap-
pare come l'incarnazione d'un ideale della mente, e perchè di essa esprime i pen-
sieri, e perchè risponde all'aspirazione del cuore.
Ma un vincolo naturale unisce il Bello, col Vero e col Buono, e cioè le potenze
estetiche colle intellettuali e morali. L'intelligenza nostra è ordinata alla visione del
vero, la volontà all'effettuazione del buono, l'attività al culto dell'arte. Ora queste
tre potenze si svolgono insieme nella loro interna armonia, e si integrano a vicenda.
" Chi studia le discipline, cerca di sapere e di imparare. E che altro cerca egli di
imparare e di sapere, se non il Vero, e il Buono, affinchè dal primo resti illuminato
l'Intelletto, e dal secondo la Volontà sia fatta migliore, quando al conoscimento del
Buono si voglia far seguire ancor l'elezione? E chi ad altri insegna, che altro pre-
tende di fare, se non d'insegnare il Vero, ed il Buono? Adunque il vero ed essen-
ziale fine de gli studi ha da essere questo, apprendere il Vero e il Buono „ (2).
Dall'armonica unione di queste tre potenze nasco di necessità il diletto nelle
tre forme di arte, di scienza e di moralità. " Tutto ciò che è bello, è anche atto a
dilettarci, perchè a noi si presenta qual bene, o quale indizio e sopraveste di Bene,
cioè di qualche pregio naturale o morale: per la qual ragione parimenti il Vero, e
il Buono, Belli da noi son chiamati „ (3).
Per effetto di natura, e per forza d'educazione noi aspiriamo a quest'immenso
ideale estetico, e lo sentiamo, e lo appetiamo nel campo naturale e nell' artistico.
" 0 l'Istinto, o la Ragione ce ne rendono caro l'aspetto, e sovente ci muovono, inni
solo ad amarlo, ma anche a desiderarlo „ (4). Ma perchè si assolva nella sua inte-
grità il magistero estetico, non deve in una produzione artistica venir meno nem-
meno una delle potenze estetiche, perchè esse si suppongono a vicenda. " All'erudito
e Filosofo di Buon gusto, non basta di trovare e pubblicar cose vere, e cose moral-
(1) Filoso/in Morali-, eap. XVI, pag. 153.
(2) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte I. pag. 134.
(3) Filosofia Morale, cap. SVI, pag. 153.
(4i Idem, cap. XXXVII, pag. 349.
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mente buone, e almeno non cattive, e di ben ordinarle fra loro, egli eziandio ha da osser-
vare qual'effetto possa e debba verisimilmente cagionare in altri quella sua fattura „ (1).
Così ci avviciniamo alle arti amene, alle belle lettere, alla musica, pittura,
poesia, ecc., diretta applicazione pratica di quelle potenze estetiche nella lor duplice
funzione di conoscenza delle bellezze naturali e artistiche, e di diletto. Ma delle arti
belle noi già toccammo qua e là nella nostra trattazione e particolarmente nel Cap. IV.
Primo coefficiente della bellezza è l'ordine, non essendo il bello che la produ-
zione dell'ordine e della proporzione, in guisa da indurre perfezione e beatitudine
onesta nell'uomo. " Perciò, o non Belle, o come Belle non si presentano a i nostri
Sensi, e all'Intelletto nostro, quelle cose, le quali son prive d'ordine, e noi tutti pro-
viamo, che in quella parte, in cui le cose mostrano imperfezione, e difetto, elle in
essa non possono a noi piacere, se pur sanamente giudichiamo, non essendo elle con
ciò valevoli a cagionare perfezione, o dilettazione, o beatitudine onesta, o ne i sensi,
o nell'Intelletto nostro. Ora, quant'è necessario, che la Natura ci provveda d'un In-
gegno penetrante per conoscere il Vero dal Falso, e il Buono dal Cattivo, e un'in-
clinazione buona della Volontà per amare il Buono vero, e non il Buono apparente
e fallace; altrettanto bisogna ch'ella ci doni un'amore del Bello, un'Abilità innata per
discernere ciò, che ha Ordine e perfezione o in Noi, o in altri, o al meno conferire
in-linazione a produrcela „ (2).
Ma qui il M. lasciando da parte ogni altra produzione artistica, si riferisce solo
alle lettere, perchè " lo studio delle Belle lettere, cioè della Rettorica severa, e della
Poetica non frascheggiante, s'è quello, che può aiutarci sommamente a conseguire
cotal Bellezza „. Questo studio pertanto deve essere universale, deve entrare in tutte
le arti, e informare anche le più severe produzioni dello spirito umano. " Non mo-
strino dispregio, non dicano male di tale studio gli Uomini seguaci dei soli studj
austeri, perchè anch'esso è in qualche maniera necessario (utilissimo è almeno) a que'
medesimi studj austeri, e a tutti gli altri, qualora si vogliano trattare con pulizia,
con leggiadria, e tenere attenti i Lettori, e non tediarli sì di leggieri „ (3).
Con questo studio ha strettissima relazione, principalmente nel campo letterario,
l'eloquenza che ha pure per fine la beltà, e la leggiadria dell'esposizione, ed è del-
l'estetica la più grande fautrice „ (4).
Ma a noi preme di stabilire qui un principio pedagogico dal M. chiaramente in-
dicato. Il Bello non è un fatto immutabile, ma vario secondo le persone, l'età, la
coltura, il sesso, ecc., e per logico corollario, l'educazione estetica va conformata
alle condizioni psicologiche e sociali del discente e dell'ambiente esteriore. Così se
tu parli al popolo, nota egli, la bellezza consisterà in saper ben spiegare, sminuzzare
e dipingere le verità severe ed astruse perchè possa intenderle; se parli a discepoli,
la bellezza consisterà nell'esporre le cose con facile metodo, con chiarezza e forza di
ragioni ; se con dotti, la novità delle notizie, il metodo, le ragioni, le confutazioni, ecc.,
costituiranno il Bello che tu cerchi nel tuo magistero.
(1) Delle Biflessimii sopra il Buon Gusto, parte I. pag. 310.
(2 [dem, pag. 308.
(3) Idem, pag. 312.
!i Della Pubblica Felicitò, cap. XIV pag. 170. Vedi anche qua e là nella nostra trattazione,
pag. 39, 48, ecc.
\2t\ STEFANO GBANDE
62
Si possono frattanto stabilire da quanto esponemmo fin qui, e dice altrove il M.,
dei mezzi vuoi positivi, vuoi negativi, atti a favorire lo sviluppo della percezione,
del sentimento, e dell'immaginazione del Bello artistico e naturale. Ai mezzi nega-
tivi il M. dedica tutto il Capitolo XXXVII della sua Filosofia Morale, intitolato
" Del Buon Regolamento dell'Appetito del Vero, del Bello, ecc. „, mirando a suggerir
pratiche per non impedir il libero sviluppo delle potenze estetiche, e nello stesso
tempo per ben regolarle e moderarle.
Pei mezzi positivi è ovvio pensare, sotto la guida stessa del M., all'osservazione
delle bellezze artistiche e naturali, alle arti amene, agli spettacoli, ai giuochi, ecc.
Alle letture estetiche è abbastanza propenso il M. (1), ma è inflessibile pel romanzo,
e quantunque ne veda tutta l'efficacia, e lo sappia egli stesso per pratica (2), tuttavia
l'esclude assolutamente e rigorosamente dalle mani dei giovani " perciocché quando
anche potessero con essi qualche cosa guadagnare dalla parte dell'ingegno, potreb-
bono perder molto da quella de' costumi „ (3).
Ma egli è meglio disposto pel teatro; egli ben sa che ormai esso si è ridotto
a palestra di corruzione, ma nel suo ammirabile buon senso, sa pure bene che ormai
è impossibile inibirlo all'uomo, epperò non si oppone punto che si mettano in scena
i difetti dei personaggi, ma per deriderli e correggerli, non per imitarli, in guisa
insomma che senza privarci di sì dilettevole ed istruttivo divertimento, non si venga
meno alla morale ed al buon costume.
Altri mezzi di educazione estetica non mancano suggeriti nelle molte opere mu-
ratoriane, ma il primo, il principale è pur sempre l'inclinazione naturale. " Ci vuole
il genio, altrimenti non si fanno eccellenti cose. L'arte, lo studio, e la conoscenza di
tutti o di moltissimi principj del Bello può di poi mirabilmente servire per farci
discernere il Bello nelle Cose, ed Operazioni altrui, e per dimostrarlo nelle nostre.
Lo studio accresce e perfeziona l'abilità naturale, e spezialmente per conto delle
Lettere „ (4).
Così è infatti, e noi non dubitiamo di asserire che se è indubitato che le potenze
estetiche hanno il loro principale fondamento nell'essenza dello spirito nostro, non è
meno certo che esse devono riguardarsi come un dono, un portato della natura.
Ma da quanto dicemmo è pur messa in evidenza un'altra grande legge pedago-
gica, che cioè l'educazione estetica ha libera e reale attinenza coll'intellettuale non
solo, ma colla morale, al cui sviluppo concorre mirabilmente.
Così senza più oltre indugiarci su quanto possa aver scritto altrove il M. sul-
l'estetica, ci pare d'aver dimostrato che egli non trascura, sotto il punto di vista del
suo scopo, questa parte dell'educazione, che forma una così grande lacuna nei sistemi
educativi di pedagogisti insigni e di professione.
Vili. — Dell'Educazione Morale e Religiosa.
Basta ricordare che l'educazione morale ha per scopo di render l'uomo capace
di retto ed onesto operare, per richiamarci alla mente quanto ha dovuto scrivere su
(1) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II, pag. 316.
idi indietro pag. 21, e lettera citata ad A. Rambaldo di Collalto. Campori, IV, pag. 1346-59.
(3) Lettera al Conte di Porcia.
(4) Delle Riflessioni sopra il Buon Gusto, parte II. pag. 309.
63 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 127
questo argomento il M., che al retto ed onesto operare indirizzò tutte le sue fatiche,
i suoi studi, le sue opere, la sua vita. Noi ci siamo con amore fermati qua e là sulla
morale muratoriana, e ne vedemmo il concetto, il fine, i mezzi, ora notiamo ch'altro
è istruzione morale, della quale più di proposito ci siamo occupati, altro è educazione
morale, perchè il conoscere il giusto e l'onesto, non è l'esser di fatto giusti e onesti.
È la stessa- differenza che intercede fra scienza e sapienza, ed il M. ci insiste molto.
" Non bisogna confondere la Scienza colla Sapienza: sarà la prima nei Dotti ; trovasi
la seconda in quei solamente, che sanno ben vivere con Dio, con gli altri Uomini,
e in sé stessi ; ora Tessere Dotto o Dottore, appartiene a pochi, ma il ben vivere sag-
giamente è, o certo dovrebbe essere il mestiere d'ognuno „ (1).
Ma questa scienza non ha solo colleganza coll'istruzione morale, ma ancora con
un' altra necessaria scienza, la Religione, in cui' ha il suo fondamento e la sua es-
senza, e colla quale forma la scala per arrivare alla vera sapienza. " Due sono i lumi
e gli aiuti di cui Dio ha fornita l'umana Natura, affinchè essa possa pervenire al
nobilissimo godimento della Sapienza: la Religione e la Filosofia Morale „ (2). Ma per
religione non si devono intendere le elucubrazioni, e le lambiccature dell' ingegno
umano; essa è un qualche cosa di superiore a noi, essa è la figlia di Dio. All'incontro
invece è figlia dell'Uomo la filosofia morale, la quale perciò appunto abbisogna della
religione per reggersi da se. " Non è già questa scienza d'origine Celeste, scrive
egli (3), venendo essa di pianta dalle osservazioni e riflessioni de' Saggi e degli antichi
Filosofi; con tutto ciò può essa e suol divenire un'utile serva alla Religione e Teo-
logia medesima ; ne a lei si deve negare la preminenza sopra tutte l'altre Scienze ed
Arti, inventate o coltivate dagli Uomini, eccettuatane la sola Teologia „. Cosi l'edu-
cazione morale è subordinata alla religiosa, avendo la morale il suo fondamento na-
turale in Dio.
Le potenze su cui s'aggira l'educazione morale sono il sentimento, la coscienza
e la libertà morale, il cui scopo si è rispettivamente di formare il cuore del discente
alla vita morale e religiosa, stabilire il giusto criterio del saggio ed onesto operare,
costituire il carattere morale e religioso. Ciascuna di queste potenze poi abbisogna
pel suo fine di mezzi di coltura proprii, il cui ufficio generale si è trasformare le
loro operazioni in virtù, ciò che costituisce appunto il fine ultimo dell'educazione
morale e religiosa. Vediamo pertanto, sotto la guida del M., di queste virtù in ordine
alle potenze morali.
Sentimento morale. — Virtù propria di questa potenza umana è l'amor del Bene.
Per bene poi il M. intende " tutto ciò, che può recare, o essere mezzo per recare a
noi Piacere e Contento, o pure accrescerlo: ovvero sminuire, o togliere da noi il
Dolore „ (4). Esso si può distinguere in varie guise, ma sempre e in tutti i casi ha per
fondamento l'amor proprio. " Per ora a noi basti di saper questo primo importante
assioma : che tanto i Buoni, quanto i Cattivi, tutti cercano il Bene, e tutti a cercarlo
son mossi dall'Amor proprio. Il bene dico, che essi credono, che abbia qualche rela-
(1) Fìlnxnfi,, Morale, cap. I, pag. 15. Vedi anche nostra trattazione, pag. 9, ed altrove.
(2) Idem, pag. 12.
(3) Idem, pag. 14.
(4) Idem, pag. 133.
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zione alla propria lor Felicità, sia direttamente o indirettamente, sia mezzo e stru-
mento, o pur fine a conseguire un tale da tutti desideratissimo stato „ (1). Il M. non
teme obbiezioni, e continua asserendo che perfino nell'amor del prossimo, e nello
stesso amor di Dio, il movente è sempre l'amor proprio (2). Questo amore, nessun ne
dubita, può essere fonte di molti errori e mali, ma è pur la causa d'ogni operazione
morale. " Ma intanto io seguito a stabilire, che questo Amore è il Principio d'ogni
operazione Morale, ed è principio innato di tutte le Creature Ragionevoli, e quel che è
più, dato e impresso loro dall'Autore sapientissimo della Natura, e perciò in sé stesso
buono, utile, anzi necessario e indispensabile nell'Uomo „ (3). A questo naturale ed
universale principio ubbidisce la stessa volontà, la quale ne è così intrinsecamente
governata, che se ella vuole, quel solo vuole che le è dettato da esso " a misura
però de i lumi veri o falsi che vengono dall'Intelletto „. E qui egli è davvero elo-
quente ed efficace. " Miriamo pure e annoveriamo qualunque opera volontaria, che
dall'Uomo si faccia: troveremo che l'Amor proprio è quello, che la comanda, e la
vuole. Lavora egli colui? Passeggia, studia sui Libri, va alla guerra? È Amor proprio,
che il guida a tali azioni. Si mette egli a tavola, pensa ad ammogliarsi, tratta d'af-
fari, fa orazioni, digiuna, e che so io? Tutto vien dall'Amor proprio, tutto da quel
Principio interno, che in mille guise va movendo, sollecitando o pur ft-enando l'Uomo,
e gli fa produrre tante e sì differenti azioni, ovvero il ritiene da tant' altre. Ruba
egli quell'altro, toglie la vita al nemico, sfoga la lussuria, monta in collera, in su-
perbia, fa usure, monopolj, congiure, e così discorrendo? Ancor qui l'Amor proprio è
autore di tutto, comandando la Volontà, in quanto è spinta da esso, non men queste,
che quelle azioni „ E il movente dell'amor proprio è la nostra felicità. " Se stu-
diamo, se fabbrichiamo, se componiamo, è l'Amor nostro, che ci spinge colà. Quello,
dice egli, è buono per te; questo ti renderà o ora, o col tempo, molto o alquanto
felice. Se ci mettiamo in cammino, se al giuoco, se a tavola, se battiamo le antica-
mere dei Grandi, se studiamo su i Libri, o stiamo attenti a un Libro di conti, o
abbiam per le mani mille altre faccende: Amor nostro è colui, che credendo ciò atto
a farci di presente, o in avvenire in qualche guisa felici, noi spinge e sollecita a
farlo. In una parola ogni nostro pensiero, desiderio e movimento va a finire in cer-
care e volere in tante diverse cose una sola, cioè qualche Bene, qualche Felicità di
noi stessi. Questo è il viaggio continuo dell'Ignorante e del Dotto, de' Filosofi e de
gl'Idioti, essendo a ciascuno maestro e consigliere in questo cammino quell'Amore,
che tutti, senza che alcuno ci ammaestri, o ci esorti, polliamo all'essere nostro „ (4).
Ma noi non vorremmo che si interpretassero male queste espressioni. È vero,
verissimo che il puro, genuino amor di se, è giusto, razionale, onesto, perchè fondato
sul rispetto proprio della nostra dignità personale, fornita dell'augusto carattere mo-
rale, ma esso non va confuso coll'egoismo, o con qualche altro pernicioso eccesso,
perchè essenzialmente immorali, a scongiurare i quali il M. consacra un Capitolo
intero, il XXVIII, della sua Filosofia Morale, intitolato appunto Del buon regola-
mento dell'Amor proprio.
Ili Filosofia Morale, cap. XIII, pag. 130.
(2) Idem, cap. XII, pag. 123.
(3) Idem, pag. 124.
(4) Idem, pag. 127.
65 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 129
Il M. poi ci dà la nota divisione del bene, in quanto concerne l'operare umano,
in bene onesto, utile, e dilettevole; e finalmente la definizione di questo bene morale
" che è quello che s'accorda nelle Leggi dell'Ordine, che Dio per onor proprio, pel
bene, o sia per la Felicità universale de gli Uomini desidera e vuole da essi Uomini , (1).
Ora il bene morale è tale che riscontrasi nelle sole creature intellettuali e libere,
cioè negli esseri personali , eppcrò l'amor del bene appartenendo a noi ed ai nostri
simili, si trasforma in amor di sé e degli altri.
Dell'amor di se già parlammo, vediamo ora qualche cosa dell'amor degli altri.
Il M. parla volentieri di questo dovere, ma più volentieri ancor lo pratica. Esso costi-
tuisce due grandi virtù, la Giustizia e la Carità, le quali si imparano senza logorar
i banchi delle scuole, perchè stanno segnate dalla mano di Dio nel cuore dell'uomo,
il quale senza di esse non è più tale, ma un mostro, un nemico del genere umano (2).
Qui il M. particolarizzando, viene a parlare dei molteplici doveri che incombono al-
l'uomo; doveri di figlio, sposo, padre, suddito, padrone, ecc., dei doveri insomma che
spettano a lui, qualunque sia il suo stato e la sua condizione.
Ma l'amore di se e degli altri non comprende tutto quanto l'amor del bene, ed
è imperfetto e limitato, come è imperfetta e limitata la persona umana; esso pertanto
è altresì ed assai più amore di Dio. E verso Dio noi abbiamo doveri di riconoscenza,
amore, ubbidienza, ecc., doveri che principalmente costituiscono il sentimento reli-
gioso su cui poggia, come su solido fondamento, il sentimento morale. Ma noi non
possiamo più oltre seguire il M. senza allontanarci di troppo dal nostro scopo.
Coscienza morale. — " Con essa, scrive il M. (3), vogliam significare quella Cono-
scenza, che mercè della Ragione ha la mente nostra di poter nelle occasioni fallare,
e peccare, o pure d'aver fallato, e peccato, sia coll'operare, sia col non operare „.
Questa pertanto è pel M. o dono di natura, o frutto della ragione, e si fa sentire
contro qualunque altro suggerimento, richiamandoci al dovere. " Non si ha nondi-
meno per questo a metter la Coscienza per una Facoltà o Potenza distinta dall'In-
telletto, altro non essendo essa, se non un atto d'esso intelletto, che riflette sulle
azioni fatte o da farsi, per riconoscerne la lor bontà o malizia mediante la Ra-
gione , (4).
Molte sono le virtù proprie di essa, e noi possiamo dire che quella parte dei
Rudimenti Morali al Duca di Modena — ne parleremo in seguito — che tratta del
Governo Individuale, pare scritta dal M. appunto per formare e sviluppare questa
potenza morale. Noi pertanto, trascurando ogni altro accenno, riassumeremo brevis-
simamente quanto colà è detto, il che ci sembra sufficiente per lo scopo nostro.
Premesse alcune notizie di Antropologia e Morale, il M. esamina le quattro virtù
cardinali, Prudenza, Giustizia, Temperanza, Fortezza, di ognuna delle quali dà la
definizione, la divisione, e cita gli opposti e gli eccessi. Così si distinguono tre classi
di Giustizia, verso Dio, verso il prossimo, verso noi, alle quali corrispondono le tre
classi dei doveri che noi abbiamo di già esaminati. Anche la Prudenza si divide in
tre parti: politica, economica, monastica. La prima riguarda il governo pubblico, la
(1) Filosofia Morale, cap. XXIII, pag. 196.
(2) Idem, cap. XXV, pag. 218.
(3) Idem, cap. IX, pag. 104.
(4) Ibidem.
Serie II. Tom. LUI.
130 STEFANO GRANDE 66
seconda la famiglia, la terza sé stesso. Essa ha cinque fonti: il lume naturale: gli
insegnamenti dei savj e gli aforismi ; la cognizione delle cose naturali e lo studio
delle arti belle e meccaniche; le scienze, la lingua ed altri mezzi dell'umano sapere ;
la propria esperienza.
A queste grandi virtù pertanto deve l'educatore informare la coscienza dell'alunno,
e tenerlo lontano dai loro eccessi, che rapiscono l'intuizione delle verità morali e
religiose.
Dopo queste virtù, cardine di tutta la vita umana, vengono le virtù necessarie
nella Conversazione civile, alla quale, come già sappiamo, il M. dava grandissima
importanza, sia come mezzo di educazione che d'istruzione (1). " La conversazione
civile è legame degli uomini, raccomandata a noi dalla natura ; e chi non conversa,
ed è solitario in mezzo alla Repubblica, sarà per sentimento d'Aristotele o un Dio
o una bestia „. Tre sono le virtù che si richiedono nella conversazione, e società
umana, l'Affabilità, la Veracità, l'Urbanità, virtù necessarie a tutti, e che rivelano
la bontà dell'educazione ricevuta, siamo noi principi, o siamo semplici cittadini.
Il M. passa in seguito in rassegna le seguenti virtù, Liberalità, Magnificenza,
Magnanimità, Modestia, Umiltà, Mansuetudine, Verecondia, e di tutte dà la definizione,
nota gli eccessi, e con grandi esempi della storia, descrive l'eccellenza e l'utilità.
In ultimo il M. esamina che cosa sia l'appetito sensitivo dell'uomo, nelle sue
due facoltà, concupiscibile ed irascibile. Dalla prima siamo portati a desiderare e
cercare ciò che è, o sembra, bene per la vita umana, e dall'altra siamo forniti di
mezzi per acquistarlo e difenderlo. Da queste due facoltà pertanto nascono varie ed
opposte passioni ed affetti: amore, odio, timore, speranza, dolore, collera, ecc., col-
l'esame dei quali si chiude questa prima parte dell'opuscolo muratoriano, intesa a
formare a virtù il cuore dell'uomo in generale, qualunque sia la sua condizione ed
il suo stato.
Così ci par detto a sufficienza delle virtù della coscienza morale. È vero che
nell'opera del M. queste non sono espresse colla forma più adatta all'apprendimento
del fanciullo, ma esse non furon punto dettate per la sua età. Il M. quando parla
al fanciullo usa un altro linguaggio e un ben diverso magistero ; egli parla coi fatti
e cogli esempi, ma qui era pur necessario stabilire in astratto questi principi, i
quali del resto inculcati col discernimento, colla larghezza di mente, colla sincerità e
col convincimento che il M. richiede ed esige assolutamente dall'educatore, possono
ottenere egualmente lo stesso ottimo risultato.
Libertà morale. — Questa è una potenza d'indole essenzialmente attiva, ed è la
cagione prima ed efficiente dell'onesto e virtuoso operare. " Di tal forza ha provve-
duto Iddio l'Anima nostra, che essa può, se vuole, prevenire e fermare il precipitoso
corso degli sregolati moti interni, tanto che la Mente disamini prima, se veramente
sia un Bene, o pure un Male, l'azione proposta dalla Passione focosa, con antivedere,
e raccogliere le conseguenze di ciò che è per farsi „ (2).
Virtù proprie della libera volontà sono l'ordine dell'anima nostra, cui si oppone
la dissolutezza; l'ubbidienza alla legge morale, cui s'oppone la licenza.
(1) Vedi indietro pag. 17.
(2) Filosofìa MoroB, cap. VII, pag. 90.
67 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 131
Tre sono pertanto gli ordini cui deve aspirare la nostra ragione: Ordine verso
Dio, ordine verso i nostri simili, ordine verso il nostro interno. A proposito di quest'ul-
timo poi il M. osserva " che esso è precisamente oggetto della Filosofia, per quello
che riguarda i Costumi, e l'operar delle Creature Ragionevoli. Dico pertanto, che sic-
come il Corpo, allorché è libero da ogni male, o sia da qualsivoglia infermità e Dolore,
e per conseguenza Sano, si truova in quell'Ordine, e buon sistema, che ad esso con-
viene : cosi l'Anima è da dire ben' ordinata in se stessa, qualora è libera dall'Errore,
dal Peccato, e dal Delitto (veri Disordini dell'Anima, e perciò Mali morali) o almeno
qualora ella sente vero abbonamento ad essi, e fa quanto può per guardarsene, o
per liberarsene „ (1).
Ora liberare l'anima nostra dall'errore, dal peccato e dal delitto, cioè da ogni
azione contraria a virtù e sapienza, è appunto il mezzo più efficace di educazione
della libera volontà. Occorre quindi imprimere profondamente nell'animo dell'alunno
il convincimento che la vita nostra deve essere una continua, costante latta contro
quei nostri nemici interni, e che questo lavoro sostenuto in omaggio del dovere, è
la più nobile estrinsecazione della nostra attività. A ciò si presentano vari mezzi
ovvii e sicuri che si possono riassumere nel precetto, che non si deve contrastare
al regolare esplicamento della libera volontà, affinchè essa operi per virtù sua pro-
pria, non per impulso esteriore; ma nemmeno le si deve lasciar libera la briglia
affinchè non travii e cada nella licenza, oppure intorpidisca e si estingua nell'indif-
ferenza ed apatia.
Cos'i ci pare d'aver considerata l'educazione nelle sue forme principali di edu-
cazione fisica, intellettuale, estetica, morale e religiosa sotto la guida del M. Trascu-
riamo di trattare separatamente di altre forme, educazione domestica, extradomestica,
tecnica, classica, ecc., avendone qua e là detto a sufficienza, tanto più che difficil-
mente si potrebbero raccogliere in capitoli speciali i pensieri del M. a tal riguardo.
Riserviamo tuttavia un capitolo speciale per l'educazione della donna e del Principe,
de' quali ci pare abbia più distesamente e particolarmente parlato il Muratori.
(1) Filosofìa Morale, cap. XXVII, pag. 243.
132 STEFANO GRANDE 68
PARTE TERZA
L'educazione considerata nella sua sintesi finale.
Riconoscimento e coltura del carattere. — Stabiliti i principi generali educativi, è
logico e naturale vedere della loro applicazione, e a noi resta appunto da trattare
di quella parte dell'educazione che dalla teoria scende alla pratica, dall'astratto al
concreto, e si occupa direttamente della formazione del carattere, centro a cui devono
tendere tutte le altre parti dell'educazione. Ma come questa parte ha la sua ragione
d'essere nelle cose fin qui discorse, cosi da esse dobbiamo desumere la sua tratta-
zione, senza aspettare altre grandi cose dal Muratori. È la conclusione che dobbiamo
tirare dalle premesse.
Tre sono i cardini su cui s'aggira la grande opera della formazione del carat-
tere: Riconoscimento del carattere individuale, coltura di esso, scelta dello stato.
Per quanto riguarda il riconoscimento e la coltura del carattere il M. si mostra infor-
mato dei principali criteri dei diversi sistemi educativi: egli li passa in rassegna, e
da ognuno esporta quel tanto di vero e di buono che gli pare. Così egli accetta in
generale, e adopra come buon criterio per riconoscere le varie disposizioni del carat-
tere, l'esame della massa cerebrale; la struttura, le prominenze, il volume cranico:
il temperamento; gli umori corporei; gli spiriti; l'eredità psicologica, ecc., e al loro
studio e riconoscimento dedica vari Capitoli, II, III, IV, V della sua Filosofia Morali -.
Sono pagine assennate e dotte che rivelano una buona coltura filosofica e fisiologica
nel grande Modenese, e costituiscono un altro grande suo merito. Ma noi non pos-
siamo qui seguirlo più d'appresso, e perchè i precetti e le teorie da lui propugnate
sono già state affermate ed accolte dalle scienze fisiologiche e anatomiche moderne,
e perchè ci allontaniamo di troppo dal nostro scopo.
I criteri citati, temperamento, massa cerebrale, volume cranico, ecc., sono
esclusivi all'organismo corporeo, mentre il carattere, riguardando le disposizioni pro-
prie ingenite dello spirito, abbisogna per la sua formazione e coltura, di ben altri
criteri. E qui, sotto la scorta del M., ricordiamo la continua e sagace osservazione dei
genitori e degli educatori (1), l'opportunità dell'ambiente domestico e sociale che
avvolge l'alunno (2), l'educazione autonoma (3), l'imitazione consapevole e riflessiva (4).
Ben altri mezzi si trovano suggeriti ancora nel M., mezzi di minore importanza, ma
pur sempre efficaci; ma per questi ci accontentiamo di quanto per avventura abbiamo
potuto dire nella nostra trattazione, premendoci di fermarci di più su due punti
speciali: i Collegi Convitti e la Scelta dello Stato.
(1) Cfr. Filosofia Morale, cap. XXV, pag. 227-28.
(2) Idem, cap. Ili, pag. 47-48; cap. XLII, pag. 393-99; Lettera al Porcia; Della Pubblica Felicità,
cap. XIV, pag. 165-66.
(3) Idem, cap. X, pag. 116; Delle Rifless. sopra il Buon Gusto, cap. IV, ecc. ecc.
(4) Vedi pag. 17-18.
69 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 133
Il Collegio.
L. A. Muratori è un fautore convinto dei collegi e li raccomanda vivamente per
la buona educazione dei giovani. Egli non vede in essi che bene; in essi i giovani
apprendono, meglio che altrove, i principi d'una vita morigerata, il rispetto, l'ubbi-
dienza ; in essi evitano molte probabilità di cadute morali. Il collegio racchiude tutti
i vantaggi delle scuole pubbliche e delle private, della vita domestica e dell'extra-
domestica, è, in una parola, il vero santuario dell'educazione e dell'istruzione. " Per
questa cagione, oltre a tant'altre, saranno sempre da lodare e da giudicare utilissimi
i Collegi de' Nobili e i Seminarj istituiti in Italia, purché posti in man di saggi e pii
Direttori. La disputa è antica, e Quintiliano ne tratta, se sia meglio il mandare i
fanciulli alle pubbliche Scuole, dove lor giova l'emulazione, o pure il dar loro Maestri
in casa, dove non è da temere della compagnia de' cattivi. Or l'imo e l'altro bene-
ficio può nello stesso tempo ottenersi in questi Collegj „ (1). Egli pensa pur anche
alla scuola paterna e, a parità di meriti, non l'escluderebbe, se non ci occorresse
qui un padre saggio, un maestro scelto, un abile soprintendente, una casa dovizio-
sissima e poi e poi ' al tirare de' conti non si restringesse a pochi il potere e
sapere dare a' figliuoli nelle loro case tutto quell'alimento di buoni costumi (e non
parlo qui dell'Educazione e delle Scienze) il quale si può sperare da' Collegi e Semi-
nari regolati con savia Disciplina „ (2).
Io espongo e non discuto, persuaso delle buone intenzioni del M., ma più che
altro credendole, almeno per conto mio, pii desideri. Noi moderni non siamo più
tanto ottimisti, e alle due sole condizioni richieste dal M. perchè il Collegio sia dav-
vero quello stupefacente santuario di educazione e di virtù, ne aggiungiamo tant'altre
da riempiere un lungo capitolo. Gran che un pio direttore e una savia disciplina; ma
devesi pur pensare che il livello comune che domina la vita del Collegio è un guaio
grandissimo ; che non si può sottoporre alla medesima igiene fisica e morale ragazzi
forti e deboli, superbi ed umili, generosi ed egoisti, robusti e delicati: che il vizio
è in essi più presto insinuato in forza dell'esempio; che l'educazione del libero arbi-
trio, del carattere non può farsi in massa e sopra una folla cotanto varia; che lo
strettoio del regolamento uniforme comprime tutte le volontà; che quella necessità
di continua e fredda disciplina, quel regime militare, quell'aspetto, per lo meno, da
caserma, quegli istitutori, in generale tutt'altro che arche di scienza e di coscienza...,
che tutto questo po' po' di cose, ed altre ancora, non finiscono per rendere tanto
accetto quell'Eden muratoriano (3).
Ma questi non sono che gli inconvenienti, e non tutti, di un lato solo della que-
stione, la quale presenta tanti aspetti quanto la testa d'Argo.
I collegi, chi non lo sa? dovrebbero essere i continuatori della vera educazione
domestica, e i preparatori della sociale, invece ne sono quasi i distruttori. Sono fa-
miglie artificiate, dice Gino Capponi, fondate a sostegno d'una parte, d'un ordine, o
(1) Filosofia Morale, cap. XL1I, pag. 397-98.
(2) Ibidem, pag. 398.
(3) Cfr. G. Allievo, La Riforma dell'Educazione moderna, ecc., pag. 30-32, e 49-50; e Studi
Pedagogici, pag. 333-35.
134 STEFANO GBANDE 70
di un ceto, e non di rado intese a promuovere con la industria di un metodo un'am-
bizione privata o un privato interesse. Se sono nazionali , il governo vi sviluppa i
suoi intendimenti politici e arieggiano la caserma ; se privati, in mano del clero, lo
spirito religioso prevale sullo scientifico e civile e arieggiano il convento; se privati,
in mano di laici, per lo più predomina la speculazione e l'interesse e arieggiano la
bottega
Ma noi dobbiamo ritornare sui nostri passi, e a me pare di non fare nessun torto
al M., alle sue dottrine e alle sue idee, osservando che dopo tanto progresso delle
scienze e della pedagogia, dopo quanto si vide, si ammise, si dimostrò nell'arte del-
l'educazione, in mezzo a tanto allagare di collegi, il M. stesso modificherebbe forse
i suoi pensieri, e si accorderebbe colle vedute moderne.
Vocazione e Scelta dello Stato.
Il conseguire nella società quel posto cui la natura fin dall'origine ci plasma.
e l'occuparlo degnamente, è problema non poco arduo, che non si estende solo alla
nostra individualità personale, ma tocca pur anche in qualche modo la società, la
quale dal nostro felice assetto riceve forza di compagine e vigore. E di somma neces-
sità pertanto che si studii ben per tempo le nostre inclinazioni, e che l'educatore noti
tutte le manifestazioni e rivelazioni della nostra vocazione attraverso ai molteplici
fenomeni dello sviluppo fisico, intellettuale e morale, osservando in quali ci com-
piaciamo, e da quali abbordarne La vera, la forte inclinazione è talora infatti pre-
cocissima, epperciò deve essere elemento primo di esame, perchè essa è indice sicuro
di riuscita. Il M. l'appella genio, e per esso intende, " una certa naturale inclinazione
ed anche impulso, che insensibilmente porta chi alla pittura, chi alla musica, e così
ad altre arti o meccaniche o liberali, alle lettere, e nelle lettere stesse più ad un
campo che all'altro E ben si dovrebbe per tempo ne' Fanciulli e ne' Giovanetti
attentamente indagare e scoprire questo genio, e scandagliare le forze loro. Non è
poco abbaglio il volerli mettere a volare, se dalla natura non hanno sortito ali e
penne, e incamminarli all'oriente, quando il loro cuore è volto a ponente „ (1).
Sono parole istruttive ed assennate, le quali fra l'altre cose, assodano un grande
principio pedagogico e didattico: che la vocazione sincera e sicura trae con sé da
natura forze ed aiuti concomitanti e competenti al suo sviluppo, e alla sua riuscita ;
occorre quindi esercitare, sviluppare, rafforzare quelle occulte potenze, affinchè non
abbiano più a patir scosse.
Ma non bisogna cader nell'estremo opposto e lasciar troppo sbrigliata la prima
inclinazione del fanciullo, che può essere effimera ed anche fallace. Deve l'educatore,
e principalmente il saggio padre di famiglia, illuminare il figlio con savi consigli,
aiutarlo nello studio e nella conoscenza di se e del mondo sociale, e solo allora che le
sue parole, i suoi avvisi ed anche le sue preghiere non varranno a smuoverlo dal
suo proposito, lasciarlo libero e padrone delle sue intenzioni. " Importa assaissimo
il fare attenta riflessione all'Indole varia, e ai diversi Temperamenti e Ingegni, spe-
zialmente de' Giovani, per ischivare la mala destinazione, che fanno d'essi non rade
volte i lor Genitori, riprovata da tutti i Saggi. Questo alla Chiesa, quell'altro al
(1) Lettera al Conte di Porcia.
71 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI
135
Secolo; uno allo studio delle Leggi, l'altro alla Medicina, o pure alle Matematiche;
e chi ad un mestiere e chi ad un altro. Bisogna in ciò adattarsi al loro naturale
talento, e accortamente esaminar le loro abilità ed inclinazioni. Taluno riuscirà va-
lente Dipintore, bravo Sonatore di Strumenti Musicali, accorto nella Mercanzia ecc.,
applicato che sia a quella professione ; ma nelle Scienze niun profitto farà. Altri può
essere che riesca un buon Secolare, ma spinto in un Chiostro, senza ben pensare,
dove il suo naturale il porti, sia scontento di se medesimo per tutta sua vita, e
faccia altri scontento. E a questo dovrebbero ben por mente que' poveri padri, che
mandano alla rinfusa i loro figliuoli alle Scuole, per desiderio e speranza di farne
un di la propria fortuna; e se li figurano già saliti a gradi luminosi, mutare i cenci
in toghe, e sguazzare nell'abbondanza mercè delle scienze, che han tuttavia da impa-
rare. Le querce non daranno mai ulivi o pomi „ (1).
Non meno chiaramente e magistralmente si esprime egli altrove, e principal-
mente in quella importantissima e da noi più volte citata lettera al Conte di Porcia.
Una classe sola deve in qualunque caso far studiare i figli suoi, i ricchi, e perchè
questo è per loro salutare esercizio, e perchè non perdono mai nulla. " Che i figliuoli
de' Nobili e de' benestanti, volere o non volere, s'incamminino per la via delle let-
tere è ben fatto. Anco non guadagnando, nulla si perde ; e si guadagna sempre
qualche cosa „ (2).
Numerose altre cause intralciano la libera scelta dello stato : il metodo stesso
e l'ordinamento degli studi; l'ignoranza o l'indifferenza di chi insegna; l'impiego ohe
ci attende; il favore dell'arte più lucrosa: l'opinione pubblica; l'esiguità dell'asse
patrimoniale, ecc., ecc.
Ma nemmeno qui sono indicati tutti gli inciampi che si oppongono allo sviluppo
della libera vocazione, né enumerate tutte le cause che ostacolano la libera scelta
dello stato; altre ancora si devono aggiungere, imputabili ai genitori e agli educa-
tori, o intrinseche ai giovanetti stessi. " 0 nella tenera, o nella soda età furono o
son loro troncate le ali; imperciocché talora la negligenza de' genitori non sa per
tempo ammaestrarli diligentemente nelle Scienze e spesso le politiche ed economiche
esigenze, e l'Interesse e l'Ambizione, rompono a' figliuoli la carriera degli studi let-
terari. I giovani stessi, o vilmente atterriti dal primo volto, che in apparenza è
orrido, della fatica, o rapiti dagli indomiti effetti del senso, o persuasi dalle lusinghe
dell'Interesse, e de' superficiali Onori, o incantati dalla tacita magìa dell'ozio, da se
medesimi volgono le spalle alle Scienze, e all'Arti migliori, meglio amando gli indo-
rati ceppi delle Corti, la sfrenata libertà della malizia, ma più d'ogni altra cosa la
miserabil quiete de gli oziosi „ (3).
Frattanto tre buoni rimedi conosce il M. e suggerisce contro questi grandi mali,
studio, esercizio, educazione, i quali " hanno da mettere in mostra tutto il buono,
che la Natura ci diede „ (4). Che se poi fallissero anche questi, si mandi pure, senza
rimproccio di coscienza, il povero all'officina perchè si guadagni il pane; il ricco al
collegio perchè eviti il vizio e il peccato. Il M., bisogna riconoscerlo, è pur sempre
(1) Filosofia Morale, cap. V, pag. 66-67.
(2) Delle Riflessioni sopra il Burnì Gusto, parte II, cap. I, pag. 23.
(3) Idem, pag. 12.
(4) Ibidem.
136 STEFANO GRANDE 7 li
in qualche modo un po' tenero del ricco, del privilegiato della fortuna, contro il quale
non arriva a suggerire esplicitamente rimedi radicali (1). Altri invece è più energico,
e per giovane tale che finirà per infingardire anche nello studio, scrive M. de Mon-
taigne: " il n'y treuve aultre remede, sinon qu'on le mette pastissier dans quelque
" bonne ville, feust il fils d'un due ; sujvant le precepte de Platon, qu'il faut colloquer
" les enfants, non selon les facultez de leur pere, mais selon les facultez de leur ame „ (2).
Ma ritorniamo a noi, e concludiamo. Il problema della scelta dello stato è vasto
e arduo, e il M. lo riconosce e, si può dire, lo studia in tutta la sua generalità, e
riesce a darci buoni ed importanti precetti ohe sono pur sempre, nella loro univer-
sale e continua efficacia, di grande attualità e freschezza.
Ma noi non seguiamo più oltre il M. su questo proposito: nella scelta dello
stato si ha il centro di gravitazione della nostra vita, ed il punto di equilibrio della
società; con esso si chiude un grande periodo dell'educazione umana, l'alunno ha
compiuto il suo tirocinio, egli è libero di se, e davanti ai suoi occhi sta il gran
mondo di cui egli è il padrone.
APPENDICE
IX. — L'Educazione della Donna.
Due opposte correnti si dividono il campo dell'educazione femminile: secondo gli
uni la donna deve vivere fuori d'ogni movimento e d'ogni coltura sociale ed assolvere
tutta la sua missione fra le pareti domestiche; secondo gli altri essa deve essere
" emancipata „ educata cioè e chiamata ad adempiere tutte le funzioni civili, poli-
tiche, scientifiche, religiose, e partecipare a tutti i diritti civili, sociali e morali
dell'uomo. E da una parte il richiamo della società antica, e dall'altra il grido della
moderna.
Il M., non fa bisogno di dirlo, non cade ne nell'uno, ne nell'altro eccesso ; egli
sa che antropologicamente l'uomo e la donna appartengono alla medesima, identica
specie, epperò per quanto riguarda le loro potenze costitutive, sentire, intendere,
volere, essi devono essere trattati alla stessa stregua, ed egli dettando precetti a
tal proposito li considera come un tutto solo. Ma egli sa pure che fisiologicamente e
psicologicamente le loro potenze sono ben diverse, e vanno quindi diversamente trat-
tate, ed egli inclina leggermente per questa parte verso l'antico sistema. Il suo ideale
nell'educazione femminile, è il più facile, e osiamo dire, il più conforme a natura,
esso si può comprendere nella nota sentenza: Domi mansit, lanam fecìt.
La donna è più debole d'organismo e di raziocinio dell'uomo, ma essa è più
potente di cuore, più vivace di sentimento, più sbrigliata di fantasia, e la sua nota
particolare è la poca pratica del mondo, per cui deve essere guidata e governata da
saggi capi.
" Convenendo a questo sesso la riservatezza (3), e lo star lungi dal gran Mondo,
(1) Cfr. Della Pubblica Felicità, cap. IV, pag. 35.
(2) M. de Montaigne, Essais, cap. XXV, pag. 87.
(3) Filosofìa Morale, cap. XXXVI, pag. 340.
73 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 137
e non essendo sempre le lor teste perfettamente lavorate nell'officina della prudenza :
anzi essendo esse sottoposte a delle stravaganze della lor fantasia, e a varj deliquj di
Giudizio ; bene è, che siccome ne' Contratti elle non possono operare senza l'assistenza
de' Savi, cos'i in molte altre azioni dipendano dal consenso e consiglio di chi è loro Capo.
L'Uomo per troppa Libertà sta in pericolo di scavezzarsi il collo: ma certo più
sovente per la troppa Libertà la Donna se lo scavezza. Peraltro le Donne oneste esaggie,
allorché sanno bene ubbidire a i loro mariti, anch'esse comandano. L'osservazione fu
fatta da Publio Mimo in quel verso : Casta ad tirimi matrona parendo imperai „ .
Si potrà non essere del tutto d'accordo col M., ma tolta la severità dell'espres-
sione, bisogna pur riconoscere che egli non ha torto. Lo slancio dell'affetto e del cuore
che domina tutta la donna deve essere rivolto alla sua speciale missione di figlia,
di sposa, di madre, e la sua educazione deve essere essenzialmente informata alle
virtù domestiche.
Come figlia essa deve tendere a quello spirito di ubbidienza, di ordine, di par-
simonia, di raccoglimento che è sicura arra di riuscita nell'avvenire ; come sposa
essa deve attendere alla cura e felicità del suo compagno e capo ; come madre alla
assennata e coscienziosa educazione dei propri figli; in tutti i suoi stati poi al go-
verno della casa e alla cura delle faccende domestiche.
Questi pertanto, in sintesi generale, i pensieri del M. sull'educazione della donna.
Ma il moderno sistema d'educazione femminile ha ben altre tendenze, e la semplicità
del M. coite rischio di essere scambiata per ingenuità. Del resto il sistema di edu-
cazione da lui propugnato si confaceva poco anche con quello dei suoi tempi, ed
egli se ne difendeva candidamente, mettendo a confronto, in due riuscitissimi quadri,
gli effetti dei due diversi sistemi. Ed ecco come egli, con mano maestra insupera-
bile, descrive lo snervante spettacolo della donna moderna " excelsior .,.
" Ecco la Signora Galantina, che ora la discorre col suo pappagallo, ora col suo
cagnolino ; eccola con inquietudine continua negli occhi e nel sedere, quasi non sappia
trovar riposo. Sentite che scappata di ridere, ma senza pregiudicare al pregio della
bocca studiosamente impicciolita. Mirate come gira, come lancia occhiate di dritto
e di traverso ; come sospira senza alcun motivo di tristezza, e ride senza menoma
occasion di gioja. Finge d'esser in querela con tutti gli Uomini di sua conversazione,
sempre studiando nuove attitudini, nuovi vezzi, e insegnando al suo ventaglio bat-
tute e positure sempre nuove, sempre galanti. Ella certo merita d'essere chiamata
la Dea delle conversazioni, ella certo vuol piacere, e piacerà: ma a chi? Alle teste
leggiere, o a chi forse ama in casa propria, e non già nelle altrui, l'Onore e Giu-
dizio: Signor sì; ma non già alla gente Saggia, che sa distinguere l'oro dall'orpello.
Leggono i saggi in tutti quei movimenti e atteggiamenti la malaccorta Vanità; leg-
gono in quegli occhi, e in quei risi, qualche cosa di peggio. Io lascerò considerare
agli Intendenti ciò, che volesse dire a' tempi di Giulio Cesare Publio Mimo, allorché
scrisse : Multis piacere quae cupit, culpam cupit. Però non si credano di sì facilmente
nascondere i lor fini e desiderj queste Deità, le quali in qualche Città d'Italia altro
non fanno dalla mattina alla sera, o per dir meglio dal mezzo dì, in cui sorgono
dal letto, fino al tornarvi, se non a guadagnare Idolatri al passeggio, all'assemblea,
al tavogliere, e sino in Chiesa. Che se per avventura simili arti vanno a procacciarsi
un talamo nuziale, si può ben predire, che in sì fatte reti non caderà alcun Giudizioso,
Serie IL Tomo LUI. 18
138 STEFANO GRANDE 74
e Saggio. Cacciatoci tali son destinato per cervelli sventati, che non amano se non
la bizzarria, o per cervelli da dozzina, che non si intendono di vera Amabilità, cioè
del vero pregio delle cose, e ne faranno la penitenza a suo tempo. Ma forse anche
potrebbe toccare questa penitenza alle Donne stesse, le quali alle mani di un Saggio
Marito sono felici, infelicissime bene spesso con chi è privo di Virtù e di Giu-
dizio „ (1).
Ma ben diverso è l'altro aspetto della medaglia, lo spettacolo molto più con-
fortante della saggia madre di famiglia, che è stata allevata ed educata al sistema di
vita di gran lunga più semplice e nobile, a cui esclusivamente è chiamata da natura.
" E ben altro pregio sulle bilance de' migliori quello di una Maritata la quale
si compiace più che d'altro, della conversazione de' suoi Figliuoli, e delle sue Ser-
venti, per ben educare i primi, e ben governare il resto della famiglia; e truova più
gustosi e convenevoli i suoi lavorieri, che lo spendere metà della giornata a prepa-
rarsi per perdere l'altra; oppure che il trattenersi l'ore intere in mezzo ad una frotta
di adoratori stranieri a riscuotere incensi, a barattar novelle, e a maneggiar carte,
che fan perdere il danaro, e si tirano dietro altre conseguenze, con trascurare in-
tanto affatto la cura della sua casa, e con logorar sì malamente il tempo prezioso,
la roba, e voglia Dio che non anche la purità della coscienza „ (2).
Ed ancora: " Quanto a me se mirassi una Nobil Donna passarsene le veglie
notturne nella camera sua, in mezzo alla corona delle sue Figliuole e Damigelle,
intenta essa, e intente l'altre a questo o a quel lavoriere, dispensar gli ordini oppor-
tuni per la buona regola di tutta la casa, e inspirare de' retti sentimenti in chi è
a lei sottoposto, si coll'esempio, come co' ragionamenti, e colla lettura di qualche
savio Libro, e insino col narrar loro delle Fole morali: mi sentirei voglia di chia-
marla una saggia Piegina in quel suo picciolo Regno „ (3).
Sono cose vecchie, sapute e risapute, ma pur sempre giuste, e sempre piene di
alto significato e di potente efficacia, e che potrebbero star benissimo in un trattato
di educazione femminile.
Il M. è risentito contro le donne, ma d'altra parte riconosce che non sono esse
tutta la colpa del loro male, ma noi stessi che cominciamo a fuorviarle, a trascinarle
fuori della loro orbita naturale col pretesto di una nuova, raffinata educazione. Così
la donna si introduce nella vita politica, attende agli studi, s'occupa di scienza,
d'arte, di religione, di diritto delle genti, si dà allo sport, si spoglia delle sue mi-
gliori e più soavi qualità e trascura quel campo dove riuscirebbe veramente bene,
veramente amabile ed insuperabile. Non è allo studio che deve mirare la donna,
perchè essa non riuscirà mai, ne il moto femminista moderno che vuol emancipare
la sua condizione, ha giuste mire. La dottrina delle donne procede non dalla testa,
ma dalla lingua, e certe scienze, appunto perchè trattate da loro, scapitano. " Di
grazia, scrive egli a Carlo Borromeo Arese (4), non oltraggi la riputazione della
Morale col crederne capaci le teste femminili. Da che son divenuto cortigiano, cioè
a dire, ho cominciato a studiare la furberia, veggo manifestamente che il saper delle
(1) Filosofia Morale, cap. SXXVI1I, pag. 361-62.
(2) Idem, pag. 363.
(3) Idem, capo Vili, pag. 95-96.
ili Lettera a Carlo Borromeo Arese, 1701, Campori, II, 516-17.
75 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 139
donne non viene dalla testa, ma dalla lingua, che va imitando il linguaggio degli
uomini „.
Se il M. si fosse proposto direttamente di scrivere dell'educazione, forse nella
sua schiettezza, non ci avrebbe risparmiato altri sali, che avrebbero potuto dar vita
a certe sfumature che noi troviamo nelle sue opere, ed in parte traducemmo qui;
ma purtroppo ciò non fa, contentandosi di poche ma luminose pennellate, e qua e
e là di qualche terribile stoccata.
Tale è pertanto il risultato d'una educazione errata, tali per sommi capi i mali
che si presentano all'occhio sommamente pratico del M., come conseguenza d'una
malintesa raffinatezza. Frainteso lo scopo della vita della donna, della sua nobile
missione, ne sono necessariamente fraintesi i mezzi, e noi assistiamo a quegli stoma-
chevoli spettacoli. A questo male non può riparare la moderna educazione a base di
emancipazione, perchè ad eccesso oppone eccesso, e snatura da un altro Iato i più
gentili, soavi, squisiti sentimenti femminili. Secondo il M. e il suo ammirabile buon
senso, vi si può rimediare con un mezzo solo, ma sicuro, infallibile, col ritorno alla
antica semplicità, al Domi mansit, lanam fecit.
XI. — Dell'Educazione del Principe.
Abbiamo riservato un capitolo speciale all'educazione del Principe, e perchè su
questo argomento si fermò in modo speciale il M., e perchè ci parve di poter con
esso colmare una lacuna nell'opere e nella vita del nostro autore. E pensatamente
diciamo una lacuna, perchè mentre tanto si parlò dei grandi precettori reali dei tempi
muratoriani, mentre celebri e conosciutissimi sono i nomi del Gerdil, precettore del
Principe del Piemonte, Carlo Emanuele IV; del Fénélon, istitutore del Duca di Bor-
gogna; di Bossuet, precettore del Delfino di Francia, figlio di Luigi XIV; dell'abate
di Condillac, istitutore dell'Infante Ferdinando, nipote di Luigi XV, erede del Ducato
di Parma, Piacenza e Guastalla, pochi, pochissimi accenni abbiamo a L. A. Mura-
tori, precettore del primogenito di Rinaldo d'Este, Duca di Modena. Pochissimi infatti
dei biografi del M. parlano, con cognizione di causa, di questo suo eminente ufficio,
non escluso lo stesso nipote Gian Francesco Soli Muratori, che appena appena inci-
dentalmente e di volo l'accenna.
L. A. Muratori , come gli illustri educatori ricordati , scrisse pel suo augusto
discepolo un'operetta di Filosofia Morale, la quale però non vide la luce per le stampe
che ducente anni dopo la nascita del suo grande autore (1), e presentemente è somma
grazia se è conosciuta appena dai dotti in materia, o se qualcuno la degna di una
occhiata. Ma la fortuna che mancò a quest'opera, toccò intera alla Filosofia Morale (2),
la cui prima idea venne appunto suggerita al M. dalle lezioni che impartiva al suo
Signore (3). Però, non ostante i grandi punti di contatto, i due trattati non sono
punto la medesima cosa, ed anzi l'opera che si può quasi dire la madre delle
(1) Scritti inediti di L. A. Mur. pubblio, pel suo secondo centenario. Bologna, Zanichelli, 1872.
(2) Il Trattato della Filosofia Morale fu pubblicato la prima volta a Verona nel 1735, in-4";
quindi a Napoli nel 1737, e successivamente a Milano, a Venezia nel 1754, in-8°, ecc., ecc. L'edi-
zione da noi usata, come dicemmo, è quella di Venezia del 1763.
(3) Ci'r. Vita del proposto L. A. Muratori di Gian Francesco Soli Muratori. Venezia, Pasquali, 1756.
140 STEFANO GRANDE 76
lezioni morali al duca di Modena, è piuttosto il Trattato della pubblica Felicità,
oggetto dei buoni principi, in cui, come appare fin dal titolo, la questione dei doveri
e dei diritti, e in generale dell'educazione morale del principe, si presentava di fronte
e spontanea, essendo appunto la pubblica felicità il vero fine dei regnanti.
Il trattatello muratoriano in questione è diviso in due parti: nella prima intito-
lata Del Governo Individuale, l'autore mira a formare il cuore nostro a quelle virtù
che ci saranno necessarie, qualunque abbia da essere la nostra condizione, profes-
sione, ecc. ; nella seconda, intitolata Del Governo Politico, il M. si rivolge direttamente,
e particolarmente al Principe, discorre dei suoi uffici, dei suoi doveri speciali, e delle
qualità che lo guidano a regnare saviamente sopra i suoi sudditi.
E qui è da notarsi che il M. non fu chiamato all'eminente e delicato ufficio di
precettore del futuro monarca, per apprendergli le lettere, le leggi, l'arte della guerra,
od altre scienze simili, ma ebbe affidata una parte più nobile ancora, e per noi di
o-ran lunga più importante, l'educazione morale. I precetti pertanto, o come li intitola
il nipote e fors'anche il M. stesso, le Lezioni di Filosofia Morale per l'istruzione d'un
Principe, riguardano esclusivamente la morale, come dice il titolo stesso, epperò noi
non dobbiamo ricercare in esse, che le tracce di questa disciplina, e la testimonianza
del metodo con cui la insegnò. Ma nemmeno dobbiamo aspettarci qui l'ordine rigo-
roso e sistematico d'un vero trattato, ne la scientifica dimostrazione delle verità
propugnate; il M. intendeva con esse di additare .semplicemente il cammino della
verità e della giustizia , il percorrerlo poi era riservato allo spirito dell' eminente
suo discepolo.
Della prima parte di quel trattato riferentesi al governo individuale, parlammo
già trattando delle virtù della coscienza morale (1), ne altro dobbiamo qui aggiun-
gere. L'autore volle porre innanzi ai nostri occhi tutta la bellezza della virtù, mi-
rando a dare robusta tempera alla volontà e indirizzare l'intelletto alla verità, per
arrivare da una parte alla spontanea tendenza al bene, e dall'altra al comando di
noi e al dominio delle nostre passioni.
Ma dove il M. ci si rivela in tutta la nobiltà e generosità dei suoi sentimenti,
in tutta la soavità dei suoi affetti, e nel tempo stesso in tutta la potenza del suo
raziocinio e la forza del suo carattere, si è nella seconda parte di quell'opera, dove
tratta del Governo Politico.
Non era sua intenzione fare del giovane Principe un filosofo, un poeta, un guer-
riero, egli voleva farne un galantuomo, e non vi trascura davvero mezzo alcuno.
Egli che seppe con tanta assennatezza e perspicacia dettare, nella sua Filosofia
Morale, le regole e le norme della buona vita morale, dovette pur anche sapere,
con altrettanto senno ed acume, dettare le regole e le norme di chi è il fondamento
di quella.
Ed esordisce con forza e vigore degno dell'assunto. " Il Principe è una persona
destinata da Dio a governare de i popoli, e a procurare in tutto quello ch'ei può la
lor felicità „ . È un ufficio altissimo e sacro, ma di estrema difficoltà e che si assolve
solo cercando, promovendo, amministrando la pace, la giustizia, la prosperità comune.
Il suo fine è la pubblica felicità, i suoi mezzi l'onore e la gloria. " Ora, dice
(1) Vedi pag. 65-66. Di questa prima parte la fonte più diretta è senza dubbio la Filosofia Morale.
77 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 141
egli (1), non vi può già essere gloria più sicura e maggiore per un Principe, che
quella di ben governare, e di volere e di saper rendere felici i Popoli suoi, essendo
questo il primo impiego, e il più importante pregio della sua Corona „. La gloria
delle conquiste, della potenza, della magnificenza è fallace; la vera, la buona, la
più duratura gloria è quella che poggia sulle virtù e sulle azioni buone.
A questi nobili intenti conviene che l'educatore indirizzi il suo Principe, seguendo
tali grandi e luminose linee nel suo sublime ministerio. " Sarebbe da desiderare che
chiunque è scelto per l'Educazione d'un giovane Principe, sovra ogni altra cosa fosse
persuaso di questa Massima, per piantarla e radicarla, per quanto è mai possibile,
nel cuore di chi è destinato al Regno. Cioè, che la principale e più luminosa Virtù
d'un Rettor di Popoli ha da essere quella di amarli, e di beneficar ciascuno secondo
la sua condizione, per quanto si stende il suo potere. A questo fine Dio l'ha fatto
nascere, Dio gli ha destinato il Trono „ (2).
Un ottimo Principe, è d'uopo ricordarlo, è un gran Santo; e la sua educazione
è una delle cose più difficili e importanti del suo regno. Occorre pertanto che di
questa importanza e difficoltà si compenetrino coloro che gli stanno attorno, pen-
sando che quanto più è elevata la persona che si educa, tanto maggiore è la respon-
sabilità. Lo spirito d'imitazione, potente nelle buone azioni, è potentissimo nel male,
e l'esperienza e la storia stanno a dimostrarci con quanta rapidità si propaghi dal
trono la corruzione... (3).
L'occhio del Principe pertanto non deve vedere che buone massime; il suo
orecchio non deve ricevere che saggi ammaestramenti : il suo cuore non deve sentire
che nobili aspirazioni. " Se (4) nella Camera de' giovanetti Principi in cartelli appesi
alle pareti fossero espressi i primari obblighi e doveri di chi ha da governar Popoli,
e questi con giudizio scelti ed inculcati in forma d'assiomi di tanto in tanto nelle
lor menti, sarebbe ben questa una tappezzeria, che non .ispirerebbe magnificenza, ma
che potrebbe influire a ornare il Principe stesso di pregi sostanziali. Filippo Re di
Macedonia stipendiava un uomo, che ogni di, prima di dare udienza, gli dicesse:
Filippo, ricordati che sei mortale. Sopratutto scrivere a lettere d'oro: che non è stato
inventato il Principato, per far bene al solo Principe, ma principalmente per far del
bene alla Repubblica, cioè per procurare la Felicità de' Popoli sottoposti al Prin-
cipato „.
Ma occorre pure mettere davanti al Principe il rovescio della medaglia. Colui
che antepone il proprio all'altrui bene, che cerca solo la sua soddisfazione, non è un
principe, è un tiranno. La più giusta definizione del principe è pur sempre quella di
Aristotele: " Il Principe è quegli che antepone il bene de' sudditi al proprio „. Non
è vero che i sudditi siano creati esclusivamente pei loro Principi, e debbano servire
alla loro grandezza, al loro divertimento, e colle sostanze e colla vita. " Non va così.
Il ben pubblico è, et ha da essere il fine proprio, e l'oggetto primario de' Regnanti.
Hanno i sudditi da ubbidire e servire al Principe : ma il Principe dee fissarsi in capo
questa vera massima, cioè, ch'egli molto più ha da servire al bene de' sudditi suoi,
(1) Delia Pubblica Felicità, cap. II, pag. 15.
(2) Idem, pag. 18.
(3) Idem, cap. XIV, pag. 165-66.
(4) Idem, cap. II, pag. 18.
142 STEFANO GRANDE
7s
perchè confidati a lui a questo fine dalla Divina Provvidenza. Tua non est Respu-
blica, sed tu Reipublicae, diceva Seneca „.
Molto più poi deve ricordarsi il Principe, che se egli comanda al popolo, anche
le leggi devono comandare a lui; che se egli è l'uomo più eminente della società,
non cessa però di essere un membro, un individuo di essa, e se come tale gode di
diritti propri e può aspirare a quei beni che per nulla s'oppongono al retto governo,
deve pure sottostare a dei doveri e alla loro osservanza.
Davvero che non pare sentire qui il modesto proposto della Pomposa, ma il so-
ciologo — e non del secolo XVIII — che parla in nome dei diritti d'un popolo, il
ministro che parla in nome di qualche cosa di superiore ai troni e scettri umani, in
nome della sacra verità. Se questo poi non lo tocca, pensi il Principe che nessun
ordinamento di governo, ne efficacia di leggi potrà salvare dalla ruina il trono che
poggia su altri principi. La storia e l'esperienza, si può ben dire, danno continua-
mente ragione al Muratori !
Il primo mezzo pertanto di evitare tanta catastrofe, è il procurarsi l'affetto dei
sudditi, che si acquista con un mezzo sicuro: " Si vis amari, ama „. Il Principe non
deve essere solo il signore dei suoi popoli, ma anche il padre, egli non deve con-
tentarsi di regnare sulle loro persone, deve anche regnare sui loro cuori ; deve trat-
tarli come vorrebbe essere trattato egli da un superiore, e ricordarsi sopratutto che
dalla rettitudine delle sue azioni, dalla bontà dei suoi costumi, dipende principal-
mente la lor felicità.
Fin qui pertanto il M. dà precetti generali ; in seguito, particolarizzando, tratta
delle singole virtù che deve possedere il saggio Principe, e deve svolgere in lui il
buon educatore.
In primo luogo il Principe è tenuto ad amministrare la retta giustizia, mante-
nendo la pace colla giustizia criminale, e la giusta concordia colla civile. Ma anche
contro chi giudica si deve esercitare la giustizia " e quel paese è ben misero, ove
non è giustizia contro chi amministra od eseguisce la giustizia „. Non è qui il solo
luogo dove il M. si eleva, apertamente o velatamente, contro i giudici o i loro su-
periori; egli è conscio che gravi abusi manomettono la giustizia e se ne richiama
vivamente e potentemente a tutti (1).
I tempi moderni hanno fatto sparire molti degli inconvenienti lamentati dal M.,
ma non sappiamo se l'opera sia veramente compiuta. Qualcuno qualificò già la giu-
stizia per un eufemismo.
Col principio della giustizia si connette " l'obbligo preciso che ha il Principe di
dare udienza al popolo, di ascoltarlo con amorevolezza, e pazienza, e di spedir pron-
tamente i lor memoriali, ordinando ciò che porta il dovere; facendo pagare chi è
debitore; rimediando agli aggravi de' particolari, e compartendo le grazie, che si
convengono a cadauno „. Ma egli procede oltre ancora, e pensa all'insano spirito di
privilegio che informa i suoi tempi, e si chiede per qual ragione si gravino di poco
tributo, e persino se ne esentino certi ordini della società, che sarebbe più logico fos-
sero i primi ad essere colpiti, e rivolto al suo allievo, limpidamente e candidamente
(1) Vedi pag. 56 della nostra trattazione, e la coraggiosa lettera del M. del 1713 al duca Rinaldo I.
Campori, IV, pag. 1562-65.
79 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI 143
gli fa notare che " è dovere del Principe di fare che tutti "paghino a proporzione „.
È un suggerimento che dice qualche cosa pel secolo XVIII, e pel M., ma ne vedremo
altri di ben maggiore gravità... Ma egli particolarizza ancora, e dai tributi, dai privilegi,
dagli aggravi sorge contro la violazione delle leggi, contro i castighi, le pene che col-
piscono solo gli umili, ed osserva che è tempo ormai che non si dica più " essere le
leggi come le tele de i ragni, che prendono le mosche, e sono rotte dai mosconi „
Ma procediamo: il Principe è tenuto all'onore dei suoi sudditi, non solo, ma
egli deve provvedere e riparare ad esso, se richiesto, facendo ciò " con tal destrezza
che il rimedio maggiormente non discuopra le piaghe altrui „.
Sopratutto poi il Principe è tenuto alla vita dei suoi sudditi, e al M. sanguina
il cuore veder sollevate liti terribili, disastrose, sterminatrici, per il puntiglio del
Principe, o per la sua cieca ambizione; e vero interprete della sapienza civile dei
tempi più recenti, grida alla coscienza del suo Principe che la guerra è il flagello
dei popoli, che i tanto vantati conquistatori " può essere che presso Dio sieno i più
miseri ed abbominevoli degli uomini „.
Il M. è pur conscio dei più sacri diritti dell'uomo, ed intuisce, e sente pur anco,
il gran principio della libertà, e ricorda al suo Principe che egli non può, non deve
opporsi alla libertà dei suoi sudditi nei contratti, matrimoni, testamenti, vendite,
compere, ecc. Vero che egli pone qualche piccola restrizione a questo grande prin-
cipio della libertà, ma solo Minerva uscì armata di tutto punto dal cervello di Giove.
Dove il M. si rivela davvero più efficace e potente, si è nel rispetto delle so-
stanze dei sudditi, le quali non si devono usurpare ne con prepotenze private che
metton capo alla violenza, né colle pubbliche che metton capo ai tributi. In due soli
casi questi sono giusti: quando occorrono pel convenevole mantenimento del Prin-
cipe, o per la difesa dello Stato. E con semplice, felicissima espressione osserva che
" ha il Principe da mettere per cosa certa, che egli non è dispotico padrone, ma
solo amministratore delle rendite dello Stato „.
Oh, sì! Il Principe è padrone di mettere altri tributi, ne metta pure, ma allora
egli non è più un principe, non è nemmeno più un tiranno, è un assassino. Sentite :
" E che differenza c'è nella sostanza tra uno che va alla strada e colla violenza oc-
cupa i danari de' passeggieri, e un Principe, che violentemente occupa que' dei suoi
sudditi, i quali non gli possono resistere? Non c'è altra differenza, se non nel modo,
e se non che l'assassino si condanna alla morte, ma il Principe non si può ne pro-
cessare, né condannare „.
Chi crederebbe che tali parole siano state pronunziate e scritte nel sec. XVIII, in
Italia, nella corte di un Principe, e dirette a lui, e da un temperatissimo precettore,
da L. A. Muratori? Eppure è così! La virtù, non se ne può dubitare, è una sola presso
tutte le anime grandi e generose, e non conosce distinzioni di tempo, di luogo, d'età.
Ma giacche ci viene a proposito, qui ricordiamo che più oltre ancora arriva il
nobile ardire dell'assennato maestro, fino a scrivere al regnante Duca Rinaldo I, che
pareva dimostrasse maggior propensione verso il suo secondogenito, che " sarebbe
delitto il tacergli „ che egli opera male, che egli non deve portar più affetto a questo
che a quel figlio, che non deve, che non può far così (1). E quando, morto Rinaldo 1,
(1) Lett. al Duca di Modena, 11 maggio 1711, Arai. Murai. Doc, p. 145; e Campori, IV, p. 1341-42.
]44 STEFANO GBANDE 80
doveva -accedere al trono l'allievo del M., egli non si perita anche in tale, forse
non troppo opportuna, occasione di scrivergli tosto per dargli consigli, per invitarlo
a rappacificarsi colle sorelle, a non negar loro le carezze e i buoni trattamenti (1).
Questo è l'ardire della virtù, questo il linguaggio dell'anima retta, il cuore del
padre affettuoso ; né si potrebbero altrimenti spiegare quelle raccomandazioni.
Ma, procedendo, il M. non vuole solo che il Principe non faccia, o non permetta
si faccia del male ai sudditi, egli vuole anche che faccia loro del bene. E qui egli
suggerisce utili consigli e sagge massime, degne veramente di questo alto fine, e ne-
cessarie, indispensabili al buon andamento dello Stato.
Ma in questa rassegna politica ed economica, per noi troppo minuta e partico-
lare, non possiamo più seguirlo da vicino, senza perdere di vista il nostro tema. Egli
parla di commercio, di industria, agricoltura, irrigazione, viabilità, arti meccaniche,
scienze, lettere, governi, ecc., di ogni cosa insomma riferentesi ad economia politica,
ovunque dimostrando un invidiabile buon senso e criterio pratico. Perfino di usura
egli parla, e naturalmente il suo discorso cade sugli Ebrei, a cui vorrebbe si levasse
il banco feneraticio, rinforzando di danaro i banchi dei Cristiani, e cioè mediante
una benintesa concorrenza. A chi pensi che siamo nel secolo XVIII, quando vitali e
forti perdurano i secolari pregiudizi, le arbitrarie leggi, le odiose guerre contro gli
Ebrei, troverà che ancora qui il M. dà un bellissimo tratto di oculata e progre-
dita giustizia. Non chiede una legge draconiana, la quale altri poteva benissimo in-
vocare; egli sente, egli sa che tutti gli uomini sono uguali davanti alla natura, e
quindi devon esser tali anche davanti alla legge, e che non si può, e non si deve
curare una piaga con una piaga anche maggiore. E questo davvero un tratto che pre-
corre i tempi, e fa onore allo scrittore e sopratutto al filosofo e sacerdote cattolico.
Accennato ai mezzi opportuni per rendere fiorente uno Stato, il M. trova occa-
sione di ritornare nel campo prediletto della Morale, ed osserva che i mezzi e pre-
cetti da lui suggeriti, perchè riescano veramente efficaci e sicuri, devono essere ispi-
rati alla Divina Carità, che è l'anima del buon Principe. E qui all'uomo politico, al
filosofo economista sottentra il ministro di Dio, tutto cuore, tutto affetto per gli
infelici che soffrono senza colpa, e pieno di evangelica carità, rivolgendosi al suo
Principe gli ricorda che principalmente di una classe della società egli deve essere
padre, dei poveri, per i quali, nel fervore della sua grand' anima, il M. invoca la
più grande clemenza, mitezza e pietà.
Finalmente l'opera si chiude col più grande augurio che si possa fare ad un
Principe: che egli abbia ad avere ottima volontà, informata al timor di Dio, e retto
giudizio, non sottomesso ai traviamenti delle passioni; e finalmente col l'icordo che
un Principe tale è la più gran fortuna dei suoi sudditi " e che quando Dio vuol
castigare i popoli, permette che tocchi loro un Principe di genio cattivo „ (2).
Cosi ci paiono ritratte le principali idee del M. sull'educazione morale del Prin-
(1) Cfr. Lettera XI a Monsign. Giuliano Sabbatini, Modena. 20 t'ebbr. 1737, Archiv. Murai.,
pag. 380-81. Sotto queste carezze, veramente, si nascondeva lo scopo politico, e con esse infatti il
Duca Francesco ottenne di farsi cedere dalle sorelle nubili i loro posse
(2) Anche Plinio il Giovane ha un tratto press'a poco simile nel suo famoso Panegirico di
Traiano, e considera il Principe come un dono di Dio: * quod enim est praestabiliua et pulchriua
Dei munus erga mortales, quam eastus et sanctus et Deo simillimus Princeps? „
81 IL PENSIERO PEDAGOGICO DI L. A. MURATORI
145
cipe; non formano un tutto organico, ne sono rigorosamente dimostrate, l'abbiamo
già detto; ma per compenso esse ci paiono piene di alto significato civile e morale.
Quando poi si confronti da una parte il concetto che si aveva allora di principe,
di libertà, di legalità, e dall'altra le idee propugnate dal M., la sua posizione di sti-
pendiato dalla Corte, il suo sicuro linguaggio, non si può a meno di riconoscere in
lui il senno e la dottrina del filosofo, la franchezza del galantuomo, il cuore del padre
di famiglia.
Niccolò Tommaseo scrivendo a Girolamo Galassini che aveva pubblicato l'ope-
retta in questione, osservava che " in essa il gran Muratori con esempi sì splendidi
dimostrò come il senso del vero, del bene e del bello, la meditazione e l'affetto, la
fede e la ragione si possano e debbano non solamente conciliare, ma esercitandoli
insieme aiutarsi mutuamente „ (1).
Gr. Galassini poi chiude l'elaborata e dotta Introduzione all'operetta muratoriana,
osservando che tutti indistintamente hanno qui occasione di apprezzare la vastità
della mente, il carattere schietto, la cristiana pietà di quell'aureo cuore che fu de-
coro del sacerdozio, modello del cittadino, gloria della patria, luminare della scienza...
E se a noi fosse lecito di esprimere pure la nostra modesta opinione, osserveremmo
che mai operetta di minori pretese racchiuse precetti di più profonda saggezza, i
quali, dettati in un tempo che è separato dal nostro da una delle più strepitose e
feconde rivoluzioni sovvertitrici del passato, conservano tuttora la loro efficacia ed
attualità. In essi moderatori della cosa pubblica, filosofi, economisti, pedagogisti, let-
terati possono trovar gran messe da raccogliere, perchè essi sono il frutto di una
scienza universale, enciclopedica, eterna: l'amor del prossimo.
CONCLUSIONE.
Ed ora deponiamo la penna, non colla persuasione di aver detto del grande M.
quanto si merita in questo campo, ma di aver compiuto un dovere, di aver cer-
cato, per quanto stava in noi, di richiamar l'attenzione degli studiosi su un nuovo
aspetto che può presentare la sua gigantesca figura. Noi Italiani si è usi di studiare
i fatti altrui e trascurare i nostri, quand'anche ci si rinfacci, e in tutti i toni, le più
inspiegabili assurdità, anche a non trovare nella nostra Storia altro pedagogista che
Vittorino da Feltre, o altro filosofo, dopo il Campanella, che il Vico.
È così ; e noi lasciamo gemere nell'oscurità dei tempi persone insigni e maestri
pur anco di questi poco grati discepoli, e la storia della filosofia italiana aspetta
ancora il suo cantore.
Frattanto noi stessi, nella nostra modesta cerchia, abbiamo cercato di portar il
nostro granellino all'immenso edificio che resta a fare, scrivendo una pagina di più
nella grande storia pedagogica. Ma di una cosa sommamente ci duole, che non
sia toccato al Grande Modenese uno spirito forte e severamente erudito che avesse
potuto dire degnamente e definitivamente di lui, intorno al quale molto e molto noi
stessi lasciammo scientemente ; molto e molto ci sfuggì ; molto e molto resta ancora
a fare.
(1) Archivio Muratoriano, Introduzione ai Rudi nuoti i di Filosofia Morale, pag. 188.
Serie II. Tom. LUI.
STUDIO
INTORNO ALLA
VITA DI CARLO BOTTA
TRACCIATO CON LA GUIDA
DI LETTERE IN GRAN PARTE INEDITE (*).
MEMORIA
DELLA
Dott. EMILIA REGIS
Approvata nell'adunanza del 19 Aprile 1903.
I.
La vita di Carlo Botta attraverso il suo epistolario.
" Molti amici ini stanno continuamente coi pungoli al fianco affinchè io scriva
le memorie della mia vita, come a dire le mie confessioni — scriveva a Giorgio Greene
Carlo Botta pochi anni prima della sua morte. — Ma io vi ripugno grandemente,
né mi ci posso risolvere. In primo luogo mi pare un ramo d' impertinenza quel dir
di se stesso al pubblico: Signori miei, io sono il tal dei tali; ho fatto i tali e tali
miracoli. Poi non mi credo da tanto che la platea prenda piacere in vedere che viso
io mi abbia; che io non sono né un Rousseau, ne un Alfieri, ne un S. Agostino. Fi-
nalmente sono stanco di mente e di corpo e la campana dei sessantanove anni mi
suona alle spalle. È meglio tacere che far ridere le brigate di me „ (1).
Carlo Botta non volle scrivere la sua vita, non volle, mentre già lo spirito era
stanco, e le forze gli venivan meno, far scorrere sotto le dita tremanti il rosario
(*) Questo mio studio trae la sua origine dal copioso carteggio inedito dello storico canavesano
raccolto (in parte vivente ancora lo storico) da Stanislao Marchisio (1773-1859), il noto commedio-
grafo, amico pure del Pellico e del Foscolo. Tale carteggio, donato dal Marchisio stesso fin dal 1857
al compianto Giovanni Flechia, l'insigne glottologo, trovasi ora in possesso del Dr. Giuseppe
Fleehia, alla cui gentilezza io dehbo i documenti che diedero origine al mio scritto. Oltreché
dell'epistolario inedito si è pur tenuto conto delle altre raccolte di lettere Bottiane e principal-
mente di quella del Viani (Lettere di Cario Botta, Torino, 1841), eh' io indicai semplicemente colla
lettera V., e del Pavesio (Lettere inedite di Carlo Botta, Faenza, 1875), da me indicata colla let-
tera P. Di altre lettere pure edite in libri o giornali diedi via via le indicazioni nel lavoro.
(1) Lettera a Giorgio Greene, 15 ottobre 1834, edita da Milanesi Carlo, in " Archivio storico
italiano ,, nuova serie, tomo I, parte li, pag. 71.
148 EMILIA REGIS 2
dei ricordi. — E fece bene. Se egli si fosse indotto a scrivere la sua vita, pur senza
volerlo avrebbe detto, come altri dissero, un' infinità di bugie ; avrebbe dato di se
un'idea erronea ed imperfetta, ed a null'altro avrebbe giovato se non cbe a rendere
incerte quelle notizie che noi avremmo potuto raccogliere altrimenti. Carlo Botta non
ha scritto le suo " memorie „, non ci ha dato le sue " confessioni ,,, ma ha abban-
donato a noi il materiale per la ricostruzione della sua vita. Le lettere sue nume-
rosissime, che dal 1794, anno da cui data l'esilio dello storico, si susseguono senza
interruzione sino al 1837, anno della sua morte, ci offrono da sole ciò che il Botta
in niun modo avrebbe potuto dare. Sfogliando quelle lettere pare a noi di sfogliare
le pagine della sua vita. Giorni tristi, giorni lieti, ore vissute, pensieri che anima-
rono quelle ore, passano e ripassano dinanzi a noi, che in poco spazio di tempo
assistiamo alle scene svoltesi in più di quarant'anni della vita del Botta ed allo sno-
darsi lento degli avvenimenti.
Noi lo vediamo vagare per la Svizzera povero, esule, per un sogno troppo ardito
già accarezzato sui banchi della scuola, mentre accompagnavano i suoi studi le grida
di ribellione della Francia, gl'inni delle sue vittorie, le orgie sfrenate dei suoi trionfi;
lo vediamo medico dell'armata francese vegliare intelligente e pronto sui soldati la-
sciati nell'abbandono in misere case sperdute sulle Alpi e gettare a Napoleone, vin-
citore, in nome di chi giaceva vinto solo dal male, il grido del fratello commosso e
sdegnato: " Sauvez encore une fois l'arme'e d'Italie „; lo vediamo caldo di nuovo
entusiasmo prender parte al governo provvisorio stabilitosi in Piemonte per il trionfo
delle anni francesi; lo rivediamo esule per il trionfo delle armi austro-russe. Pas-
sano dinanzi a noi i giorni febbrili vissuti in Parigi, ov'egli pensò ciò che poteva
parer follia allora: la libertà d'Italia, ed ebbe la visione — veduta forse nel sogno
che dà la stanchezza tormentosa ed il ritorno incessante e quasi disperato di uno
stesso pensiero — la visione dell'Italia una (1). Passano i giorni laboriosi del suo
regno in Piemonte, che dovevano trar seco strascichi dolorosi di vendette, di calunnie,
e passano infine gli anni molti della sua dimora in Parigi, prima come membro del
Corpo legislativo, più tardi, caduto il colosso napoleonico, senza meta fissa, senza la
certezza del domani, se si tolgono i pochi anni del suo rettorato nell'Accademia di
Rouen, col pensiero continuamente assorto nelle sue opere storiche, finché, all'appros-
simarsi della morte, la vita dà a lui i suoi pochi giorni tranquilli.
E dal suo primo' esilio, agli ultimi giorni tranquilli, quante mutazioni nell'anima
del Botta! L'anima sua fu come la maggior parte delle anime umane e la vita lasciò
nel passare i suoi segni. Noi riannodando le fila e ritessendo la vita dello storico,
troviamo qua e là dei vuoti che non è possibile colmare ; ci troviamo con delle fila
spezzate tra le dita; fila che non possiamo riunir più o solo a fatica. Noi assistiamo
al dibattersi dell'uomo fra le morse del bisogno, nelle reti che gli stringono intorno
gli avvenimenti, e lo vediamo ad ora ad ora cedere senz'altro, cadere combattendo,
liberarsi con uno sforzo supremo. E mentre seguiamo attenti l'uomo nelle lotte di
tutti i giorni e gli perdoniamo se si spaventa della miseria ed invoca aiuti, ora che
ha la casa popolata di bimbi, mentre da solo esclamava: " On est si tranquille quand
(1) Vedasi Un mino della ni,, Botta, Giuseppe Roberti in "Nuova Antologia,, fasci-
colo 16 febbraio 1901.
3 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 149
on n'a pas d'argent „ (1), e lo ammiriamo perchè la lotta non lo renda stanco ed-
il lavoro mai rimunerato non lo disgusti, noi vediamo attrarre sopra ogni altra cosa
la nostra attenzione due aspetti del Botta, due suoi atteggiamenti : l'atteggiamento
politico e l'atteggiamento letterario; oscuro, incerto, quasi disgustoso il primo, netto,
deciso, bellissimo il secondo.
Xoi vediamo il Botta slanciarsi nel turbine della vita politica col berretto frigio
in capo e lo vediamo ritrarsi a poco a poco con tanto di parrucca e di codino. E
nulla certo vi sarebbe in ciò di disgustoso quando fosse dato a noi di rintracciare i
dubbi che gli hanno allacciata l'anima, scalzando lenti e tenaci i propositi; le lotte
sórte nella sua mente fra idea e idea nel tentativo di soverchiarsi a vicenda; quando
ci fosse dato di assistere allo sforzo per cui l'uomo esce nuovo da quei dubbi, da
quelle lotte, e si afferma risoluto in nome dei principi che 1' hanno attratto. Allora
senza stupore alcuno noi seguiremmo la sua lenta trasformazione, come senza stu-
pore noi lo vediamo applaudire prima a Napoleone comparso come liberatore d'Italia,
più tardi ammonirlo severo quando lo vede traditore di popoli a Campoformio ed ele-
varsi infine a suo giudice implacabile quando lo vede sterminatore di popoli in cento
battaglie, tiranno di popoli sul trono. Dal giorno in cui il Botta scrive parlando del
primo console: " Quand on le voit de loin on l'admire, mais quand on le voit de près
on l'admire et on l'aime „ (2), al giorno in cui scrive, parlando dell'imperatore:
" J'ai signé un des premiere la de'chéance de Bonaparte et je l'ai signe'e de grand
cceur... Cet homme là me suffoquait à force du mal qu'il faisait „ (3), vi è tutta
una lunga serie di offese fatte a lui come uomo non solo, ma come italiano; onde
se la sua ribellione ha potuto scoppiare ad un tratto, terribile, violenta, si è perchè
era preparata da tempo nella sua anima. Ma nel Botta lungi dall'avere una lenta e
completa trasformazione, noi abbiamo invece la sovrapposizione di due figure, e quanto
diverse fra di loro! La bella voce vigorosa e fidente che ammoniva: " dite al popolo
che Dio quando volle punire il popolo d'Israele minacciò di mandargli un re „ (4),
si muta via via nella voce malfida e lamentosa di un affaticato ricercatore d'impieghi
che dopo aver dichiarato di null'altro chiedere se non che di poter servire 1'" em-
pereur „, poco di poi afferma che unico suo desiderio è di servire il re di Sardegna,
suo " roi naturel „; la bella voce che imprecava commossa ai tiranni che colle
stragi funestarono nel 1797 il Piemonte, si muta nella voce umile del beneficato che
nel 1833 dice al re di Sardegna: " La fermezza con cui V. M. procede, s'Ella mi
permette di mescolare il mio debole testimonio a cosi alte deliberazioni, è degna di
Lei, della sua casa, delle nazioni soggette al suo scettro „ (5), e ciò mentre si ele-
vava terribile la voce di Mazzini: " La pagina di storia che si scrisse dalla Mo-
narchia sabauda nell'anno 1833, fu tale, che vorrebbe la penna di un Tacito e in-
tinta nel sangue ; ed è di quelle che gli uomini dovrebbero rileggere ogni qualvolta
(1) Lett. au citoyen Aymar. Grenoble, 28 venderà. (16 ott.), 1799. — P.
(2) Lett. a Antonietta Viervil-Botta, in Vita /li C. B., Dionisotti, pag. 104.
(3) Lett. a Luigi Rigoletti, 23 aprile 1814, mellita.
(4) Lett. al fratello Isidoro, 25 die. 1797. — P.
(5) Lett. a Carlo Alberto. 24 die. 1833, edita in * Curiosità e ricerche di Storia Subalpina „ da
Antonio Manno, voi. V, pag. 2, Torino, Bocca, 1883.
L50 EMILIA REGIS 4
sentono infiacchirsi nell'animo loro l'aborrimento della tirannide e le madri ripetere
ai figli perchè v'imparino quali possono essere le sorti di una terra non libera „.
È vero, sotto la parrucca s'indovina bene spesso il berretto frigio; sotto l'ap-
parente monarchico vigila l'animo del repubblicano, che accoglie con un semplice e
commovente: " te voilà, mon enfant, te voilà „ (1) il figlio ribelle a Torino nei moti
del ventuno, e che non permette allo storico di cancellare il " tribunato del popolo „
dalla proposizione di una forma di Governo, di cui lo ha richiesto Carlo Alberto.
Sorvive nel Botta il Repubblicano, ma da ciò a voler fare di lui, come alcuno vor-
rebbe, un repubblicano tutto d'un pezzo, ci corre assai.
Ebbe anch'egli le sue debolezze ed il volerle nascondere o cercar di scusarle con
debolezze di altri più grandi di lui è triste cosa. La sua figura non ha bisogno di
essere senza macchie per imporsi a noi. Basta pensare a lui come letterato italiano,
allo spirito che animò le sue opere, alle fatiche che gli costarono, al silenzio che
ora lo circonda, perchè ci sorprenda un senso di profonda ammirazione per l'uomo
e per lo storico. Basta pensarlo chiuso nel suo povero studio, lavoratore instanca-
bile, mentre dà colpi gagliardi e sicuri alla sua opera ed accanto a lui vigila ine-
sorabile e fredda la miseria che tenta di sorprendere in un momento di stanchezza
e di disperazione l'uomo per sussurrargli una insidiosa proposta. E l'uomo nella febbre
del lavoro, nella fiducia dell'opera sua, appena appena fa colla mano un lieve cenno
di diniego, e riprende la penna più alacre, più pronto.
La sola speranza che dà a lui la fortezza meravigliosa nel lavoro e che lo rende
impaziente, scontento di se e della vita quando gli avvenimenti lo costringono all'ino-
perosità, è la speranza di fare il bene d'Italia; il solo spirito che animale sue opere
è di dire tutta intera e sempre la verità senza guardare in viso ad alcuno, senza
lasciarsi guidare da preconcetti o lasciarsi vincere dalle passioni: " La virtù divi-
nizzo, il vizio fulmino, e guai a chi tocca! „ (2), esclama egli. Né lo spaventano le
critiche acerbe che si scatenano intorno a lui, le ingiurie atroci, le accuse violente;
pare anzi che nel seguire attento le opere sue nel loro cammino, nel tendere l'orecchio
alle voci che le accolgono, sì buone che cattive, egli provi una segreta compiacenza:
" Sapeva — nota egli — che in un secolo di passioni avrei dispiaciuto a molti. La
sola verità, la sola giustizia, dico le eterne, ebbi in mira, né mi curo del biasimo
che mi danno e coloro a cui fui severo e coloro a cui fui affettuoso; odio non cercai,
gratitudine non cercai, perciocché sapeva che siccome mi era impossibile di evitare
quello, cosi mi era ancora impossibile di evitar questo „ (3). Le lodi non lo insuper-
biscono, i biasimi non lo rendono triste; ciò che solo ha il potere di avvilire quella
resistente tempra di canavesano, è la ricerca, ad opera finita, di qualcuno che voglia
renderla nota al pubblico. Ha provato anche il Botta la tortura atroce dell'operaio
forte che va di porta in porta offrendo il suo lavoro, ed ha come l'operaio i momenti
di sconforto che gli strappano le dolorose parole: " Non scriverò più „, ma ha pure
le dignitose e violente proteste contro chi vorrebbe prenderlo colla fame.
(1) Vita privata dì Curio Botta di Scipione Botta, pag. -19.
(2) Lett. al conte Tommaso Littardi, 9 giugno 1822. Genova, tip. del B. [statuto dei Sordo-
Muti, 1893.
(3) Lett. ad Ant. Papadopoli, 15 die. 1828, edite da. Gozzi Gaspare in Lettere d'illustri italiani
ad Antonio Papadopoli, Venezia, Antonelli, 1-
5 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 151
È la visione di questa triste via da percorrere ed il timore che l'Italia possa
rimanere priva di una sua opera, ciò che l'induce ad accettare con animo riconoscente
la proposta di scrivere la sua storia ultima col frutto di una sottoscrizione privata.
non già la sola fame, come mostra di credere il Leopardi (1). Ed è ancora la certezza
di recare colle sue opere utile grandissimo alla patria, quella che gli fa accettare ed
anche invocare aiuti. Ne egli s'ingannava quando credeva le sue storie necessarie.
L'Italia aveva allora bisogno di qualcuno che le riedificasse d'un colpo il pas-
sato sconfortante, che le ponesse dinanzi il presente penoso, che l'aiutasse, accele-
rando il suo lavorìo, a pensare al domani. L'Italia trovò nel Botta l'operaio, non
trovò l'artista; fu l'opera dello storico come uno di quei ponti che con celerità me-
ravigliosa costruisce un esercito per passare dall'una all'altra sponda, ma che distrugge
poi alle sue spalle, portando con se solo quel tanto che basti per porre i sostegni
ad un'altra via di passaggio. Fu opera frettolosa perchè così voleva l'età, ma ha
pure in se un'impronta speciale; nessuno fu maestro al Botta, benché egli prenda
per suoi duci e Tacito e Machiavelli e Guicciardini; e neppure ebbe scolari. Egli fu
il primo storico che riunì in un tutto con amore e con intendimento le varie regioni
d'Italia, che scrisse in una pagina comune le loro glorie, le loro lotte, le loro colpe.
L'anima vera e purissima dell'italiano che nel 1799 scriveva da Parigi, mentre nel
Piemonte i cittadini si dilaniavano tra odi e rancori : " Volesse il cielo che il nome
italiano fosse l'unico nome nostro „ (2), vibra nelle pagine della sua storia, in cui
egli si eleva a difensore di Venezia, ad ammiratore di Genova, a giudice di Napoli,
ov'egli insomma si sofferma su tutte le città d'Italia, e par che sfiorandole colla sua
penna infonda in esse un alito nuovo. Fu detto " storico aristocratico „ e forse nes-
suno pili di lui senti battere nel suo animo l'anima di tutto un popolo, ma la sentì
fiera, dignitosa e non seppe piegarsi ad essere storico ne menzognero, né adulatore.
Certo il dolore stesso che gli faceva pronunciare le parole: " il est si désagréable
que d'ètre appelé à tout bout de champ par le noni d'étranger „ (3) dovettero det-
targli le pagine più belle delle sue opere, e dare ad esse quel colorito speciale, per
cui ogni nuova sua storia veniva considerata dai contemporanei come un vero av-
venimento, colorito che purtroppo sfugge in gran parte a noi tardi nepoti, onde l'unico
pensiero che può indurci a leggere frettolosi le sue opere ed a frugare nelle sue let-
tere, si è di poter meglio conoscere una figura buona, forte, che ha sofferto ed ha
lavorato per la patria nostra e che ora è dimenticata.
Ed è la speranza appunto che altri con valente penna imprenda a tratteggiare
ed a far rivivere la figura di Carlo Botta, è tale speranza, che ci ha indotti a trac-
ciare questo breve studio intorno all'uomo che, ricca l'anima di nobili aspirazioni,
popolata la mente di vaste idee, visse povero e solo; intorno allo storico che nelle
pagine dei suoi libri, nell' infuriare degli avvenimenti, nell'agitarsi di popoli e di
principi, non dimenticò l'umile ed il forte, ma primo, — e sia questa la gloria sua
maggiore — dagli oscuri sotterranei della Cittadella di Torino seppe trarre a luce
gloriosa la bella figura dell'eroe popolare Pietro Micca.
(1) Lett. a Colletta, 26 aprile 1829, Epistolario di G. Leopardi, raccolto da Prospero Viani,
5" ristampa. Firenze, 1892, voi. II, pagg. 366-67.
(2) Lett. all'Amministrazione Generale del Piemonte, 16 luglio 1799. — P.
(3) Lett. al cittadino Gueyrard. — I'., pag. 62.
i;,2 EMILIA REC.IS b
IL
Giudizi di Carlo Botta su alcuni scrittori suoi contemporanei.
1 _ Attorno alla figura di Carlo Botta rievocata da noi sfogliando il suo
epistolario, altre figure balzano fuori rievocate dalla penna del Botta. Uomini poli-
tici, scienziati, prosatori, poeti, quanto l'Italia ebbe allora di nobile, di laborioso in
quel fermento di idee e di azioni, quanto la Francia offri di grandioso in quel rior-
dinamento di spiriti e di forme s'affollano intorno allo storico via via cb'egli assegna
loro un posto ed esprime un giudizio. Molte figure ch'erano giganti pel Botta s'ac-
covacciano d'un colpo dinanzi a noi, lasciando scoperto qualche lato imperfetto nella
figura stessa dello storico, altre invece si ergono improvvisamente, quasi soffocando
il loro giudice: alcune s'avanzano dall'ombra, altre la cercano a poco a poco. Ma
non importa. La schiera rimane ugualmente numerosa ed imponente a testimonio
dell'attività straordinaria dell'uomo, che in mezzo alle cure gravi della politica, in
mezzo agli studi incessanti, in mezzo alle tempeste della vita trova il modo ancora
di seguire il moto incalzante degli ingegni con affettuosa sollecitudine in Italia, con
curiosità sospettosa in Francia, in Germania, in Inghilterra. E rimane ugualmente
numerosa ed imponente per dimostrare l'affetto degli italiani per l'esule, il patriotta,
lo storico malgrado le calunnie dei malvagi all'uomo politico, gl'improperi degli av-
versari allo scrittore.
Molti della schiera egli conobbe o nel breve suo soggiorno in varie città d'Italia,
o nella lunga sua dimora in Parigi, come — per non ricordare che italiani, — il
Fantoni, il Cesarotti, il Denina, l'Imbonati, il Manzoni, Franco Salfi, Camillo Ugoni,
Ennio Quirino Visconti, poi il figliuol suo Sigismondo Visconti, Pellegrino Rossi : molti
ancora egli conobbe per le opere loro, per un giudizio a lui chiesto, per una critica
a lui indirizzata, come l'abate Cesari, Silvio Pellico, il Niccolini, Leopoldo Cicognara,
il Foscolo, il Monti, il Leopardi, il Rosini, il Colletta, il Romani, Giuseppe Manno
ed altri ed altri. Alcuni lo sfiorarono appena passando nella vita, come Brofferio,
Terenzio Mamiani, Tommaseo; altri si strinsero a lui, amici buoni, e non lo abban-
donarono che colla morte, come il Marchisio, il Maggi, Giuseppe Grassi, Davide
Bertolotti, Giovanni Fabbroni.
I nomi si succedono ai nomi illuminando le vecchie carte come le figure hanno
popolato un tempo la vita dello storico, e da quei nomi, dall'atteggiamento che il
Botta assume via via, si delinea e poi si precisa il suo pensiero come letterato, colle
sue passioni, coi suoi rancori, colle sue debolezze, mentre al disopra del letterato
sta pur sempre, saldo, il patriotta, come in fondo ad ogni sua invettiva o ad ogni suo
elogio vibra la nota profonda: Italia. Egli segue il movimento letterario che si opera
nella sua patria; consiglia, rimbrotta, applaude, protesta, giudice chiassoso ed esi-
gente come uno spettatore che occupi gli ultimi posti : ma giudice che ama chi con-
danna, e si commuove egli stesso sovente della sua sentenza.
Per questo molti uomini sommi pur condannati da lui senza remissione, circon-
darono non di compassionevole indulgenza, ma di affetto riverente l'uomo, che come
7 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CABLO BOTTA 153
un tempo accoglieva nella sua casa a Parigi i soldati italiani combattenti nell'esercito
francese che a lui si rivolgevano, e con affanno ammucchiava le armi di quelli che
non tornavano più, cosi ammucchiava con religiosa cura nel suo povero studio le opere
dei letterati italiani gettando un grido di dolore agli amici quando alcuno d'essi
cadeva morto per via anche se avesse militato sotto bandiera avversaria.
2. — Dicemmo il Botta giudice chiassoso ed esigente : ma non basta. Dobbiamo
pur aggiungere che egli si mostrò assai spesso impari al suo ufficio. Molti de' suoi
giudizi mentre già si trovano in aperta contraddizione coi giudizi d'una gran parte
dei suoi contemporanei, suscitano ora in noi vero stupore. €ome mai potè il Botta
formularli? Fu insufficienza artistica? fu debolezza d'animo? L'insufficienza artistica
non è sempre buona scusa e non serve affatto quando si tratti di giudizi dati dallo
storico nel campo appunto della storia, ov'egli fu se non sommo, certo uno dei mi-
gliori ; mentre d'altra parte faremmo un grave oltraggio allo storico volendo le sue
parole dettate da basse compiacenze d'amico o da livori di rabbie personali. Egli
non conobbe ne le une, né gli altri. Se lodò, se derise, se biasimò e quindi se cadde
in errore, fu sempre per seguire i suoi principi letterari, ai quali rimase fedele,
passato il primo impeto giovanile, sino alla morte; potremo per questo incolpar essi,
non disprezzar l'uomo. Vi fu nei suoi principi letterari, come già nei politici, in un
dato momento della vita, una mutazione profonda. Il Botta storico non si mantiene
uguale al Botta medico dell'esercito delle Alpi; v'è anzi un distacco cosi palese, un'av-
versione così sentita che lo scrittore ossequiente ai Borboni, finisce per non più rico-
noscere il giovane repubblicano : l'avversario dei romantici più non ricorda l'appas-
sionato lettore di J. J. Rousseau.
Eppure ancor egli, il Botta, un tempo, nel desiderio intenso di udire qualche voce
vera e forte s'era immerso nella lettura dei filosofi e pensatori francesi, anch' egli
si era lasciato trasportare, nella foga giovanile, dalla corrente del fiume che ingros-
sava, lottando contro gli ostacoli, nella felicità inaudita di far valere le proprie forze,
di abbandonar alla riva l'abito logoro e servile, mentre alla foce, l'uomo nuovo,
Napoleone, enorme, additava i troni fracidi che la forza del fiume doveva abbattere.
Ma quando s'avvide che la corrente nell'ingrossare s'era fatta torbida, che abbattuti
i troni s'erano riedificate le reggie, che si procedeva innanzi senza contare i caduti,
Botta imprecando ritornò indietro.
È sempre triste il ritorno; quello dello storico oltre all'essere triste ha qual-
cosa in se che ci disgusta ed ha qualcosa in sé che ci commuove. Nulla di più disgu-
stoso del Botta che nella paura di aver errato, nel timore di mali peggiori, chiama
martiri chi un tempo chiamò tiranni; nulla di più commovente dell'uomo che nella
consapevolezza dell'errore, nell'amore della sua patria, nell'avversione per tutto ciò
che è straniero, conta, dolorando, le parole che da altre nazioni entrano baldanzose
in Italia corrompendo l'unica cosa di cui potrebbe vantarsi ancora la sua patria e
che unica potrebbe non cedere ai vincitori irrisori: la lingua. Ma anche questa spe-
ranza di serbare intatta la lingua, la sola speranza che ormai rimanga a lui, stu-
dioso dei mali che nel corso di più secoli travagliarono l'Italia e pei quali egli non
vede ne addita rimedio, si dilegua innanzi alle nuove tendenze letterarie.
Serie II. Tom. LUI. 20
154 EMILIA EEGIS 8
Intorno a lui il moto dei romantici, appena sensibile dapprima, si disciplina via
via, trova i suoi capi, sventola le sue bandiere: il moto si muta in ribellione. Au-
dace ed insolente come tutto ciò che è giovane e che si crede nuovo, la schiera dei
romantici si ribella contro ogni regola, spezza ogni freno; impaziente ed avida, accoglie
ogni voce anche lontana purché gridi il grido stesso che ha nell'anima: attende
chiunque le faccia cenno. Per aver più potente l'impeto, più lunga la lena a slan-
ciarsi in avanti, ritorna indietro, e dal Medioevo trae con se una infinita sorgente
di passione e di sentimenti; per spingersi verso la luce e verso il sole, si tuffa nelle
pesanti nebbie nordiche e nelle miti notti lunari.
E Botta si agita, impreca, schernisce, leva più potente di tutti il grido " guerra
ai romantici! „ grido che pei tiranni significa: " guerra ai ribelli che oggi col pen-
siero preparano i ribelli del domani coll'armi „, e pel Botta vuol dire: " guerra a
coloro che ci rendono servi delle idee altrui, che ci corrompono la lingua con frasi
d'oltr'alpi, che ci corrompono le anime con vaneggiamenti d'altri popoli „.
Quand'egli ripeteva le stizzose parole del Monti: " la romanticeria non è una
epidemia, ma una epizoozia „ non era guidato solo, come quel grande facitore di
versi, da risentimenti artistici, non era neppure in lui l'espressione di un dolore
personale del caposcuola che vede diradarsi le file dei suoi discepoli e rafforzarsi
quelle di nuovi maestri; non era egli insomma, come il Monti, l'astro che prima di
impallidire per luce che vien meno, illividiva di rabbia; ma fremeva, più d'ogni altra
cosa in lui, la vergogna per la patria sua che come piegava il capo al giogo stra-
niero, così asserviva l'anima e la mente alle idee ed alle forme d'altri popoli.
La sferzata terribile che colpi in pieno viso il giovane Brofferio quando alla
fiera dichiarazione fatta a Casimir Perier: " sono italiano „ si sentì rispondere: " non
comprendo „ colpiva pure lo storico, in mezzo alla tempestosa ma prepotente vita
parigina, ad ogni istante nell'anima e vi lasciava solchi.
Fu sotto l'azione di quel suo affetto per l'Italia non compreso da molti, deriso
dai più, ingigantito nella solitudine, reso permaloso nel disprezzo, che l'ammiratore
entusiasta di J. J. Rousseau, il prigioniero che dà ali al pensiero seguendo l'agile fan-
tasia dello Sterne, il giovane melanconico che ama le scene orrende della natura più
che le gioconde, l'amante della solitudine, il lettore appassionato di romanzi, l'am-
miratore di Cesarotti, colui insomma che porta nella sua studiosa gioventù tutti i
sintomi dell'" epidemia romantica „ potè subire una trasformazione completa. Solo
per quest'affetto, reso geloso dalle lotte combattute, colui che appena ventenne aveva
ideato un lavoro seguendo le tracce della " Nouvelle Éloise „ (1), l'esule che dalla
solitudine della Svizzera scriveva agli amici : che se l'esser uomo da romanzi è per
lo più cagione di fiera malinconia e di crudeli angoscie, d'altro canto il comune pen-
sare priva di vivissimi piaceri, onde i primi sono sfortunati perchè non possono go-
dere, gli altri perchè non sanno (2): l'uomo che suggeriva alla fidanzata di rispon-
dere alle domande delle sue amiche: " si elles te demandent qui je suis, dis leur que
j'ai lu J. J. Rousseau, que j'aime les romans, que j'en fais quelquefois „ (3), solo per
(1) Cfr. Dionisotti, Carlo Botta a Corfu, 1875, pag. 165, nota.
(2) Lettera a Luigi, 28 febbraio 1796, Knutwiel. — P., pag. 189.
(3) Lettera di Botta ad Antonietta Viervil, 3 prairial, anno 8° (23 maggio 1800), edita da Dio-
nisotti in Vita di Carlo Botta, pag. 513 e seg.
9 STUDI') INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 155
quest'affetto poteva più tardi imprecare ai romanzi, maledirne gli autori. " Nous
irons aux Charmettes et rendrons au bon Rousseau un hommage quii agréera bien
plus que les pre'sents des Rois ; cet hommage c'est l'amour du bien, la sincérité de
nos promesses et le feu qui brulé dans les cceurs tendres et sensibles „ (1), scriveva egli
un tempo alla gentile sposa: ma più tardi il silenzio con cui lo storico avvolse lo
scrittore massimo iniziatore del romanticismo, dimostra quant'egli fosse pentito di
quell'omaggio. E ben si vede ancora come egli avesse dimenticato queste altre parole
pure da lui scritte: " jerendsgràce a mon Rousseau pour m'avoir donne' cette pro-
fonde sensibilità qui me fera goùter mon bonheur: il m'a rendo, il est vrai, un peu
enclin à la mélancolie „ (2), quando più tardi derideva argutamente quella melan-
conia che serpeggiava tra i giovani d'allora e finemente descriveva i melanconici
per vezzo. Repubblicano, nell'impazienza giovanile di rompere ogni indugio e di guar-
dare in viso la lotta, egli incitava i giovani ad udirlo, forzandoli con dolce violenza
ad interrompere per qualche istante la lettura di J. J. Rousseau (3), ben mostrando di
comprendere che a quella scuola ed a quel maestro si tempravano le menti già fatte
accorte e che dalla meditazione di quelle idee che il filosofo aveva fissate, traendole
dallo smisurato pensiero dei popoli, si veniva all'azione. Solo più tardi, nella rovina
di ogni cosa, sorse in lui potente il pensiero che gli italiani, ciechi seguaci di duci
stranieri in campi di battaglia e traditi, si avviassero a nuovi tradimenti, seguendo
duci stranieri nel campo delle idee. Da quel pensiero, nell'esilio e nella sventura
nacque la formula letteraria del Botta, quella formula che egli non si stancò mai di
ripetere e che molti si stancarono di udire. Essa è semplice ed è grande : " perchè
gli italiani siano uniti e liberi devono mostrarsi uniti nella lingua, liberi nei pen-
sieri : quindi una lingua unica e pura attingendola dagli scrittori del trecento e del
cinquecento, inspirandosi al dialetto toscano, riconoscendone la sua superiorità sugli
altri dialetti, cessando da qualsiasi sciocca e disgustosa disputa contro i vocabolarii,
nella convinzione ch'essi non sono fatti per insegnare l'arte dello scrivere, bensì per
presentare gli elementi materiali a chi scrive: accogliendo quelle parole forestiere
che sono riconosciute indispensabili dai dotti : quindi ancora uno sforzo costante nel
creare nuove forme staccandosi da tutto ciò che è straniero, avendo a sdegno ogni
guida la cui anima non sia schiettamente italiana „ (4).
Profondamente convinto che la sua formula potesse sciogliere ogni più arduo
problema e guidare a forti e sane conquiste, anch'egli, come tutti coloro che non
vivono che per un'idea, osò soggiungere: " Fuori di qui non v'è salvezza! „.
(1) Lett. oit.
(2) Lett. cit.
(3) Lett. di Botta al cittadino Cavalli : " Se leggete Machiavelli o Rousseau fermatevi un poco
ed ascoltate „, 4 nevoso, anno 7°, 24 die. 1798. — P., pag. 123.
(4) Botta espresse in moltissime lettere le sue opinioni linguistiche e letterarie; notevoli Ira le
altre, alcune sue lettere aperte pubblicate a più riprese nell" Ape Subalpina „ e nel " Giornale
delle Scienze ed Arti di Torino „ negli anni 1811 e 1812. Degna pure di nota, oltre la lettera
scritta da Parigi il 6 aprile 1813 a Giov. Rosini (pubblicata in Lettere di rari illustri italiani del
secolo XV11I e XIX), la lettera a Lodovico di Breme (19 settembre 1816) già stampata nell" Anto-
logia , di Firenze, 1826, tomo XXII, pag. 73 e segg., e ristampata nel " Paese „, giornale di Ver-
celli (anno II. N. 33). Aggiungane ancora alcune lettere al Grassi ed al Marchisio, inedite queste.
156 EMILIA REGIS 11)
" Fuori di qui non v'è salvezza! „ Ed intanto intorno a lui i romantici arditi
e pensosi ricercano le origini della loro storia, scrutano negli abissi profondi del-
l'anima, tentano di interpretare tutti i bisogni, tutti gli affetti dell'uomo. Provocatori
dei classici ed alla lor volta provocati, le due schiere scendono fieramente in campo,
ma nello scendere in campo, gli avversari nell'impeto sciolgono e mescolano le file;
contro ogni volere avviene la fusione ed ecco : nel classico Foscolo v'ha del roman-
tico: nel romantico Manzoni v'ha del classico.
" Io li chiamo traditori della patria — scrive il Botta a Ferdinando Malvica
nella sua grande ira contro i romantici — e veramente sono. Ma ciò procede parte
da superbia, parte da giudizio corrotto; superbia in servitù di Caledonia e d'Er-
cinia, giudizio corrotto con impertinenza e sfacciataggine. Spero che questa infame
contaminazione sfumerà e che ancora vedremo nel debito onore Virgilio, il Tasso e
l'Alfieri „ (1).
La lettera per imprudenza è fatta nota al pubblico e, voce onesta d'un uomo,
provoca la protesta meravigliosa di un'anima che ha in se l'anima di mille onesti.
" Traditori d'Italia ! — scrive fremendo Mazzini. — No : traditori d'Italia sono i ven-
duti d'ingegno e d'anima alla forza che impone o all'opulenza che paga ; son quei
che colle pazze superbie municipali e colle eterne contese di lingua perpetuano tra
fratelli le divisioni; son quei che immiseriscono l'Italia colle ineziette grammaticali
e le questioncelle erudite o ne avvezzano il sonno sugli allori degli antenati; son quei
che nel secolo XIX s'ostinano a voler costringere le fervide menti italiane nei ceppi
della loro infanzia e combattono, quanto sanno, contro lo slancio universale dell'u-
mano intelletto, dannandolo ad una perpetua immobilità ed a pascersi di fole stra-
niere alla nazione, alle costumanze, ai bisogni ; son quei che scrivono non per amore
del vero, ma per invidia o ambizione, o furor di parte ; finalmente son quei che pri-
vano la patria del buon cittadino per darle in cambio il cattivo scrittore o inutile „ (2).
Conobbe il Botta queste fiere parole? Saremmo indotti a crederlo da quanto
scrive egli in una lettera al Gi-assi, nella quale parlando di alcune sue espressioni
come di " ragazzacci, di uomini servili della patria „ che erano andate per certi gior-
nali d'Italia, specialmente nel " Giornale Arcadico di Roma „ e nell'" Indicatore Ge-
novese „ egli si duole che una lettera di confidenza, com'era quella sua, sia stata
resa nota al pubblico. " Sebbene tutti i romantici a parer mio s'ingannino e seminino
una peste fatale alla letteratura italiana, non tutti però sono ragazzacci, non tutti
vili, non tutti servili uomini, non tutti traditori della patria — notava egli : — Deploro
l'errore funesto, ma le persone rispettabili rispetto e non ne mancano fra i roman-
ci) Nel marzo del 1828 il " Giornale Arcadico „ di Roma pubblicava una recensione anonima
della 2" edizione del libro Della elocuzione di Paolo Costa, ov'era detto l'Italia non aver libro mi-
gliore di questo " sia per la bontà di stile, sia per gravità di giudizio e per squisitezza di gusto
veramente italiano „. L'articolista dopo aver raccomandato di attentamente leggerlo a coloro che
" oggi partecipano con non so quali mostri venutici di là dell'Alpe e del mare „ aggiungeva parergli
acconcio' di riferire " un brano di lettera scritta al Sig. barone D. Ferdinando di Malvica da uno
dei più solenni letterati dell'età nostra, da Carlo Botta „ e riportava la lettera ove leggonsi appunto
le parole da noi citate.
(2) Queste parole di G. Mazzini comparvero nell" Indicatore Genovese „ del 9 agosto 1828;
trovansi ora nelle Opere, voi. II, pagg. 57-61.
11 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CABLO BOTTA 157
tici „ (1)- Ma d'altra parte come spiegarci in un uomo che prendeva fuoco per un
nonnulla, questa sua calma dinanzi a parole che non costituivano solo una vigorosa
protesta, ma ancora una feroce offesa?
Che se il Mazzini non volle alludere al Botta parlando dei " venduti d'ingegno
e d'anima alla forza che impone o all'opulenza che paga „ non v'ha dubbio invece
ch'egli abbia voluto colpire lo storico, che preferì vivere, per meglio comporre le sue
opere, in terra straniera, con quelle ultime parole, terribili battute di un periodo
concitato, che dovevano fissarsi bene nella mente di chi le udiva anche perchè quel
" finalmente „ messo lì rigido come un segnale non permetteva ad alcuno di passar
oltre senza soffermarsi.
Parrebbe quindi più conforme a verità il credere che il Botta pur avendo sa-
puto di certe sue espressioni corse per alcuni giornali d'Italia, non abbia poi cono-
sciute tutte le amare parole che esse provocarono ; tranne che non si vogliano con-
siderare come dettate in lui dalla fiera protesta del Mazzini, le violente parole con
cui lo storico chiude la bella sua lettera scritta al Grassi il 19 agosto 1828, cioè pochi
giorni dopo la pubblicazione dell'articolo comparso nell'" Indicatore Genovese „.
In essa il Botta dopo d'aver strenuamente difeso il Vocabolario della Crusca dal-
l'accusa mossagli da molti e dal Grassi stesso, di essere di gran lunga inferiore ai
vocabolari sì inglese che spagnuolo, pone termine a quel suo nobilissimo sfogo scri-
vendo : " La rabbia che io ho contro i corruttori della lingua fra i quali tu non sei,
fa che non mi possa tenere. Io vorrei avere cento vulcani in questa mano per poterli
fulminare. Ma tu li perseguita col tuo acre ingegno, colle tue dotte fatiche e sarà
la spada tua come quella dell'arcangelo contro i sudici demoni. Fa loro vedere che
la lingua è il più prezioso patrimonio che abbia una nazione e che quando ella lo
sciupa, perde quanto di grande, di generoso e di libero c'è in lei. I nemici dell'I-
talia sono gli schernitori della lingua, tale quale l'han fatta i nostri padri, i nemici
dell'Italia sono i vili imitatori delle cosette francesi: i " nemici dell'Italia „ sono i
vili imitatori delle cosacce di Goethe e di Walter Scott „. Queste ultime battute
che parrebbero stonare coi periodi che precedono, verrebbero quindi a ricevere la
ragione della loro brusca apparizione e ad assumere un nuovo colorito, da quelle
altre battute del Mazzini: " Traditori d'Italia, no „.
Strano però che si avvinghiassero l'un l'altro e s'assalissero colle feroci parole
di " traditore „ e di " nemico ,, d'Italia, Mazzini e Botta, l'uno italiano grande come
nessuno fu dopo di lui, l'altro non grande forse, ma italiano innanzi a tutti e certo
assai prima di Mazzini.
(1) Lettera a G. Grassi, 13 ott. 1828. — Notiamo a questo proposito che Carlo Salsotto nella
sua erudita ed accuratissima Nota Per l'Epistolario di Carlo Botta, pubblicata negli " Atti della
B. Accad. delle Scienze di Torino „, Voi. XXXVI, adunanza del 23 giugno 1901, accennando a pag. 7
alle parole dello storico esprimenti il suo rammarico per la pubblicità data a certe sue espressioni,
mostra credere che si alluda alla lettera del 1816 a L. di Breme, già da noi citata, comparsa nel-
1'" Antologia „ di Firenze nell'aprile del 1826. La lettera è invece, come abbiami visto, quella del
Botta al Malvica del 4 gennaio 1828, lettera per la quale l'anonimo articolista del " Giornale Arcadico „
aveva avuto parole di biasimo prima ancora che dal Mazzini, da un collaboratore dell"1 Antologia , di
Firenze (1828, N. 90). Notisi pure che noi non possiamo pensare col Salsotto che la lettera all'ab. L. di
Breme sia stata edita contro la volontà del Botta, perchè lo storico accennando alla pubblicazione
di essa in una lettera al Grassi del 6 agosto 1829, ne parla senz'ombra di rammarico.
] 58 EMILIA BEI 12
3. — Carlo Botta, nemico in teoria dei romantici, nemico degli ammiratori
di Napoleone, si lascia guidare nei giudizi da questi suoi due sentimenti; ma cri-
tico onesto, com'è uomo onesto, ritorna spesso sulle sue asserzioni un po' severe, un
pò! avventate e temendo l'ingiustizia sotto qualsiasi forma si presenti, di soverchia
asprezza o di soverchia indulgenza, è indotto sovente a stendere la mano ad un
avversario od a brontolare e volgere le spalle ad un amico. Gli esempi abbondano.
Ama ed onora Cesarotti nella sua gioventù (1): è lieto che l'autore del " Patriot-
tismo illuminato „ accarezzi il modesto autore " Della Proposizione di un Governo
libero ai Lombardi „ (2), ma più tardi quando s'avvede del danno immenso che il
traduttore di Ossian ha arrecato alla lingua italiana, lo chiama " scapestrato „ metten-
dolo in un fascio con alcuni scrittori di Lombardia che qualifica per " sucidi ., (3),
mentre al contrario non ha parole che bastino per lodare l'abate Cesari e mostrargli
la sua gratitudine per il dono dell' " Inno delle Grazie „ nel quale il Botta dichiara
di non poter desiderare " ne maggior eleganza né più sana critica, né più profonda
dottrina .. (4). Ama di vivissimo affetto l'amico suo Giuseppe Grassi, ma lo assale col-
l'apostrofe: " Tu quoque fili mi „ (5), quando lo vede posporre il Vocabolario della
Crusca ai vocabolarii inglese e spagnuolo, scendendo ancor egli, bella e nobile figura
di letterato, campione nella lotta contro i puristi.
Alle critiche aggressive mosse dal Rosini alla sua " Storia d'America „, e pub-
blicate nel " Giornale Enciclopedico „ di Firenze, risponde per le rime in vari gior-
nali (6), e si duole cogli amici di questo " Sofista magro e scortese „ (7), parendo a
lui che quel suo modo di scrivere non fosse ne da critico, né da letterato, né da
gentiluomo, perchè il fatto solo dell'essere andato a concorso con lui lo doveva trat-
tenere dal por bocca nelle sue opere in bene od in male (8) ; ma più tardi lo stima
e gli è amico pur serbando le sue opinioni in fatto di lingua e di letteratura.
li Vedasi lett. a .Melchior Cesarotti, 25 piovoso, anno 6° (13 febbraio 1798), Corfù, e lettera al
prof. Bertolli, 17 gerrnile, anno 6° (6 aprile 1798). — P.
(2) Lett. a Modesto Paroletti. 25 messidoro, anno 5° (13 luglio 1797). — P.
3) Lett. a Giovanni Rosini, 6 aprile 1813, Parigi. — V.
(4) Lett. ad Antonio Cesari, 26 settembre 1813, inserita dal Manuzzi nella prefazione dell'opera
esabi, Antidoto pei giovani studiosi contro le novità in opera di lingua italiana, Forlì, presso
Matteo Casali. 1829, pagg. xxvi-37.
(5) Lett. a G. Grassi, Parigi, 19 agosto 1828, edita da Domenico Berti in " Atti della R. Aec.
della Crusca „, Adunanza pubblica del 16 settembre 1878. Firenze, Cellini, 1879, pagg. 95-113.
(6) La prima risposta del Botta comparve nell' * Analitico Subalpino „, N. 18, giornale che stani-
pavasi allora in Torino. Neil' " Ape Subalpina „ altro giornale che pubblicavasi in Torino, compar-
vero poi quattro lettere dello storico, dirette all'Estensore di detto giornale, successivamente e cioè:
il 4 febbraio, il 12 aprile, il 25 maggio, il 25 luglio del 1811. In ultimo nel " Giornale delle Scienze
ed Arti di Torino „ comparvero due altre lettere del Botta in data 18 febbraio e 15 aprile 1812.
Queste lettere, sette in tutto, che sfuggirono alle ricerche del Dr. Salsotto, unite alla lettera del
Botta stesso al Malvica, di cui parlammo nella nota a pag. 11, porterebbero a diciannove il numero
delle lettere edite vivente lo storico. Giova inoltre notare ch'esse sono importantissime per la piena
conoscenza del pensiero bottiano e per ben stabilire il posto occupato dallo scrittore nella intricata
ed allora dibattutissima questione della lingua.
(7) Lett. a G. B. Somis, 16 novembre 1810, Parigi; lett. ined.
(8) Lett. a Davide Bertolotti, 7 gennaio 1811, Parigi; lett. ined. — Botta nel 1810 aveva eon-
i eolla sua Storia d'America al premio Napoleonico della Crusca; ma non ne aveva riportata
che la menzione onorevole, mentre il premio di diecimila lire era stato diviso tra il Rosini per il
poemetto in quattro canti in ottava rima intitolato Le nozze di Giove e di Latona, il Niccolini per
la tragedia Polissena e il Micali per la storia: L'Italia avanti il dominio dei Romani.
13 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA ' 159
Si duole che il Niccolini nella sua tragedia intitolata " Foscarini , abbia svi-
sata la storia per accrescere l'interesse e dar maggior movenza agli affetti, seguendo
le contaminate massime di letterati servili (1); ma più tardi quando lo vede caldo
d'amore di libertà e animato da sentimenti schiettamente italiani, perdona le pecche e
con gioia confessa: " Tutto mi piace in lui: ma più di tutto il vedere che egli è uomo
che pensa da se e la sua mente è sempre feconda di pensieri nobili e profondi „ (2).
Insomma il Botta è critico onesto; ma è pur nella critica ciò che fu nella vita:
un buon uomo. Si direbbe che anch'egli abbia stabilito per chi deve giudicare, tre
classificazioni distinte ed immutabili, come certi maestri che invariabilmente, tutti
gli anni, dividono la scolaresca in tre parti: comprendendo nell'una i buoni, nell'altra
i birichini, nell'ultima i ragazzacci. Anche il Botta ha i buoni, i birichini, i ragaz-
zacci. Son buoni tutti coloro che si stringono a lui, e battono, in fatto di lingua e di
letteratura, la stessa via; birichini, coloro che fanno tratto tratto delle piccole scappate
nel campo avversario, ma pei quali rimane pur sempre la speranza di una buona
riuscita; ragazzacci coloro che son fuori di ogni legge e pei quali ogni speranza è
vana: sono insomma i discoli. Un esempio: Monti è buono, Foscolo è un birichino,
Manzoni un ragazzaccio.
In una parola, il Botta è critico né profondo, uè acuto, e se talvolta può in-
gannarci la felice prontezza con cui afferra, anche ad una semplice lettura, il carat-
tere generale di un autore o l' intendimento immediato di un' opera, quasi sempre
poi ci lascia delusi per quel che riguarda la ricerca dell'intimo pensiero di quel-
l'autore o dell'ultima significazione di quell'opera. Per questo ammira cose appena
mediocri: gli sfuggono i capolavori. Si direbbe che la mente sua non scopra chele
linee principali di un'opera, nella guisa che un occhio non educato non scorge che
i contorni delle cose. Succede al Botta critico ciò che succede al Botta storico. Lo
storico vede perfettamente il contorno di tutto un popolo, afferra il carattere di tutta
una età; ma quali siano le sfumature che danno risalto a quel contorno e quali siano
gli elementi che costituiscono quel carattere, egli ignora. Sa che sia la verità, la
giustizia, la grandezza ed a queste s'inspira per comporre le sue opere ed a queste
risale per condannare un'azione. Ma come non sa scindere l'edificio ch'egli consi-
dera, nelle sue parti, cos'i non lo sa ricostrurre; egli abbatte prima e poi accozza.
Lo stesso avviene per l'arte. Il Botta sente l'armonia di un verso ben fatto; conosce
la dolcezza di un buon periodo italiano: sa pure che lo scrittore nel comporre la
sua opera deve inspirarsi alle grandi idee di verità e di giustizia, onde quando egli
trova un'idea buona ed una lingua schietta, quando questa lingua gli accarezza l'o-
recchio ed il pensiero buono gli commuove l'anima, egli si abbandona alla gioia ed
applaude : ma torce il viso dinanzi ai periodi densi di pensiero ed oscuri, in cui l'in-
tenzione dell'autore par che si nasconda e sforzi il lettore a ricercarla da sé. Al
Botta i concetti " stillati dai lambicchi „ dan noia e fan perdere la pazienza.
Si comprende quindi facilmente, dopo quanto s'è detto, perdi' egli assegni al
(1) Lett. ad Antonio Papadopoli, 28 maggio 1828, pubblicata da Gozzi Gaspare in Lettere d'il-
lustri >ì<jìi<tii! itti Antonio Papadopoli, Venezia, Antonelli, 1886.
(2) Lettera a Giorgio Greene, 29 gennaio 1836, edita da Milanesi Carlo in " Archivio storico
italiano „, nuova serie, tomo I, parte II, pag. 79.
160 EMILIA REGI- 14
Romani il primo posto fra i lirici dei suoi tempi paragonandolo al Filicaia ed al
Guidi (1), mentre chiama " scapestrato „ il Foscolo pur riconoscendolo ingegno gran-
dissimo (2) ; perchè ancora, parlando di quest'ultimo come autore di quei " Saggi sul
Petrarca „, nei quali si rivela tutta la squisita attitudine del poeta alla critica, Botta
noti che assai più gli sarebbero piaciuti, qualora l'autore non fosse andato così spesso
di palo in frasca, dando ad ogni passo nel lambiccato.
• Certo — scriveva — vi sono delle cose belle e dei pensieri generosi. Ma Foscolo
non sa stare nel medesimo proposito ed è piuttosto vivo, che ordinato, e capace
piuttosto di scintille che di fuoco posato e perenne, la quale ultima qualità costi-
tuisce, secondo me, il vero e buon scrittore „ (3).
Queste poche pennellate non disdicono alla figura irrequieta del Foscolo, irre-
quieta nella vita e nell'arte. Ma lo strano si è che mettendolo altra volta a confronto col
Monti e preferendo di gran lunga quest'ultimo al primo, il Botta accompagni la scelta
colla spiegazione: " perchè a me non piacciono le nebbie caledoniche ed erciniche „ (4).
Quando si pensi che il lamento che lo storico muove per le nebbie caledoniche
ed erciniche, corrisponde al lamento del Monti per " la scuola boreale „, riusciremo
a spiegarci senza molta fatica come il Foscolo, che disdegnosamente nel " Gazzettino
del Bel Mondo „ moveva guerra a quei giovani che " cavalcando i destrieri nuvolosi
di Odino „ rompevano lance in onore della poesia romantica, potesse essere chiamato
dal Lampredi " corifeo del romanticismo „.
Per Ugo Foscolo furono rivolte al Botta parole tristemente severe dal Mazzini
in un discorso pubblicato nell' " Indicatore Livornese „. In esso, lamentando la morte
di Ugo Foscolo, che Mazzini amò scrittore e uomo, ed accennando alla sua Orazione
pei Comizi Lionesi, egli notava :
" Ora mi si conceda l'espressione libera di un dolore: chi perdonerà allo storico
italiano, all'uomo che si annunziava vendicatore degli oltraggi profusi all'Italia, l'aver
taciuto d'Ugo e della sua Orazione? In un popolo incivilito, presso cui il genio è
onnipotente, il vero, predicato da un' anima generosa, è un evento, — quell'Orazione
era retaggio inalienabile dell'Italia: era l'unica protesta degna d'una nazione infelice
e doveva essere per lo storico uno di quei fatti che consolano lo sguardo stanco di
errare per un labirinto di astuzie e di codardie. E il Botta ne tacque : ne tacque
mentre parlò diffusamente di un Bazzoni, mentre registrò la resistenza dell'eunuco
Marchesi. Non so le cagioni, ma l'Italia gli terrà conto di questo silenzio , (5).
Ma se' Mazzini avesse potuto conoscere ciò che lo storico scriveva in una sua
lettera al Marchisio, avrebbe certamente risparmiate quelle parole dolorose per chi
le pronunciava, dolorose per chi le udiva. Carlo Botta, parlando del Foscolo, scriveva :
" I giornali di Francia e di Inghilterra fanno un gran fracasso di un' orazione detta
da lui nei comizi di Lione contro Bonaparte. Ma non è vero niente, ed io lo so di
sicuro, e questa è un' impostura da mettere nel mazzo con tante altre. Foscolo non
(1) Lett. a Giorgio Greene, 5 agosto 1836, Parigi, pag. 88 in op. cit.
(2) Lett. a St. Marchisio, 16 novembre 1827; lett. ined.
(3) Lett. a St. Marchisio. 10 febbraio 1825; lett. ined.
i4 Lett. a St. Marchisio, 2 gennaio 1828; lett. ined.
(5) Queste parole pubblicate prima nel N. 32 dell' " Indicatore ^Livornese , trovanti pure
nel voi. Il degli Scritti editi ed mediti (Roma, 1877), pag. 128.
15 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 161
disse parola in quell'occasione e nessuno parlò se non per adulare. Vero è però che
Foscolo non ha mai amato Bonaparte „ (1). L'affermazione così recisa dello storico era
pur giusta. Foscolo, come ognun sa, scrisse bensì una orazione pei comizi di Lione
nel 1802 : ma non la recitò (2). Unica colpa del Botta si fu l'ignorare che il poeta
l'avesse composta.
4. — "A Ugo Foscolo sono stato presentato da Luigi — scriveva Silvio Pellico
al Marchisio. — Ho fatto il dì dopo la conoscenza di Vincenzo Monti; questi ha una
cera veramente oraziana. Nell'aspetto d'entrambi si legge la enorme disparità degli
animi loro „ (3). Queste parole balzano alla mente quando vediamo pure il Botta in
una sua lettera porre di fronte i nomi e le figure dei due poeti (4). Ma mentre il
Pellico preferisce per ogni aspetto il Foscolo e lo ama così da considerare come sacra
la sua persona, così da esser pronto a votale per la vita di quel cupo ed ostinato
difensore di libertà i suoi poveri giorni destinati allo Spielberg (5), lo storico prefe-
risce, specialmente per rispetto all'arte, il cavalìer Monti. Per lui ha parole di pro-
fonda ammirazione e di sommessione quasi cieca ; ringrazia Davide Bertolotti che glie
ne ha offerta l'amicizia e gode degli errori che il grande poeta ha trovato nella sua
storia d'America: a Io ho in tanta stima il giudizio del Signor Monti — scrive quel
poveretto — che non solo dubito di aver errato, ma ne son risoluto del tutto e della
sua sentenza non solo non mi tengo offeso ma l'ho per vera e per grata e ne lo
ringrazio e cosi offritegli da parte mia „ (6). Più tardi, quando le sventure, più ancora
che le opere, han reso noto lo storico agli italiani e per lui gli uomini sommi si
commuovono e Monti con una generosità che lo onora offre al Botta ogni suo profitto
nella " Biblioteca italiana » (7) e propone di render omaggio all'autore del " Camillo „
con un articolo sul poema (8), proposta mai mandata ad effetto, forse perchè dive-
nuta troppo ardua anche per uno in cui l'adulazione fosse abito — Botta gioioso
scrive: " Ma che ventura è mai questa mia che io mi abbia un Monti per amico?
oh! benedette le mie sventure che mi han fatto scoprire l'amore d'un tanto uomo! „ (9).
(1) Lett. a St. Marchisio, 16 novembre 1827; lett. ined.
(2) Il Mazzini stesso in una nota al suo scritto già citato a pag. 123 osserva: * Se l'Orazione
sia stata pronunciata nella solennità dei comizi o solamente dettata, non ho potuto accertarlo.
Hobbhodse nel Saggio sulla Letteratura italiana, ed uno scrittore della " Rivista Straniera „ ne par-
lano come se egli l'avesse recitata. Ma le memorie dei tempi ne tacciono; e dalla dedicatoria del-
l'Orazione e da una nota appostavi in calce appare che egli la scrivesse, non la parlasse „. L'Ora-
zione del Foscolo vide la luce in Lugano nel 1829.
(3) Lett. a St. Marchisio,- 21 ottobre 1809, edita da N. Bianchi in " Curiosità e ricerche di Storia
Subalpina „, I, pag. 184.
(4) Lett. del Botta a St. Marchisio, 2 gennaio 1828; lett. ined.
(5) " Se io conoscessi quali dèi accettano il sacrifizio dei viventi — scriveva Pellico al Foscolo
il 10 aprile 1816 — voterei loro, te lo giuro, i miei giorni perchè conservassero i tuoi „ (edita da
N. Bianchi in op. cit.).
(6) Lett. a Davide Bertolotti, 13 gennaio 1813, in Lettere inedite di C. Botta pubbl. da Bian-
chini Domenico in " La Scuola Romana „, anno II, Roma.
(7) Le offerte del Monti si rilevano oltreché da alcune lettere del Botta e da una lettera di
Pietro Giordani a Gaetano Dodici, 24 settembre 1816 (Epistolario edito dal Gussalli, voi. Ili, p. 369),
da un'altra lett. di P. Giordani al cav. Maggi, tuttora inedita, del 16 febbr. 1816. V. Appendice, N. 1.
(8) Lett. a V. Monti, 17 aprile 1816, edita da Bianchini Domenico in op. cit.
(9) Lett. cit.
Sekie li. Tom. LUI. 21
162 EMILIA REGIS 16
Ed al poeta che si ricorda con affetto di lui, qualche anno dopo ancora, scrivendogli,
fa la preghiera: " Dio vi conservi lungamente per onore d'Italia e per contento di
tutti i buoni! „ (1) e ciò mentre il Pellico, parlando del Monti, scriveva al fratello
Luigi, gravemente: " Noi lo veneravamo come l'ombra d'un grande poeta „ (2). Del
resto è fuor di dubbio che anche il Botta, pur ammirando il poeta, provava, quasi
senza volerlo, una certa ripugnanza per l'uomo e l'innocente esclamazione che gli
sfugge di bocca quando sente dire da alcuno, alla notizia della morte del Monti,
ch'egli fu un grande poeta, ma che fu anche una banderuola: " Dio buono! adunque
non vi sono banderuole in Parigi? „, accompagnata dall'ammonizione " voi parlate di
poesia: che diavolo andate mescolando le banderuole? „ (3), dimostra chiaramente
come anch'egli facesse un taglio netto fra l'arte e l'anima di quell'uomo, che cono-
sceva ogni sublime ardimento nella poesia ed ogni debolezza nella vita. Tuttavia
l'ammirazione e la gratitudine che egli serbò profonda per il poeta, mentre gli strap-
pano il grido doloroso: " Il nostro Monti è morto! Adunque sono morti quasi contem-
poraneamente quei tre lumi della virtù italiana : dico Monti, Cesari e Pindemonte „ (4),
lo sforzano pure a muover lamento agli italiani per la debole memoria ch'essi serbano
di quel grande e lo inducono a dignitosa protesta contro coloro che avevano potuto
credere ch'egli fosse collaboratore in Parigi di un giornale che aveva scritto le pa-
role: "Monti cui il disprezzo solo salva dall'infamia,,. Egli notava: "Io non sono
uomo ne di rabbie, né di furori e credo neppure d'inciviltà ., (5), riducendo pur senza
volerlo ad una semplice questione d'inciviltà la condanna morale d'un uomo. Triste
cosa invero, se anche il Pellico parlando del Monti era indotto a fare all'amico suo
Marchisio la domanda terribile: " Spiegami come mai in sì misero ente vi sia stata
una scintilla di divinità „ (6).
5. — Sin qui il Botta, benché si mostri severo col Foscolo ed ammiri il Monti,
non eccede però nei suoi giudizi. Non tutti compresero la nervosa parola dell'autore
dei " Sepolcri „, mentre d'altra parte ben pochi riuscirono a ribellarsi a quel fascino,
a quella vera superiorità che il Monti esercitò sugli spiriti coi suoi versi smaglianti.
Botta non eccede quando tributa calde parole di ammirazione a Franco Salfi (7),
l'ardito cantore di Basville, ma miglior critico di quanto fosse poeta, ed a Camillo
Ugoni (8), l'elegante traduttore di " Cesare „, collaboratore del " Conciliatore „, tutti
(1) Lett. a Vincenzo Monti, 8 aprile 1819, edita da D. Bianchini in op. cit.
(2) Lett. di S. Pellico a Luigi Pellico, 1819, edita dal Riniebi in Della vita e delle opere di S. Pel-
lico, pag. 311 e segg.
(3) Lett. ad Antonio Papadopoli, 15 dicembre 1828, in op. cit.
(4) Lett. cit.
(5) Lett. a Giorgio Greene, 6 febbraio 1837, in op. cit.
(6) Lett. di Silvio Pellico a St. Marchisio, 3 gennaio 1820; ined.
(7) Lett. al conte Littardi, 6 novembre 1818. Botta scrive: " Voi sapete quanto amore io porti
al nostro Salfi, che veramente lo merita. Perciò ve lo raccomando con quella maggior istanza ch'io
posso e fate che, poiché tiraste me dal fondo, tiriate anche lui. Vi so dire che farà onore all'Italia
e la sua continuazione della storia letteraria del Ginguené sarà una bella cosa. E però porgendo
una mano a lui farete un'opera meritoria e terrete acceso in Francia un bel lume italiano ,. — Ined.
(8) " Molto volentieri vedrò il Conte Camillo Ugoni — scrive lo storico il 2 dicembre 1822 a
St. Marchisio — so ch'ente egli sia e mi fia caro l'onorarlo da vicino come già l'onoro da lon-
tano ,. — Lett. ined.
17 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 163
e due suoi buoni amici in Parigi, mentre tien dietro ai loro lavori letterari, plau-
dendo al Salfi che si occupa della " Storia Letteraria „ del Ginguené, all'Ugoni che
coopera a dar miglior rilievo alle figure di scienziati e letterati italiani, come il La-
grange, il Casti, il Visconti (1).
Né ci recan meraviglia le lodi ch'egli continuamente tributa a Giuseppe Grassi,
l'autore del " Dizionario militare „ e del libro sui " Sinonimi ,,, nò ci stupisce l'af-
fetto che legò per lunghissimi anni quei due buoni. Dal loro carteggio, dai consigli
chiesti dal Grassi, non per semplice omaggio allo storico, ma per profonda fede nella
sua dottrina, dai consigli dati dal Botta senza esitazione, ma ancora senz'alcun'ombra
di gravità cattedratica, si rivela la grande modestia dello scolaro già famoso e la
profonda dottrina in materia di lingua del maestro.
Talora i consigli non vertono che sull'uso buono o cattivo di qualche parola e
si risolvono in una condanna od in un' assoluzione data in nome di grandi maestri
della lingua ; tal' altra invece riguardano un' opera intiera od una parte di essa, come
quando il Botta suggerisce all'amico di aggiungere al suo vocabolario le voci riguar-
danti la marineria, indicandone con affettuosa sollecitudine il modo (2). Sovente le
critiche son fatte in tono scherzevole, sebbene non manchino quelle acerbe, come
acerba è appunto la critica mossa al " Parallelo „ dato dal Grassi del vocabolario
della Crusca con quello inglese del Johnson e con quello dell' " Accademia Spa-
gnuola „ (3). Ma da tutte le espressioni o tenere o rudi si rivela che il Botta ben
conosce il valore di quel nobile intelletto e ben comprende tutta l'influenza che può
esercitare sui giovani quella nobile figura, severa nella sua dolorosa cecità.
Non è poi neppure fuor di luogo che il Botta abbia parole di grandissima lode
per Pietro Giordani, pur dolendosi — e quanti con lui non mossero lo stesso ram-
marico! — ch'egli si sia fatto reo di lesa letteratura, deludendo il mondo, che
molte cose aspettava dal suo sublime ingegno (4) ; nò è soverchio ch'egli magnificili
gli alti pregi di Leopoldo Cicognara, la cui Storia della scultura ebbe a quei tempi
un' accoglienza trionfale. Ma come poteva egli scrivere all'amico suo, al Marchisio,
le parole : " II Piemonte che ebbe il sommo tragico deve pur dare i sommi comici
all'Italia: voi ed il Nota „?(5).
Come poteva, parlando dell' " Olgiati „, tragedia di Giovanni Battista Testa, to-
rinese, esprimersi in tal modo: " Mossa d'affetti, altezza di pensieri, sublimità di stile,
purezza di lingua, un dire breve e concettoso che più fa pensare di quanto dica,
fanno di questa tragedia una composizione meravigliosa „ ? (6). È pur vero che in
essa ritrova qualche lungheria, qualche sconnessione alla romantica con certi pia-
gnistei di donne in sulla catastrofe; ma poi afferma con profonda convinzione, ritor-
nando altra volta sullo stesso argomento, che se anche l'autore non avesse fatto
altro che i due versi che terminano la tragedia, versi belli e quasi divini, essi da
(1) V. Appendice, N. 2.
(2) Lett. a G. Grassi, 28 giugno 1817 ; lett. ined. V. Appendice, N. 3/
(3) Lett. a G. Grassi, 19 agosto 1828; lett. edita da Domenico Bekti in op. cit.
(4) Lett. ad A. Papadopoli, 21 gennaio 1831, in op. cit.
(5) Lett. a St. Marchisio, 19 febbraio 1828; ined.
(6) Lett. a St. Marchisio, 20 giugno 1827; ined.
164 EMILIA EEGIS 18
soli " lo avrebbero qualificato grande poeta „ (1). E dire che il tempo, galantuomo,
insieme alle lungherie, alla romantica ed ai piagnistei di donne in sulla catastrofe,
s'è portato via persino quei due versi !
6. — Non è da credersi che nell'epiteto di " maestrevoli ., (2), col quale il
Botta designa le commedie del Marchisio e nelle lodi di cui è largo verso il com-
mediografo, entri in qualche misura l'amicizia che per anni legò quelle due anime
schiette ed oneste. Quando nell'aprile del 1822, il Botta prende per la prima volta
la penna in mano per ringraziare l'autore stesso del dono delle commedie e salutarlo
primo comico d'Italia, lo storico o aveva, nella sua lunga dimora in Parigi, dimen-
ticato affatto il Marchisio, o non lo ricordava che per due circostanze assai spiace-
voli, e cioè: per una poco gentile sfuriata con cui l'ardente nemico del regno dei tre
Carli aveva assalito durante un ballo in maschera la giovine sposa del Botta, la
quale tutta smarrita nel suo costume di timorosa ed innocente pastorella, aveva do-
vuto accogliere le invettive dirette al presunto colpevole marito, accusato ferocemente
di dilapidare il pubblico erario; ed ancora per una critica maligna mossa in un gior-
nale dall'implacato avversario alla " Storia d'America „ al suo primo apparire (3).
E guardate, grande bontà di quel caro uomo del Botta! Parlando allora di questa
critica con un amico, egli lo pregava di non prendersela a cuore. " Toute critique
est non seulement permise, mais utile. Seulement on doit s'abstenir de toute person-
nalité et Mr. Marchisio s'en est abstenu „ (4).
E monsieur Marchisio non aveva neppur letta la storia!
Quando per continuare la recensione ne cominciò la lettura, fu preso da tale
ammirazione, che non solo non ebbe più il coraggio di continuare la critica maligna,
ma d'allora in poi sentì vivo il desiderio di conoscere colui ch'egli aveva assalito e
come uomo di Stato e come uomo di lettere per poter in qualche guisa riparare le
ingiuste parole e farsi perdonar le offese.
Le commedie raccolte in un volume nel 1820-21 gli diedero mezzo di soddisfare
a questo suo desiderio e gli offrirono pure, frutto per lui più dolce e più duraturo
dei pochi effimeri allori raccolti in sulle scene, l'amicizia buona dello storico insigne.
Da allora — e ciò fu nel 1822 — come il Marchisio seguì con sollecita ammirazione
ogni opera dello storico, così lo storico seguì passo passo il commediografo nella sua
via. Botta aprendo intero l'animo a queir amicizia, nata da un rimorso, gode per
l'amico, lo consiglia, lo loda, gli dà animo nelle cadute, applaude pel primo ad ogni
nuova manifestazione di quella mente piena di buona volontà, e, richiesto, fa anche
da critico, critico garbato ma coscienzioso. È curiosa a questo riguardo, perchè ci dà
modo di conoscere sino ad un certo segno le idee dello storico rispetto alla dram-
matica, la critica ch'egli fa del " Conte Ugolino „, tragedia che tutt'ora medita tro-
vasi tra le carte del Marchisio.
Richiesto dapprima del suo giudizio, si schermisce: ma in seguito risolvendosi a
(1) Lett. a St. Marchisio, 29 giugno 1827; ined.
(2) Lett. a St. Marchisio, 18 giugno 1821 ; ined.
(3) Vedasi Un amico oli Carlo Botta di Giuseppe Flechia in " (ìazz. del Popolo „, N. 32, 1902.
(4) Lett. a Luigi Rigoletti, 13 maggio 1810; ined.
19 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 165
notare i nei riscontrati nella tragedia (1), scopre pur egli acutamente il difetto capi-
tale del tragico, come il Foscolo aveva notato il difetto capitale del commediografo :
non vivace e poco rapida l'azione, scoloriti gli affetti.
Il Botta non palesa così senz'altro il difetto, ma Io lascia indovinare da alcuni
dubbi ch'egli si pone riguardo alla manifestazione di un carattere o allo svolgimento
di una passione.
Venendo poi ad alcune osservazioni d'ordine generale si ferma ad una proces-
sione che il Marchisio pone sulla scena ed osserva come ciò sia assai pericoloso,
perchè gli spettatori o sono molto riverenti della religione ed avranno a sdegno che
sia tradotta sulle scene, o sono poco riverenti, il che è più verosimile per la natura
solita di chi frequenta i teatri, ed in tal caso potrebbe nascere scandalo. Osserva-
zione non insulsa e che rivela tutto il senso pratico dello storico. In ultimo lasciando
da parte la matita per dar di mano alle forbici, egli taglia risolutamente tutto il quinto
atto con cui la tragedia si chiude. Altro che i nei cui egli prima accennava! " Questo
atto — nota il Botta accompagnando con una spiegazione la sua forbiciata — questo
atto, massime le ultime scene tendono a voltare gli affetti degli spettatori in favore
di Ugolino, il che mi pare un gran vizio. Orrore, odio, sdegno infinito aver si debbe
per uno scellerato di tal sorte. Il far sorgere pietà in suo favore è fuori del costume,
fuori della moralità, fuori della politica ed un andare contro il fine stesso della pre-
sente tragedia „. Di più pare a lui che il presentare dinanzi agli spettatori la lunga
agonia di uomini che muoiono di fame sia un eccedere alla tragedia, mentre osserva
che potrebbe riuscire in teatro di effetto molto incerto il ripetere i versi tanto cono-
sciuti di Dante.
Buone parole queste ultime, che svelano nel Botta un fine accorgimento artistico
ed una profonda religione per il Poeta, parole il cui valore era accresciuto dal-
l'esempio stesso del Pellico che nella sua Francesca aveva messo alla tortura alcuni
versi di Dante.
Si mostra invece il Botta critico assai mal destro col volere il Conte Ugolino
costretto all'odio formidabile delle genti, col negare a lui ogni pietà, mentre al con-
trario il Marchisio, anima sebbene imperfetta d'artista, ben comprendendo tutto lo
spaventoso episodio dantesco, aveva sentito bensì l'orrore che balza da quelle scene,
ma aveva pur avvertita la pietà che si allaccia con quell'orrore. Tuttavia resta
all'autore tragico la colpa — colpa ch'egli ha divisa con altri prima e dopo di lui
— di aver voluto trattare tale episodio. Benché lo spirito umano debba conoscere
tutti gli ardimenti e possa tentar tutte le vie, sonvi però dei limiti ch'egli non può
varcare senza che il suo ardire si muti in una profanazione e senza che nella sua
via lo segua il sorriso compassionevole delle folle, non già lo stupore religioso dei
popoli ancora rimiranti il flutto che coperse silenziosamente la nave di Ulisse.
Del resto quel dabben uomo del Marchisio non meritava certo questo piccolo
strappo rettorico. Anima buona, egli nelle sue commedie, per le quali ebbe allora
uno dei primi posti fra i commediografi del Piemonte, tentò sempre di fare il bene,
benché resti pur a lui il merito grande di essere stato appunto nel bene assai miglior
attore nella vita di quanto fosse stato autore in sulle scene.
(1) Lettera a St. Marchisio, 8 aprile 1823; ined. V. Appendice, N. 4.
166 EMILIA EEGIS 20
7. — Ed eccoci ora alla " Monaca di Monza „ del Rosini ed ai " Promessi
Sposi „ del Manzoni. L'arguto ed immortale scrittore ci perdoni l'involontario rav-
vicinamento. Non senza qualche motivo abbiami fatto precedere il suo nome da quello
del grafomane professore: bisogna preparare il terreno a poco a poco e vincere la
riluttanza.
Carlo Botta conobbe tutti e due gli autori, che prende poi di mira in alcune
sue lettere. Conobbe ed amò il giovinetto Manzoni, frequentando come amico la casa
dell'Imbonati e della Beccaria-Manzoni, casa ospitale, ritrovo in Parigi di molti uo-
mini illustri d'ogni nazione, e che il Botta già vecchio ricorda con affetto, quando
narra come appunto in una di quelle riunioni gli fosse germogliata l'idea di com-
porre la " Storia d'America „, essendosi colà conchiuso, dopo una lunga discussione,
che un solo dei casi moderni poteva servire da soggetto ad un poema eroico e questo
era " il fatto dello sforzo americano, che aveva condotto gli Stati Uniti all'indipen-
denza „ (1), mentre poi a questa casa stessa ripensa con dolcezza il figlio dello sto-
rico, Scipione, narrando come mi giorno in cui le sale rigurgitavano di invitati
grandi e piccini, la madre del Manzoni avesse con gentile previdenza rivestiti tutti
gli spigoli dei mobili perchè i bambini nei loro giuochi non avessero a farsi del
male (2). Strana cosa invero che padre e figlio s'accordino nel ricordare l'uno la
mente della figlia e della madre di grandi, l'altro il cuore della donna buona. Colà
conobbe adunque il Botta il futuro scrittore: come invece conoscesse il Rosini e si
comportasse con lui, già abbiamo accennato altrove.
Il " sofista magro e scortese „ che fa stizzire il Botta si cambia, poco alla volta,
in un signore dabbene, quasi gentile, che stima lo storico e di cui lo storico accoglie
con viso sereno le critiche. In fatto di lingua, il signor Rosini, rimane sempre il
signor " Ardirebbano „ (3) per il Botta, come il Botta rimane sempre il signor
" Caliepofilo , per il Rosini, cioè restano ai due poli opposti ; ma l'uno nelle critiche
sopprime certi vocaboli un po' troppo allegri, come " buffonate „ " arlecchinate „
dovendo parlare di cose serie, vale a dire di locuzioni o frasi o parole proprie di uno
scrittore, e l'altro nelle sue difese non fa più sentire l'accompagnamento un po' im-
pertinente di frin-fron-frin-fron.
Il Rosini s'adopera egli pure per sollevare dalle strettezze lo scrittore, va a
trovarlo in Parigi, gli offre il suo aiuto, ed il Botta gli perdona altri suoi attacchi
in materia di lingua, lo ricorda, lo invita più volte dopo un lungo silenzio a farsi
vivo ed afferma cogli amici che egli ama il Rosini perchè ama le lettere italiane,
benché abbia opinioni diverse dalle sue (-4). Ed intanto — cocciutaggine di letterati !
— quando il Rosini biasima parole ed espressioni dello storico che provengono, a
suo giudizio, dal non conoscere l'uso della lingua toscana, il Botta si stringe nelle
spalle ed afferma che non può mutare quei suoi modi di dire che prima di lui hanno
(1) Lett. a Giorgio Greene, 20 marzo 1835, in op. cit.
(2) Vita privata di Carlo Botta, Scipione Botta, pag. 14.
(3) Con questo nome firmava il Rosini le sue critiche acerbe contro il Botta nel * Giornale enci-
clopedico „ di Firenze, mentre a sua volta sotto il nome di Caliepofilo celavasi il Botta nella sua
prima risposta al Rosini pubblicata nell" Analitico Subalpino „, N. 18.
(4) Lett. a Giovanni Fabbroni, 24 dicembre 1818; ined.
21 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 167
adoperato i grandi padri della lingua e che quindi il torto non è suo (1): ed il
Rosini a sua volta avvertito dal Botta che la " Monaca di Monza „, come ogni altra
sua scrittura, è piena di gallicismi, risponde " che lo stile è tutto l'uomo e che non
può fare altrimenti „ (2). Del resto ben altre ancora sono le pecche che lo storico
ritrova in quel romanzo, il quale stando a quanto il Botta scrive al Marchisio, avrebbe
avuto origine da una malaugurata lettera ch'egli avrebbe scritta al Rosini quando
questi lo aveva richiesto del suo giudizio sul romanzo del Manzoni. Se le cose fos-
sero realmente come il Botta narra, tutto ciò di cui andava vantandosi nel 1850 il
Rosini, cioè del consiglio che Lodovico di Breme gli avrebbe dato di dedicarsi alla
prosa narrativa, cosicché egli già fin dal 1807 avrebbe ideato un ciclo di romanzi
sulle glorie della patria, ciclo di cui faceva parte appunto la ■ Monaca di Monza „,
tutto ciò non sarebbe che un piccolo esercizio inventivo dell'agile ingegno del roman-
ziere. Ad ogni modo parlando del Rosini, scrive il Botta al Marchisio (3): " Rispon-
dendogli gli dissi, siccome a me pareva, che il Manzoni non avesse rappresentato
l'Italia tal quale era ai tempi della scena dei suoi " Promessi Sposi „, perchè in
quell'Italia vi era allora altra cosa che preti, frati e briganti, in quell'Italia che già
aveva avuto il suo Tasso, il suo Raffaello, il suo Michelangelo con tanti altri infiniti
uomini, veri maestri delle nazioni, in quell'Italia che già mostrava la stupenda mole
di San Pietro agli occhi del mondo meravigliato, in quell'Italia che aveva in quel
momento stesso il suo Galileo e che da pochi anni aveva perduto il suo Sarpi. In-
somma io concludeva che il Romanzo del Manzoni, quanto ai costumi del tempo era
una vera falsità e che mi pareva da capo in fondo una pinzoccheria atta piuttosto
ad impiccolire che ad ingrandire gli ingegni italiani „.
Chi non pensa ora ai giudizi di Franco Salfi, del Berchet e del Mazzini stesso,
che pur ammira per tanti aspetti l'opera del grande scrittore?
" Deplorava poscia — continua il Botta — che un ingegno così grande qual'è
veramente quello del Manzoni, si consumasse in simili sciocchezze e bambinerie. Se-
condo me gl'ingegni italiani debbono adesso, come sempre han fatto, poggiare in alto
nell'aperto cielo, non mettere servilmente i piedi sulle pedate degli uomini di tra-
montana „.
Spiaceva poi oltremodo al Botta che il Manzoni avesse rimpinzato tre volumi
con scene di piazza, di taverna, di conventuzzi ed infine aggiungeva: " Ora il pro-
fessore Rosini, sentito questo suono da me, volle scrivere un romanzo su tal gusto e
n'è uscito quello che vedete. Ma si vede che non ostante il suo proposito, è andato
assai per le piazze, le stalle, le osterie e le taverne. Me ne rincresce: dirò di più
che avrei desiderato qualche filo di passione di più, perchè quelle descrizioni eterne
e quelle conversazioni e dialoghi eterni senza passione, vizio cos'i del Rosini come
del Manzoni, vizio nato dai romanzi delle donne, massime della Staèl che aveva ca-
priccio in ciò, sono le cose più stucchevoli del mondo. Ma almeno questo si può dire,
che la " Monaca di Monza „ ha in se qualche cosa di più generoso dei " Promessi
Sposi „, e che non è, come il romanzo del Manzoni è, una frateccheria, né una
(1) Lett. cit. V. Appendice, N. 5.
(2) Lett. a St. Marchisio, 22 maggio 1829; ined.
(3) Lett. a St. Marchisio, lett. cit,
168 EMILIA BEGIS S2
bachettoneria. E siccome credo, malgrado dell'anatema di Dante, che la virtù possa
stare col cappuccio e col pastorale, cosi credo che possa ugualmente stare là dove
non c'è né cappuccio ne pastorale. E se il signor Manzoni avesse saputo o per meglio
dire non avesse voluto dissimulare quel che era il cardinale Federigo e quel che
fece fare in Valtellina, non lo avrebbe dipinto un uomo per ogni parte santo. Questa
è una falsità ed un far mentire la storia. Che il signor Manzoni dica le sue orazioni
sul suo inginocchiatoio, sta bene, ma che ci prosenti santo chi non fu, non si può
tollerare „.
L'esclamazione che vien dopo: " Secondo lui preti e frati son tutti buoni: adunque
non ce ne fu mai nessuno tristo! „ ci dice finalmente il peixhè di quella violenta
requisitoria e del terribile, anzi addirittura sbalorditolo giudizio che la chiude: " i
" Promessi Sposi „ sono un immenso talento speso in scioccherie e falsità „. L'av-
versario del romanticismo, si univa qui al giudice inflessibile delle congregazioni
religiose, al nemico implacabile dei gesuiti.
^Non bastava che l'autore del romanzo, seguendo le orme di scrittori stranieri,
avesse falsata la storia mescolando a fatti veri invenzioni fantastiche; egli tentava
ancora di rialzare il prestigio di quella classe verso la quale lo storico aveva aper-
tamente, tenacemente combattuto tentando in ogni modo di scalzarne la potestà di
lunghi secoli, di abbatterne l'autorità divenuta ormai opprimente pei popoli ed in-
sieme minacciosa pei reggitori.
Scompare a questo punto nel Botta l'imparziale storico dei pontefici registrante
le azioni generose di questi capi della chiesa; e balza fuori, scoprendosi, il partigiano
che coi suoi scritti accresce le torture di Tommaso Campanella, attizza il rogo di
Giordano Bruno. Che se talvolta in lui sonnecchia il classico per accogliere con gra-
titudine un nuovo lavoro del Pellico (1), per mantener salda la sua ammirazione pel
Niccolini benché nel tragico si faccia già sentire la nuova maniera che lo accosta ai
romantici, veglia pur sempre in lui il sospettoso inquisitore degli uomini di chiesa.
Nel romanzo, la volgare figura di fra Galdino, l'umoristica creazione di Don Ab-
bondio non servivano per nulla ad attenuare l'impressione profonda che lasciavano
negli animi Fra Cristoforo e Federigo Borromeo ; e l'abnegazione illuminata dell'uno,
la fiamma d'amore dell'altro, si libravano troppo al di sopra di tutte le bassezze, le
soperchierie, le debolezze che di pagina in pagina venivano discoprendosi nel libro,
perchè lo storico non ne avesse a temere qualche influenza assai contraria a quanto
le sue storie predicavano. In ultimo poi l'avversario del romanticismo ed il nemico
delle congregazioni religiose si univano al purista severo ed allora il romanzo dopo
di essere stato condannato e per il genere e per la sostanza veniva pur condannato
per lo stile e per la lingua.
Era troppo pedestre per il Botta la lingua che lo scrittore metteva in bocca al
cardinale Federigo, mentre notava che là dove aveva dovuto trattare di uomini e di
fatti plebei, avrebbe dovuto adoperare il dialetto toscano, non il milanese e francese
malamente tradotti: e dolevasi il Botta di ciò mentre aveva notato nei primi scritti
del Manzoni tanta elevatezza e tanta energia. " Quello è lo scrivere degli idioti del
(1) Scriveva il Botta: * Favorisca salutarmi il Signor Pellico e di dirgli che ho ricevuto il suo
Tommaso Moro „ del quale molto lo ringrazio „. — Lett. a Ignazio Giulio, 10 marzo 1834; ined.
23 STUDIO INTOENO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 169
secolo decimoquarto — sospirava egli — ma parlarne o parlargliene è come un pestar
l'acqua nel mortaio perchè lo fa a posta „ (1).
Farlo a posta il Manzoni! Qui c'è tutto il dispetto di quel dabben uomo che si
vendicava di ogni cosa sbadigliando a tutta forza sulle pagine del libro (2), egli con
pochi altri, mentre i più dopo essere rimasti un momento sospesi e quasi sconcer-
tati, come succede per le cose grandi, ma impreviste, — momento che le parole del
Leopardi riferentisi alle persone colte di Firenze " trovano il romanzo inferiore alla
aspettazione „ (3), bene determinano, — accoglievano con uno scoppio d'entusiasmo
il nuovo capolavoro : era il vero furore di cui parlava al Fauriel una figlia del Man-
zoni. Ed intanto l'autore serenamente si preparava a risciacquare la sua biancheria
sudicia in Arno. E dire che l'aveva fatto a posta!
8. — Entriamo ora nel campo della Storia. Fa d'uopo forse avvertire che anche
qui dove pur l'occhio di chi ha frugato nelle vicende di tanti secoli avrebbe dovuto
essere più acuto e più destro, ci ritroviamo dinanzi a giudizi tutt'altro che acuti e
destri? V'è anzi in essi un elemento che mancava nella formazione degli altri giudizi,
elemento che dà loro un certo sapore acre e punto gradevole. Nelle sue sfuriate nel
campo della letteratura si sente tutta la stizza di un uomo il quale teme che quelle
date massime bandite da alcuni e poi professate da molti possano in qualche modo
recar danno alla sua patria, mentre in fondo a quella stizza rimane solo e sempre
un dolore profondo ; nelle sfuriate contro gli storici si sente invece anche la voce di
uno storico che ha delle opinioni sue da far valere, un sistema suo da far adottare,
mentre in fondo chi ben guardi, potrebbe trovare come una difesa nascosta delle
proprie dottrine e teorie.
Il Botta ben lungi dal comprendere che fosse e quale immenso giovamento po-
tesse arrecare la filosofia della storia, derise chi in essa faceva, incespicando, i primi
passi, disprezzò, nella ferma convinzione che giammai avrebbero potuto mutare il
carattere di una data età, gli spillatori di archivi (4), coloro che a poco a poco dove-
vano smantellare l'edificio storico sino allora costrutto. Non intuì neppure che essi
sono per la storia ciò che i minatori per l'umanità e che anch'essi scavanti nell'im-
menso cumulo di depositi che le morte generazioni hanno abbandonato, dovevano,
lavoratori spesso affaticati ed oscuri, arrecare alle nuove generazioni luce e calore.
" La storia è maestra della vita „ avevano detto gli antichi: e Botta ripetè con loro.
Ma non compresero che l'ammaestramento della storia non è intero finche, oltre al
registrare gli errori e le grandezze dei popoli, essa non tenta di far conoscere il
(1) Lett. a St. Marchisio, 6 agosto 1829 ; ined.
(2) Lett. cit. " Sento — scrive il Botta — che alle lungherie ed alla imbrogliata tessitura dei
Fromessi Sposi molti hanno sbadigliato, ed il cielo me lo perdoni, ho sbadigliato ancor io. Queste
cose dico a voi, perchè mi siete amico; che io non son uomo da gridare su pei tetti. Ho un rispetto
grandissimo pel Sig. Manzoni, ma deploro che svisi la letteratura italiana, perciocché svisarla è
ammazzarla. Per altre e più sublimi cose Dio gli aveva dato un così bel ingegno „.
(3) Epistolario di G. Leopardi, raccolto da Prospero Viani, quinta ristampa e più compiuta.
Firenze, 1892, voi. II, pag. 241.
(4) Vedasi, per non citar altro, la lett. del 19 marzo 1834 ad Aurelio Bianchi Giovini. — V.
Serie II. Tom. LUI. 22
170 EMILIA REGIS 24
perchè di quegli errori, la cagione di quelle grandezze, finche lascia che ogni cosa
morta sia ben morta, già soddisfatta pienamente se riesce a trarre dai fatti un apprez-
zamento immediato, come una buona nutrice che da leggende meravigliose pei dotti,
trae una facile morale per il bambino che ascolta. In tal modo poteronsi avere quei
molti trattati che corsero sì a lungo per le scuole; o v'era possibile leggere fra l'altro,
che la corruzione dei costumi fu ciò che trasse alla rovina l'impero romano, che la
rivoluzione francese fu quella che permise ai popoli d'Europa la libertà.
Qual meraviglia adunque, se il Botta rimasto cinquant' anni indietro nell'epoca
alla quale appartiene, come bene osservò il Mazzini (1), accoglie con gioia la " Storia
di Sardegna „ del Manno (2), mentre fa il viso dell'armi alla " Storia delle Repub-
bliche italiane „ del Sismondi ed alla " Storia di Napoli „ del Colletta? È bensì vero
che l'opera del Manno è, sotto molti aspetti, ancora eccellente ai dì nostri ; ma il
giudizio del Botta oltrecchè dal valore proprio di essa, è anche determinato dal sol-
lievo di non trovare nella Storia nulla di quanto possa dar ombra alle sue convin-
zioni o ridestare i suoi sospetti. Nella lunga Storia, non quintessenze politiche, non
entelechie letterarie, non metafisicherie linguistiche (3). Il barone Manno è come il
Botta " une vieille perruque „. Nulla di più naturale che si riconoscano tra di loro
e si facciano graziosamente un bell'inchino.
Ma col Sismondi e col Colletta le cose non vanno tanto liscie. Pur ammettendo
nel Sismondi la quantità di fatti raccontati e l'altezza d'animo dello scrittore, il
Botta si duole che l'autore collochi il bello ed il buono in ciò che era stato sempre
e da tutti stimato cattivo e brutto, ed esclama con dispetto:
"Insomma questi encomiatori del medioevo io non gì' intendo „ (4).
Non li intendeva, no, e fu questa pur troppo, una grave lacuna della sua mente.
Ancor egli, come qualche altro, a furia di ripeterselo credeva il medioevo un'epoca
di barbarie, di oscurità, d'ignoranza, nel modo stesso che intendeva per romanticismo
una mostruosa accozzaglia di cose lugubri e macabre, una ridda di fantasmi e di
cadaveri, un bagliore di luci livide guizzanti a mala pena tra le pesanti nebbie. Per
questo egli, come già aveva fatto per altri, metteva in sospetto gl'italiani contro le
opinioni letterarie del Sismondi: " Gli italiani sono figli di Atene e di Koma, non
di Teutone, e di Odino o di Ossian o d'altra simil peste — scriveva egli a tal ri-
Ci) Opere, (Roma, 1881), pag. 320. Scrive il Mazzini parlando del Botta: * Diseredato d'ogni po-
tenza filosofica, vuota l'anima di grandi idee e di fede nelle deduzioni storiche, ei si rimane intanto
cinquant' anni addietro nell'epoca alla quale appartiene „. Queste parole furono pubblicate la prima
volta in inglese nella " Westminster Review , dell'ottobre 1837, nell'articolo del Mazzini : Molo let-
terario in Italia.
(2) Lett. a Luigi Cibrario, 11 dicembre 1825, 24 dicembre 1826. — V. — e leti, al Barone Gius.
Manno, 22 agosto 1827. — V.
(3) Lett. a Giuseppe Manno, 22 agosto 1827 : " A principi buoni e savi non è mancato uno sto-
rico buono, fedele e savio, e vadano pure a monte certi storici moderni, che coi sistemi e ghiribizzi
delle loro matte immaginazioni vogliono scrivere la storia non colla sincerità dell'animo e la verità
dei fatti „. Così il Botta; ed ancora in altra lettera allo stesso, 23 aprile 1836: " L'andar dietro ai
pensieri di moda come si usa generalmente oggidì e fare, come le pecore rammentate da Dante e
da lei, fanno, è segno d'animo servile e sterile, ed inetto allo scrivere. Da ciò ella può giudicare
del piacere con cui leggo le cose sue, e di quello che io sento nel vedermi rappresentare con sì
graziosi doni l'affezione che mi porta „. — V.
(4) Lett. a Luigi Cibrario, 17 novembre 1826. — V.
25 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 171
guardo al Cibrario (1). — Chi vuole intedescargli o incaledonirgli fa opera mortale
per essi : dico che gli ammazza „ , ed adottando qui pure quella massima " a mali
estremi, estremi rimedi „, che già voleva adottata in fatto di lingua, soggiungeva con
molta, anzi con troppa risolutezza : " Se in Italia non si dà della mazza in sulla testa
a chi ammira e vuol imitare Madama Staèl e Goethe e Byron e Walter Scott e si-
mili, la letteratura italiana è morta „. Secondo il Botta, adunque, un simile tratta-
mento sarebbe stato necessario anche pel Sismondi: né solo per lui, perch'egli tro-
vava un po' del veleno della nuova scuola pure nella Storia del Delfico e del Cuoco (2).
Le lunghe e frequenti riflessioni sulla filosofia e sulla politica che trova nei loro libri
gli dan noia e la gran saccenteria di guerra, che oltre alla filosofia ed alla politica
riscontra nella " Storia di Napoli „ del Colletta, lo fa ridere.
" Bella strategia — osserva lo storico (3) — è stata quella per mia fé' del Col-
letta, che immaginò e diresse sotto Gioacchino Murat la guerra del 1815 contro gli
Austriaci; perocché mentre i Napolitani imprudentemente si prolungavano per la
Terra di Lavoro verso la campagna di Roma, gli Austriaci traversati gli Abruzzi
già si calavano loro alle spalle verso Napoli. Poi viene il dottorume di chi perde:
Oh! se si fosse fatto questo, oh se si fosse fatto quello! E, signori miei, Dio sa che
sarebbe succeduto se si fosse fatto questo e si fosse fatto quello. Bonaparte non
scrisse trattati di strategia, ma vinse le battaglie e si beffava dei signori strate-
gici „ . Eppure assai più di una volta anche il Botta nella sua Storia si sentì tratto
a dar lezioni del senno di poi al grande capitano.
Del resto non questo solo spiace allo storico nel Colletta, ma la forma pesante,
lo stile plumbeo, lo sforzo e la durezza continui in cambio della spontaneità, fanno
sul suo animo una ben cattiva impressione. " E' bisogna che ci abbia sudato orri-
bilmente „, nota lo scrittore, che in tre anni ha compiuti dieci enormi volumi (4),
certo ignorando che qualche anno prima di lui e più precisamente 1* 11 gennaio del
1830, il Colletta scrivendo al Leopardi e parlando della " Storia d'Italia „ del Botta
esclamava: " Ma che Storia! ma che stile! Quanto perderebbero le lettere italiane,
se egli avesse imitatori! „ (5).
Venendo poi ad altre osservazioni, lo storico trova fastidiose siccome non più
nuove le riflessioni dell'autore sulla malignità degli uomini, sulla corruzione delle
corti, sulla malvagità della polizia. Secondo lui i lamenti e le sferzate del Colletta
hanno piuttosto la loro fonte nell'acerbezza dell'esilio, che nello sdegno della virtù.
Giudizio questo severo, come è severa nella sua brevità l'accusa che egli muove al
Colletta di aver taciuto le asprezze del Manhés nella Calabria, essendone egli stato
uno dei principali esecutori. Nota le contraddizioni in cui cade lo storico, quando
(1) Lett. a Cibrario, 17 novembre 1826. — V.
(2) Lett. a St. Marchisio, 13 febbraio 1835: " Le lunghe e frequenti riflessioni sulla filosofia e sulla
politica sono il difetto della scuola storica napolitana moderna e perciò non si possono leggere
senza noia la Storia della repubblica di S. Marino del Delfico e quella della Rivoluzione di Napoli
del Cuoco „. — Ined.
(3) Lett. cit.
(4) Scriveva il Botta al Grassi nella lett. del 29 ottobre 1830: * Che dirai di un uomo che in
quattro anni e mezzo ha fatto dieci volumacci, dai quali anni bisognerà trarne uno almeno che fu
impiegato a copiare? „. — Ined.
(5) Epistolario di G. Leopardi, 1892, pagg. 292-93, voi. III.
172 EMILIA KEGIS 26
si burla della legittimità dei principi per diritto divino, ed intanto riconosce la le-
gittimità del regno di Murat, non su d'altro fondata che su un decreto di Napoleone,
quando loda la teoria delle assemblee popolari pubbliche e numerose ed intanto parla
della loro natura funesta ed enumera i mali da esse prodotti in Francia, in Spagna
ed in Napoli. Ma ciò che oltre ogni misura ripugna al severo giudice di Bonaparte
si è che l'autore cerchi di inorpellare i delitti di Napoleone e si mostri parziale e
propenso al Murat, il quale, come sembra al Botta, e nel fatto del duca di Enghien
e nella cacciata degli esuli napoletani dalla Toscana, si mostrò crudele, non già perchè
tale fosse per natura, ma per vile condiscendenza verso Napoleone. Tuttavia dopo
l'attenta, minuziosa disamina, egli finisce per riconoscere il Colletta, nel maggior nu-
mero dei casi, storico fedele ed imparziale, specialmente nel racconto che fa delle
tragedie di Napoli dal 1792 al 1800, mentre confessa che in tutta l'opera è sparsa
una grande forza d' ingegno, la quale fa sì che la sua Storia sia una delle più pre-
gevoli. Chiudendo la sua critica, il Botta nota gravemente: " Solo è da deplorarsi
che il suo vacillare nelle opinioni e nei fatti secondo i tempi e le circostanze non
presenti una norma ed uno scopo certo alla gioventù che studia „. Nota grave che
poteva ritorcersi ed appuntarsi al critico stesso quando si pensi che Pietro Gior-
dani (1), parlando della Storia scritta dal Botta in continuazione della Storia del
Guicciardini, consigliava i giovani o chiunque non fosse informatissimo delle cose e
delle persone di quei duecentottant'anni, di astenersi dalla lettura di essa, poiché
non solo avrebbe ingombrato la mente di giudizi strani in materia politica e lette-
raria, ma ancora di fatti stravolti e monchi; mentre poco più tardi il Tommaseo
poteva notare come difetto grave e pericoloso delle opere dello storico " i non fermi
od almeno non fermamente determinati principi „ (2).
Il Botta poi quasi per dare la vera cagione del dubbio modo di procedere del
Colletta, aggiungeva: " Quando Tacito lo tira, ei dice cose vere e profonde: ma
quando l'aura moderna il penetra, dice cose chimeriche, contradditorie, false ed em-
piriche „.
9. — Ah! quell'aura moderna! corrompitrice pel Botta di tutte le cose. Dove
essa spira, la religione si contamina, la letteratura s'intorbida, la storia s'infetta. I
suoi aliti soffiando d'oltre mare e d'oltre monte, attossicano gli spiriti più eletti d'I-
talia e rovinano ogni cosa. Ormai l'Italia è perduta pel Botta se è bastato che un
uomo di raro ingegno, nato ad Edimburgo, scrivesse con bella ipotiposi di castelli,
di stalle, di conventi del medioevo, per far nascere dalle " Isole del Ferro sino a
Keggio in Calabria il grido Medioevo! medioevo, medioevo „ (3), se è bastato che il
Goethe scrivesse il suo " Faust „, perchè nascesse nella letteratura un nuovo indi-
rizzo e sorgesse per lui un'adorazione in nulla dissimile dall'adorazione per S. Gia-
como di Compostella. Il povero Botta non si raccapezza più. Che mai trovano gli
Italiani in quel tanto famoso tedesco? Una gran fantasia: questo sì, ma in tutti i
suoi scritti non v"è un grano di ragione. Goethe è un ambizioso, come tale volle
1 1 Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gussalli, Milano, 1358, voi. VI, pag. 168.
(2) N. Tommaseo, Dizionario estetico, cap. Botta, pag-. 33.
(3) Lett. al conte Luigi Nomis di Cossilla. 30 dicembre 1833 — V.
27 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 173
parer nuovo e per parer nuovo cadde nel ridicolo e nello stravagante, dando origine
ad opere mostruose come il " Faust „ (1). Ah! quell'aura moderna!
Essa non fa crescere solo, né solo alimenta per ogni dove, erba funesta, gli spi-
riti ambiziosi, in cui la vanità tocca i primi gradi del ridicolo o confina colla pazzia,
ma ecco che per essa l'erba funesta sale e si attorciglia ancora intorno alla croce
di Cristo.
In Parigi, nella città sempre all'erta come sentinella vigile dell'umanità, Botta
assiste, nella chiesa di Nostra Donna di Parigi alle prediche di Lacordaire, il disce-
polo del grande Lamennais. Ecco: sul pulpito Lacordaire, pallido, magro, severo
— lo paragonano a S. Giovanni nel deserto — , nelle arcate la folla avida, attenta :
Botta ascolta le ispirate parole di quel mistico e squisito apologista del dolore, mentre
il suo occhio acuto fissa gli arcivescovi ed i vescovi che ascoltano impassibili, le
donne che piangono, i giovani che atteggiato il volto a melanconia, or che di moda,
colla barba sotto il mento per parer del medioevo, attendono che il predicatore fi-
nisca per portarlo in trionfo, e seguirlo poi alla Messa ch'egli dice nella chiesa del
Carmine. Ed intanto alla mente dello storico s'affaccia una data: il 1793, amio in
cui appunto nella chiesa del Carmine avvenne la crudele carneficina dei preti; e
nell'animo suo di credente sorge una rabbia sorda al pensiero che l'ambizione sola
spinge quel giovane pallido e severo a ridurre la religione di Cristo " al mistico,
perchè piace ciò che non s'intende ed al profano, perchè i piaceri del mondo piac-
ciono ancor più del mistico „ (2), al pensiero che la religione da lui bandita non è
già la religione di Cristo, ma è sua corruzione, tanto più pericolosa quanto è più lusin-
ghiera perchè volge al misticismo ed alle passioni umane. Ah! Lacordaire! Lacordaire!
Ma non è egli solo. Non forse è con lui Lamennais? non forse prima di lui
Benjamin Constant diede, in fatto di religione, con ridicola saccenteria, denominazioni
nuove ad idee vecchie? non forse Chateaubriand col suo " Genie du Christianisme „
iniziò un nuovo sistema, poi continuato da altri, tra i quali il Lamartine? Ed è l'ispi-
razione forse — chiede a sé stesso il Botta — che li spinge a poetizzare così il cristia-
nesimo e detta le loro opere? No, ma l'ambizione smisurata, il desiderio insano di lucro.
Lo storico ricorda le parole che il Ginguené, amico e confidente di Chateaubriand,
ha detto un giorno parlando di lui. Voleva egli scrivere qualche cosa — cosi aveva
raccontato il Ginguené — ma stava esitando sulla scelta, se scrivere da filosofo o
da uomo religioso, " poi considerato che ad un'epoca d'incredulità, che a quel tempo
da molti anni durava, doveva necessariamente succedere anche con impeto, un'epoca
religiosa, e perciò stimando che fosse maggior negozio lo scrivere da religioso che
da filosofo, elesse di scrivere da religioso e fece il suo " Genie du Christianisme „ (3).
Semplice senza dubbio il racconto del Ginguené e quasi infantile la fede che il
Botta vi presta: pur tuttavia la mente nostra corre ad un tratto, come per involon-
tario raffronto, al Chateaubriand di Vittor Hugo, che in piedi vicino alla finestra,
in calzoni lunghi e pantofole, coi capelli grigi raggruppati in un fazzoletto, con una
intiera batteria da dentista schierata dinanzi e cogli occhi rivolti allo specchio si
(1) Lett. a Carlo Ignazio Giulio, 6 dicembre 1833 ; ined. Vedasi Appendice, N. 6.
(2) Lett. a St. Marchi, io. 14 marzo 1836; ined. Vedasi Appendice. N. 7.
(3) Lett. a St. Marchisio, lett. cit.
174 EMILIA REGIS 28
cura i denti bellissimi, mentre detta al segretario Piloge lo scritto: "La monarchie
selon la Charte „ (1).
E neppure come uomo politico la figura di Chateaubriand acquista miglior luce
per lo storico. Ma l'ambizioso che briga per far sbalzare il ministro Villèle in oc-
casione della legge sulle rendite ond' essere surrogato in sua vece, che servendosi
dell'aiuto di arti femminili briga per essere mandato al Congresso di Verona, che
nel giornale dei Débats scaglia improperi ai ministri, scalzando a poco a poco il trono
dei Borboni, eccita lo sdegno del Botta. Non sappiamo quanta verità fosse nelle se-
vere parole che lo storico diceva al figlio nella terza giornata di luglio del 1830,
additando la casa di Chateaubriand, mentre all'intorno rimbombavano le cannonate
furiosamente : " Quell'uomo spietato si rallegra in sé stesso delle cannonate perchè
spera che gli balzerà in mano un ministero „ (2). Noi pensiamo che l'autore del
" Genie du Christianisme „, oratore di Francia al Congresso di Verona, spendeva gran
parte delle sue magiche parole per persuadere i cuori regii a ciò di cui essi già
erano ben convinti : ad abbandonare l'eroica Grecia alla buona grazia della Turchia,
a spingere la Francia contro la Spagna liberale. Non è qui certo il luogo di giudi-
care la condotta di quest'uomo, che pur nelle sue opere grandissime riguardanti il
cattolicismo lasciò sempre intravvedere pei suoi scatti orgogliosi, per le sue piccole
contraddizioni, per certi suoi atteggiamenti sensuali, il razionalista dei primi anni;
ma è lecito notare che se allora i popoli avessero dovuto dare un giudizio su Cha-
teaubriand, oratore di Francia, non si sarebbero accontentati di dire ciò che con fine
ironia dicevano allora parlando di lui i re ed i ministri: " Oh! monsieur de Chateau-
briand est un homme de lettres très-distingué! „ (3).
« Fate largo, fate largo all'ospedale dei matti! „ grida il Botta, che lasciando
ad un tratto in disparte la figura di Chateaubriand, ci presenta il Lamartine, altro
ambizioso, altro mistico, il quale s'atteggia ora melanconicamente a Messia, perchè,
come egli racconta nel suo " Viaggio in Levante „, una certa lady conobbe " al suo
andare ch'egli era poeta, dall'avere il collo del piede alto sul piede ch'egli era un
uomo di genio, ed alla sua fronte ch'egli era destinato a fare una rivoluzione nel
mondo „ (4). " Fate largo, fate largo! „ grida ridendo il Botta; ma il suo riso si
spegne ben presto al pensiero che la peste dei melanconici per moda, dei piagnoloni
per vezzo, della religione mistica e poetica penetra anche in Italia, dove spegne
ogni buona letteratura, ogni buona poesia, ogni buona religione. Non ne intravvede
egli già qualche sprazzo nelle prediche di Giuseppe Barbieri e nella maggior parte
dei canti di Giacomo Leopardi, eccelsi ingegni, ma che l'imitazione dei forestieri trae
al male? " Oh! datemi qui del Pascal, del Fénélon, del Bossuet, del Molière, del Mas-
sillon che io venero ed adoro „ (5) — grida il dabben uomo mentre scaccia da se
fi) Victor Hugo, Les Miséràbles. P. V, libr. III.
(2) Lett. a St. Marchisio, 14 marzo 1836; ined.
(3) Lett. cit. Scrive il Botta accennando a Chateaubriand ed alla sua partecipazione al Con-
gresso di Verona: " Dove se i re ed i ministri loro non risero di quel paone colla coda sempre spie-
gata, non vaglia. Parlando di lui e' dicevano: " Oh! monsieur de Chateaubriand est un homme de
lettres très distingue „. E certo non si poteva far critica più fina d'un diplomatico.
(4) Lett. cit.
(5) Lett. cit.
29 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 17.">
con vivo onore i Chateaubriand, i Lamartine, i Vittor Hugo, gli Alessandro Dumas,
i Lacordaire, rane gonfie, ciarlatani, e si sforza di metter in guardia i suoi amici...
— " Oh, se mai vedete comparire sulla vetta delle Alpi i piagnistei, il sospiro per
pratica, sonate campana a martello, anzi schizzate loro contro inchiostro attossicato...
Almeno Young, ch'essi vogliono risuscitare, piangeva nelle sue " Notti „ la morte di
una figlia unica che molto amava, ma questi afflitti per mestiere sono veramente
ridicoli „ (1).
" Que la douleur est une chose sublime! „ sospira accanto al Botta un melanco-
nico uditore del mistico Lacordaire. — " Io lo guardai — dice lo storico —in viso;
ei guardò me; io risi ed ei rise e cosi fini „.
Ma non finiva sempre cos'i: e ben sovente cogli amici lontani il Botta sfoga
quella gran rabbia che non ha potuto aver libero corso altrimenti e che pur lo di-
vora, per tutta la finta malinconia che gli pesa d'attorno orribilmente. Egli va, è
vero, anche all'altro eccesso di credere finta la melanconia vera, di chiamar mania,
quello che era allora un fatale e terribile morbo; di creder frutto dell'ambizione
umana ciò che era fiore pallido della coscienza novellamente risorta. Ma la colpa non
è sua.
Il Botta vede i giovani pallidi e melanconici che ascoltano sospirando le pre-
diche di Lacordaire patito, severo come S. Giovanni nel deserto e li rivede alla sera
che pranzano fra grida festevoli con compagne belle e non melanconiche nei più
lieti ritrovi del Palazzo Reale ; egli vede rigurgitanti le arcate, gremiti gli altari di
quanto Parigi offre di grande per intelligenza, di fastoso per ricchezza — uditorio
sospeso e commosso — mentre al di fuori il popolo scatenato insulta alle immagini
dell'arcivescovo, arde i simulacri, assale con feroce impeto i conventi ed i seminari.
La colpa non è sua.
IO. — E non è sua la colpa s'egli maledì il romanticismo ed imprecò contro
coloro che se ne facevano banditori. Se il romanticismo fosse nato e cresciuto in
Italia, il Botta, pur non andando del tutto d'accordo con lui, lo avrebbe guardato
con viso sereno ed avrebbe perdonato anche se, irrequieto ed audace, avesse fatto
qualche strappo alla realtà storica e si fosse mostrato fantastico e strano. Ma era
nato altrove e se pure portava con se nomi illustri, questi suonavano stranieri al
Botta, e quindi nemici d' Italia. Non s'avvide lo storico che gì' italiani nell'adottarlo
gli avevano mutati e abiti e foggie e modi : esso rimase sempre pel Botta un figlio
d'altre terre, che aveva chiamato intorno a se uomini sommi, è vero, ma che s'era
pur trascinato dietro una folla innumerevole di vani e di scioperati, i quali sforzan-
dosi in ogni modo di imitarne le movenze, raccoglievano intanto e si rimandavano
l'un l'altro, via via, quanto quei pochi sommi venivano componendo. Botta imprecò
ai pochi sommi, perchè ebbe paura degli scioperati innumeri, non pensando che essi
nulla contano nell'indirizzo letterario o politico di un popolo, come nulla contano
nella vita, e che se essi hanno una funzione da compiere, questa è appunto di pro-
(1) Lett. a St. Marchisio, 14 marzo 1836, ined.
176 EMILIA REGIS 30
durre negli spiriti una reazione contro quelle tendenze di cui essi sono seguaci inetti
e non convinti.
Botta inveì contro i romantici: eppure non meritava le parole del Mazzini e di
quei molti che si scagliarono contro di lui. Egli ripeteva, è vero, il grido dei " go-
verni paterni „, ma mentre questi silenziosamente toglievano di mano la penna agli
audaci e rinserravano nelle celle le voci potenti, Botta infuriava ed intanto li amava.
" Il nostro Monti, secondochè mi narra un romantico, ma uno dei buoni e
ch'io amo e stimo molto, sebbene predichi ch'io sono " une vieille perruque „, il nostro
Monti dice la romantìceria non epidemia ma epizoozia „ (1), — scrive il Botta, senza
avvedersi che queste sue poche parole colla distinzione dei romantici in buoni ed in
cattivi, lasciano intravvedere un avversario assai meno temibile di quel che possa
apparire dai molti rabbuffi e dalle scomuniche che corrono col suo nome su pei
giornali e ci fanno pensare a lui come ad amico del Manzoni, di Silvio Pellico, di
Camillo Ugoni.
Il Botta, nel desiderio ardente di richiamare l' Italia alla realtà delle cose, nello
sforzo di eliminare tutto ciò che non gli sembra atto a render l'Italia una e glo-
riosa, precorrendo nella letteratura il pensiero che ebbe Cavour nella politica, vide
nel romanticismo non già ciò che realmente era: una chiamata a raccolta degli spi-
riti ; ma sibbene un disvio pericoloso dalla vera via e quindi una sosta inutile, un
ritardo imperdonabile. Natura schietta e forte, ma un po' brutale e grossolana, non
accoglie che le idee che possono tradursi nella realtà immediata dei fatti; le idee
che da ciò si scostano, diventano per lui sottigliezze, astruserie e peggio. Si com-
prende quindi facilmente perchè parlando al Marchisio di Terenzio Mamiani, esule al-
lora a Parigi per motivi politici, osservi: " Certo egli è un uomo molto amabile. Ma
dello Stato non so come se ne intenda ed anche è tocco dalle metafisiche. Basta
dire ch'ei disse un di questi giorni ad un mio amico " ch'ei non sa capire soldati
che obbediscono , ; ciò disse con estrema innocenza e candore... E nata una genera-
zione d'uomini che vuol governare il mondo colle sottigliezze più sottili di quelle
del dottor Sottile. Cosi poi quando per disgrazia arrivano al governare, la materiaccia
dà loro dei gran buffetti sul naso „ (2). Queste parole, mentre ci richiamano alla
mente 1' " oggi canta la prima donna „ sussurrato da Cavour all'orecchio di un amico
quando Terenzio Mamiani ha chiesto di parlare alla Camera, ci denotano pure quanto
fosse rapida e pronta nel Botta l'intuizione di un dato carattere o dell'attitudine
speciale di una mente, perchè sembra che esse preannunzino tutte le penose delu-
sioni che nel campo della politica provò più tardi il Mamiani, quel filosofo nobilis-
simo che sosteneva " non darsi al mondo un principio morale ed uno giuridico e
politico; ma esistere solo il principio morale che domina, ordina e si compenetra
in tutte le scienze civili „ (3).
E come il Botta ha in pochi tratti delineata la figura morale di Terenzio Ma-
miani, così in poche parole ci pone dinanzi la figura briosa, ardita, un po' matta del
(1) Lett. a Giuseppe Grassi, 13 ottobre 1828; ined.
(2) Lett. a St. Marchisio, 18 luglio 1834; ined.
(3) Mamiani e Mancini, Fondamenti della filosofia del diritto. Lettere fra i due illustri scrittori.
4" edizione, per cura del prof. Albini. Torino, 1853.
31 STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 177
Brofferio. " Che diavolo scrisse quel vostro raccomandato di me? — chiede egli al
Marchisio. — Io lo vidi poche volte, lo condussi dal Salti, mi mostrò una sua ode
manoscritta sui Greci, che poi stampò, poi se ne parti poetando per Torino. Diceva nel-
l'ode: " Chi ha dichiarato i Greci ribelli? „ e ciò con indignazione poetica. Gli dissi
di badarci perchè furono i potentati adunati in Verona. Pure l'ode canta cosi, Dio
gliela mandi buona ! Del resto mi è parso buon giovane e piuttosto poeta che altro „ (1).
Non sappiamo che cosa scrivesse del Botta il Brofferio a chi l'aveva raccoman-
dato ; ma sappiamo bene quanto l'ardito poeta lasciò scritto più tardi nell'opera sua
" I miei tempi „.
" Prima di lasciarlo — scrive egli, dopo d'aver narrato il suo colloquio col Botta
nello squallido studio dello storico — prima di lasciarlo dovetti credere che le sven-
ture, gli esili e le pene della vita lo avessero circondato di quella dura corteccia che
toglieva qualche pregio alle tante virtù dell'animo suo „ (2). Dura corteccia infatti :
ma è questo il vanto di colui che Giovanni Faldella addita come " uno dei nostri
grandi dimenticati „; dura corteccia che resistette all'impeto di tutte le tempeste,
custodendo gelosa una schietta anima italiana, che nella lontana Parigi sussultava
anche al solo udire la lingua della sua patria. " Vengono gli spazzacamini. Parlano
italiano e son d'Arona, benedetti! „, esclamava lo storico; e forse solo chi ha sof-
ferto l'esilio può comprendere tutto il significato di queste parole.
(1) Lett. a St. Marchisio, 16 giugno 1826; ined.
(2) / miei tempi, voi. XVIII, pag. 177.
Serie II. Tom. LUI. 23
1 ys CA REGIS
APPENDICE
32
1. — Scriveva Pietro Giordani al cav. Maggi nella lettera, tuttora inedita, del 16 febb. 1816:
" Il conte Luigi Porro mi ha chiesto l'indirizzo di Botta (fortunatissimamente datomi da
V. Ecc.) e dissemi di volergli subito con qualche delicato pretesto spedire una cambiale per
cinquecento franchi. Poi mi soggiunse: - Ditegli che venga a Milano, ditegli che venga; a
Milano non si muore.
" E per verità, sebbene non veda che se gli possa prometter nulla di sicuro e meno di
pronto, nondimeno questo ancora è il luogo (fra tante universali ed estreme miserie) dove si
possa tentare qualche cosa. Troverebbe qui persone commosse alla grandezza del suo merito
e alla indegnità della sventura, che, se non altro, griderebbero per lui, farebbero alcun che colle
loro facoltà e cercherebbero pur una via di condurlo a bene. E principale fra essi sarebbe
Monti che è di moltissimo cuore e che già stimava Botta assaissimo ; e se non avesse perduto
due terzi delle sue pensioni, è uomo da far de' fatti oltre le parole. Col passato governo poteva
Monti moltissimo; ed allora per un Botta si sarebbe creato subito un impiego, un titolo; ora
le cose vanno con altro piede. Il nostro giornale è cosa sul nascere, né può sapersi quale for-
tuna e quale profitto possa avere; ma se Botta volesse e potesse applicarsi, sarebbe accettato
più come un genio che come un bravo uomo. Intanto s'egli vuole scrivere qualche articolo,
tanto meglio; qualunque cosa a suo piacere. Vero è che l'utile per adesso sarebbe poco o nullo;
ma potrebbe crescerlo egli stesso, che scrivendo darebbe grido e spaccio al giornale. Non m'in-
duco a scrivergli io di ciò, non conoscendo se non la sua penna; né essendomi riuscito quel
che desideravo di farmegli prima conoscere; né oso famigliarizzarmi troppo speditamente con
uomo che tanto riverisco. Però bramerei che prima V. Ecc. gliene scrivesse. E così a tanti
obblighi che mi impongono la benignità e la cortesia usatami da V. Ecc., si aggiungerà anche
questo di entrare con sì buon mallevadore nella servitù di Botta e di aver cominciato a pro-
vargliene almeno i desiderii d'essergli servitore in effetto ».
° 2. — Botta parla di Camillo Ugoni in molte lettere dirette a St. Marchisio, dando pure
in alcune di esse, notizie dei variti lavori ai quali attendeva il loro comune amico.
Nella lett. del 18 nov. 1825, scrive: " Ei (l'Ugoni) va frugando in ogni canto per raggra-
nellar fatti, fattarelli e fatterelluzzi sul nostro celebre Lagrange; che sapete che Camillo si
occupa in letteratura e biografia. Credo che il traditore ha posto la mira anche a me ; ma io
il terrò sulla gruccia tanto che potrò, perchè per ora non ho voglia di morire e dovete sapere
che a volere che Camillo parli di noi, e' bisogna esser morti. Sicché alla larga „. — Ined.
Nella lett. del 24 luglio 1828 a St. Marchisio, riporta il Botta alcune frasi scrittegli dal-
l' Ugoni stesso e fra le altre anche la seguente: " Ho bensì l'intenzione di scrivere qualche cosa
intorno a Foscolo, ma non sono ancora provveduto di tutti i materiali e d'altra parte mi trovo
ora in compagnia di " Grazie , un po' meno eteree e celestiali di quelle di Foscolo, perchè
sapete che scrivo del Casti „.
Altrove ancora il Botta avverte come l'Ugoni stia scrivendo intorno al " gran Visconti ,.
3. — " Mancano i termini di marineria — scrive il Botta. — Questi vorrei che tu aggiugnessi,
che sarà cosa nuova, utile e dilettevole ad un tempo. Forse ti converrà sudarvi più che non
hai dovuto sudare sulle cose di terra e certo c'è da vedere assai ; perciocché quando nacque
e diventò adulta la nostra lingua, le cose di mare erano ancor bambine rispetto a ciò che
diventarono dopo e sono a nostri tempi. Perciò gli scritti ti saran di poco aiuto in questa
bisogna. Sarà d'uopo cercar norma nell'uso ed a questo fine sarà necessario raccorre dalle città
d'Italia più rinomate per posti di mare e più forti in sull'armi navali, i vocaboli e le frasi
concernenti la fabbrica e le parti tutte delle navi sì piccole che grosse, le loro mosse, le bat-
taglie, i nomi dei posti e dei lidi secondo la natura loro, dei venti ed altre simili cose rela-
tive alle bisogne di mare. I vocaboli di Livorno sarebbero i più autentici, ma non essendovi
33 STUDIO INTORXO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 1.79
in quel porto arsenale ad uso di costruì- navi grosse da guerra, tu ti dovrai rivolgere a Genova
e specialmente poi a Napoli ed a Venezia. Io opererei così. I Francesi hanno un vocabolario
compitissimo di marineria. Di questo farei fondamento all'opera, notando tutti i vocaboli con
le spiegazioni loro ed anche tutte le frasi. Poi li manderei a persone fidate e capaci a Livorno,
a Genova, a Napoli ed a Venezia, richiedendole di scriver a lato di ciascun vocabolo o frase
il vocabolo o frase corrispondente in lingua patria. Quando avrai in pronto tutta questa mole
di modi e parlari toscani, genovesi, napoletani e veneziani, tu li paragonerai tra di loro e
scerrai quelli che ti sembreranno più chiari, più pieni, più sonori, insomma più belli e più
acconci, anteponendo ora il toscano al genovese, ora il genovese al toscano, or il veneziano a
tutti questi ed ora il napoletano secondo che accadrà e ti parrà più conveniente. Io ti so dire
che questo lavoro aggiunto a quello che già hai fatto, sarà opera da far onore a te ed all'Italia.
È cosa ancora di trinca e mi par anche necessaria. Tu farai il nomenclatore italiano per l'arte
della marineria; sarai il Linneo di quest'arte. Sicché animo, il mio caro Giuseppe, contentaci
anche in questo; che se non la fai tu che sei Grassi, quest'opera non so chi la farà „.
Lett. a Giuseppe Grassi. Parigi, 28 giugno 1817. — Ined.
4. — "Ho letto e riletto attentamente quanto per me si è potuto, il suo " Ugolino „ e gli (?)
ripeto che mi è piaciuto assai. Pure per obbedirgli ho notato qualche neo o, per meglio dire,
ciò che neo mi pare. Replico che l'ho fatto solamente per obbedirgli, perchè non son sicuro
della mia opinione: anzi credo che più verisimilmente mi sono ingannato io che egli. Mi pare
gran presunzione la mia del giudicare opere teatrali di un tanto maestro qual egli è: me ne
son venuti spesso i rossori al viso „. Cosi il Botta: ed in ultimo ponendo termine alla sua
critica: " Del rimanente tutta la tragedia è scritta con molta nobiltà di pensieri e questa parte
è tutta degna di grandissima lode. Lo stile anche mi pare conveniente al soggetto; solo vi
vorrei qua e là più nervo ed anche qua e là qualche tratto alfieriano di più, vivo e vibrato
come quel sì bello: " vinti „. Questi tratti partoriscono grand'effetto e molto meglio conferi-
scono all'energia dell'espressione degli affetti che lo stile molto figurato e sesquipedale che è
vizio, non già del mio signor Marchisio, il quale anzi ne è lontanissimo, ma di molti scrittori
dei nostri tempi. Credono questi che aprir largo la bocca sia un aprir largo il cuore; ma è
tutto il contrario „.
Lett. a St. Marchisio, 8 aprile 1823. — Ined.
5. — " Ella sia contenta di salutare in nome mio il sig. Rosini — scrive il Botta al Fabbroni
— il quale venutomi a salutare in Parigi da parte sua, io non posso né dimenticare, né
disamare. So che di nuovo è uscito fuori con tassarmi delle capestrerie della lingua. Se abbia
ragione, io non lo so ; ma certo ha torto nel dire ch'io abbia errato perchè non ho l'uso della
lingua toscana; imperciocché le frasi tassate io non me le sono già succiate dalle dita, bensì
le ho tolte di peso non solo dal Davanzati, come si dice, ma ancora e molto più da Machia-
velli, dal Guicciardini, dal Varchi, toscani tutti, i quali, cred'io, sapevano il vero andare del
favellare e dello scrivere toscano. Sicché se vi è errore, l'error non è mio, ma bensì tutto di
toscani „.
Lett. a Giovanni Fabbroni. 24 dicembre 1818. — Ined.
6. — " Del Goethe nel suo Fausto non so che dire. 0 io sono una bestia o quel Fausto è
una mostruosa porcheria. Bisognerà aver compassione a quegli Italiani che l'ammirano. Goethe
era un uomo dotato di gran fantasia, ma in tutta la sua compagine non c'era un grano di
ragione. E sì che in questi ultimi tempi volle anche dar torto a Cuvier in cose di storia natu-
rale come se di storia naturale sapesse! A tutto ciò è abbastanza risposto con una fischiata.
Goethe fu ambizioso e per esser ambizioso volle parer nuovo e per parer nuovo divenne stra-
vagante e ridicolo. Gli Italiani che gli corrono dietro han bisogno di essere avvertiti che da
quella loro adorazione per quel famoso tedesco a quella di S. Giacomo di Compostella non c'è
differenza. Sono superstizioni. Gridano contro l'imitazione e sono servili scimie ! Se diventassero
180 EMILIA KEGIS — STUDIO INTORNO ALLA VITA DI CARLO BOTTA 34
padroni del inondo, il mondo diventerebbe il Caos, il brutto vincerebbe il bello, il vizio la
virtù, il delitto l'innocenza, il disordine l'ordine, ogni mala bestia ogni buona e profittevole
creatura. E' sono veramente orrendi mostri „.
Lett. a Carlo Ignazio Giulio, 6 die. 1833. — Ined.
7. " Ila le dirò bene che qui i preti buoni, che molti ve n'ha, non hanno grido e nissuno
a loro abbada, ma bensì i preti ambiziosi i quali hanno intorno ai loro pulpiti una folta corona
di uditori così maschi come femmine e così vecchi come giovani, ma più giovani che vecchi,
di quei giovani che portano la barba sotto il mento a guisa del becco per parer del medioevo.
Questi preti ambiziosi, per farsi scorgere, vogliono ridurre la religione di Cristo al mistico
perchè piace ciò che non s'intende, ed al profano, perchè i piaceri del mondo, ai quali essi
tentano di dare spiritualità, piacciono ancor più del mistico e danno giaculatorie. E' fondano
la loro autorità sugli inganni del diavolo sotto specie d'angeli; state a vedere che fu l'arcan-
gello Gabriello che tirò Rinaldo nei giardini d'Armida. Dal dire che il dolore è godimento
(costoro la sanno più lunga degli stoici i quali sostenevano bensì che il dolore non è male ma
non già che fosse godimento) al far mostra di malinconia il passo è breve. Evvi pertanto qui
modo di malinconia, come già fu di gastrite e d'enterite e chi porta il viso pallido e smunto
con barba di becco, è più stimato di moda. Il bello poi si è che questi giovinastri malinconici
pranzano ogni giorno fra le grida festevoli e con le amorose nei più lieti ritrovi del Palazzo
Reale. Vostra paternità mi domanderà forse che altro fanno in quei ritrovi. Le dirò che bevendo
allegramente pieni peccheri di sciampagna e di bordò, si ridono degli imbecilli che credono
alle parole ed alle smorfie loro. Uno di costoro diceva un giorno a me: "oh! que la douleur
est une chose sublime ! „ Io lo guardai in viso, ei guardò me, io risi ed ei rise e così finì. Ora,
a questi giorni predica la quaresima nella chiesa di Nostra Donna di Parigi un prete per nom
Lacordaire, grande propagatore, non senza eloquenza e mistico e squisito apologista del dolore.
Giovane di trent'anni circa, di complessione debole, di viso pallido e magro (il paragonano a
San Giovanni nel deserto) alletta moltissima gente a sentirlo. Havvi un concorso infinito ; le
donne in ascoltarlo piangono di tenerezza, si spasimano e fanno giaculatorie ; i giovani il por-
tano in trionfo dopo la predica dal pulpito in sagrestia e crederebbero commettere un grave
peccato se non andassero alla sua messa, cui dice nella chiesa del Carmine, in quella chiesa
appunto dove nel 1793 il popolazzo fece quella crudele carneficina di preti. Costui fu seguace
un tempo di quel prete birbante di L ; poi si ritrattò dal pulpito in pubblico, il che fa un
poco di Fénelon. Ma non dismise perciò l'ambizione e col dare alla religione cattolica un colore
ch'ella non ha mai avuto ed avere non può, cerca a far setta e la fa. L'arcivescovo di Parigi
e parecchi vescovi assistono assiduamente alle sue prediche ; non so che pensino. So bene ciò
che ne pensa Monsignor Dupont, di nazione savoiardo, già vescovo di Diez ed ora se non m'in-
ganno arcivescovo di Avignone, il quale mi disse che la religione bandita da questa setta, non
è già la religione di Cristo, ma una corruzione tanto più pericolosa, quanto è più lusinghiera,
perchè volge al misticismo ed alle passioni mondane. Essa è il sistema cominciato, or son più
di trent'anni, dal Chateaubriand col suo libraccio intitolato " Le Genie du Christianisme „, poi
continuato da molti e finalmente proclamato ('?) dal Lamartine. Cercano costoro di dare forma
di poesia al cristianesimo cioè poetizzarlo com'essi dicono ».
Lett. a St. Marchisio, 14 marzo 1836. — Ined.
PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO (ilANNONE
MEMOEIA
DELLA
Prof.a MARIA BEGEY
Approvata nell'adunanza del W Aprili: 1903.
Verso la metà del secolo scorso Pasquale Stanislao Mancini, venuto esule in
Piemonte, intraprendeva la pubblicazione di quelle opere del Giannone che giacevano
inedite nel nostro Archivio di Stato, nell'intento di rendere alla memoria dell'infelice
suo compatriota un tributo di ammirazione, e farne conoscere tutto il pensiero.
La sua fatica rimase incompiuta; soltanto i Discorsi sulle Deche di Tito Livio e
la Storia del Pontificato di Gregorio Magno videro la luce. L' Autobiografia non fu pub-
blicata che nel 1890 dal Pierantoni che continuando le tradizioni e l'opera dell'illustre
suo Maestro, tanto contribuì a richiamare l'attenzione degli Italiani su Pietro Gian-
none. Ma un'altra opera di cui non s'erano fatte che poche bozze delle prime pagine
rimase quasi ignorata nell'Archivio.
Non un vano desiderio di erudizione mi muove alla dura fatica di decifrare i
fitti, sbiaditi caratteri che coprono le cinquecento grandi pagine del manoscritto
Apologia dei Teologi scolastici; ma il convincimento che se un'opera ha tanto mag-
giore importanza quanto meglio serve a segnare la evoluzione del pensiero dell'autore,
questa, composta verso il 1739, nel Castello di Ceva, e dedicata a quel Padre Prever
stesso che si era occupato della sua conversione, ha un valore massimo, perchè serve
a chiarire il punto più controverso della vita del Giannone, quello della sua abiura.
I.
La notte del 24 marzo 1736 Pietro Giannone, insigne giureconsulto napoletano,
che aveva dovuto fuggire dalla patria per le persecuzioni ecclesiastiche dopo la pub-
blicazione della Storia Civile del Regno di Napoli, andando ramingo a Vienna, Venezia
e Milano, veniva strappato col più nero tradimento dalla bella Ginevra, che gli aveva
finalmente dato, coi dovuti onori, la lusinga di una calma, operosa vecchiaia.
Quando l'arresto fu compiuto a nome di S. M. il Re di Sardegna, Carlo Ema-
nuele III, e la notizia ne giunse a Torino, non pure la città, ma la Corte stessa
ignorava chi fosse il prigioniero, e quale il motivo del suo arresto.
182 MAEIA BEGEY 2
Il Marchese d'Ormea, da cui partiva l'ordine, serbava il più assoluto silenzio.
Correva voce (e il Conte di Provana ne scriveva al Conte di Rivera) che la Storia
Civile " détruisoit la religion de fond en comble „ e girava fra gli uomini colti una
critica anonima della Storia Civile, critica che il Provana stesso non si peritava di
qualificare per:' " le plus mauvais livre qui ait jamais paru „ (1). Del resto, nessuno in
Piemonte discuteva gli atti del Re, e l'opinione prevalente era che i delitti di Stato
si puniscono e non si rivelano.
Ma lo stesso Marchese d'Ormea sapeva su Pietro Giannone poco più di quanto
la Corte Pontificia glie ne aveva fatto conoscere per mezzo del Cardinale Albani.
L'eretico autore della Storia Civile non rappresentava per lui che il pegno perchè il
concordato convenuto con Papa Benedetto XIII fosse accettato anche dal suo suc-
cessore, con vantaggio del Piemonte. Già fin dall'ottobre dell'anno precedente il Car-
dinale Albani, protettore dei Regii Stati, aveva ottenuto dal D'Ormea la promessa
che il Giannone, sfrattato da Venezia, non avrebbe potuto soggiornare in Piemonte.
Ora si trattava di concedere favori e di venire a patti; e l'Albani poteva preten-
dere di più. Insinuò dapprima velatamente, e poi in modo aperto, la necessità del-
l'arresto del Giannone, e l'Ormea ne impartiva l'ordine al Governatore della Savoia
Conte Picon, che lo faceva compiere dallo sgherro Gastaldi. E sarebbe stato pronto
a dare il prigioniero " legato al Papa, fin dentro Roma „ (2) se il Re di Sardegna non
vi si fosse risolutamente opposto.
La Corte di Roma, informata privatamente delle intenzioni del Re, manifestò il
desiderio, che, almeno, il Giannone fosse tenuto perpetuamente in carcere, e che la
Inquisizione lo processasse. Ma il Re aveva già provveduto (scrisse il d'Ormea al-
l'Albani) " a spedire appresso a esso un religioso di probità e dottrina esemplare da
cui s'impiegherà ogni diligenza possibile per ottenere il suo ravvedimento, e. se saia
possibile, una ritrattazione dei suoi scritti „ (3).
Cosi accadde che il Giannone, dopo un soggiorno a Chambéry e al forte di
Miolans, fu nel settembre del 1737 tradotto nelle carceri di Porta Po a Torino.
Quivi conobbe il Padre Prever ed ebbe con lui alcuni colloquii importantissimi nella
storia della sua vita. Il religioso lo persuase ad abiurare, il che egli fece dinnanzi
al Vicario Generale del Sant'Uffizio di Torino, il 4 aprile 1738.
Passato nel giugno al forte di Ceva, Pietro Giannone vi rimase sei anni, dopo
i quali fu ricondotto a Torino nella Cittadella; ove morì il 17 febbraio 1748.
Questi i fatti, nella loro cruda verità. I documenti raccolti nei nostri Archivi,
l'Autobiografia, le lettere ed alcune memorie scritte dal Giannone, ci permettono di
seguire passo a passo la storia dei suoi dodici anni di prigionia, ma non bastano a
conoscere la storia intima dell'anima sua. Vista attraverso le scritture ufficiali la
vita del Giannone ci appare divisa in due periodi distinti : nell'uno egli è il ribelle
che lotta contro la supremazia ecclesiastica scuotendone dapprima la base politica,
e poi persino la base religiosa. Nell'altro è il pentito che si umilia dinnanzi all'hi-
fi) Manoscritti del Giannone, mazzo UT. Lettera del Conte di Provana al Conte di Rivera,
9 maggio 1736.
(2) Lettere del D'Ormea, 1° maggio 1736.
(3) Lettere del D'Ormea.
3 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 18ù
quisizione, chiede perdono, ringrazia di essere stato tolto ai pericoli in cui prima
versava, abiura le sue credenze, e scrive un libro dedicato a quel Padre Prever che
lo aveva convertito. In mezzo a questo, una serie di contraddizioni che i biografi
spiegano in modo diverso, appoggiandosi all'affinità o alla divergenza delle proprie
idee con quelle del Giannone; e una questione dibattuta, ardente: la sincerità della
sua abiura.
Io credo che per risolvere una tale questione, non basti servirsi di documenti
o di deduzioni logiche come si è fatto dal più al meno finora; che, se le lettere e
le suppliche, come l'abiura stessa, possono, perchè voluti dalle circostanze, non essere
la espressione sincera dell'animo dello storico napoletano, le deduzioni logiche hanno
bisogno di essere avvalorate dallo studio di quanto fu nel carcere la manifestazione
spontanea del pensiero suo: dalle opere cioè, e particolarmente da quella che egli
scrisse a prova della sua conversione:
Apologia dei Teologi scolastici, ovvero avvertenza che dee aversi nel leggere i Padri
antichi. Dedicata al Molto Reverendo Padre Gio. Battista Prever, Sacerdote della Con-
gregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri in Torino.
Che cosa rappresenta quest'opera nella storia del pensiero del suo Autore?
Anzitutto: quali i sentimenti e le idee del Giannone prima della sua abiura?
Pietro Giannone, venuto a diciotto anni a Napoli, solo e povero, munito di poche
raccomandazioni e di una cultura filosofica scolastica, si era trovato presso un dot-
tore ignorante che doveva insegnargli la legge. Ma il suo ingegno mal si appagava
di una vita intellettuale così ristretta ; la conoscenza col dotto sacerdote Spinelli fu
il mezzo per cui egli venne a frequentare gli uomini più illustri per scienza e dot-
trina che si trovassero allora in Napoli. Da questi egli fu indirizzato agli studi.
Napoli era allora di tutte le città d'Italia quella in cui ferveva una maggior
vita di pensiero. Soggetta alla sovranità pontificia, ne scuoteva ribelle il giogo, e le
questioni di diritto nelle relazioni fra il Regno e la Chiesa, erano dibattute con ac-
canimento. Il popolo stava ancora totalmente sottomesso; ma come sempre avviene,
i grandi ingegni precorrendo i tempi aspiravano all'indipendenza, e si valevano con
tutta la loro tenacia dei pochi mezzi di cui potevano disporre. Gli studi di diritto
canonico erano fiorenti ; frequentissime le liti fra le congregazioni religiose e le au-
torità civili o le corporazioni di cittadini, e ogni vittoria, come ogni sconfitta, pren-
deva un'importanza massima perchè pareva vittoria o sconfitta di quel potere regio
la cui indipendenza dall'ecclesiastico i napoletani difendevano strenuamente.
" Oh noi sappiamo intendere come nella muta servitù palpitassero i cuori dei
nostri padri a queste contese, a queste vittorie „ (1). Così Luigi Settembrini che cre-
sciuto nella servitù di quel potere regio dai suoi padri difeso, intuiva l'odio profondo
delle anime napoletane contro gli oppressori e il dolore, l'onta della sottomissione.
(1) Settembrini, Lezioni di Letteratura Italiana. Napoli, Morano, 1884, voi. Ili, pag. 13.
184 MARIA BEM.Y 4
Erano a Napoli sulla fine del seicento i più insigni giureconsulti di quei tempi :
Francesco d'Andrea, l'Aulisio, l'Argento, il Capasso, il Biscardi, il Gravina, il Con-
forti ; tutti uniti nel sostenere gli stessi principii. Il Metastasio che visse alcun tempo
fra loro li chiamò: " ardente falange antivaticana „ (1).
E in mezzo a questa falange si formò la mente di Pietro Giannone. Egli stesso
ci fa seguire tutta la strada percorsa dal suo pensiero. Coll'avida sete di apprendere
si pose agli studi senza un piano determinato. La giurisprudenza lo portò alla storia;
la storia alla filosofia; il campo del sapere si allargò dinanzi a lui coi suoi vasti
orizzonti. Ma l'animo suo ardeva di quella passione civile onde avvampavano tutti
gli insigni suoi contemporanei; sì che nella filosofia non approfondì molto le idee
del Gassendi ne quelle del Cartesio, che prese a studiare di poi ; e nella storia, come
nella giurisprudenza, una questione lo appassionò sopra ogni altra: le origini del
diritto civile e canonico della sua Napoli.
Seguendo le norme del suo maestro Aulisio, egli non indugiò negli studi delle
origini del diritto romano, ma cercò attraverso la storia civile ed ecclesiastica dei
tempi del Basso Impero e del Medio Evo, come grado grado il potere ecclesiastico
si fosse formato. Studio noioso ed arduo, come il Giannone stesso confessa; ma a
cui egli si accinse volenteroso, stimandolo necessario " non solo per lo rapporto che
avevano coi nostri ultimi tempi, per ben intendere la costituzione delle cose, ma
perchè il corso di tanti secoli, quanti sono da Costantino Magno fino a noi, aveva
recato mutazioni così stupende, introdotto costumi così strani, ed altre cose porten-
tose; che parea che il genere umano stesso si fosse tutto cambiato; e gli uomini fino
nel pensare, nei loro discorsi e raziocinii e giudizii non pur nei costumi fossero tut-
t'altro da quello che prima furono ,, (2).
Non lo distrassero dal suo studio le cause che andava trattando per la sua pro-
fessione d'avvocato (una di queste particolarmente ricordata dal Giannone fu la difesa
dei cittadini di San Pietro in Lama contro le pretese accampate dal Vescovo di
Lecce) ; e accadde anzi, che egli venisse spinto ad approfondire i suoi studi predi-
letti da un nuovo fatto.
Nelle riunioni di giureconsulti a cui conveniva sì spesso Pietro Giannone, era
costume che si trattassero questioni di diritto ora dall'uno, ora dall'altro dei dottori.
Toccò al Giannone l'argomento della Storia legale dei tempi bassi; ed egli imprese a
svolgerlo ; ma nel progresso del suo lavoro venne a conoscere che non poteva esat-
tamente capirsi l'istoria delle leggi se non accoppiandola allo studio della storia civile
" per sapere gli autori, le occasioni, il fine, l'uso e l'intelligenza che si era lor data.
e per conoscere i varii stati e cangiamenti e costituzioni delle cose che diedero causa
a tanti varii e molteplici cangiamenti „ (3). Intimorito dapprima dalla vastità del
campo, lo incuorò il conforto degli amici, e, egli aggiunge, " la mia ardente
brama „ (4).
Così si accinse a scrivere la Storia Cirile, che gli costò venti anni di lavoro.
(1) Metastasio, Lettere.
(2) Autobiografia, pag. 21.
(3) Ivi, pag. 42.
(4) Ivi, pag. 45.
5 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 185
Sperava il Giannone che le ragioni laiche da lui dimostrate sì chiaramente
avrebbero trionfato delle ecclesiastiche. L'aver aiutato l'Argento in uno studio sulla
materia beneficiaria per una lite contro la Corte di Roma, l'aveva spronato sempre
più nella sua via " perchè riputava, trattando di quelle contese, di poter porre in
più chiara luce i confini che si era procurato di confondere tra l'imperio ed il sa-
cerdozio ., (1).
I primi quattro volumi dell'opera furono stampati quasi segretamente da Nic-
colò Naso, col solo permesso dell'autorità civile; e il Giannone fece sì che a revisore
fosse chiamato il Capasso.
La Storia Civile del Regno di Napoli uscì nel 1723. Altamente lodata dagli amici
dell'Autore, avvilita dai nemici che lo calunniavano, essa apparve ai ribelli come alla
Corte di Roma nel suo vero aspetto: non storia, ma rivendicazione dell'indipendenza
napoletana dal Pontefice. Gaetano Argento disse al Giannone: " Voi vi siete messo
in capo una corona, ma di spine! „. La Curia intuì subito il pericolo dell'opera, e
la condannò, spargendo in pari tempo la voce che egli avesse negato in essa il mi-
racolo di San Gennaro. Questo fatto suscitò contro di lui il furore popolare, sì che
dopo esserne scampato più volte e quasi per miracolo, Pietro Giannone dovette in-
dursi alla fuga; e il 20 Aprile 1723 partì da Napoli per Vienna.
Fu al suo giungere colà ai primi di giugno che egli seppe la Storia Civile proi-
bita dal Sant'Ufficio di Roma : " ut haeresim et minimum sapientes „ . Si tentò con
ogni mezzo dai suoi amici di avere la lista delle proposizioni erronee in essa con-
dannate, ma invano. Esse non furono ritrovate che un secolo dopo dal Mancini, e
pubblicate dal Pierantoni.
Basterebbe la sola lettura di queste proposizioni, se già non lo avesse dimostrato
il Giannone stesso in tutta la prima parte della sua Autobiografia, per convincere
del valore della Storia Civile. I passi condannati riguardano, nella massima parte,
l'ingerenza di Roma nella politica del Regno, e l'invalidità delle scomuniche e dei
tribunali della Inquisizione. Pochissimi sono quelli che trattano di materia religiosa.
L'opera sua è essenzialmente storico-legale, come lo dimostra anche il carattere
delle sue difese. Proibiscono il suo libro? ed egli stende il Trattato dei rimedi contro
le proibizioni dei libri che si decretano in Roma, e della podestà dei principi in non farle
valere nei loro Stati. La validità del " cedolone „ è annullata non .pel fatto che
lo si accusa di cose false, ma perchè Roma non ha il diritto di lanciarne alle opere
permesse dal Viceré. Si contesta la verità di alcune sue asserzioni? Risponde con
una memoria d'indole assolutamente storica per sostenerle. Il solo sfogo dell'animo
suo è la " professione di fede „ in risposta al gesuita P. Sanfelice, mordace ironia
che distrugge le contumelie e le falsità di cui era pieno il libro dell'avversario, ma
che egli non voleva stampata per opporre ai libelli di Roma solo " una modesta ri-
serva anche nelle difese „.
In Vienna, sì per effetto delle persecuzioni, sì perchè per natura sua il Giannone
era alieno da qualsiasi intrigo, campò con poco soccorso, conducendo vita ritirata.
L'influsso della città cosmopolita su di lui fu notata da tutti i critici moderni; il
(1) Autobiografìa, pag. 53.
Seuik II. Tom. LUI. 24
186 MARIA BEGEY 0
Ferrari specialmente ne parla a lungo (1), e dice come trovandosi nella città che era
allora il centro dell'Europa (perchè a capo di una confederazione di popoli diversi
per forma di governo e per religione), amico degli uomini più illustri, Pietro Gian-
none fosse portato agli studi filosofici.
Ma io credo di poter affermare sulla scorta di quanto egli stesso scrisse nella
sua Autobiografia, e per lo studio delle Opere sue, che se molto poterono su di lui
e il luogo, e le conversazioni, e le letture, egli dovette l'opera sua maggiore, il Tri-
regno, alla naturale evoluzione del suo pensiero, tratto alla meditazione, quando la
vita attiva non gli fu più possibile.
Difatti nei primi tempi egli si occupò di questioni storiche, legali, e letterarie
financo, e le scritture da lui composte fra il 1723 e il 1731, nel periodo cioè in cui
egli fu maggiormente a contatto colla società di Vienna, sono le sue difese, la Me-
moria sul Tribunale della Monarchia in Sicilia, quella Sui consigli e dicasterii della
città di Vienna, e una illustrazione di una celebre moneta d'oro di Re Luigi XII;
tutte, e pel soggetto e pel modo con cui sono svolte, si rannodano strettamente alla
Storia Civile. Delle difese ho parlato più innanzi; le due memorie sui due Tribunali
di Sicilia e di Vienna sostengono per l'appunto la causa regia contro l'ingerenza ec-
clesiastica, e il lavoro storico prova che il Re francese aveva fatto coniare la me-
daglia col motto : " Perdam Babilonis nomen „ — per " minacciar Roma e per rin-
tuzzare l'ardire e l'orgoglio di Papa Giulio II „ (2).
Finora dunque tutte le sue opere hanno un ugual valore psicologico, e caratte-
rizzano la prima fase di sviluppo del suo pensiero: la ribellione alla potestà della
Chiesa, essenzialmente nel campo politico.
Ma più tardi, nell'estate del 1731 deluso nella speranza di ottenere un posto
negli uffici viennesi, sdegnato per tutti gli intrighi che dominavano nella città, per
opera specialmente degli Spagnuoli, scoraggiato e stanco della forzata inazione, ri-
solve di tornare agli studi aspettando giorni migliori. La questione a cui ha dedicato
tanta parte della sua vita è oramai chiaramente risolta; egli lascia dunque gli studi
storici del basso impero, del medio-evo e dell'evo moderno; e naturalmente il suo
pensiero si riporta a tempi anteriori. Volendo conoscere sé medesimo e la condizione
umana, riprende gli studi filosofici; ma li accoppia con quelli storici.
Egli stesso ci dà il suo piano: " investigare più dappresso la fabbrica di questo
mondo e degli antichi abitatori: dell'uomo, della sua condizione e fine; e quanto sopra
la terra fossesi col suo discorso e riflessione avanzato sopra tutto il mortai genere
e avesse dato principio alla società civile onde sorsero le città e i Regni, il culto e
le Repubbliche lasciando la vita silvestre e ferale agli altri animali, ai quali non fu
concesso tanto acume, industria e intelletto da potersene spogliare „ (3).
Cosi si inizia una seconda fase della sua vita intellettuale, e frutto delle sue
fatiche è il Triregno. Il Giannone giunge con quest'opera alla piena maturità, al com-
piuto sviluppo del suo ingegno ; e benché non finita, e quindi anche imperfetta nella
forma, essa serve a rivelarci tutto il suo credo politico, filosofico e religioso:
(1) Giuseppe Ferrari, La mente di 'Pietro Giannone.
(2) Autobiografia.
(3) Autobiografia, pag. 149.
7 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 187
Meditato e scritto dopo la lettura dei libri sacri e di opere storiche di tempi e
di popoli diversi, appoggiato alle opinioni filosofiche che il Giannone si era formate
leggendo il Gassendi, il Triregno ha per concetto fondamentale lo svolgersi attra-
verso ai secoli della finalità umana: dell'ideale cioè della vita e della felicità.
Presso i popoli antichi, come attestano tutti gli scrittori da Mosè a Tacito, se
fu diversa l'opinione circa l'origine del mondo e dell'uomo, si riscontra però che il
" regno terreno „, la felicità mondana era per tutti il fine della vita; sì che le be-
nedizioni e le miserie della terra apparivano come il bene ed il male; e male su-
premo era la morte riguardata come un perpetuo profondo sonno. Col progresso dei
secoli però, questo primo periodo (che il Giannone, accordandosi coi padri della Chiesa,
e particolarmente con S. Agostino, chiama: " epoca di natura „) una seconda epoca
giunge. Disceso Cristo sulla terra per redimervi gli uomini, col soffio divino della
più pura morale, portò l'idealità nuova : la promessa del regno celeste, della vita
d'oltre tomba, dove trovano felicità i buoni, castigo i malvagi.
Ma la semplice religione ispirata all'amore, alla eguaglianza, e con pochi riti,
si va trasformando. Con Costantino Magno s'inizia la potenza temporale ecclesiastica,
che va sempre crescendo, sinché un terzo regno, ignoto agli antichi, il " regno papale „
si stabilisce ravvicinando la religione cristiana alla pagana nella molteplicità di
riti grandiosi, ed estendendo il suo dominio non pur sulle coscienze, ma sulle nazioni
e sui regni.
Il Triregno, variamente studiato, fu detto opera di filosofìa, di storia, di filosofia
storica. Ma io credo che il darne un giudizio sia cosa molto difficile e se non è giusta
l'opinione di Giuseppe Ferrari, come dimostrò il Mariano (1), che esso preluda i Prin-
cipi di scienza nuova, non lo è totalmente, parmi, neppure quella del Pierantoni (2)
che lo dice opera di storia ecclesiastica. Il Giannone appartenne al secolo che fondò
la filosofia della storia, appartenne a quel periodo che Edgard Quinet (3) caratterizza
così bene, in cui le monti umane, non più appagate dal pittoresco racconto delle vi-
cissitudini dei popoli, cercano di collegarle fra loro, e di scoprire le leggi che le
governano. Pietro Giannone tenta pel primo di riunire la storia di popoli diversi
subordinandola allo svolgimento di un concetto; fu dunque il primo passo verso la
filosofia della storia, ma senza giungervi.
Egli non sa assorgere come il Vico, scoprendo nella storia, con un volo potente
dell'intelletto, le leggi che regolano l'ascensione dei popoli verso la civiltà; che il
suo spirito di giureconsulto e di storico paziente non ha le larghe vedute del filosofo.
E troppo egli è preso dalle idee materialistiche del Gassendi, troppo gli arde nel-
l'anima l'antica ribellione, per riconoscere, in tutti i fatti che ha radunati, una legge
benefica che scoprirà invece Giovanni Federico Herder.
L'opera del Giannone prelude piuttosto, parmi, quella dell'Herder che quella del
Vico; se non nel pensiero filosofico essi si avvicinano in una certa maniera di con-
(1) Mariano, Giannone e Vico, * Rivista Contemporanea „, maggio 1869 (recensione del libro del
Ferrari: La mente di Pietro Giannone).
(2) Pikrantoni, Prefazione al Triregno. Roma, 1895.
(3) Edgard Quinet, Prefazione alla traduzione francese del libro di G. P. Herder : Idées pour une
philosophie de l'histoire de l'humanité.
188 MARIA BEGEY 8
siderare e l'aggruppare i fatti storici. Anche l'Herder (che il Triregno non potè cono-
scere) seguì il cammino delle idealità umane, e notò nello svolgersi del Cristianesimo
le caratteristiche già segnate da Pietro Giannone.
Tutti i Libri XVI1-XIX delle Idee per una filosofia della storia dell'umanità rac-
chiudono in breve ciò che il Giannone ba dimostrato nei due grandi volumi del
Regno Celeste e del Regno Papale; l'origine elevatissima del Cristianesimo, i pochi sem-
plici riti, lo scopo del Cristianesimo di fondare il Regno dei cieli; e poi l'ingrandirsi
della potenza ecclesiastica e il formarsi della gerarchia. Se non che il teologo tedesco
scrivendo serenamente in un libero paese protestante, tenne conto di ogni fatto come
di ogni progresso. Filosofo profondamente religioso, egli, attraverso alla corruzione
dei costumi, nel dispotismo della Chiesa " che aveva spento la libertà del pensiero
immolandolo sotto le folgori della gerarchia, che aveva incatenato e spento l'entu-
siasmo, che aveva fatto persin mettere all'incanto il regno di Dio „ (1), riconobbe
un impedimento all'imbarbarirsi dell'Europa, e poi un germe di lotta largamente fe-
condo di bene, perchè portò un risultato inatteso per la Chiesa come per i ribelli:
l'attività rinascente dell'umanità.
Pietro Giannone non poteva giungere a questo. Egli apparteneva al periodo di
lotta, vi prendeva parte attiva e il suo libro stesso era un combattimento. La ribel-
lione incominciata colla Storia Civile si compiè col Triregno, in cui l'autorità tempo-
rale della Chiesa non solo, ma tanta parte della spirituale viene scossa, abbattuta.
L'animo tutto occupato dalla passione politica, strettamente attaccato ai suoi
principi filosofici, Pietro Giannone non sentì che in quell'affinità di credenze di tutti
i popoli, vi era la rivelazione dell'anima umana che si manifesta eguale attraverso
ai secoli ; non riconobbe che in mezzo ai cambiamenti e anche agli errori si compieva
il cammino dell'umanità verso un ideale religioso più perfetto; non comprese che
anche dopo " l'epoca di natura „ gli uomini erano ancora rozzi, che la parola divina
doveva penetrare poco a poco le coscienze, ed elevarvi ogni sentimento, e che ai
tempi di barbarie la forza stessa può essere legge di progresso, come lo è, delle
epoche più civili, l'amore.
Noi, pur notandolo, non glie ne faremo una colpa troppo grave. L'opera, oggetto
di tante discussioni, e per le verità e per gli errori che contiene, è quale ce la po-
tevano dare egli ed i suoi tempi.
La sua convinzione politica della indipendenza del potere regio dall'ecclesiastico
si ribadisce nel Triregno; fra i tanti fatti che lo studio di cento volumi gli ha of-
ferto, quelli che egli sceglie e raggruppa sono tali da provare il suo principio pre-
diletto. In filosofia è fedele al Gassendi: del Cartesio egli non ha ammirato, e forse
compreso, che il Trattato delle Passioni. E lo si spiega : il Gassendi doveva appagare
il Giannone che certo ritrovava in lui delle affinità di pensiero, d'anima. — Il filo-
sofo che iniziò la sua carriera con la lotta contro l'aristotelismo doveva affascinare
chi tanto detestava la filosofia scolastica appresa nell'adolescenza; quel metodo di
ricerca fondato unicamente sull'esperienza rispondeva alle sue idee meglio di ogni
altro. Perchè il Giannone fu assai più avvocato che pensatore; i fatti lo convinsero
(1) Cfr. Herdeh, Ideen zur Philosophie der Gezchichte der Menschheit.
9 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 189
sempre assai meglio delle speculazioni. Eppoi il Gassendi, spesso, nella veemenza delle
discussioni, nei suoi scritti giovanili, trapassava il segno ; e il Giannone aveva per
comprenderlo un'ardente, appassionata natura di meridionale.
La sua fede religiosa sgorga essenzialmente dalle idee filosofiche e politiche.
Il Giannone crede in Cristo e nella sua parola, e accetta tutto ciò che il Cristo ha fon-
dato. Così egli si inchina alla morale cristiana, ritiene come dogma il Battesimo e la
Cena; ritiene vera l'idea della Risurrezione dei morti all'ultimo giorno. Tutto il resto
10 dà per affare di disciplina ecclesiastica; e se accetta la Confessione in cui vede
rivivere l'antico uso ebraico di andare dai sacerdoti quando si era mondati dalla
lebbra, si ribella però categoricamente a tutto ciò che tende a legare le coscienze o
a frapporsi fra la coscienza e Dio.
Non solo nel Triregno, ma anche nell'Autobiografia egli ribatte più volt* su questo
concetto. Delineando quella soave figura di donna che gli addolcì colla sua bontà gli
anni di Vienna, Ernestina di Leichshoffen, egli pone fra i suoi maggiori elogi il se-
guente : " Riponeva in Dio ogni sua fiducia, ed in Gesù Cristo come unico e solo me-
diatore fra Dio e gli uomini „ (1). Si ribella pure all'idea che i morti raggiungano
tosto il premio o la pena eterna, poiché nell'anticipazione del regno celeste, fatta,
egli dice, d'arbitrio della Chiesa, vede il germe del regno papale che tanto detesta.
Segue invece il concetto che dopo la morte, quando il corpo si dissolve, l'anima si
confonda nella gran massa dello spirito onde s'animano tutte le cose; e che nel giorno
finale Dio la richiami dalla gran massa dandole un corpo che avrà forma e figura
di quello che un tempo ebbe.
Il Triregno, si vede dunque, è, anche incompiuto, l'opera più importante nella
vita di Pietro Giannone. Gli studi e le opere precedenti lo hanno preparato; e ve-
dremo come ad esso strettamente si rannodino tutto le opere che scriverà dal carcere.
Che già si avvicinavano gli anni più dolorosi. Nel 1734, cresciuti in Vienna gli
intrighi, per opera degli Spagnuoli, il Giannone perdette anche il suo modesto sus-
sidio, e dovette partirsene. Andò a Venezia e vi dimorò qualche tempo, dapprima
veduto un po' come sospetto per le calunnie sparse ad arte dai suoi nemici; poi,
quando per la bontà del Senatore Pisani già incominciava a fare vita tranquilla, fu,
per le mene dei Gesuiti, sfrattato con violenza, nel cuore della notte.
Andò a Milano, da cui scrisse, offrendo i suoi servigi, alla Corte di Torino, ma
ebbe, invece della risposta, l'ordine del Capitano Generale di partire immantinenti
dalla città. Egli traversò allora i Regii Stati, pernottò a Torino sotto finto nome,
e andò finalmente a Ginevra.
Là fu accolto colla larghezza e colla cortesia proprie di un paese libero ; conobbe
i principali uomini della città, per mezzo del libraio Bousquet, l'editore che doveva
stampargli gli ultimi volumi della Storia Civile. Là egli credeva di poter finire la vita
lavorando serenamente. Ma per sventura le sue previsioni non dovevano avverarsi.
La Pasqua si avvicinava. Il Giannone, che manifestava la sua fede religiosa (qua-
lunque essa fosse non importa) anche nella sua vita, pensava di soddisfare al precetto
cristiano. Ne è a meravigliarsene: poiché, se molto in lui poteva il desiderio di non
singolarizzarsi mai, è pur anche vero che egli stesso scriveva di aver indirizzato i
(1) Autobiografìa, pag. 186.
190 MARIA BEGEY LO
suoi studi di Vienna " unicamente pei- essere di norma nella credenza come nei costumi
nel suo essere d'uomo interiore „ (1), né trascurò mai le pratiche religiose.
Egli aveva protestato contro i riti della Chiesa per ragioni politiche; ma in
fondo il culto esterno esercitava un certo fascino sulla sua natura di meridionale e
se detestava le questioni teologiche sentiva però lo spirito del Vangelo. Egli stesso
narra che avendo avuto curiosità di visitare i templi dei Protestanti e di udire
qualche loro sermone, li vide " vacui, nudi, che ispiravano malinconia e si stupì che
le lor prediche non fossero che invettive contro la Corte di Roma „. E disse allora
(sono parole sue) " al savio e discreto Turrettino, che entrato era nei loro templi e
trovati li aveva peggiori delle moschee dei Maomettani, poiché nelle loro mura, se
non son figure umane, almanco son dipinture d'alberi ed animali. Onde tanta avver-
sione per le immagini le quali per se stesse sono innocenti e tali da potersene trarre
buon uso, o almanco son cose indifferenti? ,,
• Xè potei contenermi benanco dal manifestar loro il desiderio che le lor
prediche e sermoni si fosser rimaste a sole invettive, ma avesser inculcato ciò di cui
il paese ha bisogno; la dilezione del prossimo, la pace fra i cittadini l'astenersi
infine da altri vizi e rilassamenti, imperocché il fondamento della religione cristiana,
sono la mondezza e la integrità di vita e la sincerità degli atti „ (2).
I suoi nemici si valsero della sua obbedienza al precetto della Chiesa per impa-
dronirsi di lui, e il modo con cui si tradì Pietro Giannone sarà ricordato con per-
petua infamia.
Un doganiere piemontese del villaggio di Vesnà, Giuseppe Gastaldi, introdottosi
nella famiglia Chéne'vé presso cui abitava il Giannone, lo colmò di cortesie, di affet-
tuose proteste di amicizia. Stupì il Giannone di sì improvviso affetto in una persona
illetterata; ma nell'anima sua leale dileguò tosto ogni sospetto che potè nascervi.
II Gastaldi con frequenti istanze aveva più volte pregato lo storico di recarsi
alla sua casa, ma non avendo questi ancor potuto accettare l'invito, il Gastaldi lo
pregò di recarsi da lui a passare la Pasqua, sì che il Giannone, che aveva manife-
stato il desiderio di adempiere il precetto, avrebbe potuto soddisfarvi più comoda-
mente che nell'unica chiesetta cattolica di Ginevra. Le feste si sarebbero passate poi
lietamente insieme.
Andò difatti a prenderlo in una barca la vigilia della Domenica delle palme e
lo condusse sul territorio piemontese, a casa propria. Era col Giannone anche suo
figlio, che l'aveva raggiunto fin da quando egli era a Venezia: entrambi pranzarono
tranquillamente col Chénévé e col proprio ospite, mentre questi protestava la sua gioia
per avere nella sua casa un sì illustre scrittore. Ma quando giunse la notte e il
Giannone e suo figlio furono ritirati nella propria camera, un gruppo d'uomini armati
di forche, di lancie e di lunghi spiedi, irruppe nella stanza guidati dal Gastaldi stesso,
urlando che il Giannone doveva essere arrestato, perchè tale era l'ordine del Re e
del Papa.
L'infelicissimo storico napoletano era alfine preso col tradimento.
Questo fatto accadeva la notte del 24 marzo 1736.
(1) Autobiografia, pag. 176.
a sotto il Pontificato di Gregorio Magno, p. 117.
11 PER UN'oPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 191
III.
L'arresto di Pietro Giannone non segna soltanto il principio degli anni più do-
lorosi ; divide pur anche lo svolgersi del suo pensiero per cui comincia nel carcere
una nuova vita. Finora, leggendo e studiando libero in mezzo alla società lo spirito
suo ha progredito per quella via che meglio era conforme alla sua natura ed ai suoi
tempi. Ma ora Pietro Giannone è segregato dagli uomini, i suoi libri e le sue carte
cadono nelle mani dei suoi nemici, ottenute anch'esse coll'astuzia e col tradimento;
solo dopo tante angosciose suppliche egli riuscirà ad avere qualche volume suo, e
qualcuno prestatogli dalla Biblioteca di Torino per la pietà del Marchese d' Ormea.
Costretto all'ozio, che dopo una vita di sì intenso lavoro intellettuale doveva riuscirgli
insopportabile, egli si rivolge meditando al suo passato; non produce più nulla di
nuovo, le opere che va componendo parlano della sua vita e portano l'impronta degli
studi anteriori.
Nel forte di Miolans in cui era stato tradotto dopo undici giorni di dimora a
Chambéry, e dove, dalla bontà del Comandante, il Cavaliere Leblanc, ebbe non solo
cure materiali, ma conforto morale, il Giannone scrisse la sua Autobiografia : " Prendo
a scrivere la mia vita e quanto siami accaduto nella medesima (dice egli stesso) non
già perchè io presuma di proporre ai lettori per esempio da imitare, le virtù forse
da me esercitate, e per sfuggire i vizi dai quali fui contaminato, ovvero perchè con-
tenesse fatti egregi e memorandi, e fuor del corso ordinario delle umane cose ado-
perate Prendo a scriverla ritrovandomi fra le angustie di un castello dove, privo
di ogni umano commercio traggo miseramente i miei giorni, e dubitando per la mia
età cadente che non dovessi quivi finirla, per alleggerire in parte la noia e il tedio
e perchè sento avvicinarmi al fine, rivolgendo nella mente tutte le mie passate gesta,
posso ritrarre conforto dalle buone e pentimento dalle ree Ma sopratutto prendo
a scriverla perchè sia agli altri di documento e spezialmente agli uomini probi, ed
onesti ed amanti del vero, quanto sia per essi dura e malagevole la strada che avran
da calcare per passare la loro vita in questo mondo liberi e sicuri fra la turba di
gente improba ed infedele e tra l'infinito numero di sciocchi e di malvagi, massima-
mente a chi avrà sortito la disgrazia di nascere sotto grave e pesante cielo, in un
terreno servo e soggetto e ferace di pungenti spine e d'inestricabili pruni e triboli ;
e molto più in questi tempi nei quali, spento ogni raggio di virtù, sembra che l'invida
maldicenza, l'ambizione, l'avidità delle ricchezze e degli onori, l'avarizia e tutte le
umane scelleratezze abbiano date le ultime prove „ (1).
E il racconto si estende dalla nascita dell'Autore sino alla sua prigionia nel forte
di Miolans. L'Autobiografia ha una forma molte volte trasandata, ripete più volte i
concetti preferiti, s'indugia in lunghe, minuziose e spesso anche noiose narrazioni di
fatti e di pettegolezzi storici, si che non potrà dirsi mai vera opera letteraria ; ma
essa ha però un'' importanza psicologica grandissima per il carattere di assoluta sin-
cerità che vibra in ogni sua pagina. Pare che il Giannone riviva, nel narrarli, gli
(1) Autobiografia, pag. 3-4.
192 MARIA BEGEY 12
anni trascorsi. Nei capitoli in cui parla dei suoi studi, dei primi anni del suo sog-
giorno in Napoli, di quelli in cui scrisse la Stoi . vi è persino nella forma
più spigliata, nel tono più sereno, l'ardore della sua forte gioventù, della sua maturità
pensosa ; poco a poco però questa forza scema e al racconto delle prime grandi sven-
ture l'accento si fa mesto, si sente che il dubbio, la sfiducia, lo sconforto .cominciano
ad insinuarsi nell'animo dell'Autore, cui pesano forse anche gli anni. Ma se egli piega
dinanzi alla sventura, si eleva nobilissimo dinanzi alla viltà ed al tradimento.
Chiuso in carcere inganna le ore disperate di tedio col lavoro, coll'osservare i
fenomeni naturali a lui sconosciuti delle nostre Alpi, col ripensare al passato. Ma
l'ultima pagina scritta a Miolans rivela infine tutta la tristezza desolata dell'anima
sua. Egli non sa che sia avvenuto nel mondo, dacché ne fu segregato: ° sicché -
brami il mio vivere imagine di morte „ (1); non sa che avverrà di lui e del figlio, e
teme che la Corte di Roma, non volendo aspettare la sua morte, l'affretti coi disagi
e coi patimenti, e poi faccia credere al mondo le calunnie che già da tanti anni va
spargendo contro di lui. Ma egli ha scritto la sua vita: " affinchè tutti siano infor-
mati dei suoi avvenimenti e sappiano discernere il vero dai falsi rapporti ,. (2). Forse
avverrà che qualcuno si muova a compassione e lo ricordi; forse dal suo esempio si
accorgeranno gli uomini che la Corte di Roma perseguita quelli che non può confu-
tare; e meraviglieranno che essa abbia potuto giungere a tanta potenza.
" A me, egli conchiude, che non per odio altrui o per disprezzo, ma unicamente
per amore della verità e per investigarla fra l'oscurità dei più incolti e tenebrosi
secoli ho sofferto tante fatiche e travagli, se accadrà fra queste alpestri rupi lasciare
il corpo esanime, pregherò Iddio che è la Verità stessa, che accolga il mio spirto in
pace, siccome per lei ho sofferto tanti strazii e martori, giusto è che finalmente diale
tranquillità e riposo.
" Pregherò pure i paesani e i viandanti che traversando per questi monti, e do-
vendo passare per la Savoia in Francia, calcan la strada donde non molto lontano
vedesi il Castello di Miolans, che, volti i loro pietosi occhi al gran sasso sotto il
quale giaceranno sepolte le mie fredde ossa, mossi da spirito di pietà lor dicano:
Ossa aride e asciutte, abbiate quella pace e riposo che vive non poteste ottenere
giammai „ (3).
E queste ultime parole dopo il racconto della sua vita colle sue virtù e coi suoi
errori rivelano il fondo dell'anima del Giannone. Le poche pagine che seguono ag-
giunte di poi non sono che date di giorni dolorosi commentate con poche parole. Nel
manoscritto, in fondo alla pagina che citavo dianzi, in carattere minutissimo si legge:
" Di nuove pene mi convien far versi ...
E nella seguente:
" 1737. 15 settembre. Da Miolans giunsi alle carceri della Porta del Po.
" 20 settembre 1737, a Torino.
" 1738. 27 gennaio 1738, il P. Prever „.
(1) Autobiografia, pag. 253.
(2) Ivi, pag. 254.
(3) Ivi, pag. 255.
13 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNOLE 193
La nota di poi si riferisce ad avvenimenti posteriori, si che se vogliamo sapere
il racconto della visita del Padre Prever dobbiamo ricorrere alla relazione che questi
ne fece e ad altri documenti del nostro Archivio.
I biografi del Giannone hanno accennato, e il Pierantoni e l'Occella diffusamente
narrato su tali documenti la conversione dello storico napoletano e ciò che la
precedette. Fin da quando il Giannone era a Miolans s'erano fatte delle pratiche per
indurlo all'abiura; pratiche a cui egli non accenna nell'Autobiografìa, ne, ch'io mi
sappia, nelle lettere, e che dovettero andar a vuoto, perchè l'Ormea così scriveva il
16 marzo all'Albani : " Già s'è dato principio a tentare la conversione del suddetto
Giannone, ma finora con poco frutto „ (1), e assicurava che i tentativi verrebbero ripresi.
Ormai l'Ormea pensava alla conversione del prigioniero non più soltanto perchè
l'Albani la desiderava, ma perchè una lettura del sommario del Triregno lo aveva,
egli dice, fatto inorridire, tanto che stimava " un colpo del cielo l'arresto di un uomo
sì pernicioso „. Di più, l'abate Pallazzi di Selve aveva esaminato i manoscritti da
mandarsi a Roma, e le osservazioni sue sul V tomo della Storia Civile (ancora ine-
dite nel nostro Archivio) s'intonavano mirabilmente, sebbene fatte con uno spirito un
po' meno gretto, con quelle sui quattro primi, della Congregazione dell'Indice in Roma,
Pietro Giannone fu dunque condotto nelle carceri di Torino, giacche era (spie-
gava il D'Ormea all'Albani) " il primario oggetto del suo arresto, la salvazione di
quell'anima. Cosa che riusciva incomoda e difficile in un castello come Miolans, lon-
tano dall'abitato, ove non sono altri ecclesiastici se non il Cappellano del forte „ (2).
II P. Prever a cui fu dato incarico della conversione, era sacerdote conosciuto
in tutta Torino e per la sua pietà e per l'amore che portava ai carcerati di cui aveva
una particolare affettuosa cura, sì che ne veniva riverito ed amato. Quando il Mar-
chese d'Ormea gli mandò l'ordine di occuparsi di Pietro Giannone accordandogli sei
mesi di tempo, il Prever non lo conosceva e sapeva di lui solo " quanto con rincre-
scimento cristiano ne sentivano le anime dabbene „ (3). Tuttavia si accinse fiducioso
all'opera: " Grazie al Cielo a cui tutto si deve unicamente attribuire (egli narra)
poche visite e conferenze bastarono per toccarli il cuore e farli conoscere, confessare
e detestare i suoi mancamenti, essendomi singolarmente valso per illuminarlo d'alcuni
testi delle epistole di San Pietro e di San Paolo ; ond'egli poi convinto, commosso e
intenerito, mi abbracciò nell'atto che io ne partiva, e mi disse: " Fuit homo missus
a Deo „ ed io risposi che avevo appunto la sorte di portare il nome di San Giovanni
Battista soggiungendoli che ringraziasse il Signore di una così grande misericordia.
" Mi ricordo che nella mia visita gli dissi che non pensasse più ad uscir di car-
cere o a mutar stato, mentre qualunque esito avesse avuto la mia ingerenza, sarebbe
stato, se buono, utile a lui per l'anima solamente e non per altro, come poi vera-
mente così fu, e potei conoscere che ne era persuaso.
" Desiderò poi di leggere buoni libri e me ne domandò; onde io gli portai quelli
di Sant' Agostino De civitate Dei, come paruto a me il più addatto a maggiormente
(1) Tali osservazioni si trovano nel mazzo V°, n. 10 dei manoscritti del Giannone.
(2) Lettere dell'Ormea.
(3) Relazione del Padre Prever pubblicata dall'Occella a pagina 82 del suo libro: Pietro Gian-
none negli ultimi anni di sua vita.
Sebib II. Tom. LUI. 25
194 MARIA BEGEY 14
istruirlo e confirmarlo nel suo ravvedimento. Me ne ringraziò e ringraziava conti-
nuamente il Signore padre di tutti i lumi e delle misericordie, e siccome ancora mi
diceva che Iddio benedisse sua Maestà per averli usata questa carità e cercato il suo
salvamento, conoscendo, come pure diceva, ogni di più che al suo arresto doveva la
sua liberazione, e soggiungeva che il Cielo lo aveva condotto a Geneva, luogo degli
errori, per di là condurlo pietosamente a conoscerli, a piangerli, in una prigionia per
lui salutare „ (1).
Continuava intanto fra l'Albani e l'Ormea un frequente carteggio. L'Albani ve-
niva informato di ogni cosa, e quando seppe da un biglietto del P. Prever al Ministro
piemontese che la ritrattazione poteva essere prossima, scrisse che il Segretario di
Stato di Sua Santità pregava a nome del Pontefice stesso che " quanto allo stesso
Giannone, qualunque sono per essere le sue disposizioni mai non basteranno perchè
si pensi a restituirgli la libertà, dovendosi sempre temere di un uomo pernicioso che
ha tentato di sovvertire la religione cattolica con massime e principi che affatto la
distruggono „ (2).
L'abiura ebbe luogo il Venerdì santo, 4 aprile 1738. Il Vicario dell'Inquisizione
a Torino aveva ricevute le debite istruzioni da Roma per: " la spontanea abiura-
zione „ (3). Anche esse giacciono inedite nel nostro Archivio né sono di grande im-
portanza per se stesse: ma tutte le notizie che danno intorno al Giannone, alla sua
vita, ai suoi scritti, mostrano come la Curia Romana l'avesse seguito sempre, anche
negli anni del suo esilio. (Il che è confermato dai recenti studi del Senatore Pieran-
toni, il quale dimostrò che si era tentato anche con altre Corti per ottenere la con-
segna dello Storico napoletano !). Terminano con l'ordine di far vedere tali memorie
al confessore che, così istruito " potrà disporre ed animare il penitente a fare una
pubblica ritrattazione anche a stampa, che vada pel mondo a risarcire li danni por-
tati alla sua fama e riputazione nell'essersi acquistato il concetto appresso li scrittori
li più dotti e savi di scrittore empio, sacrilego e miscredente „ (4).
Il P. Prever aveva fatto tesoro dei consigli: il prigioniero cedette, ed ecco quanto
il P. Prever racconta:
" Venne intanto il Venerdì Santo di quell'anno, giorno in cui il Padre Vicario
del Sant'Uffizio stimò di sentirne se riceveva la ritrattazione ed abiura ed io ebbi
il contento di servirgli da segretario.
" Questo egli fece colle lagrime agli occhi e colle più affettuose dimostrazioni
di un cuore pentito. Onde c'intenerì e prima dell'atto medesimo s'esibì di scriverlo,
come fece, di proprio pugno, e si dichiarò pronto a spiegarvi tutto quello dippiù che
vi fosse suggerito, essendo intenzione sua che la ritrattazione sua fosse non solamente
vera, ma anche intiera, e come per ogni riguardo doveva essere. Fece poi nelle mie
mani una confessione generale che mi consolò e ricevette la Santa Comunione Pasquale.
Fu indi trasferito al Castello di Ceva e vi stette sino all'anno 1745 „ (5).
(1) Occella, luogo citato.
(2) Lettere del Cardinale Albani.
(3) Manoscritti del Giannone, mazzo V", Memoria, ossia istruzione mandata da Roma al P. Vicario
del S. Uffizio di Torino " per la suddetta spontanea abiurazione ,.
(4) Idem, idem.
(5) Idem, idem.
15 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 195
Riguardo all'abiura, ecco invece quanto scrive Pietro Giannone nella nota del-
Y Autobiografia che segue l'accenno alla conoscenza col Padre Prever:
" Ai dì 15 marzo, su precedente informazione del medesimo Padre e lettera del
Re a Roma fu spedita dalla Santa Congregazione del Sant' Uffizio commissione al
P. M. Fra Giovanni Alberto Aferio, Vice-governatore del Sant' Uffizio di Torino di
ricevere la mia ritrattazione con precedenti istruzioni per se e il padre Prever mio
confessore e direttore della mia coscienza, il quale portatosi in dette carceri col detto
Padre ricevè la mia deposizione e in conseguenza la mia ritrattazione secondo l'istru-
zione mandata sopra i punti in essa prescritti.
" In esecuzione di detta commissione fu data assoluzione di tutte le censure,
interdetti, ecc. e data licenza al padre Prever di ricevere la mia confessione e di as-
solvermi di tutti i peccati e casi riserbati in Roma al Sant'Uffizio „ (1).
Null'altro; ma troppo sono differenti l'intonazione di questa nota e il semplice
accenno alla visita del padre Prever, dal racconto che questi ne fece ; troppo dice il
verso dantesco che precede le poche parole aggiunte dal Giannone in questi ultimi
fogli della sua Autobiografia, perchè anche dopo una semplice lettura il dubbio sulla
sincerità della sua conversione non si imponga alla mente nostra.
È vero che il Soria la chiamava " un benefizio della Provvidenza „ ; è vero che
il Cantù scriveva aver il Giannone domandato " spontaneamente di essere sottoposto
al Sant'Uffizio e stesa egli stesso la disapprovazione delle singole sue opere, rifiutando
ed abiurando gli errori che contenessero e supplicando perdono dalla Santa Madre
Chiesa e da tutti i fedeli dello scandalo dato „. E vero, infine, che un anonimo biografo
del padre Prever, facendosi interprete di tutta una corrente di opinioni, ascriveva
al padre filippino il merito della " sincerissima conversione „ e stampava che " Nobile
e oltremodo gloriosa fu la vittoria che il padre Prever riportò sopra l'avvocato Pietro
Giannone, così rinomato e temuto ai suoi dì, per rei principii e per le eretiche mas-
sime che iva disseminando dappertutto colle parole e colle opere a stampa „ (2).
Ma altri scrittori studiando questo stesso momento psicologico della vita dello
Storico napoletano, furono tratti a conclusioni ben diverse. I documenti pongono fuor
di causa le opinioni del La Farina, di Pier Silvestro Leopardi e del Settembrini che
il Giannone fosse costretto all'abiura, e il Senatore Pierantoni ben giustamente com-
batte anche l' idea del Biamonti, che la spiega colla debolezza dell'età senile, meglio
disposta, come la prima età, ad essere atterrita e commossa dalle forze arcane della
religione. Già antecedentemente però l'abate Lionardo Panzini, scrivendo la vita del
Giannone, aveva dubitato della sincerità dell'abiura, supponendo che lo Storico vi
fosse indotto dai suggerimenti del suo direttore di coscienza, " o forse ancor più da
sé stesso, affin di rendere per questo mezzo più piana ed agevole la via al suo de-
siderato scampo „ (3) ; e il Pierantoni, che tutte le idee dei vari scrittori circa il
fatto dell'abiura raccolse e pubblicò, si attiene a questa (4).
(1) Autobiografia, pag. 256.
(2) Vita del Padre Giambattista Prever dell'Oratorio di San Filippo Neri di Torino. Torino, per
Giacinto Marietti, 1844, pag. 115-16.
(3) Lionardo Panzini, Vita di Pietro Giannone preposta alla " Seconda parte delle opere postume
di Pietro Giannone „. In Londra, 1 766.
(4) Pierantoni, Autobiografia di Pietro Giannone. Appendice, cap. V, pag. 328.
196 MARIA BEGEY 16
Ma tali affermazioni o dubbi o negazioni non valgono a spiegarla, o pare a me
che la causa vera di essa e il suo valore non siano state ancora spassionatamente
studiate.
Pietro Giannone rappresenta per le sue opere, per tutta la vita sua, il principio
di lotta contro la potestà ecclesiastica, e come tale è fatto segno all'amore e all'odio
di due partiti. Per comprendere quale fosse l'animo suo è mestieri, io sono convinta,
levarsi ben più in alto, e, dimentichi delle proprie opinioni, indagare serenamente la
verità.
Noi abbiamo seguito lo svolgersi del pensiero di Pietro Giannone : abbiamo ve-
duto che all'opporsi politicamente al dominio della Chiesa sul Regno di Napoli, è
seguita in lui una ribellione, parziale, è vero, nel campo religioso; ribellione che
muove ancora dallo stesso principio politico, perchè non ha radice in un dubbio su-
scitato dal razionalismo filosofico, bensì dal crollo che gli studi storici hanno dato
alla legalità del potere ecclesiastico, sì che egli nell'avversione sua per quanto da
questo potere nacque o servì ad ingrandire, nega tutto ciò che dalla Chiesa si è fatto
nel corso dei secoli.
Ma accanto a questa opposizione perdurava in lui, sia pur anco errata, una fede
religiosa. Pietro Giannone credeva in Dio, tutte le sue opere lo attestano ; già fin
dal tempo in cui scriveva la Storia Civile, egli faceva la distinzione fra l'idea reli-
giosa e la Corte di Roma, e nelle proposizioni " scandalose, eretiche e prossime al-
l'eresia „ la Congregazione dell'Indice aveva posto quel passo del tomo IV, a pa-
gina 444, in cui il Giannone dice che " il suo libro sarà da Roma maledetto, ma che
egli rivolto al Signore che scorge i cuori di tutti ed a cui niente è nascosto, lo pre-
gherà vivamente che lo benedica Egli, ed instilli negli altrui petti sensi di veracità
e di amore „. Nel Triregno, in cui sono in sì gran numero le frasi violente e mordaci
non pure contro abusi, ma contro istituzioni degne di ogni rispetto, la parola di Cristo,
la verità della sua religione di pace e d'amore sono affermate con reverenza.
Neil' Autobiografia questi sentimenti si manifestano più chiaramente che mai. a
confutazione di quanti vollero fare dello storico napoletano un miscredente; l'ultima
pagina che io citavo più su non è forse anch'essa una prova?
Pietro Giannone era convinto di essere nella verità. L'aveva cercata con un lungo,
paziente lavoro; gli errori suoi provenivano da un accecamento per la passione politica
che gli vibrava nell'anima; ma era sincero con se stesso, egli che meditando (nel Tri-
regno) una parola di S. Paolo, scriveva: " Se mille Chiese avessero costantemente cre-
duto ed insegnato, anzi pei suoi canoni deciso che io abbia a credere per articolo di fede
ciò che nelle Sacre Scritture non è ne fu mai riputato per tale, anzi devia e si allontana
dagli stabiliti, e se pur non devia sarà una cosa nuova che vi si vorrà aggiungere, che
non conduce alla nostra salute, io vi darò l'assenso se lo giudicherò conforme alla ra-
gione, ma lo rifiuterò se si allontana da quello che in ciò diceva S. Paolo: Niuno mi ili ve
giudicare, anzi io posso giudicare tutti. Perchè in ciò la Chiesa non mi deve fare niuna
autorità, perchè non è questa la sua autorità ed incombenza ; né si appartiene a lei di
rifoggiare di pianta nuovi articoli, né impacciarsi oltre „. (Sì che se si vorranno stabi-
lire nuovi dogmi egli risponderà:) " Ciò non ha niente a che fare colla mia salute, né
si appartiene punto a quella religione che Cristo mi lasciò. So quali fossero gli articoli
di fede della Chiesa nel simbolo chiamato apostolico, che come provenienti da Cristo e
17 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 197
dai suoi Apostoli sono fondamenti della mia credenza. Fuor di quello io non intendo
altro, seguiterò in quello il savii.ssimo ammaestramento di Tertulliano: " Nihil ultra
scire, omnia scire est „ (1).
Alle pratiche di pietà adempieva dunque non solo, come vorrebbero alcuni, per
opportunità, o perchè, come opina il Pierantoni, non volesse essere confuso fra la turba
dei novatori, onde potere liberamente attendere alla sua missione " di rinnovare la co-
scienza della società civile contro la usurpazione del sacerdozio „, bensì perchè esse si
accordavano, e lo vedemmo, colla sua fede. Ne è prova il fatto che le continuò a Gi-
nevra, dove non aveva ragioni di prudenza che lo spingessero. Ma gli studi fatti lo con-
vincevano che la religione di Cristo si era stranamente mutata attraverso ai secoli ; le
persecuzioni sofferte tutta la sua vita, il carcere stesso in cui languiva, ribadivano
nell'anima sua il concetto che questa potenza papale era ben diversa dalla soave reli-
gione del Salvatore.
Con questi sentimenti, come era possibile una conversione? Il padre Prever narra
che il prigioniero piegò ben presto, e narra certamente la verità. Ma una conversione
improvvisa, che sarebbe psicologicamente spiegabile in chi avesse errato nei principi e
fosse raggiunto a un tratto dallo sconforto che prende sì spesso chi non ha alcuna
idealità che sorregga la vita, non poteva darsi in lui. Pietro Giannone piegò non ad una
forza materiale, ma ad una forza morale: piegò alle circostanze ed ai tempi.
Egli temette d'essere consegnato a Roma; sapeva di essere perseguitato dalla Corte
Pontificia, e lo disse chiaramente più volte e nell'Autobiografia e nelle lettere e nelle
Memorie scritte in occasione dello sfratto da Venezia e del suo arresto. La riconoscenza
che professa sì spesso nelle lettere a Carlo Emanuele III è interpretata da tutti gli sto-
rici come la riconoscenza per non essere stato consegnato nelle mani dell' Inquisizione.
" La ricordanza del pugnale che colpì fra Paolo Sarpi e del laccio che strozzò fra Ful-
genzio non doveva essere uscita dalla mente di Pietro Giannone; egli sapeva che i roghi
di Arnaldo da Brescia, di Cecco d'Ascoli, di Nicola Franco e di fra Girolamo Savona-
rola non erano estinti; egli non poteva avere obliato che dieci anni la Curia Romana
insistè perchè le fosse consegnato Giordano Bruno e che da ultimo l'ottenne promettendo
che sarebbe punito " clementissime et citra sanguinis effusionem „ e che mantenne la
sua promessa facendolo ardere vivo e gittando nel Tevere le sue ceneri come già fece
con quelle d'Arnaldo „ (2). Cosi Pasquale Stanislao Mancini.
Sperò il Giannone (e ne fa fede il Panzini appoggiandosi alle lettere ed alle sup-
pliche che il Giannone scrisse negli anni di carcere) di riacquistare la libertà, sperò
certamente di rivedere la moglie, i figli, di riaverne almeno notizie. Dov'erano essi?
A Vienna aveva saputo che il fratello si appropriava i suoi beni ; e a Venezia il
figlio gli aveva dato notizia della madre e della sorella chiuse in convento ; e il figlio
stesso, compagno di prigionia a Miolans, era stato restituito improvvisamente in li-
bertà e messo una notte, solo, senza denari e senza appoggi, sulla via d'Italia. Pietro
Giannone nulla più sapeva del mondo, dei suoi cari; e anche questa desolazione im-
mensa della solitudine morale dovette spingerlo all'abiura.
(1) Il Triregno.
(2) Parole citate dal Pierantoni nell'Appendice dell'Autobiografia, pag. 325.
198 MAEIA BEGEY 18
Il padre Prever narra bensì di avergli accertato che la conversione gli avrebbe
giovato all'anima sua soltanto; ma gli promise d'interessarsi per fargli avere le nuove
della famiglia.
Così dopo le trattative inutili fatte a Miolans, lo storico acconsenti ad abiurare
a Torino. D'altronde ancora una scusa egli poteva trovare con se stesso: dice Giu-
seppe Ferrari : " Il Diritto Romano, che era il suo vangelo, gli insegnava che ogni
deliberazione fatta sotto l'impero della forza maggiore è nulla, ed egli rientrò nel
seno della Chiesa che non poteva desiderare una più categorica disdetta „.
Fu una debolezza, è vero, ma Pietro Giannone, sebbene se ne sia da molti vo-
luto fare un uomo senza pecca, non era un eroe. Egli stesso ci ha detto sincera-
mente nella prima pagina della sua vita, che come in lui non furono estreme virtù
da imitare, così neppure estremi vizi o estrema ignoranza da fuggire. Ebbe un in-
telletto potente, con cui sorpassò i tempi suoi, si che i contemporanei non lo com-
presero ; ma l'animo suo piegò affranto dinanzi alla sventura, perchè non lo sosteneva
nella lotta nessuna forza d'amore. Nel cozzo fra l'odio del potere ecclesiastico e
quello di chi si ribellava, era naturale che piegasse chi possedeva minori mezzi ma-
teriali; poiché l'odio non dà che una forza fittizia che può distruggere, ma che nulla
edifica e che non basta da sola a sorreggere tutta una vita di dolori.
E umanamente, Pietro Giannone doveva cedere. Fu fortuna per lui ; che le pa-
role del padre Prever: " il Marchese d'Ormea mi accordò sei mesi di tempo „ sug-
geriscono assai facilmente l' idea che se il prigioniero non avesse ceduto, il Marchese
avrebbe insistito presso il Re, e forse risolto per consegnarlo a Roma.
Certo è che l'abiura fatta rigidamente colle forme prescritte dall'Inquisizione,
senza un accento di sincerità che ci persuada, viene ad appoggiare la verità delle
induzioni psicologiche che siamo venuti facendo. L'abiura, pubblicata dal Pierantoni (1)
e dall'Occella (2), fu esaminata nelle sue varie parti dal Panzini, in prima, da Giuseppe
Ferrari poi, ed entrambi s'accordano nel negarne il valore e per ciò che il Giannone
ritratta e per la forma in cui la ritrattazione si compie. Il significato del " se po-
tessi, vorrei che fossero annullate tali stampe „ è quello stesso di " ibis redibis non „ .
Ciò che egli aggiunge circa i manoscritti mandati in Roma, è in gran parte inven-
tato. La scusa che il Triregno non fosse che l'insieme " di cartuccie e di picciole
memorie, che secondo che andava leggendo alcuni autori notava, ed ancorché aves-
sero relazione fra loro, e portassero seco un groppo di diversi errori, non furono da
lui abbracciatj, ma unicamente per notare gli altrui sentimenti „ è scusa che non
regge per chi, come noi, ha veduto nel Triregno, benché incompiuto, un'opera orga-
nicamente ben costituita, a difesa del suo principio prediletto. Che dire poi vedendo
che egli condanna come scandalosa la memoria storica Sul concubinato presso i Bo-
mani e abiura le proposizioni " scandalose, temerarie, false, contumeliose, erronee e
prossime all' eresia „ che possono trovarsi nella memoria giuridica De Conciliis ac
Dicasteriis Urbis Vindobonae? E si noti che non parla dell'opera originale italiana,
ma della traduzione latina, di cui può dichiararsi irresponsabile. Insomma, come no-
tano tutti, non vi ha neppure un'opinione che chiaramente sia ritrattata.
ili Autobiografia di ritiro Giannone. Note e documenti, pag. 531.
(2) Pio Occella, Opera citata, pag. 52.
19 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 199
Forse l'Inquisitore e il padre Prever se ne accorsero; ma si appagarono, e l'a-
biura scritta e firmata da Pietro Giannone fu pubblicata come il trionfo lungamente
atteso, e citata sempre quale testimonianza irrefragabile ogni qual volta la sincerità
della conversione fu posta in dubbio.
Così si accentuò la controversia fra i nemici ed i sostenitori del Giannone ; il
documento, quantunque confutato non nella sua verità storica, ma nel suo valore,
servi ad oppugnare le ragioni di chi argomentava avere il Giannone piegato solo
per forma. Ma havvi una prova, anch'essa irrefragabile, anch'essa appoggiata su do-
cumenti di quel tempo, che avvalora quanto si disse, prova, che per quanto a me
consta, non fu portata mai. Ed è la continuità del pensiero del Giannone, che dopo
aver salito negli anni di libertà una linea ascendente, acquistando sempre nuovo vi-
gore dagli studi fatti, s'allarga ora a dimostrare diffusamente quanto negli studi e
nelle precedenti meditazioni ha appreso; il che appare da tutto ciò che egli scrisse
durante la prigionia, ma particolarmente, e lo vedremo, dall'opera inedita che ci siamo
proposti di esaminare.
IV.
Ottenuta la ritrattazione, il compito del padre Prever era finito, raggiunto lo scopo
per cui si era condotto il prigioniero a Torino: e d'altra parte le vicende della
guerra consigliavano d'allontanarlo dalla Capitale ; il povero Giannone fu dunque fatto
partire pel Castello di Ceva. Ricominciò allora la dolorosa segregazione dagli uomini,
ma una tal vita dovette pesargli ben più che a Miolans, dopo il balenare della spe-
ranza della libertà, dopo l'umiliazione dell'abiura, pesante ricordo che aumentava la tri-
stezza dell'animo suo. E neppure le notizie della famiglia giungevano; il padre Prever
aveva scordato le sue promesse; sì che il Giannone, dopo tre settimane di soggiorno
a Ceva, gli scriveva la prima lettera:
u Molto Rev. P. Signor mio,
" Ormai è scorsa la terza settimana da che giunsi in questo Castello, e non ricevo
alcuna desideratissima sua lettera, la quale finora con impazienza ho aspettato, sen-
tendo le promesse quali partii per avere opportunità di rispondergli, e con ciò dargli
ragguaglio di me e del mio stato. Ho finalmente pregato questo R. Comandante che
mi permettesse di scrivere al signor Marchese d'Ormea e nella lettera per S. E. ac-
cludeva questa pregandola che la facesse pervenire in sue mani, siccome benigna-
mente si è compiaciuto: onde ho dovuto essere io per il primo a rompere il ghiaccio
a darle con questa avviso del mio arrivo qui dove, sebbene i primi giorni non avessi
incontrata quella salubrità che io speravo, nulla di meno andando ora assuefacendomi
al novello clima vado acquistando ora maggiori forze e spero rifarmi dalle prece-
denti angoscie che ho sofferto nelle penose carceri di Porta del Po, dove io, se più
vi fossi dimorato, avrei sicuramente perduto la vita „.
E continua dando notizie sue, e dei suoi sentimenti di convertito, per pregarlo
più giù, un po' avvocatescamente, di ciò che tanto gli sta a cuore: " Siccome con-
fesso Iddio avermi fatto per suo mezzo un nuovo uomo per ciò che riguarda il mio
200
MARIA BEGEY 20
maggior bene ch'è la salute della mia anima; così credendo essere anche suo divin
volere mentre siamo in vita di procurare il sollievo degli afflitti e di raccomandarci
la carità verso il prossimo e molto più di quei che sono a noi più stretti e congiunti,
così io sono a pregarlo con tutto lo spirito di stradare per Napoli quelle lettere che
io confidai alla vostra carità sapendo il sollievo che da quelle medesime può recarsi
alla afflitta mia casa ed alle persone che sa che ne han bisogno per toglierle da
quella costernazione nella quale saranno non avendo da me riscontro alcuno. Quanto
ciò ridondi anche in mio sollievo, ben può immaginarselo e molto più se avrà la bontà
le risposte che drizzeranno a Torino a V. R. mandarmele qui per mio ristoro anche
bisognando dar quelle provvidenze che io, povero prigioniero, comunque possa dare „.
La lettera continua su questo tono: e al fondo, dopo una preghiera perchè gli
vengano resi i suoi libri, onde ingannare un poco la noia e il tedio che l'assalgono
e confortarsi, finisce con alcune parole che appoggiano saldamente una delle ragioni
con cui noi abbiamo spiegata l'abiura del Giannone ; dopo aver pregato il padre Prever
che gli ottenesse dal Marchese d'Ormea il permesso di passeggiare pel Castello, dice:
" Sapendo che io non sono in stato di fuggitivo, essendomi pienamente abbandonato
nelle pietose braccia di S. Maestà, dalla cui clemenza spero la mia liberazione, mi
faccia perciò esperimentare gli effetti della sua cordialità ed efficacia e non mi ab-
bandoni , (1).
Ma questa, la prima di un fascio di lettere e di suppliche che si trova nell'Archivio
nostro, e di cui una parte fu pubblicata dal Pierantoni e dall'Occella, dovea restare
come quasi tutte le altre senza risposta.
Il povero Giannone non ebbe le notizie della famiglia che più tardi, dalle lettere
del fratello, del figlio, e dell'amico Canonico Mela. Il P. Prever non si occupò del
prigioniero, e per due anni non giunse a ricordarsene se non, egli dice, " nelle sue
orazioni „.
Il che mi conferma nell'idea che la Curia si fosse accontentata di una ritratta-
zione pur che sia, ma avesse assai bene veduto l'inganno. Com'è possibile difatti che
i fini critici a cui non sfuggì neppure una parola della Storia Civile e delle opere
seguenti, non s'accorgessero che le forinole dell'abiura non avevano alcun senso?
L'ordine di Roma era di avere questa abiura; l'Aferio e il P. Prever la presero
quale la poterono ottenere, riserbandosi ad ottenere di più in una migliore occasione.
Narra il Giannone in una lettera scritta al D'Ormea, il G luglio 1738, che il
giorno innanzi della partenza per Ceva il P. Prever gli comunicò che i Cardinali del
S. Uffizio di Roma avevano scritto all'Aferio perchè la ritrattazione " distesa con
molta fretta „ fosse rifatta dal penitente a prova maggiore della sua lealtà. Al che
acconsentì il Giannone, a patto però che prima passasse per le mani di S. M. e
pregò il Prever stesso d'informarne il D'Ormea. L'esito di queste trattative noi non
sappiamo, che non ce ne danno notizia altri documenti; ma il P. Prever comprese
certo che era inutile insistere; e d'altronde egli, che tante volte aveva discorso a
lungo col Giannone, non aveva certo potuto illudersi sullo stato dell'animo suo; prova
ne sia che per convertirlo fece appello, non tanto alle convinzioni di lui, quanto ai
(1) Mss. del Giannone. Questa lettera trovasi in appendice all'Autobiografia, pag. 333.
21 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 20*
suoi sentimenti. E io non sono neppure lontana dal credere che, non ostante la sua
affermazione che l'abiura doveva giovargli solo moralmente, il P. Prever non avesse
tolto al prigioniero l'illusione di una futura libertà.
Ma ottenuto l'intento, egli non ci pensò più : alle tante lettere che il Giannone
gli scrisse nei suoi anni di Ceva, rispose due volte sole! E nel triste racconto della
prigionia del Giannone, la figura del P. Prever che spese tanto amore per i più vol-
gari delinquenti e fu sì duro coll'infelice storico nostro, lascia un ricordo doloroso,
e suggerisce riflessioni molto amare.
Comunque sia, ai primi freddi il Giannone si ammalò. Dice l'Autobiografia:
" In novembre caddi infermo e durò la mia grave infermità per tutto il febbraio
del 1739.
" 1739. Fui con carità assistito dal Sig. Cav. De Magistris.
" Liberato che fui dalla malattia cominciai a stendere dai miei cartoni i Discorsi
di Tito Livio nel principio di marzo e gli terminai ai dì 15 di maggio e furono
mandati a Torino con lettera al Signor Marchese d'Ormea, pregandolo di presentarli
al Re, a cui erano dedicati, li 8 giugno „.
Il Cav. De Magistris fu, come già il Leblanc, pietoso verso l'infelice. Le condi-
zioni materiali del Giannone non erano così penose come a Torino, salvo il clima
che non gli si confaceva, e per la natura sua di meridionale, e per l'avanzata età.
Ma le condizioni morali ! Oh l'agonia della solitudine che aumentava mano mano che
gli anni passavano e s'affievoliva la speranza di tornare in libertà! Le lettere e le
suppliche del Giannone ci rendono tutta la tortura dell'anima sua. Vi era in lui una
vitalità possente che lo riconduceva a sperare giorni migliori non ostante che l'espe-
rienza dovesse apprendergli quanto ciò fosse vano. Ad ogni occasione egli scrive,
supplica, parla del suo pentimento, della sua vecchiaia, del suo dolore, offre i suoi
servigi: inutilmente! La visione del paese lontano, della casa dove ha vissuto <*li
anni migliori della sua vita, pensando e lavorando sereno, allietato dall'amore e dalla
natura ridente, ritorna con insistenza. Egli chiede sempre che lo si restituisca alla
famiglia sua, alla villa delle Due Porte. Ma gli anni passano uguali; l'alternativa
della speranza e dell'abbattimento comincia ad affievolire la sua fibra. L'angoscia lo
afferra più desolatamente, la noia, il tedio diventano sempre maggiori. Egli cerca di
vincerli lavorando continuamente. Dapprima lo sorregge la speranza che il suo ingegno
lo libererà e scrive un libro dedicato al Re, e protesta il suo ravvedimento dedi-
candone un altro al P. Prever ; svanito il sogno, scrive ancora, e compie l'opera sua
facendo lavori d'erudizione, notando pensieri suoi, osservazioni. Così occupa le lunghe
ore della sua prigionia.
Quanto egli lavorasse ce lo dimostra il fatto che in tre mesi fu compiuto il
libro dedicato al Duca di Savoia, il figlio giovinetto di Carlo Emanuele III. Il vo-
luminoso manoscritto dei Discorsi storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio
(pubblicati solo cento e venti anni dopo da Pasquale Stanislao Mancini, cui le mol-
teplici occupazioni di una vita operosissima, e la morte prematura, vietarono il com-
mento e lo studio della vita di Pietro Giannone), costituiscono l'opera più importante
compiuta durante la prigionia di Pietro Giannone. Egli era senza libri: ma lo soc-
corse il materiale vastissimo accumulato nei suoi studi di Napoli e di Vienna. Certo
lo animò anche la speranza di far rivivere in opere permesse dalla Chiesa il pensiero
Seme II. Tom. LUI. 9R
202 maria beci:y 22
suo, l'opera sua dalla Chiesa distrutta; perchè egli non osava davvero sperare che il
Triregno sarebbe uscito incolume dalle mani della Curia, e pubblicato integralmente
un secolo e mezzo dopo la sua morte!
Pensati e scritti " fra le tenebre e angustie di una misera prigione, fra le soli-
tudini di alpestri monti, fra quegli incomodi e disagi che ciascuno può promettersi
dalla vecchiaia e dalla tristezza dell'animo ,,, i Discorsi sono offerti al Re Carlo Ema-
nuele III " per la riconoscenza d'avergli impetrato il perdono della Chiesa, e per
rimediare se nei suoi libri precedenti avesse errato o dato occasione di errare; sì
che alcuni i quali prima avessero per avventura seguite le vestigia di un Pietro
negante, seguitino ora le pedate dello stesso Pietro penitente „ (1).
Ma sono scritti però pel giovane Vittorio Amedeo, perchè egli apprenda come
da piccoli principii sorgano gl'imperi, e si facciano grandi e potenti. Meglio di ogni
altro storico Tito Livio si conviene all'educazione di un giovane principe di Casa
Savoia, che deve seguire le orme degli illustri suoi avi ; meditando le antiche storie
egli si accorgerà in breve: " di molte verità le quali dal giovanile animo sgombere-
ranno i tanti comunali (sic) pregiudizi ed i molti errori ed inganni nei quali la più
parte degli uomini vive, sicché, resosi animoso e forte con maggior franchezza ed ardi-
mento opererà cose grandi e sublimi e si disporrà ad imprese nobili e magnanime „ (2).
Ma sopratutto, vedendo quanto: " i savi e prudenti romani, ancorché fossero
persuasi della vanità della gentile religione, con tutto ciò procurassero di mantenerla
salda ed incontaminata presso i popoli soggetti, e ne prendessero sempre la difesa,
capirà quale cura, a più forte ragione, egli debba avere della religione cristiana „ .
" Si convincerà infine a quanti pregiudizi ed inganni stessero sottoposte le menti
umane, a quanti fascini, a quanti comuni errori dai quali liberato il Rea! animo di
V. A. R. potrà con maggior franchezza e coraggio accingersi ad opere grandi e
magnanime non meno conformi all'aspettazione che tutti dalla nobil anima e dal-
l'alto e sublime ingegno dell' A. V. R. si promettono degne di una progenie cotanto
rinomata ed illustre „ (3).
Oh come già sin d'ora scorgiamo la sottile insinuazione che celano queste pa-
role! Umilmente il Giannone aveva assicurato a Carlo Emanuele III di dimostrare
le verità cristiane e la stabilità della Chiesa di Roma sopra tutte le altre del mondo
cattolico. Umilmente aveva chiesto che l'opera sua fosse messa nelle mani di un
revisore prima di venir data al Principe reale. E il revisore lesse, attraverso le righe.
il senso recondito dell'opera, e la condannò a cominciare da questa stessa prefazione.
Pietro Giannone seguì passo passo la storia di Roma. Ma il fine suo fu assai
meno d'indagare le vicende antiche che di svegliare nell'anima del futuro re la cono-
scenza degli errori e dei fascini che avevano soggiogato le menti umane e diminuita
l'autorità imperiale: il libro lo dimostra chiaramente. Non è storia la sua, è ancora
la difesa dei suoi principii prediletti.
I tredici discorsi che costituiscono la prima parte dicono come fu scritta la
Storia da Tito Livio; parlano della favolosa origine di Roma, e poi, ampiamente,
(1) Discorsi sugli Annali ili Tito Livio. Dedica a Carlo Emanuele III.
(2) Discorsi sugli Annali di Tito Livio. Prefazione al Real Principe Vittorio Amedeo di Savoia.
(3) Ivi.
23 PER UN'OPKEA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 203
del sorgere della religione romana e del suo alterarsi attraverso i tempi. Loda il
Giannone la franchezza di Tito Livio nel censurare la religione dei suoi tempi, come
la larghezza di pensiero di Augusto che lo permise. Tutta questa parte ha dunque
un carattere particolare: e la conclusione che l'autore stesso ne ritrae è questa: I
romani, pur avendo una religione ristretta nei suoi fini alla felicità terrena e senza
il concetto della vita oltremondana, furono grandi, sì che le loro azioni oggi ancora
ci servono d'esempio. I cristiani che hanno una religione più perfetta non sono dunque
maggiormente responsabili se malvagi? Ebbene, i maggiori scellerati sono appunto,
al tempo del Giannone, quelli " che più ci credono „, e nascondono sotto un'ipocrita
umiltà ogni sorta di vizi. Ah come tutti questi pensieri dovrebbero farci arrossire!
" Se daddovero (egli finisce) e seriamente gli uomini a ciò riguardassero, forse il
clero amerebbe ritornare alla antica disciplina ecclesiastica, i monaci ai loro primi
austeri istituti, e i secolari stessi, se non popolare i boschi e le solitudini di romiti,
di anacoreti, porgere esempio di abnegazione e di civile onestà conformi alla civiltà
dei tempi e alla sublimità delle cristiane credenze „ (1).
La seconda parte segue la storia delle conquiste romane, notando le leggi ed il
modo di governare le provincie soggette e il crescere della potenza della Repubblica.
È la storia, egli dice, dei romani guerrieri coraggiosi e forti, dei romani sapienti e
giusti, legislatori prudenti. Ma come già nella prima parte, ben presto le considera-
zioni politiche-religiose si fanno innanzi. Dopo aver parlato a lungo del censimento
della Giudea, del formarsi della religione cristiana e del suo diffondersi in Roma a
causa principalmente, egli opina, delle persecuzioni giudaiche, passa a mostrare come
il Cristianesimo s'allarghi per tutto l'orbe.
L'ultimo Discorso, il XVIII, serve di conclusione a questa parte, ha per titolo:
" Come Roma quantunque per la decadenza dell'Impero avesse perduto il pregio, con
più felici auspici ne acquistasse un altro maggiore nell'essere divenuta capo di tutto
il mondo cattolico „ . Ma qui pure egli trova modo di abbattere la potenza temporale !
" Il capo che trovossi nello scavare del Monte Tarpeio per aprire le fondamenta al
tempio di Giove, non al mondano imperio ma allo spirituale avrebbe dovuto riferirsi,
pregio tanto maggiore quanto sono più degne l'anima del corpo, le cose spirituali delle
terrene „.
Il libro si chiude con una pagina vibrante d'amore per l'Italia, calda pagina di
entusiasmo, in cui esorta gli Italiani, pur conservando illesa l'autorità spirituale del
cattolicismo, a riacquistare l'antica disciplina, " e preposti a loro guida i Principi in
nazionali intraprese „ si mostrino non degeneri dei loro antenati; sì che gli stranieri
apprendano e confessino :
In questa bella Italia esser la sede
Del valor vero e della vera fede.
Un secolo doveva passare prima che il grido del povero prigioniero trovasse eco
nel cuore degli Italiani! E il censore intanto, leggendo minutamente i Discorsi notava
ogni parola che potesse essere sospetta.
Forse fu l'abate Pallazzi di Selve che esaminò questa opera; lo fa credere il
(1) Discorsi sugli Annali di Tito Livio, pag. 247.
204 MAIÌIA BEGEY 24
fatto che egli è l'autore pure delle osservazioni fatte al V Tomo della Storia CiviU .
e che a lui furono consegnati per esaminarli anche tutti gli altri manoscritti del
Giannone riavuti da Ginevra.
.Sono osservazioni critiche fatte con mente fredda ed attentissima ; il vero motivo
per cui il Giannone aveva scelto Tito Livio per ammaestrare Vittorio Amedeo ap-
pare tosto all'occhio suo; cosi lo accusa di lodare troppo la franchezza di Livio nelle
sue censure politiche e religiose e la tolleranza di Augusto, segno certo che egli
vuole criticare la censura della Chiesa dei suoi tempi e propugnare la libertà di
stampa, tanto dannosa alla religione. Nota poi qualche eccessiva libertà di frase,
ritrova il pensiero (già condannato nella Storia. Civile) che le profezie e i libri sacri
non siano divini. Anche la conclusione della prima parte è biasimata : " Forse, dice
il Censore, non fu fatta che per aver agio di criticare i monaci e il clero ,.. Forse!
Meno importanti le osservazioni fatte alla seconda parte. Ciò che al Censore più
spiace qui è la frequenza dei paralleli fra la religione pagana e la religione cristiana;
già precedentemente egli aveva notato che queste comparazioni " suonano male negli
scritti di un uomo sospetto „.
L'abate Pallazzi di Selve non poteva certamente ne comprendere ne approvare
che studiasse nelle manifestazioni religiose diverse, lo spirito umano, e contrad-
disse vivacemente il Giannone in un punto in cui egli chiamò: più divino il cristia-
nesimo delle altre religioni; che nota, censurando, anche la giudaica ha le stesse
origini divine, e la pagana è poggiata tutta su un falso fondamento.
Del resto, non sono queste che osservazioni parziali : il critico ha veduto più in
là e noi dobbiamo dargli ragione nel fatto d'aver trovato quanta parte degli orribili
manoscritti a lui affidati prima d'essere mandati a Roma, riviveva nella nuova opera
di Pietro Giannone: " Sembra che possa congetturarsi che l'autore ritenga per altro
le idee che aveva espresso nei suoi manoscritti: Del Regno terreno e celeste „ (1).
Dal che egli concludeva " che una tal'opera non era adatta alla lettura di alcuno,
ma principalmente degli animi teneri ed imbecilli „.
L'opera andò dunque a coprirsi di polvere negli archivi. E intanto Pietro Gian-
none, sempre sperando, scriveva e lavorava assiduamente nella sua prigione.
Le ultime note dell' Autobiografia dicono a questo punto:
" 1739. A 4 di Novembre di nuovo mi infermai dell'istessa malattia, non così
forte come l'anno scorso, e mi durò due mesi con tre altri mesi di convalescenza.
• 1740. Quest'anno per gli eccessivi freddi e per la morte di Papa Clemente XII
seguita a' 6 Febbraio fu memorabile siccome per l'elezione del nuovo Papa Lambertini
seguita li 19 Agosto. Ma assai più memorabile per la morte dell'Imperatore da me
saputa la Domenica 30 Ottobre, seguita in Vienna li 20 dello stesso mese. Pure ai
(1) Queste osservazioni furono pubblicate dal Mancini, in appendice al volume: Discorsi sugli
Annuii di Tito Livio.
25 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 205
principii di Novembre mi infermai, e durò la mia grave malattia fino ad Aprile del
seguente anno „ (1).
Null'altro si legge più. Ma sappiamo dal carteggio del Giannone che quasi ogni
anno egli si riammalò ai primi freddi. Né egli se ne lagna, ne invoca la morte. La
forza del suo spirito vince quella del suo debole organismo; egli non si rammarica
delle sofferenze fisiche, non si cruccia che per la noia della solitudine e dell'inazione.
Appartengono a questo periodo della sua vita due consultazioni legali che egli
diede essendo detenuto a Ceva, l'una intorno al testamento di un avvocato Bombini,
l'altra intorno alla natura dei feudi posseduti dal Marchese di Ceva, ma sono poca
cosa. In quel castello, dopo i Discorsi sugli Annali di Tito Livio, Pietro Giannone
scrisse tre altre grandi opere: l'Apologia dei Teologi scolastici, la Storia della Chiesa
sotto il Pontificato dì Papa Gregorio Magno e L'Ape ingegnosa.
Diverse nella forma, poiché la prima è critica di libri e di opinioni dei Padri
della Chiesa, la seconda è storia ecclesiastica, la terza un insieme di riflessioni filo-
sofiche, tutte e tre rivelano, e lo vedremo, le stesse caratteristiche delle opere ante-
cedenti già esaminate.
Io pongo l' Apologia dei Teologi scolastici prima della Storia della Chiesa --otto il
Pontificato dì Gregorio Magno, quantunque non abbia trovato alcun documento che
dia la data della sua composizione, e anzi il Mancini pubblicando le opere scritte in
carcere dal Giannone la ponesse al terzo posto, e il Pierantoni nelle pagine che ag-
giunse alla Vita del Giannone, segua quest'ordine. E ciò per alcune ragioni che mi
paiono degne di nota. Noi sappiamo soltanto, è vero, che il Marchese d'Ormea, cal-
damente supplicato dal prigioniero, di mandargli qualche libro, gli fece tenere sui
primi del 1740 le opere di Lattanzio Firmiano, di Sant' Agostino, e più tardi quelle di
Gregorio Magno. L'Apologia non ha data, laddove la Storia della Chiesa sotto il Pon-
tificato di Gregorio Magno porta all'ultima sua pagina: " 12 Settembre 1742 „ e l'Ape
ingegnosa: " 16 Agosto 1744 „. Ma panni logico il pensare che l'Apologia fosse scritta
subito dopo i Discorsi, perchè era naturale che dopo essersi rivolto al Re, il Gian-
none provasse a rivolgersi al Padre Prever. E una lettera che il 12 aprile 1739
scrisse il Padre Prever al Giannone allude appunto ad un' opera promessagli , che
doveva essere per certo l'Apologia.
'• ill° Signore e Padrone Colendissimo,
" Molto mi ha consolato la sua lettera, la quale già da tanto tempo desideravo;
mi ha consolato si per li sentimenti savi e pii, e da buon catolico che ha conservato
nel suo cuore, come mi ha dimostrato in essa ; si ancora per l'opera intrapresa con
animo di perfezionarla per estinguere affatto quanto di scandalo habbia arrecato per
lo passato alli huomini e per leuar via ogni ombra di timore di tornare a ricadere
nelli errori scorsi. Iddio che li ha guarito dalla longa infermità di quattro mesi lo
ristabilirà per poter occuparsi saviamente nella sudita „ (2).
Inoltre all'Apologia, finita coll'esposizione critica delle opere di Sant'Agostino, fu
aggiunto posteriormente un VII libro, che tratta delle epistole di Gregorio Magno.
(1) Autobiografia, pag. 257.
(2) Lettera del Padre Prever. Manoscritti del Giannone, mazzo III.
206 MARTA BEGEY
26
Tutto induce a credere che quest'aggiunta fosse fatta, dopo che profondamente il pri-
gioniero le aveva studiate per la terza opera sua.
D'altra parte io credo che V Apologia debba studiarsi a questo punto della vita
di Pietro Giannone, per lo svolgersi del suo pensiero. Nei Discorsi sulle Deche di
Tito Litio egli aveva riaffermato il concetto della indipendenza del potere civile da
quello ecclesiastico; e pur accennando a molte idee filosofiche del Triregno, l'opera
sua aveva un carattere essenzialmente politico, e si rannodava strettamente colla
Storia Civile; ebbene l'Apologia ci porta invece nel campo filosofico e religioso. L'esame
paziente che ne faremo ci rivelerà che in essa rivivono, modificate nella loro forma,
le due prime parti del Triregno; laddove la Storia della Chiesa sotto il Pontificato di
Gregorio Magno continua il Triregno, nella parte del Regno Papale di cui il Giannone
non aveva potuto abbozzare che l'indice.
L'Apologia dei Teologi scolastici si apre con una lunga ossequiosa lettera che
serve di dedica al Padre Prever, e di prefazione, poiché svolge il concetto generale
di tutta l'opera.
" Al molto Reverendo P. Gio. Battista Prever,
Sacerdote dell'Oratorio della Congregazione di San Filippo Neri in Torino.
"In questa mia solitudine, fra' deserti monti delle Langhe, per alleviarne in
parte la noia e il tedio, e perchè vieppiù si avanzasse il mio cammino per quella
strada nella quale V. R. mi pose dello studio delle cose sacre e religiose, ben proprio
e conveniente alla mia vecchiaia, richiesi alla S. V. di alquanti libri Ma fuor
d'ogni mia aspettazione non mi furono resi che quelli di Lattanzio Firmiano e
Sant' Agostino „.
Segue la lettera narrando che pur tuttavia ne rese vive grazie al P. Prever e
che a sollievo dell'afflitto suo cuore e dell'infelice prigionia si diede allo studio di
tali opere. Così : " dopo profonde considerazioni maggiormente mi confermai nel con-
cetto ch'io teneva dei Padri antichi, e conobbi che in questi felicissimi tempi nei
quali i sacri studi si sono cotanto avanzati e quasi posti nell'ultimo punto di perfe-
zione dai nostri ultimi scrittori ecclesiastici, i vecchi Padri devono sì bene vene-
rarsi ed aversi in somma stima ed altresì adoperarsi per ciò che riguarda l'istoria
e la disciplina ecclesiastica dei loro tempi, ma non già proporsi agli studiosi per
principal materia, anzi tale occupazione dei loro ingegni intorno alla quale dovessero
unicamente aggirarsi, sicché non curando i nuovi scrittori e forse disprezzandoli, do-
vesse abbondarsi nei sentimenti dei vecchi, adottando la lor dottrina così per ciò che
riguarda il dogma come la morale e la disciplina, facendone rapporto con quel che
presentemente tiene ed insegna la nostra comune Madre Cattolica Chiesa Romana.
Cadrebbesi ciò facendo in molti gravissimi errori, in manifeste eresie, in portentosi e
strani delirj ed in isconci paralogismi. Si piomberebbe in tante contraddizioni, confu-
sioni e scompigli da metter sossopra e come in un caos tutta la morale, la dottrina
e la presente disciplina della Chiesa.
" A questo fine io reputai esser sempre più utile e sicuro rivolgere ed aver nelle
mani non già i vecchi, ma i nuovi ed accurati scrittori, i quali con sommo studio e
molta critica, non discompagnata da profonda dottrina ed erudizione, non solamente
27 PER UX'oPERA INEDITA DI PIETRO GIANXONE 207
han saputo meglio illustrare i nostri libri sacri, esporli più nettamente senza enimmi,
inviluppi e mistiche intelligenze, ma eziandio accomodarli al sistema presente secondo
i nuovi lumi e le nuove determinazioni della Chiesa; e nel tempo stesso avvertire
anche i lettori dei tanti errori dei Padri antichi, acciò quelli dovessero attentamente
usare e con molta cautela leggere, né ciecamente abbandonarsi alla loro autorità,
senza prima farne esatto scrutinio e diligente esame. Conoscerà V. E. da questa opera,
che a torto sono incolpati i teologi scolastici de' secoli a noi più prossimi di aver
conturbata la divina parola, trattandola come una scienza mondana e quasi essi fos-
sero stati i primi ad aprirsi un più largo campo e ad aggiungere alla teologia umana
ragioni tratte dalla filosofia e dalle altre scienze terrene, e di aver corrotta la mo-
rale, e con ciò posto il tutto in disordine e confusione. Al paragone di quel che i
primi teologi fin dal primo secolo della nascente Chiesa, e de' seguenti, fecero me-
scolando le cose divine colle umane, spariscono gli errori ed i vaniloqui di questi
secondi, i quali ne divengono tanto più scusabili, quanto che da' vecchi Padri li
appresero, e in questi si trovano le prime origini e le prime cagioni di tanto male.
Conoscerà ancora V. R. che quantunque le opere di Sant'Agostino, le quali si è avuto
studio di mandarmi, in ciaschedun volume portino in fronte questa sicurtà e malle-
veria: " Curavimus removeri ea omnia, quae fidelium mentes haeretica pravitate
possent inficere, aut a catholica et orthodoxa fide deviare „, nulla dimanco troppo
neghitosi e melensi furono questi espurgatori, i quali invece di darci un Sant'Agostino
a lor credere purgato e limpido, il resero guasto ed inutile. Non è questa la via
di darci corretti con nuove stampe i Padri antichi, ma quella a' nostri tempi tenuta
dai più dotti e prudenti editori, spezialmente da' Benedittini della Congregazione di
San Mauro, i quali quelle opere tutte intere, non tronche, non mutilate, ci han date
cos'i come furono scritte, e con dotti e savii avvisi hanno avvertito i lettori della
presente disciplina e delle nuove determinazioni della Chiesa, affinchè non si inciam-
passe negli antichi errori e si sapesse che quel che prima era variamente tra' Padri
antichi disputato, oggi da' Concilii della Sede Apostolica trovasi deciso ne può più
cadere in controversia, sicché quella credenza dovesse tenersi che dalla Chiesa ora
s'insegna e professa, senza invilupparsi fra le antiche dispute, e i discordanti pareri.
" Male de me aduni foret . se dovessi oggi conformarmi a quelle antiche cre-
denze; io mostrerei così a nulla essermi riuscite le affettuose Sue esortazioni da Dio
ispiratele, e per le quali fui ridotto a cercar perdono delle mie follie ed a ritrarmi
de' miei passati errori.
■ Tutte le quali cose Ella conoscerà chiaramente da quest'opera, la quale ho vo-
luto indirizzare alla sua carità e piacevolezza in dimostrazione delle tante obbliga-
zioni che le profésso, e porla unicamente sotto i purgatissimi Suoi occhi e ne' secreti
recessi del Suo cuore, pregandola a non confidarla ad alcuno, affinchè non potendo
per le sue pietose occupazioni aver tempo di leggere tanti volumi, abbia un saggio
della dottrina di quei primi Padri ed avverta i suoi allievi nello spirito di essere
cauti ed attenti nella lezione dei medesimi „ .
La lettera finisce chiedendo venia se si citeranno anche opinioni di teologi pro-
testanti per spiegare e combattere le teorie degli antichi Padri; adducendo che
Sant'Agostino stesso citò i Donatisti, Tertulliano, ed altri scrittori ancora, già
sospetti di eresia.
208 MARIA BEGEY 28
L'opera si compone di due parti: la prima di esame critico in generale delle
dottrine degli antichi Padri della Chiesa; la seconda di esposizione critica speciale
dei libri di alcuni Padri.
La prima parte comincia con un capitolo che tratta delle origini onde nei primi
della Chiesa derivarono tanti disordini ed irrori. Queste sono per lui le discussioni
degli antichi teologi, che mescolando la filosofia pagana colla rivelazione cristiana
cominciarono a disputare circa l'origine del mondo, la durata e il fine; sopra l'uomo,
la natura delle anime umane, sulla loro immortalità, sul loro stato dopo la morte
dei corpi e sulla resurrezione dei medesimi ; e in fine sullo stato delle anime separate
dai corpi prima della loro resurrezione e del giudizio universale. Un' altra cagione
fortissima di confusione e disordini, trova l'Autore nelle predicazioni dei visionari che
tanto abbondavano nei primi secoli del Cristianesimo.
Nuovi instituti e nuove massime si introdussero così poco a poco dalla Chiesa
circa al governo civile ed alla potestà dei principi, " onde segue tanto cangiamento
nelle leggi e nei costumi „ (1). Cosi si intromisero i Padri non solo circa i matrimoni,
i divorzi, le seconde nozze, ma anche nel reggimento dell'orbe romano, nella milizia
e nella professione delle armi, nei giuochi, nelle feste e negli spettacoli ; s'intromisero
— audacia anche maggiore — ■ nelle leggi contro l'usura e nella punizione degli eretici.
La fine di questa prima parte verte sull'austera morale dei primi Padri, sull'abuso
di interpretazione da essi data ai libri sacri ; motivo per cui riempirono le loro scrit-
ture ed il mondo di questioni vane e ridicole, tanto sopra il nuovo quanto sopra il
Vecchio Testamento, e caddero in tanti errori storici e cronologici, ormai emendati
dai moderni savi scrittori.
La seconda parte comprende gli ultimi sei libri. Dapprima analizza le opere che
Lattanzio Firmiano, professore di eloquenza romana in Nicomedia di Bitinia, " ad
esempio dei giureconsulti i quali per bene istruire la gioventù nella giurisprudenza
romana aveano composte legali instituzioni, aveano dettate le divine, materia più alta,
nobile e necessaria „, avea scritte, dedicandole a Costantino Magno. Una breve notizia
su Lattanzio, e un paragone fra Lattanzio e Sant'Agostino precedono l'esposizione dei
libri Delle Divine I/istituzioni. L'autore trova in Lattanzio maggior bellezza di forma
che in Sant'Agostino, ed anche maggior sobrietà nelle idee; ma in quest'ultimo, in
cui vede, è vero, " il fervido cervello africano „, apprezza altamente la profondità
dell'acume, la penetrazione, l'ingegno filosofico, la coltura assai più larga e più solida,
dovuta agli studi in cui Lattanzio non era invece " cos'i perfettamente inteso „ (2).
Delle Divine Instituzioni che esamina minutamente, come dei due libri: De ira Dei
e De opificio Dei, di cui dà solo brevi cenni, il Giannone dà ogni dottrina, combat-
tendola ed avvalorandola con citazioni di autori a lui più vicini, secondo che essa
collima o no colle sue idee.
Ugualmente procede nei libri III, IV, V e VI in cui tratta degli scritti di
Sant'Agostino. Seguendo passo a passo le Confessioni, il Giannone ne narra la storia,
non tralasciando di notare quale abuso dell'interpretazione di tale libro facessero i
quietisti, i mistici e i rigoristi. Pure da Sant'Agostino e dalle sue dispute ardenti
(1) Apologia dei Teologi Scolastici.
(2) Ivi.
29 PEE UN'OPEB V INEDITA DI PIETRO GIANNONE 209
contro i Pelagiani e dai libri Sulla Grazia fa egli derivare le idee dei Gomorristi,
Arminiani e Giansenisti. Analizza infine La Città di Dio, i libri didascalici scritti a
diverse persone seconde le richieste che gli erano fatte (De mendacio contro men-
dacium; De fide et operibus; De cura prò mortibus gerendo); i libri polemici, composti
a confutazione degli eretici dei suoi tempi, concludendo col parlare dei libri scritti
da Sant'Agostino per esposizione dell'antico e nuovo Testamento.
Il settimo libro aggiunto di poi, parla in generale della vita di San Gregorio
Magno e delle occasioni che lo spinsero a scrivere le sue epistole, che espone som-
mariamente. È una parte che ha poco legame con quanto la precede.
L'Apologia ha lo stesso carattere d'erudizione un po' affastellata che hanno dal
più al meno tutti i libri di Pietro Giannone. I fatti, le opinioni, le critiche si suc-
cedono non armonicamente fusi, ma collegati soltanto dalle idee generali che infor-
mano tutta quanta l'opera sua. Il che dà un' impronta caratteristica alla forma dei
suoi lavori; forma trasandata, pesante, in certi punti in cui indugia con minuzie
d'avvocato su piccole questioni ; ma che si solleva d'un tratto robusta e nobilissima
là dove egli esprime ciò che gli arde nell'anima. Chi accusò Pietro Giannone di plagi,
come di una vigliaccheria? Molti, ma nessuno di questi, neppure il Manzoni, ne com-
prese il pensiero. Luigi Settembrini leva alta la sua difesa, e le parole che egli dice
per la Storia Civile, possiamo ripeterle anche per gli altri scritti del Giannone: " La
parte essenziale dell'opera, la parte bella, nuova ed importante è il ragionamento
sui fatti, non l'esposizione dei fatti „.
Raccogliendo il vastissimo materiale dei suoi lavori Pietro Giannone è dominato
da un pensiero che lo guida, che lo urge ; che gli fa riunire pagine altrui e scrivere
altre di getto ; e ogni suo lavoro s'informa cosi agli ideali a cui aspira, e che egli
propugna con tanto ardore.
Cosi il Summonte, il Parrino ed altri ancora l'hanno aiutato per la Storia Civile;
qualche pedante topo di biblioteca potrebbe anche far la fatica di ricercare fra la
polvere dei volumi dimenticati quanto egli abbia tratto da altri pel Triregno, e
quanto dei libri letti nei tempi in cui era libero egli ricordasse in carcere, per scri-
vere le ultime opere sue.
Ma chi leggendo osserva qualche cosa più della materialità delle parole stam-
pate, può scorgere che le pagine più belle di tutti i suoi libri, dalla Storia Civile
sdì' Ape ingegnosa, sono quelle in cui egli difende la libertà del suo paese e della sua
coscienza. Per questo appunto l'opera migliore per la forma letteraria è quella da
lui scritta per insegnare al Principe sabaudo il suo nuovo concetto politico ; per questo
appunto l'Apologia, in cui ha riunito tanta erudizione di cose ecclesiastiche, riesce una
lettura pesante, e solo quando un concetto qualsiasi dei Santi Padri che egli com-
batte od appoggia gli fa esprimere l'animo suo, o apertamente o sotto il velo del-
l'ironia, egli si ravviva e ci fa meditare.
Questo circa il valore letterario, ed ora qualcuno potrebbe esaminare quale sia
il valore dell'opera considerata come critica di libri sacri. Quanta parte di vero v'ha
nelle osservazioni mosse dal Giannone ai Santi Padri? — L'esame lungo, paziente,
minuto, da noi fattone, ci porta ad una conclusione assai semplice.
L'Apologia dei Teologi scolastici ha, rispetto alle dottrine insegnate dalla Chiesa
ai suoi tempi ed adesso, lo stesso carattere che vedemmo già nel Triregno.
Sebik II. Tom. LUI. 27
210 MARIA BEGEY 30
Io, clie detesto le questioni teologiche quanto le detestò Pietro Giannone, credo
sarebbero qui perfettamente inutili ; l'importanza dell'Apologia va considerata dal lato
psicologico. La prima domanda che ci siamo fatta incominciando il nostro studio si
riaffaccia :
Quale è il valore di quest'opera nel pensiero di P. Giannone ?
VI.
Un esame anche sommario dell' Ajyologia ci ha fatto accorti delle profonde so-
miglianze che ha col Triregno. Qual parte dell'anima antica di Pietro Giannone rivive
in quest'opera scritta dopo la sua conversione?
Vediamolo. Il Libro Primo dell' Apologia è il più importante, per le considera-
zioni generali che vi si trovano, e noi potremo dividerlo cosi: una parte d'introdu-
zione, due capitoli che riassumono il Regno Terreno, il capitolo quarto che si riferisce
al Regno Celeste; e infine gli altri capitoli che rifanno in breve, una parte del Regno
Papale.
In tutto il Triregno il Giannone dimostra un'antipatia dichiarata per le vane
discussioni teologiche dei Santi Padri. Egli inchina talora dinnanzi alle cose che non
comprende; giunge a dire in un punto: che possiamo noi sapere delle vie di Dio
per rivelare agli uomini la sua potenza? Ma non ama le dispute fatte con sottili
argomentazioni cavillose. E lo si comprende facilmente, dato il carattere del Giannone
e i suoi convincimenti. Una tale antipatia s'accordava in lui con tante ragioni.
Il suo metodo, il metodo del Gassendi, che si rannoda così strettamente a quello
d'Epicuro, non può appagarsi di voli della fantasia intorno a cose troppo alte o
troppo discordi dalla realtà del mondo e della vita, per essere comprese coll'espe-
rienza sola. Ciò che v'è di mistico in queste dispute gli ripugna come gli ha ripu-
gnato sempre tutto ciò che è trascendentale.
Anche religiosamente, non amava le dispute. Nel Regno Celeste, citando le parole
di Cristo a Marta, di non occuparsi di cose terrene, nota: " Assai più in acconcio
potrebbe dire a costoro (che si perdono disputando) che sono purtroppo solleciti in
molte cose vane, e che trascurano quel che è necessario ch'è un solo, cioè l'osser-
vanza dei precetti del Decalogo, la dilezione di Dio e del suo prossimo da cui Cristo
disse che pendevano tutta la legge e tutti i profeti „ (1).
Ma v'è, a spalleggiare questi motivi filosofici e religiosi, una forte ragione poli-
tica; il Giannone vedeva nelle dispute fatte dagli antichi Padri della Chiesa uno dei
mezzi per cui s'era trasformata la religione, accresciuta la sua potenza politica, e
fatta quindi la base del Regno Papale. Uno dei capitoli della parte incompiuta del
Regno Papale doveva avere appunto per titolo: " Danni gravissimi cagionati all'Im-
• pero dall' avere gli Imperatori permesso ai vescovi di vagar troppo per inutili e
vane questioni dogmatiche, contro il consiglio di S. Paolo „ (2).
(1) Regno celeste.
(2) Segno celeste, pag. 395.
31 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 211
Nelle prime pagine dell'Apologia si scorge nuovamente quest'antipatia per le
discussioni teologiche; antipatia che non si manifesta con aperti giudizi come nel
Triregno; in questo le dispute erano deliri, qui sono questioni astratte, inutili. Anche
il connubio della filosofia pagana colla religione cristiana è riprovato meno acer-
bamente nella forma; ma nella sostanza la disapprovazione è la medesima, poiché
nuovamente si riparla delle stesse cose e delle stesse persone; nuovamente si citano,
ad esempio, Museo e gli Alessandrini, come pure vescovi delle provincie d'Affrica.
Da questo inizio si apre il libro coi due capitoli sulle " Dispute intorno alla
creazione del mondo, sua durazione e fine „ e " Delle ricerche fatte sopra l'uomo,
sopra la natura delle anime umane, sulla loro immortalità, sullo stato loro dopo la
morte dei corpi, e sulla resurrezione dei medesimi ,, .
Siamo entrati in pieno Triregno; la materia che informava gli eretici volumi è
la stessa, subordinata ad un'idea qualunque; di modo che cambia l'apparenza este-
riore, ma non lo spirito di essa. Pensò il Giannone che sì saggiamente consigliava
il Prever nella dedica a non mostrare ad alcuno questa sua opera — che il Prever
non avrebbe riconosciuto gli errori abboniti ; fors'anche questo libro serviva a spie-
gare e ad avvalorare un punto dell'abiura: " Per ciò che riguarda gli altri mano-
scritti e note che teneva meco, e ritrovati, non sono che cartole e piccole memorie,
che secondo che andava leggendo alcuni Autori io notava, e sebbene portassero seco
un groppo di diversi errori non furono da me abbracciati, ma unicamente per no-
tare gli altrui sentimenti „ (1).
Nel Regno Terreno, egli, dopo aver ampiamente dimostrato che presso tutti gli
antichi popoli non vi fu il concetto di una felicità oltremondana, ed aver stabilito,
appoggiandosi ai libri sacri, che l'anima altro non fosse " che lo spirito di Dio che
si svolge e mescola, e di sé tutto il mondo empie e feconda „, sì che per questo
spirito " hanno vita, senso, moto ed efficacia tutte le cose sensibili ed animali „ (2),
ne è necessario fingere " un anima „ nel concetto che diedero di essa il Cartesio
ed il Malebranche, viene a discorrere nella seconda parte dell'origine, durata e fine
del mondo. Le sue idee si svolgono così. Cercato dapprima in che discordasse la
dottrina di Mosè da quella professata dai filosofi delle altre Nazioni intorno all'ori-
gine del mondo e dell'uomo, esamina le opinioni dei fenici, dei greci e degli egizi.
Attraverso a differenze secondarie viene così a scoprire in tutti i popoli l'idea mo-
saica che uno spirito vitale animasse l'universa carne. Oppugna perciò validamente
la filosofia del Cartesio, confutandone l'opinione delle due sostanze, " cogitante „ ed
" estensa „. " Non era meglio, domanda, che fingere nuove sostanze ed idee, dire che
sebbene alla materia non possiamo attribuire senso, cogitazione alcuna, nulla di manco
Iddio sin da che la creò comunicolle una tal virtù ed efficacia che tuttavia ce la
conserva, che disposta e meccanicamente ordinata in una tal forma e maniera possa
essere capace di senso e di pensiero, come la fece capace di moto? „ (3).
L'ultimo capitolo tratta del modo in cui la seria dottrina degli ebrei si conta-
minasse dai fantastici ed arditi poeti. E abbozza la trattazione, che farà poi diffusa-
mente nel volume seguente delle idee circa la resurrezione dei morti.
(1) Abiuratìo de vehementi, ecc. Punto III (Vedi documenti pubblicati coli' Autobiografia, pag. 544).
(2) Regno terreno.
(3) Ivi.
212 MARIA BEGEY 32
Nel Triregno le dottrine suesposte sono largamente avvalorate dalla discussione
di tutte le dottrine avverse a quelle del Giannone; nell'Apologia queste opinioni av-
verse sono enumerate l'una dopo dell'altra senza commento.
L'Autore si è proposto di pai-lare delle dispute dei Padri Antichi, ma non è dif-
ficile a chi conosca un poco il suo pensiero di ritrovarvi l'idea sua, talora espressa
semplicemente frammezzo ad una fila d'errori, tal altra con alcune parole che fin-
gono di contraddirla, e che servono invece a meglio affermarla, tal altra ancora
sostenuta chiaramente coll'appoggio di qualche Padre antico o di qualche moderno
teologo.
Sfilano l'una dopo l'altra le opinioni che intorno alla creazione del mondo espres-
sero i simoniaci, i manichei, saturniani, gnostici, euchiti, seleuciani, ecc., che vollero
trarre dalla Sacra Scrittura cognizioni filosofiche e scientifiche, laddove i libri saeri :
" non furono scritti se non per quanto si appartiene alla nostra salute, perchè noi
conseguir potessimo la vita eterna, immortale e beata La narrazione di Mosè
della creazione del mondo non fu fatta che per dare una adeguata idea al suo popolo
di un solo Iddio onnipotente, giusto e sapiente, descrivendo la fabbrica del mondo,
dell'uomo e degli animali e di quanto è sopra il cielo, e sopra la terra si muove,
nutre e cresce, perchè comprendesse il facitore dell'universo essere questo Dio
affinchè maggiormente fosse spinto ad amarlo, adorarlo, ubbidirlo debitamente, ed a
rendergli sacrifici con quella religione ch'egli prescrisse. Non pretese certamente
Mosè di spiegare da filosofo la natura dell'universo e di quanto in sé racchiude, della
qual cosa forse quel rude popolo era incapace, ma volle descrivergli grossolanamente
e secondo la comune capacità e le comuni idee quanto faceva bisogno al suo fine „ (1).
Chi non ritrova l'opinione espressa apertamente nella Storia Civile e nel Tri-
regno, ribadita nei Discorsi sulle Deche dì Tito Livio, che cioè i libri sacri non sono
d'origine divina? Comunque sia, le idee filosofiche, per così esprimerci, di Mosè, sono
enunciate ed interpretate nel modo più conforme alle idee del Triregno.
Ne perchè furono male comprese, ne perchè parecchi santi affermarono idee
false circa la natura, dovremo noi ad esse attenerci. La natura va studiata per sé
stessa, e non fantasticando vanamente. Né, fantasticando, si deve voler dimostrare
il modo con cui avverrà la fine del mondo.
Ma venendo poi alle opinioni sull'anima nuovamente egli enumera quelle dei
Luciferiani, di Tertulliano, Lattanzio, Agostino, di Tommaso Hobbes, degli Ermiani,
dei Manichei. Ciascuna di queste opinioni ha qualche commento particolare ; ma prima
di citare i Manichei ecco un periodo semplice semplice, che dice: " Sostengono alcuni
che Dio infondesse le anime nei corpi umani non già creandole dal nulla ma deri-
vandole dal suo spirito. Del qual parere sembra fosse stato Teodoreto... e San Gi-
rolamo „ (2).
Dalle idee sull'anima e la loro immortalità, alla resurrezione dei morti non v'ha
che un passo. Nell'ultima parte del Regno Terreno egli aveva seguito il lento tra-
sformarsi delle opinioni degli ebrei sulla natura delle anime cui si diede una vita
disgiunta da quella dei corpi e il sorgere della idea della felicità non più terrena
(1N Apologia dei Teologi Scolastici.
(2) Ivi.
33 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 213
ma oltremondana promessa ai buoni. Il Regno Celeste entra nell' argomento della
resurrezione. Essa, afferma l'Autore, fu promessa fisica e reale non già alle nude
anime ma ai corpi. Il non credere all'anima, come sostanza disgiunta dal corpo, in
nulla oppugna a quest'idea che già più innanzi esponemmo (Vedi Cap. II): alla morte
lo spirito umano ritorna alla gran massa dello spirito vitale, e il corpo, composto
di atomi, che continuamente si mutano, si dissolve. Nel novissimo die, le anime ri-
tolte allo spirito di vita, riprenderanno non il corpo avuto prima, ma uno che avrà
forma e figura di quello di un tempo. E fra la morte e questo novissimo die gli
uomini rimarranno tuffati in un profondissimo sonno.
Ebbene, apriamo V Apologia, e vi ritroveremo espressa questa dottrina ; vi trove-
remo pure come nelle parti susseguenti del Regno Celeste, che al modo stesso che gli
israeliti avevano mutato l'idea del " Regno Terreno „ in " Regno Celeste „ i cristiani
mutarono il tempo dell'avvento di questo regno celeste. Si cominciò gradatamente
col credere che queste anime conseguissero il premio o la pena delle loro azioni
subito dopo la morte, senza aspettare la resurrezione della carne; il culto dei santi.
le preghiere pei morti, le feste in onore dei martiri aiutarono il formarsi di quella
credenza. Sin che il Concilio di Firenze sanzionò l'opera compiutasi attraverso ai
secoli, stabilendo come canone la visione beatifica dei santi, prima della resurrezione
eterna.
La fine di questo capitolo, mordace e poco rispettoso nel Regno Celeste, si rad-
dolcisce nell'Apologia, ma nell'uno e nell'altra vediamo l'ira del Giannone, che già
scorge in questo anticiparsi della vita eterna la base della potenza papale.
Del resto, come notiamo nel Triregno man mano che c'inoltriamo verso il Regno
Papale un'aperta ribellione, così nell'Apologia i capitoli seguenti sono quelli in cui il
Giannone maggiormente biasima costumanze ed idee. Siamo sempre nel campo delle
discussioni inutili e vane dei Santi Padri, ma chi non riconosce nell'esposizione di
tutti gli errori dei Padri, nella nuova massima dei Teologi " intorno al governo
civile, ed alla podestà dei Principi, onde seguì tanto cangiamento nei costumi degli
uomini e delle leggi „, tutta la materia che si trova nella prima parte del Regno
Papale?
Poco a poco i Padri vengono a pretendere di stabilire dei canoni circa cose che
non appartengono alla loro giurisdizione. Sono prima delle esagerazioni circa i pre-
cetti del Decalogo, poi le questioni sulle bestemmie, spergiuri ; questioni intorno alla
morale, alla proprietà, ecc. Essendo questa esplicazione pratica della legge divina
ignota ai magistrati romani che erano gentili, la Chiesa si prese la libertà di dettare
leggi, di dare penitenze spirituali che poco a poco si cambiarono in veri giudizi
forensi e pene temporali. Intanto le oblazioni e le decime, dapprima omaggio spon-
taneo, divennero obbligatorie al III secolo, e mentre prima servivano alle cose sacre
ed alla elemosina, si tramutarono poi in ricchezza pel pontefice.
Gli ultimi capitoli della prima parte dell'Apologia trattano di quistioni varie, di
cui pure si tratta qua e là nel Triregno. Si noti che la corrispondenza di testi che
già esaminammo, non è soltanto nel pensiero, ma talora nell'espressione di esso;
vi sono periodi, pagine intere, quasi identiche nell'Apologia e nel Triregno, poiché
non c'è che la correzione di qualche frase vivace, gli stessi esempi servono a dimo-
strare che gli stessi principi, le stesse idee si riaffermano tenacemente. Veduta la
• >[ | MARIA BEGEY
o4
corrispondenza delle idee generali, noi non ricercheremo quella delle piccole questioni,
davvero vane ed inutili poiché ci ridurremmo ad un materiale confronto di pagine
nelle due opere. Anche risparmieremo questa fatica nell'esame dei sei libri che espon-
gono le dottrine di Lattanzio, Agostino e Gregorio.
Lattanzio Firmiano e Sant' Agostino sono fra gli Autori più spesso citati nel
Triregno, perciò moltissime loro idee che già erano state Hi esposte, si ritrovano,
sistematicamente ordinate, nell'Apologia.
Furono i due Autori mandatigli in lettura nel Castello di Ceva, ed egli li studiò
a fondo. Di Lattanzio già aveva parlato a pag. 114 del Segno Papale, narrando
come, fiorito ai tempi di Costantino, proibisse di trattare duramente i servi e ne
facilitasse perciò la manomissione; volle anzi che si considerassero come fratelli.
Così pure ebbe un'austera, sana morale, e si conformò ai riti della novella Chiesa.
Di Sant'Agostino si parla pure nel Regno Papale, a più riprese. Pietro Gian-
none, pur biasimandone le ardenti dispute, doveva amare nel vescovo africano l'op-
posizione fatta alla supremazia del vescovo di Roma; e la spiegazione — analoga a
quella di San Giovanni Crisostomo — che la potestà data a San Pietro da Cristo,
non distruggeva quella " egualmente „ data agli altri apostoli.
La parte che si riferisce a San Gregorio Magno, e aggiunta poi, è l'eco del
libro che egli scriverà più tardi: e l'esamineremo implicitamente vedendo l'opera:
Storia d,_ìla Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno.
Ma in questa, come in tutte le parti antecedenti, quante proposizioni " eretiche,
scandalose, o prossime all'eresia „ avrebbe potuto trovare un attento revisore!
Se l'opera fosse stata conosciuta, noi avremmo senza dubbio un elenco di tali
proposizioni, somigliante a quello fatto per la Storia Civile e ai Discorsi sugli Annali
oli Tito Livio. Però Pietro Giannone, scoraggiato forse dall'esito del primo suo libro
dedicato al Re, non mandò l'Apologia al Padre Prever. Nella relazione da questo
fatta dopo la morte del Giannone è infatti detto che l'opera promessagli da Ceva,
mai non gli pervenne.
Riunita alle altre carte dopo la di lui morte, fu sepolta negli Archivi di Stato ;
pochi la conobbero; il Mancini ne incominciò la pubblicazione che lasciò incompiuta,
il Pierantoni vi accenna appena, come fecero dal più al meno tutti quelli che del
Giannone si occuparono; il Ferrari la giudicò il mezzo con cui lo storico-filosofo si
burlava di tutti i più venerati fondatori del culto (1), e l'ingenuo archivista che
elencava i manoscritti del Giannone, dando di ciascuno un'idea sommaria, disse del-
l'Apologia: " fu scritta dopo la sua conversione: laonde sentimenti religiosi „.
Né l'uno né l'altro di questi due giudizi, che hanno radici in due opposte pre-
venzioni, ha valore, di fronte all'analisi dell'opera del Giannone. L'Autore ha esposto
i pensieri suoi come meglio ha potuto: colla sincerità e coll'ironia, talora persino
col sarcasmo. Ma l'animo suo era troppo altero, troppo nobile, perchè possiamo attri-
buirgli l'idea di aver voluto burlarsi dei suoi persecutori. Egli aveva combattuto e
sofferto tutta la sua vita; scrivendo tornava a gridarle le sue idee. La sua anima
vibra, nell'Apologia, dello sdegno, del dolore, del desiderio di libertà che vi è in tutte
(li Giuseppe Ferra™, La mente di Pietro Giannone. Lezione IX.
35 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 2 1 '■>
le opere scritte da lui prima della sua prigionia, che vi è nei Discorsi, che ritrove-
remo in quelle ch'egli scriverà di poi.
Ed è in questa ininterrotta continuità del pensiero del Giannone, in questa
tenacia nei propri principi come nei propri eri-ori, che sta il valore della Apologia
dei Teologi Scolastici. Essa non è una produzione isolata, ma si collega intimamente
con tutto le manifestazioni del pensiero di Pietro Giannone. Perciò se l'avere il
Pierantoni pubblicato il Triregno toglie alla Apologia la sua importanza come opera
di erudizione e di storia ecclesiastica, essa rimane documento importantissimo della
vita psicologica del suo autore. L'Apologia è la logica prosecuzione dei Discorsi sulle
Deche di Tito Livio, e prepara alla Storia della Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio
Magno.
Per questo valore psicologico dell'opera, io credo sia meglio conservarle il titolo
datole dal Giannone dopo tante e tante cancellature di: Apologia dei Teologi Scola-
stici, piuttosto che adottare quello che il Mancini si proponeva di porre in fronte del
volume : Delle Dottrine morali, teologiche e sociali dei Santi Padri. Che se quest'ultimo
meglio vale a caratterizzare il libro quale opera d'erudizione storica, il primo meglio
ci dà il pensiero con cui l'Autore ha collegato le antiche sue idee, e ci fa compren-
dere come egli intendesse presentarle al Padre Giovanni Battista Prever, convin-
cendolo che la sua conversione lo portava a sostenere opinioni e Autori dalla Chiesa
approvati.
Vediamo ora la relazione che ha l'Apologia colle opere susseguenti.
VII.
Gli anni 1741 e 42 furono dal Giannone impiegati a comporre la Storia della
Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno.
Anche quest'opera ha radice nel Triregno, di cui anzi, si può dire che formi
una parte integrante.
Nell'abbozzare le grandi linee generali della sua opera e parlando del " Regno
Papale „, Pietro Giannone aveva scritto: " Dovendo noi dunque particolarmente addi-
mostrarne l'origine e le vere cagioni, i progressi e le varie vicende per poter poi
più ordinatamente procedere in una materia cotanto intricata ed ampia, è di mestieri,
che si distingua l'epoca di questo regno in più periodi „ (1).
Il primo periodo egli pone fra il sorgere del Cristianesimo e la conversione di
Costantino Magno; il secondo fra la conversione di Costantino ed il Pontificato di
Gregorio Magno; il terzo va dalla morte di Giustiniano e dal Pontificato di Gregorio
Magno insino al risorgimento dell'Impero d'Occidente „ (2). L'opera è interrotta al
secondo periodo; ma dei seguenti rimane l'abbozzo, già diviso, per i primi periodi,
in capitoli.
(1) Regno papale, pag. 16.
(2) Segno papale.
216 MARIA BEGEY 36
Or bene : noi troviamo al terzo periodo il seguente indice :
Capitolo I. — Del pontificato di Gregorio Magno, nel quale il nuovo Regno
Papale fece notabili progressi non meno in occidente che in oriente:
§ 1. Nelle provincie suburbiearie del Vescovado di Roma.
§ 2. Nella Liguria, Venezia, Istria, Norico, Rezia.
§ 3. Nelle provincie sottoposte al prefetto d'Italia.
§ i. Nella Pannonia, Dalmazia, Macedonia, Bulgaria.
§ 5. Nell'Illirio occidentale.
§ 6. Nella Francia.
§ 7. Nella Spagna.
§ 8. Nelle isole Britanniche, Anglia, Scozia, Ibernia.
§ 9. Nella Germania.
Capitolo II. — Papa Gregorio Magno si mantenne nella grazia dell'Imperador
Maurizio fin che questi visse. S'intrigò nelle guerre coi Longobardi, nelle paci e negli
altri affari politici; ubbidiva alla legge degli Imperadori d'Oriente; e la stessa ve-
nerazione, fede ed obbedienza continuò coll'Imperador Foca, successore di Maurizio.
Il Capitolo III parla dei successori di Gregorio né c'interessa quindi diretta-
mente. Bastano i due primi per farci comprendere ciò che il Giannone avrebbe scritto
di questo Pontefice. E poiché in carcere gli si mandano i libri di S. Gregorio Magno
egli fa quello stesso lavoro che aveva sperato di compiere serenamente in libertà a
Ginevra.
L'ha dedicata, quest'opera, " Ai Lettori „. Il Re non aveva risposto alla offerta
sua; e del Padre Prever conosceva l'indifferenza e la diffidenza. Egli si rivolge agli
uomini liberi che leggeranno ciò che liberamente egli scrive, senza più usare pru-
denze di sorta. Il suo linguaggio è ardito come lo spirito che informa l'opera; sa che
essa rimarrà sepolta ; ma forse spera che un tempo lontano le sue idee saranno com-
prese, e germoglieranno nella coscienza del popolo italiano.
Le epistole di Gregorio sono importantissime per la conoscenza della disciplina
ecclesiastica (annunzia egli nella prefazione), perchè danno altresì lumi per la cono-
scenza della storia civile. Si vedrà per mezzo di esse " con quali mezzi questo grande
Pontefice innalzasse il vescovado di Roma a tanta eminenza quanta prima di lui non
erasi veduta giammai „.
Ed è nella dimostrazione di questo fatto, che ritroviamo l'uomo antico. Nei
quattro libri nei quali si divide l'opera egli tratta delle relazioni della Sede Romana
colle Chiese d'Oriente e d'Affrica; colle Chiese d'Europa; con quelle d'Italia e delle
sue Isole; e conclude parlando della disciplina ecclesiastica lasciataci nella Chiesa
dagli ordinamenti di Gregorio Magno, e dimostrando come : " ancor oggi fra le cose
desiderate debba riporsi un'esatta, generale e compiuta Istoria ecclesiastica „ (1).
Non ci lasciano un ricordo edificante le brighe di Gregorio colla Corte di Costan-
tinopoli pel titolo di " episcopus „, né le lotte per la supremazia del vescovo di Roma
sui vescovi di tutto l'orbe. Le Chiese d'Affrica, che un tempo avevano fatto un
Concilio (a cui aveva partecipato Sant' Agostino stesso) per invitare il vescovo di
ino /ntpaìe, pag. 198.
37 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 217
Roma a non intromettersi negli affari degli altri vescovadi, si staccano; e si stac-
cano pure le Chiese d'Oriente. Ne Roma si dà per vinta, che per mantenere i suoi
diritti, introduce l'uso di nominare i vescovi ■ in partibus infidelium „, vani titoli, dice
il Giannone, che somigliano a quelli di re su regni perduti.
Nello stesso spirito vengono esaminate le relazioni colle Chiese d' Europa e
d'Italia.
Dalle Epistole che egli ha ordinate non cronologicamente, ma razionalmente,
mostra come s'accrescesse ognor più la potenza di Gregorio. Chi avrebbe mai cre-
duto che il dominio di Papa Gregorio si sarebbe tanto allargato, esercitando egli su
tante provincie l'autorità imperiale? — domanda il Giannone al lettore: ma è certo
della risposta, perchè il modo con £iri avvenne questo fatto, egli lo ha già ampia-
mente dimostrato.
Del resto noi ritroviamo in quest'opera piccole questioni antiche su cui il Gian-
none ritorna, direi, con accanimento. La storia della vera origine e dei veri titoli
che esercitavano i re di Sicilia nel Tribunale che essi chiamavano Della Monarchia,
da lui studiata quand'era a Vienna, forma ad esempio il soggetto del XVII e XVIII
Capitolo del terzo Libro; e cosi di altre.
Ma ciò che maggiormente ci interessa si è la conclusione, perchè dimostra come
si formò la gerarchia ecclesiastica; e detto poi della necessità che v'ha di una com-
piuta Storia ecclesiastica, egli dà precisamente il disegno di quello che avrebbe voluto
poter fare col Triregno; un disegno largo che abbracciasse la storia della religione
gentile, giudaica, cristiana e maomettana; poiché, come giustamente nota: " chi dice
istoria ecclesiastica dice istoria di tutti i collegi ed assemblee di uomini insieme
convenuti per causa di religione „ (1).
E finisce dicendo : " Né era mancato in me l'animo e l'ardire di intraprendere
l'ardua fatica, e ne delineai anche alcune parti per adattarle insieme e comporre un
proporzionato sistema; ma le incessanti mie persecuzioni, le tante e varie mie sven-
ture hanno interrotto ogni mio bel disegno, e prolungato questo mio si misero stato,
sicché oppresso dagli anni e giunto in sì estrema vecchiaia sento scemarmi le forze,
la memoria svanire Che se la Reale benignità e clemenza non si compiacerà a
disporre altrimenti di me, forte temendo che non abbia a lasciar qui questa misera
vita, ho voluto a quel che non ho potuto io eseguire, altri incoraggiare, i quali forse
con maggior lena e maggior elevatezza d'ingegno potranno adempierlo e lasciare al
mondo un'istoria altrettanto per essi gloriosa ed immortale, mentre io stanco dagli
anni, logorato per lunghe fatiche e da tanti angosciosi infortuni oppresso, forza è
che soccomba e che qui deponga la mia stanca e rozza penna.
12 Settembre 1742 „ (2).
La stanchezza che qui si rivela è la stanchezza che gli impedisce oramai di
compiere lavori forti e grandiosi.
L'Ape ingegnosa lo prova; non troviamo più in questo lavoro il vigore delle
opere antecedenti in cui l'intelletto potente del Giannone collegava i fatti più diversi
ad una idea madre, e combatteva con ogni suo libro una battaglia.
(1) Storia della Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno, pag. 1.
(2) Ivi, pag. 471.
Serie II. Tomo LUI. 28
218 MARIA BEGEY 38
La Storia della Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno, che il Mancini di-
ceva " opera non di erudizione soltanto, ma di severa critica e di vigorosa pole-
mica „ (1), che il Pierantoni e tutti i critici di valore altamente lodarono, è come
l'ultimo vivo sprazzo di luce che manda il lume morente.
Con forza quasi giovanile, il Giannone ha proclamato alto un'ultima volta il suo
pensiero; oramai scriverà per suo svago, per sollievo dell'animo suo travagliato.
Anche l'Ape ingegnosa è schietta rivelazione dell'animo suo; e mostra, parmi, nella
disgregazione delle varie riflessioni filosofiche che la compongono e nella forma tutta,
lo stato psicologico del suo autore.
L'ultima parola della Storia della Chiesa e la prima dell'Ape ingegnosa dicono
lo stesso pensiero:
" L'animo stanco e le scemate forze non potendo più sostenere in questa estrema
vecchiezza lunghi travagli d'opere lunghe e laboriose, per non marcire nell'ozio e
nella desidia, la quale anche nei vecchi è biasimata da Cicerone, ho riputato nei
pochi anni di vita che mi restano rivolgergli a studi meno severi e per la vaghezza
giocondi e per la varietà meno noiosi, imitando le ingegnose api le quali nei fioriti
campi di qua e di là succhiando dai fiori soavi liquori ne formano i dolci favi „ (2).
In quest'ultima opera, che il chiaro ingegno di Vittorio Cian ha recentemente
illustrato (3), ritornano antichi pensieri espressi qua e là in libri , in lettere, ma
anche qui, non ostante la vecchiaia e la debolezza, Pietro Giannone si mantiene
nobile e sereno dinnanzi alla sventura, come al pensiero della morte, che egli dimostra
che non si deve ne desiderare né temere. Nobiltà e serenità di cui darà prova
negli ultimi dolorosi anni di sua vita.
Vili.
Le vicende della guerra per la successione Austriaca obbligavano il Giannone
ad un nuovo trasferimento. La campagna dei Franco-Spagnuoli si svolgeva appunto
verso le Langhe, sì che per allontanarne il prigioniero, il Ministro ordinava che lo
si facesse partire da Ceva per Torino; ove fu condotto non più alle carceri della
Porta del Po, bensì nella Cittadella che serviva allora come prigione di Stato.
Furono questi ultimi anni della vita di Pietro Giannone, che già tanti dolori
aveva sopportati, i più penosi. Un feroce aguzzino, il luogotenente Caramelli, aiu-
tante del Governatore della Cittadella, Marchese di Cortanze, gli fece patire le più
atroci iniquità, fin dalla prima sera del suo arrivo. Rubava sulla cibaria che il Re
passava al prigioniero, 1' obbligava a dormire su un letto di munizione, gli faceva
soffrire il freddo, la fame, ogni sorta di torture fisiche e morali. Pietro Giannone fu
trattato peggio di un volgare delinquente, e la prepotenza del Caramelli si spingeva
persino a intimargli di confessarsi nella di lui casa quando faceva comodo alla moglie!
Soffrì il prigioniero in silenzio, per due anni, sempre sperando di vincere colla
generosità l'animo perverso del Caramelli, ma dal silenzio invece questi prendeva
ardire per aggravare vigliaccamente la mano.
(1) Prefazione alla Storia della Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno.
(2) L'Ape ingegnosa, pag. 1.
(3) Vittorio Ciak, L'agonia di un grande italiano stpolto viro, " Nuova Antologia „, 15 febbr. 1903.
39 PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 219
Infine nel maggio del 1746 il Giannone indirizzava al Marchese di Cortanze un
memoriale che è uno dei documenti più dolorosi di questa storia infelicissima, nar-
rando tutti i patimenti sofferti, e ciò con tale nobiltà d'animo che attraverso ai
secoli quelle pagine ci fanno fremere di pietà e di sdegno.
Il Marchese di Cortanze accolse il memoriale, e le condizioni del prigioniero si
raddolcirono un poco. Potè ottenere ogni giorno due ore di passeggio per la Citta-
della, gli fu permesso di andare in chiesa, di indirizzare una supplica alla Maestà
del Re. Ma sebbene gli fosse risposto che si sarebbero tenute in considerazione le
sue domande, anche questa supplica rimase senza effetto. Ne giustizia, né pietà po-
tevano di fronte all'interesse politico per cui la prigionia del Giannone era stata
promessa ; e, ciò ch'è peggio, in quei tristi tempi nessun sospetto più grave poteva
colpire un uomo che quello d'eresia.
Così visse Pietro Giannone gli ultimi suoi anni. La speranza che a Miolans, a
Torino, a Ceva aveva avuto di riacquistare la libertà s'andava spegnendo. Le tristi
condizioni dell'animo suo e la stanchezza della vita non gli permisero più di occu-
parsi; eppure, segno della sua vitalità, egli meditava un'opera nuova di cui disse
il disegno al Padre Prever, sulle massime del Vangelo e quelle del mondo.
S'egli avesse potuto compierla, una tal opera, io credo che non sarebbe stato
come vorrebbe Giuseppe Ferrari " l'ultimo scherzo dell'agonizzante „ (1) fatto al
Padre Prever e a quelli che lo tenevano prigione; no. Sarebbe stato il coronamento
dell'opera sua; egli avrebbe riaffermato al Padre Prever stesso, che tratto tratto lo
visitava, ma che non fece mai nulla per addolcire le sue pene e per impetrargli la
clemenza del Re, che la religione di Cristo insegna l'amore, la misericordia e il
perdono.
Ma una malattia che durò pochi giorni lo coglieva nel febbraio del 1748.
Pietro Giannone che aveva aspettato serenamente la morte, dando prova, come
attesta il Prever, della tranquillità d'animo dei forti, lasciava la vita il 17 febbraio,
in pace con Dio.
Dove il suo corpo travagliato riposi il sonno eterno noi non sappiamo. Le vi-
cende varie che il Piemonte attraversò impedirono di ricordare il solitario pensatore
morto povero e oscuro nelle prigioni della Cittadella di Torino ; ma visse l'idea sua
che germogliò nella coscienza del popolo italiano. Un secolo dopo la morte di Pietro
Giannone, tutta Italia — dal Piemonte dove aveva finito i suoi giorni, alla sua
Napoli, dove aveva incominciato l'opera di riscossa — insorgeva nel nome santo
della libertà.
E per questo suo sogno di libertà, per tutto ciò che per essa sofferse, oggi a
distanza di tanto spazio di tempo, la figura di Pietro Giannone ci appare purificata
dagli errori a cui lo portò nel fervore della lotta la sua ardente natura, dai travia-
menti e dalle debolezze a cui lo portò la fragilità umana. Noi c'inchiniamo riverenti
al suo nome, cui resero sacro l'amore per l'Italia e tanta sventura.
(1) Giuseppe Fereari, La mente di Pietro Giannone. Lezione IX.
220 MARIA BEGEY — PER UN'OPERA INEDITA DI PIETRO GIANNONE 40
BIBLIOGRAFIA
Manoscritti del Giannone - Mazzi I-II-III-IV-V (Archivio di Stato di Torino).
Giannone P., Storia Civile del Regno di Napoli. Napoli, Naso, 1723.
Id. Opere inedite, pubblicate per cura di Pasquale Stanislao Mancini: Voi. I. Discorsi sugli annali di
Tito Livio. — Voi. II. Storia della Chiesa sotto il Pontificato di Gregorio Magno. Torino, Società
Tipografico-Editrice, 1859.
Id. Seconda parte delle Opere postume di Pietro Giannone, giureconsulto ed avvocato napoletano, con-
tenente alcune sue opere inedite e precedute dalla vita del medesimo autore, per l'abate
Lionardo Panzini. In Londra, 1766.
Id. // Triregno, con prefazione di Augusto Pierantoni. Roma, Tipografia Elzeviriana, 1895.
Id. Il Tribunale della Monarchia in Sicilia. Opera postuma pubblicata da A. Pierantoni. Roma,
Loescher, 1892.
Id. Risposta alle annotazioni critiche sopra il IX' Libro della Storia Civile.
Id. Opere postume, in difesa della sua " Storia Civile „ con la di lui professione di fede. Napoli,
All'insegna della verità, 1760.
Id. Lo sfratto da Venezia. Auto-narrazione con prefazione di Augusto Pierantoni e documenti inediti.
Roma, Loescher, 1892.
Id. Autobiografia. I suoi tempi, la sua prigionia, di Augusto Pierantoni. Roma, Perino, 1890.
Ferrari Giuseppe, La mente di Pietro Giannone. Milano, 1868.
Manzoni, Storia della colonna infame.
Nuova Antologia, 16 febbraio 1903. Prof. Gian Vittorio, L'agonia di un grande italiano sepolto rivo.
Occella Pio, Pietro Giannone negli ultimi anni di sua vita (1736-1748). Torino, Bocca, 1878.
Rivista Contemporanea, maggio 1869, Giannone e Vico (La mente di Pietro Giannone - Lezioni di
Giuseppe Ferrari), per Raffaele Mariano.
Settembrini Luigi, Lezioni sulla letteratura italiana. Napoli, Morano, 1886.
Soria Francesco Antonio, Memorie storico-critiche degli storici napoletani. Napoli, 1781
Zalla Angelo, Studii storici. Firenze, 1890.
VITA
DI
CARLANTONIO DAL POZZO
Arcivescovo di Pisa
FONDATORE DEL
COLLEGIO PUTEANO
MEMORIA
DI
DOMENICO VALLA
Appr. nell'Adunanza del 3 Maggio 1903.
PREFAZIONE
Nel dicembre del prossimo anno ricorrerà il 3° centenario della fondazione del
Collegio Puteano, sorto in Pisa per opera dell'Arcivescovo CaiTAntonio dal Pozzo. La
vita di questo insigne Prelato fu scritta, verso la fine del sec. XVIII, da quel Carlo
Tenivelli che fu maestro del Botta (1). Ma pel rinnovato sistema negli studi storici,
e dopo tanta esumazione di documenti, il lavoro del Tenivelli viene ad essere alquanto
insufficiente. Le fonti, a cui egli attinse sono tre: la storia del Galluzzi, e le due
orazioni funebri di A. Corsi e di F. Bocchi. In queste ultime abbonda la retorica,
talora a detrimento della verità. Vi si dice, per esempio, che il Dal Pozzo non si
raccomandò a nessuno per ottenere PArcivescovado di Pisa, e che anzi lo accettò a
malincuore, quando finalmente il Papa glie lo conferì. Risulta invece da una lettera,
sinora inedita (v. pag. 5), che lui pel primo domandò quella cattedra arcivescovile,
appena seppe che era rimasta vacante. Il Galluzzi in quelle poche pagine, dove parla
del Nostro, racconta, al solito, i fatti senza confermarli coll'autorità dei documenti.
Io pertanto mi proposi di risalire immediatamente alle fonti, al materiale d'archivio
sopratutto, e di ricavarne una biografia tutta nuova, in cui i fatti, vagliati e discussi,
siano altresì corredati dei rispettivi documenti.
(1) Il Botta ne raccontò {Storia d'Italia 1789-1814, Lib. XI) la miseranda morte con afietto di
discepolo riverente.
_»-J2 DOMENICO VALLA
Cenni biografici.
Cari' Antonio dal Pozzo (1) nacque l'ultimo giorno di novembre dell'a. 1547 a
Biella, che era allora una piccola città con quattro miglia di circuito soltanto (2).
Era ancora in tenera età quando perdette la madre, Amedea Scaglia, perchè il padre
suo, Francesco, Conte di Ponderano e dei Marchesi di Romagnano, gli morì nel '64,
allorché già aveva sposato in seconde nozze Caterina Vassallo di Favria. Giovanis-
simo, si recò a Mondovì, dove era stata trasferita l'Università Piemontese (3), e qui
si applicò allo studio della legge ed ebbe per Professori i celebri giureconsulti Gia-
como Menochio e Aimone Cravetta, i cui scritti sono spesso citati nell' opera sul
Principe che comporrà più tardi. Da Mondovì passò a Pavia, dove sappiamo che te-
neva una condotta esemplarissima (4). Fu anche a Pisa, Padova, Bologna. In questa
ultima città si addottorò nel '66 a' dì 1° ottobre, in età di 19 anni. Il Corsi (5), e,
sulle sue orme, il Tenivelli asseriscono che il Montarenzi si stimò fortunatissimo di
conferire le insegne dottorali a un giovane così distinto per nobiltà di natali e per
copia di erudizione.
Il neo-dottore, ritornato a Torino, pare che si mettesse al servizio del Card. Bobba
in qualità di segretario, e che in quello stesso anno lo accompagnasse a Roma (6).
Probabilmente fu allora per la prima volta presentato al Card. Ferdinando De' Me-
dici; ma nell'eterna città vi si trattenne per poco; ritornò ben presto a Torino,
dove attese ad esercitare l'avvocatura. Intanto per mezzo del Bobba e del Card. Fer-
dinando facevasi raccomandare al Gran Duca Cosimo I e al figlio Francesco che a
nome del padre reggeva lo Stato (7).
Giulio Del Caccia, il quale andava e veniva da Torino per sentire i responsi di
Perin Bello sulla quistione sorta tra Lucchesi e Ferraresi (8), è incaricato anche di
prendere le debite informazioni sul conto del nostro Carl'Antonio: e infatti osserva
e riferisce; alla corte Medicea parla di lui con lode e ne mette in rilievo la speciale
perizia nel discutere le cause.
Il Gran Duca allora lo chiama a Firenze ; ed egli subito si dispone a partire con
una lettera rilasciatagli da Perin Bello, Consigliere di Stato e Presidente del Senato
(1) Così egli firmavàsi prima che fosse Arcivescovo. In seguito sottoscrivevasi Carolus Antonius
Puteus Archiepiscopi^ Pisanus.
(2) E. Alberi, Relazioni degli Ambasciatori Veneti. Firenze, 1839-63, voi. 2° (2a serie), pag. 248.
(3) C. Bonardi, Lo studio generale a Mondovì, ed. Torino, 1885.
(4) Barelli, Memorie dell'origine, fondazione ecc. dei Chierici Regolari di S. Paolo. Bologna, 1707,
voi. 2°, pag. 76.
(5) Corsi, Orazione in lode dell'Ili.""' e R.m° Mons." Carl'Antonio Dal Pozzo Arcir. di Pisa.
Firenze, Giunti, 1808.
(6) Tenivelli, Biografìe Piemontesi (ed. 1785). Decade 2a, pag. 243 e 285.
(7) Arch. Mediceo, filza 5105, lettera del Gr. Duca al Cardinale, 10 dicembre 1571, f> 3737, lettera
del Card. Bobba. Roma, 2 giugno 1572, f» 3738, Roma, 11 luglio 1572.
(8) F. Rondolino, op. cit. in " Misceli, di st. it. „ edita per cura della R. D. di st. patria di
Torino, T. XII (2a serie). — Adriani G. B., Istorie, ed. 1587, voi. 2°, lib. 19, pag. 1368.
a VITA DI CAKLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 223
di Piemonte, e indirizzata a Bartolomeo Concini 1° Segretario di Corte. In questa
lettera si scrive: " ...non ho voluto, perle buone qualità sue, mancare di far fede a
V. S. ch'io per le attioni sue, manifeste non solo a me, ma a tutto questo paese, lo
reputo di tale sufficienza et valore, che ardirò dire che de l'età sua trovarla pochi pari in
tutta Italia „ (1). Il Dal Pozzo fu nominato Giudice o Auditore di Ruota (2), ossia
Giudice di Tribunale, come ora si direbbe ; il qual ufficio non conferivasi se non ai
forestieri. A' dì 2 settembre del 1572 è già ricordato come Giudice di 1° Appello del
Quartiere di S. Maria Novella e S. Giovanni (3). Ma per breve tempo tenne que-
st'ufficio: nel luglio del '74 (4), non soltanto nel '75, come asserisce il Tenivelli, è
rivestito della carica di Auditor Fiscale.
D'ora in avanti deve attendere alla difesa di tutte le cause, dove il Fisco ha
interesse; deve procurare che tutti i magistrati della città osservino le loro leggi;
deve andar fuori per il dominio a ricercare se i popoli si dolgono dei Rettori (5);
deve visitare le carceri una volta al mese, e più o meno secondo il beneplacito del
Gran Duca; deve farsi mandare dai Rettori una nota di tutti i carcerati che hanno
da pagare le condanne o altri debiti allo Stato ; deve soprintendere a tutti i Depo-
sitari, Camarlinghi, Provveditori dei Magistrati e dei Rettori e vigilare per la riscos-
sione dei erediti del Fisco (6).
Il Galluzzi osserva che il nostro Dal Pozzo può dirsi il primo che facesse emer-
gere fuori dei limiti del Fisco la sua autorità (7) ; in altre parole , fu qualcosa di
più che Avvocato Fiscale. Cominciava in certo qual modo a far da Consigliere del
Gran Duca in cose giurisdizionali. Trascriveremo qui per disteso una breve lettera
che conferma quanto noi diciamo:
Serenissimo Patron mio,
Ho visto, con quella diligenza et secretezza qual per ordine di V. A. mi fu comandatto, li
processi agitatti in Siena fra Gio. Batta de' Sancti et li fratelli Pontani ; et tutto considerato,
referisco a V. A. che per mio parere la causa è degna di revisione : non mi estenderò in far
narrativa del fatto et delle ragioni quali mi moveno per non infastidir V. A., al che però sarò
pronto sempre che V. A. resti servita accennarlo. Et intanto con '1 cuore a V. A. faccio humil-
mente riverenza.
Di casa alli 20 di febraro 1580.
Di V. Altezza Humil.mo Servitor
Carl 'Antonio dal Pozzo (8).
Antonino Tessauro, 1° Presidente del Senato, e padre di quell'Alessandro che fu
poeta didascalico e amicissimo del Nostro (9), essendo stato invitato a venire in To-
scana per discutere una lite di confini, tiene di tutto informato il Fiscale, perchè a
(1) Carte Strozziane, filza 22, e. 161.
(2) Id., filza 39, e. 95.
(3) Arch. della Ruota, filza 3099, e. 11.
(4) Archivio della Camera Fiscale, filza 1635, e. 1.
(5) " Rettori del Dominio „ erano i giudici del contado, i giudici della città erano detti Magistrati.
1,6) Cantini, Legislazione Toscana, voi. 5°, pag. 75-92.
(7) Galluzzi, Storia del Granducato di Toscana (ediz. 1841), voi. 4°, pag. 9.
(8) Arch. Med., filza 744, e. 180.
(9) Vedi un mio articoletto in " Arch. stor. it. „, serie V, tomo XXIII, disp. 2a, pag. 336.
224 DOMENICO VALLA 4
sua volta trasmetta le notizie al Gran Duca (1). Dalla congiura de' Pucci (1575) le
confische fatte sui beni dei congiurati portarono all' erario il guadagno di 30.000
scudi. Segno che il N. faceva ben bene il suo dovere.
Ed ora ci si presenta un fatto curioso: Nel '78 il N. facevasi ordinar prete:
tutti i biografi credettero sinora che quando, più tardi, fu fatto Arciv. di Pisa, fosse
ancora laico; ma nuovi documenti, che ora per la prima volta vedono la luce, dicono
chiaramente che nel 1582 il N. eragià Protonotario Apostolico e in sacris da quattro
anni (2). Intanto osserviamo il fatto singolarissimo di un Avvocato Fiscale che d'ora
in avanti è anche prete.
Agli ultimi di maggio di questo stesso anno (1578), Mons. Pacino, Vescovo di
Chiusi, trovavasi in pericolo di vita. Il nostro neo-sacerdote pregava ben tosto il
Ministro Serguidi e il Gran Duca, perchè lo raccomandassero al Papa nel caso che
vacasse quel Vescovado (3). 0 che il Pacino non morisse, o che le preghiere del N.
non fossero esaudite, certo è che lui, il Dal Pozzo, Vescovo di Chiusi non fu. A' dì
7 aprile dell'anno seguente esprimeva al Gran Duca il desiderio di essere nominato
Coadiutore dell'Arciv. di Siena: ma neppure ciò potè ottenere (4). Nel luglio trova-
vasi a Bologna, non si sa se per ragion d'ufficio o se per mero caso ; gli capitò nelle
mani un importantissimo deposito giuridico, dove si diceva che Don Antonio non era
figlio di Bianca Cappello, come lo stesso Gran Duca credeva, ma bensì figlio di una
donna del popolo chiamata Lucia (5). Il Dal Pozzo si affrettò a trascrivere una copia di
simile documento e a mandarla al cardinal Ferdinando, che cercava sempre di tenere
informato degli intrighi di corte: e ciò faceva per debito di gratitudine verso colui
che gli aveva procurato il posto di Auditor di Ruota.
Nel 1582 morirono a breve intervallo l'uno dall'altro due fratelli del N. In questa
luttuosa circostanza egli dovette recarsi a Torino per assestare cose di famiglia (6).
Si recò anche dal Duca di Savoia e gli lasciò capire che il Gran Duca Francesco si
sarebbe ritenuto fortunato di dargli in sposa una delle sue figliuole (7). Fu di ritorno
a Firenze il 19 maggio. Carlo Emanuele avevagli anche consegnato una lettera da
rimettere al Gran Duca (8).
La ferita prodottagli dalla recente disgrazia accadutagli in famiglia doveva
essere rimarginata da un caso lieto. A' dì 8 giugno rendevasi vacante l'Arcivescovado
di Pisa per la morte di Mons. Matteo Rinuccini. Subito il N. dà di piglio alla penna,
e scrive:
(1) Arch. Med., f» 674, e. 297; f 696, e. 13; f 701, e. 146; f 703, e. 207-206; f 306, e. 241.
(2) " Il signor Cari' Antonio ha qualità si bonorate et si proporzionate a quel carico che io non so
dove S. Santità potesse collocarlo meglio. L' età sua è di 35 anni. Già quattro anni si fece prete,
poiché così ordinò S. Santità... „. Lettera di Pier UsimbarJi al Card. Ferdinando scritta da Firenze
li 9 giugno 1582. Arch. Med , filza 5109, e. 94 e 103.
(3) Arch. Med., filza 711, e. 58.
(4) Ibid., filza 722, e. 244.
(5) " Rassegna Nazionale „, fase. 1° marzo 1899.
(6) Arch. Med., Blza 754, e. 545.
(7. [Lia., filzi 755, e. 108-140.
(b) Ibid., filza 755, e. 436: " Arrivai due giorni suono, et poiché spero che V. A. deva esser di
felice et presto ritorno, non havendo a riferirli cosa che non possa aspettar tempo, mi tratterrò sin
al riturno di V. A. Et intanto li mando l'alligata del Signor Duca di Savoia ecc. Di Fiorenza alli
21 maggio 1582.
5 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 225
Serenissimo Signor Patron mio,
Sentendo in questo punto la morte dell' Arciv.° di Pisa, non ho volsuto mancare di ricor-
rere all' A. V. suplicandola a favorirmi della nominatone particulare con S. Santità, come si è
degnata in altre occasioni, assicurandola che in qualsivoglia fortuna che la mi porrà, habia da
servirla fedelmente, et ricognoscere ogni mio bene da Lei, alla qual facio humilmente riverenza:
alli 10 di giugno 1582.
Di V. A.
Burnii.""' et ^delissimo Servito)-
Carl'Antonio dal Pozzo (li.
Sbaglia pertanto il Bocchi a scrivere: * Carolus Antonius Puteus nemini, ut
sacram dignitatem assequeretur, supplicava „ (2). Erra similmente il Corsi ad affer-
mare che il Dal Pozzo " fece grandissima resistenza di non voler pigliare a portare
sopra le sue forze di cosi gran carico „ (3). Invano si arrabattano i due panegiristi
a difendere il postulante dall'accusa da cui si difende da per se dinanzi al tribunale
della storia vera, che giudica l'uomo con speciale riguardo all'ambiente in cui visse.
È bensì certo che un pastore di anime, compenetrato dello spirito evangelico, invece
di domandare una cattedra Vescovile, la rifiuta se gli viene offerta; ma dobbiamo
considerare che quelli erano tempi in cui piscabantur Episcopatus (4), e che allora
sarebbe stato insulsamente modesto un gentiluomo che, occupando una delle prime
cariche civili, non avesse anche espresso il desiderio di essere insignito di qualche
dignità ecclesiastica. Ma il Dal Pozzo, per sua disgrazia, aveva ben sette competitori
Alcuni Fiorentini, arguti e maligni nello stesso tempo, andavano dicendo clie, fra
tanti concorrenti, il Papa, per non far torto a nessuno, avrebbe finito con dare quel-
l'Arcivescovado al sagrista di Fivizzano (5). Gregorio XIII in realtà propendeva per
Giovanni Alberti, fiorentino, Vescovo di Cortona e Ambasciatore residente alla Corte
Cesarea (6). Senonchè costui era incolpato di aver venduto una prebenda per 700 sacchi
di grano; e ciò bastava perchè su di lui non cadesse la nomina. Il N. poi, per sua
disgrazia, non era troppo accetto al Pontefice, e non si sa per qual ragione; ma
alla Curia Romana aveva un forte appoggio nel Card. Ferdinando, con cui già sin
d'allora era carne et ongia (7), per esprimermi con una frase sua propria e comu-
nissima anche oggi nel dialetto piemontese.
Questo suo amico e protettore, la mattina del 7 agosto, mentre cavalcava per
Roma insieme col Papa, gli si accostò tanto da toccargli l'argentea barba per doman-
dargli che risoluzione aveva preso circa l'Arcivescovado di Pisa. Il vecchio lesse, per
dir cosi, nella mente del Cardinale, indovinò il suo pensiero, e gli disse che avrebbe
dato più volentieri quella Chiesa all'Alberti, ma che, a causa della simonia, non po-
tendo risolversi in lui, si contentava della persona del signor Cari' Antonio (8).
(1) Arch. Med., filza 755, e. 616.
(2) Op. cit., pag. 9.
(3) Op. cit, pag. 20.
(4) Vedi l'opera giuridica del Dal Pozzo, voi. 4°, e. 356 (mss. alla Laurenziana).
(5) Arch. Med., filza 5117, lettera del card. Ferdinando, 29 giugno 1582 e filza 5109, e. 125.
(6) Ibid., filza 5109, e. 103 e filza 3747, lettera del card, di Como l'ultimo di giugno 1582.
(7) Ibid., filza 757, e. 259.
(8) Ibid., filza 5117, Roma, 7 agosto 1582.
Sekie II. Tom. LUI. 29
DOMENICO VALLA b
Strappato così il consenso Pontificio, il Card. Ferdinando scrive al nostro Fiscale,
notificandogli il fatto (1), e contemporaneamente scrive al Nunzio di Firenze incari-
candolo di dargli " l'esamine che si richiede per il sacro Conc. Tridentino „ (2).
Ubbidì il Nunzio; e, terminato l'esperimento, ne mandava a Roma il relativo
processo per la revisione del Pontefice ; il quale tutto approvava, e a' dì 7 settembre
" preconizzava , il Dal Pozzo Arcivescovo di Pisa (3). Il nuovo eletto non aveva diritto
ai frutti della Chiesa, se entro tre mesi dal giorno della preconizzazione non rice-
veva la consacrazione (4). Il Nostro veniva consacrato verso la fine di novembre o
ai primi di dicembre (5). Sin dal 30 settembre lo stesso Gran Duca aveva esortato
Mons. Calefato ad accettare l'ufficio di Vicario che il neo-Arcivescovo voleva confe-
rirgli (6); e a' dì 23 ottobre incaricavalo di pigliar possesso della Chiesa (7).
Il Nostro, fatto così Arcivescovo, passò alla corte Medicea; ivi si tratteneva per
tutto il tempo che non era tenuto alla residenza in Pisa, servendo il Gran Duca in
qualità di Consigliera Segreto. Ciò rilevasi dalle sue lettere scritte da Firenze negli
anni 1582-87, ossia dal principio della sua carriera Episcopale sino alla morte del
Gran Duca Francesco. Suo compito era di dare consigli, pareri, opinioni, specialmente
in cose giudiziarie (8); ma in realtà entrava un pochino nell'amministrazione gene-
rale, tanto che qualcuno tentò di riferire al Papa che l'Arcivescovo di Pisa faceva il
ministro, e che il Gran Duca mandava la iurisditione spirituale sottosopra. A questo
proposito sarà bene riportare una lettera scritta dall'Arcivescovo stesso e diretta al
Serguidi, 1° Segretario di Stato:
...Huora saprà che il diavolo ha trovato modo di tentarmi, se io sapevo far dar quattro
pugnalatte al Nicolo Calefatti, alias monsignore. Pure Dio mi aiuta, et non mi abandona della
gratta sua, et così in Sua Divina Maestà ho rimesso tutto, et in S. A. che è più tocca di me,
et so che difenderà il suo et mio honore, anzi quello di Dio. Et adesso è tempo che V. S. aiuti
et favorisca l'inocentia mia, che mai da Juda in qua fu inteso il maggior assassinamento. Ho
processato qua un frate.... Questa bestia del Calefatto è andato a persuader il frate (ch'aveva
promesso di farlo) ch'andasse a Eoma et proponesse di voce che il Gran Duca mandava la
iurisditione spirituale sottosopra et usurpava, et che io facevo '1 ministro. Et à ordinato un
memoriale di sua mano, che se ne facesse due copie, una per il Papa, et l'altra per la Con-
gregatione, ma senza nome, per metter alle mani il Papa con S. A. et nocer a me, et indriz-
zando il frate al card. Santa Severina. Dio che vole aiutar l' inocenza mia , et che costui sia
castigato, ha fatto che tutto è capitato in mia mano. Et il frate m'ha dato ogni cosa , et ho
tutto in scritto di mano propria sua. Est crìmen laesae maiestatis et per conto di S. A. et anco
(1) Arch. Med., filza 5117, lettera del Card. Ferdinando al Dal Pozzo, Roma, 7 agosto 1582.
(2) Ibid., filza 5117, lettera del Card, al Nunzio.
(3) Ibid.
(4) Pallavicino, Istoria del Conc. di Trento. Roma, 1657, voi. 2", pag. 816.
(5) Le sue lettere sino al 22 novembre sono firmate VArciv." eletto iti Pisa. Dal 3 dicembre in
poi sono firmate VArciv." di Pisa senz'altro.
(6) Arch. dell'Arcivescovado di Pisa, Acta Extraordinaria, filza 15, e. 1.
(7) Bibl. Riccardiana, mas. 2205, e. 1.
(8) Arch. Med., filza 1188, 3» ultima carta. Parere autografo. Altri pareri v. in Arch. Med.,
filza 763, e. 644; f» 779, e. 82; f* 769, e. 508; f* 1189, lettera 2a dell'inserto: L'Arciv. manda al
Serguidi la risposta da farsi per la causa dell'Avogadro; filza 1193, lettera 2a dell'inserto.
7 VITA DI CAELANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEAXO UliT
contro, proprium, Episcopum. Però costui è laico et non ha ordini (1) né benefitio , et l'offitio
non lo fa nulla (2). Et così è cognitione delti otto (3). Et spero che S. A. lo deva metter in un
fondo di torre a vita, che il maggior contento non può fare a suo padre. Se fosse non laico,
lo castigarei io. Mando Lorenzo a posta, et mando tutte le cose iustificatissime: lui portare in
qua l'ordine al Bargello che. lo conduca costì come V. S. li ordinarà. Et S. A. si contenti liaver
patienza di sentir legger tutto questo: è il demonio et lo cognosco. Non lo facio per vendetta,
ma perchè anco Dio si risente per esser tocco nello honore, et V. S. sa quanto premano queste
materie. Finisco et me li raccomando. Di Pisa alli 18 di maggio 1583.
Solito Servitor
L'Arcivescovo di Pisa (4).
(Poscritto). Bisogna star segretto sino che il colpo è fatto.
Dire che l'Arcivescovo facesse il ministro, sarebbe forse un'esagerazione, ma che
egli avesse molta ingerenza in cose di capitale importanza, non è da mettersi in
dubbio. " Nel trattato di Francia S. A. mi comandò che se l'accordo di Madama era
excluso, io andassi udendo et avisando „ (5). Così lui stesso scriveva al Serguidi. Il
Gran Duca gli comandò di distendere la riforma dello offitio de' Fossi (6), di pubbli-
care una dichiarazione, dove sono annoverati gli obblighi de' mallevadori (7). La let-
tera scritta a Madama (ossia alla Regina di .Spagna) non è se non una copia di quella
scritta dall'Arcivescovo (8). Il Gran Duca lo incarica di comprare case in Pisa del
valore di 450 scudi (9).
Nel novembre dell'82, nell'occasione che si recò a Roma per essere consacrato
Arcivescovo, a nome del suo Patrone dovette supplicare il Papa a concedere un'Ab-
bazia al Card. Ferdinando (10). Nell'aprile dell'84 fa parte della comitiva che accom-
pagna la figlia del Gran Duca, che va sposa al figlio del Marchese di Mantova (11).
Circa la compra del Ducato di Popoli dà al Gran Duca alcuni avvertimenti, facen-
dogli conoscere per qual motivo bisognava aprire ben bene gli occhi (12). Nel maggio
dell'85 è mandato a Roma per presentare, a nome della famiglia Medicea, le con-
gratulazioni a Sisto V della sua assunzione al Pontificato (13). In ogni circostanza il
Dal Pozzo procedeva sempre colla massima rettitudine (14): questa, anzi, era tale
che se si fosse regolato così verso Dio, si sarebbe assicurato un luogo fra i S,udi,
come soleva esprimersi lui stesso (15).
(1) Siccome fu Vicario dall'ottobre 1582 all'aprile 1583, bisogna supporre che per tale ufficio
non si richiedessero gli ordini sacri.
(2) non lo fa nulla = non gli conferisce alcun carattere sacro.
(3) Il tribunale degli Otto di Guardia e Balia.
(4) Ardi. Mediceo, filza 1189, lettera 8" dell'inserto. Per " inserto „ intendiamo sempre l'insieme
di alcune carte riunite e ordinate dentro un sol foglio, su cui sta scritto: " L'Arcivescovo di l'imi ...
(5) Arch. Med., lettera 11» dell'inserto in filza 1193.
(6) Ibid., filza 760, e. 305.
(7) Areh. Agostini, filza 444-92, lettera 355. Serravezza, 4 ottobre 1606.
(8) Arch. Med., filza 763, e. 644.
(9) Ibid., filza 1189, lettera 2» dell'inserto.
(10) Ibid., filza 757, e 246, 252 e segg. e filza 1187, lettera 7a dell'inserto.
(11) Ibid., filza 1189, lettera 9» dell'inserto. Di Mantova, l'ultimo di aprile 1584. Ibid., lettera 4".
(12) Ibid., filza 764, e. 491.
(13) Ibid., filza 1193, lettera 3» dell'inserto. Pisa, 7 maggio 1585.
(14) Lo stesso Gran Duca scriveva: " L'arciv." è stimato di tale intelligenza et bontà che non
sia per permettere che ricevano torto „, 17 luglio 1583. C. Strozz., filza 142, e. 4.
(15) Areh. Med, filza 769, e. 488-90.
228 DOMENICO VALLA 8
Xon minore era la sua deferenza verso il Patrone: quando si assentava da Pisa
per recarsi a Roma, a Torino o altrove, domandava prima licenza (1). Nell'ammini-
strazione dei monasteri, Dell'assegnare prebende e cappellanie, spesso non faceva altro
che eseguire la volontà del Gran Duca (2). Permetteva che fosse demolita la Chiesa
di S. Donato, perchè il Gran Duca si servisse del sito et della materia per erigervi
una fabbrica (3). Pregava Dio per il buon accasamento della Principessa (4) e per il
felice parto della signora Bianca (5). Insomma si mostrava in tutto e per tutto fidele
servitor del Gran Duca e della sua famiglia. Nel 1587 Francesco moriva: succedevagli
il fratello Ferdinando. Esamineremo in un capitolo a parte gli ulteriori rapporti del-
l'Arcivescovo con lui. e l'opera prestatagli come Consigliere segreto.
Qui vediamo brevemente in qual modo egli resse la sua Diocesi: Anzitutto si
mostrò assai rigido verso il clero secolare e regolare, dove serpeggiava la corruzione.
Non erano pochi i preti e i frati concubinari (6) o dediti all'ubbriachezza e ai ba-
gordi (7). L'Arcivescovo li faceva talvolta catturare dal Bargello (8). Per punire i
trasgressori di qualunque specie aveva a sua disposizione le seguenti pene: la tor-
tura (9), i tratti di corda (10), i colpi di frusta (11), la pena vergognosa dell'asino e
della scopa (12), gravi multe (13), e anche la galera (14). Condannava alla più stretta
clausura quelle monache che si mostravano capricciosette e ostinate (15).
(1) Arch. Med., filza 1193, lettera 3a dell'inserto " L'Arcivescovo di Pisa „.
(2) Ibid., filza 1189, lettera 4" dell'inserto. Arch. Agost., filza citata, lettera 107.
(3) Arch. Med., filza 1189, lettera 3a dell'inserto. 6. Sainati, op. cit.. ed. 1898, pag. 154.
(4) Arch. Med., filza 760, e. 242.
(5) Ibid., filza 1195, lettera 7" dell'inserto. Pisa, 15 novembre 1586.
(6) Arch. Agost., filza 444-92, lettera 183: Firenze, 13 ottobre 1590. Lettera 203: Firenze,
25 aprile 1582. Lettera 134: Roma, 26 agosto 1585. Prete Giobbe pensa a mantenere in casa la
concubina, ma non a soccorrere i parenti bisognosi. Un frate era stato mandato a Pisa per fare libri
di canto ; e per poter convivere con due vezzose ragazze, andava dicendo che erano sue cugine.
Un altro frate, avendo sposato una giovinetta, per non essere punito voleva far credere che non aveva
ancora ricevuto i sacri ordini.
(7) Ibid., lettera 300 scritta da Firenze, 26 luglio 1599. ' Quanto al prete Ventura V. S. li faccia
un precetto con rogito che per l'avenire s'astenga dalle sudette ebrietà, bagoi-di,.. con Preti, et con
seculari sotto pena della privatione de' Benefizi ipso iure et facto. Quanto a quel Chierico di Nicosia,
V. S. lo condanni, per la delatione dell'arme, admenatione et insorentie fatte, alla Galera a bene-
placito ; et se bene è contumace, se si saprà dove egli sia, si procurerà che la pena non resti illu-
soria ». È una lettera indirizzata dall' Arciv. al suo Vicario, che era anche Presidente del Tribunale
Ecclesiastico Diocesano.
(8) Ibid., lettera 294: " Quel Don Costanzo non è in habito di Prete, et io ne ho benissimo
notitia, ma in habito di frate bianco ; V. S. dia ordine al Bargello che vadi a Livorno a farne cat-
tura con manco strepito che sia possibile „. Firenze, 3 novembre 1598. Lettera 203: " Li mando...
un'altra lettera del sig. Card, di Fiorenza per conto delle monache convertite fuggite da Perugia;
delle quali potrà avvertire il Bargello. Li mando un'altra lettera di quel che desidera saper dame
il sig. Card. Cusano per conto de' frati di S. Francesco : V. S. procuri di darmi tutta quella distinta
relatione che potrà, et particolarmente di quel frate, che altro volte io ho scacciato, quale ha la con-
cubina et figliuoli „. Firenze, 25 aprile 1592.
(9) Ibid., lettera 325. Firenze, 21 settembre 1602.
(10) Ibid., filza 445-93, lettera scritta da Roma, 20 febbraio 1602.
(11) Ibid., filza 444-92, lettera 134. Roma, 26 agosto 1585.
(12) Ibid., lettera citata 325.
(13) Ibid., lettere 112, 325, 346.
(14) Ibid., lettere citate 134, 325.
(15) Ibid., lettere 119, 146, 175, 207, 266, 304.
9 VITA DI CABLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PCTEAXO 229
Uniformandosi ai decreti del Conc. Trid. fondò in Pisa un piccolo Seminario,
ponendovi per maestri preti lodati per lettere , per costumi et per devotione (1). Il
piccolo edifizio fu terminato soltanto nel 1627 dall' Arciv. Giuliano De' Medici (2);
l'iscrizione, diesi legge al sommo della porta, mostra l'inconsideratezza di colui
che ve l'appose; ivi si ricorda il religiosissimo Giuliano e non si fa il minimo
accenno al nostro Dal Pozzo che fu veramente il fondatore del piccolo Seminario, e
tanto si adoprò per la prosperità del medesimo (3). Promuoveva con molta facilità
al sacerdozio; esultava di gioia, quando molti seminaristi presentavansi per essere
ordinati: " Vi sarà da far per tutti in linea Domini „ andava esclamando, tutto con-
tento. Si mostrava duro e inflessibile coi candidati ignoranti, e soleva dire: a Ecclesia
non . gei asinis ferratis sed viris litteratis „ (4). Fece ristaurare il palazzo Arcivescovile,
spendendovi una gran quantità di danari, come dice nel suo testamento; al principio
del sec. XIX il Da-Morrona nell'ornato delle finestre vi leggeva ancora le parole
Carolus Antonina Puteus Àrdi. (5). Nel 1595, la notte del 24-25 ottobre, l'antichis-
simo Duomo di Pisa veniva miseramente distrutto da un incendio: le centinaia di
colonnine eleganti, le bellissime porte di bronzo, decorate di fini scolture che stavano
a rappresentare gli inizi dell'arte, furono inesorabilmente consunte, come se fossero
state di cera (6). Di cosi mirabil machina non restarono che le pareti, due cupole e
alcune preziose reliquie. Grande, immenso fu il dolore dell'Arcivescovo per sì grave
disgrazia, siccome ci attesta una sua lettera scritta da Firenze a Giuseppe Bocca,
Vicario Generale (7). Ma il suo animo profondamente addolorato doveva trovare un
conforto nella religiosità del Gran Duca. Questi donò subito, per la ricostruzione,
12.000 scudi, pubblicò un bando per il rincaro del sale (8), nominò una commissione
di quattro Deputati, i quali dovevano procurare che ogni cosa si facesse con
discorso e giudizio (9). Ed intanto dava gli ordini opportuni, che venivano trasmessi
ai Deputati per mezzo dell'Arcivescovo.
Questi poi impartiva altri ordini per volere proprio. Ordinava che Gian Bologna,
il celebre scultore, mettesse subito mano agli angioli, perchè essendo vecchio poteva
mancare da un momento all'altro (10). Voleva che il Portigiani non si assumesse altri
impegni fino a che non avesse finito di lavorare attorno alle porte (11); sollecitava
i Deputati, perchè i lavori fossero terminati quanto prima (12); li avvertiva del tempo
opportuno per porgere suppliche al Gran Duca (13). E questa fu collaborazione morale,
diciamo così; ma fu largo anche di soccorsi materiali e positivi. Donò 500 scudi (14)
(1) Arch. Agost., lettera 254. Dall' Ambrogiana, 30 novembre 1596.
(2) Sainati, op. cit, pag. 9.
(3) Arch. Agost., filza 444-92, lettere 127, 129, 130, 166, 191.
(4) V. l'opera sul Principe, voi. 2°, cod. 47, e. 36 tergo.
(5) Da Morkona, op. cit., voi. 3", pag. 338.
(6) Settimanni, Diario, voi. 5", pag. 423-24. — Navarbette, Memorie Pisane, voi. 2°.
(7) Arch. Agost, filza 444-92, lettera 244. Fiorenza, 25 ottobre 1595.
(8) Cantini, op. cit., voi. XIV, pag. 130.
(9) " Arch. stor. it. , (1844), tomo VI, parte 1% pag. 118.
(10) Arch. Agost., filza 444-92, lettere 330 e 340.
(11) Arch. dell'Opera. Filza cit., lettera 500. Firenze, 14 luglio 1601.
(12) Ibid., lettera 116. Siena, 16 giugno 1596; lettera 134. Firenze, 3 agosto 1596.
(13) Ibid., lettera 101. Firenze, 18 maggio 1596.
(14) Archivio dell'Opera (Arch. di Stato - Pisa), Registro 1256, e. 1.
230 DOMENICO VALLA 10
pagati in tre rato dal suo amministratore, cioè dal canonico Sabini. Donò ricchissime
paramenta di broccato d'oro, le quali furono riposte nella sagrestia che ora chiamasi
dei canonici, dove si conservano tuttora (1). La relativa iscrizione (2), posta sulla guar-
daroba che le racchiude, dice che non si possono adoperare se non dall'Arcivescovo
celebrante. Lo stupendo Crocifisso di bronzo che si vede ancora sull" Aitar Maggiore
e i due bellissimi candelieri sorretti da due angioli parimenti di bronzo, che ora
sono alle due estremità della grande balaustra del Presbiterio (mentre prima sta-
vano accanto all'altare), sono doni fatti dall' Arciv. Dal Pozzo. Sia il crocifisso che i
due angioli sono opera di Gian Bologna. Il crocifisso poggiava prima sur un piedi-
stallo in forma di Monte-Calvario, sul quale, dalla parte verso il. Coro, l'Arcivescovo
aveva fatto porre un'iscrizione, dettata da lui stesso (3). Non solamente il Duomo, ma
anche la Chiesa detta dei Cavalieri, quella di San Francesco, e molte altre furono
ristaurate mentre vivevano il Gran Duca e l' Arciv. Dal Pozzo. Quegli nelle cose di
Chiesa mostravasi molto benigno verso il suo Consigliere: accresceva le entrate di
alcune Parrocchie meno ricche delle altre (4), concedeva grazie a piene mani; buono
come egli era (5), annuiva quasi sempre alle suppliche che i preti Pisani gli porge-
vano, dietro suggerimento dell'Arcivescovo.
Questi, per mezzo del Vicario, esortava il Capitolo (6), i Rettori delle chiese (7),
degli ospedali (8), dei monasteri (9) a chieder favori, li avvertiva del tempo oppor-
tuno, e intanto li assicurava della sua protezione, dicendo: " et io vedrò quello si
possa fare „ (10). Cosi, per es., scriveva al Vicario: " Dica al Curato di S. Jacopo
che io l'aiuterò, acciò che ottenga da S. A. la grafia , (11). Un'altra volta: " V. S. dica
(al Pancucci) che facia una suplica a S. A. et mi si mandi, che io non mancarò di
aiutarlo „ (12).
(1) Donò anche 60 legni di abete che gli erano stati offerti dai monaci del Sacro Eremo di
Camaldoli. — Qui possiamo ancora ricordare che il nostro Arcivescovo fece porre sul famoso cam-
panile, che è conosciuto col nome di torre pendente, una campana nuova, la quale ancora adesso è
chiamata il Pozzetto. Così mi disse il Sainati, dotto canonico Pisano, autore del Diario scerò tante
volte citato.
(2) Tenivelli, op. cit., pag. 290.
(3) " Bisogna anche pensare a far un pie' di stallo in forma di monte Calvario al Crocefisso
sopra l'Aitar Grande et una inscritiione di marmo al rovescio dell'Aitar, dove si facci memoria del
Crocefisso che io dono, et manderò Ir parole che s'hanno » scriver „. Firenze, 17 agosto 1602. Ardi. del-
l'Opera. Filza di lettere sulla ristaurazione del Duomo. L'iscrizione, di cui qui si parla, è riportata
dal Martini Theatrum Basilicae Pisanae, pag. 36, e dal Mattei, op. cit., pag. 212.
(4) Arch. Agoat., lettera 285. Dall'Ambrogiana, 13 luglio 1598.
(5) Al principio del suo governo fece coniare una medaglia, dove si vedeva uno sciame d'api
col re in mezzo, che, siccome osservano i naturalisti, mancava dell'aculeo. Con ciò il nuovo Gran
Duca voleva significare che l'imperio saria senza rigore. G. E. Saltini, Storia del G. D. Ferdinando.
Firenze, 1880, pag. 30.
(6) Arch. Agost., lettera 216. Maggia, 12 dicembre 1592.
(7) Ibid., lettere 170, 181-183.
(8) Ibid., 259. Firenze, 29 maggio 1597. Manda al Vicario un modulo di una deliberazione da
farsi in favore dell'Ospedale " Del Grasso „ di Pisa.
(9) Ibid., 223, 227, 313, 314.
(10) Ibid., lettera 148. Firenze, 8 novembre 1587; lettera 317. Firenze, 14 luglio 1601.
(11) Ibid., 170. Livorno, 27 marzo 1589.
(12) Ibid., 181. Firenze, Il agosto 1590.
11 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 231
In conclusione l'affetto e la riverenza del Gran Duca verso l'Arcivescovo ridon-
davano anche a vantaggio della Diocesi Pisana.
Bisognerebbe ora accennare ad altre opere lodevolissime compiute dal Nostro,
come sarebbe la fondazione del Collegio, della Commenda Putea, della Cappella
Puteana: ma di tutte queste cose parleremo altrove in modo particolare. Qui basterà
osservare come nella Cappella Puteana, la quale trovasi nel Camposanto Urbano, il
nostro Arcivescovo nell'a. 1600 si fece preparare il suo sepolcro. Indi sopravvisse
ancora sette anni. In questo scorcio di vita soleva, durante l'estate, recarsi in vil-
leggiatura a Serravezza, paesetto poco distante da Massa-Carrara, rinchiuso in angusta
valle, tra alte colline terminanti in vette aguzze e dentellate. Aveva a sua disposi-
zione la villa Medicea: Quivi tra i laghetti e i mirteti, al rumorio dei giuochi d'acqua
zampillante egli sfogliava i suoi cari libri di diritto. In questa beata solitudine egli
ebbe, diciamo cosi, la fortuna di morire. Era il 13 luglio del 1607. Il nostro Prelato
giaceva in letto da sette giorni assalito da grave malattia, e non voleva esser per-
suaso del suo male. Volendo esser medico da pei- sé, diceva di non aver febbre, o
tutto al più diceva di non aver altro che un poco di catarro nella testa. Il canonico
Sabini, che lo assisteva, avrebbe voluto scrivere al Gran Duca, al medico Fonseca e
ad altri; ma l'Arcivescovo avevagli minacciato un aggravio penale per dissuadernelo.
Ciò non di meno il buon Canonico che sfavagli sempre al fianco, e che nutriva vera-
mente affezione per lui, a sua insaputa aveva scritto a Marcello Accolti, uno dei
segretari del Gran Duca, e al Fonseca. Quando poi vide che le cose peggioravano
sempre più, non esitò a chiamare immediatamente vari medici anche contro il divieto
dell'ammalato. Ve ne accorsero tre (1); ma furono la causa della sua morte: Poiché
non si peritarono di estrargli ben 50 Jionce di sangue per la vena del braccio destro.
Naturalmente con una tal diminuzione di sangue sarebbe stato oppresso anche un
uomo robustissimo nel pieno vigor delle sue forze, non che un povero vecchio di
sessant'anni: il quale subito dopo l'operazione cadde in estrema sonnolentia: non parlava
più, non moveva più, non dava più nessun segno di vita: Erano le 24 hore sonate.
Il Sabini lo credeva già morto, e non lo era ancora. Ma quando il Gran Duca rice-
veva la triste notizia della grave malattia, il povero Arcivescovo già da alcune ore
aveva esalato l'ultimo respiro (2). " E morto un huomo di vita innocente et di gran-
dissima integrità et valore, et a noi ha fatto in tutti i conti sempre grandissimo
aiuto et servitio con la sua singolare prudenza et dottrina, et ce ne dispiace infini-
tamente „ (3). Così esprimevasi Ferdinando, scrivendo ad un suo Ambasciatore.
Fu fatta l'autossia del cadavere, e se " li trovò cuor crudo e vizo, milza gran-
dissima e piena e guasta, borsa di fiele grande e piena di humore detto bile, fegato
nella punta assai puntato, e lo stomaco ripieno d'un poco humor bilioso, ecc. „. In-
somma si constatarono tutti gli effetti che poterono produrre l'itterizia malcurata e
non per tempo, e l'enorme quantità di sangue sottratta dall'indiscreto cerusico. Il
cadavere fu trasportato a Pisa per essere seppellito nel sepolcro, da sette anni pre-
Ci) Il medico locale, quello di Pietrasanta, e un terzo, di cui non si dice donde venisse.
(2) " Morse (= morì) venerdì notte alle 7 hore „ ossia alla mattina del sabato, 14 luglio. Non
so come mai l'Ughelli abbia potuto scrivere che la morte avvenne il giorno 18.
(3) Ardi. Med., filza 3502, lettera 14 luglio 1607, indirizzata a Giov. Niccolini Ambasciatore a Roma,
232 DOMENICO VALLA 12
parato; i precordi però, ciò che non fu mai osservato da nessuno, furono racchiusi
in un'urna a parte e tumulati nella Chiesa Parrocchiale di Serravezza, precisamente
nella Cappelletta della Concezione accanto all'altare in eornu Evangelii. Così almeno
dice la tradizione, ma bisogna ben guardarsi dal credere che la pietra quadrangolare,
che ivi si trova, ricordi questo fatto: ne lo stemma, ne l'iscrizione, che ivi si vedono,
riguardano l'Arcivescovo Dal Pozzo.
II.
Carattere e coltura dell'Arcivescovo.
Un certo Tommaso del Rosso, quando seppe della malattia del Nostro, faceva
voti per la sua guarigione a ciò che la verità si mantenesse (1). Per comprendere il
significato di queste parole, bisognerà osservare che il Dal Pozzo, anche dopo che fu
fatto Arcivescovo, discuteva non di rado liti fra privati (2). In ogni caso si proponeva
di difendere sempre la verità e nient' altro che la verità.
" Ne preghi di amici, né raccomandazioni di parenti, ne favori di potentissimi
Signori, ne offerte d'argento e d'oro ebbero già mai potere di farlo torcere dal dritto
sentiero della giustizia „ (3). Niccolò del Troncia lo supplicava a raccomandarlo in
una quistione consistente in puncto iuris; ma lui gli faceva sapere che sembravagli
soverchia, per non dire inutile, la raccomandazione (4). II nostro Arcivescovo era
dunque giusto, equanime, imparziale: viceversa poi era sottile, minuzioso, inesorabile
indagatore della colpa. Assaliva il reo con tante domande, con una requisitoria cosi
stringente da intimorirlo, confonderlo, annientarlo. Ecco un saggio di queste sue ter-
ribili investigazioni. È il brano di una lettera indirizzata al suo Vicario: " V. S. chiami
quel Puntorno (5) et li faci un constituto et li dia il giuramento come principale in
facto suo et come in facto alieno, rimostrandoli le pene et preiuditii delli testimoni
falsi tanto in dire il falso quanto in occultare il vero: et lo interroghi quanti anni
ha riscosso queste entrate, et per chi, che conto n'ha tenuto, et che ne dia copia
sopra che gli ha riscosso: et che campioni liaveva, et che sorte di scritture haveva
del Hospitale et quali et quante, et a chi l'ha date, et se l'ha havute sotto inven-
tario, et se erano altre che quelle che a V. S. sono state consegnate et che tenore
et qualità et similia „ (6).
Merita di essere esaminato il suo testamento (7), che comprende ben ottantasei
pagine scritte in carattere fitto e minuto. È addirittura un ginepraio, un miscuglio
(1) Ardi. Med., filza 942, e. 182 tergo.
(2) " La lite del Lucchese vedrò d'espedirla „. Arch. Agost, lettera 112. Vedi anche Arci. Med.,
filza 759, e. 508.
(3) Corsi, op. cit., pag. 25-26.
(4) Arch. Agost., lettera 123. Firenze, 10 dicembre 1583.
(5) Era Camarlingo dell'Ospedale detto del Grasso. Sembra che avesse pochi scrupoli di coscienza,
e si arricchisse a danno dell'Ospedale.
(6) Arch. Agost., lettera 266. Firenze, 5 luglio 1597.
(7) Archivio Generale dei Contratti Testamenti, filza 593, 15, n° 22.
13 VITA DI CARLAXTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PTJTEANO
di bolle e di brevi Pontifici, rescritti Granducali, citazioni di strumenti e di altri
testamenti fatti prima: clausole, prescrizioni capricciose, accompagnate da un formu-
lario tutto giuridico, arido, prolisso : notizie dettagliatissime di tutti i suoi beni,
alcuni dei quali sono da lasciarsi agli uni, altri ad altri, con oneri e privilegi per
questi e non per quelli. Il testatore ha l'occhio a tutto, sia alle piccole che alle
grandi cose. Pensa a tutte le conseguenze possibili, a tutte le circostanze di tempo,
di luogo, di causa e via dicendo. Fa delle ipotesi studiate, lambiccate, arzigogolate
con una logica sottilissima , involuta come i ricami della sua cotta arcivescovile.
Siffatto modo di scrivere e di pensare era frutto dei suoi studi giuridici. Il Nostro
adunque era un valente giureconsulto: lo vedremo anche meglio quando daremo uno
sguardo all'opera sua principale.
Ma non era un buon letterato. La menzione della frase virgiliana tu nihil invita
dicas faciasve Minerva (1), e l'uso di questo verso del Petrarca l'idolo mio scolj>;l<i in
verde lauro (2), per designare un suo amico che si chiamava Lauro (3), ecco le uniche
tracce della scarsa coltura letteraria, che potè avere il N. Le sue lettere sono scritte
in uno stile negletto, stentato, e, direi quasi, matematico. Se fosse non laico, lo casti-
garci io (4): ecco un esempio. Molte idee gli frullavano per il capo; e le buttava giù,
alla rinfusa, senza badare alla forma: gli bastava farsi intendere alla meglio. Vi si
trovavano reminiscenze del suo dialetto: trattar fra carne et ongia (5). A due ragazze
non era stato concesso di entrare in un monastero di Firenze: il priore di S. Caterina,
scrive l'Arcivescovo, non pensi di sbalarle a Pisa (6) (= non pensi di rinchiuderle in
un monastero di Pisa). Chiama speciali i farmacisti (7); altrove scrive: Quesfanno che
viene (8) (= st'an ch'ven). In tanti anni che visse nella patria di Dante, non seppe
appropriarsi la purezza del parlar toscano, e non ne ritrasse che qualche frase troppo
volgare, come, per esempio, esser tutto fiori e baccelli (9) (= essere indulgente, benigno,
lieto); l'aspetto con martello (10) (= lo aspetto con ansia). La cosa si spiega pensando
che il suo lungo (11) studio e il grande amore erano rivolti esclusivamente ai trattati
di giurisprudenza, scritti in latino da chiodi. S'aggiunga che lui stesso scriveva, per
ordinario, in latino: in latino sono persino alcuni de' suoi responsi giuridici (12) ; in
latino sono scritte le sue opere, siccome appare dal titolo stesso. Non è a far mera-
viglia pertanto, se anche nelle sue lettere s'incontrano, ad ogni pie sospinto, locuzioni
latine. Per dire meglio tardi die mai, dare il colpo di grazia, adoperava le frasi : sai
(1) Arch. Meri., filza 5102, e. 67.
(2) Lettera 15" dell'inserto in filza 1193, 10 dicembre 1585.
(3) È il card. Vincenzo Lauro, Vescovo di Mondovì.
(4) Arch. Med., filza 1189, lettera 9a dell'inserto.
(5) Arch. Med., filza 757, e. 259.
(6) Arch. Agost., lettera 246. Firenze, 3 giugno 1596.
(7) Ibicl., lettera 326. Serravezza, li 14 luglio 1603.
(8) Ibid., lettera 232. Firenze, 16 luglio 1594.
(9) Lettera ultima dell'inserto in filza 1187. — S'intende sempre l'inserto intitolato " L'arcive-
scovo di Pisa „.
(10) Lettera terza dell'inserto in filza 1191.
(11) II Consi, op. cit., pag. 30, asserisce che il Nostro studiava dieci o dodici ore al giorno. Sotto
questa esagerazione si nasconde nondimeno la verità che egli fosse amantissimo dello studio.
(12) Arch. Med., filza 60, e. 600.
Sekie II. Tom. LUI. 30
2:'. ! DOMENICO VALLA 14
bene, si sat cito; mittere falcetti ad radicem (1). Alcune delle sue lettere non sono prive
di grazia, ma in complesso sono più importanti per il contenuto che per la forma:
esse ci servono di scorta per tratteggiare i lineamenti psichici di colui che le scrisse,
e, direi, per penetrare nell'interno della sua coscienza, e vedere quali moti animassero
il suo cuore. Uomo alla buona (2), schietto, sincero, non sapeva adulare (3). Faceva
grandi limosine all'ospedale dei trovatelli e all'istituto della Carità, ma sotto nome
d'incerto benefattore, come scrive il Tronci ; e questa si chiama carità fiorita.
Amorevolissimo con tutti (4), e di animo gentile: nell'occasione che il Serguidi
aveva la moglie malata, esortavalo a mandare a Pisa una sua bambina; lui avrebbe
pensato a metterla in monastero provvisoriamente (5). In ogni caso, accorto e prudente:
In un castello posto a qualche distanza da Avignone custodivasi una vistosa somma,
che doveva essere adoperata nella compra del grano. Il N. insisteva presso il Gran
Duca e presso il suo Segretario, perchè codesti danari fossero tolti dal castello e
portati con scorta in Avignone: " Io non suono informato della sicurezza della torre,
tanto da Turchi, come da Franzesi: ma questa somma può far diventar il castellano
et ladro et turco ancora „ (6).
Non di rado aveva anche delle espressioni condite di un certo umorismo, sati-
riche, pungenti: " quella parte di legname che è guasta, ne anco i Lucchesi non
la compraranno per buona „ (7). Comprenderà l' arguzia di queste parole chi non
ignora che i Lucchesi sono considerati come i Beoti della Toscana. Siccome aveva
saputo che si aprivano le sue lettere, scrivendo al Serguidi, e scusandosi del suo
lungo silenzio, ebbe a dirgli: " Non Le scrissi per non afaticar qua questi che aprono
le mie lettere „ (8). " Circa i frati non ho dato licentia particolare, massime a cotesto
degli occhiali „ (9). " Desidero vedere quel prete, in viso, et però potrà venire sin qua „ (10).
" Il Proposto di Pontadera, se vuole rinuntiare, rinuntii, et vadiasene in malhora,
che lascierò il tempo a lui a far penitenza, e a un altro a castigarlo „ (11). Queste
ultime frasi dimostrano come il N. fosse rigido e anche un pochino burbero e rude.
Talora era anche irascibilissimo sino al punto di non poter tenere la penna in mano
per la gran rabbia che aveva in corpo (12). Talora tenace, irremovibile tanto da pre-
tendere, quando fosse calunniato, una giustificazione anche a costo della vita (13).
Quando veniva offeso apertamente, allora era terribile davvero. Più sopra (a pag. 6-7)
riportammo una lettera, dove si dice che Nicolò Calefato aveva steso un memoriale
(1) Arch. Agost., filza oit., lettera 152. Firenze, 5 dicembre 1587; lettera 121. Firenze, 26 no-
vembre 1583.
(2) Ibid., lettera 106 " si valga di me alla libera, come sa di poter fare „.
(3) C. Strozz., filza 21 e. 244.
(4) Corsi, pag. 30-31.
(5) Lettera ultima dell'inserto in filza 1189.
(6) Arch. Med., filza 63, e. 428.
(7) Arch. dell'Opera, filza citata, lettera 580. Firenze, li 4 ottobre 1602.
(8) Lettera 5° dell'inserto in filza 1195.
(9) Arch. Agost., lettera 143. Firenze, 2 gennaio 1587.
(10) Arch. Agost,, lettera 112. Firenze, 4 agosto 1583.
(11) Arch. Med., lett. 18 dell'inserto in filza 1193.
(12) Ibid., lettera 4" dell'inserto in filza 1187.
(13) Arch. Med., filza 769, e. 488-90: " mi bisogna giustificar et lo voglio far con la vita „.
15 VITA DI CARLANTONM DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 235
contenente la rivelazione di certi segreti di Corte. Vi si dice che un frate, invece di
trasmettere a Roma quella scrittura, la consegnò all'Arcivescovo. Questi li per lì ebbe
la tentazione di far dare quattro pugnalate a quella bestia del Calefato; e poi se ne
astenne, ma scrisse al Serguidi ragguagliandolo del fatto e pregandolo a rinchiudere
lo scellerato in un fondo di torre a cita. Il nostro Arcivescovo era l'uomo più buono di
questo mondo. Non molestato, non sarebbe stato capace di far male a una mosca ;
ma serio, grave, di un aspetto imponente (1), sembrava che portasse scritto in fronte
il motto " non mi toccare „. Se qualcuno ardiva di arrecargli la minima offesa, allora
egli sapeva mostrare i denti e farsi portar rispetto.
Questo che abbiam fatto sarebbe come il ritratto interno. E il ritratto esterno ?
Nel convento di S. Frediano esisteva ancora alla fine del sec. XVIII un busto con
relativa iscrizione, riportata dal Mattei (2). Presentemente un unico quadro, forse opera
del Lomi (3), resta a rappresentarci l'insigne Arcivescovo (4). Vi si vede una nobile
figura d'uomo: statura mediocre, volto bruno-pallido: occhi castaneo-grigi riflettenti
una vivacità volpina; labbra atteggiate a un sorrisetto malizioso, arguto; naso rego-
lare, fronte ampia, spaziosa; testa piuttosto angolosa che rotonda; acconciatura di
capelli e barba alla moda spagnuola; cioè l'occipitale ciuffo che scappa fuori della
berretta ritirata un tantino all'indietro, due baffi arricciati in punta e il caratteristico
pizzo. Attorno al collo la veste, ripiegata all'infuori e aperta sul davanti, forma una
larga striscia bianca, che dà grazia e rilievo alla sua persona. Siede sur una grande
seggiola a bracciuoli dalla spalliera guarnita di raso rosso. Indossa una cotta sem-
plicissima, mozzetta paonazza, e veste talare con bottoni rossi. Nella parte superiore
del quadro una tendina, orlata di penero, forma un padiglioncino; il che dà argo-
mento a credere che siasi fatto ritrarre seduto sul trono arcivescovile.
III.
Il Consigliere Segreto del Gran Duca Ferdinando I.
Nell'ottobre del 1587 Francesco e Bianca morivano, a undici ore d'intervallo,
di morte che parve allora misteriosa. Ferdinando, che ancora non era in sacris, seb-
bene fosse Cardinale da 24 anni, succedevagli sul trono, nonostante che il Papa lo
avesse consigliato a prendere le sacre Ordinazioni, e a lasciare la corona al fratello
(1) " Chi non ammirò la sua presenza quando era incontrato „, Corsi, op. cit., pag. 38.
(2) Mattei, op. cit., pag. '211.
(3) Ciò si arguisce dalla rassomiglianza di stile tra questa tela ed altre che sono indubbiamente
del Lomi, e furono da lui dipinte per ordine dell'Arcivescovo. Ricorderemo altrove il San Gerolamo
che trovasi nella Cappella Puteana : qui facciamo osservare che esiste un altro quadro, assai più
piccolo, rappresentante parimenti San Girolamo nel deserto; trovasi nella cappelletta del Collegio
Puteano.
(4) Nella mano destra tiene una lettera a lui indirizzata: questa è, per così dire, il simbolo
della moltiplicità degli affari che lui doveva sbrigare. In alto, a destra, sta scritto in latino il suo
nome coll'aggiunta: " Francisci Comitis Ponderani filius Collegii Fundator „. Sullo stesso quadro vi
è anche disegnato un tavolino, su cui stanno tre grossi volumi (forse quelli che costituiscono l'opera
sua sul Principe), collocati uno sull'altro.
236 DOMENICO VALLA
16
Don Pietro (1). Il nuovo Gran Duca attende ben tosto al riordinamento della Corte.
Nomina Segretario in capite Pier Usimbardi che aveva condotto seco da Roma: An-
tonio Serguidi e Belisario Vinta furono posti sotto la sua dipendenza (2). Il nuovo
Gran Duca trovando che mancava un Consiglio di Stato, di guerra, delle entrate (a),
si trova nella necessità di nominare una persona fidata e intelligente, con cui possa
comunicare le cose più importanti.
Nella scelta non poteva molto esitare: il suo confidente doveva essere l'Arci-
vescovo Dal Pozzo, l'amico suo di antica data, il quale, essendo già stato Consigliere
di suo fratello, conosceva tutti i segreti della più alta importanza. Il Nostro fu dunque
nominato Consigliere Intimo, Consiliarius ab intimis opp. a segretis: gli si mandava a
Pisa carrozza et lettiga coll'invito di recarsi a Firenze a palazzo Pitti o in quello de'
Medici, " secondo che più gli gustava „ (4); e per i mesi estivi aveva a sua dispo-
sizione una delle ville granducali.
Del Gran Duca Ferdinando fu scritta un'ampia biografia per cura di un certo
Domizio Peroni (non già Pieroni (5) come scrisse il Milanesi) , il quale era stato al
suo servizio per tanto tempo, ed ebbe quindi agio di conoscere le buone qualità, e
potè farsi un' idea adeguata delle condizioni politiche della Toscana. Questo lavoro
del Peroni costituisce adunque una fonte preziosa per noi: orbene alla e. 11 si legge:
" Il Gran Duca Ferdinando per haver una persona, con la qual hor per via di con-
siglio et hor per via di discorso havesse potuto esaminare et maturare gli affari più
importanti, elesse Carlo Antonio dal Pozzo Arciv0 di Pisa, il quale avendo dimorato
lungo tempo nella città di Fiorenza et stato impiegato come Insigne Iurisconsulto
nel governo et directione della giustizia, conosceva la natura de' sudditi, et haveva
tanta prudenza da saper deliberare et promulgare le leggi convenienti al reggimento
et governo dello Stato in tempo di pace, et nelle negotiationi delli affari fuor dello
Stato era atto a discorrer con la scienza, a risponder con l'intelligenza, a confermare
o reprovare con l'esperienza, a replicare con l'autorità, et a consigliare per l'età „ (6).
Il Dal Pozzo esplicò l'opera sua di Consigliere Segreto a) negli affari privati
della famiglia Granducale (testamenti, matrimoni, ecc.), b) nel reggimento interno ed
esterno dello Stato, nelle relazioni del Gran Duca cogli altri Principi italiani e stra-
nieri (trattati di pace, compra di città e castelli, agricoltura, commercio, provviste di
grano, ecc.), e) nelle cose giudiziarie.
Testamenti. — Nel 1592 (settembre) il Gran Duca si decise a far testamento,
per escludere ogni intervento del fratello Don Pietro nell' amministrazione dello
Stato, per assicurare la successione al trono al suo primogenito nato due anni prima ;
e lo dettò parola per parola non già ad un notaio, ma al nostro Arcivescovo. Il no-
taio, che fu messer Matteo di Michele Carlino, vi appose appena la firma necessaria
per la legalizzazione dell'atto. Del testamento se ne fecero tre copie, e tutte per mano
(1) F. Mctinelli, op. cit., voi. I, pag. 183.
(2) C. Strozz., filza 13, e. 105. Inventario Milanesi, voi. I, pag. 81.
(3) E. Albeki, op. cit. Appendice, pag. 272.
(4) Arch. Med., filza 70, e. 339 e segg.
(5) li. Milanesi, Inventario (a stampa) delle Carte Strozzane, voi. I.
(6) Carte Strozziane, filza 53, e. 11.
17 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 237
dell'Arcivescovo, il quale dovette assoggettarsi a questa fatica materiale unicamente
perchè il gran Duca non voleva che nessun altro conoscesse la sua ultima volontà. " Io
Cari' Antonio Puteo, Arciv0 di Pisa, comandato dal Sermo Gran Duca Ferdinando sopra-
scritto, mio Signor, ho di mia mano propria scritto il sudetto testamento dettatomi
dalla propria bocca di S. A. di parola in parola, et poi da essa riletto et revisto et
qual in presenza mia et de' testimoni et notario infrascritti ha rogato detto notario,
et l'ha di sua mano sottoscritto; et per questo et come testimonio testamentario l'ho
sottoscritto et sopra la coperta vi metterò il mio sigillo, l'anno, luogo et giorno in-
frascritti f Carolus Ant.s Puteus Archiepiscopus Pisanus „ (1). Questo testamento
insieme con altre carte segrete fu rinchiuso in una cassetta di ferro, che fu data a
custodire al P. Priore della Certosa di Firenze. Questa cassetta * in vita di S. A.
non si deve mai restituire salvo a S. A. medesima che la chiedesse, et in caso di
sua morte si ha da consegnare al Sermo Principe suo successore che la faria aprire
presente il P. Priore et tre testimoni „. Così diceva un biglietto scritto dall'Arcive-
scovo e rilasciato dentro a quelle carte.
a) Matrimoni. — Le ultime pagine autografe del documento a e. 463 della
filza 62 (scritto a nome del Gran Duca) dimostrano che il Nostro ebbe parte nelle
trattative di matrimonio tra Ferdinando e Cristina di Lorena. L'inserto che porta la
data 19 maggio 1599 in Arch. M, filza 67, e. 122-24, ci attesta che il Nostro non
fu estraneo neppure alla conclusione del matrimonio tra Maria de' Medici ed Enrico IV
re di Francia. È un documento incominciato da un segretario, probabilmente dall' Ac-
colti, ma è continuato e terminato dall'Arcivescovo.
b) Reggimento intemo ed esterno. — Primo si presenta il trattato di Pomégues,
diviso in 9 articoli preceduti da un preambolo concepito e minutato dall'Arcivescovo.
Il Gran Duca si obbliga a restituire le isole Pomégues (Marsiglia) e il castello d'If ;
ed Enrico IV si obblfga a restituire una forte somma che eragli stata imprestata.
Rappresenta la Francia, nella stipulazione di questo trattato, il Card. D'Ossat; rap-
presenta la Toscana il nostro Dal Pozzo (2).
Dopo che Pier Usimbardi, fatto Vescovo di Arezzo, si ritirò nella sua Diocesi
per attendere unicamente alle cose di Chiesa (3), il personaggio più influente alla
Corte, dopo il Dal Pozzo, fu Belisario Vinta. Essi due costituivano un polente duum-
virato, a cui mettevano capo tutti i più alti affari di Stato; erano gli arbitri del
Governo, uno ufficialmente, l'altro segretamente. Rimangono lettere sottoscritte e
postillate da ambedue, ma la firma dell'Arcivescovo precede sempre (4). Ordinaria-
mente il Vinta gli manda lettere, inserti, rescritti venuti di Roma, di Francia, Spagna,
perchè siano eliminati alcuni dubbi, chiarite alcune difficoltà. Quando si tratta di più
(1) Tutti gli altri firmatari, ad eccezione del Nostro, dicono: "Io... ho visto sottoscrivere di
propria mano di S. A. il soprascritto suo testamento ,. Ciò fa supporre che essi non conoscessero
le disposizioni nel testamento contenute. Oltre i nomi, sulla copertina esterna, vedonsi i relativi
sigilli.
(2) Amelot de la Houssate, op. cit., ed. Amsterdam, 1708, voi. 3°, pag. 217 e segg. Vedi anche
Diario-Settimanni (mss. Arch. di Stato Firenze), voi. VI, pag. 85.
(3) 6. E. Saltini, Storia del G. D. Ferdinando scritta da Pier Usimbardi. Firenze 1880, pag. 5.
(4) Arch. Med., filza 793 e. 414.
238 DOMENICO VALLA 18
quistioni, si lascia tra l'una e l'altra uno spazio in bianco sullo stesso foglio, perchè
l'Arcivescovo vi scriva la sua replica et dichiaratione (1).
In quei pochi mesi che, per obbedire ai decreti del Concilio, doveva risiedere a
Pisa, dal Vinta veniva informato per filo e per segno di quanto succedeva alla Corte.
Da questa corrispondenza noi possiamo, in modo particolareggiato, conoscere quanta
influenza l'Arcivescovo abbia esercitato nei pubblici affari, quale fiducia il Gran Duca
avesse in lui, e in quale considerazione tenesse i suoi responsi. Dovendo scrivere o
mandare ambasciate al Papa, al Re di Francia, o a quello di Spagna, o ad altri, era
il Dal Pozzo che doveva additare la politica da seguirsi, il partito da abbracciarsi. Cosi,
per addurre uno dei mille esempi, a' dì 21 aprile 1605 il Gran Duca domandava al-
l'Arcivescovo come doveva comportarsi nella lotta scoppiata tra il Papa e i Veneziani,
ossia in quella celebre lotta in cui sorse il Sarpi a patrocinare la causa del Senato
Veneto, di contro alle pretensioni della Curia Piomana (2). Un'altra volta si domanda
all'Arcivescovo se sia bene inviare un solo Ambasciatore che vada a Madrid dopo
essere passato a Parigi, oppure se sia meglio spedire due Ambasciatori distinti, uno
alla Corte di Francia, l'altro a quella di Spagna (3). L'Arcivescovo rivede e cor-
regge le lettere prima che siano spedite alla loro destinazione (4j ; invia alla Corte la
formula di un " mandato per Spagna, il quale ha soddisfatto a Lor Altezze et si
metterà al netto „ (5). La lettera scritta al Card, di Firenze, della quale si fa cenno
nella filza 72, e. 358, " fu tutta scritta su lettere e ricordi dell' Arciv0 „. Nella
compra di città e castelli (6), nel battere monete (7), nel riformare la Corte (8), nel-
l'assegnare le Letture dello Studio Pisano (9), in ogni sorta di contratti (10), nelle
relazioni commerciali (11), nella sorveglianza sui carcerati (12), nelle confische (13),
nella revisione dei conti dell'azienda domestica (14) e persino nell'agricoltura e nei
lavori pubblici (15) doveva intromettersi il Nostro e portarvi i lumi della sua mente
quadrata, calcolatrice.
e) Consigli giuridici. — Dove specialmente il Gran Duca domandava parere all'Ar-
civescovo, era nell'amministrazione giudiziaria. Tommaso Contarmi, Ambasciatore
(1) Arch. Med., filza 72, e. 374.
(2) Ibid., filza 75, lettera del Gran Duca. Firenze, 21 aprile 1605.
(3) Ibid., filza 1232, lettera 10 luglio 1607.
(4) Ibid., filza 1232, lettera 5 aprile 1607.
(5) Ibid., lettera cit.
(6) Ibid., lettera 1" giugno 1607; e lettera 26 ottobre 1603; e filza 72, e. 417, 382-85.
(7) 200 mila talleri, filza 75, e. 205.
(8) Lettera del Sodertni in " Arch. stor. it. „, (2a serie), XVIII, pag. 71.
(9) Filza 75, e. 247.
(10) Filza 63, e. 123, abdicazione di feudi.
(11) Assicurazione di danari, ibid., e. 428; filza 67, e. 120, esportaz. di drappi e seterie; filza 64,
e. 159, provvisione, compra e vendita di grano, di armi e armature; Arch. Med., filza 73, e. 377 e
filza 75, e. 149, due pareri autografi.
(12) Filza 72. e. 143-44.
(13) Filza 5961, e. 663: " i sequestri che son stati fatti costì et l'altre diligentie ci son parse
molto strane et... per questo desideriamo che con destrezza ne parliate all'Arci v° et intendiate da
lui quello che gli pare di questa cosa „. Lettera del Gr. Duca al Vinta. Di Cafaggiolo, 6 ott. 1602.
(14) C. Strozz., filza 51, e. 1; Milanesi, Inventario, voi. I, 275.
(15) Cantini, op. cit., voi. XII, pag. 321.
19 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PDTEANO 239
Veneto alla Corte di Firenze, scriveva: " L'Arciv0 di Pisa ha nelle sue mani tutto il
governo delle cose giuditiali ; ha carico di riveder le suppliche, et in quelle materie
che ricercano decisione di legge ha autorità di spedire come gli piace „ (1). Somma-
mente utile al Gran Duca, che si trovava impigliato in una lunga lite col fratello
Don Pietro, riusci la scienza giuridica del Nostro. Don Pietro nel 1576 (luglio) aveva
ammazzato la propria moglie Eleonora, sanzionando il misfatto col voto a Dio di non
più sposare altra donna. Ferdinando allora lo consigliò ad accettare un cappello car-
dinalizio, e a fissare la sua dimora a Roma per sostenervi la vacillante autorità
della sua casa. Gli accordò una pensione di 2 mila scudi al mese, a patto che non
contraesse più un secondo matrimonio. Ma il tristo fratello, per dispetto, chiese ed
ottenne in sposa una gentildonna portoghese, Beatrice di Meneses. Subito Ferdinando
lo privò della pensione, e rifiutò di pagargli i debiti che aveva contratti con privati fio-
rentini. Don Pietro strepitava, e andava dicendo di aver diritto alla metà del patrimonio
avito. Queste sue pretensioni erano appoggiate dal Re di Spagna, dai suoi ministri e
dai giureconsulti di Salamanca. Il Gran Duca aveva dalla sua molti illustri avvocati
italiani, e. primo tra essi, il Dal Pozzo. Questi parteggiava a spada tratta per lui, mano-
vrando abilmente l'arma tagliente della sua giurisprudenza. Dimostrava che Don Pietro,
quantunque fratello del Gran Duca, era nondimeno suo suddito: nell'opera sua sul Prin-
cipe pose un capitolo intitolato Frater Principis, subditus Principi. Dimostrava che a
Don Pietro era già stato assegnato più di quanto gli spettava. Alla fine la lite fu rimessa
al giudizio del Papa, ma dejure tantum, non già ad arlitrandum. Ma Don Pietro ebbe
tempo di morire (aprile 1604) prima che uscisse la sentenza Pontificia (2).
Molti documenti rimangono ad attestarci che fu l'Arcivescovo Dal Pozzo il princi-
pale avvocato del Gran Duca nella trattazione di questa lite. Additiamo specialmente il
documento 31 (voi. I, pag. 114 dell' 'Inventario citato di Gaetano Milanesi). Il Milanesi
mostra di non conoscerne l'autore, poiché scrive: "Lettera di „ Questi puntini
devono essere tolti, e la lacuna deve essere colmata colle parole: dell'Arcivescovo di
Pisa. Le ragioni sono queste: 1* il frammento della firma L'Ar = L'Ar(civescovo di
Pisa) che si legge ancora nonostante che la carta sia stata, a bella posta, strappata ;
2° il poscritto autografo e una postilla parimenti autografa in fondo alla e. 216.
Inoltre la postilla che il Milanesi (pag. 114, n° 30) dice di altra mano, è dell'Arci-
vescovo Dal Pozzo. A pag. 117, n° 52 e a pag. 116, n° 47, sono registrati due altri
documenti, di cui il Milanesi non dice chi sia l'autore.
Ora la scrittura ci manifesta chiaramente che essi sono opera del Dal Pozzo.
Tali documenti riguardano appunto la quistione di Don Pietro. Inoltre nell'Arch. Med.,
filza 72 e. 363, trovasi un' importantissima lettera, dove il Gran Duoa prega l'Arci-
vescovo a suggerirgli quale somma dovrà dare al fratello, quale condotta dovrà te-
nere verso i creditori di lui e verso il Pontefice, chiamato a far da paciere in tal
dissidio (3).
Dai documenti che siamo venuti fin qui citando risulta che i pareri dati dal-
l'Arcivescovo dovevano essere molti anzi che no. Ma quando l'Arcivescovo andava a
(1) Alberi, op. cit., Appendice, pag. 283-84.
(2) Galldzzi, op. cit., voi. IV, pag. 73, 95, 145, 157, 181, 191, 224, 225, 269, 329, 342.
(3) Altri documenti vedansi Arch. Med., filza 72, e. 359, 360, 366, 378.
240 DOMENICO VALLA 20
Firenze o il Gran Duca a Pisa, non c'era bisogno clic il Vinta ricapitasse le lettere
che arrivavano alla Corte, né che l'Arcivescovo ponesse in carta il suo parere, poiché
in tal caso per via di discorso (1) il Gran Duca poteva con lui esaminar! gli affari pia
i mportanti. Aggiungasi che dei suoi pareri molti venivano bruciati (2), molti non erano
scritti da lui, ma dai segretari suoi o del Granduca; nessuno era firmato. Si com-
prende quindi che tutti quei documenti, i quali potrebbero gettare maggior luce in
queste pratiche di governo, invano si desiderano : si può nondimeno arguire quanti mai
dovevano essere i pareri dati, e quale aiuto abbia prestato il Nostro a Ferdinando.
Rimane a vedere in qual modo sia stato rimunerato. Se pensiamo alle opere di
beneficenza compiute, alla fondazione del Collegio, e della Commenda, dobbiamo rite-
nere che la ricompensa sia stata larga e generosa. Lo stesso c'inducono a credere
alcune notizie desunte dai documenti. Nel suo ultimo testamento si legge che dal
Gran Duca eragli stato regalato un anello, in cui eravi incastonato un diamante del
valore di 200 scudi (3). Ferdinando inoltre, mentre era ancora Cardinale, ebbe da
Pio IV un' annua pensione di 2000 ducati d'oro sui redditi della Chiesa Pisana. Quando
il Nostro fu fatto Arcivescovo, ricevette da lui metà di questa pensione (4). L'altra
metà gli fu ceduta più tardi, nell'occasione in cui il Depositario Generale gli conse-
gnava, per ordine espresso del Gran Duca, la bella somma di 12 mila scudi d'oro (5).
Non di rado Ferdinando facevagli qualche altro regaluccio: ora erano casse di vino
di Carmignano (6); ora, e immancabilmente nella ricorrenza del berlingaccio, erano
polli e fiaschi di vino parimenti generoso (7), ora trote e fraole (8). Inezie, se si vuole,
ma che dimostrano come il Gran Duca Ferdinando cercava di stare con lui in stretta
unione, pari a quella che è simboleggiata cosi bene dall'anello adamantino che avevagli
regalato.
(1) Peroni, mss. cit., e. 11.
(2) " eseguito che harete, abbruciate tutte le lettere in modo che non ve ne resti più memoria P,
filza 67, e. 122.
(3) Testamento e. 68. — Il testatore prescriveva che alla sua morte l'anello fosse venduto e il
danaro equivalente fosse distribuito ai poveri della Carità di Pisa.
(4) Testamento cit., e. 45 tergo.
(5) d Vi commettiamo che in avvenire non riscotiate più la pensione delli scudi mille annui
l'Arcivescovado di Pisa, ma gli lasciate a libera disposizione di Carlo Antonio Puteo Arcive-
scovo di Pisa, che così è nostra volontà; et di più vi commettiamo che facciate creditore il sudetto
Arciv. di Pisa di scudi 12 mila d'oro, dandone debito a Noi et credito a lui per donativo che gli
faciamo, et pagandogliene a ogni suo piacere: et alli offitiali di Monte et soprasindachi commet-
tiamo che ve li faccino buoni ne' nostri conti subito che haverete fatto lo sborso ,. 'l'ale ordine e
diretto dal Gran Duca al suo Depositario Generale: non porta data, ma prima e dopo sonvi altre
carte dell'a. 1601. Vedi Ardi. Med., filza 70, e. 450.
(6) Carte Strozziane, filza 30, e. 128 tergo.
(7) Ibid., filza 30, e. 37 tergo e filza 29, e. 48 tergo.
(8) Ibid., filza 57, e. 4. Non è a far maraviglia, se sii si facessero anche regali di questo genere,
perchè non dissimili erano quelli che il Gran Duca faceva ad altri Principi e ai Cardinali stessi.
Al card, di Gioiosa, per es., si mandavano 6 galline d'India, 12 marzolini, 200 uova, una discreta
quantità di salsiccia e salami, un cestone d'ortaggio, ecc.: ibid., filza 30, e. 127.
21 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 241
IV.
Il Dal Pozzo giureconsulto.
Nella biblioteca Laurenziana di Firenze si conservano due codici cartacei con
copertina di pergamena (Med. Palat. 47-48) contenenti un'opera giuridica che ha per
autore il nostro Cari' Antonio dal Pozzo. Il cod. 48 (cm. 25 X cm. 36) è scritto per
mano dell'Autore e comprende 862 carte distribuite in 4 volumi: il 1° voi. da e. 1
a 271; il 2° da e. 272 a e. 463 (questo volume mancava già al tempo del Bandini);
il 3° voi. da e. 464 a e. 755; il 4° voi. da e. 756 a e. 862. Al principio del 1° voi. vi
sono due indici autografi: il 1° è alquanto disordinato, e comprende 5 fogli: il 2° è
ordinato alfabeticamente con interpolazioni marginali, e comprende altri 5 fogli. L'Au-
tore incaricò il suo amanuense che da questi due indici, fatti da lui, ne ricavasse un
terzo, e lo trascrivesse con ordine e chiarezza. Questo terzo indice fu messo davanti
agli altri due: e lo stesso Dal Pozzo se ne servi ancora, perchè vi troviamo qualche
aggiunta fatta da lui ; come, per esempio, alla lettera C prima della parola contractus.
Sur una schedina incollata sul frontispizio esterno e trasversale di questo codice si
legge il titolo dell'opera: " Silva collectaneorum Caroli Antonii a Puteo „. Chi scrisse
queste parole non è già l'Autore, ma lo stesso scrivano che compilò il 1° dei tre
indici su ricordati. Intitolazione autografa non c'è; per modo che quest'opera potrebbe
dirsi quasi acefala.
Il cod. 47 (cm. 23 X cm. 83,50) non è altro che la stessa opera trascritta da
un copista qualunque, il quale probabilmente ricevette questo incarico non dall'Au-
tore, ma dal Gran Duca. La materia vi è distribuita in 7 volumi: il 1° voi. è di
e. 430; il 2° voi. di e. 412; il 3" di e. 410; il 4» di e. 403; il 5° di e. 438; il 6° di
e. 440; il 7° di e. 525. Quest'ultimo comprende inoltre l'Indice generale di 20 carte.
Ciascuno di questi volumi porta nella la pagina un disegno ornamentale che ha la
forma di uno stemma Mediceo, su cui sono scritti in bei caratteri rossi e neri il
nome dell'Autore, il titolo dell'opera, il numero del volume. Sei putti alati sorreg-
gono all'intorno altrettante piccole sfere, le palle medicee: argomento sicuro per cre-
dere che l'opera fu trascritta per ordine del Gran Duca, siccome dissi più sopra.
Segue un indice dei capitoli contenuti in ciascun volume. Il titolo postovi dall'ama-
nuense è: De vis quae ad Principem attirimi; titolo alquanto prolisso, ma molto appro-
priato: poiché in quest'opera sono trattate, o meglio accennate, le più svariate
quistioni che riguardano appunto il Principe. La figura del Principe, di questo
personaggio nuovo, attirò nel sec. XVI l'attenzione di letterati, di giureconsulti e
di uomini politici. Del Principe scrissero non soltanto il Machiavelli, il Bodin (1),
G. L. Balzac (2), ma anche P. Rossello, G. B. Pigna, P. Bizzarri, G. Frachetta,
G. C. Capaccio, T. Roccabella e tanti altri (3). Tutti costoi'0 però studiano il Principe
(1) G. Bodin (1530-89). Nel suo libro intitolato De la république tratta anche del Principe.
(2) Balzai; (1594-1655), Le Prince: è un commento alla politica del suo tempo.
(3) U. Gobbi, Economìa politica nei/ìi scrittóri Untimi) del sec. XVI-XVII, pag. 59-67.
Serie II. Tom. LUI. 31
242 DOMENICO VALLA
22
sotto il punto di vista economico-politico; il Dal Pozzo invece, staccandosi da qui
schiera, lo esamina sotto l'aspetto giuridico esclusivamente, alla luce della sua scienza
legale. Passa in rassegna tutte le persone con cui il Principe, questo gioviti signore
del '500, ha che fare: la madre, i figli, il fratello, lo zio, il tutore, il consigliere, il
segretario, i ministri, i sudditi in generale, gli Ebrei, i Vescovi, i Cardinali, il Papa,
e infine gli altri Principi, il Re, l'Imperatore. In questa sua opera vi sono trattate.
o meglio, sfiorate quistioni di diritto pubblico interno ed esterno (regalie, strade.
caccia, pesca, miniere, acque, mare, fiumi, lidi, ponti, pedaggi, boschi, pascoli, saline,
tesori, usura, cambio, annona, ecc.). L'Autore tutto osserva, ma sempre con la lente
del giureconsulto, e tutto coordina in relazione col Principe. L'augusta persona vi è
studiata, possiamo dire, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, con quella dili-
genza con cui il botanico studia un fiore, e il paleografo un codice antico. Vi si
parla persino del barbiere e del cuoco del Principe. Vi si dice, per esempio, " quo-
modo Princeps scribens salutare debeat „. Ciascun argomento poi è basato sur un
numero infinito di citazioni racimolate dai SS. Padri, dalla Bibbia, dagli antichi filo-
sofi, storici, giureconsulti, i quali ultimi però sono contemporanei o tutt'al più appar-
tengono al secolo antecedente. Ne il " Digesto „, ne i codici di Teodosio e di
Giustiniano vi sono mai citati; parimenti non ricorre mai la citazione del " De Mo-
narchia „ di Dante o del " Principe „ di Niccolò Machiavelli.
Certo è che quest' opera, qualunque sia il suo valore oggettivo, acquista per noi
una grande importanza, messa in rapporto colla vita pratica dell'Autore. Dicemmo
che il 1° volume (cod. 48) è preceduto da tre indici: soggiungiamo che essi sono
lisci e consunti, specialmente là dove tocca la mano per girare il foglio. La qual cosa
indica che l'opera fu molto adoperata dall'Autore, il quale doveva dare specialmente
consigli giuridici al Principe. Dicono i biografi che due altri lavori componesse il
Nostro: " De Feudis „ in 13 libri (1), e " De communibus Jurisconsulti opinionibus „ (2).
Se ancora esistano presentemente, non mi riuscì di sapere. Ciò non di meno si può
affermare che il " De Feudis „ fu composto prima dell'opera riguardante il Principe,
poiché vi è più volte citato. Quanto al " De com. J. op. „, è facile congetturare che
non sia se non una delle tante raccolte, su questo argomento, molto comuni a quel
tempo (3).
Attilio Corsi asserisce che se si perdessero tutti i volumi dei giureconsulti ante-
riori, ad eccezione di quelli che furono scritti dal Nostro, non parria perduto niente (4).
Ognuno vede quale esagerazione sia contenuta in questo giudizio. Il biografo succitato
merita però fede là dove dice : " L'Arciv0 nell'Imre di conversazione non di altro vo-
leva mai ragionare che di legge Pontificia o Cesarea, e mentre (altri Dottori in legge)
seco discorrevano delle più alte e profonde materie, sempre sentivano che niuno po-
teva a pena cominciare di profferire un concetto, che esso incontanente con dolci
maniere e soave parlare non dicesse: ci è in punto la tal legge, il tal canone, o vero:
è opinione comunemente ricevuta : allegando improvvisamente gli autori, i luoghi et
(1) Tenivelli, op. cit., pag. 299. — Corsi, op. cit, pag. 27.
(2) A. Bossotti, Syllabus scriptorum Pedemontii. Monteregali, 1667, pag. 142.
(3) Salvioli, Manuale di storia del diritto italiano, ediz. 1890, pag. 119.
(4) Corsi, op. cit., loc. eit.
23 VITA DI CABLAXTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO 243
i numeri, come se gli havesse veduti allhora „ (1). L'unica deduzione che si può trarre
di qui è la seguente: L'Arcivescovo Dal Pozzo era dotato di ferrea memoria, ed
anche, se vogliamo, era uno dei migliori giureconsulti che vi fossero allora in Italia,
e come tale lo riputò lo stesso Innocenzo IX (2); ma non diremo mai che " se si per-
dessero tutti i legali volumi, conservati salvi i suoi, non parria perduto niente „. La
verità prima di tutto.
Cappella Puteana. — Nel Camposanto di Pisa esisteva già in antico una Cap-
pella dedicata a S. Girolamo (3). Nel sec. XVI doveva essere ridotta in pessimo stato
o interamente distrutta. Il nostro Arcivescovo la fece ricostruire, a fundamenlis erexit,
dedicandola nuovamente a S. Gerolamo. Così dice l'iscrizione posta al sommo della
porta. Sopra l'Aitar Maggiore si ammira tuttora un bel quadro rappresentante S. Ge-
rolamo nel deserto. Sul sasso, dove il Santo posa il ginocchio, sta scritto: " Aurelius
Lomius P(inxit) anno Domini MDLXXXXV „ {sic). Nell'a. 1600 (5 luglio), previa la con-
cessione Pontificia ottenuta l'anno precedente, il Dal Pozzo vi fondò e dotò una Cappel-
lania perpetua coll'obbligo al Cappellano di celebrarvi, dopo la sua morte, ogni giorno
della settimana, eccettuato il giovedì, la Messa in suffragio dell'anima sua (4). Stabilì
che la sua retribuzione fosse di 50 scudi (di giulii 10 per scudo) all'anno, da con-
ferirglisi da colui che gode della Commenda Putea. Questi dovrà inoltre pagare, per
una volta sola, altri 20 -scudi per i restauri, per gli abbellimenti della Cappella, e
per l'acquisto degli arredi sacri.
'ommenda Putea. — A' dì 19 marzo 1599 l'Arcivescovo Dal Pozzo fondò una
Commenda, detta Putea dal suo nome latinizzato, con diritto di Patronato spettante
alla sua famiglia e precisamente ai figli e discendenti di Antonio dal Pozzo, suo cu-
gino (5). Il fondo della Commenda fu costituito da 352 Luoghi del Monte di Pace
non vacabile di Roma, i quali a' dì 21 agosto dello stesso anno furono sostituiti da
Luoghi e crediti del Monte del Comune di Firenze (6). Nello strumento di fondazione
si stabiliva: Il 1° commendatore sarà Cassiano Dal Pozzo; e poiché è minorenne, i
frutti della Commenda s'aggiungeranno al capitale sino a che lui sia uscito di mino-
rità. Quegli che possiede la Commenda sarà libero da ogni imposta (art. 6); la ('uni-
menda può anche essere posseduta da uno che sia in sacris, purché non sia un frate,
né un gesuita. I discendenti del conte Amedeo Dal Pozzo, Marchese di Voghera,
(1) Corsi, ibid., pag. 29.
(2) Arch. Med., filza 73, o. 220 tergo.
&) Sainati, op. cit., pag. 172.
4) strumento rog. G. B. Catauti, 1600 (st. fior.""). 13a Indiz., 5 luglio.
5 > Antonio Dal Pozzo fu figlio illegittimo di quel Cassiano che fu 1° Presidente del Senato, e
zio dell'Arcivescovo. Codesto Antonio venne anche a Firenze, vi ottenne cariche ed onori, fu audi-
tore delle Bande, e mori nel 1619 (15 marzo). Fu sepolto in S. Croce, presso la prima colonna a
sinistra di chi entra per la Porta Maggiore.
16) Arch. di Stato di Pisa, libro segnato O, Leggi degli Ufficiali del comune di Firenze, e. 255,
256, 257, 258. Lo strumento fu fatto nel palazzo Granducale " secus arnum in cappella S. Niccolae „.
244 DOMENICO VALLA 24
nipote dell'Arciv0 fondatore, qualora siano al servizio del Gran Duca e abbiano com-
piuto 25 anni, possono pretendere dal Commendatore la pensione di 1000 scudi (di
10 giulii per scudo) (art. 11). Estinguendosi tutte le linee chiamate a succedere in
detta Commenda, questa passerà al Gran Duca di Toscana, Gran Maestro della Reli-
gione di S. Stefano (art. 13). Estinguendosi la discendenza mascolina del Gran Duca,
il fondo della Commenda si trasferirà dalla Religione di S. Stefano ai 12 Governatori
della Pia Casa di Misericordia, con l'obbligo di impiegarne i frutti nella redenzione
degli schiavi dalle mani degl'infedeli, nel dotare le fanciulle povere Pisane (ciascuna
dote però non deve oltrepassare i 100 scudi), nel soccorrere gli orfani, nel pagare
medicine e alimenti ai carcerati che siano poveri (art. 14). La Commenda fu fondata nel-
l'Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, e ogni Commendatore, per conseguenza, doveva
vestire l'abito di Cavaliere Stefaniano. Per mezzo di ricerche fatte appunto nell'Ar-
chivio di S. Stefano, possiamo dare i nomi dei vari commendatori sino a tutto il
secolo XVII:
1599, 8 giugno. Cassiano Dal Pozzo, figlio di Antonio cugino dell'Arcivescovo
fondatore.
1657, 21 febbraio. Cari' Antonio Dal Pozzo, fratello del precedente.
1661, 3 ottobre. Ferdinando Dal Pozzo, figlio „
1672, 29 marzo. Gabriello Dal Pozzo, fratello „
1697, 25 luglio. Cosimo Dal Pozzo, figlio
V.
Il Collegio Puteano(*).
Sembra che nel sec. XVI cominciasse a manifestarsi la tendenza a fondar col-
legi. Due ne sorgevano, quasi contemporaneamente, nella sola Pavia : uno per opera
di Pio V Ghislieri, l'altro per opera di S. Carlo Borromeo, che ne erigeva altri a
Milano, in Ascona e altrove (1). Due altri erano fondati in Pisa stessa ; uno, nel 1568,
dal Card. Giov. Ricci (2); l'altro, nel 1595, dal Gran Duca Ferdinando (3). Il Card. Bo-
nifacio Ferrerò, biellese come il Nostro, aveva eretto in Bologna nel 1545 un collegio
pel mantenimento di dodici scuolari piemontesi (4). Non dobbiamo pertanto meravi-
gliarci, se l'Arcivescovo Dal Pozzo, o per non comparir da meno degli altri, o per
seguire l'andazzo dei tempi, e certamente per amor della sua patria, si decise di
fondare anche lui un collegio ; tanto più che il Gran Duca lo avrebbe a ciò esor-
tato (5); opperò, questa volta almeno, avrebbe dato consiglio al Consigliere. Ma ancora
un altro fatto merita di essere considerato : Per il fermo intendimento dei Duchi di
(*) L'aggettivo " Puteano „ deriva, ognun lo vede, dal cognome latinizzato del fondatore.
(1) A. Sala, Vita di S. Carlo, voi. I, pag. 54, 140, 265.
(2) Grassi, op. cit., voi. 3°, pag. 62.
(3) Grassi, ibid., pag. 12.
(4) Tenivelli, op. cit., voi. 5°, pag. 84.
(5) Inghikami, Storia della Toscana, ed. 1841, voi. 10, pag. 350.
25 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PDTEANO 245
Savoia di voler riacquistare il Marchesato di Saluzzo, il Piemonte fu devastato da
continue guerre, e lo Studio di Torino trovavasi, per conseguenza, in condizioni de-
plorevolissime (1). I professori furono ridotti a dover insegnare senza stipendio; per
modo che quando davano le dimissioni o venivano a morire, non si trovava chi vo-
lesse sostituirli. Questa è la ragione precipua, per cui il Nostro deliberò di fondare
a Pisa un Collegio per gli studenti del suo paese, che, pur essendo dotati di una certa
intelligenza, per mancanza di mezzi, non potevano recarsi a Pavia, Padova, Bologna,
per frequentarvi il corso Universitario.
Citiamo qui, ordinandoli cronologicamente, tutti i documenti che possono darci
notizie precise e minute sull'origine del Collegio.
1603, 11 gennaio. Strumento, rogato Nicolò Troncia, dove (art. 10) si dice che
l'Arcivescovo aveva già prima depositato danari pel mantenimento di due studenti
poveri nel collegio eretto dal Gran Duca Ferdinando. Vi si dice che qualora egli
stesso volesse in seguito mantenere più di due scuolari, dovessero avere tutti e sempre
medici e medicine gratis.
Bolla del Papa Clemente Vili in data 26 aprile 1604 e Breve dello stesso Papa
in data 10 settembre 1604. È concessa. all'Arcivescovo la facoltà di fondare e dotare
il Collegio, senza che gli sia ritolta l'altra facoltà, anteriormente concessagli, di far
testamento. Vi si dice che il Collegio dovrà essere pio ma laicale, e che il diritto di
Patronato e quello di nominare gli scuolari e il Prefetto, dopo la morte del fonda-
tore, spetterà ai suoi eredi per sempre.
30 ottobre 1604. Strumento per l'affitto perpetuo della casa del Collegio, situata
nella Piazza dei Cavalieri e sotto la Prioria di S. Sisto. La Religione di S. Stefano
si obbliga per sempre alle spese di l'istauro.
8 dicembre 1604. Atto solenne di fondazione e dotazione alla presenza di cinque
Padri Barnabiti nel convento di S. Frediano. Il fondo o patrimonio fu costituito da
tanti Luoghi di Monte che davano l'annua rendita di scudi 698. 2. 14. 8 (=lire 4106.45).
Comunemente si crede che il Collegio sia stato fondato nell'a. 1605. Da questo do-
cumento risulta invece che la fondazione deve riportarsi all'anno antecedente.
18 dicembre 1604. Strumento dei Governatori della Pia Casa di Misericordia: Essi
promettono perpetua ed inviolabile osservanza delle costituzioni del Collegio.
30 dicembre 1604. Strumento dei Lettori in Diritto.
1° gennaio 1605. Entrano in collegio i primi quattro alunni.
11 gennaio 1605. Atto d'obbligo et sicurtà del Camarlingo del Collegio.
12 gennaio 1605. Strumento con cui i Governatori della Pia Casa rilasciano
Camarlingo la patente di poter riscuotere i frutti dei Luoghi di Monte.
22 gennaio 1605. Entra in collegio il 5° alunno.
23 gennaio 1605. Strumento dei Lettori in Filosofia e Medicina.
24 gennaio 1605. Strumento dei Lettori in Teologia.
I vari Lettori dello Studio Pisano dichiarano esenti da ogni tassa scolastica i
Collegiali Puteanisti, e si obbligano a conferir loro gratuitamente il Dottorato.
(1) Alberi, op. cit, tomo 5° (2a serie), pag. 172 e 274.
246 DOMENICO VALLA 26
18 febbraio 1605. Carlo Emanuele, Duca di Savoia, gradendo la fondatione et
dotaHone del Collegio, concede ai giovani, cui spetta occuparne i posti, di poter libe-
ramente recarsi a Pisa, " et ivi dottorarsi senza che perciò venghino ad incorrer in
pena alcuna „.
5 aprile 1605. Il Gran Duca di Toscana riconosce ed approva la fondazione del
Collegio.
28 aprile 1605. Entra in Collegio il 6° alunno.
23 dicembre 1605. I Priori di Pisa fanno fede della rettitudine del notaio Andrea
Felloni che rogò tutti i succitati strumenti.
22 giugno 1606. Strumento, in cui si fanno aggiunte e variazioni relative alla
patria dei Puteanisti e all' Oratorio del Collegio.
17 novembre 1606. Entra in Collegio il 7° ed ultimo alunno.
1° dicembre 1606. Nomina del Prefetto.
Bisognerebbe ora accennare all'ingerenza avuta sul Collegio dal Gran Duca di
Toscana e dall'Arcivescovo di Pisa: bisognerebbe dire qualcosa della patria e della
qualità degli alunni, delle formalità da osservarsi nella loro elezione, dei loro obblighi,
della loro provvisione mensile. Non sarebbe inutile sapere chi era incaricato della
contabilità, quale era lo stipendio del Camarlingo e del Cancelliere. Ma chi avesse
vaghezza di conoscere tutte queste cosucce, può ricorrere alle costituzioni (1) del 1822
o allo Statuto organico del 1866. Avvertiamo soltanto che i Gran Duchi furono di-
chiarati Protettori del Collegio, che l'Arcivescovo di Pisa ebbe ed ha gran parte nel-
l'ordinamento disciplinare, vigila sulla condotta dei collegiali specialmente per quanto
riguarda l'adempimento dei doveri religiosi. Aggiungiamo inoltre che l'amministra-
zione del Collegio ancora presentemente, come in antico, è annessa all'Istituto della
Pia Casa di Misericordia, colla differenza che il Camarlingo e il Cancelliere sono so-
stituiti da un Segretario.
Le nostro ricerche sono rivolte ad una quistione che ha un' importanza speciale.
Nel Collegio ora vi è un Rettore, ma nelle antiche costituzioni non vi è punto no-
minato: ricercheremo quando, come e perchè vi fu posto questo ufficio, ed esporremo
sommariamente le vicende, a cui andò soggetto, raggruppando intorno a questo argo-
mento principale altri fatti di secondaria importanza.
Nel sec. XVI un Rettore di Collegio, come lo concepiamo noi, non era possibile.
Vigevano ancora le costumanze medievali: il superiore di una comunità qualsiasi
veniva scelto dalla comunità stessa. Nelle antiche Università il rector scholarium do-
veva essere uno degli studenti (2). Nel Collegio fondato dal Gran Duca Ferdinando
nel 1595, siccome dicemmo, il Rettore doveva essere uno degli scuulari e dipendeva
dal Provveditore dello Studio ossia dal Rettore dell'Università. Per le vie di Pisa
doveva essere accompagnato da un servo: indossava una toga di panno nero con un
cappuccio di velluto paonazzo: nella sua camera, d'inverno, vi poteva fare accendere
(1) Le " constitutiones „ furono dettate dallo stesso Arcivescovo fondatore. Se ne fecero varie
ediz.: la la nel 1606 in 80 esemplari (Tip. di Giov. Fontana): la spesa di stampa fu di soli scudi 8
(V. Libro del cancelliere, e. 8 tergo). La 2a ediz. fu fatta nel 1822 (Tip. Arciv.0 di Raineri Prosperi).
La 3' ediz. fu curata nel 1886 (Tip. Pieraccmi Salvioni). All'antico titolo di constitutiones vi è sosti-
tuito quest'altro: Statuì') organico e Regolamento interno.
(2) Salvioli, op. cit., pag. 106.
27 VITA DI CARLASTOHIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PTJTEANO 247
il fuoco e gli altri studenti potevano andarvi a scaldarsi. Siffatto Rettore era nulla
più che uno studente, e durava in carica soltanto un anno. Cosi press' a poco sta-
vano le cose anche nel Collegio Puteano, colla differenza che lo scolare-capo si chiamò
non già Rettore, ina Prefetto e durava in carica per sei anni consecutivi, ossia per
tutto il corso Universitario.
Finché visse il Dal Pozzo, tutto procedeva col massimo ordine e colla massima
regolarità: morto lui, le cose cambiarono. I Collegiali mal sopportavano il giogo di
un loro compagno; sempre cercavano di dargli noia. Il primo che dovette addossarsi
il gravosissimo ufficio fu il Sac. Pietro Caligaris da Mongrande, il quale era entrato
in collegio a' dì 28 aprile 1605. Fu ben tosto accusato di aver avuto relazione con
una certa Caterina da Lucca; ma si trattava di una calunnia vera e propria, a quanto
sembra, perche si portò la questione dinanzi al Tribunale Ecclesiastico e il Caligaris
fu assolto { 1 |. A' di 20 febbraio 1609 fu nominato Prefetto un altro studente, Giovanni
Stefano Lessona, il quale era entrato in collegio a' dì 17 novembre 1606. Chi veniva
eletto, per amore o per forza, doveva accettare, perchè così prescriveva il cap. 12°
delle Costituzioni. E facile comprendere che, stando cosi le cose, vera disciplina non
vi poteva essere. Infatti vediamo che i Patroni si lamentavano continuamente col-
l'Arcivescovo Pisano e con lo stesso Gran Duca, e li supplicavano a prestar loro
aiuto per mettere fine all'indisciplinatezza dei collegiali (2).
Per far cessare ogni disordine sarebbe bastato togliere via il Prefetto e sosti-
tuirvi una persona più autorevole, superiore per scienza e per costumi a giovani così
ostinati ; ma per quanto si sentisse forte questo bisogno, pur tuttavia dovette trascor-
rere più di un secolo, prima che si venisse alla modificazione di un capitolo delle
Costituzioni. Solamente nel 1718 il Principe Don Alfonso Enrico Dal Pozzo Della
Cisterna, Patrono del Collegio, messo da parte lo scrupolo di violare il regolamentò
del Collegio, decide di mandare ad effetto una riforma riconosciuta tanto neces-
saria; e ne affida l'incarico al Conte Ludovico Gioachino Garagni, suo Procuratore
Generale. Questi abolisce (1719, aprile) l'ufficio di Prefetto, e nomina per un decennio
Rettore del Collegio il Sac. Giov. Batt. Bedotti, uno degli alunni e laureando in
Legge (3). L'anno dopo (1720) il Patrono, soddisfatto dell'opera sua, lo nomina Ret-
tore a vita. Ma alla morte del Bedotti, avvenuta nel marzo del 1752, l'Arcivescovo
Francesco Guidi, d'accordo coi Dodici Governatori della Pia Casa, si rifiuta di no-
minare un altro Rettore, ed elegge per modum provisionìs , siccome prescrivevano le
Costituzioni, l'abate Rondi a Prefetto del Collegio. Questi dura in carica cinque
anni, trascorsi i quali, un altro Gio. Batt. Bedotti, nipote di quello stesso che era
già stato Rettore, è riconosciuto definitivamente Prefetto.
Così stanno le cose sino al novembre del 1781. In quest'anno il Principe
Don Alfonso Giuseppe Felice tenta di far accettare nel Collegio, come Rettore, il
Sac. Biancelli, che era già stato alunno e Prefetto ed aveva ottenuto la laurea recen-
temente. Ma l'Arcivescovo Franceschi si oppone, al Principe fa osservare 1° che il
Rettore era già stato abolito nel 1752; 2° che l'emolumento del Rettore " ridondava
(1) Arch. dell'Arcivescovato, Ada crìminalia, filza 16.
(2) Ardi. Med., filza 2961.
(3) Si addottorò nel giugno di questo stesso anno (1719).
248 DOMENICO VALLA 28
in pregiudizio degli altri alunni, occupando egli il posto di uno dei voluti dal Fon-
datore „. In virtù del cap. 16° delle Costituzioni i Gran Duchi " devono proteggere il
Collegio e soprintendere e prestare il braccio sempre che occorra „. L'Arcivescovo
perciò consiglia il Principe a ricorrere al Gran Duca: ma pel momento il Biancelli,
poiché ha conseguito la sua laurea, deve uscire di collegio.
Si pose termine al dissidio con prendere una via di mezzo: l'Arcivescovo voleva
il Prefetto, il Principe voleva il Rettore. E bene si fini con scegliere un Prefetto-
Rettore, ossia uno che in certo modo era nello stesso tempo e Prefetto e Rettore:
si nominò un buon sacerdote piemontese, coll'obbligo di prendere una laurea qualsiasi,
unicamente perchè così volevano le costituzioni. La scelta cadde sul sacerdote Pietro
Vinea (1).
Con tale ordinamento arriviamo sino al 1795, senza incontrare irregolarità alcuna.
Negli anni 1795-1802 gli alunni del Collegio da sette vengono ridotti a due, a mo-
tivo degli scompigli cagionati dall'invasione dei Francesi. Nel febbraio 1802 gli ultimi
due Collegiali, addottorati, se ne ritornano in patria.
Il Collegio rimane chiuso sino al gennaio 1805, cioè per tutto il tempo che non
fu possibile riscuotere i frutti dei Luoghi di Monte: indi è riaperto per un anno
circa; dal dicembre 1805 al 1° novembre 1808 resta nuovamente chiuso. Tale giorno
era fissato per la riapertura da uno speciale arrèté del Comte de Menou, Governatore
Generale della Toscana (2) ; però gli alunni rientrarono in Collegio soltanto a' dì
21 gennaio 1809. In questo torno di tempo si fanno alcuni cambiamenti relativi
all'amministrazione: 1° ai Luoghi di Monte sono sostituiti censi e livelli. 2° È aumen-
tata la retta mensile di ciascun alunno, a motivo del rincaro dei viveri. 3° E au-
mentato il salario del Camarlingo (da scudi 14 a 18) e del Cancelliere (da scudi 6
a 8). 4° Si paga anticipatamente la provvisione a ciascun alunno: prima gli si pa-
gava a mese scaduto. 5° Si fa l'acquisto di alcuni mobili che devono rimanere sta-
bilmente nel Collegio: prima gli alunni, appena giunti a Pisa, con la tenue retta
mensile dovevano provvedersi di letto e degli altri mobili necessari prendendoli a
nolo. 6° Si nomina un nuovo Impiegato come Computista, con l'annuo stipendio di
lire 20. 7° In virtù dei nuovi Regolamenti dell'Imperiale Accademia Pisana, i Putea-
nisti devono d'ora in avanti pagare tutte quante le tasse accademiche come qualunque
altro studente: i loro diritti all'esenzione non furono riconosciuti rispettabili per il
solo motivo della loro antichità (Lettera di Anton Brignole-Sale all'Arcivescovo in data
14 settembre 1816); però si stabilisce che codeste tasse siano pagate con danari presi
dalla Cassa del Collegio. 8° Sino al 1810 le spese di manutenzione e di ristauro della
casa del Collegio spettavano alla Religione di S. Stefano, siccome risulta dall'istru-
mento fatto a' dì 30 ottobre 1604 e rogato Andrea Felloni e Sebastiano Niccoli
(V. sopra pag. 25). Dal 1810 in poi questo onere passa al Demanio, che della Reli-
gione di S. Stefano aveva incamerato i beni.
In tutto questo tempo compare nuovamente il Prefetto voluto dalle antiche costi-
tuzioni. Nell'agosto del 1817 l'Arcivescovo Ranieri Alliata vorrebbe eleggere a Pre-
Ci) Vedi la lettera dell'Arcivescovo al Principe in data 24 dicembre 1783.
(2) Nell'aerea, che porta la data del 10 ottobre, si dice: " Le college sera ouvert au premier
novembre procliain „.
29 VITA DI CARLANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGI! PUTEAKO
fetto del Collegio un ecclesiastico della Diocesi di Pisa, riducendo il numero degli
alunni. Questa proposta è respinta dal Principe Don Giuseppe Alfonso, il quale vuole
invece nominare un Prefetto che sia piemontese, ma che non sia nativo di quelle
città o paesi nominati nelle Costituzioni.
A' dì 31 marzo 1819 egli muore, e, naturalmente, non può mandare ad effetto
questo suo disegno. Fu il figlio Don Emanuele quegli che, uniformandosi alla volontà
dell'Arcivescovo, nomina Rettore un Prete Toscano, concedendogli tutte le facoltà e
preminenze già attribuite al Prefetto (lettera del Principe all'Arcivescovo in data
24 novembre 1819). Prima però aveva pòrto supplica al Governo Toscano per otte-
nere l'assenso a derogare, su questo punto, alle Costituzioni. L'assenso infatti era
venuto ed era stato comunicato sia al Principe che all'Arcivescovo dal Corsini. Se-
gretario di Stato, per mezzo di Pietro Paoli, Sopraintendente agli Studi, in data
14 novembre 1819. Fu designato ad occupare tale carica il Canonico Claudio Sa-
muelli, che fu dunque il primo Prete Toscano che sia stato Rettore del Collegio. Ma
per un anro intiero noi potè esarcitare l'ufficio conferitogli per la fiera e ostinata
opposizione degli alunni, i quali comprendevano troppo bene che la nuova nomina
importava la soppressione di un posto. A nulla valsero le rimostranze, perchè nel
novembre dell'anno successivo il Samuelli entrò in collegio: e quattro alunni, che
avrebbero avuto diritto a rimanervi ancora per un biennio, se ne andarono via di
loro spontanea volontà, domandando 200 lire d'indennità per ciascuno.
Nel maggio del 1821 il Principe Don Carlo Emanuele fu. per motivi politici,
esicfliato (1): e tutti i suoi beni furono confiscati (Vedansi le lettere scritte in data
19 maggio e 22 settembre 1821 da Vittorio Gastaldi, suo ex- Procuratore Generale,
all'Arcivescovo ; e vedasi inoltre la lettera del cav. Collez in data Torino 22 ott. 1851).
In tali luttuose circostanze il Patronato del Collegio e il diritto di nominare gli alunni
passano al Re di Sardegna, che in questa parte è rappresentato dal Cav. Montiglio
sino al 1822 (agosto), indi dal Conte Giuseppe Petitti.
In questo tempo s'interessa del buon andamento del Collegio anche il Conte Carlo
Luigi di Castell'Alfero, Inviato Straordinario presso le Corti di Toscana e di Lucca.
Nel 1827 (marzo) il Samuelli dà le dimissioni; qualche anno dopo, e precisa-
mente nel 1832, troviamo che occupa l'ufficio di Rettore il Canonico Angelo Gabrielli.
Nel 1832 Don Emanuele rientra nei suoi diritti civili, e riacquista tutti i
suoi beni; risiede ancora a Parigi, e la marchesa Luigia di Breme, sua sorella, è
costituita sua Procuratrice Generale. Mentre essa è assente da Torino, Amedeo
Peyron è incaricato degli affari della famiglia Dal Pozzo in Toscana. Si fa trasmet-
tere i bilanci del Collegio, e li recapita al Principe, che abita in Bue Poitiers, 8,
Parigi.
Dal 1833 (novembre) al 1840 (marzo) è Rettore del Collegio il Canonico Ranieri
Serafino Menichelli. Alla sua morte, avvenuta nel marzo del 1840, risorge nuova-
(1) Fu esigliato per aver preso parte alla rivoluzione del '21. Ognuno sa che molti altri illustri
italiani furono in questo tempo esigliati. Basti ricordare quel magnanimo eroe che si chiama San-
tone di Santa Rosa. 11 nostro Don Emanuele s' incontrò con lui in Svizzera. Curiosità e > icerche
<Ji storia subalpina, voi. Ili, pag. 132.
Serie II. Tosi. LUI. 32
250 DOMENICO VALLA 30
mente il solito dissidio tra il Principe che vuole il Prefetto secondo le antiche Costi-
tuzioni e l'Arcivescovo che preferisce nominare il Rettore.
1841 (29 luglio). Il Principe ha nominato Prefetto l'alunno Sac. Felice Zocchi.
L'Arcivescovo, non solo non vuol riconoscere questa elezione, ma insiste anche perchè
sia nominato Rettore il Canonico Angelo Ribeccai, e adduce le seguenti ragioni :
1° Il fondatore del Collegio pose per Prefetto uno degli alunni, perchè allora poteva
stare: ora tale ufficio non ha più ragion d'essere per la mutata condizione dei tempi;
2° Gli alunni nominati dal Fondatore erano sette: ora essi sono otto, e, col Rettore,
nove ; 3° La nomina del Rettore fu approvata dal Gran Duca di Toscana con Re-
scritto del 14 novembre 1819.
1842 (1° febbraio). Il Giorgini, Soprintendente agli Studi, concede facoltà all'Ar-
civescovo di nominare, in modo provvisorio, Rettore del Collegio il Canonico Ribeccai.
Questi rimane in carica solamente per un mese circa, dovendo cedere il posto al
Prefetto ed alunno, Sac. Felice Zocchi. E così momentaneamente la vinse il Principe.
Ma a' dì 23 giugno 1843 fu emanato un Rescritto di S. A. I. e R. in cui si dichiara:
1° Che la deroga alle Costituzioni del Collegio indotta dalla Sovrana Risolu-
zione del 14 novembre 1819 in quella parte, in cui si stabilì doversi scegliere il
Prefetto o Rettore dal seno degli alunni, è obbligatoria, e porta il recesso da questo
sistema in qualunque circostanza ed in perpetuo.
2° Che per conseguenza i Patroni dovranno sempre eleggere alla carica di
Rettore un estraneo.
3° Che potrà essere eletto, purché estraneo al Collegio, un probo ecclesiastico,
di qualunque paese egli sia.
4° Che l'esercizio del Patronato, quanto alla nomina del Rettore, è libero da
qualunque influenza dell'Ordinario Pisano.
Così fu abolito per sempre l'ufficio di Prefetto.
Un unico vestigio ne rimane nel cap. 2° dell'attuale Regolamento Interno (arti-
coli 9 e 10), dove si dice che ogni mese gli alunni nominano con votazione segreta
un loro compagno che deva, d'accordo col Rettore, fare la scelta dei generi alimen-
tari, e coadiuvare il Rettore nella tenuta dei conti per la spesa giornaliera.
31 VITA DI CARL ANTONIO DAL POZZO FONDATORE DEL COLLEGIO PUTEANO -51
CONCLUSIONE
I Patroni ebbero sempre a cuore gl'interessi del Collegio : tutti furono favorevoli
alla nomina del Prefetto, due soli eccettuati che trovarono due Arcivescovi dello
stesso parere. Don Alfonso Enrico (1719), d'accordo coli' Arcivescovo Frósini, nominò
per Rettore un prete piemontese; Don Emanuele (1819), d'accordo coli' Arcivescovo
Alliata, conferì lo stesso ufficio ad un prete toscano. Questo stato di cose veniva rico-
nosciuto e ratificato dal Rescritto Sovrano del 14 novembre 1819, che è forse il do-
cumento più importante nella storia del Collegio; l'altro Rescritto del 1843 non è
se non una ripetizione di questo.
Don Emanuele mori nel 1864 -(26 marzo) senza lasciar prole maschile: quindi
il Patronato del Collegio passò alla figlia Maria Vittoria, che andò sposa a S. A. R.
il Principe Amedeo Duca d'Aosta ; ora appartiene esclusivamente alle LL. AA. RR,
i Principi Emanuel Filiberto, Vittorio Emanuele, e Luigi Amedeo di Savoia.
L'Arcivescovo Dal Pozzo, il figlio del Conte di Ponderano, dei Marchesi di Ro-
magnano, Consigliere di due Gran Duchi, fu uomo di forti propositi e cupidissimo
di gloria. Sia nelle azioni che negli scritti era memore sempre della nobiltà dei suoi
natali. Vediamo, per es., come incomincia il 1° capitolo delle Costituzioni del Collegio:
* Io Carl'Antonio Puteo, figlio dell'illustre signor Francesco Puteo, Conte di Ponde-
rano et dei Marchesi di Romagnano, Jurisconsulto, Arcivescovo di Pisa, Alumno dei
Gran Duchi di Toscana, ecc. „.
Quel periodo che incomincia con tanto di io, tutti quei titoli speciosi schierati
l'i uno dopo l'altro ci rivelano un uomo, in cui l'altezza di sentimento si accoppia
alla nobiltà di azione. Quale gioia non proverebbe egli, se potesse per un istante
rialzare il capo dal suo mausoleo del Camposanto pisano, se in quel gelido involucro
craniale potesse nuovamente agitarsi il pensiero ed esservi percepita la bella notizia
che ora il suo Collegio trovasi sotto l'alto Patronato della Casa di Savoia! La lieta
novella sarebbe come un raggio di sole penetrato nella sacra oscurità del sepolcro,
o come un fiore incorruttibile deposto sulla sua tomba da mano amica.
252 DOMENICO VALLA 32
F O IV T I
impi .
Attilio Corsi, Orazione in lode dell' IU.™* <■ II. Mons. Cari' Antonio dal Pozza Ann. di Pisa. Ediz.
Giunti, 1608. Firenze, 1608.
F. Bocchi, De laudibus Caroli Antimi' l'atri. Florentiae, apud I. Sermartellium, 1608.
I. Mazzonii Caesenatis (non Cesari'. Mazzoni come intese il Tenivelliì, In universum Plutonis et Ari-
stoteli.-: Praeludia, etc.
G. Viviani, Praxis iuris patronatus, lib. Ili, o. 2, pag. 53 e segg. (ediz. 1620).
F. L. Barelli, Memorii dell'origine, fondazione, ecc. dei Chierici Bagolari di S. Paolo. Bologna, 1707,
voi. 2°, pag. 75 e segg.
F. Ughelli, Italia .Sacra. Tomo III, 489-90.
R. Galluzzi, Storia del Gran Vacato di Toscana, ed. 1841, voi. Ili, 327-328, voi. IV, 9, 151, voi. V, 26,27.
\. !'. Mattei, Ecclesia, Pisanae Historia (ed. 1772). Tomo II, 207, 216.
C. Tenivelt.i, Biografie Piemontesi (ed. 1785). Decade 2», pag. 281-308. N. B II Tenivelli mostra di
non conoscere l'opera del Mattei, che fu pubblicata 13 anni prima.
G. Fasulli, Istoria del monastero degli Ani/ioli ili Firenze. Lucca, 1710, pag. 129.
F. Inchinami, Storia della Toscana, voi. 10, 15, 16 (ediz. 1841).
A. Da Morrona, Pisa iti usi rata nelle arti del disegno. Livorno, 1812.
R. Grassi, Descrizione storica e artistica ili Pisa (ediz. 1836).
F. Mutinelli, Storia arcana ed anedottica. Venezia, 1855.
E. Alberi, Relazioni degli Ambascia/un Veneti. Firenze, 1839-63.
G. Sainati, Diario Sacro Pisano. Torino, Tip. Sales., 1898 (3* ediz.).
A. Rei'mont, Geschichte Toscana's seit dem Ende des florentinischen Freistaates. Gotha, Perthes, 1876-77.
G. Masserano, Biella e i Dal Pozzo. Biella. 1867.
B. Trompeo, Cenno storico-statistico del Collegio i'uteano. in Pisa. Torino, ItiTO.
b) Manoscritti.
Pisa - I. Archivio di Stato.
Arch. dell'Opera della Primazia! e. Lettere sulla ristauraz. del Duomo, filze 1253 e 1039.
Contratti della Pia Casa di Misericordia.
Arch. di Santo Stefano. Provanze di nobiltà. Apprensioni d'abito.
Navarrette. Memorie Pisani
II. Archivio dell'Arcivescovado.
Archivio così detto Sei/reto. Potei consultare le carte preziosissime ivi contenute mediante la
raccomandazione del canonico Ratiaelli, a cui porgo pubblici ringraziamenti.
Archivio della Mensa. Quivi trovasi un ms. di Paolo Tronci. Vedasi in proposito un mio arti-
colo in " Arch. stor. it. „, serie V, tomo XXVII, 1901.
Archivio della Curia. Acta Extraordinaria, filza 15; Acta criminalia, filza 16.
III. Arch. della Pia Casa di Misericordia. Quivi trovasi la maggior parte dei documenti che riguar-
dano il Collegio.
IV. Arch. del sig. Conte Agostini-Venerosi-Della Seta. Carteggi della famiglia Bocca. L'Arcip. Giu-
seppe Bocca era il Vicario dell'Arciv. Dal Pozzo.
Firenze - I. Arch. di Stato. Carteggi del Principato Mediceo. Carte Strozziane.
Archivio della Rota. Diario del Settimanni.
Vita di Ferdinando I Gran Duca, scritta da Domizio Peroni in C. Strozz., filza 53.
IL Biblioteca Magliabechiana, ci. Vili, cod. 81.
Passerini, 202; Capponi, cod. XC, CCL, CXXIV.
III. Bibl. Riccardiana, ms. 2205.
IV. Bibl. Laurenziana, Catal. Med. Palat., cod. 47-48.
V. Archivio Generale dei Contratti, Testamenti, filza 593, 15, n° 22.
ESAME STORICO CRITICO
DELL OPERA DEL
signoe JULES DE GAULTIER
INTITOLATA
"DA KANT A NIETZSCHE
55
MEMORIA
DEL
Prof. ROMUALDO BOBBA
Approvata nell'adunanza del 21 Giugno 1903.
Il signor Jules de Gaultier pubblicava nel 1900 un libro col titolo Da Kant a
Nietzsche (Paris, " Société du Mercure de Franco „), die comprende tre parti,
cioè una breve prefazione, una introduzione la quale nel libro riempie 250 pagine e
una esposizione della Filosofia di Nietzsche. Non intendiamo qui di prendere in esame
se non le due prime parti, la quale vorrebbe essere una specie di compendio della Storia
della Filosofia sotto un aspetto speciale, cioè " la pbilosophie sera considérée cornine
" description des modalités et des limites de la faculté de connaitre. Ainsi circon-
" scripte, elle bénétìciera du caractère de certitude dévolu à toutes les sciences, qui
" cornine les mathématiques, la geometrie et la logique traitent de la forme seule-
" meiit de l'esprit et ne s'aventurent pas à la suite des sciences naturelles et histo-
" riques à explorer son contenu. C'est cette science de la forme et des limites de
" notre faculté de connaitre dont on se propose ici de pre'ciser les conclusions, de dé-
" finir le ròle et la portée, de mettre en scène, en quelque sorte, l'epopee. Or il nous
" faudra parvenu-, à traverà les détours de la pensée philosopbique jusqu' à la cri-
" tique de la Raison pure „ e poi continuare da questa fino a Nietzsche.
Adunque, se abbiamo ben compreso, il compito che si propone l'autore nella sua
introduzione è di mettere in scena l'epopea della forma e dei limiti della nostra
facoltà di conoscere, precisarne le conclusioni e definire l'ufficio del pensiero senza
esplorarne il contenuto. Vediamo come egli abbia svolto il suo assunto.
L'autore pone la questione in questi termini : " Comment la vie laisse-t-elle
" place à la manifestation de son contraire, l'état de connaissance qui, dissipant l'il-
" lusion nécessaire à la vie, met la vie en perii? „ (pag. 16j. Ora concesso che la
254 ROMUALDO BOBBA li
verità presa come fine della conoscenza favorisca uno stato contrario alla vita se-
condo l'autore, si comprende che l'appetito di conoscere non possa manifestarsi che
in quelli in cui la vita è sul declino. Se non che, continua egli, la vita è posseduta
da un bisogno di dissimulazione, nasconda essa il suo nulla o il suo mistero, si mostra
provveduta di un corredo inesauribile di maschere di ogni sorta, e quando una di
queste incomincia a staccarsi, tanto vale che sia subito strappata. L'istinto di cono-
scenza è appunto quello che adempie a tale ufficio; esso è nichilista, ne può mostrarsi
senza distruggere; tuttavia nel compiere tale impresa, che lo soddisfa, non lascia di
fornire un mezzo, che viene adoperato da un istinto più forte, perchè mentre quello
rovescia i vecchi idoli, la vita multiforme e onnipotente eleva nuovi idoli. Laonde
l'intervento della conoscenza ha per effetto di facilitare l'avvenimento di un nuovo
culto, meglio in rapporto colle modificate condizioni dello spettacolo, colla oscurità
variabile in gradi ma sempre necessaria alla vita finche assiste alle proiezioni ma-
giche sulla tela fenomenale delle ombre ove essa si rappresenta e cerca di cogliersi.
Supponendo quindi che l'illusione attuale della vita sia per dileguarsi a cagione
degli attacchi dell'istinto di conoscenza, l'autore vuole studiare i modi possibili di
una nuova illusione più solida, che protegga la vita e mantenga più sicuramente
l'ombra in cui prospera. Ora l'istinto di conoscenza e l'istinto vitale dissimulati sotto
apparenze metafisiche sono in lotta necessaria ; e sebbene l'istinto vitale sia sempre
il trionfatore eletto dalla sorte, tra gli spettatori della lotta se ne possono trovare
alcuni, e l'autore è indubbiamente tra questi, i quali per intime analogie inclinano
a schierarsi dalla parte del vinto ed a sorridere della dabbenaggine del vincitore,
attesoché, dice l'autore, nel corso della sua esposizione " ils trouveront piture pour
" leur sympathie secréto ; car jamais l'instinct vital ne fut plus dangereusement me-
" nacé et n'apparut en posture moins noble que durant cette période, où, ferrasse
" par la Critique de la Raison pure, il emploie pour se défendre les procédés de la
" lutte la plus discourtoise, les attitudes les plus burlesques, les arguments de la
" dialectique la plus creuse „ (pag. 19). Compiangeremo a suo tempo questo disgra-
ziato istinto vitale, intanto assistiamo a' suoi trionfi.
IL
All'origine di ogni popolo che va costituendosi sorge un uomo in cui l'istinto
vitale della razza prende coscienza di sé, de' suoi bisogni, delle sue necessità vitali,
ne è il legislatore, il sacerdote in nome dell'istinto vitale, cioè diciamo noi, dell'istinto
naturale di conservazione e di perfezionamento della associazione, forinola un'igiene
fisica e morale, codifica tutte le misure proprie a regolare le attitudini, a determinare
gli atti in vista di assicurare la forza, la durata, la felicità, la potenza della razza.
Né basta; per l'osservanza di quei precetti, dà loro il carattere di leggi esterne, con
premii e pene immediate, a cui aggiunge ancora finzioni ricche di promesse o di mi-
nacce per agire mediante immagini al di là delle coercizioni esecutorie immediate
sopra lo spirito degli uomini. Tali finzioni sono presentate come leggi, ma senza giu-
stificarne la realtà. Vero è che più tardi sorgono taluni, che in appoggio della fede
3 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE .. 255
reclamano argomenti, perchè a loro non basta più che le finzioni siano utili, ma vo-
gliono che siano vere, cioè vogliono che ciò che per la loro associazione era di una
utilità particolare per conservare la loro autorità siano mascherate colla apparenza
di utilità universale. Con tale pretesto l'istinto di conoscenza entra in scena; esso
sarebbe già armato per distruggere, ma essendo ancora sotto l'assoluta dipendenza
dell'istinto vitale, viene costretto a formare a lato della finzione dogmatica una nuova
finzione, a lato del dogma religioso un -dogma filosofico, cioè a stabilire l'identità del-
l'utile col vero nel senso sopra indicato, il che si chiama una filosofia. L'istinto vi-
tale poi colle conclusioni della filosofia sanziona ciò che si ha il costume di nominare
la verità. Quindi, secondo l'autore, una menzogna religiosa e una menzogna razio-
nalistica, un dogma e una filosofia sono il doppio riparo dietro il quale ogni istinto
vitale previdente assicura le sue petizioni e i suoi bisogni, la sua durata oltre il pe-
riodo della sua forza e primitiva spontaneità, e questi sono appunto i due fantasmi
che la crescente luce della conoscenza deve dissipare quando sarà venuto il tempo
di dissipare l'intrigo fenomenale secondo una nuova affabulazione . cioè una nuova
menzogna.
III.
Per farci meglio comprendere le cose sopra esposte l'autore con due parole ci
spiega il loro senso arcano, scrivendo: la finzione, la menzogna istituita da circa
19 secoli dall'istinto vitale, che come abbiamo veduto è necessariamente nemico
della conoscenza, irrazionale, cieco, ma che doveva essere da spinta della sua evo-
luzione fra le razze occidentali, è il monoteismo. Quindi, secondo l'autore, la finzione,
la menzogna è semplicemente questa: un Dio fuori del mondo, creatore dello stesso;
una legge rivelata sia miracolosamente, sia naturalmente alla coscienza umana, signi-
ficantele un bene da praticare, un male da evitare, l'uomo fornito di un libero arbi-
trio, che gli permette di osservare o non osservare i precetti impostigli, la respon-
sabilità de' suoi atti, la capacità di meritare o demeritare, di ricompense o di pene,
concepite ora sotto forme grossolane ora sotto forme più pure: tale è, aggiunge
l'autore, il sistema di menzogne e di finzioni che abbraccia la concezione monoteistica
cristiana dopo che se ne è eliminato il monoteismo musulmano (pag. 24). Questo
latino ha almeno il vantaggio di essere perfettamente chiaro e facilmente compreso
anche dai non superuomini.
Questa menzogna, secondo l'autore, fu la più adatta a favorire lo sviluppo delle
razze che la formularono, come fu per esse l'attitudine di utilità più favorevole. Im-
perocché per l'essere che si crede libero e responsabile, e nel caso delle razze occi-
dentali, la finzione monoteistica col corteggio delle altre finzioni, che l'accompagnano,
rappresenterà il fenomeno esteriore che farà produrre al fenomeno esteriore uomo tutto
il suo contenuto. La fede con cui si attaccherà a tale finzione e l'autorità che le
accorderà, rappresenteranno il grado preciso della sua capacità ed energia al contatto
di circostanze favorevoli (pagg. 24-25).
Niuno ignora che il Cristianesimo abbia avuto, specialmente in questi ultimi
tempi, avversarli più o meno dichiarati, i quali sembrano aver una volta per tutte
256 ALDO BOBBA 4
chiuso il loro conto rispetto all'infinito. Ma vi furono, come vi sono varii modi di
procedere contro il Cristianesimo. Alcuni prendono a modello Voltaire, altri Strauss,
altri procedono in modi diversi più moderni; tuttavia, checché si dica, Voltaire non
ha ancora perduta tutta la sua influenza. Quantunque si affermi che da tempo è
stato sorpassato, che non corrisponde più al nostro grado di coltura filosofica, che
non ha un sistema di critica, eccetto l'epigramma perpetuo, la frivolezza del com-
mentario, l'avventatezza della citazione, l'abbondanza dei controsensi, che non eccelle
se non nella polemica, e che tutto ciò non costituisce che un genere di critica infe-
riore, pure questa polemica si adatta così bene a certi spiriti da esercitare ancora una
influenza deleteria sopra di loro.
Ma vi sono anche spirili di altra tempra, i quali hanno bisogno di altri argomenti
senza aver letto ne Paulus, ne Strauss, ne Baur, ne Evale! ; senza sapere se esista
una scuola di Tubinga o una di Gottinga, ne in che differiscano; senza aver conse-
guito una laurea in qualche università tedesca, non respirano meno le idee che una
previdente erudizione spande in libri più o meno serii. Ciascuno prende da questi ciò
che conviene al suo temperamento, alle sue tendenze. Cosi gli uni ammettono la realtà
dei fatti evangelici, ma seguaci senza saperlo dell'arido razionalismo di Paulus, ne-
gano che contengano checchessia di meraviglioso, ed a ciascun miracolo del vecchio
o del nuovo Testamento con tutta sicurezza assegnano una causa naturale. Ad esempio
il passaggio del mar Rosso avvenne durante una marea, le piaghe d'Egitto non fu-
rono che un fenomeno del clima, la moltiplicazione dei pani, puro fenomeno di fru-
galità. Altri hanno tendenze di spirito più mistiche per non contentarsi di spiegazioni
così triviali. Le forze nascoste della spontaneità umana seducono la loro fantasia.
Traducendo Strauss a loro modo, ammettono il meraviglioso, ma negano che esso si
trovi nelle cose, nei fatti, per essi il meraviglioso è solo nello spirito umano, nei
grandi istinti della umanità incosciente, impersonale, che spande a piene mani il
miracolo nel mondo reale e trasforma tutti i fatti in simboli. Per altri, i racconti
evangelici non sono miti, ma leggende; e sebbene la differenza che passa fra il mito
e la leggenda sia sottile, esiste, poiché sopra di essa si pretese fondare una teoria.
Pei leggendisti Cristo non è una semplice figura metafisica, ma una persona, e la sua
realtà storica, come quella de' suoi testimoni rimane intatta, ma i testimoni non vid-
dero bene, essi viddero colla loro immaginazione intorbidata. L'allucinazione, una
specie di vertigine, la percezione indecisa, più tardi i racconti grossolani, il desiderio
di glorificare il loro eroe, forse anche una innocente e segreta complicità dell'eroe,
ecco gli elementi della leggenda (Caro, L'idée de Dicu et ses nouveaux critiques).
Tutti questi avversarli però conservano un certo rispetto più o meno esplicito
pel fondo della dottrina; ma il De Gaultier, ultimo venuto, per mostrarsi più ardito
non si arresta a queste guerricciuole, a queste spiegazioni più o meno lambiccate e
proclama crudamente che un bel giorno, da circa 19 secoli l'istinto vitale, nemico
irreconciliabile della conoscenza, concepì e formulò il monoteismo cristiano con tutte
le sue menzognere appendici, concezione tanto più straordinaria, in quanto esso istinto
vitale nemico della conoscenza opera ciecamente.
Ma l'autore accorgendosi che il datare la concezione monoteistica dal principio
dell'era volgare era un burlarsi troppo del lettore, cerca di ripararvi scrivendo: si
dice che ogni istinto vitale che si oggettivizza, trae la finzione da una doppia ori-
5 : storico craTico dell'opera " da kaht a Nietzsche „ 257
gine, e la menzogna monoteistica non sfuggi a questa legge, giacche per una parte
si riattacca alla Bibbia e per l'altra alla filosofia greca. Colla prima alimenta l'al-
bero menzognero del dogmatismo e colla dialettica platonica formula il razionalismo.
Ed è questa seconda fonte che l'autore prende anzitutto in esame. Egli afferma con
sicumera che le conclusioni della filosofia platonica lo fanno sorridere, sebbene la
loro inverosimiglianza, rilevata oggi, non offenda che pochi spiriti chiaroveggenti ;
mentre il valore di esse non ebbe altra causa all'infuori della influenza dispotica
esercitata all'epoca di Platone dall'istinto vitale sulle razze che aspiravano a vivere.
Laonde l'autore avrebbe dovuto logicamente aggiungere che all'epoca di Platone vi
erano razze che aspiravano a morire, ed egli avrebbe fatto cosa molto istruttiva se
avesse indicato le fonti storiche da cui aveva attinto notizie tanto peregrine sfuggite
finora ai più sagaci e accurati storici della Grecia.
In attesa di queste indicazioni, secondo l'autore, noi sappiamo che Platone ap-
parteneva alla razza che aspirava a vivere, come pure che come filosofo essendo sog-
getto al dominio dispotico dell'istinto vitale nemico della conoscenza, doveva dare un
corpo alla finzione o menzogna monoteistica. Se non che, aggiunge l'autore, venuto
dopo gli Eleati, Platone doveva anche proporsi il problema della conoscenza ed in
parte risolverlo.
Nel secolo XVTTT era di moda ridersi delle astruserie platoniche, ma niuno era
mai giunto a negare a Platone un ingegno sagacissimo, una conoscenza profonda
delle leggi del pensiero umano; toccava proprio al De Gaultier di fare a giorni nostri
la preziosa scoperta che Platone non fu che un cieco istrumento al servizio dell'istinto
vitale nemico della conoscenza!
Il Monoteismo si presenta a Platone, il quale fortunatamente per noi apparte-
neva alla razza che aspirava a vivere, secondo l'autore, sotto un triplice aspetto.
Posarsi il problema della conoscenza è meravigliarsi, è inquietarsi per la prima volta
dei rapporti che possono esistere tra gli oggetti tali quali li pensiamo, e gli oggetti
quali possono essere, è sospettare per la prima volta che gli oggetti possano essere
differenti dalla loro rappresentazione. Questa inquietudine segna la nascita della filo-
sofia, perchè necessita una critica dei nostri mezzi di conoscere. Posto da Socrate il
problema col suo dubbio, Platone, secondo l'autore, si compiace del problema della
conoscenza, ma bentosto lo abbandona e quel che è peggio lo snatura; eppure egli
non solo si è preoccupato di tale problema, ma se lo pone, lo discute in cento luoghi
delle sue opere e specialmente nel Protagora, nel Filebo, nel Teeteto, nel Parmenide,
ma siccome non arriva alle conclusioni della Critica della Ragion pura, così per l'autore
Platone ha bensì toccato il problema, ma insieme lo ha snaturato.
Ciò premesso, secondo l'autore, il problema della conoscenza si sarebbe presen-
tato a Platone sotto tre aspetti : 1° scientificamente rispetto agli oggetti del mondo
esterno; 2° ma a lato degli oggetti l'istinto vitale, nemico della conoscenza, ha già
creato rudimentalmente altre categorie di oggetti, cioè quelli del mondo morale e del
mondo metafisico ; 3° ora questi oggetti essendo pure creazioni 'dello spirito sono per
esso facilmente trattabili, essendo concezioni che non apparendo ne nel tempo, ne nello
spazio, sono facilmente creduti della stessa natura dell'intelligenza che li concepisce.
Quando si abbia l'ardire di loro conferire la vita e l'audacia di proclamare, una volta
per tutte, ad occhi chiusi per non ritornarci più sopra, che tali oggetti fabbricati
Serie II. Tomo LUI. 33
258 ROMUALDO BOBBA 0
dalla intelligenza hanno una esistenza reale fuori della medesima, il problema della
conoscenza sotto questa forma sarà presso alla risoluzione. Nello stesso tempo l'es-
senza dell'essere sarà definita secondo il voto dell'istinto vitale. Tutto il giuoco, se-
condo l'autore, consiste adunque in questo artifizio dello spirito, che non potendo
spiegare il fatto della conoscenza pel fatto della esistenza, rovescia i termini del pro-
blema conferendo alla conoscenza il potere di creare l'essere. L'autore aggiunge che
tale procedimento venne praticato da una intelligenza superiore, costruendo colle
proprie mani idoli e persuadendosi che essa doveva a loro la propria esistenza. Pro-
cedimento che costituisce il meccanismo stesso dell'istinto vitale, e Platone un'avatara
dell'istinto vitale nemico della conoscenza, subendone il giogo, non esita ad affermare
ciò, pur usando del perfetto metodo dialettico messogli nelle mani astutamente dal-
l'istinto della conoscenza, e che distruggerà con Kant le sue conclusioni.
In fatto, Platone sulle orme di Socrate osserva che la conoscenza di un oggetto
implica che può essere data una definizione dello stesso ; che definire è classificare e
limitare sotto la categoria di una idea generale. Ora questa idea che rende possibile
la conoscenza dell'oggetto che gli conferisce l'esistenza conoscibile, non potrebbe ap-
partenere all'oggetto. Ma essa non proviene neppure dai sensi , che sotto la forma di
sensazione non ci forniscono degli oggetti che dati incompleti, mostrandoceli in uno
stato di continuo cambiamento, non lasciandocene in qualche modo vedere che le
ombre effimere ed incostanti. Ora Platone dopo aver considerato tutto ciò, essendo
disgraziatamente sotto il giogo dell'istinto vitale, volendo chiarire dove debbano col-
locarsi queste idee mediante le quali noi conosciamo, non le colloca nella ragione
umana, perchè esse ne sono gli oggetti. E come gli oggetti esterni sono indipendenti
dai nostri sensi, cosi le idee lo sono dalla nostra ragione. Dove adunque si colloche-
ranno esse? Nella ragione divina debbono essere poste, della quale sono gli attributi.
tipi esterni degli individui particolari percepiti dai sensi, viventi di esistenza reale
e sostanziale.
Cosi, secondo l'autore, sotto il pretesto di spiegare il meccanismo della cono-
scenza è introdotto il procedimento sopra cui si fonderà nell'avvenire ogni teologia ;
procedimento che si riduce ad una realizzazione di astrazioni. Le forme della cono-
scenza sono fornite di una esistenza oggettiva, la cui suprema realtà è in Dio,
mentre l'esistenza è eliminata dagli oggetti particolari da noi percepiti, vane ap-
parenze.
Questa teoria, secondo l'autore, è per lui certa in quanto nella sua parte su-
scettibile di una applicazione legittima, cioè in quanto si riferisce agli oggetti esterni,
consacra la nozione del fenomeno, cioè la nozione di uno scarto possibile e probabile
tra le nostre percezioni e gli oggetti che percipiamo. Inoltre l'idea platonica presa
come mezzo per conoscere gli oggetti esterni corrisponderebbe abbastanza esattamente
ai concetti dell'intendimento dei quali Kant farà la deduzione. Questa teoria, sempre
secondo l'autore, fornisce il senso preciso del vocabolo idealismo, che non implica se
non la nozione di una diformazione necessaria subita dall'oggetto appreso attraverso
l'apparecchio della conoscenza, cioè l'apparecchio ideologico. Intanto, aggiunge l'au-
tore, il metodo dialettico bene applicato da un servitore quale Platone sottomesso
all'istinto vitale, porta già i suoi frutti incamminandosi alla divulgazione della men-
zogna implicata in ogni stato di esistenza conoscibile.
7 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE , 259
Per prosciogliere e differenziare le idee dai fenomeni del mondo esterno e dalle
concezioni dello spirito in cui si riflettono. Platone usa il procedimento che adoperò
poi Kant, cioè l'astrazione. Cioè dalle rappresentazioni cui danno origine le nostre
percezioni, eliminasi ciò che è particolare, non conservando che ciò che è generale,
ossia ciò che si estende ad un numero di più in più grande di oggetti particolari ; e
tale procedimento è il più sicuro per determinare le forme della conoscenza, per
smontare, secondo l'autore, tutte le parti dell'apparecchio di ottica mentale, attra-
verso il quale il contenuto della conoscenza viene appreso dallo spirito; mentre per
Platone non è che un mezzo per giungere agli oggetti metafisici, cui egli ebbe dal-
l'istinto vitale la missione di definire e prepararne e annunziarne il regno. Ora coi
materiali raccolti per una scienza della conoscenza Platone costituisce una Ontologia : e
il suo lavorio di propaganda si ridurrà ad applicare in ogni occasione la sostituzione
a cui abbiamo di sopra accennato, cioè a prendere la forma della conoscenza pel suo
contenuto, a dare ai concetti formati dal suo spirito una esistenza tanto più sostan-
ziale, quanto mediante una serie di astrazioni più completamente vuote di ogni so-
stanza. TI giuochetto è troppo palese, secondo l'autore, e il procedimento sarebbe
impudente se non fosse troppo ingenuo; intanto l'errore che implica è la sorgente
feconda da cui sgorga ogni teologia senza distinzione di chiese, ogni filosofia razio-
nalistica, ogni dottrina enciclopedica, ogni filosofia di Stato, ogni legislazione. Per
giustificare il trionfo costante del non vero sulla logica si è fatto appello alla onni-
potenza dell'istinto vitale, che essendo quello che è, ha per destino di trionfare su
tatto che vive dell'istinto della conoscenza. Egli, l'istinto vitale, sa che i suoi più
frivoli propositi sono sempre accolti senza ragione e replica da' suoi cortigiani.
La menzogna, ripete l'autore, si riduce ad un uso arbitrario del procedimento
astrattivo; ma questo è un istrumento fedele della conoscenza, e quando si spinge
fino all'estremo il suo uso, conferisce alle sue creazioni ciò che esse sono effettiva-
mente, minacciando così di far cessare l'equivoco, cioè astraendo dall'idea di esistenza,
il fatto stesso dell'esistenza, non rimane più che il puro concetto dell'idea, ossia una
forma vuota, un mezzo per conoscere, non già il contenuto stesso della conoscenza.
Intanto è appunto sopra questo vuoto che si fonda tutta la filosofia platonica, e al
suo seguito tutta la teologia. Laonde, secondo l'autore, Platone è il vero creatore
della illusione teologica e tale illusione si riassume perfettamente in una sola idea,
l'idea di Dio, di Dio fornito de' suoi attributi, il bene, il bello, il vero assoluto, la
triade dei filosofi spiritualisti. Con Platone tutte le idee di perfezione morali e intel-
lettuali, astratte secondo il De Gaultier, dai fenomeni del mondo visibile e morale,
completate dall'idea di potenza presa dai fenomeni della natura, tutte queste idee
diventano il patrimonio di Dio, del riovq, da cui ricevono l'esistenza colla stessa lo-
gica con cui si darebbe l'esistenza al concetto del nulla, legittimo prodotto dello stesso
procedimento astrattivo. Essere ed essere conosciuto sono lo stesso, dirà Aristotele
erigendo in dottrina il principio medesimo della illusione, da cui uscirà YE-ns realis-
simum della Scolastica, l'essere supremo degli Enciclopedisti, venerato da Robespierre
e legato ai posteri dal Vicaire Savoyard. (Conf. da pag. 28 a 42).
Confutare parte a parte l'esposizione che il De Gaultier fece della filosofia di
Platone sarebbe un perditempo dopo le esposizioni fatte da tanti illustri storici della
filosofia ; ma non possiamo tacere di alcune affermazioni dell'autore che sono troppo
260 ROMUALDO BOBBA O
discordi dalia filosofia di Platone. Anzitutto neghiamo recisamente che il vocabolo ;
meno possa prendersi nel senso in cui è preso dall'autore, cioè come una nozione di uno
scarto possibile e probabile tra la percezione e' l'oggetto percepito, come una prima
deformazione. Platone chiama gli oggetti che cadono sotto la percezione il \xx\-òv.
ma questo non è un puro fenomeno, una mera apparenza, poiché ha una esistenza
propria in quanto è formato secondo l'archetipo e vi partecipa; quindi esiste indi-
pendentemente dalle nostre percezioni. In secondo luogo neghiamo pure che l'idea
platonica, anche considerata come mezzo di conoscere, corrisponda abbastanza esat-
tamente ai concetti kanziani dell'intendimento, perchè se pei due filosofi sono mezzi
di conoscere, differiscono essenzialmente in ciò che le idee platoniche hanno una
esistenza oggettiva indipendentemente dal nostro spirito, mentre i concetti o cate-
gorie kanziane hanno una esistenza meramente soggettiva, a cui non corrisponde
alcun oggetto. Neghiamo in terzo luogo che il procedimento dialettico usato da Pla-
tone per elevarsi all'idea sovrana del Bene, proceda per astrazione, cioè che egli
astragga dai fenomeni del mondo visibile e morale le idee di perfezioni morali e in-
tellettuali e le trasporti in Dio, come pure le completi coll'idea di potenza astratta
dai fenomeni della natura. Chi ha letto il sesto e settimo libro della Repubblica, il
Filebo, il Timeo, scorge facilmente che il De Gaultier volendo ad ogni costo fare di
Platone il padre della illusione e menzogna monoteistica, affibbia allo stesso una teoria
che è in perfetta opposizione colla vera dottrina platonica. In questo luogo lasciamo
al De Gaultier la inaudita scoperta, assolutamente ignorata da tutti gli storici della
Filosofia, secondo la quale Platone, come pensatore e come filosofo, non fu che un
cieco mancipio dell'istinto vitale, nemico irreconciliabile della conoscenza.
IV.
Non sappiamo se per ignoranza voluta o reale, il De Gaultier, tanto audace
nelle sue affermazioni tanto spesso gratuite ed erronee, ci presenti Platone come il
primo espositore del monoteismo filosofico nella Grecia, ma sappiamo però con piena
certezza che ciò non è vero, pur ammettendo che Platone ne abbia ampliato e per-
fezionato la teoria. Ora quando un autore dichiara positivamente di voler studiare
gli antecedenti storici di una dottrina filosofica intorno ad una questione così grave
come quella dell'origine del monoteismo filosofico, non gli è scientificamente permesso
di ingannare il lettore troncando la storia a suo capriccio, e sopratutto quando si
imputa ad un Platone la prima divulgazione della menzogna monoteistica.
Ora, senza parlare della dottrina pitagorica che è sostanzialmente monoteistica,
niuno ignora che nella Grecia fiorì un filosofo anteriore di molti lustri a Platone,
Senofane, che non solo ha professato il monoteismo, ma ne ha pure dato una dimo-
strazione. Ignoriamo se il fondatore della Scuola di Elea sia anche egli stato un ser-
vitore sottoposto al giogo dell'istinto vitale, che nella dottrina del De Gaultier
Destruit, aedificat, rnutat quadrata rotundis
come il Deus ex machina dell'antica tragedia, ma sappiamo positivamente che professò
il monoteimo. Ora di Senofane, nato in Colofone nell'Asia minore nella quarantesima
Olimpiade, secondo Sozione, Apollodoro e Sesto Empirico, sono pervenuti fino a noi
9 RICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 261
preziosi frammenti, dai quali si possono conoscere, almeno rispetto al monoteismo, i
suoi pensamenti. Incominciamo dalla sua polemica contro l'antropomorfismo. Aristotele
nella Bettorica scrive: " Senofane dice essere eguale empietà il pretendere che gli Dei
nascano e muoiano, perchè l'una e l'altra opinione distrugge l'esistenza degli Dei „
(n. 23). E poco dopo: " quando gli Eleati chiesero a Senofane se dovevano sagrificare
a Leucotoe e piangerla, loro rispose: se la riguardate come Dea non bisogna pian-
gerla, se invece la riguardate come mortale non bisogna farle sagrifici „ (ibid.). Plu-
tarco racconta che Senofane si burlava degli Egiziani che piangono Osiride; presso
Eusebio lo stesso dice che secondo Senofane era cosa assurda supporre gradi tra gli
Dei, perchè allora tutti avrebbero bisogno gli uni degli altri (Prepar. Evang., p. 23).
Era poi naturale che l'avversario dell'antropomorfismo, come appare dal fram-
mento così spesso citato: " se i buoi ed i leoni avessero mani, sapessero dipingere
e fare opere come gli uomini, i cavalli si servirebbero di cavalli e i buoi di buoi
per rappresentare le loro idee intorno agli Dei e loro darebbero corpi quali hanno,
essi stessi „ (Eus., Prepar. Evang., XIII), come della Mitologia, dovesse esserlo di Esiodo
e di Omero dai quali, diceva Senofane, vengono riferite agli Dei cose che sarebbero
disonorevoli pell'uomo, come furti, adulterii, tradimenti ed ancora riportano agli
Dei non quasi altro che azioni criminose (Sesto Emp. Contro ì Mai., IX, 191, 285).
Plutarco con Cicerone afferma ancora che Senofane non solo negava la divinazione,
ma anche il giuramento, non per empietà, ma per un motivo del tutto morale, poiché,
diceva egli, quando un uomo empio provoca un uomo pio a prestare giuramento, la
cosa non è eguale, come non è eguale quando un uomo forte provoca un debole (De
Divin., 1, 3).
Ciò premesso, vediamo più particolarmente che insegni egli intorno alla Divinità.
Anzitutto afferma esservi un solo Dio superiore agli Dei e agli uomini, il quale non
rassomiglia ai mortali né per la figura, né per lo spirito. Clemente Alessandrino, che
ci conservò questo frammento, lo qualifica dicendo che in esso Senofane insegna
l'unità e la spiritualità di Dio (Strommati, V). E senza conoscere la fatica Dio tutto
dirige per la potenza della sua intelligenza (Prepar. Evang., XIII, 31).
Ecco ora come Senofane argomenta per dimostrare l'esistenza e gli attributi
di Dio.
Nell'opera pervenuta a noi col titolo di Senofane, Gorgia e Zenone, attribuita ad
Aristotele, Simplicio nel suo Commentario sulla Fisica di Aristotele (capo 3), Teofrasto
presso Bessarione (in Calumniatorem Platonis, II, 11, p. 42) ci conservarono il corpo
della argomentazione colla quale Senofane dimostrava che Dio non ebbe comincia-
mento, né può morire. E impossibile di applicare a Dio l'idea di nascita, perchè tutto
che nasce dee necessariamente nascere o da qualche cosa di simile o di dissimile;
ora l'una e l'altra cosa è impossibile, perchè il simile non ha azione sul simile e
non può meglio produrlo che esser prodotto; d'altra parte il dissimile non può na-
scere dal dissimile, perchè se il più forte nascesse dal più debole, il più grande dal
più piccolo o il migliore dal peggiore, oppure il peggiore dal migliore, l'essere usci-
rebbe dal non essere e il non essere dall'essere, ciò che è impossibile; è dunque
necessario che Dio sia eterno. Plutarco presso Eusebio (Prepar. Evang., I, 8) rico-
nosce positivamente che Senofane segue una via che gli è propria, e Laerzio aggiunge
aver egli pel primo dimostrato che quanto nasce perisce, di guisa che in tale argo-
262 ROMUALDO BOBBA 10
mentazione si intravede un principio che in seguito sarà largamente applicato, e cioè
che l'essere non può derivare dal non essere, che il non essere nulla può produrre ;
in altri termini, la prima applicazione del principio di causalità, sebbene Senofane
non ne formulasse esplicitamente il principio.
La conclusione dell'argomentazione è dunque : dal momento che Dio non può
nascere non può neppm^e perire, giacche tutto che nasce perisce necessariamente,
mentre ciò che non è nato, ossia che non diviene un essere mediante un altro essere,
ma è un essere per se stesso, è eterno. Qui non solo si manifesta il principio di
causalità, ma ancora la concezione esplicita di sostanza e di accidente, di essere
fenomenale e di essere in se, come appare l'attribuzione di corruttibilità al primo e
di eternità al secondo.
Con altra argomentazione Senofane deduce l'unità di Dio dalla sua onnipotenza
e onnibontà. Se Dio è ciò che vi ha di più potente debbe essere uno; poiché se
fossero due o più Dio non sarebbe ciò che vi ha di più potente e di migliore.
Questi varii Dei essendo eguali tra loro, sarebbe ciascuno ciò che vi ha di più potente
e migliore; poiché ciò che costituisce un Dio è appunto l'essere il più potente, di
non essere superato da nessuno in potenza, di governare tutte le cose, di guisa che
se Dio non è ciò che avvi di più potente, perciò stesso non è Dio. Ora se si suppone
che ve ne siano più o che tra essi vi siano Dei inferiori e superiori, allora niuno è
Dio, perchè la natura sua è di nulla ammettere più potente di se; se poi fossero
uguali tra loro, allora Dio perderebbe la sua natura, che è di essere ciò che vi è di
più potente, poiché l'eguale non è ne migliore né peggiore del suo eguale; quindi se
avvi un Dio e se è tale quale deve essere, è necessario che sia uno, senza di che egli
non potrebbe tutto ciò che vorrebbe, e se si ammettono più Dei, ciascuno preso a
parte è senza potenza.
In Senofane abbiamo adunque il primo tentativo di applicazione della dialettica
agli attributi essenziali di Dio, di subordinarli ad una dipendenza reciproca e di for-
marne una teoria, la quale nella filosofia è rimasta come un esempio notevole degli
sforzi della ragione umana per risolvere la grande questione della esistenza e degli
attributi di Dio, esempio che fu in seguito imitato e perfezionato. Intanto è chiaro
che fino dai primordii della filosofia greca, Dio è concepito e dimostrato come sovra-
namente potente, buono, e per ciò stesso come essenzialmente uno, come causa e
sostanza, e sotto un punto di veduta intellettuale, come saggezza e bontà sovrana,
in una parola come un Dio morale.
Ora, come l'autore ignora il monoteismo di Senofane, così non conosce meglio
quello di Anassagora; eppure tutti sanno ciò che scrive Aristotele del N0O5 di Anas-
sagora : al cominciamento tutto era confuso, e l'intelligenza mise in ordine tutte le cose.
Inoltre Anassagora insegnava positivamente che il NòOq è infinito, cioè presente a tutta
intiera l'immensità, assolutamente indipendente come conviene a ciò che non è solo
un attributo, ma un principio ; non mischiato con nulla di corporeo, esistente por sé.
Imperocché se il NoOq fosse soggetto a mescolamento con checchessia, parteciperebbe
necessariamente a tutte le cose, essendovi di tutto in tutte, 0 nella confusione di lui
cogli elementi perderebbe il potere che ha sopra gli stessi, potere dovuto alla sem-
plicità della sua essenza (Aristotele, De Anima, II, 9). Il N0O5 è ciò che vi ha di
più puro; ha la conoscenza piena del mondo intiero; nulla gli sfugge; conosce ciò
11 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE
263
che è mischiato, ciò che è distinto e ciò che è separato; muove e ordina tutte le
cose, ciò che deve essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà (Simplicio, Comm.
alla Fisica di Aristotele, 312).
L'autore infine dimentica il monoteismo di Empedocle, quale viene espresso in
un frammento del libro III della Natura, con queste parole :
Ne questo o quello né quell'altro è Dio;
A noi cogli occhi non è mai concesso
Di poterlo vedere, ne colle mani
Di poterlo trattare; che della mente
Suole essere la via grande e comune
Per cui persuasion entra nell'uomo.
Iddio non è di mortai corpo ornato;
Che su membra s'estuile. A lui sul dorso
Non spiegansi i due rami. Egli non avve
Ginnocehio che al camminar ci fan veloci.
Egli piede non ha, ne quelle parti
Che vergogna e lanugine ricopre.
È mente sol, è sacra mente Iddio,
Ch'esprimer non .si può da nostra lingua.
In un istante tutta la natura
Col veloce pensier ricerca e scorre.
Laonde, secondo Empedocle, Dio non è una combinazione a guisa dei corpi, né
unità materiale come sono i quattro elementi, radici del mondo corporeo, Dio non
ha forma, ne membra umane, non si può vedere cogli occhi, né toccare colle mani.
Iddio è Sacra Mente, ne possiamo esprimerlo colle parole; Iddio muove e scorre
l'universo col pensiero. In sostanza, per Empedocle, Dio è pura mente e la sua vita
è il pensiero, come in esso è la sua potenza.
L'istinto vitale, il nemico della conoscenza probabilmente sonnecchiava ed era
occupato in altra bisogna all'epoca in cui filosofavano Senofane, Anassagora, Empe-
docle, oppure teneva in pronto tutte le sue forze per rendersi schiavo Platone, il
quale però, senza saperlo, col supposto procedimento astrattivo che l'autore gli attri-
buisce, forniva all'istinto un' arma terribile contro il monoteismo. In fatto l'autore ci
avverte che tra i filosofi della Scuola Alessandrina, Plotino " poussant à bout l'emploi
" logique de l'abstraction en use jusqu'à dépouiller l'idée divine composée par Platon
" des idées adventices d'Intelligence, de Bien, de Puissance, pour n'y laisser subsister
" que le concept suprème de l'Unite, terme logique d'une description de la faculté
'• de connaitre, concept négatif, comme l'idée mème de néant, et où l'abstraction fait
" voir avec sincérité la nature de ses créations. Bien que Plotin conserve dans son
" système une frinite nominale, c'est en réalité dans l'unite absolue qu'il situe l'idée
" de Dieu, en une unite qu'aucun accident ne détermine, et qui ne laisse point place
'• au Dieu de Platon (pagg. 44-45).
Certamente se l'istinto di conoscenza del De Gaultier trova che un Dio di tal
fatta è una mera astrazione ha pienamente ragione; ma dimandiamo noi, che cosa
ha di comune l'unità indeterminata di Plotino col Dio di Senofane, col NoO? di Anas-
sagora, colla Sacra Mente di Empedocle, col Bene di Platone? Dirassi che Plotino
giunge a tale unità col procedimento astrattivo? Lo concediamo pienamente, anzi ag-
giungiamo che ci doveva giuugere logicamente; poiché il processo emanativo che
264 ROMUALDO BOBBA 12
Plotino impronta dalla filosofia indiana per la formazione dell'Universo, muove da un
quid indeterminato. E poiché l'autore pretende che Platone giunge all'idea di Dio col
procedimento astrattivo, è necessario che esaminiamo in modo particolare la questione.
Che è l'idea secondo Platone? In generale per Platone l'idea è tutto ciò che è
oggetto della ragione, ciò che esiste insieme e nello spirito e nella realtà, estranea
ai sensi e al ragionamento, rappresentando ciò che vi ha di costante, invariabile o
immutabile nelle cose, pur comportando la varietà che vi è riunita. L'idea è ciò che
sotto il duplice aspetto oggettivo e soggettivo riunisce i due lati dell'essere e del
pensiero, distinti ma inseparabili. Quindi l'idea sarà il principio della conoscenza e
della esistenza, il lato intelligibile di ciascun essere e di ciascun oggetto, e ciò ap-
punto rende possibile la scienza.
Ma l'idea, il cui concetto qui espresso è comune a tutte le idee, riveste diverse
forme e prende nomi differenti corrispondenti, secondo che viene riguardata non più
nella sua unità, ma nella diversità delle sue forme, le quali sono pure idee, e ciò nei
gradi differenti dell'esistenza e del pensiero, ed ancora secondo l'ufficio che ciascuna
di esse adempie nel suo svolgimento, sia nel mondo metafisico, sia nel fisico e nel
morale, il che costituisce l'ontologia platonica, di cui ecco i punti principali :
1° Sotto il punto di veduta scientifico o logico, l'idea considerata in generale,
è il carattere comune a tutti gli oggetti di una stessa classe e di una stessa specie
(Teeteto, 185; Parmenide, 131). In altri termini è l'elemento della generalità di cui
abbisogna la scienza per costituirsi, e senza di cui sarebbe impossibile. Certo è il
genere (Parmenide, 135) cui già Socrate aveva creduto di determinare.
2° Ma per Platone è qualche cosa di più, giacche l'idea, il genere, è anche
considerata come essenza (Fedro, 247-6 ; Protagora, 349 ; Fed„ 78). Questa è opposta
alla realtà sensibile, la quale sotto questo aspetto non è la realtà vera. In fatto negli
oggetti si distinguono le loro proprietà esterne, mutevoli e accidentali, e le loro qua-
lità essenziali e costitutive, le quali costituiscono la vera natura degli esseri. Le idee
dunque sono pure le vere essenze, la base dei generi (Fedro, 247); e ciò permette di
classificarle, coordinarle, assegnare a ciascun genere e specie, come a ciascun essere,
il suo posto, e ufficio nella natura, di distinguerli e accordarli (Timeo, 30 F). Già
Socrate aveva tentato ciò, e Platone continua e compie l'opera sua.
3° La teoria delle idee di Platone ci offre altri aspetti, i quali ci mostrano
il rapporto della stessa coi sistemi precedenti, e sopratutto il carattere oggettivo
delle idee che costituisce il platonismo. In fatto l'idea è anche l'unità opposta alla
pluralità (Fedro, 249); la vera unità (Fedro, 105), la quale tuttavia comporta la divi-
sibilità, la pluralità, la diversità. Ciò che gli Eleati e i .Ionici avevano separato, Pla-
tone riunisce. L'idea è l'uno, l'unità che serve di legame alla pluralità, ma essa è
pure pluralità, cioè una e multipla. Qui dunque non è più l'unità immobile di Par-
menide che esclude ogni cambiamento, còme ogni diversità, che nulla soffre che ne
alteri l'invariabile unità, che nega il movimento e con questo sopprime la vita e lo
svolgimento.
4° L'idea, elemento scientifico opposto al reale apparente, impedisce la realtà
multipla di perdersi nella infinita varietà dei fenomeni, ciò che è l'in determinato.
Essa rende percettibili gli oggetti assoggettandoli alla misura, e sotto tale aspetto
serve d'intermediario tra l'essere unico di Parmenide e la mera varietà di Eraclito
13 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 265
e Democrito ; essa tiene il mezzo tra questi contrarii e li riconcilia (conf. il Par-
menide e il Sofista) ; la stessa dottrina è contenuta nel Filebo.
5° L'idea è ancora il principio d'identità o di permanenza (Timeo, 48) opposta
alla diversità e al movimento, che si nota nella successione delle cose sensibili, sog-
gette alla nascita, alla generazione, alla corruzione, ciò che costituisce il di
L'idea pure essendo immobile non esclude un certo cambiamento, essendo la mobilità
necessaria ad ogni svolgimento, giacché il movimento e la vita sono inseparabili nella
esistenza concreta e reale.
6° L'idea è la misura per cui l'indeterminato viene determinato, lo regolarizza
e gli dà la sua forma. Per essa quindi l'ordine viene introdotto nel disordine, e lo
sottomette. Così la materia, elemento indeterminato, sregolato, riceve dalla idea la
sua forma, ed il mondo risultante da questi due elementi esce dal caos, e diviene
un tutto ordinato, misurato, armonico, offrendo l'immagine dell'ordine nel suo insieme
e nelle sue parti. E poiché i veri rapporti delle cose sono i rapporti delle idee, il
mondo ne è la rappresentazione o imitazione; per esso la natura si conserva e si
rinnova e le sue leggi non sono che il riflesso di quelle.
7° L'idea, abbiamo detto, è il generale che apparisce nei particolari, il gene-
rale a cui la scienza deve la sua possibilità e consistenza. Ora tale dottrina nulla
ha di comune colle idee immagini di Democrito da cui mediante il paragone e l'astra-
zione si traggono idee generali, teoria accettata poi da Epicuro come quella di tutte
le scuole materialistiche. Secondo tale teoria l'idea è l'immagine che si stacca dai
corpi, s'imprime nello spirito, per quindi, paragonata e generalizzata, servire di base
ai giudizi e ragionamenti; per Platone invece l'idea, ben lungi dall'essere la copia,
è il tipo o il paradigma delle cose sensibili, le quali sono semplicemente immagini,
ombre, fantasmi delle idee.
8° Ancora l'idea non è neppure la nozione generale quale la concepisce il puro
razionalismo, tale quale Aristotele stesso la definisce talvolta, cioè una mera astra-
zione generalizzata come pretende il De Gaultier, che non ha altra realtà se non
nello spirito che la concepisce, e che presa in se non ha esistenza propria distinta
da quella degli oggetti, cui serve a raggruppare e classare; in una parola tale idea
non essendo che la collezione delle qualità riunite in una nozione comune, essendo
il risultato del paragone e della astrazione, essa non è che l'atto dello spirito il
quale raccogliendo le qualità paragonate in un insieme ne forma un suo prodotto,
cioè puramente soggettivo.
9° All'opposto l'idea platonica è insieme oggettiva e soggettiva. L'idea è nelle
cose ma è anche nello spirito, essendo l'oggetto del pensiero. Ciò che Parmenide
aveva affermato senza poterlo dimostrare, cioè l'identità del pensiero e dell'essere,
Platone lo afferma dello spirito; giacché per lui non e l'essere puro e senza coscienza,
che è il vero essere, ma l'essere che si sa, il vero spirito. Inoltre se consideriamo
l'idea nell'uomo, pel suo lato soggettivo che è appunto quello della conoscenza umana,
l'idea è il principio à' intelligibilità che rende ogni cosa percepibile o comprensibile
allo spirito, come è la base dei giudizi e ragionamenti. Per esempio, secondo Pla-
tone, non si comprende la bellezza nelle cose belle se non per l'idea del bello che
rappresentano gli oggetti; lo stesso deve dirsi per le cose buone, giuste, vere. L'idea
certo è nelle cose ma appare allo spirito come la sua propria essenza, giacché è
Serie II. Tomo LUI. 34
266 ALDO BOBBA 14
l'idea che fa che una cosa sia vera, anzi allo spirito appare come la verità delle cose
stesse {Rep., V, 508 D). E siccome essa è lo stesso pensiero nella sua essenza, cosi
è per lo spirito la sua luce, che gli fa discernere la verità dall'errore; è il Xóroq
insieme divino e umano, la ragione, il verbo che rischiara interiormente le intelli-
genze (Rep.. VII).
10° Se l'idea considerata dal punto di veduta della conoscenza ha già qualche
cosa di assoluto in quanto non dipende non è fattura dello spirito che la concepisce,
almeno per lo spirito finito ed umano, di cui è la regola e la misura ne' suoi giu-
dizi, come preesiste alle qualità degli esseri e presiede a tutti gli atti dello spirito.
In fatto, la sensazione, il giudizio, il ragionamento, la volontà si appoggiano sopra
l'idea, e non hanno valore se non per essa, come è mediante essa che si pensa, si
ragiona, si vuole. E già Socrate l'intendeva così facendo della nozione definita e del-
l'universale, ultimo termine del suo metodo, sebbene per lui l'idea conservasse ancora
qualche cosa di soggettivo. Ma in Platone l'idea è assolutamente oggettiva, è l'essere
in sé, il pensiero in se, come è il vero in se, il bello, il buono, il giusto. E qui
giova ripetere al De Gaultier che per Platone il particolare non fonda il generale, ma
è invece il generale che fonda il particolare, perchè senza del generale l'individuo
e il particolare sarebbero un bel nulla. E ciò è vero del pensiero come del suo
oggetto. Per Platone l'oggetto pensato, il particolare non esiste che pel suo rapporto
al generale, cui manifesta. L'universale tò koOóXov è l'unità nella mottiplicUà ; il mul-
tiplo è nulla senza il principio di cui è per cosi dire l'irradiamento, niente senza
l'idea da cui emana e lo genera.
E per confermare ciò con esempi tra quelli che presso Platone si incontrano
spessissimo: una cosa non è bella, buona, giusta, grande o piccola se non in quanto
appare o è a lei presente l'idea che la fa tale, cioè l'idea del bello, del bene, del
giusto, della grandezza, della piccolezza, ecc. [Rep. , Vili, 598, A; Fedone. 655;
Fedro, 247).
Lo spirito umano sotto la diversità degli oggetti belli o brutti, buoni o catti ri.
giusti o ingiusti, grandi o piccoli secondo Platone percepisce l'idea che li rende tali
e loro conferisce quelle qualità. Così un'azione non è bella, buona o giusta se non
in quanto realizza l'idea del bello, del buono o della giustizia che è in essa e che
il nostro spirito percepisce. Se la cosa non fosse così, un uomo messo in faccia ad
un oggetto bello o ad ima azione buona o giusta, anche se fosse il più intelligente,
nulla comprenderebbe se non avesse presente l'idea, poiché l'immagine che si arresta
ai sensi, nulla esprime.
I caratteri poi delle idee dal fin qui detto sono la stabilità, la semplicità, la
purezza, l'immutabilità, l'eternità, l'indipendenza assoluta, caratteri che sono di con-
tinuo notati da Platone: nel Fedone sono così riassunti (li.): uovóeiòeq, tò dei, tò
àuTÒ Ka6* carro, le idee sono Tà coito: Ka6' aÓTà (Rep.. VITI), cioè assolute. Esse hanno
ancora di proprio in quanto in esse l'unità non esclude la pluralità, l'identità, il
cambiamento, pur conservando la loro permanenza e immutabilità quale loro carat-
tere essenziale. Le idee invisibili ai sensi contemplate soltanto dallo spirito (Timeo, 52)
appariscono negli oggetti che come abbiamo già detto sono la loro immagine ma
affievolita e non le rappresentano che imperfettamente. Quindi considerate rispetto
al mondo questo è la loro imitazione uiunai<; o rappresentazione. Per Platone ciascun
15 STORICO CRITICO DELl/OPERA " DA KANT A NIETZSCHE ., 267
genere, ciascun individuo ha il suo tipo nell'idea cui rappresenta ed esprime ; è l'idea
che loro conferisce il valore, l'importanza e la stessa esistenza; così che sotto questo
aspetto ogni oggetto, sia reale, sia artificiale, può essere concepito come realizzante
quella idea.
Le idee sono tipi o modelli, ma riunite esse stesse a tipi superiori e più generali,
che sono ancora copie o fantasmi divini (Rep., VI). Imperocché se si riportano
all'idea da cui emanano, all'idea delle idee, al bene (ibid.) esse sussistono bensì per
sé ma dipendono da quella unità suprema che è la vera unità. Immutabili e eterne
le idee appariscono nel tempo che è mobile e imita l'eternità immobile. Oggetti
della ragione le idee sono pure la ragione, il Xóroq divino, la ragione divina, insieme
pensiero e oggetto del pensiero. Distinte e separate le idee rientrano le une nelle
altre e tutte in quella unità superiore che ne è il loro principio. Come la luce del
sole i cui raggi traversano lo spazio e rischiarano gli oggetti senza staccarsi dal-
l'astro che è il loro foco e centro comune (Rep., VI, VE).
Secondo Platone vi sono dunque due mondi dei quali l'uno è la copia dell'altro,
il. mondo sensibile e l'intelligibile KÓffuo? aìo-enTÒi;, KÓCuoq vonTÒc, come vi sono due
sorta di oggetti cioè sensibili e razionali, l'uno partecipante dell'altro (Rep., VII).
Tale è la teoria delle idee di Platone, teoria che differisce toto coelo da quella
che gli affibbia il De Gaultier per conchiudere che Platone non fa altro che realiz-
zare astrazioni vuote di ogni contenuto reale.
Le idee, secondo Platone, avendo la stessa natura e lo stesso principio, non sono
isolate, epperciò nella loro unità e diversità formano un sistema. Certamente non tro-
viamo negli scritti platonici formulati esattamente questi rapporti. Tuttavia non pos-
siamo disconoscere che Platone stabilisce certe classi di idee tra cui avvi una certa
gerarchia. Così, ad esempio, egli pone le qualità al disopra delle quantità, le idee al
disopra di queste e di quelle come pure delle relazioni. I numeri poi sono al di sotto
delle idee. Le idee metafisiche dell'essere e del non essere, del pari e dell'impari, della
monade e della diade occupano un posto inferiore e sono al basso della scala. Le idee
superiori del vero, del bello, del bene, sebbene talvolta identificate, non sono del tutto
simili e ciascuna ha il suo posto e lo conserva. Le categorie superiori costituiscono
le idee morali del Bene, del Bello, della Giustizia, della Santità, ecc. Al sommo della
scala o gerarchia è l'idea del Bene, che tutte le domina ed è il loro principio co-
mune. Anche tra le idee morali, del vero, del bello, del bene, avvi subordinazione,
poiché il bello non è che un aspetto del bene; il vero identico al bene ed al bello
è alla radice e logicamente le precede, ma non ontologicamente, perchè nell'ordine
gerarchico è inferiore al bene. Quindi l'idea per eccellenza, l'idea delle idee è l'idea
del bene, e il Bene, tò òycxGóv.
Ora, intorno a questo punto, il più elevato del sistema platonico, non ignoriamo
che si sono sollevate molte dispute. Tuttavia ciò che non ammette alcun dubbio è
il posto che Platone assegna all'idea del Bene (Rep., VII). Essa è il soggetto della
più sublime delle scienze (ibid., 505). Tutte le idee hanno in essa il loro principio,
la giustizia, la bontà, la bellezza. Giunto a questa altezza. Platone sente l'insufficienza
della ragione per penetrare il mistero, come del linguaggio umano per esprimerlo e
dal suo entusiasmo il suo stile assume un tono ispirato; dal mondo visibile coglie
le immagini che gli sembrano più adatte per darne un' idea per analogia. Così il Bene
268 ROMUALDO BOBBA 1(3
è il sole degli spiriti, sorgente insieme di luce e di vita, il sole che rischiara le in-
telligenze, il cui calore spande da per tutto la vita negli esseri. Il Bene nel mondo
intelligibile è ciò che è il sole astro nel mondo visibile. Il mondo è il figlio generato
dal Bene (Bep., VII).
Nel Bene quindi scorgiamo: 1° la causa della scienza e della verità ama Tfjq
èmo-rriunq xai d\n9€Tag, superiore alla bellezza, alla scienza e alla virtù. Gli esseri
intelligibili ripetono da esso la loro intelligibilità, simili al bene senza essere il bene
stesso (Bep., VII) ; 2° la fecondità, la causa produttrice, e la produzione degli esseri.
Imperocché gli esseri intelligibili non ricevono da esso soltanto la loro intelligibilità,
ma ancora il loro essere, la loro essenza : tò etvai xai rf)V oùaiav ; di guisa che il Bene
non solo rende visibili gli oggetti, ma dà pure a loro la nascita, il nutrimento, l'ac-
crescimento (ibid.). E tuttavia, aggiunge Platone, il Bene non è questa essenza, ma
alcunché di molto al disopra della essenza, à\\' èn ércéKeiva Tfj<; oùaia? in antichità
e in potenza (ibid.).
Ma che cosa è infine questo alcunché superiore alla essenza? Non disconosciamo
che questo ènÉKeivai ha pure aperto il campo a controversie che non sono ancora
finite. Per rispondere a questa dimanda notiamo che l'ultima parola della Dialettica
di Platone, l'idea del Bene, o meglio il Bene è pure la prima della sua Fisica e della
sua Teologia, poiché il mondo ha la sua ragione di essere nella bontà divina, poiché
la bontà è l'attributo essenziale dell'essere perfetto. Il testo del Timeo in cui viene
espresso questo pensiero è celebre e spesso riferito.
Diciamo per quale motivo l'autore dell'universo lo ha così formato: egli era
buono ; ora quegli che è buono non concepisce giammai invidia, ÓYaOóq i^v àvaGiI) òè
oùòeìc; rcépi oùbévo? oùòéTTOTe èTYiYveTai qpGóvoq (29, E). Ora, il commento che tutti ne
fanno è questo: Dio, il Bene assoluto, non rimane rinchiuso in sé; egli esce dalla
profondità del suo essere per manifestarsi. Essere e causa insieme diviene causa
feconda; ma come? Dando l'esistenza ad altri esseri ai quali comunica alcunché delle
sue perfezioni e de' suoi attributi in gradi diversi, senza con ciò cessare di essere
egli stesso l'essere perfetto. E ciò fa in grazia della sua bontà. Ora qui la bontà non
è l'amore, quale è dato nel Banchetto, cioè l'amore nascente da una mancanza o
difetto: da una privazione, ciò che è il sentimento della imperfezione negli esseri
contingenti. L'amore qui non è nemmeno quell'intermediario tra l'essere e il non
essere come era definito nel Banchetto. Al contrario, nell'essere perfetto l'amore è
l'abbondanza o la plenitudine dell'essere, che si spande al di fuori e diviene fecondo,
e della sua fecondità esso genera altri esseri simili a lui e che da lui ripetono la
loro esistenza, ai quali non porta invidia, anzi che ama, poiché sono sue produzioni,
che gli rassomigliano, ma solo nella misura secondo cui il finito e l'imperfetto può
rassomigliare all'infinito, al perfetto.
Tale è il senso di quelle parole, come pure è indicato l'ottimismo platonico da
quelle che seguono: " Imperocché Dio volendo che tutto fosse buono e che nulla vi
fosse di cattivo per quanto era possibile, trovando il visibile non in riposo ma in un
movimento disordinato, lo fece passare dalla confusione all'ordine, giudicando che ciò
era preferibile. Ora non è permesso ad un essere eccellente di fare alcunché che non
sia bello „ (ibid., 30, A).
Grande e nobile pensiero, scrive Hegel ; Dio qui non rassomiglia al fatum antico,
17 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE - 269
alla Nemesis, alla Dirce, il Dio supremo che lungi dal creare, distrugge {Gesch. der
Philosopliii).
L'essere sovranamente buono e bello concepisce un modello di bontà che è il
mondo intelligibile simile a sé e produce nella bellezza un'opera bella e buona imma-
gine mobile nella sua immobile perfezione. La Dialettica, come la intende Platone,
lo eleva alla contemplazione non per via di astrazioni ad un Dio sovranamente buono,
intelligente plasmatore della materia conforme agli archetipi divini, mentre Plotino
procedendo senza fine di astrazione in astrazione, giunto all'uno privo di ogni deter-
minazione, unità perfettamente vuota, non trova altra via per farne uscire il mondo
che l'emanatismo, dottrina completamente straniera a tutta la Filosofia greca; e qui,
giova ripeterlo, l'istinto della conoscenza ha ragione di beffarsi dell'uno di Plotino,
come noi crediamo di aver ragione affermando, dopo le cose dette intorno alla Dia-
lettica platonica, che il De Gaultier ha attribuito a Platone per elevarsi al concetto
del Bene di Dio un procedimento che è in perfetta contraddizione con quello che
caratterizza essenzialmente la Dialettica di Platone.
Ma se l'istinto della conoscenza, secondo l'autore, incominciò la sua opera di
demolizione del Monoteismo platonico con Plotino, la proseguì assai più energicamente
col can. Roscellino nel secolo XI; il quale sarebbe stato uno spirito ingenuo, ma chia-
roveggente, come se ne incontravano nei chiostri medioevali. La Scolastica, continua
l'autore, gli apparve una scienza onesta, positiva, cui era permesso di trattare libe-
ramente, come le matematiche, senza mettersi in guardia per le conseguenze de' suoi
teoremi, e sarebbe in ciò che si mostrò ingenuo. Ora lo studio della filosofia da lui
intrapreso con simili disposizioni lo condusse a scoprire che i generi sono categorie
formate dallo spirito, astrazioni senza esistenza reale, flatus vocis. Egli subito pubbli-
cava la sua scoperta, che attirò sul suo capo conseguenze quasi tragiche. Ora nel
Nominalismo e nel Realismo si conteneva la lotta di una gravità eccezionale, cioè
la lotta tra l'istinto della conoscenza e l'istinto vitale. Imperocché, secondo l'autore,
la scoperta di Roscellino metteva in piena luce il vizio essenziale sopra cui si era
elevato tntto l'edifizio teologico. Egli faceva vedere esservi un abisso insormon-
tabile tra esistenza e conoscenza, come non essere legittimo dar vita ad astrazioni
(pagg. 41-42).
Roscellino negando ai generi ed alle specie una esistenza oggettiva usava del
suo diritto speculatore, né con ciò incorreva nella censura; ma quando, dal campo
filosofico passando al teologico, volle applicare la sua teoria ai dogmi rivelati, che
sono la base del Cristianesimo, doveva necessariamente sollevare contro di sé l'au-
torità non dei filosofanti, ma della Chiesa che la condannava e Roscellino nel Con-
cilio di Soissons ritrattava la sua dottrina applicata ai dogmi cristiani.
Come al solito, l'autore ignora che la questione filosofica intorno alla natura dei
generi e delle specie, se esistano realmente, o siano mere concezioni dello spirito,
era stata posta parecchi secoli prima da Porfirio nella sua Isagoge al libro delle ca-
tegorie di Aristotele, e da lui non risolta. Che tale questione era stata ripresa da
Boezio e discussa lungamente, che era stata egualmente esaminata sotto tutti i suoi
aspetti da Ammonico nel suo Commentario sulle Categorie Aristoteliche, e che mai nessun
teologo, e tanto meno la Chiesa era intervenuta nella questione, perchè considerata
in sé come pura speculazione non offendeva alcun dogma. Roscellino applicando la
270 ROMUALDO BOBBA 18
sua teoria ai dogmi della Unità e Trinità cristiana, attaccava non solo la specula-
zione teologica, ma l'insegnamento degli Apostoli, dei Padri e di Cristo medesimo,
ed è sotto questo solo aspetto che fu censurato.
L'autore che ci presenta il Roscellino come quello per cui l'istinto della cono-
scenza cioè della negazione fa le sue prime prove ed abbiamo veduto in che modo,
se avesse approfondito la storia della Filosofia avrebbe facilmente scoperto un altro
di quei monaci, i quali trattando di questioni filosofiche, usavano della massima libertà
nel discuterle, senza incorrere nelle censure della Chiesa. Tutti comprendono facil-
mente che noi parliamo di Gaunilone, monaco di Marmontier, il quale contro la
dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, elaborata da S. Anselmo, mosse una serie
di obbiezioni, ponendole in bocca ad un insipiente in un opuscolo col titolo Pro insi-
piente. E ciò che qui più importa di rilevare è che le obiezioni di Gaunilone sono
sostanzialmente quelle che Kant riprodusse nella Dialettica trascendentale contro la
prova ontologica, eppure il monaco Gaunilone non fu punto molestato per le sue
obbiezioni, precisamente perchè egli non era uscito dal campo delle disquisizioni
filosofiche.
Secondo l'autore, il concetto di Dio a cui si era elevato Platone non ebbe alcuna
influenza né in Grecia, né in Roma, cosi che per lui lo Stoicismo, per esempio, in Grecia
e in Roma non conta per nulla, perchè il concetto platonico non potè allora pene-
trare che in qualche cervello paradossale di qualche erudito e di qualche filosofo
professionista interessato a confondere il sapere e la nozione col gioco libero del pen-
siero formato e deformato nella atmosfera astratta delle scuole e ritraente vanità da
un pregiudizio ancora esoterico, per cui quei poveri cervelli paradossali credevano di
elevarsi al di sopra dei pregiudizii volgari (pag. 49). Quindi è da dire che Zenone
di Cizio, Cicerone, Seneca, Epitetto, Marco Aurelio, per nominarne alcuni, non furono
che cervelli paradossali, filosofi professionisti, interessati a confondere il sapere e la
nozione col libero gioco del pensiero. Ma senza insistere sopra il cervello veramente
paradossale dell'autore, vediamo che cosa egli scrive rispetto all'altra fonte da cui
deriva il Monoteismo.
Perchè l'idea di un Dio unico s'imponesse e diventasse il sostrato di una nuova
civiltà, come il politeismo era stato il sostegno sufficiente della coltura antica, era
necessario l'appoggio del dogma ebraico, ed è nell'uscire dall'esame dell'idea mono-
teistica concepita dalla filosofia una liberazione per lo spirito di vedere questa stessa
idea darsi nel dogma per ciò che è, imporsi in un comando puro e semplice dell'istinto
vitale, come un' attitudine di utilità. In fatto, colla Bibbia l'idea monoteistica si pro-
mulga, si ordina, prendendo la precauzione di non richiamarsi alla ragione. L'istinto
vitale, " doué ici de toute sa clairvoyance, tient la raison pour un danger „ (pag. 50).
Osserviamo anzitutto che l'ordine cronologico e logico della trattazione imponeva
all'autore di incominciarla dallo studio del Monoteismo in questa fonte, anzi nelle
tradizioni più antiche del genere umano, ne mancano libri e gravi che studiarono la
questione sotto questo aspetto. Ma passiamo oltre. Nemmeno ci sorprende che l'au-
tore dica: " c'est une délivrance pour l'esprit de voir cette mème idée se donnei-
19 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE .. 271
" dans le dogme pour ce qu'elle est, s'imposer en un commanderaent pure et simple
* de l'instinct vital „, conoscendo già per ripetuti esempi la fecondità di questo fa-
migerato istinto, non dico inventato del tutto dall'autore, ma certo da lui arricchito
di una potenza meravigliosa. Ma ciò che ci sorprende è che gli esegeti, gli interpreti
e i critici dei libri sacri dell'antico Testamento studino e lavorino da anni per isco-
prirne gli autori, ben inteso che qui ci riferiamo ai protestanti, mentre l'autore ex
cathedra risolve la questione con due parole: che cosa, dice egli a tutti costoro,
andate cercando e annebbiando la questione dell'origine di quei libri con disquisizioni
inutili; ecco qua, la sua origine: la Bibbia, poveri gonzi, è un prodotto dell'istinto
vitale, il quale, fornito di somma previggenza, tiene la ragione per suo nemico.
Se poi qualche curioso, pur accogliendo tale spiegazione, ma sotto riserva, insi-
stesse chiedendo quando e dove l'istinto vitale proclamò e divulgò questo dogma,
l'autore probabilmente gli risponderebbe che dopo aver egli pel primo fatto la grande
scoperta, non credette opportuno di occuparsi ulteriormente di sapere ne il dove ne
il quando era avvenuto il grande prodigio. L'autore in certo luogo parla ° de ce grand
" rire, ce rire abstrait qui est le propre de l'instinct de connaissance quand il a pris
" conscience de lui-mème „ (p. 43); or bene, crediamo che questo riso sarà condi-
viso da parecchi dei lettori che mediteranno le sue gratuite affermazioni. Ma con-
tinuiamo.
In contrasto coH'antropomorfismo greco, l'autore avrebbe dovuto necessariamente
aggiungere della religione popolare, il dogma formulato dall'istinto vitale nella Bibbia
tende a sceverare da Dio ogni carattere umano, precisamente come avevano, guidati
dal semplice lume della ragione, fatto Senofane, Anassagora, Empedocle, Socrate.
Platone e dopo Aristotele. L'autore continua: non gli basta di proibire la riprodu-
zione della sua immagine, anche dandole l'apparenza più nobile, ma tende ancora ad
eliminare dallo spirito umano ogni presunzione di analogie tra le concezioni umane
e i decreti della divinità. Se non che all'epoca (quale?) in cui l'istinto vitale creava
Dio, il popolo Ebreo fu anzitutto, come ben notava Nietzche, il rappresentante della
sua volontà e potenza In tutte le circostanze esso fa approvare e suggerire per
Jeova stesso le misure che gli sono utili. Più tardi, quando è condotto in cattività.
immagina di espiare colpe commesse contro il suo Dio; idea nobile e per avventura
ingegnosa, certo per non offendere il proprio orgoglio. A noi invece sembra l'idea
più ridicola che possa cadere in un uomo che non abbia perduto il senno. Come?
l'istinto vitale del popolo Ebreo si crea un Dio, che è in suo potere di annientare,
e quando cade in ischiavitù immagina che ciò gli sia avvenuto perchè espii colpe
commesse contro di lui, mentre il semplice buon senso gli suggerirebbe un mezzo
infinitamente più semplice e alla mano, quale è quello di negare questa sua creazione,
che senza nulla giovargli lo incommoda tanto gravemente?
Attribuendo, continua l'autore, ogni potenza ad un essere che è al di fuori di
ogni paragone cogli uomini, nega l'Ebreo a' suoi nemici il beneficio e l'onore delle
loro vittorie, perchè essi non sono stati che gli istrumenti della vendetta di Dio sul
suo popolo, cioè gli strumenti, diciamo noi, della vendetta del Dio che esso popolo
ebbe l'incredibile sciocchezza di crearsi. In breve: questo popolo perchè fatto schiavo
ed oppresso si giudica colpevole verso un Dio, che è sua fattura, riconosce la neces-
sità di una espiazione che gli impone un Dio da lui creato e che può con una sem-
272 ROMUALDO BOBBA 2' l
plico negazione annientare, accetta il castigo perchè gli sarà perdonato sempre da
quel Dio da lui inventato, e sarà ristabilito nella sua gloria antica, avendo confidenza
nella giustizia divina, cioè nella giustizia di una divinità da lui fabbricata, giustizia
che esso popolo apprezza ancora nella misura del proprio sentimento di giustizia.
Ora domandiamo se l'istinto vitale e per lui il popolo Ebreo creatore del suo Dio
poteva trarre le conseguenze di cui l'autore gli fa gravame e se queste conseguenze
non siano un controsenso tale da eccitare non già un riso astratto ma molto concreto
contro l'inventore di tali balordaggini?
Vero è che l'autore, accorgendosi che il Dio fattura dell'istinto vitale del popolo
Ebreo era un Dio buffonescamente ridicolo e risibile, aggiunge che il libro di Giobbe
ci fa assistere alla costituzione perfetta della personalità divina, tale quale sarà legata
alla dogmatica cristiana e quale debbe concepirsi per essere sottratta all'analisi dello
spinto (pag. 41).
Non sappiamo perchè l'autore non faccia creare il Dio di Giobbe dal fecondo
istinto vitale; ci pare che dopo aver prodotto Jeova del Pentateuco, poteva pure,
anzi con maggior facilità creare il Dio di Giobbe. Probabilmente l'autore nella sua
prudenza pensò che sarebbe stato un abusare della sua fecondità, tanto più che dopo
parecchi secoli durante l'impero d'Augusto doveva creare il Monoteismo cristiano con
tutte le sue appendici. Mentre attendiamo che l'autore ci riveli il vero perchè della
presente infecondità dell'istinto vitale, notiamo che Giobbe, il quale non pensò prima
di scrivere il suo libro di crearsi un Dio, sparge oppresso da mali i suoi lamenti alla
presenza di tre amici venuti di lontano per consolarlo. Attraverso i discorsi di Giobbe
e de' suoi amici, ed oltre alle concezioni indicate precedentemente intorno alla giustizia
del Dio creato dall'istinto vitale del popolo Ebreo, si lascia intravedere una potenza
fuori di tutte le proporzioni della intelligenza umana, una giustizia incomprensibile
alla nostra ragione.
Notiamo bene che i tre amici di Giobbe non si sono essi fabbricati il Dio di cui
parlano, né l'autore pensa di informarci donde essi avessero appreso l'esistenza di
un Dio non creato dagli uomini. Eppure tale notizia era della massima importanza'
dal momento che quel taumaturgo d'istinto vitale non aveva pensato di provvedere
a questa bisogna.
Intanto gli amici di Giobbe dalle sue miserie conchiudono alla sua colpa; e di-
cono: beato l'uomo che Dio stesso corregge: non rigettare i castighi del Signore.
Giobbe seguita a protestare che è innocente, ma i suoi amici non gli credono. Essi
lo scongiurano perchè si penta. Alla fine Giobbe invoca sopra di sé il giudizio del
Signore, ma i tre amici non rispondono più a Giobbe perchè persiste nel dichiararsi
innocente. Secondo l'autore, dagli argomenti di Giobbe e de' suoi amici, apparirebbe
la credenza antica della ideutità della giustizia umana colla divina, mentre dalla
discussione e dal contrasto delle idee che si manifesta nel poema si svilupperebbe un
tema nuovo, cioè che Dio colpisce egualmente il giusto e l'ingiusto, del che Giobbe
non si meraviglia, né di ciò accusa Dio, perchè questi non è un uomo a cui si possa,
rispondere, né entrare in giudizio contro di lui. Ed Eliu che entra in iscena come
quarto interlocutore, apostrofa Giobbe dicendo: ' Dio prenderà te come regola per la
sua giustizia? Dovrà egli odiare ciò che tu odii, scegliere quello che tu scegli? „. Dal
che deduce l'autore non esservi alcuna misura comune tra l'uomo e Dio. Giobbe può
21 ESAME STORICO CRITICO DELI/OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 273
ignorare la sua colpa, ma questa non esiste meno al cospetto di Dio : ma quando
Dio stesso interviene e si mostra a Giobbe, le sue parole dimostrano che nemmeno
tale apprezzamento è da lui approvato. Chi è quegli che oscura la saggezza con
discorsi insensati? Dio nulla dice della sua giustizia, non manifesta che la sua po-
tenza e non si calma se non quando Giobbe dice: " Sì, volli spiegare meraviglie che
non comprendeva, prodigi che superano la mia intelligenza; Sì, io accuso me stesso
e farò penitenza nella polvere e nella cenere „. Quindi, secondo l'autore, l'idea divina
qui è prosciolta, sotto l'aspetto morale, da ogni antropomofismo ; tra l'uomo e Dio
la sproporzione è assoluta, epperciò l'uomo non può elevarsi a Dio neppure colle idee
più alte, nemmeno coll'idea della giustizia. Così pure il male fisico e morale nulla
provano contro Dio, il quale resta così al coperto dai tentativi della conoscenza, e
la concezione di Dio fuori del mondo qui diventa logicamente la concezione di un
Dio fuori della ragione (pagg. 51-52-53).
Di qui l'autore deduce che il popolo Ebreo gli pare il campione dell'istinto vi-
tale, de' suoi bisogni, dei pericoli che lo minacciano, pericolo concentrato nell'istinto
della conoscenza, il quale deve adempiere il suo ufficio di distruttore, essere lo spi-
rito che sempre nega (pag. 17). In fatto, l'idea di Dio mostratasi nella Filosofia greca,
dice egli, l'idea più antinomica, più falsa, più distruttrice di tutte le facoltà di co-
noscere, che poteva essere escogitata, questa idea la Bibbia impone in nome della
rivelazione ed in opposizione ad ogni razionalismo produce uno stato di ostilità ne-
cessaria tra il dogma e la ragione ; tuttavia, sempre secondo l'autore, questa idea che
è la più falsa, si mostra la più forte per organizzare la vita sociale. Anzi, da oltre
due mila anni l'accordo dell'istinto vitale e del Monoteismo si riconosce agevolmente
nel fatto della potenza devoluta esclusivamente alle nazioni che sono immerse in tale
illusione, e quel che è peggio, a detrimento dei popoli, la cui filosofia, come quella
degli Indiani, negando l'idea di un Dio fuori del mondo e creatore dello stesso, si
mostra dominata dall'istinto di conoscenza. Il sintomo quindi è flagrante, perchè niun
popolo conquistatore uscì dalle razze di religione Buddistica, dopo che vennero in
concorrenza coi popoli monoteistici, perchè l'istinto di conoscenza che è la base della
loro mentalità è causa della loro debolezza (pag. 54). Ed è questa mentalità, la quale
deve dissipare i fantasmi della Teodicea e creare, riguardo alla metafisica antica, un
nichilismo assoluto che l'autore vagheggia ed a cui ci invita di partecipare con tanto
ardore ! E proprio il caso di ripetere : Timeo Danaos et dona ferentes.
Ma le conclusioni che l'autore deduce dal libro di Giobbe sono troppo gravi per
non richiamarvi la nostra attenzione, né crediamo fuori di proposito di compendiare
anche noi il celebre libro. La scena è duplice perchè abbraccia il Cielo e la Terra;
nel Cielo si agisce, sulla Terra si parla, e qui ignorandosi i decreti del Cielo, si por-
tano giudizii infondati. Ciò rappresenta assai bene l'immagine dei sistemi filosofici,
dice l'Herder, e le loro teorie. L'eroe del libro è un uomo che soffre anche fisicamente
e che non ha meritato le disgrazie che lo affliggono. Si perdonano i suoi pianti e i
gemiti, perchè anche il più grande eroe non potrebbe rattenersi dal gemere quando
è oppresso da sofferenze corporee. Giobbe vede la morte vicina ed è ridotto a desi-
derarla; la sua esistenza è avvelenata e si comprende che se ne lamenta. Giobbe
soffre per la gloria di Dio, i suoi lamenti gli sono predestinati, giacche Dio ha per-
messo a Satana di tormentarlo. Sarebbe egli possibile di dare alla sofferenza umana
Sekie II. Tom. LUI. 35
271 ROMUALDO BOBBA 22
uno scopo più elevato? Ed è questo scopo che fa del libro di Giobbe la Teodicea del
Signore dell'universo e non i discorsi dei sapienti della terra, i quali, pur essendo
elevati, non trattano mai che un aspetto della questione.
Questi discorsi, ben lungi dal consolare Giobbe, lo irritano; le descrizioni che
fa della potenza e della sapienza divina sorpassano di molto quelle de' suoi amici,
ma non rimane meno infelice, risultato ordinario delle vane consolazioni degli uomini.
La terra è così angusta e tenebrosa da non potersi cercare che nella polvere la causa
degli avvenimenti di cui si dovrebbero chiedere spiegazioni soltanto al di là delle
stelle. Ma chi potrebbe innalzarsi tanto alto! Niuno quindi degli amici di Giobbe
indovina che la causa delle sue miserie è quella esposta nella introduzione storica
del poema.
Quanto è glorificata l'immondizia sopra cui è assiso Giobbe! Il quale rimanendo
fedele alla virtù difende i Decreti del Creatore, mentre questi tiene sospesa sul capo
del paziente la corona che gli destina. Questa doppia azione, dice giustamente l'Herder,
e gli spettatori invisibili, gli angeli, posti là per essere testimoni del modo secondo
cui Giobbe sopporta le sue miserie, fanno di questo libro un' opera unica al mondo.
L'uomo che nel Cielo debbe essere il modello della forza e della integrità, si trova
sulla terra impegnato in una lotta di saggezza e si comporta come può un mortale.
L'autore diede a Giobbe un carattere ardente e vivacissimo, ed è perciò che si sdegna
alla prima osservazione di Eliphas, il quale non manca tuttavia di dolcezza. L'im-
petuosità di Giobbe è il fermento della sua virtù, come di tutti i dialoghi che se-
guono, i quali sarebbero altrettanto noiosi, quanto poco istruttivi se egli si limitasse
a gemere e i suoi amici a consolarlo.
Un filo sottile riunisce tutti i dialoghi gli uni agli altri, nei quali ciascuno degli
amici interloquisce secondo il suo carattere; ma Giobbe loro sovrasta come saggio e
poeta. Eliphas è il più modesto dei tre; se parla pel primo non dà le sue parole
come cosa propria, ma le attribuisce ad un oracolo. L'attacco di Bildad è più vigo-
roso e Tsophar non fa altro che rinfocolare sul discorso di Bildad e sparisce il primo
dalla scena. La lotta quindi è divisa in tre attacchi; alla fine del primo Giobbe si
sente già abbastanza vittorioso per appellarsene a Dio contro i suoi accusatori. Nel
secondo i nodi del dialogo si stringono e Giobbe finisce per rispondere a Tsophar
che in questo mondo la felicità è riservata ai cattivi, sentenza che gli sfugge nel-
l'ardore della disputa.
Eliphas allora destramente cerca di dare un altro indirizzo alla discussione, ma
gli interlocutori si sono inaspriti e Giobbe persiste nel suo sentimento. Bildad discute
debolmente, e Tsophar non trova più replica, così che Giobbe rimane vincitore, ed
allora ritratta ciò che gli era sfuggito nella collera e pronuncia sentenze che possono
dirsi la corona del poema.
Queste discussioni quanto paiono monotone in apparenza, altrettanto sono ricche
in ombre e luce. La confusione, il disordine aumentano di dialogo in dialogo fino al
momento in cui Giobbe ritornato in se modifica le sue asserzioni. Il lettore che non
scorga questo intreccio delle argomentazioni non può avvertire che Giobbe fa costan-
temente cadere la freccia, che dovrebbe colpirlo dalla mano de' suoi avversari , ne
rileva che egli ragiona sempre meglio di loro, facendo in modo che i loro stessi ar-
gomenti tornino in suo favore, e quindi non giungerà mai a formarsi una giusta idea
ESAME STORICO CRITICO DELl/OPERA " DA KANT A NIETZSCHE .. 275
della vitalità e grandezza dello spirito di questo libro (Confr. Herder, Storia della
poesia ebraica).
Giobbe incomincia con una bella elegia come termina quasi tutti i suoi discorsi
con una commovente lamentanza che rassomiglia al coro della tragedia greca-, il quale
generalizza i sentimenti dell'eroe e lo mette alla portata di tutti. Ma quando egli
ha vinto i tre amici, un giovane profeta si presenta improvvisamente e come tutti
gli entusiasti è presuntuoso, (emerario al punto di credersi egli solo saggio ; e per
darne un esempio, descrive quadri grandiosi ma indeterminati e senza scopo; ed è
perciò che niuno gli risponde. Egli è là tra Giobbe e Dio come un'ombra parlante,
e Dio non gli risponde che colla sua subita apparizione, mentre Eliu che aveva inter-
loquito per difendere Dio stesso, si dilegua come un' ombra.
Ora appare manifesto quanto doveva essere istruttiva l'introduzione di costui
cosi abilmente associata. In fatto Dio appare in modo altrettanto grandioso quanto
inatteso, cioè al momento in cui il giovane profeta Eliu descrive senza saperlo tutte
le circostanze di una apparizione di tal fatta, cui però aveva dichiarato impossibile.
Senza accordare la menoma attenzione agli interlocutori che avevano creduto di soste-
nerne le ragioni, Dio non parla che a Giobbe, non come giudice, ma come un sa-
piente, ponendo a chi aveva vinto i suoi avversarii ed esaurita la sapienza della
terra, questioni riguardanti l'origine del mondo, la sua creazione, il suo governo, e
Giobbe resta muto. Dio ritrae sette specie di animali selvaggi e termina colla descri-
zione di due mostri marini di cui egli, padre del mondo da lui creato, prende cura
ogni giorno come se fossero i suoi favoriti. Dio chiede a Giobbe perchè essi animali
esistano, giacché non certo per utilità dell'uomo, essendo essi quasi tutti a lui infesti,
e il saggio della terra umiliato continua a serbare il silenzio.
Sottomettersi alla ragione infinita, ai decreti impenetrabili ed alla bontà visibile
del padre celeste che nutre il coccodrillo e i piccoli nati dal corvo, ecco la sola risposta
possibile alle questioni che il sovrano del mondo, che ha per parola l'uragano e per
testimonii le opere della creazione stessa, indirizza egli stesso a Giobbe sul governo
e i destini del mondo. Sì, esclama l'Herder, la vera Teodicea dell'uomo è nello studio
della potenza, della saggezza, della bontà di Dio, che si manifesta nella natura e
nell'umile e sincera convinzione che la ragione e le vedute di Dio sono al disopra
della nostra intelligenza (ibid.). Dopo ciò, lasciamo al lettore di giudicare del valore
delle due analisi sommarie del libro di Giobbe e sopra tutto delle conclusioni che
ne derivano.
VI.
Xell'interno della Chiesa definitivamente costituita si manifesta, secondo l'autore,
per l'unione del dogma colla filosofia, una doppia attitudine: da una parte il dogma-
tismo ebraico, la cui missione è di proteggere l'istinto vitale contro il pericolo della
conoscenza, dall'altra la Teologia razionale, che si propone di unire le due forze, che
si escludono, e di costringere l'istinto di conoscenza a prestare mano forte alla vita.
Ed è in grazia di questa falsificazione operata dallo spirito filosofico sopra lo stesso
spirito che la menzogna teistica colle sue conseguenze favorevoli alla vita, cioè colle
idee di giustizia, di bene, di male, di libertà, di responsabilità, potè e potrà ancora
276 UUDO BOBBA 24
prolungarsi nella umanità oltre la durata del dogma. Ed è in questo modo che con
S. Agostino e i Padri con S. Anselmo, Alberto Magno, S. Tommaso, S. Bernardo,
poi col soccorso di teologi ; come Bossuet e Fénelon, di filosofi come Cartesio e
Leibnitz, col sussidio potente, ad onta di un antagonismo superficiale di volgarizza-
tori come Voltaire, di Enciclopedisti, chi mai l'avrebbe immaginato, di D'Holbach e
Diderot, la filosofia platonica e deista è pervenuta a vivere e a crescere.
Ma tutti questi puntelli, continua l'autore, del Teismo tratti dal dogma e dalla
Teologia razionale non impedirono che i frammenti autentici dell'istinto della cono-
scenza si manifestassero qua e là nel corso dei secoli, prima col Nominalismo distrug-
gitore di ogni Teismo, poi con Lutero, considerato solo come dialettico e indipen-
dentemente dalle conseguenze pratiche della sua dottrina, con Giansenio e seguaci
neganti il libero arbitrio in nomo della grazia e focolari di un ascetismo fecondo di
frutti anche migliori. Ne debbono tacersi i successi resi all'istinto della conoscenza
da Bruno, Ramo, Vanini e da Galileo (secondo l'autore anche Galileo è uno dei
distruttori del Teismo). Sebbene costoro perfezionarono piuttosto l'indirizzo ascetico
anziché acuire l'istinto della conoscenza (pagg. 56-57-58).
Ora " avec les concours coalisés par la défense de l'instinct vitale, elle, la phi-
" losophie platonicienne a dressé sa facade monumentale, bariolée, en guise d'ornemens,
" des motifs divers de ses prétentions métaphysiques toutes décorées d'apparences
0 fausses, fausses fenètres et fausses portes destinées à de'rober l'entrée de la né-
" cropole dangereuse, léthargique et silencieuse de la connaissance, qu'elle a pour
" mission de casser „ (pag. 58).
Con questa conclusione l'autore termina la prima parte della sua pretesa deter-
minazione " de la forme et des limites de notre faculté de connaitre „, come di averne
definito l'ufficio e la portata e di averne messo in iseena l'epopea, ed essere pervenuto
attraverso le tergiversazioni del pensiero fino alla Critica della Ragion pura (ibid.).
Dalla nostra esposizione il lettore potrà facilmente giudicare quale credito debba
attribuirsi alla sua fantastica diatriba.
VII.
Nietzsche, dice l'autore, ha accettato l'ipotesi secondo cui la vita ha per base
una illusione, una menzogna; a questa ipotesi, si deve aggiungere come corollario,
che lo stato di conoscenza deve distruggere la vita. Ora non è un dogmatico, un cre-
dente, ma un filosofo indipendente che ha dimostrato l'illusione e la menzogna della
vita mediante la critica della conoscenza. Kant però non fu un dogmatico come i
precedenti. Egli è protestante e il Protestantesimo implica già una alterazione della
moneta dogmatica, contenendo virtualmente il Razionalismo, il quale, dice l'autore,
riposa sopra questa petizione di principio: di un accordo necessario tra la religione
rivelata e la ragione. " Aussi est-i! permis de supposer que Kant catholique n'eut
" pas déshonoré la Ch-itique de la Eaison pure par la Critique de la Baison pratique,
" ni par les réticences, qui dans celle-là ménage déjà la possibilité d'un retour „
(pag. 61).
25 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE .. 277
Ora noi, senza pretendere di sapere, come fa l'autore, ciò che Kant avrebbe fatto
come cattolico, e tanto meno se sia in forza della sua fede robusta nella necessaria
conciliazione della rivelazione colla ragione, che lo indusse a scrivere la Critica dello
Ragion punì, mentre Kant dice positivamente che ciò che lo indusse a scriverla fu
il problema come siano possibili i giudizii sintetici a priori, il fatto è che il De Gaultier
nota che in essa Critica non si incontra la divinità ne sotto forma di causa prima
o finale, ne sotto forma di assoluto; il vuoto tiene luogo dell'infinito e del perfetto;
la libertà, il bene ed il male come imputabili, come pure la giustizia, sono invisibili.
Al contrario, la causalità, il tempo, lo spazio si allargano in proporzioni illusorie,
s'intrecciano senza fine propagando miraggi in cui si scorge la fuga continua nel
fenomenismo. Descrive assai fedelmente gli artifizi che osserva, tutte le forme vuote
che incontra; sa che ciò costituisce l'apparecchio della conoscenza, ne indica accu-
ratamente la portata e confessa che lo studio di questo meccanismo non potrebbe
fornirgli alcuna nozione sopra l'essere in se. Ma dopo essere andato cos'i lontano, sulla
fede dell'accordo finale tra il dogma e la ragione, incomincia nondimeno a spaven-
tarsi. In fatto, diciamo noi, se procedendo in quel modo nelle sue deduzioni* cercava
la conciliazione del dogma, come vuole l'autore, colla ragione, non poteva non accor-
gersi che ben lungi dal conseguire la conciliazione, scavava tra essi un abisso insor-
montabile. Di già sotto l'impero della paura, continua l'autore, la sua vista s'intorbida
e incomincia a mentire, cioè concede che le forme della conoscenza non raggiungono
l'essere in se, ma che per loro natura significhino l'impossibilità di farci conoscere
l'essere in se noi dice; ed ecco la menzogna. Eppure ciò è implicato nelle disquisi-
zioni antecedenti, ma in grazia della sua fede che gli impedisce di sospettare un pe-
ricolo, egli proscioglie l'istinto, della conoscenza dalla sua severità, cioè l'istinto della
negazione. Laonde dopo aver compiuta quella distruzione decisiva, mettendo a pro-
fitto le reticenze volontarie già indicate da Kant, ritorna a collocarsi in faccia all'edi-
fizio platonico, ristabilisce sopra un punto, da cui deduce tutti gli altri, l'illusione e
la menzogna filosofica, e ne rialza gli idoli.
Kant perciò, dopo aver descritto l'illusione formata dall'istinto vitale, mostran-
done la sua doppia origine nella filosofia e nel dogma costretti a servire la vita col-
l'arma della conoscenza, la quale lungi dall'essere fautrice della vita, fa rientrare
nel pretto nulla quanto apparisce, si accorse che bisognava prima far trionfare l'istinto
vitale per poi fornire all'istinto della conoscenza il campo della distruzione. Egli,
Kant, quindi ha fatta sua la parola che Goethe mette in bocca a Mefistofele, intesa
dallo istinto della conoscenza; cioè: io sono lo spirito che sempre nega, e quanto
esiste non è buono che per andare in ruma e sarebbe meglio se non esistesse (pag. 65).
Lasciamo ai seguaci di Kant di apprezzare questa nuovissima interpretazione
della Critica della Ragion pura, ciò che a noi ripugna assolutamente è di concedere
all'autore la mala fede di cui gratifica Kant, dal quale si può dissentire speculati-
vamente, ma la di cui integrità e sincerità è al di sopra di ogni sospetto. Ripetiamo
ancora che il De Gaultier o non ha letto, o movendo da un preconcetto, suppone che
Kant nella Critica della Ragion pura si sia proposto di conciliare il dogma rivelato
colla ragione umana, mentre egli afferma positivamente che il problema generale
della Ragion pura è appunto come siano possibili i giudizi sintetici a priori (Intro-
duzione, § 6).
278 ROMUALDO BOBBA 26
Senza entrare nell'analisi che l'autore fa della Critica della Ragion pura, notiamo
solo che, secondo lui, se Kant avesse lasciato alle antinomie tutta la loro forza avrebbe
dovuto rinunciare per sempre alla conciliazione del dogma colla ragione (supposizione,
come abbiamo rilevato, del tutto cervellotica dell'autore), e la menzogna vitale sma-
scherata dalla conoscenza perdeva tutto il suo potere d'illusione. E nel cuore stesso
della Critica nel momento in cui dà l'assalto decisivo alla vecchia finzione che Kant
smozza le armi di cui si serve, e storna i colpi che porta dalle regioni ove produr-
rebbe la morte. Come nei romanzi popolari, il traditore che altri credeva sgozzato,
può risorgere di nuovo e co' suoi intrighi aggiungere un' ultima peripezia alla Ap-
pendice che sembrava finita, così, secondo l'autore, Kant, sotto il manto dell'Impe-
rativo categorico, ripresenta il traditore, la menzogna, l'illusione munita di tanaglie e
grimaldelli nella Critica della Ragion pratica (pag. 82).
Lasciando al lettore il far giustizia del cinismo di questo linguaggio, l'autore si
dimanda: l'esistenza fenomenica che sola ci è data, assorbe dessa tutta la totalità
della esistenza? lascia dessa ancora luogo alla possibilità della cosa in sé? Dobbiamo
noi immaginare un ritorno eterno delle cose, oppure un inconoscibile, un Nirvana si
oppone alla fantasmagoria dell'universo conoscibile? (pag. 83).
Ecco finalmente questioni nette e precise, e non ingarbugliate coi giuochi di pa-
role, colle espressioni cervellotiche di istinto vitale, il taumaturgo, o di istinto della
conoscenza, il distruttore e perpetuo negatore. Secondo l'autore, questo spostamento
della inquietudine è la sostituzione dell'ottica indiana all'ottica ebraica, di un punto
di veduta della conoscenza ad un punto di veduta della vita E certo, secondo lui,
che le razze ariane, che durante due mila anni, presero per vivere il loro punto di
appoggio in una menzogna improntata dal dogma di un'altra razza, hanno veduto
da un secolo la concezione, che loro è propria, risorgere nella filosofia alemanna con
Kant, Schopenhauer e Nietzsche che l'arricchì di una singolare energia e di una nuova
angoscia (pag. 84).
Le razze ariane, cioè quelle che comunemente si chiamano indoeuropee, per vi-
vere si appoggiarono ad una menzogna, presa dai dogmi di un' altra razza, cioè dalla
razza semitica, ed esse da un secolo risuscitarono la concezione indiana. Ma dunque
Platone ed Aristotele, che indubbiamente appartengono alle razze indoeuropee, e che
certo sono anteriori ai due mila anni tassativamente segnati dall'autore, a quale men-
zogna presa da un'altra razza si appoggiarono per vivere? E Cicerone che si trova
nella stessa condizione rispetto a! tempo ed alla razza, dove andò a copiare il suo
trattato Degli Ufficii? Decisamente il De Gaultier debbe presumere che i suoi lettoli
abbiano cieca fede nella sua parola, altrimenti la prudenza più elementare gli con-
siglierebbe di computare meglio le date (pag. 84).
L'autore dopo lunghe digressioni intorno al principio di deformazione dell'appa-
recchio razionale per produrre ciò che Kant chiama concetto, deformazione usata in
modo diverso da diversi filosofi, incominciando da Locke, continuando con Kant,
Schopenhauer, fino a Nietzsche, deformazione consistente nell'astrazione per formare
le idee generali, da pag. 91 a 110, si chiede di nuovo se il concetto di una esistenza
in sé ha egli una realtà. La cosa in sé di Kant, il mondo come volontà di Scho-
penhauer, il Brama o Nirvana degli Indiani esiste egli?
Che l'essere in sé il noumeno sia inconoscibile per sé, è ciò che la Critica della
27 STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE ..
Ragion pura si sforzò di provare, e questo pronunziato, secondo l'autore, è la sola
certezza che abbiamo fin qui potuto acquistare. Ed è pure la conclusione dell'Indo-
nismo che ci precede di tanti secoli in questo cammino metafisico e che formulò la
scienza della conoscenza quale il genio alemanno l'ha ritrovata.
Molto tempo prima delle speculazioni a cui dopo tanti sforzi siamo giunti noi
per scuotere il giogo teologico, la stessa posizione di spirito a cui siamo appena per-
venuti ora, si era stabilita nella filosofia bramanica. Ne qui si tratta di una coinci-
denza fortuita di conclusioni, ma bensì delle stesse conclusioni che indussero quei
pensatori a constatarle. Cioè l'istinto della conoscenza liberato dal giogo dell'istinto
vitale, si mostra più preoccupato di sapere che di vivere e termina allo stesso distacco
come alla stessa perspicuità (pagg. 110-111).
I filosofi indiani non furono ingannati dall'astuto ufficio della causalità avendo
in esso subito veduto la molla di un' illusione, quindi presso di loro nessuna traccia
di una causa prima, sebbene credano che la vita abbia un fautore; cioè l'ignoranza
qui sinonima d'illusione, dello stato di ebbrezza sotto il cui impero noi attribuiamo
alle cose la durata, l'estensione, la permanenza e la realtà e creamo il mondo delle
apparenze. Ma questa ignoranza che genera il desiderio nasce pure dal desiderio ;
perchè nello stato di ebbrezza, da cui sorge la vita fenomenale le dodici cause indi-
cate dalla Metafisica (si desidererebbe sapere da quale metafisica) s'intrecciano in un
mutuo allacciamento, ora come cause, ora come effetti. Dal concorso poi del desiderio
motivato dalla sensazione nata dal contatto, che è la sede delle qualità sensibili,
ecco sorgere colla percezione il nome e la forma per cui le cose si distinguono, di-
vengono oggetti di conoscenza. Ma questa conoscenza figlia della ignoranza è accom-
pagnata dal dolore che determina l'aspirazione al Nirvana, dove deve dissiparsi l'eb-
brezza vitale, dove svanisce l'allucinazione di Maia.
Quindi che si tratti di un ritorno in Brama dei primi maestri della Metafisica
indiana, o dell'annientamento predicato sotto il nome di Nirvana dagli ultimi seguaci
della dottrina di Sankhia, bisogna vedere nei due termini una identità, come nella cosa
in sé di Kant, nel Wille di Schopenhauer.
Tutti questi termini, aggiunge l'autore, non hanno valore metafisico e non si
accordano coll'insieme del sistema che esprimono, se non a condizione di essere spo-
gliati di tutte le vestigie del loro senso ordinario, per non rendere altro se non l'idea
di ciò che è inconoscibile in sé e per noi. Con l'uno e l'altro termine gli Indiani non
vollero significare altra cosa se non uno stato negativo, ciò che è opposto al relativo,
al composto, ciò che è sottratto alle condizioni della vita fenomenale e alla cono-
scenza. Tuttavia tutti convengono essere possibile uno stato diverso ed in opposizione
al mondo fenomenico, anzi l'esistenza di un tale stato loro pare necessaria, cioè a
loro pare che un mondo in sé debba opporsi necessariamente al mondo come rappre-
sentazione, al mondo generato dalla Maia. Insomma la vita fenomenale fu da loro
considerata come un accidente, una malattia della vera vita, malattia da guarirsi col
ritorno in Brama e coll'annientamento nel Nirvana. Quindi la trasmigrazione delle
anime attraverso la durata poter un giorno finire, e cessare con essa l'incubo, l'in-
catenamento delle cause non ostante la sua fragile vanità, ed il risveglio verificarsi
al coperto del miraggio della conoscenza (pagg. 110-111-112-113).
L'autore con tale esposizione della Metafisica indiana ha preteso di provare che
280 ROMUALDO BOBBA 28
i filosofi indiani molti secoli prima di noi si trovarono nelle stesse condizioni di spi-
rito in cui si trovò la Filosofia dopo le deduzioni della Critica della Ragion pura, e
cioè che l'intelligenza liberata dal giogo dell'istinto vitale, si mostra più preoccupata
di sapere che di vivere e perviene allo stesso distacco ed alla stessa perspicuità.
Vili.
Per dimostrare quale valore abbia questa pretesa identità di condizioni, do-
vremmo esporre le principali forme sotto cui si manifesta presso i Brainani e le altre
Scuole indiane la loro dottrina Teologica, Cosmologica e Psicologica, ciò che ci obbli-
gherebbe ad uscire dai limiti che ci siamo imposti ; tuttavia, pur restringendoci, spe-
riamo di poterne dare un'idea sufficiente al nostro scopo.
Nella dottrina secondo cui la divinità è tutto e tutto è Dio, l'universo non po-
trebbe essere considerato che come una deplorabile degradazione della perfetta felicità
dell'essere eterno ; tutto che ricevette l'esistenza è infelice, il mondo stesso è cattivo,
corrotto nella sua radice pel solo fatto della sua distrazione dalla sua causa. Ed è
ciò appunto che gli Indiani chiamano il sagrificio eterno della creazione, l'abbassa-
mento volontario della maestà divina alle proporzioni delle miserabili creature, l'im-
molazione e la consumazione mediante il fuoco divino della vittima infinita ed eterna.
Ciò è insegnato tassativamente sotto il triplice emblema di un sagrificio umano, del
sagrificio del cavallo e del sagrificio vuoi mistico, vuoi reale di ogni sorta di esseri
animati e inanimati (Oupnék'hat, III; Brah., 71, pp. 335-36, t. 1°; Manavà-Dharum
Sàstra, 1. 1, st. 49-50).
In questi passi è facile riconoscere che si solleva la grande questione dell'origine
del male e si risolve in un modo vago, come il Panteismo con cui vi si risponde.
In fatto il Panteismo nell'India si è manifestato in termini ora più mitigati ora più
rigorosi.
1° Abbiamo il Panteismo idealistico, secondo cui il mondo non è, come pure
noi che ne facciamo parte, che una pura illusione, un giuoco della nostra immagi-
nazione, un sogno dell'essere infinito, quindi non vi ha che una sola individualità,
un solo me, come una sola sostanza, un solo essere senza divisione e distinzione. In
tale sistema la questione della natura e dell'origine del male sia fisico, sia metafisico,
sia morale, si risolve colla negazione. Dio solo esiste, egli è l'essere intimamente
perfetto, tutto è pel meglio, perciò il male non è; qualunque manifestazione di ciò
che chiamiamo male, vizio, peccato, impei'fezione , disordine, non è che apparenza,
vana illusione, pura fenomenalità.
2° Il Panteismo cosmogonico, secondo cui il mondo come tutti gli esseri sono
stati prodotti dalla sostanza unica universale mediante emanazione, irradiamento, er-
rompente dal seno dell'essere infinito in una progressione decrescente, distinguentesi
di più in più e dalla loro sorgente e tra loro stessi per una divergenza sempre più
grande. In tale dottrina, tutto ciò che ha ricevuto l'esistenza emanando dall'infinito,
perfetto, felice, è infelice, imperfetto, sottoposto ad ogni sorta di vicissitudini morali
e fisiche, e il mondo intiero è perciò stesso cattivo, corrotto nelle sue sorgenti ; la
creazione è una catastrofe dell'essere infinito, unico, necessario, caduto nelle forme
29 ESAME STORICO CRITICO DELl/oPERA " DA KANT A NIETZSCHE .. 281
finite, multiple, variabili, contingenti, di una esistenza criminosa e infelice. Ecco la
natura e l'origine del male, che affetta la stessa sostanza divina. Il male quindi ha
la sua sorgente nell'essere divino, nella volontà produttrice, nell'imperfezione del suo
essere se la creazione non è volontaria e libera.
3° Il Panteismo che intermedia tra i due primi. Secondo esso, la sostanza
divina, una, universale, indivisibile esisterebbe in due stati diversi, cioè come infinita
e finita e sotto forme infinitamente varie, e specificantesi in ciascuna di esse, senza
cessare di essere il centro supremo, l'essere unico ed universale, ad un dipresso come
noi concepiamo lo spazio infinito occupato da esseri o figure che lo riempiono, in cui
si muovono, s'incrociano in tutti i sensi, senza che lo spazio, che si specifica in tanti
luoghi diversi determinati da quelle figure geometriche e dai differenti oggetti cessi
perciò di essere uno, universale, identico a se, esistente insieme allo spazio infinito
e finito sotto forme differenti. Questo sistema panteistico ammette la realtà del mondo
e di tutti i fenomeni che lo costituiscono, ma non risolve meglio la questione del-
l'origine naturale del male, perchè il limite, il male come il bene, i fenomeni del
mondo morale, come quelli del mondo fisico, affettano egualmente la sostanza divina.
Oltre questi sistemi generalmente adottati dai Bramani ve ne sono altri intorno
al principio e all'origine delle cose, i quali ebbero un gran numero di seguaci, e
tra gli altri tali furono i due Sankhia, la Nyaya e il suo complemento la Vaisessika.
Questi sono riguardati dai Bramani come in parte ortodossi e in parte eterodossi,
cioè in parte contrarii alla dottrina dei Vedi e in parte conformi. Quindi i Bramani
non li ripudiano assolutamente, riguardandoli come includenti cose utili alla logica
e alle scienze fisiche e naturali, ma ripudiano ciò che in essi loro sembra opposto
all'insegnamento teologico. Tali sono ad esempio i modi con cui spiegano l'origine e
il principio delle cose implicanti un dualismo, in quanto suppongono due principii
eterni, infiniti, necessarii, l'uno attivo, intelligente, e che per abbreviare noi chiame-
remo Spirito, saggezza, volontà motrice ; l'altro passivo, tenebroso, inerte, che diremo
materia, elementi, atomi sottili, la Natura Materia Moula-Prakuti. Il primo produce
tutti i fenomeni, ossia tutti gli esseri, il secondo è la sostanza di cui sono fatti o
prodotti (conf. Manavà-Dharma-Sàstrd).
Ora uno degli studi più perseveranti dei pensatori indiani fu precisamente quello
di conciliare le esigenze morali della vita presente colle loro Cosmogonie. Ritenendo
quindi che l'uomo pio e saggio non possa ottenere la liberazione, la felicità eterna,
l'unione assoluta con Brahm se non unendosi all'obbligazione del sagrificio universale,
in cui la divinità è insieme vittima e sacrificatore, oblazione e preghiera mediante
le opere prescritte dai Vedi e sopratutto acquistando la Grande Scienza egualmente
prescritta come fine ultimo di ogni attività. Scienza suprema, mediante cui il cono-
scente e il conosciuto, l'universo e Brahm, l'uomo e Dio si confondono in una unità
sublime ed assoluta.
Imperocché il gran sagrifizio è il compimento delle opere prescritte dai Vedi, e
la sua perfezione è il sapere che la nostra anima è l'anima universale, Dio in un
corpo umano. " Io sono tutto ciò che è, dice Brahm ; Io sono lo spirito, la materia,
il tutto e l'individuale: Io sono unico: chi conosce me, conosce tutto; conosce tutto
che si trova nei libri (sacri), e tutto ciò che essi ordinano; egli conosce la scienza
e le opere, la verità del sagrifizio e di ciò che è nel sagrifizio: chi fa ciò ha la vera
Serie II. Tom. LUI. 36
282 'lldo bobba 30
vita, la vera giustizia; egli è Brahni „ (Oupnék'hat, pp. 24, 20. II, pp. 13 e 14 e
alias passim).
Di qui la preghiera cioè la tendenza e l'unione dell'anima con Dio pei suoi pen-
sieri e le sue affezioni ; la mortificazione e le austerità della penitenza, per cui l'anima
si distacca dalla vita dei sensi, dai legami della vita individuale e temporale; le
buone opere e certe pratiche di divozione che purificano l'anima e la preparano alla
sua unione completa con Brahm. Quindi un sistema di morale i' cui molteplici pre-
cetti sono indicati nei libri sacri. Infine l'obbligo della offerta e del sagrificio che nel
suo senso religioso e morale è il dovere più importante e più grande di tutti i do-
veri prescritti dai Vedi.
Aggiungi che le preghiere, le pie meditazioni , !e austerità della penitenza, la
virtù, la morale, tutte le pratiche di carità e di religione non sono che una esten-
sione dell'offerta del gran sagrificio della creazione — Pouroucha-Med'ha — o mezzi
diversi istituiti per agevolare ad ogni uomo il compimento di quel gran dovere nella
propria persona. Quegli perciò che non avrà compiuto in sé il gran sagrifizio colla
esatta osservanza delle pratiche prescritte dalla legge divina (i Vedi), sarà soggetto
a trasmigrazioni più o meno numerose, finché adempiendo a quel dovere, siasi reso
degno della liberazione e della suprema felicità (Oupnék'hat, II; Brahmen , 24, I;
Brahmen, 6, e molti altri passi esprimenti lo stesso pensiero).
Questa tuttavia non era ancora che una morale incompleta, incapace di santi-
ficare perfettamente l'uomo e di metterlo in possesso della liberazione e del riposo
assoluto, della felicità suprema. La via che vi conduce definitivamente è quella della
Grande Scienza, cioè la Scienza della unificazione dell'anima colla divinità. Le piccole
Scienze, la Grammatica, la Logica, l'Agricoltura, le Arti, l'Industria, la Teologia
stessa e la Storia la preghiera e le buone opere e le altre pratiche di religione
sono, a dir vero, necessarie all'uomo vivente in società con altri uomini ed hanno
per oggetto di preparare l'anima alla Grande Scienza, ma solo questa può condurre
a Dio. La Grande Scienza è quella del Creatore, chi la possiede e si astiene dal pec-
cato perviene a lui che è il Grande per eccellenza. Quegli che sa che tutte le cose
sono la figura di lui, che se stesso e tutte le cose che sembrano esistere sono lui,
quegli perviene al mondo superiore e quando tutto perisce e dissolvesi, egli è uno con
Quello che riempie tutto colla sua immensità, è uno con Lui, è Brahm, egli stesso
che insegna la dottrina dell'unificazione. Questa è la massima delle scienze e tutte
le contiene. Finché non la si è acquistata l'anima è soggetta a trasmigrazioni senza
fine, esigliata da mondo in mondo, da un corpo ad un altro, infelice, afflitta, o fruente
di una certa felicità parziale, secondo che è stata virtuosa o criminosa; ma solo
quelli andranno a riunirsi definitivamente al grand' Essere, che l'avranno conosciuto
quaggiù mediante la vera scienza (Oupnék'hat, XVIII; Brahmen, 121, III; Brahmen,
66, V; Brahmen, 80).
Un'altra dottrina insegnata dall' Oupnék'hat e dai Vedi è che l'uomo è composto
di un corpo e di un' anima, sebbene poco conforme al principio ontologico della asso-
luta unità dell'essere e della sostanza. I saggi, si dice nelT 'Oupnék'hat, non credono
che il corpo che perisce sia l'anima; niuno può uccidere l'anima; uccidere e perire
sono parole che non possono dirsi che del corpo, giammai dell'anima. Il corpo può
perire, disciogliersi, ma l'anima è immortale e perviene dopo la morte del corpo ad
31 ESAMI CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A .NIETZSCHE „ 283
altri mondi più o meno perfetti, felici, secondo i suoi meriti, rivestita di un corpo
più o meno sottile o del tutto senza coi-po, fino a che avendo conosciuto la vera
scienza, vada a riunirsi all'anima universale, a Dio. La perfezione delle facoltà del-
l'anima dipende da quella degli organi corporei a cui è unita quaggiù e nelle diverse
trasmigrazioni; ma la perfezione dell'anima stessa e la perfezione del corpo dipen-
dono dall'esercizio e dal buon uso delle nostre facoltà, tanto morali quanto fisiche.
Nella dottrina che stiamo esponendo non potrebbe ammettersi differenza essen-
ziale tra il corpo e l'anima a cagione della sostanza; poiché il corpo e la materia
non esprimono che l'idea puramente negativa di forma determinata, di limite. Nel
sistema poi secondo cui il mondo è una illusione, l'anima e il corpo sono nulla. Se
non che sopra questo punto come sopra molti altri il buon senso e la natura sono
stati più forti della pura speculazione; sì il buon senso e la natura costrinsero i
filosofi indiani a parlare il linguaggio del senso comune, cioè un linguaggio che non
potrebbe essere vero e intelligibile se non nel senso di una divinità distinta dal-
l'universo, e nella supposizione della distinzione dell'anima dal corpo come dalla di-
vinità. Spettava ad essi di conciliare il linguaggio della natura, del buon senso, delle
credenze e della morale comune coi loro sistemi filosofici (Oupnék'hat, II; Brahmm,
37, 44, 60).
L'anima in quanto è unita al corpo è detta Djia-Atma, cioè anima legata per
opposizione alla grande anima del mondo, l'anima suprema, Param-Atma. Il corpo
per sé nulla sente, l'anima sola percepisce mediante i sensi, prova dolore o piacere,
pensa, opera e deve compiere doveri. Ma quando mediante la vera scienza l'uomo
giunge a riconoscere che la sua Djia-Atma è Param-Atma, cioè Dio stesso, allora
diviene esente da ogni pena, timore, da ogni obbligazione, da ogni peccato, dalla
stessa morte, da ogni trasmigrazione ulteriore. In una parola essa è' liberata, nel
riposo, investita della suprema felicità. Quegli invece che distingue queste due anime
non otterrà alcuno di quei vantaggi. L'uomo quindi deve sempre dirsi nel suo pen-
siero: io sono Brahm, sono Dio (Oupnék'hat, XXXVII; Brahmen, 152).
Il corpo poi è per l'anima non solo l'organo delle sensazioni, del dolore, del pia-
cere, ma ancora il limite e la prigione dell'anima; è la forma nella quale la grande
anima emanata e particolarizzata, s'individualizza. Altre volte il corpo è paragonato
ad un carro o ad un corsiero diretto dall'anima e destinato a condurlo al termine
desiderato dalla Mokàha o liberazione, al riposo assoluto nella divinità. Per giungere
ad essa il corpo è il carro, i sensi sono i corsieri che lo tirano, la volontà o meglio
i suoi atti sono le redini che guidano i corsieri, l'intelligenza è il postiglione, l'anima
in fine è il signore del carro, quegli che vi sta sopra ; gli oggetti sensibili, il cam-
mino da percorrere. Il postiglione, abile a maneggiare le redini, a condurre il carro,
trova i corsieri docili e fa giungere il padrone ad un grado di elevazione che non
finirà mai, cioè a quella del grande Conservatore, Wisnù, che è il grado supremo
(Manavà-Dharma-Sàstra, I, IV, st. 260; Oupnék'hat, ITT : Brahmm, 72). Ma se è inabile
i corsieri sono restii, non fanno pervenire il padrone al supremo grado, al contrario
lo rovesciano in luoghi cattivi e lo precipitano negli abissi inferiori (ibid., XXXVILI;
Brahmen, 151).
I filosofi indiani in conseguenza della teoria della metempsicosi ritengono che
tutti sii esseri della natura sono animati, ed insegnano che il segno della presenza
284 ROMUALDO BOBBA 32
dell'anima — atma — nei vegetali ò la linfa; negli animali il sentimento, nell'uomo
l'intelligenza. Il pensiero, la previsione dell'avvenire, la parola, la scienza, distinguono
l'uomo dall'animale (ibid., Brahmen, 99). Essi inoltre ammettono ancora differenze tra
le anime che vivificano gli esseri della stessa classe, differenze che costituiscono la
loro distinzione numerica e individuale, delle quali differenze porgono esempi notevoli
le anime che animano i corpi umani. Imperocché è a queste differenze che riferi-
scono la divisione del genere umano in molte razze, la divisione della società in caste,
le une superiori, le altre inferiori; i caratteri fisici, religiosi, morali e spirituali, che
distinguono gli uomini tra loro, e la differenza dei loro meriti personali e della sorte
che ottengono dopo la morte.
Di qui un sistema di morale assai puro, consistente specialmente nella coerci-
zione dei sensi, in una penitenza austera, nel distacco dalle cose di questo mondo,
nella repressione delle passioni, nelle opere di misericordia, nelle pratiche religiose,
nella dolcezza e sincerità, nello studio dei Vedi, nella purità del cuore e dei costumi
(Manavà-Dharma-Sàstra, I, II, IV, VI, XI).
Questa dottrina si connette intimamente colla Cosmologia e Ontologia come si
basa sopra un insegnamento religioso ritenuto divino. Tuttavia la morale che ne de-
riva non riguarderebbe che il comune degli uomini. In fatto il conoscitore della vera
scienza, il saggio, quegli che conosce Dio e -sa che egli è Dio, secondo gli stessi libri
sacri ne sarebbe del tutto affrancato. La sua scienza, volontà, attività, confondendosi
con quella di Dio, la sua ragione lo rende santo e perfetto epperciò degno di rien-
trare anche in questa vita nella Grande Anima, in Brahm. Quindi: 1° la fine dell'uomo
anche quaggiù è la contemplazione e la visione di Dio a faccia a faccia, e per tal
mezzo il riposo della intelligenza e della volontà nella intelligenza e volontà divina,
nella unione e identificazione con Dio; 2° In tale stato, le buone opere, anche le
prescritte dai Vedi, sono inutili, anche nocive quando non vi si è definitivamente
uniti a Dio perchè impediscono di compiere tale unione; 3° Le opere siano buone o
cattive, cosi pure le affezioni virtuose o viziose non possono affettare l'anima costi-
tuita in quello stato, ne farla decadere, comunque si supponga criminosa. Ciò signi-
fica che in quello stato l'uomo perde ogni sentimento, ogni attività, ogni volontà
propria, perciò è impeccabile, essendo perfettamente unito a Dio. In tale stato nulla
si desidera perchè tutti i desiderii sono compiuti, essendo il saggio pieno dell'essere
che è tutto e che nella verità si possiede tutto. Il desiderio di fare un'opera pura,
il timore di farne una cattiva, non fanno pena al saggio, perchè sa che l'una e l'altra
sono Dio stesso che agisce È Dio che agisce pei nostri sensi, è desso che fa la
volontà e il peccato, che risente i piaceri della voluttà e cagiona i desiderii.... Chi
conosce così ciò che è l'opera pura e l'opera malvagia diventa Dio.... Le opere buone,
non gli servono, le cattive non gli fanno alcun torto ; egli è esente da qualsiasi male
che possano provare gli esseri creati L'impeccabilità, l'impassibilità, la salute eterna,
la deificazione gli sono assicurati egualmente in modo assoluto Chi mi conosce,
dice Brahm, qualunque peccato commetta, qualunque delitto, la luce che è in lui non
sarà punto diminuita; egli non sarà peccatore, perchè io sono l'anima universale, che
sola esiste, pensa, vuole, opera. Conoscendo il Creatore, sapendo che tutto è lui, il
saggio diviene lui stesso, e questa scienza dura sempre. La verità è che in realtà
non avvi ne produzione, né distruzione, ne risurrezione, nò contemplazione, né salute.
33 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 285
ne salvato, ne giusto, né peccatore, ne bene, ne male L'universo non è che una
apparenza ; la sola realtà è l'anima universale, Dio si manifesta diversamente sotto
le apparenze del mondo. Chi sa ciò è egli stesso Dio, è fornito di ogni specie di po-
teri divini e soprannaturali, è degno di ogni culto, bisogna adorarlo.— Così con-
chiude ì'Oupnék'hat, sapere che si è il Creatore, che tutto è il Creatore, ecco il segreto
della sostanza dei Vedi (conf. L'analisi dell'" Oupnék'haf „ del conte Lanjuinais).
Non avvi sorgente di pace e di salute che nella conoscenza del Creatore, nella
vera scienza, nella scienza che identifica l'anima coll'Essere universale nelle regioni
celesti. Ecco l'idea che costantemente ritorna alla mente degli autori dell' Oupnék'hat,
dei Vedi e del Manavà-Dharma-Sastra.
Tale adunque è la natura e l'origine dell'uomo quanto al corpo e quanto all'anima,
tale è la teoria delle due morali che sono in perfetta opposizione. La morale pre-
scritta pel comune degli uomini, che il buon senso e il senso comune dettava ai Bra-
mani è abbastanza pura e sotto molti riguardi degna di essere meditata ed ammirata;
e notiamo che questa appunto era la dottrina generalmente osservata dagli Indiani.
Al contrario, la morale del possessore della pretesa vera scienza non è altro, per
dirlo con parole moderne, se non l'illuminismo, il quietismo, la teoria della impossi-
bilità della giustizia, della indifferenza delle opere per la santità e la salute. Né ci
sarebbe difficile di trovare la riproduzione di gran parte di queste teorie in autori
moderni ed anche più vicini a noi.
Ciò che qui dobbiamo ancora notare e sopra cui insistiamo è che per gli Indiani,
la loro legislazione, la loro civiltà, come le loro teorie teologiche e filosofiche si ba-
sano dalla antichità più remota sopra una rivelazione divina. Tale credenza essendo
rimasta costante presso di loro, ci spiega almeno in parte la stabilità delle loro isti-
tuzioni sociali, delle loro credenze religiose, della loro costituzione politica, come dei
loro usi e costumi.
IX.
Dopo l'antecedente esposizione non sappiamo dove l'autore abbia scoperto che
" depuis deux mille ans les philosophes Indiens n'ont pas été dupes du ròle astucieux
" de la causalité, ils ont vu de suite en elle le ressort d'une illusion ; point de traces,
" chez eux, de l'imagination d'une cause première „ (pag. Ili); e tante altre affer-
mazioni che sono in perfetta contraddizione colle principali dottrine filosofiche, teo-
logiche, cosmologiche e morali dell'India. Se vi ha una proposizione che sia ripetuta-
mente affermata è appunto che Brahm è la vera e unica causa del mondo fenomenico,
come è l'unica e vera causa finale distinguendolo dalla Maia e ripetendo che solo
Brahm è reale e l'universo solo un' apparenza in cui si manifesta diversamente, come
pure il sapere che tutto è Brahm costituisce la Grande Scienza, come costituisce il
segreto e la sostanza dei Vedi.
E ancora dove mai ha scoperto che i filosofi Indiani molti secoli prima si tro-
varono nella posizione in cui " les déductions kantiennes nous ont contraints de
" contesser „, cioè " que l'Ètre en soi de quelque nom qu'on le designo, soit incon-
" naissable pour lui-méme „ (pag. 110)?
286 ROMUALDO BOBB.A 34
Il punto di veduta culminante è pei filosofi Indiani la produzione del mondo con-
siderata come un gran sagrinolo dell'Essere infinito. L'universo, i mondi, le loro ri-
voluzioni, catastrofi; l'anima del mondo, le anime particolari, gli elementi, la nascita,
l'accrescimento, il deperimento, le vicissitudini infinitamente varie degli esseri, i fe-
nomeni del mondo fisico e morale, per essi non costituisce che l'insieme delle forme
diverse sotto cui Brahm ha manifestato e manifesta se stesso. Prima della produzione
Brahm è tutto e mediante la produzione egli è ancora tutte le cose e tutte le cose
sono lui. Brahm e l'universo sono lo stesso, ma considerato diversamente. È Dio,
dice l' Oupnék'hat, che fa apparire il mondo, questo fantasma senza realtà Tutto
è uno e lo stesso, agente e paziente, produttore e prodotto, creatore e creatura :
qualunque distinzione tra queste due cose è mera apparenza, un'astrazione dello spi-
rito, un effetto della immaginazione Dio è una persona universale Egli è tutto
ciò che fu, è, e sarà. Di qui i varii nomi di Brahm riprodotti in molti luoghi del-
l'Oupnék'hat (XXIII, XXXVIII, XLVI et alias passim).
Eccone alcuni. Il tempo è Brahm Il Sole è il suo nome, la sua figura. È da
lui che sono state formate la Luna, le stelle, i pianeti e tutto il resto. Ogni produ-
zione buona o cattiva proviene da lui e chiunque sa che il Sole-, che è la forma del
tempo, è Brahm e riflette che il fuoco del sagrifizio è pure Brahm, quello che si
getta nel fuoco è Brahm, quegli che lo getta è ancora Brahm, quegli che compie il
sagrifizio è sempre Brahm, il voto che si pronuncia gettando alimenti sul fuoco è
Brahm, la riunione di tutte le opere è Brahm, che Wisnù è Brahm, che Prajapati
è Brahm, che la parte e il tutto è Brahm, che il Signore (Dio) e i testimoni della
sua esistenza — il Tempo e il Sole — sono Brahm, chi sa ciò è egli stesso Brahm
{Oupnék'hat, III; Brahmen, 71, pp. 335-36). Ecco lo stato mentale dei Bramani dalla
antichità più remota e non quello cervellotico fantasticato dall'autore.
Ma vi ha di più. Brahma formando il mondo, identificandosi con esso, si limita
nel tempo e nello spazio, nasce, cresce, soffre, perisce cogli esseri che ha prodotti
dalla sua sostanza. Quindi la dottrina che troviamo nei libri sacri , secondo cui la
produzione dell'universo è considerata come un gran sagrifizio dell'essere caduto nella
forma, come un abbassamento della maestà divina determinantesi, limitantesi e indi-
vidualizzandosi nelle creature, è considerato come un eterno sagrifizio che l'Essere
supremo si offre a se stesso, e del quale, come abbiamo detto, egli è insieme il sagri-
ficatore e la vittima, il fuoco che la consuma e la preghiera che la accompagna e
la consacra. Ed è questo, che i Bramani chiamano l'eterno sagrifizio della creazione,
ed aggiungono che l'uomo saggio e pio unendosi all'obbligo del sagrifizio universale
ottiene la liberazione, la felicità eterna e l'unione assoluta e definitiva con Brahm,
e l'uomo si unisce a questo sagrifizio della creazione coli' adempimento delle opere
prescritte dai Vedi e sopratutto acquistando la vera, la grande scienza prescritta
pure dai libri sacri. Ecco ciò che l'autore avrebbe veduto rispetto allo stato mentale
o meglio alle speculazioni dei pensatori Indiani e alle conseguenze che ne dedussero,
le quali si differenziano foto coelo da quelle fantasticate da lui che, non attingendo
alle fonti, si limitò a formulare vuote generalità che non confortate da testi dicono nulla.
Ma ciò che ci ha sempre grandemente sorpreso e richiamato la nostra atten-
zione è un luogo di Anassimandro in cui ci parve scorgere un pensiero quasi identico
rispetto a ciò che i Bramani chiamarono l'eterno sagrifizio della creazione. Quello,
35 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE ,. 2V7
dice Anassimandro, onde le cose esistenti hanno origine, in quelle stesse debbono
trovare la loro fine, secondo che è debito; poiché questo è un fio, una pena che si
scontano a vicenda della loro ingiustizia secondo l'ordine del tempo (Anassimandro
presso Simplicio, Comm. alla Fisica di Aristotele, foglio 6.4).
Anassimandro considera dunque il principio, l'assoluto come avente egli solo il
diritto di esistere, cioè la ragione ontologica di esistere, la quale, in linguaggio poe-
tico viene da lui presentata come un diritto morale del quale i nascimenti delle cose
individue sono violazioni vendicate ben tosto dal loro sfacimento. E sarebbe per la
violazione di quella ragione ontologica che sembra ammettere una futura fine del
m lo.
Il Ritter, commentando lo stesso frammento, scrive: secondo Anassimandro il
principio di ogni nascita è pure il principio di ogni morte, due cose che accadono
per l'eterno movimento che fa uscire i diversi elementi dall'infinito, dal loro stato
di miscuglio e che li fa rientrare, e questo ci fa intendere egli quando facendo allu-
sione alla morale diceva: quello onde le cose esistenti hanno origine in quello stesso
debbono ritornare secondo che è debito, poiché questo è un fio, una pena che si scon-
tano a vicenda della loro ingiustizia secondo l'ordine del tempo. Tuttavia aggiunge
il Ritter, il lato morale in questo modo di vedere non è che una condizione acces-
soria e l'ingiustizia che havvi per gli elementi individuali ad uscire dall'infinito
potrebbe forse non essere altro che l'ineguale distribuzione delle differenti sorta di
elementi che ha luogo nella loro separazione pel movimento {Storia della Filosofia,
t. 1, pag. 244).
Lo Zeller alla sua volta dice: A quel modo che tutto è uscito da una materia
unica — aireipov — così tutto debbe rientrarvi ; perchè tutti gli esseri, dice Anas-
simandro, secondo l'ordine del tempo debbono portare la pena della loro iniquità.
L'esistenza separata delle cose individuali è una ingiustizia, una temerità che esse
debbono espiare col loro annientamento (La Filosofia (/reca nel suo svolgimento storico,
t. I, pagg. 235-36).
Le spiegazioni date dai due illustri storici sono quali potevano prevedersi rima-
nendo nei limiti della speculazione greca all'epoca di Anassimandro. Ma se si riflette
che niun altro pensatore greco né prima ne poi considerò dover le cose tutte tro-
vare il loro fine nel principio da cui ebbero origine essendo questo un fio, una pena
che debbono scontare a vicenda della loro ingiustizia, quasi che Anassimandro giu-
dicasse il solo infinito aver diritto di esistere e i nascimenti delle cose essere una
violazione di tale diritto, violazione che scontano ben tosto col loro sfacimento, non
sembrerà temerità se noi crediamo di scorgere una analogia tra la cosmogonia di
Anassimandro e le cosmogonie bramaniche, giacché se le cose che escono dall'infinito
debbono presto rientrarvi è manifesto che esse non hanno che una esistenza effimera
la quale è molto vicina alla Maia, di guisachè ciò che solo esiste veramente per
Anassimandro è l'infinito come pei Bramani è Brahm.
288 ROMUALDO BOBBA 36
Si è mostrato, dice l'autore in un primo capitolo, la menzogna monoteistica nel
suo ufficio vitale (pag. 115) e noi abbiamo veduto che valore avevano le ragioni che
ne addusse per appoggiare le sue asserzioni: ora ci resta a far vedere quali siano
gli idoli, cioè le menzogne logiche; questi idoli sono le idee di verità e di libertà. La
scienza della conoscenza che non ha per iscopo di organizzare la vita, ma che cerca
come essa è fatta e si organizza ritiene quelle due idee come quella di Dio per fin-
zioni, mostrandone la loro inutilità. Giacché essendo il non vero preso come condi-
zione della vita niuno deve stupirsi di vedere tale condizione produrre qui le sue
conseguenze. Sì, le idee di verità e libertà sono finzioni, menzogne naturali generate
dalla vita. L'uomo crede che una verità fissa è assegnata come uno scopo allo sforzo
intellettuale, crede di disporre di un libero arbitrio, cioè di poter mo'dificare se stesso,
determinarsi nel senso della verità che avrà trovata; con ciò è messo in movimento
il diorama infinitamente complesso del mondo morale fra il corteggio delle civiltà,
del clamore, delle preghiere, della frenesia degli atti e della meditazione dei filosofi.
Quindi la mitologia razionalistica dove prende posto l'idolo verità, e procede dalla
confusione della forma col contenuto della conoscenza. Imperocché il dominio della
scienza è circoscritto in limiti ben determinati, i quali sono le leggi formali dello
spirito, e tutto l'insegnamento si assomma nell'apprenderci che il meccanismo della
conoscenza appena entra in attività fa sorgere l'Essere avanti a sé, lo snatura in
sistemi di prospettive senza fine ed ha per necessario effetto di renderlo inafferrabile
e refrattario ad ogni costruzione sicché, dal momento che il nostro spirito cessa di
descrivere l'apparecchio per considerare ciò che gli appare attraverso l'apparecchio,
l'opera sua cessa di essere la scienza della conoscenza per diventare la scienza del
fenomeno, e con ciò stesso cessa di aver per oggetto la verità. E che? Non sarebbe
egli singolare di chiedere la verità ad un apparecchio istituito per generare l'illu-
sione? I saggi che intraprendessero la ricerca della verità andrebbero a violare le
leggi dell'intelletto, e tale ricerca sarebbe la stessa empietà se non fosse già per se
stessa una sciocchezza. La parola verità divenuta sospetta non s'incontra più se non
sulle labbra di quelli che attendono dalla scienza ciò che non può dare, sulle labbra
dei credenti ultimi venuti, di dogmatici appartenenti alla specie più recente e cieca,
posti nel mondo intellettuale o agli antipodi degli spiriti scientifici.
In riassunto: le nozioni di .scienza e di verità si escludono; la scienza non si
propone mai per oggetto la verità; essa è una veduta, una nostra veduta naturale
prolungata che può prolungarsi indefinitamente al di là degli orizzonti che la limi-
tano. La scienza non fa mai altro che intrecciare catene di fenomeni legati tra loro
dal rapporto di causalità ; talvolta annoda queste catene all'ipotesi di finalità per
riposare la nostra curiosità, e con tale artificio farci afferrare la bellezza armonica
di un frammento dell'indefinito ma non ignora che non v'è alcuna finalità ultima.
poiché al di là del fine più lontano ve ne sono altri indefinitamente, i quali scoperti
faranno apparire la relatività, i vizi e gli errori di quella teoria la cui armonia sembra
attualmente completa.
37 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA CAM A NIETZSCHE .
Ora se la ricerca della verità per parte dei cultori delle scienze andrebbe a
violare le leggi dell'intelletto, anzi tale ricerca sarebbe una empietà se non fosse
anzitutto una sciocchezza, e se le nozioni di scienza e di verità si escludono, si com-
prende come egli dichiai'i la bancarotta delle scienze fisiche, poiché le scienze, la
meccanica, l'astronomia, la fisica, la chimica, la fisiologia non essendo giunte a tro-
vare le gomene che le fissi all'anello di uno stesso principio, le riunisca tra esse e
le unifichi in un solo fascio, esse tutte mancando di continuità lasciano scorgere
abissi che non sono ancora stati superati e che mai lo saranno (da pag. 117
a 174).
Ma che è dunque la verità? E una macchina di guerra, dice l'autore. " Trónant
" au sanctuaire de toutes les religions, des religions laiques aussi bien que des religions
" révélées, elle est le principe du fanatisme et du combat... car la vie phénoménale
" étant diversité, est dans son orgaue différenciation, et différenciation, dans le monde
" inorai, est antagonisme et hostilité „. Quindi alle distinzioni di bene e male formulate
dall'antica morale teologica, sarà sostituita una morale scientifica, la quale distinguerà
nella vita le attitudini per vivere e le attitudini per morire, un flusso e un riflusso.
Le attitudini per vivere appariranno quelle che tendono a differenziare gli individui
gli uni dagli altri, attitudini di combattimento lottanti pel potere, l'egoismo, l'orgoglio
di se, il disprezzo per gli altri. Le attitudini per morire appariranno quelle che riten-
gono per illusorie le differenze individuali , che assimilano gli uomini gli uni agli
altri, li riducono ad una parità di elementi omogenei, tutte quelle che tendono a
ricostituire l'unità, a sopprimere i fenomeni, come la fraternità, la rinuncia di sé,
la giustizia. E le cose dureranno così finché non si sarà trovato il sistema ramificato
di cause e di effetti in forza del quale tutti i fenomeni particolari, tutti i tempera-
menti individuali, sole cause legittime attuali di una morale, cioè della morale di
quelli che vogliono vivere e della morale di quelli che vogliono morire, si mostre-
ranno necessitati <ì<i una causa piò lontana, da qualche causa cosmica inerente al corso
degli astri o alla composizione della materia (pagg. 138, 139).
Chi mai avrebbe potuto immaginare che ai giorni nostri si sarebbe potuto ripe-
tere la distinzione del bene e del male, la differenza dei cai-atteri individuali degli
uomini, le loro attitudini morali da una causa cosmica inerente al corso degli astri,
cioè dalla rancida e mille volte distrutta astrologia. giudiziaria! Ma possiamo conso-
larci perchè gli uomini come tutti i corpi naturali fanno sempre ciò che debbono
fare, solo essi uomini, certo non gli altri corpi naturali, alle cause che li fanno agire
necessariamente ne sostituiscono altre fittizie ed è così che si credono liberi ; — la
libertà, in fatto costituisce, secondo l'autore, il secondo idolo logico. La libertà, con-
tinua egli, presa nel senso in cui l'adopera la filosofia, non s'intende, nulla rappre-
senta che sia concepibile da qualsiasi intelletto (pagg. 143-145). In fatto se tutti gli
atti dell'uomo sono necessitati da una causa cosmica inerente al corso degli astri e
dalla composizione della materia, non comprendiamo perchè l'autore spenda parecchie
pagine per combattere la libertà morale. E dopo lunghe disquisizioni sulla definizione
della libertà e necessità date da Spinoza, e sopra un'opera di Emilio Boutkocx, La
contingence des lois de la nature, l'autore crede di aver per sempre fulminata la
libertà morale scrivendo : La credenza nel libero arbitrio ha la sua sorgente nel fatto
della coscienza e nella illusione della personalità che è costituita da questo fatto.
Serie II. Tom. LUI. 37
290 >l-DO BOBBA 38
Questa illusione ha per effetto di dare l'apparenza dell'unità al multiplo, l'apparenza
di agire a ciò che solo registra. Sotto l'impero di questa illusione questo me cosciente,
che assorbe in se solo l'individualità di tutti i combattenti che si riflettono in lui,
assume la responsabilità degli atti ordinati dal più forte. Il me non giunge mai, cioè
il me dell'autore, che dopo gli atti commessi, ma egli rimane sempre là per riven-
dicarne la paternità. Tutta la serie dei sentimenti morali ha per origine una sosti-
tuzione di persone. Si vedono uscire, mascherati dall'inganno della personalità formata
dalla macchina per istituire il fenomeno preparato dalla distinzione di soggetto e
oggetto, dall'inganno in cui incappa la vanità della coscienza sempre pronta ad attri-
buirsi a se sola ciò che ha luogo sotto i suoi sguardi. Almeno qui l'autore confessa
che la coscienza ci attribuisce personalmente gli atti che avvengono in noi; è vero
che ciò chiama un inganno, ma rimane a vedere se l'ingannato sia lui o il genere
umano che nella sua generalità riconosce una legge che comanda agli uomini di far
certe cose e loro vieta di farne certe altre, ciò che sarebbe il colmo dell'assurdità
se non ritenesse l'uomo fornito di libero arbitrio.
L'autore continua. Libera, la persona umana, è responsabile; responsabile potrà
essere ricompensata o punita; sarà giusto che sia ricompensata o punita: proverà
rimorsi o soddisfazioni secondo che gli atti compiuti saranno in disaccordo o in
accordo, non cogli atti voluti dalle entità impulsive, che approva e favorisce l'entità
che apprezza, come cerca di far credere l'autore, ma colla legge morale. L'autore
aggiunge: l'entità che apprezza il più delle volte sarà la convenzione di bene o di
male stabilita dall'interesse sociale. No, la legge morale non si limita al solo inte-
resse sociale, a cui provvedono più o meno le leggi positive: la legge morale, la
legge del dovere è universale, abbraccia la società e l'individuo e ciò che è bene o
male morale per l'individuo lo è assolutamente pure per la società. " C'est ainsi „,
conchiude l'autore, " quo l'illusion de la liberto fait germer dans les esprits pris au
" traquenard de la conscience toute la mythologie monstrueuse de la morale „.Non
sappiamo da quale traquenard sia stato preso l'autore scrivendo il suo libro, ma sic-
come secondo lui vi ha sostituzione di persone, il traquenard in parola potrebbe benis-
simo essere una sostituzione di persona, e quindi saremo indotti a credere che il
libro che egli presenta come da lui scritto abbia per autore tutt'altro individuo, pro-
babilmente lo spirito che sempre nega (pagg. 178-179). All'ombra degli idoli di verità
e libertà, continua l'autore o il suo sostituito, si esaltano le idee del bene e del male,
e tra esse la concezione ironica della giustizia, che applicando ad ineguali misure eguali
consacra con solennità, sanziona e moltiplica l'ineguaglianza e l'ingiustizia, cioè a
quelli che hanno tutte le attitudini per vivere ed a quelli che hanno tutte le atti-
tudini per morire, come abbiamo veduto.
Se abbiamo ben compreso; secondo l'autore, vi dovrebbero essere due giustizie,
cioè una per quelli che hanno le attitudini per vivere ed un' altra per quelli che
hanno tutte le attitudini per morire, per non moltiplicare l'ineguaglianza e l'ingiustizia,
che sono le condizioni della vita fenomenale; ma egli dimentica di aver a pag. 143
scritto che gli uomini, come tutti i corpi naturali , fanno sempre ciò che debbono
fare, sebbene essi non lo credano. E ciò proviene da che alle vere cause che gli fanno
agire, necessariamente sostituiscono altri principii di atti " dont ils se mantiennent
" dupes „. Quindi se gli uomini tutti fanno quel che fanno perchè non possono fare
39 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE ., 291
altrimenti, costretti da necessità inesorabile, debbe sopprimersi ogni idea di giustizia
o di ingiustizia applicata ai loro atti.
Schopenhauer era rigorosamente logico scrivendo : " nel regno dell'uomo come
" nel regno animale, ciò che regna è la forza e non il diritto ; questo non è che la
" misura della potenza „. E Max Stiener: " che importa a me il diritto? non ne ho
" bisogno ; ciò che posso conquistare colla forza io lo posseggo e ne godo, e rinuncio
" a ciò di cui non posso impadronirmi „. Ciò, tradotto nel linguaggio dell'autore, si-
gnifica : voi che avete tutte le attitudini di vivere , è giusto che opprimiate quelli
che hanno tutte le attitudini di morire, e non datevi pensiero di un loro supposto
diritto, poiché il diritto è la forza, e se in un dato momento non potete opprimerli,
aspettate l'occasione propizia.
Ma l'autore ci prepara nuove sorprese che meritano di essere esaminate.
XI.
Che vi sia Dio o non vi sia, secondo l'autore è cosa che costituisce un interesse
mediocre per l'umanità. Già se il De Gaultier si limitasse a dire che per lui l'esi-
stenza o la non esistenza di Dio abbia un interesse mediocre, come non sarebbe il
primo e probabilmente nemmeno l'ultimo a dire ciò, non avremmo nulla a rispondere ;
ma chi potrà tollerare che egli si arroghi il diritto di parlare in nome della uma-
nità? Egli continua: ma che le idee di verità, di finalità, creatrici della idea di Dio,
direttrici dello sforzo, siano vane, che la libertà per cui l'uomo si crede capace di
giungere al suo destino non sia che una illusione, un errore di prospettiva, ecco ciò
che è un grave disastro (pag. 174). Ora -come provvedere un riparo a tale disastro ?
La scienza della conoscenza dimostrando l'impossibilità pell'uomo di dirigere la sua
attività gli svela l'illusione della sua libertà. In fatto l'uomo o agisce in forza di un
determinismo universale ed egli non è libero, o in forza di una spontaneità, che svi-
luppandosi gli impone i suoi modi di essere e gli atti la cui necessità gli sfugge
inesorabilmente, ma da cui dipende assolutamente, ed anche in questo caso non è
libero. Quindi la scienza della conoscenza conchiude rigorosamente al vuoto assoluto
del concetto di libertà morale. Una simile teoria comporta essa la possibilità di una
morale ?
Certamente, dice l'autoi'e, se per morale s'intende un insieme di modi di essere,
che determinati mediante una concezione particolare della esistenza, accompagnano
logicamente tale concezione. In questo senso la morale sarà un intellettualismo puro
e semplice. Per spiriti coscienti della impossibilità di concepire il mondo in verità o
di esercitare qualsiasi influenza sul suo svolgimento, il significato dell'universo non
è che uno spettacolo di cui gli intellettualisti sono spettatori e che considerano dal-
l'unico punto di veduta della sua visibilità. Essi quindi ai asterranno dal portare
giudizio sia in bene, sia in male, sopra cose e atti che non possono essere altrimenti
di quello che sono ; non si domanderanno mai che debbano fare e ciò che debbe fare
la società. Tutto al più potranno distrarsi dalla contemplazione pura e semplice; ma
come ciò sarebbe possibile se poco prima l'autore attorniava che tutte le cose come
tutti gli atti sono quel che sono e non possono essere altrimenti: gli spettatori pò-
292 AIDO BOBBA 40
trebberò distrarsi quasi fosse in loro balìa di fare altrimenti di quello che fanno ?
Che logica è questa?
Secondo l'autore, adunque, gli intellettualisti supponendo che siano stati spetta-
tori delle mostruose atrocità di Nerone e della abnegazione e carità di un Vincenzo
de Paoli, dovranno astenersi dal dire che quegli era un mostro di ferocia e questi
un prodigio di carità, perchè e questo e quello non potevano fare altrimenti di ciò
che fecero. Intanto gli intellettualisti distraendosi dalla contemplazione pura e sem-
plice, continua l'autore, potranno cercare con curiosità ciò che una società di uomini
posti in tali condizioni sarà costretta di fare. L'autore continua a beffarsi del suo
lettore, giacché cercare ciò che potrà essere una società, posto l'assoluto determinismo,
è il colmo dell'assurdo, poiché la ricerca presupporrebbe la possibilità che gli spet-
tatori potessero in qualche modo modificare l'andamento dello spettacolo, e questo
alla sua volta potesse modificarsi, il che sarebbe in piena contraddizione col deter-
minismo assoluto professato dall'autore.
Se poi si ammette, continua l'autore, che le cose si lascino vedere sotto il punto
di veduta della loro bellezza, cessando di considerarle dal punto di veduta della loro
utilità, del loro valore morale, perchè le due cose : l'utilità e il valore morale, sono
identici, il solo sentimento accessibile agli intellettualisti, che determinerà ancora in
essi il soggetto necessario ad ogni spettacolo, sarà un sentimento estetico. Anzitutto
si può domandare che cosa l'autore intenda per bellezza, utilità o valore morale nel
determinismo assoluto. Se in questo sistema non si può parlare di bene e di male,
così non si può parlare né di bello, né di brutto, né di utile, né di disutile o dan-
noso; giacché tali concetti nel determinismo assoluto implicano contraddizione. Quindi
il sentimento, come tutti gli atti degli intellettualisti sono quello che sono, e chia-
mare uno di questi atti sentimento estetico è burlarsi di chi legge.
L'autore è tanto persuaso della assurdità di questa morale estetica, da aggiun-
gere che essa non potrebbe prevalere, né essere l'appannaggio se non di piccolo nu-
mero, per la ragione che se si generalizzasse gli attori verrebbero a mancare e ces-
serebbe lo spettacolo, ciò che sarebbe contrario al voto che si presta alla vita. Ma
fortunatamente questo appetito di pura conoscenza non si manifesta che in alcuni
uomini e solo nell'ultimo stadio della loro evoluzione fenomenale, e in razze, in fa-
miglie, in individui prossimi ad estinguersi. Al contrario, gli individui destinati vivendo
a perpetuarsi per prolungare lo spettacolo, per quelli che sono presso ad estinguersi,
cioè gli intellettualisti, sono incapaci di ammettere le conclusioni della scienza della
conoscenza, cioè le conclusioni dell'autore, e noi confessiamo modestamente di essere
nel bel numero degli incapaci.
La confessione dell'autore che la sua morale estetica conviene solo a quelle razze,
famiglie, a quegli individui che sono presso ad estinguersi, ma non alla generalità
degli uomini, è veramente preziosa; imperocché l'assurdo può ben essere l'appan-
naggio di qualche mente squilibrata, ma non sarà mai l'appannaggio del genere umano
(pag. 174 a 177).
41 ESAMB STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KAXT A NIETZSCHE „
XII.
Appoggiato alla morale estetica conveniente solo agli spiriti dominati dall'ap-
petito della conoscenza pura, spiriti che sono presso ad estinguersi, l'autore intra-
prende l'esame delle dottrine morali venute dopo la Critica della Ragion intra, ben
inteso che questo esame è fatto da quegli spiriti che nella vita adempiono l'ufficio
del genio della conoscenza e che sono presso ad estinguersi. Tra questi sistemi, gli
uni, come il kantismo e il criticismo francese, senza contare i superstiti dell'antico
spiritualismo, indicano un ritorno puro e semplice alla petizione di principio della
Metafisica e Teologia. Gli altri, come il Positivismo in Francia e in Inghilterra, si
sforzano di trarre un principio di obbligazione dai soli dati sperimentali, sebbene pei
positivisti il vocabolo obbligazione abbia un senso meno rigoroso di quello che gli si
attribuisce nei sistemi metafisici.
Il genio della conoscenza, qui rappresentato dal De Gaultier, ha per ufficio di
criticarli tutti in quanto si danno per veri, perchè sono tutti egualmente falsi. Tra
i sistemi morali regressivi tiene il primo posto quello esposto da Kant nella Critica
della Ragion pratica e nei Fondamenti della Metafisica dei Costumi, nei Principii Me-
tafisici della Morale. A Kant, dice l'autore, bisogna opporre Kant stesso e bisogna
immolare il Kant della seconda critica al Kant della prima, e lo si deve immolare
senza riguardi in ragione della considerevole influenza esercitata sopra una numerosa
classe di spiriti, cioè di quelli che vogliono vivere, pel falso razionalismo da lui
restaurato, poiché nulla vi ha di più pernicioso di esso. Imperocché il kantismo in
morale è una religione e una religione in piena crisi di fermentazione. Esso attrae
a sé tutti quelli che continua ad angosciare l'inquietudine religiosa, ed è perciò che
Kant, solo tra i grandi uomini che novera l'epoca moderna, trovò grazia al tribunale
spirituale del Tolstoi.
L'autore loda Maurizio Barrès, il quale in un suo libro col titolo Les Déracinés
ha indicato la morale kanziana come un pericolo nazionale. Imperocché questa è un
pericolo per lo spirito, per lo stato generale d'intellettualismo fatto dalla Critica della
Ragion pura, fatta per fondarlo teoricamente e che ha raggiunto spontaneamente in
Francia, in virtù di un dono di chiarezza proprio della razza, la sua espressione pratica
più perfetta. Questo intellettualismo è anzitutto uno stato di disinteresse della credenza,
escludente ogni dottrina assoluta indicante una ripugnanza delicata verso tutto che
si richiama ad un principio, ad una presunzione di verità universale. Ora un fatto
simile suppone una razza pervenuta alla maturità dello spirito; e questo è il caso
della razza francese che, avendo compiuto, sotto la forma cattolica, la sua crisi di
pubertà religiosa verso i primi secoli della nostra èra, si mostrò in seguito refrat-
taria nella sua maggioranza ad appassionarsi di nuovo per interessi di tal fatta, e
non prova più il sentimento religioso che come un' attitudine di utilità trasmessa
dagli antenati.
Il Cattolicismo in Francia, sotto il suo aspetto autoritario, non esercita più sulle
coscienze che un' azione ristretta alle pratiche usuali, all'utilità sociale, all'attitudine
sentimentale e tradizionale propria alla razza. Quanto alla parte più numerosa della
294 -LDO BOBBA 42
nazione, del tutto liberata dalla credenza, non ritrae dalla decorazione religiosa in
mezzo alla quale si è svolta se non una etichetta e principii di condotta immediati,
da cui ciascuno è inclinato alle modalità più compatibili cogli interessi comuni.
Questo è uno dei tratti che gettano sullo spirito francese la luce più viva e ne indica
meglio la qualità, cioè il fatto di una religione che passò il tempo della sua fer-
mentazione. Per la rarità di questo privilegio, la razza francese è attualmente meglio
preparata a veder sorgere le modalità più intellettuali della vita, cioè gli stati sociali
in cui l'istinto della vita mostra rispetto alla conoscenza la tolleranza più larga e
sombra quasi conciliarsi con essa, esigendo per conservarsi un numero minore di
menzogne (pag. 179 a 181).
Lasciamo ai pensatori di Francia a giudicare se veramente la parte più nume-
rosa di essa si sia del tutto prosciolta dalla credenza e dalla decorazione religiosa
e ritenga etichetta e principii di condotta immediati, pei quali ciascuno è inclinato
alle modalità più compatibili cogli interessi comuni ; il che in altri termini signifi-
cherebbe che la maggioranza della nazione francese maschererebbe la sua incredulità
col manto della ipocrisia; solo osserviamo che prima l'autore affermava cha l'appe-
tito della conoscenza, cioè l'intellettualismo, che qui attribuisce alla maggioranza
della nazione francese " ne se manifeste chez quelques étres que vers les derniers
" stades de leur évolution phénoménale, chez des races, ou des familles, chez des
" individus proches de leur extinction ., (pag. 177); quindi l'elogio che egli fa dello
stato intellettuale di quella maggioranza dovrebbe considerarsi come il canto pre-
ventivo funebre di una razza che è " aux derniers stades de son évolution phéno-
" menale „, quindi " proche à son extinction „: e se questi sono i desiderii o i pro-
nostici dell'autore, non saranno certo i nostri, e possiamo affermare con sicurezz;
quelli della generosa e nobile nazione francese.
Se la maggioranza della Francia è nelle condizioni mentali descritte dall'autore,
comprendiamo che egli ritenga l'introduzione della morale di Kant in Francia un
grave pericolo, poiché, secondo lui, il kantismo si confonde col Cristianesimo, seb' ■
differiscano in quanto questo si appoggia alla rivelazione, quello sopra principii ra-
zionali, od almeno vi pretende; ma il vero è che l'imperativo categorico si confonde
perfettamente colla credenza ad una rivelazione naturale che è il dogma del prote-
stantesimo più libero. Del resto è ciò che hanno benissimo compreso i partigiani
della morale di Kant in Francia ed è così che il Renouvier concluse testé, per assi-
curare il trionfo delle sue idee, alla necessità di protestantizzare la Francia, e un
tale trionfo, aggiunge l'autore, segnerebbe presso di noi la decadenza della razza
autoctona a benefizio di una razza straniera, e quel che è peggio, sempre secondo
l'autore, farebbe perdere alla razza francese i vantaggi intellettuali descritti di sopra,
e sotto questo aspetto non solo un pericolo nazionale, ma in generale un pericolo
per lo spirito (cioè dello spirito dell'autore), giacché impedirebbe o ritarderebbe il
regno degli intellettualisti, la cui riuscita esige condizioni particolari e lunghi secoli
di preparazione. Quindi perchè non sia ritardato il trionfo della morale estetica del-
l'autore, egli vuol considerare senza indulgenza i dogmi kanziani della Ragion pratica.
In fatto Kant fonda la realtà delle sue idee metafisiche e teologiche sopra un'at-
tività mentale che denomina ragion pratica, la quale a priori significa alla volontà
umana un imperativo: tu devi. Da questo fatto Kant deduce tutte le idee metafisiche
-[-) RITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 295
ripudiate dalla Ragion pura. Imperocché un comando suppone in chi lo riceve la
libertà di obbedire o non obbedire. L'esistenza della libertà postulata dalla legge
morale è così assicurata. La libertà, scrive Kant, nei Fondamenti della Metafisica dei
costumi, debbe essere supposta come proprietà inerente alla volontà di ogni essere
ragionevole.
Ma la volontà dell'uomo, avvertita dall'imperativo della esistenza della legge mo-
rale, è d'altra parte sollecitata da motivi sensibili, il cui impero non le permettono
di adempiere intieramente e immediatamente gli ordini trasmessi dalla legge, di per-
venire al bene supremo. La santità, cioè la perfetta conformità alla legge morale,
non può essere raggiunta dall'uomo immerso nel mondo sensibile, che in un pro-
gresso all'infinito, il quale suppone l'esistenza e la personalità dello stesso essere
ragionevole prolungata pure all'infinito, cioè l'immortalità dell'anima.
L'esistenza poi di Dio è postulata dal fatto che una causa fornita d'intelligenza
e di volontà può essa sola associare nell'idea del bene supremo la felicità e la mo-
ralità. Kant per togliere ogni idea di Eudemonismo alla sua morale esige che l'uomo
compia la legge morale per se stessa indipendentemente da ogni desiderio di felicita.
Ma il bene supremo non sarebbe tale se non implicasse in un ideale di virtù, un
ideale di felicità; imperocché il fatto di un essere meritevole della felicità, se non
la conseguisse presenterebbe lo spettacolo di un difetto d'armonia incompatibile col-
l'idea stessa del bene supremo. Quindi è che la sintesi della moralità e della felicità,
pur non essendo in rapporto di causa ad effetto, esige l'intervento di un essere per-
fetto, di Dio. Kant, giunto a questo punto dello svolgimento del suo pensiero, riat-
tacca al Cristianesimo l'insieme delle idee metafisiche, e ricostituisce un sistema mo-
rale e teologico pari a quello che esisteva prima della Critica della Ragion pura.
Per l'autore della morale estetica, cioè della morale di quelli che stanno per
estinguersi, la morale di Kant " est le défi le plus méprisant qui ait jamais été porte
" par l'instinct vital (era tempo che tornasse a comparire questo taumaturgo, lasciato
" un po' in disparte dall'autore) à l'instinct de la connaissance : contraindre un esprit
" philosophique tei que celui de Kant à un si complet aveuglement, c'est du fait de
" l'instinct vital la marque de toute puissance la plus evidente et la plus dédaigneuse
" pour l'esprit. On voit là une sorte de chàtiment deshonorant infligé par le très-haut
" dispensatemi de l'illusion et de la vie au héros de la connaissance qui jusqu-là
0 avait divulgué par dessus tous les autres le moyen de l'illusion et de la vie. Kant
" se voit ici produit en exemple comme quelque Nabucodònosor, non de la puis-
" sance, mais de l'esprit, métamorphosé en l'antithèse la plus complète de l'esprit et
" expiant par l'humilité de son nouveau langage une lucidité dangereuse „ (pag. 188).
Dopo questo cappello galeato l'autore afferma che tutto il sistema teologico di
Kant riposa su questo unico fatto, l'esistenza di una legge morale unversale di un
imperativo categorico: egli considera l'esistenza di questa legge come un fatto dato
dalla ragion pratica a priori, un fatto a cui bisogna credere senza esame. L'autore
avrebbe dovuto notare che Cicerone molti secoli prima di Kant aveva non solo affer-
mato, ma anche dimostrato l'esistenza universale della legge morale che impone di
fare certe cose e vieta di farne certe altre: " Lex est ratio summa insita in natura.
" quae jubet ea, quae facienda sunt prohibetque contraria. Eadem ratio qua e est in
" hominis mente confirmata eonfecta, lex est , (De Legibus, 1°, C. VI, 18). " Est
296 LD0 bobba 44
" enim haec non scripta sed nata lex : quam non didicimus, accepimus, legimus, veruni
" ex natura ipsa arripuimus, hausimus, expressimus. ad quam non docti, sed facti;
" non instituti, sed imbuti sumus „ {Pro Milone, cap. IV, 10). Adunque Cicerone in-
segna esplicitamente, come Kant, che l'imperativo categorico è nella mente umana
a priori. Vediamo se prova puro che è universale : " Est quidem vera lex recta ratio
" naturae congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna, quae vocet ad officium
" jubendo, vetando a f rande deterreat huic legi nec abrogari fas est, neque dero-
* gari ex hac aliquid licet, neque tota abrogari potest; ne vero aut per Senatum
" aut per populum solvi hac lege possumus nec erit alia lex Romae, alia Athenis,
" alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes, et omni tempore una lex sempi-
" terna et im'mortalis continebit, unusque erit communis quasi magister et imperator
" omnium Deus legis hujus inventor, disceptator, lator cui qui non parebit ipse se
" fugiet, et naturae humanae aspernabitur „ (Cicerone presso Lattanzio, Divinis
Institutionibus, Iib. VI, capo 8. Conf. De Bepub.).
Secondo l'autore, la legge morale sarebbe una forma la quale non sarebbe rive-
lata come reale da niuna esperienza ed alla cui oggettività Kant esigerebbe che si
credesse. Ma se avvi fatto più accertato dalla esperienza è appunto l'esistenza di
leggi più o meno imperfette che impongono certi offici, vietano certi altri, presso
tutti i popoli, dai più colti ai più barbari. Avvi egli un legislatore che non abbia
posto per fondamento della sua legislazione la distinzione del bene e del male? " Hanc
" video sapientissimorum fuisse sententiam, legem neque hominum ingeniis excogi-
" tatam nec scituin aliquod populorum, sed aeternum quiddam quod universum mundum
" regeret imperandi prohibendique sapientia „ (Cicerone, De Legibus). L'autore con-
tinua: " l'artifice consiste donc à comprendre la croyance sous une des catégories
" de la raison, à prononcer le mot foi comme s'il devait s'épeler raison pratique „
(pag. 189). No, non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcun artifizio e tanto meno
computare il vocabolo fede per ragione pratica; ci basta di appellarci al fatto spe-
rimentale della esistenza di leggi presso tutti i popoli, per dimostrare che la legge
morale ha un valore obiettivo.
Non insisteremo nell'esame delle altre obbiezioni che l'autore muove contro la
Ragion pratica di Kant e lasciamo volentieri tale compito ai seguaci di lui.
Abbiamo già veduto come l'autore incolpi il Renouvier di proporre una teoria
morale, che se attecchisse in Francia, sarebbe una disgrazia nazionale; ma qui dob-
biamo aggiungere che, secondo l'autore, il Renouvier ha formulato un sistema che
non ammette neppure la discussione e che da se si pone pei suoi richiami alla cre-
denza fuori della scienza della conoscenza, ben inteso della scienza la quale proclama
che " les notions de Science et de Vérité s'excluent „, imperocché " la Science ne se
" propose jamais la Vérité pour objet „ (pag. 117). Esso, il Renouvier, a proposito
della Morale di Kant, coll'accento di Poliuto confessante il vero Dio, cosa così ingrata
all'orecchio filosofico, nota l'autore, dice: e ciò che vi ha di straordinario è che il
dogma metafisico si ricostituisce persino nella Crìtica della Ragion pura, opera di de-
molizione, e chela grande novità, il Criticismo affermatore, fa sì che in morale prenant
le pas sur la doctrine, la vraie critique appartieni à d'awtres ouvrages. Ed in nota:
" le conclusioni del Secrétan non sono in tutto differenti dalle nostre, perchè egli
" ammette almeno la preminenza della morale, e questo è il punto essenziale „.
45 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 297
Ma vi ha di peggio: il Renouvier concludendo la sua teoria intorno ai futuri
contingenti, cita queste parole di Aristotele: l'avvenire è realmente incerto in qualche
caso. Certamente non vi sarebbe più libertà, tutto sarebbe necessario, le delibera-
zioni degli uomini sarebbero vane, ciò che non è tollerabile. L'autore, il cui orecchio
non può sopportare che si pronunci il nome di Dio, pretende, senza addurre una sola
ragione, che Aristotele filosofava cosi ab irato da circa ventitre secoli. Ho detto male :
senza addurre una ragione; la ragione è l'intolleranza tipica dell'autore contro chi
formula una morale imperativa, cioè una morale che implichi obbligatorietà, invece
di adottare la morale estetica di quelli che stanno per morire (pagg, 205-206).
Con lievi differenze il Pillon, continua l'autore, conviene col Renouvier nel rite-
nere la supremazia della morale, nell 'accettare integralmente la Critica della Ragion
pratica, come si raggruppano al Renouvier ed al seguito del Tissot, il Lachelier, il
Dauriac, il Boutroux. pei quali la legge morale è rimasta vestigio teologico " le clo-
" cher choisi, en vertu de quelque pacte secrète de l'instinct (ecco il deus ex machina),
" comme but de toute course à travers les idées „. Sotto questa ultima categoria si
schierano al seguito di Cousin, Jouffroi, e del gruppo eclettico, Ravisson, Secrétan,
Janet, Frank, Caro, Giulio Simon, ed anche Vacherot, sebbene pretenda di proscio-
gliere la morale dalla dipendenza della religione e dalla metafisica ed appoggiarla
sulla sola psicologia.
Evidentemente i sistemi di tutti questi pensatori suppongono una legge morale
primitiva e la libertà, quindi " ils relèvent par là des critiques précédentes et témoi-
" gnent de cette régression philosophique dont Kant a donne l'exemple après la
Critique de la Raison pure (pag. 209 a 211). Secondo la teoria dell'autore questi pen-
satori appartengono alla categoria di quelli che vogliono vivere, quindi sono regres-
sivi; invece egli, che ha inventato la morale estetica, appartiene a quella delle razze,
degli individui che sono giunti allo stato d'intellettualismo proprio di quelli che sono
presso ad estinguersi, epperciò sono i progressisti.
XIII.
Condannati i filosofi regressisti francesi, l'autore passa ai filosofi che in Alle-
magna specularono sulle traccie di Kant, i quali però, come Hegel, Fichte e Schelling,
incarnarono il fenomeno nel noumeno. L'uno e l'altro si mescolano, si intrecciano,
mentre dal soggetto confuso coll'oggetto emerge l'assoluto. Con Hegel il fenomeno
non è più l'apparenza soggettiva determinata da Kant; esso è fornito di una esistenza
immediata necessariamente generata dallo sviluppo logico dell'idea. Fichte e Schelling
usano rispetto alle leggi critiche della stessa libertà e questi diversi sistemi non sono
che disegni prestati all'assoluto. Ma questi sistemi escludono dai loro elementi il
concetto di libertà, concetto che fu in ogni tempo il cemento delle ipotesi metafisiche,
non perchè tale concetto non sia rappresentato, ma perchè vi figura senza utilità e
in realtà non fa parte del sistema. In un sistema poi come quello di Hegel, in cui
si assegna al mondo uno sviluppo spontaneo, meccanico, si cercherebbe invano un
posto per la libertà, sebbene Hegel l'abbia introdotta perchè essa si trova in tutti
gli antichi edifizi teologici e lo spirito degli uomini vi si tiene attaccato ed anche
perchè implica la responsabilità e che il sentimento moderno come l'antico esigo
Serie II. Tomo LUI.
298 ROMUALDO BOBBA 46
cosifatta condizione per legittimare la morale. Ne può negarsi che Hegel non abbia
prodotto colla sua forma dialettica un procedimento propriissimo a sistematizzare nel
senso che una volta messo in gioco dall'intelligenza, opera da sé senza che l'autore
abbia bisogno di un nuovo sforzo originale del pensiero, sulla materia che gli fu
confidata. Cioè parallelismo del razionale e del reale, confusione dell'essere e del
pensiero nella idea che a volta a volta svolge i suoi modi per riassorbirli, movimento
dialettico della idea — tesi — antitesi — sintesi — per cui questo ingenera essa
stessa le sue forme successive, opponendosi, dividendosi per conciliarsi e unirsi in
una unità superiore, ecco secondo l'autore ìes rouages de eette dialectique.
Sotto la direzione di Hegel, secondo l'autore questo macchinismo ideologico pro-
dusse ne' suoi sviluppameli applicabili alla pratica il sistema politico di governo
assoluto, che fu l'ideale prussiano verso il 1828, epoca in cui Hegel distribuiva con
autorità sovrana il suo insegnamento a Berlino. L'Hegelianismo demoralizzato con
Carlo Marx e in modo generale con tutti i costruttori di futuri sistemi generò nume-
rose teorie sociali in cui fa mostra il più basso ottimismo ; imperocché, in grazia
della sintesi, se la vita lascia scoprire antagonismi, l'autore se ne gode e l'umanità
non ha che a rallegrarsi con lui dei conflitti da cui è travagliata, perchè l'antago-
nismo, mostrandoci che l' idea si svolge, che la vita guadagna in complessità, ci
annunzia soluzioni prossime e un ordinamento più perfetto. Se non che col Kantismo
della Ragion pratica, col criticismo di Renouvier, coi sistemi metafisici di Hegel,
Fichte, Schelling, colle diverse scuole spiritualistiche o teologiche già prima indicate
è esaurita la nomenclatura dei sistemi che dopo la Critica della Ragion pura conti-
nuarono a speculare fuori dei limiti e contro le leggi dello spirito; quindi l'autore,
che è il solo che le conosce e le osserva e soprattutto che dichiara le nozioni di
scienza e di verità escludersi, e che essa la scienza non si propone mai per oggetto
la verità (pag. 127) condanna e fulmina tutte queste dottrine (pag. 212 a 218).
Ma non dobbiamo dimenticare che in questo frattempo è nata la filosofia posi-
tiva; che Augusto Comte ha introdotta una nuova classificazione delle scienze, che
ha definito e limitato l'ufficio della scienza critica destinata a distruggere l'impero
della teologia e delle idee metafisiche, ma impotente a creare nuove forinole di vita;
che ha richiamato fortemente l'attenzione dei Francesi sul pericolo da cui è minac-
ciato lo spirito positivo del ristabilimento, contro le soluzioni della ragione e per un
interesse morale e politico, l'autorità delle antiche credenze. Non ostante tutti questi
meriti l'autore gli rimprovera il carattere religioso di cui rivestì le idee scientifiche,
la pretensione di risolvere con un nuovo dogmatismo fondato sulla presunzione di
finalità, il problema morale.
Però il positivismo in Francia, Inghilterra, Germania è la consacrazione pratica
immediata e logica delle deduzioni della Critica della Ragion pura. Ora la scienza
filosofica non comprendo più che due sezioni, l'una la critica della conoscenza; se non
che questa, essendo già stata fatta una volta per sempre, non presenta più materia
a filosofare, cioè all'infuori della scienza del fenomeno, quindi le due sezioni si riducono
ad una sola, cioè alla scienza del fenomeno.
Quindi le questioni di causa prima d'origine, di anima, di libertà sono categorie
relegate nel mondo dell'inconoscibile o del puro impossibile, ed ogni sforzo applicato
a tali questioni è oramai, sentenzia l'autore, condannato.
47 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE ., 299
I sistemi positivisti propriamente detti tuttavia non seppero sempre preservarsi
dalle avventure metafisiche, e queste penetrarono nella parte più vitale della specu-
lazione, cioè nella morale. La quale secondo Nietzsche non deve essere che un capi-
tolo della storia naturale. Ma parlandosi dell'uomo la maniera di studiarlo è più
complessa. Imperocché mentre le altre specie di animali sembrano ormai almeno per
la maggior parte fissate, la specie umana, dice l'autore, sembra ancora pe' suoi organi
più elevati, cervello e centri nervosi, in via di evoluzione, per esempio, diciamo noi,
la nuova specie dei superuomini. Ora mentre per questo fatto l'osservazione è resa
più difficile aumenta la tentazione di cercare quale sarà la direzione di questo movi-
mento progressivo, di determinare come si compierà; di qui a decidere ciò che gli
uomini debbono fare e a ristabilire l'idea del dovere, vi ha una connessione logica
a cui non resisterono le varie gradazioni dei positivisti. Essi vennero quindi a sosti-
tuire all'antica concezione d'un tipo morale propriamente detto sottoposto ad un
imperativo, la concezione di un tipo normale in armonia col senso della evoluzione.
Ma questa induzione implica non solo che il principio di finalità ha una virtù ogget-
tiva e si applica ad un universo in se ma ancora che il fine di esso è determinato
e conosciuto. La conoscenza di questo fine implica la nozione d'un Dio universale e
positivo, la selezione naturale alla sua volta assicura in un modo fatale il compi-
mento di esso fine, di guisa che la selezione perciò ha un carattere imperativo. D'altra
parte l'uomo avendo presa coscienza del fine dell'universo nell'umanità e della via
che conduce a tale scopo ha il dovere di assecondare la selezione naturale con un
intervento volontario o parallelo. La parte poi della umanità che apporta tale con-
corso pel fatto che si mostra in armonia colla tendenza dell'universo deve però se
non altro dirsi buona e virtuosa.
Ecco le conclusioni a cui giungono la maggior parte dei sistemi positivisti
secondo l'autore ; ma il male si è che col concetto di finalità si richiama l'idea di
un bene sommo, e la selezione artificiale fa l'ufficio di dovere. In altri termini, la
filosofìa positivista assegnando a tutta l'umanità e alla vita una finalità ultima e
determinata dogmatizza come la filosofia antica, usa del vecchio procedimento teo-
logico, consistente a trasformare in idea del vero per agire sulla immaginazione atti-
tudini di utilità particolari, di petizioni di temperamento individuale o etnico, rista-
bilendo cosi la nozione di un bene supremo e di una morale universale e crea una
menzogna. Essa consiste nel porre l'esistenza di una legge naturale, che dopo aver
determinato l'individuo alla realizzazione del suo bene proprio lo costringe in seguito
a realizzare il bene comune, di guisa che nel corso della evoluzione l'egoismo si
muta fatalmente in altruismo e l'armonia finale di tutte le felicità diviene lo scopo
della evoluzione. Quindi Augusto Comte non solo dice : ama il tuo prossimo come te
stesso, ma aggiunge: ama l'umanità più che te stesso; e il Littré non solo aderisce
a questa formola ma pronostica pure la necessità del regno finale della eguaglianza
e della giustizia, e lo stesso spirito pure tanto scientifico dello Spencer sottoscrive
a questi principii.
Ora, dice l'autore, se è permesso di esprimersi con mansuetudine rispetto alle
antiche idee metafisiche e forme religiose perchè esse sono ben morte (certo è da un
pezzo che sentiamo ripetere ciò), sebbene non siano che verbo praetereaque nihil e che
bisogna lasciare ai filosofi politicanti, speculanti sopra la lunga buaggine popolare
;-',n(l LDO BOBBA 4S
l'incarico facile e lucrativo di attaccare quelle rovine inoffensive (oh poveri filosofi
che non credendo ancora ben morte quelle forme religiose, cercate di distruggerle,
vedete come vi. tratta un vostro confratello, voi siete filosofi lucrativi!), non si po-
trebbe senza pusillanimità mantenere la stessa attitudine verso una idolatria nuova,
cioè la religione del progresso realizzante l'eguaglianza, la giustizia, la felicità uni-
versale, errore scientifico dei filosofi, che serve di testo nelle sue realizzazioni pra-
tiche alle più vili adulazioni prodigate al numero pel timore o l'astuzia di una
aristocrazia formata dal caso, inferiore alla sua fortuna. Una religione simile rappre-
senta l'ideale più umiliante che possa essere offerto all'umanità e a una sana demo-
crazia riche d'avenir et grosse d'une élite (pag. 218 a 227); e rispetto a questo ultimo
punto crediamo che l'autore abbia ragione.
Senza entrare in altri particolari della critica speciale che l'autore fa del Littré
e dello Spencer, sappiamo che egli loro attribuisce non meno che agli spiritualisti la
menzogna di porre l'esistenza di una legge naturale, che dopo aver determinato l'in-
dividuo a realizzare il suo bene proprio lo costringe in seguito con necessità a rea-
lizzare il bene comune, delitto capitale, secondo l'autore, poiché ponendo per fine
della vita la realizzazione d'una armonia di felicità, il regno della fraternità e giu-
stizia universale, essi poveri illusi, che non si sono ancora innalzati alla morale
estetica, non fanno altro se non che obbedire al loro atavismo cristiano (pag. 227).
Ora, dice l'autore, importa di far vedere per quale artificio l'antico malinteso
abbia avuto nascimento e in qual modo si sia formato il qui prò quo della morale
(pag. 233). Nessuno avendo fin qui data una vera spiegazione del qui prò quo della
morale, l'autore per sua bontà ci vuol fornire i lumi necessarii a tale spiegazione,
ed ecco come. La morale sociale è la forinola di un temperamento che -fu prevalente:
il principio di questa morale ed il suo titolo legittimo deve cercarsi in individui, i
quali generalmente, in un'epoca preistorica, realizzarono spontaneamente le attitudini
più proprie per assicurare all'organismo che si cerca e si inventa (già ad un orga-
nismo che sta cercandosi e inventandosi) la potenza maggiore. Mediante l'adatta-
mento di un mezzo ad un fine secondo la linea più corta, proveniente da una legge
dell'incosciente o dal caso, essi individui riuscirono a realizzare un tipo etnico, a
creare ad una razza il suo destino. La codificazione della morale e la sua promul-
gazione non caratterizzano adunque il periodo della forza e della più alta sanità di
un gruppo d'uomini, poiché gli uomini di questo periodo perfetto non abbisognavano
ne di metodo, ne di morale, come quelli che compievano naturalmente le gesta che
loro meglio convenivano, che loro procuravano la potenza maggiore. L'autore qui
finge di dimenticare che nel suo sistema tutti gli atti dell'uomo sono fatalmente
necessitati, quindi parlare di gesta che meglio convenivano a quegli individui per
procurarsi la maggior potenza è supporre che essi fossero liberi nella scelta, il che
è assurdo nel suo sistema. E l'equivoco continua: poiché gli uomini del periodo
seguente cominciano ad imitare le loro maniere di essere perchè queste loro procu-
rano la potenza, perchè sono le più proprie per coordinare le loro attività, e riunirle
in un fascio.
A quest'epoca appare il legislatore: è utile notare che altrove il legislatore ci
era dall'autore presentato come una produzione istantanea del famigerato istinto
vitale, nemico irreconciliabile dell'istinto di conoscenza, mentre qui è tutt'altra cosa
49 ESAME STOKICO CRITICO DELL'OPERA " DA KAKI A NIEU'ZSI 301
In fatto, secondo l'autore: " C'est à cotte epoque qu'apparait le législateur ou sacer-
" dote, c'est ici et à la suite de son intervention qu'il faut situer cette substitution
" de conséquence à principe qui aveugle par la suite les hommes et marque la genèse
" historique de toute morale „. Perocché il legislatore, che è un prodotto dell'istinto
vitale nemico della conoscenza, raccoglie nei modelli che ha ancora presenti allo
spirito ciò che in essi era attitudine di utilità, cioè era mezzo per la potenza. Egli
il nemico della conoscenza, non dà queste attitudini di utilità semplicemente per quel
che sono, ma per accrescere la loro forza e consacrarne il prestigio, perchè ritengano,
la razza sul pendìo della decadenza, quando questa avrà perduto i suoi istinti (ad
esempio quando i lupi sul pendìo della decadenza perdendo i loro istinti stanno per
diventare agnelli), egli il legislatore ne fa dei comandamenti, loro assegna un'origine
divina e li impone alla credulità mediante timori e promesse, castighi e ricompense
immediate e future. Così queste regole che non traggono il loro valore se non perchè
stereotipate sulle modalità di una attività, come le classificazioni di bene e di male,
non rappresentano altro se non gli scopi particolari ricercati o evitati da quella
attività, cioè da una attività che realizza le attitudini più proprie ad assicurare
all'organismo che si cerca e si inventa la maggior potenza, queste regole e il loro
apprezzamento dalle attività susseguenti a cui vengono proposte, sono collocate in
una regione anteriore ad ogni attività, in una regione sopra terrestre, che viene
inventata dal legislatore nemico della conoscenza, regione che a volta a volta era
la divinità o la ragione. Ed ecco come il bene ed il male ritirato dall'incatenamento
fenomenale sono convertiti in quegli idoli razionali che hanno preso il posto delle
antiche idee teologiche. Le sorti delle morali sono dunque legate alla fortuna delle
attività che loro servirono di modello, e tra queste le più forti che riuscirono a
vivere, a durare, a imporre le loro modalità divennero in seguito il bene, epperciò
esso è una forma antica della forza; essa sola decide del bene. Laonde il concetto
del bene è interiore a quello di forza, la quale come anteriore trasmette al bene
l'eredità della sua nobiltà, il titolo che seppe acquistare. Tali sono le conclusioni che
pronuncia dogmaticamente l'autore; bisogna accettarle, quando, come fece egli, si
seppe innalzare gli sguardi sopra la nebbia metafisica, sebbene esse siano contrarie
alla sentimentalità razionalistica attualmente in onore (pag. 239 a 241).
Adunque gli uomini del periodo preistorico non avendo bisogno di morale né di
metodo compivano naturalmente le gesta che loro procuravano la maggior potenza.
Invece gli uomini del periodo seguente cominciano ad imitare quelle gesta perchè
loro procurano la maggior potenza, perchè più proprii a coordinare le loro attività
in un fascio. A questo punto appare il legislatore o il sacerdote il quale sostituisce
la conseguenza al principio. Sostituzione che in seguito accieca gli uomini e indica
la genesi storica di ogni morale, cioè converte le attitudini che erano mezzi per con-
seguire la potenza in comandamenti, a cui assegna un'origine divina e li impone alla
credulità degli altri uomini col timore e le promesse, coi castighi e le ricompense,
e così il bene ed il male prosciolti dall'incatenamento fenomenale si convertono in
idoli razionali che prendono il posto degli antichi idoli teologici.
Ma altrove l'autore pensava altrimenti scrivendo: all'origine di ogni popolo che
si fonda appare un grand'uomo ed è in lui che l'istinto della razza prende migliore
coscienza rispetto ai suoi bisogni e necessità vitali : esso in nome dell'istinto vitale
102 ROMUALDO BOBBA 50
e di felicità forinola un'igiene fisica e morale, codifica le misure proprie a regolare
le attitudini, a determinare gli atti in vista di assicurare la forza, la durata, la
potenza del gruppo. Per assicurare poi l'osservanza di tali precetti loro dà il carat-
tere di leggi esteriori, sanzionandole con un sistema di pene e ricompense immediate,
inoltre istituisce finzioni ricche di promesse e minacce per agire mediante immagini
sullo spirito dell'uomo, ed è cosi che l'istinto vitale nella pienezza della sua forza,
ma prevedendo il suo indebolimento, investisce la menzogna conservatrice di autorità
sovrana (pag. 21). Né basta: questo taumaturgo istinto vitale nemico irreconciliabile
della conoscenza ordina colle morali l'insieme delle maniere di essere che gli sono
favorevoli, e per fortificare l'impero delle morali inventa paradisi, fonda teogonie,
religioni, una filosofia elementare implicante una concezione più o meno netta della
persona umana, della sua destinazione, del mondo e del suo principio (Ibid., 22).
Ora è lecito domandare quale delle due origini della morale o delle morali dob-
biamo secondo l'autore ritenere, essendo contraddittorie, poiché nel primo caso l'au-
tore ci avverte che il legislatore o sacerdote colla impudenza di un sofista, sostituisce
la conseguenza al principio, la quale in seguito acceca gli uomini e segna la genesi
storica di ogni morale (pag. 240), mentre nel secondo il legislatore o sacerdote in
nome dell'istinto vitale forinola un'igiene fisica e morale... Ordina colle morali l'in-
sieme delle maniere di essere che gli sono favorevoli e per fortificare l'impero delle
morali inventa paradisi e tante altre belle cose ex poni suo senza sostituire conse-
guenze di sorta al principio. Oltre la flagrante contraddizione vi ha ancora qualche
cosa di più straordinario. Nelle due supposizioni si dice che il legislatore o il sacer-
dote impone comandamenti che debbono essere osservati dalla razza o dal gruppo
di uomini a cui sono diretti ; un comando suppone necessariamente che sia in potere
del comandato di eseguirlo, e se il legislatore li accompagna con promesse di premi
e ricompense per chi li osserva, e con minacce di pene e castighi per chi non li
adempie, suppone necessariamente che sia in potere dell'uomo di eseguirli o non ese-
guirli a suo grado, cioè che l'uomo sia veramente libero da ogni necessità estrinseca
ed intrinseca, altrimenti ogni comando come ogni proibizione sarebbe assurda.
Ora ecco ciò che insegna non dubitativamente ma dogmaticamente l'autore al
riguardo: " Les hoinmes comme tous les autres corps naturels font toujours ce qu'il
" doivent faire. Mais ils ne le croient pas. Aux causes véritables qui les font agir avec
" necessitò ils substituent d'autres principes dont ils se montreut dupes. C'est de la
" sorte qu'ils se disent libres „ (pag. 144). Adunque se tutti gli atti dell'uomo sono
necessarii, fatalmente determinati, come può l'autore parlare di attitudini che pro-
curano la maggior potenza e di attitudini che non la procurano, di attitudini che i
legislatori trasformano in comandi o proibizioni, e di tante altre cose che nel fata-
lismo assoluto quale è professato da lui non hanno senso. In tale dottrina parlare
di bene e di male, di moralità o di immoralità è beffarsi del lettore, giacché se
l'uomo fa ciò che fa perchè è quello che è, cioè opera necessariamente, non si può
né comandargli né vietargli cosa alcuna, e pretendere che l' istinto vitale mediante
un legislatore comandi o proibisca alcunché è una assurdità la più assurda.
51 ESAME STORICO CBITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE _
XIV.
L'autore, come se ciò che disse rispetto all'origine della morale fosse oro di cop-
pella, continua: non possiamo tuttavia passare sotto silenzio il contributo portato da
Carlyle alla nuova soluzione del problema e il suo ufficio di precursore. Egli, il Carlyle,
va a cercare il fatto morale là ove è rinchiuso, come il minerale nella rocca della
montagna, e questo è un fatto considerevole all'uscita dalla metafisica. Egli, alla
questione chi ha creato la morale? risponde: l'istinto dell'uomo. Ecco la grande sco-
perta, ecco trovato il minerale nella rocca della montagna e sopratutto senza fare
escavazioni. In fatto con due parole egli, il Carlyle, secondo l'autore, ristabilisce il
vero rapporto intervertito dalla teologia, dissipa il qui prò quo: poiché ha nettamente
coscienza che il fatto morale consiste in un principio di coordinazione distribuente
secondo una gerarchia gli elementi della attività in modo da fare ad un uomo o ad
un gruppo d'uomini il loro destino. Ecco cosa a cui io non ho mai pensato, cioè che
il Carlyle abbia fatto il mio destino, e dubitiamo fortemente che altri creda ciò
eccetto l'autore. Il quale picchiando nella rocca scopre che il principio direttore
non è più il Carlyle che lo trova, ma appare all' infuori dell'intervento dell'uomo,
ed è un primo movimento dell'incosciente, esce dalla natura dell'incognito. Laonde,
secondo l'autore, dell'incosciente dell'inconoscibile noi sappiamo appunto perchè
inconoscibile molte cose, ad esempio che egli ha una natura, in secondo luogo
che da questa natura erompe un primo movimento, in terzo luogo sappiamo che
prima che l'inconoscibile producesse il primo movimento doveva essere necessaria-
mente immobile. Ciascun vede quindi che quando l'autore parla dell'inconoscibile,
si deve intendere che esso è inconoscibile per noi che non ci siamo elevati allo stato
d'intellettualismo a cui sono giunti quelli che sono presso ad estinguersi, ma per
questi l'inconoscibile è conosciutismo.
Questo principio direttore erompente come primo movimento dall'inconoscibile
secondo l'autore si converte in un istinto, esercita una coercizione sopra di se e cosi
manifesta il primo atto della sua autorità, impone il silenzio a chi, l'autore non lo
dice, probabilmente a sé stesso, e ciò che è più notevole impone il silenzio prima
di proferire comandi, cioè, siccome imporre il silenzio è comandare così egli l'istinto
comanda ossia non comanda. Ed è perciò che all'origine della morale individuale,
come della morale sociale, si trova un fatto di dominazione, ossia nei due casi vi ha
il trionfo di una forza che impone i suoi modi di essere vuoi ad un gruppo di centri
nervosi vuoi ad un gruppo d'uomini. Adunque primamente dall'inconoscibile erompe
un primo movimento il quale è un principio direttore, che si converte in un istinto
il quale comandando cioè non comandando esercita una coercizione sopra di sé eser-
citando il suo primo atto di autorità, e poi questo istinto diventa un fatto di domi-
nazione che si trova all'origine di ogni morale, in fine il fatto di dominazione si
converte in una forza che impone i suoi modi di essere ad un gruppo di centri ner-
vosi o ad un gruppo d'uomini. L'autore dice che questa concezione dell'origine della
morale scoppia in Carlyle da molti luoghi: così egli ammira " chez les anciens Norses
" cette sauvage course et bataille de mer durant tant de géne'rations „; perchè era
304 ROMUALDO BOBBA 52
d'uopo di accertare quale fosse la più forte specie di uomini che doveva comandare
e a chi? Io dico, è Carlyle che parla, talvolta che tutto procede per sfida di guerra
in questo mondo, che la forza ben compresa è la misura di ogni merito. Date al
tempo una cosa, se essa prospera è una buona cosa (Gli Eroi).
Tuttavia a lato di questa attitudine puramente intellettuale Carlyle, secondo
l'autore, non seppe sottrarsi intieramente all'influenza dell'ambiente, e perciò non
nasse tutte le conseguenze contenute nel suo principio. Laonde Edmondo Barthelmy
(Thomas Carlyle, pag. 197) scrive che il tratto caratteristico della concezione di Carlyle
• — sentimento della identità della Forza col Diritto, del Valore morale colla Intel-
ligenza. — Ma il De Gaultier trova che identità non è abbastanza. Imperocché alla
teologia metafisica, che formola con Kant il primato della morale, bisogna opporre
senza ambagi la forza, attesoché avvi apparente identità tra la forza e il bene finche
4t1.Ha rimane stazionaria, non più quando essa si svolge. Quindi l'identità ammessa
da Carlyle tra l'idea di bene e di forza, invece di proclamare l'anteriorità e la supre-
mazia della forza, è una prima concessione all'antica morale. Inoltre l'idea del dovere
sembra implicata nella massima da cui erompe una presunzione di finalità: l'uomo
primieramente si mette in relazione colla natura e le sue potenze, le ammira e le
adora; in seguito discerne che ogni potenza è morale, che per lui il gran punto è
la distinzione del bene e del male, del tu devi e del tu non devi. Tutto che è retto
è implicato nel fatto di cooperare colla reale tendenza del mondo, e per questo fatto
tu riuscirai (la tendenza del mondo riuscirà), tu sei buono e nel retto cammino (Gli
Eroi, p. 49). Secondo l'autore la difficoltà sta nel decidere in quali limiti devono
essere trasportate le parole adoperate da Carlyle per essere ridotte ad esprimere il
suo vero pensiero, per sapere se egli fu o non fu ingannato dal miraggio della sua
coscienza: ben inteso si tratta della distinzione per Carlyle del bene e del male, del
tu devi e del tu non devi. Ma l'autore nota che alcuni apprezzamenti emessi da
Carlyle negli Eroi e nel Sartoreswrtus dimostrano che egli mira ad un mondo di
fatalità pura in cui la morale non ha accesso: sarebbe più saggio, pronuncia Teu-
felsdroeckh, sottomettersi all'inevitabile, all'inesorabile, e riguardare anzi questo come
il migliore (Sartoressartus, pag. 277). Quindi se si tiene conto di questa concezione
di un fato inesorabile, sembra che debbansi interpretare come immagini e apparenze
le parole dovere, bene, male, le quali all'infuori di una teologia sono inconciliabili
col fatalismo: è verosimile, aggiunge l'autore, che Carlyle riponesse la libertà là
dove la fatalità della sua natura lo dominava colla più inflessibile violenza, in quel
potere di sforzarsi, sviluppato in lui con intensità, potere dato come tutto il resto,
di cui non era responsabile, ina del quale potè dimenticare l'ufficio puramente rap-
presentativo, di guisa che l'illusione della libertà colle sue conseguenze morali che
ne derivano per lui rimase attaccata a quel potere. L'autore conchiude che pur ren-
dendo la giustizia che è dovuta a Carlyle, cioè che fu un precursore del Nietzsche,
non seppe tuttavia dedurre dalla sua concezione tutte le conseguenze, poiché invece
di proclamare l'identità dell'idea del Bene e della Forza, doveva invece affermare
assolutamente l'anteriorità e la supremazia della Forza. Così anche il Carlyle non ha
saputo elevarsi allo stato d'intellettualismo voluto dalla morale estetica dell'autore.
53 ESAME STORICO CRITICO DELL'OPERA " DA KANT A NIETZSCHE „ 505
XV.
Nello scrivere questa recensione ci siamo più volte chiesto se veramente meri-
tava la pena di consacrare al libro del De Gaultier un così lungo e faticoso studio,
e ci parve di poter rispondere che il far conoscere le teorie di un autore il quale
ci si presenta come il paraninfo della filosofia di Nietzsche, la filosofia dei superuo-
mini, e che, come abbiamo veduto, si dimostra così versato nella storia della filosofia,
specialmente anteriore alla Critica della Ragion pura, potesse ottenere il suffragio dei
cultori di quella.
Noi per principio ammettiamo la più grande libertà nel filosofare ; ma crediamo
che la critica delle opinioni di coloro che dissentono dalle nostre teorie debba essere
condotta con quella urbanità che non si scompagna mai da chi cerca spassionata-
mente il vero. Ora leggendo il De Gaultier e tenendo conto della acerbità con cui
giudica le opinioni filosofiche e i filosofanti che non condividono le sue teorie ci
siamo troppo spesso trovati nel caso difficile " d'éviter l'apparence de quelque gros-
" sièreté en acceptant la tàche trop aise'e de montrer l'incohe'rence d'un tei système
" de chimères (cioè di quello dell'autore), et le bon sens paraìt ici défaut de tact „
(pag. 39), parole che esprimono pienamente l'impressione che riceve chi legge seria-
mente il suo libro. In fatto che cosa si può pensare di uno scrittore che dopo aver
condannato tutti i sistemi che pongono a base della morale il dovere si propone
seriamente una morale che è un intellettualismo puro e semplice, consistente in uno
spettacolo di cui gli intellettualisti sono gli spettatori, che si astengono dal portare
giudizi di bene o di male delle cose e degli atti che non possono essere altrimenti
di quel che sono, che non si domandano mai ciò che devono fare e ciò che la società
deve fare... Che questa morale estetica veramente non potrebbe prevalere, non essere
che l'appannaggio di un piccolo numero, perchè se si generalizzasse verrebbero a man-
care gli attori e lo spettacolo cesserebbe. Se non che sappiamo che l'autore ha pre-
mura di aggiungere che un tale appetito di conoscenza pura non si manifesta in alcuni
esseri se non " vers les derniers stades de leur évolution phénoménale, chez des
8 races, et des familles, chez des individus proches de leur extinction , (pag. 176-177).
Il che ci assicura che la morale estetica degli intellettualisti, tra cui certo primeggia
l'autore, non sarà mai la morale degli uomini assennati.
Serie II. Tom. LUI. 39
V° Si stampi:
Enrico D'Ovidio, Presidente.
Lorenzo Camerano
Segretario della Gasse di Scienze fisiche, matematiche e naturali.
Rodolfo Renier
Segretario della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche.
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