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Full text of "Memorie della Reale accademia delle scienze di Torino"

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REALE  ACCADEMIA  DELLE  SCIENZE 

DI   TOEINO 


MEMORIE 


REALE   ACCADEMIA 


DELLE    SCIENZE 


DI    TORINO 


SERIE     SECONDA 

Tomo  LUI 


TORINO 
CARLO     CLAUSEN 

Libraio  della  R.  Accademia  delle  Scienze 
1903 


PROPRIETÀ     LETTERARIA 


Torino  —  Vincenzo  Bona,  Tipografo  di  S.  M.  e  Reali  Principi 

e  della  Beale  Accademia  delle  Scienze. 


i 


SCIENZE 

FISICHE,  MATEMATICHE  E  NATURALI 


INDICE 


CLASSE  DI  SCIENZE  FISICHE,  MATEMATICHE 
E  NATURALI 

Contribuzioni  alla  Ornitologia  delle  Isole  del  Golfo  di  Guinea;  Parte  I:   Uccelli 

dell'Isola  del  Principe;  del  Socio  Tommaso  Salvadori    .         .         .      Pag.      1 

Id.     Id.     Parte  II:   Uccelli  di  San   Thomé „        17 

Effetti  della  dispersione  e  della  reattanza    nel   funzionamento   dei  trasformatori. 

Metodi  di  misura  ed  applicazioni;  Memoria  del  Socio  Guido  Grassi  „  47 
Alcuni  sistemi  diottrici  speciali  ed  una  nuova  forma    di    teleobbiettivo;  Memoria 

del  Socio   Nicodemo  Jadanza  .         .         .         .         .         .         .         ,72 

Alfonso  Cossa;  Commemorazione  letta  dal  Socio  Icilio  Guareschi  .  .  „  79 
Contribuzioni  alla  Ornitologia  delle  Isole  del  Golfo  di  Guinea;  Parte  III:   Uccelli 

di  Anno-Boni  e  di  Fernando  Po;  del  Socio  Tommaso  Salvadori  .  „  93 
Teoria  elettromagnetica  dell'emissione  della  luce;  Memoria  di  Antonio  Garbasso  „  127 
Canali  venosi  emissari  temporali  squamosi  e  petrosquamosi;  Ricerche,  morfologiche 

dei  Dottori  Alfonso  Bovero  e  Umberto  Calamida  .  •-,  .  .  ,,159 
Sui  gruppi  di  trasformazioni  geodetiche;  Memoria  di  Guido  Fubini  .  .  „  261 
Echinidi  della  scaglia  cretacea  veneta;  Memoria  del  Dott.  Carlo  Airaghi'£ .-'<:„  315 
/  Funghi  Ipogei  italiani  raccolti  da  0.  Beccari,  L.  Caldesi,  A.  Carestia,  V.  Cesati, 

P.  A.  Saccardo;  illustrati  dal  Socio  Oreste  Mattirolo  .  .  .  „  331 
La  fisiologia  dell'apnea  studiata  nell'uomo;  Memoria  del  Socio  Angelo  Mosso  n  367 
L'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo;  Memoria  del 

Socio  Angelo  Mosso „     387 

I  movimenti  respiratori  del  torace  e  del  diaframma  ;  Ricerche  del  Socio  Angelo 

Mosso „     397 


CONTRIB  UZIONI 


ORNITOLOGIA  DELLE  ISOLE  DEL  GOLFO  DI  GUINEA 


i. 

UCCELLI  DELL'ISOLA  DEL  PRINCIPE 

PER 

TOMMASO    SALVADORI 


Approvata  nell'Adunanza  del  14  Dicembre  1902. 


Le  isole  principali  del  Golfo  di  Guinea  sono  quattro:  Fernando  Po,  l'Isola  del 
Principe,  S.  Thomé  ed  Anno-bom;  esse  sono  disposte  in  una  serie  lineare  ed  emer- 
sero probabilmente  per  una  contemporanea  azione  vulcanica,  procedente  dai  monti 
Cameroon  verso  Sud-Ovest  nell'Oceano  Atlantico. 

Queste  isole  sono  state  visitate  recentemente  dal  Sig.  Leonardo  Fea,  il  quale 
vi  si  è  recato  per  ricerche  zoologiche  e  le  collezioni  da  lui  fatte  mi  hanno  dato  l'oc- 
casione per  uno  studio  intorno  alla  Ornitologia  di  dette  isole,  che  mi  propongo  di 
pubblicare  in  tre  diverse  parti,  cominciando  dall'Isola  del  Principe.  Questa  isola  è 
molto  piccola  ed  è  situata  alquanto  a  Nord  dell'Equatore  fra  l'Isola  di  S.  Thomé  e 
quella  di  Fernando  Po. 

Qualche  notizia  intorno  alla  sua  fauna  si  trova  nelle  opere  di  Lopez  de  Lima 
e  dell'Erman,  ma  secondo  il  Dohrn  (P.  Z.  S.  1866,  pp.  331,  332)  esse  non  sono  molto 
attendibili.  Il  primo  scrisse  un  libro  intorno  alla  statistica  di  San  Thomé  e  dell'Isola 
del  Principe,  e  dette  brevi  cenni  intorno  alla  Storia  Naturale  delle  due  isole,  senza 
averle  visitate  ;  l'Erman  poi  ricevette  da  un  brasiliano  alcune  pelli  di  uccelli  del 
Principe  insieme  con  altre  di  Bissao,  ma  indicò  come  di  Bissao  quelle  del  Principe  e 
viceversa. 

Prima  del  1866  le  notizie  intorno  all'Ornitologia  dell'Isola  del  Principe  si  ridu- 
cevano a  pochissima  cosa  ed  erano  al  tutto  frammentarie;  inoltre  parecchie  specie 
proprie  di  quell'isola  furono  descritte  di  località  ignote,    o    diverse   dalla  vera. 

La  prima  specie  conosciuta,  che  ora  sappiamo  essere  propria  dell'Isola  del  Prin- 
cipe, è  il  Lamprocolius  ignitus  (Nordm.)  descritto  nel  1835  come  proprio  dell'Africa 
occidentale ,  e  che  forse  è  da  identificarsi  col  Choucador  di  Le  Vaillant  (=  Sturnus 
ornatus,  Daud.)  e  col  Lamprotornis  vigor  si,  Blackwall,  descritto  nel  1831. 

Nel  1849  fu  descritto  il  Dicrurus  modestus,  Hartl.  dell'Isola  del  Principe,  insieme 
con  altre  specie  di  S.  Thomé. 

.Hfrtk  II.   Tom.   LUI.  * 


Z  TOMMASO    SALVADORI 

Nel  1850  il  Bonaparte  descrisse  il  Symplectes  princeps  sopra  esemplari  del  Museo 
di  Parigi. 

Nello  stesso  anno  l'Hartlaub  pubblicava  un  lavoro,  ripubblicato  poi  nel  1852, 
intorno  alla  Ornitologia  della  costa  e  delle  isole  dell'Africa  occidentale,  nel  quale 
menzionò  soltanto  4  specie  dell'Isola  del  Principe  (Dicrurus  modestus,  Lamprotornis 
ignita,  Spermestes  cuculiata  ed  Halcyon  torquata). 

L'anno  appresso,  nel  1851,  i  fratelli  Jules  ed  Edouard  Verreaux  descrissero  la 
Columba  Màlherbei,  indicandola  erroneamente  del  Gabon. 

Nel  1854  la  specie  che  l'Hartlaub  aveva  attribuita  M'Halcyon  torquata  fu  da  lui 
riconosciuta  distinta  col  nome  di  Halcyon  dryas. 

Poscia  nel  1857  l'Hartlaub  descriveva  la  Nectarinia  Hartlaubi  Verr.  e  la  Parinia 
leucophaea,  la  prima  come  proveniente  d'Angola  e  la  seconda  del  Gabon. 

Finalmente  nel  1862  G.  R.  Gray  descriveva  il  Ligurinus  rufobrunneus  senza  pre- 
cisa indicazione  della  località. 

Con  questa  pubblicazione  del  Gray  terminò  il  periodo  primo,  o  frammentario 
della  Ornitologia  dell'Isola  dèi  Principe,  e  "nel  1866,  per  opera  del  Dolirn  e  del  Keu- 
lemans,  furono  pubblicati  due  lavori  che  riassumevano  ed  accrescevano  le  nostre 
cognizioni  intorno  alla  Ornitologia  di  quell'isola. 

Il  primo,  recatosi  nell'isola  per  ricerche  zoologiche,  dopo  esservi  rimasto  per  sei 
mesi,  dall'aprile  al  settembre  1865,  e  fattevi  sufficienti  raccolte,  pubblicò  i  resultati 
ottenuti,  annoverando  34  specie  di  uccelli,  delle  quali  sei  vennero  denominate  e 
descritte  dall' Hartlaub:  Cotyle  eques  (=  C.  cincia),  Cuphopterus  Dolimi,  Zosterops 
ficedulina ,  Buserinus  rufilatus  (—  Ligurinus  rufobrunneus) ,  Columba  chlorophaea 
(■=.  C.  màlherbei)  e  Peristera  principalis. 

Il  Dohrn  fece  notare  che  i!  Neophron  pileatus  menzionato  dal  Lopez  de  Lima 
come  abitante  l'Isola  del  Principe,  e  quattro  specie  menzionate  dall'  Erman  (Necta- 
rinia splendida,  N.  senegalensis,  Lamprotornis  aeneus  e  Pogonias  vieilloti)  pure  come 
abitanti  detta  isola,  non  vi  si  trovano. 

Il  Keulemans,  che  accompagnò  il  Dohrn  nella  qualità  di  preparatore,  pubblicò 
pure  nel  1866  un  lavoro  intorno  agli  uccelli  dell'Isola  del  Principe,  contenente  nume- 
rose note  intorno  ai  loro  costumi,  e  che  si  riferiscono  a  circa  40  specie. 

Nel  1880  il  Barboza  du  Bocage,  in  un  breve  lavoro  intorno  ad  alcuni  uccelli  di 
Bolama  e  dell'Isola  del  Principe,  annoverò  cinque  specie  già  note  di  questa  località. 

Finalmente  nel  1887  il  De  Sousa  pubblicò  pure  una  breve  nota  intorno  a  cinque 
specie  dell'Isola  del  Principe,  raccolte  da  F.  Newton,  una  delle  quali,  la  Ceryle  rudis, 
nuova  per  l'isola;  egli  fece  contemporaneamente  l'enumerazione  delle  specie  menzio- 
nate dal  Dohrn  e  dal  Keulemans. 

Il  Fea,  recatosi  da  S.  Thomé  all'Isola  del  Principe  col  proposito  di  farvi  colle- 
zioni zoologiche,  per  causa  di  molte  circostanze  avverse,  non  riuscì  a  mettere  insieme 
altro  che  una  piccola  collezione  di  41  esemplari,  appartenenti  a  16  specie,  delle  quali 
una  non  ancora  descritta,  il  Turdus  xanthorhynchus ,  ed  un'altra,  la  Phoeniconaius 
minor,  nuova  per  l'isola. 

Tra  i  resultati  più  importanti  dello  studio  della  collezione  del  Fea  è  da  segna- 
lare la  non  identità  dell' Haplopelia  principalis  coM'H.  simplex  di  S.  Thomé,  ammessa 
recentemente  dal  Reichenow,  laddove  le  due  specie  sono  affatto  diverse. 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  à 

L'Ornitologia  dell'Isola  del  Principe  è  specialmente  notevole  pel  fatto  della  man- 
canza completa  dei  rapaci  tanto  diurni,  quanto  notturni. 

L'Avifauna  dell'isola  ha  carattere  decisamente  africano,  come  mostrano  i  rap- 
presentanti dei  generi  Lamprotornis,  Dicrurus,  Hyphantomis,  Spermestes,  Turturoena, 
Vinago  ed  Haplopelia.  Due  generi,  Parinia  e  Ouphopterus,  sono  esclusivi  dell'isola,  la 
cui  avifauna  è  molto  simile  a  quella  di  S.  Thomé,  ma  molto  più  povera. 


Bibliografia  Ornitologica  dell'Isola  del  Principe. 


(1835)  Ekman,  A.  G.,  Reise  uni  die  Erde.  Naturhistorischer  Atlas  (Lamprotornis  ignita,  Nordm.J. 

(1849)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Description  de  cinq  nouvelles  espèces  d'Oiseaux   de  l'Afrique   occidentale 

{Rev.  et  Mag.  de  Zool.  1849,  pp.  494-497)  (Dicrurus  modestus,  nov.  sp.  p.  495). 

(1850)  Bonaparte,  C.  L.,  Conspectus  Generimi  Aviurn  (Symplectes  prineeps,  nov.  sp.  p.  439). 

(1850)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Beitrag  zur  Omithologie  Westafrica's  (Verzeichnisa  der  offentlichen  und 
Privat- Vorleaungen,  welche  am  Haniburgischen  akademischen  Gymnasium  u.  s.  w.  gehalten 
werden.  Herausgegeben  von  K.  W.  M.  Wiebel).  Hamburg,  1850,  pp.  1-47  (Dicrurus 
modestus,  Lamprotornis  ignita,  Sin  nuoti*  cuculiata,  Halcyon  torquata  . 

(1850)     „     Neue  Arten  des  hamburgischen  naturhistovischen  Museunis  (ibid.  pp.  48-56). 

(1850)  „     Oraithology  of  the  coasta  and  Islanda  of  Western  Africa  (Centr.  Orn.  1850,  pp.  129-140). 

(1851)  Verreaux,  J.  et  E.,  Description    d'espèces    nouvelles    d'Oiseaux    du   Gabon   (còte  occidentale 

d'Afrique)  (Rer.  et  Mag.  de  Zool.  1851,  Columba  Malherbii,  p.  514). 

(1852)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Beitrag  zur  Omithologie  Westafrica's  (Abh.  Naturw.  Ver.  Hamb.  Il,  2,  pp.  1-47) 

(Dicrurus  modestus,  Lamprotornis  ignita,  Spermestes  cuculiata,  Halcyon  torquata). 
(1852)     „     Neue  Arten  des  hamburgischen  naturhistorischen  Museums  (ibid.  pp.  48-56). 
(1852)     „     Zweiter  Beitrag  zur  Omithologie  Westafrica's  (Tafeln  I-XI). 
(1854)     ,     Versuch    einer    synoptischen   Omithologie    Westafrica's    (Journ.   f.    Orn.    1854,    Halcyon 

dryas,  p.  2). 
(1857)     ,     System  der  Omithologie  Westafrica's  (Neetarinia  Hartlaubi  Verr.,  p.    50,  Parinia    leuco- 

phaea,  p.  71). 
(1862)  Grat,  G.  R.,  Description  of  a  few  West  African  Birds  (Ann.  and  Mag.  N.  H.(B)  X.  Ligurinus 

rufo-brunneus,  p.  444). 
(1866)  Dohbn,  Dr.  H.,  Synopsis  of  the  Birds  of  Ilha  do  Principe,  with  some  remarks  on  their  riabita 

and  Description  of  New  Species  (P.  Z.  S.  1866,   pp.   324-332,   pi.   XXXIV)   (Cotyle  eques 

(=C.  cincta),  Cuphopterus  dohrni,  Zosterops  ficedulina,  Buserinus    ruftlatus  (=  Ligurintts 

rufobrunneus),  Columba  chlorophaea  (=  Turturoena  malherbei),  Peristera  principalis). 
(1866)  Keulemass,  J.  G.,  Opmerkingen  over  de  Vogels  van  de  Kaapverdische  eilanden  en  van  Prins- 

eiland  (Ilha  do  Principe)   in    de    Bogt    van    Guinea  gelegen.  —  De  Vogels  van  Uba   do 

Principe  (Prinseiland)  (Nederl.  Tijdschr.  v.  Dierk.  III,  pp.  374-401). 
(1880)  Bocaqe,  Barboza  du,  Aves    de    Bolama    e   da   Ilha   do   Principe    {Jorn.   Se.  Lisb.  No.   XXIX, 

pp.  71-72). 
(1887)  Sousa,  J.  A.  de,  Aves  da  Ilha  do  Principe  colligidas  pelo  Sr.  Francisco  Newton  (Jorn.  Se.  Lisb. 

No.  XLV,  pp.  42-44)  (Ceryle  rudis). 
(1901)  Salvadori,  T.,  Due  nuove  specie  di  Uccelli  dell'Isola  di  S.    Thomé  e  dell'Isola  del   Principe, 

raccolte  dal  Sig.  Leonardo  Fea  (Boll.  Mas.  Tor.  No.  414,  pp.  1-2)  (Turdus  xanthorhynrhus). 


TOMMASO    SALVADOKI 


1.  Chelidon  urbica  (L.). 

Hirundo  urbica,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  384  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLV,  p.  44  (1887).  -  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Uba  do  Principe)  (1889). 

Chelidon  urbica,  Sharpe,  Cai  B.  X,  p.  87  (1885).  —  id.,  Mon.  Hirund.,  I,  p.  7,  Pls.  1,  2 
(Prince's  L). 

Il  Keulemans  incontrò  questa  specie  nel  mese  di  gennaio  all'altezza  di  1500  piedi 
nell'Isola  del  Principe,  e  ne  uccise  una  femmina. 

2.  Cotile  cincta  (Bodd.). 

Cotyle  eques,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  325  (Prince's  I.).  —  Sharpe,  P.  Z.  S.,  1870, 
p.  297.  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  -  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36 
(liba  do  Principe)  (1889). 

Hirundo  torquata,  Gm.  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  384  (Prinseil.)  (1866). 

Cotile  cincta,  Sharpe,  Cat.  B.,  X,  p.  101  (note  p.  102)  (1885).  —  id.,  Mon.  Hirund.,  I,  p.  67, 
pi.  10  (1885). 

Rara  secondo  il  Dohrn,  non  infrequente  secondo  il  Keulemans. 

3.  Dicrurus  modestus,  Hartl. 

Dicrurus  modestus,  Hartl.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1849,  p.  495  (He  du  Prince).  —  id.,  Beitr. 
Orn.  Westafr.,  p.  26,  n.  191  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131.  —  id.,  Abh.  naturw. 
Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  2,  26,  50,  Taf.  IV  (1852).  —  id.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  101  (partim)  (1857). 
-  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  327  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  378  (Ilha  do 
Principe)  (1866).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  Ili,  p.  232  (partim)  (1877).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XXIX,  p.  72  (Ilha  do  Principe)  (1880).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (Ilha 
do  Principe)  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889).  —  Shell., 
B.  Afr.,  I,  p.  47  (1896).  —  id.,  Ibis,  1901,  pp.  589,  591  (Prince's  L). 

a  (40)  d"  ad.  Bahia  do  Oeste,  30  maggio  1901. 

Lo  Shelley  recentemente  limita  l'area  di  diffusione  del  D.  modestus  alla  sola  Isola 
del  Principe. 

4.  Cuphopterus  dohrni,  Hartl. 

Cuphopterus  dohrni,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  326,  pi.  XXXIV  (Prince's  Island).  — 
Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  386  (1866).  —  Sharpe,  Cat.  Afr.  B.,  p.  42,  n.  397  (Prince's  I.)  (1871). 
id.,  Cat.  B.,  Ili,  p.  302  (1877).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XXIX,  p.  72  (1880).  —  Sousa, 
Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  —  Boc,  ibid.,  (2),  No.  I,  p.  36  (1889). 

a  (7)  9.  Roca  Infante  D.  Henrique,  29  gennaio  1901. 
h{8)9  „  „  „  19  febbraio  1901. 

e  (12)  2  „  „  „  4  marzo  1901. 

La  località  Gaboon  (Verreaux)  attribuita  ad  un  esemplare  di  questa  specie  nel 
Museo  Britannico  mi  sembra  che  meriti  conferma. 

5.  Cinnyris  hartlaubi  (Verr.). 

Nectarinia  hartlaubi,  Verr.  in  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  50  (Angola!)  (1857).  —  id.,  J.  f.  O., 
1861,  p.  109  (Gabon!   Gtijon).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  326  (Prince's  I.).  —  Keulem., 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  5 

N.  T.  D.,  Ili,  p.  389  (Prinseil.)  (1866).  —  Sharpe,  Cat.  Afr.  B.,  p.  37,  n.  346  (Prince's  I.) 

(1871).   —  Boc,  Orn.  Angola,  p.  179  (Ile  du  Prince)  (1881).  —  Sousa,  Jorn.    Se    Lisb., 

No.  XLV,  p.  43  (1887). 
Nectarinia  (Adelinus)  hartlaubi,  G.  E.  Gr.  Hand-List,  I,  p.  108,  n.  1324  (Angola!)  (1869). 
Cinnyris  hartlaubi,  SheU.,  Mon.  Nect.,  p.  295,  pi.  94  (Prince's  I.)  (1876-80).  —  Gad..  Cat.  B., 

IX,  p.  79  (1884).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  pp.  250,  251  (Ile  du  Prince)  (1887); 

No.  XLVIII,  p.  211  (Ile  du  Prince)  (1888);  (2)  No.  I,  p.  36  (1889). 
Cyanomitra  hartlaubi,  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  5,  No.  70  (1896);  II,  p.  135  (Prince's  I.)  (1900). 

a  (39)  ?.  Bahia  do  Oeste,  10  giugno  1901. 

Concorda  bene  colle  descrizioni  e  colla  figura  date  della  femmina  di  questa  specie, 
la  quale  è  notevolmente  più  grande  del  C.  neivtoni  di  S.  Thomé. 

6.  Cinnyris  obscurus  (Jard.). 

Nectarinia  fraseri,  Dohrn  (nec  Jard.),  P.  Z.  S.,  1866,  p.  326  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T. 
D.,  Ili,  p.  390  (Prinseil)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887). 

Cinnyris  obscurus  (Jard.).  —  Shell.,  Mon.  Nect.,  p.  291,  pi  92  (1879).  —  Gadow,  Cat.  B., 
IX,  p.  77  (Prince's  I.,  Kenlernans,  Ingall)  (1884).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43 
(nota)  (1887)  {=  N.  fraseri).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 

Cyanomitra  obscura,  Shell.,  B.  Afr.,  II,  pt.  1,  p.  125  (1900). 

Questa  specie  vive ,  secondo   il    Dohrn ,  in  regioni  più  elevate  del  C.  hartlaubi. 
Mi  sembra  che  gli  esemplari  dell'Isola  del  Principe  debbano  essere  ulteriormente 
confrontati  con  quelli  di  Fernando  Po  e  della  costa  occidentale  d'Africa. 


7.  Parinia  leucophaea,  Hartl. 

Parinia  leucophaea,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  71  (Gabon!,  Verreaux)  (1857).  —  id.,  J.  f.  O., 
1861,  p.  161  (Gabon,  Du  Chaillu).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  327  (Prince's  L).  —  Keulem., 
N.  T.  D.,  Ili,  p.  388  (1866).  —  Sharpe,  Cat.  Afr.  B.,  p.  36  (1871).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887). 

Thamnobia  (Parinia)  leucophaea,  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  I,  p.  212,  n.  3000  (Gabon)  (1869). 

Zosterops  leucophaea,  Sharpe,  in  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  200  (1884).  —  Pinsch,  Thierr.,  Zoste- 
ropidae,  p.  43  (1901). 

Parinia  leucoptera  (errore),  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (1889). 

Malacirops  leucophaea,  Shell,  B.  Afr.,  I,  p.  8,  n.  112  (1896). 

Speirops  leucophaea,  SheU.,  B.  Afr.,  II,  p.  203,  pi.  8,  f.  2  (Prince's  I.)  (1900). 

a  (11)  d\  Roca  Infante  D.  Henrique,  6  marzo  1901. 
J(38)^.  Bahia  do  Oeste,  23  maggio  1901. 

Probabilmente  anche  questa  specie  è  confinata  nell'Isola  Principe  e  non  si  trova 
nel  Gabon. 

8.  Zosterops  ficedulina,  Hartl. 

Zosterops  ficedulina,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  327  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D., 
III,  p.  389  (Costumi,  nido,  uova)  (1866).  —  G.  R.  Gr.  Hand-List,  I,  p.  162,  n.  2127  (1869). 

—  Sharpe  in  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  203  (Prince's  I.)  (1884).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV, 
p.  43  (1887);  No.  XLVII,  p.  157  (S.  Thomé)  (1888).  -  Boc,  op.  cit.  (2),  No.  I,  p.  36(1889). 

—  Shell.,  B.  Afr.,  p.  7,  n.  96  (1896);  II,  p.  185,  pi.  8,  f.  1  (1900).  —    Pinsch,    Thierr., 
Zosteropidae,  p.  37  (1901). 


0  TOMMASO  SALVADOEI 

a  (26)  <r.  Bahia  do  Oeste,  24  maggio  1901. 

Questo  esemplare  concorda  molto  bene  colla  descrizione  originale  e  colla  figura 
data  dallo  Shelley. 

9.  Pratincola  rubetra  (L.). 

Saxicola  rubetra,  Keulem.,  N  T.  D.,  Ili,  p.  391  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  LXV,  p.  44  (1887). 

Il  Keulemans  uccise  un  individuo  di  questa  specie  nel  novembre;  essa  si  cono- 
sceva già  della  Senegambia  e  della  Costa  d'Oro,  ove  talora  si  trova  d'inverno. 

10.  Turdus  xanthorhynchus,  Salvad. 
Turdus  xanthorhynchus,  Salvad.,  Boll.  Mus.  Tor.,  No.  414,  p.  2  (1901)  (Ins.  Principis). 

Turdus  T.  olivaceo-fusco  Hartl.  similis,  sed  minor,  ac  rostro  flavo,  pedibus  pallidis, 
marginibus  fuscis  plumarum  gastrei  latioribus,  et  fascia  praepectorali  transversa  haud 
concolore,  sed  e  pliimis  in  medio  albis,  late  fusco  marginatis  composita  diversus. 

Supra  fusco-olivaceus  fere  unicolor,  subtus  albus;  gulae  plumis  fusco  maculatis, 
gastrei  reliqui  late  fusco  marginatis;  fascia  praepectorali  lateribusque  fuscis,  plumis  in 
medio  albis;  subalaribus  pallide  rufis;  rostro  favo;  pedibus  pallidi.-:. 

Long.  tot.  mm.  250;  al.  125;  caud.  93;  rostri  culm.  22;  tarsi  37. 

Hab.  Insula  Principis. 

a  (21)  9 .  Bahia  do  Oeste,  25  maggio  1901. 

"  Non  comune,  dicesi  che  sia  confinato  nella  costa  occidentale  dell'isola  „  (Fea). 

Nessuna  specie  del  genere  Turdus  era  stata  trovata  prima  del  Fea  nell'Isola  del 
Principe,  ove  il  T.  xanthorhynchus  evidentemente  rappresenta  il  T.  fusco-olivaceus  del- 
l'Isola di  S.  Thomé.  Sembra  che  il  Dohrn  (P.  Z.  S.  1866,  p.  331)  sospettasse  la  pre- 
senza di  una  specie  di  Turdus  nell'Isola  del  Principe. 

Il  Sig.  Fea  ha  inviato  un  solo  esemplare  adulto  di  questa  specie. 

11.  Linurgus  rufobrunneus  (G.  R,  Gr.). 

Ligurinus  rufobrunneus,  G.  R.  Gr.,  Ann.  and  Mag.  N.  H.  (3),  X,  p.  444  (1862). 
Buserinus  rufilatus,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  328  (Prince's  I).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 

Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887). 
Fringilla  (Buserinus)  rufilatus,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  393  (Prinseil.)  (1866). 
Crithagra  rufobrunnea,  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  II,  p.  101,  No.  7056  (W.  Africa)  (1870). 
Poliospiza  rufobrunnea,  Sharpe,  Cat.  Afr.  B.,  p.  68,  n.  648  (Prince's  I.)  (1871).  —  id.,  Cat.  B., 

XII,  p.  346,  PI.  VI  (Prince's  I.)  (1888).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (part.) 

(1889).  —  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  21,  n.  278  (part.)  (1896). 
Phaeospiza  thomensis,  part.,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  192  (1888). 
Linurgus  rufobrunneus,  Shell,  B.  Afr.,  III,  p.  172  (Prince's  I.)  (1902). 

a  (10)  a*.  Roca  Infante  D.  Henrique,  25  febbraio  1901. 

è(29)rf\  Bahia  do  Oeste,  22  maggio  1901. 

Il  confronto  di  questi  esemplari  con  molti  altri  congeneri  dell'Isola  S.  Thomé  mi 
ha  persuaso  che  questi  e  quelli  appartengono  a  due  specie  distinte;  gli  esemplari 
dell'Isola  Principe  si  distinguono  facilmente  per  la  tinta  più  vivamente  rossigna,  quasi 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  7 

cannella  e  per  avere  la  gola  non  distintamente  bianchiccia;  neppure  bianchiccio  è  il 
mezzo  dell'addome. 

Queste  osservazioni  io  aveva  già  scritto  prima  che  lo  Shelley  nella  sua  ultima 
opera  arrivasse  alle  stesse  conclusioni. 

12.  Nigrita  bicolor  (Hartl.). 

Nigrita  bicolor,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  328  (Prince's  I.).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  IH,  p.  391 
(Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2), 
No.  I,  p.  36  (liba  do  Principe)  (1889). 

"  Non  comune  „  (Dohrn). 

13.  Hyphantornis  princeps  (Bp.). 

Symplectes  princeps,  Bp.,  Consp.,  I,  p.  439  (Ins.  Principis)  (1850).  —  Hartl.,  Abb.  Naturw. 
Ver.  Hamb.,  II,  pp.  60,  66  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  pp.  107  (I.  do  Principe),  258 
(Angola!).  —  Cass.,  Pr.  Pbilad.  Ac,  1855,  p.  439  (Lagos?).  —  Hartl.,  Ore.  W.  Afr.,  p.  134 
(Ins.  do  Principe,  Mus.  Paris;  Lagos,  J.  L.  Burton;  Gabon,  Verreaux;  Angola,  Henderson) 
(1857).  -  id.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  257  (Gabon,  Du  Chaillu).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  328 
(Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  392  (lina  do  Principe)  (1866).  —  Boc,  Jorn. 
Se.  Lisb,  No.  XXIX,  p.  72  (1880).  —  Dubois,  Bull.  Mus.  Roy.  Belg,  IV,  p.  148  (1886). 

—  Rchnw,  Zool.  Jabrb.,  I,  p.  115  (nota)  (1886).  —  Sousa,  Jorn.   Se.  Lisb,  No.  LXV,  p.  43 
(Ilha  do  Principe)  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (1889). 

Hyphantornis  princeps,  Bchnb,  Singv,  p.  87  (1861).  —  Gieb,  Tbes.  Orn,  II,  p.  373  (1875). 

—  Sbarpe,  Cat.  B,  XIII,  p.  449  (partim?)  (1890). 

Hyphantornis  ( Anaplectes)  princeps,  G.  R.  Gr,  Hand-List,  II,  p.  43,  n.  6592  (1870). 
Ploceus  princeps,  Shell,  Ibis,  1887,  p.  24  (Prince's  L). 
Xanthophilus  princeps,  Shell,  B.  Afr,  I,  p.  39,  n.  540  (1896). 

a  (25)  <f  ad.  Bahia  do  Oeste,  15  maggio  1901. 

b  (27)  é  „  20 

e  (28)  «r  „  .  .  . 

d{37)<?  ,  27 

e  (9)  d\  Roca  Infante  D.  Henrique,  5  febbraio  1901. 

I  primi  quattro  esemplari,  adulti  in  abito  quasi  perfetto,  hanno  le  parti  inferiori 
tutte  gialle,  il  pileo,  la  cervice,  i  lati  della  testa  e  del  collo  tinti  più  o  meno  di 
castagno  ;  invece  l'ultimo  esemplare,  in  abito  imperfetto,  ha  appena  traccia  di  tinta 
castagna  sul  pileo,  l'addome  bianchiccio,  i  fianchi  ed  il  sottocoda  fulvicci. 

Lo  Sharpe,  oltre  all'Isola  Principe,  menziona  l'Africa  occidentale  da  Lagos  fino 
al  Gabon  e  l'interno  del  Congo  fra  le  località  abitate  da  questa  specie.  Tuttavia  io 
inclino  a  credere  che  essa  sia  confinata  nell'Isola  Principe,  tanto  più  che  lo  Sharpe 
annovera  soltanto  esemplari  di  questa  località,  e  quindi  non  sembra  che  abbia  avuto 
l'opportunità  di  confrontarli  con  altri  di  località  diversa. 

14.  Estrelda  astrild  (L.). 
Estrelda  astrild,  Keulem,  N.  T.  D,  III,  p.  395  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb, 
No.  XLV,  p.  44  (1887). 

II  Keulemans  afferma  di  aver  incontrato  più  volte  questa  specie  nella  parte 
meridionale  dell'isola  in  compagnia  della  Spermestes  cuculiata. 


TOMMASO    SALVATORI 


15.  Quelea  erythrops  (Hartl.). 

Foudia    erythrops,    Dohm,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329  (Prince's  L).  —  Sousa,   Jorn.    Se.  Lisb. 

No.  XLV,  p.  43  (1887). 
Ploceus  erythrops,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  394  (Prinseil.)  (1866). 
Quelea  erythrops,  Sbarpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  255,  pi.  X,  f.  1  (specim.  e  Prince's  I.)  (1890). 

Vive  in  numerosi  branchi  (Dohrn). 

E  singolare  che  il  Fea  non  abbia  raccolto  questa  specie. 


16.  Spermestes  cuculiata  (Sw.). 

Spermestes  cuculiata,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  2  (Ilha  do  Principe,  Weiss)  (1850).  — 
id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (Prince's  I.).  —  id.,  Abb.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  p.  2 
(1852).  —  Keulem.,  N  T.  D.,  Ili,  p.  394  (Prinseil.)  (1866).  —  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  I, 
p.  36  (Ilbas  de  S.  Tbomé  e  do  Principe)  (1889). 

Amadina  cuculiata,  Dobrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329  (Prince's  I.).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLV,  p.  43  (1887). 

a  (36)  rf".  Bahia  do  Oeste,  27  maggio  1901. 


17.  Lamprocolius  ignitus  (Nordm.). 

VChoucador,  Levaill.,  Ois.  d'Afr.,  II,  p.  144,  pi.  86  (1799)  (patria  ignota).  —  Sundev.,  Crit.  om 
Levaill.,  p.  33  (1857)  (=  L.  ignitus,  Nordm.). 

?Sturnus  ornatus,  Daud.,  TV.,  II,  p.  309  (1800,  ex  Levaillant). 

?  Lamprotornis  vigorsii,  Blackwall,  Edinb.  Journ.  of  Se,  New  Ser.,  5,  pp.  332-334  (1831). 

Lamprotornis  ignita,  Nordm.  in  Erman's  Reis.,  Atlas,  p.  7,  Taf.  3,  f.  1  (Senegal!)  (1835).  — 
Hartl.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1849,  p.  497  (Ile  du  Prince).  —  id.,  Beitr.  Orn.  Westafr., 
pp.  2,  27,  n.  218  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (Prince's  L).  —  id.,  Abb.  naturw. 
Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  2,  27  (1852).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  III,  p.  384  (1866)  (Prinseil.).  — 
Gieb.,  Thes.  Orn.,  II,  pp.  427  (1875). 

Juida  ignita,  Gr.  and  Mitch.,  Gen.  B.,  II,  p.  326,  n.  9,  pi.  80  (1846).  —  v.  Muli.,  J.  f.  O., 
1855,  p.  457.  —  Pucber.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1858,  p.  256. 

Juida  ornata,  G.  R.  Gr.,  Gen.  B.,  II,  p.  326,  n.  15  (1846).  —  id.,  Hand-List,  p.  24,  n.  6338  (1870). 

Lamprocolius  ignitus,  Bp.,  Consp.,  I,  p.  415'  (1850).  —  Licbt.,  Nom.  Av.,  p.  53  (1854).  — 
Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  102  (Ilha  do  Principe,  S.  Thomé,  Weiss).  —  id.,  Om.  W.  Afr., 
p.  116  (Gabon,  Angola)  (1857).  —  id.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1858,  p.  347.  —  id.,  J.  f.  O., 
1859,  pp.  2,  8,  13;  1861,  p.  174  (S.  Thomé,  Gut/on;  Gabon,  Fosse).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866, 
p.  328  (Prince's  L).  —  Sharpe,  Cat.  Afr.  B.,  p.  56  (1871).  —  Hartl,  Abh.  nat.  Ver.  Brem., 
IV,  p.  52  (1874).  —  Rochebr.,  Faun.  Sénég.,  Ois.,  p.  229  (1884).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLV,  p.  43  (liba  do  Principe)  (1887).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  174,  pi.  VII,  f.  1 
(caput)  (1890).  —  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  86  (Ile  du  Prince)  (1891).  — 
Shell.,  B.  Afr.,  I,  P-  43  (1896). 

a  (15)  rf.  Bahia  do  Oeste,  18  maggio  1901. 

è  (17)  ^  „  „ 

e(22)cf  „  22 

d{2à)<f  „  24 

e  (30)  <?  ?  „  28 

f$l)<f  „  26 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  9 

g  (2)  c .  Roca  Infante  D.  Henrique,  5  febbraio  1901. 

*(4)«  ,  »  8 

j(32)2.  Bahia  do  Oeste,  30  maggio  1901. 

Le  femmine  sono  alquanto  più  piccole  dei  maschi,  ma  non  ne  differiscono  altri- 
menti. 

La  identità  specifica  di  questa  specie  col  Choucador  di  Levaillant,  sostenuta  dal 
Sundevall  non  mi  sembra  tanto  sicura,  e  quindi  collo  Sharpe  preferisco  di  conser- 
varle il  nome  impostole  dal  Nordman. 

Cosi  pure  non  è  cosa  certa  che  a  questa  specie  spetti  il  nome  di  L.  vigorsi 
Blackw.,  che  avrebbe  la  priorità  su  quello  del  Nordman;  è  singolare  che  lo  Sharpe 
non  menzioni  affatto  la  citazione  del  Blackwell. 

Rispetto  alle  località  attribuite  a  questa  specie  la  sola  certa  è  quella  dell'Isola 
Principe  ;  tutte  le  altre  (Senegal  Erman,  S.  Thomé  Weiss,  Gujon,  Gabon  Fosse,  Angola 
Canivet)  sono  dubbie,  o  quasi  certamente  erronee. 

18.  Lamprocolius  splendidus  (Vieill.). 

Lamprocolius  splendidus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  328  (Prince's  I.).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 

Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 
Lamprotornis  chrysotis  (Sw.).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  386  (Prinseil.)  (1866). 

"  Molto  rara;  si  trova  negli  stessi  luoghi  insieme  colla  specie  precedente  „ 
(L.  ìgnitus)  (Dohrn).  Anche  il  Keulemans  ripete  le  stesse  cose.  Non  trovo  che  altri 
abbia  identificato  esemplari  dell'Isola  Principe  con  quelli  della  Senegambia  e  perciò 
la  esistenza  di  questa  specie  nell'Isola  del  Principe  deve  essere  confermata. 

19.  Cypselus  affinis,  G.  R.  Gr. 

Cypselus  abissinicus,  Streub.  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,   p.  325  (Prince's  L).  —  Keulem., 

N.  T.  D.,  Ili,  p.  383  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887). 
Micropus  affinis,  Hartert,  Cat.  B.,  XVI,  p.  453  (1892). 
Apus  affinis,  Hartert,  Thierr.,  I,  p.  88  (1897). 

"  Comune  nelle  vicinanze  delle  città  „   (Dohrn). 
20.  Ceryle  rudis  (L.). 

Ceryle  rudis,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  42  (liba  do  Principe)  (1887).  —  Boc.,  ibid. 
(2),  No.  I,  p.  36  (Uba  do  Principe)  (1889). 

Il  De  Sousa  menziona  un  maschio  di  questa  specie  raccolto  dal  Sr.  Francisco 
Newton  nell'Isola  del  Principe,  lungo  il  Rio  Papagaio  nel  marzo  del  1887.  Pare  anzi 
che  la  specie  non  sia  rara  nell'isola,  giacché  vi  sarebbe  conosciuta  dai  coloni  por- 
toghesi col  nome  di  Móchó  bianco.  Questa  cosa  è  abbastanza  singolare,  giacché  né 
il  Dohrn,  né  il  Keulemans  menzionano  questa  specie. 

21.  Corythornis  galerita  (P.  L.  S.  Mìjll.). 

Alcedo  caeruleocephala,  Gm.   —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,   p.  325  (Prince's  L).    —    Keulem., 
N.  T.  D.,  Ili,  p.  377  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887). 

Sedie  II.   Tom.  LUI.  B 


10  TOMMASO    SALVADOEI 

Corythornis  caeruleocephala,  Sbarpe,  Mon.  Alced.,  p.  39,  pi.  12  (1869). 

Corythornis  galerita  (P.  L.  S.  Muli).  —  Sharpe,  Cai  B.,  XVII,  p.  166  (Prince's  I.)  (1892). 

"  Comune  sulla  spiaggia,  talora  anche  nell'interno  „   (Dólirn). 

Il  Dohrn  descrive  il  giovane  siccome  avente  il  becco  nero  e  le  macchie  bianche 
sulla  gola  e  sui  lati  del  collo  molto  piccole  (!);  egli  non  menziona  affatto  la  fascia 
pettorale  nera  che  si  trova  nei  giovani  della  specie  di  S.  Thomé. 

22.  Halcyon  dryas,  Haktl. 

?  Martin-Pécheur  du  Senegal,  appelé  Crabier,  Buff.,  PI.  Eni.  334. 

?  Alcedo  cancrophaga,  Lath.,  Ind.  Ora.,  I,  p.  249,  n.  11  (1790)  (ex  PI.  Eni.  334). 

Halcyon  torquata,  Hartl.  (nec  Sw.),  Beitr.  Ora.  W.  Afr.,  p.  2  (Hha  do  Principe,  Weiss)  (1850). 

—  id.,  Contr.  Ora.,  1850,  p.  131  (Prince's  L).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II ,  2, 
p.  2  (1852). 

Halcyon  cinereifrons,  pari,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  W.  Afr.,  p.  18,  n.  53  (Una  do  Principe)  (1850). 

—  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  18,  45  (liba  do  Principe,  av.  juv.?)  (1852).  — 
Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (liba  do  Principe)  (1889). 

Halcyon  dryas,  Hartl,  J.  f.  O.,  1854,  p.  2  (Uba  do  Principe,  St.  Thomé).  —  v.  Muli.,  Beitr. 
Orn.  Afr.,  t.  II  (**  ad.  et  jun.,  fig.  opt.)  (1854).  —  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  32  (Ins.  St.  Thomé 
et  do  Principe,  Weiss)  (1857).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  325  (Prince's  I.).  —  Keulem., 
N.  T.  D.,  in,  p.  376  (Uba  do  Principe)  (1866).  —  Sharpe,  Mon.  Alced.,  p.  193,  pi.  71  (1868). 

—  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XXIX,  p.  72  (Ilha  do  Principe)  (1880).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  No.  XLV,  pp.  42,  43  (Bha  do  Principe)  (1887);  No.  XLVII,  p.  152  (1888).  —  Sharpe, 
Cat.  B .,  XVII,  p.  248  (W.  Africa,  Gaboon,  and  the  Islands  in  the  Bight  of  Benin)  (1892). 

«(12)*  ad.  Bahia  do  Oeste,  12  maggio  1901. 

ò(6)d"  jun.  Roca  Infante  D.  Henrique,  31  gennaio  1901. 

e  (20)  ■,'  jun.  Bahia  do  Oeste,  25  maggio  1891. 

La  femmina  adulta  concorda  colla  figura  datane  dallo  Sharpe;  i  giovani  sono  note- 
voli per  avere  le  gote,  i  lati  del  collo,  i  fianchi  e  la  parte  superiore  del  petto  di 
colore  ocraceo,  tinto  di  verdognolo  sul  petto. 

Mi  pare  non  improbabile  che  questa  specie  sia  da  identificare  coli'  Alcedo  can- 
crophaga, Lath.  Ind.  Orn.,  I,  p.  249,  n.  11,  fondata  sul  Martin- Pécheur  du  Senegal, 
appelé  Crabier,  Buff.  PI.  Eni.  334,  che  finora  non  è  stato  identificato;  il  colore  ful- 
viccio  delle  parti  inferiori,  che  si  nota  in  quella  tavola,  è  quello  stesso  dei  giovani 
dell'if.  dryas. 

23.  Coracias  garrula,  L. 

Coracias  bengalensis,  Keulem.  (nec  L.),  N.  T.  D.,  Ili,  p.  380  (Prince's  I.)  (1866).  —  Sousa, 

Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XVI,  p.  44  (1887). 
Coracias  garrula,  Sharpe,  Ibis,  1871,  p.  189.  —  Sousa,  1.  e.  (nota). 

Incontrata  varie  volte  dal  Keulemans. 

24.  Psittacus  erithacus,  L. 
Psittacus  erithacus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  pp.  325,  328  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D., 
III,  p.  380  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  —  Boc, 
Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (liba  do  Principe)  (1889).  —  Salvad.,  Cat.  B.,  XX,  p.  379 
(Prince's  I.)  (1891). 
"  Comunissimo  „    (Dohrn)- 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE   ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  11 

25.  Agapornis  pullaria  (L.). 

Psittacula  pullaria,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329.  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  382  (Prinseil.) 

(1866).  —  Finsch,    Die    Papag.,  II,  p.  636(1868).  —  Sousa ,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV, 

p.  43  (1887). 
Agapornis  pullaria,  Oust.,  Nouv.  Arch.  Mus.  (2),  II,  p.  55  (1879).  —  Salvad.,  Cat.  B.,  XX, 

p.  510  (1891). 

Il  Dohrn  non  incontrò  questa  specie  nell'Isola  del  Principe,  ma  gli  fu  detto  che 
vi  si  trova.  Il  Keulemans  invece  afferma  di  avervela  incontrata  in  piccoli  gruppi 
anche  di  10  individui.  Il  Finsch  riferisce  l'opinione  espressagli  dal  Dohrn  che  essa  vi 
capiti  accidentalmente  e  che  non  vi  sia  stazionaria.  Ma  se  essa  si  trova  veramente 
nell'Isola  del  Principe  vi  deve  essere  stazionaria. 

26.  Chrysococcyx  smaragdineus  (Sw.). 

Chrysococcyx  smaragdineus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329  (Prince's  I.).  —  Keulem.,  N.  T.  D., 
Ili,  p.  382  (Prinseil.)  (1866).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XXIX,  p.  72  (1880).  —  Sousa, 
Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  43  (1887).  -  Shell,  Cat.  B.,  XIX,  p.  280  (1891). 

"  Dall'aprile  al  settembre,  cioè  durante  la  stagione  asciutta,  questo  uccello  vive 
sulle  parti  montane  meridionali  dell'isola  „   (Dohrn). 

27.  Vinago  calva  (Temm.). 

Treron  calva,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329  (Prince's  I.).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  396 
(part,  Prinseil.)  (1866).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  XI,  No.  XLIV,  p.  252  (Ile  du  Prince) 
(1887).  -  Sousa,  ibid.,  No.  XLV,  pp.  43,  44  (Ilha  do  Principe)  (1887).  -  Boc.,  ibid.  (2), 
No.  I,  p.  36  (1889).  -  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I  (pt.  2),  p.  394  (1901). 

«(5)^  ad.  Roca  Infante  D.  Henrique,  12  febbraio  1901. 

6(13)^  ad.  Bahia  do  Oeste,  21  maggio  1901. 

e  (34)  5  ad.  „  26 

^(35)^  juv.  29 

La  femmina  differisce  dai  maschi  soltanto  per  le  dimensioni  lievemente  minori. 

Il  maschio  giovane  differisce  dagli  adulti  per  la  macchia  porporino-vinacea  presso 
l'angolo  dell'ala  meno  estesa,  per  la  fascia  grigia  alla  base  della  cervice  quasi  indi- 
stinta, per  i  margini  gialli  delle  grandi  cuopritrici  delle  ali  più  larghi  e  pel  grigio 
della  coda  lievemente  tinto  di  verdognolo. 

28.  Turturoena  malherbei  (Verr.). 

Columba  malherbii,  Verr.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1851,  p.  514  (>'?;  Gabon!).  —  G.  R.  Gr. 

List  B.  Brit.  Mus.,  Columbae,  p.  30  (1856).  -  Gieb.,  Thes.  Ora.,  I,  p.  747  (part.)  (1872). 
Peleioenas  malherbii,  Rchnb.,  Tauben,  I,  p.  54  (1862?);  II,  p.  168  (1862). 
Pelecoenas  (errore)  malherbii,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1861,  p.  266. 
Columba    chlorophaea ,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  329  (Prince's  L).  —  G.  R.  Gr., 

Hand-List,  II,  p.  232,  n.  9240  (1870).  —  Shell.,  Ibis,  1883,  p.  273  (var.  Col.  lìviael).  - 

Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 
Columba  -?,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  395  (Prinseil.)  (1866).   -    Sousa,    Jorn.  Se.  Lisb., 

No.  XLV,  p.  44  (1887). 


12  TOMMASO    SALVADORI 

Turturoena  nov.  sp.?,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  1867,  p.  144,  n.  114  (S.  Thorné),  p.  338  (=  C.  chlo- 
rophaea,  Hartl.).  —  id.,  J.  f.  0.,  1876,  p.  315  (S.  Thorné).  —  Sousa ,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLVII,  p.  153  (1888). 

Turturoena  malherbii,  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  II,  p.  234,  n.  9254  (1870).  —  Oust.,  Nouv.  Arch. 
Mus.,  1879,  p.  141  (Gabon!).  —  Shell.,  Ibis,  1883,  p.  291  (syn.  emend.,  Gaboon!).  —  Boc., 
Jorn.  Se.  Lisb.,  XII,  No.  XLVI,  p.  81  (S.  Thorné)  (1887).  —  Sousa,  ibid.,  No.  XLVII, 
p.  154  (1888).  -  Boc.,  ibid.,  pp.  213,  234  (1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  Ili,  p.  210 
(1889);  No.  VI,  p.  82  (St.  Thorné  et  Ile  du  Prince)  (1891).  —  Salvad.,  Cat.  B.,  XXI,  p.  331 
(Prinee  I.  and  St.  Thomas  I.)  (1893).  —  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  136,  No.  1868  (1896).  — 
Porb.  et  Robins,  Bull.  Liverp.  Mus.,  II,  p.  135  (1900).  —  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I  (pt.  2»), 
p.  419  (1901). 

Turturoena  chlorophaea,  Sousa,  Mus.  Nac.  Lisb.,   Colunibae,  p.  12  (S.  Thorné)  (1873). 

Turtur  chlorophaeus,  Gieb.,  Thes.  Ora.,  Ili,  p.  726  (1877). 

Turturoena  iriditorques,  part.,  Shell.,  Ibis,  1883,  p.  291  (S.  Thorné  tantum). 

Columba  iriditorques,  Sousa  (nec  Cass.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  158  (S.  Thorné)  (1888). 

Coluinba  livia  var.  (C.  chlorophaea),  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (1889). 
a  (3)  rf  ad.  Roga  Infante  D.  Henrique,  31   gennaio  1901. 
J(18)-'  juv.  Bahia  do  Oeste,  17  maggio  1901. 
TI  maschio  adulto  è  simile  ad  un  altro  di  S.  Thorné,  ma  ha  dimensioni  alquanto 

minori.  TI  giovane  differisce  dagli  adulti  per  le  dimensioni  minori,  per  le  piume  verdi 

metalliche  della  cervice  con  riflessi  meno    porporini  e  per  avere  alcune   piume   ros- 

signe,   residuo  dell'abito  giovanile,  lungo  il  mezzo  delle  parti  inferiori. 

Non  v'ha  dubbio  che  questa  specie  sia  confinata  nelle  Isole  di  S.  Thorné  e  del 

Principe,  e  che  la  località  Gabon,  attribuita  all'esemplare  tipico,  sia  erronea. 

29.  Haplopelia  principalis,  Hartl. 

Peristera  principalis,  Hartl.  in  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  330  (Prince's  L).    —  Gieb.,  Thes. 

Ora.,  III,  p.  67  (1877).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc.,  ibid. 

(2),  No.  I,  p.  36  (1889). 
Columba  (Turtur)  ...'?,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  396  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 

Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 
Haplopelia  principalis,  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  II,  p.  244,  n.  9405  (1870).  —  Shell.,  Ibis,  1883, 

p.  295.  -  Salvad.,  Cat.  B.,  XXI,  p.  542  (1893).  -  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  136,  n.  1874  (1896). 
Aplopelia  simplex,  part.,  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I  (pt.  2a),  p.  422  (1901). 

rt(33)d"  ad.  Bahia  do  Oeste,  28  maggio  1901. 

Esemplare  adulto  bellissimo.  Fronte  di  color  cenerino  puro;  gola  bianca;  collo  e 
petto  di  color  rossigno  vinaceo;  occipite  e  cervice  con  riflessi  rameici;  regione  anale 
e  sottocoda  di  un  bianco-roseo. 

6(19)^.  Bahia  do  Oeste,  22  maggio  1901. 

Simile  al  precedente,  ma  meno  bello  e  con  colori  meno  puri  ;  il  petto  ed  il  collo 
di  color  vinaceo  meno  vivo;  i  riflessi  rameici  della  cervice  meno  vivi;  addome  e 
sottocoda  bianchi. 

e  (14)*.  Bahia  do  Oeste,  22  maggio   1901. 

"  Iride  violacea;  palpebre  e  piedi  rosso-vinacei  „  (Fea). 

Differisce  dai  maschi  per  le  dimensioni  minori,  pei  colori  più  oscuri,  pei  riflessi 
sulla  cervice  più  decisamente  verdi,  per  la  fronte  cenerina  scura  e  pel  colore  rossigno 
vinato  delle  parti  inferiori  più  oscuro  e  che  tinge  anche  il  sottocoda. 

r/(23)  f  juv.  Bahia  do  Oeste,  24  maggio  1901. 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  13 

Colorito  generale  bruno;  le  cuopritrici  delle  ali,  le  scapolari  e  le  remiganti  ter- 
ziarie con  margini  apicali  rugginosi;  lievissimi  riflessi  verdi  sulla  cervice  ;  parti  infe- 
riori di  color  rossigno,  più  chiaro  sull'addome  e  sul  sottocoda;  fronte  cenerina;  gola 
bianchiccia. 

Quando  io  scrissi  il  Catalogo  delle  Colombe  del  Museo  Britannico  non  aveva 
ancor  visto  alcun  esemplare  dell'Isola  del  Principe.  Il  Reichenow  (1.  e.)  ha  creduto  di 
dover  identificare  l'H. principalìs  coiì'H.  simplex,  ma  questa  identificazione  è  certamente 
erronea,  giacché  mentre  tutti  gli  esemplari  dell'Isola  Principe  hanno  il  petto  rossigno- 
vinaceo  {vinaceo-rabente  secondo  la  descrizione  dell'Hartlaub),  un  giovane  di  S.  Thomé 
e  due  femmine  adulte  della  stessa  località,  conservate  nel  Museo  Britannico,  e  da  me 
descritte,  hanno  il  petto  grigio. 

Forbes  e  Robinson  hanno  attribuito  a  questa  specie  un  esemplare  dell'interno 
della  Guiana  conservato  nel  Museo  di  Liverpool!  L'asserzione  veramente  straordi- 
naria m'invogliò  ad  esaminare  tale  esemplare,  che  infatti  ho  potuto  avere  in  comu- 
nicazione per  grande  cortesìa  del  Dr.  Forbes,  Direttore  del  Museo  di  Liverpool,  ed 
ho  potuto  constatare  che  esso  appartiene  ad  una  specie  affatto  diversa. 

30.  Glareola  melanoptera,  Nordm. 

Glareola  nordmanni,  Fischer.  —  Dolina,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  330  (Prince's  I.).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do    Principe)  (1889). 
Glareola  ...'?,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  399  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  1.  e. 
Glareola  melanoptera,  Sharpe,  Cat.  B.,  XXIV,  p.  57  (1896). 

Il  Dohrn  dice  di  aver  raccolto  un  esemplare  non  differente  da  altri  della  Russia. 
31.  Ardea  gularis,  Bosc. 

Ardea  gularis,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  330  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  398 

(Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 
Lepterodius  gularis,  Sharpe,  Cat.  B.,  XXVI,  p.  114  (1898). 

"  Comune  sulle  roccie  della  spiaggia  „   (Dohrn). 

32.  Butorides  atricapilla,  Afzel. 

Ardea  atricapilla,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  330  (Prince's  L).  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  399 

(Prinseil.)  (  1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 
Butorides  atricapilla,  Sharpe,  Cat.  B.,  XXVI,  p.  172  (1898). 

"  Meno  comune  dell'ai,  gularis  „   (Dohrn). 

33.  Lampribis  olivacea  (Du  Bus). 

Geronticus  olivaceus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  330  (Prince's  L).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 

No.  XLV,  p.  44  (1887). 
Ibis  (Geronticus)  olivaceus,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  397  (Prinseil.)  (1866). 
Lampribis  olivacea,  Elliot,  P.  Z.  S.,  1877,  p.  507,  pi.  LI  (Guinea,  Prince's  I.).  —  Sharpe,  Cat.  B., 

XXVI,  p.  38  (Prince's  I.)  (1898). 
Lampribis  rara,  Rotsch.  et  Hart.,  Nov.  Zool.,  IV,  p.  377  (1897).  -  Sharpe,  Cat.  B.,  XXVI, 

p.  266  (1898). 
Theristicus  rarus,  part.  Rchnw.,  Vóg.  Afr.,  I,  2,  p.  328  (Prinzeinsel)  (1901). 


14  TOMMASO    SALVADORI 

«(l)d'  ad.  Roca  Infante  D.  Henrique,  26  gennaio  1901. 

L'esemplare  suddetto  somiglia  alla  figura  di  questa  specie  data  dal  Du  Bus 
(Esq.  Ora.  I,  tab.  3)  copiata  dal  Reichenbach  (Grallatores,  t.  133,  f.  2384);  invece 
esso  differisce  dalla  figura  data  dall'Elliot  (P.  Z.  S.  1877,  pi.  II)  per  avere  le  piume 
delle  parti  inferiori  non  distintamente  di  color  cannella  nel  mezzo  e  marginate  di 
verde  cupo,  ma  di  color  bruno  nero  con  lievi  riflessi  verdi  ed  alquanto  più  chiare 
lungo  il  mezzo.  La  figura  dell'EUiot,  secondo  me,  rappresenta  l'abito  di  un  esemplare 
immaturo,  quale  fu  descritto  anche  dal  Cassin  (Pr.  Ac.  Philad.,  1857,  p.  39  (R.  Muni); 
1859,  p.  174  (Camma)). 

Questo  uccello  vive  nelle  parti  meridionali  dell'isola,  secondo  il  Dohrn,  ed  anche 
nelle  occidentali,  secondo  il  Keulemans. 

Scrive  il  Fea:   "  Mi  dicono  che  è  raro  e  che  vive  lungi  dal  mare  nella  foresta  „. 

34.  Numenius  arquata  (L.). 
Numenius  arquatus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  I.).  —  Sousa,  Jom.   Se.  Lisb., 
No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889).  —  Sharpe, 
Cai  B.,  XXIV,  p.  341  (1896). 
Il  Dohrn  dice  che  questa  specie  vive  nelle  paludi  presso  la  città. 

35.  Numenius  phaeopus  (L.). 
Numenius  phaeopus,  Keulem.,  N.  T.  D.,  III,  p.  400  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,    Jorn.    Se. 

Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 

Il  Keulemans  menziona  questa  e  non  la  specie  precedente  fra  quelle  da  lui  osser- 
vate nell'Isola  del  Principe,  e  siccome  le  sue  osservazioni  furono  contemporanee  a 
quelle  del  Dohrn,  viene  il  dubbio  che  l'uno,  o  l'altro  abbia  sbagliato  nella  identifi- 
cazione della  specie;  tuttavia  non  è  affatto  improbabile  che  ambedue  le  specie  s'in- 
contrino nell'isola. 

36.  Totanus  glottis  (Lath.). 
Totanus  glottis,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  L).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV, 

p.  44  (1887).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 
Glottis  nebularius  (Gunn.).  —  Sharpe,  Cat.  B„  XXIV,  p.  481  (1896). 

"  Vive  nelle  paludi  presso  la  città  „   (Dohrn). 

37.  Tringoides  hypoleucus  (I-.). 

Actitis  hypoleucus,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  I.).  —  Keulem.,   N.  T.  D.,   III. 
p.  400  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 

"  Vive  nelle  paludi  presso  la  città  „   (Dohrn). 

38.  Ancylocheilus  subarquata  (Guldenst.). 

Tringa  subarquata,  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  L).  —  Sousa,  Jorn.    Se.  Lisb., 

No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 
Tringa  .  .  .  ?,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  399  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  1.  e. 
"  Vive  nelle  paludi  presso  la  città  „   (Dohrn). 

Il  Keulemans  (1.  e.)  sotto  il  nome  Tringa  comprende  tre  specie  diverse,  proba- 
bilmente VA.  subarquata,  la  Limonites  minuta  e  la  L.  temmincki. 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  15 

39.  Sterna  anaestheta,  Scop. 

Sterna  melanoptera,  Sw.  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  L).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 

Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887).  -  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 

Sterna  panayensis,  Orni.  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  401  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  1.  e. 
Sterna  anaestheta,  Saund.,  Cat.  B.,  XXV,  p.  101  (1896). 

Il  Dohrn  dice  di  aver  osservata  questa  specie  soltanto  nella  Bahia  do  Oeste. 

40.  Anous  stolidus  (L.). 

Sterna  stolida,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  401  (Prinseil.  e  S.  Thomas)  (1866).  —  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 

"  Si  trova  in  gran  numero  lungo  le  coste  della  parte  meridionale  dell'isola  „ 
(Keulemans) . 

41.  Phaeton  aethereus,  L. 

Phaeton  aethereus,  Dohrn,    P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  L).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 

No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (liba  do  Principe)  (1889). 
? Phaeton  candidus,  Temm.  —  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  375  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  1.  e. 
Phaeton  sp.,  Keulem.,  1.  e,  p.  401  (1866). 

Il  Dohrn  dice  di  aver  visto  varie  volte  il  Ph.  aethereus  volare  sulle  coste  del- 
l'isola, tuttavia  la  determinazione  non  pare  sicura,  siccome  sembra  che  non  ne  sia 
stato  raccolto  alcun  esemplare.  Non  è  improbabile  che  il  Ph.  candidus  citato  dal 
Keulemans  si  riferisca  alla  stessa  specie,  ma  è  anche  possibile  che  ambedue  le  specie 
s'incontrino  nell'isola. 


42.  Sula  leucogastra  (Bodd.). 

Sula  fiber,  Auct.  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  331  (Prince's  L).  -  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili, 
p.  400  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887).  —  Boc,  ibid. 
(2),  No.  I,  p.  36  (Ilha  do  Principe)  (1889). 

Sula  sula  (L.).  —  Grant,  Cat.  B.,  XXVI,  p.  436  (speeim.  r,  Prince's  I.  Dr.  Baikie)  (1898). 

"  Comune  sulla  costa  occidentale  dell'isola  „   (Dohrn). 

43.  Phoeniconaias  minor  (Geoffr.). 

a  (41)  '  juv.  Città  di  S.  Antonio,  Isola  del  Principe,  27  giugno. 

"  Mi  dicono  che  non  sia  raro  e  che  se  ne  vedano  comitive  occupare  in  schiere 
trasversali  le  ribeiras  per  dare  la  caccia  a  pesciolini  (?)  ed  altri  animaletti  acqua- 
tici „  (Fea). 

Questa  specie  non  si  conosceva  dell'Isola  del  Principe. 


16  TOMMASO    SALVADORI    CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA,    ECC. 

APPENDICE 


Specie  dubbie,  od  erroneamente  indicate  dell'Isola  del  Principe. 

1.  Lanius? 

Lanius  ?,  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  380  (Prinseil.)  (1866). 

Lanius  excubitor  (?) ,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV,  p.  44  (1887). 

Il  Keulemans  dice  di  aver  visto  varie  volte  un  uccello  che  gli  sembrava  non 
diverso  dal  Lanius  excubitor  (!)  e  che  era  noto  anche  agli  abitanti  dell'isola.  —  Cer- 
tamente non  poteva  trattarsi  del  L.  excubitor  ! 

2.  Sylvia? 

Sylvia  ('?),  Keulem.,  N.  T.  D.,  Ili,  p.  375  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV, 

p.  44  (1887). 

La  indicazione  di  una  specie  di  Sylvia  nell"  Isola  del  Principe  non  è  accompa- 
gnata da  alcuna  circostanza  che  la  confermi. 

3.  Motacilla  sp. 
Motacilla  ?,  Keulem.,  N„  T.  D.,  Ili,  p.  391  (Prinseil.)  (1866).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLV, 

p.  44  (1887). 

Il  Keulemans  menziona  un  uccello  somigliante  al  giovane  della  M.  alba,  da  lui 
incontrato  nell'Isola  del  Principe. 

4.  Cinnyris  splendidus  (Shaw). 

Nectarinia  splendida,  Hartl,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  20,  n.  87  (lina  do  Principe,  Nordmann, 

Emi.,  Atlas,  p.  6)  (1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  p.  20  (1852). 
Cinnyris  splendida,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  46  (Iiha  do  Principe,  Erniari)  (1857). 

Questa    e  la  seguente   specie    furono   erroneamente   indicate    dall'  Erman   come 

viventi  nell'Isola  del  Principe. 

5.  Chalcomitra  senegalensis  (L.). 

Nectarinia  senegalensis,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  20,  n.  83  (Ilha  do  Principe,  Erman, 

Atl.,  p.  6)  (1850).   -  id,  Abh.  nat.   Ver.  Hamb.,  II,  2,  p.  20  (1852). 
Cinnyris  senegalensis,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  49  (Ilha  do  Principe,  Erman)  (1857). 

6.  Lamprotornis  aenea  (Gm.). 

Hartl,  Beitr.  Orn.  Westafr,  p.  27,  n.  216  (Ilha  do  Principe,  Emi.,  Atl.)  (1850).  —  id,  Abh. 
nat.  Ver.  Hamb,  II,  2,  p.  27  (1852). 

7.  Melanobucco  vieilloti  (Leach). 

Pogonias  vieillotii,  Leach.  —  Hartl,  Beitr.  Orn.  Westafr,  p.  35,  n.  342  (Hha  do  Principe, 
Erm.,  Atl,  p.  1)  (1850).  —  id,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb,  II,  2,  p.  35  (1852).  —  id,  J.  f.  O, 
1854,  p.  197.  —  id,  Orn.  W.  Afr,  p.  170  (liba  do  Principe,  Erm.)  (1857). 


CONTRIBUZIONI 


ORNITOLOGIA  DELLE  ISOLE  DEL  GOLFO  DI  GUINEA 


IL 
UCCELLI   DI  SAN  THOMÉ 

PER 

TOMMASO    SALVADORI 


Approvata   nell'Adunanza   del  25    Gennaio   1903. 


L'Isola  di  San  Thomé,  più  grande  dell'Isola  del  Principe,  e  molto  più  grande 
ancora  della  piccolissima  Anno-bom,  si  trova  situata  fra  esse,  quasi  sotto  l'Equatore  ; 
anzi  l'isolotto  Rollas,  che  è  una  dipendenza  di  S.  Thomé,  lo  oltrepassa  di  poco.  Essa  è 
stata  esplorata  recentemente  dal  sig.  Leonardo  Fea,  il  quale  vi  giunse  il  29  maggio  1901, 
restandovi  parecchi  mesi.  Egli  ha  publicato  (*)  intorno  a  S.  Thomé  un  articolo  inti- 
tolato "  Ricordi  ed  impressioni  „  nel  quale  sono  descritte  le  condizioni  fisiche  del- 
l'isola, e  quelle  non  troppo  liete  degli  abitanti,  in  mezzo  alle  quali  è  costretto  a 
vivere  lo  straniero  che  si  reca  in  quell'isola.  —  In  quell'articolo  non  mancano  alcuni 
cenni  generali  intorno  alla  fauna  ed  alla  flora  dell'  isola.  La  sua  fauna  fu  inve- 
stigata dal  Weiss,  che  vi  si  recò  negli  anni  precedenti  il  1850,  e  più  tardi  dal 
Sr.  Francisco  Newton,  che   vi  fece  l'accolte  per  conto  del  Museo  Reale  di  Lisbona. 

Prima  del  Weiss  si  conoscevano  pochissime  specie  di  uccelli,  e  fra  queste  la  più 
anticamente  conosciuta  era  la  Columba  sylvestris  ex  insula  Sanctì  Thomae  descritta 
dal  Marcgrav  nel  1648,  e  che  il  Gmelin  più  tardi  chiamò    Columba   Sancii    Thomae. 

Conviene  venire  fino  al  1842  per  trovare  una  seconda  specie  dell'isola,  il  Ploceus 
collaris  descritto  dal  Fraser. 

Lo  stesso  Fraser,  l'Hartlaub,  il  Thomson  ed  il  Gray  fra  il  1843  ed  il  1849 
descrissero  altre  poche  specie  di  uccelli  dell'isola. 

La  collezione  ornitologica  fatta  dal  Weiss  sopramenzionato  fu  inviata  al  Museo 
di  Amburgo;  essa  comprendeva  26  specie,  e  fu  studiata  ed  illustrata  dall'Hartlaub, 
che  publicò  un  lavoro  intorno  alla  medesima  nel  1850,  ripublicandolo  più  tardi 
nel  1852. 


;*)  Boll.  Soc.  Geogr.  Ital.  (4),  III,  pp.  40-59,  1902. 
Serie  II.  Tom.  LUI. 


18  TOMMASO    SALV ADORI  2 

Lo  stesso  Hartlaub  negli  anni  successivi,  in  diversi  lavori  relativi  all'ornitologia 
dell'Africa  occidentale,  aggiunse  parecchie  specie  a  quelle  raccolte  dal  Weiss. 

In  un  terzo  periodo,  nel  quale  giunsero  al  Museo  di  Lisbona  le  collezioni  fatte 
in  diverse  volte  dal  Sr.  Francisco  Newton,  il  Barboza  du  Bocage  dal  1867  al  1891, 
publicò  diversi  lavori  intorno  agli  uccelli  di  S.  Thomé. 

Anche  il  Sr.  A.  F.  Moller  ha  visitato  l'isola  di  S.  Thomé,  facendovi  collezioni 
botaniche  e  zoologiche,  che  egli  ha  inviato  al  Museo  di  Coimbra;  gli  uccelli,  appar- 
tenenti a  28  specie,  furono  determinati  dal  Barboza  du  Bocage,  ma  la  lista  fu  publi- 
cata  dal  Dr.  L[opes]  V|ieira]  nel  giornale  "  Instituto  „  1887,  N.  11;  la  collezione 
conteneva  una  specie  nuova,  che  era  stata  descritta  precedentemente  dal  Barboza  du 
Bocage  (Prinia  molleri)  insieme  col  Cinnyris  newtoni. 

Nel  1888  il  De  Sousa  publicò  un  breve  lavoro  riassuntivo  intorno  alla  ornito- 
logia di  S.  Thomé,  annoverando  64  specie  (invero  non  tutte  con  buon  fondamento), 
24  delle  quali  erano  rappresentate  nel  Museo  di  Lisbona. 

Successivamente  lo  stesso  Barboza  du  Bocage,  lo  Sharpe,  l'Hartert  ed  io  stesso 
abbiamo  aggiunto  parecchie  specie  al  novero  di  quelle  indicate  dal  De  Sousa, 

Il  Sig.  Leonardo  Fea  non  fu  molto  fortunato  neppure  nell'isola  di  S.  Thomé,  e 
la  sua  collezione,  fatta  in  mezzo  a  grandissime  difficoltà,  conta  soltanto  103  esem- 
plari, appartenenti  a  21  specie,  delle  quali  due  sono  state  descritte  da  me  come 
nuove,  discriminandole  da  altre  colle  quali  erano  state  confuse. 

Secondo  le  mie  ricerche  le  specie  di  S.  Thomé  conosciute  attualmente  sono  63 
e  di  queste  ben  22  sono  proprie  ed  esclusive  dell'isola.  Queste  specie  sono  le  seguenti: 

1.  Tersiphone  atrochalybea  12.  Hyphantornis  grandis 

2.  Lanius  newtoni  13.  Heteryphantes  sancii  Thotnae 

3.  Elaeocerthia  thomensis  14.  Lagonosticta  thomensis 

4.  Cinnyris  newtoni  1">.  Oriolus  erassirostris 

5.  Zosterops  feae  16.  Onycognathus  fulgidus 

6.  Speirops  lugubris  17.  Chaetura  thomensis 

7.  Prinia  molleri  18.  Coryihornis  thomensis 

8.  Turdus  olivaceofuscus  19.  Scops  leucopsis 

9.  Amaurocichla  bocagei  20.  Strix  thomensis 

10.  Linurgus  thomensis  21.   Vinago  sancii  Thomae 

11.  Neospiza  (n.  gen.)  concolor       22.  Columba  thomensis. 

Una  specie,  Y Amblyospiza  concolor,  appartiene,  secondo  me,  ad  un  genere  nuovo, 
che  finora  non  avrebbe  rappresentanti  altrove.  Altro  genere,  esclusivo  di  S.  Thomé, 
non  si  conosce. 

Nel  preparare  il  presente  lavoro  io  dovetti  ricorrere  all'  illustre  Prof.  Barboza 
du  Bocage,  dal  quale  ottenni,  per  poterli  studiare,  alcuni  esemplari  del  Museo  di 
Lisbona,  ed  anche  all'amico  Ogilvie-Grant  del  Museo  Britannico,  per  taluni  confronti 
e  schiarimenti;  ad  ambedue  rendo  publicamente  vivissime  grazie. 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA 


1!» 


Bibliografia  Ornitologica  dell'Isola  di  San  Thomé. 


(1648)  Marcgrav,  G„  Historiae  rerum  naturalium  Brasiliae,  libri  octo.  —  Quintus  de  avibus  (Men- 
ziona e  descrive  la  Columba  Sylvestris  species  ex  insula  Sondi  Thomae  =  Vinago  scindi 
Thomae). 

(1788)  Gmelin,  J.  F.,  Systema  naturae  (Denomina  Columba  sancti  Thomae,  I,  2,  p.  778,  No.  46,  la 
specie  menzionata  dal  Marcgrav). 

(1842)  Thomson,  T.  R.,  Description  of  a  New  Genetta  and  of  two  species  of  Birds  from  Western 
Africa  {Ann.  Nat.  llist.  X,  p.  104)  (Muscipeta  atrochalybea). 

(1842)  Fraser,  L.,  Un  some  New  Species  of  Birds  from  Fernando  Po  [and  St.  Thomas  Island]  (P.  Z.  S. 

1842,  pp.  141-142)  {Ploceus  collaris,  Fras.  nec  VieillA 

(1843)  „     On  Birds  from  Western   Africa  (Treron    crassirostris  (P.  Z.  S.  1843,  p.  35)  =  V.  sancti 

Thomae). 
(1848)  Hartlauh.  Dr.  G.,  Description  de  cinq  nouvelles  espèces  d' Oiseaux   de  l'Afrique   occidentale 
(He».  Zool.  1848,  pp.  108-110)  (Tre  specie  sono  di  S.  Thomé:  Zosterops  lugubris,  Sycobius 
St. -Thomae,  Ploceus  erythrops). 

(1848)  Alle»,  W.    and   Thomson,  T.  R.  H.,    A  Narrative   of  the    expedition   sent  by  Her  Majesty's 

Government  to  the  River  Niger  in  1841. 

A  pag.  41,  42  del  voi.  II  sono  menzionate  le  seguenti  specie  dell'Ilha  das  Rollas  (*): 
Columba  trigonigera  (=  C.  thomensis?),  Turtur  chaleospilus  or  rufous  winged  turtle  dove 
(— Haplopelia  simplex?),  Turtur  semitorquatus  (=  Turturoena  malherbei?),  Treron  crassi- 
rostris, Malaconotus  olivaceus  ('?),  Malaconotus  chrysogaster  (?),  Melasoma  edolioides  (?). 

(1849)  Gray,  G.  R.,  Genera  of  Birds  (Hyphantornis  grandis  =  P.  collaris,  Fr.). 

(1849)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Description  de  cinq  nouvelles  espèces  d'Oiseaux   de  l'Afrique   occidentale 

(4  specie  di  S.  Thomé  :  Onycognathus  fulgidus,  Coturnix  histrionica,  Athene  leucopsis,  Turtur 
simplex)  (Pev.  et  Mag.  de  Zool.  1850,  pp.  494-497). 

(1850)  „     Beitrag  zur    Ornithologie    Westafrica'  s    (Verzeichniss    der    offentlichen   und    Privat-Vor- 

lesungen,  welche  am  Hamburgischen  akademischen  Gymnasium  u.  s.  w.  gehalten  werden. 
Herausgegeben  von  K.  W.  M.  Wiebel).  Hamburg ,  1 850 ,  pp.  1-47  (Sono  annoverate 
26  specie  di  uccelli  di  S.  Thomé,  raccolte  dal  Weiss). 

(1850)  „  Neue  Arten  des  hamburgischen  naturhistorischen  Museums  (ibid.  pp.  48-56)  (Ridescrive  le 
varie  specie  di  S.  Thomé  descritte  precedentemente  e  per  la  prima  volta  il  Turdus  oli- 
vaceo-fuscus). 

(1850)  „  Ornithology  of  the  Coasts  and  Islands  of  Western  Africa  (Contr.  Orn.  1850,  pp.  129-140) 
(Annovera  le  26  specie  di  uccelli  di  S.  Thomé,  raccolte  dal  Weiss  e  menzionate  prece- 
dentemente). 

(1852)  ,  Beitrag  zur  Ornithologie  Westafrica's  (Abh.  Natura:  Ver.  Hamb.  II,  2,  pp.  1-47)  (Ristampa 
del  lavoro  pubblicato  nel  1850). 

(1852)  „  Neue  Arten  des  hamburgischen  naturhistorischen  Museums  (ibid.  pp.  48-56)  (Tafeln  I-III, 
VII-XI,  rappresentano  specie  di  S.  Thomé). 

(1852)     „     Zweiter  Beitrag  zur  Ornithologie  Westafrica's  [ibid.  pp.  57-68). 

(1852)  ,  Description  de  quelques  nouvelles  espèces  d'oiseaux  (Strix  thomensis,  Rev.  et  Mag.  de  Zool. 
1852,  p.  3). 

(1854)  „  Versuch  einer  synoptischen  Ornithologie  Westafrica's  (Forsetzung)  (Journ.  f.  Orn.  1854, 
p.  2)  {Halcyon  dryas,  Lamprocolius  ignitus!). 

(1857)  ,  System  der  Ornithologie  Westafrica's  (Neophron  pileatus,  Psittacus  erythacus,  Oriolus  cras- 
sirostris, Numenius  haesilatus,  N.  phaeopus). 

(1861)  „  Berichtigungen  und  Zusàtze  zu  meinem  *  System  der  Ornithologie  Westafrica's  ,  {Journ. 
f.  Orn.  1861,  pp.  97-112,  161-176,  257-276)  (Annovera  8  specie  che  sarebbero  state  rac- 
colte in  S.  Thomé  dal  Gujon,  ma  probabilmente  sono  di  altra  località:  Halcyon  cancro- 
phaga,  C'eryle  maxima,  Merojis  aegyptius  (=  saperci! iosus),  Merops  hirundinaceus ,  Merops 
erythropterus,  Passer  simplex,  Psittacida  roseicollis,  Parrà  africana). 


(*)  L'Isola  Rollas  è  una  dipendenza  dell'Isola  di  S.  Thomé. 


20  TOMMASO    SALVADOBI  4 

(1867)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Aves  das  possessoes  portuguezas  da  Africa  occidental  que  existem 
no  Museu  de  Lisboa  (Jorn.  Se.  Lisb.  I,  pp.  129-153)  (Sono  menzionate  6  o  7  specie  di 
S.  Thomé,  fra  le  quali  tre  nuove  per  quell'isola:  Hyphantornis  capitalis.  Turturoena  sp., 
Rallus  caerulescens,  Phaeton  candidus). 

(1869)  Sharpe,  R.  B.,  On  the  Birds   of  Angola  (P.  Z.  S.  1869,  pp.  563-572)  (Menziona  3  specie   già 

note  di  S.  Thomé). 

(1870)  Finsch,  Dr.  0.  und  Hartlaub,  Dr.  G.,  Die  Vogel  Ost-Africas  (È  menzionato  un    esemplare    di 

S.  Thomé  del  Phoenicopterus  erythraeus  conservato  nel  Museo  di  Brema  e  raccolto  dal 
Weiss)  ed  il  Merops  aegtjptius  Hartl.  (nec  Forsk.)  è  identificato  col  M.  superciliosus). 

(1879)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Subsidios  para  a  Fauna  des  possessoes  portuguezas  d'Africa  occi- 
dental {Jorn.  Se.  Lisb.  No.  XXVI  (Ilha  de  S.  Thomé,  Aves,  pp.  86-87)  (Sono  annoverate 
per  la  prima  volta  ì'Estrelda  Astrila  e  la  Vidua  principalis). 

(1882)  Greef,  R.,  Die  Insel  Rolas  (Globus,  41  Bd.  1882,  9  pag.)  iNon  vidi). 

(1884)  ,  Die  Fauna  der  Guinea-Inseln  S.  Thomé  und  Rolas  (Sitgsber.  Ges.  z.  Beford.  des  ges.  Naturieiss. 
Marburg,  1884,  No.  2,  pp.  41-79)  (Contiene  alcuni  cenni  (pp.  46-47)  intorno  a  poche  specie 
già  menzionate  dall'Hartlaub). 

(1887)  Barboza  do  Bocage,  J.  V.,  Oiseaux  nouveaux  de  l'ile  St.  Thomé  (Jorn.  Se.  Lisb.  No.  XL1V, 
pp.  250-253,   {Prillili  moileri,  Cinnyris  newtoni). 

(1887)  L[opes]  V[ieira],  Aves  da  Ilha  de  S.  Thomé  {Instituto,  1887,  No.  11,  pp.  1-4,  Coimbra)  (4  specie 
nuove  per  l'isola:  Hirundo  rustica,   Vidua  paradisea,  Herodìas  garzetta,  Anous  stolidus). 

(1887)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Additamento  a  fauna  ornithologica  de  St.  Thomé  (Jorn.  Se.  Lisb. 

No.  XLVI,  pp.  81-83)  (Aetitis  hypoleucos,  Columba  arquatrix  var.). 

(1888)  „     Sur  un  oiseau    nouveau  de  St.    Thomé  de    la    Famille  "  Fringillidae  „  (ibid.  No.  XLVI1, 

pp.  148-150)  (Phaeospiza  thomensis). 
(1888)  De  Sousa,  J.  A.,  Enumeracao  das  Aves  conhecidas  da  Ilha  de  S.  Thomé,  seguida  da  Lista  das 

que  existem    d'està   Ilha   no    Museu    de   Lisboa    (ibid.   No.  XLVII,  pp.  151-159)  (Cuculus 

canorus,  Ciconia  alba,  Estrelda  thomensis). 
(1888)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Note  sur  la  "  Phaeospiza  thomensis  ,  (ibid.  No.  XLVII,  pp.  192-1931. 
(1888)     „     Sur  quelques  oiseaux  de  l'Ile  St.  Thomé  (ibid.  No.  XLVIII,  pp.  211-215). 

(1888)  „     Oiseaux  nouveaux  de  l'Ile  St.  Thomé  (ibid.  No.  XLVIII,  pp.   231-234)   (Scops   sca2mlatus, 

Amblyospiza  concolor,  Columba  arquatrix  var.  thomensis,  Lampribis  olivaeea). 

(1889)  „     Breves  consideracòes  sobre   a  Fauna   de  S.  Thomé    (ibid.  (2),  No.  I,  pp.  33-36)  (Chaetura 

sabinii,  Totanus  glareola,  Strepsilas  interpres,  Ortygometra  egregia). 
(1889)     „     Sur  deux  espèces  à  ajouter  à  la  faune   ornithologique    de   St.   Thomé    (ibid.  (2),   No.   II, 

pp.  142-144)  (Euplectes  aureus,  Nectarinia  thomensis  nova  sp.). 
(1889)     „     Aves  da  Ilha  de  S.  Thomé  (ibid.  (2),  No.  III,  pp.  209-210)  (Sterna  fuliginosa). 

(1891)  „     Oiseaux  de  l'Ile  St.  Thomé  (ibid.  (2),  No.  VI,  pp.  77-87)  (Lanius  (Fiscus)    Newtoni,  Chri- 

tagra  chrysopyga,  Sterna  anaestheta,  Procellaria  sp.,  Siila  fiber). 

(1892)  Sharpe,  R.  B.,  Description  of  some  new  Species  of  Timeliine  Birds  from  West  Africa  (P.  Z.  S. 

1892,  pp.  227-228)  (Amaurocichla  bocagei,  nov.  sp.). 
(1896)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Aves  d'Africa  de  que  existem  no  Museu  de  Lisboa  os  exemplares 
typicos  (Jom.  Se.  Lisb.  (2)  No.  XV,  pp.  179-186)    (Annovera    anche    parecchie    specie   di 
S.  Thomé). 

(1900)  Hartert,  E.,  Chaetura  thomensis,  sp.  n.  (Bull.  B.  O.  C,  X,  pp.  LILI-LIV). 

(1901)  Salv adori,  T.,  Due  nuove  specie  di  uccelli  dell'Isola  di  S.    Thomé  e  dell'Isola   del   Principe 

(Boll.  Mus.  Tor.  No.  414,  pp.  1-2)  (Zosterops  feae). 

(1902)  „     On   a  New    Kingfisher    of  the   genus  Corythornis  (The  Ibis,  1902,  pp.  566-569,  pi.  XIII) 

(C.  thomensis). 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  21 


1.  Hirundo  rustica,  L. 

Hirundo  rustica.  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  154  (1888).  -  Boc,  ibid.  (2),  No.  VI,  p.  86  (1891). 
Si  conosce  un  solo  esemplare  di  questa  specie  raccolto  in  San  Thomé  dal  Moller 


2.  Terpsiphone  atrochalybea  (Thoms.). 

Muscipeta  atrochalybea,  Thoms.,  Ann.  and  Mag.  N.  H.,  X,  p.  204  (Fernando  Po!)  (1842). 
—  Hartl.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1849,  p.  497  (St.  Thomé).  —  id.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz., 
pp.  1,  3,  25,  46  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw. 
Ver.  Hanib.,  II,  pp.  1,  3,  25,  46  (9)  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  29.  -  Boc,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  II,  p.  137,  n.  53  (<*"  St.  Thomé)  (1867).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
p.  151  (1888). 

Tchitrea  atrochalybea,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  92  (descr.  foeminae  errata)  (1857).  —  G.  R. 
Gr.,  Hand-List,  I,  p.  333,  n.  5009  (1869).  -  Gieb.,  Thes.  Orn.,  III,  p.  593  (1877). 

Muscipeta  melampyra,  Boc.  (nec  Verr.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  II,  p.  137,  n.  54  (?  St.  Thomé) 
(1867).  —  id.,  Orn.  Ang.,  p.  194  (nota)  (1877).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
p.  153  (nota)  (1888). 

Terpsiphone  atrochalybea,  Pinsch  u.  Hartl.,  Vog.  Ostafr.,  p.  313  (nota)  (1870).  —  Sharpe, 
Cat.  B.,  IV,  p.  362  (1879).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  VII,  No.  XXVI,  p.  86  (descr.  foeminae) 
(1879).  —  L.  V.  Instituto,  No.  11,  p.  3  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLVII,  p.  150  (1888).  —  Sousa,  ibid.,  pp.  152,  157  (1888).  —  Boc,  op.  cit.,  No.  XLVIII, 
p.  233  (1888);  (2)  I,  p.  35  (1889);  II,  p.  144  (1889);  in,  p.  209  (Rio  do  Ouro)  (1889);  VI, 
p.  78  (ova  e  nido)  (1891).  —  Dubois,  Syn.  Av.,  p.  281  (Congo!)  (1900).  —  Sharpe,  Hand- 
List,  III,  p.  255  (R.  Congo  !)  (1901). 

Terpsiphone  costata  part.,  Oust.,  Nouv.  Arch.  Mus.  (2),  II,  p.  99  (St.  Thomé)  (1879).  — 
Sousa,  Jorn.  Se  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153 


"  Nome  volgare  'Tome-Gagà'  „   (F.  Newton). 

a  (8)^  Rib.  Palma,    5  luglio  1900. 

6  (13)  d-  „  26       „ 

e  (14)  *"  „  23 

d  (60)  d-  „  7  agosto    „ 

e  (76)  s  Vista  Alegre,  23  settembre  1900. 

f(12)9  Rib.  Palma,  5  luglio  1900. 

g  (46)  i  „  1°  agosto    » 

h  (54)  9  »  8 

i  (78)  9  Vista  Alegre,  25  settembre  1900. 

La  descrizione  della  femmina  data  dall'  Hartlaub  e  ripetuta  nell'  opera  Vogel 
Ostafrika's  è  affatto  sbagliata;  esatta  invece  è  quella  data  dal  Barboza  du  Bocage. 

Siccome  questa  specie  non  si  trova  nell'Isola  del  Principe,  interposta  fra  S.  Thomé 
e  Fernando  Po,  mi  era  venuto  il  dubbio  che  gli  esemplari  di  S.  Thomé  potessero 
essere  diversi  da  quelli  di  Fernando  Po;  invece,  fatto  confrontare  dall'Ogilvie-Grant 
un  maschio  adulto  di  S.  Thomé  coll'esemplare  tipico  del  Museo  Britannico,  indicato 
di  Fernando  Po,  non  è  apparsa  differenza  alcuna,  e  siccome  il  Boyd  Alexander  non 
ha  trovato  questa  specie  in  Fernando  Po,  pare  probabile  che  per  errore  questa  località 
sia  stata  attribuita  all'esemplare  tipico  e  che  la  specie  sia  esclusiva  di  S.  Thomé. 


22  TOMMASO   SALVADORI  6 

3.  Lanius  newtoni,  Boa 

Lanius  (Fiscus)  Newtoni,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  79  (Si  Miguel  et  Eio  Quija, 

F.  Newton)  (1891). 
Fiscus  newtoni,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XV,  p.  182  (Tipo)  (1896). 
Lanius  newtoni,  Grant,  Nov.  Zool.,  IX.  p.  467  (1902). 

Il  Bocage  ebbe  cinque  esemplari  di  questa  specie,  due  maschi  adulti,  una  fem- 
mina adulta  e  due  giovani.  Egli  asserì  che  gli  adulti  avessero  le  parti  inferiori 
tinte  di  giallo;  questa  cosa  mi  parve  tanto  straordinaria  per  una  specie  del  genere 
Lanius,  da  farmi  dubitare  che  si  trattasse  invece  di  una  specie  dei  generi  Laniarius, 
o  Chlorophoneus.  Avendo  potuto,  per  cortesia  del  Barboza,  esaminare  due  esemplari 
del  Museo  di  Lisbona,  una  femmina  adulta  ed  un  giovane,  con  mia  sorpresa,  ho 
trovato  che  la  femmina  adulta  ha  le  parti  inferiori  bianche,  senza  traccia  della  tinta 
gialla  menzionata  dal  Bocage  (!).  Il  giovane  ha  il  bianco  delle  parti  inferiori  tinto  di 
fulvo;  il  nero  delle  parti  superiori  alquanto  bruniccio;  il  bianco  delle  scapolari  misto 
di  nero  e  di  fulviccio;  le  cuopritrici  delle  ali  e  le  remiganti  marginate  di  rossigno; 
gli  apici  delle  timoniere  bianchicci  e  non  bianchi,  come  nell'adulto.  —  Come  ha  fatto 
notare  il  Barboza,  questa  specie  si  distingue  dalle  affini  L.  smithi,  L.  collaris  e 
h.  humeralis  pei  seguenti  caratteri: 

1°  Mancanza  di  specchio  bianco  sulle  ali. 

2°  Colorazione  nera  del  groppone  e  del  sopraccoda. 

3°  Inversione  del  bianco  sulla  timoniera  esterna,  che  invece  di  avere  il  bianco 
sul  vessillo  esterno,  l'ha  sull'interno. 

Rispetto  alla  tinta  gialla  delle  parti  inferiori,  asserita  dal  Bocage,  essa  non 
appare  affatto  negli  esemplari  da  me  esaminati,  e  non  so  comprendere  per  quale 
errore  sia  stata  indicata. 

La  frase  specifica  di  questa  specie  dovrà  essere  come  seguo:  Supra  nitide  niger, 
subtus  albus;  speculo  alari  nullo;  scapularibus  albo  terminatis;  remigibus  nigris,  intus 
albido  limbatis;  subalaribus  albis,  extimis  fuscis;  rectricibus  nigris,  extimae  pogonio  interno 
et  apice  albis,  tribus  sequentibus  albo  terminati*;  rostro  pedibusqui  nigris.  Long.  tot. 
circa  200  mm.  ;  alae  87;  caud.  105;  rostri  culm.  14;  tarsi  23. 

4.  Elaeocerthia  thomensis  (Boc). 

Nectarinia  thomensis,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  I,  No.  II,  p.  143  (St.  Miguel,  F.  Newton) 
(1889);  No.  VI,  p.  78  (<j-  s  St.  Miguel,  còte  occidentale  de  l'ile  de  St.  Thonié.  F.  Newton) 
(1891);  No.  XV,  p.  180  (Tipo)  (1896). 

Elaeocerthia  thomensis,  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  5,  no.  60  (1896);  II,  p.  119,  pi.  5,  f.  2  (cf)  (Uhm:,. 

5.  Cinnyris  newtoni,  Boc. 

Cinnyris  newtoni,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  XI,  No.  XLIV,  p.  250  (St.  Thonié)  (1887).  —  L.  V., 
Instituto,  No.  11,  p.  2  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
pp.  154,  157  (1888).  -  Boc,  ibid.,  No.  XLIII,  pp.  211,  233  (1888);  (2),  I,  pp.  34,  35  (1889); 
No.  VI,  p.  78  (Diego  Nunes,  Santa  Maria  (1350  ni.),  Santa  Cruz  dos  Angolares,  St.  Miguel, 
Mouta  et  Batepà)  (1891). 

Cyanomitra  newtoni ,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XV,  p.  180  (Tipo)  (1896).  —  Shell., 
B.  Afr.,  I.  p.  5,  no.  69  (1896):  II,  p.  134,  pi.  5,  f.  1  (1900). 


7  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  23 

a  (1)  e  ad.  Ribeira  Palma,  13  luglio  1900. 
è  (25)  a'  ad.  „  24 

e  (31)  rr  ad.  „  „         „ 

d{i3)j  ad.  „  1°  agosto     „ 

e  (15)  «  „  28  luglio      „ 

/'(16)i  .  25 

I  maschi  adulti  concordano  in  tutto  colla  figura  del  maschio  data  dallo  Shelley; 
le  femmine  nelle  parti  superiori  sono  simili  ai  maschi,  dai  quali  differiscono  per 
avere  la  gola  e  la  parte  anteriore  del  collo  di  colore  olivaceo  scuro  con  un  certo 
disegno  a  squame,  essendo  i  margini  delle  piume  più  chiari  della  base  ;  inoltre  le  fem- 
mine mancano  della  grande  area  di  color  giallo  zolfino  sul  petto,  che,  come  il  resto 
delle  parti  inferiori,  è  di  color  giallo  chiaro  e  non  buff,  come  dice  lo  Shelley. 

6.  Zosterops  feae,  Salvad. 

Zosterops  ficedulina,  Sousa  (nec  Hartl.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.   157  (esemplare   in 

alcool,  St.  Thomé?)  (1888).  —  Boc,  op.  eit.  (2),  No.  VI,  p.  86  (1891). 
Zosterops  ficedulina,  var.,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  35  (St.  fhomó)  (1889). 
Zosterops  feae,  Salvad.,  Boll.  Mus.  Tor.,  No.  414,  p.  1  'Ins.  St.  Thomé)  (1901). 

Supra  viridis,  margine  frontali,  loris,  gula,  abdomine  medio  et  subcaudalibus  pallide 
ftavis;  annulo  circumoculari  niveo,  infra  taenia  nigra  marginato;  pectore  lateribusque 
griseo-virescentibus,  his  bruuneo  tinctis;  remigibus  rectricibusque  fuscis,  exterius  viridi 
lìmbatis;  remigibus  intus  albo-mar  ginatis;  subalaribus  albis,  vix  flavicante-tinctis  ;  rostro 
pallide  corneo;  pedibus  fuscis.  Long.  tot.  mm.  107;  al.  53;  caud.  35;  rostri  culm.  9; 
tarsi  17. 

a  (64)  9  Ribeira  Palma,  10  agosto  1900. 

è(65)cT  7 

e  (84)  9  Vista  Alegre,  23  settembre  „ 

d(88)cr  „  8 

II  sig.  Fea  ha  inviato  quattro  esemplari  di  questa  specie ,  due  maschi  e  due 
femmine,  i  quali  presentano  lievi  differenze  nel  colorito,  più  o  meno  vivo,  delle  parti 
inferiori. 

Questa  specie  era  stata  già  trovata  nell'isola  S.  Thomé,  ed  anzi  il  Bocage 
intravvide  che  essa  era  diversa  dalla  Z.  ficedulina  dell'Isola  Principe,  alla  quale  tut- 
tavia erroneamente  la  riferì  ;  questa  ha  il  pileo  bruniccio,  più  scuro  delle  altre  parti 
superiori,  le  parti  inferiori  più  chiare  e  senza  tinta  bruna  sui  fianchi,  l'anello  di 
piume  bianche  perioculare  meno  distinto,  e  manca  della  stria  nera  suboculare. 

Il    Fea   nota    che   questa   specie  ha  gli  stessi  costumi   della  seguente. 

7.  Speirops  lugubris  (Hartl.). 

Zosterops  lugubris,  Hartl.,  Rev.  ZooL,  1848,  p.  109  (St.  Thomé).  —  G.  R.  Gi\,  Gen.  B.,  I, 
p.  198,  n.  22  (1848).  —  Bp.,  Consp.,  I,  p.  398  (1850).  —  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz., 
pp.  1,  23,  49  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb., 
II,  pp.  1,  23,  49,  taf.  II  (fig.  med.)  (1852).  —  Rcbnb.,  Handb.,  Merop.,  p.  93,  t.  CCCCLXII, 
ic.  3306  (e.  1852).  -  Sharpe  in  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  199  (1869).  —  id.,  P.  Z.  S.,  1869, 
p.  564  (St.  Thomé).  —  Greeff,    Sitzb.  Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  —  Boc,  Jorn.  Se 


24  TOMMASO    SALVADORI  8 

Lisb.,  No.  XLIV,  p.  251  (nota)  (1887).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (1887).  —  Boc,  -Torn. 

Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  150  (1888).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  151,  152, 

157  (S.  Thomé)  (1888).  —  Boc.,  ibid.,  No.  XLVIII,  p.  233  (1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889); 

No.  Ili,  p.  209  (Eio  do  Ouro)  (1889);  No.  VI,  p.  80  (Eolas,  Neves;  uovo,  nido)  (1891).  — 

Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  8,  n.  106  (1896).  —  Pinsch,  Tierr.,  Zosteropidae,  p.  36  (1901). 
Speirops  lugubris,  Echnb.,  Icon.  ad  Syn.  Av.,  No.  IX,    sp.  200  (1  Martii  1852).  —  Hartl., 

J.  f.  O.,  1865,  p.  28.  —  Shell.,  B.  Afr.,  II,  p.  201  (1900). 
Zosterops  (Speirops)  lugubris,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  72  (1857).  —  Heugl.,  Ibis,    1861, 

p.  361.  —  G.  E.  Gr.,  Hand-List,  I,  p.  164,  n.  2170  (1869). 

8  Nome  volgare   Ué-glosso  „   (F.  Newton). 

«(9)^  Rib.  Palma,  11  luglio  1900. 

6(28)^  „  25      „ 

e  (49)  <f  „  3  agosto    „ 

d  (2)  5  „  8  luglio      „ 

e  (3)  2  „  9      „ 

f  (50)  2  „  3  agosto     „ 

Le  femmine  sono  simili  ai  maschi. 

"  Molto  abbondante.  Si  trova  per  lo  più  in  comitive  di  parecchi  individui;  fre- 
quenta i  luoghi  ombrosi ,  procedendo  con  brevi  voli  ed  emettendo  un  sommesso 
pigolio  „   (Fea). 

La  descrizione  che  il  Finsch  dà  di  questa  specie  non  è  esatta,  giacche  il  sotto- 
coda non  è  di  colore  olivaceo-giallognolo,  ma  bruno-olivaceo;  inoltre  le  tibie  sono 
bianche,  la  qual  cosa,  sebbene  notevolissima,  non  è  indicata  dal  Finsch. 

8.  Prinia  molleri,  Boc. 

Drymoica  ruflcapilla,  Hartl.  (nec  Fras.),  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  21  (St.  Thomé)  (1850). 
—  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  pp.  1,  21 
(1852).  —  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  15  (pari).  —  id.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  57  (part,  St.  Thomé) 
(1857).  —  Sousa,   Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888). 

Prinia  molleri,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  XI,  No.  XLIV,  p.  251  (St.  Thomé)  (1887).  —  L.  V,  Insti- 
tuto, No.  11,  p.  2  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  154,  157  (1888).  —  Boc., 
ibid.,  No.  XLVIII,  p.  212  (<r  ad.?),  p.  233  (1888);  (2),  No.  I,  pp.  34,  35  (1889);  No.  III,  p.  209 
(Eio  do  Ouro)  (1889);  No.  VI,  p.  80  (1891);  No.  XV,  p.  183  (Tipo)  (1896).  —  Shell.,  B.  Afr., 
I,  p.  73,  n.  1020  (1896).  —  Dubois,  Syn.  Av.,  p.  359,  no.  5081  (fase.  V,  1900). 

Cisticola  ruflcapilla,  Sousa  (nec  Fras.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 

"  Nome  volgare  '  Tucli  '  „   (F.   Newton). 
a(32)d>  Rib.  Palma,  22  luglio  1900. 
b  (44)  <?  „  1°  agosto     „ 

c(45)rf-  „  „ 

d(68)rf"  „  15       „ 

e  (83)  <f  Vista  Alegre,  23  settembre  1900. 
/"(53)2    Rib.  Palma,     9  agosto  „ 

.9(63)*  10       , 

h  (79)  ?  Vista  Alegre,  22  settembre     „ 
i  (85)  2  25 

Tuf,ti  questi  esemplari  sono  simili  fra  loro;  lievissime  sono  le  differenze  nel 
colore  grigio  scuro  del  dorso,  più  o  meno  lievemente  tinto  di  rossigno;  il  bianco  della 


9  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  25 

gola  è  più  o  meno  tinto  di  rossigno;  nessuno  ha  sul  petto  la  fascia  trasversale  di 
color  cenerino  scuro  menzionata  in  un  esemplare  esaminato  dal  Bocage  (1.  e.  No.  XLVIII, 
pag.  212). 

"  Questo  uccello  ha  canto  monotono,  ma  nelle  movenze  è  pieno  di  grazia, 
vivacissimo  e  sempre  in  moto;  col  battere  delle  ali  produce  un  rumore  secco,  come 
di  un  colpo  di  spatola  „  (Feci). 

9.  Turdus  olivaceofuscus,  Hartl. 

Turdus  olivaceofuscus,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  23,  49  (St.  Thomé)  (1850).  - 

id.,  Contr.  Oro.,  1850,  p.  131.   -  id.,  Abb.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  1,  23,  49,  Taf.  Ili 

(fig.  bona)  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  23,  n.  189.  -  Miill.,  J.  f.  0.,  1855,  p.  389.  - 

Hartl.,  Om.  W.  Afr.,  p.  75  (1857).  —  Seebb.,  Cat.  B.,  V,  p.  189  (1881).  -  Greeff,  Sitzb. 

Gres.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (St.  Thoiné,  Moller)  (1887). 

—  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  150  (1888).  —  Sousa,  ibid.,  pp.  151,  152  (1888).  — 

Boc,  ibid.,  No.  XLIII,  pp.  212,  233  (1888).  -  id.,  op.  cit.  (2),  I,  p.  35;  II,  p.  144  (1889); 

VI,  p.  80  (1891)  (ova).  —  Seebb.  et  Sharpe,  Mon.  Turd.,  p.  113,  pi.  XXXVI  (pt.  Ili,  1898). 
Turdus  olivaceorufus  (errore),  Gieb.,  Tbes.  Om.,  IH,  p.  717  (1877). 

0-6(55,59)^  Rib.   Palma,  6  agosto  1900. 

e  (82)  f  Vista  Alegre,  22  settembre  1900. 

d  (94)  j  „  4  ottobre 

e  (99)  e  3 

f  (24)  s  Ribeira  Palma,  20  luglio 

g  (75)  s  „  28  agosto 

/*  (92)  s  Vista  Alegre,     8  ottobre         „ 

«(93)9  9 

Le  femmine  non  differiscono  sensibilmente  dai  maschi. 

La  figura  di  questa  specie  nella  Monograph  of  the  Turdidae  non  è  molto  esatta, 
mostrando  le  parti  inferiori  troppo  rossigne,  o  fulviccie,  laddove  in  tutti  gli  esemplari 
sopra  citati  esse  sono  molto  più  biancheggianti;  inoltre  essi  hanno  tutti  una  sorta 
di  fascia  bruniccia  a  traverso  la  parte  inferiore  del  collo  che  non  appare  nella  figura 
citata. 

La  sinonimia  di  questa  specie  è  incompleta  tanto  nel  Catalogne  of  Birds,  quanto 
nella  Monografia  dei  Turdidi,  mancando  nella  medesima  la  citazione  della  descrizione 
originale. 

10.  Amaurocichia  bocagei,  Sharpe. 

Amaurocichla  bocagei,  Sharpe,  P.  Z.  S.,  1892,  p.  227,  pi.  XX,  f.  1  (San  Miguel,  W.  Coast 
of  St.  Thomas).  —  Bocage,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XV,  p.  183  (Tipo)  (1896). 

11.  Linurgus  thomensis  (Boc). 

Phaeospiza  thomensis,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  148  (St.  Thomé)  (1888).  —  Sousa, 

ibid.,  p.  159  (nota)  (1888).  —  Boc.,  ibid.,  p.  192  (partim)  (1888). 
Passer  sp.,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  155  (St.  Thomé)  (1888). 
Poliospiza  rufobrunnea,  Boc.  (nec  G.  R.  Gr.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII,  p.  234  (1888); 

(2),  No.  I,  pp.  35,  36  (pari)  (1889);  No.  VI,  p.  81  (St.  Thomé)  (1891).  -  Shell.,  B.  Afr., 

I,  p.  21,  n.  278  (part.)  (1896). 
Linurgus  thomensis,  Shell.,  B.  Afr.,  Ili,  p.  173  (1902). 

D 

Serie  II.  Tom.  LUI. 


26  TOMMASO    SALVADORI  10 

a  (10)  cf  Rib.  Palma.  9  luglio  1900. 

6(56)  <t  ••  -1  agosto     - 

c(61)rf  ,  14       „ 

d  (80)  #  Vista  Alegre,  24  sett.      „ 

e  (90)  <f  „  7  ottobre  „ 

f(91)<f  »  6       , 

gr  (4)  s   Rib.   Palma.   14  luglio 

h  (7)  2  „  9      . 

i  (77)     Vista  Alegre,  22  settembre  1900. 

"  Comune;  il  maschio  ha  canto  molto  armonioso  „  (Feci). 

La  femmina  è  simile  al  maschio. 

Il  Bocage  descrisse  gli  esemplari  di  San  Thomé  col  nome  di  Phaeospiza  thomensis, 
ma  poi  credette  che  essi  dovessero  essere  riferiti  alla  specie  dell'Isola  Principe.  Invece, 
pel  confronto  degli  esemplari  delle  due  località,  io  mi  sono  persuaso  che  essi  appar- 
tengono a  due  specie  distinte.  Quella  di  San  Thomé  si  può  caratterizzare  colla 
seguente  frase: 

Linurgus  L.  rufobrimneo  similis,  sed  minus  rufescens,  gula  distincte  albida,  abdo- 
mine  medio  albicante,  diverso. 

12.  Neospiza  (nov.  gen.)  concolor  (Boa). 

Amblyospiza  concolor,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII,  pp.  231,  234)  (Angolares,  F.  Newton) 
(1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  81  (Rio  Quija,  St.  Miguel,  F.  Newton)  (1891); 
No.  XV,  p.  185  (Tipo)  (1896).  —  Dubois,  Syn.  Av..  p.  570  (fase.  Vili,  1901). 
Ho  esaminato  il  tipo  di  questa  specie,  che  mi  è  stato  inviato  cortesemente  per 
esame  dal  sig.  Barboza  du  Bocage;  come  questi  fa  notare,  quell'esemplare,  che  egli 
dice  simile  ad  altri  due  di  Rio  Quija,  differisce  dalle  specie  del  genere  Amblyospiza, 
cui  tuttavia  egli  lo  ha  riferito,  per  mancare  della  macchia  frontale  bianca  e  della 
fascia  bianca  alla  base  delle  remiganti  primarie;  inoltre  io  trovo  che  quell'esemplare 
differisce  da  un  altro  dell' A  unicolor,  conservato  nel  Museo  di  Torino,  per  avere  il 
becco  meno  compresso  e  più  rigonfio,  il  culmine  del  becco  non  protratto  in  addietro 
fino  alla  metà,  degli  occhi,  e  che  non  raggiunge  neppure  il  margine  anteriore  all'occhio, 
le  narici  non  scoperte,  ma  nascoste  dalle  piume,  e  la  base  della  mandibola  inferiore 
meno  obliqua  e  quasi  verticale;  anche  nell'ala  si  trova  una  notevole  differenza,  giacché 
nell'ai,  unicolor  l'ala  è  breve  e  fornita  di  una  prima  remigante,  o  spuria,  che  arriva 
al  margine  inferiore  dello  specchio  bianco  dell'ala,  laddove  neìl'A.  concolor  l'ala  è  più 
lunga,  più  acuta  e  manca  della  remigante  spuria  :  per  questi  caratteri  a  me  sembra 
che  VA.  concolor  non  appartenga  ai  Ploceidi,  ma  ai  Fringillidi  e  debba  costituire  il 
tipo  di  un  genere  distinto,  che  propongo  di  chiamare  Neospiza,  affine  al  genere  Serinus, 
o  Chrithagra,  e  forse  anche  al  genere  Linurgus. 

13.  Serinus  icterus  (Vieill.). 

Crithagra  chrysopyga,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  82  (S.  Antonio,  F.  Newton)  (1891). 
Non  è  improbabile  che  questa  specie  sia  stata  introdotta  in  S.  Thomé,  come  a. 
S.  Elena  ed  in  altre  isole. 


11  CONTMBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  27 

14.  Hyphantornis  grandis,  G.  R.  Gr. 

Ploceus  collaris,  Fraser  (nec  Vieillot),  P.  Z.  S.,  1842,  p.  142  (St.  Thomas).  —  id.,  Zool.  Typ., 
pi.  45  (1849).  —  Alien  and  Tkoins.,  Esp.  Niger,  II,  p.  499  (1848). 

Hyphantornis  grandis,  G.  R.  Gr.,  Gen.  B.,  II,  p.  351,  n.  2  (1849).  —  Hartl.,  J.  f.  0.  1854, 
p.  108.  —  v.  Muli.,  J.  f.  0.,  1855,  p.  462.  -  Hartl.,  Ora.  W.  Afr.,  pp.  125  (<?),  273  (9)  (1857). 

—  id.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  175  (jun.).  —  Heugl.,  J.  f.  0,  1867,  p.  364.  —  Boc,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  I,  p.  139  (St.  Tbomé,  sr.  Gomes  Roberto)  (1867).  —  Sharpe,  P.  Z.  S.,  1869,  p.  564 
(St.  Thomas).  -  G.  E.  Gr.,  Hand-List,  II,  p.  41,  n.  6562  (1870).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11, 
p.  3  (S.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  150  (1888).  —  Sousa, 
ibi.:!.,  pp.  152.  157  (1888).  —  Boc.,  ibid.,  No.  XLVIII,  pp.  213,  233(1888);  (2),  I,  p.  35;  II, 
p.  144  (1889),  No.  III,  p.  209  (Rio  do  Ouro)  (1889Ì;  VI,  p.  80  (uovo)  (1891).  —  Sharpe, 
Cat.  B.,  XIII,  p.  450  (18901.  -  Shell.,  B.  Afr.,  p.  40,  n.  559  (1896).  —  Dubois,  Syn.  Av., 
p.  563  (1901). 

Ploceus  grandis,  Hartl.,  Rev.  et  llag.  de  Zool.,  1849,  p.  497  (St.  Thomé).  —  id.,  Beitr.  in 
Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  28  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131.  —  id.,  Abh.  naturw. 
Ver.  Hainb.,  II,  pp.  1,  28,  60,  65  (1852).   -  Rchnb.,   Singv.,  p.  83,  Taf.  XLI,  f.  303  (1861). 

—  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888).  —  Rchnw.,  Zool.  Jahrb.,  I,  p.  141 
(1886).  —  Shell.,  Ibis,  1887,  p.  35. 

Hyphantornis  textor,  pari.,  Gieb.,  Thes.  Orn.,  II,  p.  374  (1875). 

"  Nome  volgare  '  Canicela  '  „   (F.  Newton). 

a  (17)  •("ad.  Rib.  Palma,  26  luglio  1900. 

b  (29)  e  ad.  .,  30 

e  (35)  f  ad.  „  26 

d(37)'ad.  ,  22       , 

e  (73)  e  ad.  „  28  agosto     .. 

f{li)  <f  ad. 

g  (95)  4  ad.  Vista  Alegre,  8  ottobre     „ 

7j  (30)  ?    Ribeira  Palma  ,   28  luglio     „ 

i  (47)  9  .,  3  agosto      ., 

.7(48)9  ,  1»      , 

A:  (62)  9  „  13      , 

l  (98)  '   Vista  Alegre,    1°  ottobre      „ 


15..  Hyphantornis  capitalis  (Lath.). 

Hyphantornis  capitalis,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  I,  p.  139  (St.  Thomé,  sr.  Gomes  Roberto)  (1867). 

-  Sousa,  ibid.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 
V  Hyphantornis  intermedius,  Sousa  (nec  Riipp.),  ibid.,  p.  152  (S.  Thomé,  sr.  Gomes  Roberto) 
).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  460  (nota)  (1890). 


Il  Bocage  annoverò  l'JBT.  capitalis  fra  le  specie  delle  quali  il  Museo  di  Lisbona 
possedeva  un  esemplare  di  S.  Thomé  inviato  dal  Sr.  Gomes  Roberto  ;  più  tardi  il  De 
Sousa,  annoverando  le  specie  di  S.  Thomé  delle  quali  esistono  .esemplari  nel  Museo 
di  Lisbona,  non  menziona  più  Ì'H.  capitalis,  ma  l' H.  intermedius,  che  probabilmente 
è  da  identificare  col  primo,  giacche  ambedue  le  citazioni  si  riferiscono  ad  un  esem- 
plare inviato  dal  Sr.  Gomes  Roberto  nel  1861. 


28  TOMMASO    SALVADORI  12 

16.  Heterhyphantes  Sancti  Thomae  (Hartl.). 

Sycobius  St.  Thomae,  Hartl,  Rev.  Zool.,  1848,  p.  109. (St.  Thomé).  —  id.,  Beitr.  in  Wiebel's 
Verz.,  pp.  1,  30,  54  (1850).  —  id.,  Contr.  Ora.,  1850,  p.  131.  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb., 
II,  pp.  1,  30,  54,  Taf.  IX  (1852).  —  Greeff,  Sitzb.  Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  -  Sousa, 
Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888). 

Sympleotes  St.  Thomae,  Bp.  Consp.,  I,  p.  439  (1850).  —  Hartl.  J.  f.  0.,  1854,  p.  107.  — 
v.  Mìill.,  J.  f.  0.,  1855,  p.  461.  —  Hartl,  Ora.  W.  Afr.,  p.  135  (1857).  —  Boc,  Jorn.  Se. 
Lisb.,  No.  XXVI,  p.  87  (1879).  -  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  3  (St.  Thomé,  Moller)  (1887). 
—  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  152, 158  (1888).  -  Boc.,  ibid.,  No.  XLVIII,  pp.  213, 
233  (1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  81  (uova,  nido)  (1891). 

Anaplectes  Sancti  Thomae,  Rclmb.,  Singv.,  p.  87,  Taf.  XLIV,  f.  324  (1861).  —  Dubois,  Syn. 
Av.,  p.  569  (fase.  Vili,  1901). 

Hyphantornis  (Anaplectes)  St.  Thomae,  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  II,  p.  42,  n.  6590  (1870). 

Hyphantornis  Sancti  Thomae,  Gieb.,  Tbes.  Ora.,  II,  sp.  374  (1875). 

Ploceus  nigricollis,  pari,  Shell.  Ibis,  1887,  p.  22. 

Heterhyphantes  Sancti  Thomae,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  418  (1890). 

Sharpia  Sancti  Thomae,  Shell,  B.  Afr.,  I,  p.  34,  sp.  475  (1896). 

a  (26)**  ad.  Rib.  Palma,  19  luglio   1900. 

b  (81)  j  ad.  Vista  Alegre,  25  settembre   1900. 

Questi  due  esemplari  hanno  il  color  giallo  della  fronte,  dei  lati  della  testa,  della 
gola  e  del  petto  alquanto  bruno-aranciato. 

e  (51)  <f  Rib.  Palma,  2  agosto  1900. 

d(ò)J  „  3  luglio 

e  (81)  d*  Vista  Alegre,  3  ottobre  „ 

In  questi  tre  esemplari  il  colore  giallo  delle  parti  sopraindicate  è  più  puro,  più 
aranciato  e  meno  bruno. 

f(27)s  Rib.  Palma.  19  luglio  1900. 

Il  colore  giallo  della  fronte,  dei  lati  della  testa  e  del  collo  non  si  estende  sulla 
gola,  che  è  bianchiccia. 

0(11)  s  juv.  Rib.   Palma.   10  luglio  1900. 

Simile  al  precedente,  ma  col  pileo  in  gran  parte  bruno-olivaceo,  con  qualche 
piuma  nericcia. 

17.  Estrelda  astrild  (L.). 

Estrelda  astrild,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisbl.  VII,  No.  XXVI,  p.  87  (St.  Thomé)  (1879).  —  L.  V., 
Instituto,  No.  11,  p.  3  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
pp.  154,  158  (St.  Thomé,  sr.  Borja)  (1888).  -  Boc,  ibid.  (2),  No.  Ili,  p.  210  (1889);  No.  VI, 
p.  81  (St.  Miguel,  F.  Newton)  (1891). 

"Nome  volgare:  '  Januario'  „   (F.  Newton). 
Non  rara,  ma  forse  introdotta. 

18.  Lagonostlcta  thomensis  (Sousa). 

Estrelda  thomensis,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  155  (St.  Thomé,  Moller,  1885) 
(1888).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  pp.  34,  35  (1889);  No.  XV,  p.  185  (Tipo)  (1896).  —  Dubois, 
Syn.  Av,  p.  582,  No.  7700  (fase.  Vili,  1901). 
Semelhante  a  E.  incorna,  de  que  se  pode  considerar  urna  variedade,  apresentando 

as  seguintes  differencas:  bico  arroxeado;  toda  a  cor  cinzenta  predominante  na  especie 


13  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  29 

sua  affine  é,  n'este  exemplar  que  descrevemos,  menos  carregada  e  com  um  tom  vinaceo 
muito  distincto;  os  flancos  acarminados  come  o  uropygio;  aza  attingindo  quasi  duas 
pollegadas,  ou  quasi  mais  3  linhas  do  que  as  dimensòes  dadas  pelo  sr.  Sharpe  (*)  et 
do  que  as  de  um  exemplar  que  o  museu  possue  da  Africa  meridional  offerecido  pelo 
sr.  Shelley. 

Il  De  Sousa,  descrivendo  questa  specie,  dice  che  il  tipo  della  medesima,  conser- 
vato nel  Museo  di  Coimbra,  era  stato  raccolto  dal  Moller  nel  1885.  È  singolare  che 
nella  Lista  degli  Uccelli  raccolti  dal  Moller  nel  1885,  publicata  nel  No.  11  del- 
l' Istituto,   1887,  non  si  trovi  annoverata  la  E.  thomensis,  ma  bensì  la  E.  astrildl 

La  L.  thomensis  è  sfuggita  allo  Sharpe,  che  non  l'annovera  nel  volume  XIII  del 
Catalogne  of  Birds. 

19.  Quelea  erythrops  (Hartl.). 

Ploceus  erythrops,  Hartl,  Rev.  ZooL,  1848,  p.  109  (St.  Thomé).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 

No.  XLVII,  p.  151  (1888). 
Euplectes  erythrops,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  30,  53  (1850).  —  id.,  Contr.  Ora., 

1850,  p.  131  (St.  Thomas).  -   id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  30,  53,  Taf.  Vili, 

«■,  s  jun.  (1852).  —  Greeff,  Sitzb.  Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46. 
Foudia  erythrops,  Hartl.,  Ora.  Westafr.,  p.  129  (1857).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  VII,  No.  XXVI, 

p.  87  (St.  Thomé)  (1879).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  152,  158  (St.  Thomé) 

(1888).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Principe)  (1889);  No.  VI,  p.  81 

(St.  Thomé)  (1891). 

Trovata  dal  Weiss  e  da  altri  nell'Isola  di  S.  Thomé,  dove  pare  comune. 


20.  Spermestes  cuculiata,  Sw. 

Spermestes  cuculiata,  Hartl,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  p.  1  (St.  Thomé)  (1850).  —  id.,  Contr. 
Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II ,  p.  1  (St.  Thomé) 
(1852).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  147  (1857).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé, 
Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  151,  152  (1888).  -  Boc.,  ibid., 
No.  XLVIII,  p.  234  (1888);  (2),  I,  p.  36  (1889);  VI,  p.  81  (1891). 

Amadina  cuculiata,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  p.  32  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver. 
Hamb.,  II,  p.  32  (St.  Thomé)  (1852). 

a,  b  (69,  70)  d>9  Rib.  Palma,  29  agosto  1900. 


21.  Vidua  principalis  (L.). 

Vidua  principalis,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  VII,  No.  XXVI,  p.  87  (St.  Thomé)  (1879);  No.  XLIV, 
p.  251  (1887).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  3  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  ibid., 
No.  XVII,  pp.  154,  158  (1888).  -  Boc,  ibid.,  No.  XLVIII,  p.  234  (1888);  (2),  No.  Ili, 
p.  210  (Rio  do  Ouro)  (1889);  No.  VI,  p.  81  (1891). 

a  (67)  s  Ribeira  Palma,  16  agosto  1900. 
b  (96)  <?  Vista  Alegre,   15  ottobre 


(*)  Layard  and  Sharpe,  Birds  of  South  Africa,  p.  470. 


30  TOMMASO    SALVADORI  14 

22.  Steganura  paradisea  (L.). 

Vidua  paradisea,  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  3  (St.   Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  154  (1888). 

Secondo  il  Lopes  Vieira  l'unico  esemplare  di  questa  specie  inviato  dal  Moller 
aveva  traccie  di  essere  stato  in  schiavitù:  tuttavia  il  Moller  assicura  che  esso  fu 
ucciso  a  Nova  Moka  in  S.  Thomé,  all'altezza  di  circa  800  metri. 

23.  Pyromelana  aurea  (Gm.). 

Euplectes  aureus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  II,  p.  142  (St.  Thomé)  (1889);  No.  Ili,  p.  209 

(Campos  de  Quineglaró,  F.  Newton)  (1899). 
Pyromelana  aurea,  Boc.,  ibid.  (2),  No.  VI,  p.  86  (d")  (1891). 

"  Nome  volgare  '  Que-blan-cana-janeilo  '  „   (F.  Newton). 

Il  Bocage  afferma  di  aver  ricevuto  molti  esemplari  di  S.  Thomé,  facenti  parte 
di  uno  stesso  invio  (F.  Newton). 

La  femmina  di  questa  specie  non  è  stata  ancora  descritta. 


24.  Oriolus  crassirostris,  Hartl. 

Oriolus  crassirostris,  Hartl,  Orn.  Westafr.,  p.  266  (St.  Thomé)  (1857).  —  id.,  J.  f.  0.,  1861, 
p.  275  (descr.  corr.).  —  Sharpe,  Ibis,  1870,  pp.  215,  221.  —  Finsch,  ibid.  —  G.  R.  Gr., 
Hand-List,  III,  p.  214,  n.  4113  a  (1871).  —  Gieb.,  Thes.  Orn.,  II,  p.  754  (1875).  —  Sharpe, 
Cat.  B.,  Ili,  p.  217  (1877).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  — 
Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888).  —  Boc.,  ibid.,  p.  212  (descr.  juv.)  (1888); 
No.  XLVIII,  p.  233  (1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  II,  p.  144  (tre  esemplari  di 
St.  Miguel  e  Bha  das  Eolas)  (1889);  No.  VI,  p.  79  (1891).  -  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  41, 
n.  575  (1896).  —  Dubois,  Syn.  Av.  (fase.  VII,  1901),  p.  527,  n.  7086. 
«(18)^  fere  ad.  Rib.  Palma,  11  luglio  1901. 
b  (6)^  juv.  „  10 

e  (23)  e  juv.  „  20       „ 

"  Frequente;  il  suo  canto  somiglia  quello  del  nostro  Rigogolo  (O.  galbula)  „  (Fea). 
Questa  specie  è  poco  nota  ed  è  rara  nei  Musei;  al  tempo  della  publicazione 
del  volume  III  del  Catalogne  of  Birds  essa  mancava  nel  Museo  Britannico,  e  per  quanto 
io  so  i  soli  esemplari  conosciuti,  oltre  quelli  soprannoverati,  sono  il  tipo  nel  Museo 
di  Brema,  inviato  dal  Weiss  e  conservato  nell'alcool,  e  parecchi  esemplari  conservati 
nel  Museo  di  Lisbona  e  menzionati  dal  Barboza  du  Bocage. 

L'Hartlaub  nella  descrizione  originale,  che  concorda  abbastanza  bene  col  primo 
esemplare  soprannoverato,  scrisse:  ■  subtus  albo-flavescens ,  ma  poi,  considerando  che 
quell'esemplare  tipico  era  stato  conservato  nell'alcool,  suppose  che  esso  fosse  stato 
scolorato  per  l'azione  del  medesimo  e  che  vivente  dovesse  avere  le  parti  inferiori  di 
un  bel  giallo  e  perciò  disse  che  nella  descrizione,  invece  di  subtus  albo-flavescens,  si 
dovesse  leggere  subtus  flavissimus  (J.  f.  O.,  1861,  p.  275).  —  La  stessa  cosa  sup- 
pose il  Finsch  (1.  e),  ma  non  è  confermata  dall'esame  dei  tre  esemplari  sopranno- 
verati, i  quali  tutti,  anche  il  primo,  che  per  il  becco  rosso-mogano  si  può  credere 
sia  abbastanza  adulto,  hanno  le  parti  inferiori  bianchiccie,  lievemente  tinte  di  gial- 
lognolo ;  questo  carattere  è  veramente  distintivo  della  specie. 


15  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  31 

Il  primo  esemplare  ha  la  testa  ed  il  collo  neri,  ma  le  piume  della  gola  sono 
marginate  di  bianchiccio,  ciò  che  mi  fa  credere  che  esso  non  sia  in  abito  perfetto. 

I  due  giovani  concordano  colla  descrizione  che  dell'abito  giovanile  è  stata  data 
dal  Barboza  du  Bocage. 

Non  pare  che  la  femmina  sia  stata  ancora  descritta. 

25.  Onycognathus  fulgidus,  Hartl. 

Onycognathus  fulgidus,  Hartl.,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1849,  p.  495  (Ile  St  Thomé).  —  id., 
Beitr.  in  Wiebel's  Vera.,  pp.  1,  2,  28,  52  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131.  —  id., 
Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  2,  28,  52,  Taf.  VII  (1852).  -  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  104. 
—  v.  Muli.,  J.  f.  0.,  1855,  p.  459.  —  Verr.  in  Chenu,  Encycl.  Méth.,  V,  p.  160  (1856).  — 
Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  115  (1857).  —  id.,  J.  f.  0.,  1859,  p.  35.  —  id.,  Abh.  nat.  Ver. 
Brem.,  IV,  p.  86  (1874).  —  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.,  No.  XLVI,  p.  81  (1887).  —  Sousa, 
ibid.,  pp.  151,  152,  157  (1888).  —  Boc,  op.  cit.  (2),  I,  p.  35;  II,  p.  144  (1889).  -  Sharpe, 
Cat.  B.,  XIII,  p.  165  (1890).  —  Boc,  op.  cit.,  n.  VI,  p.  80  (St.  Thomé  e  Rolas)  (1891).  — 
Shell.  B.  Afr.,  I,  p.  45,  n.  619  (1896).  —  Dubois,  Syn.  Av.,  p.  545  (fase  VIII,  1901). 

Juida  (Onycognathus)  fulgida,  G.  R.  Or.,  Hand-List,  II,  p.  25,  n.  6350  (1870). 

Onycognathus  Sancti  Thomae,  Hartl.  (errore),  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.,  No.  XLVIII,  p.  233  (1888). 

a  (38)  f  ad.  Rib.   Palma,  28  luglio  1900. 

b  (39)  e  ad.  „  30       , 

e, d (40, 41)^ ad. ,  27 

e  (97)  <f  ad.    Agua  Izé,    16  dicembre  „ 

f  (42)  b  ad.  Rib.  Palma,  30  luglio 

#(102)9  ad.  Agua  Izé,  11  dicembre    „ 

Le  femmine  differiscono  dai  maschi  non  solo  per  essere  alquanto  più  piccole,  ma 
principalmente  per  avere  le  piume  della  testa  e  del  collo  marginate  di  grigio,  per 
la  quale  cosa  quelle  parti  appaiono  striate  longitudinalmente  di  grigio  ;  noto  questa 
cosa  perchè  la  descrizione  della  femmina  data  dallo  Sharpe  non  è  esatta  ;  egli  indica 
anche  il  dorso  striato  di  grigio,  la  quale  cosa  non  è. 

26.  Cypselus  affinis,  G.  R.  Gr. 

Cypselus  abyssiuicus,  Licht.  —  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  3,  16  (St.  Thomé) 
(1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb., 
II,  pp.  1,  3,  16  (1852).  —  id.,  J.  f.  O.,  1853,  p.  397  (St.  Thomé).  —  id.,  Orn.  Westafr., 
p.24  (1857).  -  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.,  No.  XLVH,  p.  149  (St.  Thomé)  (1888).  —  Sousa, 
ibid.,  pp.  151,  152  (1888).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Principe) 
(1889);  No.  VI,  p.  78  (St,  Thomas)  (1891). 

Questa  specie  non  sembra  rara  nell'isola  di  S.  Thomé;  esemplari  della  mede- 
sima ivi  raccolti  si  conservano  nei  Musei  di  Amburgo  (Weiss)  e  di  Lisbona  (F. Newton). 

27.  Chaetura  thomensis,  Hartert. 

Chaetura  sabinii,  Boc.  (nec  Gray),  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  35  (St.  Thomé)  (1889);  No.  VI, 

p.  78  (1891). 
Chaetura  thomensis,  Hartert,  Bull.  B.  0.   C,  X,  p.   53  (1900).    —    id.,    Nov.   Zool.,  Vili, 

p.  425,  pi.  VII,  f.  1  (1901). 


32  TOMMASO    SALVADORI  16 

Il  Bocage  ha  annoverato  la  Ch.  sabinei  fra  quelle  trovate  dal  Newton  nell'isola 
di  San  Thomé  e  precisamente  a  Roca  Saudade,  ma  senza  dubbio  la  identificazione 
non  fu  esatta,  e  si  trattava  invece  di  una  specie  nuova,  che  è  stata  recentemente 
descritta  dall'Hartert. 

28.  Corythornis  thomensis,  Saxvad. 

Alcedo  caeruleocephala,  Hartl.  (nec  Gm.),  Beitr.  Orn.  Westafr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  18 
(St.  Thomé,  Weiss)  (1850).  —  id.,  Conti-.  Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh. 
naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  1,  18  (St.  Thomé,  Weiss)(18ò2).  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  36 
(St.  Thomé,  Weiss) (1857).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (St.  Thomé)  (1888). 

Corythornis  caeruleocephala,  Boc.  (nec  Gm.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  I,  p.  134  (St.  Thomé,  Dr.  Nunes) 
(1867).  —  Sharpe,  Mon.  Alced.,  p.  39  (part.)  (1869).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XXVI, 
p.  86  (St.  Thomé,  Custodia  de  Borja)  (1879);  No.  XLIV,  p.  251  (nota)  (St.  Thomé,  Newton) 
(1887).  —  Lopes  Vieira,  Instituto,  n.  11,  p.  2  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  op.  cit., 
pp.  152,  153,  156  (St.  Thomé,  Nunes  and  Gomes  Roberto)  (1888).  —  Boc.,  op.  cit.,  No.  XLVII, 
p.  149  (Eio  de  Manuel  Jorge,  F.  Newton)  (1888);  XLVIII,  p.  211  (jeune  femelle,  Potò, 
F.  Newton),  233  (St.  Thomé)  (1888);  (2),  No.  I,  p.  36  (part.)  (1889);  No.  II,  p.  144 
(St.  Miguel,  F.  Newton)  (1889);  No.  Ili,  p.  209  (Rio  do  Ouro,  F.  Newton)  (1889);  No.  VI, 
p.  78  (St.  Miguel,  Hot  das  Rollas,  F.  Newton)  (1891). 

Corythornis  cristata,  Boc.  (nec  L.),  Jorn.  Se.  Lisb.,  I,  p.  134  (St.  Thomé,  Gomes  Roberto) 
1867).  —  Sousa,  ibid.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 

Corythornis  galerita,  Sharpe,  Mon.  Alced.,  Introd.,  p.  VII  (part.)  (1871).  —  id.,  Cat.  B.,  XVII, 
p.  166  (part.)  (1892). 

Corythornis  thomensis,  Salvad.,  Ibis,  1892,  p.  568,  pi.  XIII  (St.  Thomas). 

"  Nome  volgare  '  Cunobia  '  „   (F.  Newton). 

Corythornis  C.  galeritae  similis,  sed  gastraeo  castaneo,  loris  nigris,  regione  molari 
castanea  paullum  nigro  tincta,  taeniisque  transversis  pilei  caeruleo-viridibus,  seu  mala- 
chitaceis,  diversa.  Long.  tot.  mm.  145-147;  al.  59;  caud.  28  ;  rostri  culm.  32. 

Av.  junior.  Regione  malari,  loris,  capitis  laterìbus,  pectore  medio  ejusque  laterìbus 
fusco-nigris;  dorso  maculis  caeruleo-malachitaceis  notato;  rostro  nigro. 

a  (21)  s  ad.  Rib.  Palma  (300  m.),  22  luglio  1900. 

b  (52)  c^  ad.  „  9  agosto  1900. 

e  (19)  5  juv.  „  21  luglio 

d{20)<rj\iv.         „  „ 

e  (22)  rt"  juv.  „  „ 

Io  ho  separato  recentemente  gli  esemplari  di  S.  Thomé  da  quelli  dell'isola  del 
Principe  per  alcune  differenze  segnalate  nella  descrizione  e  che  sono  presentate  tanto 
dagli  adulti,  quanto  dai  giovani;  questi,  che  sono  facilmente  riconoscibili  per  avere  il 
becco  nero  e  le  parti  superiori  macchiate  di  azzurro,  sono  notevoli  per  avere  le 
gote,  i  lati  del  collo  ed  il  petto  di  color  quasi  nero,  alquanto  bruniccio. 

È  singolare  che  il  Bocage  (J.  S.  L.,  No.  XLVIII,  p.  211),  il  quale  menziona  una 
femmina  giovane  di  questa  specie,  non  ne  abbia  segnalato  i  caratteri. 


29.  Halcyon  dryas,  Hartl. 

Halcyon  dryas,  Hartl,  J.  f.  O.,  1854,  p.  2  (Uba  do  Principe,  St.  Thomé,  Weiss).  —  id.,  Orn. 
Westafr.,  p.  32  (Ins.  St.  Thomé  et  do  Principe,  Weiss)  (1857).  —  id.,  J.  f.  O.,  1861,  p.  104 


17  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  33 

(St.  Thomé,  Gujon).  -  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Principe) 
(1889);  No.  VI,  p.  86  (1891).  —  Sharpe,  Cat.  B.,XVII,  p.  248,  spechi),  a  (St.  Thomas)  (1892). 

Il  Bocage  fa  notare  che  il  Museo  di  Lisbona  non  ha  ricevuto  questa  specie  da 
S.  Thomé,  dal  collettore  F.  Newton. 


30.  Coracias  garrula,  L. 

Coracias  garrula,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  17  (St.  Thomé,  Weiss)  (1850).  —  id., 
Contr.  Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas,  Weiss).  —  id.,  Abh.  Naturw.  Ver.  Hamb.,  II, 
pp.  1,  17  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1853,  p.  400.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  29  (1857).  — 
F.  et  H.,  Vog.  Ost.-Afr.,  p.  154  (1870).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  151,  152 
(1888).  —  Boa,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Principe)  (1889),  No.  VI, 
p.  86  (1891). 

Il  Museo  di  Amburgo  possiede  un  giovane  di  questa  specie  raccolto  dal  Weiss; 
non  pare  che  altri  esemplari  siano  stati  trovati  nell'isola  di  S.  Thomé,  ove  secondo 
il  Weiss  essa  era  sconosciuta. 


31.  Milvus  aegyptius  (Gm.). 

Milvus  aegyptius,  Gm.  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  W.  Afr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  15  (St.  Thomé, 

Weiss)  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas,    Weiss).  —  id.,  Abh.  naturw. 

Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  15  (1852).  —  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLIV,  p.  251  (nota)  (1887). 

—  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (St.  Thomé)  '(1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 

p.  151  (1888).  -  Boa,  ibid.  (2),  No.  VI,  p.  85  (1891). 
Milvus  parasitus  (Daud.).  —  Hartl,  J.  f.  O.,  1853,  p.  392  (St.  Thomé).  —  id.,  Orn.  Westafr., 

p.  10  (1857).  —  Dohrn,  P.  Z.  S.,  1866,  p.  324  (St.   Thomas).  —  Sousa,  Jorn.   Se.  Lisb., 

No.  XLVII,  pp.  152,  156  (1888). 
Milvus  Forskali  (Gm.).  —  F.  et  H.,  Vog.  Ost.-Afr.,  p.  63  (1870). 

Esemplari  di  questa  specie,  raccolti  dal  Weiss,  si  conservano  nel  Museo  di  Am- 
burgo, e,  inviati  dal  Sr.  Francisco  Newton,  nel  Museo  di  Lisbona.  Secondo  il  Dohrn 
essa  è  comunissima  nell'isola  di  San  Thomé. 


32.  Scops  leucopsis  (Hartl.). 

Athene  leucopsis,  Hartl,  Rev.  et  Mag.  de  Zool,  1849,  p.  496  (St.  Thomé).  —  Bp.,  Consp.,  I, 
p.  43  (1850).  —  Hartl,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  16,  48  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn., 
1850,  p.  131.  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  1,  16,  48,  Taf.  I  (1852).  — 
Strickl,  Orn.  Syn.,  p.  171  (1855).  -  G.  R.  Gr.,  Hand-List.,  I,  p.  40,  n.  393  (1869).  — 
Greeff,  Sitzb.  Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
pp.  151,  156  (1888). 

Scops  leucopsis,  Kaup,  Contr.  Orn.,  1852,  p.  Ili  (St.  Thomas).  —  id.,  Tr.  Zool.  Soc,  IV, 
p.  224.  -  Hartl,  Orn.  W.  Afr.,  p.  20  (St.  Thomé)  (1857).  —  id.,  J.  f.  O.,  1861,  p.  101. 

—  Sharpe,  Cat.  B.,  II,  p.  311  (1875).  —  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLIV,  p.   251   (nota) 
(1887).  -  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  2  (1887).  -  Sousa,  1  a,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 

—  Boa,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  77  (1891).  —  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  143 
(1896).   —  Sharpe,  Hand-List,  I,  p.  285,  n.  19  (1899). 

Glaucidium  leucopse,  Sharpe,  Ibis,  1875,  p.  259. 
Pisorhina  leucopsis,  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  p.  667  (1901). 

Serie   II.   Tom.   LUI.  i 


34  TOMMASO    SALVADOBI  18 

Forma  rufa. 

Scops  scapulatus,  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII.  pp.  22:'.  232 1  1888)  (Angolares,  St.  Thomé); 

(2),  No.  I,  p.  35  (1889);  VI,  p.  77  (St.  Miguel,  tali  I  (1891);  (2),  No.  XV,  p.  179 

(tipo)  (1896).   -   Shell.,  B.  Afr..  I.  p.  143  (1896). 
Scops  scapulata,  Sharpe,  Hand-List,  I,  p.  285,  n.  18  (1899). 
Pisorhina  scapulata,  Rclinw..  Vog.  Afr.,  I,  p.  668(1901). 

a  (36)  s  Rib.  Palma.   18  luglio  1900. 

6(33)2  „  :U 

e  (34)  /  ,  2  agosto     „ 

"  Mostrasi  anche  di  giorno  nei  luoghi  molto  ombrosi;  lo  sentii  emettere  un  grido 
molto  strano  „   (Fea). 

Il  primo  esemplare  ha  l'abito  grigiastro-bruno,  più  chiaro  e  biancheggiante  sulle 
parti  inferiori  ;  esso  concorda  colla  descrizione  e  colla  figura  della  S.  leucopsis  (Hartl.); 
gli  altri  due  invece,  dal  colorito  rossigno  quasi  uniforme,  concordano  colla  descri- 
zione della  <S'.  scapitiate,  Boc,  ed  io  non  dubito  che  gli  esemplari  delle  due  forme, 
uccisi  nella  stessa  località,  appartengano  ad  una  medesima  specie,  tanto  più  che  un 
analogo  dimorfismo  si  verifica  in  moltissime  altre  specie  del  genere  Scops. 

Questa  specie  è  notevole  per  avere  la  parte  inferiore  e  posteriore  del  tarso  nuda, 
e  forse  dovrà  essere  compresa  in  un  genere  distinto  :  per  quel  carattere  essa  si  av- 
vicina alla  Scops  gymnopoda,  Gray  (Sharpe,  Cat.  B.  II,  p.  65,  pi.  IV,  f.),  di  cui  lo 
Sharpe  figurò  anche  il  piede  dell'esemplare  tipico,  conservato  nel  Museo  Britannico; 
quella  figura  corrisponde  in  tutto  al  piede  degli  esemplari  di  S.  Thomé;  e  siccome 
l'esemplare  tipico  della  <5'.  gymnopoda  è  d'incerta,  od  ignota  località,  a  me  era  venuto  il 
dubbio  che  esso  potesse  attribuirsi  alla  specie  di  S.  Thomé  ;  invece  lo  Sharpe  recente- 
mente (Hand-List,  I,  p.  285)  lo  riferisce  alla  Scops  malayana.  L' Ogilvie-Grant,  al 
quale  ho  inviato  il  maschio  sopra  indicato,  affinchè  lo  confrontasse  coli' esemplare 
del  Museo  Britannico,  mi  scrive  affermando  che  i  due  esemplari  presentano  caratteri 
affatto  diversi. 

33.  Strix  thomensls,  Hartl. 

Strix  thomensis,  Hartl.  Rev.  et  Mag.  ZooL,  1852,  p.  2.  —  id.,  J.  f.  0.,  1853,  p.  395.  — 
v.  Muli.,  Beitr.  Orn.  Afr.,  I,  15  (1854).  -  id.,  J.  f.  0.,  1854,  pp.  398,  402,  446.  —  Hartl., 
Orn.  W.  Afr.,  p.  21  (1857).  —  id.,  J.  f.  O.,  1861,  p.  102.  -  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  1,  p.  132 
(St.  Thomé)  (1867).  —  G.  R.  Gr.,  Hand-List,  I,  p.  52,  n.  568  (1869).  -  Pelz.,  J.  f.  0.,  1872, 
p.  23.  —  Sharpe,  Cat.  B.,  II,  p.  290  (nota)  (1875).  -  Boc.  J.  f.  0.,  1876,  p.  313.  —  Gieb., 
Thes.  Orn.,  Ili,  p.  547  (1877).  -  Barb.,  Jorn.  Se  Lisb..  No.  XLVII.  p.  149  (Montai 
Sousa,  ibid.,  pp.  152,  156  (1888).  -  Boc,  op.  cit.,  No.  XLVIII,  p.  233  (1888);  ser.  2,  No.  I, 
p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  85  (1891),  —  Rchmv..  Vog.  Air.,  I,  p.  67S  (1901). 

Strix  St.  Thomas,  Hartl.  —  Kaup,  Contr.  Orn.,  1852,  p.  118.  —  id.,  Tr.  Z.  S..  IV,  p.  247. 

a  (100)  <f  Agua  Izé,  presso  la  spiaggia,  1°  dicembre  1900. 

6(101)2  „  ,  15 

La  femmina  non  differisce  sensibilmente  dal  maschio  nel  colorito,  ma  ha  i  piedi 
alquanto  più  deboli. 

Il  Bocage  menziona  due  esemplari  di  Mouta  e  di  Angolares  nell'isola  di  S.  Thomé. 
Questa  specie  è  molto  rara  nelle  Collezioni  e  mancava  perfino  in  quella  del  Museo 
Britannico,  quando  fu  pubblicato  il  Catalogo  degli  Striges. 


19  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  35 

34.  Agapornis  pullaria  (L.). 

Psittacula  pullaria,  HartL,  Beiti-,  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  35  (St.  Thomé)  (1850).  —  id., 
Conti-.  Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1 ,  35 
(1852).  —  Greeff,  Sitzb.  Ges.  Mark,  1881.  No.  2.  p.  47  (Rio  do  Ouro).  —  L.  V.,  Instituto, 
No.  11,  p.  1  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151 
(1888).  —  Boc,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Mia  do  Principe)  (1889). 
Agapornis  pullaria,  HartL,  J.  f.  0.,  1854,  p.  194.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  168  (St.  Thomé) 
(1851).  —  Sousa,  op.  cit.,  No.  XLVII,  p.  152  (  1888).  -  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  VI, 
p.  77  (Praia  das  Conchas)  (1891). 

a  (66)  -"  Rib.  Palma  (300  m.),  18  agosto  1900. 

6  (86)  ì  Vista  Alegre  (200-300  m.),  2  ottobre  1900. 

e  (89)  ?  „  5  ottobre  1900. 

35.  Chrysococcyx  smaragdineus  (Sw.). 

Cbalcites  smaragdineus,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  36  (St.  Thomé)  (1850).  — 
id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  -131  (St.  Thomas'.  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  1,  36 
(1852).  —  Greeff (*),  Sitzb.  Ges.  Mark.  1884,  No.  2.  p.  47.  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLVII,  p.  151  (1888). 

Chrysococcyx  smaragdineus,  HartL,  J.  f.  O.,  1854,  p.  203  (St.  Thomé).  —  id.,  Ora.  Westafr., 
p.  191  (1857).  -  Boe.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  VII.  No.  XXVI,  p.  86  (St.  Thomé)  (1879).  -  L.  V., 
Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII. 
p.  149  (St.  Thomé)  (1888).  —  Sousa,  -Ioni.  Se.  Lisb..  No.  XLVII,  pp.  152,  158  (St.  Thomei 
(1888).  -  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (1889),  No.  VI,  p.  86  (1891). 

Chrysococcyx  intermedius.  Veri-.  —  Boe.,  Jorn.  Se.  Lisb..  I,  p.  143  (St.  Thomé,  sr.  dr.  Nunes, 
1866)  (1867). 
Trovato  dal  Weiss  e  da  altri  nell'Isola  di  S.  Thomé. 

36.  Vinago  Sancti  Thomae  (Gm.). 

Coluuiba  sylvestris  species  ex  insula  Sancti  Thomae,  Marcgr.,  Hist.  Bras.,  p.  213  (1648). 

Columba  viridis  insulae  Sancti  Thomae,  Briss.,  Ora.,  I,  p.  147  (1760). 

Pigeon  vert  de  l'Ile  de  Saint-Thomas,  Bufi'.,  Hist.  Nat.  Ois.,  II,  p.  528  (1771). 

S.  Thomas's  Pigeon,  Lath.  Syn.,  II,  2,  p.  631,  n.  22  (1781). 

Columba  S.  Thomae,  Gm.,  S.  N,  I,  2,  p.  778,  n.  46  (1788).  —  StriekL,  Ann.  and  Mag.  N.  H., 
XIX.  p.  44  (nota  -— -  T.  crassirostris,  Pras.). 

Treron  crassirostris,  Pras.,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  35.  —  Alien  and  Thoms.,  Exped.  Niger,  II,  p.  42 
(Ilha  das  Rollas),  p.  506  (Islands  of  St.  Thomas  and  Rollas)  (1848).  —HartL,  Abh.  naturw. 
Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  37,  60,  68  (1852).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  192  (Ins.  das  Rollas, 
Ins.  St.  Thomé,  Thomson)  (1857).  —  id.,  .1.  f.  O.,  1861,  p.  265  (Gabon!!!  Fosse).  —  Greeff, 
Sitzb.  Ges.  Mark,  1884,  No.  2,  p.  47.  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLIV,  p.  252  (1887). 

—  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.   4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XLVII,  p.  152  (1888).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,  pp.  35,  36  (1889);  (2),  No.  VI,  p.  82  (1891). 

Treron  abyssinica,  Hartl.  (nec  Lath.),  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  37  (St.  Thomé)  (1850). 

—  id.,  Contr.  Orn.,    1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id..  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2, 
pp.  1,  37  (St.  Thomé,  Weiss)  (1852).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  193  (St.  Thomé,  Weiss)  (1857). 

—  id.,  .1.  f.  O.,  1861,  p.  266  (St.  Thomé,   Gujon).         Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb..  No.  XLVII, 
pp.  151,  152 


(*)  Questa  specie  è  menzionata  dal  Greeff  anche  nel  lavoro  "  Die  Insel  Rolas  ,  [Globus,  Bd.  41, 
1882),  che  io  non  ho  potuto  consultare. 


36  TOMMASO    SALVADORI  20 

Vinago  crassirostris,  Salvad.,  Cat.  B.,  XXI,  p.  17  (Islands  of  St.  Thomas  and  Rollas)  (1893). 
Vinago  Sancti  Thomae,  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  p.  394  (1901). 

a(72)<?  Ribeira  Palma,  St.  Thomé,  22  agosto  1900. 

6  (71)  ,  (?)  „  „  26       „ 

"  Uccise  all'altitudine  di  400-500  metri  „   (Fea). 

L'esemplare  che  è  indicato  come  femmina  non  differisce  sensibilmente  dal  maschio 
nel  colorito,  ma  essendo  alquanto  più  grande  fa  dubitare  che  le  indicazioni  del  sesso 
siano  state  scambiate. 

Non  pare  che  questa  specie  sia  comune  nell'isola  di  S.  Thomé;  invece  secondo 
il  Bocage  (1.  e),  per  notizia  avuta  probabilmente  da  M.  F.  Newton,  essa  è  molto 
comune  nell'isolotto  di  Rolas. 

Questa  specie,  a  quanto  pare,  fra  quelle  di  S.  Thomé  è  la  più  anticamente  cono- 
sciuta; essa  fu  descritta  dal  Marcgrav  (Iiist.  Bras.,  p.  213).  Il  Fraser  (P.  Z.  S.,  1843, 
p.  35),  tornò  a  descriverla  col  nome  di  Treron  crassirostris,  sopra  un  esemplare 
d'incerta  provenienza,  ma  che  ora  si  conserva  nel  Museo  Britannico,  come  prove- 
niente dall'isola  di  S.  Thomé,  raccolto  dal  Thomson;  ma  lo  Strikland  (Ann.  and  Mag. 
N.  //.,  XIX,  p.  44,  note)  espresse  il  dubbio  che  essa  fosse  identica  colla  specie  del 
Marcgrav  (Columba  Sancti  Thomae,  Gm.);  lo  Schlegel  (Mus.  P.  B.  Columfoae,  p.  47) 
e  lo  Shelley  (Ibis,  1883,  p.  267)  la  confusero  rispettivamente  colla  T.  nudirostris  e 
colla  T.  calva;  il  Barboza  du  Bocage  invece  ripetutamente  affermò  l'assoluta  diffe- 
renza della  specie  di  San  Thomé  da  quelle  due;  questa  cosa  io  riconobbi  per  vera 
nel  Catalogne  of  Birds  (1.  e),  manifestando  altresì  l'opinione  che  lo  Strickland  avesse 
colto  nel  segno  riferendo  la  T.  crassirostris  alla  specie  del  Marcgrav.  Il  Dr.  Reichenow 
recentemente  (1.  e),  ponendo  da  banda  ogni  esitazione,  ha  ammesso  come  sicura  quella 
identificazione. 

37.  Columba  thomensis,  Boa 

Columba    trigonigera,  Alien    and    Thoms.  (nec  Wagl.),   Exped.  Niger,  II,    p.   41  (Ilha    das 

Rollas)  (1848). 
Columba  guinea,  Hartl.  (nec  Linn.),  Abh.  naturw.  Ver.  Harab.,  II,  pp.  60,  68  (1852).  —  id., 

J.  f.  O.,  1854,  p.  206  (Uba  das  Rollas,   Thomson).  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  194  (1857).  — 

Greeff,  Sitzb.,  Ges.   Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  34 

(1889);  No.  VI,  p.  86  (1891). 
Columba  arquatrix  vai-.?,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  XII,  No.  XLVI,  p.  82  (St.  Thomé,  sr.  Quintas) 

(1887).  —  Sousa,    ibid.,  No.  XLVII,  p.   154  (1888).  —  Salvad.,    Cat.  B.,  XXI,    p.   277 

(nota)  (1893). 
Columba  arquatrix,  vai-,  thomensis,  Boc,  ibid.,  No.  XLVIII,  pp.  230,  232,  234  (Angolares, 

Newton)  (1888);  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  II,  p.  144  (lineo  das  Rolas,  F.  Newton)  (1889); 

No.  VI,  p.  82  (J  ?  ìlot  das  Rolas)  (1891). 
Columba  thomensis,  Boc  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XV,  p.  186  (Tipo)  (1896).  -  Relmw.,  Vog. 

Afr.,  I,  2,  p.  405  (1901). 

Alien  e  Thomson  (1.  e.)  asserirono  di  aver  trovato  la  G.  trigonigera  nell'Isolotto 
das  Rollas;  l'Hartlaub  ed  il  Greeff  hanno  ripetuto  la  stessa  cosa,  riferendo  la  cita- 
zione dell'Alien  e  Thomson  alla  C.  guinea,  ma  il  Barboza  du  Bocage  inclina  a  cre- 
dere che  ciò  non  sia  esatto,  ed  invero,  dalla  descrizione  dell'Alien  e  Thomson,  a  me 
sembra  indubitato  che  si  tratti  della  C.  thomensis,  che  il  Museo  di  Lisbona  ha  rice- 
vuto tanto  da  S.  Thomé,  quanto  dall'Isola  das  Rollas. 


21  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  37 

38.  Turturoena  malherbei  (Verr.). 

Turturoena  nov.  sp. '?,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  I,  p.  144(1867)  (St.  Thomé).   —    id.,  J.  f.  0., 

1876,  p.  315  (St.  Thomas).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  XIII,  p.  153  (1888). 
Turturoena  Malherbii,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVI.  p.  81  (1887);  No.  XLVIII,   p.  234 

(1888);  (2),  No.  VI,  p.  82  (1891). 
Turturoena  malherbei,  Sousa,  op.  cit.,  No.  XLVII,  p.  154  (1888).  —  Boc,  op.  cit.  (2),  No.  I, 

p.  35  (1889);  No.  Ili,  p.  210  (Rio  do  Ouro)  (1889).  —  Salvad.,  Cat.  B.,  XXI,  p.  331  (1893), 

Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  2,  p.  419  (1901). 

a  (103)  4  Agua  Izé  (m.  100),  7  gennaio  1901. 

Maschio  adulto  bellissimo,  non  differente  dalla  femmina  da  me  descritta  nel 
Catalogne  of  Birds.  Anche  il  Reichenow  dice  che  gli  esemplari  dei  due  sessi  sembrano 
egualmente  coloriti. 

Il  Bocage  menziona  esemplari  raccolti  dal  Sr.  F.  Newton  in  parecchie  località 
di  S.  Thomé  (Jogo-Jogo,  Angolares,  Santa  Cruz,  Rio  do  Oiro  e  Ribeira  Peixe)  ed 
anche  di  Ferreiro  Velho  nell'Isola  del  Principe. 

39.  Haplopelia  simplex  (Hartl.). 

Turtur  simplex,  Haiti.,  Rev.  et  Mag.  de  Zojal.,  1849,  p.  497  (Ile  St.  Thomé).  —  id.,    Beitr. 

in  Wiebel's  Verz..  pp.  1.  2,  37,  55  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas). 

-  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  1,  2,  37,  55,  Taf.  X  (1852).  —  Greeff,  Sitzb. 

Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46.  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,   No.  XLVII,  p.  151  (1888). 
Haplopelia  simplex,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I.  p.  35  (1889):  No.  II,  p.  144  (Jogo-Jogo); 

No.  VI,  p.  83  (1891).  —  Salvar!..  Cat.  B.,  XXT.  p.  512  (1893).  —  Shell.,  B.  Afr.,  I,  p.  136, 

n.  1873  (1896).  —   Fori,,  and  Robins.,  Bull.  Liverp.  Mus.,  II,  p.  144  (1900). 
Peristera  simplex,  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn. 

Se  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 
Aplopelia  simplex,  pari,  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  2.  p.  422  (1901). 

a(58)cfjuv.  Rib.  Palma  (300  m.),  6  agosto   1900, 

Esemplare  giovane  colle  piume  del  pileo,  dei  lati  della  testa  e  del  petto,  colle 
scapolari,  remiganti  terziario  e  cuopritriei  delle  ali  distintamente  marginate  di  rossigno. 

Il  Bocage  menziona  esemplari  di  Xeves  e  di  Praia  das  Conchas  in  S.  Thomé. 
ed  uno  dell'Isolotto  di  Rolas. 

Il  Reichenow  ha 'riferito  a  questa  specie  anche  Y  Haplopelia  principalis  (Hartl.) 
dell'Isola  del  Principe,  la  quale  invece  è  al  tutto  diversa  dalla  specie  di  S.  Thomé. 

40.  Coturnix  delegorguei,  Deleg. 

Coturnix  hystrionica,  Hartl,  Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1849,  p.  495  (St.  Thomas).  —  id.,  Beitr. 
in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  38,  55  (1850).  —  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131.  —  id.,  Abh. 
naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  38,  55,  Taf.  XI  (1852).  -  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  210.  - 
id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  204  (1857).  —  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.,  I,  p.  145  (St.  Thomé, 
sr.  Gomes  Eoberto)  (1867).  —  Sousa,  Mus.  Nac  Lisb.,  Gallinai-,  p.  45,  e,  d  (St.  Thomé) 
(1873).  —  Greeff,  Sitzb.  Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  46  (1884).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11, 
p.  4  (St.  Thome,  Moller)  (1887).  —  Sousa.  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  151,  152,  158 
(St.  Thomé)  (1888). 

Coturnix  delegorguei,  F.  et  H..  Vog.  Ost-Afr.,  i».  591  (St.  Thomé)  (1870).  —  Boc,  Jorn. 
Se.  Lisb.  (2),  No.  III,  p.  210  (Campos  de  Santo  Antonio)  (1889);  No.  VI,  p.  83  (Praia  das 
Conchas,  Muncadà)  (1891).  —  Grant,  Cat,  B.,  XXII.  p.  243,  specim.  a,  b  (St.  Thomas) 
(1893).  —  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I.  2.  p.  507  (1901). 


38  TOMMASO    SALVADORI  22 

41.  Numida  meleagris,  L. 

Numida  rendalli,  Ogilby.  —  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebels  Verz..  pp.   1,  37  (St.  Thonié)  (1850). 

—  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.   131  (St.   Thomas).   —    id.,    Abh.    naturw.  Ver.    Hamb.,  II, 

pp.    1,  37  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.   208.  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,    No.   XLVII, 

p.  151  (1888). 
Numida  meleagris,  Hartl.,  Syst,  Ora.  Westafr.,  p.  199  (St.  Thomé,  Annobon)  (1857).  —  Sousa, 

Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.   152  (1888).  -  Boc,  ibid.  (2),  No.  VI,  p.   87  (1891).  — 

Grant,  Cat.  B.,  XXII,  p.  375  (1893).  —  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  2,  p.  434  (1901). 

Inviata  dal  Weiss  e  forse  introdotta  nell'isola  di  S.  Thomé. 

Il  Reiclienow  esprime  il  dubbio  che  gli  esemplari  di  S.  Thomé  possano   appar- 
tenere alla  N.  marchei,  forma  non  ancora  ben  definita. 


42.  Ardea  gularis,  Bosc. 

Ardea  gularis,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  l,40(St.  Thomé,  TPms)(1850).  —  id.,  Contr. 
Orn.,  1850,  p.  151  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  40  (1852).  — 
id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  221  (1857).  -  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  I,  p.  146  (St.  Thomé, 
sr.  Gomes  Roberto)  (1867).  —  P.  et  H.,  Vog.  Ost-Afr.,  p.  691  (1870).  —  L.  V.,  Instituto, 
No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  151, 
158  (St.  Thomé)  (1888).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII,  p.  234  (St.  Thomé)  (1888). 
—  id.,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Principe)  (1889);  No.  II,  p.  144  (1889); 
No.  Ili,  p.  210  (Ilheo  das  Rolas;  Rio  do  S.  Miguel)  (1889);  No.  VI,  p.  83  (St.  Thomé, 
ilot  das  Rolas,  ova)  (1891). 

Egretta  gularis,  Hartl,  J.  f.  0.,  1854,  p.  290  (St.  Thomé). 

Herodias  gularis,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 

Lepterodius  gularis,  Sharpe,  Cat.  B,  XXVI,  p.  114  (St.  Thomas)  (1898). 


43.  Herodias  garzetta  (L.). 

Herodias  garzetta,  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn. 

Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.   154  (1888).    —   Boc.,  ibid.  (2),  No.  I,   p.  35  (1889);  No.  VI, 

p.  87  (1891). 

Non  è  improbabile  che  a  questa  specie  siano  stati  attribuiti  esemplari  nell'abito 
bianco  della  specie  precedente. 

44.  Butorides  atricapillus  (Afzel.). 

Ardea  thalassina,  Sw.  —  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  40  (St.  Thomé,  Weiss)  (1850). 
—  id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St.  Thomé).  --  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  2, 
pp.  1,  40  (St.  Thomé)  (1852).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888). 

Ardea  atricapilla,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  223  (St.  Thomé)  (1857).  —  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb., 
No.  XXVI,  p.  87  (St.  Thomé)  (1879). 

Butorides  atricapillus,  Lopes  Vieira,  Instituto,  1887,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller).  — 
Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  150  (Rio  de  Manuel  Jorge)  (1888);  (2),  No.  I,  p.  36 
(St.  Thomé,  liba  do  Principe)  (1889);  No.  II.  p  144  (1889);  No.  Ili,  p.  210  (Jogo-Jogo, 
Rio  de  S.  Miguel)  (1889);  No.  VI,  p.  83  (1891).  —  Rchnw.,  Vog.  Afr.,  I,  p.  370  (1901). 

Butorides  atricapilla,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  pp.  152,  158  (1888).  —  Boc,  ibid., 
No.  XLVIII,  p.  234  (1888). 
a  (57)  :  juv.  Rib.  Palma  (300  m.),  4  agosto  1900. 


23  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  39 

45.  Butmlcus  lucidus  (Rafin.). 

Ardeola  bubulcus,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  40  (St.  Thoiné,  Weiss)  (1850).  - 
id.,  Contr.  Ora..  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  40 
(1852).  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  222  (1857).  —  F.  et  H.,  Vog.  Ost-Afr.,  p.  694  (1870). 

—  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888). 
Ardeola  bubulcus,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  291  (St.  Thoiné). 

Bubulcus  ibis  (Hasselq.).  —  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thoiné,  Moller)  (1887).  —  Sousa, 
Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888).  —  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII,  p.  234 
(St.  Thomé)  (1888).  —  Boa,  ibicl.  (2),  No.  VI,  p.  83  (Diego  Nunes,  Angolares,  iiot  das 
Rolas)  (1891). 

46.  Ciconia  alba,  Bechst. 

Ciconia  alba,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  275  (Ins.  St.  Thomé,  Weìss)  (1857).—  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (St.  Thomé)  (1888). 

L'Hartlaub  non  annoverò  questa  specie  fra  quelle  di  San  Thomé  nei  primi  lavori 
intorno  agli  uccelli  raccoltivi  dal  Weiss. 

47.  Lampribis  olivacea  (Du  Bus). 

Comatibis  olivacea,  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVIII,  pp.  233,  234  (St.  Thomé,  F.  Nenia») 
(1888);  (2),  No.  I,  pp.  35,  36  (1889);  No.  II,  p.  144  (St.  Miguel,  Newton)  (1889);  No.  Ili, 
p.  210  (St.  Miguel,  costa  occidentale)  (1889);  No.  VI,  p.  84  (Angolares,  Newton)  (1891). 

48.  Numenius  phaeopus,  L. 

Numenius  phaeopus,  Haiti.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  41  (St.  Thomé,  Weiss)  (1850).  — 
id.,  Contr.  Orn.,  1850,  p.  131  (St  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  41 
(1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  296.  —  F.  et  H.,  Vog.  Ost.-Afr.,  p.  739  (1870).  —  Bea, 
Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLVI,  p.  83  (St.  Thomé)  (1887).  -  Sousa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLVII, 
p.  151  (1888).  —  Boa,  ibid.  (2),  No.  II,  p.  144  (1889);  No.  Ili,  p.  210  (1889);  No.  VI, 
p.  83  (Rio  Quija,  Jogo-Jogo)  (1891). 

Numenius  haesitatus,  Hartl.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  233  (St.  Thomé,  Weiss)  (1857).  —  Sousa, 
Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 
"  Nome  volgare  '  Còco-Piloto  '  „  (Newton). 

49.  Arenaria  interpres  (L.). 

Strepsilas  interpres,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  84  (Hot  das 
Rolas,  Fernào  Dias)  (1891). 

50.  Totanus  glareola  (L.). 

Totanus  glareola,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  35  (St.  Thomé,  Newton)  (1889);  No.  Ili, 
p.  210  (Rio  do  Ouro)  (1889);  No.  VI,  pp.  84,  87  (Diego  Nunes,  Rio  do  Oiro,  Newton)  (1891). 

51.  Tringoides  hypoleucos  (L.). 

Actitis  hypoleucos,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLVI,  p.  83  (St.  Thomé,  sr.  Quintas)  (1887). 

—  Sousa,  ibid.,  No.  XLVII,  p.  154  (1888).  —  Boa,  ibid.  (2),  No.  I,pp.  35,  36  (St.  Thomé 
e  do  Principe)  (1889);  No.  VI,  p.  84  (Jogo-Jogo,  ilot  das  Rolas,  St.  Miguel)  (18911 


40  TOMMASO    SALVADOEI  24 

52.  Rallus  caerulescens,  Gm. 

Rallus  caerulescens,  Boc,  .Tom.  Se.  Lisb.,  I,  p.  148  (St.  Thomé)  (1867).  —  Sousa,  ibid., 
No.  XLYII,  pp.  153,  158  (St.  Thomé,   3r.  Gomes  Unì,,  rio)  (  1888). 

53.  Crecopsis  egregia  (Peters). 

Ortygouietra  egregia,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  35  (St.  Thomé)  (1889);  No.  Ili, 
p,  210  (Rio  do  Ouro,  Newton);  No.  VI,  p.  84  (Bio  do  Giro,  Santo  Amaro,  F.  Newton)  (1891). 

54.  Gallinula  chloropus.  L. 

Gallinula  chloropus,  Hartl.,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  3,  43  (St.  Thomé,  Weiss)  (1850) 
—  id.,  Contr.  Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1, 
3,  43  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  301.  -  id.,  Syst.  Ora.  Westafr.,  p.  244  (1857).  — 
P.  et  H.,  V6g.  Ost.-Afr.,  p.  787  (1870).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.XLVII,  pp.  151, 152 
(1888).  —  Boc.,  ibid.  (2),  No.  III,  p.  210  (1889);  No.  VI,  p.  84  (Lagune  de  Pinheira)  (1891). 
Io  ho  qualche  dubbio  che  gli  esemplari  attribuiti  a  questa  specie  appartengano 

invece  alla  seguente,  quindi  essi  dovranno  essere  esaminati  ed  identificati. 

55.  Gallinula  angulata,  Sund. 

Gallinago  (sic)  angulata,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  158  (St.  Thomé,  sr.  Gomes 

Boberto)  (1888). 
Gallinula  angulata,  Heine  u.  Rchnw.,  Nomenel.  Mus.  Hein.,  p.  318  (St.  Thomas)  (1890).  — 

Sharpe,  Cai  B.,  XXIII,  p.  181  (1893). 
"  Nome  volgare  'Galla  d'aua  '  „   (Newton). 

Le  Gallinelle  d'acqua  dell'Isola  di  S.  Thomé  sono  state  riferite  dall'Hartlaub  e 
dal  Bocage  alla  G.  chloropus,  e  dal  De  Sousa  e  nel  Museo  Heineano  alla  G.  angu- 
lata; io  ho  potuto  esaminare  l'esemplare  di  S.  Thomé  inviato  dal  Sr.  Roberto  al 
Museo  di  Lisbona,  e  mi  sono  accertato  che  esso  appartiene  realmente  alla  Gallinula 
angulata. 

56.  Phoenicopterus  roseus,  Pall. 

Phoenicopterus  erythraeus,  Pinsch  et  Hartl.  (nec  Verr.),  Vog.  Ost.-Afr.,  p.  795  (St.  Thomé, 
Weiss)  (1870).  -  Sousa,  Jorn.  Se,  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888).  —  Boc.,  ibid.  (2), 
No.  VI,  p.  87  (1891). 

Finsch  ed  Hartlaub  menzionano,  sotto  il  nome  indicato,  un  fenicottero  di  S.  Thomé 
inviato  al  Museo  di  Brema  dal  Weiss;  è  singolare  che  questa  cosa  non  sia  stata  menzio- 
nata dall'Hartlaub  nei  suoi  precedenti  lavori  originali  intorno  agli  uccelli  di  S.  Thomé, 
raccolti  dal  Weiss.  A  me  viene  il  dubbio  che  si  tratti  del  Phoeniconaias  minor,  che 
si  trova  anche  nell'Isola  del  Principe. 

57.  Sterna  f uliginosa,  Gm. 

Sterna  fuliginosa,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  Ili,  p.  210  (1889);  No.  VI,  p.  84  (1891). 

Il  Bocage  ha  ricevuto  dal  Sr.  F.  Newton  un  esemplare  di  questa  specie  preso 
a  bordo  del  piroscafo  Ambacea  a  25  miglia  da  S.  Thomé. 


25  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE   DEL    GOLFO    DI    GUINEA  41 

58.  Sterna  anaestheta,  Scop. 

Sterna  panayensis,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  84  (ilots  Sette-Pedras,  F.  Newton)  (1891). 
"  Nome  volgare  '  Cóco-Sandja  '  ,   (F.  Newton). 

59.  Anous  stolidus  (L.). 

Anous  stolidus,  L.  V..  Instdtuto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  —  Sousa,  Jorn.  Se. 

Lisb.,  No.  XLVII,  p.  154  (1888).  -  Boa,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  35  (1889);  No.  VI,  p.  84 

(ilots  Sette-Pedras  et  ilot  das  Rolas)  (1891). 

Nome  volgare  Padé  do  male,  corruzione  di  Par  dal  do  mar,  ossia  Passero  di  mare, 
seoondo  il  Bocage. 

60.  Phaeton  lepturus,  Lacép.  et  Daud. 

Phaeton  candidus,  Temm.  —  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  I,  p.  149  (St.  Thomé,  sr.  Gomes  Roberto) 
(1867).  —  Sousa,  ibid.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888).  —  Boa,  ibid.  (2),  No.  I,  p.  35  (1889). 

Lepturus  candidus,  L.  V.,  Instituto,  No.  11,  p.  4  (St.  Thomé,  Moller)  (1887).  -  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  159  (St.  Thomé,  sr.  Newton)  (1888).  -  Boa,  ibid.  (2),  No.  Ili, 
p.  210  (Ciuco,  nheo  das  Cabras,  F.  Newton)  (1889);  No.  VI,  p.  85  (ilot  das  Cabras,  ilots 
Sette-Pedras,  ilot  das  Rolas,  F.  Newton)  (1891). 

Phaeton  lepturus,  Grant,  Cat.  B.,  XXVI,  pp.  453, 455,  specim.  h  (St.  Thomas,  F.  Newton)  (1898). 

"  Comune  sugli  isolotti  intorno  a  S.  Thomé  .,  (Bocage). 
Il  Bocage  descrive  anche  le  uova. 

61.  Sula  leucogastra  (Bodd.). 

Sula  fiber,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  85  (ilots  Sette-Pedras,  F.  Newton)  (1891). 

62.  Phalacrocorax  africanus  (Gm.). 

Phalacrocorax  africanus,  HartL,  Beitr.  in  Wiebel's  Verz.,  pp.  1,  44  (St.  Thomé,  Weiss)  (1850). 

—  id.,  Contr.  Ora.,  1850,  p.  131  (St.  Thomas).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  1,  44 
(St.  Thomé)  (1852).  -  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  308.  —  id.,  Syst.  Ora.  Westafr.,  p.  260  (1857). 

—  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  151  (1888). 

Graculus  africanus,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.,  No.  XLVI,  p.  83  (St.  Thomé)  (1887);  No.  XLVII, 
p.  150  (Rio  de  Manuel  Jorge)  (.1888).  —  Sousa,  ibid.,  p.  152  (1888).  —  Boa,  ibid., 
No.  XLVIII,  p.  234(1888);  (2),  No.  II,  p.  144  (St.  Thomé)  (1889);  No.  Ili,  p.  210  (Jogo- 
Jogo,  Rio  Quija,  Rio  de  S.  Miguel,  F.  Newton)  (1889);  No.  VI,  p.  85  (St.  Thomé)  (1891). 

"  Nome  volgare  '  Fata  d'aua  '  „   (F.  Newton). 
Comune  in  tutta  l'isola,  secondo  F.  Newton. 

63.  Oceanodroma  castro  (Harcourt). 

Procellaria  sp.,  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  VI,  p.  84  (in  mare  fuori  della  costa  d'Angolares, 
F.  Neivton)  (1891). 

"  Nome  volgare  '  Caniboto  '  „   (F.  Neivton). 

Il  Bocage  non  ha  potuto  identificare  un  maschio  adulto  preso  dai  pescatori  della 
costa  d'Angolare  a  grande  distanza  dalla  spiaggia;  egli  dice  che  esso  somiglia  alla 
Serie  II.  Tom.  LUI.  f 


42  TOMMASO    SALVADORI  26 

Proc.  leucorrhoa  (Vieill.),  ma  che  ha  il  colorito  di  un  nero  più  cupo,  meno  tinto  di 
grigiastro;  la  fascia  biancastra  sull'ala  meno  distinta;  le  cuopritrici  minori  delle  ali, 
le  ali,  le  remiganti  e  le  timoniere  di  un  nero  lucente  (brillant);  le  sopracaudali  bianche, 
terminate  di  nero,  precisamente  come  nella  P.  pelagica;  la  coda  più  corta,  debolmente 
forcuta,  quasi  eguale;  il  becco  molto  più  robusto;  i  tarsi  e  le  dita  più  lunghi.  Lungh. 
tot.  195  mm.,  ala  160  mm.  ;  coda  75  mm.  ;  tarso  24  mm.;  dito  medio  25  mm.; 
culm.  del  becco  19  mm. 

Ho  esaminato  l'esemplare  menzionato  dal  Barboza  du  Bocage;  esso  appartiene 
alla  specie  indicata  ed  è  similissimo  a  quelli  del  Capo  Verde  raccolti  dal  Fea,  coi 
quali  l'ho  confrontato.  Questa  specie  si  conosce  anche  dell'Isola  S.  Elena. 


APPENDICE 


Specie  dubbie,  od  erroneamente  indicate  dell'Isola  di  S.  Thomé. 
1.  Melaenornis  edolioides  (Sw.). 

Melasoma  edaloides  (sic),  Alien  and  Thoms.,  Exped.  Niger,  II,  p.  42  (Ilha  das  Eollas)  (1848). 
Melaenornis  edolioides,  Hartl.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  60,  64  (1852).  —  id.,  J.  f.  0., 
1854,  p.  30  (Ilha  das  Rollas,   Thoms.).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  102  (1857). 

Menzionata  soltanto  da  Alien  e  Thomson  fra  quelle  dell'Isola  das  Rollas. 


2.  Chlorophoneus  olivaceus  (Shaw). 

Malaconotus  olivaceus  (Vieill.).  —  Alien  and  Thoms.,  Exped.  Niger,  II,  p.  41  (Ilha  das  Rollas) 

(1848). 
Laniarius  icterus,  Hartl.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  60,  65  (1852).  —  id.,  J.  f.  O., 

1854,  p.  96  (Ilha  das  Rollas,  Thomson).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  110  (1857). 

Annoverata  soltanto  da  Alien  e  Thomson,  e  se  veramente  una  specie  di  questo 
genere  si  trova  nell'isola  Rollas,  credo  che  essa  sia  ancora  da  identificare  con  sicurezza. 


3.  Chlorophoneus  sulphureopectus  (Less.). 

Malaconotus  chrysogaster ,  Sw.  —  Alien    and    Thoms.,  Exped.  Niger,    II,  p.   41  (Ilha   das 

RoUas)  (1848). 
Laniarius  chrysogaster,  Hartl,  Abh.    naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.   60,  65  (1852).   —    id., 

J.  f.  O.,  1854,  p.  32  (Ilha  das  Rollas,   Thoms.).  —  id.,  Ora.  Westafr.,  p.  107  (1857). 

Anche  questa  specie  è  annoverata  fra  quelle  dell'Isola  das  Rollas   soltanto    da 
Alien  e  Thomson,  ed  è  da  identificare. 


27  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  43 


4.  Passer  diffusus  (Smith). 

Passer  simplex  (Sw.).  —  Hartl.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  260  (St.  Thomé,  Gujon).  —  Sousa,  Jorn. 
Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153 


La  presenza  di  questa  specie  nell'isola  di  S.  Thomé  merita  conferma. 


5.  Lamprocolius  ignitus  (Erm.). 

Lamprocolius  ignitus,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  102  (Ilha  do  Principe,  St.  Thomé,  Weiss.).  — 
id.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  116  (St.  Thomé)  (1857).  —  id.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  174  (St.  Thomé, 
Gujon).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (1888). 

Lamprotornis  ignitus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  36  (St.  Thomé,  Ilha  do  Prin- 
cipe) (1889). 

Nei  due  lavori  originali  publicati  dall'Hartlaub  nelle  Contributions  to  Ornìtìwlogy 
e  nelle  Abhandlungen  della  Società  di  Amburgo,  intorno  agli  uccelli  di  San  Thomé 
raccolti  dal  Weiss,  questa  specie  non  è  annoverata,  ma  soltanto  in  lavori  posteriori 
e  probabilmente  per  errore. 


6.  Neophron  pileatus  (Burch.). 

Neophron  pileatus,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  1  (Ins.  St.  Thomé  und  do  Principe,  Lopez  de 
Lima)  (1857).  —  F.  et  H.,  Vog.  Ost-Afr.,  p.  35  (1870).  -  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII, 
p.  152  (1888). 

L'esistenza  di  questa  specie  nelle  isole  di  S.  Thomé  e  del  Principe  si  fonda  sul- 
l'asserzione poco  attendibile  del  Lopez  de  Lima. 


7.  Psittacus  erithacus,  L. 

Psittacus  erythacus,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  166  (Ins.  St.  Thomé  u.  do  Principe,  Lopez  de 
Lima)  (1857).  —  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152 


L'esistenza  di  questo  pappagallo  nell'Isola   di   San   Thomé   si   fonda   sulla   sola 
asserzione  del  Lopez  de  Lima,  e  non  è  stata  confermata  da  altri. 


8.  Agapornis  roseicollis  (Vieill.). 

Agapornis  roseicollis,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  262  (St.  Thomé,  Gujon,  Weiss). 
Psittacula  roseicollis,  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 

Io  credo  che  la  presenza  di  questa  specie  nell'Isola  di  S.  Thomé  abbisogni  di 
essere  confermata,  non  essendo  molto  probabile  che  in  detta  isola  si  trovino  due 
specie  affini,  VA.  pullaria  e  VA.  roseicollis.  Non  comprendo  come  l'Hartlaub  menzioni 
anche  il  Weiss  come  autorità  comprovante  la  presenza  dell'vl.  roseicollis  nell'Isola  di 
S.  Thomé,  giacche  nei  primi  lavori  dell'Hartlaub  intorno  alle  collezioni  inviate  dal 
Weiss  dall'Isola  di  San  Thomé  è  annoverata  soltanto  VA.  pullaria,  che  anche  il  Fea 
vi  ha  trovata. 


44  TOMMASO    SAI.VADORI  28 

9.  Cuculus  canorus,  L. 

Cuculus  canorus.  Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  152  (8t.  Thomé)  (1888). 

Il  De  Sousa  menziona  questa  specie  fra  quelle  annoverate  dall'  Hartlaub  nel- 
l'opera System  der  Ornithologie  Westafrica's  come  trovate  nell'Isola  di  San  Thomé: 
io  non  sono  riuscito  a  rintracciarla  nell'opera  citata. 

10.  Ceryle  maxima  (Pall.). 

Ceryle  maxima,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  106  (St.  Thomé,  Gujon).  —  F.  et  H.,  Vog.  Ost-Afr., 
p.  173  (1870).  —  Sousa.  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 

La  indicazione  relativa  a  S.  Thomé  mi  sembra  dubbia. 

11.  Halcyon  sp. 

Halcyon  cancrophaga,  Hartl.  (nec  Lath.),  J.  f.  0.,  1861,  p.  104  (St.  Thomé,  Gujon).  —  Sousa, 
Jorn.   Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 

Col  nome  di  Halcyon  cancrophaga  l'Hartlaub  menziona  un  esemplare  che  dice  di 
S.  Thomé  (Gujon)  e  che  secondo  lui  sarebbe  stato  descritto  dal  Verreaux  come  appar- 
tenente alla  cancrophaga  (sic).  Io  non  trovo  che  il  Verreaux  abbia  menzionato  un 
Halcyon  cancrophaga,  ma  sibbene  un  Halcyon  cinereifrons  (Cancrophaga),  cioè  del  sot- 
togenere Cancrophaga  (Rev.  et  Mag.  de  Zool.,  1851,  p.  265)  senza  indicarne  la  pro- 
venienza. 

12.  Merops  superciliosus,  L. 

Merops  aegyptius,  Hartl.  (nec  Forsk.),  J.   f.  0.,  1861,  p.    106  (St.  Thomé).  —  Sousa,  Jorn. 

Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 
Merops  superciliosus.  L.  —  Finsch  et  Hartl.,  Vog.  Ost-Afr.,  pp.  179, 180  (St.  Thomé,  Gujon) 

(1870).  —  Sousa,  op.  eit.,  p.  153  (1888). 

L'Hartlaub  afferma  di  aver  esaminato  un  maschio  giovane  di  S.  Thomé  (!)  del 
Merops  aegyptius,  ma  secondo  il  Finsch  e  l'Hartlaub  (1.  e.)  esso  appartiene  invece  al 
M.  superciliosus. 

Il  Gujon  è  la  sola  autorità  per  annoverare  questa  specie  fra  quelle  di  S.  Thomé. 

13.  Dicrocercus  furcatus,  Stanl. 

Merops  hiruudinaceus,  Hartl.  (nec  Vieill.),  J.   f.   0.,  1861,  p.    107  (St.  Thomé,  Gujon).  — 

Sousa,  Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 
Merops  hirundineus,  Lieht.  —  F.  et  H.  Vog.  Ost-Afr.,  p.  193  (1870). 

Il  Gujon  sarebbe  la  sola  autorità  per  annoverare  questa  specie  fra  quelle  di 
S.  Thomé. 

14.  Melittophagus  pusillus  (P.  L.  S.  Mull.). 

Merops  erythropterus,  Gm.  —  Hartl,  J.  f.  0.,  1861,  p.  107  (St.  Thomé,  Gujon).—  Sousa, 

Jorn.  Se.  Lisb.,  No.  XLVII,  p.  153  (1888). 
Merops  minutus,  Vieill.  —  F.  et  H,  Vog.  Ost.-Afr..  p.  188  (1870). 

Come  per  la  specie  precedente  il  Gujon  sarebbe  la  sola  autorità  per  ammettere  il 
M.  pusillus  fra  quelle  di  S.  Thomé. 


29  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  45 

15.  Chalcopelia  afra  (L.). 

Turtur  chalcospilos  (  Wagl.).  —  Alien  and  Thoms.,  Exped.  Nig.,  II,  p.  41  (Uba  das  Eollas)(1848). 
Peristera  chalcospilos,  Hartl,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  60,  68  (1852).  —  id.,  J.  f.  0., 

1853,  p.  208  (Una  das  Rollas,  Thomson). 
Perntera  afra,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  197  (Uba  das  Rollas,   Thoms.)  (1857). 

Soltanto  Alien  e  Thomson  menzionano  la  Turtur  chalcospilus  fra  quelle  dell'Isola 
das  Rollas,  ma  non  è  improbabile  che  la  loro  citazione  si  riferisca  alla  Haplopelia 
simplex. 

16.  Turtur  semitorquatus  (Rììpp.). 

Turtur  semitorquatus,  Alien  and  Tboms.,  Exp.  Nig.,  II,  p.  41  (Ilha  das  Rollas)  (1848).  — 
Hartl  ,  Abb.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  60,  68  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  207  (Ilha 
das  Rollas  und  Bimbia,   Thomson).  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  196  (1857).  —  Greeff,  Sitzb. 
Ges.  Marb.,  1884,  No.  2,  p.  47.  —  Boa,  Jorn.  Sa  Lisb.  (2),  No.  I,  p.  34  (1889). 
Anche  questa  specie  è  stata  menzionata  fra  quelle  dell'Isola  das  Rollas  soltanto 

dall'Alien  e  Thomson,  giacche  il  Greeff  probabilmente  la  menziona  sulla  loro  autorità; 

il  Barboza  du  Bocage  dubita  dell'esattezza  di  quella  asserzione!  Non  è  improbabile 

che  la  loro  citazione  sia  da  riferire  alla  Turturoena  malherbii. 

17.  Phyllopezus  africanus  (Gm.). 

Parrà  africana,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1861,  p.  271  (St.  Thomé,  Gujon).  —  Sousa,  Jorn.  Se.   Lisb., 
No.  XLVII,  p.  153  (1888). 
La  presenza  di  questa  specie  nell'Isola  di  St.  Thomé  merita  conferma. 


EFFETTI  DELLA  DISPERSIONE  E  DELLA  REATTANZA 


FUNZIONAMENTO  DEI  TRASFORMATORI 


METODI    DI    MISURA    ED    APPLICAZIONI 


MEMORIA 

DEL   SOCIO 

Prof.  GUIDO  GRASSI 


Approvata  nell'adunanza  dell' S  Febbraio  1903. 


Ebbi  già  occasione  di  pubblicare  uno  studio  sul  medesimo  argomento,  per  mostrare 
come  varia  la  tensione  secondaria  di  un  trasformatore  quando  si  fa  variare  nel  cir- 
cuito esterno  lo  sfasamento  della  corrente  (*).  Nel  continuare  tale  studio  giunsi  a 
diversi  risultati  che  mi  sembrano  degni  di  nota,  in  quanto  che  non  solo  mettono  in 
evidenza  alcune  nuove  particolarità  nel  funzionamento  dei  trasformatori,  ma  permet- 
tono anche  di  ricavarne  qualche  metodo  semplice  per  determinare  sperimentalmente 
o  per  mezzo  del  calcolo  gli  elementi  più  importanti  dell'  apparecchio. 

Lo  studio  è  basato  su  di  una  formola  generale,  dedotta  dal  diagramma  ordi- 
nario, simile  a  quella  già  da  me  esposta  nella  Nota  citata.  Però,  siccome  trovai 
opportuno  di  introdurvi  qualche  modificazione,  allo  scopo  di  presentare  una  soluzione 
più  completa  anche  di  quella  parte  della  questione  che  già  avevo  trattata,  così,  per 
rendere  più  chiara  la  discussione  e  non  obbligare  il  lettore  a  ricercare  altrove  una 
parte  delle  formole,  riassumo  in  principio  la  dimostrazione  della  formola  generale, 
avvertendo  che  essa  risulta  poi  un  po'  diversa  da  quella  contenuta  nella  citata  Nota, 
perchè  alcuni  termini  correttivi  vi  sono  rappresentati  in  altra  forma,  e  la  formola 
generale  è  presentata  in  modo  da  poter  tener  conto  di  tutti  i  termini,  senza  nulla 
trascurare. 

Il  diagramma  del  trasformatore  è  quello  della  fig.  1». 

Formole  generali.  —  Prendo  la  OX  come  direzione  del  segmento  che  rap- 
presenta in  fase  e  grandezza  il  flusso  magnetico,  e  propriamente  quel  flusso  che  si 


(*)  Vedi  la  mia  Nota  presentata  alla  R.  Accademia  di  Scienze  fisiche  e  matematiche  di  Napoli. 
Rendiconti,  marzo  1902,  Sulla  variazione  della  tensione  secondaria  nei  trasformatori. 


48 


GUIDO    GRASSI 


concatena  tanto  colle    spire    primarie,  quanto    colle    secondarie;  OF  è  la   direzione 
della  forza  magnetizzante,  in  avanzo  di  fase  di  un  angolo  0=  XOF  rispetto  al  flusso. 

La  f.  e.  m.  indotta  nel  secondario  ha  la  dire- 
zione OD,  in  quadratura  col  flusso,  e  in  ritardo; 
la  corrente  secondaria  avrà  la  direzione  OC,  spo- 
stata di  un  angolo  t  =  DOC  rispetto  alla  f.  e.  m. 
S'intende  che  noi  supporremo  questo  angolo  di  un 
valore  qualunque,  anche  negativo,  potendo  essere 
la  corrente  in  avanzo. 

Sia  nel  primario  nx  il  numero  di  spire,  7X  il 
valor  massimo  della  corrente,  Ex  la  f.  e.  m.  indotta 
dal  flusso  che  ha  la  fase  OX;  rx  la  resistenza  del 
circuito. 

Nel  secondario  siano  n2,  J2,  E2,  r2,  le  quantità 
corrispondenti;  la  r2  comprende  anche  il  circuito 
esterno. 

Per  costruire  il  diagramma  del  trasformatore 
si  prende  sulla  OF  il  segmento  OB  eguale  alla  forza 
magnetizzante  risultante,  cioè 


OB 


Fig.  1° 


0,4  ti 


indicando  con  <t>  il  flusso  considerato  e  con  R  la  riluttanza  del  suo  circuito  magne- 
tico. Poi  sulla  OC  si  prende 

OE=  n2T2 

sarà  EB  =  n^  ;  cosicché,  compiendo  il  parallelogrammo,  si  ha 

OA  =  njx  AB  =  n.,1,. 

La  f.  e.  m.  di  selfinduzione  dovuta  al  flusso  disperso,  nel  primario,  sia  e%. 
Fatto 

OB  =  r^!     in  fase  colla  corrente  primaria, 

RP=e1        in  quadratura  colla  corrente  primaria, 

PQ  =  Ex       in  quadratura  col  flusso  OX, 

la  OQ  sarà  la  f.  e.  m.  impressa,  che  diremo  E0,  da  applicare  ai  morsetti  del  primario. 
Abbassate  le  AG  e  BH  perpendicolari  ad  OX,  è  facile  vedere  che  si  ha 

(L4sen(cp  +  6)  =  ABcosf  -f  OBsenQ 
0^1  cos  (q>  -4-  9)  =  AB  senf  +  OS  cos  9. 

Pongasi   per  brevità  — -=-  =  «;  e  notando   che  -— -=  — £-.  si  ottiene 
r  AB  OA  «[/, 


(1) 

(2) 


«2^2 


sen(q>  -f-  9)  =  — *j-  (cos  y  ~|-  a  sen0), 
cos  (q>  -I-  9)  =  J"i~-  (sen  T  +  «  cos  9) , 

Ht  il 


3  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  49 

Rapporto  delle  correnti.  —  Dal  triangolo  AOB,  riflettendo  che 
cos^OB  =  — sen(T  +  9), 
si  ricava  la  relazione  che  lega  fra  loro  le  intensità  primaria  e  secondaria: 

(3)  n\I\=n\I\  j  1  +  a2  +  2a sen(T  +  6)  j- 

Forza  elettro-motrice  impressa.  —  Dal  triangolo  POQ  si  ha 

OQ2  =  PO2  +  OR2  +  RP2  +  2PQ  j PR cos(op  +  e)  +  OR sen(cp  -f  6)  j ■ 

Sostituendo  i  valori  dei  vari  segmenti,  e  approfittando  delle  relazioni  (1)  e  (2), 
si  ottiene  la  formola  che  dà  la  forza  elettromotrice  impressa: 

(4)  £,02=i,f+r?J?  +  «?+2JE1^je1(senT  +  «cose)  +  r1Z1(cosT+asene)|- 

Rapporto  di  trasformazione  totale.  —  Chiamo  rapporto  di  trasformazione 
totale  o  interno,  quello  che  passa  fra  la  f.  e.  m.  impressa  al  primario  e  la  f.  e.  m. 
totale  nel  secondario;  cioè  tra  E0  ed  E2. 

Ora  si  noti  che 

E\   »i 

e  indicando  con  p  l'impedenza  del  secondario,  si  ha 

E2  =  I2p 
pcosT  =  r2. 

Infine  potremo  mettere  la  f.  e.  m.  di  selfinduzione  sotto  la  forma 

ex  =  Xj/j 

chiamando  \x  la  reattanza  dovuta  alla  selfinduzione,  più  propriamente  al  flusso 
disperso,  nella  spirale  primaria.  Con  queste  sostituzioni,  dividendo  tutta  la  (4)  per  È\, 
si  ottiene  la  seguente  equazione,  che  dà  il  rapporto  cercato: 

<«    (tr=(t)2+(^r^>+a2+2asen(T+e)Scos2T+ 

+  —  j  X,(senT  +  acos9)  +  ^(cost  +  «sen9)|cosT- 

Dunque  il  rapporto  di  trasformazione  totale  risulta  da  una  serie  di  termini,  di 
cui  il  primo  dipende  solo  dal  rapporto  fra  i  numeri  di  spire  primarie  e  secondarie, 
e  gli  altri  sono  funzione,  oltreché  degli  elementi  del  trasformatore,  anche  di  quelli 
del  circuito  esterno;  e  propriamente  la  resistenza  esterna  (compresami)  è  sempre 

Serie  II.  Tom.  LUI.  a 


50  GUIDO    GRASSI  4 

al  denominatore,  mentre  invece  appaiono  come  fattori  le  funzioni  senr  e  cosr  dello 
sfasamento  della  corrente  secondaria.  —  Il  primo  termine  ha  in  generale  valore  pre- 
valente sugli  altri.  —  Però  prima  di  decidere  quali  fra  i  termini  seguenti  siano  tras- 
curabili convien  esaminarne  il  significato. 

Valore  del  rapporto  a.  —  Per  definizione 

OB   _        <t>B 

0  AB  ~~    O^TTnj/j   ' 

D'altra  parte  sappiamo  che  la  f.  e.  m.  E2  è  data  da 
E2  =  10-82tt«<1>m2 

indicando  con  n  la  frequenza  della  corrente.  Eliminando  <t>  si  ottiene  il  valore  di  a, 
che  si  può  scrivere 

a  =  £■  :  2im  ^-  IO9. 
h  B. 

Ma         2   non  è  altro  che  il  coefficiente  di  selfinduzione  della  spirale  secondaria, 

e  propriamente  quello  che  si  riferisce  a  tutto  il  flusso  che,  prodotto  dalla  spirale 
secondaria,  si  concatena  anche  colla  primaria.  E  dunque  un  coefficiente  che  differisce 
dal  vero  coefficiente  di  selfinduzione  soltanto  della  piccola  frazione  che  corrisponde 
al  flusso  disperso.  Moltiplicato  per  2mi  e  per  IO9  ci  dà  (sempre  a  meno  di  una  pic- 
cola frazione)  la  reattanza  della  spirale  secondaria  in  unità  pratiche,  che  indicheremo 
con  A.  Si  ha  dunque 

Eì 

che  si  può  scrivere  anche 


(6) 


P     r2 

A  Aco9T 


cioè  si  può  dire  che  a  è  assai  prossimamente  eguale  al  rapporto  fra  l'impedenza  del 
circuito  secondario  e  la  reattanza  che  avrebbe  la  spirale  secondaria  se  fosse  sola. 

Il  valore  numerico  di  a  si  determina  più  facilmente  colla  seguente  sostituzione. 
Sia  B  l'induzione  massima  nel  nucleo,  S  la  sezione,  l  la  lunghezza,  u  la  permeabilità; 
avremo 

Bl 


0,4TtH,/2H 

e,  tenuto  conto  del  valore  di  E2, 


La    potenza  del  trasformatore  nel  secondario  è 


5  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA  "REATTANZA    NEL   FUNZIONAMENTO,    ECC.  51 

Posto  il  volume  SI  —  Q,  risulta 

(7)  «  =  2,5.10-^=$?^. 

Siccome  per  trasformatori  a  carico  normale  il  rapporto  Q  :  W  e  poco  diverso 
da  1  (un  po'  maggiore  nei  trasformatori  piccoli,  e  un  po'  minore  in  quelli  di  grande 
potenza),  si  vede  che  a  differisce  poco  da 

2,5.10-8  —  cost 

a    carico    normale.  Se  fosse,  per  es.,  £  =  4000,  n  =  50,  u  =  1600,  si    troverebbe, 

per  cost  =  1, 

a  =  0,0125. 

Col  diminuire  del  carico  a  aumenta. 

Sostituiamo  nella  (5)  il  valore  (6)  di  a;  ossia  poniamo 

a  cost 1 

r2  A   ' 

scriviamo  inoltre 

n2 

otteniamo 

(8)  (J|)2=^+2  ^e  +  nsene  _._  r£±V  +  ±  ^+  Wcos9)  senT C0ST  + 

Ht^  +  W  +  ^H^ 

Si  noti  che  gli  elementi  del  circuito  esterno,  cioè  r2  e  y,  entrano  soltanto  negli 
ultimi  due  termini,  i  quali  si  annullano  o  per  r2=  °o  (circuito  aperto),  o  per  cosy  =  0, 
cioè  quando  la  reattanza  è  così  grande  da  portare  la  corrente  in  quadratura.  Tanto 
in  un  caso,  quanto  nell'altro,  il  rapporto  di  trasformazione  è  lo  stesso  ;  sempre  mag- 
giore del  rapporto  tra  i  numeri  delle  spire,  sebbene  di  poco,  specialmente  se  vi  è 
dispersione  notevole  di  flusso. 

Rapporto  di  trasformazione  esterno.  —  Ciò  che  si  misura  direttamente 
è  il  rapporto  tra  la  f.  e.  m.  impressa  E0  e  la  tensione  V  ai  poli  del  secondario;  rap- 
porto che  si  può  distinguere  dal  precedente  chiamandolo  esterno.  Ma  nella  pratica  è 
più  semplice  chiamarlo  rapporto  di  trasformazione,  senz'altra  qualifica. 

Nel  diagramma  della  fig.  la  si  prenda  OD  =  E2,  f.  e.  m.  totale  del  secondario; 
e  quindi,  fatto  DC  normale  a  OC,  sarà: 

OC=r2I2. 

Chiamando  r'  la  resistenza  della  spirale  secondaria  e  r  quella  del  circuito 
esterno,  faremo 

OS  =  rh  SC=r'L. 


52  GUIDO    GRASSI  6 

Allora  DC  è  la  f.  e.  m.  dovuta  alla  reattanza,  che  si  compone  della  parte  CU 
corrispondente  alla  reattanza  esterna,  e  della  rimanente  DU  corrispondente  alla 
selfinduzione  della  spirale  secondaria,  cioè  alla  dispersione  magnetica.  Porremo,  come 
si  è  fatto  pel  primario, 

DU =  e2  =  X2J2. 

È  chiaro  che  tirando  la  ST  parallela  a  CD,  e  la  UT  parallela  a  CO,  si  avrà 
in  OT  la  grandezza  e  la  fase  della  tensione  ai  poli  ;  cioè 

OT  =  V 

e  lo  sfasamento  della  corrente  rispetto  a   V  è  SOT=$. 
Dalla  figura  si  ha  direttamente 

OD cost  =  OC  =  OS  —  =  OTco&fi  -^| 

ossia,  sostituendo  i  valori  dei  segmenti, 

(9)  #2cosy  =  ~  Fcosp. 
Analogamente  si  trova 

-E^seny  =  J^senjJ  -j-  X2/2 

e  siccome   Fcos(3  =  rJs,  si  ottiene 

(10)  #2senY  =  Fsenp  4-  -^  Fcosp. 

Quadrando  e  sommando  le  (9)  e  (10),  si  ha 

(11)  E<?  =  V*  j  1  4-  ^  senpcosp  +  'S  +  W-f*  Cos2p  J  . 

Ora  si  moltiplichi  ciascun  membro  della  (8)  per  Et  e  si  facciano  le  sostituzioni 
(9),  (10)  e  (11);  raccogliendo  i  termini  che  contengono  come  fattore  sen(3  cosfJ, 
ovvero   cos2(?,  e  ponendo  per  brevità  di  scrittura 


t.2  J_  o    X|CQ3e+r,sene      ,     rf  4  \,a  r  ,  2 


si  ottiene 


(12)  f  ^  ) 2  =  C0A:2  4-  j:  (  Ci^'X,  +  Xt  4-  ^l^'"  cos  8  )  2senf?cosP  4- 

4-  X,  j  C0^(ri  +  ^-r2)  +2(rtr2+  X1X2)4-  ^±^  4-  2 ^^ (r2sen9  +  X2cos9)  Jcos^ 

e  questa  è  la  formola  completa. 

Nella  mia  nota  sopracitata  si  trova  invece  la  formola  (24),  che  corrisponde  a 
questa.  Vi  mancano  però  parecchi  termini,  che  veramente  sono  quasi  sempre  tras- 
curabili, ma  che  qui  ho  preferito  conservare. 


EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC. 


53 


Ora  osservo  che  d'ordinario  si  costruiscono  i  trasformatori  in  modo  che  la  den- 
sità di  corrente  sia  eguale  nelle  due  spirali,  primaria  e  secondaria;  tuttavia  per 
maggiore  generalità  riteniamo  che  le  densità  siano  diverse.  Indichiamo  con  o^  e  a.2 
le  sezioni  dei  fili,  con  lt  e  l2  le  lunghezze  medie  delle  spire  nelle  due  spirali. 

Posto 


«Iai?2 


(13) 

è  facile  vedere  che  si  ha 

(14)  rt  =  mk2r'. 

Le  parziali  reattanze  Xx  e  X2  sono  misurabili  come  resistenze  e  sono  in  generale 
quantità  dello  stesso  ordine  di  grandezza  delle  resistenze  delle  rispettive  spirali; 
potremo  quindi  scrivere 

(15)  K=Pin  h=P2r' 

dove  px  e  p.2  saranno  numeri  piccoli,  cioè  di  poche  unità,  e  talvolta    anche    minori 
di  1,  nei  trasformatori  a  minimo  disperdimento  come  in  quelli  ad  anello. 
Data  la  precedente  relazione  fra  rx  ed  r'  si  avrà  anche 

(16)  K  =  mp^r'. 

Quanto  ad  m  bisognerà  poi  ricordare  che  esso  è  =  1  quando  le  densità  di  cor- 
rente sono  eguali  e  le  spire  hanno  eguali  lunghezze  medie;  che  d'ordinario  se  m 
non  è  =  1,  ne  differisce  poco. 

Quanto  ai  coefficienti  px  e  p2  conviene  riflettere  che  molte  volte  le  spirali  pri- 
marie e  secondarie  si  trovano  rispetto  al  nucleo  in  posizione  simmetrica,  tanto  che 
la  dispersione  magnetica  probabilmente  si  fa  nella  eguale  proporzione;  in  tal  caso 
se  si  vuol  ritenere  che  \x  e  X2  siano  le  stesse  frazioni  dei  coefficienti  veri  di  selfin- 
duzione,  dovrà  sussistere  la  relazione 


X2  V    «2     / 


e  quindi 


m  }>ik2 


=  k' 


e  infine 

(17)  mp1=ps. 

Dunque  quando  si  vorrà,  nelle  formolo  seguenti,  introdurre  la  condizione  che 
siano  eguali  i  coefficienti  di  dispersione  magnetica,  bisognerà  porre  mpx  =  p2  (e  non 
già  pi  =  p2). 

Colle  sostituzioni  precedenti  risulta 

(18)  C0  =  l  +  ^-  focose  +  sen e)  m  +  (-^-)2(1 +  p!)- 


54  GUIDO    GRASSI  8 

La  resistenza  >■'  della  spirale  secondaria  sarà  sempre  piccolissima  rispetto  alla 
reattanza  totale  A,  e  quand'anche  px  raggiunga  parecchie  unità,  il  2°  e  il  3°  termine 
nell'espressione  di  C0  saranno  sempre  frazioni  trascurabili.  Noto  poi  che  nell'equa- 
zione (12)  il  termine  prevalente  nel  2°  membro  è  il  primo;  i  coefficienti  di  sen(3cosf5 
e  di  cos2P  sono  frazioni  piccole  di  C0k2.  Perciò  non  si  commette  un  errore  sensibile 
se  in  questi  termini  in  luogo  di  C0  si  mette  il  suo  valore  approssimato,  cioè  C0=l. 
Con  questa  sostituzione  il  fattore  di  2senpcosp  diventa 

_L(A*x,  +  x1  +  -^cose) 

e  introducendo  le  precedenti  espressioni  di  Xj  e  X2  si  ha 

k2  —  \  mpt  +  p2  +  m2  —■  (1  -j-  pf)  cose  |  . 
Porremo  per  brevità 

(19)  Cx  =  -£  j  mPl  +  p2  +  m2  -£■  (1  -f  p\)  cos9  j  . 

Anche  qui  si  può  osservare  che  Cx  sarà  sempre  una  frazione  piccola,  perchè,  a 

carico  normale ,  r'  si  riduce  a  qualche  centesimo    di  r,  spesso  anche  a  meno  di  — ^ . 

Per  conseguenza    il    rapporto  r'  :  A  è  ancora  più  piccolo,  e  si   potrà    quasi    sempre 
trascurare  il  termine  ultimo,  scrivendo  semplicemente 

(20)  C1  =  ^r(mp1+pì). 

Finalmente  il  fattore  di  cos20  nella  (12),  posto  C0  =  1,  per  le  ragioni  già  dette, 
e  sostituendovi  le  espressioni  di  Xt  e  X2,  si  può  mettere  sotto  la  forma 

k  C'2 
essendo 

(21)  C2=  (^)2\2^{m  +  i)  +  m2--l+(,npì  +  P2)2  +  2m2(l+p\)  we+^co.8  |  , 

Dei  termini  tra  parentesi  il  primo  è  sempre  molto  grande  rispetto  agli  altri  ; 
perciò  il  valore  di  C2  nella  maggior  parte  dei  casi  risulterà  poco  diverso  da 

(-£-)' '£*»+* 

e  riflettendo  che  r2  e  >•  differiscono  pochissimo  tra  di  loro,  si  avrà  con  molta  appros- 
simazione 

(22)  d  =  -^L(mj|_i) 

cioè  anche  il  coefficiente  C2  è,  in  condizioni  normali,  una  piccola  frazione. 


9  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  55 

L'equazione  generale  (12)  prende  adunque  la  forma 

(23)  ~  (f?)2  =  C0  +  2(7lSenPcos?  +  <72cos2P 
ovvero 

(24)  ^(|°)2=(70  + J  +  Cl8en2p  +  ^cos2f5 
avendo  posto 

(25)  A  =  f- 

Tensione  a  vuoto.  —  Quando  il  circuito  secondario  è  aperto,  i  coefficienti  Ci 
e  C2  si  annullano.  Chiamando  V0  la  tensione  in  questo  caso,  cioè  la  tensione  a  vuoto, 
si  ha 

l     <--0        ' 

Si  sa  che  con  molta  approssimazione  C0=l;  però  considerando  l'espressione  (18) 
di  C0  si  vede  che  in  generale  V0  subisce  una  piccola  variazione,  e  propriamente 
varia  nello  stesso  senso  di  A. 

Ora  A  è  proporzionale  alla  frequenza:  dunque,  a  pari  condizioni  nel  resto,  V0  deve 
crescere  colla  frequenza. 

Ma  A  dipende  anche  dalla  riluttanza  magnetica  del  circuito,  e  questa  a  sua 
volta  dipende  dalla  induzione:  ne  si  può  dire  che  A  segua  sempre  una  stessa 
legge  di  variazione,  poiché,  a  seconda  del  grado  di  magnetizzazione,  A  può  crescere 
o  diminuire  al  crescere  di  B.  Però  d'ordinario  varia  nello  stesso  senso.  Ne  viene  di 
conseguenza  che  col  crescere  della  f.  e.  m.  applicata  al  primario,  aumentando  l'indu- 
zione, deve  crescere  anche  il  rapporto  di  trasformazione. 

In  ogni  modo  la  correzione  è  piccolissima.  Infatti  si  osservi  che  il  rapporto  r':A, 
che  entra  nei  termini  correttivi  dell'espressione  di  C0  è  una  piccola  frazione.  Sic- 
come 6  è  sempre  piccolo,  il  2°  termine  della  espressione  di  C0  si  può  scrivere,  rife- 
rendosi alla  (6), 

o      Pir  o        Pirn  C09T 

A  fi 

Abbiamo  veduto  che  —   ed    a    sono    frazioni    dell'  ordine    di    pochi    centesimi  ; 

perciò  j-  è  dell'ordine  di  pochi  diecimillesimi,  e  quindi  per  quanto  pl  (cioè  la  disper- 
sione magnetica)  sia  grande,  C0  differirà  sempre  ben  poco  dall'unità. 
Nelle  forinole  seguenti  riterrò  sempre 

Et  =  kV0. 

Variazione  della  tensione  secondaria  con  carico  reattivo.  —  Posto 
nella  (24)  quest'ultima  espressione  di  E0,  si  ha 

(  -£.  )2  =  C0  +  A  +  dsen2P  +  A  cos2  p. 


56  GUIDO    GRASSI  10 

Trasformando  col  solito  metodo  si  ha 

(26)  (■£  f  =  C0  +  A  +  Csen(2p  +  a) 
dove 

(27)  C2  =  C\  +  ^42 

(28)  tana  =  4- 

La  (26)  si  può  trasformare  in  modo  da  mettere  in  evidenza  la  variazione  di  ten- 
sione, con  una  semplice  costruzione  grafica. 
Ritenendo  C0  =  l,  e  ponendo 

A  +  Csen(2  P  +  a)  =  u 
si  può  scrivere 

•l  +  « 

Ora,  tenendo  presente  che  u  è  una  piccola  frazione,  sviluppando  il  radicale  e 
trascurando  i  termini  d'ordine  superiore  al  2°,  si  ottiene 

F=(l-f.+  J-M*)F0, 
e  sostituendo  il  valore  di  u 

£  =  1  -  f +|  ^-|  (l  -|  J)  sen(2P  +  a)  +  |  C8en»(2|5  +  a). 

Ma 

sen2(2(5  +  a)=-L-    ^-senfép  +  2a  +  -J-) 
e  risulta  quindi 

(29)^  =  l-f  +  4^+^^-f(l^-^)sen(2p  +  «)-Ac72sen((4p+2a+i). 

Questa  equazione  rappresenta  una  curva  formata  da  due  onde  sinusoidali,  sovrap- 
poste ad  una  ordinata  costante.  La  2a  sinusoide  ha  ampiezza  molto  minore  della 
prima,  e  il  suo  periodo  è  la  metà. 

Questa  curva  rappresenta  il  modo  di  variare  della  tensione  ai  poli  del  secondario, 
quando  al  primario  si  mantiene  la  f.  e.  m.  costante,  e  nel  secondario  si  fa  variare  p, 
ma  si  mantiene  costante  la  resistenza;  perchè  in  tal  caso  A  e  C  conservano  i  loro 
valori. 

Se  si  tien  conto  della  piccolezza  di  A  e  C,  si  vede  che  con  molta  approssima- 
zione la  curva  è  rappresentata  dalla  equazione  più  semplice 

(30)  -£-=l-f-f  sen(2p  +  a). 


11  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  57 

Valori  approssimativi  di  A  e  C.  —  Siccome  -4  =  y  e  con  molta  appros- 
simazione 


si  ha 


c2  = 

_  2r 
r 

(m  -1-1) 

A 

2 

=  — 

m  +  1 

2 

Tenendo  conto  delle  relazioni  (20)  e  (27)  risulta 


C 

2         2 


-j/(W  +  l)2  +  (mp1+i>2)2. 


Per  farsi  un  concetto  del  significato  di  questa  quantità,   consideriamo   il    caso, 
che  corrisponde  alle  condizioni  di  un  ordinario  trasformatore,  in  cui  all'incirca 


m  =  1  mpx  =  p2 

perchè  le  spire  primarie  e  secondarie  hanno  lunghezze  poco  diverse,  la  densità  di 
corrente  si  fa  quasi  eguale  nei  due  circuiti,  e  per  la  simmetria  dei  due  avvolgimenti, 
rispetto  al  nucleo,  la  dispersione  non  differisce  molto  dal  primario  al  secondario.  Allora 
si  ottiene 

C         yV^  +  x,1 

2  r 

Il  numeratore  di  quest'ultima  frazione  esprime  ciò  che  si  può  chiamare  la  impe- 
denza apparente  della  spirale  secondaria,  cioè  l'impedenza  che  risulta  dalla  sua  resi- 
stenza e  da  quella  parte  di  reattanza  che  è  dovuta  al  flusso  disperso.  La  indiche- 
remo con  p'. 

Con  questa  sostituzione  la  (30)  prende  la  forma 

V  ._,  r,  +  p'sen(2p+q) 

(àl>  V0~l  r 


che  vale,  naturalmente,  soltanto  nelle  condizioni  ora  supposte. 

In  ogni  modo  si  comprende  che,  anche  in  condizioni  un  po'  diverse,  il  coeffi- 
ciente p'  avrà  sempre  un  significato  analogo  e  una  grandezza  dello  stesso  ordine. 
L'espressione  più  generale  di  p'  sarebbe 


(32)  p'=r'Ì(^U[^f^f. 

Variazione  di  tensione  nel  funzionamento  a  resistenza  costante.  — 
È  questo  il  caso  che  io  ho  già  discusso  nella  nota  sopra  citata  (*).  Ne  darò  qui  una 
discussione  più  completa,  e  in  una  forma  alquanto  modificata. 


{*)  Vedi  anche  il  cenuo  fatto  in  una  breve  comunicazione    all'Associazione   Elettrotecnica    nel- 
l'assemblea dell'ottobre  1902  ("  Atti  dell'A.  E.  I.  ,). 

Serie  II.  Tom.  LUI.  B 


58 


GUIDO    GRASSI 


12 


Perciò  disegno  la  curva  rappresentata  dall'equazione  (31). 
Comincio  dall'osservare  che  essendo 


si  ha 


tan  a  = 


p'sena  =  r'. 


La  scala  del  disegno  essendo  arbitraria,  supponiamo  di  far  in  modo  che  sia  V0=l 
ed  r=l.  Allora  disegnata  una  sinusoide  (fig.  2a)  di  ampiezza  p',  riferita  a  un  asse  PP, 


Fig.  2*. 

e  quindi  una  parallela  QQ  a  distanza  PQ  =  r',  le  ordinate  della  curva  contate  dal- 
l'asse QQ  sono  i  valori  di 

r'  -f  p'sen(2P  +  a). 
Per  (3  =  0  si  deve  avere 

r'  +  p'sena  =  2r'. 

Dunque  P  =0  corrisponde  al  punto  O  che  si  trova  tagliando  la  sinusoide  colla  RR 
parallela  alla  QQ  e  a  distanza  2r\  Le  ordinate  di  questa  curva  vanno  sottratte  dal- 
l'ordinata 1  che  rappresenta  V0,  poiché  la  (31)  colla  scala  adottata  diventa 

V=  1  —  jr'  +  psen(2P  +  a)j. 


Fig-  3'. 

Si  ottiene  così  la  curva  della  fig.  3,  che  è  quella  della  fig.  2  cambiata  di  segno. 

L'asse  orizzontale  V0  corrisponde  alla  tensione  a  vuoto.  Per  {$  =  0  la  caduta  di 
tensione  è  OC;  cioè  OC  rappresenta  la  caduta  che  si  osserva  quando  si  chiude  il 
secondario  sulla  resistenza  (che  nella  scala  del  diagramma  è=l,  ma  può  essere  una 
resistenza  determinata  qualunque),  priva  di  induttanza. 


13  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  59 

Se  ora  si  produce  un  piccolo  ritardo  di  fase  (senza  mutare  la  resistenza)  la  ten- 
sione diminuisce,  e  la  diminuzione  continua  fino  in  D.  Poi,  mentre  la  reattanza  magne- 
tica seguita  a  crescere,  la  tensione  cessa  di  diminuire  e  va  crescendo  da  D  fino  ad  E 
per  raggiungere  il  valore   F0  quando  la  corrente  è  in  quadratura. 

Il  fenomeno  della  diminuzione  di  tensione  (da  C  a  D)  col  crescere  dello  sfasa- 
mento non  era  stato  avvertito,  che  io  sappia.  Io  l'ho  poi  verificato  con  ripetuti  espe- 
rimenti, ed  ho  trovato  che  l'andamento  del  fenomeno  corrisponde  esattamente  alla 
teoria.  Misurato  VQ  a  vuoto,  si  chiuda  il  circuito  del  secondario  su  di  una  resistenza 
formata  da  due  spirali  sovrapposte,  con  avvolgimento  di  verso  contrario,  per  annul- 
lare l'induttanza,  e  si  noti  la  tensione  V.  Spostando  una  delle  spirali,  in  modo  da 
produrre  una  reattanza  crescente  a  poco  a  poco,  la  tensione  comincia  a  diminuire; 
poi,  raggiunto  un  minimo,  prende  a  crescere  gradatamente,  insieme  colla  reattanza. 
Introducendo  dei  nuclei  di  ferro  nelle  spirali  separate  si  può  fare  che  lo  sfasamento  B 
risulti  assai  prossimo  a  90°  e  allora  la  tensione  s'avvicina  al  valore  che  aveva  a 
vuoto.  Nella  curva  vi  corrisponde  il  punto  E. 

La  nuova  forma  data  alla  soluzione  del  problema  permette  di  ritenere  questo 
risultato  come  esatto  (nei  limiti  dell'approssimazione  ammessa  nel  ridurre  le  forinole); 
mentre  nella  mia  nota  sopra  ricordata  avevo  creduto  di  fare  qualche  riserva  a  questo 
proposito. 

E  infatti  quando  3  s'approssima  a  90°,  vuol  dire  che  l'impedenza  del  circuito 
.  esterno  è  grandissima  e  allora,  la  corrente  essendo  minima,  è  naturale  che  la  caduta 
di  tensione  sia  quasi  nulla. 

Quando  R  è  negativo,  vi  corrisponde  il  tratto  CBA  della  curva.  Dapprincipio  la 
tensione  cresce,  raggiunge  in  B  il  valore  che  aveva  a  vuoto,  poi  lo  oltrepassa,  tocca 
un  massimo  in  M  e  decresce  infine  per  riprendere  ancora  il  valore  V0  quando  la 
corrente  è  in  avanzo  di  90°. 

E  interessante  notare  che: 

Il  minimo  di  tensione  si  ha  per  (3  =  45°  —  a. 
Il  massimo  si  ha  per  B  =  —  (45°  -4-  a). 

La  tensione  diventa  eguale  a  quella  a  vuoto,  oltreché  per  B  =  ±  90°,  anche 
per  8  =  —  a. 

La  posizione  adunque  di  questi  punti  dipende  essenzialmente  da  a,  cioè  dal  rap- 
porto fra  la  resistenza  della  spirale  secondaria  e  la  reattanza  dovuta  alla  dispersione 
magnetica. 

La  curva  ora  discussa  rappresenta  il  fenomeno  soltanto  per  approssimazione, 
perchè  si  è  dedotta  da  una  forinola  ridotta;  e  s'intende  sempre  nell'ipotesi  che  tutte 
le  grandezze  alternate  in  giuoco  si  possano  considerare  come  sinoidali. 

Se  si  vuol  tener  conto  della  equazione  più  esatta  (29),  bisogna  fare  alla  curva 
le  seguenti  correzioni  : 

1°  La  distanza  tra  PP  e  QQ  (tìg.  2a)  va  leggermente  diminuita,  perchè,  invece 

di  corrispondere  ad  — ,  dovrebbe  essere 

2         8  A         16  °   ' 


60  GUIDO    GRASSI  14 


2°  L'ordinata  massima  della  sinusoide  va  pure  diminuita  un  poco,  nel  rapporto 


di  -g-  a 


3A 


f     X-2 


3°  Bisogna  sovrapporre  alla  curva  stessa  una  seconda  sinusoide,  di  frequenza 
_§_ 
16 


doppia,  di  ampiezza  j^  C2  e  colla  fase  2a  -4-  -jp  Il  valor  massimo  di  questa  sinusoide 


si  ha  per 

•  =  ~r 

corrisponde  adunque  al  punto  di  mezzo  di  00'.  Segnato  questo  punto  è  facile  trac- 
ciare la  curva,  con  frequenza  doppia  della  precedente. 

Nella  fig.  2a  ho  segnato  questa  seconda  sinusoide,  però  in  scala  esagerata.  In 
condizioni  ordinarie  l'ampiezza  di  quest'onda  è  una  piccola  frazione  di  quella  dell'onda 
principale. 

L'effetto  dell'onda  secondaria  è  di  rendere  la  curva  della  fig.  2a  più  schiacciata 
nel  ramo  positivo  e  più  acuminata  nel  ramo  negativo.  Analogamente  si  modifica  la 
curva  della  fig.  3a.  Il  minimo  valore  di  V  anticipa;  cioè  quando  p  da  0  cresce,  per 
reattanza  magnetica,  la  minima  tensione  ai  poli  si  raggiunge  più  presto,  cioè  prima 
che  |3  abbia  il  valore  45°  —  a,  ed  il  minimo  è  meno  risentito. 

Quando  invece  p  diventa  negativo,  per  effetto  di  capacità,  la  tensione  ai  poli 
cresce  più  rapidamente  e  il  massimo  è  più  risentito. 

Per  (3  =  ±  90°  la  tensione  resta  un  po'  minore  di  quella  a  vuoto. 

In  ogni  modo  però  la  deformazione  della  curva  è  piccola. 

Funzionamento  a  corrente  costante.  —  Per  vedere  come  varia  V  quando 
si  mantiene  la  intensità  costante,  e  varia  (3,  conviene  considerare  1'  equazione  (23). 
Colle  semplificazioni  già  adottate,  porremo 

C0  =  l 

^  2p2r    2A2 

'"'  -       r       -  ~V 

C*  =  %-  (m  +  1) 

f  =v0. 

Con  queste  sostituzioni  la  (23)  diventa 

l-^r'    =  l  -4-  —  senf3cosf5  -| cos^p. 

D'altra  parte  se  T  è  la  corrente  nel  secondario,  si  ha 

ri  =  FcosP 


15  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  61 

e  quindi 

(33)  F02  —  V  =  2  VI  1 2\2  sen8  +  r'(m  +  l)cosB  j 

che  si  può  scrivere  anche,  nel  caso  di  m  =  1 , 

(34)  F0a  —  V2  =  4  Vip'  sen(8  -f-  a) 

dove  a  ha  ancora  il  valore  precedente. 

Qualunque  sia  I  si  avrà   V=  V0  quando  sia 


e  per  B  negativo,  con  valore  assoluto   >ct,  si  avrà  sempre  la   tensione   V  maggiore 
di  quella  a  vuoto. 

Per  (5  compreso  fra  — a  e  0,  la  tensione  V  è  minore  di  V0;  col  crescere  di  B 
oltre  0,  la  V  seguita  a  diminuire;  però  raggiunge  anche  qui  un  minimo  (come  quando 
si  mantiene  costante  la  resistenza)  e  precisamente  per 


Oltre  questo  valore  di  8  la  tensione  torna  a  crescere. 

Con  metodo  analogo  a  quello  che  ci  ha  servito  per  discutere  il  caso  precedente 
si  può  rappresentare  graficamente  la  variazione  della  tensione. 

Considerando  che  nella  (34)  la  differenza  tra  V0  e  Ve  sempre  una  piccola  fra- 
zione di   V0,  potremo  scrivere  con  sufficiente  approssimazione 

V=  T"0  —  27p'sen(8  +  a)  4-  ^f-  9en2(3  +  a). 

'  0 

Ma 

sen»(P  +  a)  =  ±  -  |sen  (23  +  2a  -f-|)  ; 
e  perciò  si  ottiene 

(35)  V=  V0  +  ^  -  2/p'sen(3  +  o)  -  (-^sen  (23  +  2a+  |)- 

Abbiamo  un'equazione  che  rappresenta  una  curva  composta  di  due  sinusoidi, 
sovrapposte  ad  una  ordinata  costante.  La  seconda  sinusoide  ha  un'ampiezza  molto 
minore  della  prima,  e  una  frequenza  doppia. 

Il  fenomeno  è  abbastanza  bene  rappresentato  dalla  prima  sinusoide 

(36)  V  =  r0  —  2  Jp'  sen(B  +  a) 

di  ampiezza  27p',  che  è  quella  disegnata  nella  fig.  4a  con  tratto  pieno  ABCD. 
Anche  qui 

p'  sena  =  >•'. 

Perciò,  scelta  una  scala  opportuna  per  cui  21=  1,  basta  sottrarre  dall'ordinata 
costante  V0  le  ordinate  della  sinusoide. 


62 


GUIDO    GRASSI 


16 


Per  (3  =  0  la  tensione  è  diminuita  di  OM=r'  (nella  scala  scelta);  col  crescere 
di  p  la  tensione  dapprincipio  diminuisce,  poi  torna  a  crescere.  Però  anche  quando  fosse 
(3  =  90°  la  tensione  sarebbe  sempre  notevolmente  minore  di   V0;  la  differenza  è  QE. 

Per  (3  negativo  la  tensione  aumenta  da  M  a  B;  passa  pel  valore  Tr0  in  corri- 
spondenza di  (3  =  —  a,  nel  punto  C;  poi  continua  a  crescere  fino  a  B. 

Qualunque  sia  la  grandezza  di  a,  cioè  qualunque  sia  il  valore  del  disperdimento, 
anche  se  nullo,  la  tensione  continua  a  crescere  per  un  avanzo  di  fase,  rispetto  a 
quella  che  si  ha  per  (3  =  0. 


Invece  la  dispersione  influisce  nel  rendere  più  o  meno  spiccato  il  passaggio  dalla 
diminuzione  all'aumento  della  tensione,  per  valori  positivi  di  [3. 

Non  si  ha  più  aumento,  ma  soltanto  diminuzione  (da  C  a  D  nella  curva), 
quando  sia  a  =  0,  cioè  la  dispersione  grande.  Invece  quando  la  dispersione  è  abba- 
stanza piccola,  a  arriva  a  45°  e  anche  più;  allora  i  punti  0  e  Q  si  avanzano  verso 
destra,  e  si  prolunga  il  tratto  DE  che  corrisponde  al  rialzo  della  tensione. 

Se  la  dispersione  fosse  trascurabile,  sarebbe  a  =  90°,  il  punto  M  si  porterebbe 
in  D,  e  per  (3  =  0  si  avrebbe  la  minima  tensione.  Producendo  un  ritardo  o  un  avanzo 
di  fase,  la  tensione  sempre  aumenterebbe,  per  raggiungere  il  valore  della  tensione  a 
vuoto  quando  la  corrente  fosse  in  quadratura. 

La  tensione  minima  si  ha  per  [3  =  90°  — ■  a. 

La  tensione  massima  per  (3  =  —  90°. 

La  tensione  diventa  eguale  alla  tensione  a  vuoto  per  (3  =  —  a. 

Per  tener  conto  dell'equazione  completa  bisogna  fare  le  seguenti  modificazioni, 
come  risulta  dalla  (35): 

1°  Spostare  verso  l'alto  l'asse   V0  di  una  quantità  ;  quantità  che  eviden- 

temente  sarà  sempre  una  frazione  piccolissima  di   V0. 

2°  Sovrapporre  alla  sinusoide  disegnata  una  2a  sinusoide  di  frequenza  doppia 
e  di  ampiezza,  che  sta  a  quella  della  1"  come 

ip':2F0 


e  che  sarà  quindi  una  piccola  frazione.  La  fase  di  questa  2a  sinusoide  è  2a  -f-  9  '  ec' 
il  valor  massimo  si  ha  per 


17  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  63 

Dunque  il  massimo  corrisponde  al  punto  C,  e  partendo  da  questo  punto,  con 
frequenza  doppia,  è  facile  tracciare  la  curva,  che  è  quella  segnata  nella  figura,  però 
con  ampiezza  esagerata  rispetto  a  quanto  si  riscontra  in  pratica. 

Si  vede  che  la  deformazione  consiste  essenzialmente  nel  rendere  meno  spiccata 
la  diminuzione  iniziale  di  tensione,  per  piccoli  ritardi  di  fase.  Però  la  deformazione 
è  piccolissima  e  quasi  inapprezzabile. 

Anche  qui  ricordiamo  che  quando  non  siano  soddisfatte  le  condizioni:  m  =  1  e 
mpx  =^2)  la  quantità  p'  si  dovrà  determinare  mediante  la  forinola  (32). 

Funzionamento  a  potenza  costante.  —  Se  nella  (33)  si  pone  l'espressione 
della  potenza  esterna 

W=  F/cosS 
si  ottiene 

(37)  IV  -  V2  =  2  PFJ2X2tanp  +  r\m  +  1)J . 

Questa  relazione  ci  dice  che  passando  3  da  +  90°  a  —  90°,  la  tensione  V  passa 
in  generale  gradatamente  da  valori  piccolissimi  a  valori  grandissimi,  se  si  vuole  che 
la  potenza  si  mantenga  costante.  In  particolare  si  osserva  che  quando  f3  cresce,  V  dimi- 
nuisce, il  che  significa  che  la  corrente  deve  aumentare  rapidamente;  inoltre  ($  non 
può  oltrepassare  il  limite  che  corrisponde  a   7=0  e  pel  quale  si  ha 

2\atanf$  =  |£-r'(m  +  l). 

Anzi  non  può  neanche  raggiungere  questo  limite,  perchè  con  V=0  non  si 
avrebbe    W  costante  (teoricamente  vi  corrisponderebbe  una  corrente  infinita). 

Praticamente  (3  non  potrà  dunque  variare  di  molto,  se  si  vuol  mantenere  la 
potenza  costante,  senza  oltrepassare  di  troppo  la  intensità  sopportabile  dal  trasfor- 
matore. 

Però  della  relazione  ora  trovata  si  può  approfittare  per  risolvere  due  problemi. 

Determinazione  della  resistenza  interna  del  secondario.  —  Se  si  carica 
il  trasformatore  con  resistenze  non  induttive  in  modo  che  si  possa  ritenere  tanfi  =  0, 
chiamando  1^  la  corrente  e  Vx  la  tensione  in  questo  caso,  si  ha 

V0*-V1*  =  2V1Ilr'(m+l) 
e  quindi 

j  —     Fi*— Fi» 


(38) 


2VMm  +  i) 


Si  ha  così  un  metodo  facile  per  misurare  la  resistenza  della  spirale  secondaria, 
osservando  semplicemente  la  caduta  di  tensione  dovuta  a  un  certo  carico  Ix  ottenuto 
con  resistenza  non  induttiva. 

In  questa  prova  risulterà  sempre  che  la  caduta  di  tensione  è  piccola  rispetto  al 
valore  assoluto  della  tensione;  perciò  se  la  relazione  precedente  si  scrive 

r,  __  (Vq+  Vi)(Vq-  Vi) 
2ViIl{m  +  l) 


64  GUIDO    GRASSI 

si  vede  che  con  molta  approssimazione  si  avrà 

..'  _      v0  -  V, 


(39) 


(m  +  l)I, 


Questo  metodo  è  molto  comodo;  conviene  adoperare  un  voltometro  con  una  scala 
ampia  nell'intervallo  in  cui  avviene  la  variazione  di  tensione;  ma  basta  assicurarsi 
che  sia  misurata  con  esattezza  la  differenza  V0  —  V,  poiché  il  valore  assoluto  della 
tensione  non  entra  nella  formola. 

Se  si  ha  il  mezzo  di  assegnare  il  valore  di  m,  prendendo  misure  sul  trasforma- 
tore, la  formola  permette  di  calcolare  direttamente  r'.  Ora  osservo  che  il  metodo  può 
avere  importanza  quando  la  resistenza  r'  che  si  vuol  conoscere  è  molto  piccola,  tanto 
che  sarebbe  difficile  misurarla  direttamente  coi  metodi  ordinari.  Ciò  accade  pei 
trasformatori  con  grande  rapporto  di  trasformazione,  per  la  spirale  a  bassa  tensione, 
la  cui  resistenza  si  riduce  spesso  a  pochi  millesimi  di  ohm  e  anche  meno.  In  tal 
caso  però  è  sempre  grande,  relativamente,  la  resistenza  dell'altra  spirale.  Ritenendo 
che  appunto  questa  sia  rappresentata  da  i\ ,  avremo 

>\  =  mk2r' 

e  combinando  questa  colla  precedente,  si  ottiene 

j_*ì— Ti 


(40) 


/,  k2 


Qui  gioverà  ricordare  che  /»  =  1  quando  le  spire  primarie  e  secondarie  hanno 
lunghezze  medie  eguali,  e  sono  eguali  le  densità  di  corrente  nei  due  circuiti.  Allora 
si  ha  senz'altro 

(41)  '-'  =  J^- 

Misura  del  rapporto  di  dispersione  o  della  f.  e.  m.  di  selfìnduzione. 

—  Si  può  procedere  in  generale  a  questa  determinazione  facendo  due  prove  succes- 
sive con  diverso  fattore  di  potenza,  e  misurando  nei  due  casi  la  corrente,  la  tensione 
ai  poli  e  la  potenza;  cioè,  in  conclusione,  eseguendo  le  letture  sui  tre  strumenti, 
amperometro,  voltometro  e  wattometro,  che  si  trovano  d'ordinario  su  qualunque  cir- 
cuito a  corrente  alternata. 

Distinguendo  coll'indice  1  i  valori  corrispondenti  alla  seconda  prova,  si  avrà 
un'equazione  simile  alla  (33),  cioè 

(42)  TV  -  IV  =  2  r,/i  j  2  X2  senih  +  r'{m  +  1)  cosp,  j . 

Siano  w  e  u\  le  indicazioni  del  wattometro  nelle  due  prove;  si  avrà 
cosp  =  -^        cosSj  =  -"!  • 


19  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  65 

Con  queste  sostituzioni  le  (33)  e  (42)  diventano 

F02  —  V2  =  4\2  }/V2P  —  w2  +  2{m  +  \)r'w 
TV—  VS=i\2  ^V1*Il*—u>l*  +  2{m  +  l)r'wi 

e  quindi  in  generale 

,43)  x    _    1        »',(  *V  -  V)  -  iv{  V?  -  TV) 


4    «j,  j/  rJ  /5  -  «»2  -  «-  •  r,2  j,2  -  V  ' 


Però  una  forinola  più  comoda  pel  calcolo  si  ottiene,  osservando,  come  si  è  fatto 
sopra,  che  con  sufficiente  approssimazione  si  può  scrivere 

VJ*  —  v% 

_l» 1_  —  y„ v 


Allora  la  (33)  diventa 
(44)  ^°~^  =  2X8tanp  +  r'(m  -f-  1). 

Ripetendo  la  prova  con  f?  =  0,  e  intensità  I1 ,  si  ha 

A^Zt=r>  +  l) 

e  quindi 

M  tt  v    _        1       /  ^o  -  V        F0  -  V,  \ 


v      '  ò         2tan3        icosP  /,        / 

In  generale  X2  si  misura  senza  bisogno  di  conoscere  le  resistenze,  ma  soltanto 
mediante  le  letture  dei  tre  strumenti.  Il  valore  di  cosP  si  ha  dall'osservazione  del 
wattometro;  e  nelle  tavole  si  trova  il  valore  corrispondente  di  tanfi. 

Questo  procedimento  è  migliore  di  quello  in  cui  si  ripetono  le  due  prove  con 
valori  di  (3  entrambi  diversi  da  zero,  perchè  quanto  maggiore  è  la  differenza  fra  i 
due  valori  di  p,  più  esatto  è  il  risultato,  e  quindi  conviene  partire  da  3  =  0. 

Se  si  fanno  le  due  prove  con  intensità  eguali,  si  ottiene  addirittura  la  f.  e.  m. 
di  selfinduzioiie,  che  dirò  e2,  cioè 

<46>  ^=^=2tb|-S~-(ro-Fl)|- 

Si  noti  che  in  queste  misure  bisogna  adoperare  strumenti  ben  tarati,  affinchè 
riesca  esatta  la  determinazione  di  cosg. 

Ho  eseguito  parecchie  misure  su  trasformatori  di  vario  tipo  per  assicurarmi 
dell'applicabilità  del  metodo,  tanto  per  la  misura  della  dispersione  quanto  per  quella 
della  resistenza. 

Per  un  trasformatore  Ganz  ad  anello,  del  primo  tipo,  con  rapporto  di  trasfor- 
mazione da  18  a  1;  potenza  4  chilowatt: 

\2  =  0,022 

r>  =  0,0308. 

Serik  II.  Tom.  LUI.  i 


66  GUIDO    GRASSI  20 

La  dispersione  è  piccola  ;  il  coefficiente  di  dispersione  sarebbe  circa 

p2  =  0,7. 

Un  altro  trasformatore  Ganz.  ad  anello,  del  tipo  a  ferro  esterno,  e  di  piccola 
potenza,  mi  ha  dato 

\2  =  0,052 

r'  =  0,137 

p2  =  0,38. 

Com'era  da  aspettarsi  qui  il  coefficiente  di  dispersione  è  piccolissimo  ;  anzi 
appunto  per  la  sua  piccolezza  la  determinazione  non  si  può  ritenere  molto  precisa. 
In  ogni  modo  si  vede  che  con  questo  tipo  di  costruzione  si  rende  la  dispersione  quasi 
trascurabile. 

Invece  un  trasformatore  di  tipo  recente,  dell'officina  di  Savigliano,  a  nucleo 
diritto  coi  due  avvolgimenti  sovrapposti,  e  circuito  magnetico  doppio;  potenza  8  kw\ 
rapporto  10:1;  ha  fornito  i  seguenti  risultati: 

X2  =  0,216 
r'  =  0,050 
p2  =  4,3. 

Il  disperdimento  è  notevole,  ma  evidentemente  il  risultato  corrisponde  al  tipo 
di  costruzione. 

Confronto  fra  la  caduta  di  tensione  con  carico  non  reattivo,  e  la 
caduta  con  carico  reattivo.  —  Le  formolo  ora  trovate  ci  permettono  di  mettere 
in  evidenza  qualche  altra  particolarità  interessante,  paragonando  i  diversi  risultati 
che  si  ottengono,  secondo  che  vi  è  o  non  vi  è  reattanza. 

Il  comportamento  del  trasformatore  a  questo  riguardo  è  diverso  e  caratteristico 
secondo  che  la  dispersione  è  più  o  meno  grande  e  raggiunge  o  meno  certi  limiti. 

Supponiamo  anzitutto  la  dispersione  nulla.  Avremo  e8  =  0  e  la  forinola  (46)  ci 
dà,  a  intensità  costante, 

(47)  V0-V=(V0-Vì)cost. 

Ricordiamo  che  V0  —  V^  è  la  caduta  per  3  =  0.  Dunque:  la  caduta  con  carico 
reattivo,  se  la  dispersione  è  nulla,  è  sempre  minore  della  caduta  con  carico  non  reattivo 
per  uguale  intensità  di  corrente,  e  diminuisce  proporzionalmente  al  fattore   di  potenza. 

Questa  particolarità,  facile  a  riconoscere  praticamente,  permette  appunto  di  giu- 
dicare se  la  dispersione  è  piccola. 

Invece  se  vi  è  dispersione,  si  ha 

(48)  V0  -  V  =  (  P0  -  PJ  j  cosp  +  f^  ) 
ed  il  comportamento  è  molto  diverso  da  quello  precedente. 


21  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA   REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  67 

Quando  {3  è  positivo,  cioè  vi  è  ritardo  della  corrente,  la  caduta  di  tensione  con 
carico  induttivo  è  sempre  maggiore  di  quella  che  si  avrebbe  se  non  vi  fosse  dispersione. 
Però  non  si  deve  credere,  come  pure  si  afferma  d'ordinario,  che  tale  caduta  sia  sempre 
maggiore  necessariamente  di  quella  che  corrisponde  al  carico  non  induttivo. 

Infatti  dall'equazione  ultima  si  vede  che  V0—  V  sarà  minore  di  F0—  Vi  tutte 
le  volte  che  sia 

Siccome  dalla  (39)  si  ha,  per  l'intensità  I, 

r  X  1  +  m 

ed  inoltre  sappiamo  che 

e2  =  X2/  X2  =  p2r' 

la  precedente  disuguaglianza  si  può  scrivere  anche 

Vi  <  — 2 —  tanT' 

Dunque  se  p.2  è  inferiore  a  questo  limite,  sì  avrà  con  carico  induttivo  una  caduta 
di  tensione  minore  che  con  carico  non  induttivo. 

Evidentemente  per  ottenere  questa  condizione  di  cose  bisogna  che  la  dispersione 
sia  molto  piccola;  perchè  d'ordinario  m  — 1  circa,  e  quindi  p2  dovrebbe  essere  minore 

di  tan-|-,  che  è  sempre  una  frazione.  Però  abbiamo  riconosciuto,  negli  esperimenti 

sopra  indicati,  che  col  tipo  di  trasformatore  a  ferro  esterno,  dove  le  spirali  di  rame 
sono  completamente  circondate  da  ferro,  il  coefficiente  p2  è  così  piccolo  da  potere 
anche  dar  luogo  a  questo  fenomeno. 

Quando  3  è  negativo,  cioè  la  corrente  in  avanzo,  la  caduta  di  tensione  con  carico 
reattivo  è  sempre  minore  di  quella  che  si  avrebbe  se  la  dispersione  fosse  nulla,  perchè 
il  termine  che  contiene  e2  risulta  negativo. 

Col  crescere  di  e2,  e  per  un  determinato  valore  negativo  di  p,  si  raggiunge  la 
condizione  per  cui  la  caduta  è  nulla,  quando  sia 


ossia  quando 


Se  la  p2  cresce  oltre  questo  limite,  la  V0  —  V  diventa  negativa,  e  si  ha  il  feno- 
meno già  considerato  della  sopraelevazione  di  tensione. 

Applicazione  delle  forinole  trovate  al  calcolo  del  numero  di  spire, 
nel  progetto  di  un  trasformatore.  —  Quando  si  deve  fare  il  progetto  di  un 
trasformatore,  i  dati  sono   V,  /e  P,  cioè  gli    elementi    del  circuito  esterno;  oltre  la 


ea  = 

r„-vt 

2tanP 

Pt  = 

.  1  +  m 
2tanP  ' 

68  GUIDO    GRASSI  22 

f.  e.  m.  impressa  E0.  La   prima    parte  del  progetto  deve  necessariamente  consistere 

nel  scegliere  il  tipo  di  costruzione,  e  quindi  la  forma  del  nucleo.  Ma  propriamente 

basta  assegnare  la  forma  della  sezione,  e  la  forma  delle  spire. 

Allora  si  può  calcolare  le  dimensioni  della  sezione,  con   una   formola  semplice. 

che  si  può  scrivere  (*) 

,     >  _S_  _  JO^   »t  +  l     Pogi 

l4yJ  7,  ^2        m        nBrt 

dove  S  è  la  sezione  cercata,  B  l'induzione  massima,  p0  la  resistività  del  rame,  ti  la 
percentuale  di  perdita  nel  rame. 

Secondo  la  forma  scelta  della  sezione  S  si  può  in  ogni  caso  esprimere  il  rap- 
porto S  :  li  in  funzione  di  una  delle  dimensioni.  Per  esempio,  se  la  sezione  si  vuol 
fare  quadrata  di  lato  x,  e  le  spire  circolari,  si  ha 

S  =  xì  h  =  atxxfZ 

dove  a  è  un  coefficiente  maggiore  di  1,  di  cui  si  può  assegnare  facilmente  il  valore 
approssimato  sapendo  quale  spessore  si  vuol  dare  all'avvolgimento.   Si   ottiene  così 

3=10»  2"+!^. 

Con  forme  diverse,  varia  il  coefficiente  numerico,  ma  sempre  si  ottiene  una 
espressione  del  medesimo  tipo,  che  permette  di  calcolare  direttamente  le  dimensioni 
della  sezione.  Non  occorre  che  questo  calcolo  sia  fatto  con  forinole  più  precise;  né  il 
suo  grado  di  approssimazione  influisce  su  quanto  segue. 

La  grandezza  della  sezione  S  essendo  determinata,  avremo  il  numero  delle  spire 
primarie 

Wl  =  IO8 = 

ti  V2  nBS 

Questo  numero  si  può  adottare  come  definitivo,  senz'altra  correzione,  purché  si 


(*)  Questa  formola  si  ottiene  supponendo  che  la  f.  e.  m.  applicata  al  primario   sia  eguale   alla 
f.  e.  m.  d'induzione,  cioè  che  il  suo  valore  efficace  sia 

E  =  IO8  ^n,BS. 

La  perdita  di  energia  per  effetto  Joule  si  rappresenta  quindi  come  una  frazione  T,  della  potenza 

apparente  Ei%  e  si  ha 

•fiEH,  =r,*1a  +  rt2 

dove  (')  e  i%  sono  le  intensità  efficaci.  Posto  quindi 

>-,  =  mìtrr 
i j  =  kii  =  k  qt  0"i 
"ì  h 

e  fatte  le  sostituzioni  nell'equazione  precedente,  si  trova  la  formola  (49),  la  quale  si  deve  ritenere 
come  una  relazione  approssimata. 


23  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  69 

calcoli  il  numero  di  spire  secondarie  n2  colla  forinola  esatta;  basta  perciò  risolvere 
la  (23)  rispetto  a  k.  Si  ottiene 

(50)  n,  =  m,  -£  |/C0+C1sen2p  +  (72cos2p. 

Per  mostrare  l'applicazione  della  forinola  e  dare  un'idea  dell'aumento  che  deve 
subire  il  numero  delle  spire  secondarie  rispetto  al  rapporto  di  trasformazione  che  si 
vuol  ottenere  supponiamo  che  sia 

Wl  =  1000         E0=IOV 
j»  =  l  pa  =  B         cosS  =  0,866 

e  si  voglia  caricare  il  trasformatore  in  modo  che  la  >•  esterna  sia  100  volte  la  resi- 
stenza interna  r' .  Si  avrà 

C„  =  l 

C1  =  2pi^r  =  0,06 

Ct  =  (1  +  m)  ¥-  =  0,04 


Risulta  dalla  (50) 


sen20  =  0,866         cos2p  =  0,75. 


Mg  =  104,0. 


Se  si  volesse  caricare  fino  a  che  la  r  fosse  =  50  r',  i  valori  di  Ct  e  C2  divente- 
rebbero doppi  e  si  troverebbe 

«2  =  107,9. 

Quando  si  debba  lavorare  con  intensità  costante    conviene   mettere   l'equazione 

sott'altra  forma,  ponendo 

Fcosg 
r^—j— 

Si  ottiene 
(51)  «a  =  «i  !; j/l  +  2 -^ ]  2/>2sen(5  +  (in  +  1) cosp  j  . 

Con  questa  si  può  riconoscere  in  qual  modo  si  deve  far  variare  il  numero  di 
spire  secondarie  per  ottenere  sempre  la  stessa  tensione  V  ai  poli,  con  corrente 
costante,  ma  con  sfasamento  variabile. 

Un  esempio  numerico  mostrerà  meglio  l'andamento  della  cosa. 

Suppongo  come  prima  tit  =-  =  100  ed  m=l;  inoltre 

ri  _      1  __, 

v  —  100        P*  —  b 
e  quindi  dalla  (51) 


m2  =  100  j/l  +  ^  (lOsen?  -f  2cosp). 


70 

Si  ottiene 


GUIDO    GRASSI  24 


—  45°         94,17  0         101,98 

81  84 

—  40  94,98  5         102,82 

—  35  95,81  10         103,64 

87  78 

—  30  96,68  15         104,42 

88  75 

—  25  97,56  20         105,17 

89  70 

—  20  98,45  25         105,87 

89  65 

—  15  99,34  30         106,52 

89  60 

—  10        100,23  35         107,12 

88  55 

—  5        101,11  40         107,67 

87  48 

0        101,98  45         108,15. 

Dalle  successive  differenze  appare  che  col  crescere  di  3  positivo  l'aumento  nel 
numero  delle  spire  è  sempre  più  piccolo. 

Rendimento  e  determinazione  di  a  sene.  —  Dal  diagramma  della  fig.  la, 
si  ricava  una  espressione  del  rendimento,  che  è  utile  tener  presente,  sia  per  calco- 
lare questo  elemento,  sia  per  determinare  sperimentalmente  la  quantità  asen6  che 
dipende  dalle  condizioni  magnetiche  del  nucleo. 

Indicando  con  \\>  l'angolo  AOQ  di  ritardo  della  corrente  primaria  rispetto  alla 
f.  e.  m.  applicata,  il  rendimento  n  si  esprimerà  con 


E0I,  cos  H> 
Dalla  fig.  la  è  facile  vedere  che  si  ha 

£0cosi|i  =  OR  +  P£sen(<p  +  e) 
e  per  la  (1) 

K,cosy  =  rjl  -f  Ej,  —■  (cost  +  «sene) . 

Colle  sostituzioni  di  cui  ci  siamo  già  serviti  innanzi,  e  trascurando  alcuni  ter- 
mini molto  piccoli,  si  ottiene 

1 

n  = 


1     r  cost 


E  se  in  luogo  di  T  si  mette    in    evidenza    lo    sfasamento  P,  che  si  misura  nel 
circuito  esterno,  si  trova  con  sufficiente  approssimazione 

(52)  n  = 


1  +  —  (m  +  1)  +  «senel/l  +  tan2P  f  2-y  tanP 


25  EFFETTI    DELLA    DISPERSIONE    E    DELLA    REATTANZA    NEL    FUNZIONAMENTO,    ECC.  71 

Per  determinare  a  sene  basta  adunque  far  funzionare  il  trasformatore  con  carico 
non  reattivo,  cosicché  sia  0  =  0,  e  misurare  il  rendimento  con  un  wattometro  nel 
primario,  un  voltometro  ed  un  amperometro  nel  secondario.  Se  wt  e  w2  sono  i  watt 
primari  e  secondari,  si  avrà  evidentemente  dalla  (52)  la  relazione 

08ene  =  -^^--^(OT  +  l). 

Ora  riflettendo  che  si  ha 

wa=Vl  rI=V 

e  ricordando  la  relazione  (39),  che  si   riferisce  appunto    al    caso    di    un    carico  non 
reattivo,  risulta 

(53)  asene  =  -^^--^-^. 

Si  può  dire  che  la  quantità  asen9  è  la  differenza  fra  la  caduta  proporzionale  di 
potenza  e  la  caduta  proporzionale  di  tensione  con  carico  non  reattivo.  Evidentemente 
asen8  è  il  termine  che  rappresenta  l'influenza  del  nucleo  di  ferro,  in  quanto  vi  si 
producono  fenomeni  d'isteresi  e  correnti  parassite. 

L'esperimento  si  riduce  ad  osservare  la  caduta  di  tensione  quando  si  chiude  il 
circuito  secondario  su  di  una  resistenza  ohmica,  misurando  nello  stesso  tempo  la 
corrente  secondaria,  e  leggendo  il  wattometro  applicato  al  circuito  primario. 


ALCUNI  SISTEMI  DIOTTRICI  SPECIALI 


NUOVA  FORMA  DI  TELEOBBIETTIVO 


MEMORIA 

DEL    SOCIO 

NICODEMO  JADANZA 


Appr.  nell'Adunanza  dell'8  Marzo  1903. 


Consideriamo  un  sistema  diottrico  centrato  composto  di  tre  sistemi  più  semplici, 
ai  quali  convengano  i  determinanti  Klf  k2,  k3  che  li  caratterizzano.  Sieno  inoltre  Aj 
e  A2  i  segmenti  che  separano  il  secondo  punto  principale  del  primo  sistema  dal  primo 
punto  principale  del  secondo  ed  il  secondo  punto  principale  del  secondo  sistema  dal 
primo  punto  principale  del  terzo.  Il  determinante  k  che  caratterizza  il  sistema  com- 
posto dei  tre  è  espresso  da: 


(1) 


0 


0 


0 


1 

Ai 

—  1 

0 

0 

0 

1 

K2 

—  1 

0 

0 

0 

1 

A, 

—  1 

0 


0 


0 


1 


Supponiamo  due  casi. 

1°)  I  tre  sistemi  sieno  immersi  in  uno  stesso  mezzo  e  i  due  ultimi  formino  un 
sistema  telescopico;  si  abbia  cioè: 


(2) 


*2 

—  1 

0 

1 

A2 

—  1 

0 

1 

"8 

A2=- 

1 

1 

=  1 

=  0 


<P2  +<P3 


essendo  q>2  e  cp3  le  distanze  focali  del  secondo  e  terzo  sistema. 


2  ALCUNI    SISTEMI    DIOTTRICI    SPECIALI    ED    UNA    NUOVA    FORMA    DI    TELEOBEIETTIVO        73 

In  questo  caso,  poiché  si  ha: 


Ax 

—  1 

0 

0 

K2 

—  1 

0 

1 

Ko 

—  1 

0 

+ 

1 

A, 

—  1 

0 

1 

A, 

—  1 

0 

1 

K3 

0 

0 

1 

K3 

K  =  Ki[A2K8  +  1]  =  K1  +  K1KSA8. 

Sostituendo  in  quest'ultima  il  valore  di  A2  ricavato  dalla  (2)  si  ottiene: 


(3) 


Indicando  con  cpn  <p2  e  cp3  le  distanze  focali  dei   singoli   sistemi  componenti   e 
con  cp  quella  del  sistema  composto,  sarà: 


« 


<p  =  . 


La  distanza  focale  del  sistema  composto  1°)  eguaglia  il  prodotto  della  distanza  focale 
del  primo  sistema  componente  per  l'ingrandimento  lineare  del  sistema  telescopico. 

Un  sistema  telescopico  composto  di  due  sistemi  convergenti  ha  l'ingrandimento 
lineare  negativo,  cioè  dà  le  immagini  rovesciate.  Un  sistema  telescopico  composto  di 
due  sistemi  dei  quali  uno  è  divergente  e  l'altro  convergente  ha  l'ingrandimento 
lineare  positivo,  cioè  dà  le  immagini  diritte.  Chiameremo,  per  brevità,  il  primo  sistema 
telescopico  negativo  ed  il  secondo  sistema  telescopico  positivo. 

La  (4)  può  essere  enunciata  anche  nel  modo  seguente: 

Il  sistema  composto  1°)  è  un  sistema  della  stessa  natura  del  primo  sistema  com- 
ponente (convergente  o  divergente)  se  il  sistema  telescopico  è  positivo;  è  di  contraria 
natura  al  primo  sistema  componente  se  il  sistema  telescopico  è  negativo. 

Il  primo  fuoco  del  sistema  composto  coincide  evidentemente  col  primo  fuoco  del 
primo  sistema,  cosicché  è: 
(5)  F=FX. 


(6) 


11  secondo  fuoco,  per  una  nota  forinola  dei  sistemi  telescopici  è  dato  da: 
F*=ìFt*-{-^-(F1*-F^, 


da  cui  si  deduce  facilmente: 

(7)  F*  —  F1*  =  F,*- 


F,- 


(Ft*  -  F2) 


la  quale  dà  la  distanza  del  secondo   fuoco  del   sistema  composto  dal  secondo  fuoco 
del  primo  sistema  componente. 

Conosciuti  i  fuochi  e  la  distanza  focale  del  sistema  composto,  sarà  facile  trovare 
i  punti  principali. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  J 


74 


IO    JADANZA 


3 


Nel  caso  particolare  in  cui  il  primo  sistema  si  riduce  ad  una  lente  convergente 
di  distanza  focale  cpj  ed  il  sistema  telescopico  è  il  cosidetto  oculare  di  Campani  che 
è  composto  di  due  lenti  convergenti  aventi  la  medesima  distanza  focale  cp2  =  cp3  e 
poste  ad  una  distanza  eguale  al  doppio  della  loro  comune  distanza  focale,  si  ha  la 
teoria  del  cannocchiale  terrestre  il  cui  obbiettivo  (composto)  è  appunto  della  forma  1°). 

Ponendo  nelle  forinole  precedenti  q>2  =  cp3  si  deduce: 


(8) 


F=F, 


F*  -  Ff  =  Fs 


Fi  =  4cp2 


Ossia  : 


L'obbiettivo  (composto)  di  un  cannocchiali  terrestri'  t  un  sistema  divergente  (da  imma- 
gine reale  diritta)  avenk  la  medesima  distanza  focale  dell'obbiettivo  semplice.  Il  primo 
fuoco  coincide  col  primo  fuoco  dell'obbiettivo  semplice:  il  secondo  fuoco  dista  dal- 
l'obbiettivo semplice  (dal  centro  ottico  di  esso)  di  una  quantità  eguale  a  qpi  -+-  4cp2. 
La  posizione  del  sistema  di  raddrizzamento  può  essere  qualunque  (Nella  pratica  si 
mette  in  una  posizione  tale  da  ottenere  la  immagine  diritta  e  reale  fuori  delle  due 
lenti  che  formano  l'apparecchio  di  raddrizzamento). 


T 

F, 

F' 

2            l 

• 

Fisr.  1\ 


La  figura  qui  unita  rappresenta  schematicamente  l'obbiettivo  composto  del  can- 
nocchiale terrestre.  M  è  l'obbiettivo  semplice;  le  due  lenti  eguali  N,  0  formano  l'ap- 
parecchio di  raddrizzamento  (oculare  di  Campani). 

I  fuochi  principali  del  sistema  composto  sono  F,  F*,  il  primo  coincidente  con  F1: 
il  secondo  distante  da  M  di  cpx  +  4q>2.  I  punti  principali  si  trovano  il  primo  E  alla 
sinistra  di  F,  il  secondo  E*  alla  destra  di   F*. 

La  posizione  dell'apparecchio- di  raddrizzamento  nella  figura  è  quella  comune- 
mente adoperata  dai  costruttori;  esso  però  potrebbe  essere  situato  anche  in  vicinanza 
della  lente  M;  il  secondo  fuoco  F*  si  troverebbe  sempre  dove  è  attualmente. 

2°)  I  tre   sistemi    immersi   in  uno    stesso   mezzo,  e    i   primi   due   formino    un 
sistema  telescopico,  cioè  sia  : 


Ai 


donde: 


A,=- 


f-J-  =  «Px  + 


4  ALCUNI    SISTEMI    DIOTTRICI    SPECIALI    ED    UNA    NUOVA    FORMA    DI    TELEOBBIETTIVO        71 

e  poiché  è: 

K=l<3  +  KiKgAj, 


e  quindi: 
(9) 


Ossia:  la  distanza  focale  del  sistema  composto  di  un  sistema  telescopico  e  di 
un  sistema  diottrico  di  distanza  focale  cp3  è  data  dal  prodotto  dell'  ingrandimento 
angolare  del  sistema  telescopico  per  la  distanza  focale  del  terzo  sistema. 

Se  il  terzo  sistema  è  convergente  ed  il  sistema  telescopico  è  positivo,  anche  il 
sistema  composto  sarà  convergente,  mentre  sarà  divergente  se  il  sistema  telescopico 
è  negativo. 

Il  secondo  fuoco  del  sistema  composto  coincide  col  secondo  fuoco  del  terzo 
sistema,  cioè  si  ha: 

F*  =  F3*. 

Il  primo  fuoco  è  quello  che  rispetto  al  sistema  telescopico  ha  per  coniugato  F3 
(primo  fuoco  del  terzo  sistema);  esso  sarà  dato  dalla  equazione: 

F-f^-^-tJi-J",*). 

Nel  caso  di  q>i  =  cp2,  la  precedente  diventa: 

F=Fl  +  Ft  —  Ft*  =  F,  —  (F2*  -  FJ 

ossia  : 

F=F3  —  4cp2 

cioè  il  primo  fuoco  è  anch'esso  un  punto  fisso  che  dista  dal  primo  fuoco  del  terzo 
sistema  di  un  segmento  eguale  a  quattro  volte  la  distanza  focale  comune  delle  lenti 
che  compongono  il  sistema  telescopico. 


F»          E* 

' 

. 

Un  cannocchiale  terrestre  può  considerarsi  come  composto  di  un  obbiettivo  con- 
vergente di  distanza  focale  q>0  e   di  un  oculare  costituito   come  il  sistema  2°)   ora 

studiato;  codesto  oculare  è  un  sistema  divergente  di  distanza  focale  cp  = — ^s-"^"- 
I  punti  cardinali  di  questo  oculare  sono  situati  nel  modo  indicato  dalla  qui  unita 
figura,  nella  quale  M  ed  N  sono  le  due  lenti  che  costituiscono  l'apparecchio  di  rad- 
drizzamento (oculare  di  Campani),  la  lente  0  è  l'oculare  propriamente  detto.  La  imma- 
gine data  dalla  lente  obbiettiva  si  formerà  nelle  vicinanze  di  F  (a  destra),  l'oculare 
composto  la  raddrizzerà  e  la  ingrandirà. 


76  NICODEMO    JADANZA 


Il  teleobbiettivo  ad  ingrandimento  costante. 

Un  sistema  telescopico  può  essere  costruito  con  due  lenti  una  divergente  e  l'altra 
convergente;  dovrà  la  distanza  focale  della  lente  convergente  essere  maggiore  del 
valore  assoluto  della  distanza  focale  della  lente  divergente. 

La  distanza  A  tra  le  due  lenti  deve  essere  eguale  alla  differenza  (aritmetica)  tra 
le  distanze  focali  di  esse. 


Fig.  3». 

Nella  figura  (3a)  si  vede  un  sistema  telescopico  formato  con  due  lenti  M  ed  N, 
la  prima  divergente  di  distanza  focale  — cp2,  la  seconda  convergente  di  distanza 
focale  cp3:  A  =  cpx  —  cp2- 

L'ingrandimento  lineare  di  codesto  sistema  sarà  -| e  sarà  sempre  maggiore 

di  uno.  Qualunque  sia  la  posizione  dell'oggetto,  la  immagine  data  dal  precedente 
sistema  telescopico  avrà  sempre  la  medesima  grandezza,  sarà  sempre  diritta  rispetto 
all'oggetto  e  sarà  più  grande  di  esso. 

Dove  si  dovrà  trovare  l'oggetto  affinchè  la  immagine  di  esso  sia  reale  e  quindi 
la  si  possa  o  fissare  sopra  una  lastra  sensibile,  o  guardare  per  mezzo  di  un  micro- 
scopio? 

La  forinola,  che  dà  la  relazione  tra  l'ascissa  £  di  un  punto  dell'asse  e  l'ascissa  £* 
del  suo  coniugato  dato  da  un  sistema  telescopico  è,  nel  caso  che  stiamo  esaminando  : 


ossia: 
(10) 


Fs*  =  A±  (E  —  F2) 
3         tp22  v  2> 


£*  —  -Fa*   _  JP% 


e  questa  dice  che  le  due  differenze  E  —  F2  e  E*  —  F3*  sono  sempre  dello  stesso 
segno,  o  amendue  positive,  o  amendue  negative.  Tutte  le  volte  che  l'oggetto  si  tro- 
verà alla  sinistra  di  F2,  la  sua  immagine  si  troverà  alla  sinistra  di  Fs*;  essa  rag- 
giungerà la  lente  N  quando  _F3*  —  E*  diventerà  eguale  a  <p3.  La  massima  distanza 
dell'oggetto  dal  punto  F.2  (alla  sinistra  di  F.2)  sarà  data  dalla  (10)  sostituendovi  cp3 
invece  di  Fs* — E*:  si  otterrà: 

di)  *-*  =  -*.,.. 

Tale  distanza  è  sempre  minore  di  cp2,  quindi  l'oggetto  dovrà  essere  virtuale. 


6  ALCUNI    SISTEMI    DIOTTRICI    SPECIALI    ED    UNA    NUOVA    FORMA    DI    TELEOBBIETTIVO        77 

Aggiungendo  al  sistema  telescopico  ora  considerato  un  obbiettivo  acromatico  di 
distanza  focale  qpx  si  otterrà  un  sistema  composto  convergente  di  distanza  focale  : 

(12)  «P  =  ^.<Pi 

ovvero  : 

cp  =  JHPi. 

Codesto  sistema  composto  potrà  servire  come    obbiettivo  di  cannocchiale  astro- 
nomico accorciato  o  come  obbiettivo  di  camera  oscura. 
Esso  è  rappresentato  dalla  figura  qui  annessa. 


Il 


La  lente  acromatica  0  è  l'obbiettivo  semplice  di  distanza  focale  q>ù  il  sistema 
delle  due  lenti  AI  ed  Ne  il  sistema  telescopico  positivo  d'ingrandimento  lineare-^2  =v 
(nella  figura  n  =  3).  La  immagine  Ft*  P  di  un  oggetto  a  distanza  infinitamente 
grande  sarebbe  situata  nel  secondo  fuoco  Fx*  della  lente  0.  Il  sistema  telescopico  MN 
ne  dà  una  immagine  reale  P*F*  che  è  n  volte  FfP  (in  figura  3  volte  FfP),  e 
questa  immagine  giace  nel  secondo  fuoco  F*  del  sistema  composto. 

La  lunghezza  del  cannocchiale,  cioè  la  distanza  tra  la  lente  obbiettiva  ed  il 
secondo  fuoco  F*,  è  minima  quando  F*  cade  sulla  lente  N.  Indicando  con  L  tale 
lunghezza,  si  avrà: 

L  =  cpt  +  F2  —  F±*  +<p3  -  2q>2, 

e  siccome  per  la  (11)  è: 

W  77  *  "P»         ~  "PS 

<P:i  n 

sarà: 

£  =  <Pi  +  J  <P2  +  (»-2)q>2 

ovvero  : 

(»  -  D2      „ 


(13) 


L=cpi  + 


La  lunghezza  del  cannocchiale,  se  l'obbiettivo  fosse  una  semplice  lente  di  distanza 
focale  equivalente,  sarebbe  »<Pi;  quindi  vi  è  un  accorciamento  dato  da: 

V=  «cp!  —  L, 
ossia  : 

(14)  F=(M_l)(tPl—  -5^-<p,)- 


78  NICODEMO    JADANZA    ALCUNI    SISTEMI    DIOTTRICI    SPECIALI,    ECC.  7 

Questo  nuovo  sistema  diottrico  convergente  ha  le  seguenti  proprietà  che  lo  dif- 
ferenziano da  un  comune  teleobbiettivo. 

a)  Spostandosi  il  fuoco  F*  della  lente  0  nell'interno  del  sistema  telesco- 
pico M,  N,  la  grandezza  della  immagine  dell'oggetto  che  si  guarda  rimane  invariata. 
Di  qui  il  nome  di  teleobbiettivo  ad  ingrandimento  costante. 

b)  Il  fuoco  anteriore  di  esso  sistema  coincide  col  primo  fuoco  F1  della  lente  0. 
Adoperato  adunque  come  obbiettivo  di  cannocchiale  distanziometro  ad  angolo  paral- 
lattico costante,  esso  funziona  come  il  semplice  obbiettivo  0  (pur  essendo  la  imma- 
gine dell'oggetto  che  si  guarda  n  volte  più  grande  di  quella  che  darebbe  l'obbiettivo 
semplice  0). 

e)  La  costruzione  riesce  più  semplice  e  meno  costosa ,  poiché  nella  maggior 
parte  dei  casi,  e  specialmente  quando  si  adopera  come  obbiettivo  di  cannocchiale 
distanziometro,  non  è  necessario  rendere  acromatica  la  lente  divergente  M,  essendo 
il  sistema  M,  N  sufficientemente  acromatico  per  se  stesso. 

Abbiamo  fatto  costruire  dal  sig.  Collo,  meccanico  dell'Osservatorio  di  Torino,, 
un  cannocchiale  astronomico  avente  l'obbiettivo  composto  della  forma  ora  descritta. 
L'obbiettivo  semplice  0  ha  la  distanza  focale  di  0m,260  e  l'apertura  libera  =0m,030: 
la  lente  divergente  M  ha  la  distanza  focale  =  ()m,048  e  la  lente  convergente  N  ha 
la  distanza  focale  =  0m,150.  L'ingrandimento  del  sistema  telescopico  è  poco  più 
grande  di  tre  ed  il  cannocchiale  che  ha  appena  la  lunghezza  di  0m,36  funziona  come 
un  cannocchiale  che  avesse  l'obbiettivo  di  distanza  focale  =  0m,88. 

Esso  è  perfettamente  riuscito;  le  immagini  degli  oggetti  sono  nitide  e  non  colorate. 

Febbraio  1903. 


ALFONSO    COSSA 


COMMEMORAZIONE 

letta    I'8     Marzo    1903    davanti     alle    Classi     Unite 


DAL   SOCIO 

ICILIO    GUARESCH 


È  la  seconda  volta  che  ho  l'alto  onore  di  essere  chiamato  dal  voto  unanime  dei 
miei  cari  colleghi  a  parlare  in  pubblico  a  nome  della  nostra  Accademia;  la  prima 
volta  ebbi  a  portare  un  saluto  reverente  ad  un  illustre  scienziato  straniero  che  la 
sua  patria  onorava  con  mirabile  slancio  ;  ora  debbo  dire  le  lodi  di  un  nostro  defunto 
Presidente;  occasioni  solenni  entrambe,  e  che  avrebbero  richiesta  più  alta  e  forbita 
eloquenza  che  non  sia  la  mia. 

Purtroppo,  specialmente  in  questo  ultimo  decennio,  la  nostra  Accademia  è  stata 
spesso  crudamente  colpita  dalla  morte,  che  ci  ha  rapito  molti  fra  i  migliori  colleglli; 
dopo  gli  illustri  Presidenti  Fabretti  e  Lessona,  perdemmo  in  breve  volger  di  tempo: 
Galileo  Ferraris,  Nani,  Giacomini,  Bizzozero,  Cognetti  de  Martiis. 

Ma  anche  la  morte,  come  la  vita,  di  questi  uomini,  deve  riuscire  utile  all'uma- 
nità ;  la  loro  onestà,  la  loro  attività  al  lavoro,  la  loro  produzione  scientifica  debbono 
essere  di  esempio,  di  guida,  ai  giovani. 

La  nostra  Accademia  è  fiera  dei  nomi  illustri  dei  proprii  Presidenti;  nomi,  che 
sono  rimasti  chiari  nei  fasti  della  scienza  e  che  tutto  il  mondo  civile  onora;  non  sono 
certamente  molte  le  Accademie  che  possano  vantare  nomi  quali  quelli  di  Lagrange, 
di  Prospero  Balbo,  di  Plana,  di  Federico  Sclopis,  di  Ariodante  Fabretti,  di  Michele 
Lessona.  Il  dire  degnamente  di  uomini  che  hanno  l'aggiunto  un  sì  elevato  posto 
scientifico,  non  è  facile,  ne  tanto  meno  adatto  alle  mie  forze.  Altri  dei  miei  colleghi 
ben  più  di  me  sarebbero  stati  degni  di  commemorare  il  nostro  compianto  Presidente, 
prof.  Alfonso  Cossa;  ma  voi  forse  vi  siete  ricordati  di  Avogadro  e  di  Malaguti,  due 
grandi  che  appartennero  alla  nostra  Accademia  ;  ed  al  lungo  studio  ed  al  grande 
amore  ch'io  dedicai  a  questi  due  illustri,  debbo  forse  oggi  l'onore  di  parlare  qui  di 
un  terzo  membro  di  questa  nostra  Accademia. 

Alfonso  Cossa  nacque  il  3  novembre  1833  in  Milano  dal  nobile  Giuseppe  e  da 
Maria  Bagnacavallo.  Il  padre  suo,  bibliotecario  nella  Biblioteca  di  Brera,  era  studioso 
della  paleografia  e  della  diplomatica. 


80  ICILIO    GUARESCHI  - 

Cossa,  compiuti  gli  studi  classici  in  Milano,  fu  mandato  nel  1852  all'Università 
di  Pavia  quale  alunno  del  Collegio  Borromeo,  e,  compiuti  i  cinque  anni  di  medicina, 
fu  laureato  nel  novembre  1857.  Ebbe  il  posto  di  assistente  di  Medicina  legale  e 
Polizia  medicategli  anni  1857-58;  1858-59  e  1859-60;  fu  poi  nominato  assistente 
stabile  di  Chimica  generale  nel  maggio  1860  e  nel  marzo  1861  fu  nominato  farma- 
cista aggregato.  E  rimase  in  Pavia  come  farmacista  aggregato  all'Università  e  come 
professore  di  Chimica  e  direttore  dell'Istituto  Tecnico,  sino  al  1866.  Riunita  nel  1866 
la  Venezia  al  Regno  d'Italia,  fu  il  Cossa  incaricato  dal  Sella  di  andare  in  Udine  per 
organizzarvi,  o  meglio,  fondarvi  l'Istituto  Tecnico,  nel  quale  istituto  Egli  rimase  sino 
al  1871  come  professore  e  come  preside.  Stato  per  breve  tempo  nella  Scuola  di 
Agricoltura  di  Portici,  fu  nominato  nel  1871  Direttore  della  Stazione  agraria  di 
Torino  e  poco  dopo  anche  insegnante  di  Chimica  mineraria  presso  il  nostro  Museo 
Industriale,  ed  infine  fu  nel  1882  nominato  professore  di  chimica  docimastica  nella 
R.  Scuola  di  Applicazione  per  gli  Ingegneri  in  Torino,  posto  lasciato  allora  vacante 
dall'illustre  Sobrero  ;  poco  dopo,  avvenuta  la  morte  del  Curioni,  fu  il  Cossa  nominato 
anche  Direttore  della  predetta  Scuola,  carica  che  tenne  sino  agli  ultimi  giorni  della 
sua  vita,  ed  alla  quale  dedicò  tutto  se  stesso. 

Cossa  ebbe  la  rara  fortuna  di  incontrarsi  in  un  uomo  potente,  il  quale,  non  ba- 
dando da  quale  scuola  egli  uscisse,  di  qual  maestro  fosse  allievo,  si  legò  a  Lui  di 
grande  simpatia,  e  dallo  Istituto  Tecnico  di  Udine  lo  portò  senz'altro  a  Torino,  Diret- 
tore della  Stazione  agraria,  e  poi  alla  Scuola  degli  Ingegneri.  Quest'uomo,  che  aveva 
il  potere  di  mettere  in  posto  chi  a  lui  piacesse,  era  Quintino  Sella.  Ed  a  Quintino  Sella 
il  Cossa  fu  sempre  grato  dei  beneficii  ricevuti;  non  lieve  merito  questo,  perchè  il 
sentimento  della  gratitudine  è  purtroppo  raro. 

Nella  sua  commemorazione  di  Quintino  Sella,  il  Cossa  giustamente  dice  (1)  :  "  Il 
Consiglio  di  Presidenza  della  nostra  Accademia  volle  incaricarmi  di  commemorare  la 
vita  ed  i  lavori  scientifici  del  Sella;  accettai  con  entusiasmo  questa  offerta,  che 
ascrivo  a  somma  ventura,  perchè  mi  dà  l'occasione  di  porgere  un  tributo  di  affetto 
reverente  all'illustre  estinto,  al  quale  mi  legavano  vincoli  dolcissimi  di  gratitudine 
e  di  amicizia  ,,. 

Alfonso  Cossa  dopo  breve  malattia  morì  nel  mattino  del  23  ottobre  1902,  e  noi 
tutti  ricordiamo  l'imponente  tributo  di  affetto  che  gli  fu  reso  ai  suoi  funerali. 

Fu  commovente  vedere  fra  i  colleghi  e  gli  amici,  in  quella  rigida  mattina,  il 
nostro  venerando  Vice-Presidente  Bernardino  Peyron,  seguire  il  feretro  del  com- 
pianto scienziato;  era  commovente  vedere  quei  baldi  giovani  allievi  ingegneri  por- 
tare la  bara  che  racchiudeva  la  salma  del  loro  amato  maestro!  Dolcissimo  tributo 
questo,  che  toglie  alla  morte  quanto  essa  ha  di  spaventoso,  per  non  lasciarle  se  non 
quanto  essa  ha  di  solenne! 

Alfonso  Cossa  fu  eletto  socio  della  nostra  Accademia  il  29  gennaio  1871  e  fu 
eletto  Presidente  a  voti  unanimi  il  13  gennaio  1901.  E  qui  sento  il  dovere  di  ricor- 
dare come  il  Cossa  dedicasse  gran  parte  della  sua  attività  scientifica  ed  ammini- 
strativa al  lustro  ed  al  decoro    della   Accademia.  Egli  accettò   l'alta    carica  conscio 


(1)  Su  la  vita  ed  i  lavori  scientifici  di  Q.  Sella  ("  Atti  della  R.  Accad.  dei  Lincei  „). 


3  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  81 

di  poterla  degnamente  sostenere.  Ed  è  bene  che  egli  abbia  sempre  oprato  per  tenere 
alta  la  estimazione  del  pubblico  per  la  nostra  Accademia,  che  è  una  delle  più  antiche 
di  Europa  e  fu  fondata  da  un  uomo  il  cui  nome  è  riverito  in  ogni  angolo  della 
terra  dove  splenda  appena  un  lume  di  civiltà.  È  questo  un  dovere  del  Presidente; 
dovere  che  il  Cossa  ha  sentito  profondamente.  Così  fosse  sentito  e  tenuto  in  consi- 
derazione anche  dai  governanti,  i  quali  più  di  tutti  dovrebbero  insegnare  che  il 
rispetto,  la  stima  e  la  gratitudine  per  gli  uomini  di  scienza  e  di  lettere  che  ono- 
rano il  proprio  paese,  sono  il  più  sicuro  indizio  della  grandezza  di  una  nazione. 

Quintino  Sella  fu  accusato  di  aver  dato  forme  troppo  solenni  alle  manifestazioni 
dell'Accademia  dei  Lincei,  di  cui  egli  può  riguardarsi  come  secondo  fondatore;  ed 
il  Cossa  ben  giustamente,  e  molto  facilmente,  ribattè  l'accusa  e  dimostrò  erroneo 
questo  giudizio  verso  il  nostro  grande  uomo  di  stato  e  di  scienza. 

A  coloro  che,  per  mal  vezzo,  o  per  ignoranza,  gridano  contro  le  Accademie,  il 
Cossa  rispondeva  (1):  "  Qui  non  è  il  luogo  di  confutare  le  trite  e  volgari  accuse  che 
si  lanciano  contro  le  Accademie  delle  Scienze,  da  coloro  che,  confondendole  col- 
l'Arcadia,  vanno  ripetendo  che  il  tempo  delle  Accademie  è  passato;  senza  nemmeno 
sapere  aggiungere,  che  per  il  bene  e  la  gloria  d'Italia  il  tempo  di  cotali  Accademie 
non  avrebbe  mai  dovuto  venire  „. 

E  qui  permettetemi  una  digressione.  Tutti  i  paesi  più  civili  sono  orgogliosi  delle 
loro  istituzioni  scientifiche;  così  è  della  Francia  pel  suo  grande  Istituto,  dell'Inghil- 
terra per  la  Società  Reale  di  Londra,  della  Germania  per  Y Accademia  di  Berlino,  ecc. 
E  noi  Italiani  dobbiamo  essere  orgogliosi  delle  nostre  istituzioni  scientifiche  ;  tanto 
più  che  furono  le  nostre  antiche  Accademie,  e  sovratutte  quella  del  Cimento,  col  suo 
fatidico  motto  :  provando  e  riprovando,  che  hanno  servito  di  modello  alla  creazione 
delle  altre.  L'Europa,  nei  secoli  XIV  e  XV,  non  era  ancora  entrata,  può  dirsi,  nella 
via  della  civiltà,  e  già  in  Italia  rifioriva  la  coltura  letteraria  ed  artistica;  e  poco 
dopo,  nel  secolo  XVII,  la  nostra  grande  Accademia  del  Cimento,  a  cui  sono  immortal- 
mente legati  i  nomi  di  Galileo,  di  Viviani,  di  Torricelli,  ecc.,  creava  il  vero  metodo 
sperimentale. 

In  certi  momenti  furono  anche  presso  di  noi  tenute  le  Accademie  scientifiche  in 
sì  alta  considerazione  che  il  Matteucci,  nel  suo  progetto  di  legge  dell'Istruzione 
del  1862,  voleva  che  la  nomina  dei  professori  universitari  fosse  fatta,  non  per  con- 
corso per  titoli,  ma  sopra  terne  presentate  dalle  Accademie  di  maggiore  importanza  (2). 

Uno  dei  sintomi  più  consolanti  e  più  sicuri  del  progresso  umano  è  appunto 
questa  crescente  tendenza  ad  onorare  l'ingegno,  a  rendergli  facili  e  piane  le  vie  onde 
possa  svilupparsi,  e  a  considerarlo  come  il  più  alto  segno  di  nobiltà  di  cui  l'uomo 
possa  fregiarsi.  Bello  esempio  di  ciò  ci  dà  l'Inghilterra;  là,  le  più  grandi  onoranze 
sono  tributate  al  sapere;  nella  storica  abbazia  di  Westminster  accanto  alle  tombe 
dei  re,  delle  regine ,  dei  grandi  uomini  di  stato  e  di  guerra ,  sonvi  le  tombe  di 
Bacone,  di  Newton,  di  Darwin Di  quel  Darwin  che  per  molti  anni  fu  deriso  da 


(1)  Su  la  vita  ed  i  lavori  scientifici  di  Q.  Sella,  pag.  41. 

(2)  Federico  Sclopis,  Notizie  della  vita  di  Carlo  Matteucci  ("  Atti  della  R.  Acc.  delle  Scienze  di 
Torino  ,,  1868-69,  t.  IV,  pag.  29). 

Serie  II.  Tom.  LUI.  k 


82  ICILIO    GUARESCHI  4 

ignoranti,  o  da  uomini  di  malafede,  che  fu   schernito  come  materialista,  immorale  e 
dilettante  di  Scienze  Naturali. 

Nei  tempi  moderni  i  figli  di  re  frequentano  le  pubbliche  scuole,  e  le  Università  ; 
accorrono  a  festeggiare  i  loro  insegnanti;  così  l'attuale  imperatore  di  Germania, 
quando  era  studente  all'Università  di  Bonn,  prese  parte  alla  fiaccolata  in  onore  del 
grande  chimico  Augusto  Kekulé.  Ed  è  sempre  con  viva  emozione  che  si  leggono  le 
pagine  che  descrivono  i  funerali  solenni  di  Humboldt  a  Berlino  nel  1859;  quale 
effetto  non  deve  produrre  sul  pubblico,  sulle  masse  popolari,  il  vedere  il  loro  re.  i 
loro  principi  che  là  pubblicamente  all'aperto,  sui  gradini  della  chiesa  metropolitana, 
si  scoprono  il  capo  davanti  al  feretro  che  racchiude  il  Grande  Uomo? 

Nei  paesi  ove  si  ha  un  più  alto  concetto  del  sapere,  specialmente  per  parte  di 
coloro  che  occupano  le  più  elevate  cariche  pubbliche,  si  osserva  evidentemente  il 
fatto  che  allo  sviluppo  delle  teorie  scientifiche  si  accompagna  un  correlativo  sviluppo 
nel  progresso  delle  scienze  applicate  e  delle  industrie,  e,  diciamolo  pure,  anche  della 
moralità  e  dell'onestà. 

"  Il  trionfo  universale  della  Scienza,  scrive  Berthelot,  assicurerà  agli  uomini  il 
maximum  possibile  di  felicità  e  di  moralità  „. 

Quatrefages  dimostrò  facilmente  in  un  brillante  discorso  (1873)  come  la  scienza 
non  soffochi  il  sentimento  e  l'immaginazione,  né  uccida  l'ideale  ed  impicciolisca  l'intel- 
ligenza nei  limiti  della  realtà,  come  molti  oscurantisti,  o  per  ignoranza,  o  per  mala- 
fede, vogliono  far  credere. 

Si  leggano  i  Viaggi  scientifici  dello  Spallanzani,  i  grandi  Quadri  della  natura  ed  il 
Cosmos  di  Humboldt,  le  Opere  di  Arago,  gli  Scritti  scientifici  e  letterari  di  Biot,  il 
Discorso  sull'ufficio  scientifico  detta  immaginazione  di  Tyndall,  le  Opere  del  Darwin  e  la 
sua  Autobiografia  ed  altri  capolavori  di  questa  natura,  e  poi  si  abbia  il  coraggio  di  dire 
che  la  scienza  soffoca  il  sentimento  e  l'immaginazione.  Kepler,  Galileo,  Newton,  La- 
grange,  Leibnitz  hanno  provato  a  meraviglia  l'alleanza  del  genio  matematico  e  del- 
l'immaginazione più  feconda. 

Un  grande  poeta-musicista,  il  Gounod,  prendeva  un  giorno  lezione  di  astronomia 
dal  suo  amico  Janssen,  e  nel  punto  in  cui  l'astronomo  spiegava  la  gran  legge  delle 
aree  che  lega  in  modo  meraviglioso  la  velocità  di  un  pianeta  nella  sua  orbita  alla 
sua  distanza  dal  Sole,  gridò  improvvisamente:  "  ah!  come  è  bello!  „  E  le  lacrime 
spuntarono  sul  suo  ciglio. 

E,  quanta  poesia  nell'analisi  spettrale  di  Bunsen  e  Kirchhoff!  Giustamente  l'astro- 
nomo oggi  può  esclamare  :  0  stella,  inviami  uno  dei  tuoi  raggi  ed  io  scriverò  la  tua 
storia.  Ma  il  più  grande  esempio  ci  viene  dal  Sommo  Poeta,  dal  nostro  Dante,  che 
congiunse  in  un  concetto  ed  in  una  forma  insuperabili,  la  scienza  e  la  poesia.  Si 
potrà  essere  fabbricante  di  versi  e  di  rime,  ma  non  si  sarà  poeta  se  non  si  ha  il  senti- 
mento e  la  conoscenza  profonda  della  Natura. 

Perdonatemi  questa,  forse  un  po'  lunga,  digressione. 

Ora  dirò  delle  opere  del  Cossa,  o  meglio,  del  Cossa  come  chimico. 

Sino  da  quando  era  studente  egli  dimostrò  una  spiccata  predilezione  per  la  chi- 
mica, e  specialmente  per  la  chimica  applicata.  Se  giustizia  ci  obbliga  a  non  mettere 
il  Cossa  fra  coloro  che  più  hanno  contribuito  al  progresso  della  chimica  moderna, 
si  devono  però  riconoscere  in  Lui  non  comuni    meriti    scientifici  e  didattici;  meriti, 


5  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  83 

che  hanno  tanto  più  valore  in  quanto  che   Egli  non   ebbe  un  indirizzo   preciso   nel 
principio  della  sua  carriera,  ma  molto  dovette  imparare  da  se  stesso. 

Egli  poteva  ben  a  ragione  dire  di  se  quanto  scriveva  Arcangelo  Scacchi  in  una 
sua  lettera  autobiografica: 

"  Conchiudo  la  mia  confessione  col  dirvi  che  il  poco  che  ho  fatto  l'ho  fatto  tutto 
da  me,  con  la  ferma  volontà  di  vincere  gli  ostacoli  che  ad  ogni  passo  mi  si  sono 
presentati  „. 

Le  eccessive  ed  esagerate  lodi  non  tornano  mai  ad  onore  di  colui  che  vuoisi 
onorare;  nel  fare  l'elogio  storico  di  un  sapiente,  per  quanto  modesto  o  grande,  non 
dobbiamo  mai  dimenticare  la  verità;  giustamente  il  Voltaire  diceva:  "  chi  loda  sempre 
ed  ogni  cosa,  non  è  che  un  adulatore;  sa  lodare  colui  che  loda  con  restrizione  „. 

Per  capire  bene  come  il  Cossa  abbia  dovuto  studiare  la  chimica  da  sé,  inizian- 
dosi in  ricerche  che  solamente  avevano  indiretta  relazione  colla  chimica,  e  diven- 
tasse poi  anche  un  buon  autodidattico,  bisogna  pensare  allo  stato  di  questa  scienza 
in  quel  tempo;  tra  il  1850  e  il  1860. 

Quando  in  Francia  fiorivano  :  Dumas,  Laurent,  Gerhardt,  Cahours,  Wurtz,  Ber- 
thelot,  Deville;  in  Germania:  Liebig,  Wohler,  Bunsen,  Kolbe,  Hofmann,  Strecker, 
Kekulé;  ed  in  Inghilterra:  Graham,  Williamson,  Frankland,  Odling;  in  Italia,  oltre  al 
Malaguti  che  viveva  in  Francia,  non  avevamo  che  Piria,  Selmi  e  Sobrero,  dei  quali 
uno  solo  aveva  una  cattedra  universitaria  con  meschini  mezzi  di  studio,  il  Piria, 
prima  a  Pisa,  poi  a  Torino. 

Ma  anche  questi  chimici,  onore  del  nostro  Paese,  non  avevano  ancora  una  scuola, 
lavoravano  per  proprio  conto,  con  pochissimi  allievi;  erano  come  punti  luminosi  in 
una  notte  oscura. 

In  quel  tempo  la  maggior  parte  delle  cattedre  universitarie  di  chimica  erano 
occupate  da  uomini  il  cui  insegnamento  era  puramente  teorico,  o  meglio,  cattedra- 
tico, e  anche  questo  fatto  in  modo  assai  poco  conforme  ai  grandi  progressi  della 
chimica  di  quel  tempo.  A  Padova,  a  Pavia,  a  Roma,  a  Napoli,  a  Bologna,  a  Pa- 
lermo, ecc.,  vi  erano  laboratori  universitari,  alcuni  dei  quali  assai  vasti  e  ben  forniti 
di  materiale  scientifico,  come  a  Padova  per  esempio,  ma  nei  quali  non  si  studiava,  non 
si  lavorava;  l'insegnamento  della  chimica  era  nello  stato  in  cui  si  trovava  negli 
altri  paesi  sessantanni  prima,  e  forse  peggio. 

A  Milano  insegnava  allora  la  chimica,  nella  Scuola  annessa  alla  Società  di  Inco- 
raggiamento, il  Krarner;  il  quale  aveva  viaggiato,  studiato  a  Parigi,  era  stato  amico 
di  Laurent,  che  aiutò  anzi  in  alcune  ricerche.  Il  Cossa  sino  da  quando  era  studente 
seguì  le  lezioni  del  Kramer.  Ma  se  questo  chimico  fu  benemerito  della  industria  lom- 
barda, certamente  non  era  da  annoverarsi  fra  i  maestri  che  potessero  dare  un  indi- 
rizzo scientifico.  Ed  il  Cossa,  per  quanto  fosse  grato  al  Kramer,  e  spesso  lo  ricordasse, 
confessa  candidamente  che  nel  1858  non  sapeva  dove  studiare  chimica.  Nella  sua  let- 
tura tenuta  il  3  novembre  all'Accademia  Olimpica  di  Vicenza  Sulla  vita  e  le  opere  di 
Angelo  Seda,  cosi  si  esprime: 

"  L'idea  di  l'accogliere  notizie  sulla  vita  e  le  opere  di  Angelo  Sala  è  sórta  in 
me  già  da  molto  tempo,  risalendo  essa  all'anno  1858.  Appassionato  per  la  chimica, 
ma  costretto  ad  un  amore  platonico,  perchè  in  quel  tempo  all'Università  di  Pavia 
non  era  concesso  ai  giovani  studiosi  di  dedicarsi  a  ricerche  sperimentali  in  un  labo- 


84  ICILIO    GUARESCHI  6 

ratorio,  cercava  di  assecondare  la  mia  inclinazione  coll'applicarmi,  come  sapeva  e 
poteva,  allo  studio  della  storia  della  scienza.  Fu  per  tale  circostanza,  che  mi  accadde 
di  leggere  ripetuta  in  diverse  opere  questa  sentenza  di  Conringio,  erroneamente  dalla 
maggior  parte  degli  scrittori  attribuita  ad  Haller:  "  Angelo  Sala  vicentino  fu  il  primo 
chimico  che  desistesse  dal  vaneggiare  „.  Angelo  Sala?  Chi  era  egli?  „,  ecc. 

Eppure  erano  tempi  in  cui  in  altri  paesi  la  mente  dei  chimici  lavoratori,  cioè 
dei  veri  chimici,  era  agitata  dalle  idee  berzeliane  e  dalle  idee  gerhardiane;  e  tutti 
i.  giovani  chimici  più  intelligenti  abbracciavano  le  nuove  idee  che  con  Dumas,  Lau- 
rent, Malaguti,  Cahours,  Williamson,  ed  altri  avevano  portato  al  sistema  di  Gerhardt, 
di  questo  grande  e  sfortunato  riformatore.  Dal  1852  al  1856  Gerhardt  pubblicò  quel 
suo  grande  Tratte  de  Chimie  organique,  che  tanta  influenza  doveva  avere  sui  progressi 
della  scienza. 

I  giovani  chimici  tedeschi  ed  inglesi  prima  ancora  dei  francesi,  con  a  capo  il 
Williamson  e  specialmente  il  Kekulé,  divennero  tutti  sostenitori  della  nuova  teoria 
dei  tipi. 

Ma  venne  il  grande  anno  1859,  preparato  dal  1848,  e  l'Italia  rapidamente,  anzi 
forse  un  po'  troppo  rapidamente,  entrò  nel  movimento  civile,  politico  e  scientifico 
europeo.  Il  nostro  nuovo  reggimento  costituzionale,  che  può  anche  essere  essenzial- 
mente democratico,  perchè,  come  l'inglese,  permette  lo  sviluppo  delle  idee  più  libere 
e  più  progressiste,  contribuì  non  poco  alla  diffusione  del  sapere  nella  nostra  Penisola. 

E  qui  permettetemi  un'altra  breve  digressione,  che  è  intimamente  legata  a  me- 
morie giovanili  di  quei  tempi  fortunosi. 

Fatte  le  debite  eccezioni,  dobbiamo  esser  persuasi  che  i  governi  assoluti,  quali 
erano  in  Piemonte  prima  del  1848  e  nel  resto  d' Italia  ancor  prima  del  1859,  non 
hanno  mai  desiderato  e  promosso  il  progresso  scientifico,  come  non  lo  poteva  desi- 
derare né  promuovere  il  governo  degli  Stati  Pontifici.  A  prova  di  ciò  sta  il  fatto 
che,  come  già  nel  secolo  XVIII,  cosi  sul  principio  del  secolo  XIX,  o  per  trascuranza 
di  governi,  o  per  cause  politiche,  o  per  mancanza  di  mezzi»  di  studio  in  patii  a, 
molti  nostri  grandi  connazionali  dovettero  spontaneamente,  o  per  forza,  abbandonare 
l'Italia,  e  basti  ricordare  Lagrange,  Berthollet,  Pellegrino  Rossi,  Macedonio  Melloni, 
Malaguti,  Mamiani  e  tanti  altri. 

La  scienza,  il  sapere  umano,  per  progredire,  ha  bisogno  di  libertà,  ha  bisogno 
che  la  mente  non  sia  inceppata  da  dogmi,  siano  essi  politici  o  religiosi.  Se  in  certi 
periodi  della  storia  sembra  che  almeno  qualche  volta  i  governi  assoluti  abbiano  pro- 
tetto la  scienza,  si  è  perchè  non  ne  potevano  impedire  lo  sviluppo,  perchè  sapevano  e 
sanno,  se  intelligenti,  che  le  idee  non  si  possono  a  lungo  arrestare  od  inceppare,  e  che 
il  sapere  è  molto  più  potente  di  qualunque  forza  materiale,  di  qualunque  forza  brutale. 

Dopo  aver  detto  dei  principi  italiani  del  secolo  XV,  l'insigne  nostro  storico  delle 
scienze  matematiche  in  Italia,  il  Libri,  così  continua  (1)  : 

"  Ecco  quel  che  furono  nel  secolo  quindicesimo  i  principi  italiani  e  quei  Medici 
che  si  è  voluto  immortalare  e  a  cui  gli  stranieri  si  ostinano  ancora  ad  attribuire  il 
Rinascimento. 


(1)  Histoire  des  sciences  mathématiques  en  Italie  depuis  In  renaissance  des  letires,  par  G.  Libri,  1838, 
voi.  II,  p.  282. 


7  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  85 

"  I  veri  benefattori  dell'Italia,  coloro  che  le  resero  il  suo  antico  splendore,  non 
furono  gli  uomini  che  l'oppressero.  Poiché,  ed  è  bene  ripeterlo,  i  tiranni  non  hanno 
fatto  mai  la  gloria  di  una  nazione. 

"  L'Italia  deve  il  suo  splendore  a  quegli  uomini  coraggiosi  che,  in  un'epoca  di 
barbarie,  andavano  in  lontane  contrade  a  cercare  la  scienza  presso  gli  infedeli,  nono- 
stante i  pregiudizi  che  avrebbero  dovuto  distoglierli,  nonostante  i  mille  pericoli  che 
li  minacciavano.  Non  si  può  pensare  senza  commozione  a  quegli  uomini  infaticabili 
che  nulla  spaventava  e  che,  senza  speranza  di  ricompensa,  facevano  tanti  sforzi  per 
introdurre  presso  i  cristiani  le  scienze  degli  Àrabi.  Gherardo  da  Cremona  e  Platone 
da  Tivoli  hanno  fatto  più  per  le  scienze  che  non  tutti  i  principi  del  quindicesimo 
e  del  sedicesimo  secolo.  Dopo  quei  primi  maestri,  l'Italia  deve  la  sua  civilizzazione 
agli  uomini  che  l'hanno  redenta  dalla  feudalità,  ai  poeti  e  agli  artisti  che  le  hanno 
ispirato  quel  sentimento  del  bello  tanto  sparso  ancora  nel  popolo  italiano,  a  coloro 
che  le  hanno  aperto  le  sorgenti  dell'antichità.  È  la  democrazia  che  ha  fatto  tutto, 
in  Italia:  il  dispotismo  ha  voluto  arrestare  tutto.  La  lotta  fra  questi  due  principii 
è  stata  lunga  e  ostinata;  essa  ricomincia  ad  ogni  momento;  ma  se  si  domandasse 
alla  monarchia  che  cosa  essa  ha.  fatto  dell'eredità  di  Fibonacci,  di  Marco  Polo,  di 
Dante,  di  Brunellesco,  come  essa  ha  continuato  Colombo,  Macchiavelli,  Ferro,  Leo- 
nardo da  Vinci,  Raffaello,  Michelangelo,  Ferruccio,  glorioso  deposito  che  la  democrazia, 
morendo,  le  aveva  confidato,  essa  non  saprebbe  rispondere  che  indicando  lo  Spielberg  „. 

A  proposito  di  queste  parole  del  Libri  si  dirà  forse  da  alcuni  che  sono  viete 
espressioni  retoriche;  ma  chi  ha  visto,  e  sentito,  almeno  il  1859,  chi  ricorda  lo  stato 
politico,  morale  e  scientifico  della  nostra  Italia,  se  si  eccettui  il  Piemonte,  prima 
del  1859,  quando  il  nostro  Paese  era  ancora  sotto  il  dominio  straniero,  o,  peggio 
ancora,  sotto  i  piccoli  principotti  indigeni,  non  può  a  meno  di  fremere  e  sente  tutta 
la  forza  delle  parole  del  Libri;  e  si  pensi,  che  queste  parole  furono  scritte  nel  1836, 
quando  l'Italia  tutta,  compreso  il  Piemonte,  era  prostrata  dalla  più  feroce  reazione. 

Tempi  lontani  ormai,  è  vero,  ma  che  è  bene  non  dimenticare. 

Ed  è  con  vivissimo  entusiasmo  che  io  penso  come  fra  pochi  giorni  la  vicina 
Asti  festeggierà  il  centenario  del  Grande  suo  Figlio,  di  colui  che,  dopo  Dante  e 
Macchiavelli,  è  stato  il  vero  precursore  e  fondatore  della  nuova  Italia. 

Lo  stato  della  chimica  in  Italia,  eccetto  in  pochissime  Università,  dal  1850 
al  1860,  era,  come  già  dissi,  tutt'altro  che  confortante.  A  Torino  si  traducevano  le 
Opere  del  Regnault,  si  pubblicavano  gli  Annuari  di  chimica  ed  i  Trattati  elementari 
di  chimica  minerale  ed  organica  del  Selmi;  gli  Annali  del  Maiocchi,  prima  a  Milano, 
poi  a  Torino,  ecc.;  a  Pisa  si  pubblicava  il  Nuovo  Cimento  diretto  da  Matteucci  e  Piria, 
ed  il  Trattato  di  chimica  inorganica  di  Piria.  Queste  erano  le  sole  pubblicazioni  che 
tentassero  di  tenere  al  corrente  dei  grandi  progressi  della  chimica. 

Quando  il  Cossa  incominciò  la  sua  carriera  scientifica,  verso  il  1860,  avveniva 
spesso  che  per  necessità  di  cose  e  principalmente  pel  bisogno  di  numerosi  inse- 
gnanti, vere  nullità  scientifiche  ottenessero  splendidi  posti.  Basti  il  ricordare  che  a 
Bologna  fu  dal  Dittatore  Farini  creata  una  cattedra  speciale  di  chimica  organica, 
unica  in  Italia,  che  fu  affidata  ad  un  professore  chiamato  da  Parma  ove  insegnava 
pure  chimica  organica  ;  e  ciò  senza  che  quel  professore  avesse  nessun  titolo  scienti- 
fico, oltre  quello  di  essere  stato  due  o  tre  anni  nel  laboratorio  di  Piria  a  Pisa,  man- 


gg  ICILIO    GUAEESCHI  o 

tenutovi  a  spese  del  Governo  borbonico  parmense  d'allora;  ed  i  colleglli  del  tempo 
sanno,  ed  io  posso  farne  certissima  testimonianza,  che  la  principale  occupazione  del 
professore  e  degli  addetti  a  quell'Istituto  chimico  consisteva  nel  passare  il  tempo 
in  allegra  compagnia,  essendo  assolutamente  vietato  usare  libri  del  laboratorio  o 
fare  esperienze!  E  quella  cattedra  fu  occupata  in  tal  modo  per  22  anni!  E  quando 
nel  1883,  quella  cattedra  avrebbe  potuto  essere  affidata  ad  un  vero  chimico,  certa- 
mente con  ottimi  frutti,  il  Governo  l'abolì,  o  meglio,  la  fuse  insieme  colla  cattedra 
di  chimica  inorganica. 

È  dunque  non  lieve  merito  del  Cossa  l'aver  fatto  da  sé  stesso;  senza  un  grande 
maestro,  senza,  come  suol  dirsi,  una  scuola,  egli  è  riuscito  a  forza  di  volontà  e  di 
fermezza  a  fare  molto  più  di  altri  che  hanno  avuto  delle  guide  sicure. 

Il  Cossa  era  ancora  assai  giovane  quando  nel  1856  tradusse  dalla  2a  edizione 
quell'aureo  libretto  del  Liebig  intitolato:  I principii  fondamentali  della  chimica  agraria 
in  relazione  alle  ricerche  istituite  in  Inghilterra;  egli  dedicò  questo  suo  primo  lavoro 
al  sacerdote  don  Giuseppe  Villa,  aggiungendovi  alcune  note. 

A  questa,  fece  seguito  nel  1857  la  traduzione  di  un  altro  libro  del  Liebig: 
La  teoria  e  la  pratica  dell'agricoltura.  E  così  il  nostro  Cossa  contribuì  non  poco,  in 
quel  tempo,  a  far  conoscere  libri  utilissimi  al  progresso  dell'agricoltura. 

Nel  1859  (1),  quando  era  ancora  assistente  alla  cattedra  di  Medicina  legale  e 
Polizia  medica,  nell'Università  di  Pavia,  pubblicò  il  suo  primo  studio:  Sull'assorbi- 
mento delle  vnìicì:  considerazioni  e  ricerche;  in  cui  si  scorge  già  il  desiderio  delle 
ricerche  chimiche,  ma  insieme  anche  la  mancanza  di  un  vero  indirizzo  scientifico. 

La  Società  di  Farmacia  di  Torino  aveva  proposto  un  premio  di  L.  500  per  lo 
Studio  dei  semi  di  rìcino;  il  Cossa,  insieme  col  prof.  Nallino,  nel  1862  presentò  una 
memoria  che  fu  premiata  con  L.  200.  Cossa  fu  allora  nominato  Socio  corrispondente 
di  questa  Società. 

Il  Cossa  verso  il  1867  non  aveva  ancora  pubblicato  delle  ricerche  chimiche  che 
rivelassero  la  via  che  intendeva  seguire  ;  se  si  eccettuano  tre  o  quattro  lavori  di 
secondaria  importanza,  uno  Sulla  determinazione  di  alcune  proprietà  fisiche  e  chimiche 
delle  terre,  coltivabili  (nel  1866),  e  alcune  ricerche  Sulla  dialisi  (1863);  un  altro,  fatto 
insieme  al  suo  amico  Carpené  nel  1864:  Sulle  reazioni  caratteristiche  degli  alcaloidi;  poi 
Alcune  osservazioni  sull'ozonometria  (1867)  ed  Alcune,  osservazioni  sul  magnesio  (1867). 
Nel  1868  pubblicò  un  lavoro  Su  alcune,  proprietà  dello  zolfo  e  sulla  sua  solubilità. 

Le  sue  relazioni  amichevoli  col  S.ella  e  col  Gastaldi  lo  spinsero  a  dedicarsi  alla 
chimica  mineralogica  ed  alla  petrografia  ;  ed  è  qui  dove  l'opera  scientifica  del  Cossa 
si  è  maggiormente  esplicata.  Il  suo  primo  lavoro  presentato  alla  nostra  Accademia 
è  una  nota  dal  titolo:  Ricerche  di  chimica  mineralogica,  letta  il  27  dicembre  1868  e 
pubblicata  negli  Atti,  voi.  IV,  pp.  187-200.  Il  suo  studio  Su  alcuni  carbonati  romboe- 
drici (2)  lo  condusse  a  studiare  la  solubilità  del  carbonato  di  magnesio  (magnesite) 
nell'anidride  carbonica  a  pressioni  crescenti  da  1  a  6  atmosfere.  Però,  ad  onor  del 
vero,  bisogna  dire  che  queste  ricerche    non   poterono  essere  confermate. 


(1)  "  N.  Cim.  „  (I),  IX,  pag.  121-153. 

(2)  "  Berichte  „  1869,  pag.  697. 


9  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  87 

Cossa  fu  uno  dei  primi,  se  non  il  primo,  a  far  notare  l'azione  dell'alluminio 
sulle  soluzioni  metalliche,  nel  1870;  l'alluminio  precipita  le  soluzioni  di  rame,  di 
mercurio,  di  piombo,  ecc.,  e  questo  modo  di  agire  corrisponde  alle  ricerche  del 
Wheatstone  per  stabilire  la  posizione  dell'alluminio  nella  serie  elettrochimica.  Il 
Cossa  si  occupò  anche  dell'amalgama  dell'alluminio,  il  quale  in  certi  casi  può  usarsi 
come  un  buon  agente  riduttore. 

Nel  1872  studiò  inoltre  l'azione  del  gesso  sulla  solubilità  delle  roccie;  una  solu- 
zione di  solfato  di  calcio  agisce  molto  più  rapidamente  che  non  l'acqua  pura  sulle 
roccie  contenenti  silicati  alcalini;  egli  esperimento  con  gneis,  trachite,  granito,  feld- 
spato, basalto,  ecc. 

Il  E.  Gomitato  Geologico  Italiano,  di  cui  egli  stesso  insieme  a  Sella  e  Gastaldi 
era  membro,  lo  incaricò  di  fare  lo  studio  petrografico  delle  roccie  italiane,  pel  quale 
ebbe  aiuti  finanziari  e  di  personale  tecnico,  non  lievi.  Egli  studiò  e  classificò,  special- 
mente, un  gran  numero  di  roccie  raccolte  dagli  ingegneri  del  Corpo  Reale  delle  Miniere. 

Il  Cossa  è  stato  forse  il  primo  in  Italia  ad  iniziare  gli  studi  petrografici,  già 
in  fiore  nella  Germania  per  opera  principalmente  dello  Zirkel  e  del  Kosenbusch.  Ed 
invero  il  C'ossa  stesso  riconosce  che  nelle  prime  sue  osservazioni  microscopiche  sulle 
roccie  ebbe  a  guida  specialmente  il  Rosenbusch,  professore  di  petrografia  prima  in 
Strassburg  poi  in  Heidelberg.  Questi  studi  petrografici  egli  raccolse  in  un  grosso 
volume  dal  titolo:  Ricerche  elamiche  e  microscopiche  su  roccie  e  minerali  d'Italia  (1875- 
1880)  con  12  tavole  cromolitografiche,  che  fu  pubblicato  nel  1881  coi  fondi  notevoli 
di  cui  dispone  la  Stazione  agraria  di  Torino  di  cui  Cossa  era  allora  Direttore.  In 
questo  lavoro  ebbe  a  collaboratore  il  suo  allievo  ing.  Mario  Zecchini. 

Nella  prefazione  a  questo  suo  lavoro,  egli  così  si  esprime  (pag.  1):  "  Tra  i  com- 
piti affidatimi  come  Direttore  del  laboratorio  chimico  della  Stazione  agraria  di 
Torino,  mi  fu  specialmente  raccomandato  lo  studio  chimico  delle  terre  coltivabili  del 
Piemonte.  Dovetti  ben  presto  persuadermi  che  questo  studio  sarebbe  riuscito  di  poca 
importanza  se  non  era  accompagnato  da  quello  delle  roccie,  che  colla  loro  decompo- 
sizione contribuiscono  alla  formazione  dello  strato  coltivabile.  Pertanto,  a  partire 
dagli  ultimi  mesi  dell'anno  1874,  mi  sono  accinto  a  studiare  la  composizione  chi- 
mica e  mineralogica  delle  principali  roccie  del  Piemonte,  attenendomi,  per  quanto  mi 
era  concesso,  ai  più  recenti  progressi  della  petrografia  „.  E  più  innanzi  scrive  (pag.  18): 
"  Grazie  ai  mezzi  di  cui  può  disporre  il  laboratorio  chimico  da  me  diretto,  ho  potuto 
in  breve  tempo  ordinare  una  collezione  di  circa  1800  sezioni  in  piccolo  formato 
e  800  in  grande  formato.  Questa  collezione,  che  verrà  inviata  temporaneamente  al  Con- 
gresso Geologico  Internazionale  di  Bologna  nel  settembre  1881,  si  riferisce  a  circa 
900  roccie  italiane,  inviatemi  per  la  massima  parte  dal  R.  Comitato  Geologico  Italiano  „. 

In  questo  volume  sono  raccolte  le  sue  analisi  sulla  sienite  elei  Biellese,  la  diorite 
quarzifera  porfiroide  di  Cossato  (Biella),  la  diabase  peridolifcra  di  Mosso  nel  Biellese,  ecc. 

Lo  studio  della  Lherzolite  di  Locana  è,  come  afferma  il  Cossa  stesso,  il  primo 
lavoro  di  chimica  mineralogica  pubblicato  in  Italia,  nel  quale  siasi  applicato  l'uso  del 
microscopio  (1). 


(1)  Rieerclie  intorno  alla  Lherzolite  di  Locano  in  Piemonte,   "  Atti  della  R.  Acc.  delle  Scienze  di 
Torino  „,  1874,  voi.  IX. 


88  ICILIO    GUARESCHI  10 

Dietro  iniziativa  del  Cossa  il  Governo  fondò  in  Roma  un  Laboratorio  petrogra- 
fia) annesso  al  R.  Ufficio  Geologico;  laboratorio  che  funziona  dal  1889  ed  è  diretto 
da  un  allievo  del  Cossa,  l'ing.  Ettore  Mattirolo,  che  fu  collaboratore  del  suo  maestro 
in  alcuni  lavori. 

Lo  studio  chimico  delle  roccie  lo  portò  ad  utili  applicazioni  alla  chimica  agraria. 
Come  già  fecero  Seufter,  Stockhardt,  Handke,  Tschermak  ed  altri,  egli  determinò 
l'acido  fosforico  in  molte  roccie  italiane.  Nella  Introduzione  alle  sue:  Ricerche  chimiche 
e  microscopiche  su  roccie  e  minerali  d'Italia,  a  pag.  7  dice: 

"  Mentre  è  già  da  molto  tempo  che  venne  richiamata  l'attenzione  degli  agri- 
coltori sull'importanza  dell'introduzione  dei  fosfati  nei  terreno  per  sostituire  quella 
quantità  di  fosforo  che  gli  si  sottrae  ogni  anno  colle  diverse  coltivazioni,  solamente 
da  pochissimi  anni  si  è  generalmente  riconosciuta  la  necessità  di  determinare  la 
quantità  di  fosforo  che  trovasi  naturalmente  nel  terreno  coltivabile  e  nelle  roccie 
dalla  cui  disgregazione  esso  deriva.  Da  analisi  recenti  risulta  che  quasi  tutte  le 
roccie  cristalline  contengono  del  fosfato  tricalcico  sotto  forma  di  apatite,  in  quantità 
che  sembrano,  è  vero,  relativamente  piccole,  ma  che  pure  sono  considerevoli,  quando 
si  pensi  che  anche  il  terreno  più  fertile  raramente  contiene  più  dell'uno  per  cento 
di  anidride  fosforica  ,. 

Abbandonato  lo  studio  delle  roccie,  iniziò  nel  1885  delle  ricerche  sul  platino,  che 
lo  condussero  alla  conoscenza  di  alcuni  fatti  non  privi  di  importanza;  anzi  le  sue 
ricerche  sui  composti  ammoniacali  del  platino  sono  le  più  importanti  ch'egli  abbia  fatto  (1). 

Magnus  nel  1828,  trattando  il  cloruro  platinoso  con  ammoniaca,  ottenne  un  bel 
composto  verde,  che  fu  denominato  sale  verde  di  Magnus  e  che  si  considerò  poi  come 
cloroplatinito  di  platosod lamina  : 

Pt .  (NH3)1 .  CI2 .  Pt  CP. 

A  queste  ricerche  del  Magnus,  che  aprirono  una  nuova  via,  fecero  seguito  quelle 
di  Gros  (1838),  di  Reiset  (1840-1844),  di  Peyrone  (1846),  di  Gerhardt  e  Laurent 
(1850),  di  Raewsky  (1848),  di  Cleve  (1866-1871)  e  le  speculazioni  teoretiche  di  Ber- 
zelius,  di  Hofmann,  di  Cleve,  di  Weltzien,  di  Kolbe  e  di  Grimm,  e  poi  gli  studi 
più  recenti  del  Blomstrand  (1869)  e  del  Jorgensen  (1878  e  1887). 

Il  Cossa  nel  1885  scrisse  la  commemorazione  di  Q.  Sella  per  incarico  avuto  dal- 
l'Accademia dei  Lincei,  ed  in  quell'occasione  dovette  far  cenno  delle  Ricerche  sulle 
forme  cristalline  di  alcuni  sali  di  platino  a  base  di  platinodiamina,  che  il  Sella  aveva 
pubblicato  nel  1856-57;  queste  ricerche  gli  suggerirono  l'idea  di  accingersi  a  nuovi 
studi  sulle  proprietà    di    alcuni    dei    derivati    ammoniacali    del  platino;  lo  dice  egli 


(1)  Sugli  isomeri  del  sale  verde  di  Magnus  {'  Atti  della  R.  Acc.  dei  Lincei  ,,  I,  pag.  318-319  e 
"  Bericlite  „,  XVIII  ReC,  pag.  429);  Ricerche  sulle  proprietà  di  alcuni  composti  ammoniacali  del  platino 
("  Atti  della  R.  Aec.  delle  Scienze  di  Torino  „,  1887,  XXII;  *  Berichte  ..  XX  Ref.,  pag.  462;  "  Gazz. 
chim.  „,  XVII,  pag.  1);  Sopra  un  nuovo  isomero  del  sale  verde  di  Magnus  ("  Berichte  „,  XXIII,  pag.  2503; 
"  Mem.  della  R.  Acc.  delle  Scienze  di  Torino  „,  serie   II,  t.  XLI  ;  Sulla  costituzi 

di  platosemiammina  f     Uli  della  R.  Acc.  delle    Scienze  di  Torino  „,  1897,  t.  XXXII):  Sulla  reazione 
di  Anderson  ("  Atti  della  R.  Acc.  dei  Lincei  „,  1893  (5),  II,  2°  aem.);  Nuove  ricerche  su/In  e, 
Anderson  (ivi,  voi.  5°,  1896):   Riassunto    'li    alcune    lezioni    sul    /'ialino    e    sue  principali    combinazioni 
(Opuscolo  litografato,  Torino,  1891). 


11  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  89 

stesso  nella  sua  prima  nota  presentata  il  3  maggio  1885  all'Accademia  dei  Lincei. 
Queste  ricerche  l'occuparono  poi  per  molti  anni. 

Ebbe  la  fortuna  di  poter  disporre  di  grande  quantità  di  platino;  subito  gli 
furono  dati  i  mezzi  per  l'acquisto  di  mezzo  chilogrammo  di  questo  prezioso  metallo, 
ed  inoltre  la  Stazione  agraria  di  Torino  aveva  grandi  mezzi  per  ricerche  scientifiche, 
mezzi  di  cui  possono  disporre  pochi  laboratori  universitari. 

Egli  ottenne  alcuni  composti  ben  definiti  di  una  base  del  platino  contenente 
una  sola  molecola  di  "ammoniaca  e  che  denominò,  prima,  platososemiammina,  poi, 
platosemiammina ;  i  due  composti  principali  che  egli  ottenne  sono:  il  cloruro  di  po- 
tassioplatosem i< / ni m  ina  : 

Cl-'PtNH3 .  KC1  +  H20 
e  un  isomero  del  sale  verde  di  Magnus  : 

(Pt^H3CI  )2.  Pt  (NH3)4C12. 

Questa  nuova  base  del  platino,  che  ora  e  anche  denominata  base  di  Cossa,  non 
si  conosce  libera  sotto  forma  di  idrossido  quale: 

p.  /NH3  .  OH 

oppure  : 

HO\p./NH3.OH 
HO/rt\OH 

Nel  1887  indicò  un  nuovo  metodo  di  preparazione  del  cloruro  platinoso- cloruro 
di  cloroplatindiamina  : 

CI2  Pt  (NH3)4  CI2  +  Pt  CI2 

e  del  cloruro  :  Pt  (NH3)4  CI2  +  Pt  CI4. 

Queste  ricerche  lo  condussero  a  studiare  l'azione  dell'acqua  e  del  calore  sui 
cloroplatinati  delle  basi  piridiniche,  per  vedere  se  anche  questi  composti  subiscono 
la  reazione  di  Anderson;  egli  dimostrò  che  appunto  anch'essi  sottostanno  a  questa 
reazione. 

Mi  piace  qui  ricordare  che  un  altro  distinto  chimico  italiano  si  era  già  occu- 
pato con  buoni  risultati  delle  basi  del  platino.  Michele  Peyrone,  di  Torino,  nel  1845 
ottenne  i  sali  di  una  base  che  fu  detta  base  di  Peyrone  ;  ad  esempio  il  cloruro  di 
platososemidiamina  : 

p, /NH3 .  NH3 .  CI 
rt\Cl 

Il  Cossa  in  seguito  ai  suoi  studi  di  chimica  mineralogica  e  di  petrografia  ebbe 
ad  occuparsi  della  diffusione  in  natura  di  alcuni  metalli  rari,  quali  il  litio,  il  cerio, 
il  didimio.  Nelle  sue  Ricerche  di  chimica  mineralogica  (1868)  indicò  la  presenza  del 
litio  nel  gneiss  erratico  nella  morena  di  S.  Daniele  nel  Friuli,  nella  trachite  di  Monte 
Chiaju,  nel  basalto  di  Monte  Nuovo  negli  Euganei  e  nel  granito  di  Baveno. 

Serik  II.  Tom.  LUI.  l 


90  ICILIO    GUARESCHI  12 

Trovato  il  cerio  nelle  apatiti,  studiò  la  diffusione  di  questo  elemento  insieme  al 
didimio  ed  al  lantanio  (1).  Egli  anzi  ebbe  occasione  di  confermare  il  fatto  della  fre- 
quente associazione  del  cerio  al  calcio,  e  perciò  fece  delle  esperienze  per  tentare  di 
dimostrare  l'isomorfismo  ed  altre  analogie  fra  l'ossido  di  calcio  e  l'ossido  di  cerio: 

CaO         ossido  di  calcio 
CeO         ossido  ceroso. 

Ma  oggi  la  gran  maggioranza  dei  •  chimici  ammette  'che  il  cerio  nei  sali  cerosi 
funziona  come  trivalente  o  cerojone,  Ce'",  e  nei  sali  cerici  come  tetravalente  o  ceri- 
Jone,  C",  come  ad  esempio: 

Ce2  (SO4)3         solfato  ceroso 

Ce  (SO*)2  +  4H20         solfato  cerico. 

Ciò  però,  come  giustamente  osserva  il  prof.  Piccini  nel  suo  cenno  necrologico  su 
Cossa  (2),  nulla  toglie  al  lavoro  in  quanto  riguarda  la  diffusione  di  questo  metallo 
in  natura. 

Nel  1873  il  Cossa  osservò,  come  aveva  già  trovato  il  Crookes,  che  lo  zolfo  di 
Vulcano  contiene  del  tallio,  ma  egli  riconobbe  di  più,  che  il  tallio  sotto  forma  di 
allume  si  trova  nell'allume  potassico  che  si  fabbrica  a  Vulcano  ;  ed  inoltre  dimostrò 
che  questo  allume  contiene  traccie  di  allume  di  cesio  e  di  rubidio,  e  del  solfato 
di  litio  (3). 

Il  Cossa  ha  lavorato  molto;  incominciò  tardi,  è  vero,  i  lavori  di  chimica,  ma 
proseguì  per  molto  tempo  ;  sino  a  che  in  questi  ultimi  anni  l' insegnamento,  i  pub- 
blici uffici,  e  specialmente  la  Direzione  della  Scuola  di  Applicazione  per  gli  Inge- 
gneri lo  distolsero  in  parte  dalle  ricerche  scientifiche. 

Alfonso  Cossa,  che  ha  fatto  parte  della  nostra  Accademia  per  più  di  trenta  anni, 
ha  scritto  molti  cenni  biografici,  quali  quelli  su  Piria,  su  Sella,  sullo  Scacchi,  ecc.,  ma  il 
più  importante  di  questi  suoi  lavori  biografici  è  senza  dubbio  quello  su  Angelo  Sala. 

Colla  sua  lettura:  Angelo  Sala,  medico  e  chimico  vicentino  del  secolo  XVII  (Vicenza, 
1894,  pagg.  1-42)  contribuì  non  poco  a  far  conoscere  questa  gloria  della  chimica  ita- 
liana. Certamente  il  Sala  non  era  tanto  poco  conosciuto  come  pensava  il  Cossa,  perchè 
ed  il  Kopp  (4)  e  l'Hoefer  (5)  ed  altri  storici  della  chimica  parlano  con  onore  di  A.  Sala; 
ma  il  nostro  Cossa  ha  potuto  esaminare  nuovi  documenti,  ha  raccolto  alcune  notizie 
nelle  biblioteche  estere  e  nazionali,  e  ci  ha  dato  un  quadro,  ampio,  se  non  completo, 
della  vita  e  delle  opere  del  Sala. 


il)  Sulla  diffusione  del  cerio,  del  lantanio,  del  didimio,  "  Mera.  Acc.  dei  Lincei  ,,  1879  (3),  voi.  III. 

(2)  A.  Piccini,  Commemorazione  del  Socio  Prof.  A.  Cossa,  letta  nella  seduta  2  nov.  1902.    "  Atti 
R.  Acc.  de'  Lincei  „,  voi.  XI,  2°  sem,  pag.  235-238. 

(3)  *  Mem.  Acc.  Lincei  „,  2  die.  1877. 

(4)  H.  Kopp,  "  Ges.  d.  Chem.  „,  1843,  voi.  I,  pag.  115-116;  è  molte  volte  citato   nei   volumi   II, 
III  e  IV. 

(5)  F.  Hoeff.r,  Hist.  de  la  Chimie,  l1  ed.,  1843-45,  e  2*  ed.,  1866,  voi.  I,  pag.  208-214.  L'Hoefer 
mette  il  Sala  ed  il  Tachenius  alla  testa  dei  jatrochimici  che  si  sono  distinti  nel  secolo  XVII. 


13  COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  91 

Farò  notare  che  ad  Angelo  Sala  si  deve  il  primo  concetto  teorico-scientifico 
sulla  fermentazione,  che  egli  definisce:  un  movimento  intimo  delle  particelle  elementari, 
che  tendono  a  raggrupparsi  in  un  ordine  differente,  per  dare  origine  ad  un  corpo  nuovo  (1). 
Idea  questa  che  fu  poi  sviluppata  da  Willis  (1659),  da  Stahl  (1697)  e  specialmente 
dal  Liebig  (1837).  Ed  io  stesso,  che  ho  dovuto  occuparmi  dei  lavori  di  Angelo  Sala, 
sono  di  avviso  che  si  debba  considerare  questo  chimico,  non  quale  uno  dei  più  grandi 
precursori  di  Lavoisier,  come  vorrebbe  il  Cossa,  ma  certamente  un  precursore  efficace 
della  vera  chimica  sperimentale  del  secolo  XVIII,  cioè  un  precursore  di  Black,  di 
Priestley  e  di  Scheele;  Lavoisier  non  solamente  era  grande  esperimentatore,  ma 
grande  chimico  legislatore,  o  chimico-filosofo. 

È  spiacevole  vedere  dei  trattatisti  italiani  anche  recenti  dimenticare  affatto 
Angelo  Sala  nella  storia,  ad  esempio,  della  fabbricazione  dell'acido  solforico. 

Chi  ha  conosciuto  intimamente  il  Cossa  può  giudicarlo  al  suo  giusto  valore  come 
uomo  e  come  amico,  ed  io  non  posso  fare  di  meglio  che  trascrivere  qui  un  brano 
di  un  cenno  necrologico  letto  dal  prof.  Luigi  Gabba,  amicissimo  suo,  alla  Società 
Chimica  di  Milano  (2)  : 

"  Del  Cossa  dobbiamo  a  questo  riguardo  dire  che  era  un  uomo  di  cuore,  fedele 
nell'amicizia,  pronto  a  fare  del  bene,  lontano  da  ogni  leziosità,  ed  anzi  naturalmente 
inclinato  ad  essere,  non  dico  ruvido  e  burbero,  ma  piuttosto  severo  e  rigido.  Sopra 
ogni  cosa  egli  poneva  il  suo  ufficio  di  maestro  ed  il  suo  compito  come  scienziato, 
sopra  ogni  cosa  egli  poneva  l'adempimento  della  missione  sua;  alla  religione  del 
dovere  egli  informò  la  sua  vita  sempre  aliena  da  quell'utilitarismo  egoista  che  pur- 
troppo è  un  fenomeno  sempre  più  frequente  nei  tempi  moderni  „. 

Tali  sono,  brevemente  riassunti,  i  lavori  del  nostro  compianto  Presidente;  ma 
non  posso  terminare  di  parlare  di  Lui  senza  prima  esprimere  un  augurio  al  collega 
carissimo,  professore  Enrico  D'Ovidio,  che  gli  è  succeduto  nella  carica  e  che,  ami- 
cissimo suo,  più  di  ogni  altro  ne  ha  sentito  la  perdita  dolorosa;  gli  sia  di  conforto 
il  pensiero  di  continuare  l'opera  dell'amico  estinto,  sia  Egli  conservato  per  lunghi  e 
lunghi  anni  ancora  a  quest'Accademia  di  cui  è  decoro,  e  noi  saremo  lieti  di  salutare 
in  lui  il  saggio  continuatore  dei  nobili  ed  elevati  esempi  di  tanti  suoi  illustri  pre- 
decessori. 

Non  so  se  io  sia  riuscito  a  dire  degnamente  di  Colui  a  cui  era  oggi  dedicata  la 
nostra  ora  di  riunione;  noi  tutti  lo  abbiamo  conosciuto  e  la  sua  figura,  quale  ci 
apparve  per  tanti  anni  al  seggio  presidenziale,  è  ancora  viva  dinanzi  al  nostro  pen- 
siero ;  mandiamogli  il  mesto  saluto  dell'amicizia  e  l'omaggio  che  è  dovuto  a  chi  spese 
nel  lavoro  onesto  la  vita.  La  commemorazione  di  un  defunto  è  sempre  cosa  triste; 
pure,  qualche  dolcezza,  qualche  segreta  luce  di  serenità,  deve  venirci  oggi  dal  pen- 
siero che  chi  lavorò,  non  muore  del  tutto:  e  anche  quando  il  suo  corpo  sia  polvere,  e 
anche  quando  sul  suo  nome  1'  onda  assidua  del  tempo  sia  passata,  qualcosa  di  lui 
rimane,  qualcosa  che  non  può  morire;  ed  è  la  parte,  sia  immensa,  sia  minima,  ch'egli 
ha  avuto  nel  continuo  evolversi  del  progresso  umano. 


(1)  Hoefer,  loc.  cit.,  II,  pag.  210. 

(2)  "  Annuario  della  Soc.  Chini,  di  Milano  „,  1902,  fase.  Vili,  p.  184. 


92  ICILIO    GUARESCHI    COMMEMORAZIONE    DI    ALFONSO    COSSA  14 

E  qui  mi  vengono  alla  mente  le  parole  di  Carlyle,  il  profondo,  smagliante, 
geniale  autore  degli  Eroi:  "  l'uomo  è  nato  per  lavorare,  non  per  godere!...  lavorate 
e  producete;  sia  pure  la  più  misera  ed  infinitesima  frazione  di  un  prodotto,  producete! 
Ogni  genere  di  lavoro,  dal  più  intellettuale  al  più  manuale,  è  sacro,  e  dà  pace  allo 
spirito  umano  „. 

E  noi,  che  al  lavoro  abbiamo  consacrata  la  nostra  vita,  che  al  lavoro  attin- 
giamo la  nostra  forza  e  la  nostra  gioia,  diciamo  addio  al  compagno  che  ha  raggiunto 
il  riposo,  e  proseguiamo  la  nostra  via;  ci  stia  nel  cuore  il  ricordo  amoroso  di  coloro 
che  furono,  ci  sorrida  nell'animo  la  fede  profonda  nell'avvenire. 


CONTRIBUZIONI 


ORNITOLOGIA  DELLE  ISOLE  BEL  GOLFO  DI  GUINEA 


in. 

UCCELLI  DI  ANNO-BOM  E  DI  FERNANDO  PO 

PER 

TOMMASO     SALVADOR! 


Approvata    nell'Adunanza   dell' 8  Marzo    1903. 


UCCELLI   DI   ANNO-BOM 

L'Isola  Anno-Bom,  o  Annobone,  come  è  talora  chiamata  dagl'Inglesi,  fu  scoperta 
nel  1473  dai  Portoghesi,  i  quali  la  chiamarono  col  nome  di  Anno-Bom,  ossia  del 
Capo  d'anno  ;  essa  è  la  più  piccola  e  la  più  lontana  di  quelle  elevate  in  una  serie 
lineare  da  azione  vulcanica  procedente  dai  Monti  Cameron  verso  sud-ovest,  e  s'inalza 
ripidamente  dal  mare  profondo  fino  a  circa  3000  piedi  di  altezza.  Anno-Bom  fu  visi- 
tata dalla  nave  da  guerra  "  Wilberforce  „  durante  la  spedizione  del  Niger,  e  nel 
secondo  volume  della  "  Narrative  of  the  Expedition  „,  pp.  47-66,  se  ne  trova  una 
estesa  descrizione.  Ivi  è  descritta  anche  la  caccia  della  Gallina  di  Faraone. 

Ma  fu  soltanto  nel  1892  cheli  sig.  Francisco  Newton  visitò  l'isola  di  Anno-Bom 
per  ricerche  scientifiche,  trattenendovisi  dal  19  novembre  1892  fino  al  principio  di 
gennaio  del  1893;  le  collezioni  che  egli  vi  fece  furono  inviate  al  Museo  di  Lisbona, 
ove  furono  studiate  dal  Barboza  du  Bocage  ;  la  collezione  ornitologica  comprendeva 
14  specie,  delle  quali  due  nuove  (Terpsiphone  newtoni  e  Zosterops  griseorirescens),  una, 
la  Turtaroena  malherbeì,  comune  anche  alle  isole  del  Principe  e  di  San  Thomé,  le 
altre,  per  la  maggior  parte  acquatiche  e  marine,  aventi  larga  distribuzione  in  Africa. 

Il  sig.  Leonardo  Fea  ha  visitato  recentemente  anche  l'Isola  Anno-Bom,  racco- 
gliendovi 49  esemplari  di  uccelli  appartenenti  ad  8  specie,  due  delle  quali  non  tro- 
vate dal  Newton,  cioè  una  Scops  ed  una  Haplopelia  appartenenti  ambedue  a  specie 
nuove. 

Sono  quindi  16  le  specie  di  uccelli  che  si  conoscono  di  Anno-Bom;  ma  non  è 
improbabile  che  altre  specie,  particolarmente  dell'ordine  dei  Passeres,  e  forse  nuove, 
vivano  nell'interno  dell'isola,  ove  all'altezza  di  220  metri,  circondata  da  alti  picchi, 
esiste  una  laguna,  che  occupa,  a  quanto  sembra,  il  cratere  di  un  vulcano  estinto. 

Ad  ogni  modo,  povera  è  la  fauna  dell'isola,  e  tale  povertà  è  in  accordo  colla 
piccolezza  della  medesima. 


94  .  TOMMASO    SALVADuRI 


Bibliografia  Ornitologica  dell'Isola  Anno-Boni. 


(1893)  Barboza  du  Bocage,  J.  V.,  Note  sur  deux  oiseaux  nouveaux  de  l'Ile  Anno-Bora  (Jorn.  Se.  Lisb.  (2) 

No.  IX,  pp.  17-18)  (Terpsiphone  neivtoni,  Zosterops  griseovirescens). 
(1893)     ,     Mammiferos,  Aves  e  Reptis  da  Ilha  de  Anno-Bom  (ibid.,  Aves,  pp.  44-45). 


1.  Terpsiphone  newtoni,  Boc. 

Terpsiphone  newtoni,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  IX,  pp.  17,  44  (Anno-Bom)  (1893).  —  Dubois, 
Syn.  Av.  (fase.  IV),  p.  281,  n.  3885  (1900).  —  Sharpe,  Hand-List,  III,  p.  265,  n.  22  (1901). 

Bibi,  nome  degli  abitanti  di  Anno-Bom  (F.  Netctun). 

a  (26)  <?  ad.  Laguna,  Anno-Bom,  23  maggio  1902.   "  Becco  e  margine  palpe- 
brale azzurro-cobalto;  piedi  dello  stesso  colore,  ma  più  sbiadito  „  (Feo). 

b  (29)  e  ad.  Monte  Santiago,  300-350  m.  alt.,  Anno-Bom,  31  maggio. 

Questi  due  esemplari  hanno  le  piume  del  corpo  di  color  rugginoso  vivo;  le  piume 
della  testa  di  un  nero  vellutato;  le  due  timoniere  mediane  da  15  a  20  millimetri  più 
lunghe  delle  altre. 

e,  d  (22,28)  <?<?  juv.  Laguna,  22,  30  maggio. 

Simili  ai  due  precedenti,  ma  col  colore  rossigno-rugginoso  meno  vivo,  colle  piume 
della  testa  più  brevi  e  meno  vellutate,  colle  due  timoniere  mediane  meno  lunghe,  e 
colle  piume  nere  della  gola  marginate  di  bruniccio. 

e-h  (23,  24,  25,  27)  ss  Laguna,  24,  27  maggio. 

Le  femmine  differiscono  dai  maschi  per  avere  le  piume  della  testa  più  corte  e 
di  un  nero  meno  intenso  e  meno  vellutato,  le  piume  del  dorso  e  le  cuopritrici  delle 
ali  di  color  rossigno-olivastro  e  le  parti  inferiori  di  color  rugginoso   chiaro. 

L'esemplare  g,  più  giovane  delle  altre  femmine,  ha  la  gola  nero-grigiastra. 

Questa  specie  somiglia  alla  T.  nigriceps,  ma  ne  differisce  principalmente  per  la 
coda  color  plumbeo  e  non  di  color  castagno.  È  un  fatto  singolare  la  somiglianza  di 
questa  specie  colla  T.  nigriceps  di  Fernando  Po  e  non  colla  specie  che  si  trova  nella 
interposta  isola  di  S.  Thomé. 

2.  Zosterops  griseovirescens,  Boc. 

Zosterops  griseovirescens,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  IX,  pp.  18,  44  (Anno-Bom)  (1893).  — 
Shell.,  B.  Afr.,  II,  p.  186  (1900).  —  Finsch,  Das  Tierreich,  Zoster  o  pitia  e,  p.  39  (1901).  — 
Dub.,  Syn.  Av.  (fase.  X),  p.  711,  n.  9189  (1902). 

a-c  (2,  4,  13)  dV  Anno-Bom,  15,  8,  23  aprile. 
d-h  (1,  3,  5,  6,  14)  89  Anno-Bom,  16  aprile-I0  maggio. 
"  Abbondantissima  tanto  nella  foresta,  quanto  nella   parte   diboscata    dell'isola. 
Nome  indigeno  Bicili  „   (Fea). 

Le  femmine  sono  simili  ai  maschi. 


3  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  95 

Supra  olivacea,  sincipite  et  supracaudalibus  vix  laetioribus;  annulo  periophthalmico 
niveo;  loris  et  taenia  suboculari  nigris;  gula  et  collo  antico  albis;  gula  interdum  vix 
flavido-tincta  ;  pectore  et  lateribus  paullum  fuscescentibus ;  subcaitdalibus  flavidis;  remigibus 
fuscis  exterius  olivaceo-,  intus  albo-limbatis  ;  rectricibus  fuscis,  olivaceo  limbatis;  rostro 
fusco;  pedibus  fusco-corneis;  iride  brunnea  (F.  Newton).  —  Long.  tot.  irai.  125;  alt.  60; 
caud.  45;  rostri  culm.  12;  tarsi  22. 

Questa  specie  è  notevolmente  diversa  dalle  altre  due  delle  isole  del  Golfo  di 
Guinea,  cioè  dalla  Z.  ficedulina  dell'Isola  del  Principe  e  dalla  Z.  feae  di  S.  Thomé, 
dalle  quali  si  distingue  facilmente  per  le  dimensioni  maggiori,  per  le  parti  inferiori 
bianchiccie  e  non  giallognole,  e  per  le  parti  superiori  meno  verdi  e  più  olivacee. 

3.  Coccystes  glandarius  (L). 

Oxylophus  glandarius,  Boc,  Jorn.  Soc.  Lisb.  (2),  III,  p.  44  (Anno-Bom)  (1893). 

4.  Milvus  aegyptius  (Gm.). 
Milvus  aegyptius,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  III,  p.  44  (Anno-Boni)  (1893). 

5.  Scops  feae,  nov.  sp. 

Scops  S.  capensi  similis,  sed  coloribus  saturatioribus,  lineis  nigris  in  medio  plu- 
marum  gastraei  latioribus,  ac  praesertim  maculis  seu  fasciis  pallidis  in  pogonio  interno 
remigum  tninus  distinctis,  basin  versus  evanescentibus.  Long.  tot.  circa  mm.  170; 
alae  120-125;  caud.  62;  tarsi  24. 

a  (2)  s  Anno-Bom,  12  aprile  1902. 
"  Iride    color    paglierino    verdognolo    chiaro.    Questo    uccello    abita   nelle   parti 
boscose  dell'isola;  dal  forte  puzzo  di  acido  urico  che  esso  tramanda   supposi   che  si 
nutrisse  di  animali  marini;  invece  lo  stomaco  non  conteneva  che  frammenti  d'insetti 
e  ragni.  Nome  indigeno  Cucù  „  (Feo). 

b,  e  (8,  9)  ,?<}  Anno-Bom,  20  aprile  1902. 

d  (10)  d"  Anno-Bom,  24  aprile  1902. 

e   (11  )  cT  Anno-Bom,  1°  maggio  1902. 

f  (12)  s  .Anno-Bom,  21  maggio  1902. 
"  Rinvenni  questo  uccello  abbondante  in  piena  foresta  fra  i  400  e  i  500  metri 
d'altitudine.  La  sua  voce  ricorda  quella  del  nostro  Gufo  (o  Chili?),  ma  invece  di  una 
sola  nota  risulta  di  un  lieve  trillo,  molto  simile  a  quello   della  Strix  thotnensis,  ma 
d'un  tono  alquanto  più  alto.  Odesi  cantare  anche  di  giorno  „   (Feo). 

Ho  potuto  confrontare  gli  esemplari  suddetti  con  due  della  Scops  capensis,  l'uno 
del  Paese  dei  Niam-Niam  (Piaggia)  e  l'altro  dei  Bogos  (Antinorì);  tanto  gli  uni,  quanto 
gli  altri  hanno  i  tarsi  interamente  rivestiti  di  piume  e  le  dita  nude;  il  principale 
carattere  che  distingue  la  specie  di  Anno-Bom  è  nelle  remiganti,  che  nella  S.  capensis 
hanno  il  vessillo  interno  con  fascie  bianche  fino  alla  base,  laddove  nella  nuova  specie 
quelle  fascie,  non  bianche,  ma  grigiastre,  sono  poco  distinte  verso  l'apice  ed  evane- 
scenti alla  base. 


96  TOMMASO    SALVADOR]  4 

Sembrandomi  opportuno  di  confrontare  questa  specie  col  tipo  della  Scops  hen- 
dersoni  Cass.  (Pr.  Philad.  Acad.,  1852,  p.  186)  di  Angola,  ho  inviato  l'esemplare  e  a 
Mr.  Nelson,  conservatore  de]  Museo  di  Filadefia,  ove  quell'esemplare,  tuttora  unico, 
si  conserva.  Esso  fu  preso  in  mare  di  faccia  a  Novo  Redondo  (Angola),  e  non  è  stato 
mai  identificato.  La  descrizione  del  Cassili  corrisponde  abbastanza  bene  cogli  esemplari 
di  Anno-Bom,  ma  la  grande  distanza  di  questa  isola  da  Angola  non  mi  faceva  credere 
possibile  l'identificazione  degli  esemplari  di  Anno-Bom  colla  specie  del  Cassin.  Ed 
invero  il  Nelson  mi  scrive  di  "  avere  diligentemente  ■  confrontato  l'esemplare  da  me 
inviato  col  tipo  de\Y  Ephialtes  hendersoni,  e  di  aver  constatato  che  esso  è  affatto 
distinto.  L'È.  hendersoni,  scrive  il  Nelson,  è  molto  più  chiaro  e  più  grigio;  ha  la 
macchiettatura  molto  più  fina,  le  parti  superiori  molto  meno  macchiate  di  nero  e  di 
bruno  e  le  macchie  bianche  tanto  sulle  parti  superiori,  quanto  sulle  infei'iori  in  minor 
numero  e  rese  più  oscure  da  vermicolazioni  grigie.  I  due  uccelli  sono  tanto  differenti 
nel  colorito  generale  che  si  possono  facilmente  distinguere  a  distanza  ... 


6.  Turturoena  inalherbei  (Verr.). 

Turturoena  malherbii,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  IX,  p.  44  (Anno-Bom)  1893). 

a.  b  (17,  18)  fj  Anno-Boni,  20.  27  aprile. 
e  (19)  <?   Anno-Bom,  3  maggio. 
Simili  in  tutto  agli  esemplari  di  S.  Thomé  e  dell'isola  del  Principe. 
"  Molto  comune  in  piena  foresta  fra  i  400  ed  i  500  m.  Il  suo  canto  gutturale, 
di  una  monotonia   fastidiosa,  odesi    quasi  incessantemente   dall'aurora    al   tramonto. 
Nome  indigeno:  Loia  esalibavan  „   (Feo). 


7.  Haplopelia  hypoleuca,  nov.  sp. 

<?  ad.  Fronte  alba,  sensim  in  colorem  cinereum  occipitis  transeunte;  collo  postico 
et  interscapulio  cinerei*,  marginibus  plumarum  viridi,  rei  amethystino  nitentibus;  dorso, 
uropygio,  tectricibus  alarum  et  supracaudalibus  mediis  fusco-cinereis  ;  gula  alba;  collo 
antico  et  laterali  griseo-margaritaceis,  prò  adjectu  lucis  viridi  nitentibus;  gastraeo  medio 
et  subcaudalibus  albis;  lateribus  cinereis;  tectricibus  alarum  majoribus,  supracaudalibus 
lateralibus  et  rectricibus  mediis  cinereo- plumbeis ,  rectricibus  reliquis  saprà  cinereo- 
plumbeis,  apice  pallide  cinereis  ;  cauda  subtus  nigra,  fascia  lata  apicali  albo-grisea;  remi- 
gibus  fusco-griseis;  subalaribus  plumbeis;  rostro  nigro;  pedibus  in  exuvie  fuscis.  Long, 
tot.  circa  mm.  290;  al.  150;  caud.  92;  rostri  culm.  12;  tarsi  30. 
a  (20)  tf  ad.  Anno-Bom,  14  aprile. 

"  Sembra  rara.  Nome  indigeno:  Lola  san-sàn  „   (Fea). 

L'esemplare  descritto  è  un  maschio  adulto  in  abito  perfetto. 

Questa  nuova  specie  è  affatto  diversa  tanto  dalla  Haplopelia  principalis,  quanto 
dalla  H.  simplex.  Della  prima  ho  potuto  esaminare  quattro  esemplari,  adulti  e  giovani, 
e  della  seconda  due,  uno  dei  quali  perfettamente  adulto,  inviatomi  per  esame  dal 
Prof.  Barboza  du  Bocage.  Le  tre  specie  a  me  note  del  genere  Haplopelia  (non  conosco 


5  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  97 

l'IT,  poensis  recentemente  descritta)  abitanti  nelle  isole  del  golfo  di   Guinea,  si  pos- 
sono distinguere  ai  seguenti  caratteri: 

a)  Dorso  alisque  brunneis H.  simplex 

(S.  Thomé) 

b)  Dorso  alisque  cinereo-fuscis: 

b')  Gutture  pectoreque  plus  minusve  vinaceo  tinctis         .      H.  principalis 

(Insula  Principia) 
e')  Gutture  pectoreque  cinereo-margaritaceis  ;  abdomine  et 

subcaudalibus  pure  albis R.  hypoleuca 

(Anno-Bom) 

S.  Numida  meleagris,  L. 

Guinea-fowl,  Alien  and  Thoms,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  60  (Anno-Boni)  (1848). 
Numida  meleagris,  Hartl.,  Orn.  W.  Afr.  p.  199  (Ins.  Anno-Bom,    Thomson)  (1857).  —  Boc, 
Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  IX,  p.  44  (Anno-Bom,  F.  X.  wton)  (1893). 

a  (21)  <?  Anuo-Bom. 
"Non  pare  rara.  Nome  indigeno:  Gagrìì  ghiné  „   fi- 
Li' esemplare  suddetto,  al  tutto  adulto,  ha  l'elmo  poco  elevato,  le  piume  del  col- 
lare alla  base  del  collo  grigio-lilla,  le  caruncole  rosse  e  mediocri,  e  non  mi  sembra 
diverso  dagli  esemplari  tipici  della  specie,  sebbene  non  abbia  potuto  confrontarlo  con 
alcuno  di  questi. 

9.  Numenius  phaeopus  (L.). 

Numenius  phaeopus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  III,  p.  44  (Ilheo-Tortuga)  (1893). 

10.  Gallinula  chloropus  (L.). 

Gallinula  chloropus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  III,  p.  44  (Anno-Boni)  (1893). 

Ho  qualche  dubbio  che  la  Gallinula  di  Anno-Bom  non  sia  la  G.  chloropus,  ma 
la  G.  (iugulata. 

11.  Butorides  atricapillus  (Afzel.). 
Butorides  atricapillus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  III,  p.  44  (Anno-Boni)  (1893). 

12.  Anous  stolidus  (L.). 

Anous  stolidus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  III,  p.  45  (Ilheo-Tortuga)  (1893). 
a  (16)  2  jun.  Anno-Bom,  17  aprile  1902. 

"  Vive  promiscuamente  colla  specie  seguente,  ma  è  meno  abbondante  „  (Fea). 

L'esemplare  non  è  adulto  ;  esso  non  ha  il  pileo  di  color  grigio  perla  che  sfuma 
nel  bruno  delle  parti  superiori  ;  il  vertice  e  l'occipite  sono  di  color  bruno-fuligginoso 
come  il  dorso,  soltanto  la  fronte  è  bianchiccia,  ed  i  sopraccigli  sono  di  un  bianco  puro. 

13.  Micranous  leucocapillus  (Gould). 
Anous  leucocapillus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  III,  p.  45  (Ilheo-Tortuga)  (1893). 
a  (15)  2  ad.  Anno-Bom,  17  aprile  1902. 
"  Abbondantissimo  nelle  parti  rocciose  meno  accessibili  della  costa  dell'isola  „  (Fea). 

Serie  II.  Tom.  LUI.  m 


98  TOMMASO    SALVADORI  6 

Non  trovo  esatta  la  descrizione  che  di  questa  specie  dà  il  Saunders  (Cai.  B., 
XXV,  p.  1-46),  il  quale  menziona  le  gote  di  color  plumbeo  cupo,  o  nero  fuligginoso, 
laddove  nell'esemplare  soprannoverato  le  gote  sono  di  color  nero  cupo,  come  le  redini. 

14.  Phaeton  lepturus,  Lacép.  et  Daud. 

Lepturus  candidus,  Briss.  —  Boc.,  Joru.  Se.  Lisb.  (2),  III.  p.  45  (Pico  Bstephania)  (1893). 

15.  Sula  leucogastra  (Bodd.). 

Sula  fiber,  Boc.  (nec  Linn.),  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  III,  p.  45  (Ilheo-Tortuga)  (1893). 

16.  Puffinus  griseus  (Um.i. 

Puffinus  griseus,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  III,  p.  45  (Anno-Bom)  (1893). 

Il  Barboza  du  Bocage  menziona  un  maschio  adulto  preso  dai  pescatori  in  mare 
presso  la  costa  di  Anno-Bom. 


UCCELLI    DI    FERNANDO    PO 


L'Isola  Fernando  Po  è  la  maggiore  di  quelle  del  golfo  di  Guinea  ed  è  la  più 
vicina  alla  costa,  dalla  quale  è  separata  da  un  breve  stretto;  essa  è  molto  vicina 
al  Camerun  ed  è  situata  fra  il  3°  ed  il  4°  grado  di  latitudine  a  Nord  dell'Equatore. 

Fernando  Po  fu  visitata  ed  esplorata  specialmente  pel  rispetto  faunistico  durante 
la  spedizione  del  Niger,  e  Louis  Fraser,  che  accompagnò  quella  spedizione  nella 
qualità  di  Naturalista,  vi  fece  numerose  collezioni.  Nella  narrativa  di  quella  spedi- 
zione, pubblicata  dagli  autori  Alien  e  Thomson,  si  trovano  numerose  notizie  intorno 
agli  uccelli  raccolti.  Il  primo  uccello  cohosciuto  di  Fernando  Po  fu  raccolto  dall'Alien 
e  descritto  dal  Gould  (  VaneUus  albiceps). 

Poscia  il  Fraser,  lo  Strickland,  il  Thomson  ed  il  .lardine,  fra  il  1839  ed  il  1851 
pubblicarono  numerosi  lavori  frammentari  intorno  agli  uccelli  di  Fernando  Po. 

L'Hartlaub  nel  suo  lavoro  intitolato:  Beitrag  zur  Ornithologie  Westafrica's,  pub- 
blicato nel  1850,  e  ripubblicato  identico  nel  1852,  annoverò  gli  uccelli  conosciuti  fino 
ad  allora  dell'Africa  occidentale,  includendovi  naturalmente  anche  quelli  di  Fernando 
Po.  Più  tardi,  negli  anni  1853  e  1854,  lo  stesso  Hartlaub,  in  un  altro  lavoro  con- 
genere, annoverò  circa  45  specie  di  Fernando  Po,  e  più  tardi  ancora,  nel  1857,  nel- 
l'opera System  der  Ornithologie  Westafrica's  faceva  salire  il  numero  delle  specie  di  uccelli 
dell'isola  predetta  a  54,  dandone  una  lista  separata  nella  Introduzione  a  detta  opera. 

Da  quell'epoca  fino  al  1895  furono  aggiunte  soltanto  altre  due  specie  di  Fer- 
nando Po,  una  che  fu  denominata  dal  Gray,  ma  descritta  dall'Hartlaub  (Onycognaihus 
hartlaubi)  e  l'altra  (Andropadus  virens)  menzionata  dallo  Sharpe  (Cat.  B.  VI,  p.  111). 

Finalmente  nell'anno  1895  il  Barboza  du  Bocage  pubblicò  un  lavoro  intitolato: 
Subsidios  para  a  Fauna  da  Ilha  de  Fermio  do  Po,  nel  quale  egli  illustri'  una  collezione 


7  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  99 

di  uccelli  fatta  nell'isola  suddetta  dal  sig.  F.  Newton,  comprendente  26  specie,  oltre 
a  17  che  il  raccoglitore  aveva  soltanto  osservato;  di  esse  circa  21  erano  nuove  per 
l'isola  e  perciò  la  collezione  del  Newton  costituì  una  notevole  contribuzione  alla  orni- 
tologia di  Fernando  Po. 

Io  nutriva  viva  speranza  che  il  sig.  Leonardo  Fea,  recandosi  in  Fernando  Po, 
avrebbe  potuto  farvi  una  importante  collezione,  tanto  più  desiderata,  essendo  gli 
esemplari  di  quell'isola  rarissimi  nei  Musei.  Disgraziatamente  il  Fea  nulla  potè  fare 
per  gli  uccelli  in  Fernando  Po,  donde  ha  inviato  soltanto  due  esemplari  di  Xylobvcco 
scolopact  us. 

Invece  il  Capitano  Boyd  Alexander,  recatosi  nell'Isola  di  Fernando  Po,  nel  no- 
vembre e  nel  dicembre  del  1902,  nello  spazio  di  forse  meno  di  due  mesi,  vi  fece,  a 
quanto  pare,  una  estesa  collezione,  comprendente  ben  36  specie  nuove,  che  egli  ha 
recentemente  descritte  (*)  (Bull.  Brit.  Orn,  Club.,  XIII,  pp.  33-38,  48-49),  alcune  delle 
quali  raccolte  a  più  di  10  mila  piedi  di  altezza,  cosicché  dobbiamo  credere  che  gli 
altri  esploratori  precedenti  non  si  siano  internati,  ma  si  siano  limitati  a  raccogliere 
lungo  la  costa. 

A  giudicare  dalle  specie  note  precedentemente,  pareva  che  nessuna  fosse  propria 
dell'isola,  per  la  quale  cosa  poteva  sembrare  che  essa  non  avesse  una  avifauna  con 
forme  proprie,  forse  per  la  grande  vicinanza  al  continente;  invece,  giudicando  dalla 
collezione  dell'Alexander,  dobbiamo  venire  ad  opposta  conclusione. 

Non  avendo  il  Fea  fatto  alcuna  collezione  di  uccelli  di  Fernando  Po,  a  comple- 
tare il  mio  studio,  intorno  alla  ornitologia  delle  Isole  del  Golfo  di  Guinea,  ho  dovuto 
contentarmi,  per  gli  uccelli  di  Fernando  Po,  di  investigare  quali  e  quante  specie  vi 
siano  state  trovate  da  altri,  il  quale  studio  non  era  senza  interesse,  tanto  più  che 
non  esiste  alcun  catalogo  recente  degli  uccelli  di  Fernando  Po,  quello  dell'Hartlaub 
rimontando  al  1857. 

Dalle  mie  ricerche  è  apparso  che  80  circa  sono  le  specie  di  uccelli  di  Fernando 
Po  conosciute  prima  del  viaggio  dell'Alexander  ed,  aggiungendovi  quelle  che  questi 
vi  ha  recentemente  scoperte,  si  ha  un  totale  di  118  specie. 

Tre  generi  sono  finora  confinati  nell'isola,  creati  dallo  stesso  Boyd  Alexander 
(Urolais,  Poliolais  e  Nesocharis),  ma  i  tipi  dei  medesimi  non  sono  forme  molto  diverse 
da  altre  già  note  del  continente  Africano. 

In  complesso,  ad  onta  del  numero  grande  di  nuove  specie  recentemente  descritte, 
l'avifauna  di  Fernando  Po  non  ha  carattere  spiccatamente  proprio,  ma  decisamente 
continentale,  nessuna  forma  molto  distinta  trovandosi  nell'isola. 


(*)  Altre  due  specie  sodo  state  descritte  dall'Alexander  durante  la  stampa  del  presente  lavoro. 


100  TOMMASO    SALTADORI 


Bibliografia  Ornitologica  dell'Isola  Fernando  Po. 


(1834)  Gould,  J.,  Character  of  a  New  Species  of  Piover  ( Vanellus,  Linn.)  collected  by  Lieut.  Alien  in 

Western  Africa  (P.  Z.  S.  1834,  p.  45)  {Vanellus  albieeps,  p.  45). 
(1839)  Fraser,  L.,  On  a  New  Species  of  Corythaix  (P  Z.  S.  1839,  p.  34)  (C.  macrorhyncha). 

(1841)  Strickland,  H.,  On  some  New  Genera  of  Birds  (P.  Z.  S.  1841,  pp.  27-33)  (Aethiops  canicapillus, 

p.  30,  Fernando  Po). 

(1842)  Jardine,  W.,  Description  of  some  Birds  collected  during    the    last    Expedition    to  the   Niger 

{Ann.  Nat.  Hist.  X,  pp.  186-190)  (Nectarinia  stangeri,  p.  187,  Nectarinia  chloropygia,  p.  188). 
(1842)  Fraser,  L.,  On  some  New   Species  of  Birds  from  Fernando  Po  (P.  Z.  S.  1842,  pp.  141-142.  — 

Ann.  Nat.  Eist.  XII,  pp.  131-132,  1843)  {Flatysteira  castanea,  p.  141;  Platysteira  leucopygialis, 

p.  142  ;  Euplectes  rufovelatus,  p.  142). 
(1842)     „     On  New  Species  of  Birds  collected  in  the  Niger  Expedition  (P.  Z.  S.  1842,  pp.  144-145. 

—  Ann.  Nat.  Hi.<t.   XII.    pp.    133-134)  {Sylvia   badiceps,    p.  144;   Coccothraustes   olivacetts, 

p.  144;  Nigrifa  fusconotus,  p.  145;  Amadina  poensis,  p.  145,  Fernando  Po). 

(1842)  „     On  two  New  Species  of  Birds  from  Western  Africa,   belonging  to  the  Genera  Strix  and 

Pitta  (P.  Z.  S.  1842,  pp.  189-190.  —  Ann.  Nat.  Hist.  XII,  p.  366-367)  (Strix  poensis,  p.  189). 

(1843)  „     On  some  New  Species  of  Birds  from  Fernando  Po  (P.  Z.  S.  1843,  pp.  3-5.  —  Ann.  Nat. 

Hist.,  XII,  pp.  440-442    (Sylvicola  stiperciliaris,  p.  3;   Bacco  siibsulphureus,  p.  3;  Muscipeta 

tricolor,  p.  4;  Halcyon  leucogaster,  p.  4). 
(1843)     ,     On  eight  New  Species  of  Birds  from  Western   Africa  IP.  Z.  S.  1843,  pp.  16-17).  —  Ann. 

Nat.  hist.  XII,  pp.  478-479)  (Drymoica  rufogularis,  p.  17,  Fernando  Po). 
(1843)     „     On  Orycetomis  Gambianus  and  various  Species  of  Birds  from  Western  Africa  (P.  Z.  S.  1843, 

pp.  51-53)  (Ispida  bicincta  Sw.,  p.  51,  Ploceus  textor,  p.  51;  Ploceus  brackypterus  Sw.,  p.  52; 

Lamprotornis    chrysonotis    Sw.,  p.  52;  Cuculus   rubiculus    Sw.,  p.  52;    Zanclostomus   flavi- 

rostri.*,  p.  52;   Peristera  tympanistria,  Temm.,  p.  53,  Fernando  Po). 
(1843)  .Tardine,  W.,  Naturalista  Library  —  Sun-Birds  (Necfarinia  obscura,  p.  253,  Fernando  Po). 

(1843)  Jardine,  W.  and  Selby,  P.  J.,  Illustrations  of  Ornithology  (Anthreptes  fraseri,  pi.  52). 

(1844)  Stricklaxd.  H.  E.,    Descriptions    of   some    New  Species    of  Birds  brought  by    Mr.  L.    Fraser 

(P.  Z.  S.  1844,  pp.  99-102).  —  Ann.  Nat.  Hist.  XV,  pp.  125-129)  (Acanthylis  bicolor  (Gray), 
p.  99;  Priniii  olivacea,  p.  99;  Prinia  icterica,  p.  100  (=  Sylvicola  superciliaris,  Fras.), 
Cossypha  poensis.  p.  100:  Andropadus  latirostris,  p.  100;  Andropadus  gracilirostris,  p.  101; 
Muscicapa  fraseri.  p.  101:   Tephrodornis  ochreatus,  p.  102,  Fernando  Po). 

(1848)  Allen  and    Thomson,  Narrative  Exped.  Niger.  II,  pp.  221-222  (Ornithology),  Appendix,  Aves, 

pp.  488-508  (Scizorhis  (sic)  gigantea,  pp.  221,  504,  Corvus  leuconotus ,  Zanclostomus  fiavi- 
rostris,  Ohalcites  auratus,  Malaconotus  chrysogaster,  Lamprotornis  ptilonorhynchus,  L.  chry- 
sonotis, Oinnyris  chloronax  chàlybeia,  Nectarinia  chloropygia,  Cinnyris  stangeri, 
p.  221,  Fernando  Po). 

(1849)  Fraser,  L.,  Zoologia  Typica  (sono  figurate  in  questa  opera  quasi  tutte  le  specie  di  Fernando 

Fo  descritte  dall'autore). 

(1850)  Bonaparte,  C.  L.,  Conspectus  Generum  Avium,  I.  (Tricophorus  poliocephalus,  p.  262,  Afr.  Oca). 

(1850)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Beitrag  zur  Ornithologie  Westafrica's (Verz.  <ler  offentlichen  und  Privat-Vor- 

lesungen,  welche  am  Hamburgischen  akademiscken  G-ymnasium  u.  s.  w.  géhalten  verden. 
Herausgegeben'  voti  K.  W.  M.  Wiebel).  Hamburg,  1850,  pp.  1-47. 

Sono  annoverate  in  questo  lavoro  quasi  tutte  le  specie  di  Fernando  Po,  descritte  pre- 
cedentemente dai  diversi  autori. 

(1851)  Jardine  (and  Fkaser?),  Birds  of  Western  Africa  —  Collections  of  L.  Fraser  (Contr.  Orn.  1851, 

pp.  151-156)  (Nectarinia  hypodilus,  p.  153;  N.  cyanolaemus,  p.  154;  N.  tephrolaemus,  p.  154; 
Psittaculapullaria,-p.  155;  Bucco  stellatus,  p.  155;  Estrelda  occidentalis,  p.  156,  Fernando  Po). 

(1852)  Hartlaub,  Dr.  G.,  Beitrag  zur  Ornithologie  Westafrica's  (Abh.  Natane.  Ver.  Hamb.,  II,  2,  pp.  1-47). 

Ristampa  del  lavoro  sopracitato,  pubblicato  dal  Wiebel. 

(1853)  Fraser,  L.,  Descriptions  of  Two  new  Birds  from  Fernando  Po  (P  Z.  S.  \<^,  pp.  13-14)  (Bttbo 

poensis,  p.  13;   Buceros  poensis,  p.  li). 


9         CONTRIBUZIONI  ALLA  ORNITOLOGIA  DELLE  ISOLE  DEL  GOLFO  DI  GUINEA      101 

(1853-1854)  Hartlaub,  Dr.  Gr.,  Versuch  einer  synoptischen  Ornithologie  Westafrica's  (Joum.  f.  Orn.  1853, 

pp.  385-400)  (Gypohierax  angolensis,  p.  388,  Fernando  Po),  (Joum.  f.  Ora.  1854,  pp.  1-32, 

97-128,  193-218,  289-308). 

In   questo   lavoro    sono    annoverate    circa  45  specie  di   Fernando  Po,  una    delle   quali, 

VAnthus  gonidi,  a  quanto  pare,  per  errore. 
(1855)     „     Beschreibung  einiger  neuen  [— ]  Vogelarten  (Joum.  f.  Orn.  1855,    pp.    353-360)   (Tricho- 

phorus  poliocephalus,  Temm.,  p.  358,  Fernando  Po). 

(1857)  „     System  der  Ornithologie  Westafrica's. 

Nella  Introduzione  a  questa  opera,  che  comprende  tutte  le  specie  conosciute  dell'Africa 
occidentale,  havvi  una  lista  nella  quale  sono  annoverate  54  specie  di  uccelli  di  Fernando 
Po,  già  menzionate  in  precedenti  lavori  e  due  per  la  prima  volta:  Cypselus  ambrosiacus, 
p.  24,  Numida  rendali!,  Introduzione. 

(1858)  ,     On  New  Species  of  Birds  from  Western  Africa  in  the  Collection  of  the  British  Museum 

(P.  Z.  S.  1858,  pp.  291-293)  (Onycognatìvts  hartlaiibi,  G.  R.  Gr.  Ms.  p.  291,  Fernando  Po). 

(1881)  Sharpe,  R.  B.,  Catalogue  of  the  Birds  in  the  British  Museum,  voi.  VI,  p.  Ili  (Andropadus  virens). 

(1895)  Barboza  mi  Bocage,  J.  V.,  Subsidios  para  a  Fauna  da  Ilha  de  Fernào  do  P<5  (Jom.  Se.  Lisb.  (2) 
No.  XIII,  Aves,  pp.  7-11). 

In  questo  lavoro  sono  annoverate  26  specie  di  uccelli  di  Fernando  Po  raccolte  dal 
Sr.  F.  Newton,  ed  altre  17  da  lui  osservate,  e  di  esse  erano  nuove  per  l'isola  le  seguenti: 
Eurystomits  gularis,  Cinnyris  oriti*  (!),  Xenocickla  albigularis,  Alethe  castana).  Stiphrornis 
gabonensis,  Turdinns  sp.,  Nigrita  luteifrons,  Melanopteryx  nigerrima,  Actitis  hyp 
Psittacus  erithacus,  Corythaix  erythrolopkus  (?),  Chrysococcyx  smaragdineus,  Treron  coìrà. 
Butorides  atricapillus,  Ardea  gularis,  Bubulcus  ibis,  Numenius  phaeopus,  Sterna  sp.,  Leji- 
turus  candidus,  Siila  fiber,  Anous  stolidus. 

(1903)  Alexander,  Boyd,  Description  of  New  Species  of  Birds  from  the  Island  of  Fernando  Po  (Bull. 
Br.  Orn.  Club,  XIII,  pp.  33-38;  48-49)  (*). 

1.  Haplopelia  poensis  —  2.  Halcyon  lopezi  —  3.  Oypselus  poensis  — 4.  Heterotrogon  fran- 
cisri  —  5.  Merops  marionis  —  6.  Indicato)-  poensis  —  7.  Campothera  poensis  —  8.  Psali- 
doprocne  poensis  —  9.  Lioptilus  claudei  —  10.  Diaphorophyia  chlorophrys  —  11.  Batis 
poensis  —  12.  Smitìtornis  sharpei  —  13.  Cryptolopha  herberti  —  14.  Phyllostrophus poensis 

—  15.  Stélgidillas  poensis  —  16.  Urolais  marine  —  17.  Apalis  lopezi  —  18.  Euprinodes 
selateri  —  19.  Poliolais  eleonorae  —  20.  Camaroptera  oranti  —  21.  Macrosphenus  poensis 

—  22.  Hylia  poensis  —  23.  Alethe  tnoori  —  24.  Cattane  roberti  —  25.  Caltene  poensis  — 
26.  Turdus  poensis  —  27.  Calamocichla  poensis  —  28.  Dryoscopus  poensis  —  29.  Cyano- 
mitra  poensis  —  30.  Cyanomitra  ursulae  —  31.  Cryptospiza  élizae  —  32.  Sycobrotus  poensis 

—  33.  Nesocharis  shelleyi  —  34.  Phlexis  lopezi  —  35.  Lamprocolius  chubbi  —  36.  Astur  lopezi. 
(1903)  Salvadori,  T.,  Caratteri  di  due  nuove  specie  di  uccelli  di  Fernando  Po  (Boll.  Mas.  Tot:  No.  442, 

p.  1)  (Speirops  brunnea,  Turdinus  bocagei). 


1.  Psalidoprocne  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  34  (Bakaki)  (1003). 

<f  Similis  P.  fuligrinosae,  Shelley,  sed  gutture  et  pntepectore  dilutius  fuliginosis, 
potius  cinerascentibus,  et  subalaribus  pallidioribus ,  cineraceo-brunneis,  liana  fuliginosis. 
Long.  tot.  circa  5,6  poli.,  culm.  0,41,  alae  4,35,  caud.  3.5.  tarsi  0,45. 

2.  Diaphorophyia  leucopygialis  (Fras.). 

Platysteira  castanea,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  141  (Clarence,  Fernando  Po).  —  id.,  Zool. 
Typ.,  pi.  34,  fig.  inf.  (s)  (1849).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  24,  n.  169  (Fernando  Po, 
Fraser)  (1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  24  (1852). 


(*)  Durante  la  stampa  del  presente  lavoro,  il  Boyd  Alexander  ha  pubblicato  la  descrizione  di 
altre  due  specie  di  Fernando  Po  :  Estrilda  elizae  e  Melanopteryx  maxicelli  (Bull.  B.  O.  C.  XIII,  p.  53, 
March  30'h,  1903). 


102  TOMMASO    SALVADOBI  10 

Platysteira  leucopygialis,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  142  (Clarence,  Fernando  Po)  (tf).  —  id, 
Zool.  Typ.,  pi.  34,  fig.  sup.  (/)  (1849).  —  Hartl.,  Beitr.  Ora.  Westafr.,  p.  25,  n.  170 
(1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  25  (1852).  —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  27.  —  id., 
Ora.  Westafr.,  p.  95(1857). 

Diapharophyia  castanea,  Sharpe,  Cat.  B.,  IV,  p.  140  (specim.  a,  b,  Clarence,  Fernando  Po, 
Fraser)  (1879). 

Diapharophyia  leucopygialis,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  8  (Natividad  e  Bas- 
silé)  (1895). 

3.  Diaphorophyia  chlorophrys,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  34  (Bakaki)  (1903). 

d"  Nitente  vìridi-nigra ;  pectore  et  abdomine  flavis,  palpebra  nuda  pallida,  viridi. 
Long.  tot.  circa  3,9  poli.,  culm.  0,55,  alae  2,1,  caudae  0,9,  tarsi  0,8. 

4.  Batis  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  34  (Bakaki)  (1903). 

<f  Similis  B.  minutine,  sed  pileo  nigro,  minime  scliistaceo,  et  torque  praepectorali 
nigro  angustiore  distinguenda.  Long.  tot.  circa  3,6  poli.,  culm.  0,4,  alae  2,2,  caud.  1,4, 
tarsi  0,5. 

2  Similis  2  B.  minutine,  sed  torque  praepectorali  rufo  angustiore  distinguenda. 
Long.  tot.  circa  3,5  poli.,  culm.  0,4,  alae  2,0,  caudae  1,3,  tarsi  0,5. 

5.  Terpsiphone  tricolor  (Fraser). 

Muscipeta  (Tchitrea)  tricolor,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  4  (Clarence,  Fernando  Po).  —  id., 

Ann.  N.  H.,  XII,  p.  441  (1843) 
Muscipeta  tricolor,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Esped.  Niger,  II,  p.  492  (1848).—  Hartl.,  Beitr. 

Ora.  Westafr.,  p.   25,  n.  175  (1850).  —  id,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  25  (1852). 

—  id,  J.  f.  O,  1854,  p.  28. 

Tchitrea  tricolor,  Hartl,  Orn.  Westafr,  p.  90  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Terpsiphone  tricolor,  Sharpe,  Cat.  B,  IV,  p.  359  (specim.  a,  Clarence,  Fernando  Po,  Fraser). 

—  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  8  (Bassapó)  (1895). 

6.  Terpsiphone  atrochalybea  (Thoms.)  (?). 

Muscipeta  atrochalybea,  Thoms,  Ann.  Nat.  Hist,  X,  p.  104  (1842).  —  Hartl,  Beitr.  Orn. 
Westafr,  pp.  25,  n.  174  (Fernando  Po,  Fraser:  St.  Thomé,  Mus.  Hamburg)  (1850).  —  id, 
Contr.  Orn,  1851,  p.  132.  —  id,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb,  II,  p.  25  (1852).  —  id,  J.  f.  O. 
1854,  p.  29.  —  id,  Orn.  Westafr,  p.  92  (1857). 

Tchitrea  atrochalybea,  Alien  and  Thoms,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  494  (Fernando  Po)  (1848). 

Terpsiphone  atrochalybea,  Sharpe,  Cat.  B,  IV,  p.  362  (specim.  a,  Fernando  Po,  Thom- 
son) (1879). 

La  presenza  di  questa  specie  in  Fernando  non  è  sicura,  giacché,  secondo  quanto 
mi  hanno  scritto  il  collega  W.  R.  Grant  del  Museo  Britannico  ed  il  Boyd  Alexander, 
questi  non  ve  l'avrebbe  trovata,  e  quindi  non  è  improbabile  che  l'esemplare  tipico, 
che  è  il  solo  che  si  credeva  di  Fernando  Po,  provenga  invece  dall'Isola  di  S.  Thomé. 

Aggiungo  che  trovandosi  questa  specie  in  S.  Thomé,  e  non  nell'Isola  del  Prin- 
cipe, che  è  frapposta  fra  S.  Thomé  e  Fernando  Po,  la  sua  presenza  nell'ultima  isola 
riescirebbe  quasi  inesplicabile. 


11  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  103 


7.  Smithornis  sharpei,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C.  XIII,  p.  34  (Mount  St.  Ysabel,  4000  piedi)  (1903). 

s  Pileo  cinereo;  notaeo  reliaùo  rufescenti-brimneo,  absque  nigredine,  vel  albedine,  in- 
signis;  gutture  et  abdomine  flavicanti-albis;  genis  et  praepectore  laterali  aurantiaco-rufis ; 
gulae  et  pectoris  lateribus  nigro  striolatis.  Long.  tot.  circa  6,0  poli.,  culm.  0,7,  alae  3,1, 
caudae  1,8,  tarsi  0,85. 

8.  Cryptolopha  herberti,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  35  (Bakaki)  (1903). 

2  Similis  C.  laetae,  Sharpe,  et  supercilio,  facie  laterali  et  gutture  toto  rufescen- 
tibus,  sed  pileo  nigro  facile  disiinguenda.  Long.  tot.  circa  3,5  poli.,  culm.  0,5,  alae  1,9, 
caudae  1,1,  tarsi  0,7. 

9.  Cassinia  fraseri  (Strickl.). 

Muscicapa  fraseri,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  101  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien  and  Thoms., 

Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  491  (1848).   —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  25,  n.  180  (1850). 

—  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  25  (1852).  —  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  29.  —  id.,  Syst.  Orn. 

Westafr.,  p.  95  (1857). 
Cassinia    fraseri,  Sharpe,  Cai  B.,  IV,  p.   466   (specim.  a,  Fernando   Po,   Fraser)  (1879).  — 

Boc.  -Tom.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  8  (Fernando  Po)  (1895). 

10.  Lioptilus  claudei,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  34  (Mount  St.  Ysabel,  10,800  piedi)  (1903). 

<f  Similis  L.  abyssinico  (Rfipp.)  (=  Alcippe  kilimensis,  Shelley),  sed   inti 
pulio  et  dorso  summo  cinereis pileo  concoloribus  distinguendus.  Long.  tot.  circa  5,2  poli., 
culm.  0,55,  alae  2,6,  caudae  2,25,  tarsi  0,9. 

11.  Fraseria  ochreata  (Strickl.). 

Tephrodornis  ochreatus,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  102  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien  and 
Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  489  (1848).  —  Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  36  (1849).  — 
Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  26,  n.  192  (1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  26 
(1852).  -  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  32. 

Fraseria  ochreata,  Hartl,  Orn.  Westafr.,  p.  102  (1857).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  Ili,  p.  303  (spe- 
cim. a,  Fernando  Po,  Fraser)  (1877). 

12.  Dryoscopus  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  97  (Mount  St.  Ysabel)  (1903). 

<?  Similis  D.  nig'errimo,  sed  multo  minor;  niger  vix  viridi-nitens ;  abdomine  ni- 
gerrimo,  haud  cinerascente.  Long.  tot.  circa  6,9  poli.,  culm.  0,85,  alae  3,0,  caud.  2,65, 
tarsi  1,15. 


11)4  OMMASO    -ALVADOBI  12 


13.  Laniarius  sulphureipectus,  Less.  (?). 

Malaconotus    chrysogaster,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II.  p.  221    (Fernando 

Po)  (1848). 
Laniarius   chrysogaster,   Hartl.,   Ahh.    naturw.   Ver.    Hamb.,  II,   p.   65  (1852).   —  id.,  Orn. 

Westafr.,  p.  107  (1857). 
Laniarius  sulphureipectus,  Gad.,  Cat.  B.,  Vili,  p.  159  (1883). 
Cosmophoneus  sulphureipectus,  Neurn.,  J.  f.  0.,  1899,  p.  395. 

Soltanto  Alien  e  Thomson  hanno*asserito  l'esistenza  di  questa  specie  in  Fernando 
Po,  ma  non  credo  che  esemplari  di  questa  località  si  conservino  in  qualche  Museo. 
Ad  ogni  modo,  gli  esemplari  di  Fernando  Po  dovranno  essere  identificati. 

14.  Ciniiyris  chloropygius  (Jaed.). 

Nectarinia  chloropygia,  Jard.,  Ann.  N.  H.,  X,  p.  188  (1842).  —  id.,  Sun-birds,  pp.  171, 
249,  pi.  Ili  (1842).  —  Jard.  et  Selby,  111.  Orn.,  n.  s.,  pi.  50  (1843).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Exped.  Niger,  II,  pp.  221,  503  (Fernando  Po)  (1848).  —  Hartl,  J.  f.  0.,  1854,  p.  12. 

Cinnyris  chalybeia,  Sw.  (nec  L.).  —  Alien  and  Thoms.,  op.  cit. ,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848). 

Nectarinea  chloropygia,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  20,  n.  95  (1850).  —  id.,  Abh.  nat. 
Ver.  Hamb.,  II,  p.  20  (1852).  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  47  (1857). 

Cinnyris  chloropygia,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  34  (specim.  r  (Fraser),  s  Fernando  Po)  (1884). 
—  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  7  (Pico  de  Santa  Isabel  a  2500  m.)  (1895). 

Abbondante  (F.  Newton). 

15.  Cinnyris  angolensis,  Less. 

Nectarinia  strangeri,  Jard.,  Ann.  N.  H.,  X,  p.  187,  pi.  13  (Fernando  Po)  (1842'. 

Nectarinia  stangeri,  Jard.,   Sun-Birds,  pp.  198,  257  (1842-1843).  —  Jard.  et  Selb.,    111.   Orn., 

n.  s.,  pi.  XLVIII  (1843).  —  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  10  (Fernando  Po,   Thomson). 
Cinnyris  stangeri,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  22  (Fernando  Po)  (1848). 
Nectarinea  stangeri,  Hartl.,  Beiti'.  Orn.  Westafr.,  p.   20  (1850).    —    id.,  Abh.  naturw.  Ver. 

Hamb.,  II,  pp.  20,  63  (Fernando  Po)  (1852). 
Nectarinia  angolensis,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  45  (Fernando  Po,  Thomson)  (1857). 
Cinnyris  angoknsis,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  98  (Fernando  Po)  (1884).  —  Shell.,  Mon.  Nectar., 

p.  279,  pi.  87  (Fernando  Po)  (1876-80). 

16.  Cinnyris  obscurus  (Jard.). 

Nectarinia  obscurus  (sic),  Jard.,  Naturai.  Libr.,  Sun-Birds,  p.  253  (Fernando  Po,  Fraser)  (1843). 
Nectarinia  obscura,  Jard.  et  Selb.,  111.  Orn.,  n.  s.,  pi.  51  (1843).  —  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  11. 
Nectarinea  obscura,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  20,  no.  96  (1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver. 

Hamb.   II,  p.  20(1852).   —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  50  (1857). 
Cinnyris  obscurus,  Shell.,  Mon.  Nect.,  p.  291,  pi.  92  (1876-80). 
Cinnyris  obscura,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  77  (specim.  /,  m  (Fraser),  n,  o,  Fernando  Po)  (1884). — 

Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  7  (Bassilé)  (1895). 

Il  tipo  di  questa  specie  era  di  Fernando  Po  ;  io  ho  potuto  esaminare  un  maschio 
di  Bassilé,  raccolto  da  F.  Newton  e  menzionato  dal  Barboza  du  Bocage  ;  confrontato 
con  due  esemplari  di  Denkera  (Ussher),  conservati  nel  Museo  di  Torino,  questi  sono 
notevolmente  più  piccoli  e  non  hanno  il  pileo  tanto  cupo  e  mi  viene  il    dubbio  che 


13  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  105 

essi  siano  specificamente  diversi.  Non  ho  poi  alcun  dubbio  che  la  mia  Eleocerthia 
ragazzii  dello  Scioa,  che  lo  Shelley  recentemente  (B.  Afr.,  II,  p.  125)  ha  voluto  iden- 
tificare col  C.  obscurus,  sia  assolutamente  diversa.  La  E.  ragazzii  ha  le  parti  su- 
periori più  verdi,  le  inferiori  più  giallognole,  specialmente  sulla  gola,  e  non  ha  il 
pileo  più  scuro  e  con  distinta  lucentezza  metallica,  come  nell'esemplare  del  C.  obscurus 
di  Fernando  Po  da  me  esaminato. 

17.  Cinnyris  poensis  (B.  Alex.). 

Cinnyris    chloronatus  (sic),   Alien    and    Thoms.  (nec  Sw.),  Narr.    Exped.   Niger,   II,  p.  221 

(Fernando  Po)  (1848). 
Nectarinia  cyanocephala,  part,  Haiti.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  pp.  20,  63  (Fernando  Po) 

(1852).  -  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  11. 
Nectarinea  cyanocephala,  part.,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  49  (1857). 
Cinnyris  oritis,  Boc.  (nec  Rchnw.),  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  8  (Pico  de  Santa  Isabel, 

Fernando  Po:  F.  Newton)  (1895). 
Cyanomitra  poensis,  B.  Alex.,  Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  38  (Bilelipi,  Fernando  Po)  (1903). 

■?  Similis  C  verticali,  sed  pileo  et  gutture  metalticis,  sordide  et  obscure  viridescen- 
tibus;  pectore  et  abdomine  totis  olivascenti-flavis,  minime  cinereis  distinguendo;.  Long.  tot. 
circa  4,8  poli.,  culm.  1,1,  alae  2,45,  caudae  1,65,  tarsi  0,8. 

Ho  potuto  esaminare  l'esemplare  (maschio  adulto)  di  Fernando  Po,  che  il  Bocage 
ha  attribuito  al  C.  oritis,  Rchnw.;  invece  esso  appartiene  senza  dubbio  alla  specie 
sopra  indicata. 

18.  Cinnyris  cyanolaemus  (Jaed.). 

Nectarinia  cyanolaemus,  Jard.  et  Fras.,  Oontr.   Orn.,  1851,  p.  154  (Clarence,  Fernando  Po, 

Fraser).  —  Hartl,  J.  f.  0.,  1854,  p.  11,  n.  114. 
Nectarinia  cyanolaenia,  Hartl,  Orn.  Westafr.,  p.  51  (1857). 

Cinnyris  cyanolaemus,  Shell,  Mon.  Nect.,  p.  297,  pi.  95  (Fernando  Po)  (1876-80). 
Cinnyris  cyanolaema,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  78  (W.  Africa,  Fraser)  (1884). 

19.  Cinnyris  ursulae  (B.  Alex.). 

•  Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  38  (Mount  St.  Ysabel)  (1893). 

i  Sordide  flavescenti-olivacm;  subtus  fumoso-cineracea,  liypochondriis  imis  oliva- 
scentibus;  fasciis  pectoralibus  laete  flammeis;  pileo  vix  m<  fallire  chalybeo  adumbrato.  Long, 
tot.  circa  3,6  poli.,  culm.  0,75,  alae  1,95,  caudae  1,0,  tarsi  0,75. 

20.  Anthodiaeta  hypodila  (Jard.). 

Nectarinia  collaris,  part.,  Jard.,  Natur.  Libr.,  Sun-Birds,  p.  251  (Fernando  Po,  Fraser)  (1843). 
Nectarinia  hypodilus,   Jard.    et  Fras.,   Contr.   Orn.,   1851,   p.   153   (Clarence,   Fernando  Po, 

Fraser).  —  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  12,  n.  115. 
Anthodiaeta  subcollaris.  Rchnb.,  Syn.  Av.,  Scansoriae,  p.  293,  n.  686,  pi.  590,  ff.  4007-8  (1854). 
Nectarinia  hypodelos,  Haiti,  Orn.  Westafr.,  p.  52  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Nectarinia  subcollaris,  Hartl,  Orn.  Westafr.,  p.  52  (Fernando  Po,  Frase/-)  (1857). 
Anthodiaeta  hypodila,  Shell.,  Mon.  Nect.,  p.  345,  pi.  Ili,  ff.  1,  2  (Fernando  Po)  (1876-80). 
Anthothreptes  collaris,  part.,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  116  (specim.  u,  Fernando  Po)  (1884). 
Cinnyris  hypodila,  Boc.  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  8  (Natividad)  (1895). 

Serie  IL  Tom.  LUI.  " 


106  TOMMASO    SALVADORI  14 

21.  Anthodiaeta  tephrolaema  (.Tard.). 

Nectarinia  tephrolaeinus,  Jard.  et  Fras.,  Contr.  Orn.,  1851,  p.  154  (Clarence,   Fernando   Po, 

Fraser).  -  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.   12,  n.   116. 
Nectarinia  tephrolaema,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  51  (1857). 

Anthodiaeta  tephrolaema,  Shell.,  Mon.  Nect.,  p.  333  (Fernando  Po,  Fraser)  (1876-80). 
Anthothreptes  tephrolaema,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  120  (W.  Africa.  Fraser)  (1884). 

22.  Anthothreptes  fraseri,  .Tard.  et  Selb. 

Anthreptes  fraseri,  J.  et  S.,  111.  of  Ornithology,  n.  s.,  pi.  52  (Fernando  Po.  Fraser)  (1843). 
—  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  21,  n.  103  (1850).  —  id.,  Abh.  Natnrw.  Ver.  Hamb.,  II, 
p.  21  (1852).  —  id.,  .T.  f.  0.,  1854,  p.  14.  —  Shell,  Mon.  Nect.,  p.  307,  pi.  99. 

Nectarinia  fraseri,  Hartl,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  50  (1857). 

Anthothreptes  fraseri,  Gad.,  Cat.  B.,  IX,  p.  113  (specim.  a,  Fernando  Po,  Fraser)  (1884). 

23.  Speirops  brunnea,  Salvad. 

Boll.  Mus.  Tor.,  N.  442,  p.  1  (1903). 

Brunnea  fere  unicolor,  pileo  nigricante,  macula  cervicali  castanea,  gula  vix  albicante. 

Differt  a  8.  melanocephala  colore  magis  brunnescente,  taenia  supralorali  alba 
nulla,  gula  minus  alba,  subcaudalibusque  haud  albidis,  sed  gastraeo  brunneo  con- 
coloribus.  Long.  tot.  circa  min.  125;  alae  62;  caudae  50:  rostri   culm.    11:   tarsi  20. 

Il  tipo  di  questa  specie,  molto  diversa  da  quelle  congeneri  conosciute,  è  un 
maschio  adulto  raccolto  dal  sig.  Francisco  Newton  sul  Pico  di  Sta  Isabel  a  2500  metri 
di  altezza;  esso  fu  ommesso  nel  lavoro  del  prof.  Barboza  du  Bocage  intorno  agli 
uccelli  di  Fernando  Po,  raccolti  dal  Newton  ;  l'ho  inviato,  affinchè  l'esaminasse,  al 
Prof.  Reichenow  di  Berlino,  che  ha  dichiarato  di  non  conoscerne  la  specie. 

24.  Turdus  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  37  (Bakaki)  (1903). 

</  Similis  T.  xanthorhyncho,  Salvad.,  et  rostro  flavo,  sed  pedibus  brunneis, 
praepectore  et  corporis  lateribus  concoloribus,  brunneis,  mìnime  squamulatis.  Long.  tot. 
circa  8,2  poli.,  culm.  0,8,  alae  4,2,  caudae  2,9,  tarsi  1,2. 

25.  Callene  roberti,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  O,  XIII,  p.  37  (Bakaki)  (1903). 

$  Similis  C.  cyornitliopsidi,  sed  rectricibus  medianis  nìgris,  reliquis  autem  casta- 
neis  distinguenda.  Long.  tot.  circa  5,0  poli.,  culm.  0,6,  alae  2,6,  caudae  1,75,  tarsi  0,85. 

26.  Callene  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  37  (Bilelipi)  (1903). 

<f  Similis  C.  isabellae,  sed  facie  laterali  cor,:  ,  ,  gastraeo  concolore,  fascia  alba 
supralorali  absente,  ahdomine  nudi,,  flavicanti  albo;  rectricibus  medianis  brunneis,  minime 
nigris,  reliquis  saturate  ferrugineis,  extemis  extus  tintinna  marginatis.  Long.  tot.  5,2 
poli.,  culm.  0,65,  alae  2,9,  caudae  2,0,  tarsi  1,05. 


15  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  107 


27.  Neocossyphus  poensis  (Stbickl.). 

Cossypha  poensis,  Strickl,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  100  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien  and 
Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  496  (1848).  —  Fras.,  Zool.  Typ.,pl.  37  (1849).  —  Hartì., 
Beitr.  Orn.  Westafr.  p.  23,  n.  144  (1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  23  (1852).  - 
id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  22.  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  77  (1857).  —  Sharpe,  Cat.  B., 
VII,  p.  35  (specim.  a,  Fernando  Po.  Fraser).  —  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  9 
(Bassapó)  (1895). 

Neocossyphus  poensis,  Shell,  B.  Air.,  I,  p.  85  (1896).  —  Rehnw,  J.  f.  O.,  1896,  p.  66  (Ka- 
rnerun).  —  Sharpe,  Ibis,  1902,  p.  95  (Cameroon). 

28.  Alethe  poliocephala  (Temm.)  (?). 

Oriniger  poliocephalus,  Temm.  in  Mus.  Lugd.  unde 

Trichophorus  poliocephalus,  Bp.  Consp.  I,  p.  262  (Afr.  occ.)  (1850).  —  HartL,  Beitr.  Orn. 
Westafr.,  p.  24,  n.  158  (1850).  —  id,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb,  II,  p.  24  (1852).  -  id, 
J.  f.  O,  1854,  p.  25  (Guinea,  Mus.  Lugd.);  1855,  p.  358  (Dabocrom,  Fernando  Po),  p.  360 
(Goldkuste,  Pel).  —  id,  Orn.  Westafr,  p.  85  (Dabocrom,  Pei,  Fernando  Po,  Mus.  Lugd., 
Casamanze,    Verreaux)  (1857). 

Criniger  poliocephalus,  Filiseli,  .1.  f.  0,  1867,  p.  26  (Casamanze,  Verreaux;  Goldkuste,  Pel; 
Fernando  Po,  Mus.  Lugd.).  -  G.  R.  Gr,  Hand-List,  I,  p.  274,  n.  4026  (W.  Afr.)  (1869). 
—  Gieb,  Thes.  Orn,  I,  p.  813  (1872). 

Alethe  castanonota,  Sharpe,  Cat.  Afr.  B,  p.  20  (Fantee)  (1871).  —  id,  Cat.  B.  Br.  Mas, 
VII,  p.  59,  pi.  II  (ad.  et  jun.)  (1883). 

Alethe  poliocephala,  Buttik,  Not.  Leyd.  Mus,  VII,  p.  177  (Liberia  =  castanotota)  (1885); 
X,  p.  76  (Liberia)  (1888);  XI,  p.  120  (Liberia)  (1889).  —  Shell,  B.  Afr,  I,  p.  83  (—  ca- 
stanonota) (1896). 

Callene  hypoleuca,  Rchnw,  J.  f.  0,  1892,  p.  221,  Taf.  II,  f.  3  (9  jun.)  (Kamerun). 

Alethe  hypoleuca,  Shell,  B.  Ali-..   [,  p.  83  (1896). 

Il  Finsch  (in  litt.),  al  quale  debbo  in  parte  la  sinonimia  di  questa  specie,  afferma 
che  la  località  di  Fernando  Po,  attribuita  ad  un  esemplare  di  questa  specie  nel  Museo 
di  Leida,  non  è  convalidata  dal  nome  di  alcun  collettore. 

29.  Alethe  castanea  (Cass.). 

Alethe  castanea,  Sharpe,  Cat.  B,  VII,  p.  57  (1883).  —  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII, 
p.  9  (Bassilé,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1903). 

Ho  potuto  esaminare  l'esemplare  di  Bassile'  menzionato  dal  Barboza  du  Bocage 
e  la  determinazione  mi  è  sembrata  esatta,  corrispondendo  quell'esemplare  colla  de- 
scrizione data  dallo  Sharpe. 

30.  Alethe  moori,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  37  (Bakaki)  (1903). 

<f  Castanea,  pileo  antico  cinerascente ;  plaga  capitali  aurantiaca  nulla;  pectore  et 
corporis  lateribus  schisfaceis ;  abdomine  albo;  gtitture  atbo,  cinereo  lavato;  regione  par 0- 
tica  castanea.  Long.  tot.  circa  7,1  poli,  culm.  0,8,  alae  3,2,  caudae  2,85,  tarsi  1.15. 


108  TOMMASO    SALVADOEI  16 


31.  Cryptillas  lopezi  (Boyd  Alex.). 

Phlexis  lopezi,  B.  Alex.,  Bull.  B.  0.  C,  XIII.  p.  48  (Moka.  Fernando  Po)  (190 

Cryptillas  lopezi,  Sharpe,  Hand-List.  IV. 

.   Similis  P.  rufescenti,  sed  gutture  et  abdomine  fulvescentibus,  hoc   minime 
ludalibus  castaneo-rufis,  facie  laterali,  gutture  et  pectore  totis   castaneis,  et  pedibus 

nigricantibus,  distinguendus.  Long.  tot.  circa  5,5  poli.,  culm.  0,6,  alae  2,25,  caud.  2,21, 
1,02. 

32.  Calamo cichla  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  37  (Bilelipi)  (1903). 

Similis  C.  brevipennì,  sed  major;  rectricibus  nigricanti-brunneis,  remigum  margi- 
nibus  et  supracaudalibus  rufeseentibus  distinguenda.  Long.  tot.  circa  6,8  poli.,  culm.  0,8, 
alae  3,0,  caudae  2.7">.  tarsi  1,15. 

33.  Apalis  lopezi,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  35  (Bakaki)  (1903). 

<f  Similis  A.  sharpei,  Shelley,  sed  pedibus  nigricantibus  ;  subtus  omnino  fuliginoso- 
schistacea,  abdomine  medio  pallidiore,  minime  albo;  gutture  schistaceo,  nec  nigro  distin- 
guenda. Long.  tot.  circa  4,0  poli.,  culm.  0,6,  alae  2,1,  caudae  14,  tarsi  0,9. 

34.  Urolais  (*)  mariae,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C.  XIII,  p.  35  (Mount  St.  Ysabel)  (1903). 

<f  Viridis;  supercilio  angusto  flavo;  facie  laterali  viridi;  genìs  et  corpore  subtus 
pallide  sed  laete  cervinis;  cauda  schistacea,  rectricibus  albo  terminatis,  duabus  medianis 
longissimis  ad  apicem  late  albicantibus.  Long.  tot.  circa  7,8  poli.,  culm.  0,6,  alae  2,1, 
caudae  5.0,  tarsi  0,9. 

35.  Euprinodes  rufigularis  (Fraser). 

Drymoica  rufogularis,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  17  (Clarence,  Fernando  Po)  —  id.,  Ann. 
N.  H„  XII,  p.  479  (1843).  —  Alien  et  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  491  (1848;.  - 
Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  42,  f.  1  (1849).  -  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  21,  n.  113  (1850). 

—  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  21  (1852). 

Drymoeca  rufogularis.  Haiti,  J.  f.  O.,  1854,  p.  15.  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  58  (1857). 
Euprinodes  rufigularis,  Sharpe,  Cat.  B.,  VII,  p.  141  (specim.  a,  Fernando  Po,  Fraser). 

36.  Euprinodes  olivaceus  (Fraser). 

Prinia  olivacea,  Stridii.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  99  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  494  (1848).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  21,  n.  107  (1850). 

—  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  21  (1852). 

Chloropeta  olivacea,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  17.  —  id.,  Syst,  Orn.  Westafr.,  p.  60  (1857). 
Euprinodes  olivaceus,  Sharpe,  Cat.  B.,  VII,  p.  142  (specim.  a,  Fernando  Po,  Fraser). 


(*)  Urolais,  n.  gen.  Genus    simile    quoad    staìuram    et   colores  generibus  Apali»  et    Dryodromas 
dictis,  sed  cauda  longissima,  corporis  longitudine»!  longe  superanti,  facili   distinguendum. 


17  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  109 


37.  Euprinodes  sclateri,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  36  (Mount  St.  Ysabel)  (1903). 

<t  Similis  E.  cinereo,  Sharpe,  sed  gastraeo  foto  cervino,  abdomine  minime  albo 
distinguendo,.  Long.  tot.  circa  5,1  poli.,  culm.  0,6,  alae  2,2,  caudae  2,4,  tarsi  0,85. 

38.  Eremomela  badiceps  (Fraser). 

Sylvia  badiceps,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  144  (Clarence,  Fernando  Po).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  495  (1848).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  122,  n.  22  (1850). 
—  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  22  (1852). 

Drymoeca  badiceps,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  16. 

Stiphornis  badiceps,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  63  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 

Eremomela  badiceps,   Sharpe,  Cat.  B.,  VII,  p.  164  (1883). 

39.  Camar opterà  superciliaiis  (Fraser). 

Sylvicola  superciliaris,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  3  (Clarence,  Fernando  Po).  —  id.,  Ann.  and 

Mag.  Nat.  Hist.,  XII,  p.  440  (1843). 
Prinia  icterica,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  100  (Fernando  Po).  —  Alien  and  Thoms.,  Narr. 

Exped.  Niger,  II,  p.  495  (1848).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  21,  n.  106  (1850).  — 

id.,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  21  (1852). 
Sylvia  (?)  superciliaris,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  22,  n.  123  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw 

Ver.  Hamb.,  II,  p.  22  (1852). 
Chloropeta  icterica,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  17  (Fernando  Po,  Fraser).  —  id.,  Orn.  Westafr., 

p.  60  (1857). 
Camaroptera  superciliaris,  Sharpe,  Cat.  B.,  VII,  p.  171  (specim.  e,  d,  Fernando  Po,  Fraser). 

40.  Camaroptera  granti,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  36  (Badasou)  (1903). 

<f  Similis  C.  concolori,  sed  subtus  cinerea,  minime  olivascens,  pectore  vix  viridi 
lavata;  cauda  et  abdomine  albidis  distinguenda.  Long.  tot.  circa  4,2  poli.,  culm.  0,6, 
alae  2,2,  caudae  1,2,  tarsi  0,9. 

41.  Poliolais  (*)  heleonorae,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  36  (Bakaki)  (1903). 

Sordide  fuscescenti-olivaceo-viridis  ;  pileo  saturatiore,  brunnescentiore;  loris,  superciliis 
et  facie  laterali  tota  dilute  castaneis;  gastraeo  foto  schistaceo,  gutture  et  abdomine  albi- 
cantibus;  hgpochondriis  imis  et  tibiis  olivascenti-brunneis ;  alis  dorso  concoloribus  ;  rectri- 
cibus  duabus  medianis  nigricanti-brunneis,  reliquis  dimidiatim  nigris  et  albis,  lateralibus 
autem  pure  albis.  Long.  tot.  circa  3,6  poli.,  culm.  0,6,  alae  1,9,  caudae  1,2,  tarsi  0,9. 


(*)  Poliolais,  n.  gen.  Genus  Inter  genera  Sylviella  et  Camaroptera  dieta  intermedium,  pedibus 
caudam  longe  superantibus  et  rectrieìbiis  externis  pure  albis  dìstinguendum. 


HO  TOMMASO    SALVADOBI  18 

42.  Hylia  poensis,  B.  Alex. 

Ball.  Li.  0.  C.,  XIII,  p.  36  (Reboia)  (1903). 

2  Similis  H.  prasinae,  sed  supra  sordidior,  grisescenti-oliv  ascenti- 

viridis,  pileo  dorso  concolore;   superciliis  et   corpore  subtus  tato  aìbicantibus ,  nec  flavo 

is,  distinguenda.  Long.  tot.  circa  4,2  poli.,  culm.  0,5,  alae  2,4,  caudae  1,45, 
tarsi  0,75. 

Ho  esaminato  un  esemplare  di  questa  specie,  raccolto  da  F.  Newton  in  Fernando 
Po;  esso  non  fu  annoverato  nella  lista  pubblicata  dal  Barboza  du  Bocage. 

Confrontato  quell'esemplare  con  uno  della  Hylia  prasina  di  Bolama,  raccolto  dal 
Fea,  mi  pare  che  la  descrizione  dell'Alexander  non  sia  molto  esatta  e  debba  et 
modificata  come  segue: 

Similis  H.  prasinae,  sed  supra  obscurior,  grisescenti-olivascms,  nec  olivascenti-vi- 
ridis,  pileo  saturatiore  :  superciliis  albidis  et  corpore  subtus  tota  griseo,  nec  faro  tinctis 
rida. 

!..  Stiphrornis  gabonensis,  Shaepe. 

Stiphrornis    gabonensis,  Sharpe,  Cat.  B.,  VII,  p.    174,   pi.  VI,  f.  2  (1883).    -  Boc.  Jorn. 
Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  9  (<?  Bissé,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895 1. 

44.  Macrosphenus  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  36  (Moirat  St.  Ysabel)  (1903). 

-r  Similis  31.  navicanti,  sed  pileo  sordide  cinerascente  et  tectricibus  externis  cine- 
rascentibus,  gutture  et  pectore  cinereis,  corpore.  reliquo  viridescente,  nec  olivaceo-flavo, 
distinguendus.  Long.  tot.  circa  5,2  poli.,  culm.  0,72,  alae  2,3,  caudae  2,0,  tarsi  0,35. 

45.  Turdinus  bocagei,  Salvad. 

Turdinus  sp.?,  Boc.  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII.  p.  9  (Bassilé,  F.  Newton)  (1895). 
Turdinus  bocagei,  Salvad.  Boll.  Mus.  Tor.,  X.  442,  p.   1   (1903). 

Supra  brunneo-rufescens,  sincipite  et  genis  ijriseis;  gula  et  abdomine  medio  albis; 
fascia  praepectorali  lata  transversa  lateribusque  umbrinis;  remigibus,  redricibusque  fuscis, 
exterius  rufo-brunneis.  Long.  tot.  circa  mm.  123;  al.  68,  caud.  47;  rostri  culm.  13; 
tarsi  24. 

Il  tipo  di  questa  specie  (V)  si  conserva  nel  Museo  di  Lisbona,  e  mi  è  stato  in- 
viato in  comunicazione  dal  prof.  Barboza  du  Bocage. 

Questa  specie  sembra  affine  al  T.  fulvescens  (Cass.)  del  Gaboon,  ma  il  prof.  Rei- 
chenow,  cui  ho  inviato  l'esemplare  tipico  per  averne  il  suo  autorevole  giudizio,  mi 
scrive  che  esso  appartiene  a  specie  a  lui  ignota. 

16.  Xenocichla  (?)  tricolor  (Cass.). 

Criniger  tricolor,  Sharpe,  Cat.  B.,  VI,  p.  82  (1881). 

Xenocichla  albigularis,  Boc.  (nec  Sharpe),  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  XIII,  p.  8  (Bissé,  Fernando  Po, 
F.   Ni  wton)  (1895). 


19  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  111 

Per  cortesia  del  prof.  Barboza  du  Bocage  ho  potuto  esaminare  l'esemplare  di 
Bissé  (un  maschio)  da  lui  attribuito  alla  Xenocichla  albigularìs,  Sharpe.  La  determi- 
nazione non  sembrandomi  esatta,  e  volendo  assicurarmi  di  ciò,  ho  fatto  ricorso  al 
prof.  Reichenow,  il  quale  crede  che  l'esemplare  appartenga  alla  specie  sopra  indicata, 
sebbene,  confrontato  con  un  esemplare  del  Gabon,  esso  presenti  il  colore  verde  delle 
parti  superiori  un  poco  più  pallido;  anche  la  coda  olivaceo-rossiccia  è  alquanto  più 
chiara.  Tuttavia,  secondo  il  Reichenow,  le  lievi  differenze  non  hanno  valore  specifico. 
Anche  lo  Sharpe  consente  nella  opinione  del  Reichenow. 

47.  Andropadus  latirostris,  Strickl. 

Andropadus  latirostris,  Strickl.,  P.  S.  Z.,  1814.  p.  100  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien  and 
Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II.  p.  496  (1848).  —  Hartl.,  Beiti'.  Ora.  Westafr.,  p.  24,  n.  165 
(1850).  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Bamb.,  II,  p.  24(1852).  -  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  26.  -  id., 
Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  87  (1857).  —  id.,  Sharpe,  Cat.  B.,  VI,  p.  107  (specim.  g,  Fernando 
Po,  Fraser)  (1881). 

48.  Andropadus  virens,  Cass. 

Andropadus  latirostris  (juv.),  Strickl,  P.  Z.  S..  1844,  p.  100  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Pras., 

Zool.  Typ.,  pi.  35  (1849). 
Andropadus  virens,  Sbarpe,  Cat.    B.,  VI,  p.   109  (specim.   t,   Fernando  Po,   Fraser)  (1881). 

—  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2).  No.  XIII,  p.  8  (Bissé,  Bassilé,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

49.  Stelgidillas  gracilirostris  (Strickl.). 

Andropadus  gracilirostris,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  101  (Fernando  Po,  Fraser).  —  Alien 
and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  497  (1848).  -  Hartl..  Beitr.  Orn.  Westafr..  p.  24. 
n.  166  (1850).  —  id.,  Abb.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  24  1 1852).  —  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  27.  - 
id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  87  (1857). 

Chlorocickla  gracilirostris,  Sharpe,  Cat.  B.,VI,  p.  114  (specim.  «.  Fernando  Po.  Fraser) (1881). 

50.  Stelgidillas  poensis,  B.  Alex.  (?) 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  35  (Sipopo)  (1903). 

Similis  S.  gracilirostri,  sed  virescentior,  pileo  cinerascente;  regione  parotica  cinerea; 
subtus  pallidior,  gutture  albicai//'',  corpore  reliquo  subtus  pallide  cineraceo.  Long.  tot.  7,2 
poli.,  culm.  0,8,  alae  3,2,  caudae  3,0,  tarsi  0,8. 

La  presenza  in  Fernando  Po  di  una  seconda  specie  del  genere  Stelgidillas,  tanto 
affine  alla  S.  gracilirostris,  che,  si  noti,  fu  pure  descritta  di  Fernando  Po,  è  cosa  da  far 
dubitare  che  la  S.  poensis  non  sia  veramente  diversa,  ovvero  che  il  Boyd  Alexander 
abbia  confrontato  gli  esemplari  di  Fernando  Po  con  altri  del  continente,  i  quali  sa- 
rebbero forse  veramente  diversi,  e  perciò  da  denominare. 

51.  Phyllostrophus  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  35  (Bakaki)  (1903). 

<?  Similis  Ph.  placido,  sed  pileo  fuscescentiore,  notaeo  reliquo  sordide  olivascente; 
pileo  fusco-brunneo,  vix  olivascente  lavato;  loris  et  regione  oculari  cinereis;  regione  pa- 
rotica fusco-brunnea;  corpore  subtus  (Ubicante,  vix  flavo  lavato  ;  praepectore,  pectore  summo 
et  corporis  lateribus  olivascenti-brunneis.  Long.  tot.  circa  7,4  poli.,  culm.  0,65,  alae  3,4, 
caudae  3,1,  tarsi  0,9. 


112  TOMMASO    SALVADOR!  20 


52.  Anthus  gouldi,  Fra;.  (?). 

Anthus  gouldi,  Hartl.,  Beitr.    Orn.  Westal'r.,    p.   23,   n.    13G  (Fernando  Po!)  (1850).   —  id 
Abb.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  23  (1852).   —  id.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  21  (Fernando  Po,  Fraser 

Sembra  che  per  errore  l'Hartlaub  abbia  indicato  Fernando   Po    come   patria   di 
questa  specie,  giacche  il  Fraser  (P.  Z.  S.,  1843,  p.  27)  la  descrisse  di  Capo  Palmas 
tuttavia  non  è  improbabile  che  essa  si  trovi  anche  in  Fernando  Po. 

53.  Linurgus  olivaceus  (Fraser). 

Coccothraustes  olivaceus,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  144  (Clarence,  Fernando  Po).  —  Alien 
and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  500  (1848).  —  Fras.,  Zool.  Typ.,  pi.  47  (1849). 
—  Hartl.  Beitr.,  Orn.  W.  Afr.,  p.  31,  n.  279  (1850).  —  id.,  Abb.  natunv.  Ver.  Hamb.. 
II,  pp.  31,  66  (1852). 

Ligurnus  olivaceus,  Hartl,  J.  f.  O.,  1854,  p.  110.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  140  (1857). 

Pyrrhospiza  olivacea.  Sharpe,  Cat.  B.,  XII,  p.  434  (specitn.  a,  Fernando  Po,  Fraser)  (1888). 

Linurgus  olivaceus,  Shell.,  B.  Air.,  III,  p.   174  (Fernando  Po,  Fraser)  (1902). 


54.  Nigrita  canicapilla  (Strickl.). 

Aethiops  canicapillus,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1841,  p.  30  (Fernando  Po). 

Nigrita  canicapilla,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  145.  —  id.,  Zool.  Typ.,  pi.  48  (Fernando  Po) 
(1849).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  31,  n.  270  (Fernando  Po)  (1850).  —  id.,  Abb. 
naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  31  (1852).  —  id.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  110.  -  id.,  Orn.  Westafr., 
p.  130  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  315  (specim.  b,  e,  d, 
Fernando  Po,  Fraser)  (1890).  —  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  9  (Mongola, 
F.  Newton)  (1895). 

55.  Nigrita  fusconota,  Fraser. 

Nigrita  fusconotus,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  145  (Clarence,  Fernando  Po).  —  Alien  and 
Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  501  (1848).  —  Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  49  (1849). 

Nigrita  fusconotus,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  31,  n.  271  (1850).  —  id.,  Abb.  natunv. 
Ver.  Hamb.,  II,  pp.  31,  66  (1852). 

Nigrita  fusconota,  Hartl,  J.  f.  O.,  1854,  p.  111.   -  id.,  Syst.   Orn.  Westafr.,  p.  130  (1857). 

Nigrita  pinaronota  (nom.  emend.),  Sharpe,  Cat.    B.,  XIII,  p.  318  (specim.  a,  Fernando  Po, 


Fraser)  (1890). 


56.  Nigrita  luteifrons,  Veeb. 


Nigrita  luteifrons,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  317  (1890).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XÌII, 
p.  9  (</  Natividad,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

57.  Cryptospiza  elizae,  B.  Alex. 

Bull  B.  O.  C,  XIII,  p.  38  (Bakaki)  (1903). 

a*  Similis  C.  oculari  et  C.  reichenowi,  sed  pileo  et  collo  postico  sordide  olivascenti- 
fuscis,  et  subcaudalibus  nigris  distinguenda.  Long.  tot.  circa  4,3  poli.,  culm.  0,5,  alae  2,2, 
caudae  1,45,  tarsi  0,75. 


21  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  Ile 


58.  Spermestes  poensis  (Fraser). 

Aniadina  poensis,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  145  (Clarence,  Fernando  Po).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  500  (1848).  —  Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  50,  f.  1  (1849).  -  Hartl., 
Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  32,  n.  301  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  32(1852). 

Amadina  (Spermestes)  poensis,  Hartl,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  148  (1857). 

Spermestes  poensis,  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  116.  —  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  262  (specim.  a, 
b,  e,  Fernando  Po,  Fraser)  (1890).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  10  (Nati- 
vidad,  F.  Newton)  (1895). 

59.  Nesocharis  (*)  shelleyi,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  O,  XIII,  p.  48  (Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

cT  Viridi*,  uropigio  et  supracaudalibus  panilo  laetioribus  et  flavicantioribus ;  pileo, 
facie  laterali  et  gula  nigerrimis;  corpore  reliquo  subtus  cinereo.  Long.  tot.  circa  3,2  poli., 
culm.  0.35,  alae  1,6,  caudae  1,0,  tarsi  0,5. 

60.  Estrelda  rubriventris  (Vieill.). 

Estrelda  occidentalis,   Jard.    et    Fras.,  Contr.    Orn.,    1851,   p.    156    (Clarence,  Fernando  Po, 

Fraser).  —  Hartl.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  118,  n.  346.  -  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  140  (1857). 
Estrilda  rubriventris,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  393  (1890). 

60Wb.  Estrelda  elizae,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C.  XIII,  p.  54  (Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

Estrelda  similis  E.  ìioiniulae,  sed  gastraeo  griseo  tincto,  subcaudalibus  plumbei*. 
Long.  tot.  circa  3,8  poli.,  culm.  0,4,  alae  1,9,  caudae  1,7,  tarsi  0,66. 

Specie  descritta  durante  la  stampa  del  presente  lavoro. 

61.  Heterhyphantes  melanogaster  (Shell.). 

Ploceus  melanogaster,  Shell.,  P.  Z.  S.,  1887,  p.  126,  pi.  XIV,  f.  2  (Cameroons). 

Syinplectes  melanogaster,  Rehnw.,  J.  f.  0.,  1890,  p.  122. 

Heterhyphantes  melanogaster,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  417.(1890).  —  Shell,  B.  Ali.,  I, 

p.  37,  n.  512  (1896).  —    Dubois,   Syn.  Av.,  p.  565,  n.  7496  (fase.  VIII,   1901).  —  Boyd 

Alex.,  Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  49  (<?  (?)  Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

Lo  stato  di  questa  specie  non  mi  sembra  bene  definito.  Lo  Shelley  descrisse  un 
esemplare  indicato  dal  collettore  come  maschio:  esso  aveva  la  testa  e  la  gola  di 
color  giallo,  il  resto  del  corpo  ed  anche  una  stria  a  traverso  l'occhio  neri.  Pare  che 
il  Boyd  Alexander  consideri  quell'esemplare  non  come  maschio,  ma  come  femmina, 
e  che  i  maschi  da  lui  raccolti  in  Fernando  Po  differiscano  dalla  femmina  per  avere 
il  mento  e  la  gola  neri,  ed  una  fascia  prepettorale  gialla. 

A  me  viene  il  dubbio  che  gli  esemplari  di  Fernando  Po  appartengano  ad  una 
specie  distinta,  per  la  quale,  se  bene  io  mi  appongo,  propongo  il  nome  di  H.  me- 
lanolaema. 


(*)  Nesocharis,  n.  gen.  Simile  generi  Spermestes  dicto,  sed  rostro  cyanescente  debili,  valde  com- 
presso et  cauda  brevi  rotundata,  pedibus  caudam  apicalem  (sic)  excedentibus,  distiuguendum. 

Serik  II.  Tom.  LUI.  o 


114  TOMMASO    SALVADORI  22 

62.  Sycobrotus  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  38  (Bakaki,  4000  piedi)  (1903). 

<r  Similis  S.  nandensi,  Jackson,  sed  gula  squcmulata,  minimi  nigra,  plumis  gri- 
sescenti-nigris,  canescenti-flavo  marginatis.  Long.  tot.  circa  6,0,  culm.  0,8,  alae  3,3, 
caudae  2,2,  tarsi  1.0. 

»;'..  Sitagra  brachyptera  (Sw.). 

Ploceus  brachypterus,  Fraser,  P.    Z.   S.,   1843,  p.    52  (Fernando  Po).  —  Hard.,   Syst.  Orn. 

Westafr.,  p.  28,  n.  236  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  28  (1852). 
Hyphantornis  brachyptera,  Haiti.,  J.  f.  0.,  1854,  p.   107. 
Hyphantornis  brachyptei-us,  Hartl.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.   121  (1857). 
Sitagra    brachyptera,    Sharpe,   Cai    B.,    XIII,  p.  429  (specim.  !•' .  e',  il'.  e',  Fernando    Po, 

Fraser)  (1890). 

61.  Hyphantornis  cuculiata  (P.  L.  S.  Mììll.). 

Ploceus  textor,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  51  (Cape  Palmas,  Cape  Coast  and  Fernando  Po).  — 

Hartl.,  Beitr.  Orn.   Westafr.,   p.   28,   n.  230  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II, 

pp.  28,  65  (1852). 
Hyphantornis  textor,  Haiti.,  J.  f.  O.,  1854,  p.  108.  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  124  (1857). 
Hyphantornis  cucullatus.  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  451  (1890). 
Hyphantornis    collaris.  Boc.   (nec  Vieill.)  Jorn.    Se.   Lisb.    (2).   No.   XIII,   p.    10  (rf1  Bassilé, 

Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

Ho  esaminato  l'esemplare  di  Bassilé,  menzionato  dal  Bocage;  esso  è  in  abito 
imperfetto  ed  appartiene  a  questa  specie  e  non  alla  H.  collaris. 

65.  Melanopteryx  nigerrima  (Vieill.)  (?). 

Melanopteryx  nigerrima,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  476  (1890).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2), 
No.  XIII,  p.  10  (d"  Bissé,  Fernando  Po,  F.   Newton)  (1895). 

65' is.  Melanopteryx  maxwelli,  B.  Alex. 
Bull.  B.  0.  C.  XIII,  p.  54  (Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

Melanopteryx  similis  M.  albinuchae,"  sed  plumis  notaei  et  gastrei  omnibus  basaliter 
griseis,  notaeo,  gutture  et  pectore  nigerrimis.  Long.  tot.  circa  5,5  poli.,  culm.  0,7, 
alae  3,0,  caud.  2,1,  tarsi  0,66. 

Questa  specie  è  stata  descritta  durante  la  stampa  del  presente  lavoro.  Non  è 
improbabile  che  essa  debba  prendere  il  posto  della  M.  nigerrima,  dalla  quale  forse 
non  fu  discriminata  dal  Barboza  du  Bocage. 

66.  Malimbus  rubricollis  (Sw.). 

Euplectes  rufovelatus,  Fraser,  P.  Z.  S.,  p.  142  (Clarence,  Fernando  Po).  —  Alien  and  Thotns., 

Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  500  (Fernando  Po)  (1848).  —  Fras.,  Zool.  Typ.,  pi.  46  (1849). 

—  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  30,  n.  254  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb..  II. 

p.  30  (1852). 
Sycobius  malimbus  (Temm.)  -  Haiti.,  J.  f.   O.,  1854,  p.  105.  -  id.,  Orn.  Westafr..  p.  132 

(Fernando  Po)  (1857). 
Malimbus  rubricollis  (Sw.)  -  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  478  (specim.  b,  e,  d,  e,  Fernando  Po) 

(1890).  -  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  10  (Bisse.  F.  Newton)  (1895). 


23  CONTRIBUZIOHI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  Ili 


67.  Lamprocolius  splendidus  (Vieill.)  (?). 

Lamprotornis  chrysonotis,  Praser,  P.  Z.  S.,  1843.  p.  52  (Fernando  Po).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848). 

Lamprotornis  splendida,  Haiti.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  27,  n.  217  (Fernando  Po,  Fraser) 
(1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  27  (1852). 

Lamprocolius  splendidus,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  103.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  117  (Fer- 
nando Po,  Fraser)  (1857). 
La  presenza  di  questa  specie  in  Fernando  Po  fu  affermata  dal  Fraser,  ma  non 

è  improbabile  che  gli  esemplari  attribuiti  alla   medesima   appartengano  invece   alla 

specie  seguente,  che  è  stata  discriminata  soltanto  recentemente. 

68.  Lamprocolius  chubbi,  Boyd  Alex. 

Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  4S  (Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

s  Similis  L.  spleudido,  seti  dorso  medio  et  scapularibus  viridescenti-chatybeis,  gut- 
ture  metattice  chalybeo  vi.r  purpurascente,  corpore  reliquo  subtus  chalybeo-eyaneo ,  nec 
metallice  violaceo,  nitore  aeneo  eri  bronzino  nullo  distinguendus.  Long.  tot.  circa  11,5 
poli.,  culm.   1,1,  alae  6,0,  caudae  4,7,  tarsi  1,2. 

69.  Lamprocolius  ignitus  (Nordu.)  (?). 

Lamprocolius  ignitus  (Nordm.)  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1905). 

Il  sig.  Newton,  dice  il  Bocage,  afferma  che  in  Fernando  Po  si  trova  la  stessa 
specie  che  vive  nell'Isola  del  Principe  (!);  ma,  siccome  in  questa  isola,  oltre  al 
L.  ignitus,  vive  anche  il  L.  splendidus,  od  una  specie  affine,  non  è  improbabile  die 
lo  notizia  del  Newton  si  riferisca  a  questa  specie  e  non  al  L.  ignitus,  che,  a  quanto 
paté,  è  confinato  nell'Isola  del  Principe. 

70.  Lamprocolius  purpureus  (P.  L.  S.  Mull.)  (?). 

Lamprotornis  ptilonorhynchus.    Alien    and   Thoms.,  Narr.   Exped.   Niger,  II,  p.  221  (Fer- 
nando Po)  (,1848).  —  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.   103. 
Lamprotornis  aurata,  Hartl.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  65  (Fernando  Po)  (1852). 
Lamprocolius  auratus,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  117  (1857). 
Lamprocolius  purpureus,  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  175  (18901. 

Nessun  esemplare  di  Fernando  Po  è  annoverato  nel  "  Catalogue  of  Birds  „,  e 
perciò  la  presenza  di  questa  specie  in  Fernando  Po  deve  essere  confermata  da  ulte- 
riori osservazioni. 

71.  Onycognatmis  hartlaubi,  G.  R.  Gr. 

Onycognathus  hartlaubii,  G.  R.  Gr.  in  Hartl.,  P.  Z.  S.,  1858,  p.  291  (Fernando  Po);  1859, 
p.  36.  —  id.,  Abh.  nat.  Ver.  Brem,  IV,  p.  87  (1874).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  XIII,  p.  106 
(specim.  g,  h,  Fernando  Po,  Thomson)  (1890).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  11 
(Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 


11fi  TOMMASO    SALVADOKI  24 


72.  Corvus  scapulatus,  Daud. 

Corvus  leuconotus,  Alien  and  Thoras.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848). 

Hartl.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  65  (1852). 
Corvus  ourvirostris,  Hartl.,  J.  f.  0.,  p.   102.  —  id.,  Orn.  Westafr,  p.  114  (1857). 
Corvus  scapulatus,  Sharpe,  Cat.  B.,  ITI,  p.  22   (specim.  g,  Clarence,  Fernando   Po,   Fraser) 

(1877).  -  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2).  N.  XIII,  p.  9  (Mongola)  (1895). 

73.  Cypselus  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  33  (Sipopo)  (1903). 

J  Similis  C.  unicolori,  sed  multo  minor,  et  gutture  praepectoreque  pallide  cine- 
raceis  distinguendus.  Long.  tot.  circa  6,2  poli.,  culm.  0,25,  alae  5,2,  caudae  2,4. 
tarsi  0,4. 

74.  Tachornis  gracilis  (Sharpe). 

Cypselus  ainbrosiacus,  Hartl.  (nec  Gra.l,  Orn.  Westafr.,  p.  24  (Fernando  Po,  Fraser!)  (1857). 
Tachornis  gracilis,  Hartert,  Cat.  B.,  XVI,  p.  464  (specim.  r,  Fernando  Po)  (1892). 

Il  Fraser  (P.  Z.  S'.,  1844,  p.  93)  non  menziona  questa  specie  di  Fernando  Po, 
ma  di  Accra,  tuttavia  FHartlaub  indica  quella  località,  dalla  quale  infatti  sembra  che 
provenga  un  esemplare  conservato  nel  Museo  Britannico,  menzionato  dallo  Hartert. 

75.  Chaetura  sabinei,  .1.  E.  Gray. 

Acanthylis  bicolor,  Strickl.,  P.  Z.  S.,  1844,  p.  99  (Fernando  Po,  Fraser). 

Acanthylis  sabinii,  Hartl,  Beitr.  Orn.   Westafr.,  p.  17,   n.  36  (1848).  —   id.,  Abh.  naturw. 

Ver.  Hamb.,  II,  p.  17  (1852). 
Chaetura  sabinei,  Hartl.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  25  (1857).   —  Hartert,  Cat.  B.,  XVI,  p.  487 

(specim.  b,  Fernando  Po)  (1892). 

76.  Ceryle  rudis  (L.). 

Ispida  bicincta,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  51  (Fernando  Po). 

Ceryle  bicincta,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  18,  n.  58  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver. 

Hamb.,  II,  p.   18  (1852). 
Ceryle  rudis,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  5.  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  37  (1857).  —  Sharpe, 

Cat.  B.,  XVII,  p.   109  (1892).   —   Boc,   Jorn.   Se.  Lisb.   (2),  N.   XIII,   p.  11  (Mongola, 

F.  Newton)  (1895). 

77.  Ispidina  leucogaster  (Fraser). 

Halcyon  leucogaster,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  4  (Clarence,  Fernando  Po).  —  id.,  Ann.  N.  H.. 

XII,  p.  442  (1843).  —  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  503  (1848). 
Alcedo  leucogaster,  Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  32  (1849).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  18, 

n.  60  (1850).  —  id.,  Abh.  Naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  18  (1852). 
Alcedo  leucogastra,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  4. 

Alcedo  (Ispidina)  leucogastra,  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  35  (1857). 

Ispidina  leucogaster,  Sharpe,  Cat.  B..  XVII,  p.  193  (specim.  h,  Fernando  Po,  Fraser)  (1892). 
Ispidina  leucogastra,  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  7  (Fernando  Po)  (1895). 


25  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  1 1  i 

78.  Halcyon  dryas,  Hartl. 

Halcyon  cinereifrons  pari,  Hartl.,   Beitr.   Orn.  Westafr.,   p.    18,  n.  53  (Fernando  Po:  Mus. 

Brit.)  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,    IT,  p.  18  (1852).  -  id.,  J.  f.  0.,   1854, 

p.  2  (Fernando  Po,  Fraser)  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  32  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Halcyon  dryas,  Sharpe,  Cat.  B.,  XVII,  p.  248  (specim.  g,  h,  Fernando  Po,  Fraser)  (1892). 
?  Halcyon  cyanoleuca,  Boc.  (nec  Vieill.  ?),  Jorn.  Se.  Lisb.  (2)  No.  XIII,  p.  7  (Shark  Eiver, 

Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

Lo  Sharpe  da  ultimo  ha  creduto  di  dover  riferire  all'i?,  dryas  gli  esemplari  di 
Fernando  Po,  raccolti  dal  Fraser,  i  quali  invece  dall'Hartlaub  erano  stati  attribuiti 
all'affine  H.  cinereifrons  (Vieill.)  (=  malimbica,  Shaw). 

79.  Halcyon  lopezi,  B.  Alex. 
Bull.  B.  0.  0.,  XIII,  p.  33  (Sipopo)  (1903). 

j  Similis  H.  badio,  sed  major,  et  speculo  alari  cyaneo  subquadrato  distinguendus. 
Long.  tot.  circa  8,5  poli.,  culm.  1,7,  alae  4,0,  caud.  2,2,  tarsi  0,5. 

80.  Merops  marionis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  33  (Bakaki)  (1903). 

Similis  M.  northeotti,  Sharpe,  sed  torque  iufragulari  nigra  latiore  distinguendus. 
Long.  tot.  circa  8,4  poli,  culm.  1,4,  alae  3,5,  caudae  3,3.  tarsi  0,4. 

81.  Eurystomus  gularis,  Vieill. 

Eurystomus   gularis,   Sharpe,    Cat,   B.,   XVII,   p.   32   (1892).    —  Boc.,   Jorn.   Se.  Lisb.  (2) 
No.  XIII,  p.  7  (Bissé,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

82.  Ceratogymna  atrata  (Temm.). 

Buceros  poensis,   Fraser,   P.  Z.  S.,  1853,  p.  14  (9,  Fernando   Po).    —   id.,  Ann.  N.  H.,   XV, 

p.  136  (9)  (1855). 
Buceros  atratus,  Hartl,  Orn.  Westafr.,  p.  162  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Ceratogymna  atrata,  Grant,  Cat.  B.,  XVII,  p.  389  (1892). 

83.  Heterotrogon  francisci,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  33  (Mount  Si  Ysabel)  (1903). 

9  Affinis  H.  vittato,  sed  multo  minor,  et  fasciolis  albis  tectricum  majorum  et  se- 
cundariarum  latioribus  distinguendus.  Long.  tot.  circa  9,8  poli.,  culm.  0,6,  alae  4,4, 
caudae  4,9,  tarsi  0,6. 

84.  Turacus  burloni  (Vieill.). 

Corythaix  buffoni,  Haiti,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  33,  n.  319  (Fernando  Po)  (1850).  —  id., 

Abh.  naturw.  Ver.  Hamb..  II,  p.  33  (1852).    —   id.,  Orn.  W.  Afr..  p.   156  (Fernando  Po, 

Fraser)  (1857). 
Turacus  sp.?  Boc.,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  10  (1895). 

Questa  specie  fu  annoverata  fra  quelle  di  Fernando  Po  sulla  fede'del  Fraser. 

Secondo  il  F.  Newton,  le  penne  di  un  Turacus,  che  venivano  adoperate  dagl'in- 
digeni di  Fernando  Po  per  ornamento  dei  cappelli,  probabilmente  erano  di  T.  buffoni. 


1  1  8  TOMMASO    SALVADOKI  26 

Turaeus  macrorhynchus  (Fkas.)i 

Corythaix  macrorhyncha,  Praser,  P.  Z.  S.,  1839,  p.  34  (Hab.  — ?).  —  Alien  and  Thoms., 
Narr.  Esperi.  Niger,  II,  pp.  290,  505  (Bimbia  and  Cameroons)  (1848).  —  Hartl.,  Abh.  nat. 
Ver.  Hamb.,  II,  p.  67  (1852).  —  Schal.,  J.  f.  0.,  1886,  p.  36  (Fernando  Po,  fide  Schleg,  l  : 

Musopbaga  macrorhyncha,  Schleg.  u.Westerm.,  DeToerakos,p.  15,  pi.  17 (Fernando  Poi  (1860). 

L'esistenza  di  questa  specie  in  Fernando  Po  è  asserita  dallo  Schlegel,  ma  non 
mi  sembra  provata,  giacche  non  trovo  che  sia  confermata  dal  nome  di  alcun  collet- 
tore; tuttavia  tale  cosa  non  è  improbabile,  giacche  il  Thomson  trovò  questa  specie 
nell'isola  di  Bimbia,  vicinissima  a  Fernando  Po. 

86.  Turaeus  erythrolophus  (Vieill.)  (?). 

Corythaix  erythrolophus  (Vieill.).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  10  (1905). 

F.  Newton  asserisce  di  aver  visto  questa  specie  a  Bassiié,  ma  la  sua  esistenza 
nell'isola  di  Fernando  Po  merita  conferma. 

87.  Corythaeola  cristata  (Vieill.). 

Scizorhis  (sic)  gigantea,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II, p.  221  (Fernando  Po)  (  1  S 
Zizorhis  (sic)  gigantea,  Alien  and  Thoms.,  op.  cit.,  p.  504  (Fernando  Po)  (1848). 
Corythaix  gigantea,  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  33,  n.  321  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw. 

Ver.  Hamb.,  II,  p.  33  (1852). 
Turaeus  giganteus,  Hartl.,  J.  f.  O..  1854,  p.  125.   -  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  159  (1857). 
Corythaeola  cristata,  Shell,   Cat.  IL  XIX.  n..449   (specim.  b,  Fernando  Po,  Thomson)  (1891). 

88.  Cuculus  solitarius,  Steph. 

Cuculus  rubiculus,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  52  (Fernando  Po).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn.  Wes 

p.  36,  n.  366  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  36  (1852).  —  id..  J.  f.  0., 
1854,  p.  202.  —  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  190  (1857). 

Cuculus  solitarius,  Shell,  Cat.  B.,  XIX,  p.  258  (1891). 

89.  Chrysococcyx  cupreus  (Bodd.)  (?). 

Chalcites  auratus,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,   II,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848). 

—  Hartl,  Abh.  nat.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  68,  n.  370  (1852). 
Chrysococcyx  auratus,  Hartl,  J.  f.  O.,  1854,  p.  203.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  190  (1857). 
Chrysococcyx  cupreus,  Shell,  Cat.  B.,  XIX,  p.  285  (1891). 

Lo  Shelley  menziona  un  esemplare  conservato  nel  Museo  Britannico,  indicato 
dell'Africa  occidentale,  raccolto  dal  Fraser;  forse  è  di  Fernando  Po. 

90.  Chrysococcyx  srnaragdineus  (Sw.). 

Chrysococcyx  srnaragdineus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 
Molto  comune  in  Fernando  Po  (F.  Newton). 

91.  Ceuthmochares  aeneus  (Vieill.). 

Zanclostomus  flavirostris,  Fras.  (nec  Sw.),  P.  Z.  S.,  1843,  p.  52  (Fernando  Po).  -  Alien  and 
Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848).  —  Hartl,  Beitr.  Orn. 
Westafr.,  p.  36,  n.  363  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  36  (1852).  —  id., 
.1.  f.  O.,  1854,  p.  201. 


27  CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  119 

Zanclostomus  aereus,  pari,  Hartl.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  187  (Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Ceutbrnocbares  aeneus,  Shell. ,  Cat.  B.,  XIX,  p.  402  (specim.  d,  Fernando  Po,  Fraser)  (1891). 

—  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  N.  XIII,  p.  7  (Bissò,  Fernando  Po,  F.  Newton)  (1895). 

92.  Indicator  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  0.  C,  XIII,  p.  33  (Bakaki)  (1903). 

Similis  I.  exili,  Cass.,  sed  pileo  cinereo  concolore,  ala  extus  laetiore  aureo-flava 
distinguendus.  Long.  tot.  circa  4,3  poli.;  culm.  0,35,  alae  2,5,  caudae  1,45,  tarsi  0,45. 

93.  Barbatula  subsulphurea  (Fraser). 

Bucco  subsulphureus,  Fras.,  P.  Z.  8.,  1843,  p.  3  (Clarence,  Fernando  Po,  Fraser).  — id.,  Ann. 
N.  H.,  XII,  p.  441  (1843).  -  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  504  (1848).  — 
Fras.,   Zool.    Typ.,  pi.  52  (1849).  —    Hartl.,    Beitr.  Orn.   Westafr.,   p.  35,  n.  344  (1850). 

—  id.,  Abh.  uaturw.  Ver.   Hamb.   If,  p.  35  (1852). 

Barbatula  subsulpburea,  Hard,  J.  f.  O.,  1854,  p.   195.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  172  (1857). 

—  Shell,  Cat.  B.,  XIX,  p.  46  (1891). 

94.  Xylobucco  scolopaceus  (Temm.). 

Bucco  sp.,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  4  (note)  (Fernando  Po). 

Bucco  stellatus,  Jard.  et  Fras.,  Contr.  Orn.,  1851,  p.  155    (Clarence,  Fernando  Po,  Fraser). 

Barbatula  stellata,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  196,  n.  412. 

Barbatula  scolopacea,  Haiti.,    Orn.  Westafr.,  p.   174  (1857).  —    Shell.,  Cat.  B.,  XIX,  p.  47 

(specim.  m,  Clarence,   Kiver  Fernando  Po,  Fraser)  (1891).    --  Boc,  Jorn.    Se.   Lisb.  (2), 

XIII,  p.  7  (Fernando  Po)  (1895). 
Xylobucco  scolopaceus,  Marsh.,  Mon.  Capit.,  pi.  47  (Fernando  Po). 

a  (1)  <f  Punta  Frailes,  4  novembre  1901. 
b  (2)  9        „  „  5  novembre  1901. 

"  Comune  „  (Fea). 

95.  Campothera  poensis,  B.  Alex. 
Bull.  B.  O.  C,  XIII,  p.  33  (Besoso)  (1903). 

cf  Affinis  C.  nivosae,  sed  gutture  distincte  nigro  striato,  notaeo  virescenti-olivaceo, 
nec  aureo-olicaceo,  et  praecipue  pileo  cinerascente.  nec  brunnescente  distinguendo.  Long, 
tot.  5,8  poli.,  culm.  0,75,  alae  3,3,  caudae  1,65,  tarsi  0,65. 

96.  Psittacus  erithacus  (L.). 

Psittacus  erythacus,  L.  —  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  10  (Bahia  de  S.  Carlos, 
ilha  de  los  Loros,  F.  Newton)  (1895). 

Abbondante  (F.  Newton). 

97.  Agapornis  pullaria  (L.). 

Psittacula  pullaria,  Jard.,  Contr.  Orn.,  1851,  p.  155  (Fernando  Po,  Fraser). 
Agapomis  pullaria,  Hartl.,  J.  f.  0.,  1854,  p.  194.  —  id.,  Orn.  Westafr.,  p.   168  (1857).  — 
Salvad.,  Cat.  B.,  XX,  p.  510  (1891). 


120  TOMMASO    SALVADORI 


28 


98.  Gypohierax  angolensis  (Gm.). 

Fishing  eagle,  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  221  (Fernando  Po)  (1848). 

Gypohierax  angolensis,  Haiti.,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  14,  n.  2  (Fernando  Po,  Fraser)  1 1850). 
—  id..  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  15,  n.  2  (Fernando  Po,  Fraser).  —  id.,  J.  f.  0., 
1853,  p.  388  (Fernando  Po:  Fras.,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  51)  (*).  -  Strickl.,  Orn.  Syn., 
p.  14  (Fernando  Po.  Fraser)  (1855).  -  Hartl.,  Orn.  Westafr.,  p.  1  (Fernando  Po,  Fraser) 
(1857).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  I,  p.  312  (specim.  e,  Fernando  Po,   Fraser)  (18741. 

99.  Milvus  aegyptius  (Gm.). 

Milvus  aegyptius,  Boc,  .Tom.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  10  (Mongola,  Fernando  Po, 
F.   Newton  (1895). 

100.  Astur  lopezi,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  O,  XIII.  p.  49  (Moka,  Fernando  Po)  (1903). 

s  Similis  A.  toussenelii,  sed  minor,  et  gastraeo  potius  vinaceo-castaneo,  tibiis  et 
abdomine  rinaceo-castaneis,  minime  cinereo  adumbratis  distinguendus.  Long.  tot.  circa  13,0 
poli.,  cnlm.  0,9,  alae  7,3,  caudae  6.2,  tarsi  2,3. 

101.  Bubo  poensis,  Fraser. 

Bubo  poensis,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1853,  p.  13  (Fernando  Po).  —  id.,  Ann.  N.  H.,  XV,  p.  136 

(1855).  —  Sharpe,  Cat.  B.,  II,  p.  42  (Fernando  Po)  (1875). 
Bubo  fasciolatus,    Hartl.,  J.  f.  O.,  1855,  p.    354.    —   id.,    Orn.  Westafr.,    p.    18   (=  poensis, 

Fernando  Po,  Fraser)  (1857). 
Nyctaetos  poensis,  Fraser,  Fernando  Po,  fide  Hartl.,  Ardi.  f.  Naturg.,  1856,  2,  p    21. 

102.  Strix  poensis,  Fraser. 

Strix  poensis,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1842,  p.  189  (Fernando  Po).  —  id.,  Ann.  N.  H,  XII,  p.  366 
(1842).  —  Alien  and  Thoms.,  Narr.  Exped.  Niger,  II,  p.  488  (1848).  —  Hartl.,  Beitr.  Orn. 
Westafr.,  p.  16,  n.  30  (1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb..  II.  p.  16,  n.  30  (1852). 
—  id.,  Orn.  Westafr.,  p.  22  (1857). 

Strix  flammea,  part,  Sharpe,  Cat.  B.,  II,  p.  291  (1875). 

103.  Vinago  calva  (Temm.). 

Treron  calva  (Temm.).  —  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 

Osservata  in  Fernando  Po  dal  sig.  F.  Newton. 

Sebbene  io  non  abbia  potuto  esaminare  esemplari  della  Vinago  di  Fernando  Po, 
tuttavia  credo  cosa  probabile  che  essi  debbano  essere  riferiti  alla  stessa  specie  che  si 
trova  nell'Isola  del  Principe  (V.  calva),  della  quale  ho  potuto  esaminare  quattro  esem- 
plari raccolti  dal  Fea  (Meni.  R.  Acc.  Se.  Tor.  (2),  LUI,  p.  11).  Lo  Sharpe  (Ibis,  1902, 
p.  99)  attribuisce  un  esemplare  dell'Isola  del  Principe,  conservato  nel  Museo  Britannico 
(Cat.  B.,  XXI,  p.  23,  specim.  g)  alla  Vinago  pytìriopsis,  Bp.,  che  secondo  lui  sarebbe 


(*)  Citazione  errata. 


29  FTKIBtTZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA  121 

diversa  tanto  dalla  V.  calva,  quanto  dalla  V.  nudirostris  pel  colorito  verde-olivaceo, 
molto  più  oscuro  e  pel  collare  grigio  a  traverso  la  parte  inferiore  della  cervice  appena 
tracciato.  Senza  volermi  erigere  a  giudice  del  valore  specifico  della  V.  pytiriopsis,  io 
debbo  far  notare  che  i  quattro  esemplari  dell'Isola  del  Principe  da  me  esaminati  sono 
simili  in  tutto  a  due  esemplari  della  Costa  d'Oro  (Ussher)  conservati  nel  Museo  di 
Torino,  e  che  credo  realmente  appartengano  alla  V.  calva.  Mi  sembra  che  le  osser- 
vazioni del  Reichenow  e  dello  Sharpe  intorno  alle  forme  della  V.  calva  non  abbiano 
ancora  definito  la  questione. 

104.  Tympanistria  tympanistria  (Temm.). 

Peristera  tympanistera,  Fraser,  P.  Z.  S.,  1843,  p.  53  (Fernando  Po).  —  Haiti,  Beitr.  Orn, 
Westafr.,  p.  37,  n.  383(1850).  —  id.,  Abh.  naturw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  37  (1852).  —  id., 
J.  f.  0.,  1854,  p.  207.  -  id.,  Syst.  Orn.  Westafr.,  p.  197  (1857). 

Tympanistria  tympanistria,  Salvad.,  Cat.  B.,  XXI,  p.  504  (1893). 

105.  Haplopelia  poensis,  B.  Alex. 

Bull.  B.  O.  C,  XII,  p.  33  (Bakaki)  (1903). 

9  Simìlis  H.  principali,  sed  subcaudalibus   cinereis  nec  <dbis  distinguendo,.  Long, 
tot.  circa  10,7  poli.,  culm.  0,85,  alae  5,9,  caudae  3,2,  tarsi  1,15. 

106.  Numida  meleagris,  L. 

Numida  rendalli,  HartL,  Syst.  Orn.  Westafr.  (Introduz.,  Lista  delle  specie  di  Fernando  Po)  (1857). 

L'isola  Fernando  Po  non  è   indicata  fra    le  località   abitate    dalla   N.  meleagris 

(=  N.rendalli)  a  pag.  199  dell'opera  citata  dell'Hartlaub,  ma  soltanto  nella  Introduzione. 

107.  Xiphidiopterus  albiceps  (Gould). 

Vanellus  albiceps,  Gould,  P.  Z.  S.,  1834,  p.  45  (Fernando  Po).  -  Alien  and  Thoms.,  Narr. 

Exped.  Niger,  II,  p.  508  (River  Quorra,  W.  Africa)  (1848). 
Sarciophorus  albiceps,  Fraser,  Zool.  Typ.,  pi.  64  (Fernando  Po)  (1849). 
Lobivanellus  albiceps,  Strickl.  —  HartL,  Beitr.  Orn.  Westafr.,  p.  39,  n.  410  (1850).  —  id.,  Abh. 

natnrw.  Ver.  Hamb.,  II,  p.  39  (1852).  —  id.,  .1.  f.  O.,  1854,  p.  216.  —  id.,  Orn.  Westafr., 

p.  214  (Fernando  Po)  (1857). 
Xiphidiopterus  albiceps,  Sharpe,  Cat.  B.,  XXIV,  p.  147  (speóm.g,  Fraser,  h  Fernando  Po)  (1896). 

108.  Trlngoides  hypoleucus  (L.). 

Actitis  hypoleucos,  Boa,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  10  (Mongola,  Fernando  Po, 
F.  Neutou)  (1895). 

109.  Numenius  phaeopus  (L.). 

Numenius  phaeopus,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  13,  p.  11  (1895). 

Osservato  dal  F.  Newton  presso  Mongola  sul  littorale  di  Fernando  Po. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  P 


122  TOMMASO    SALVADORI  30 

110.  Àrdea  gularis,  Bosc. 
Ardea  gularis,  Boc,  Jorn.  Se.  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 

Osservato  dal  F.  Newton  a  S.  Carlo  e  Conception  durante  la  bassa  marea. 

111.  Butorides  atricapillus  (Afzel.). 

Butorides  atricapillus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 
Osservato  dal  F.  Newton  sullo  Shark-River. 

112.  Bubulcus  lucidus  (Rafin.). 
Bubulcus  ibis,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 
Osservato  dal  F.  Newton  a  Bassilé,  sulle  terre  coltivate. 

113.  Sterna  sp. 

Sterna  sp.?,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  XIII,  p.  11  (1895). 

Una  specie  non  determinata  di  Sterna  fu  trovata  dal  F.  Newton  presso  Biapà. 

114.  Anous  stolidus  (L.). 
Anous  stolidus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.   11  (1895). 
Comune  sulla  spiaggia  del  mare  (F.  Newton). 

115.  Phaeton  lepturus  (Lacép.  et  Daud.). 
Lepturus  candidus,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 

Trovato  dal  F.  Newton  sulle  roucie  inaccessibili  del  littorale  presso  Biapà. 

116.  Sula  leucogastra  (Bodd.). 

Sula  flber,  Boc,  Jorn.  Se  Lisb.  (2),  No.  XIII,  p.  11  (1895). 

Trovata  molto  abbondante  dal  F.  Newton  sulle  roccie  inaccessibili  del  littorale 
presso  Biapà. 


31 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA 


123 


APPENDICE 


Distribuzione  geografica  degli  uccelli  nelle  Isole  del  Golfo  di  Guinea. 


Hirundinidae 

Hirundo  rustica  .  . 
Cotile  cincta .... 
Ckelidon  urbica  .  . 
'Psalidoprocne  poensis 

Muscicapidae 

Diaphorophya  leucopygiali 
„  cblorophrys 

*Batis  poensis  .... 
"Terpsiphone  trioolor 

*  „  newtoni  .     . 

*  „  atrocbalybea 
*Smithorni.s  sharpei  .  . 
*Cryptolopha  herberti  . 
Cassinia  fraseri  .  .  . 
'Lioptilus  claudei .  .  . 
Melaenomis  aedolioides  ') 

Dicruridae 

'Dicrurus  modestus    .     . 

Prionopidae 

"Cupbopterus  dohrni .  . 
Fraseria  ochreata  . 

Laniidae 


"Lanius  newtoni 

"Dryoscopus  poensis  .  .  .  . 
Laniarius  sulphureipectus  ')  . 
Chloropboneus  olivaceus  (?)  ') 

Nectariniidae 


'Elaeocertbia  thomensis 
Cinnyris  obloropygius     . 

„         angolensis    .     . 

,         obscurus .     .     . 

*  „         poensis    .     .     . 
„         cyanolaemus    . 

*  ,         ursulae    .     .     . 

*  ,         newtoni   .     .     . 

*  „         hartlaubi      .     . 
Anthodiaeta  hypodila     . 

„  tephrolaema 

Antbothreptes  fraseri 


Zosteropidae 

*Parmia  leucophaea  .     . 
*Zosterops  ficedulina .     . 

*  „  feae  .... 

*  T  griseovireseens 
*Speirops  lugubris      .     . 

*  „         brunnea      .     . 


Turdidae 

Pratincola  rubetra      .     . 
"Turdus  olivaceofuscus   . 

*  „        xanthorhyncbus 
„        poensis      .     .     . 

Timeliidae 
'Callene  roberti     .     . 

*  ,  poensis  .  . 
*Neoeossyphus  poensis 
Alethe  poliocepbala   . 

„       castanea      .     . 

*  „  moori  .  .  . 
"Cryptillas  lopezi  .  . 
"Calaruocichla  poensis 
*Apalis  lopezi  .  .  . 
"Urolais  rnariae  .  . 
Euprinodes  rufogularis 

*  „  olivaceus . 

*  „  sclateri  . 
Eremomela  badiceps  . 
C'ameroptera  superciliar 

*  „  granti    . 
*Poliolais  heleonorae 
"Hylia  poensis  .     .     . 
Stipbrornis  gabonensis 
'Prinia  molleri .     .     . 
*Macrospbenus  poensis 
"Turdinus  bocagei 
*Amaurocicbla  bocagei 

Brachypodidae 
Xenocichla?  tricolor  .  . 
Andropadus  latirostris    . 

„  virens     .     . 

Stelgidillas  gracilirostris 

*  „  poensis    .     . 
*Pnyllostropnus  poensis. 


*  Sono  segnate  con  asterisco  le  specie  peculiari  alle  isole. 
')  Isola  Rollas. 


124 


TOMMASO    SALVADORI 


32 


99 

100 


101 

102 


in:; 
ini 


105 


ini; 
107 
108 
109 
LIO 


IH 


Motacillidae 

Anthus  gemitìi   .     .     . 


Fringillidae 

Passer  diffusus  .  .  . 
'Linurgus  rufobrunneus 

*  „         thomensis  . 

*  „  olivaceus  . 
*Neospiza  concolor  . 
Serinus  icterus  .     .     . 


Ploceidae 


Nigrita  bicolor  .     .     . 

„        canicapilla     . 

„        f'useonota  .     . 

„  luteifrons  .  . 
Vidua  principalis  .  . 
Steganura  paradisea  . 
Pyromelaena  aurea  . 
"Cryptospiza  elizae  . 
Spermestes  poensis  . 
„  cuculiata 

*Nesocharis  shelleyi  . 
Quelea  erythrops  .     . 
Lagonosticta  thomensis 
Estreltla  astrild      .     . 

„         rubriventris 

,         elizae  .     .     . 


'Heterhyphantes  sancti  thomae 
„  melanogaster  (?) 

*Sycobrotus  poensis   .     . 

Sitagra  brachyptera  .     . 

'Hyphantornis  grandis  . 
,  princeps . 

„  cuculiata 

„  capitalis 

Melanopteryx  nigerrima 
„  maxwelli . 

Malimbus  rubrieollia .     . 

Oriolidae 
Oriolus  cra8sirostris  .     . 
Sturnidae 

Lamprocolius  splendidus 

*  „  chubbi .  . 
„  ignitus .  . 
„             purpureus 

'Onycognathus  fuìgidus  . 

*  „  hartlaubi . 

Corvidae 


Corvus  scapulatus .  . 
Cypselidae 

Cypselus  affinis      .  . 

*  ,  poensis  .  . 
Taebornis  gracilis  .  . 
Chaetura  sabinei    .  . 

*  ,          thomensis  . 


Alcedinidae 


Ceryle  rudis  .     . 
maxima  . 


112  Corythornis  galerita  . 

113  *         „  thomensis 

114  Ispidina  leucogaster  . 

115  Halcyon  dryas  .     .     . 

116  *      „         Jopezi .     .     . 


117 


l'J'.i 


l:;2 


Meropidae 

Merops  superciliosus  . 
*  „  marionis  .  . 
Dicrocercus  f'urcatus  . 
Melittophagus  pusillus 

Coraciidae 


Coracias  garrula     .     .     . 
Eurystomus  gularis    .     . 

Bucerotidae 

Ceratogynma  atrata  .     . 

Trogonidae 
*Heterotrogon  francisci  . 
Musophagidae 

Turacus  buffoni  (?)      .     . 

„         macrorhynchus . 

„         erythrolophus   . 
Corythaeola  cristata  .    . 

Cuculidae 


Cuculus  canorus     .... 
„        solitarius  .... 
Chrysococcyx  cupreus     .     . 
„  smaragdineus 

Coccystes  glandarius  .     . 
Ceutmochares  aeneus     .     . 

Indicatoridae 

'Indicator  poensis .... 

Capitonidae 

Barbatula  subsulphurea 
Sylobucco  scolopaceus    .     . 

Picidae 

"Campothera  poensis .    .     . 

Psittacidae 

Psittacus  erithacus     .     .     . 

Agapornia  pullaria     .     .     . 

,  roseicollis .     .     . 

Vy.lturidae 

Neophron  pileatus      .     .     . 

Falconidae 

Gypoliierax  angolensis  .  . 
Milvus  aegyptius  .... 
*Astur  lopezi 


Strigidae 


*Bubo  poensis  . 
'Scops  leucopsis 
*    .       feae    .     . 


33 


CONTRIBUZIONI    ALLA    ORNITOLOGIA    DELLE    ISOLE    DEL    GOLFO    DI    GUINEA 


125 


141    *Strix  thomensis 
142 


„      poensis    .... 
Columbidae 

Vinago  calva     .... 

*  „  sancii  thomae  . 
"Columba  thomensis  .  . 
"Turturoena  malherbei  . 
Turtur  seraitorquatus  '). 
Tympanistria  tympanistria 
Chalcopelia  afra  ')  .  . 
'Haplopelia  simplex  .     . 

*  „  principalis  . 
„  poensis   .     . 

*  „  hypoleuca   . 

Phasianidae 

Numida  meleagris      .     . 

Perdicidae 

Coturnix  delegorguei 

Glareolidae 

Glareola  melanoptera     . 

Parridae 

Phyllopezus  africanus     . 

Charadriidae 

Xiphidiopterus  albiceps 
Arenaria  interpres     .     . 


Scolopacidae 

Totanus  glareola   .     . 

,  glottis  .     .     . 

Tringoides  hypoleucus 

Numenius  phaeopus  . 

,  arquata 

Ancylocheilus  subarquata 


g 

= 

= 

° 

EH 

— 

- 

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1 

1 

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1 

1 

1 

1 

1(19 


Rallidae 

Rallus  caerulescens    .  . 

Crecopsis  egregia  .     .  . 

Gallonila  chloropus  (?)  . 

„          angulata     .  . 

Ibidae 

Lampribis  olivacea     .     . 

Ciconiidae 

Cìconia  alba 

Ardeidae 

Ardea  gularis  .... 
Herodias  garzetta  .  .  . 
Butorides  atricapillus  . 
Ijiihulcus  lucidus    .     .     . 

Phoenicopteridae 

Phoenicopterus  roseus  . 
Phoeniconaias  minor .     . 

Laridae 

Sterna  anaestheta .     .     . 

sp 

„  tuliginosa  .  .  . 
Anous  stolidus  .... 
Micranous  leucocapillus 

Phaetontidae 

Phaeton  aethereus      .     . 
„         lepturus   .     .     . 

Pelecanidae 

Sula  leucogastra  .  .  . 
Phalacroeorax  africanus 

Procellariidae 

Puffinus  griseus  .  .  . 
Oceanodroma  castro  .     . 


■- 

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r— 

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1 

118 

l'I 

63 

IH 

')  Isola  Rollas. 


TEORIA   ELETTROMAGNETICA 

DELL'EMISSIONE   DELLA   LUCE 


MEMORIA 

DI 

ANTONIO  GARBASSO 


Approvata  nell'adunanza  dell'8  Febbraio  1903. 


SOMMARIO.  —  1.  Concetto  ed  ordine  della  ricerca  —  2.  Oscillazioni  di  un  conduttore  complesso  — 
3.  Conduttore  ad  una  sola  oscillazione  —  4.  Conduttore  a  due  oscillazioni  —  5.  Conduttore 
a  tre  oscillazioni  —  6.  Un  altro  conduttore  a  tre  oscillazioni  —  7.  Conduttori  a  quattro  e 
cinque  oscillazioni  —  8.  Conduttori  per  i  quali  si  abbassa  il  numero  delle  oscillazioni  :  caso 
particolare  —  9.  Oscillazioni  di  un  sistema  di  conduttori  —  10.  Schermo  di  risonatori  — 
11.  Sistema  di  due  conduttori  qualunque  —  12.  Due  conduttori  ad  una  sola  oscillazione  — 
13.  Due  conduttori  a  due  oscillazioni  —  14.  Sistema  di  due  conduttori  uguali  —  15.  Casi 
particolari  —  16.  Sistema  di  tre  conduttori  qualunque  —  17.  Sistema  di  tre  conduttori  uguali: 
caso  particolare  —  18.  Ancora  le  oscillazioni  di  un  sistema  di  conduttori  —  19.  Oscillazioni 
di  un  sistema  di  sistemi  —  20.  Modello  per  gli  atomi  materiali  —  21.  Atomi  di  corpi  chi- 
micamente simili  —  22.  Modello  per  le  molecole  materiali  —  23.  Variazioni  nello  spettro  — 
24.  Molecole  di  corpi  isomeri  —  25.  Conclusione. 

§  1.  Concetto  ed  ordine  della  ricerca.  —  In  certi  lavori  di  indole  speri- 
mentale, pubblicati  alcuni  anni  or  sono,  feci  vedere  che  un  sistema  di  risonatori  di 
Hertz  costituisce  un  modello  accettabile  della  materia  per  un  buon  numero  di  feno- 
meni (come  l'assorbimento  elettivo,  il  colore  superficiale,  la  rifrazione  e  la  dispersione 
delle  onde  luminose);  i  quali  tutti  dipendono  dalla  struttura  molecolare  dei  corpi. 

Nel  medesimo  ordine  di  idee  mi  propongo  di  dare  adesso  una  teoria  dell'emis- 
sione della  luce.  La  cosa  non  pare  priva  di  convenienza  perchè  i  lavori,  pubblicati 
fino  ad  oggi  su  tale  argomento  da  Lecoq  de  Boisbaudran,  da  E.  Wiedemann,  Julius, 
Griinwald,  Stoney  e  pochi  altri,  sono  scarsi  di  numero  e  nessuno  ha  carattere  defi- 
nitivo. Mancando  il  più  delle  volte  di  una  forma  analitica  conveniente,  le  conside- 
razioni che  essi  contengono  riescono  quasi  sempre  difettose  o  male  determinate  ;  quindi 
ne  viene  come  prima  e  più  grave  conseguenza  una  grande  disparità  di  idee  fra  i 
diversi  autori. 

Anche  al  quesito  principalissimo  della  nostra  ricerca,  che  è  su  la  natura  del 
sistema,  ai  cui  moti  deve  attribuirsi  l'origine  delle  perturbazioni  luminose,  si  danno 
da  varie  parti  risposte  differenti.  Per  taluni  autori  (Kayser)  le  onde  della  luce  sono 
dovute  ai  moti  degli  atomi  materiali,  per  altri  (Lecoq  de  Boisbaudran)  alle  oscilla- 


128  ANTONI')    GARBASSO  '1 

zioni  delle  molecole,  per  altri  ancora  (E.  Wiedemann)  dipendono  dai  due  movimenti 
ad  un  tempo. 

1  quali  ultimi  concetti,  poco  chiari,  e  senza  dubbio  lontani  dal  meccanismo  della 
natura,  derivano  dalla  difficoltà,  che  si  prova,  nella  ipotesi  elastica  del  fenomeno 
luminoso,  per  intendere  come  le  vibrazioni  caratteristiche  si  modifichino,  quando 
l'atomo  passa  a  costituire  delle  molecole  complesse. 

Niente  di  simile  accade  se  consideriamo  le  cose  dal  punto  di  vista  delle  teorie 
elettromagnetiche,  ma  anzi  la  ricerca  si  svolge  piana  e  sicura  e  conforme  ai  risultati 
dell'esperienza  diretta. 

L'ordine  del  nostro  studio  è  imposto  dalla  natura  stessa  del  problema.  Che  l'ec- 
citatore del  Hertz  non  possa  rappresentare  senz'altro  gli  atomi  dei  corpi  luminosi 
riesce  chiaro  a  priori;  nella  forma  schematica  di  due  capacità  congiunte  da  un  filo, 
esso  possiede  infatti  un  unico  periodo  determinato  di  vibrazione,  vale  a  dire  uno 
spettro  di  una  sola  riga.  Le  cose  devono  essere  invece  assai  più  complicate  nella 
natura,  se  per  certi  vapori  di  sostanze  elementari  le  righe  si  contano  a  centinaia  e 
migliaia. 

Bisognerà  dunque  in  primo  luogo  porre  e  risolvere  il  problema  delle  oscillazioni 
di  un  conduttore  complesso.  Ricercheremo  in  seguito  come  i  periodi  proprii  si  modi- 
fichino, quando  un  conduttore  è  posto  in  presenza  di  altri;  ed  estendendo  man  mano 
la  generalità  dei  nostri  calcoli  studieremo  da  ultimo  il  caso  di  un  sistema  di  sistemi. 

A  questo  punto  solamente  si  cercherà  di  vedere  come  i  resultati  della  teoria 
possano  corrispondere  a  quelli  più  sicuri  dell'analisi  spettrale. 

§  2.  Oscillazioni  di  un  conduttore  complesso.  —  Un  conduttore  com- 
plesso sarà  costituito  in  generale  da  certe  p  capacità,  congiunte  due  a  due  da  diversi 
fili;  e  questi  siano  in  tutto  in  numero  di  m. 

Chiameremo  ir,  p,  o",  t  gli  indici  correnti  delle  capacità,  u,  v  gli  indici  correnti 
dei  fili.  Ogni  capacità  si  distinguerà  con  un  indice  solo  (come  tt):  ogni  filo  si  distin- 
guerà con  tre  indici  (come  tt,  p,  u),  il  primo  e  il  secondo  relativi  alle  capacità  che 
il  filo  congiunge,  il  terzo  relativo  al  filo  stesso;  finalmente  ogni  coppia  di  fili  si  di- 
stinguerà con  sei  indici  (come  tt,  p,  u,  o",  t,  v),  i  primi  tre  relativi  al  primo  filo  e  gli 
ultimi  al  secondo. 

Diremo  q  le  cariche,  C  le  capacità,  R  le  resistenze,  L  i  coefficienti  di  autoindu- 
zione, i  le  correnti,  M  i  coefficienti  di  induzione  mutua. 

Si  osserverà  espressamente  che  %,£,,«  è  la  corrente  che  va  dalla  n-esima  alla 
p-esima  capacità,  seguendo  il  u-esimo  filo. 

Si   avrà: 

C1) 

tjT.lJ.lt  *p,7T,/(. 

Le  equazioni  del  problema  sono  divise  in  due  serie;  la  prima  serie  è  relativa 
ad  ogni  capacità  e  si  scrive: 

(2)  Dqn  +  19  ZP  inw  =  0  ,  (D  =  -|- ) 


3  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE  129 

la  seconda  è  relativa  ad  ogni  filo  e  si  scrive: 

(3)  ~  qQ  —   *-  qjr  +  £"  *r  2>  Nn.o.,a,a,ry  ffl.r.v  =  0 , 

intendendo  che  sia: 

"  7T,Q,fl,Jt,Q,U  =:  JtjI,Q,ft  T  J-'-L'TCQ./lt  ,  ,     > 

D  =  4-   . 

V  71/17"  \  <"   / 

1'7t.Q,/J,,G,T,V  1JJ17T,Q.ll,C,ry- 

Il  numero  complessivo  di  queste  equazioni  si  ottiene  sommando  il  numero  totale 
delle  capacità  col  numero  totale  dei  fili  ;  esse  sono  dunque  tante  quante  sono  le  in- 
cognite q  ed  i.  Il  resultato  dell'eliminazione  si  esprime,  come  è  noto,  applicando  a 
ciascuna  q  ed  a  ciascuna  i  il  determinante  dei  coefficienti.  Ora,  poiché  ogni  suo  ele- 
mento è  al  massimo  di  primo  grado  in  D,  il  determinante  sarà  una  funzione  di  D 
di  grado  non  superiore  a 

p  +  m. 

In  realtà  però,  svolgendo,  si  troverebbe  che  il  grado  è  minore,  e  la  cosa  può  anche 
riconoscersi  a  priori.  Si  avrà  infatti  per  le  (1)  e  (2): 

DI*q„=  -  IT8I.«  i^,,  =  0. 

E  quindi  possibile  fare  in  modo,  con  semplici  addizioni  di  linee,  che  il  D  risulti  fattore 
in  una  orizzontale  del  determinante;  allora  il  grado  (t)  di  quest'ultimo  diventa: 

T  =  p  +  m  —  1. 

Se  dunque  si  studia  un  condutture  comunque  complesso  ogni  sua  carica  ed  ogni  sua 
corrente  è  determinata  da  un'equazione  differenziale  lineare  ed  omogenea  (la  stessa  per 
tutte  le  variabili),  il  cui  ordine  è  inferiore  di  uno  alla  somma,  che  si  ottiene  aggiungendo 
al  numero  delle  capacità  il  numero  dei  fili. 

La  caratteristica  di  tale  equazione,  che  per  brevità  chiameremo  nel  seguito  ca- 
ratteristica del  conduttore,  si  scrive  ponendo  senz'  altro  a  zero  il  determinante  e  con- 
siderando in  esso  il  D  come  un'  incognita  e  non  più  come  un  simbolo  operatorio  ; 
avrà  in  generale  il  grado  p  -f-  ni  —  1. 

Così,  per  esempio,  se  si  tratta  di  due  capacità  riunite  da  un  unico  filo,  come  nel 
caso  classico  di  Lord  Kelvin,  la  caratteristica  diventa  di  secondo  grado. 

Se  le  capacità  sono  due  ed  m  i  fili,  il  grado  della  caratteristica  è  m  -f- 1. 

Se  si  avesse  un  conduttore  costituito  secondo  lo  schema  della  benzina,  come  fu 
disegnato  dal  Kékule,  e  si  interpretassero  gli  atomi  come  capacità  e  i  tratti  di  linea, 
relativi  alle  valenze,  come  fili,  la  caratteristica  risulterebbe  di  ventesimosesto  grado. 

In  pratica  il  procedimento  di  calcolo  che  abbiamo  seguito  non  suole  essere  con- 
veniente, perchè,  se  appena  la  struttura  del  conduttore  si  complica  un  poco,  l'ordine 
del  determinante  appare  elevatissimo,  ed  il  suo  svolgimento  diviene  lungo  e  penoso. 

È  più  comodo  eliminare  le  cariche  dalle  (3)  per  mezzo  delle  (2)  ;  si  ottiene  così 
un  sistema  di  m  equazioni  fra  le  m  correnti,  e  l'ordine  del  determinante  si  riduce 
Serie  II.  Tom.  LUI.  D 


130 


ANTONIO    GAEBASSO 


anche  ad  m.  Naturalmente  con  questo  non  muta  la  natura  e  il   grado   della  carat- 
teristica. 

Converrà  anche  distinguere  i  diversi  fili  con  un  solo  numero  progressivo,  e  mettere 
le  (3)  sotto  la  nuova  forma  : 


(4)  ZvP(t,viv  =  0, 

la  caratteristica  si  induce  allora  all'aspetto  semplice: 

•*1,1    -^  1,2    •  •  •     "l,m 


H=  1.  2,  ...,  m 


(5) 


Pt,\  1  i,ì  ■  ■  ■  £%,v 


PmAPm.t...Pm 


=  0. 


§  3.  Conduttore  ad  una  sola  oscillazione.  —  Passiamo  adesso  allo  studio 
di  qualche  caso  particolare,  sia  per  vedere  come  si  applichi  in  pratica  il  metodo  indi- 
cato nell'ultimo  paragrafo,  sia  per  dedurre  alcuni  resultati,  che  saranno  utili  nel  se- 
guito della  ricerca. 

Il  conduttore  più  semplice,  che  si  possa  imaginare,  è  costituito  da  due  capacità 
uguali,  congiunte  da  un  filo  (Fig.  1  «);  in  questo  caso  il  sistema  (4)  si  riduce  all'unica 
equazione: 

[(5  +  LZ>)2>  +  -|]*  =  0; 
posto  : 

(J8  +  LZ>)Z)+-§  =  S, 

si  ha  dunque  come  caratteristica: 

8=0. 

Se  la  resistenza  è  piccola  il  conduttore  emetterà  una  riga,  corrispondente  al 
periodo  : 


LC_ 

2 


§  4.  Conduttore  a  due  oscillazioni.  —  Si  abbiano  invece  tre  capacità  iden- 
tiche, riunite  da  due  fili,  uguali  fra  loro,  rettilinei  e  ortogonali  (Fig.  16).  Distin- 
guendo i  fili  con  gli  indici  1  e  2  si  scriverà  il  sistema  (4)  sotto  la  forma: 


(  [(B  +  LD)D  +  -|]  ».  —  \  h  =  0  , 


se  ora  si  pone: 


5  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE 

la  caratteristica  del  conduttore  diventerà: 
8 


131 


S 


S2  _  ,.2  _  (fl  _  ,.)  (S  +  r)  =  o . 


Qui  le  onde  sono  due,  e  i  loro  periodi  sono  definiti  dalle  relazioni: 
Tj.  =  2tt  \/LC, 


Fig.  1.  —  «)  Conduttore  ad  una  sola  oscillazione.  6)  Conduttore  a  due  oscillazioni. 
e)  Conduttore    a  tre   oscillazioni,  d)  Conduttore   le    cui   oscillazioni   si  riducono    a  due. 

§  5.  Conduttore  a  tre  oscillazioni.  —  Il  caso  immediatamente  successivo 
è  quello  di  quattro  capacità  tutte  uguali,  congiunte  da  tre  fili  (1,  2,  3)  rettilinei, 
uguali  fra  loro,  e  paralleli  ordinatamente  agli  spigoli  di  un  triedro  trirettangolo 
(Fig.  le). 

Le  equazioni  (4)  diventano: 

[(JB  +  iD)D  +  4-]<8--g-H  =  0f 

e  con  i  soliti  simboli  la  caratteristica  si  scrive: 
8    r    0 
r    S    r     =8(8*  —  2r2), 

=  S(S+r]/2){S—  r\l2)  =  0. 


132 


ANTONIO    &ABBASSO 


Vi  sono  dunque  nello  spettro  tre  righe,  corrispondenti  ai  periodi: 
7\  =  2ir]/- 
T,  =  2tt  |/- 
Ts  =  2ti  j/ 


■LC 
2  — T'2" 


XC 


2+V2 


§  6.  Un  altro  conduttore  a  tre  oscillazioni.  —  Negli  esempii,  che  ab- 
biamo trattato  al  penultimo  e  all'ultimo  paragrafo,  il  calcolo  è  reso  semplice  per  il 
fatto  die  l'induzione  mutua  è  ridotta  a  zero.  Le  formole  ottenute  hanno  però  un'im- 
portanza maggiore  di  ciò,  che  si  potrebbe  credere  a  prima  vista;  in  quanto  esse 
valgono  per  approssimazione  anche  se  i  fili  costituenti  i  conduttori  si  orientano  in 
altro  modo,  purché  codesti  fili  siano  lunghi  in  confronto  del  loro  diametro. 

L'esame  di  un  caso  particolare  riesce  opportuno  per  mettere  in  chiaro  la  pro- 
prietà di  cui  si  tratta.  Supporremo  che  il  conduttore  sia  nuovamente  costituito  da  tre 
pezzi  di  filo  (uguali)  e  quattro  capacità,  anche  uguali  fra  loro;  ma  i  fili  vogliamo  che 
siano  secondo  una  medesima  retta,  e  le  capacità  saranno  dischi  di  lamiera,  forati  nor- 
malmente nel  centro  (Fig.  4  b  e  ic). 

Chiameremo  M  il  coefficiente  di  induzione  relativo  a  due  fili  vicini  (1,2;  2,1  ; 
2.3;  3,2)  e  m  il  coefficiente  per  la  coppia  di  due  fili  lontani  (1,3;  3,1);  ponendo   per 

semplicità  : 

J_ 
C   ' 


I  =  IPM 


a  =  D*m  , 


la  caratteristica  del  conduttore  diventa: 


s   1 

a 

I    s 

I 

0    I 

S 

:  (S  —  a)  (S2  +  aS  —  2P)  =  0. 


Se  ora  si  effettua  lo  svolgimento,  si  trascurano  le  resistenze  e  si  pone  ancora: 
a  =  L2 -f  L»m  —  2AP, 
b  =  |  (2L  +  m  +  2M) , 


e2 


risulta  : 


[(L  —  m)  D*  +  -|-]  («D*  +  ÒZ>2  +  e)  =  0 


7  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE  133 

e  quindi: 

T2  =  2tt  ]/- 


(L  —  m)  C 


Adesso  bisogna  naturalmente  calcolare  M  ed  m,  ma  la  cosa  è  subito  fatta  se  si 
suppone  di  conoscere  L;  perchè,  chiamando  l  la  lunghezza  di  ciascun  tratto  di  filo, 
verrà  : 

L(2/)  =  2L(0  +  2.V. 
e  quindi: 

M=}[L(2l)-2L(l)];  (*) 

similmente  : 

L(3Z)  =  3L(0  +  4M+2m, 

e  dunque: 

m  =  -|-[L(30  — 8L(0-4JfJ-  (**) 

A  questo  punto  si  noti  che,  secondo  una  formola  del  Poincaré,  è: 

L(0  =  2z(logif-l), 

ove  con  d  si  indichi  il  diametro  del  filo. 

Sostituendo  nelle  (*)  e  (**)  risulta  dunque: 

i¥=nog4, 

27 

w  =  nog~- 

Le  espressioni  di  L,  M  ed  m  fanno  vedere  che,  mentre  la  prima  grandezza  di- 
pende da  l  e  dal  rapporto  -~ ,  le  ultime  due  sono  funzioni  della  sola  l.  E  poi  chiaro 
che  al  diminuire  della  d  la  L  cresce  ;  se  dunque  i  fili  sono  lunghi  e  sottili  l'induzione 
mutua  sarà  piccola  davanti  all'autoinduzione. 

La  ragione  fisica  di  questo  fatto  sta  in  ciò  che  una  corrente,  distribuita  in  un 
mantello  cilindrico,  agisce  all'esterno  come  se  fosse  concentrata  su  l'asse  ;  il  risultato  è 
dunque  generale,  più  che  non  possa  apparire  dal  caso  che  si  è  considerato. 

§  7.  Conduttori  a  quattro  e  cinque  oscillazioni.  —  Volendo  procedere 
al  calcolo  di  conduttori  sempre  più  complessi  noi  supporremo  precisamente  che  i  fili, 
di  cui  sono  costituiti,  siano  lunghi  e  sottili. 


134 


ANTONIO    CiAHBASSO 


Se  per  esempio  vi  sono  in  tutto  cinque  capacità  (uguali),  riunite  due  a  due  da 
quattro  fili,  uguali  anche  fra  loro,  come  nella  figura  4  a,  la  caratteristica  si  potrà  scri- 
vere sotto  la  forma  : 

S    r     0     0 


r     S     r     0 
0     r     S    r 
0     0     r     S 
dalla  quale  si  deducono  i  periodi: 

T,  =  2tt 

T,  =  2tt 

T3=2tt 

r4=  2tt 


S*  —  3r2S2  +  r*  =  0, 


LC 


-t 


3  +  V5 


k-n 


-1 


i 


3  — V  5 


2  + 


1 


3  +  V5 


Se  le  capacità  sono  sei,  tutte  uguali,  congiunte  due  a  due  da  cinque  fili  pure 
eguali,  viene  come  caratteristica: 


S  r     0     0  0 

r  S    r     0  0 

0  r     S     r  0 

0  0     r     S  r 

0  0     0     r  S 

e  di  qui  si  ricavano  i  periodi  : 


=  S{S*  —  4r2S2  +  3r±)  =  0  , 


=  2*]/- 


iC 


2— j/3 
T2=2ti|/LC, 


LC 
3 


T4  =  2tt  ]/- 

r    2  +  ^3 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


135 


Sarebbe  facile  scrivere,  con  le  solite  ipotesi,  le  caratteristiche  di  sistemi  sempre 
più  complessi,  ma  per  ora  non  ne  abbiamo  bisogno.  Ritorneremo  su  l'argomento 
più  tardi. 

§  8.  Conduttori  per  i  quali  si  abbassa  il  numero  delle  oscillazioni: 
caso  particolare.  —  La  regola  del  paragrafo  2,  secondo  la  quale  il  grado  della 
caratteristica  si  calcola  con  la  forinola  : 

Y  =  p  -|-  m  —  1 , 

assegna  in  realtà  un  valore  massimo  ;  non  è  escluso  che,  per  una  scelta  particolare 
delle  costanti,  o  una  disposizione  speciale  dell'apparecchio,  il  grado  si  abbassi  o  certe 
radici  diventino  doppie  o  multiple.  Può  servire  come  esempio  il  caso  del  conduttore 
rappresentato  dalla  figura  1  d. 

Si  tratta  di  quattro  capacità  identiche,  riunite  due  a  due  da  tre  fili  rettilinei, 
uguali,  e  disposti  secondo  gli  spigoli  di  un  triedro  trirettangolo  : 

Il  sistema  (4)  prende  la  forma  : 

[(2?  +  LZ))£  +  -|]t1+-^i!  +  -|i3^0, 
[{R  +  LD)D  +  -§]  i2  +  ±  i,  +  ±  i,  =0  , 

[(R  f  LD)  D  +  -§]  i3  +  -|  h  +  ±  H  =  0  , 
e  la  caratteristica  diventa: 


S    —  r     —  r 
r         S    —r 

r     —r  S 


=  S{S*  —  r*)  —  2r*{S  +  r), 


=  {S—  2r)(S+»-)'2  =  0. 
Quindi  rimangono  solamente  due  righe,  determinate  dai  periodi: 
T,  =  2tt  \/LC, 


2tt 


1    LC 


e  una  costituisce  l'ottava  dell'altra. 


§  9.  Oscillazioni  di  un  sistema  di  conduttori.  —  Imagineremo  che  il 
sistema  comprenda  un  numero  qualunque  a  di  conduttori,  uguali  o  no,  poco  importa. 

Chiameremo  a,  f?  gli  indici  correnti  dei  conduttori  ;  tt,  p,  0",  t  gli  indici  correnti 
delle  capacità  ;  u,  v  gli  indici  correnti  dei  fili. 

Ogni  conduttore  si  distinguerà  con  un  indice  solo  (come  a). 

Ogni  capacità  con  due  indici  (come  a,  ti),  il  primo  relativo  al  conduttore  e  il 
secondo  alla  capacità  stessa.  Ogni  filo  poi  si  distinguerà  con  quattro  indici  (come  a, 


1    ;i,  ANTONIO    GAEBASSO  10 

ir,  p,  u),  il  primo  relativo  al  conduttore,  il  secondo  e  il  terzo  alle  capacità  che  il  ilio 
congiunge,  il  quarto  al  filo  stesso  ;  finalmente  ogni  coppia  di  fili  si  distinguerà  con 
otto  indici  (come  a,  tt,  p,  u,  p,  cr,  t,  v),  i  primi  quattro  relativi  al  primo  filo  e  gli  ultimi 
al  secondo. 

Per  le  cariche,  le  capacità,  le  resistenze,  i  coefficienti  di  autoinduzione,  le  cor- 
renti e  i  coefficienti  di  induzione  mutua  manteniamo  gli  stessi  simboli  di  prima. 

Si  osserverà  espressamente  che  ia,n,e4i  è  la  corrente  che,  nel  conduttore  a-esimo, 
va  dalla  n-esima  alla  p-esima  capacità,  seguendo  il  u-esimo  filo. 

Si  avrà: 

la.TT.jr./i  =-  -  > 

(!) 

1<x,jz,q,/i  —        la.o.jr.ti- 

Le  equazioni  del  problema  sono  divise  in  due  serie;  la  prima  serie  è  relativa 
ad  ogni  capacità  e  si  scrive: 

(II)  Dqa,n  +  le  Z"  ia^Q,/t  =  0  , 
la  seconda  è  relativa  ad  ogni  filo  e  si  scrive: 

(III)  ~-  qa,Q  —  -^  qa,7t  +  &  21°  £T  *V  NajT,Q,fi,p,Oxy  ifi.Ct.v  =  0  , 
intendendo  che  sia: 

Na,n.g,/u.lJj,o,T,v  =  JJMa.jr.g.fi./la.Ty- 

Il  numero  complessivo  di  queste  equazioni  si  ottiene  sommando  il  numero  totale 
delle  capacità  col  numero  totale  dei  fili  ;  esse  sono  dunque  tante  come  le  incognite 
q  ed  i.  Il  risultato  dell'eliminazione  si  esprime  di  nuovo  applicando  a  ciascuna  q  ed 
a  ciascuna  i  il  determinante  dei  coefficienti.  Ora,  poiché  ogni  suo  elemento  è  al  mas- 
simo di  primo  grado  in  D,  il  determinante  sarà  una  funzione  di  D  di  grado  non  su- 
periore a 

Ìa  (Va  +  ma). 

In  realtà  però,  svolgendo,  si  troverebbe  che  il  grado  è  minore,  e  la  cosa  può  anche  rico- 
noscersi a  priori.  Si  avrà  infatti  per  le  (I)  e  (II)  : 

B^qa,M=  -  **&**  ìa.^,,,  =  0, 

per  ogni  valore  di  a.  È  quindi  possibile  fare  in  modo,  con  semplici  addizioni  di  linee, 
che  il  D  risulti  fattore  in  a  orizzontali  del  determinante;  allora  il  grado  (T)  di 
quest'ultimo  diventa  : 

r  =  Ìa{pa  +  ma)—a. 


11 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


137 


Se  dunque  si  studia  un  sistema  di  conduttori  comunque  complessi  ogni  sua  carica 
ed  ogni  sua  correnti-  è  determinata  da  un'equazione  differenziale  limare  ed  omogenea  (la 
stessa  per  tutte  le  variabili),  il  cui  ordine  si  ottiene  aggiungendo  il  numero  delle  capa- 
cità a  quello  dei  fili,  e  sottraendo  dalla  somma  il  numero  dei  conduttori,  che  costituiscono 
il  sistema. 

La  caratteristica  di  tale  equazione  (che  per  brevità  chiameremo  nel  seguito  carat- 
teristica del  sistema)  si  scrive  ponendo  senz'altro  a  zero  il  determinante  e  conside- 
rando in  esso  il  D  come  un'incognita  e  non  più  come   un  simbolo  operatorio;  avrà 

in  generale  il  grado  Ta(pa  -\-  ma)  —  a. 

Per  i  singoli  conduttori  costituenti  il  sistema  il  grado  della  caratteristica  è: 


viene  dunque: 


Ta  =  pa  +  ma  —  1 , 

r  =  ZaYa  • 


Hi  arriva  così  ad  un  teorema,  che  è  fondamentale  per  la  nostra  teoria,  e  cioè  : 
il  grado  della  caratteristica  di  un  sistema  di  conduttori  è  la  somma  dei  gradi  delle 
caratteristiche  relative  ai  conduttori,  che  lo  costituiscono. 

La  cosa  è  vera  in  particolare  se  ogni  Ta  è  pari,  e  quindi  un  sistema  emette  uno 
spettro,  che  contiene  in  generale  un  numero  dì  righe  uguale  alla  somma  di  quelle,  che 
compongono  gli  spettri  dei  suoi  conduttori. 

In  pratica  il  procedimento  di  calcolo  che  abbiamo  seguito  non  suole  essere  con- 
veniente. È  più  comodo  eliminare  le  cariche  dalle  (III)  per  mezzo  delle  (II);  si  ottiene 

così  un  sistema  di  Zawa  equazioni  fra  le  t.ama  correnti,  e  l'ordine  del  determinante 

i  i 

si  riduce  anche  a  Za;»a.  Naturalmente  con  questo  non  muta  la  natura  ne  il  grado 

i 

della  caratteristica. 

Converrà  anche  distinguere  i  diversi  fili  con  un  solo  numero  progressivo,  e  met- 
tere le  (III)  sotto  la  nuova  forum  : 


(IV) 


Z.Vp/t,vÌv  =  0, 


1,  2,  ...,  n  . 


Z«ma, 


la  caratteristica  si  riduce  allora  all'aspetto  semplice: 

-M,l        A,8       •  •  •        -*l,n 


(V) 


"t,i      -*!,: 


P»,,       P„, 


P,.n 


§  IO.   Schermo  di  risonatori.  —  Per  dare  un  primo  esempio  del  modo,  in 
cui  si  utilizza  nei  casi  pratici  la   teoria   esposta   nel  paragrafo   precedente,  ne  farò 
Serie  II.  Tom.  LUI.  " 


138 


ANTONIO    GAEBASSO 


L2 


l'applicazione  ad  un  sistema,  del  quale  mi  sono  occupato  in  una  nota,  che  fu  accolta 
a  suo  tempo  negli  "  Atti  dell'Accademia  „  (XXVIII,  816,  1893). 

Sopra  una  tavoletta  di  legno  avevo  disposto  in  sei  righe  orizzontali  186  risona- 
tori rettilinei,  senza  intervallo,  tutti  uguali,  costituiti  da  un  filo  di  rame  terminato 
da  due  dischi  di  latta;  sperimentando  con  questo  schermo  trovai  che  esso  rifletteva 
assai  bene  i  raggi  di  forza  elettrica,  ma  la  riflessione  si  poteva  constatare  anche  per 
mezzo  di  secondarii  dotati  di  periodo  assai  diverso  da  quello,  che  era  proprio  degli 
elementi  del  sistema. 

Dedussi  da  questo  risultato  che  "  quando  più  risonatori  sono  messi  molto  vicini 
gli  uni  agli  altri  le  cose  succedono  come  se  la  loro  radiazione  fosse  multipla  „. 

L'accordo  fra  l'esperienza  e  la  teoria  è  manifesto;  il  teorema,  che  abbiamo  di- 
mostrato, porta  infatti  a  concludere,  senza  nemmeno  far  calcoli,  che  nel  caso  attuale, 
avendosi  nel  sistema  a  risonatori  con  una  oscillazione,  ogni  corrente  deve  risultare 
dalla  somma  di  a  oscillazioni,  le  quali,  in  generale,  saranno  tutte  differenti  fra  loro, 
e  differenti  pure  dall'oscillazione  propria  di  ciascun  elemento  dello  schermo,  quando 
lo  si  consideri  isolato. 

Gli  svolgimenti  analitici  si  fanno  del  resto  con  tutta  facilità.  Le  equazioni  (I)  e  (II) 
prendono  infatti  la  forma  : 

^   ^7cu  -H„=0  . 


2(1,1 7TT  2a,2  —  I'3A'a„3  ì$  —  0  , 


Ca,ì 


Cu, 


1,2. 


e  però  eliminando  le  q  dal  sistema  (III)  e  introducendo  ancora  le  notazioni: 

DNa,p=  Pa,p,  a  =j=  P     a,P  =  1,  2, ...,  a 

DN™+-ch-  +  ^k  =  Pa<a>  a=1'2 " 

si  ottiene: 

£^P„,/}i/?=0. 


Ogni  ia  è  dunque  un  integrale  dell'equazione: 

PM       Pu       .-.       Può 

A,    R,    ...    P*,„ 


»a  =  0  , 


P,,,      P...      ...       P„ 

che  sarà  lineare  omogenea  e  dell'ordine  2 a,  come  avevamo  previsto. 

§11.  Sistemi  di  due  conduttori  qualunque.  —  Se  si  sono  scritte  le  equa- 
zioni (5)  per  i  diversi  conduttori,  che  compongono  il  sistema,  è  molto  facile  costruire 
la  (V);  in  realtà  l'eliminazione  delle  cariche  dalle  equazioni  (III)    si  fa   gruppo   per 


Vò 


TEOEIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


139 


gruppo,  quindi  le  equazioni  (IV)  non  sono  che  il  complesso  dei  sistemi  (4),  modificati 
nel  senso  che  in  ciascuna  equazione  si  devono  aggiungere  dei  termini  della  forma 

che  rappresentano  l'azione  induttiva,  che  i  fili  appartenenti  ad  altri  conduttori  eser- 
citano sopra  il  filo  a  cui  l'equazione  si  riferisce. 

Si  abbiano  ad  esempio  due  conduttori  in  presenza  e  uno  contenga  m  fili  e  l'altro 
ne  contenga  r  ;  distinguiamo  i  primi  coi  numeri  da  1  ad  m,  i  secondi  coi  numeri  da 
m  -fi  ad  m  -\-  r. 

Le  equazioni  (5)  prenderanno  la  forma: 


1H  = 


Pi,i     P.,1 

P,„, 

P»     P» 

P,m 

=  c 

PmA     P„,2 

■        Pm,m 

fi     P»+>, 

+2 

■■        Pm 

+  !,«'+' 

p-«*« 


=  0 


P,+v 


+1         x  m+r.m+J 


e  la  (V)  si  scriverà  senz'altro: 

P,,  Pi*  ...     P,,.  D*Mhm+ì     D*Mlim+t      ...     D*Mhm+r 

P,i  p2,2         ...    pm  i^-i/,,^    w,+ì    ...    Dmìm+r 


p,l 

Pra,s 

.    Pm,m 

i»-'J/,„,m+l    D*Mm,m+t      . 

•  ■        Z>=M/m.„1  + 

P^A,.  ,, 

/>M4+,,J   • 

•     D*Mm+lim 

P  ,.»,»+,     Pm+1,»+8        • 

..        Pm+1,m+r 

M^, 

p^+2,*  . 

■     D*Mm+iim 

J  m  h!,m  i-l          "m+2,m+2 

■  ■        Pn+!,m+r 

P2^,,  p2i!A„+r,2  ...  p2il/„,+r,„,  Pm+I,m+1   pm+r,mH 


p,+,„ 


=  0. 


Dividiamo  quest'ultimo  determinante  in  due  matrici,  una  di  m  e  l'altra  di  r  oriz- 
zontali, e  sviluppiamolo  secondo  i  minori  estratti  dalla  prima. 

Fra  i  minori  ci  si  presenta  anzitutto  BT  e  il  suo  complementare  è  IR;  sicché 
una  prima  serie  di  termini  nello  sviluppo  del  determinante  grande  è  riassunta  nel 
prodotto  m% 

In  tutti  gli  altri  minori,  che  si  possono  estrarre  dalla  matrice  superiore,  vi  saia 
almeno  una  verticale  formata  coi  termini  aggiunti  della  forma  D2i¥,t,v;  e  la  stessa 
cosa  si  deve  dire  dei  complementari  di  questi   altri   minori;    sicché  i   termini    dello 


140  ANTONIO    GABBASSO  14 

sviluppo  del  nostro  determinante,  che  non  sono  già  contenuti  nel  prodotto  2H|\,  hanno 
almeno  due  M„tV  a  fattore,  potremo  dunque  scrivere: 

intendendo  per  le  A"„,v,„v  dei  polinomii,  i  cui  termini  sono  al  minimo  di  ordine  zero 
nei  coefficienti   .l/„,v. 

Se  ora  le  M„y  sono  piccole  rispetto  alle  induttanze  il  secondo  termine  dell'espres- 
sione di  $1  è  piccolissimo  rispetto  al  primo.  Ne  viene  dunque  che  se  due  conduttori 
differenti  si  trovano  in  presenza  (e  non  sono  troppo  rifinì)  lo  spettri),  che  essi  emettono, 
è  poco  diverso  da  quello,  che  si  otterrebbe  sopraponendo  gli  spettri,  che  ciascuno  fornisce 
quando  è  isolato. 

§  12.  Due  conduttori  ad  una  sola  oscillazione.  —  Gli  spostamenti,  che 
le  righe  di  un  dato  conduttore  subiscono  per  la  presenza  di  un  secondo  conduttore 
di  diversa  natura,  si  lasciano  calcolare  agevolmente  in  alcuni  casi  semplici. 

Supponiamo  anzitutto  che  si  abbiano  due  apparecchi,  del  tipo  di  quello  che  fu 
studiato  nel  paragrafo  3. 

Scriveremo  : 

(R1  +  L1D)D  +  jr  =  Sl, 

(R2±L2D)D  +  ^  =  S2, 
D3Mlt  =  D*M=s. 

Con  queste  notazioni  le  caratteristiche,  relative  a  ciascun  conduttore  isolato, 
sarebbero  : 

51  =  0, 
e: 

52  =  0; 

l'equazione  (V)  si  presenta  dunque  sotto  la  forma  : 

S,     s 


s     S2 
Trascurando  le  resistenze  viene 


SA  —  s2  =  0. 


(L1L2-Jf*)^  +  2(f+f)D*+1A_  =  0) 


e  pero  : 


Z\=2n 


T,=2tt 


ULi  -  M- 

%  +  %-1[%  +  %)'-G£™ 

—  Mì) 

LtL,  —  M% 

l+t+yilr+t)'-^^ 

—  M2) 

15 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


141 


Delle  forinole  relativamente  più  semplici  si  ottengono  se  si  suppone  che  le  ca- 
pacità (Fig.  2  a)  o  i  fili  (Fig.  2  b)  siano  uguali  nei  due  conduttori. 


Fig.  2.  —  a)  e  è)  Sistemi  di  due  conduttori  ad  una  oscillazione;  emettono  spettri  di  due  righe, 
e)  e  d)  Sistemi  di  due  conduttori  a  due  oscillazioni;  emettono  spettri  di  quattro  righe. 

§  13.  Due  conduttori  a  due  oscillazioni.  —  In  secondo  luogo  si  potreb- 
bero prendere  due  conduttori  del  tipo  di  quello  che  è  rappresentato  dalla  fig.  1  è  e 
disporli  uno  accanto  all'altro,  per  modo  che  il  primo  filo  agisca  sul  primo  e  il  secondo 
sul  secondo  solamente,  e  per  di  più  i  coefficienti  delle  due  coppie  risultino  uguali. 
In  armonia  con  ciò  che  s'è  fatto  prima  porremo: 

1 
-" 4=ri' 

1 
-■ ft=r" 

e  :  D*Mlt3  =  D*MiA  =  D2M  =  s. 

Le  due  (5)  prenderanno  la  forma: 
Si 


ri     S, 


=  o, 


=  0, 


e  però  la  (V)  si  scriverà: 

Si     >\     s    1 

rx     Sj     0 

s     0     S2     r 

0     s     r,     S 

=  {SiSs  - 

-  'Va  —  s2  — 

^SA  +  ry-,  — «*)■  — (rA  +  rA)" 


riS2  -  r&ìfàS,  +  nr2  -  s*  +  rA  +  rA)  =  0. 


142  ANTONIO    GABBA-  16 

Trascurando  le  resistenze  viene: 


{LlL2-M*)& +(%+%)&  +  -£ 


e  quindi  : 


T  ■ 

9,r1   / 

2(£,£,  —  il/-') 

1  i  - 

e, 

+t 

+v(*+*)'- 

e,  e. 

TV 

2(£,Z,2  — M2) 

c2 

+t 

-f(S+t)"- 

LJ^  —  M1 

TV 

2(£,£2  -  M1) 

i+t+ffè+tr- 

Z,,L2-il/2 

T 

2(i,L2-JI/2) 

^-l^  +  ir)'-4- 


Di  nuovo  si  avrebbero  delle  forinole  più  semplici  se  le  capacità  (Fig.  2  e)  o  i  fili 
(Fig.  2  d)  fossero  uguali  nei  due  conduttori  accostati.  Questi  calcoli  si  potrebbero  fa- 
cilmente generalizzare,  ma  la  cosa  non  ha  importanza  per  le  applicazioni,  e  quindi 
preferisco  non  indugiarmi  in  proposito. 


§  14.  Sistema  di  due  conduttori  uguali.  —  Quando  i  due  conduttori  in 
presenza  hanno  la  stessa  forma  e  la  stessa  grandezza,  ragionando  come  al  para- 
grafo 11,  si  può  dimostrare  che  la  caratteristica  del  sistema  si  svolge  secondo  una 
forinola  del  tipo  : 

%  =  W  +  Iif„,v./,',v'itf«,v  3/„.,v  . 

E  vuol  dire  che  se  si  affacciano  due  conduttori  uguali  lo  spettro  che.  essi  mandano  si 
ottiene  da  quello,  che  ciascuno  dei  due  fornirebbe  quando  fosse  isolato,  sostituendo  ad  ogni 
riga  una  coppia  (doublet). 

Con  quale  legge  poi  si  deduca  il  doublet  dalla  riga,  che  gli  dà  origine,  non  è 
facile  dire,  almeno  in  generale;  ma  in  un  caso  particolare  notevole  si  giunge  senza 
molti  calcoli  ad  un  risultato  semplice  ed  elegante. 

Si  consideri  anzitutto  un  conduttore  costituito  da  m-\-l  capacità  uguali,  riunite 
da  m  fili,  anche  uguali  fra  loro;  ogni  capacità  sia  incontrata  da  due  fili,  salvo  la 
prima  e  l'ultima.  Supponiamo  ancora  che  le  cose  siano  disposte  per  modo  che  l'in- 
duzione mutua  sia  trascurabile  davanti  all'autoinduzione:  questo  si  verifica  rigorosa- 


17 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


14:1 


mente  nei  conduttori  studiati  ai  paragrafi  4  e  5   e  può    verificarsi   per  approssima- 
zione in  una  infinità  di  altri  apparecchi,  come  si  è  avvertito  a  suo  tempo. 

Con  i   soliti  simboli  la  caratteristica  del    nostro   problema   (l'equazione  (5))  si 
scriverà  : 


M(S) 


S  r  0  0 
r  S  r  0 
0     r     S    r 


0  0  0 
0  0  0 
0     0     0 


0     0     0     0     .  .  .     r    S    r 
0     0     0     0     .  .  .     0     r    S 


=  0. 


A  questo  primo  conduttore  se  ne  affacci  un  secondo  identico  in  tutto,  in  modo 
che  il  |u-esimo  filo  agisca  solamente  sul  u-esimo,  e  i  coefficienti  di  induzione  mutua 
per  le  singole  coppie  siano  uguali.  Di  nuovo  la  cosa  si  può  fare  rigorosamente  coi 
tre  conduttori  studiati  ai  paragrafi  3,  4  e  5  e  per  approssimazione  con  molti  altri. 

La  (V)  del  sistema  prenderà  in  generale  la  forma  : 


S  r  0  0 

r  S  r  0 

0  r  S  r 

0  0  0  0 

0  0  0  0 

s  0  0  0 

0  s  0  0 

0  0  s  0 

0  0  0  0 

0  0  0  0 


.  0  0  0  s  0  0  0 

.  0  0  0  0  s  0  0 

.  0  0  0  0  0  s  0 

.  r  S  r  0  0  0  0 

.  0  r  S  0  0  0  0 

.  0  0  0  8  r  0  0 

.  0  0  0  r  S  r  0 

.  0  0  0  0  r  S  r 

.  0  s  0  0  0  0  0 

.  0  0  s  0  0  0  0 


0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

s 

0 

0 

0 

s 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

0 

r 

s 

r 

0 

r 

S 

Si  imagini  adesso  di  dividere  il  determinante  in  due  matrici  di  m  orizzontali,  e 
si  aggiungano  alle  linee  della  prima  le  linee  della  seconda  ordinatamente.  Fatto  questo 
si  spezzi  il  determinante  in  due  matrici  di  m  verticali,  e  si  tolgano  dalle  colonne  della 
seconda  le  colonne  della  prima  ordinatamente. 


144 


ANTONIO    GAEBASSO 


LS 


Risulterà 
S+s 


0 


0 
r      S+s      r      0 

0         r     S+s    r 


0 

0 

0 

0  . 

.  r 

SH 

r 

0         0 

0 

0  . 

.  0 

0 

0 

0 

0 

0 

0  . 

.  0 

r 

N-.  s 

0         0 

0 

0  . 

.  0 

0 

0 

s 

0 

0  . 

.  0 

0 

<> 

S — s      r 

0 

0  . 

.  0 

0 

0 

0 

s 

0 

0  . 

..  0 

0 

0 

r      Ss 

r 

0  . 

.  0 

0 

0 

0 

0 

s 

0  . 

.  0 

0 

0 

0         r 

S—s 

>■  . 

.  0 

0 

0 

0         0         0      0   ...  0      s 
0         0         0      0  ...  0      0 


0       0 
0      0 


/■  S- 
0 


=  0. 


e  quindi  senz'altro: 


ji  =m  (.s  +  s)].  [m  (s-s)]. 


Se  dunque  i  periodi  delle  righe,  che  emette  il  conduttore  isolato,  sono  certe 
funzioni  dell'induttanza  : 

T1(L).T2{L)...T„(L), 

i  doublets    relativi    al    sistema    di    due  conduttori  uguali  si  determineranno   con   le 
forinole  : 

l   T,{L-\-M)     j  T2(L  +  3I)  j  T,„(L  +  i¥) 

(   TX{L  —  M)'  ì  r,{L  —  M)  '"  ì  Tn{L  —  M). 

Con  un  ragionamento  semplice,  fondato  su  la  considerazione  delle  dimensioni,  si 
potrà  poi  riconoscere  che  le  funzioni  T  devono  essere  proporzionali  alla  radice  qua- 
drata dell'argomento,  e  ne  seguirà  che  il  rapporto  dei  periodi,  per  le  due  righe  di 
uno  stesso  doublet,  è  costante  in  tutto  lo  spettro  e  uguale  a  : 


1 


L  +  M  . 
L  —  M  ' 


in  altre  parole,  essendo  Tu  il  periodo  di  una  oscillazione  propria  del  conduttore  iso- 
lato, il  doublet,  in  cui  la  riga  si  sdoppia  quando  al  primo  conduttore  se  ne  affaccia 
un  secondo  nel  modo  che  s'è  detto,  corrisponde  ai  periodi  : 


2J.-V 


L  +  M 


r«.f 


19 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL  EMISSIONE    DELLA    LUCE 


145 


§  15.  Casi  particolari.  —  È  facile  adesso  sottoporre  al  calcolo  gli  apparecchi 
rappresentati  dalle  figure  3  a,  b,  e,  i  quali  rispondono  alle  ipotesi,  che  abbiamo  am- 
messo per  la  dimostrazione  del  teorema  del  paragrafo  precedente. 

Il  primo  (Fig.  3  a),  che  è  formato  con  due  conduttori  del  tipo  di  quello  del  pa- 
ragrafo 3,  darà  un  solo  doublet  corrispondente  ai  periodi  : 


|   Ti=2Tt|/^+^l 


(£  —  M)C 


Il  secondo  (Fig.  3  b),  nel  quale  stanno  affacciati  due  apparecchi,  simili  a  quello 
del  paragrafo  4,  emette  due  diversi  doublets  coi  periodi  : 


(  T1=2nftL  +  M)C, 

/  T2=2tt\/(L—  M)C, 


f   T4=2Tr|/ 


I L   -  M  <  ■ 


{L  —  M)C 


Fig.  3.  —  o)  Sistema  di  due  conduttori  uguali  ad  una  oscillazione  ;  emette  un  doublet,  b)  Sistema 
di  due  conduttori  uguali  a  due  oscillazioni;  emette  due  doublets.  e)  Sistema  di  due  conduttori 
uguali  a  tre  oscillazioni;  emette  tre  doublets. 

Il  terzo  finalmente  (Fig.  3  e),  che  risulta  dalla  riunione  di  due  conduttori,  uguali 
in  tutto  a  quello  da  noi  studiato  nel  paragrafo  5,  avrà  uno  spettro  di  tre  doublets 
corrispondenti  ai  periodi: 

~M)0 

'2 


f   T2=2tt|/ 


(L  —  MìC 
2  -  V  2~ 


Serie  II.  Tom.  LUI. 


146 


ANTONIO    GAKBASSO 


20 


(   T3=2nJ/- 


[L  +  M)C 


(L  —  M)C 


(L  +  M)C 


(  r8=2nl/ 
r 

=  2tt1 


97r1/g-3f)c" 

2 + y  2 


§  16.  Sistema  di  tre  conduttori  qualunque.  —  Il  problema  delle  oscilla- 
zioni di  un  sistema  costituito  di  tre  conduttori  differenti  non  presenta  nessuna  mag- 
giore difficoltà  di  quello  da  noi  trattato  nel  paragrafo  11.  Anche  le  conclusioni  a  cui  si 
arriva  nei  due  casi  sono  simili. 

Supponiamo,  per  fissare  le  idee,  che  il  primo  conduttore  abbia  m  fili,  il  secondo  r  e 
il  terzo  s  ;  siano  le  loro  caratteristiche  : 

1H  =  0, 
3R  =  0, 

$  =0, 

L'equazione  (V)  del  sistema  complessivo  si  potrà  scrivere  simbolicamente: 

IH      Qi,   <?i,s 

Oli      31       02.3 


V3,i      Vm    >3 


^0 


intendendo  per  le  Q  certe  matrici  formate  di  termini  del  tipo  D'Mpy,  relativi  alle 
azioni  che  s'esercitano  fra  fili  appartenenti  a  conduttori  diversi. 

Se,  per  esempio,  i  fili  del  primo  conduttore  si  distinguono  coi  numeri  da  1  ad  m, 
i    fili    del    secondo   coi   numeri   da  m  -\-  1  a  m  +  r,  i  fili  dell'ultimo  coi  numeri  da 

m  -\-  r  -f- 1  a  ni  +  r  ~\-  s,  sarà  : 


D2M, 


D*Mlia+r 


D*Mmi     , 

D2Mm+r+ì 


. .  .  D-M„.,m+, 

..  DìMm+Tin 
. .  .  D^^+m 

.  . .  Z>2M„,+r+v, 


Z>2ilf, 


/>-'.!/. 


.  D2JHni+1,B+r+, 

.  D*Mm+r+1>m+t 
.  D>Mm+r+,,m+r 


21  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE  147 

Dividiamo  il  determinante  B  in  due  matrici,  una  di  m  -\-  r  e  l'alti-a  di  s  oriz- 
zontali, e  sviluppiamolo  secondò  i  minori  estratti  dalla  prima. 

Fra  i  minori  ci  si  presenta  anzitutto  quello  che  fu  chiamato  Jl  al  paragrafo  11, 
e  il  suo  complementare  è  £>  ;  sicché  una  prima  serie  di  termini  dello  sviluppo  del  de- 
terminante grande  è  riassunta  nel  prodotto  £1.5. 

In  tutti  gli  altri  minori,  che  si  possono  estrarre  dalla  matrice  superiore,  vi  sarà 
almeno  una  verticale  formata  coi  termini  aggiunti  della  forma  D2M/U,V;  e  la  stessa 
cosa  deve  dirsi  dei  complementari  di  questi  altri  minori.  Tutti  i  termini  dello  svi- 
luppo del  nostro  determinante,  che  non  sono  già  contenuti  nel  prodotto  $|$,  hanno 
dunque  almeno  due  il/„,v   a  fattore. 

Se  ora  si  rammenta  l'espressione  del  determinante  %  si  potrà  scrivere  senz'altro  : 

B  =  MS  +  IA„,v.,cy  i¥u,v  Ma-y  , 

avendo  le  A'„,v,/(\v  il  solito  significato. 

Se  le  Mu,  v  sono  piccole  rispetto  ai  coefficienti  di  autoinduzione,  il  secondo  termine 
dell'espressione  di  B  è  piccolissimo  rispetto  al  primo. 

Ne  viene  dunque  che:  se  tre  conduttori  differenti  si  trovano  in  presenza  (e  non 
sono  troppo  rifinii  lo  spettro  che  essi  emettono  è  poco  diverso  da  quello,  che  si  otterrebbe 
sopraponendo  gli  spettri  relativi  ni  singoli  conduttori  isolati. 


§  17.  Sistema  di  tre  conduttori  uguali:  caso  particolare.  —  Quando 
i  tre  conduttori  in  presenza  hanno  la  stessa  forma  e  la  stessa  grandezza,  ragionando 
come  al  paragrafo  precedente,  si  può  dimostrare  che  la  caratteristica  del  sistema  si 
svolge  secondo  una  forinola  del  tipo  : 

B  =  M3  -1-  I/vw.«y  MuyMwx. 

E  però:  se  si  affacciano  tre  conduttori  uguali  lo  spettro  che  essi  mandano  si  ottiene 
da  quello,  che.  ciascuno  dei  tre  fornirebbe  quando  fosse  isolato,  sostituendo  ad  ogni  riga 
una  tema  (triplet). 

La  legge  poi,  con  la  quale  si  deduce  il  triplet  dalla  riga  a  cui  corrisponde,  non 
si  può  esprimere  facilmente  a  parole,  anche  se  il  sistema  considerato  è  molto  semplice. 

Io  mi  accontenterò  di  supporre  ch'e  i  tre  conduttori  uguali  siano  del  tipo  di 
quello  studiato  al  paragrafo  3,  siano  paralleli,  disposti  in  un  medesimo  piano,  nel 
modo  che  appare  dalla  figura  5«,  distando  il  primo  dal  secondo  come  il  secondo 
dal  terzo. 

Le  tre  caratteristiche  hanno  nel  caso  nostro  la  forma  : 

S=o, 
scriveremo  poi: 

(V>  =  Q,,  =  <?2,3  =  Qw  =  D2M=  s , 


148  ANTONIO    GARBASSO 

e  la  caratteristica  del  sistema  diventerà: 
S    s      a 

s    s    s       ={S  —  o)(S*  +  oS  —  2s*) 
o"    s     S 


22 


=  (S-g)U+"  +  ^  +  «" 


a  —  v  a-  4-  8 


*)-., 


i  tre  periodi  sono  dunque  determinati  dalle  forinole: 


U+' 

ì+Ym^  +  tìM*]  „ 

[L  + 

2               JC 

2 

/_.   ,  m-Vm*+8Mt\„ 

[L  +  - 

2       y  " 

T,=  2tt 


T3=2ti 


§  18.  Ancora  le  oscillazioni  di  un  sistema  di  conduttori.  —  Il  teo- 
rema, che  abbiamo  dimostrato  nei  paragrafi  11  e  16  peri  sistemi  composti  di  due  e 
tre  conduttori,  si  può  estendere  senz'altro  ad  un  sistema  di  a  conduttori. 

Se  le  caratteristiche  di  questi  sono  date  sotto  la  forma  : 

Mo  =  0,  .     a  — 1,2 a 

la  caratteristica  del  sistema  complessivo  potrà  scriversi  simbolicamente  : 

Qui       <?U       •••       <?:.„ 

Qv     %    ft,i    •••    Q» 

0. 


?.,.  Qa.,        <?a,3        ..-        IH 

Di  nuovo  le  Qa,p  sono  matrici  di  termini  della  forma  D-M!iy,  relativi  all'aziono, 
che  si  esercita  fra  i  fili  dell'ct-esimo  e  quelli  del  p-esimo  conduttore.  La  Qa,p  ha 
a  orizzontali  e  (J  verticali,  non  è  dunque  la  stessa  cosa  che  Qp,a. 

Col  procedimento  di  prima  si  dimostrerà  che  è: 

«  =  %  .  H.  .-  BZ.  +  I  K„.:,.,ry  M„,v  Mu'y . 
ed  anche,  quando  tutti  i  conduttori  siano  uguali: 

(E  =  Wa  +  £  Ku,vjty  M„,v  Micy  . 


23  TEOEIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE  149 

Possiamo  dunque  concludere  che  se  a  conduttori  differenti  si  tronchi  in  presenza  (e 
non  sono  troppo  vicini)  lo  spettro  che  essi  emettono  è  poco  diverso  da  quello,  che  si  otter- 
rebbe sopraponendo  gli  spettri  relativi  ai  singoli  conduttori  isolati. 

E  ancora:  se  si  affacciano  a  conduttori  uguali  lo  spettro  che  essi  mandano  si  ottiene 
da  quello,  che  ciascuno  fornirebbe  quando  fosse  isolato,  sostituendo  ad  ogni  riga  una 
banda  composta  di  a  righe. 

§  19.  Oscillazioni  di  un  sistema  di  sistemi.  —  Il  problema  delle  oscilla- 
zioni di  un  sistema  di  sistemi  non  è  analiticamente  diverso  da  quello  di  un  sistema 
di  conduttori  semplici  ;  in  realtà  dipende  da  noi  di  pensare  i  singoli  conduttori  iso- 
latamente o  di  pensarli  invece  riuniti  in  gruppi.  Nella  pratica  però,  e  nel  risultato 
dei  calcoli,  i  due  problemi  sono  diversi,  perchè  si  dirà  di  avere  un  sistema  di  con- 
duttori quando  i  coefficienti  di  induzione  mutua,  per  ogni  coppia  di  tali  conduttori, 
hanno  il  medesimo  ordine  di  grandezza,  si  dirà  invece  di  avere  un  sistema  di  sistemi 
se  i  coefficienti  relativi  a  certe  coppie  sono  piccoli  rispetto  a  quelli,  che  si  calcolano 
per  altre  coppie. 

La  caratteristica  del  sistema  di  sistemi  si  costruisce  al  modo  solito  con  le  carat- 
teristiche dei  sistemi  componenti.  E  quindi  i  teoremi  dell'ultimo  paragrafo  valgono 
ancora  quando  alla  parola  conduttore  si  sostituisca  la  parola  sistema. 

§  20.  Modello  per  gli  atomi  materiali.  —  Volendo  applicare  i  resultati, 
che  abbiamo  ottenuto  fino  a  questo  punto,  alla  teoria  dell'analisi  spettrale,  ci  si  pre- 
senta anzitutto  la  quistione  se  gli  atomi  della  materia  debbano  considerarsi  come  sem- 
plici conduttori,  o  non  piuttosto  come  sistemi  complessi. 

Si  osserverà  in  proposito  che  in  taluni  casi  particolari,  nei  quali,  per  conside- 
razioni di  altra  natura,  siamo  certi  che  le  molecole  contengano  un  atomo  solo,  come 
accade  ad  esempio  del  vapore  di  mercurio,  i  periodi  proprii  sono  ancora  moltissimi  ; 
in  quest'  ultimo  spettro  si  rinviene  anzi  tutta  una  serie  di  triplets.  Ora,  se  è  possi- 
bile imaginare  e  costruire  dei  conduttori  che,  quando  sono  isolati,  emettono  già  delle 
terne  di  righe,  pare  più  semplice  e  più  naturale  e  più  conforme  alla  regolarità,  con 
la  quale  si  trovano  distribuiti  i  triplets  negli  spettri  realmente  osservati,  il  supporre 
che  il  sistema  vibrante  risulti,  almeno  per  la  parte  più  considerevole,  di  tre  conduttori 
identici  e  distinti.  In  modo  analogo  quegli  atomi  che  emettono  degli  spettri  a  doublets, 
conterrebbero  delle  coppie  di  conduttori  uguali. 

Possiamo  anzi  fare  in  questo  senso  un  passo  ulteriore  e  stabilire  che  gli  elementi 
costitutivi  degli  atomi  della  materia  si  debbono  considerare  come  conduttori  a  fili 
uguali,  lunghi  e  sottili,  del  tipo  di  quelli  che  abbiamo  studiato  nei  paragrafi  3,  7  e  14. 

Si  arriva  a  tale  risultato  con  alcune  semplici  considerazioni  numeriche. 

Come  è  noto  Kayser  e  Runge  hanno  fatto  vedere  che  tutti  gli  spettri  degli  ele- 
menti contengono  delle  serie  di  righe  legate  fra  loro  da  una  forinola  del  tipo 

xr'  =  4-  *--4-; 

ti        a 

in  questa  A,  B  e  C  sono  certe  costanti  e  la  n  un  parametro  variabile,  per  il  quale 
si  devono  porre  successivamente  i  singoli  numeri  naturali  a   cominciare   dal   3.  Ora 


150  ANTONIO    GAKBASSO  24 

(e  in  questa  circostanza  si  trova  ad  un  tempo  l'origine  prima  e  la  giustificazione 
della  presente  teoria)  il  conduttore  del  paragrafo  5  soddisfa  alla  forinola  di  Kayser  e 
Runge  con  due  sole  costanti  (^4  e  E),  e  i  conduttori  del  paragrafo  7  soddisfano  alla 
forinola  più  generale  con  tre  costanti. 

Io  mi  accontenterò  di  mostrare  come  si  verifichi  la  cosa  in  un  esempio  particolare. 

Prendiamo  all'uopo  il  conduttore  a  quattro  oscillazioni  che  fu  studiato  al  para- 
grafo 7. 

I  reciproci  delle  sue  onde  sono  proporzionali  ai  numeri  : 


JM 


*-±p-  =0,62, 


y.-y 


:i-y_r> 


1,17, 


y/2+y/ 


!=H-  =  i,«2, 


y/2+y/ 


i±£-  =  1,90 


Proviamoci  dunque  a  scrivere: 

B 


0-62  =  ^4        9  81 


1,1,  =  J____f 

1,62  =  ^4  —  — — 

,U"J        ^         25  625 


Si  calcoleranno  così  i  valori  delle  costanti  A,  B  e  C;  portando  questi  ultimi  nella: 
Kl  =  A 


4        B 

e 

A         36 

1296 

xr'  =  i.9i . 

risulta: 


che  è  appunto  il  reciproco  della  quarta  onda. 

Ma  qui  conviene  fare  subito  un'  osservazione.  Se  veramente  gli  atomi  della  ma- 
teria fossero  costituiti ,  come  s'  è  detto ,  e  disposti  con  le  regole  ammesse  al  §  14, 
dovrebbe  valere  per  essi  il  teorema  secondo  il  quale  il  rapporto  dei  periodi  per  le 
righe  di  un  doublet  è  in  tutto  lo  spettro  medesimo  ;  questo  non  accade  in  realtà. 

Si  trova  invece  che  il  rapporto  in  quistione  varia  poco,  ma  varia,  e  non  sempre 
con  una  legge  bene  determinata. 

L'imagine  dunque  è  più  semplice  del  processo,  che  si  vuole  descrivere;  bensì 
la  semplificazione  non  dovrebbe  essere  eccessiva,  per  quello  almeno  che  possiamo 
giudicare. 


25  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE  151 

§  21.  Atomi  di  corpi  chimicamente  simili.  —  Allo  scopo  di  precisare 
meglio  e  di  completare  lo  schema  degli  atomi,  che  fu  abbozzato  nel  paragrafo  pre- 
cedente, vogliamo  porre  adesso  una  nuova  quistione. 

I  corpi  chimicamente  affini,  quelli  cioè  che  appartengono  ad  uno  stesso  gruppo 
della  serie  naturale  periodica,  hanno,  come  si  sa,  degli  spettri  costruiti  quasi  sempre 
in  modo  simile.  E  poiché  la  simiglianza  della  radiazione  suppone  la  simiglianza  dei 
sistemi  vibranti,  vogliamo  domandarci  appunto  come  si  debba  intendere  la  cosa.  Come, 
ad  esempio,  quando  si  conoscesse  la  costituzione  dell'atomo  del  Litio,  se  ne  potrebbe 
dedurre  la  struttura  del  Sodio,  o  del  Potassio,  o  di  un  altro  metallo  alcalino  qualunque. 

Consideriamo  all'uopo  un  sistema  di  conduttori,  e  supponiamo  per  un  momento 
che  siano  trascurabili  le  resistenze  dei  fili;  supponiamo  anche  trascurabili  i  pesi  di 
questi  ultimi  davanti  a  quelli  delle  capacità,  per  modo  che  il  peso  dell'intero  sistema 
si  ottenga  sommando  i  pesi  delle  capacità,  che  esso  contiene. 

In  queste  ipotesi  si  dimostrano  facilmente  alcune  proposizioni  notevoli.  E  anzi- 
tutto :  se  le  dimensioni  lineari  di  un  dato  sistema  si  moltiplicano  per  un  numero  k,  le  lun- 
ghezze delle  onde  emesse  dal  medesimo  sistema  riescono  moltiplicate  anche  per  k. 

Infatti  il  determinante,  che  annullandosi  fornisce  l'equazione  caratteristica  del 
sistema  proposto  sotto  la  forma  (V),  sarà  costituito  da  elementi,  i  quali  contengono 
termini  di  tre  sole  forme,  e  cioè: 

D2L ,  D2M  e  -j- . 

Ora  se  le  dimensioni  lineari  del  conduttore  crescono  nel  rapporto  di  1  a  k  anche 
i  coefficienti  di  autoinduzione  e  di  induzione  mutua  e  le  capacità  devono  crescere  nel 
medesimo  rapporto.  I  termini,  che  costituiscono  gli  elementi  del  determinante,  pren- 
deranno dunque  le  forme: 


o  anche: 


D*kL,  D'-kM  e  ~ 


DWL,  DWM  e  ~  , 


perchè  il  significato  dell'equazione  non  muta  se  la  si  moltiplica  un  numero  qualunque 
di  volte  per  il  parametro  k. 

Ciò  posto  se  Dn  era  una  radice  dell'equazione  primitiva  -— —  sarà  certamente 
una  radice  della  nuova  caratteristica,  perchè  i  risultati  delle  sostituzioni  di  D„  nell'una 
e   di  — r^  nell'altra  coincidono. 

k 

Ma  le  radici  come  D„  sono  inversamente  proporzionali  alle  lunghezze  delle  onde 
emesse  dal  sistema,  al  quale  la  caratteristica  si  riferisce;  e  però  le  onde  crescono 
nel  rapporto  nel  quale  le  radici  diminuiscono.  Dal  che  segue  la  proposizione  enunciata. 

Se  invece  i  fili  conservano  la  loro  lunghezza  e  la  posizione  reciproca,  e  le  capacità 
crescono  nel  rapporto  di  1  a  k,  si  riconoscerà  con  lo  stesso  procedimento  che  le  onde 
devono  crescere  nel  rapporto  di  1  a  yk. 


152 


ANTONIO    GAKBASSO 


26 


Ma  in  quest'ultima  ipotesi  i  pesi  risulteranno  pur  sempre  moltiplicati  per  ks  e 
però  indicando  con  P,  P,  K  e  X'„  i  pesi  dei  sistemi  e  le  onde  corrispondenti  (quelle 
cioè  che  derivano  da  una  stessa  radice  della  caratteristica)  prima  e  dopo  la  trasfor- 
mazione, avremo  senz'altro: 


£  =  »•. 


V* 


=  Vh, 


ed  eliminando  k, 


i-t 


Se  si  chiama,  per  comodità  di  linguaggio,  famiglia  di  sistemi  una  serie  di  sistemi, 
che  s'ottengono  uno  dall'altro  lasciando  inalterati  i  fili  e  moltiplicando  le  dimensioni 
lineari  di  ogni  capacità  per  una  stessa  costante,  potremo  ritenere,  per  ciò  che  si  è  visto 
or  ora,  che  in  una  famiglia  le  onde  corrispondenti  stanno  come  le  radici  seste  dei  pesi. 

Ciò  posto,  un  confronto  numerico  insegna  che  è  lecito  interpretare  gli  atomi  di  un 
dato  gruppo  della  serie  periodica  appunto  come  una  famiglia  di  sistemi,  quando  alle  onde, 
che  abbiamo  chiamato  corrispondenti,  si  sostituiscano  le  onde  omologhe  di  Kayser  e 
Runge,  quelle  cioè  che  derivano  da  uno  stesso  valore  del  parametro  n. 

La  corrispondenza,  che  si  stabilisce  in  questo  modo  fra  i  resultati  teorici  e  i 
resultati  sperimentali,  non  è  completamente  rigorosa:  e  che  non  possa  esserlo  segue 
già  dalla  considerazione  della  formula  empirica  : 


secondo  la  quale  il  rapporto  -^-  non  è  sempre  il  medesimo,  ma   deve   anzi  variare 

di  continuo  al  variare  del  parametro  n. 

Se  però  si  prova  ad  eseguire  effettivamente  i  calcoli  si  riconosce  che,  per  i  va- 
lori che  si  debbono  attribuire  nel  caso  pratico  alle  costanti,  la  variazione  è  lenta  e 
regolare,  ed  offre  un  andamento  caratteristico. 

Noi  faremo  il  confronto  prendendo  in  esame  gli  spettri  del  Litio  e  del  Sodio. 
Per  le  costanti  di  questi  corpi  Kayser  e  Runge  hanno  determinato  i  valori,  che  ri- 
porto nella  tabella  seguente  (*)  : 


A 

B 

C 

Li 

Na 

28587 
24475 

109625 
110065 

1847 
4148 

(*)  Riferisco  ora  e  nel  seguito  i  numeri  relativi  alla  prima  serie  accessoria  (erste   Nebenserie), 
perchè  è  quella  per  cui  si  ha  la  maggior  copia  di  dati. 


27  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LICE  153 

dai  quali  valori  si  ricavano  i  rapporti  di  lunghezze  d'onda  segnati  qui  appresso: 


« 

3 

4 

5 

6 

7 

i. 

(U.v„ 

L,34 

1,23 

1,21 

1,19 

1,18 

1,17 

Avendosi  d'altra  parte: 


risulta  anche: 


(JP)]fc  =  28I 


! 


(P)Na 
(PlLx 


1,22. 


Il  rapporto  dunque  delle  lunghezze  d'onda  relative  alle  prime  righe  dei  due  spettri 
è  notevolmente  diverso  da  quello  delle  radici  seste  dei  pesi  atomici  ;  ma  per  le 
coppie  successive  le  cose  cambiano,  e  la  deviazione  è  al  massimo  del  3  per  cento 
del  valore  totale. 

Se  si  fa  la  media  dei  cinque  numeri: 


si  trova  : 


1,34     1,23     1,21     1,19     1,18 
1,23, 

che  è  vicinissimo  al  quoziente  delle  radici  seste. 


Fig.  4.  —  a)  Conduttore  a  quattro  oscillazioni,  lì)  e  e)  Conduttori  a  tre  oscillazioni;  i  loro  pesi  stanno 
come  7  e  23,  e  le  onde  corrispondenti  come  1  e  1,22.  mentre  il  rapporto  delle  onde  omologhe 
negli  spettri  del  Litio  e  del  Sodio  è  in  media  di  1  a  1,23. 

Una  cosa  simile  si  osserva  confrontando  col  Litio  il   Potassio,  il   Rubidio   ed   il 
Cesio.  I  rapporti  delle  prime  righe  si  allontanano  infatti  dal  valore  teorico,  ma,  dopo, 

Serie  II.  Tom.  LUI.  t 


154  ANTONIO    GARBASSO  28 

lo  scostamento  è  sempre  assai  piccolo.  Per  la  seconda  e  per  la  terza  coppia  si  trovano 
inoltre  dei  valori  prossimi  alla  media  di  quelli  forniti  dalle  prime  cinque  coppie,  e 
prossimi  ai  rapporti  delle  radici  seste  dei  pesi  atomici. 

Riferisco  qui  sotto  i  numeri  relativi  ai  confronti  delle  terze  righe  {n  =  5)  : 

« 

fè-w»       $&=»*>       &-»■»» 

?;;:;,='.»    ffs=^    IW=^- 

Per  i  metalli  non  alcalini  le  cose  vanno  assai  più  semplicemente  perchè  le  righe 
omologhe  di  due  corpi,  contenuti  nel  medesimo  gruppo,  hanno  dei  rapporti,  che  va- 
riano ben  poco  col  parametro  n. 

Anche  qui  mi  accontenterò  di  riportare  alcuni  dati,  che  si  calcolano  per  n  =  5: 

fH=^     ?IH'°9     M=w 

(X)z„  ~~  1,,,D  (X)a 


fe  =  '.15      M  =  ^- 


Questi  numeri  bastano,  se  non  mi  inganno,  per  stabilire  che  la  regola  delle  radici 
seste  ha  il  valore  di  un  fatto  naturale,  almeno  nei  limiti  di  approssimazione  nei 
quali  è  vera,  ad  esempio,  la  nota  legge  di  Dulong  e  Petit. 

Come  si  diceva  a  proposito  della  formola,  secondo  la  quale  si  deducono  i  doublets 
dalle  righe  semplici  corrispondenti,  la  teoria  è  sempre  schematica  in  confronto  della 
realtà.  Essa  determina  infatti,  per  i  rapporti  delle  righe  omologhe,  certi  numeri,  in- 
torno  ai  quali  i  valori  forniti  dall'osservazione  sembrano  oscillare. 

Per  le  prime  righe  lo  scostamento  è  più  forte,  ma  queste  rispondono  anche  meno 
bene  alla  formola  di  Kayser  e  Runge. 

§  22.  Modello  per  le  molecole  materiali.  —  Se  è  lecito  considerare  gli 
atomi  come  sistemi  di  conduttori,  le  molecole  le  potremo  intendere  come  sistemi  di 
sistemi. 

Per  il  primo  teorema  del  paragrafo  18  dobbiamo  dunque  ritenere  che  lo  spettro 
di  un  corpo  composto  risulti  sopraponendo  gli  spettri  dei  suoi  componenti,  e  defor- 
mandoli un  poco.  Dalla  quale  osservazione  segue  subito  il  perchè  delle  opinioni 
discordi,  che  furono  espresse  da  varii  autori  su  questo  argomento. 

Se  infatti  i  singoli  sistemi  componenti  hanno  dei  periodi,  che  corrispondono  a 
regioni  molto  diverse  nella  scala  luminosa,  sarà  facile  riconoscere  i  loro  spettri,  anche 
se  un  poco  deformati;  ma  se  le  righe  dei  varii  sistemi  si  alternano,  il  voler  asse- 
gnare le  onde  della  molecola  complessa  al  primo  o  al  secondo  o  ad  altro  componente 
è  opera  vana. 


29  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA     I  155 

A  ragione  dunque  il  Kayser  ritiene  arbitrarie  le  conclusioni  del  Griinwald  e  del 
Ciamician,  perchè  in  nessun  modo  giustificate  ;  il  che  non  toglie  che  quelle  conclu- 
sioni qualche  cosa  di  vero  possano  anche  contenere. 

Il  Griinwald,  per  esempio,  trova  che  lo  spettro  del  vapore  d'acqua  si  deduce 
sopraponendo  gli  spettri  dell'idrogeno  e  dell'ossigeno,  dopo  di  aver  moltiplicati  i  pe- 

1  23         5 

riodi  del  primo  per  -»-  e  quelli  del  secondo  per  ?-"r  o  — .  Se  la  regola  fosse  desti- 
tuita di  fondamento  non  avrebbe  permesso  di  calcolare  un  gran  numero  di  righe 
nell'ultravioletto,  le  quali  furono  poi  riscontrate  da  Liveing  e  Dewar. 

Del  resto,  un  fatto  simile  a  quello,  che  il  Griinwald  credette  di  riconoscere,  si 
verifica  nel  sistema  (estremamente  più  semplice  a  vero  dire)  della  figura  '2</. 

Se  si  prendono  le  formole  del  paragrafo  13  e  si  fa  in  esse: 

LX  =  L,  =  L, 

ciò  che  corrisponde  appunto  al  sistema  della  figura  citata,  se  si  pone  ancora: 

M2 

e  se  si  ammette  che  e  e  - —  siano  delle  piccole   grandezze,  tanto  piccole  che  i 

loro  quadrati  possano  già  trascurarsi,  risulta: 

T1  =  2ir^-^-(l+-  €( 


2(C,-Ca) 
2(0,-0 


772  =  2*|/-jy     1    r 


Ti  =  2ni/LC2(l  4- 


eC, 


2(C2-C,) 


Confrontando    queste    espressioni    con   le  formole   del  §  4  si  vede  subito  che  i 
periodi  Tx  e  Ts  sono  quelli  del  conduttore  1,  a  meno  del  fattore: 

1  +         eC' 


2(C,  -  Ct)    ' 
e  i  periodi  T2  e  T4  sono  quelli  del  conduttore  2,  a  meno  del  fattore: 

^    2U4-CD    ' 

Tutto  succede  dunque  nel  caso  schematico  della  figura  2  d  secondo  le  leggi,  che 
Griinwald  ricavava  dallo  studio  del  vapor  d'acqua. 

Ma  le  relazioni  da  noi  ottenute  dicono  anche  qualche  cosa  di  più;  determinan- 
dosi gli  spostamenti  con  le  uguaglianze  : 

TT «?2 _  € 

1  2{C,-0     "      „/C,       ,\    » 


K,= 


€C, 


2{CÌ-C,)  2(^-l 


156  ANTONIO    GARBASSO  30 

riesce  senz'altro  evidente  che,  a  parità  delle  altre  circostanze,  è  tanto  più  spostato 
lo  spettro  del  primo  conduttore  quanto  più  grande  è  C2,  ed  è  tanto  più  spostato  lo 
spettro  del  secondo  conduttore  quanto  più  grande  è  Cv 

Questi  resultati  possono  mettersi  in  relazione  col  fatto,  riconosciuto  da  Mitscher- 
lich,  da  Lecoq  de  Boisbaudran  e  da  altri,  che,  quando  si  studiano  successivamente 
i  cloruri,  bromuri  e  ioduri  di  uno  stesso  metallo,  si  vedono  certi  gruppi  di  righe 
spostarsi  man  mano,  e  sempre  nel  medesimo  senso. 

In  un  ordino  di  fenomeni  più  complesso  fu  trovato,  molti  anni  or  sono,  dal 
Bunsen  che  nello  spettro  dei  composti  del  didimio  certe  righe  si  vanno  avvicinando  ad 
un  estremo,  col  crescere  del  peso  molecolare. 

§  23.  Variazioni  nello  spettro.  —  L'esistenza  poi  degli  spettri  a  colonnati, 
e  le  variazioni  dovute  al  riscaldamento  e  alla  pressione  si  spiegano  semplicemente 
col  secondo  teorema  del  paragrafo  18. 

Perchè  è  chiaro  in  primo  luogo  che,  diventando  più  complessa  la  molecola,  come 
è  senza  dubbio  nei  liquidi  e  nei  solidi,  le  singole  righe  devono  essere  sostituite  da 
bande  ;  in  secondo  luogo  è  evidente  del  pari  che  l'influenza  mutua  delle  varie  molecole 
potrà  produrre  l'allargamento  delle  righe  caratteristiche. 

In  realtà  quando  fosse  dato  un  sistema  composto  di  a  sistemi  (molecole)  uguali, 
e  lo  si  tenesse  da  principio  distribuito  in  uno  spazio  relativamente  grande,  per  poi 
raccoglierlo  man  mano  in  un  volume  sempre  minore,  la  caratteristica  subirebbe  essa 
pure  una  modificazione  progressiva,  della  quale  è  facile  rendersi  conto. 

All'origine,  essendo  piccolissime  le  azioni  induttive  fra  due  elementi  del  sistema, 
il  secondo  polinomio  dello  sviluppo  si  potrebbe  trascurare  rispetto  al  primo.  Questo, 
che  nel  caso  attuale  è  la  potenza  a-esima  del  primo  membro  dell'equazione  (V)  rela- 
tiva a  ciascun  elemento,  determinerebbe  annullandosi  uno  spettro,  il  quale  non  dif- 
ferisce da  quello  caratteristico  degli  elementi  isolati. 

In  seguito,  diminuendo  le  distanze,  il  secondo  polinomio  comincerà  ad  assumere 
valori,  che  non  sono  più  del  tutto  trascurabili  ;  ogni  riga  dello  spettro  si  scinde  adesso 
in  a  righe  distinte,  ma  vicinissime.  0  meglio,  in  pratica,  essendo  a  molto  grande, 
ogni  riga  dà  luogo  ad  una  banda  di  larghezza  finita. 

Tali  bande  poi  si  andranno  allargando  sempre  più  col  diminuire  dello  spazio,  in 
cui  il  sistema  è  immerso. 

§  24.  Molecole  di  corpi  isomeri.  —  Il  teorema  del  paragrafo  9  sembra 
contraddire  a  un  resultato  notissimo  dell'esperienza,  secondo  il  quale  corpi  chimica- 
mente isomeri  hanno  spesso  degli  spettri  diversi  non  solo  per  la  posizione,  ma  anche 
per  il  numero  delle  righe.  Però  il  disaccordo  è  più  che  altro  apparente. 

La  forinola: 

V  =  Ta(pa-\-ma)  —  a 
i 

assegna  in  realtà  un  valore  massimo  per  il  grado  della  caratteristica  ;  non  è  escluso 
che,  per  una  scelta  particolare  delle  costanti,  o  una  disposizione  speciale  dell'appa- 
recchio, il  grado  si  abbassi  o  certe  radici  diventino  doppie  o  multiple. 


31 


TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE    DELLA    LUCE 


157 


Mi  propongo  di  verificare  la  cosa  con  un  esempio  particolare,  e  scelgo  all'uopo 
il  sistema,  che  fu  studiato  nel  paragrafo  17.  Se  in  questo  l'ultimo  dei  tre  elementi 
fosse  normale  agli  altri  due  (Fig.  5  b)  bisognerebbe  annullare  tutte  le  Q  che  conten- 
gono l'indice  3  e  verrebbe: 


S    s     0 

S     s 

s   a  o 

=  8 

s     S 

0    o    s 

il  sistema  avrebbe  dunque,  come  prima,  uno  spettro  di  tre  righe,  ma  sarebbero  adesso 
quelle,  che  corrispondono  ai  casi  delle  figure  la  e  3  a. 


Fig.  5.  —  a)  Sistemi  di  tre  conduttori  uguali  ad  una  oscillazione;  emette  un  triplet.  b)  Sistema 
isomero  del  precedente;  ha  uno  spettro  di  tre  righe,  e)  Sistema  isomero  del  5«;  ha  uno 
spettro  di  una  sola  riga. 

Le  cose  si  semplificano  ancora  se  supponiamo  che  i  tre  conduttori  siano  disposti 
in  modo  che  ciascuno  risulti  in  condizioni  uguali  rispetto  agli  altri  due.  E  ciò  che 
accade  così  nell'ordinamento  "a  cilindro,  della  figura  6  «,  come  nell'ordinamento 
"a  triangolo  „  della  figura  6  è,  come  nell'ordinamento  "a  stella  „  della  figura  6  e. 
Qui  si  può  scrivere  infatti: 


e..i= 


D-M=s, 


e  poi: 


S    s 
s     S 


=  (S  —  s)*(S  4-  2s)  —  0 , 


la  quale  equazione  significa  che   il    sistema  non   emette   più   tre   colori   diversi,  ma 
bensì  due  soli. 

Finalmente  quando  si  disponessero,  come  nella  figura  5  e,  i  tre  conduttori  secondo 
gli  spigoli  di  un  triedro  trirettangolo,  verrebbe: 

QlA  =  <?■>..   =   &,3  =    03,8  =   <?1,3  =   QZA  =  0  , 


158       ANTONIO    GARBALO   —  TEORIA    ELETTROMAGNETICA    DELL'EMISSIONE  DELLA  LUCE  82 

e  quindi: 


Fig.  6.  —  a)  b)  e  e)  Sistemi  isomeri  del  5  a;  hanno  spettri  di  due  solo  righe. 

la  vibrazione  dunque  si  riduce  ad  una  sola  componente,  quella  stessa  che  è  propria 
dei  singoli  conduttori  isolati. 


§  25.  Conclusione.  —  Volendo  riassumere  in  poche  parole  il  contenuto  della 
presente  memoria,  ricorderò  che  ho  risolto  da  principio  il  problema  delle  scariche 
per  un  conduttore  comunque  complesso.  Alcuni  casi  di  codesto  problema  erano  stati 
bensì  discussi  in  questi  ultimi  tempi  da  v.  Geitler  e  Mizuno,  da  me  e  da  Mandel- 
stam,  ma  la  quistione  più  generale  rimaneva  sempre  insoluta. 

Per  dare  un  esempio  del  metodo  ho  studiato  in  seguito  una  classe  notevole  di 
conduttori,  a  fili  uguali,  lunghi  e  sottili,  la  cui  importanza  appare  anche  meglio  nel 
progresso  della  ricerca. 

E  più  avanti  ho  mostrato  come  si  possano  calcolare  le  oscillazioni  di  un  sistema  di 
conduttori  e  di  un  sistema  di  sistemi.  I  problemi  particolarissimi  risolti  dall'Overbeck, 
dal  v.  Geitler  e  dal  principe  Galitzin  rientrano  naturalmente  nelle  mie  forinole  generali. 

Uno  studio  più  accurato  dell'equazione  caratteristica,  che  determina  i  periodi 
proprii  di  ciascun  sistema,  mi  ha  permesso  di  stabilire  più  oltre  alcune  proposizioni, 
le  quali  hanno  un  immediato  riscontro  nei  resultati  più  sicuri  dell'analisi  spettrale. 
Gli  spettri  a  doublets  e  triplets,  quelli  dei  corpi  composti  e  dei  gas  soggetti  a  pres- 
sione, e  certi  fatti  dipendenti  dall'isomeria  trovano  così  un  modello  semplice  e  per 
ogni  parte  soddisfacente. 

Restava  a  vedersi  fino  a  che  punto  l'applicazione  fosse  legittima,  e  ho  stabilito 
questo  con  un  confronto  numerico,  mostrando  come  i  conduttori  a  fili  lunghi  e  sottili, 
studiati  da  principio,  rispondano  alla  forinola  empirica  di  Kayser  e  Runge. 

Ho  dato  finalmente  una  regola  semplice,  che  mette  in  relazione  gli  atomi   dei 
corpi  elementari,  compresi  in  uno  stesso  gruppo  del  sistema  periodico. 
Torino,  gennaio  1903. 


CANALI  VENOSI  EMISSARI 

TEMPORALI  SQUAMOSI  E  PETROSQUAMOSI 


RICERCHE     MORFOLOGICHE 

DEI    DOTTORI 

ALFONSO  BOVERO 

Settore-capo  nell'Istituto  anatomico  di  Torino,  Libero  docente  di  Anatomia   umana  normale 

UMBERTO  CALAMIDA 

Assistente  alla  Clinica  otorinolaringologica  di  Torino. 
CON   2    TAVOLE 


Approvata   nell'Adunanza  del  5  Aprile  1903. 


È  universalmente  conosciuta  la  grande  importanza  funzionale  assunta  per  i  rap- 
porti fra  il  sistema  venoso  endocraniano  e  quello  extracraniano,  oltreché  dalle  vie 
principali  di  comunicazione  rappresentate  dalle  vv.  ophtalmica ,  meningeae  mediae  e 
vertebrales,  da  quel  complesso  di  formazioni  accessorie  che  vanno  sotto  il  nome 
comune  di  venae  emissariae  di  Santorini:  cosi  pure  è  ugualmente  noto  come  in 
genere  le  vie  accessorie  di  comunicazione  siano  numerosissime,  in  quanto  le  radici 
della  v.  jugularis  externa  e  della  porzione  facciale  della  v.  jugularis  interna  si  intrec- 
ciano con  le-  origini  delle  vene  intracraniche  su  tutta  la  periferia  del  cranio,  sulla 
volta  come  sulla  base  (Romiti,  Charpy,  ecc.).  Lasciando  tuttavia  in  disparte  e  il 
sistema  delle  venule  diploidie  e  i  complessi  venosi,  i  quali  accompagnano  fuori  del 
cranio  i  tronchi  di  taluni  nervi  cerebrali  ed  assumono  una  specialissima  impor- 
tanza già  in  periodi  molto  precoci  della  ontogenesi  di  quasi  tutti  i  vertebrati  (Rabl, 
Raffaele,  Rex,  Houssay,  Field,  Hochstetter,  Gruby,  Katschenko,  Salzer,  Grosser), 
e  possono  eventualmente,  almeno  in  parte,  diversamente  a  seconda  dei  differenti 
ordini  e  specie  di  Mammiferi,  avere  un  notevole  ufficio  anche  nell'età  adulta  [Hof- 
mann (29)],  offrono  particolare  interesse  le  vene  emissarie  propriamente  dette  situate 
tutte  sulla  volta  del  cranio  e  cioè  gli  emissari  parietali,  mastoidei  ed  occipitali,  che 
sono  i  più  costanti,  come  pure  altri  solo  eccezionalmente  occorrenti  nella  specie 
nostra. 

Nell'Uomo  ad  accrescimento  compiuto  questi  emissari,  oltre  a  costituire  una 
comodità  fisiologica,  in  quanto  per  essi  può  eventualmente  stabilirsi  una  specie  di 
equilibrio  funzionale  fra  la  v.  jugularis  interna ,  rappresentante  la  principale  via  di 
deflusso  del  sangue  venoso  intracranico,  e  la  r.  jugularis  externa,  possono  anche  consi- 


1(50  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMLDA  - 

derarsi  come  rappresentanti  della  via  o  delle  vie  tenute,  in  molte  specie  di  Mam- 
miferi, dal  sangue  venoso  della  cavità  craniana  per  ritornare  al  cuore. 

Lo  studio  descrittivo  o  statistico  dei  detti  emissari  è  reso  sufficientemente  fa- 
cile da  ciò  che  non  è  sempre  necessario,  o  per  lo  meno  non  assolutamente  indispen- 
sabile, ricorrere  a  iniezioni  di  sostanze  speciali  nelle  vene,  poiché  esse  lasciano 
nello  scheletro  traccie  così  chiare  in  forma  di  solcature,  di  forami  e  canali,  in  guisa 
da  essere  bastante  l'esame  dello  scheletro  per  conoscerne  le  modalità  principali  di 
decorso,  il  calibro,  la  costanza  o  meno,  i  rapporti,  in  una  parola  le  particolarità  più 
interessanti  del  loro  comportamento. 

I  detti  canali,  chiamati  eziandio  canali  emissari  [Calori  (48)]  si  riscontrano  o 
nelle  suture  che  riuniscono  a  completo  sviluppo  le  varie  ossa  craniane,  oppure 
compaiono  attraversanti  la  compagine  stessa  di  un  osso  in  corrispondenza  però  dei 
punti  di  riunione  di  due  o  più  centri  primitivi  di  ossificazione,  sia  che  questi  deli- 
mitino fra  loro  un  semplice  spazio  suturale,  oppure  un  vero  spazio  fontanellare, 
i  quali  spazi  scompaiono  normalmente  nell'età  adulta  (Calori,  Broca,  Staderini, 
Maggi,  Papillaut,  Ranke,  Staurenghi,  Giuffrida-Ruggeri,  Schwalbe,  Fischer, 
Zanotti). 

Oltre  l'importanza  sovraccennata  come  vie  di  comunicazione  fra  i  sistemi  delle 
due  giugulari,  è  inoltre  da  ricordarsi  il  significato  filogenetico  eventuale  dei  vasi  e 
dei  canali  emissari  quali  rappresentanti  i  residui  delle  vene,  o  delle  vie  da  queste 
tenute,  di  organi  ancestrali  scomparsi  più  o  meno  completamente  nella  ontogenesi 
dei  vertebrati  superiori:  questo  vale  ad  es.  per  il  foro  parietale  in  rapporto  all'occhio 
omonimo  (Leydig  ,  Duval,  Papillaut,  Maggi,  ecc.),  pel  foro  mediofrontale  relati- 
vamente alla  parafisi  (Zanotti). 

Indipendentemente  da  ciò  risulta  chiaro  che  i  canali  destinati  a  dar  passaggio 
ai  vasi  emissari  assumono  la  loro  importanza  speciale  in  relazione  al  modo  con  cui 
si  evolve  la  craniogenesi  dei  differenti  ordini  e  specie  di  vertebrati.  Si  comprende 
quindi  facilmente  ancora  una  volta  come  lo  studio  dei  vasi  emissari  sia  stretta- 
mente connesso  con  quello  dei  canali  ossei,  che  ad  essi  danno  passaggio,  e  come 
gli  uni  e  gli  altri  possano  avere  un  valore  ed  una  importanza  diversa  a  seconda 
delle  specie  animali,  delle  regioni  del  cranio  che  si  prendano  in  esame,  dell'età,  non 
solamente,  ma  trattandosi  di  canali  venosi  e  quindi  come  tali  soggetti  a  variazioni 
più  numerose  di  quanto  occorra  per  altri  sistemi ,  anche  per  i  differenti  individui 
della  stessa  specie  o  razza. 

Data  la  correlazione  sopraccennata,  è  ovvio  pensare  come  nello  studio  morfolo- 
gico di  tali  formazioni  si  debba  tener  conto  di  parecchi  fattori  e  cioè  del  loro  modo 
di  comportarsi  nei  diversi  individui,  della  frequenza  percentuale  possibilmente  nelle 
varie  razze,  della  loro  ubicazione  e  rapporti,  finalmente  del  loro  significato  onto-  e 
filogenetico,  nonché  della  loro  importanza  funzionale.  In  realtà,  se  per  molti  di  questi 
canali  emissari  si  hanno  dati  statistici  e  descrittivi  numerosi,  per  il  significato  di 
alcuni  la  discussione  è  tuttora  aperta,  in  relazione  specialmente  ad  idee  emesse  di 
recente  sul  numero  dei  punti  di  ossificazione  di  talune  ossa  (Maggi,  Staurenghi, 
Frassetto)  e,  secondariamente  a  ciò,  sulla  genesi  delle  suture  e  sul  numero  delle 
fontanelle  craniche:  in  altre  parole  rimane  ancora  a  stabilirsi  perentoriamente,  defi- 
nitivamente, per  taluni  di  tali    emissari  il  significato  in  rapporto  alla   craniogenesi. 


3  CANALI    VENOSI    EMISSAEI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  Kil 

Per  altri  sono  scarsi  od  assolutamente  mancanti  o  contradditori  i  dati  anatomo-com- 
parativi,  per  altri  infine  è  deficiente  affatto  la  comparazione  etnica:  ciò  posto,  a 
nostro  avviso  vi  sarebbe  in  questo  campo  larga  messe  tuttora  da  mietere  per 
l'anatomico. 

Tralasciando  per  adesso  la  questione  più  lata,  noi  ci  siamo  prefissi  di  riferire  in 
questa  Memoria  i  risultati  avuti  dallo  studio  di  un  gruppo  abbastanza  ben  localiz- 
zato di  tali  emissari,  e  cioè  di  quelli  che  fanno  comunicare  i  due  sistemi  venosi  endo- 
ed  extracraniano  attraverso  l'osso  temporale:  ad  essi  appunto  sono  applicabili  i  cri- 
teri generali  sopra  esposti  ed  il  loro  studio  riesce  interessante  sotto  i  differenti  punti 
di  vista  ai  quali  abbiamo  precedentemente  accennato.  Data  la  costituzione  del  com- 
plesso temporale  come  risultante  dalla  riunione  di  tre  ossa  (os  squamosum  od  osso  squa- 
mosozigomatico,  os  petrosum  od  osso  petromastoideo,  os  tympanicum)  nell'Uomo  all'atto 
disgiunte  nella  vita  embrionale,  parzialmente  anche  nella  vita  infantile,  ed  in  con- 
dizioni abnormi  separate  anche  nell'età  adulta  (Calori.  Amadei,  Symington,  Poirier)  : 
considerando  ancora  che  ciascuna  di  queste  tre  ossa  proviene  da  parecchi  punti  pri- 
mitivi di  ossificazione,  tenuto  finalmente  calcolo  dei  rapporti  fra  le  primitive  vie 
venose  del  capo  cogli  abbozzi  dell'organo  dell'udito,  noi  possiamo  già  a  priori  pen- 
sare che  le  vie  di  comunicazione  fra  i  due  sistemi  venosi  debbano  essere  molteplici 
e,  per  quanto  trascurate  per  molto  tempo  dagli  anatomici,  di  grande  interesse  per 
l'importanza  che  assume  nell'economia  animale  l'organo  che  vi  è  racchiuso.  Dobbiamo 
tuttavia  subito  avvertire  come  noi  non  intendiamo  di  occuparci  qui  delle  molteplici 
comunicazioni  venose,  costanti,  per  lo  più  estremamente  fini,  accompagnanti  altri 
organi  (arterie,  nervi,  tuba,  acquedotto  di  Falloppio,  sacco  endolinfatico)  per  i  canali 
appositi  scavati  nello  spessore  dell'os  petrosum  e  per  le  quali  necessiterebbe  uno  studio 
proprio  molto  accurato  e  naturalmente  anche  di  un'estrema  difficoltà:  noi  ci  limi- 
tiamo per  ora  a  riferire  una  parte  delle  nostre  ricerche  e  più  precisamente  quelle 
intorno  ai  canali  emissari,  che  attraversano  Yos  squamosum  direttamente,  oppure  in 
rapporto  delle  primitive  suture  di  detta  porzione  del  temporale  con  Yos  petrosum  e 
con  il  tympanicum.  Con  ciò  noi  non  abbiamo  sicuramente  la  pretesa  di  esporre  cose 
affatto  nuove,  in  quanto  tali  formazioni,  che  noi  aggruppiamo  sotto  la  denominazione 
comune  di  emissari  squamosi  e  petrosquamosi,  sono  in  verità  conosciute  già  da  molto 
tempo  dagli  anatomici  e  dai  zootomi  con  denominazioni  assai  dispaiate  e,  come  ve- 
dremo tosto,  inni  sempre  proprie.  L'interesse  e  l'opportunità  di  questo  nostro  studio 
risultano  a  nostro  parere  anche  da  ciò  che  in  questi  ultimi  anni,  come  vedremo  dalla 
letteratura,  si  sono  grandemente  modificate  le  nostre  conoscenze  sul  modo  con  cui 
procede  lo  sviluppo  delle  vie  venose  di  deflusso  del  capo.  Detti  canali  emissari  nel- 
l'Uomo adulto,  benché  non  assolutamente  infrequenti,  occorrono  solo  come  varietà, 
in  quanto  la  v.  jugularis  interna  serve  quasi  esclusivamente  da  via  di  deflusso  del 
sangue  intracraniano.  Ciò  non  avviene  invece,  salvo  eccezioni,  nella  maggior  parte 
dei  Mammiferi  inferiori  ai  Primati:  considerando  infatti  la  serie  dei  vari  ordini,  si 
può  verificare  che  la  v.  jugularis  e. eterna  nell'  adulto  può  rappresentare  o  semplice- 
mente una  via  sussidiaria,  ma  costante,  di  maggiore  o  minore  importanza;  od  essere 
equipollente  alla  v.  jugularis  interna  ;  oppure  rappresentare  da  sola  la  via  di  sbocco 
del  sangue  dalla  cavità  craniana.  La  esistenza  di  una  via  di  sbocco  attraversante 
Yos  temporale  per  mezzo  di  una  radice  di  formazione  secondaria  (Salzer)  della  v.  jugu- 
Serie  II.  Tom.  LUI.  u 


162  ALFONSO    BOVEEO    —    UMBERTO    CALAMIDA  4 

laris  externa,  sia  che  essa  rappresenti  una  condizione  normale  permanente  come  av- 
viene in  quasi  tutti  gli  ordini  di  Mammiferi,  escluso  l'Uomo  ed  i  Primati  superiori, 
sia  che  si  presenti  semplicemente  come  varietà,  appunto  come  in  quest'ultimi,  è  per 
lo  più  collegata  a  disposizioni  speciali  dei  vasi  venosi  endocraniani,  i  quali  lasciano 
pure  sul  tavolato  interno  delle  ossa  di  rivestimento  delle  traccie  più  o  meno  evidenti 
sotto  forma  di  solcature  o  di  canali;  queste  traccie  invece  mancano,  ovvero  sono 
appena  percettibili,  certo  assai  meno  pronunciate  ed  evidenti,  nei  casi  (nell'Uomo  adulto 
nella  maggioranza  degli  individui),  in  cui  la  via  di  deflusso  del  sangue  endocraniano, 
esclusi  gli  emissari  che  passano  attraverso  ad  altre  ossa  (occipitale,  parietale,  frontale, 
sfenoide,  ecc.)  e  sono  in  gran  parte  tributari  delle  radici  della  v.  jugularis  externa, 
è  rappresentata  quasi  esclusivamente  dalla  v.  jugularis  interna. 

Nell'Uomo,  nei  casi  in  cui  la  circolazione  venosa  endocraniana  sbocca  parzial- 
mente all'esterno  per  mezzo  di  una  radice  (di  formazione  secondaria)  della  giugulare 
esterna,  radice  attraversante  la  squama  temporalis,  vi  hanno  per  lo  più  eziandio  delle 
ampie  comunicazioni  accessorie  fra  il  sistema  venoso  della  fossa  cranica  posteriore 
e  quello  della  fossa  media:  questa  a  sua  volta  riceve  già  in  condizioni  normali  la 
massima  parte  del  sangue  dalla  fossa  anteriore  e  specialmente  dalla  porzione  basi- 
lare (rr.  meningeae  rnediae,  situi*  sphenoparietalis  di  Bresciiet,  ecc.).  Le  vie  di  comu- 
nicazione accessorie  fra  i  sistemi  venosi  delle  fosse  posteriore  e  media  decorrono 
precisamente  in  rapporto  del  limite  di  unione  endocraniano  dell'  os  squdmosum 
con  l' os  petrosum :  sono  cioè  essenzialmente  rappresentate  dal  seno  petrosquamoso 
degli  AA.  (acquedotto  di  Verga,  ecc.),  il  quale  si  dovrebbe  ritenere  nell'  Uomo 
(Luschka,  Knott,  Labbè,  Hedon,  Sperino,  Trolàrd,  ecc.)  come  occasionale,  certo 
non  costante.  E  per  lo  più  nell'Uomo  come  negli  altri  Mammiferi  è  precisamente 
nell'ambito  della  porzione  intermedia  del  seno  petrosquamoso  che  avviene  lo  sbocco 
all'esterno  per  mezzo  di  una  radice  più  o  meno  sviluppata  della  r.  jugularis  externa. 
Devesi  tuttavia  osservare  che  nell'Uomo,  mentre  la  esistenza  di  questa  via  accessoria 
anomala  di  deflusso  è  strettamente  collegata,  almeno  nella  grandissima  maggioranza 
dei  casi,  alla  esistenza  di  un  seno  petrosquamoso  e  cioè  di  un'ampia  comunicazione 
ugualmente  accessoria  fra  il  sistema  venoso  della  fossa  cranica  media  e  quello  della 
posteriore,  rappresentante  la  porzione  più  ventrale  del  sinus  transversus,  che  assume 
così  grande  importanza  colla  maggior  parte  dei  Mammiferi  inferiori  ai  Primati,  inver- 
samente l'occorrenza  di  un  seno  petrosquamoso  non  implica  sempre  la  esistenza  di 
un  forame  emissario  omonimo,  rappresentante  la  via  tenuta  dal  ramo  della  giugulare 
esterna  destinata  al  deflusso  più  o  meno  parziale  od  anche  totale  del  sangue  intra- 
craniano  nei  Mammiferi  nei  quali  tale  ufficio  non  spetta  alla  giugulare  interna,  ma 
bensì  all'esterna.  Da  ciò  si  può  indurre  che  il  seno  petrosquamoso  e  le  sue  impronte 
sotto  forma  di  solcature  o  di  canali  ben  evidenti  suH'endocranio,  saranno  tanto  più 
costanti  e  pronunciate  nella  serie  dei  Mammiferi,  quanto  maggiore  è  l'importanza 
della  vena  giugulare  esterna  come  via  di  deflusso  del  sangue  endocraniano. 

Per  la  stessa  ragione  si  capisce  come  nella  specie  nostra  la  occorrenza  pure 
eventuale  di  abnormi  vie  di  comunicazione  fra  il  sistema  venoso  della  fossa  media 
del  cranio  e  le  radici  della  vena  giugulare  esterna  vada  soggetta  a  varietà  nume- 
rose, non  solo  nel  calibro  e  nell'  importanza  di  queste  vie,  ma  anche  nel  decorso 
delle  stesse  attraverso  la  sutura    petrosquamosa    obliterata   o  non,  oppure    diretta- 


5  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  163 

mente  attraverso  la  porzione  squamosa  e  nella  conseguente  ubicazione  dell'apertura 
esocranica  dei  canali  medesimi. 

Premesse  queste  considerazioni  preventive  speciali  per  i  canali  emissari  da  noi 
studiati,  quali  emergono  dalla  conoscenza  morfologica  dello  sviluppo  del  sistema  ve- 
noso e  dalle  osservazioni  degli  altri  AA.,  come  dalle  nostre  personali  ricerche, 
prima  di  esporre  minutamente  i  risultati  di  queste  ultime,  premettiamo  un  po'  dif- 
fusamente la  letteratura  dell'argomento. 


Cronologicamente  il  primo  accenno  molto  chiaro  ed  esatto  ad  un  emissario  attra- 
versante la  squama  dell'osso  temporale  e  quindi  rientrante  nel  gruppo  da  noi  stu- 
diato, è  dato  da  Loder  (42  a,  b),  il  quale  dice  a  proposito  della  descrizione  della  faccia 
endocraniana  della  squama  del  temporale  umano: 

u  Nach  unten,  nahe  an  der  Vereinigung  des   Schuppentheiles   unti  Felsenbeines.   bisweilen    ein 
Loeh,  -workomint,  das  ein  Kanal  bildet,  der  sckrag  aufwarts  und  vorwàrta  geht  imd  sich  iil 
Ursprunge  des  Joekfortsatzes  otfnet.  Durch  diesaci  Kanal  dringt  ein  emissarium   Santorini  aus  deui 
sinu  petroso  anteriori  in  die  Venen  des  Musculi  temporalis  „. 

Come  risulta  dalla  precedente  descrizione,  Loder  non  dà  al  canale  anomalo  destinato 
a  ricettare  una  vena  emissaria  alcuna  denominazione  speciale  e  non  si  pronuncia 
neppure  sul  suo  significato  morfologico  e  genetico  :  la  sua  descrizione  in  quanto  ri- 
guarda i  rapporti  del  canale  è  tuttavia  sufficientemente  esatta  ed  in  ciò  il  nostro 
parere  differisce  alquanto  da  quello  di  Luschka  (45),  il  quale  asserisce  che  altri  AA., 
ad  es.  Boc'Hdalek  (2),  intendono  come  seno  petroso  anteriore  la  porzione  del  sinus 
petrosus  inferior,  che,  fra  il  margine  laterale  della  porzione  basilare  dell'osso  occipi- 
tale e  la  punta  della  piramide,  si  porta  in  alto  e  colla  sua  estremità  anteriore  si 
unisce  al  seno  cavernoso  :  noi  osserviamo  anzitutto  che  il  manuale  di  Bochdalek  in 
cui  è  usata  la  terminologia,  che  potrebbe  far  cadere  in  dubbio  sull'esattezza  dell'os- 
servazione di  Loder,  è  di  assai  posteriore  a  quello  di  quest'ultimo  ;  secondariamente 
già  assai  prima  di  Loder  era  stato  descritto,  da  Winslow  (74)  e  Malacarne  (47'/). 
come  seno  -petroso  anteriore  una  formazione  perfettamente  identica  a  quanto  più  tardi 
venne  chiamato  seno  petrosquamoso;  la  denominazione  di  seno  petroso  anteriore  d'altronde 
venne  ancora  usata  anche  più  tardi  da  molti  AA.,  fra  cui  ci  limiteremo  a  ricordare 
Portal(53),  Ch.  Bell,  Lauth  (40),  Cortese  (10),  Verga  (72)  con  tale  esattezza  di 
descrizione  da  non  lasciare  sussistere  alcun  dubbio. 

E  qui  cade  in  acconcio  riferire  quanto,  a  proposito  dei  seni  petrosi,  dice  Mala- 
carne (47),  anche  perchè  le  osservazioni  dell'anatomico  Saluzzese  vennero  completa- 
mente o  quasi  dimenticate  dalla  maggioranza  degli  AA.,  escluso  il  Labbè  (37),  che 
si  occuparono  dei  seni  venosi  craniani.  Malacarne  (47  a,  pag.  133,  §  198)  afferma  che 
il  s.  petroso  anteriore  (s.  petrosquamoso)  è  frequentissimo  : 

E  sulla  faccia  anterior  della  rupe,  di  figura  irregolare,  e  molto  stretto  vicino  al  foro  spinosi) 
dove  molte  volte  si  scarica  del  sangue,  che  a  traverso  della  interna  lamina  della  Dura  M.  col  suo 
colore  ce  ne  indica  il  sito,  e  la  estensione:  altre  fiate  sbocca  nel  fine  del  petroso  mezzano,  dalla 
parte  del  quale  (aprendolo  ben  vicino  all'angolo  lambdoideo)  vi  si  può  far  penetrare  una  setola  o 
una  tenta  sottile  prima  che  la  volta  di  questo  seno  anteriore  per  considerarne  l'interno  sia  collo 
scalpello  distrutta  ,. 

Altrove  (47  è)  considera  i  sei  seni  petrali  (tre  per  lato)  e  quindi  anche  il  seno  petro- 
squamoso come  normali.  Ancora  è  da  ricordarsi  il  caso  descritto  dallo  stesso  A.  [(47/;) 


16-1  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  6 

§  160,  pag.  106]  e  riferentesi  ad  un  u  fatuo  „  da  lui  dissecato  ne!  quale  i  seni  laterali 
"  si  votavano  nelle  jugulari  esterne  pei  fori  lambdoidei  o  del  Valsalva  .  .  .  molto 
"più  del  consueto  capaci  „;  pare  dalla  descrizione  di  Malacarne  fossero  affatto  man- 
canti i  fori  laceri  posteriori,  per  cui  anche  in  questo  caso  la  giugulare  esterna  avrebbe 
rappresentato  l'unica  via  di  sbocco  del  sangue  venoso  intracraniano  :  questa  disposi- 
zione occasionale  r.  d'altronde  abbozzata  corno  carattere  quasi  costante  in  tutti  gli  indi- 
vidui (emissario  mastoideo),  ne  è  certamente  priva  di  grande  importanza  morfologica. 
Un'ampia  descrizione  del  comportamento  dei  vasi  venosi  intracraniani  in  rap- 
porto al  sistema  delle  vene  giugulari,  venne  data  primieramente  da  Otto  (50),  il 
quale  fece  oggetto  di  studio  speciale  i  Mammiferi  ibernanti:  dice  infatti  l'A.  (pag.  27): 

"  Ne  in  descriptione  vasorum  obscurus  sim,  nomen  canalis  temporalis,  quo  saepius  utar,  primo 
illustrandum  erit:  hoc  nomine  enim  significo  foramen  quoddam,  aut  fissuram,  aut  denique 
inter  os  petrosum  et  os  temporis,  aut  soluta  in  hoc  et  supra  aurem  situm,  quo  sinus  cerebri  trans- 
versus cum  vena  iugulari  externa  commercium  habet,  ita  ut  in  omnibus  animalibus.  a  me  descriptis, 
maxima  sanguinis  oerebralis  copia  non  ut  in  homine  per  foramen  iugulare,  sed  per  hunc  canaletti 
temporale™  profluat  „. 

In  seguito  enumera  il  modo  di  distribuzione  della  vena  giugulare  esterna,  l'ubica- 
zione del  canale  temporale  mediante  il  quale  essa  si  pone  in  rapporto  col  ramo  ante- 
riore del  seno  trasverso,  nei  Vespertilionidi,  Sorices,  nell'  Erivaceus ,  nella  Talpa, 
Ursus  arctos  ed  U.  maritimus,  Meles  mlgaris,  Castor  fiber,  Georhychi  Lemmi,  noi 
Myoxidi,  Muridi,  Dipodes,  Siuridi,  nel  Oricetus,  Arctomys  marmota,  Hystrix  cristata, 
Hydrocliocrus,   Cavia,  ecc.,  ed  aggiunge  (pag.  77-78): 

"  Sanguinis  maxima  copia  in  omnibus  non,  uti  in  homine,  per  foramen  iugulare,  sed  aequali  modo, 
atque  in  Equo,  per  venam  cerebralem  superiorem  effluii,  i.  e.  ex  anteriori  sinus  transversi  ramo  per 
canalem  temporalem  ad  venam  iugularem  externam,  quae  hac  de  causa  semper  maxima  est;  posterior 
sinus  transversi  ramus  sanguinei!!  minus  per  forameli  venosuni  ad  venam  iugularem  internam, 
quam  ad  venam  vertebi-alem,  quae  itidem  in  venam  iug.  externam  inserita:,  perducit.  Hunc  pecu- 
liarem  sanguinis  a  cerebro  refluxum,  quo  ammalia  citata  ab  liomine  discrepant,  non  minus  in 
permultis  aliis  animalibus  inveni  et  facile,  ni  fallor,  ex  situ  et  directione  capitis  in  omnibus  quadru- 
pedibus,  multo  diversis  ab  homine,  declarandum  esse  puto.  Iam  in  Simiis  nonnullis  canalem  tempo- 
ralem inveni,  sed  in  Cercopithecis,  Cynocepbalis,  etc.  adhuc  parvus  apparuit,  in  Simiis  Americanis 
vero  et  Lemuribus  multo  maior;  porro  eum  observavi  in  Mustela  Marte  et  Foina,  Viverra  Cana- 
densi,  Mephiti  suffocante,  Lutra,  Gulone,  in  Canibus,  Phocis,  Myrmecophaga  iubata  et  tridactyla, 
Dasypode,  Didelphibus  pluribus,  omnibus  Ruminantibus  et  Equo:  sed  non  in  Tricheco  rosmaro, 
Bradypodibus,  Sue  et  Cetaceis;  in  genere  Felium  canalem  nonnisi  in  nonnullis  iuvenilibus  dete- 
gere  potui  „. 

Otto  inoltre  ricorda,  a  proposito  della  descrizione  minuta  del  circolo  venoso  negli 
ibernanti,  come  in  alcuni  abbia  trovato  delle  vene,  le  quali,  per  sboccare  nel  canale 
temporale  entravano  fra  i  due  tavolati  delle  ossa  limitanti  la  fossa  omonima  per 
mezzo  di  foramina  parva:  questa  particolarità  ha  la  sua  importanza  in  quanto  può 
avere  riscontro  con  reperti  eventuali  nell'Uomo. 

Anche  Gurlt  (23)  accenna  alla  presenza  sulla  faccia  esterna  del  temporale  dei 
Solipedi  di  "  einige  Locher  durch  welcho  kleine  Blutadern  gehen  „  :  in  questi  animali 
alla  faccia  interna  scabra  si  trova  una  solcatura,  la  quale  forma  col  parietale  un 
canale  (Schlàfengang — Meatus  temporalis),  che  si  apre  sopra  il  processo  articolare 
posteriore  e  serve  per  il  passaggio  di  un  vaso  proveniente  dal  seno  trasverso:  nel 
Vitello  (1.  e,  pag.  76)  il  canale  temporale  sarebbe  molto  ampio,  incomincia  nella 
cavità  craniana  "  und  nimmt  ani  Jochfortsatze  noch  zwei  Ramile  auf  „.  Trattando  poi 


7  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETKOSQUAMOSI  165 

delle  vene  dice  che  nei  Solipedi  la  vena  temporale,  affluente  della  vena  facciale  an- 
teriore, ramo  della  giugulare  esterna,  è  costituita  dalla  riunione  delle  vv.  transversa 
faciei,  temporalis  posterior  e  cerebralis  superiori  quest'ultima  originerebbe  dal  seno 
trasverso  e,  mediatamente,  dal  seno  longitudinale  per  entrare  nel  canale  temporale, 
lo  seguirebbe  fino  alla  sua  estremità  inferiore  fra  la  parte  petrosa  e  la  squamosa 
per  riuscire  all'esterno  fra  il  condotto  uditivo  esterno  ed  il  processo  articolare  poste- 
riore: una  disposizione  consimile  si  riscontrerebbe  nei  Ruminanti,  nel  Maiale  e  nei 
Carnivori  (1.  e,  s.  588-595). 

In  modo  analogo  a  Gurlt  si  esprime  pure  Schwab  (59),  il  quale  descrisse  il  canale 
temporale  oltreché  nei  Solipedi  e  Ruminanti,  anche  nel  Maiale,  in  cui  si  troverebbe 
fra  l'osso  petroso  e  l'occipitale,  alludendo  con  ciò  chiaramente  all'emissario  mastoideo. 

Hallmann  (24)  descrive  un  meatus  temporalis  specialmente  sviluppato  nei  Soli- 
pedi e  Ruminanti,  aprentesi  alla  superficie  esterna  della  squama  temporale  sopra  al 
condotto  uditivo  esterno  con  un  foro  ragguardevole,  che  diminuirebbe  però  di  am- 
piezza col  progredire  dell'età. 

Nel  classico  studio  comparativo  di  Rathke  (55)  noi  troviamo  allargate  di  molto 
e  con  criteri  più  positivi  le  nostre  conoscenze  nella  partecipazione  diversa  nei  vari 
ordini  e  specie  di  Mammiferi  delle  vene  giugulari  interna  ed  esterna,  al  deflusso  del 
sangue  endocraniano.  Secondo  Rathke  (s.  5)  nei  giovani  embrioni  di  quasi  tutti 
i  vertebrati  si  originano  dal  cuore  due  tronchi  venosi  decorrenti  superficialmente  e 
strettamente  connessi  con  gli  arti  branchiali  e  confluenti  coi  canali  di  Cuvier:  essi 
prendono  origine  nella  cavità  craniana  mediante  parecchie  diramazioni,  le  quali  da 
ciascun  lato  formano  un  ramo  da  considerarsi  come  l'inizio  di  ciascuno  dei  tronchi 
predetti  e  che,  più  o  meno  chiaramente  a  seconda  della  specie,  costituiscono  un  seno 
trasverso. 

Der  Uebergaug  dieses  Geiasses  aus  der  Schadelhohle  nach  aussen  korant  immer  neben  tieni 
kiinftigen  Ohrlabyrinthe  seitwàrts  von  der  Basis  cranii  vor,  bei  dem  einem  Tbiere  niehr  nach  vorne, 
bei  dem  andern  mehr  nach  hinten.  Daraus  folgt  schon  dass  das  erwanhten  Gefàss  nichts  anders, 
als  eine  Vena  jugularis  sein  kann.  Die  Oeffnung  jedoch  durch  welche  dasselbe  aus  der  Schadelhohle 
heraustritt,  ist  nichts  das  kiinftige  Forameli  jugulare,  sondern  eine  seitwiirts  von  diese  gelegene 
besondere  „. 

E  più  oltre: 
*  Wàhrend  sich  bei  der  Natter  und  dem  Hùhnehen  die  Venenverzwcigungen  des  Gehirnes  und 

seine  Haute  immer  mehr  ausbilden, vergehen  die  Sinus  transversi,  und  es  entsteht  am  Hinter- 

hauptsloehe  eine  neue  Verbindung  jener  Venenverzweigungen  mit  dem  Jugularvenen  :  dies  geschiet 
mittelst  ein  Paares  von  Aesten,  die  von  diesen  Venen  nach  oben  und  hinten  gegen  das  erwàhnte 
Loch  hinwachsen,  voraus  sich  dann  die  Schadeloffnung  durch  welche  der  sinus  transversus  in  die 
V.  jugularis  uberging,  verschliesst.  Dio  Jugularvenen  geben  also  bei  diesen  Thiere  ihre  urspriingliche 
Verbindung  mit  den  Venen  der  Schadelhohle  ganz  auf,  und  gehen  mit  ihnen  an  einer  ganz  andern 
Stelle  eine  neue  ein,  indess  bei  Fischen,  Friischen  und  den  meisten  Saugethieren  die  urspriingliche 
fur  immer  verbleibt.  Auch  bei  den  Eidechsen  und  Krokodilen  ist  die  Verbindung  der  Drosseladern 
mit  den  Venen  der  Schadelhohle,  wie  bei  den  Vògeln  „. 

Rathke  enumera  in  seguito  (s.  6)  le  specie  in  cui  si  formerebbe  da  ciascun  lato 
e  permarrebbe  un  solo  tronco  venoso  corrispondente,  per  la  posizione,  alla  v.  giugulare 
esterna;  quelle  in  cui  si  sviluppano  da  ciascun  lato  due  tronchi  venosi,  uno  superficiale 
ed  uno  profondo,  vale  a  dire  la  giugulare  esterna  e  la  giugulare  interna:  quest'ultima 
rimane  in  alcuni  animali  (Topo)  assolutamente  esile,  raggiunge  appena  colle  sue  ultime 
diramazioni   la  base   del   cranio  in   guisa   che  serve  esclusivamente   al   deflusso    del 


Igfj  ALFONSO    BOVEEO    UMBERTO    CALAMIDA 

sangae  dei  muscoli  faringei,  laringei  e  boccali,  mentre  spetta  alla  giugulare  esterna 
l'ufficio  di  ricondurre  al  cuore  tutto  il  sangue  venoso  endocraniano  ;  in  altri  (Cane, 
Riccio,  Faina,  Ermellino)  la  giugulare  interna,  pur  rimanendo  sottile,  riceve  sangue 
dall'interno  della  cavità  craniana  mediante  un  piccolo  ramuscolo  che  attraversa  il 
forame  giugulare  ;  in  alcuni  Mammiferi  finalmente  (Talpa,  Maiale,  Scimmie,  Uomo)  la 
giugulare  interna  ha  una  ampiezza  ragguardevole,  solo  però  nell'Uomo  e  nelle  Scimmie 
serve  quasi  esclusivamente  da  sola  come  via  di  deflusso  del  sangue  intracranico, 
poiché  anche  la  giugulare  esterna  nei  rimanenti  prende  sempre  una  parte  del  sangue 
stesso.  L'apertura  per  la  quale  la  giugulare  esterna  si  unisce  coi  vasi  della  cavità 
cranica 

J  befindet  sich  bei  den  meisten  Saugethieren  zwischen  dem  Kiefergelenke  und  den  i 

knochernen  Theilen  dea  Gehorapparates,  beim  Maurwurfe  dagegen  dicht  hinter  diesen  Theilen  ,. 

Dagli  studi  di  Rathke  risulterebbe  quindi  che  lo  sviluppo  della  vena  giugulare 
interna  è  secondaria  a  quella  della  esterna,  sia  che  si  consideri  nella  serie  di  tutti  i 
vertebrati,  come  anche  nella  ontogenesi  stessa  dei  Mammiferi  superiori,  concezione 
questa  che  venne  accolta  da  tutti  gli  AA.  specialmente  da  Luschka  e  che  solo  da 
poco  venne  dimostrata  completamente  errata. 

Per  quanto  riguarda  le  comunicazioni  della  giugulare  esterna  coi  vasi  endocra- 
niani  nell'uomo,  Rathke  dice  (s.  7): 

"  Wahrseheinlieh  koinint  aneli  beim  Menschen  anfangs  hinter  dem  Kiefergelenke  ein  Foramen 
;!   spurium  •■:••-.  v  t  chwindet  aber,  wenn  sich  jener  Zweig  dei-  Jugularis  interna  tìberwiegend 
entwickelt  „. 

Dalla  descrizione  pure  minuta  di  Rathke  non  risulta  tuttavia,  come  già  osser- 
varono altri  AA.  (Luschka,  Legge,  Lowenstein),  che  egli  abbia  realmente  intravve- 
duto  nell'Uomo  adulto  le  traccie  della  comunicazione  primitiva  tra  i  seni  della  dura 
madre  e  le  radici  della  vena  giugulare  esterna. 

Un  breve  cenno  intorno  alla  occorrenza  del  seno  decorrente  fra  la  porzione  squa- 
mosa e  la  petrosa  del  temporale  è  dato  da  C.  Krause  (36),  il  quale  lo  denomina  sinus 
sqmmoso-petrosus  e  lo  considera  come  sopranumerario  descrivendone  lo  sbocco  nel 
seno  trasverso. 

Contemporaneamente  Arnold  (1)  raffigura  un  osso  temporale  sinistro  con  par- 
ziale divisione  delle  sue  tre  parti  ed  in  cui  è  visibile  fra  la  radice  orizzontale  de! 
processo  zigomatico  ed  il  cono  articolare,  una  piccolissima  apertura,  la  quale  non  può 
essere  che  lo  sbocco  esocranico  di  un  emissario  squamoso,  senza  però  che  l'A.  ne 
faccia  menzione  alcuna  nella  descrizione. 

Stannius  (63)  non  aggiunge  nulla  alle  idee  antecedentemente  emesse  da  Otto  e 
Rathke,  accettando  lo  schema  della  distribuzione  rispettivamente  differente  nelle  varie 
classi  di  Mammiferi  delle  due  vene  giugulari,  quale  era  stato  dimostrato  da  detti  AA.; 
cosi  pure  Wagner  (73),  descrivendo  il  canale  temporale  nei  Ruminanti,  non  accenna 
ad  altre  particolarità  degne  di  nota. 

Per  trovare  un  accenno  alla  occorrenza  di  un  canale  emissario  squamosopetroso 
nell'Uomo  adulto  è  necessario,  dopo  Loder,  giungere  sino  ad  Hyrtl  (30),  il  quale  nelle 
prime  edizioni  del  suo  trattato  cosi  si  esprime: 

"  hi  der  Wurzel  des  Jochfortsatzea  kommt  eine  anomales  Foramen  vor,  welches  an  einem  Kopfe 
unserer  Sammlung  fast  3"'  Durchmesser  hat.  Ea  fiihrt  in  die  Diploe  des  Schlafenknochens,  und  com- 


9  (ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETEOSQUAMOS]  167 

municirt  durch  eineni  schragaufsteigenden  Kanal  niit  deni  Suleus  meningeus  der  Schuppe.  \\  ahr- 
acheinlich  làsst  es  eine  Vena  diploetica,  welche  zugleich  Eniissarium  ist,  austreten.  Bei  vielen  Sauge- 
thieren  existirt  es  als  Norm,  und  wird  von  den  Zootemen  als  Meatus  temporali s  bezeiehnet  „. 

Hyrtx  quindi  avrebbe  ben  conosciuto  il  significato  morfologico  di  tale  canale, 
per  quanto  nelle  successive  edizioni,  pur  riportando  la  osservazione  precedente  e  gli 
studi  di  Luschka  (1859-1862),  anteriori  ad  esse,  non  faccia  cenno  alcuno  delle  iden- 
tità dei  casi  di  Luschka  e  del  suo,  trattandone  anzi  separatamente. 

Schultz  (58)  descrive  chiaramente  le  impronte  lasciate  sul  cranio  nel  punto  di 
riunione  primitiva  dell'  os  petrosum  coli'  os  squamosum  (sutura  petrosquamosa)  ed 
afferma  che  quivi  nella  maggioranza  dei  casi  vi  ha  un  canale,  il  quale,  secondo  le 
sue  osservazioni,  unisce  costantemente  il  seno  petroso  anteriore  col  seno  trasverso 
ed  attraversa  quindi  la  base  dell'osso  petroso  ("  zu  dem  Behuf  die  Basis  des  Fel- 
"  senbeins  durchbohrt  „),  giacendo  in  altre  parole  nella  sutura  embrionale  fra  le  due 
parti  del  temporale  qui  convenienti;  non  pare  dall'accenno  di  questo  A.  che  egli 
abbia  realmente  visto  un  emissario  petrosquamoso,  in  quanto  egli,  ricordando  il  caso 
di  Loder,  dice  che  questi  fa  terminare  il  canale  alla  faccia  esterna  del  temporale  :  è 
invece  chiaro  che  egli  ha  veduto  quanto  più  tardi  venne  descritto  da  Verga  (72)  col 
nome  di  acquedotto  di  comunicazione. 

Il  Verga  insiste  primieramente  sulla  grande  frequenza  ed  evidenza  delle  traccie 
che  il  seno  petroso  anteriore  lascia  sulla  superficie  interna  del  cranio,  ricordando  che 
il  solco  corrispondente  in  alcuni  Mammiferi,  come  nel  Cane  e  nella  Volpe,  si  trova 
sempre  e  molto  scolpito. 

"  In  qualche  caso  lo  spigolo  anteriore  della  piramide  ove  s'incontra  colla  squama  forma  qua  e 
là  dei  promontori  e  come  dei  ponti,  sotto  i  quali  ha  più  libero  e  più  sicuro  corso  il  sangue  di  quel 
seno.  Nelle  sue  vicinanze  poi  non  è  raro  di  trovare  qualche  forellino  che  attraversando  l'osso  tem- 
porale termina  al  davanti  del  meato  uditorio  esterno;  esso  è  evidentemente  destinato  a  mettere  in 
relazione  il  nostro  seno  colle  vene  esterne,  e  merita  d'essere  annoverato  fra  gli  emissari  del  San- 
torini.  Nel  Cane  e  nella  Volpe  un  tale  emissario  è  straordinariamente  sviluppato,  e  mette  nella  vena 
temporale  „. 

Manifestamente  Verga  allude  ai  canali  che  noi  stiamo  studiando  ed  il  cenno, 
che  egli  ne  dà,  è  di  per  sé  interessante  in  quanto  è  il  primo  A.  che  ricordi  la  occor- 
renza relativamente  frequente  dei  detti  canali  nel  cranio  umano  adulto.  Il  seno  pe- 
troso anteriore  (anche  s.  squamoso),  secondo  Verga,  comunica  frequentemente,  per 
non  dire  sempre,  con  la  porzione  anteriore  discendente  del  seno  laterale  mediante 
un  canaletto  di  comunicazione  od  acquedotto  temporale,  che  attraversa  lo  spigolo  supe- 
riore della  piramide  alla  sua  base.  Tale  acquedotto  decorre 

"  leggermente  inclinato  dall'indietro  all'avanti,  dall'esterno  all'interno,  sicché  la  sua  apertura  ante- 
riore riesce  un  po'  inferiore  ed  interna  rispettivamente  alla  posteriore,  la  quale  anzi  talvolta  fu  da 
me  trovata  incominciare  al  di  sopra  dello  stesso  spigolo,  sicché  concorreva  a  formarla  col  suo  an- 
golo posteriore-inferiore  l'osso  parietale  corrispondente  „. 

Le  due  aperture  del  canale  avrebbero  per  lo  più  l'aspetto  di  una  fenditura  :  la 
posteriore  più  grande  è  per  lo  più  ricoperta  dallo  spigolo  superiore  della  rocca,  che 
suole  essere  piegata  all'indietro  ;  l'ampiezza  del  canale  è  per  lo  più  minima  sì  da  dar 
passaggio  appena  ad  una  setola,  raramente  è  tale  da  permettere  il  passaggio  ad 
uno  stecco;  per  esso  si  stabilirebbe,  secondo  Verga,  una  via  di  comunicazione  impor- 
tante per  la  circolazione  venosa  della  fossa  cranica  posteriore  e  quella  della  fossa 
media  [per  il  canale  di  Verga,  vedi  anche  Strambio  (64)]. 


168  ALFONSO    BOVEEO    —    UMBERTO    CALAMIDA  10 

Anche  Henle  nella  la  edizione  del  suo  trattato  (2C)  ricorda,  come  Hvktl  e  gli  AA. 
sopracitati,  un  canale  attraversante  la  squama  e  corrispondente  a  quelli  che  stiamo 
studiando;  dopo  aver  accennato  alla  possibilità  che  un  ramo  dell'arteria  meningea  media 
perfori  la  squama  e  raggiunga  la  fossa  temporale  [Gruber  (22)]  dice: 

"  Dicht  uber  dera  hinteren  Rande  dei-  Wurzel  des  Jochbogens  liegt  in  einera  Schlàf'enbeiu  des 
hiesigen  Sammlung  die  Oeffiiung  (1  nini.  Durchm.)  einea  Canals,  weleher  schrag  vorwarta  durch  die 
Schuppe  in  die  Schadelhohle  f'iihrt  „. 

Henle  non  ricorda  però  alcun  rapporto  con  quanto  è  normale  negli  animali,  ne 
parla  degli  organi  che  per  avventura  fossero  stati  compresi  in  tali  canali  ;  nelle  edi- 
zioni successive  invece,  dopo  gli  studi  di  Luschka,  ne  tratta  più  diffusamente,  rimet- 
tendosi appunto  a  tutto  quanto  risultò  dalle  osservazioni  di  questo  A. 

A  Luschka  difatti  dobbiamo  primieramente  (45  a,  b)  uno  studio  accurato  e  dif- 
fuso, condotto  con  criteri  comparativi  degli  emissari  che  ci  occupano  :  fondandosi  essen- 
zialmente sulle  asserzioni  di  Otto  e  di  Rathke  relative  alla  evoluzione  onto-  e  filogene- 
tica del  sistema  delle  vene  giugulari,  Luschka  è  venuto  per  induzione  nel  concetto 
che  anche  nell'Uomo  fosse  possibile  constatare,  almeno  come  anomalia,  delle  traccie 
della  via  che  sarebbe  stata  tenuta  dal  sangue  endocraniano  per  sboccare  all'esterno 
nel  periodo  della  ontogenesi  in  cui,  secondo  gli  studi  di  Rathke,  la  via  principale  di 
deflusso  del  sangue  endocraniano  non  sarebbe  rappresentata  ancora  dalla  v.  giugulare 
interna,  ma  bensì  dalla  giugulare  esterna,  allo  stesso  modo  che  in  molti  Mammiferi. 
Egli  ha  difatti  trovato  il  residuo  della  via  di  unione,  che  egli  crede  primitiva,  della 
giugulare  esterna  col  seno  trasverso  abbastanza  spesso  anche  nell'Uomo  adulto,  sotto 
forma  di  un  canale  aprentesi  all'esterno  nella  maggioranza  dei  casi  precisamente  allo 
stesso  punto  in  cui  venne  riscontrato  in  molti  Mammiferi  e  cioè  fra  l'articolazione  (iella 
mandibola  ed  il  condotto  uditivo  esterno,  immediatamente  all'indietro  del processus  arti- 
cularis  posteriori  l'apertura  esterna  di  tale  canale  denomina  Luschka,  come  già  Rathke, 
forameli  jugulare  spurkim;  il  canale  (meatus  temporalis),  lungo  5-8  imi,  attraversa  il 
temporale  obliquamente  in  avanti  ed  in  dentro  per  riuscire  all'endocranio  verso  l'estre- 
mità anteriore  del  sulcus  petrosus  squamosus;  le  due  aperture  hanno  dimensioni  diffe- 
renti a  seconda  dei  casi,  sì  da  permettere  l'introduzione  di  sottili  sonde,  o  pure  da  non 
essere  permeabili  che  alle  più  fini  setole;  il  canale  può  presentarsi  curvo  nel  suo  decorso, 
ovvero  presentare  dei  restringimenti;  talvolta  il  canale  ed  il  forame  giugulare  spurio 
erano  identici  nel  comportamento  e  dimensioni  dai  due  lati,  talora  invece  non  erano 
constatabili  che  da  un  lato  solo  e  specialmente  a  destra.  Luschka  non  ammette  che 
il  forame  giugulare  spurio  sia  più  frequente,  o  più  ampio,  nei  bambini  che  nell'adulto. 
Oltre  l'accennata  ubicazione  del  forame  giugulare  spurio ,  Luschka  ne  osservò  pure 
l'apertura  immediatamente  sopra  la  radice  del  processo  zigomatico,  o  in  direzione 
verticale  in  alto  dal  processus  articularis  posterior  od  un  po'  in  avanti  od  in  addietro  di 
questa  linea.  Egli  descrive  succintamente  la  posizione  ed  i  caratteri  principali  del 
forame  e  del  corrispondente  canale  nella  Marmotta,  nella  Talpa,  nei  Ruminanti,  nel 
Cane  e  nel  Gatto;  per  le  Scimmie  avverte  che  il  foramen  jugulare  spurium  è  in  alcune 
ben  manifesto  [Macacus  cynomólgus),  in  altre  (linai*  ecaudatus)  manca  completamente. 

Relativamente  alle  traccie  lasciate  dalla  presunta  pi'imitiva  via  di  deflusso  del  sangue 
all'endocranio  e  cioè  del  prolungamento  anteriore  del  sinus  transversus,  dal  quale  il 
sangue  nelle  prime  fasi  di  sviluppo  dell'Uomo,  permanentemente  in  quasi  tutti  i  Mam- 


11  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  169 

miferi,  passerebbe  nella  v.  giugulare  esterna,  Luschka  afferma  che  il  solco,  sulcus  trans- 
versus  spurius,  indicante  il  decorso  originario  del  seno  omonimo,  decorre,  quando  esiste, 
lungo  la  sutura  petrosquamosa  ;  la  sua  occorrenza  però  non  apparterrebbe  alle  eve- 
nienze abituali,  ma  piuttosto  alle  eccezioni,  per  quanto  non  sia  rara  ;  tale  solco  può 
essere  qua  e  là  ricoperto  da  osso  e  può  anche  attraversare  lo  spigolo  superiore  della 
piramide  per  gettarsi  nel  seno  trasverso,  nel  punto  in  cui  questo  si  continua  come 
fossa  sigmoidea;  generalmente,  quando  coesiste  un  forame»  jugulare  spurium  rappre- 
sentante lo  sbocco  esocranico  del  solco  omonimo,  questo  termina  di  regola  all'aper- 
tura endocraniana  del  canale  attraversante  il  temporale;  può  però  eventualmente 
continuarsi  ancora  in  avanti  sino  al  foro  spinoso  ;  l'esistenza  del  sulcus  transversus 
spurius  non  è  però  strettamente  collegata  coll'esistenza  di  un  forami n  jugulare  spurium, 
che  anzi  il  solco  può  essere  ben  sviluppato  anche  senza  di  questo  ;  con  ciò  non  si  può 
tuttavia  dubitare  menomamente  che  le  varie  formazioni  {foramen  jugulare  spurium, 
meatus  temporalis,  sulcus  transversus  spurius)  non  abbiano  il  medesimo  significato  gene- 
tico, la  qual  cosa  risulta  essenzialmente  dall'esame  comparativo  delle  disposizioni  che 
si  riscontrano  nel  Macaco,  nel  Vitello,  nel  Cane,  ecc.  Luschka  non  dà  nella  sua  ottima 
trattazione  alcun  dato  numerico  sulla  occorrenza  delle  varie  formazioni,  ne  dice  al- 
cunché sulla  quantità  dei  crani  umani  esaminati  :  del  resto  le  referenze  comparative, 
per  quanto  esattissime  e  corroborate  per  lo  più  dall'iniezione  dei  vasi,  sono  anche 
relativamente  scarse. 

Abbiamo  di  già  veduto  come  Hyrtl  ed  Henle  dopo  le  pubblicazioni  di  Luschka, 
accolgano  le  spiegazioni  di  questo  A.  per  il  significato  dei  fori  anomali  da  loro  osser- 
vati in  singoli  casi;  similmente  ricorderemo  come  anche  Kolliker  (33),  trattando 
dello  sviluppo  del  sistema  giugulare,  accenni  alla  causale  della  persistenza  del  forame 
giugulare  spurio  nel  cranio  umano  adulto,  riferendosi  appunto  a  Rathke  e  Luschka. 
Zuckerkandl  (75)  sopra  280  crani  avrebbe  trovato  il  foro  giugulare  spurio  solo 
3  volte  con  ampiezza  diversa,  mentre  riscontrò  22  volte  ben  evidente  il  solco  per  il 
seno  petrosquamoso. 

Kiesselbach  (31),  dopo  aver  accennato  alla  eventuale  presenza  del  foramen  jugu- 
lare spurium  dietro  il  processus  articularis  posterior ,  oppure  in  corrispondenza  della 
radice  posteriore  del  processo  zigomatico,  sempre  però  come  apertura  di  un  seno  petro- 
squamoso, afferma  che  nel  temporale  destro  di  un  bambino  di  un  anno  e  mezzo,  all'estre- 
mità anteriore  del  solco  petrosquamoso  esisteva  un'apertura  dalla  quale  originavano 
due  canali:  di  questi  uno  inferiorposteriore,  a  decorso  rettilineo,  aveva  il  suo  sbocco 
sopra  l'estremità  anteriorsuperiore  della  porzione  timpanica,  dietro  il  processo  arti- 
colare posteriore,  mentre  il  superiore  raggiungeva  la  superficie  della  squama  nel- 
l'angolo da  questa  formato  colla  faccia  superiore  dell'arco  zigomatico  :  in  detto  caso 
di  doppio  forame  giugulare  spurio  mancava  la  continuazione  del  solco  petrosquamoso 
col  solco  sigmoideo. 

Il  Cope  (9)  estese  ancora  di  molto  la  conoscenza  dei  forami  perforanti  la  squama 
temporale  e  formanti  lo  sbocco  di  un  canale  connesso  con  il  seno  venoso  laterale 
in  tutta  la  serie  dei  Mammiferi.  La  posizione  dei  diversi  canali  avrebbe,  secondo  il 
Cope,  una  discreta  importanza  nella  diagnosi  differenziale  delle  varie  specie  :  di  questi 
forami  egli  distingue  sei  specie  e  cioè  :  un  foramen  postglenoideum  guardante  in  basso, 
da  cui  origina  un  canale  che  sarebbe  il  principale,  diretto   in  alto  ed  in  dietro  fra 

Serie  II.  Tom.  LUI.  y 


170  ALFONSO    BOVERO    UMBERTO    CALAMIDA  1  2 

il  petroso  e  lo  squamoso,  sboccante  nella  cavità  craniana  al  margine  superiore  del 
petroso:  tale  canale  può  riuscire  di  nuovo  all'esterno  in  un  punto  dell'osso  parietale, 
spesso  in  corrispondenza  o  molto  prossimo  alla  sutura  squamosoparietale,  mediante 
un  forame  volto  direttamente  all'esterno,  che  Cope  chiama  postparietale:  una  branca 
del  canale  può  avere  una  direzione  posteriore  ed  uscire  all'esterno  nella  sutura  fra 
il  petroso  e  l'occipitale  con  un  forame  aperto  posteriormente,  foramen  mastoideum  : 
oppure  una  branca  posteriore  può  uscire  nella  parte  posteriore  dello  squamoso  in 
un  forame  laterale,  f.  postsquamosum.  In  alcuni  Mammiferi  il  canale  principale,  dopo 
breve  decorso  a  se.  può  arrivare  subito  al  di  sopra  della  base  del  processo  zigomatico 
con  un  foramen  supraglenoideum  aperto  in  alto:  finalmente  l'apertura  del  canale  può 
essere  situata  subito  sotto  alla  radice  orizzontale  del  processo  zigomatico  in  una 
posizione  posteriore  ed  esterna  al  foramen  postglenoideum,  costituendo  un  /'.  subsqua- 
mosum  rivolto  in  basso. 

Inoltre  Cope  ricorda  le  perforazioni  della  squama  temporale  degli  Sdentati 
per  mezzo  di  un  ramo  dell'a.  diploetica  (Hyrtl,  nella  Tamandua  tetradaetyla)  ;  un 
altro  foro,  /'.  postzygomaticum,  dei  Marsupiali  e  Monotremi,  che  perfora  la  base  poste- 
riore della  porzione  zigomatica  dello  squamoso  ed  è  diretto  in  avanti;  ed  un  f.  supra- 
tympanicum,  il  quale  penetra  fra  il  meato  auditivo  e  comunica  colla  cavità  del  tim- 
pano. Indipendentemente  da  questi  ultimi  il  cui  significato  è  anche  molto  diverso, 
Cope  fa  notare  come  le  varie  aperture  possano  essere  associate  o  non  nelle  varie 
specie  dei  singoli  ordini  e  come  la  loro  presenza  colle  diverse  modalità  o  la  loro  man- 
canza siano  caratteri  abbastanza  costanti  sì  da  poter  essere  usati  per  una  definizione 
sistematica.  Egli  segue  l'evoluzione  dei  detti  forami  in  tutta  la  serie  dei  Mammiferi, 
concludendo  che  la  condizione  primitiva  dei  vari  ordini  appare  essere  stata  la  presenza 
di  un  numero  limitato  di  forami:  nei  Roditori  predominano  quelli  della  parte  infe- 
riore dello  squamoso:  i  Carnivori  ed  i  Quadrumani  cominciano  con  pochi  forami,  che 
si  obliterano  nelle  forme  più  evolute.  Nei  Perissodattili  i  forami  sono  pochi  nelle 
forme  infime  e  nei  Rinoceridi,  più  numerosi  nella  serie  dei  Cavalli.  Finalmente,  fra 
gli  Omnivori,  negli  Artiodattili  si  nota  un'obliterazione  progressiva  dei  detti  forami  : 
l'aumento  invece  si  verifica  nel  Cavallo  e  più  specialmente  nella  Pecora,  cioè  negli 
erbivori  specializzati  di  questo  gruppo. 

Noi  ritorneremo  più  tardi  sui  dati  di  Cope  esponendo  i  risultati  delle  nostre 
osservazioni:  certamente  il  lavoro  di  questo  A.  per  quanto  ridotto  ad  una  semplice 
enumerazione  delle  particolarità  delle  singole  specie  e  per  quanto  sia  poco  curata 
l'importanza  ed  il  significato  dei  detti  forami  e  le  osservazioni  antecedenti,  è  il 
più  esteso    di   tutti    per   la  comparazione  morfologica. 

Notiamo  qui  di  passaggio  che,  già  prima  di  Cope,  anche  Flower  (15)  aveva 
accennato  alla  presenza  od  alla  mancanza  dei  forami  suddetti  nelle  varie  specie  di 
Mammiferi:  Flower  diffatti  (noi  abbiamo  potuto  consultare  solo  la  3"  ediz.  del  suo 
libro)  menziona  un  forame  postglenoideo  destinato  al  passaggio  di  una  vena,  che 
shocca  nel  seno  laterale,  nel  Cane,  nell'Orso,  nei  Chirotteri,  negli  Artiodattili  :  tale 
canale  non  esisterebbe  come  forame  dichiarato  nell'Uomo  e,  fra  i  Carnivori,  nei  Felidi. 

Knott  (32),  accennando  all'esistenza 'del  seno  petrosquamoso,  ricorda  come  per 
sboccare  nel  seno  laterale  contorni  l'estremità  posteriore  del  margine  posteriore  della 
rocca,  oppure  passi  attraverso  un  canale  scavato   nell'osso.  In  alcuni  casi  tale  seno 


13  W.I    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  171 

comunicherebbe  con  un  piccolo  seno  accessorio  posto  in  un  canale  dell'osso  comin- 
ciante  alla  parte  più  declive  del  seno  trasverso  per  portarsi  al  foro  mastoideo: 
questa  disposizione  riproducente  il  canale  temporale  dei  Mammiferi  sarebbe  stata 
riscontrata  da  Knott  due  volte.  Anteriormente  il  seno  petrosquamoso  attraverse- 
rebbe la  porzione  squamosa  alquanto  al  disotto  della  radice  zigomatica,  talvolta  al 
di  sopra  della  stessa  pur  imboccare  le  vene  temporali  profonde,  riproducendo  così 
una  condizione  che  sarebbe  normale  nella  vita  embrionaria.  Knott  avrebbe  trovato 
il  seno  petrosquamoso  sopra  44  soggetti  esaminati,  7  volte  dai  due  lati,  19  volte 
da  uno  solo  (11  a  sinistra  e  8  a  destra):  egli  non  dice  però  se  in  tutti  questi  casi 
il  seno  sboccasse  sempre  all'esterno  con  un  foramen  iugulare  spurium. 

Ai  dati  di  Knott  si  accosta  pure  il  Labbé  (37)  per  quanto  riflette  il  seno  petro- 
squamoso ed  il  suo  sbocco  all'esterno  col  foramen  jugulare  spurium  (trou  temperai): 
dall'esame  speculativo  delle  varietà  relative  dei  seni  da  lui  o  da  altri  (Malacarne, 
Knott)  riscontrate  e  dal  modo  di  sviluppo  delle  due  giugulari,  Labbé  è  indotto  ad 
ammettei'e  come  molto  probabile  che  primitivamente  il  seno  laterale  sbocchi  all'e- 
sterno non  solo  per  il  foro  giugulare  spurio,  ma  anche  per  il  foro  mastoideo  per 
mezzo  della  vena  omonima,  in  guisa  che  il  foro  temporale  rimpiazzerebbe  in  taluni 
casi  il  foro  mastoideo:  il  residuo  della  branca  mastoidea  sarebbe,  secondo  Labbé, 
rappresentato  dalla  vena  auricolare  posteriore  da  una  parte  tributaria  della  v.  giu- 
gulare esterna,  dall'altra  connessa  con  la  v.  occipitale  :  l'A.  aggiunge  che  sarebbe 
perciò  interessante  di  ricercare  se  nei  casi  in  cui  manca  il  foro  mastoideo  non  esista 
forse  un  foro  temporale  molto  sviluppato. 

Sperino  (62),  che  si  riferisce  esclusivamente  ai  dati  di  Knott,  avrebbe  trovato 
abbastanza  spesso  la  presenza  del  canale  per  il  seno  petrosquamoso  in  512  crani: 
afferma  però  di  non  aver  tenuto  calcolo  del  grado  di  frequenza. 

Hedon  (25)  pare  ammetta  l'esistenza  eventuale  del  seno  petrosquamoso  quale 
fu  descritto  da  Krause  e  Lusciika  come  un  residuo  della  via  originaria  per  cui  il 
sangue  tenderebbe  ad  uscire  dal  cranio  attraverso  il  foro  temporale,  avvertendo  però 
in  nota  che  secondo  il  Bouchard  l'esistenza  di  questo  seno  deve  essere  riattaccata 
allo  sviluppo  dell'anello  timpanico  e  della  cartilagine  di  Meckel. 

Per  il  Trolard  (70)  il  seno  petrosquamoso  degli  AA.  precedenti  non  sarebbe 
altro  che  la  branca  posteriore  delle  vene  meningee  medie;  pare  quindi  che,  secondo 
quest'A.,  si  dovrebbe  negare  ogni  significato  morfologico  al  detto  seno,  i  cui  rapporti 
di  continuità  col  foro  sfenospinoso,  punto  di  emergenza  della  v.  meningea  media, 
sono  tutt'altro  che  costanti,  come  abbiamo  già  detto,  mentre  sono  assai  più  frequenti 
invece  con  un  eventuale  forame  emissario  temporale. 

Legge  (42)  nel  cranio  di  un  individuo  adulto  con  molteplici  anomalie  riscontrò 
d'ambedue  i  lati  un  foramen  jugulare  spurium  aprentesi  al  di  sopra  ed  in  avanti  al 
forame  uditivo  esterno,  in  corrispondenza  della  radice  superiore  esterna  dell'apofisi 
zigomatica,  superiormente  all'articolazione  mandibolare.  A  destra  il  foro,  ampio  5  mm, 
si  approfonda  per  2  cui.,  raggiunge  la  fossa  sfenoidale  ove  sbocca  in  corrispondenza 
della  porzione  anteriore  di  un  solco  diretto  indietro  e  lateralmente,  destinato  ad  ac- 
cogliere il  seno  petrosquamoso:  tale  solco  a  livello  dello  spigolo  superiore  della 
rocca  è  ricoperto  da  un  piccolo  ponte  osseo  (acquedotto  di  Verga)  e  sbocca  come 
di  consueto  nel  solco  del  seno  trasverso,  il  quale  più  in   basso   accoglie   l'emissario 


172  ALFONSO  BOVERO  —  UMBERTO  CALAMIDA  14 

rnastoideo.  A  sinistra  l'apertura  esocranica  è  ampia  solo  1  inni,  raggiunge  un  solco 
petrosquamoso  come  a  destra,  però  assai  meno  pronunciato  e  comunicante  con  il 
seno  trasverso  a  mezzo  di  un  canale  ricurvo  scavato  nella  porzione  squamosa  del 
temporale  e  che,  secondo  Legge,  rappresenterebbe  un  vero  canalis  tempomlis,  quale 
si  riscontra  in  molti  Mammiferi  e  quale  esisterebbe  pure  negli  Uccelli  (Gallinacei); 
Lecci:  afferma  inoltre  che  canalis  temporalis  dei  Mammiferi  ed  acquedotto  di  Verga 
dell'Uomo  sono  omologhi  e  che  questo  non  è  che  un  rudimento  di  quello. 

Il  Calori  si  occupò  ripetutamente  (5, a,  b)  dei  forami  emissari  temporali.  Egli 
ricorda  (5,  è)  come  il  forame  giugulare  spurio  sia  l'emissario  del  seno  petrosquamoso  e 
come  non  si  apra  all'esterno  sempre  nel  medesimo  punto,  che  ora  è  all'estremità  esterna 
della  scissura  di  Glaser,  ora  subito  al  davanti  del  meato  uditivo  esterno,  ora  infine 
alla  metà  circa  della  radice  esterna  dell'apofìsi  zigomatica.  Accenna  inoltre  come  del 
pari  nella  cavità  glenoidea  e  nella  faccia  articolare  della  radice  trasversa  dell'a- 
pofìsi zigomatica  occorra  talvolta  un  qualche  forellino  vascolare;  l'apertura  endoera- 
niana  del  forame  giugulare  spurio  sarebbe  situata  nella  sutura  petrosquamosa  o  subito 
all'esterno  di  questa.  Detto  canale,  più  sviluppato  in  molti  Mammiferi,  sarebbe  più 
frequente  nei  crani  dei  giovani  che  in  quelli  di  adulti  e  dà  passaggio  ad  una 
venuzza  tributaria  della  giugulare  esterna  direttamente  od  indirettamente  per  mezzo 
della   vena  facciale  posteriore. 

In  altra  occasione  (.">,  u)  Calori  ha  trovato  che  nella  docciatura  del  seno  petro- 
squamoso del  temporale  di  un  fanciullo  di  8  anni  vi  ha: 

"  la  foce  di  una  vena  diploica  temporale,  dalla  quale  foce  comincia  come  una  lacuna  che  corre 
obliquamente  in  basso  ed  in  avanti  per  il  tratto  di  12  millim.,  al  termine  della  quale  ha  un  forame 
emissario  rotondo  avente  due  millim.  di  diametro,  il  quale  forame  è  comune  a  quelli  di  due  canali 
che  discendono  divergendo,  ed  uno  è  posteriore  più  stretto  avente  il  suo  sbocco  al  di  sopra  della 
radice  esterna  dell'apofìsi  zigomatica  corrispondentemente  al  diametro  trasverso  alla  parte  media 
della  cavità  glenoide,  e  tale  sbocco  è  per  un  forame  largo  1  millimetro;  l'altro  anteriore  più  largo 
che  ha  il  suo  sbocco  distante  dal  precedente  1  centimetro  al  di  sopra  della  radici/  trasver 
interna  dell'apofìsi  medesima  per  un  forame  rotondo  avente  2  millim.  di  diametro  ,. 

In  tal  cranio  cioè  esistevano  due  forami  giugulari  spuri,  aprentisi  entrambi  al  di 
sopra  dell'apofìsi  zigomatica.  Calori  aggiunge  che  anche  nell'adulto  si  può  trovare 
tale  canale  od  avvisarsene  le  traccie;  in  50  crani  aperti  esso  gli  sarebbe  occorso 
2  volte  dai  due  lati,  una  volta  solamente  a  destra. 

Poirier  (52),  dopo  aver  ricordato  (pag.  417)  come  particolarità  normale  della 
faccia  endocraniana  della  squama  temporale  l'esistenza  della  docciatura  per  il  seno 
petrosquamoso,  aggiunge  ancora,  descrivendo  la  faccia  superiore  concava  dell'apo- 
fìsi zigomatica  (pag.  418),  che: 

"  on  trouve  très  souvent  sur  rette  face  des  trous  veineux,  qui  me  paraissent  représenter  les 
vestiges  du  sinus  pétro-squameux,  dont  le  trajet  est  visible  sur  la  face  endocranienne  do  l'écaille, 
le  long  de  la  suture  tynipano-squanieuse  „. 

In  nota  (pag.  430)  osserva  poi  come  la  docciatura  petrosquamosa  talvolta  prenda 
origine  in  addietro  non  direttamente  dalla  docciatura  per  il  seno  trasverso,  ma  bensi 
da  un  canale  che  o  si  apre  nello  spessore  dell'osso  o  sbocca  ugualmente  nel  seno 
trasverso:  l'estremità  anteriore  raggiungerebbe  sempre  il  foro  sfenospinoso ,  ma 
qualche  volta  sboccherebbe   ad    un   canale  che  si  perde  nello   spessore  dell'osso.  In 


15  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQUAMOSI  173 

un  caso  la  docciatura,  trasformata  in  canale  su  una  parte  del  suo  decorso,  si  apriva 
nella  scissura  di  Glaser  con  un  foro  ampio  2  min.  Due  volte  su  40  crani  Poirier 
avrebbe  visto  partire  dall'  estremità  anteriore  della  docciatura  petrosquamosa  un 
canale,  che  egli  chiama  canal  zygomatiaue,  il  quale,  dopo  un  tragitto  contorto,  si 
apriva  alla  faccia  superiore  della  base  dell'  apofisi  zigomatica  ;  esso  non  rappresen- 
terebbe altro  che  uno  dei  canali  numerosi  del  fondo  della  docciatura  ingrandito.  In 
un  cranio  il  canale  zigomatico  era  doppio  ed  una  delle  sue  branche  si  apriva  immedia- 
tamente al  di  sotto  del  tubercolo  zigomatico  anteriore:  in  un  altro  temporale,  impor- 
tante per  parecchie  anomalie,  Poirier  avrebbe  trovato  (pag.  431)  che  il  seno  petro- 
squamoso si  apriva  nella  cavità  glenoide  con  un  orificio  di  2  mm. 

11  Lowenstein  (44),  sotto  la  guida  di  L.  Stieda  ed  accettando  ancora  i  dati  di 
Kathke  e  Luschka  sulla  cronologia  dello  sviluppo  delle  vene  giugulari,  si  è  prefisso 
di  studiare  in  una  serie  numerosa  di  crani  adulti  l'occorrenza  delle  eventuali  traccie 
della  via  tenuta  dal  sangue  venoso  endocranico  nella  vita  embrionale  per  passare 
nella  giugulare  esterna;  in  663  crani  di  adulti  e  giovani,  dei  quali  118  erano  aperti, 
in  20  mezzi  crani  ed  in  109  temporali  isolati,  egli  ha  ricercati  il  canale  temporale 
colle  sue  aperture  endo-  ed  extracraniana,  il  solco  petrosquamoso,  l'acquedotto  di 
Verga  :  inoltre  ha  tenuto  calcolo  pure  del  comportamento  del  processus  articularis 
poslerior  e  cioè  della  rilevatezza,  che  stabilisce  eventualmente  il  limite  posteriore 
della  fossa  mandibularis:  tale  processo  fu  riscontrato  con  sviluppo  differente  nell'81  % 
dei  casi.  Per  quanto  riguarda  il  forame  giugulare  spurio  di  Luschka,  considerato  come 
apertura  esterna  del  canale  temporale,  sopra  663  crani  egli  l'avrebbe  riscontrato  in 
61  (9,65  °/0)  e  più  specialmente  in  13  bilateralmente  (1,96%)  ed  in  51  (7,69%)  da 
un  lato  solo  (25  volte  a  destra,  3,77  r'/0;  26  a  sinistra,  3,92  %).  Nei  rimanenti 
129  preparati,  dei  quali  55  appartenevano  alla  metà  destra  del  cranio  e  74  alla  metà 
sinistra,  incontrò  il  forame  giugulare  spurio  12  volte  e  cioè  nel  9,3  °/„  (Svolte  a 
destra,  8,48%;  7  Volte  a  sinistra,  10  %).  Relativamente  alla  posizione  del  forame 
stesso  all'  esocranio ,  Lowenstein  dice  che  nella  maggioranza  dei  casi  esso  si  apre 
dietro  il  processus  articularis  posteriori  talvolta  tuttavia  si  troverebbe  in  immediata 
vicinanza  alla  radice  anteriore  dell' apofisi  zigomatica;  il  foramen  jugulare  spurium 
può  aprirsi  nella  sua  posizione  normale  anche  quando  non  esiste  un  processus  artìcuhtri* 
posterior.  Nel  massimo  numero  dei  casi  l'apertura  misurerebbe  1  mm.;  Lowenstein 
ha  però  pure  calcolato  anche  forami  assai  più  piccoli. 

Relativamente  all'apertura  interna  egli  potè  studiarla  solo  nei  118  crani  segati: 
in  questi  l'apertura  esterna  esisteva  18  volte  (15,22  %)  e  più  esattamente  4  volte 
(3,39%)  dai  due  lati,  5  volte  (4,22%)  a  destra,  9  volte  a  sinistra  (7,62  %);  l'aper- 
tura interna  venne  riscontrata  con  chiarezza  solo  6  volte  (5,08  %)  e  cioè  3  volte 
da  entrambi  i  lati  (2,54  %),  3  volte  solo  a  sinistra  (2,54  °/0).  Negli  altri  129  pre- 
parati (55  destri,  74  sinistri)  trovò  l'apertura  interna  8  volte,  delle  quali  3  a  destra 
(6,38  %),  5  a  sinistra  (8,06  %).  Ordinariamente  1'  apertura  interna  è  meno  chiara- 
mente visibile  dell'esterna,  ha  però  la  medesima  ampiezza.  In  alcuni  casi  Lowenstein 
potè  trovare  permeabile  il  canale  ad  una  setola  o  ad  un  filo  metallico:  pei  casi  in 
cui  ciò  non  è  possibile,  ammette  o  un  subitaneo  restringimento  del  canale  o  un  de- 
corso a  gomito.  Lowenstein  non  riporta  cifre  per  la  percentuale  del  solco  per  il 
seno  petrosquamoso.  assevera  però   che   esso   è  raro    nel  cranio  adulto  :  invece    non 


171  ALFONSO    BOVEKO    —    UMBERTO    CALAMIDA 


L6 


gli  sarebbe  occorso  mai  di  osservare  il  canale  di  comunicazione  di  Verga.  Peri  dati 
anatomo-comparativi  Lowenstein  si  rimette  quasi  completamente  a  quanto  è  stato  detto 
dagli  A  A.  precedenti,  limitandosi  a  riferire  i  risultati  di  alcune  ricerche  sui  Primati. 
Fra  i  Primati  catarrini.  in  9  crani  di  Cercopithecus,  G  di  Oynocephalus,  3  di  Semno- 
pithecus  egli  avrebbe  riscontrata  la  mancanza  completa  di  foro  giugulare  spurio: 
invece  questo  era  presente  tra  l'estremità  mediale  del  processo  postglenoideo  forte- 
mente pronunciato  e  il  condotto  uditivo  esterno  in  11  crani  di  Inuus.  Fra  i  Primati 
platirrini  trovò  pure  più  o  meno  ampio  il  detto  forame  dietro  il  margine  mediale 
del  processo  articolare  posteriore  in  3  crani  di  Àteles,  5  di  Cebus,  3  di  Mycetes  e  4  di 
Rapale.  Del  resto  nei  Primati  il  modo  di  comportarsi  riguardo  al  foro  giugulare  spurio 
ed  al  canalis  (meatus)  temporalis  sarebbe  simile  all'umano  {menschenàhnlich). 

Le  ricerche  di  Lowenstein  furono  continuate  coi  medesimi  intendimenti  e  sotto 
la  stessa  guida  dal  Kopetsch  (34)  in  un  lavoro  la  cui  conoscenza  dobbiamo  alla  cor- 
tese premura  del  prof.  Stieda.  11  Kopetsch,  i  risultati  del  quale  noi  avremo  campo 
di  esaminare  con  maggior  diffusione  più  tardi,  servendosi  di  un  materiale  molto  ricco 
per  quantità  di  specie  e  per  numero  di  crani  delle  stesse,  conclude  che  posseggono 
un  forame  giugulare  spurio  molto  ampio  le  famiglie  Bovina,  Orina,  Antilopim  e  Devexa: 
un  foro  moderatamente  ampio  le  famiglie  Cebidae,  Canidae,  Ursidae,  Chiroptera,  Eri- 
nacei,  Moschidav,  Camelidae,  Equidae,  Nasicornia,  Tapyrina,  Phascohmydae,  e  Macro- 
podidae;  un  foro  giugulare  spurio  piccolo  i  Gynopithecini,  Arctopitheci,  Lemuridae, 
Viverridae,  Mustelidae,  Soricidea,  Talpina,  Myrmecophaga ,  Dasypus,  Didelphyidae  e 
Dasyuridae.  Ne  sarebbe  dubbia,  secondo  Kopetsch,  l'esistenza  nei  Rodenti// ,  man- 
cherebbe negli  Anthropomorpha,  Galeopithecidae,  Felida<\  Hyaenidae,  Phocina,  Lamnun- 
guia,  Proboscide//,  Obesa,  Suina,  Delphinidae,  Manis,  Orycteropus,  Bradypoda  e  Phalan- 
gistidae. 

I  risultati  di  Kopetsch  concorderebbero  quindi  in  generale  con  quelli  degli  A  A. 
precedenti:  sarebbero  reperti  nuovi  la  dimostrazione  dell'esistenza  di  un  foro  giu- 
gulare spurio  nei  Nasicornia,  Tapyrina,  Phascolomyidae,  Macropodidae  e  Dasyuridae. 
Allo  scopo  di  determinare  il  parallelismo  delle  a.  carotidi  esterna  ed  interna  rispet- 
tivamente colla  v.  giugulare  esterna  (vena  carotide  esterna)  e  colla  v.  giugulare  interna 
(v.  carotide  interna)  Launay  (39)  segue  ancora  una  volta  nella  filogenesi  l'evoluzione 
dei  due  sistemi  venosi:  relativamente  alla  questione  però  che  ci  occupa,  egli  osserva 
che  nei  Mammiferi  in  cui  la  v.  giugulare  unica  (v.  giugulare  esterna,  vena  carotide 
esterna)  serve  esclusivamente  #come  via  di  deflusso  del  sangue  intracraniano,  questo 
sangue  ne  esce  specialmente  per  un  foro  postglenoideo  posto  dietro  la  cavità  glenoide, 
davanti  il  condotto  uditivo,  e  per  un  foro  sopraglenoideo  posto  sopra  la  radice  dello 
zigoma:  i  canali  originanti  dai  due  fori  confluiscono  in  uno  solo,  canale  temporo- 
parietale,  col  quale  si  continua  direttamente  il  seno  trasverso,  in  corrispondenza  del 
margine  superiore  della  rocca,  là  ove  negli  animali  forniti  di  giugulare  interna  il 
detto  seno  si  continuerebbe  col  seno  sigmoide  :  da  questo  punto  parte  pure  il  canale 
che  andrebbe  a  sboccare  nel  foro  mastoideo:  questa  condizione  sarebbe  propria  del 
Montone  e  della  Capra.  Tali  fori  diminuiscono  di  numero  e  di  importanza  quando  la 
/iugulare  interna  compare  come  abbozzo  ed  è  insufficiente:  il  primo  a  scom- 
parire sarebbe  il  foro  sopraglenoideo,  rimanendo  invece  più  o  meno  ampio  il  post- 
glenoideo (Cane;  alcune  Scimmie).  Infine  anche  questo  scomparirebbe  quando  la  giù- 


17  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSE    E    PETROSQUAMOSI  175 

gulare  interna  riesce  sufficiente  e  preponderantemente  sviluppata  (Scimmie  superiori, 
Uomo).  Launay  trova  un  emissario  della  2a  categoria  nel  Coniglio,  nel  quale,  pur 
essendo  la  giugulare  interna  insufficientemente  sviluppata,  non  esisterebbero  fori 
post-  o  sopraglenoidei ,  ma  il  sangue  effluirebbe  essenzialmente  per  i  fori  venosi 
della  base  e  per  i  plessi  vertebrali.  Nell'evoluzione  dell'Uomo  si  troverebbero  le 
diverse    tappe    successive    simili  ai  diversi  stati  che  persistono  nella  serie  animale. 

Anche  Charpy  (6),  parlando  del  seno  petrosquamoso,  riporta  l'evoluzione  del 
sistema  della  giugulare  nella  serie  dei  Mammiferi  e  tratta  del  significato  degli  emis- 
sari squamosi.  Egli  insiste  inoltre  ancora,  come  già  Labbé  e  Launay,  sul  significato 
differente  dal  punto  di  vista  embriologico  ed  anatomo-comparativo  delle  due  porzioni 
costituenti  il  seno  laterale;  la  porzione  orizzontale  o  seno  trasverso  propriamente 
detto  sarebbe  comune  in  tutti  i  Mammiferi,  filogeneticamente  primitiva  e  destinata, 
nella  gran  parte  dei  Mammiferi  che  non  hanno  giugulare  interna,  a  continuarsi,  ven- 
tralmente, in  rapporto  del  margine  inferiore  della  rocca,  con  una  porzione  che  non 
pare  di  norma  nell'Uomo  o  per  lo  meno  diminuisce  sommamente  d'importanza,  la 
quale  corre  poi  fra  l'osso  petroso  e  lo  squamoso  e  si  apre  all'esterno  col  foro  tem- 
porale; la  porzione  inferiore  o  seno  sigmoideo  sarebbe  di  sviluppo  secondario,  com- 
parirebbe cioè  solo  quando  la  giugulare  interna  raggiunge  la  sua  massima  importanza 
come  scaricatoio  del  sangue  endocraniano  :  contemporaneamente  alla  sostituzione  di 
questa  porzione  a  quella  orizzontale  scomparirebbe  pure  il  foro  temporale. 

Cheatle  (8)  sopra  2585  crani  del  "  College  of  Surgeons  „  di  Londra  avrebbe 
trovato  in  23  dei  residui  rudimentali  dello  sbocco  all'esterno  del  seno  petrosqua- 
moso: l'apertura  esterna  risiedeva  nella  cavità  glenoide  3  volte,  3  nel  processo 
zigomatico,  6  nella  base  dello  zigoma,  11  precisamente  all'esterno  della  scissura  di 
Glaser  sopra  la  riunione  del  tubercolo  postglenoideo  con  l'osso  timpanico.  Il  residuo 
del  seno  petrosquamoso  in  una  o  nell'altra  forma  sarebbe  per  Cheatle  piuttosto 
la  regola  che  la  eccezione  in  tutte  le  età,  ma  più  specialmente  nell'infanzia  e  nella 
fanciullezza,  nei  quali  può  esistere  il  seno,  senza  che  ne  esistano  ben  marcate  le 
tracce  nell'osso.  Oltre  alle  corrispondenze  anatomo-comparative,  Cheatle  richiama 
ancora  l'attenzione  sull'importanza  anatomo-patologica  del  seno  venoso  stesso,  spe- 
cialmente perchè  in  esso  sboccano  costantemente  piccole  venuzze  provenienti  dalla 
cavità  timpanica  e  che,  come  egli  dimostra,  possono  rappresentare  la  via  di  diffu- 
sione di  un  processo  patologico  alle  meningi  coi  relativi  seni. 

Denker  (12, a),  inferendo  i  risultati  delle  sue  osservazioni  sull'osso  temporale  dei 
Mammiferi  eseguite,  come  già  da  Hyrtl  (30),  col  metodo  della  corrosione,  ricorda  pure 
come  in  molti  di  essi  dalla  fossa  cranica  superiore  decorra  in  avanti  ed  in  basso  sopra 
la  parte  mediale  del  condotto  uditivo  esterno  un  ampio  canale  vascolare  {meatus  o 
canalis  temporalis)  attraverso  cui  viene  esportata  dall'  endocranio  la  massa  princi- 
pale del  sangue  venoso.  Detto  canale  sarebbe  specialmente  sviluppato  nel  Vitello  e 
nell'Orso  bianco:  esso  mancava  invece,  fra  gli  animali  da  lui  studiati,  in  Pithecus 
gorilla,  Felis  pardus,  Sus  scropha,  Phocoena  phocoena  ed  Echydna  ìujstrix.  Denker 
ricorda  come  nei  Primati  e  nell'Uomo  possano  esistere  in  singoli  esemplari  rudimenti 
del  canale  in  forma  di  forame  giugulare  spurio  interno  od  esterno. 

Cabibbe  (4)  trattando  del  processo  postglenoideo  accenna  incidentalmente  al 
foro  omonimo,  raffigurandone   un  bell'esempio  in  un   cranio  ($,  anni  60,  imbecille), 


1  ,  6  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  1 8 

affermando  che  isso  si  riscontra  nell'Uomo  solo  raramente  e  che  ad  esso  è  da  attri- 
buirsi l'identico  significato  del  foro  giugulare  spurio  (Luschka,  Legge),  dell'acquedotto 
del  temporale  (Verga),  deìVemissarium  temporale  (Krause). 

Finalmente  aggiungeremo  per  completare  i  dati  statistici,  che  il  Ledouble,  il 
quale  nel  1897  aveva  presentato  alla  "  Société  d'Anthropologie  „  di  Parigi  uno  spe- 
cimen di  forame  giugulare  spurio  con  la  denominazione  di  canal  prétympanique  (41  a), 
dopo  la  presentazione  di  una  serie  di  preparati  e  fotografie  fatte  alla  riunione  di 
Montpellier  (1902)  della  "  Association  des  Anatomistes  „  a  nome  nostro  dal  Prof.  Fusari, 
ci  avvertiva  epistolarmente,  autorizzandoci  anche  alla  pubblicazione,  che  su  200  crani 
della  Turenna  di  ambo  i  sessi  egli  avrebbe  riscontrato  9  volte  un  foro  postglenoideo 
più  ampio  di  1  millim.  (6  volte  dai  due  lati,  2  solo  a  destra,  1  solo  a  sinistra): 
il  foro  postglenoideo  esisterebbe ,  secondo  Ledouble  ,  nella  maggioranza  dei  crani 
umani,  ma  non  sarebbe  permeabile  che  ad  una  fina  setola.  Il  foro  sopraglenoideo 
sarebbe  più  raro  e  più  piccolo:  una  volta  sola  egli  avrebbe  riscontrato  dallo  stesso 
lato  e  sul  medesimo  soggetto  un  foro  sopraglenoideo  ampio  2  millim.  ed  un  post- 
glenoideo di  3  millim. 

Dobbiamo  inoltre  ricordare,  a  complemento  di  ciò  che  abbiamo  di  già  riferito 
per  l'anatomia  veterinaria,  come  generalmente  gli  AA.  da  noi  consultati  descrivano 
il  canale  temporale  degli  animali  domestici  in  modo  affatto  analogo  a  Gurlt  ed  a 
Schwab:  noi  ci  limitiamo  a  ricordare  Patellani  (51),  Thomas  [Montone,  Capra  (69)], 
Strangeways  (65),  Frank  (17),  il  quale  avverte,  contrariamente  a  Gurlt,  che  nel 
Maiale  manca  un  "  eigentliche  Sehlàfengang  „,  Chauveau  et  Arloing  (7),  Sussdorf  (61), 
Ellenberger  e  Baum  perii  Cane  in  particolare  (13a)  e  per  gli  animali  domestici  in 
generale  (13,  b)  ed  infine  Krause  (36),  che  nel  Coniglio  accenna  ad  emissari  temporali 
attraversanti  il  margine  inferiore  del  processo  squamoso  del  temporale.  Infine,  oltre 
ai  trattati  già  menzionati  nel  corso  della  nostra  rivista,  fanno  in  qualche  modo  cenno 
delle  varie  formazioni  che  rientrano  nel  gruppo  degli  emissari  squamosi  e  petrosqua- 
mosi  (canale  giugulare  spurio,  canale  temporale,  seno  petrosquamoso)  riconoscendone 
il  significato  morfologico  ed  anatomo-comparativo,  però  affidandosi  unicamente  agli 
studi  speciali  sinora  da  noi  riassunti  (particolarmente  a  quelli  di  Luschka),  Milne- 
Edwards  (48),  Gegenbaur  (18),  Quain  (54),  Debierre  (11),  Langer-Toldt  (38),  Se- 
bilau  (60),  Morris  (49),  Mac-Ewen  (46),  Testut  (68),  Romiti  (56),  Spee  (611  ed  altri 
minori. 

Abbiamo  appositamente  lasciato  per  ultimo  l'esame  dei  risultati  importantissimi 
delle  ricerche  compiute  da  Salzer  (57),  sotto  la  guida  del  Prof.  Hochstetter,  sopra 
lo  sviluppo  dei  vasi  venosi  del  cranio  principalmente  della  Cavia,  roditore  fornito 
nella  età  adulta  di  un  forame  giugulare  spurio,  e  secondariamente  di  altri  Mammiferi 
(Coniglio,  Gatto,  Maiale,  Uomo),  in  quanto  detti  risultati,  tratti  da  ricerche  condotte 
su  sezioni  microscopiche  rigorosamente  seriali  di  embrioni  dei  vari  stati  e  sui  modelli 
di  ricostruzione  degli  stessi  embrioni,  rispetto  ai  reciproci  rapporti  cronologici  dello 
sviluppo  delle  due  vene  giugulari,  sono  completamente  discordanti  da  quelli  che 
emergerebbero  dalle  ricerche  di  Rathke  e  di  Luschka  e  che,  come  abbiamo  ve- 
duto, furono  accolti  senza  ulteriore  controllo  di  studio  embriologico  da  tutti  gli  AA., 
che  trattarono  ex  professo  od  incidentalmente  di  questo  argomento.  Secondo  le  ri- 
cerche di  Salzer  il  processo  di  sviluppo  delle  vene  del  capo  avviene  nei  vari  Mam- 


19  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  177 

miferi  in  un  modo  affatto  analogo.  In  tutti  la  primissima  via  di  deflusso  del  sangue 
venoso  della  porzione  cefalica  del  sistema  nervoso  centrale  giace  medialmente  agli 
abbozzi  dei  nervi  cranici.  In  un  secondo  stadio  il  vaso  mediale  ai  nervi  viene  sostituito 
da  un  altro  il  quale,  relativamente  a  questo,  assume  una  posizione  laterale:  Io  spo- 
stamento di  posizione  avviene  per  la  formazione  di  anelli  venosi,  dapprima  attorno 
airAcustico-Facciale,  quasi  nello  stesso  tempo  attorno  al  Vago;  quindi  segue  primie- 
ramente lo  spostamento  della  via  venosa  rispetto  airipoglosso  :  rispetto  al  Trigemino 
la  vena  rimane  mediale  per  un  tempo  relativamente  lungo.  Formatosi  lo  scheletro 
cartilagineo,  il  sangue  della  regione  anteriore  del  cervello  abbandona  la  cavità  cra- 
nica assieme  al  n.  faciali*,  mentre  quello  del  cervello  posteriore  e  del  retrocervello 
viene  accolto  da  una  vena,  la  quale  decorre  all'esterno  attraverso  il  foro  giugulare  al 
lato  laterale  del  Vago  :  quivi  si  riuniscono  i  due  vasi  nella  vena  giugulare  interna. 
Tosto  tuttavia,  dopo  la  formazione  di  una  anastomosi  dorsalmente  all'organo  dell'udito, 
si  oblitera  la  vena  decorrente  accanto  al  n.  facialis,  cosicché  la  vena  accollata  al 
Vago  e  corrispondente  alla  p.  jugularis  interna  rappresenta  l'unica  via  di  deflusso 
del  sangue  del  cranio.  In  prosieguo  di  sviluppo  occorrono  secondariamente  delle  riu- 
nioni anastomotiche  dei  vasi  intracranici  in  parte  colle  vene  facciali,  in  parte  colle 
vene  spinali,  e  la  via  attraverso  il  forame»  jugulare  scompare  o  completamente  op- 
pure solo  in  parte.  La  riunione  secondaria,  occorrente  nella  maggior  parte  dei  Mam- 
miferi, è  quella  che  passa  attraverso  il  f or  amen  jugulare  spurium;  vi  hanno  tuttavia 
anche  animali  (Gatto)  nei  quali  una  tale  riunione  non  giunge  a  formazione,  benché  la 
vena  giugulare  interna  sia  quasi  scomparsa  ;  in  questi  casi  entrano  in  gioco  le  riunioni 
secondarie  colle  vene  orbitali  e  colle  vene  del  retrocervello.  Con  ciò  la  vena  giugu- 
lare interna,  quale  prosecuzione  del  seno  trasverso  e  quale  compare  tipicamente  nel- 
l'Uomo e  nei  Primati,  rappresenta,  contrariamente  alle  asserzioni  di  Rathke,  Luschka, 
Koelliker,  un  comportamento  più  primitivo  di  quello  che  si  verifica  negli  animali, 
nei  quali  la  vena  giugulare  esterna,  che  giunge  a  sviluppo  completo  assai  dopo  l'in- 
terna, collo  sviluppo  cioè  del  cranio  facciale,  rappresenta  la  via  principale  di  de- 
flusso, se  non  l'unica,  dall'interno  del  cranio. 

Per  questi  risultati,  perentoriamente  confermati  ed  anche  per  certi  aspetti  com- 
pletati di  recente  da  Grosser  (21)  nei  Chirotteri  e  più  specialmente  nei  Microchi- 
rotteri,  da  Fischer  (13)  nella  Talpa  europaea,  e  che  si  prestano  come  abbiamo  veduto 
a  molte  considerazioni  generali  di  indole  morfologica,  oltreché  per  altre  ragioni  cor- 
relative da  noi  pure  precedentemente  esposte,  ci  è  parso  opportuno  riprendere  lo  studio 
anatomico  degli  emissari  squamosi  e  petrosquamosi  nell'Uomo  e  negli  altri  Mammi- 
feri partendo  appunto  dai  criteri  fissati  da  questi  ultimi  AA.  Anzitutto  è  da  avvertire 
la  concordanza  del  modo  con  cui  evolve  lo  sviluppo  del  sistema  venoso  della  porzione 
cefalica  del  corpo  dei  Mammiferi,  quale  appunto  è  dimostrato  da  Salzer  e  da  Grosser, 
con  le  modalità  di  formazione  e  con  le  modalità  di  successione  delle  diverse  dispo- 
sizioni delle  vene  anche  nella  porzione  cefalica  degli  altri  vertebrati  (Selaci:  Rarl, 
Raffaele,  Rex,  Hochstetter  —  Anfibi:  Field,  Houssay,  Hochstetter,  Gruby,  Rex, 
Goette,  Grosser  e  Brezina  —  Uccelli:  Kastschenko).  Secondariamente,  come  già 
avvertiva  Salzer  e  come,  con  criteri  però  non  esatti,  anche  altri  AA.  da  noi  ri- 
cordati, sono  da  considerarsi  quale  o  quali  siano  le  condizioni  (sviluppo  della  bulla 
timpanica,  portamento  della  testa,  sviluppo  diverso  della  muscolatura   dorsale  e  di 

Serie  II.  Tom.  LUI.  x 


178  ALFONSO    BOVEBO    —    UMBERTO    C'ALAMIDA  20 

quella  ventrale  della  colonna  vertebrale,  rapporti  di  questa  muscolatura  colle  vene?), 
che  permettono  nella  grande  maggioranza  dei  Mammiferi  inferiori  ai  Primati  la 
successione,  cronologicamente  secondaria,  di  uno  stadio  di  sviluppo,  che  invece  non 
si  verifica  se  non  come  anomalia,  o  per  lo  meno  in  forma  rudimentale,  nell'Uomo  e 
nei  Primati  superiori.  Ritenute  come  effettivamente  e  definitivamente  dimostrate  le 
modalità  di  sviluppo  del  sistema  venoso  del  capo,  quali  emergono  dagli  studi  di 
questi  ultimi  AA.,  rimarrà  a  vedere  quale  significato  si  debba  attribuire  alle  for- 
mazioni eventuali  che  nell'Uomo,  come  anche  negli  altri  Mammiferi  in  cui  esse  si 
manifestano  abnormemente,  rappresentano  la  via  o  le  vie  di  riunione  stabilitesi  in  un 
periodo  relativamente  tardivo  dello  sviluppo  ontogenetico  fra  la  giugulare  esterna 
e  le  vene  intracraniane  :  indubbiamente  i  criteri  adottati  dagli  AA.,  che  precedettero 
le  ricerche  di  Salzee,  vanno,  se  non  completamente  invertiti,  per  lo  meno  modificati 
di  molto,  e  per  conseguenza  anche  sotto  questo  aspetto  non  ci  pare  ingiustificai  a 
una  ricerca  intesa  a  questo  scopo. 

Come  causali  delle  nostre  ricerche  dobbiamo  aggiungere  che  ci  è  parso  non  tutti 
gli  AA.  abbiano  tenuto  sufficiente  calcolo,  per  quanto  riguarda  l'Uomo,  di  ogni 
modalità  e  dell'ubicazione  differente  con  le  quali  possono  comparire  traccio  del  pas- 
saggio attraverso  la  squama  del  temporale,  oppure  attraverso  le  suture  della  squama 
con  le  ossa  vicine,  di  rami  venosi  di  deflusso  del  sangue  craniano  affluenti  alla 
vena  giugulare  esterna;  o  per  lo  meno  ci  è  parso  che  non  a  tutte  le  dette  vie  si 
assegnasse  il  medesimo  significato  morfologico,  quale  invece  risulta  dalla  conoscenza 
del  modo  col  quale  avviene  realmente  lo  sviluppo  del  sistema  venoso  del  capo.  An- 
cora, talune  disposizioni  sono  siffattamente  rare,  da  rendere  desiderabile  una  dimo- 
strazione più  chiara  di  quanto  sia  stato  fatto  precedentemente.  Anche  dal  lato  an- 
tropologico dobbiamo  ricordare  come  in  Italia,  escluse  le  poche  osservazioni  di  Calori 
e  quella  isolata  di  Legge,  manchino  dei  dati  statistici  sufficientemente  ampi  sulla 
occorrenza  delle  dette  formazioni.  Finalmente,  per  quanto  gli  studi  di  Cupe  e  di 
Kopetsch  vertano  su  un  materiale  anatomo-comparativo  molto  ricco,  pure,  per  le 
stesse  ragioni  che  abbiamo  sopra  enunciate  relativamente  alla  nostra  specie,  allo 
scopo  di  togliere  alcune  inesattezze  e  contraddizioni  facili  a  verificarsi  nella  lettera- 
tura, abbiamo  cercato  di  estendere  coi  medesimi  criteri  le  nostre  ricerche  ai  vari 
ordini  di  Mammiferi.  Queste  ricerche,  che  noi  abbiamo  potuto  compiere  per  l'aiuto 
cortesissimo  dei  nostri  Maestri  Prof.1'  R.  Ftjsabi  e  L.  Camerano,  vertono  quasi  essen- 
zialmente su  crani  macerati,  e  solo  in  piccola  parte  su  osservazioni  che  specialmente 
uno  di  noi  (Bovero)  potè  fare  su  cadaveri  opportunamente  iniettati.  Coll'esame  quasi 
esclusivo  dei  crani,  noi  ci  siamo  d'altronde  messi  nelle  identiche  condizioni  degli  AA. 
che  ci  precedettero  in  questo  studio:  inoltre  è  così  particolare  il  comportamento  dei 
vasi  emissari  in  generale  e,  nella  fattispecie,  degli  emissari  squamosi  e  petrosqua- 
mosi,  così  esclusivi  i  rapporti  che  essi  contraggono  e  chiare  le  traccie  che  lasciano 
per  rispetto  alle  ossa,  da  diminuire  molto  il  valore  di  una  possibile  obbiezione  alla 
qualità  del  nostro  materiale  di  studio. 

Abbiamo  di  già  veduto  come  i  vari  AA.  usino  una  terminologia  differente 
relativamente  al  canale  della  squama  temporale  per  cui  decorrerebbe  la  presunta  ra- 
dice primitiva  della  giugulare  esterna  anomala  nell'Uomo,  normale  in  molti  Mammi- 
feri e  relativamente  alle  aperture  endo-  ed  esocranica  dello  stesso.  Difatti  mentre  la 


21  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  179 

grande  maggioranza  degli  AA.  (Luschka,  Hyrtl,  Henle,  Koelliker,  Zucherkandl, 
Legge,  Lowenstein,  Kopetsch,  Calori,  ecc.)  chiamano  l'apertura  esterna  del  canale 
osseo  destinato  ad  allogare  la  predetta  via  di  riunione  foramen  jugulare  spurium, 
seguendo  in  ciò  Rathke,  altri  invece  lo  indicano  come  trou  tempora!  (Labbé,  Charpv), 
foro  postfjlenoideo  (Cabibbe),  oppure  moltiplicano  le  denominazioni  a  seconda  del- 
l'ubicazione differente  dell'apertura  stessa  (Cope,  Launay)  :  altri  autori  ancora  danno 
al  canale  propriamente  detto,  indipendentemente  cioè  dal  suo  sbocco  esterno,  il  nome 
di  canalis  temporali*  (Schlafengang)  (Otto,  Rathke,  Wagner,  Lusciika,  Knott,  Legge, 
Lowenstein,  Kopetsch,  Denker),  oppure  indifferentemente  quello  di  meatus  temporalis 
(Hallmann,  Hyrtl,  ecc.),  di  canal  zygomatique  (Poirier),  canal  prétympanique  (Ledouble), 
caiiale  petrosquamoso  (Cheatle)  od  ancora  (molti  anatomici  veterinari)  di  canale  tem- 
poropar letale;  altri  finalmente  usano  del  nome  canale  emissario  squamoso  o  petro- 
squamoso (Calori),  o  più  semplicemente  quello  di  emissarium  temporale  (Krause).  Il 
solco  posto  all'endocranio  tra  la  piramide  del  temporale  e  la  squama  e  destinato  ad 
accogliere  il  sinus  petrosus  squamosus  (Luschka,  Charpy,  Knott,  Labbé,  Hedon),  sìnus 
squamoso-petrosus  (C.  Krause),  sìnus  petrosus  antcrior  (Winslow,  Malacarne,  Loder, 
Portal,  Lauth,  Cortese,  Verga),  vien  chiamato  anche  da  Luschka  sulcus  transversus 
spurius  ;  Verga,  nei  casi  in  cui  il  solco  è  trasformato  per  un  tratto  più  o  meno  lungo 
in  un  vero  canale,  adopera,  come  è  noto,  l'espressione  di  acquedotto  del  temporale  o 
acquedotto  di  comunicazione. 

Noi  crediamo,  oltre  che  per  le  ragioni  sopra  addotte,  non  assolutamente  propria 
la  denominazione  di  foramen  jugulare  spurium  adoperata  dalla  maggioranza  degli  AA., 
anche  perchè  non  indica  con  sufficiente  esattezza  la  possibile  diversità  della  sua  ubi- 
cazione: inversamente  ci  paiono  troppo  esclusive  talune  delle  altre  espressioni  usate, 
a  meno  che  queste  cambino  (Cope)  a  seconda  della  posizione  differente. 

Per  le  medesime  ragioni,  anche  la  terminologia  di  canalis  temporalis  pare  a  noi 
troppo  generale,  in  quanto  si  possono  meglio  localizzare,  anche  per  riguardo  alla 
nomenclatura,  i  rapporti  che  esso  contrae  colle  varie  porzioni  dell'osso  temporale. 
Noi  preferiamo  usare  dei  termini  di  canali  (o  vasi)  emissari  selliamosi  o  petrosquamosi 
a  seconda  che  il  decorso  degli  stessi  avviene  esclusivamente  nello  spessore  della 
squama  temporalis,  oppure  in  rapporto  della  sutura  di  quest'osso  colla  pars  petrosa. 
Per  rispetto  alla  apertura  esocranica  ci  pare  conveniente  riferirci  a  parecchi  punti 
di  repere  e  cioè  alla  posizione  che  essa  assume:  «)  relativamente  alla  cavità  glenoide 
(fossa  mandibularis)  coll'eventuale  conus  articularis  o  tuberculum  articulare  posterius 
[processus  articularis  posterior  (Luschka),  processo  postglenoideo  (Quain,  Launay,  Ca- 
bibbe, ecc.),  tubercolo  auricolare  (Sappey),  tubercolo  zigomatico  posteriore  (Poirier)]: 
b)  oppure  relativamente  alla  apofisi  zigomatica,  di  cui  la  linea  temporalis  costituisce 
la  radice  sagittale,  il  processus  articularis  (interior  ora  accennato  la  radice  frontale; 
e)  oppure  ancora  relativamente  alla  porzione  squamosa  propriamente  detta  (pars 
verticalis  della  squama)  del  temporale.  Per  l'apertura  endocranica  le  variazioni  sono 
relativamente  minime,  verificandosi  essa  quasi  costantemente  nel  sulcus  petrosus 
squamosus  più  o  meno  manifestamente  pronunciato  e  destinato  ad  accogliere  il  sinus 
omonimo. 

Veniamo  ora  alla  descrizione  dei  reperti  da  noi  avuti  nei  singoli  ordini  di  Mam- 
miferi, avvertendo  che  per  la  classificazione  e  per  la  nomenclatm-a  degli  individui  dei 


180  ALFONSO    BOTERÒ    —    UMBERTO    CALA5IIDA  22 

vari    ordini    di    Mammiferi   .studiati    ci    siamo    attenuti    essenzialmente    a    quelle  di 
Forbes  (16)  e  di  Trouessart  (71)  (*). 


Od.  PBTMATES 

Subord.  Anthropoidea.  Fam.  Hominidae.  Homo.  —  I  crani  di  cui  abbiamo  tenuto 
calcolo  nelle  nostre  ricerche  appartengono  in  massima  parto  alle  varie  raccolte  del- 
l'Istituto Anatomico  di  Torino  e  sono  1176.  per  il  maggior  numero  intieri:  ad  essi  si 
devono  aggiungere  120  temporali  isolati  di  adulti  conservati  già  da  tempo,  oppure  j  ri- 
parati, previo  accurato  esame  delle  parti  molli,  da  noi  stessi.  In  complesso  disponiamo 
quindi  di  2472  temporali  di  adulti.  I  1176  crani  sono  rappresentati  da  322  crani 
della  Collezione  Normali,  di  ambo  i  sessi  e  di  tutte  le  età  fino  ad  un  massimo  di 
106  anni;  321  crani  della  Coli.  Varietà  appartenenti  pure  ad  individui  normali  e  col- 
lazionati anno  per  anno,  perchè  presentanti  qualche  particolarità;  115  della  Coli.  Mili- 
tari: 340  della  Coli.  Criminali;  46  della  Coli.  Microcefali  e  cretini;  32  della  Coli.  Negri. 
Oltre  a  questi  abbiamo  osservato  un  gran  numero  di  temporali  (150)  di  feti  o  di  neonati, 
o  di  bambini  dei  primi  due  anni  di  vita,  isolati  o  non,  per  la  massima  parte  preparati 
da  uno  di  noi  (Boveko).  In  realtà  il  numero  dei  crani  da  noi  studiati  è  assai  superiore 
a  quello  rappresentato  dalle  cifre  sopra  esposte,  avendo  pure  prese  in  esame  parecchie 
altre  centinaia  di  crani  macerati  negli  anni  1900-1902  in  diversi  Istituti  di  Torino; 
di  essi  però  non  abbiamo  potuto  per  ragioni  speciali  tenere  un  calcolo  sufficientemente 
esatto,  perchè  i  dati  relativi  possano  trovare  posto  nell'  esposizione  delle  nostre 
ricerche.  Per  verificare  il  comportamento  degli  eventuali  emissari  nell'epoca  fetale 
noi  ci  siamo  serviti  eziandio  di  alcune  serie  di  sezioni  frontali  di  crani  del  3°,  i  e 
5°  mese  di  vita  intrauterina,  fatte  dal  prof.  Giacomini  :  dichiariamo  però  subito  che, 
riguardo  alla  esistenza  o  meno  degli  emissari  stessi  nelle  dette  epoche,  le  nostre  osser- 
vazioni non  hanno  avuto  nessun  risultato  perentoriamente  probativo,  specialmente 
perchè  le  sezioni  non  sono  rigorosamente  seriate,  come  pure  per  la  qualità  e  per  lo 
stato  di  conservazione  del  materiale  adoperato. 

Noi  crediamo  di  dispensarci  qui  da  una  particolareggiata  descrizione  anatomica 
delle  varie  regioni  dell'osso  temporale  nelle  quali  occorrono  più  frequentemente  gli 
emissari  che  stiamo  studiando:  tale  descrizione  è  d'altronde  riportata,  oltreché  in 
tutti  i  trattati  di  anatomia,  anche  e  minutamente  nelle  memorie  di  Luschka.  di 
Lowenstein  e  Cabibbe;  stimiamo  quindi  inutile  ripetere  ciò  che  è  universalmente  noto. 

Relativamente  alle  aperture  endo-  ed  esocraniane  degli  emissari  temporali  squa- 


(*)  I  risultati  preliminari  delle  nostre  ricerche  furono  già  in  precedenza  comunicati  con  presen- 
tazione dei  preparati  e  fotografie  alla  R.  Accademia  ili  Medicina  ili  Torino  (seduta  10  luglio  1901), 
alla  IV'  Session  de  V 'Associai ion  des  Anatomistes  (Montpellier,  aprile  1902),  alla  VI*  Riunioni  della 
Società  Otologica   Italiana  (Roma,  ottobre  1902). 

Aggiungiamo  inoltre  che,  per  quanto  non  si  possa  sempre  e  costantemente  in  modo  assoluto 
distinguer"  rio  che  spetta  più  precisamente  ;i  ciascuno  di  noi,  mentre  il  concetto  informatore  del 
lavoro,  le  ricerche  sui  Mammiferi  inferiori  all'Uomo  e  le  considerazioni  morfologiche  e  descrittive 
sono  più  specialmente  opera  del  Dr  Bovero,  l'esame  dei  crani  umani,  la  rassegna  della  letteratura, 
le  considerazioni  pratiche  spettano  al  Dr  Calamida:  si  cercò  tuttavia  di  fare  in  modo  che  le  singole 
ricerche  itte  p.irallelamente,  in  guisa  da  costituirci  un  vicendevole,   continuo  controllo. 


23  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  181 

mosi  e  petrosquamosi,  noi  dobbiamo  primieramente  notare  come  la  ubicazione  del- 
l'apertura esoeranica  vada  soggetta  assai  più  che  non  la  endocraniana  a  variazioni 
relativamente  ampie  a  seconda  dei  differenti  individui.  Mentre  difatti  lo  sbocco  endo- 
craniano  si  verifica  quasi  costantemente,  per  lo  meno  nella  maggioranza  grandissima 
dei  casi,  in  rapporto  della  solcatura  petrosquamosa ,  più  o  meno  pronunciata  a  se- 
conda dell'età  ed  a  seconda  degli  individui,  o  per  lo  meno  in  rapporto  della  linea  che 
segna  nell'adulto  la  riunione  avvenuta  fra  le  porzioni  squamosa  e  petrosa  del  tem- 
porale, con  oscillazioni  solo  leggere  in  senso  anteroposteriore  della  posizione  della 
apertura  stessa,  noi  vediamo  invece  come  l'apertura  esterna  varii  in  tal  guisa  di 
posizione  che  il  canale  propriamente  detto  può  attraversare  la  squama  temporale 
direttamente  e  in  direzioni  diverse,  oppure  compiere  il  suo  tragitto  in  rapporto  delle 
varie  porzioni  delle  suture  petrosquamosa  o  squamosotimpanica.  In  ogni  caso  però, 
anche  nella  massima  parte  di  quelli  in  cui  il  canale,  diversamente  diretto,  è  esclusi- 
vamente scavato  nello  spessore  della  pars  squamosa,  la  sua  apertura  endocranica  si 
trova,  salvo  eccezioni  che  noi  vedremo,  in  un  punto  corrispondente  alla  preesistente 
sutura  petrosquamosa  o  per  lo  meno  in  tutta  sua  vicinanza.  Per  la  medesima  ragione, 
e  cioè  per  la  minima  variabilità  nella  ubicazione  dell'apertura  endocranica  di  canali 
in  casi  differenti  diversamente  diretti,  e  quindi  con  aperture  esocraniche  in  punti 
ugualmente  differenti,  ciò  che  si  può  verificare  anche  in  un  medesimo  cranio,  come 
pure  per  la  possibile  occorrenza  dallo  stesso  lato  di  due  canali  emissari  squamosi  con 
apertura  endocranica  comune,  con  le  rispettive  aperture  esterne  distinte  e  topogra- 
ficamente diverse,  noi  crediamo  che  si  debbano  ritenere  affatto  analoghi,  genetica- 
mente e  funzionalmente,  i  forami  emissari  abnormi  nella  nostra  specie,  i  quali  fanno 
comunicare  la  circolazione  venosa  della  fossa  cranica  media  colle  radici  della  v.  giu- 
gulare esterna,  sia  che  essi  sbocchino  all' esocranio  in  una,  sia  nell'altra  porzione 
della  squama  temporale.  Diciamo  subito  che,  morfologicamente,  le  eventuali  diversità 
di  posizione,  come  la  molteplicità  delle  stesse  aperture  diversamente  collocate  nello 
stesso  lato  di  un  cranio  ci  paiono  di  grande  importanza,  perchè  possono  riprodurre 
esattamente  le  condizioni  differenti  che  si  riscontrano  eventualmente  come  caratteri 
fissi  e  costanti  nei  differenti  Mammiferi,  come  pure  perchè  una  data  posizione  di  un 
forame  emissario  temporale  anomalo  nell'Uomo  può  trovare  esatto  riscontro  nella  posi- 
zione dell'emissario  stesso  in  altri  animali,  nei  quali  esso  compare  tuttavia  come 
anomalia,  in  una  forma  però  e  con  modalità  relativamente  più  fisse  che  non  nella 
nostra  specie. 

La  maggior  variabilità  nell'  ubicazione  dell'  apertura  esoeranica  dell'  emissario 
squamoso  in  confronto  all'endocranica  e  la  correlativa  direzione  differente  dei  vari 
(•anali,  si  spiega  facilmente  pensando  che  si  tratta  appunto  di  canali  venosi  di  afflusso 
ad  una  o  indifferentemente  all'  altra  (vv.  temporali  profonde  anteriori ,  posteriori, 
auricolari,  ecc.)  delle  radici  della  v.  giugulare  esterna,  canali  indipendenti  nel  tragitto 
da  altri  organi  (arterie  o  nervi):  ed  essenzialmente  si  spiega  ricordando  come,  mentre 
lo  schema  di  distribuzione  dei  vasi  venosi  endocraniani  è  presso  a  poco  analogo  nei 
singoli  ordini  di  Mammiferi,  è  invece  nella  serie  degli  stessi  ordini  assai  mutevole 
il  punto  in  cui  le  vie  di  comunicazione,  attraversanti  l'osso  temporale  ed  indipendenti 
da  altri  organi,  fra  tale  sistema  venoso  e  la  giugulare  esterna  di  formazione  onto- 
e  filogeneticamente  secondaria  sboccano  all'esocranio. 


182  ALFONSO    BOTERÒ    —    UMBERTO    CALAMIDA  24 

Anche  per  questi  caratteri  quindi  si  può  verificare  nella  disposizione  degli  emis- 
sari petrosquamosi  dell'Uomo,  qualunque  ne  sia  il  significato  morfologico  ed  onto- 
genetico, una  esatta  ed  ampia  ricapitolazione  delle  disposizioni  tipiche  che  si  riscon- 
trano nella  filogenesi.  Per  la  posizione  differente  dell'apertura  esterna  degli  eventuali 
canali  emissari  squamosi  o  petrosquamosi  nella  nostra  specie,  noi  distinguiamo  tre 
categorie,  in  ciascuna  delle  quali  possono  occorrere  anche  delle  varietà  secondarie. 

Anzitutto  noi  dobbiamo  avvertire  come  la  maggior  parte  di  questi  emissari 
anormali  interessino  preferibilmente,  per  ragioni  naturalmente  troppo  ovvie  perchè  si 
debbano  qui  diffusamente  esporre,  la  porzione  basilare  della  squama,  in  rapporto  o  in 
tutta  vicinanza  delle  suture  squamosotimpanica  e  squamosopetrosa,  oppure  la  por- 
zione immediatamente  soprastante  a  quella  basilare,  mentre  solo  in  via  eccezionalis- 
sima,  e  come  disposizione  secondaria  a  modalità  di  altro  significato,  possono  interes- 
sare la  parte  alta  della  squama.  La  distinzione  in  tre  categorie  si  fonda  appunto 
essenzialmente  sui  rapporti  che  le  aperture  stesse  contraggono  con  la  apofisi  zigo- 
matica e  con  le  parti  differenti  che  costituiscono  detto  processo,  il  quale  stabilisce 
come  un  limite  molto  netto  ed  evidente  fra  la  cosi  detta  porzione  basilare  e  la  por- 
zione verticale  della  squama. 

Nella  prima  categoria  noi  raggruppiamo  tutti  i  canali  emissari,  i  quali  si  aprono 
all'esterno  caudalmente  alla  radice  posteriore  o  sagittale  dell' apofisi  zigomatica  (linea 
temporalis)  e  a  questi  noi  potremo  dare  la  denominazione  di  forami  emissari  squamosi 
sottozigomatici. 

Nella  seconda  categoria  invece  comprendiamo  gli  emissari  il  cui  sbocco  è  situato 
cranialmente  alla   detta  linea  temporale,  forami  emissari  squamosi  soprazigomatici. 

Finalmente  nella  terza  categoria  si  raccolgono  alcuni  pochi  casi  in  cui  l'apertura 
esocranica  degli  emissari  squamosi  si  riscontra  al  davanti  della  radice  anteriore  o 
frontale  (tuberculum  articulare)  dell'apofisi  zigomatica,  e  cioè  nella  porzione  posteriore 
della  fossa  infratemporale,  fonimi  emissari  squamosi  prezigomatici. 

È  da  avvertirsi  come  non  sempre  si  possa  stabilire  nettamente  se  un  eventuale 
forame  emissario  appartenga  all'una  piuttosto  che  all'altra  di  dette  categorie,  poten- 
dosi ad  esempio  riscontrare  l'apertura  di  un  emissario  esattamente  sulla  sporgenza 
della  radice  posteriore  del  processo  zigomatico  (Fig.  17):  ancora,  noi  potremmo  a  rigore 
fondere  i  pochi  casi  della  terza  categoria  con  quelli  delle  due  precedenti,  e  rispet- 
tivamente alla  prima  e  alla  seconda,  quando  lo  sbocco  si  riscontra  inferiormente  o 
superiormente  alla  crista  infratemporalis,  che  rappresenta  come  un  prolungamento 
venti-ale  della  radice  anteriore  del  processo  zigomatico  ;  però  il  raggruppamento  a  parte 
di  questi  ultimi  è  giustificato  dal  modo  di  comportarsi  degli  emissari  complessiva- 
mente alquanto  differente  da  quello  degli  altri  due  gruppi. 

Anche  in  ciascuna  categoria,  a  parte  il  rapporto  fondamentale  colla  linea  tem- 
poralis o  col  tuberculum  articulare,  si  possono  fare  parecchi  sottogruppi: 

I.  Nella  prima  difatti  i  forami  emissari  possono   per  rispetto  al  meatus  acu- 
sticus  externus  occupare    posizioni  leggermente   differenti;    le   varietà    nell'ubicazione 
nono  sia  nei  casi  in  cui  è  presente  un  conus  articularis  o  tuberculum  articulare 
posterius,  come  in  quelli  in  cui   questo  fa  difetto.  Quando  il  conus  è   presente,  qua- 
lunque ne  sia  lo  sviluppo,  lo   sbocco    dell'emissario  può  trovare   sede: 

1°  sulla  sua  faccia  posteriore,  cosicché    ne  sarebbe  giustificata   fino   ad  un 


25  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQTJAMOSI  183 

certo  punto  la  denominazione  usata  da  taluni  AA.  di  foro  postglenoideo  (sarebbe  più 
appropriata  quella  di  foro  postarticolare  o  sottozigomatico  posteriore); 

2°  oppure  sul  margine  mediale  dello  stesso  processo  (Fig.  1  fszm)  più  o 
meno  vicino  alla  base  e  quindi  alla  estremità  laterale  della  fissura  Glaseri; 

■  '<  oppure  ancora  sul  margine  laterale,  più  o  meno  in  prossimità  all'apice 
od  al  punto  di  emergenza  del  conus  articularis  stesso  (Fig.  2,  Fig.  3  fszl);  in  que- 
st'ultimo caso  può  accadere  che  il  canale  emissario  eventuale  si  apra  nell'interstizio 
più  o  meno  ampio,  che  sta  fra  la  linea  temporalis  propriamente  detta  e  il  conus 
articularis  (Fig.  3  fszl,  cu),  cioè  esattamente  fra  le  due  branche  di  biforcazione  della 
radice  sagittale  dell'apofisi  zigomatica,  biforcazione  che  appare  tanto  più  evidente 
quanto  più  è  sviluppato  il  conus  e  rilevata  la  linea  temporalis  propriamente  detta. 
Nei  casi  in  cui  il  cono  manca,  l'apertura  esterna  di  un  emissario  può: 

4°  essere  posta  in  rapporto  della  estremità  laterale  della  scissura  di  Glaser, 
quasi  a  rappresentare  un  allargamento  della  stessa,  dalla  quale  però  l'apertura  ano- 
mala, conducente  in  un  canale  che  si  apre  all'endocranio  nel  seno  petrosquamoso,  è 
costantemente  separata  (Fig.  6  fszl)  mediante  un  ponticello  osseo  più  o  meno  evidente; 

5°  anche  quando  manca  completamente  il  cono  articolare,  oppure  questo 
si  presenta  sotto  forma  di  una  rilevatezza  appena  percettibile  a  ridosso  della  sutura 
squamosotimpanica  (Fig.  5  co),  noi  possiamo  avere  l'apertura  di  un  emissario  imme- 
diatamente al  di  sotto  della  cresta  sagittale,  sviluppata  diversamente  a  seconda 
degli  individui  e  dell'età,  rappresentante  la  linea  temporalis; 

6°  sempre  nei  casi  di  mancanza  del  cono  articulare ,  l' apertura  esterna 
di  un  eventuale  emissario  petrosquamoso  può  occupare  una  posizione  intermedia 
fra  le  ultime  precedentemente  accennate,  essere  situata  cioè  nella  parte  posteriore 
della  fossa  mandibolare  (Figg.  7,  8  fpg),  vale  a  dire  nel  punto  in  cui  si  impianta  abi- 
tualmente la  base  del  cono  articolare  stesso:  nei  pochi  casi  da  noi  riscontrati  di 
questo  sottogruppo  1'  ampiezza  relativamente  grande  dell'apertura  (escludiamo  natu- 
ralmente le  usure),  come  la  loro  ubicazione,  sono  appunto  da  riferirsi  alla  mancanza, 
costante  in  detti  casi,  di  un  cono  articolare  anche  mediocremente  sviluppato  (emis- 
sario sottozigomatico  postarticolare  o  postglenoideo); 

7°  in  casi  assai  più  rari  ancora  è  possibile  riscontrare,  anche  concomitante- 
mente ad  un  cono  articolare  a  maggiore  o  minore  sviluppo,  un  esile  forellino  nella 
porzione  più  mediale  della  fossa  mandibularis,  subito  avanti  alla  scissura  di  Glaser. 
Evidentemente,  oltre  alle  ubicazioni  meno  frequenti,  i  siti  principali  di  elezione 
dell'  apertura  esterna  degli  emissari  di  questo  gruppo,  con  o  senza  cono  articolare, 
sono  due,  e  cioè:  a)  immediatamente  sotto  la  radice  sagittale  del  processo  zigomatico, 
a  livello  del  quarto  anteriorsuperiore  del  contorno  del  porus  acusticus  externus:  gli 
emissari  di  questo  sottogruppo  potrebbero  comprendersi  sotto  la  denominazione  comune 
di  emissari  sottozigomatici  laterali:  h)  immediatamente  all'esterno  dell'estremità  late- 
rale della  scissura  di  Glaser,  vale  a  dire  in  un  punto,  che  corrisponde  alla  porzione 
anteriorsuperiore  della  parete  del  meatus  acusticus  eocternus,  emissari  sottozigomatici 
mediali.  Quest'ultima  distinzione  da  noi  fatta  non  può  naturalmente  avere  sempre 
un  valore  assoluto  e  ciò  specie  nei  casi  in  cui  manca  un  cono  articolare,  al  posto 
del  quale,  come  abbiamo  visto,  può  occorrere  un  emissario  più  o  meno  ampio,  rap- 
presentante come  una  forma  di  passaggio  fra  gli  emissari  sottozigomatici  mediali  e 
quelli  laterali  nettamente  distinguibili  per  la  presenza  di  un  cono  eventuale. 


1  ,  (  ALFONSO    BOVERO    UMBERTO    CALAMIDA  26 

Dalle  nostre  ricerche,  per  quanto  non  possiamo  riportare  le  cifre  rigorosamente 
esatte,  appunto  perchè  è  difficile  pronunciare  molte  volte  un  giudizio  perentorio  sulla 
esistenza  di  un  conus  artieularis,  ci  pare  poter  affermare  che  indubbiamente  sono 
assai  più  frequenti  (come  2  a  1)  i  forami  emissari  posti  sul  margine  mediale  del 
cono  o  in  rapporto  dell'estremità  laterale  della  scissura  di  Glaser,  che  non  quelli 
occorrenti  sul  margine  laterale  dell'  eventuale  cono  o  immediatamente  al  di  sotto 
della  sporgenza  della  radice  sagittale  del  processo  zigomatico.  L'ubicazione  di  un  fo- 
rame emissario  alla  faccia  dorsale  del  cono  può  anche  sfuggire  alla  osservazione, 
specialmente  nei  casi  di  grande  sviluppo  del  cono  stesso,  per  i  rapporti  che  questa 
formazione  contrae  colla  opposta  parete  ossea  del  condotto  uditivo;  è  probabile  tut- 
tavia che  il  progresso  dello  sviluppo  del  cono  colla  età  costituisca,  dati  i  detti  rap- 
porti, una  condizione  poco  favorevole  alla  permanenza  di  un  eventuale  emissario,  che 
ne  occupi  collo  sbocco  la  faccia  posteriore. 

La  occorrenza  di  un  cono  articolare,  modifica  anche  notevolmente  la  apparenza 
esterna  della  apertura  a  seconda  dell'ubicazione.  Per  le  medesime  ragioni  enunciate 
a  proposito  dei  canali  emissari  sboccanti   sulla   faccia  posteriore    del  cono,  le  aper- 
ture situate  medialmente  a  tale  cono,  per  quanto  più  frequenti  che  non  quelle  poste 
lateralmente,  ci  paiono  complessivamente  meno  ampie,  ridotte  per  lo  più  ad  esilissinn 
fori  non  sondabili.  La  riduzione  del  calibro  degli  emissari  sottozigomatici  mediali  spiega 
perchè  il  nostro  reperto  della  maggior  loro  frequenza    per  rispetto  a  quelli  laterali 
contraddica  chiaramente  i  dati   degli    altri  AA.  e  principalmente  di  Luschka  e  Lo- 
wenstein,  i  quali  ammettono  invece  che  la  posizione  più  frequente  di  dette  aperture 
sia  precisamente  subito  al  di  sotto  della  radice  sagittale  del  processo   zigomatico  :  è 
probabile  che  questi  AA.  nel  ritenere  come  emissari  quelli  che  noi  abbiamo  classifi- 
cati nel  2°  sottogruppo  {mediali),  emissari  che  per  altro  possono  sfuggire  facilmente 
all'osservazione,  abbiano  usati  criteri  più  ristretti,  il  che  si  comprende  anche  com- 
parando le  loro  cifre  statistiche  con  le  nostre.  Nei  casi  in  cui  l'ampiezza  è  relativa- 
mente grande,  l'apertura  situata  sul  margine  mediale  del  cono  è  per  lo  più   ovalare 
e  continuata  in  basso  da  una  solcatura  rivolta  medialmente:  invece,  quando  il  conti* 
artieularis  manca  (Figg.  7,  8),  gli  emissari  di  una  certa  ampiezza  (1  rara.)  del  gruppo 
mediale  sono  per  lo  più  circolari,  eventualmente  disposti  a  fessura  irregolare  per  la 
sporgenza  in  un  senso  o  nell'altro  delle  labbra  della  scissura  squamosotimpanica:  in 
ogni  caso  i  canali  che  fanno  seguito  alle  aperture  di  questo  sottogruppo  hanno  una 
direzione  presso  a  poco  verticale  per  raggiungere  il   solco  petrosquamoso.  Anche  la 
lunghezza  del  tragitto  è  naturalmente  pure  più  breve  di  quella  degli  emissari  laterali. 
Questi  ultimi  possono  eziandio  avere  un'apparenza  diversa  ed  i  canali  una  dire- 
zione   differente    a    seconda   della    occorrenza  o    mancanza    di    un  conus  artieularis. 
Nei  casi  in   cui  il  cono   manca    completamente  e  1'  apertura   è  relativamente   ampia 
(mm.  0,5-1),  essa  è  per  lo  più  abbastanza  regolarmente  circolare,  continuata  all'esterno 
da  una  solcatura  trasversale  più  o  meno  evidente,  concava  in  basso;  il  canale  per  lo 
più  ha  una  direzione  verticale  o  quasi.  Nei  casi  in  cui  la  solcatura  è  molto  evidente 
e  il  cono  articolare   poco   pronunciato,  questo  appare  lateralmente    come   bifido;  in 
quelli    invece   in    cui  il   cono  articolare    è    potentemente   sviluppato,  oppure   anche 
quando,  senza  questa   esorbitante  sviluppo,  il  forame  emissario  è  situato  immediata- 
mente al  di  sotto    della  sporgenza    della   radice  sagittale    dell'apofisi  zigomatica,  la 


27  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  185 

solcatura  risulta  meno  evidente,  assai  più  breve,  e  l'apertura  stessa  per  lo  più  ha 
una  forma  nettamente  ovalare,  talora  imbutiforme  ;  il  canale  che  ne  deriva  in  questi 
ultimi  casi  assume  una  direzione  complessivamente  orizzontale  o  per  lo  meno  forte- 
mente obliqua  in  alto  e  in  dentro. 

Indipendentemente  dalla  suddivisione  in  sottogruppi,  fra  i  quali  vi  hanno  pure, 
come  abbiamo  veduto,  differenze  evidentissime  nella  frequenza  colla  quale  compaiono, 
gli  emissari  della  la  categoria  sono  di  gran  lunga  più  facili  a  riscontrarsi  che  non 
quelli  delle  altre  due  (SI, 88  %  dei  casi):  per  questa  ragione  parecchi  degli  AA.,  che 
studiarono  questo  argomento,  nelle  loro  descrizioni  si  riferiscono  esclusivamente  ad 
essi  e,  preferibilmente,  per  la  facilità  colla  quale  si  dimostrano,  a  quelli  del  sotto- 
gruppo laterale,  trascurando  completamente  o  quasi  i  forami  emissari  delle  altre  due 
categorie.  Ciò  nullameno,  come  avremo  occasione  di  vedere  ancora  riportando  i  ri- 
sultati statistici  nelle  nostre  ricerche,  la  percentuale  dei  canali  della  2a  categoria  è 
ancora  tanto  alta  e  le  modalità  colle  quali  compaiono  quelli  da  noi  aggruppati  nella  3a 
sono  così  caratteristiche ,  che  non  se  ne  può  tralasciare  in  modo  assoluto  lo  studio, 
reso  tanto  più  interessante  d'altra  parte  per  i  riscontri  anatomo-comparativi. 

II.  Anche  gli  emissari  della  2a  categoria,  i  quali  rappresentano  il  15,94  %  dei 
casi  da  noi  complessivamente  riscontrati,  possono  occupare  posizioni  leggermente  dif- 
ferenti; tuttavia  la  distinzione  netta  in  sottogruppi  presenta  difficoltà  ancora  maggiori 
che  non  per  quelli  della  la  categoria,  mancando  in  questa  regione  formazioni  anche 
eventuali,  che  possano  essere  utilizzate  come  limiti  topografici  :  ciò  nondimeno,  fatta 
questa  riserva,  noi  distinguiamo  due  sottogruppi  di  forami  emissari  sottozigomatici, 
avvertendo  subito  che,  come  si  possono  riscontrare  forme  di  passaggio  alla  1"  ed 
alla  '•'  categoria,  cosi  non  è  sempre  facile  stabilire  a  quale  sottogruppo  della  2a 
appartengano. 

1°  Come  forami  emissari  soprazigomatici  posteriori  si  possono  ritenere  quelli 
che  si  aprono  indietro  del  punto  in  cui  il  margine  posteriore  della  porzione  basale 
del  processo  zigomatico  si  continua  come  linea  temporalis:  la  loro  apertura  ha  sede 
o  direttamente  sulla  rilevatezza  di  detta  linea  (Figg.  1 ,  7  fszp),  oppure  subito  al  di 
sopra  della  rilevatezza  stessa  (Figg.  3,  11  fszp),  nella  regione  cioè  del  planum  temporale, 
che  sovrasta   immediatamente   alla  estremità   superiore  del  porus  acusticus  externus. 

2°  Diamo  invece  il  nome  di  forami  emissari  squamosi  soprazigomatici  anteriori 
a  quelli  la  cui  apertura  esocranica  si  trova  nella  porzione  del  planum  temporale  subito 
sovrastante  alla  faccia  superiore  della  base  del  processo  zigomatico,  fra  i  punti  in 
cui  i  margini  anteriore  e  posteriore  di  questo  processo  si  continuano  rispettivamente 
come  erista  infratemporalis  e  come  linea  temporalis  (Fig.  10  fsza). 

A  proposito  dell'ultimo  sottogruppo  dobbiamo  osservare  come,  quasi  costantemente, 
la  squama  temporalis  al  di  sopra  della  base  dell'apofisi  zigomatica  presenti  nell'adulto 
una  serie  (2,  4  e  più)  di  minutissimi,  microscopici  forellini  ai  quali  naturalmente 
non  si  può  dare  il  valore  di  vasi  emissari,  rappresentando  invece  lo  sbocco  di  sem- 
plici vasi  diploici,  tributari  delle  vene  temporali  profonde,  e  la  cui  importanza  mor- 
fologica risulta  precisamente  dal  fatto  che  essi  possono  eventualmente  trasformarsi 
in  veri  canali  emissari,  i  quali  corrispondono  a  loro  volta  ai  canali  venosi  di  quelle  specie 
di  Mammiferi  nei  quali  le  comunicazioni  del  sistema  venoso  della  fossa  cranica  media 
colla  giugulare  esterna  attraversano  la  squama  temporale  appunto  al  di  sopra  della 
Serie  II.  Tom.  LUI.  y 


186  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  28 

base  del  processo  zigomatico.  Noi  abbiamo  voluto  ricordare  questo  fatto  normale 
nella  grandissima  maggioranza  degli  individui,  perchè  ci  è  parso  che,  per  quanto  sal- 
tuariamente notato  da  alcuni  AA.,  e  raffigurato  spesse  volte,  non  sia  stato  finora 
considerato  nel  suo  giusto  valore. 

Nei  casi  in  cui  un  eventuale  emissario  soprazigomatico  posteriore  si  apre  sulla 
rilevatezza  formata  dalla  porzione  iniziale  della  linea  temporale,  esso  ha  ordinaria- 
mente la  forma  di  una  fessura  ovalare  a  grande  asse  disposto  sagittalmente  :  l'aper- 
tura può  essere  limitata  da  margini  netti,  oppure  assumere  un  aspetto  imbutiforme 
(Figg.  11,  17  fszp)  in  guisa  che  la  linea  temporale  propriamente  detta,  indipenden- 
temente dalla  sua  biforcazione  inferiore  rappresentata  da  un  eventuale  cnnus  arti- 
cularis,  può  apparire  come  bifida;  ciò  è  specialmente  evidente  quando  l'emissario  ha 
una  certa  ampiezza  (1-3  min.).  Nei  casi  in  cui  il  forame  soprazigomatico  posteriore 
è  situato  al  disopra  della  linea  temporale ,  l' apertura  è  generalmente  circolare 
(Figg.  1,  3  fszp):  nel] 'un  caso  e  nell'altro  il  canale  più  o  meno  ampio,  che  fa  seguito 
a  tale  apertura,  decorre  per  lo  più  orizzontalmente  in  dentro,  oppure  obliquamente 
in  avanti  e  medialmente ;  talvolta,  in  ispecie  quando  la  linea  temporale  è  robusta- 
mente pronunciata  o  l'apertura  dell'emissario  è  situata  ad  una  certa  distanza  supe- 
riormente alla  linea  temporale,  il  canale  è  più  o  meno  accentuatamente  discendente 
in  basso  e  medialmente. 

Noi  non  possiamo  dire  con  certezza  se  i  forami  emissari  di  questo  sottogruppo 
occorrono  con  maggior  frequenza  in  corrispondenza  della  rilevatezza  della  linea  tem- 
porale, oppure  al  di  sopra  di  questa,  e  ciò  per  le  differenze  grandissime  (per  età, 
individuali,  sessuali,  etniche)  nello  sviluppo  della  linea  temporale  stessa:  tuttavia  ci 
pare  poter  affermare  che  il  sito  di  elezione,  nei  casi  in  cui  la  linea  temporale  è 
assai  manifesta,  dei  forami  emissari  di  questo  sottogruppo  corrisponde  appunto  alla 
parte  più  sporgente  lateralmente  della  linea  temporale  stessa  e  cioè  verticalmente 
sopra  il  condotto  uditivo. 

I  forami  del  sottogruppo  anteriore,  astrazion  fatta  dai  forami  semplicemente 
diploici  e  dalle  forme  di  incerta  classificazione,  ci  sono  parsi  meno  frequenti  di  quelli 
del  sottogruppo  posteriore  :  invece  la  loro  ampiezza  e  quindi  anche  quella  dei  canali 
corrispondenti  sono  spesso,  a  parità  di  condizione,  maggiori  di  quelli  posteriori.  In 
parecchi  degli  esemplari  da  noi  riscontrati,  l'apertura  esterna  misurava  2-3-4  rara. 
Tale  apertura  è  d'ordinario  più  o  meno  regolarmente  circolare  e  talora  viene  conti- 
nuata (Fig.  10  fsza),  in  basso  ed  in  avanti  da  una  solcatura  più  o  meno  pronunciata, 
che  può  anche  essere  manifesta  sulla  cresta  infratemporale,  risultando  così  evidente 
l'afflusso  del  sangue  portato  dall'emissario  alle  vene  del  plesso  pterigoideo.  In  un 
caso  (Fig.  13  fszp),  in  cui  il  forame  emissario,  per  la  sua  posizione,  può  essere  consi- 
derato come  una  forma  di  passaggio  fra  i  soprazigomatici  anteriori  e  i  posteriori, 
esso  assume  l'aspetto  di  un'ampia  fessura  col  maggior  diametro  (4  mm.)  disposto 
sagittalmente,  situata  appunto  nell'angolo  diedro  delimitato  dalla  porzione  posteriore 
della  faccia  superiore  del  processo  zigomatico  col  planum  temporale:  in  questo  caso 
la  fessura  è  come  infossata  per  la  presenza  di  una  cresta  dipendenza  della  linea 
temporale,  (li)  descrivente  una  curva  concava  in  avanti  e  in   alto. 

In  generale  i  canali  del  sottogruppo  anteriore  hanno  un  tragitto  assai  breve, 
attraversando  la  porzione  inferiore  verticale  della  squama  temporale  in  direzione  net- 


29  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROStjUAMOSI  187 

tinnente  perpendicolare  alle  sue  faccio:  alcune  volte  però  i  canali,  che  fanno  seguito 
a  dette  aperture,  hanno  un  decorso  più  o  meno  obliquo  indietro  e  medialmente  fram- 
mezzo ai  due  tavolati  della  squama.  In  ogni  caso  i  canali  soprazigomatici  dei  due  sotto- 
gruppi decorrono  esclusivamente  nello  spessore  della  squama;  ma  mentre  quelli  poste- 
riori si  aprono  costantemente  all'endocranio  nel  solco  petrosquamoso  (Fig.  4  eps,  sps), 
invece  non  di  rado  quelli  anteriori  si  aprono  all'interno  alquanto  lateralmente  al  solco 
petrosquamoso,  al  quale  possono  essere  tuttavia  riuniti  mediante  una  solcatura  più 
o  meno  pronunciata. 

III.  I  forami  emissari  squamosi  prezigomatici  occorrono  all'osservazione  molto 
raramente  e  ciò  sia  che  si  considerino  nella  serie  degli  emissari  squamosi,  rappre- 
sentando essi  il  2,17  "  ,,  dei  casi,  come  se  si  esamini  la  serie  dei  crani  (9  volte).  Non 
ostante  la  rarità  noi  possiamo  dividere  i  pochi  casi  osservati  in  due  gruppi,  cioè  a 
seconda  che  si  aprono  all'esterno  superiormente  o  inferiormente  alla  crista  infratem- 
poralis,  che  stabilisce  come  un  limite  topografico  fra  la  porzione  basilare  e  la  verti- 
cale della  squama  :  si  possono  dare  ad  essi  rispettivamente  le  denominazioni  di 
emissari  prezigomatici  superiori  e  di  prezigomatici  inferiori.  Carattere  di  questi  forami 
è  la  loro  ampiezza  relativamente  maggiore  di  quella  degli  altri,  mancando  invece 
forami  di  calibro  minimo,  che  ragionevolmente  in  questa  regione  si  possano  ritenere 
in  realtà  come  emissari.  L'ampiezza  dell'apertura  esterna  può  raggiungere  mm.  5,5, 
come  nel  cranio  di  una  donna  di  anni  64  {Collez.  Criminali,  n°  326),  in  cui  (Fig.  12  fps) 
il  forame  prezigomatico  superiore,  ovalare,  è  posto  1  cm.  al  di  sopra  della  porzione 
dorsale  della  crista  infratemporalis ;  cosi  pure  nel  temporale  sinistro  isolato  di  un 
individuo  giovane  (Fig.  15)  l'apertura  dell'emissario  prezigomatico  inferiore,  regolar- 
mente circolare,  posta  immediatamente  in  avanti  del  tubereulum  articulare,  misura 
mm.  3,5.  Negli  altri  casi  l'ampiezza  media  dell'apertura  esocranica  (Figg.  8,  12  fps,  fpi) 
misura  in  media  mm.  1,5-2,5,  è  quindi  sempre  di  molto  superiore  a  quella  abituale 
degli  emissari  delle  altre  categorie.  L' apertura  di  questi  emissari ,  esclusi  i  casi 
sopracitati  in  cui  1'  ampiezza  è  molto  pronunciata,  ha  un  aspetto  per  Io  più  imbu- 
tiforme, il  canale  cioè  che  ne  deriva  si  restringe  tosto  notevolmente.  Dobbiamo 
notare  come,  qualunque  sia  l'ampiezza  dei  detti  emissari,  i  canali  che  hanno  origine 
dalle  aperture  esterne  decorrono  esclusivamente  nello  spessore  della  squama  tempo- 
rale, attraversandola  perpendicolarmente  alle  sue  superfici  (Fig.  15),  oppure  con 
decorso  obliquamente  diretto  in  avanti  e  medialmente  (Fig.  12),  oppure  orizzontal- 
mente in  addietro  e  medialmente  (per  i  fori  prezigomatici  inferiori).  In  ogni  caso  il 
tragitto  del  canale  è  relativamente  assai  breve  e  l'apertura  endocranica  è  posta  o 
in  prossimità  del  margine  sfenoidale  della  squama,  oppure  di  poco  più  in  addietro,  ma 
costantemente  ad  una  certa  distanza  dal  solco  petrosquamoso  (Figg.  9,  15, 18).  L'aper- 
tura endocranica  è  abitualmente  al  fondo  di  una  docciatura  ossea,  la  quale  con  dire- 
zione diversa  giunge  per  lo  più  al  foro  sfenospinoso,  oppure  alla  porzione  anteriore 
del  solco  petrosquamoso  ;  parrebbe  cioè  che  le  vene  emissarie  decorrenti  in  tali  ca- 
nali non  servano  al  deflusso  del  sangue  contenuto  nel  seno  petrosquamoso  che  in- 
direttamente, potendo  essere  con  questo  riunite  per  diramazioni  secondarie,  che  lasciano 
egualmente  traccie  all'endocranio,  ovvero  per  mezzo  di  una  diramazione  delle  vene 
meningee  medie. 

Dalla  precedente  rassegna  risulta  quindi  che  i  forami  emissari  da  noi  studiati 


188  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMiDA  :>0 

si  aprono  esternamente  colla  massima  frequenza  al  di  sotto  della  linea  temporale 
come  forami  emissari  sottozigomatici  (81,88  °/0  dei  casi),  appunto  come  già  la  mag- 
gioranza degli  AA.,  molti  dei  quali  ritennero  solo  questi  come  emissari,  hanno  de- 
scritto. Per  ordine  di  frequenza  vengono  dopo  gli  emissari  soprazigomatici  (15,94  °/0 
dei  casi),  e  finalmente  i  prezigomatici  (2,15  °  ,,  dei  casi).  Noi  abbiamo  visto  inoltre 
come  l'ampiezza  cresca  in  complesso  inversamente  alla  frequenza.  Di  più,  mentre  gli 
emissari  sottozigomatici,  per  lo  meno  nella  grande  loro  maggioranza,  come  pure  gli 
emissari  soprazigomatici  posteriori  si  possono  in  realtà  ritenere  per  il  decorso  del 
canale,  o  per  lo  meno  per  la  posizione  della  loro  apertura  endocranica,  come  emissari 
■pel rompiamosi,  buon  numero  dei  soprazigomatici  anteriori  e  tutti  quelli  prezigomatici  si 
debbono  invece  ritenere  per  il  loro  decorso  esclusivamente  come   emissari  squamosi. 

Per  quanto  riguarda  l'apertura  endocranica,  qualunque  ne  sia  il  calibro  e  la 
posizione  nel  solco  petrosquamoso  più  o  meno  marcato,  oppure  indipendente  da  detto 
solco,  essa  assume  le  forme  più  diverse;  e  cioè  può  essere  circolare,  imbutiforme, 
ovalare,  in  forma  di  fessura:  spesso,  in  ispecie  nei  casi  in  cui  il  canale  ha  un  de- 
corso molto  obliquo,  il  forame  che  ne  rappresenta  lo  sbocco  endocranico  può  essere 
mascherato  (Fig.  9)  da  sporgenze  dentellate  o  variamente  foggiate  delle  labbra  del- 
l'eventuale solco  petrosquamoso,  rappresentate  dal  tavolato  interno  dello  squamoso 
e  dal  margine  anteriore  del  petroso,  in  guisa  che  una  setola  introdotta  in  detti  ca- 
nali può  incontrare  difficoltà,  anche  se  questi  sono  molto  ampi,  ad  entrare  nella 
cavità  craniana.  Il  calibro  di  questa  apertura  è  in  generale  corrispondente  a  quello 
della  apertura  esterna;  altra  volta  invece  può  essere  leggermente  più  ampio:  tuttavia 
nella  massima  parte  dei  casi  in  cui  sia  rilevabile  una  differenza,  essa  è  a  favore  del- 
l'apertura esocranica.  In  complesso  ancora  i  canali,  per  lo  meno  nei  casi  più  classici 
delle  varie  categorie,  sono  diretti  dall'esterno  all'interno  e  dorsalmente,  presso  a 
poco  cioè  nella  direzione  della  corrente  sanguigna  nel  seno  petrososquamoso,  che  si 
può  ritenere  come  la  porzione  ventrale  della  branca  orizzontale  del  seno  laterale. 

Relativamente  alla  occorrenza  degli  emissari  temporali  per  rispetto  ai  due  lati 
del  cranio,  noi  non  abbiamo  notato  nelle  nostre  osservazioni  una  preferenza  granché 
spiccata  per  un  lato  piuttosto  che  per  l'altro:  tuttavia  ci  è  parso  che  i  detti  canali 
fossero  leggermente  più  frequenti  dal  lato  sinistro  (poco  più  di  metà  nei  casi  di 
emissario  unilaterale):  per  contro  abbiamo  notato,  e  questo  è  ovvio  trattandosi  di 
canali  venosi  da  ritenersi,  anche  quando  sono  presenti,  come  anormali,  che  difficilmente 
si  può  riscontrare  dai  due  lati  una  disposizione  perfettamente  simmetrica.  Prima  di 
tutto,  come  vedremo  tosto,  è  assai  più  frequente  la  presenza  unilaterale  di  questi 
canali  che  non  quella  bilaterale  ;  nei  casi  poi  in  cui  vi  ha  questa  seconda  evenienza 
è  estremamente  difficile  riscontrare  a  destra  e  a  sinistra  una  posizione  perfettamente 
identica  delle  aperture  esocraniche  come  un  calibro  uguale:  e  cioè,  da  un  lato  si 
può  benissimo  riscontrare  un  canale  emissario  di  una  data  categoria,  mentre  dal  lato 
opposto  questo  o  manca  oppure  presenta  un'apertura  esocranica  appena  percettibile, 
oppure  ancora  questa  può  essere  situata  in  una  regione  differente  della  squama  ed 
il  canale  avere  quindi  un  calibro  e  una  direzione  differenti. 

I  canali  delle  differenti  categorie  possono  occorrere  anche  dal  medesimo  lato 
del  cranio  (Figg.  1,  3,  8):  e  cioè  noi  possiamo,  ad  es.,  avere  dal  medesimo  lato  un  emis- 
sario soprazigomatico  anteriore  o    posteriore  ed  un  forame    sottozigomatico  laterale 


31  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  189 

o  mediale,  oppure  assieme  ad  un  canale  sottozigomatico  o  ad  uno  soprazigomatico 
un  altro  prezigomatico.  Ci  è  occorso  eziandio  ripetutamente  di  riscontrare  due  canali 
della  stessa  categoria  e  dal  medesimo  lato  del  cranio,  con  differenze  solo  affatto  secon- 
darie nel  punto  del  loro  sbocco  esocranico  (Figg.  2,  12). 

I  casi  di  forami  emissari  multipli  dal  medesimo  lato  sono  tuttavia  molto  rari, 
in  guisa  che  nelle  nostre  osservazioni,  su  414  temporali  con  emissari,  abbiamo  ri- 
scontrata tale  molteplicità  solo  in  1S  casi,  e  cioè  nel  0,72  °/0  dei  temporali,  nel 
4,34  °/0  dei  casi  di  emissari  :  la  rarità  di  questo  reperto  risulta  anche  chiaramente 
dall'esame  della  letteratura  dell'argomento. 

Quando  occorrono  dal  medesimo  lato  due  emissari  della  medesima  categoria 
oppure  di  categorie  differenti,  essi  possono  essere:  1°  nel  loro  decorso,  come  nella 
loro  apertura  endo-  ed  esocranica,  perfettamente  indipendenti  uno  dall'altro  (Figg.  1, 
8,  9,  11,  12);  2°  oppure  dal  solco  petrosquamoso  o  dall'angolo  diedro  che  lo  rap- 
presenta si  originano  a  distanza  varia  uno  dall'altro  due  canali,  i  quali  convergono 
per  sboccare  all'esterno  con  una  apertura  unica  (Fig.  10);  3°  inversamente  accade 
talvolta  che  due  canali,  aperti  separatamente  all'esocranio  (Figg.  3,  4),  confluiscano  nel 
medesimo  sbocco  all'  interlinea  petrosquamoso.  Sempre  nei  casi  di  duplicità  accom- 
pagnati da  un  solco  petrosquamoso  molto  pronunciato,  trasformato  parzialmente  e 
per  un  tratto  più  o  meno  lungo  in  canale  dalle  spicole  ossee  da  noi  ricordate,  può 
occorrere  di  introdurre,  ad  es.,  una  setola  in  un  forame  soprazigomatico  e  di  vederla 
fuoriescire  all'esocranio  dall'apertura  di  un  altro  emissario  sottozigomatico  (Fig.  1), 
reperto  questo  che  riproduce  esattamente  quanto  è  facile  constatare  in  crani  di  Mam- 
miferi, in  cui  è  normale  la  molteplicità  degli  emissari  squamosi. 

Per  quanto  si  riferisce  al  calibro  dei  singoli  canali  emissari,  già  con  la  conoscenza 
del  loro  significato  morfologico  si  può  capire  a  priori  come  sia  enormemente  variabile. 
Noi  abbiamo  ritenuto  come  tali  anche  dei  forami  minutissimi,  non  sempre  permeabili 
per  tutto  il  loro  decorso  anche  alle  più  fini  delle  setole,  quando  per  la  ubicazione 
delle  aperture  endo-  ed  esocraniche  non  poteva  esistere  alcun  dubbio  sul  loro  signi- 
ficato. L'impedimento  al  passaggio  di  setole  anche  finissime,  può  spiegarsi  assai  bene 
o  per  un  cambiamento  brusco  nella  direzione  del  canale,  o  per  occlusione  dovuta  ad 
una  incompleta  macerazione,  od  anche  perchè  realmente  il  canale  possa  essersi  chiuso 
alla  sua  parte  intermedia.  Per  la  diagnosi  di  canali  emissari,  mancando  il  criterio  del 
passaggio  di  una  setola,  noi  siamo  ricorsi  parecchie  volte  con  successo  ad  iniezioni 
di  liquidi  colorati.  Si  devono  già  ritenere  come  abbastanza  ampi  i  canali  che  misu- 
rano 1  mm.  di  diametro  nella  loro  apertura  esocranica,  e  ciò  specialmente  per  quelli 
sottozigomatici  concomitantemente  ai  quali  occorra  un  eventuale  conus  articularis. 
Sull'influenza  di  tale  processo,  il  quale  si  sviluppa  col  progredire  dell'età,  mancando 
come  formazione  completamente  sviluppata  negli  individui  giovani,  sulla  ubicazione 
e  sul  calibro  dei  canali  sottozigomatici,  noi  abbiamo  già  parlato  trattando  di  questi 
ultimi. 

Aggiungiamo  qui  che,  come  abbiamo  avvertito  di  già  per  l'Uomo,  anche  in  altri 
animali  e  specialmente  nelle  Scimmie  è  evidente  il  restringimento  relativo  degli  emis- 
sari sottozigomatici,  o  per  lo  meno  l'affondamento  della  loro  apertura  esocranica  fra 
il  tegmen  tympani  e  la  faccia  posteriore  di  tale  processo  col  progredire  dell'età,  in 
guisa  che  esso  può  riuscire  meno  evidente  ad  un  esame  rapido.  Nella  nostra  specie 


190  ALFONSO    BOVERO    UMBERTO    CALAJIIDA  32 

la  presenza  sia  pure  eventuale  di  un  conus  articularis,  spiega  perchè  sia  stato  affermato 
da  taluni  AA.,  che  i  forami  emissari  squamosi  (foramen  jugulare  spurium  di  Luschka) 
occorrono  più  frequentemente  nel  bambino  che  non  nell'adulto.  Noi  non  potremmo 
sottoscrivere  a  tale  opinione,  se  non  perciò  che  si  riferisce  al  calibro  di  detti  emis- 
sari, il  quale  senza  dubbio  è,  relativamente,  nei  singoli  casi  più  ampio  nella  giovane 
età.  Ammettiamo  tuttavia  che  lo  sviluppo  progressivo  di  un  tuberculum  articulare 
posterius  possa  favorire  la  occlusione  di  un  eventuale  emissario  e  ciò  perchè,  oltre- 
passata una  certa  età,  da  15  a  20  anni,  la  presenza  percentuale  ed  il  calibro 
degli  emissari  temporali  non  mutano  sensibilmente  anche  esaminando  serie  di  crani 
di  età  molto  diverse.  La  concordanza  nella  frequenza  degli  emissari  squamosi  nel 
bambino  e  nell'adulto  si  verifica  poi  chiaramente,  ad  esempio,  per  gli  emissari  sopra- 
zigomatici, i  quali  compaiono  con  uguale  percentuale  nell'uno  e  nell'altro.  Ad  ogni 
modo  alle  lievi  diversità  nella  occorrenza  percentuale  dei  forami  emissari  sottozigo- 
matìei  nel  bambino  e  nell'adulto,  anche  perchè  queste  diversità  non  si  verificano  per 
i  soprazigomatici  (tralasciamo  i  prezigomatici  perchè  in  numero  troppo  scarso)  si 
deve  dare  un  significato  diverso  da  quello  che  vorrebbero  gli  AA.,  che  ritengono  la 
presunta  maggiore  frequenza  nel  bambino  come  una  prova  della  importanza  ontoge- 
netica che  avrebbe  l'eventuale  emissario,  come  espressione  di  un  comportamento  pri- 
mitivo della  circolazione  venosa;  noi  per  l'esame  anatomo-comparativo,  come  per  i 
caratteri  assunti  dai  forami  sottozigomatici,  nei  casi  di  mancanza  del  conus  articu- 
laris, crediamo  invece  che  tale  differenza,  quando  non  sia  solo  apparente,  sia  rife- 
ribile al  conus  articularis  stesso. 

Per  ciò  che  si  riferisce  ancora  all'età,  aggiungiamo  finalmente  come  siano  occorsi 
alla  nostra  osservazione  dei  forami  emissari,  relativamente  ampi  delle  varie  cate- 
gorie anche  in  età  molto  avanzata  (104  anni). 

Per  quanto  riguarda  i  reperti  statistici,  tenuto  calcolo  delle  osservazioni  fatte 
relativamente  al  calibro,  su  2472  temporali  esaminati  noi  non  abbiamo  trovato  traccia 
alcuna  di  emissari  in  2058,  cioè  nell'83,25  °/0.  Esistevano  invece  canali  emissari  delle 
varie  categorie  in  414,  vale  a  dire  nel  16,74  °/0:  di  questi  casi  339  (81,88%)  appar- 
tengono ai  sottozigomatici,  66  (15,94  °/0)  ai  soprazigomatici,  9  (2,17  °/0)  ai  prezigomatici. 
Fra  i  1176  crani  esisteva  un  emissario  da  un  solo  lato  in  196,  cioè  nel  16,66  "  0 
dei  crani  ;  di  questi  casi,  103  appartenevano  al  lato  sinistro,  93  invece  appartenevano 
al  lato  destro  (7,90  °/0  a  D,  8,75  °/0  a  S):  vi  ha  quindi  una  leggera  preponderanza  nella 
frequenza  dal  lato  sinistro  (52,55  °/0)  di  fronte  a  quelli  osservati  a  destra  (47,44  % 
dei  casi  di  emissari  unilaterali).  Gli  emissari  invece  erano  bilaterali  in  95  crani 
(8,07  °/0  dei  crani). 

Su  120  temporali  isolati  noi  abbiamo  riscontrati  i  canali  emissari  in  28  casi; 
dobbiamo  però  osservare  che  i  120  temporali  staccati  appartengono  ad  una  serie 
selezionata  per  altri  studi,  quindi  le  cifre  percentuali  sono  indubbiamente  superiori 
a  quelle  che  dovrebbero  essere  per  gran  parte  della  serie,  non  avendone  noi  a 
tempo  opportuno  tenuto  un  calcolo  sufficientemente  esatto  :  considerando  tuttavia  i 
28  casi  come  unilaterali,  aggiungendoli  ai  196  della  serie  dei  crani  studiati  (224)  e 
facendo  il  computo  percentuale  della  occorrenza  degli  emissari  col  numero  dei  tem- 
porali, risulta  che  essi  sono  complessivamente  unilaterali  nel  9,14  °/0  dei  temporali. 

Nel  computo    percentuale    dei   casi  delle  varie  categorie  quale    abbiamo    sopra 


33  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  191 

riportato,  abbiamo  ritenuti  i  temporali  con  emissari  doppi  come  appartenenti  alla 
categoria  alla  quale  si  potevano  ascrivere  per  il  canale  emissario  di  calibro  maggiore. 

Esaminiamo  ora  un  po'  più  particolarmente  i  rapporti  eventuali  fra  i  canali 
emissari  e  le  traccie  lasciate  sull'endocranio  dai  vasi  che  collegano  la  circolazione 
venosa  della  fossa  media  con  quella  della  fossa  cranica  posteriore. 

I  caratteri  del  solco  per  il  seno  petrosquamoso,  i  rapporti  che  esso  contrae 
dorsalmente  colla  docciatura  per  il  seno  sigmoide,  ventralmente  col  forameli  spinosum, 
sono  cos'i  noti  ed  esattamente  descritti  da  molti  AA.  (Verga,  Luschka,  Lowenstein, 
Cheatle),  che  noi  ci  dispensiamo  dal  ripeterne  ora  una  descrizione  minuta.  Diremo 
solamente  che  la  esistenza  del  seno  venoso  non  è  assolutamente  legata  alla  esistenza 
di  un  solco  lungo  la  linea  di  riunione  primitiva  tra  il  petroso  e  lo  squamoso.  Diffatti 
mentre  il  seno  petrosquamoso  esiste  quasi  costantemente,  con  diverse  gradazioni  di 
sviluppo,  ed  anche  eventualmente  connesso  in  avanti  con  le  vene  meningee  medie, 
il  solco  per  accoglierlo  rappresenta  tutt'altro  che  la  disposizione  più  frequente:  e 
cioè  può  decorrere  lungo  la  primitiva  sutura  petrosquamosa  un  evidentissimo  ed 
ampio  seno  omonimo,  facilmente  rilevabile  nel  cadavere  mediante  iniezioni  speciali, 
oppure  semplicemente  perchè  ripieno  di  sangue,  senza  che  si  debba  necessariamente 
riscontrare,  distaccando  la  dura  madre,  una  solcatura  ossea  speciale  per  accoglierlo. 
Così  pure  noi  abbiamo  visto  talvolta  l'apertura  endocranica  di  un  emissario  della  la  o 
della  2a  categoria,  e  specialmente  negli  individui  giovani,  ma  talvolta  anche  in  età 
avanzata,  situata  in  corrispondenza  della  primitiva  sutura  squamosopetrosa,  senza 
che  perciò  si  riscontrasse  contemporaneamente  un  solco,  il  quale  invece  può  compa- 
rire anche  indipendentemente  da  un  eventuale  emissario.  Ciò  vale  tuttavia  in  gene- 
rale solo  per  forami  emissari  di  piccolo  calibro  e  naturalmente  non  per  tutti  :  Invece 
noi  abbiamo  trovati  quasi  costantemente  nell'adulto  delle  traccie  più  o  meno  pro- 
nunciate del  solco  petrosquamoso,  ogni  qualvolta  il  calibro  dei  canali  emissari 
(sottozigomatici  e  soprazigomatici  posteriori)  era  di  una  notevole  ampiezza  (1  min.). 
Quando  le  labbra  d'un  eventuale  solco  petrososquamoso ,  delle  quali  quella  laterale 
appartiene  al  tavolato  interno  dello  squamoso,  quella  mediale  al  margine  anteriore 
del  petroso,  sono  fornite  di  sporgenze  a  dentelli,  di  spicole  ossee  fra  loro  confluenti, 
possiamo  riscontrare,  invece  di  un  semplice  solco,  dei  tratti  più  o  meno  lunghi,  anche 
molteplici,  di  un  canale  osseo  (Figg.  4,  9  et,  sps),  il  quale  era  destinato  ad  accogliere  il 
seno  corrispondente.  La  trasformazione  in  canale  è  tanto  più  evidente  ed  occorre  con 
tanta  maggiore  frequenza,  quanto  più  noi  esaminiamo  una  porzione  dorsale  del  solco 
petrosquamoso:  quando  la  porzione  di  tale  solco  prossimo  allo  spigolo  superiore  della 
piramide  temporale  si  trasforma  in  canale,  noi  abbiamo  allora  il  così  detto  acquedotto 
temporale  o  canale  di  comunicazione  descritto  primieramente  da  Verga.  Questa  dispo- 
sizione, contrariamente  a  quanto  avrebbe  notato  Lowenstein,  che  dice  di  non  averla 
riscontrata  in  118  crani,  a  noi  è  occorsa  molto  frequentemente. 

Difatti  in  772  crani  segati  noi  abbiamo  trovate  delle  traccie  più  o  meno  evi- 
denti del  solco  per  il  seno  petrosquamoso  in  222  (33,03  %):  esse  mancavano  invece 
completamente  in  450  (66,96  %);  il  solco  petrosquamoso  con  sviluppo  di  tutte  le 
gradazioni  esisteva  bilateralmente  in  149  crani,  solo  a  destra  in  28,  solo  a  sinistra 
in  45.  Per  quanto  naturalmente  il  criterio  per  giudicare  della  esistenza  o  mancanza 
di  tale  solcatura  non  possa  essere  sempre  puramente  obbiettivo,  pure  è  interessali- 


192  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA 


34 


fcissimo  ricordare  come  in  una  serie  piccola  per  numero,  ma  invece  molto  importante 
per  qualità  di  materiale,  di  microcefali,  su  30  crani  siasi  riscontrato  il  solco  petro- 
squamoso  per  lo  più  nettamente  marcato  in  18  casi  (60  %  dei  casi)  e  cioè  in  13 
bilateralmente,  in  1  caso  solo  a  destra,  in  4  solamente  a  sinistra.  La  sproporzione 
fra  il  comportamento  del  solco  petrosquamoso  nei  crani  di  individui  normali  adulti 
e,  rispettivamente,  nei  crani  di  microcefali  in  massima  parte  giovani  (da  4  a  30  anni) 
è  troppo  forte  perchè  non  debba  essere  rilevata:  aggiungiamo  tuttavia  che  in  questi 
ultimi  gli  emissari  petrosquamosi  non  occorrono  più  frequentemente  che  nei  primi, 
e  ciò  pur  tenendo  calcolo  della  età  relativamente  giovane  dei  soggetti. 

La  copertura  più  o  meno  estesa  del  solco  petrosquamoso  nella  sua  porzione 
posteriore,  facendo  cioè  astrazione  dei  piccoli  ponticelli  ossei,  dipendenza  dello  squa- 
moso oppure  del  petroso,  posti  nella  parte  anteriore  del  solco  predetto,  la  esistenza 
cioè  di  un  canale  di  Verga  più  o  meno  lungo,  più  o  meno  ampio  e  regolare,  scavato 
apparentemente  all'estremità  laterale  dello  spigolo  superiore  della  rocca,  continuan- 
tesi  in  avanti  col  solco  petrosquamoso,  aprentesi  in  addietro  colla  parte  alta  della 
docciatura  per  il  seno  sigmoide,  venne  da  noi  constatata,  fra  i  672  crani  aperti  in 
93  casi,  vale  a  dire  complessivamente  nel  13,83%  dei  crani:  il  canale  di  Verga  è 
bilaterale  in  36  (5,35  %  dei  crani):  esiste  solo  a  destra  in  25  (3,72  %),  solo  a  sinistra 
in  32  (4,76%):  complessivamente  cioè  è  unilaterale  nell'8,48  %.  Non  ostante  la  spro- 
porzione accennata  fra  i  crani  di  microcefali  e  quelli  di  normali  per  il  solco  petrosqua- 
moso, la  proporzione  della  occorrenza  del  canale  di  Verga  nei  microcefali  è  affatto 
analoga  (13,33%)  a  quella  degli  altri. 

Dobbiamo  notare  come  è  possibile  l'esistenza  di  un  canale  di  Verga,  natural- 
mente senza  che  vi  siano  traccie  di  canali  emissari  squamosi  o  petrosquamosi:  come 
pure  non  raramente  ci  è  occorso  osservare  anche  bilateralmente  un  canale  di  Verga 
molto  ampio,  senza  che  la  porzione  del  seno  petrosquamoso  posta  ventralmente  alla 
apertura  anteriore  del  canale  stesso  abbia  lasciato  delle  traccie  in  forma  di  solca- 
tura rilevabile.  Non  è  qui  luogo  di  aggiungere  alcunché  alle  esattissime  descrizioni 
date  da  Verga  e  da  Cheatle  per  tale  formazione,  quali  noi  abbiamo  riportate  nella 
rassegna  della  letteratura;  ne  ricordiamo  però  l'importanza  morfologica  già  accen- 
nata specificamente  da  Legge,  come  riproduzione  chiara,  per  quanto  per  lo  più  in- 
completa, del  canale  temporale  esistente  in  molti  ordini  di  Mammiferi. 

La  correlazione  fra  il  canale  temporale  dei  Mammiferi  ed  il  canale  di  Verga 
acquista  tanto  maggiore  certezza  quando,  come  a  noi  è  occorso  di  rilevare  ripetu- 
tamente, esso  più  che  un  canale  esclusivamente  temporale  è  un  vero  canale  tempora- 
'parietale  appunto  come  avviene  in  molti  Mammiferi.  In  parecchi  dei  casi  da  noi 
esaminati,  nei  quali  la  incisura  squamosomastoidea  del  temporale  è  molto  pronun- 
ciata e  viene  riempita  come  d'ordinario  dall'angolo  mastoideo  del  parietale,  si  nota 
che  il  canale  di  Verga  è  delimitato  nella  sua  porzione  anteriore,  come  di  ordinario, 
da  una  parte  dalla  squama  temporale,  dall'altra  dalla  piramide;  nella  sua  porzione 
posteriore  invece  medialmente  è  chiuso  dal  margine  superiore  della  base  della  pira- 
mide temporale,  lateralmente  da  una  laminetta  ossea  dipendenza  del  tavolato  interno 
àell'angulus  mastoideus  del  parietale.  Evidentemente  noi  abbiamo  in  questi  casi,  com- 
plessivamente però  molto  rari,  una  disposizione  perfettamente  identica  a  quanto  è 
normale  in  altri  Mammiferi,  nei  quali  il  così  detto  canale  temporale  o  meglio  tempero- 


35  i  ANALI    VENOSI     IMMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETEOSQUAMOSI  193 

parietale  è  costituito,  almeno  per  una  parte  del  suo  decorso,  da  due  semidoccie  vòlto 
l'una  vei'so  l'altra,  di  cui  una  scavata  a  spese  del  margine  squamoso  del  parietale, 
l'altra  corrispondente  alla  sutura  petrosquamosa  ed,  in  addietro,  alla  base  dell'osso 
petroso.  Può  avvenire  eziandio  che,  V augnili*  mastoideus  del  parietale  essendo  sosti- 
tuito da  uno  o  più  ossicina  fontanellari  (asteriche  o  preasteriche),  l'eventuale  canale 
di  Verga  decorra,  come  a  noi  occorse  tre  volte  osservare  (2  a  D  ed  1  a  S),  nello  spes- 
sore dei  tavolati  delle  ossicina  stesse  e  si  apra  come  di  consueto  nella  parte  alta 
della  docciatura  per  il  seno  sigmoide,  oppure  anche  all'esterno  analogamente  a  quanto 
vedremo  tosto.  In  condizioni  normali  però  il  canale  di  Verga  del  cranio  umano  decorre 
realmente  solo  attraverso  all'osso  temporale,  la  sutura  fra  l'angolo  mastoideo  del 
parietale  e  le  parti  contigue  dell'  osso  squamoso  comparendo  all'endocranio  ad  un 
livello  superiore  al  canale  stesso. 

Su  un'altra  particolarità  eccezionale  di  decorso  del  canale  di  Verga  noi  vogliamo 
ora  richiamare  l'attenzione.  In  3  crani  di  individui  adulti,  in  2  dal  solo  lato  destro, 
in  1  a  sinistra,  il  canale  di  Verga  molto  ampio,  invece  di  sboccare  alla  parte 
alta  del  seno  sigmoide,  si  mantiene  da  questo  affatto  indipendente,  continua  il  suo 
decorso  in  direzione  dorsale,  si  immette  fra  i  due  tavolati  dell'angolo  mastoideo  del 
parietale  e  si  apre  all'  esterno  in  corrispondenza  della  faccia  esocranica  dell'  angolo 
mastoideo  stesso;  anche  in  detti  casi  noi  abbiamo  cioè  un  canale  temporoparie- 
tale,  il  cui  significato  tuttavia  è  diverso  da  quello  sopraccennato,  in  quanto  ripro- 
duce esattamente  il  reperto  che  si  può  avere  in  parecchi  Mammiferi  (Artiodattili, 
Perissodattili),  nei  quali  alla  parte  posteriore  della  faccia  esterna  dello  squamoso  e 
alla  porzione  inferiore  della  stessa  faccia  del  parietale  possono  occorrere  dei  piccoli 
forami,  dai  quali  partono  canali  comunicanti  internamente  col  canale  temporale  pro- 
priamente detto  (foramina  postsquamosa,  postparietalia  di  Cope).  Nei  tre  casi  sovrac- 
cennati in  cui  esisteva  il  forame  anomalo,  che  si  potrebbe  chiamare  emissario  parietale 
inferiore,  come  pure  in  2  casi  in  cui,  l'angolo  mastoideo  essendo  sostituito  da  ossicina 
fontanellari,  il  canale  di  Verga  si  apre  nella  sutura  fra  1'  ossicino  posteriore  e  la 
squama  occipitale,  sono  tuttavia  presenti,  per  quanto  un  po'  ristretti,  i  forami  emissari 
mastoidei  corrispondenti.  In  un  cranio  di  donna,  di  anni  33  (Collez.  Criminali,  n"  2!)."., 
assassina),  dal  lato  destro  il  canale  di  Verga  si  comporta  come  abbiamo  accennato 
ora,  e  da  questo  lato  si  aprono  nella  sutura  occipitomastoidea  due  ampi  emissari 
mastoidei:  a  sinistra  invece  il  canale  di  Verga,  molto  esile,  sì  da  dar  passaggio  appena 
ad  una  fina  setola,  si  apre  all'esterno  nella  porzione  mastoidea  del  temporale,  imme- 
diatamente al  di  sotto  dell'angolo  formato  dal  margine  posteriore  della  pars  squamosa 
col  margine  supcriore  della  pars  mastoidea.  Un  comportamento  analogo  a  quello  riscon- 
trato a  sinistra  nel  caso  precedente  noi  abbiamo  riscontrato  a  destra  nel  cranio  di  una 
bambina  di  11  anni  (Collez.  Normali,  n°  23:  anni  11),  da  questo  lato  però  mancava 
ogni  traccia  di  altro  emissario  mastoideo.  È  curioso  notare  come  in  quest'ultimo  caso 
fosse  bilateralmente  presente  un  ampio  canale  emissario  temporale  soprazigomatico  ante- 
riore e  all'endocranio  un  solco  petrosquamoso  ben  evidente,  in  guisa  che  con  opportune 
manovre,  una  setola  introdotta  dall'emissario  soprazigomatico  poteva  essere  condotta 
prima  nel  solco  petrosquamoso,  poi  nel  canale  di  Verga  ed  infine  fuoriescire  ancora 
per  mezzo  del  foro  del  processo  mastoideo,  senza  che  si  potessero  dimostrare  comu- 
nicazioni col  seno  sigmoideo. 
Serie  II.  Tom.  LUI. 


1!(4  ALFONSO    130VERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  36 

Tutte  le  disposizioni  sovraccennate  presentano  un  intei'esse  morfologico  non 
dubbio  in  quanto,  come  vedremo,  non  sono  che  l'esatto  ritorno  a  disposizioni  facili 
a  riscontrarsi  in  parecchi  ordini  di  Mammiferi. 

Relativamente  alla  ipotesi  di  Labbé  (37)  che,  nei  casi  di  mancanza  del  foro 
mastoideo,  potesse  esistere  un  forame  temporale  molto  sviluppato,  noi  possiamo  asse- 
rire che  non  esiste  alcun  rapporto  costante  fra  l'una  e  l'altra  forma,  poiché  nella 
massima  parte  dei  414  casi  di  emissari  squamosi  e  petrosquamosi  da  noi  riscon- 
trati in  crani  completi,  quasi  costantemente  vi  ha  pure  e  dal  medesimo  lato  un 
emissario  mastoideo,  nel  cui  calibro  però  occorrono  le  variazioni  solite  negli  altri 
casi.  Anzi  in  parecchi  dei  casi  da  noi  esaminati,  in  cui  manca  da  un  lato  un  emis- 
sario mastoideo  visibile,  è  deficiente  pure  dal  medesimo  lato  ogni  traccia  di  emissario 
squamoso  o  petrosquamoso,  mentre  eventualmente,  dal  lato  opposto,  in  parecchi  rasi 
esistono  ben  sviluppati  entrambi  :  non  vi  ha  cioè  tra  le  due  formazioni  alcuna  cor- 
relazione evidente. 

Similmente  noi  non  abbiamo  verificato  mai,  anche  nei  casi  in  cui  il  calibro  degli 
emissari  è  molto  ampio,  un  rapporto  qualsiasi  fra  l'ampiezza  del  foro  giugulare  e 
l'eventuale  emissario  :  la  medesima  asserzione  possiamo  ripetere  relativamente  all'am- 
piezza dei  fori  sfenospinoso ,  grande  rotondo  ed  ovale,  attraverso  i  quali  si  scarica 
pure,  in  condizioni  normali,  una  certa  quantità  di  sangue  dall'interno  del  cranio. 
Noi  riteniamo  tuttavia  più  probabile  che  nella  fattispecie,  anche  se  non  se  ne  pos- 
sano trovare  traccie  nel  calibro  dei  fori  predetti,  data  l'ampiezza  rilevante  colla 
quale  compaiono  abitualmente,  nei  pochi  casi  osservati,  gli  emissari  prezigomatici 
come  talune  forme  di  sottozigomatici,  la  quantità  del  sangue  decorrente  nelle  vene 
che  accompagnano  la  seconda  e  la  terza  branca  del  trigemino,  le  quali  hanno  tanta 
importanza  nella  ontogenesi,  come  nelle  vene  satelliti  dell'arteria  meningea  media, 
possa  eventualmente  essere  diminuita  per  la  presenza  degli  emissari  squamosi:  in- 
vece ci  spieghiamo  assai  bene  come  per  il  calibro  sempre  relativamente  minimo 
degli  emissari  soprazigomatici  e  della  maggior  parte  dei  sottozigomatici  non  sia  rile- 
vabile mai  un'eventuale  diminuzione  del  calibro  del  forameli  jugulare,  il  cui  calibro, 
anche  quando  vi  hanno  emissari  zigomatici  (sottozigomatici  e  soprazigomatici),  non 
si  mostra  specificatamente  diminuito  dal  lato  in  cui  esiste  l'emissario  squamoso. 


Relativamente  al  seno  petrosquamoso  abbiamo  veduto  come  Cheatle  (S)  an- 
netta al  seno  stesso  una  grande  importanza  anatomo-patologica  per  la  possibilità 
di  trasmissione  di  processi  settici  dalla  cavità  dell'  orecchio  medio  al  detto  seno, 
con  possibile  diffusione  conseguente  del  medesimo  processo  al  seno  laterale  ed  alla 
pia  meninge  del  lobo  temporoparietale.  Il  Cheatle  corrobora  le  sue  osservazioni 
anatomiche  con  reperti  anatomo-patologici,  mediante  i  quali  dimostra  che  la  via  di 
diffusione  è  data  appunto  da  piccole  venuzze,  che  attraversano  dalla  cavità  del  tim- 
pano il  fondo  della  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso  costituente  parte  del  tetto 
della  cavità  medesima,  per  isboccare  nel  seno.  L'esistenza  di  tali  venuzze  è  appunto, 
come  afferma  Cheatle,  affatto  costante,  facilmente  dimostrabile  distaccando  la  dura 


31  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  195 

madre,  per  cui  il  fondo  dell'  eventuale  docciatura  petrosquamosa  corrispondente  al 
tegmen  tympani  può  presentare  uno  o  parecchi  minutissimi  forellini  di  calibro  vario, 
difficilmente  però  sondabili,  i  quali  danno  appunto  passaggio  alle  venuzze  predette 
tributarie  del  seno  petrosquamoso ,  come  anche  a  fini  rami  anteriori  dipendenza 
della  branca  posteriore  della  arteria  meningea  media  [Giannelli  (19)  |  e  destinati 
alla  mucosa  della  cavità  timpanica.  Nei  cadaveri  in  cui  concomitantemente  ad 
una  affezione  auricolare  purulenta  si  trova  una  meningite  basilare  ed  una  trombosi 
limitata  esclusivamente  al  seno  petrosquamoso,  col  seno  laterale  integro,  è  più  che 
naturale  pensare  che  il  processo  infettivo  si  sia  fatto  strada  direttamente  per  i  vasi 
sanguigni  attraversanti  il  tegmen,  allo  stesso  modo  che,  per  un'eventuale  deiscenza 
della  parete  esterna  del  golfo  della  vena  giugulare  interna,  in  rapporto  della  por- 
zione posteriorinferiore  della  parete  interna  della  cavità  del  timpano  oppure  uno 
spessore  assolutamente  minimo  di  tale  parete,  spiegano  la  diffusione  con  relativa 
trombosi  direttamente  alla  parte  alta  della  giugulare  ed  al  seno  sigmoide. 

Anche  gli  emissari  squamosi  potrebbero,  a  nostro  avviso,  assumere  una  certa 
importanza  clinica  ed  anato mo-patologica  :  per  quanto  a  noi  manchi  tuttora  una 
prova  obbiettiva  convincente,  trattandosi  tanto  più  di  formazioni  anomale,  è  ammis- 
sibile che,  dato,  ad  esempio,  lo  sviluppo  di  un  flemone  profondo  o  di  ascessi  nella 
parte  alta  della  regione  parotidea,  oppure  anche  di  talune  forme  pericondrali  di 
ascessi  del  condotto  ed  un  eventuale  canale  emissario  sottozigomatico  che  può,  come 
abbiamo  visto,  avere  talvolta  un  calibro  di  2-3-4  mm.,  la  venuzza  che  vi  decorre, 
direttamente,  o  indirettamente  colle  vie  linfatiche  che  accompagnano  costantemente 
tali  vene,  possa  rappresentare  la  possibile,  se  non  sempre  facile,  via  di  trasmissione 
del  processo  settico  all'endocranio.  A  noi  fanno  difetto  sinora  osservazioni  sia  cli- 
niche che  anatomo-patologiche  dalle  quali  si  possa  trarre  un'affermazione  perentoria; 
enunciamo  tuttavia  la  detta  ipotesi,  che  non  pare  a  noi  certo  illogica. 


Abbiamo  tralasciato  dalla  nostra  descrizione  molte  particolarità  non  direttamente 
attinenti  all'argomento  che  ci  interessa,  limitandoci  esclusivamente  allo  studio  dei 
canali  venosi  emissari.  Come  tali  naturalmente  noi  non  consideriamo  parecchi  casi 
di  forami  occorrenti  in  punti  differenti  della  squama  e  dovuti  ad  usura,  a  riassor- 
bimento dei  tavolati  interno  ed  esterno  della  squama  stessa,  in  guisa  da  risultarne 
delle  comunicazioni  più  o  meno  ampie  tra  la  fossa  temporale  e  la  cavità  craniana: 
tali  riassorbimenti  non  hanno  in  realtà  alcuna  importanza  morfologica  trattandosi  di 
lesioni  di  origine  prevalentemente  patologica.  Similmente  lasciamo  parecchi  casi, 
molto  interessanti  d'altra  parte  anche  per  la  rarità,  di  divisioni  anomale  della  squama 
temporale  per  suture  complete  o  non,  frontali  o  sagittali. 

Piuttosto,  mentre  dobbiamo  ricordare  che  in  tutta  la  serie  dei  crani  da  noi  esa- 
minati non  ebbimo  mai  occasione  di  imbatterci  nel  canale  attraversante  lo  spessore 
dell'apofisi  zigomatica  dalla  sua  faccia  interna  alla  esterna  quale  venne  descritto  da 
Giuffrida-Ruggeri  (20)  come  canale,  infrazigomatico,  prima  di  accingerci  a  riferire  i 
risultati  delle  nostre  ricerche  sugli  altri  Mammiferi,  desideriamo  accennare  ad  un  reperto 


196  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    OALA5I1DA 

avuto  in  due  crani,  in  uno  dai  due  lati,  in  un  altro  ed  in  modo  molto  dimostrativo 
solo  a  destra,  e  che  ci  pare,  per  quanto  non  nuovo,  di  una  eccezionale  rarità.  In 
quest'ultimo  caso  (Gollez.  Criminali,  n°  47,  5  47  anni,  da  Torino,  suicida  —  Fig.  14) 
sulla  faccia  esterna  della  squama  temporale  di  destra,  verso  la  parte  media  della 
porzione  verticale,  a  24  nini,  sopra  la  faccia  superiore  della  base  del  processo  zigo- 
matico esiste  un  esile  forame  in  forma  di  fessura  (fis),  aperta  in  alto,  dalla  quale  ori- 
gina superiormente  una  solcatura  superficiale,  tosto  diramantesi  in  due  branche  di- 
vergenti, risolventisi  a  loro  volta  in  altre  solcature  più  piccole  decorrenti  sulla  parte 
alta  della  squama  e  sulla  porzione  inferiore  del  parietale  [satpp).  Dal  foro  stesso  ha 
origine  in  basso  un  canale  verticale,  decorrente  per  circa  3  cm.  nello  spessore  della 
squama,  immediatamente  coperto  dal  tavolato  interno  assottigliato,  ed  aprentesi 
all'endoeranio  in  una  fessura  simile  a  quella  esocranica,  e  che  si  continua  verso  il 
foramen  spinosum  in  una  docciatura  presentante  i  soliti  caratteri  delle  impronte  la- 
sciate dall'",  meningea  media:  la  docciatura  per  questa  è  tuttavia  indipendente  dalla 
precedente  e  la  solcatura  della  branca  posteriore  dell'a.  meningea  incrocia  superfi- 
cialmente, decorrendo  ad  arco  in  addietro,  il  canale  scavato  nello  spessore  della 
squama.  È  a  notarsi  inoltre  come  dalla  apertura  esocranica  del  canale  squamoso 
anomalo  parta  in  avanti  una  sutura  abnorme,  visibile  anche  all'endocranio,  ove  per 
altro  tende  a  scomparire,  lunga  20  mm.,  leggermente  ondulosa,  ma  in  complesso 
sagittale  (Fig.  14  a),  la  quale  raggiunge  la  sutura  squamoso-grande  ala  a  27  mm.  al 
disopra  della  sporgenza  della  cristo  infratemporalis:  detta  sutura  rientra  evidentemente 
fra  quelle  cui  abbiamo  precedentemente  accennato  e  delle  quali  non  è  qui  caso  di  occu- 
parci piii  in  disteso.  Dal  lato  sinistro  del  cranio  stesso  non  vi  ha  particolarità  alcuna 
che  si  allontani  dalle  condizioni  normali. 

In  un  altro  cranio  ($  19  anni)  esiste  bilateralmente  un  comportamento  analogo; 
solo  l'apertura  esocranica  è  assai  più  piccola,  meno  evidente  per  non  dire  mancanti 
il  solco  temporoparietale  esterno,  appena  percettibili  le  solcature  endocraniche  del- 
l'", meningea  media. 

Per  i  rapporti  della  docciatura  del  favolato  interno  della  squama,  la  quale  fa 
ito  all'apertura  endocranica  del  canale  anomalo,  col  forame  spinoso,  per  i 
caratteri  e  per  la  ubicazione  delle  solcature  esocraniche  affatto  corrispondenti  a 
quelle  note  già  da  molto  tempo  e  descritte  ancora  recentemente  da  Ledouble  (41  b) 
come  traccia  del  decorso  dell'",  temporalis  profunda  posterior,  noi  non  esitiamo  ad 
affermare  che,  nei  nostri  due  casi,  l'arteria  ora  nominata,  invece  d'originarsi,  come 
di  solito,  direttamente  dal  tronco  della  ".  maxillaris  interna,  pi-oveniva  dall'",  me- 
ningea media  dalla  quale  si  originava  nell'interno  del  cranio.  Tale  reperto,  già 
descritto  da  Gkuber  (22)  in  un  sol  caso  e  da  un  solo  lato  e  ricordato  in  seguito 
da  W.  Keause  (in  ITenle),  Poirier,  Romiti,  ecc.,  fu  pure  d'altronde  constatato  una 
volta  nella  Sala  dissettoria  di  questo  Istituto  direttamente  da  uno  di  noi  (Bovero) 
sul  cadavere  di  una  giovane  donna  e  dai  due  lati:  un  piccolo  tronchicino  arterioso, 
assolutamente  esile  ed  originantesi  dalla  branca  posteriore  di  biforcazione  dell'".  m<  - 
ningea  inedia,  raggiungeva  a  traverso  la  parte  alta  della  squama  la  porzioni 
dorsale  della  fossa  temporale,  coperto  dalla  parte  corrispondente  del  muscolo  omonimo: 
la  piccola  arteria  non  potè  essere  seguita  però  più  in  alto  della  sutura  squamoso- 
parietale.  In   detto  caso  per  altro  esisteva  tuttavia,  per  quanto  ridotta,  Va.  temporalis 


39  (ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  197 

profunda  posterìor  della  a.  maxillaris  interna;  quindi  al  detto  ramo  anomalo  si  doveva 
dare  piuttosto  il  significato  di  un'",  temporalis  profunda  posterìor  accessoria,  mentre 
nei  due  casi  sopracitati,  data  l'ampiezza  del  canale  osseo  e  la  mancanza  assoluta  di 
traccie  del  solco  temporoparietale  esterno  (Ledouble)  nella  parte  bassa  del  planum 
temporale,  con  ogni  probabilità  realmente  il  tronco  della  «.  temporalis  profunda  posterìor 
era  fornito  dall'",  meningea  media. 

La  disposizione  ora  descritta  è  interessante  anche  per  l'argomento  generale  che 
stiamo  trattando,  in  quanto  non  è  illogico  pensare  che  la  branca  o  le  branche  arte- 
riose anomale,  percorrenti  dall'interno  all'esterno  il  canale  infrasquamoso  ed  origi- 
nantisi  dall'",  meningea  media,  fossero  accompagnate  in  tutto  il  loro  tragitto  da 
diramazioni  venose  destinate  a  portare  alle  vv.  meningee  medie,  ed  eventualmente 
ad  un  seno  venoso  petrosquamoso,  il  sangue  raccolto  dalla  porzione  corrispondente 
della  fossa  temporale,  in  corrispondenza  della  quale  possono  comunicare  con  le  vene 
proprie  della  regione  direttamente  tributarie  della  v.  jugularis  externa:  ne  risulte- 
rebbe cioè  in  tal  guisa  ancora  una  comunicazione  speciale  tra  il  sistema  venoso  en- 
docraniano  e  quello  extracraniano  per  mezzo  delle  vene  satelliti  di  un'«.  tempo- 
ralis profunda  posterìor  anomala,  sia  questa  direttamente  originata  dall'",  meningea 
media,  oppure  rappresenti  puramente  un  ramo  accessorio  al  ramo  normale. 

Per  altra  parte  abbiamo  riscontrata  una  corrispondenza  molto  evidente  al  re- 
perto sopra  accennato  in  alcuni  crani  di  Cercopitecini,  nei  quali,  come  vedremo  più 
tardi  (Figg.  22,  23),  per  quanto  tale  possibilità  non  sia  stata  finora  a  nostra  scienza 
accennata,  pare  che  essa  debba  occorrere  tutt' altro  che  raramente:  qui  notiamo 
solo  che,  a  corroborare  la  nostra  ipotesi,  che  le  vene  satelliti  dell'arteria  anomala  pos- 
sano stabilire  una  comunicazione  tra  i  sistemi  venosi  delle  due  giugulari,  sta  il  fatto 
che  in  un  Cercocebus  fuliginosus  dai  due  lati  l'apertura  endocranica  del  canale  infra- 
squamoso anomalo  è  posta  subito  lateralmente  al  seno  petrosquamoso  essendo  conti- 
nuata verso  la  sua  estremità  ventrale  e  quindi  verso  la  apertura  endocranica  del- 
l'ampio emissario  petrosquamoso  da  una  ben  marcata  solcatura. 

Finalmente  anche  l'arteria  anomala  merita  per  se  stessa  una  speciale  atten- 
zione per  il  suo  possibile  significato  morfologico,  e  ciò  avuto  anche  riguardo  alla 
occorrenza  diversamente  frequente  di  detta  disposizione  in  specie  differenti.  Dato  il 
significato  filogenetico  dell'»,  meningea  media,  sul  quale  uno  di  noi  si  è  occupato  altra 
volta  incidentalmente  (3),  e  le  connessioni  che  si  possono  verificare  nella  filogenesi 
nella  fossa  cranica  media  fra  i  rami  dell'",  carotis  externa  e  dell'»,  stapedia  con  Va. 
diploètica  magna  (dell'a.  carotis  interna)  scomparsa  in  tutti  i  Mammiferi  ad  eccezione 
dei  Monotremi,  ricordando  le  diramazioni  di  quest'arteria  ed  i  rapporti  con  la  squama 
temporale  quali  risultano  dagli  studi  di  Hyrtl,  Hochstetter ,  Tandler  (67,  a,  b),  si 
potrebbe  forse  ventilare  l'ipotesi  se  non  esista  fra  i  rami  arteriosi  anomali  da  noi 
ricordati  e  la  detta  a.  diploètica  magna  o  le  sue  branche  alcun  rapporto  morfologico  : 
rimarrebbe,  vale  a  dire,  a  ricercare  se  cioè  la  porzione  extracraniana  dell'arteria  ano- 
mala non  potrebbe  in  qualche  modo  riferirsi  ad  un'",  diploètica  (o  ad  una  delle  sue 
diramazioni  collaterali),  di  cui  sia  andata  scomparsa  la  porzione  prossimale  e  nella 
quale  quindi  il  sangue  abbia  assunto  una  diversa  direzione.  Questa  supposizione 
avrebbe  certo  bisogno  di  essere  lumeggiata  e  svolta  assai  più  diffusamente  di  quanto 


198  AXFONSO    BOVEKO    —    UMBERTO    CALAMIDA  40 

non  sia  permesso  a  noi  in  questo   lavoro:   noi   non  intendiamo   perciò    di    dare  alla 
nostra  idea  alcun  valore  all'infuori  di  quello  di  una  timida  ipotesi. 

Esponiamo  ora  i  reperti  avuti  da  noi  negli  altri  Primati,  relativamente  ai 
forami  e  canali  emissari  squamosi  e  petrosquamosi,  avvertendo  che,  per  le  nozioni 
contradditorie  lasciate  da  altri  ricercatori  e  per  i  fatti  nuovi  messi  in  luce  dalle 
imstre  osservazioni,  la  descrizione  dei  reperti  stessi  risulterà  necessariamente  più 
diffusa  di  quella  degli  altri  ordini  di  Mammiferi. 

Fani.  Simiidae.  —  Nelle  Scimmie  antropomorfe,  a  quanto  risulta  dalla  lette- 
ratura, mancherebbero  completamente  traccie  di  canali  emissari  squamosi  e  petro- 
squamosi: la  loro  ricerca  avrebbe  diffatti  dato  risultato  negativo  a  Cope  (9)  per  il 
Gorilla  e  per  il  Cimpanzè,  a  Kopetsch  (34)  per  l'Orang  e  per  il  Gorilla,  a  Cheatle  (8) 
per  il  Cimpanzè,  il  Gorilla  e  l'Orang,  a  Denker  (12)  per  il  Gorilla:  il  Kopetsch  avverte 
tuttavia  che  non  intende  di  negare  la  possibilità  della  loro  occorrenza  in  altri  esemplari. 

A  questo  riguardo  i  risultati  delle  nostre  osservazioni  discordano  recisamente 
dai  reperti  degli  altri  AA.,  perchè  nel  materiale  da  noi  studiato  (Istituto  Anato- 
mico e  Museo  di  Anatomia  Comparata  di  Torino)  esistono  delle  traccie  non  dubbie 
e,  relativamente  al  numero  esiguo  di  esemplari  esaminati,  assai  più  frequenti  che 
non  nella  nostra  specie,  di  emissari  squamosi  e  petrosquamosi.  Per  la  ubicazione  del- 
l'apertura esocranica  degli  stessi,  data  la  stretta  rassomiglianza  dell'osso  temporale 
degli  Antropomorfi  con  quello  dell'Uomo,  vale  la  medesima  classificazione  da  noi 
adottata  per  quest'  ultimo.  Avvertiamo  che  nei  pochi  esemplari  delle  varie  specie 
da  noi  esaminati  il  foramen  jugulare  è  costantemente  molto  ampio. 

Simia  Satyrus.  —  Complessivamente  noi  abbiamo  avuto  agio  di  osservare  6  crani 
di  Orang,  tutti  però  appartenenti  ad  individui  molto  giovani  (1  dell'Istituto  Anatomico, 
r>  del  Mus.  d'An.  Comp.),  ed  in  ognuno  di  essi  noi,  per  rispetto  agli  emissari  in 
questione,  abbiamo  avuto  costantemente  un  reperto  positivo. 

Nel  cranio  di  una  9  juv.,  di  circa  2  anni  (Ist.  Anat.)  (Fig.  19),  a  destra  vi 
hanno  due  fori  esilissimi,  disposti  uno  avanti  all'altro,  separati  fra  di  loro  da  una 
microscopica  trabecola  ossea  {fszp),  situati  subito  al  di  sopra  dell'inizio  della  radice  lon- 
gitudinale del  processo  zigomatico,  in  corrispondenza  di  una  linea  che  prolungasse  ver- 
ticalmente in  alto  l'asse  trasversale  della  fossa  mandibularis:  entrambi  i  forami 
danno  passaggio  ad  una  delle  setole  più  fini  e  mettono  in  un  canale  unico,  sonda- 
bile per  breve  tratto,  il  quale  riesce  molto  probabilmente  ad  un  foro  visibile  dal- 
l'endocranio  nella  fossa  media,  a  metà  circa  della  sutura  petrosquamosa,  nel  fondo 
di  un'ampia  solcatura  diretta  in  senso  sagittale,  originantesi  anteriormente  alla  estre- 
mità laterale  della  fessura  sfenosfenoidale  e  destinata  probabilmente  a  dar  ricetto 
al  ramo  posteriore  dell'»,  meningea  media.  Alla  detta,  apertura  endocraniana  riesce 
pure  a  destra  un  canale  sondabile  con  una  setola,  il  quale  si  apre  all'esocranio  su- 
bito medialmente  ad  un  ben  pronunciato  conus  articularis  {fszm,  co),  fra  questo  e  la 
estremità  laterale  della  fissura  Glaseri;  detto  forame,  alquanto  più  ampio  degli  altri 
sopradescritti,  si  prolunga  chiaramente  sul  margine  mediale  del  conus  ini  iati  uri* 
mediante  una  superficiale  solcatura;  in  altre  parole  abbiamo  dal  lato  destro  del 
cranio  di  questo  Orang,  ad  un  tempo  due  emissari  soprazigomatici  posteriori  ed  un 
emissari')    sottozigomatico    mediale,  confluenti    all'endocranio    allo    stesso    punto  della 


41  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  199 

sutura  petrosquamosa.  A  sinistra  vi  ha  un  foro  pure  estremamente  esile,  posto  sulla 
sporgenza  smussa  della  linea  temporalis,  nel  punto  ove  questa  continuasi  col  mar- 
gine esterno  dell'apofisi  zigomatica,  non  permeabile  però  alla  più  fina  delle  setole: 
ad  esso  corrisponde  all'endocranio  un'apertura  come  a  destra,  alla  quale  riesce  un 
solco  sagittale  similare. 

Negli  altri  5  crani  di  Orang,  noi  abbiamo  trovato  costantemente  dai  due  lati 
un  foro  circolare  sempre  molto  piccolo  (mm.  0,20-0,30),  posto  alla  base  del  mar- 
gine mediale  del  conus  articularis,  continuantesi  in  un  canale  aperto  superiormente 
nel  solco  per  il  seno  petrosquamoso ,  talvolta  in  una  fossetta  molto  approfondata. 
alla  quale  in  un  caso  conviene  pure,  come  in  quello  prima  descritto,  la  docciatura 
dei  vasi  meningei  medi.  La  solcatura  petrosquamosa  può  presentarsi  anche  nel- 
l'Orang  delimitata  da  labbra  frastagliate,  talvolta  confluenti  fra  di  loro  in  guisa  da 
essere  trasformata  tratto  tratto  in  un  canale.  Quasi  costantemente  1'  apertura  eso- 
cranica  dell'emissario  viene  prolungata  sul  margine  mediale  del  conus  artici/lari?  da 
una  solcatura  più  o  meno  manifesta. 

Anthropopithecus  Troglodytes.  —  Xel  cranio  di  una  y  juv.  di  circa  2  anni  (Ist.  An.). 
come  in  un  cranio  pure  giovane  del  M.  d'An.  Comp.,  entrambi  con  conus  articularis 
relativamente  ben  pronunciato,  non  ci  venne  dato  riscontrare  traccia  in  nessuna  re- 
gione della  squama  di  emissari  saliamosi  o  petrosauamosi  anomali.  Nel  solo  caso  in 
cui  ci  è  stato  concesso  di  esaminare  l'endocranio,  abbiamo  trovato  ben  evidente  la 
solcatura  per  il  seno  petrosquamoso. 

Gorilla  (3  crani).  —  Nel  cranio  di  una  £  di  anni  2  Va  circa  (Istit.  Anat.), 
medialmente  al  conus  articularis  robustamente  sviluppato,  tra  questo  e  la  estremità 
laterale  della  scissura  di  Glaser  ,  vi  ha  un  foro  circolare ,  più  ampio  a  sinistra 
(mm.  0,35),  appena  percettibile  a  destra,  dal  quale  ha  origine  un  canale,  permeabile 
però  solo  a  sinistra  ad  una  setola,  diretto  verticalmente  in  alto  per  riuscire  nella 
fossa  media  del  cranio  in  rapporto  dell'unione  del  terzo  mediale  coi  due  terzi  late- 
rali della  sutura  petrosquamosa.  Il  solco  per  il  seno  petrosquamoso  è  superficiale, 
però  più  marcato  a  sinistra  e  ad  esso  confluisce  pure  una  solcatura  sagittale,  meno 
regolare  di  quella  riscontrata   nell'Orang,  per  i  vasi  meningei  medi. 

In  un  altro  Gorilla  (9,  ad.;  M.  d'Anat.  Comp.)  esiste  bilateralmente,  come  nel 
caso  precedente,  un  forellino  circolare  sottozigomatico  mediale,  ampio  lj2  mill.,  posto 
fra  la  estremità  laterale  della  scissura  di  Glaser  obliterata  ed  il  conus  articularis 
robustamente  pronunciato. 

In  un  terzo  esemplare  adulto   nessuna  traccia  di  emissari. 

Hijlobates  (5  crani).  —  In  un  H.  hoolock  ad.  (Ist.  Anat.)  con  quasi  tutte  le  suture, 
craniofacciali  chiuse,  con  robusto  conus  articularis,  manca  ogni  traccia  di  emissari 
sottozigomatici  o  sopra  zigomatici  ;  per  contro  dal  lato  destro  si  riscontra  (Fig.  20  fps) 
nella  parte  media  della  fossa  infratemporale,  0,5  mm.  superiormente  alla  sporgenza 
della  cresta  omonima  (ci),  a  3  mm.  posteriormente  alle  traccie  della  sutura  squamoso- 
alisfenoide  un  foro,  emissario  prezigomatico  superiore,  ampio  tanto  da  dar  passaggio  a 
una  voluminosa  setola,  il  quale  conduce  in  un  canale  aprentesi  nella  fossa  media  in 
rapporto  dell'estremità  anteriore  della  sutura  petrosquamosa  obliterata,  resa  evidente 
da  una  stretta  solcatura  per  il  seno  omonimo:  questa  è  relativamente  più  manifesta 
ancora  dal  lato  sinistro.  L'apertura  esocranica  del  canale  emissario  di  destra  è  con- 


200  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAM1DA 


12 


tinuata  in  alto  ed  in  avanti  da  una  solcatura  superficiale  decorrente  sulla  parte  an- 
teriore della  squama  temporale.  Detto  forame  manca  completamente  a  sinistra. 

In  un  H.  leuciscus  (M.  d'A.  C.)  a  destra  si  riscontra  un  esile  forame  sul  margine 
laterale  del  conus  artieularis  permeabile  ad  una  setola;  a  sinistra  vi  ha  un  forellino 
più  ampio,  medialmente  allo  stesso  conus  artieularis. 

In  un  altro  H.  sp.?  ad.,  vi  ha  dai  due  lati  un  esilissimo  foro  circolare,  posto 
alla  faccia  posteriore  del  conus  artieularis,  fra  questo  e  il  condotto  uditivo  osseo. 

Finalmente  in  un  H.  albimana  (M.  d'A.  C.)  adulto,  come  in  un  H.  sp.?  giova- 
nissimo, notevole  per  la  presenza  di  un  preinterparietale  unico,  manca  ogni  traccia 
di  emissari  temporali  squamosi  o  petrosquamosi. 

Come  si  scorge  dalla  precedente  rassegna,  occorrono  pure  nelle  Scimmie  antro- 
pomorfe, e  con  frequenza  così  grande  sì  da  essere  ritenuti  in  talune  specie  come 
costanti  (Orang),  dei  canali  emissari  temporali  squamosi  delle  varie  categorie.  Anche 
negli  Antropomorfi,  come  nell'Uomo,  questi  occorrono  più  spesso  come  emissari  squa- 
mosi sottozigomatici  mediali,  eccezionalmente  come  sottozigomatici  laterali  (H.  leuciscus  a 
sinistra),  o  soprazigomatici  posteriori  {S.  satyrus,  Hylobates  sp.),  oppure  ancora  come 
prezigomatici  superiori  (H.  hoolock).  La  disparità  dei  nostri  reperti  da  quelli  degli 
altri  A  A.  riconosce  forse  come  causa  i  criteri  meno  ristretti  da  noi  seguiti  nella 
diagnosi  degli  emissari  ;  certamente  la  giovane  età  dei  crani  di  alcune  famiglie  può 
avere,  per  le  ragioni  addotte  per  il  cranio  umano,  la  sua  importanza  sulla  persi- 
stenza degli  emissari  stessi,  appunto  perchè  in  tutti  gli  Antropomorfi  pare  carattere 
costante  lo  sviluppo  di  un  conus  artieularis.  Relativamente  al  Cimpanzè,  di  cui  tut- 
tavia abbiamo  esaminati  solo  2  crani,  noi  potremmo  giudicando  per  analogia  ai 
reperti  delle  altre  famiglie  far  nostro  il  dubbio  espresso  da  Kopetsch  che  la  man- 
canza di  tali  emissari  non  significa  punto  che  questi  possano  realmente  far  difetto, 
anche  se  si  esaminino  delle  serie  di  crani  più  numerosi  di  quanto  non  sia  stato  ad 
altri  e  a  noi  concesso.  Per  il  numero  esiguo  dei  crani  per  ciascuna  specie  e  per  le 
ragioni  addotte  non  è  lecito  a  noi  stabilire  dei  paragoni  sul  grado  di  frequenza 
degli  emissari  stessi  nelle  singole  specie:  a  noi  basta  aver  fissato  perentoriamente 
la  possibile  occorrenza  degli  emissari  in  questione,  anche  delle  differenti  categorie, 
nei  crani  dei  diversi  Antropomorfi. 


Fam.  Cereopithecidae.  —  Noi  sappiamo  di  già  dal  minuto  esame  fatto  dalla 
letteratura  come  i  pareri  dei  vari  AA.  relativamente  alla  esistenza  dei  canali  emissari 
squamosi  e  petrosquamosi  in  questa  famiglia  di  Catarrine  siano  molto  discordanti  :  ricor- 
deremo ancora  come,  mentre  Otto  (50)  avrebbe  trovato  un  piccolo  canale  temporale 
nei  Cercopiteci  e  nei  Cinocefali,  Lusciika  (45  a,  b)  lo  ammette  nel  Macacus  cynomolgus, 
negandolo  neW'Inuus  ecaudatus.  —  Cope  (9)  nega  l'esistenza  dei  forami  nel  Semnopithecus 
e  nel  Gynocephalus,  affermando  esistere  invece  un  esile  postglenoideo  nel  Macacus. 
—  Anche  Lowexstein  (44)  non  ha  riscontrato  traccie  di  foramen  jugulare  spurium 
in  9  crani  di  Cercopithecus,  6  di  Gynocephalus  e  3  di  Semnopithecus;  esso  invece  esi- 
steva in  11  di  Inuus.  —  Kopetsch  (34)  avrebbe  trovato  traccie  più  o  meno  evidenti 
dello  stesso  foramen  jugulare  spurium  fra  3  crani  di  Semnopithecus,  in  uno  solo 
(S.  priamus),  mancanti  in  2;  su  9  crani  di  Cercopithecus,  4  volte  ((  .  aethiops,  C.  sabaeus, 


43  I  ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUA3IOSI  201 

C.  ruber,C.  nyctitans);  sopra  21  crani  di  Inuus  detto  forame  mancava  completa- 
mente in  3  soli,  esistendo  invece  bilateralmente  in  17  (16  /.  cynomolgus,  1  /.  neme- 
strinus),  da  un  solo  lato  in  un  I.  nemestrinus ;  finalmente,  sopi-a  14  crani  di 
Gynocephalus,  Kopetsch  non  riscontra  il  forameli  jugulare  spurium  in  6,  esistendo 
invece  bilateralmente  in  3  C.  babuin,  in  3  C.  mormon,  1  C,  ursinus,  1  C.  leucophaeus; 
in  complesso  quindi,  sopra  47  crani  di  Cinopitecini,  il  Kopetsch  ha  verificato  l'esi- 
stenza degli  emissari  che  ci  occupano  in  31,  vale  a  dire  nei  due  terzi  all'incirca 
dei  casi  esaminati:  se  aggiungiamo  i  reperti  avuti  dallo  stesso  A.  nelle  Scimmie 
platirrine  e  negli  Arctopiteci,  nei  quali  il  cos'i  detto  foramen  jugulare  spurium  è 
costante,  pur  tenendo  calcolo  del  reperto  negativo  in  4  crani  di  Antropomorfi,  non 
si  comprende  perchè  egli  affermi  recisamente  che  un  foramen  jugulare  spurium  non 
occorra  nei  Piteci  generalmente,  ma  solo  in  via  eccezionale;  facendo  un  computo 
percentuale  di  tutti  i  crani  esaminati  da  questo  A.,  risulterebbe  invece  che  detti 
emissari  furono  da  esso  osservati  nel  72,6  %  dei  crani. 

Cheatle  ricorda  come  nei  giovani  Macachi  sia  ben  conservata  l'apertura  ante- 
riore od  esterna  del  canale  temporale,  mentre  nell'adulto  l'apertura  è  abitualmente 
chiusa  o  rudimentale,  permanendo  invece  molto  chiaramente  la  scanalatura  petro- 
squamosa.  —  Anche  Cabibbe  (4)  ricorda  un  foro  postglenoideo  nel  Cercopithecus 
cattitricus.  —  Infine  Fischer  descrive,  in  un  suo  recentissimo  lavoro  sullo  sviluppo  del 
cranio  scimmiesco  (14  b),  il  foramen  jugulare  spurium  già  in  embrioni  relativamente 
giovani  e  più  precisamente  in  un  embrione  di  Macacus  cynomolgus  (25  millim. 
Vertice-Coccige),  in  uno  di  Semnopithecus  pruinosus  (mm.  47,5  V.-C.)  e  in  uno  di 
S.  maurus  (mm.  53  V.-C),  raffigurandolo  anche  nei  rispettivi  modelli,  appunto  come 
già  0.  Hertwig  (27)  nel  modello  (Ziegler)  di  un  embrione  umano  lungo  8  cm.  (V.-C.) 
Tutti  gli  AA.  sovraccennati  però  si  riferiscono  nelle  loro  descrizioni  ad  emissari 
occupanti  colla  loro  apertura  esterna  una  posizione  dorsale  e  mediale  ad  un  tempo 
al  eonus  articularis:  nessuno  accenna  a  forami  di  altre  categorie  (sottozigomatici 
laterali,  sopra-  o  prezigomatici). 

Data  l'incertezza  e  la  disparità  dei  giudizi  dei  vari  AA.  sopra  ricordati,  era 
interessante  anche  a  questo  riguardo  una  ricerca  il  più  possibilmente  ampia. 


Subfam.  Semnopithecinae.  —  Abbiamo  esaminati  4  crani  del  Museo  d'A.  Coinp. 
ed  1  dell'Istit.  Anat.:  è  in  quest'ultimo  (S.  entellus,  ad.),  che  si  incontrano  le  dispo- 
sizioni più  complesse  ;  esiste  invero ,  come  del  resto  anche  negli  altri  Semnopiteci 
(Fig.  21  co),  un  conus  articularis  assai  sviluppato  sotto  forma  di  una  "  lamina  apo- 
fisaria  appuntata  „  (Cabibbe)  o  di  un  processo  conoide  fortemente  appiattito  in 
senso  anteroposteriore  e  coll'apice  evidentemente  ricurvo  in  avanti  e  medialmente: 
in  addietro  al  cono  articolare,  ma  più  verso  il  suo  margine  mediale,  fra  questo  e 
la  porzione  laterale  ed  anteriore  dell'  osso  timpanico,  esiste  dai  due  lati  un  ampio 
foro  ovalare  (fpg),  con  un  massimo  diametro  di  mm.  3,5  disposto  quasi  frontal- 
mente: esso  ha  margini  regolari  e  si  apre,  dato  il  minimo  spessore  dello  squamoso, 
immediatamente  all'endocranio  con  un  forame  pure  ovalare,  posto  in  rapporto  della 
sutura  petrosquamosa  obliterata,  alla  unione  del  terzo  mediale  coi  due  terzi  late- 
rali della  stessa:  dorsalmente  all'apertura  endocraniana  la  detta  sutura  è  trasfor- 
Sekie  II.  Tom.  LUI.  a1 


202  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  44 

mata  dapprima  in  una  doccia  molto  ampia  limitata  da  labbra  taglienti,  appar- 
tenenti rispettivamente  al  margine  anteriore  del  petroso  ed  al  margine  inferiore 
del  tavolato  interno  dello  squamoso:  poi  la  docciatura  viene  trasformata  in  un 
canale  dall'apposizione  del  tavolato  interno  dell'osso  parietale  alla  estremità  po- 
steriore del  margine  anteriore  della  piramide,  in  guisa  che  si  ha  qui  un  canale 
di  Verga,  canale  temporoparietale ,  perfettamente  corrispondente  a  quelli  ricordati 
nella  nostra  specie.  Il  canale  è  più  lungo  a  sinistra  che  a  destra,  ove  per  altro 
la  sutura  parietopetrosa  è  per  buon  tratto  scomparsa,  rimanendo  invece  aperta 
completamente  a  sinistra:  il  canale  molto  ampio  (2-3  mm.)  si  apre  posteriormente 
nella  parte  alta  del  solco  per  il  seno  sigmoide  e  questa  apertura  è  come  ricoperta 
da  una  lamina  ossea  dipendente  dalla  parte  laterale  del  margine  superiore  dell'osso 
petroso,  il  quale  margine  si  presenta  sotto  forma  di  cresta  tagliente  molto  pronun- 
ciata e  vòlta  dorsalmente,  per  ossificazione  del  margine  corrispondente  di  attacco 
del  tentorium  cerebelli.  Alla  parte  anteriore  del  contorno  dell'  apertura  endocranica 
dell'emissario  riesce  pure  in  entrambi  i  lati  una  fine  e  superficiale  solcatura  irrego- 
larmente oudulosa,  la  quale  decorre  però  complessivamente  in  senso  sagittale  sulla 
faccia  cerebrale  della  parte  inferiore  della  squama  temporalis,  poi  più  in  avanti  sulla 
faccia  cerebrale  àeW'ala  magna  sphenoidalis  e  dell'angolo  sfenoidale  del  parietale, 
sino  alla  estremità  laterale  del  margine  posteriore  tagliente  del  pavimento  della 
fossa  cranica  anteriore,  ove  si  continua  con  un  canale  comunicante  con  la  cavità 
orbitaria;  tale  solcatura  è  evidentemente  destinata  ai  vasi  meningei  medi:  di  questi 
le  vene,  mancando  il  foro  spinoso ,  sono  tributarie  dell'  emissario  petrosquamoso, 
le  arterie  invece  originano  dall'«.  lacrimalis.  Dal  lato  sinistro  il  fondo  della  doc- 
ciatura per  i  vasi  meningei  medi  presenta,  in  corrispondenza  della  sutura  squa- 
mosoalisfenoide ,  un  orificio  ovalare  ampio  1  min.,  il  quale  dà  origine  ad  un  breve 
canale  aprentesi  all'esterno  nella  fossa  infratemporale,  immediatamente  al  di  sopra 
della  cresta  omonima,  con  un  altro  orificio  situato  appunto  in  rapporto  della  sutura 
squamosoalisfenoide,  essendo  tuttavia  scavato  per  maggior  parte  nella  squama 
temporale. 

Tale  foro,  che  ha  pure  il  valore  di  un  emissario  prezigomatico,  manca  completa- 
mente a  destra:  da  questo  lato  invece  ve  ne  ha  un  altro  scavato  (fp)  completamente 
nella  porzione  posteriore  della  squama,  ad  1  cm.  circa  posteriormente  e  superior- 
mente alla  parte  alta  dell'orificio  auditivo  esterno,  subito  al  di  sotto  del  prolunga- 
mento posteriore  smusso  della  linea  temporalis,  tra  questo  e  la  cresta  assai  pronunciata, 
che  continua  in  avanti  ed  in  basso  sulla  squama  temporale  la  linea  curva  occipitale 
superiore:  tale  forellino  è  ovalare,  ampio  1  mm.,  e  conduco  in  un  canale  obliquamente 
diretto  in  avanti  e  medialmente  per  sboccare  all'endocranio  nella  porzione  della 
docciatura  per  il  seno  petrosquamoso  trasformata  in  canale:  una  setola  introdotta 
dall'apertura  esterna  di  questo  canalino  può  con  tutta  facilità  entrare  nella  cavità 
craniana  e  fuoriuscire  dall'apertura  più  ampia  posta  medialmente  e  dorsalmente  al 
cono  articolare. 

Riassumendo,  nel  cranio  del  nostro  S.  entellus  noi  troviamo  tre  specie  di  emissari: 
1°  dai  due  lati  vi  ha  un  canale,  che,  per  la  ubicazione  della  sua  apertura  esterna,  si 
può  classificare  come  emissario  sottozigomatico  posteriore,  da  considerarsi  come  una 
varietà  dei  sottozigomatici  mediali,  per  quanto   la  sua  posizione  dorsalmente  al  cono 


45  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  203 

articolare  sia  puramente  secondaria  al  grande  e  caratteristico  sviluppo  del  cono 
articolare  stesso;  2°  dal  lato  sinistro  vi  ha  un  emissario  prezigomatico  superiore  e  come 
tale  si  può  ritenere  anche  se  si  apre  nella  sutura  squamosoalisfenoide  ;  3°  dal  lato 
destro  ne  esiste  invece  un  altro,  che,  per  la  ubicazione  della  apertura  esocranica,  noi 
potremmo  chiamare  emissario  postsquamoso,  giusta  la  denominazione  di  Cope  per  altri 
Mammiferi.  Che  quest'ultimo,  da  noi  mai  riscontrato  nell'Uomo,  come  anche  il  pre- 
zigomatico, di  cui  pure  abbiamo  trovato  non  frequenti  esempi  nell'Uomo  e  negli  An- 
tropomorfi (Hylobates),  abbiano  realmente  il  valore  di  veri  canali  emissari  è  facilmente 
e  chiaramente  dimostrato  dai  rapporti,  che  ciascuno  di  essi  contrae  colle  solcature 
endocraniane  lasciate  dal  seno  petrosquamoso  e  dai  vasi  meningei  medi.  Nessuna 
traccia  esiste  di  forami  sottozigomatici  laterali. 

In  un  cranio  di  S.  obscurus  (ad.),  come  in  uno  di  S.  sp.  ?  mancano  invece  tutte 
le  traccie  delle  tre  specie  di  emissari  ora  descritti  :  in  un  altro  finalmente  (M.  d'An. 
Comp.)  esisteva  subito  medialmente  al  cono  articolare  un  piccolo  forellino  circolare 
del  diametro    di  1  min.  {emissario  sottozigomatico   mediale). 

Ancora  in  questa  sottofamiglia  il  nostro  giudizio  è  riservato  per  2  crani  di  Colobus 
(C.  ursimts  e  C.  guereza)  per  le  condizioni  di  macerazione  non  adatte  ad  un  accu- 
rato esame. 

Subfam.  Cercopithecinae  —  Noi  abbiamo  avuto  a  nostra  disposizione  un  materiale 
molto  abbondante  di  questa  sottofamiglia,  e  cioè  complessivamente  86  crani  delle 
varie  specie  (Cercopithecus,  Cercocebus,  Macacus,  Oynopithecus,  Theropithecus,  Papio). 
Dobbiamo  avvertire  che  le  condizioni  di  macerazione  di  taluni  di  questi  crani  im- 
pedirono di  poterci  pronunciare  recisamente  sulla  esistenza  o  mancanza  degli  emissari 
squamosi;  come  pure  è  da  ricordarsi  che  solo  nella  raccolta,  però  relativamente  ricca, 
dell'Istituto  Anatomico  di  Torino  ci  fu  possibile  di  esaminare  contemporaneamente 
anche  la  faccia  interna  del  cranio. 

Gen.  Cercopithecus.  —  Degli  86  crani  della  sottofamiglia,  27  appartengono 
al  genere  Cercopithecus  p.  d.  e  più  precisamente  3  C.  sabaeus,  1  C.  griseoviridis,  1  C.  la- 
landii,  1  C.  diana  e  21  C.  sp.?.  Gli  emissari  squamosi  e  petrosquamosi,  che  occor- 
rono nei  Cercopiteci  sono  di  due  specie  e  più  precisamente  emissari  sottozigomatici 
laterali  e  sottozigomatici  mediali;  quest'ultimi  sono  anche  più  frequenti,  enormemente 
più  ampi  comparativamente  a  quelli  laterali,  la  cui  importanza,  astrazion  fatta  dalla 
loro  presenza,  è  assolutamente  minima. 

Le  due  categorie  di  canali,  data  la  maggior  frequenza  di  quelli  mediali,  occorrono 
naturalmente  nello  stesso  tempo  nel  medesimo  cranio.  In  complesso  nei  Cercopiteci 
possiamo  asserire  che,  sia  nei  giovani  come  negli  adulti,  i  canali  petrosquamosi  sotto- 
zigomatici mediali,  i  quali  sono  anche  gli  unici  che  per  la  loro  ampiezza  possono 
realmente  funzionare  da  emissari,  esistono  almeno  in  metà  dei  casi,  avendoli  noi 
trovati  presenti  dai  due  lati  e  con  caratteri  costantemente  identici  in  12  casi,  solo 
dal  lato  destro  in  un  unico  caso;  ne  mancava  ogni  benché  minima  traccia  in  11, 
mentre  in  3  l' incompleta  macerazione  e  il  mancato  esame  della  cavità  cranica  ci 
vietano  dare  un  giudizio  definitivo.  Nei  13  crani  di  Cercopiteci,  in  cui  noi  abbiamo 
avuto  un  reperto  positivo  (1  C.  diana,  1  C.  lalandii,  10  C.  sp.?  dai  due  lati;  1  C.  sp.? 


204  ALFONSO    BOVERO    UMBERTO    CALAMITA  46 

solo  a  destra),  l'emissario  petrosquamoso  si  apre  costantemente  all'esocranio  con  una 
apertura  più  o  meno  ampia  (da  min.  1  a  2,5),  circolare  nei  giovani  individui,  ridotta 
ad  una  fessura  allungata  in  direzione  frontale  negli  individui  adulti;  la  ubicazione 
di  tale  apertura  è  sempre  medialmente  al  cono  articolare  ben  sviluppato,  in  forma  di 
una  lamina  appuntita,  fortemente  schiacciata  in  senso  anteroposteriore,  emissario  sotto- 
zigomatico mediale  pr.  d.\  talvolta,  e  specie  negli  individui  adulti  a  completo  sviluppo 
del  cono,  l'apertura  dell'emissario  appare  situata  posteriormente  al  margine  mediale 
del  cono  stesso,  in  guisa  da  costituire,  come  nel  Semnopithecus,  un  emissario  sotto- 
zigomatico  posteriore;  in  ogni  caso  però  è  in  tutta  vicinanza  della  fissura  Glaseri  dalla 
cui  estremità  laterale  è  separata  mediante  un  sottile  ponticello  osseo  :  la  sporgenza 
del  cono  posto  anteriormente  e  quella  dell'  osso  timpanico  situato  in  addietro  pos- 
sono facilmente  mascherare  lo  sbocco  dell'emissario,  in  guisa  da  risultare  necessario 
un  esame  accurato  per  escluderne  la  mancanza.  Dalla  apertura  ha  origine  un  breve 
canale,  il  quale  ha  per  lo  più  una  direzione  alquanto  obliqua  medialmente  ed  in 
avanti  e  riesce  all'endocranio  con  uno  sbocco  circolare,  ampio  generalmente  1  min. 
circa,  posto  nella  sutura  petrosquamosa.  Dorsalmente  allo  sbocco  endocranico  la  sutura 
petrosquamosa  si  trasforma  in  una  solcatura  per  il  seno  omonimo,  solcatura  che, 
allargandosi  e  facendosi  meno  marcata  in  addietro,  raggiunge  la  parte  alta  del  solco 
per  il  seno  sigmoide. 

Alla  apertura  endocranica  dell'  emissario  petrosquamoso  arriva  pure  costante- 
mente una  solcatura  sagittale  corrispondente  ai  vasi  meningei  medi,  appunto  come 
abbiamo  visto  di  già  nel  Semnopithecus.  È  da  notarsi  come,  anche  nei  casi  in  cui 
manca  ogni  traccia  di  canali  emissari  petrosquamosi  dell'uno  o  dell'altro  gruppo,  è 
costante  la  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso ,  continuantesi  in  avanti  con  una 
solcatura  più  superficiale  e  ristretta  per  i  vasi  meningei  medi.  Abbiamo  osservato 
parecchie  volte  una  evidente  asimmetria  nell'ampiezza  sia  dei  canali  emissari  sotto- 
zigomatici  mediali  dei  due  lati,  come  della  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso.  In 
tutti  i  crani  di  Cercopiteci  poi  ci  è  parso  che  il  foramen  jugulare  sia  sempre  rela- 
tivamente ristretto  per  rispetto  all'ampiezza  del  seno  sigmoide  corrispondente,  onde 
è  logico  ammettere  che  una  buona  parte  del  sangue  endocraniano  sia  esportato  per 
mezzo  dei  seni  e  plessi  venosi  vertebrali,  come  anche  probabilmente  per  mezzo  del 
furo, uni  lacerum  anterius,  a  cui  arriva,  come  d'ordinario,  il  prolungamento  anteriore 
del  seno  petrosquamoso  occupante  la  porzione  della  sutura  omonima  posta  ventral- 
mente allo  sbocco  dell'eventuale  emissario  petrosquamoso  sottozigomatico  mediale. 

I  canali  emissari  la  cui  apertura  è  situata  lateralmente  al  cono  articolare  non 
sono  stati  mai  finora  ricordati  dagli  altri  AA.  nei  crani  scimmieschi;  la  loro  esistenza 
è  tuttavia  indubbia  almeno  in  un  terzo  dei  casi  da  noi  studiati.  Infatti  si  riscontra  in 
corrispondenza  del  punto  in  cui  il  margine  laterale  del  cono ,  più  o  meno  robusto, 
va  via  via  allargandosi  per  confondersi  colla  faccia  inferiore  della  radice  sagittale 
dell'apofisi  zigomatica,  immediatamente  al  di  sotto  della  sporgenza  più  o  meno  pro- 
nunciata di  questa  radice,  un  forellino  minutissimo,  veramente  microscopico,  sonda- 
bile mediante  uno  dei  più  fini  crini  di  cavallo  per  lo  più  solo  per  breve  tratto:  tali 
forellini  sono  volta  a  volta  doppi  da  ciascun  lato,  visibili  nettamente  solo  con  una 
lente,  talvolta  apparenti  solo  sotto  forma  di  una  leggerissima,  appena  percettibile  in- 
taccatura dell'estremità  basale  del  margine    laterale  del    cono,    continuati    tal' altra 


47  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOS1  205 

verso  l'esterno  da  un'esile  docciatura  ;  e  si  potrebbe  rimanere  in  forse  nell'attribuire 
ad  essi  il  significato  di  veri  emissari,  se  noi  non  avessimo  potuto  in  due  casi,  e  cioè 
in  un  Maeacus  nemestrinus  (ad.)  ed  in  un  M.  sp.  ?  (giov.,  Istit.  Anat.)  e  dai  due  lati 
far  penetrare  nel  canale,  che  fa  seguito  a  tale  fine  apertura,  una  esilissima  setola: 
il  canale  decorre  nei  due  casi  quasi  orizzontalmente  in  dentro  ed  un  po'  in  alto, 
per  riuscire  all'endocranio  nello  stesso  punto  di  sbocco  dell'ampio  canale  sottozigo- 
matico mediale,  nel  fondo  della  estremità  anteriore  allargata  del  solco  per  il  seno 
petrosquamoso.  La  loro  estrema  picciolezza  spiega  perchè  difficilmente  possano  es- 
sere dimostrati  senza  un  esame  molto  accurato  e  spiega  pure  perchè  siano  stati 
finora  completamente  trascurati  :  ma  nello  stesso  tempo  autorizza  la  supposizione 
che  il  loro  ufficio  sia  pressoché  nullo:  sarebbe  al  riguardo  assai  interessante  stu- 
diare comparativamente  la  occorrenza  degli  emissari  dei  due  sottogruppi  nei  crani 
fetali  per  stabilire  se  in  un  certo  periodo  gli  uni  e  gli  altri  si  equivalgano  funzio- 
nalmente. 

E  poiché  la  concomitanza  dei  canali  dei  due  gruppi  si  verifica  pure,  come 
vedremo,  anche  negli  altri  generi  della  subfam.  Cercopithecinae  con  i  medesimi  rap- 
porti di  ampiezza,  è  d'uopo  accennare  qui  come  nei  rari  casi  in  cui,  nella  nostra 
specie,  occorrono  dallo  stesso  lato  due  emissari  che,  per  la  ubicazione  della  loro 
apertura  esterna,  siano  da  classificarsi  rispettivamente  come  emissari  sottozigomatici 
laterali  ed  emissari  sotto  zigomatici  mediali,  mentre  confluiscono  all'endocranio  in  un'unica 
apertura,  si  abbia  una  riproduzione  esatta  di  quanto ,  con  frequenza  enormemente 
maggiore,  si  verifica  nei  crani  di  queste  Scimmie. 

In  tutta  la  serie  dei  Cercopiteci  osservati  non  ci  venne  fatto  riscontrare  inai 
degli  emissari  al  di  sopra  od  in  avanti  della  apofisi  zigomatica.  In  2  crani  però 
{Cere,  sp.?),  una  volta  dai  due  lati,  un'altra  solo  a  destra,  abbiamo  constatato  nella 
parte  alta  delia  squama  e  verso  la  sua  metà,  a  3-4  mm.  dalla  sutura  parietosqua- 
mosa,  1'  esistenza  di  un  esilissimo  forame  in  forma  di  fessura  aperta  in  alto,  dalla 
quale  origina  un  canalino  decorrente  in  basso  e  medialmente  nello  spessore  della 
squama  ed  aprentesi  all'interno  del  cranio  in  tutta  prossimità  del  punto  della  sutura 
petrosquamosa  a  cui  arriva  la  solcatura  per  i  vasi  meningei  medi:  detto  canalino 
era  probabilmente  occupato  da  un  ramo  della  a.  meningea  media  distribuentesi  al- 
l'esocranio  come  a.  temporalis  profunda  posterior  e  dalle  sue  vene  satelliti,  appunto 
come  abbiamo  visto  di  già  nell'Uomo  e  come  vedremo,  in  modo  anche  più  complicato, 
nei   Cercocebus. 

Gen.  Cercocebus.  —  In  due  C.  fuliginosus  abbiamo  avuto  dai  due  lati  reperto 
completamente  negativo,  per  ciò  che  si  riferisce  agli  emissari  sottozigomatici  laterali, 
positivo  invece  per  gli  emissari  sottozigomatici  mediali.  L'apertura  esocranica  di 
questi  è  esclusivamente  mediale  al  cono  articolare,  di  forma  ovalare,  ampia  mm.  1,5, 
situata  tra  la  estremità  laterale  della  scissura  di  Glaser  ed  il  margine  mediale  del 
cono  articolare,  a  ridosso  dell'osso  timpanico.  Il  canale  che  le  fa  seguito  è  asso- 
lutamente breve  e  si  apre  all'endocranio,  come  abbiamo  verificato  in  un  esemplare 
molto  interessante  (Ist.  Anat.),  nel  fondo  del  solco  petrosquamoso  (Fig.  23  eps,  sj)s),  nel 
punto  in  cui  la  sutura  omonima  da  sagittale  si  fa  obliqua  in  avanti  e  medialmente  : 
il  solco  per  il  seno  petrosquamoso  è  solo  evidente  dorsalmente  allo  sbocco  dell'emis- 


206  ALFONSO  BOVEKO  —  UMBERTO  CALAMIDA  48 

savio  ed  è  tuttavia  assai  ampio,  a  labbra  smusse.  All'apertura  endocranica  dell'emis- 
sario arriva,  come  abbiamo  di  già  visto  in  altri  crani  di  Scimmie,  la  docciatura 
diretta  sagittalmente,  per  i  vasi  meningei  medi:  vi  hanno  però  differenze  rilevanti 
nei  rapporti  delle  varie  parti  dai  due  lati.  A  destra  esiste  un  foramen  spinosum 
molto  ampio  (Fig.  23  fs),  a  cui  fa  seguito  lateralmente  una  netta  solcatura,  la  quale 
raggiunge  con  direzione  quasi  frontale  la  solcatura  sagittale  per  i  vasi  meningei 
medi.  A  sinistra  invece  il  foramen  spinosum  e  la  corrispondente  docciatura  mancano 
completamente;  il  forameli  lacerum  anterius  è  più  ampio  che  a  destra,  così  pure  è 
assai  più  largo  il  canale  osseo  che  fa  comunicare  ventralmente  la  docciatura  per 
i  vasi  meningei  con  la  cavità  orbitaria  sinistra.  Le  differenze  dei  due  lati  sono 
secondarie  alla  presenza,  pure  con  alcune  diversità  a  destra  ed  a  sinistra,  di  canali 
anomali  attraversanti  la  squama  temporale,  certamente  in  relazione  con  una  origine 
anomala  dall'a.  meningea  media  dell'a.  temporalis  profunda  posterior,  sulla  quale  ci 
siamo  per  altro  già  a  lungo  intrattenuti. 

A  destra  sulla  superficie  esterna  dell'osso  squamoso,  a  circa  15  mm.  al  di  sopra 
della  base  del  processo  zigomatico  vi  hanno  (Fig.  22)  due  forami  ovalari  in  forma 
di  fessura,  tagliati  molto  obbliquamente  a  spese  del  tavolato  esterno  della  squama  : 
di  questi  uno  è  posteriore,  situato  lungo  una  linea,  che  prolungasse  verticalmente 
in  alto  l'asse  del  cono  articolare,  a  mm.  6  dal  margine  superiore  della  squama;  ed 
uno  è  anteriore  posto  8  mm.  ventralmente  al  precedente,  a  9  mm.  dal  margine  supe- 
riore della  squama,  leggermente  più  ampio  di  quello  posteriore.  Detti  forami  rappre- 
sentano l'apertura  esterna  di  due  canali  indipendenti  scavati  nello  spessore  della 
squama  stessa,  fra  loro  convergenti  in  basso  e  medialmente:  dei  due  canali  infra- 
squamosi  infatti  l'anteriore  (fisa)  si  apre  nella  parete  esterna  della  solcatura  sagit- 
tale per  i  vasi  meningei  medi,  nel  punto  in  cui  questa  si  congiunge  con  la  solcatura 
ben  marcata  a  direzione  frontale,  che  si  inizia  al  foramen  spinosum,  in  guisa  che  detto 
canale  pare  continui  direttamente  nello  spessore  della  squama  il  decorso  della  solca- 
tura predetta  a  direzione  frontale.  Il  canale  posteriore  invece  sbocca  all' endocranio 
4  mm.  più  in  addietro,  subito  lateralmente  al  punto  in  cui  la  solcatura  sagittale 
raggiunge  lo  sbocco  superiore  dell'emissario  sottozigomatico  (Fig.  23).  Esso  nella  sua 
porzione  intermedia  è,  per  un  tratto  di  circa  2  mm.  (a),  scoperto  dall'interno  del 
cranio,  di  modo  che  i  vasi  che  vi  decorrevano  erano  quivi  ricoperti  immediatamente 
dalla  dura:  poi  nella  porzione  inferiore  il  canale  è  di  nuovo  completo  e  si  apre 
infine  con  uno  sbocco  relativamente  assai  più  ampio  ed  evidente  che  non  quello  ante- 
riore (fisp). 

Dal  lato  sinistro  sulla  faccia  esterna  della  squama  del  temporale,  a  mm.  15 
superiormente  alla  base  del  processo  zigomatico,  ad  8  mm.  dal  margine  superiore 
della  squama  si  ritrova  un  forame  ovalare,  più  ampio  di  quelli  di  destra,  per  rispetto 
ai  quali  occuperebbe  anche  una  posizione  intermedia  :  esso  si  continua,  come  gli  altri, 
in  un  canale  decorrente  pure  in  basso  e  medialmente  attraverso  la  squama  tempo- 
rale: il  canalino  poi  si  apre  in  basso  nella  fossa  media  del  cranio,  alla  estremità 
laterale  di  una  breve  docciatura  diretta  verticalmente,  ampia  1  mm.,  la  quale  viene 
a  terminare  allargandosi  nella  docciatura  sagittale  per-  i  vasi  meningei  medi  (più 
ampia  che  a  destra),  precisamente  nel  punto  ove  questa  raggiunge  l'apertura  endo- 
cranica dell'emissario  sottozigomatico   mediale. 


49  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMoSI  207 

Non  è  più  il  caso  di  insistere  ancora  qui  sul  significato  dei  canali  infrasquamosi 
ora  descritti  :  piace  a  noi  far  rilevare  però  come  è  probabile  che  a  destra  esistessero  due 
rami  arteriosi  {aa.  temporali  profonde  posteriori)  originanti  da  una  a.  meningea  media 
proveniente,  attraverso  il  foro  spinoso  molto  ampio,  direttamente  dall'a.  mascellare 
interna,  mentre  il  ramo  dato  dall'a.  lacrimale  aveva  un'importanza  affatto  secondaria, 
disposizione  questa  che  sarebbe,  già  di  per  se ,  cioè  indipendentemente  dall'  ori- 
gine delle  aa.  temporali  profonde  posteriori,  anomala  nelle  Scimmie  di  questa  specie 
[Tandler  (67)].  A  sinistra  invece  l'a.  meningea  media  proveniva  con  tutta  probabilità 
esclusivamente  dall'a.  lacrimale,  come  deporrebbe  l'ampiezza  del  canale  scavato  fra 
l'angolo  sfenoideo  del  parietale  e  le  estremità  laterali  dell' alisfenoide  e  della  pars 
nrbitalis  del  frontale,  mentre,  se  pure  esisteva,  il  ramo  della  a.  mascellare  interna 
entrava  nel  cranio  a  traverso  il  foro  lacero  ed  aveva  un'importanza  secondaria.  Per 
noi  poi  è  specialmente  interessante  verificare  come  i  rapporti  dei  canali  infrasquamosi 
sia  con  le  docciature  per  il  seno  petrosquamoso  e  per  i  vasi  meningei  medi,  sia 
con  l' apertura  endocranica  dell'  emissario  sottozigomatico  dimostrino  chiaramente, 
ciò  che  non  si  poteva  asserire  recisamente  per  l'Uomo,  che  detto  emissario  adem- 
pieva parzialmente  pure  l'ufficio  di  via  di  deflusso  per  le  vene  satelliti  alle  aa.  tem- 
porali profonde  posteriori  abnormemente  originate. 

In  un  terzo  Cercocebus  fuliginosus  (M.  di  A.  Comp.)  il  reperto  per  gli  emissari 
petrosquamosi  delle  varie  categorie  fu  assolutamente  negativo. 

Gen.  Macacus.  —  I  crani  delle  varie  specie  di  questo  genere  da  noi  esaminati 
sono  in  numero  di  40  e  più  precisamente  20  Macacus  nemestrinus,  6  M.  cynomolgus, 

4  M.  rhesus,  5  M.  inuus,  e  5  di  specie  non  determinata. 

Anche  nel  genere  Macacus,  come  già  nel  Cercopithecus,  esistono  degli  emissari 
sottozigomatici  nettamente  distinguibili  per  la  ubicazione  della  loro  apertura  esterna 
in  due  sottogruppi.  Gli  emissari  sottozigomatici  laterali,  posti  a  ridosso  della  parte  alta 
del  margine  laterale  del  cono  articolare,  occorrono  con  frequenza  di  poco  superiore 
a  quella  dei  Cercopiteci  ;  sono  anche  nei  Macachi  assolutamente  microscopici ,  dif- 
ficilmente permeabili  ad  mia  finissima  setola,  precisamente  come  abbiamo  visto  prima  : 
solo  in  un  M.  nemestrinus  ad.  (Fig.  24  fszl)  ci  riusci  con  opportuni  artifici  (iniezione  di 
liquido  colorato)  e  da  un  sol  lato  a  dimostrare  la  comunicazione  del  canalino  stesso 
coll'endocranio  con  uno  sbocco  comune  allemissario  sottozigomatico  mediale  molto  più 
ampio:  del  resto  valgano  la  descrizione  e  le  considerazioni  fatte  per  i  corrispondenti 
emissari  del  gen.  Cercopithecus. 

Invece  la  esistenza  degli  emissari  sottozigomatici  mediali  va  diventando  nel 
Macacus  un  fatto  quasi  costante:  difatti,  esclusi  7  crani  (6  di  M.  nemestrinus  ed  1  di 
M.  inuus),  nei  quali  noi  non  possiamo  per  le  condizioni  di  macerazione  pronunciarci 
sulla  loro  esistenza  o  sulla  loro  mancanza,  noi  abbiamo  ritrovato  detto  emissario 
bilateralmente  in  28  crani  (6  M.  cynomolgus,  9  M.  nemestrinus,  4  M.  rhesus,  4  M.  inuus, 

5  M.  sp.?):  in  un  cranio  di  M.  nemestrinus  il  canale  emissario  esisteva  solo  dal  lato 
sinistro,  in  altri  4  della  stessa  specie  invece  non  siamo  riusciti  a  persuaderci  della  sua 
esistenza,  avvertendo  però  che  il  nostro  esame  si  riferisce  solo  alla  faccia  esocranica 
della  corrispondente  regione.  Anche  la  posizione  dell'apertura  esterna  dell'emissario 
è  affatto  costante  e  cioè  medialmente  al  cono  articolare,  oppure  subito  posteriormente 


j     -  ALFONSO    BOYEKO    —    UMBERTO    CALAMIDA 


50 


al  margine  mediale  del  cono  stesso  (Fig.  24  fszm),  fra  questo  e  la  porzione  corri- 
spondente dell'osso  timpanico.  La  posizione  esclusivamente  mediale  è  propria  degli 
individui  giovani:  coll'accrescimento  in  larghezza  del  cono  l'apertura  dell'emissario 
appare  spostata  un  po'  posteriormente,  onde  si  possono  facilmente  trovare  le  varie 
forme  di  passaggio:  nei  giovani  l'apertura  è  relativamente  più  ampia  (2-3  mm),  spesso 
circolare;  negli  individui  adulti  invece  essa  è  ovalare,  più  spesso  a  mo'  di  fessura, 
talvolta  mascherata  dalla  sporgenza  del  cono  e  dell'osso  timpanico.  Tre  volte  noi 
abbiamo  verificato  una  evidentissima  asimmeti'ia  nell'  ampiezza  dell'  apertura  stessa 
da  uno  all'altro  lato,  fatto  questo  che  si  ripeteva  pure  all'endocranio  nell'ampiezza 
dell'  apertura  superiore  e  del  solco  per  il  seno  petrosquamoso  corrispondente:  in 
2  crani  di  M.  nemestrinus  Y  emissario  di  sinistra  aveva  un  calibro  quasi  triplo  di 
quello  di  destra,  essendo  questo  ridotto  ad  un  forellino  appena  permeabile  ad  una 
fine  setola;  tale  asimmetria  spiega  la  possibilità  (1  M.  nemestrinus)  della  mancanza 
completa  dell'emissario  di  un  lato. 

Per  ciò  che  si  riferisce  alla  ubicazione  dell'apertura  endocranica  dell'emissario, 
come  al  comportamento  del  solco  per  il  seno  petrosquamoso,  il  gen.  Macacus  non 
differisce  punto  dagli  altri  precedentemente  studiati  della  sottofamiglia  Cercopithecinae. 
Il  solco  per  il  seno  petrosquamoso  però,  comparativamente  a  quello  del  gen.  Cerco- 
pithecus,  ci  è  parso  generalmente,  nella  porzione  posta  dorsalmente  all'apertura  endo- 
cranica dell'emissario,  più  ampio  e  più  profondo  anche  negli  individui  giovani,  deli- 
mitato nei  crani  di  adulti  da  labbra  taglienti  :  in  un  cranio  di  M.  cynomolgus  dai  due 
lati  la  porzione  posteriore  di  detta  solcatura  è  trasformata  in  un  ampio  e  lungo 
canale,  suturandosi  fra  loro  il  tavolato  interno  del  parietale  e  il  margine  superiore 
della  base  della  piramide:  una  disposizione  analoga,  però  assai  meno  accentuata,  esiste 
a  sinistra  in  un  cranio  di  M.  nemestrinus,  nel  quale  una  ristretta  lamella  ossea  dipen- 
dente dal  petroso  si  porta  lateralmente  a  riunirsi  col  parietale.  Le  connessioni  ed  i 
rapporti  delle  solcature  per  i  vasi  meningei  medi,  come  nei  Cercopiteci,  dimostrano 
chiaramente  come  l'emissario  petrosquamoso  serva  non  solo  al  deflusso  del  sangue 
dal  seno  omonimo,  ma  anche  di  quello,  o  per  lo  meno  di  gran  parte,  delle  vene  me- 
ningee medie.  Il  foramen  jugulare  come  nei  precedenti  è,  relativamente  all'ampiezza 
delle  solcature  dei  seni,  considerevolmente  ristretto. 

È  infine  da  accennarsi  come  in  un  M.  inuus,  molto  interessante  per  altre  varietà 
dello  scheletro  facciale,  esiste  a  sinistra  un  canalino  che  dalla  parte  alta  della  super- 
ficie esterna  della  squama  temporale  si  porta  in  basso  e  medialmente  nello  spessore 
della  squama  stessa  per  terminare  nella  fossa  cranica  media:  il  suo  comportamento, 
come  il  suo  significato,  sono  perfettamente  identici  a  quelli  dei  canali  già  da  noi 
descritti  ripetutamente  nell'Uomo,  nel  Cercocebus  fuliginosus  e  nel  Cercopithecus. 

Gen.  Cynopithecus,  Theropithecus,  Papio.  —  Aggruppiamo  assieme  i  tre  generi 
precedenti  perchè  il  comportamento  degli  emissari  squamosi  o  petrosquamosi  è  affatto 
identico  in  tutti,  come  è  sostanzialmente  simile  a  quello  descritto  pei  Cercopiteci  e 
pei  Macachi.  Il  nostro  esame  volge  su  3  Cynopithecus  nigrescens,  1  Theropithecus  gelada, 
2  Papio  porcarius,  1  P.  mormori,  1  P.  sphinx,  3  P.hamadryas  e  5  Cynopithecus  sp.? 
Anche  in  questi  crani,  come  in  quelli  di  Cercopiteci  e  di  Macachi,  occorrono  le  due 
specie  di   canali    emissari   sottozigomatici   mediali    e    laterali,  gli  uni  e  gli  altri  coi 


51  (ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  209 

soliti  caratteri,  sia  per  ciò  che  si  riferisce  alla  frequenza,  come  alla  loro  ampiezza 
ed  importanza. 

Dei  canali  sottozigomatici  laterali  noi  accenneremo  solamente  come  siano  com- 
plessivamente più  rari  di  quelli  mediali  e  come  la  loro  presenza  non  appaia  in  rela- 
zione diretta  con  l'età,  potendo  essere  presenti  in  crani  di  individui  giovanissimi, 
come  in  crani  di  individui  adulti  e  vecchi.  I  canali  delle  due  categorie  occorrono 
generalmente  dallo  stesso  lato  del  medesimo  cranio:  solo  in  un  Theropithecus  yelada, 
mancando  l' emissario  sottozigomatico  mediale  dal  lato  sinistro ,  è  da  questo  lato 
alquanto  più  ampio  che  a  destra  un  emissario  sottozigomatico  laterale,  permeabile 
ad  una  setola  fino  alla  solcatura  per  il  seno  petrosquamoso ,  ristretto  in  forma  di 
fessura  (Fig.  25  eps).  Per  contro  in  un  Cynopithecus  nigrescens  ad.,  dal  lato  destro 
mancando  il  forame  sottozigomatico  mediale,  manca  pure  ogni  traccia  del  laterale, 
mentre  a  sinistra  entrambi  sono  presenti  con  gli  abituali  caratteri. 

Per  il  canale  emissario  sottozigomatico  mediale  i  caratteri  sono  affatto  analoghi 
a  quelli  dei  generi  precedenti  :  1'  apertura  esocranica  è  posta  medialmente  al  cono 
articolare  sempre  robustamente  sviluppato,  oppure  subito  in  addietro  del  margine 
mediale  del  cono  stesso.  Tale  emissario  è  presente  dai  due  lati  in  2  Cynopithecus 
nigrescens,  in  un  altro  invece  manca  completamente  dal  lato  destro:  in  un  Theropi- 
thecus gelada,  come  in  un  Cynopithecus  sp.?  manca  invece  a  sinistra:  in  tutti  gli 
altri  sovra  accennati  esso  esiste  bilateralmente,  alcune  volte  più  ampio  da  un  lato 
che  dall'altro  :  nei  casi  di  asimmetria  anche  la  solcatura  petrosquamosa  corrispon- 
dente presenta  differenze  nell'ampiezza  da  uno  all'altro  lato.  Del  resto  detto  solco 
offre  i  soliti  caratteri,  è  costantemente  molto  marcato,  spesso  a  labbra  taglienti.  La 
sua  chiusura  a  costituire  un  canale  occorre  abbastanza  di  raro,  avendola  constatata, 
su  16  crani  dei  vari  generi,  solo  2  volte  e  dal  lato  sinistro  e  più  precisamente  in  un 
C.  nigrescens  (Fig.  25  ci)  ed  in  un  P.  porcarius;  in  quest'ultimo  la  parte  coperta  dal 
canale  è  lunga  12  mm. 

Riassumendo,  per  quanto  riguarda  la  subfam.  Cercopithecinae  noi  possiamo  asse- 
rire che  gli  emissari  petrosquamosi  occorrono  nei  vari  generi  con  una  frequenza 
molto  maggiore  di  quanto  non  sia  ammesso  dai  vari  AA.,  che  ci  precedettero  nello 
studio  di  questo  argomento.  Lasciando  in  disparte  i  casi  eccezionali  di  forami  anomali 
della  parte  alta  della  squama  temporale  (Gercocebus,  Cercopithecits,  Macacus  inuus),  il 
cui  significato  è  d'altra  parte  molto  diverso,  noi  abbiamo  potuto  vedere  come  quasi 
costantemente  esistano  degli  emissari,  che  si  aprono  all'esterno  in  una  posizione  pure 
costante  nei  vari  generi,  cioè  medialmente  al  cono  articolare:  abbiamo  notato  anche 
come  quasi  solo  a  questi  si  debba,  per  la  loro  ampiezza,  dare  il  valore  di  emissari 
venosi.  Invece  ad  altri  canali  aprentisi  all'  esterno  sul  margine  laterale  del  cono 
articolare,  straordinariamente  piccoli  e  meno  frequenti,  pur  non  negando  loro  assolu- 
tamente il  valore  di  emissari,  si  deve  assegnare  un'  importanza  molto  secondaria,  per 
quanto,  non  ostante  la  loro  frequenza  (1/3  dei  casi),  siano  stati  finora  completamente 
trascurati. 

Fam.  Cébidae.  —  I  reperti  dei  vari  AA.  nelle  Scimmie  platinine  sono  un 
po'  più  concordanti  dei  risultati  riferiti  per  le  catarrine.  Tralasciando  i  cenni  di 
Otto  (50)  e  di  Luschka  (45 a  b),  noi  vediamo  difatti  come  Cope  (9)  ammetta  nel  Cebus 

Serie  II.  Tom.  LUI.  E1 


210  ALFONSO    BOTERÒ    UMBERTO    CALAMUIA 


52 


un  foro  postglenoide  ed  uno  postparietale,  mancando  invece  ogni  traccia  di  foro  nel- 
ì'Ateles,  Callitrix  e  Mycetes;  Lowenstein  (44)  invece  avrebbe  riscontrato  costantemente 
dietro  la  porzione  mediale  del  cono  articolare  il  foramen  jugulare  spurium  in  3  Ateles, 
5  Cebus,  3  Mycetes:  così  pure  Kopetsch  (34)  sopra  6  Mycetes  avrebbe  trovato  il 
forame»  jugulare  spurium  dietro  il  robusto  cono  articolare,  molto  ampio  in  4,  appena 
percettibile  in  2;  esso  esisteva  pure  nei  3  Ateles  e  nei  7  Cebus  da  lui  esaminati, 
vale  a  dire  più  o  meno  pronunciato  in  tutte  le  16  platirrine  osservate.  Cheatle  (8) 
ne  afferma  la  esistenza  nel  Cebus  e  nel  Crysotrix,  mentre  secondo  Cabibbe  (4)  man- 
cherebbe nel  Cebus  apella. 

I  nostri  reperti  confermano  essenzialmente  i  risultati  dei  differenti  AA.,  allar- 
gando anzi  di  molto  per  certi  riguardi  le  nozioni  che  si  avevano  sul  numero  e  sul- 
l'ubicazione dell'apertura  esocranica  degli  emissari  temporali  stessi,  in  quanto  si  sono 
sempre  considerati  quasi  esclusivamente  come  tali  solo  quelli  aprentisi  all'esterno 
caudalmente  alla  radice  sagittale  dell'apofisi  zigomatica. 

Subfam.  Mycetinae.  —  I  crani  di  questa  sottofamiglia  avuti  in  esame  sono  8  : 
fra  essi  dobbiamo  però  escludere  un  M.  flavicauda  perchè  la  condizioni  di  macera- 
zione dello  stesso  impedivano  di  ben  scorgere  le  regioni  corrispondenti  allo  sbocco 
degli  eventuali  emissari.  Negli  altri  7  (3  Mycetes  seniculus  niger,  4  M.  sp.  ?)  noi  abbiamo 
trovato  due  specie  di  canali  emissari  venosi  temporali  e  più  precisamente  da  clas- 
sificarsi rispettivamente  come  prezigomatici  superiori  e  come  sottozigoma fici  mediali. 

Gli  emissari  prezigomatici  superiori  sono  assolutamente  costanti  e  dai  due  lati 
in  tutti  i  7  crani  sovraccennati,  in  guisa  che  si  può  ben  asserire  che  tale  ubica- 
zione, da  noi  riscontrata  come  rarissima  anomalia  nel  cranio  umano  e  come  occor- 
renza pure  eccezionale  in  altre  Scimmie  (Hylobates),  costituisce  una  caratteristica 
fissa  dei  Mycetes.  Il  forame  prezigomatico  si  apre  nella  porzione  della  squama,  che 
guarda  la  fossa  infratemporale,  essendo  situato  ad  1-2  mm.  (Fig.  26  fps,  ci)  al  disopra 
della  sporgenza  della  cresta  omonima:  il  calibro  di  detta  apertura  varia  molto  nei 
diversi  esemplari,  da  un  forame  ampio  mm.  1-1,5  ad  un  microscopico  forellino,  che 
dà  passaggio  solo  ad  un  fine  crine  di  cavallo  (1  M.  sp.?  ad.).  Il  calibro  può  variare 
anche  dai  due  lati  ;  a  noi  occorse  infatti  di  verificare  in  un  .1/.  seniculus  niger  (Fig.  26) 
che  il  forame  di  destra  era  doppio  di  quello  sinistro;  ciò  è  forse  in  relazione  col 
fatto  che  a  destra  mancava  un  emissario  sottozigomatico  mediale,  esistente  invece  a 
sinistra.  L'  apertura  esocranica  prezigomatica  può  essere  anche  doppia  come  in  un 
M.  seniculus  niger  ad.  (M.  d'An.  Comp.)  a  destra.  Ad  ogni  modo  il  canale  originante 
da  detta  apertura  si  porta  in  dietro  nello  spessore  della  squama  e,  dopo  breve  tratto, 
si  apre  all' endocranio ,  sotto  forma  di  una  fessura  più  o  meno  regolare  nel  fondo 
della  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso  :  nel  solo  caso  in  cui  noi  abbiamo  potuto 
esaminare  la  cavità  craniana  {M.  seniculus  niger  ad.  ;  Ist.  Anat.),  tale  solco  era  poco 
pronunciato,  a  margini  smussi,  confluente  in  addietro  col  solco  sigmoide,  mentre  in 
avanti,  ventralmente  allo  sbocco  dell'emissario  prezigomatico,  riceve  la  solcatura 
sagittale  più  ristretta  per  i  vasi  meningei  medi. 

Gli  emissari  sottozigomatici  mediali  sono  invece  meno  costanti  ;  diffatti  fra  i  7  casi 
sovra  ricordati,  dovendosene  ancora  escludere  uno  perchè  l'esame  è  reso  impossibile 
dalla  macerazione  incompleta,  ne  manca  ogni    traccia    dai  due  lati  in  1,  nel  quale 


53  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  211 

anche  i  prezigomatici  sono  pure  bilateralmente  piccolissimi,  esiste  solo  a  sinistra 
molto  piccolo  in  un  altro  (M.  seniculus  niger  ad.  ;  Ist.  Anat.),  mancando  invece  a 
destra.  Del  resto  anche  1'  ampiezza  di  tale  emissario  negli  altri  casi  è,  comparati- 
vamente a  quanto  abbiamo  riscontrato  ad  es.  nei  Cercopiteci,  Macachi,  Cebidi,  Hapa- 
lidi,  assolutamente  minima,  sì  da  permettere  solo  il  passaggio  di  una  piccola  setola. 
Essi  si  aprono  all'esterno  immediatamente  all'indietro  del  margine  mediale,  per  lo 
più  tagliente,  del  cono  articolare,  fra  questo  e  l'osso  timpanico  in  guisa  che  l'aper- 
tura stessa  può  essere  mascherata:  l'apertura  endocranica,  corrispondentemente  pic- 
cola, si  fa  pure,  nel  solo  caso  in  cui  ci  è  stato  possibile  l'esame  endocranico,  in  fondo 
della  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso ,  a  3  min.  dorsalmente  all'apertura  del- 
l'emissario prezigomatico.  Dobbiamo  notare  ancora  nei  Mycetes  la  forma  caratteristica 
del  cono  articolare,  il  quale  si  presenta  come  una  lamina  sempre  robustamente 
sviluppata  e  fortemente  ricurva  in  avanti  ed  in  basso  a  mo'  di  un  becco.  Nei  vari 
casi  non  abbiamo  potuto  verificare  l'esistenza  di  alcun  altro  emissario  squamoso  : 
dato  il  rapporto  fra  il  calibro  dei  canali  delle  due  categorie  è  indubbio  che  i  canali 
sottozigomatici  mediali,  per  quanto  frequenti,  giuocano  nei  Mycetes,  comparativamente 
ai  prezigomatici,  un  ufficio  affatto  secondario. 

Subfam.  Cebinae.  —  In  2  crani  di  Brachyteles  tuberifer  ed  in  1  di  Ateles  paniscus 
noi  abbiamo  riscontrato  dai  due  lati  due  specie  di  emissari  squamosi;  e  cioè 
un'  apertura  relativamente  ampia  (1  mm.)  posta  immediatamente  dietro  al  margine 
mediale  del  cono  articolare  ed  inoltre  un'  altra  fine  apertura  posta  nella  parte  ante- 
riore della  squama  subito  al  di  sopra  della  crista  infratemporalìs,  in  una  posizione 
cioè  perfettamente  identica  a  quella  del  foro  analogo  descritto  nel  Mycetes:  da  questo 
il  foro  prezigomatico  differisce  solamente  per  la  maggiore  piccolezza  relativa:  dei 
detti  3  crani  ci  manca  1'  esame  endocranico,  in  guisa  che  nulla  possiamo  dire  rela- 
tivamente al  rapporto  dei  rispettivi  canali  emissari  col  solco  per  il  seno  petro- 
squamoso. 

Assai  diversamente  si  comportano  gli  emissari  nel  gen.  Cebus  e  le  differenze  si 
differiscono  sia  all'ampiezza  veramente  grande  degli  emissari  sottozigomatici,  alla  man- 
canza assoluta  di  prezigomatici,  come  alla  comparsa  quasi  costante  di  altri  emissari, 
da  noi  riscontrati  nelle  Scimmie  finora  solo  eccezionalmente  (Semnopithecus,  Fig.  21), 
e  che  chiameremo  emissari  postsquamosi. 

In  14  crani  di  Cebus  (6  C.  capucinus,  3  C.  fatuellus,  5  C.  sp.  ?)  noi  abbiamo  riscon- 
trato costantemente  dai  due  lati,  in  individui  giovani  come  in  adulti,  immediatamente 
indietro  al  margine  od  alla  metà  mediale  del  cono  articolare,  nell'interstizio  triango- 
lare a  base  laterale  compreso  fra  la  faccia  posteriore  del  cono  ed  il  cercine  timpanico, 
un  forame  circolare  od  ovalare,  relativamente  ampio  (2-3  mm.),  a  margini  regolari, 
che  si  può  ben  considerare  come  un  emissario  sottozigomatico  posteriore,  ritenendo 
naturalmente  questi,  per  le  ragioni  addotte  ripetutamente,  come  una  sottovarietà 
degli  emissari  sottozigomatici  mediali:  talvolta  vi  ha  dai  due  lati  un'  evidente  asim- 
metria nell'  ampiezza  di  detta  apertura  :  tal'  altra  questa  è  come  scavata  al  fondo 
di  una  doccia  della  faccia  posteriore  del  cono  articolare  stesso.  Date  le  dimensioni 
generali  del  cranio,  come  degli  organi  circoscriventi  la  regione  in  cui  si  aprono 
detti  emissari,  essi  sono  i  più  ampi  ed  i  più  regolari  di  quanti  già  abbiamo  descritto 


21  li  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  54 

nelle  altre  famiglie  di  Scimmie.  All'ampia  apertura  esocranica  corrisponde  all'endo- 
cranio  un  foro  pure  ugualmente  largo,  per  lo  più  regolarmente  circolare,  il  quale 
si  apre  alla  estremità  anteriore  di  un'  evidente  solcatura  petrosquamosa ,  limitata 
da  due  labbra  nettamente  rilevate:  in  uno  dei  crani  in  cui  l'esame  della  cavità  ci 
fu  possibile,  tale  solcatura  è  dai  due  lati,  ma  per  un  tratto  maggiore  a  destra,  tras- 
formato in  un  canale  da  una  spicola  ossea  che  dal  petroso  si  porta  lateralmente 
verso  il  tavolato  interno  dell'osso  parietale.  E  interessante  notare  come  in  detto 
caso,  da  ciascun  lato,  la  docciatura  si  prolunghi  in  addietro  nettamente  marcata 
oltre  1'  estremità  superiore  del  seno  sigmoide ,  sino  alla  apertura  endocranica  del 
foro  mastoideo,  posta  alla  parte  alta  della  sutura  occipitomastoidea,  cioè  esattamente 
all'asterion. 

Mentre  il  foro  emissario  sottozigomatico  esiste  in  tutti  i  Cebus  da  noi  esami- 
nati, meno  costante  per  la  esistenza  come  per  la  ubicazione  ci  è  parso  l'emissario 
postsquamoso.  Anzitutto  esso  manca  completamente  dai  due  lati  in  2  crani  di  C.  sp.  ? 
ed  in  un  C.  capucinus  (juv.);  in  un  C.  fatuellus  manca  a  sinistra  ed  è  appena  per- 
meabile dal  lato  destro.  Nella  maggior  parte  degli  altri  casi  però  (in  7  crani  bila- 
teralmente, in  1-  solo  a  destra)  il  forame  postsquamoso ,  per  lo  più  regolarmente 
circolare,  ampio  mm.  0,5-1,5,  si  trova  situato  nella  sutura  parietotemporale  e  più 
precisamente  nel  punto  in  cui  la  sutura  parietosquamosa,  solo  leggermente  curva 
per  non  dire  appianata,  si  continua  con  la  parietomastoidea,  vale  a  dire  nell'angolo 
ampiamente  ottuso  delimitato  dal  margine  superiore  della  squama  e  da  quello  della 
pars  mastoidea:  esso  si  troverebbe  cioè  immediatamente  al  di  sopra  dell'estremo  po- 
steriore della  linea  temporale,  in  corrispondenza  di  una  retta,  che  prolungasse  verti- 
calmente in  alto  l'attacco  del  corno  posteriore  del  cercine  timpanico;  in  tutti  però,  per 
quanto  collocato  nella  sutura,  il  forame  interessa  quasi  esclusivamente  la  squama, 
essendo  solo  chiuso  per  brevissimo  tratto  in  alto  ed  in  addietro  dal  tavolato  esterno 
del  parietale.  In  2  crani  (1  C.  fatuellus,  1  C.  capucinus)  dai  due  lati  il  forame  pre- 
detto, invece  di  trovarsi  direttamente  nella  sutura,  è  per  contro  posto  subito  in  avanti 
di  questa,  scavato  completamente  nello  spessore  della  parte  alta  e  posteriore  del 
tavolato  esterno  della  squama,  essendo  separato  dalla  sutura  mediante  un  interstizio 
di  mezzo  millimetro  circa,  in  guisa  che  il  parietale  non  entra  punto  a  circoscriverne 
l'apertura;  tale  disposizione  si  verifica  pure  dal  lato  destro  di  un  altro  C.  fatuellus, 
mentre  a  sinistra  il  forame,  più  ampio,  corrisponde  al  punto  in  cui  confluiscono  le 
suture  parietosquamosa  e  parietomastoidea.  In  ogni  caso  tale  forame,  sia  che  cor- 
risponda alla  sutura,  come  alla  squama,  e  specialmente  in  quest'ultimo  caso,  ha  un 
calibro  sempre  minore  di  quello  costante  posto  dorsalmente  al  cono  articolare:  la 
sua  presenza  coesiste  anche  sempre  col  foro  mastoideo  più  o  meno  ampio,  talvolta 
in  forma  di  larga  fessura,  posto  a  varia  altezza  della  sutura  occipitomastoidea  o  nel 
margine  posteriore  della  pars  mastoidea  del  temporale.  Vi  hanno  anche  talvolta  va- 
riazioni nel  calibro  del  canale  dei  due  lati.  Il  canale  che  fa  seguito  al  forame  post- 
squamoso  è  corrispondentemente  ampio,  si  dirige  in  avanti  ed  alquanto  medialmente 
per  aprirsi  nella  parete  laterale  della  porzione  posteriore  della  solcatura  per  il  seno 
petrosquamoso:  nel  caso  sovra  accennato,  in  cui  questa  è  trasformata  in  canale, 
l'apertura  endocranica  dell'emissario  postsquamoso  corrisponde  appunto  alla  porzione 
coperta,  ed  una  grossa  setola,  introdotta  dal  foro  postsquamoso,   imboccando  il  detto 


55  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  213 

canale  può  facilmente  fuoriuscire  ancora  dal  cranio  attraverso  il  forame  emissario 
sottozigomatico.  Noi  vedremo  più  esagerata  ancora  tale  disposizione  nelle  Hapalidae. 
Riassumendo,  mentre  i  gen.  Atéles  e  Bracìujteles  per  la  presenza  di  un  canale 
prezigomatico  concomitante  ad  uno  sottozigomatico  mediale  si  possono  avvicinare 
chiaramente  al  gen.  Mycetes,  il  gen.  Cebus  se  ne  differenzia  affatto  perchè,  concomi- 
tantemente al  sottozigomatico,  possiede  come  carattere  quasi  costante,  non  più  un 
emissario  prezigomatico,  ma  bensì  un  postsquamoso:  non  è  escluso,  ciò  che  potrebbe 
risultare  dall'esame  di  materiale  più  abbondante,  che  anche  nel  gen.  Ateles  e  Bra- 
cìujteles possa  occorrere  un  postsquamoso  e  nei  Cebus  un  prezigomatico:  data  tut- 
tavia 1'  affinità  dei  vari  generi  della  detta  sottofamiglia ,  non  pare  tuttavia  inutile 
accennare  al  comportamento  diverso  negli  uni  e  negli  altri  degli  emissari  temporali. 

Subfam.  Pithecinae  (Brachyrus).  Subfam.  Nyctipithecinae  (Callitrix,  Crysotrix).  — 
In  un  Brachyrus  calvus  ad.  le  condizioni  di  macerazione  del  cranio  non  ci  permet- 
tono di  pronunciarci  sulla  esistenza  di  emissari  posteriormente  al  cono  articolare: 
certamente  mancano  emissari  postsquamosi. 

Invece  in  3  Callitrix  ad.  esiste  dai  due  lati  un  foro  ovalare,  specialmente  ampio 
in  2  crani  e  dai  due  lati,  esilissimo  in  un  altro  sì  da  permettere  appena  il  pas- 
saggio ad  una  fine  setola,  posto,  come  nei  Cebus,  subito  dietro  il  margine  mediale 
del  cono  articolare.  In  un  cranio  solo  esiste  bilateralmente  nella  porzione  anteriore 
dell'angolo  mastoideo  del  parietale  un  esile  forellino,  che  conduce  in  un  canale  diretto 
in  avanti  verso  il  solco  per  il  seno  petrosquamoso. 

In  2  crani  di  Crysotrix  sciurea  juv.  (Ist.  Anat.),  dietro  e  medialmente  al  cono 
articolare  relativamente  ben  sviluppato,  fra  questo  e  l'osso  timpanico,  vi  ha  da  ambo 
i  lati  un  forame  ovalare.  ampio  2  mm.  a  destra,  mm.  1,5  a  sinistra,  cui  corrisponde 
nella  fossa  cranica  media  un'apertura  similare  situata  all'estremità  anteriore  di  una 
ampia  solcatura  per  il  seno  petrosquamoso,  delimitata  da  labbra  taglienti  e  comu- 
nicante dorsalmente  colla  solcatura  sigmoide:  tale  solcatura,  per  quanto  profonda,  è 
completamente  scoperta.  Manca  ogni  traccia  di  emissari  delle  altre  categorie. 

Fam.  Hapalidae.  —  Negli  Arctopiteci  la  esistenza  degli  emissari  squamosi  è 
ammessa  come  carattere  costante  da  tutti  gli  AA.  (Cope,  Lòwenstein,  Kopetsch, 
Cheatle,  ecc.):  quasi  tutti  però,  salvo  il  Cope  (9),  che  ricorda  nell'Hapale  un  foro 
postglenoide  ed  uno  postquamoso,  si  riferiscono  solo  esclusivamente  a!  primo  di  questi. 

I  crani  esaminati  sono  7  e  più  precisamente  3  Hajxde  jacchus ,  1  H.  melanura, 
1  H.  rosolia  e  2  H.  sp.  ? .  In  tutti  i  detti  crani  il  comportamento  degli  emissari  è, 
salvo  un'eccezione,  perfettamente  simile:  abbiamo  cioè  anche  qui,  come  nel  gen.  Cebus, 
due  specie  di  canali  emissari,  cioè  emissari  sottozig ornatici  ed  emissari  postsquamosi: 
l'importanza  però  dei  primi  è  assolutamente  secondaria,  in  genere  per  la  loro 
ampiezza  prevalendo  di  molto  i  postsquamosi,  mentre  nel  Cebus  occorre  il  fatto 
inverso.  I  forami  sottozigomatici  sono  cioè  assolutamente  esili,  sondabili  con  estrema 
difficoltà  con  una  finissima  setola,  posti  subito  medialmente  al  cono  articolare  ben 
pronunciato,  in  un  caso  solo  immediatamente  dietro  il  margine  mediale  di  questo, 
fra  esso  e  il  cercine  timpanico:  la  loro  picciolezza  ed  il  fatto  di  essere  collocati  in 
una  specie  di  fessura  delimitata  dal  cono  articolare,  fortemente  appiattito  e  disposto 
con  la  base  obliquamente  diretta  in  dentro  e  dorsalmente,  e  dall'attacco    del  corno 


214  ALFONSO    BOVEKO    UMBERTO    CALAJIIDA  56 

anteriore  del  cercine  timpanico,  ne  rende  la  ricerca  spesse  volte  difficilissima.  Tali 
forametti  conducono  nella  fossa  cranica  media  al  fondo  di  una  ristretta  docciatura 
decorrente  tra  la  piramide  e  la  squama  in  addietro  e  lateralmente.  Ventralmente 
all'apertura  endocranica  degli  emissari  sottozigomatici  la  docciatura  si  continua  con 
una  solcatura  superficiale  per  i  vasi  meningei  medi,  medialmente  si  può  seguire  tra 
la  piramide  e  la  squama  fino  al  foro  lacero  anteriore.  In  addietro,  dopo  un  tragitto 
di  2-3  min,  la  docciatura  petrosquamosa  si  trasforma,  nei  2  individui  da  noi  esa- 
minati dall'endocranio,  in  un  canale  ugualmente  ristretto,  il  quale  riesce  alla  estre- 
mità superiore  del  solco  per  il  seno  sigmoide:  la  parte  coperta  della  solcatura  per 
il  seno  petrosquamoso  è  assai  più  lunga  (5-7  mm.)  della  parte  scoperta  (2-3  mm .)  : 
in  altra  parola  il  canale  petrosquamosoparietale  è  più  lungo  della  porzione  disposta 
semplicemente  a  doccia,  ciò  per  lo  meno  nei  2  casi  da  noi  avuti  in  esame. 

I  forami  emissari  post  squamosi  mancano  solo  bilateralmente  nell'i/,  rosolia:  negli 
altri  6  crani  interessano  la  parte  posteriore  della  squama  temporale,  essendo  scavati 
completamente  nello  spessore  di  questa,  per  quanto  in  3  casi  dai  due  lati  ed  in 
1  a  sinistra  il  forame  si  presenti  come  una  intaccatura  quasi  circolare  della  porzione 
posteriore  della  squama,  completata  solo  per  minimo  tratto  dal  margine  opposto  del 
tavolato  esterno  del  parietale.  In  ogni  modo  tali  forametti  sono  più  o  meno  regolar- 
mente circolari,  imbutiformi,  posti  immediatamente  al  di  sopra  della  sporgenza  della 
linea  temporale,  nell'angolo  ottuso  aperto  in  alto  determinato  dall'incontro  di  questa 
con  la  arista  mastoidea,  verticalmente  al  di  sopra  della  parte  media  del  poro  acustico 
esterno:  essi  sono  ampi  in  media  un  po' meno  di  1  mm.  e  conducono  in  un  canale 
lungo  2-3  mm.,  diretto  obliquamente  in  avanti,  in  basso  e  medialmente  per  riuscire 
nel  fondo  della  docciatura  petrosquamosa  subito  ventralmente  al  punto  in  cui  questa 
si  trasforma  in  canale:  la  apertura  endocranica  dell'emissario  postsquamoso,  rela- 
tivamente ampia,  e  quella  ristrettissima  dell'emissario  sottozigomatico  mediale  distano 
fra  di  loro  2  mm.:  la  porzione  della  docciatura  per  il  seno  petrosquamoso  trasformata 
in  canale  petrosquamosoparietale  è  situata  affatto  dorsalmente  all'  apertura  endo- 
cranica dell'emissario  postsquamoso  non  solo,  ma  il  suo  sbocco  posteriore  nel  solco 
per  il  seno  sigmoide  è  situato  pure  assai  dorsalmente  (3-4  mm.)  dell'apertura  eso- 
cranica  del  medesimo  emissario:  data  la  direzione  del  canale  emissario  postsqua- 
moso e  la  ristrettezza  della  parte  scoperta  della  docciatura  per  il  seno  petrosqua- 
moso, una  setola  introdotta  dall'apertura  esocranica  del  primo  può,  con  tutta  facilita, 
cioè  senza  speciali  manovre,  quali  non  si  possono  compiere  nei  crani  integri,  fuori- 
uscire ancora  dal  canale  emissario  sottozigomatico  mediale:  in  questo  caso  il  canale 
postsquamoso  funziona  realmente  come  emissario  principale  per  la  fossa  cranica  media, 
ufficio  che  non  compete  più  che  molto  secondariamente,  al  canale  sottozigomatico. 

Subord.  Lemuridae.  —  La  esistenza  degli  emissari  temporali  nelle  Prosimmie 
è  ricordata  già  da  Otto  (50):  Cope  (9)  afferma  che  nei  gen.  Lemur,  Chirogaleus  e 
Tarsius  vi  ha  solo  un  forameli  postglenoideum ,  il  quale  tuttavia  non  sarebbe  asso- 
lutamente costante  secondo  le  ricerche  di  Kopetsch  (34):  infatti,  mentre  questo  A. 
descrive  appunto  dietro  il  cono  articolare  un  forame  emissario  molto  ampio  in 
2  Lemur  mongoz  ed  uno  finissimo  in  uno  Stenops  gracilis,  ne  ricorda  invece  la  mancanza 
unilaterale  in  1  Nyctkebus  tardigradus,  compieta  in   2  crani  di   Galeopithecus  volans. 


57  (ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQTJAMOSI  215 

Anche  Cablbbe  ricorda  un  foro  postglenoideo  voluminoso  nel  Lemur  albifrons  e  nel- 
Ylndris  brevicaudatus. 

Disgraziatamente  il  materiale  di  cui  abbiamo  potuto  disporre  è  assai  scarso  e 
per  di  più  non  completamente  utilizzabile  per  le  nostre  ricerche:  in  un  cranio  di 
Lemur  catta  ed  in  uno  di  L.  albifrons  si  può  bensì  escludere  la  esistenza  di  forami 
posti  superiormente  alla  radice  sagittale  dell'apofisi  zigomatica,  ma  non  possiamo 
tuttavia  pronunciarci  sulla  loro  esistenza  o  mancanza  nella  regione  del  cono  arti- 
colare. Invece  in  un  altro  L.  catta  ed  in  uno  L.  nìger  dai  due  lati,  immediatamente 
dietro  al  cono  articolare  assai  robustamente  pronunciato,  fra  questo  e  l'anello  tim- 
panico, in  fondo  di  una  evidente  docciatura  scavata  sulla  faccia  dorsale  del  cono 
stesso,  si  riscontra  un'ampia  apertura  ovalare  (mm.  1-1,5),  la  quale  immette  diret- 
tamente nella  cavità  craniana;  per  la  posizione  quindi  si  tratterebbe  anche  in  queste 
due  Lemuridi  di  un  emissario  sottozigomatico  posteriore:  nulla  possiamo  dire  sul  com- 
portamento dei  solchi  vascolari  corrispondenti  dell'endocranio.  Infine  in  un  cranio  di 
Galeopithecus  variegatus  ad.  possiamo  con  certezza  escludere  assolutamente  ogni  traccia 
di  forami  emissari. 

Dato  il  numero  piccolissimo  di  crani  di  cui  abbiamo  potuto  usufruire,  non  ci  è 
naturalmente  permesso  nelle  nostre  considerazioni  andar  oltre  alla  affermazione  che 
i  nostri  reperti  si  accordano  in  genere  con  quelli  di  Kopetsch;  parrebbe  cioè  che 
gli  emissari  squamosi  sottozigomatici  siano  costanti  nel  gen.  Lemur,  non  occorrano 
invece  nel  gen.  Galeopithecus. 

Considerando  ora  in  complesso  i  risultati  ottenuti  dall'esame  diligente  dei  crani 
dei  Primati  relativamente  alla  occorrenza  degli  emissari  temporali  delle  varie  cate- 
gorie, noi  vediamo  come  questi  vadano  aumentando  d'importanza  quanto  più  discen- 
diamo dall'Uomo  e  dagli  Antropomorfi  agli  Arctopiteci.  Anzitutto  si  può  affermare 
che  nelle  Scimmie,  quando  non  sono  costanti,  la  loro  occorrenza  percentuale  è  pur 
certamente  superiore  a  quella  che  noi  abbiamo  trovato  nell'Uomo.  Nelle  Scimmie 
infatti  generalmente,  fatta  eccezione  del  sito  di  elezione  dello  sbocco  esocranico  degli 
emissari,  è  piuttosto  da  considerarsi  anomala  la  loro  mancanza  che  non  la  loro  pre- 
senza; inoltre  nelle  varie  famiglie  va  appunto  via  via  pronunciandosi  la  tendenza  ad 
aumentare  non  solo  il  calibro  alle  singole  aperture,  e  ad  assumere  per  lo  più  carat- 
tere di  formazioni  fisse,  ma  eziandio  la  tendenza  all'accrescimento  del  loro  numero. 

Noi  sappiamo  di  già  come,  salvo  la  maggior  frequenza,  negli  Antropoidi  gli 
emissari,  per  quanto  più  esili  relativamente  all'Uomo,  hanno  nella  loro  sede  un  com- 
portamento diremo  quasi  umano,  vale  a  dire  prevalgono  i  sottozigomatici  mediali 
(Orang,  Gorilla),  sono  invece  più  rari  od  affatto  eccezionali,  appunto  come  nell'Uomo, 
i  sottozigomatici  posteriori  (Orang)  ed  i  prezigomatici  superiori  (Hylobales),  gli  uni  e 
gli  altri  affatto  corrispondenti  a  quelli  di  ugual  nome  descritti  nella  nostra  specie. 
Nella  fam.  Cercopithecidae,  i  Semnopitecini  portano  preferibilmente  un  emissario  sotto- 
zigomatico mediale,  comparendo  come  fatto  speciale  anche  un  forame  emissario  post- 
squamoso;  nei  Cercopitecini  va  gradatamente  crescendo  l'importanza  del  sottozigomatico 
mediale,  che  occorre  nella  grandissima  maggioranza  dei  casi,  contemporaneamente  ad 
un  emissario  sottozigomatico  laterale  di  valore  tuttavia  assolutamente  secondario  al 
precedente. 


216  ALFONSO    BOVEKO    —    UMBERTO    CALAMUIA  58 

In  parecchi  esemplari  dei  vari  generi  della  fam.  Cercopithecidae  occorrono  poi 
le  traccie  di  una  origine  anomala  dell'w.  temporalis  profunda  posterior  precisamente 
e  certo  con  frequenza  maggiore  che  nella  specie  nostra. 

Nella  fam.  Cebidae  le  Mycetinae  hanno  per  caratteristica  la  esistenza  costante 
di  un  emissario  prezigomaticò  superiore  e  quella,  per  lo  meno  frequente,  di  un  emis- 
sario sottozigomatico  mediale,  quest'ultimo  di  importanza  un  po'  secondaria  a  quella 
del  primo;  nelle  Cebinae  il  forame  sottozigomatico  mediale  o  posteriore,  costante, 
assume  ancora  una  spiccata  prevalenza  sul  postsquamoso ,  non  costante  ma  frequen- 
tissimo. La  preponderanza  si  inverte  nella  fam.  Hapalidae  in  cui  il  post  squamoso  è 
molto  più  ampio  ed  assai  più  costante  che  non  il  sottozigomatico  mediale. 

Come  si  vede  chiaramente,  anche  a  riguardo  degli  emissari  temporali,  nelle  varie 
famiglie  di  Scimmie,  ed  in  modo  abbastanza  diverso  da  famiglia  a  famiglia,  si  riscon- 
trano come  caratteristiche  che  si  sono  rese  fisse,  per  lo  più  quasi  immutabili  se  si 
considerano  generi  affini,  delle  disposizioni  che  invece  nell'Uomo  rappresentano  fatti 
anche  puramente  eccezionali.  Lasciando  in  disparte  gli  emissari  sottozigomatici  la  cui 
corrispondenza  per  la  grande  affinità  di  conformazione  della  regione  nell'Uomo  e  nelle 
Scimmie,  è  troppo  ovvia,  è  in  special  modo  persuasivo  il  raffronto  che  si  può  stabi- 
lire, ad  esempio,  fra  i  forami  prezigomatici  superiori  dell'Uomo,  che  sappiamo  di  una 
estrema  rarità,  con  i  prezigomatici  costanti  dei  Mycetes.  A  questo  riguardo  ancora 
noi  dobbiamo  avvertire  che  non  avremmo  veramente  trovato  nelle  Scimmie  dei  pre- 
zigomatici inferiori,  quali  invece  abbiamo  descritto  e  raffigurato  per  l'Uomo:  non 
tenendo  calcolo  della  possibilità  che  su  un  materiale  più  ricco  questi  ultimi  si  pos- 
sano anche  ritrovare  nelle  Scimmie,  noi  non  possiamo  però  fare  a  meno  di  rilevare 
come  la  posizione  leggermente  diversa  sopra  o  sotto  la  cristo  ìnfratemporalis,  non 
possa  in  realtà  avere  un  gran  valore  morfologico,  tanto  più  dato  il  grado  diverso 
con  il  quale  spicca  e  sporge  all'esterno  la  cresta  stessa  nell'Uomo  e  negli  altri  Pri- 
mati, in  guisa  che  possiamo  ben  insistere  ancora  sulla  corrispondenza  quasi  perfetta 
del  gruppo  prezigomatici  dell'Uomo  coi  prezigomatici  superiori  anomali  o  normali  degli 
altri  Primati. 

Cosi  pure  non  è  meno  interessante  l'avvicinamento  che  si  può  fare  fra  i  post- 
squamosi  aprentesi  nelle  Hapalidi  preferibilmente  nella  parte  posteriore  della  squama 
temporale,  nei  Cebus  prevalentemente  nella  sutura  parietosquamosomastoidea,  con 
i  rarissimi  casi  di  sbocco  esocranico  del  canale  di  Verga  all'esterno  da  noi  descritti 
nell'Uomo. 

Old.  CHIROPTERA. 

La  conoscenza  degli  emissari  temporali  e  della  via  tenuta  dal  sangue  refluo 
dalla  cavità  craniana  attraverso  al  temporale  nelle  varie  famiglie  dei  Chirotteri  ri- 
monta già  ad  Otto,  il  quale  dice  che  la  vena  giugulare  esterna  "  per  foramen 
quoddam  satis  amplum  in  osse  temporum  post  foveam  glenoidalem  positum,  in  sinum 
cerebri  trasversum  intrat  „.  Hyrtl  (30  a)  afferma  che  in  parecchi  Chirotteri  la  base 
del  processo  zigomatico  presenta  una  perforazione  conducente  in  un  canale,  il  quale 
avrebbe  parecchie  aperture:  una  corrisponde  alla  cavità  cranica  fra  la  pars  petrosa 
e  la  squamosa,  altre  due    si    troverebbero   nella    sutura  parietosquamosa;    il    canale 


59  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQUAMOSI  217 

quindi  decorre  per  tutta  l'altezza  della  squama  e  sarebbe  destinato  ad  accogliere  il 
tronco  della  vena  temporale,  la  quale  prende  un  ramo  dal  seno  petroso.  —  Cope  accenna 
all'occorrenza  di  un  forame  postglenoideo,  di  un  subsquamoso  e  di  uno  postsquamoso 
nel  Pteropus,  di  un  postglenoideo,  di  un  postparietale  e  mastoideo  nello  Scotophilus, 
mentre  in  altri  generi  esisterebbero  solo  il  postglenoideo  ed  il  postparietale.  —  Kopetsch 
in  14  crani  di  vari  generi  avrebbe  riscontrato  dietro  la  cresta  limitante  posterior- 
mente la  fossa  mandibolare,  anteriormente  e  superiormente  all'apertura  uditiva  esterna, 
un  forameli  jugulare  spurium  pure  costante  e  relativamente  ampio. 

Infine  Grosser  (21)  nei  Microchirotteri  trova  che  il  foramen  jugulare  spurium  giace 
immediatamente  indietro  del  cono  articolare,  avendosi  cioè  un  foramen  postglenoideum 
nel  senso  di  Cope  :  la  vena  fuoruscente  da  questa  apertura  si  immette  nello  stretto 
spazio  fra  il  cono  e  la  bulla  timpanica.  In  tale  spazio  sbocca  anche  la  v.  temporalis  super- 
fìcialis,  la  quale  porta  essenzialmente  il  sangue  dalle  parti  superficiali  del  muscolo  tempo- 
rale: essa  attraversa  pure  la  radice  dell'arco  zigomatico  mediante  una  stretta  fine 
apertura,  corrispondente  forse,  secondo  Grosser,  ad  un  foramen  supraglenojdale  (Cope), 
non  accoglierebbe  però  nessuna  vena  cerebrale.  Nei  Vespertilionidi  come  nei  Rino- 
lofidi  il  seno  trasverso  decorre  ventralmente  nell'attacco  del  tentorio,  poi  si  divide 
in  due  branche  di  cui  mia  giace  nell'interno  della  diploe  e  quivi  avvolge  l'a.  me- 
ningea media,  mentre  l'altra  rimane  dapprima  nello  spessore  della  dura  e  poi  si  fa 
anch'essa  diploica  raggiungendo,  assieme  alla  precedente,  lo  sbocco  endocranico  del- 
l'emissario temporale:  il  seno  trasverso  sarebbe  riunito  con  un  fine  ramo  (s.  sig- 
moidei^) al  foramen  jugulare  rerum.  Nei  Macrochirotteri  la  disposizione  dei  vasi  e 
dei  rispettivi  canali  ossei  è,  secondo  Grosser,  alquanto  diversa,  in  quanto  il  foramen 
/ligulare  spurium  sarebbe  un  po'  più  piccolo  e  minore  la  quantità  di  sangue  espor- 
tata dall'emissario  temporale:  vi  sarebbe  cioè  nei  Pteropidi  un  indice  come  questo, 
nell'ulteriore  accrescimento  degli  emisferi,  possa  diventare  di  nuovo  una  via  sem- 
plicemente sussidiaria  e  come  possa  il  comportamento  primitivo  (deflusso  del  sangue 
per  il  foramen  jugulare  veruni)  ritornare  nuovamente  in  opera  :  del  resto  anche  nei 
Pteropidi,  parallelamente  con  il  seno  trasverso  durale,  si  forma  anche  un  canale 
diploetico,  il  quale  porta  però  solo  il  sangue  delle  vene  temporali  profonde,  come 
dall'osso,  non  rappresentando  punto  un  mezzo  di  riunione  con  le  vene  cerebrali.  Per 
la  storia  dello  sviluppo  Grosser  conferma  nei  Chirotteri  la  cronologia  delle  varie 
disposizioni  successive  del  sistema  venoso,  già  descritte  da  Salzer,  e  dalle  quali 
risulta  che  la  porzione  ventrale  del  seno  trasverso,  come  lo  stabilirsi  dell'emissario 
temporale,  appartengono  ad  un  periodo  relativamente  tardivo  dello  sviluppo. 

Noi  non  possiamo  aggiungere  gran  che  di  nuovo  sull'argomento  e  ciò  per  pa- 
recchie ragioni,  fra  le  quali  principali  sono  la  mole  molto  piccola  dei  crani  dei  Chirot- 
teri da  noi  esaminati,  che  rende  i  procedimenti  di  macerazione  e  l'esame  naturalmente 
molto  difficili,  come  pure  l'aver  dovuto  restringere  esclusivamente  sui  crani  il  nostro 
studio,  essendo  d'altra  parte  il  sistema  vascolare  già  classicamente  compulsato  da 
Grosser.  Le  nostre  osservazioni  vertono  esclusivamente  sui  Microchirotteri,  e  più  pre- 
cisamente sul  Vespertilio  murinus  (9  cr.),  Vesperugo  noctula  (4  cr.),  Plecotus  auritus 
(3  cr.),  Binolophus  ferrum  equitanti  (6  cr.),  i  cui  crani  furono  da  uno  di  noi  (Boterò) 
appositamente  preparati.  Diciamo  subito  che  vi  ha  un  comportamento  dei  canali,  che 
ci   occupano,  fondamentalmente   identico  nei  vari  generi  esaminati. 

Sebi»  IL  Tom.  LUI.  cl 


218  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  60 

Esaminando  con  una  lente  la  regione  temporale  del  cranio  di  Binolophus  e  di 
Plecotus  si  scorge  abbastanza  facilmente  come  sulla  faccia  dorsale  di  una  crestolina 
ossea,  disposta  in  direzione  frontale  e  rappresentante  il  cono  articolare,  in  prossi- 
mità del  punto  di  attacco  del  cono  stesso,  cioè  verso  la  sua  base,  si  nota  un  forel- 
lino  regolarmente  circolare,  ampio  da  mm.  0,2-0,1,  che  guarda  immediatamente  all'in- 
dietro:  da  questo  ha  origine  un  brevissimo  canale,  il  quale  attraversa  obliquamente 
diretto  in  alto,  in  avanti  e  medialmente  la  parte  inferiore  della  squama  temporale 
per  aprirsi  all'endocranio  nella  parte  più  bassa  della  fossa  cranica  media  in  corrispon- 
denza della  sutura  petrosquamosa:  tale  forellino  per  la  sua  posizione  è  nettamente 
anteriore  all'apertura  uditiva  esterna,  non  solo,  ma  per  rispetto  a  un  piano  frontale, 
appare  situato  subito  lateralmente  al  contorno  anteriore  dell'apertura  stessa.  Nei  crani 
ben  macerati  esso  è  chiaramente  visibile  nella  porzione  descritta  anche  ad  occhio  nudo. 

Nell'interstizio  molto  ristretto  limitato  dalla  faccia  posteriore  del  cono  arti- 
colare in  avanti,  dalla  cresta  tagliente  rappresentante  la  linea  temporale  in  alto 
e  lateralmente,  dal  contorno  anteriore  della  bulla  tympanica  in  dietro  e  medialmente, 
in  una  posizione  alquanto  superiore  e  dorsale  per  rispetto  al  forame  precedente- 
mente descritto,  vi  ha  ancora  un  altro  minutissimo  forellino  costante,  assai  più  pic- 
colo del  precedente,  mascherato  per  lo  più  dalla  sporgenza  della  crista  temporalis, 
sulla  cui  faccia  inferiore  è  continuato  verso  il  forame  precedente  da  una  fine  ma  ben 
marcata  docciatura:  da  tale  forametto  ha  origine  un  canale  difficilmente  sondabile, 
il  quale  corre  quasi  verticalmente  in  alto  ed  un  po'  in  addietro  nello  spessore  della 
squama  temporale,  poi  fra  i  due  tavolati  del  parietale:  la  presenza  di  questo  canale 
diploico  è  avvertibile  già  all'ispezione  esterna  del  cranio  mediante  una  lente  come 
una  rilevatezza  rugosa  della  superficie,  e  può  presentarsi  anche,  specie  nella  sua  por- 
zione inferiore,  immediatamente  al  di  sopra  della  linea  temporale,  parzialmente  aperto 
all'esterno;  detto  canalino  si  divide  e  si  suddivide  frammezzo  ai  due  tavolati  del 
parietale,  ciò  che  è  avvertibile  anche  alla  ispezione  macroscopica,  e  in  qualche  caso 
pare  anzi  che  esso  giunga  fino  a  livello  della  sutura  sagittale  e  più  precisamente 
giunga  alla  docciatura  per  il  seno  corrispondente:  una  setolina  introdotta  per  l'aper- 
tura inferiore  del  canalino  può  anche  riuscire  nella  cavità  craniana  per  una  soluzione 
di  continuo  del  tavolato  interno,  analoga  a  quelle  facili  a  riscontrarsi  all'esocranio 
immediatamente  al  di  sopra  della  linea  temporale. 

Nel  Vespertillo  murinus  come  nel  Vespertino  noctula  le  difficoltà  dell'esame  aumen- 
tano ancora  di  più  per  la  piccolezza  dei  crani:  in  questi  la  sporgenza  della  cresta 
limitante  in  addietro  la  fossa  articolare  è,  anche  relativamente,  assai  meno  pronun- 
ciata e  l'interstizio  fra  la  bulla,  il  conus  e  la  linea  temporalis  è,  sia  pure  relativamente, 
assai  più  ristretto.  Tuttavia  usando  i  debiti  artifici  si  può  verificare  che  anche  in 
questi  vi  ha  sulla  faccia  posteriore  del  cono,  in  una  posizione  relativamente  più 
affondata  che  non  nel  Binolophus  e  nel  Plecotus,  e  cioè  in  tutta  prossimità  del  mar- 
gine mediale  del  cono  stesso,  una  finissima  apertura  colla  massima  difficoltà  sonda- 
bile per  mezzo  di  una  minuta  setola;  ad  essa  fa  seguito  un  canalino  diretto  in  alto, 
in  avanti  e  medialmente,  appunto  come  negli  altri  prima  studiati.  Il  canale  diploico 
poi  si  apre,  come  nel  Binolophus,  in  addietro  e  lateralmente  al  precedente  e  pare 
che  il  suo  sbocco,  comparativamente  al  calibro  di  quello  anteriore,  sia  più  ampio  che 
nel  Binolophus:  una  setola  introdotta  in  detto  canale  diploico  penetra  costantemente 


61  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  L'I'.I 

nella  cavità  eraniana  nella  sutura  parietosquamosa,  essendo  però  continuato  in  alto 
sul  tavolato  interno  del  parietale  da  una  evidente  docciatura  ramificata  in  guisa  da 
ricordare  quella  dei  vasi  meningei  medi. 

Senza  dilungarci  oltremodo  nella  discussione  e  nella  interpretazione  delle  partico- 
larità ora  descritte,  noi  crediamo  che  solo  al  canale  aprentesi  sulla  faccia  dorsale  del 
cono  articolare  in  prossimità  della  sua  base  si  debba  dare  il  significato  di  un  vero 
forame  emissario  nel  significato  che  abitualmente  si  dà  a  questa  parola;  come  risulta 
dalle  ricerche  di  Grosser  esso  rappresenta  precisamente  la  via  tenuta  dalla  porzione 
ventrale  del  sinus  transversus  per  continuarsi  con  la  v.  jugularis  externa,  e  noi 
sappiamo  come  appunto  per  questa  via  decorra  la  massima  parte  del  sangue  refluo 
del  cervello  per  ritornare  al  cuore.  Analogamente  ad  Hyrtl  invece  noi  crediamo 
che  al  secondo  canale  da  noi  descritto  si  debba  dare  piuttosto  il  significato  di  un 
canale  diploico,  destinato  ad  allogare  una  vena  tributaria  della  giugulare  esterna 
appena  questa  si  è  originata  all'apertura  esterna  del  forame  sottozigomatico  di  cui 
abbiamo  prima  parlato:  o  per  lo  meno  detto  canale  diploico  potrà  servire  come  emis- 
sario solo  secondariamente,  in  quanto  anche  le  vene  della  dura  parietale  possono 
imboccare  i  tronchi  venosi  che  vi  sono  contenuti:  oppure  anche  perchè  questi  (specie 
nel  Rinolophus)  possono  parzialmente  rappresentare  una  via  più  diretta  di  deflusso 
alla  jugularis  externa  del   sangue  del  sinus  sagittalis. 

Ad  ogni  modo,  a  parte  le  scoperture  del  canale  diploico,  più  evidenti  e  più 
frequenti  nel  Riuoloplius  che  nei  Vespertilionidi,  dobbiamo  notare  che  quasi  costante- 
mente in  questi  ultimi,  oltre  ai  forami  precedentemente  descritti,  occorre  da  ciascun 
lato  un  ampio  forame  ovalare  di  min.  0,6-0,3,  aprentesi  nella  parte  posteriore  della 
squama  temporale,  indietro  dell'apertura  uditiva  esterna,  immediatamente  al  di  sopra 
ed  in  avanti  del  punto  ove  la  linea  temporalis  si  continua  con  la  crista  occipitalis:  tale 
forame,  che  può  eventualmente  anche  essere  in  parte  circoscritto  dal  margine  inferiore 
del  parietale  è,  paragonato  ad  entrambi  i  fori  sottozigomatici,  molto  ampio  e  mette 
nell  interno  del  cranio  nel  punto  ove  dalla  porzione  ventrale  del  solco  per  il  sinus 
transwrsus  si  distacca  la  tenue  e  poco  pronunciata  docciatura  per  il  sinus  sigmoideus 
(Grosser).  Anche  nei  Vespertilionidi  però  il  foro  postsquamoso  può  eccezionalmente 
mancare  da  uno  o  dai  due  lati.  Nel  Rinolophus  e  nel  Plecotus  invece  ne  è  eccezionale 
la  presenza:  del  resto  negli  uni  come  negli  altri  vi  ha  pure  costantemente  un  emissario 
mastoideo,  per  lo  più  abbastanza  ampio,  circolare  od  ovalare,  o  in  forma  di  fessura 
posta  nella  sutura  occipitotemporale. 

Concludendo  quindi  è  normale  nelle  varie  famiglie  di  Chirotteri  la  esistenza  di 
un  ridiale  emissario  sottozigomatico  laterale,  attraverso  cui  si  scarica  il  sinus  trans- 
iger sus:  a  quest'ufficio  può  essere  secondariamente  devoluto  un  canalino  più  ristretto 
ma  pure  costante,  decorrente  nella  diploe  della  squama  temporale  e  del  parietale; 
infine  nei  Vespertilionidi  vi  ha  pure  come  carattere  fisso,  nei  Rinolofidi  come  ecce- 
zione, un  canale  emissario  postsquamoso. 

Ord.   TNSECTIVORA. 

Vari  accenni  ai  canali  e  forami  emissari  temporali  in  quest'ordine  occorrono  in 
Otto  (59),  Rathke  (55),  Luschka  (45)  e  Cope  (9):  quest'ultimo  descrive  un  forame 
postsquamoso  nei  gen.  Blarina,  Condyhira,  Scalops,  un   postglenoideo  ed   un  postsqua- 


220  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  62 

moso  m\V  Erinaceus  e  nel  Mystomys  (dalle  figure  di  Allman),  un  postglenoide,  un  post- 
parietale  ed  un  mastoideo  nel  Centetes,  un  postglenoideo  ed  un  postparietale  nel 
Solenodon  (dalle  fig.  di  Peter). 

Kopetsch  (3)  in  6  crani  di  Erinaceus  avrebbe  trovato  sotto  la  radice  del  pro- 
cesso zigomatico,  tra  la  squama  e  la  piramide,  un'  apertura  discretamente  ampia, 
entro  la  quale  può  penetrare  verticalmente  attraverso  il  cranio  una  setola:  assieme 
a  tale  forame  ne  esisterebbe  ancbe  un  altro  tra  la  squama  ed  il  parietale  o  nello 
spessore  della  squama  stessa,  dal  quale  la  setola  introdotta  direttamente  dal  forame 
sottozigomatico  può  ancora  riuscire  all'esterno.  Kopetsch  ritiene  l'apertura  inferiore 
come  forumai  jugulare  spurium,  la  superiore  invece  servirebbe  all'ingresso  nel 
cranio  di  una  vena  destinata  a  portare  il  sangue  refluo  dai  tegumenti.  Nei  Soricidi 
tale  A.  descrive  poi  un'  apertura  capillare  posta  medialmente  ad  un  cono  articolare 
ben  sviluppato.  Nelle  Talpidae  infine  dietro  alla  superficie  articolare,  sopra  e  medial- 
mente all'apertura  uditiva  esterna,  esisterebbe  un  esile  forame  da  cui  prenderebbe 
origine  un  canale  diretto  in  addietro  fino  al  solco  trasverso  :  oltre  a  questo  Kopetsch 
descrive  un'  altra  apertura  più  ampia  posta  dietro  al  canale  uditivo  esterno,  la  quale 
conduce  pure  nel  cranio:  a  quest'ultimo  forame  pare  si  riferisca  eziandio  Fischer  (1  la) 
e  nella  descrizione  e  nella  figura,  trattando  appunto  del  forame»  jugulare  spurium  in 
embrioni  di  Talpa  a  vario  stadio  di  sviluppo,  nei  quali  l'A.  studia  col  metodo  delle 
ricostruzioni  lo  sviluppo  del  cranio  primordiale. 

Fra  gli  Insettivori  noi  abbiamo  preso  in  considerazione  della  famiglia  Erina- 
ceidae  6  crani  di  Erinaceus  europaeus ,  della  famiglia  Talpidae  5  crani  di  Talpa 
europaea,  macerati  da  uno  di  noi  (Bovero). 

Fani.  Erinaceidae.  —  Neil'  Erinaceus  europaeus  la  superficie  inferiore  della 
base  dell'apofisi  zigomatica  si  presenta  relativamente  molto  allargata,  limitata  poste- 
riormente da  un  leggero  rialzo  apofisario,  che  si  sutura  direttamente  col  suo  mar- 
gine laterale  alla  porzione  mastoidea  del  temporale,  coprendo  le  due  porzioni  ossee 
disposte  medialmente  a  doccia  il  condotto  uditivo  esterno.  Subito  medialmente  alla 
crestolina  predetta,  rappresentante  il  cono  articolare,  si  riscontra  costantemente  una 
ampia  fessura  ovalare,  col  massimo  diametro  di  2  mm.  disposto  frontalmente,  con 
un  diametro  minore  di  mm.  0,5-1  :  tale  fessura,  forame  sottozùjomatico  mediale,  si  pre- 
senta essenzialmente  come  una  incisura  del  margine  posteriore  della  fossa  mandibolare, 
completata  in  addietro  dall'osso  petroso,  in  guisa  che  detta  fessura  potrebbe  apparire 
come  un  allargamento  localizzato  della  sutura  petrosquamosa  ;  la  porzione  timpanica 
poi  sovrappassandola  in  addietro  tende  a  mascherarla  più  o  meno  completamente.  Essa, 
dato  il  minimo  spessore  dalla  squama,  si  apre  immediatamente  nella  cavità  craniana 
in  fondo  di  una  escavazione  a  margini  irregolari,  posta  nella  porzione  laterale  della 
sutura  petrosquamosa,  escavazione  alla  quale  convengono  pure  parecchi  altri  canali. 
di  calibro  però  tuttavia  assai  minore. 

Uno  di  questi  si  apre  all'esterno  nella  sutura  parietosquamosa,  con  un  forame 
in  forma  di  fessura,  ampia  si  da  dar  passaggio  ad  una  grossa  setola,  fessura  però 
che  è  scavata  completamente  nello  spessore  della  squama,  mentre  il  margine  infe- 
riore del  parietale  non  fa  che  chiuderla  medialmente,  costituendo  anche  la  parete 
mediale  del  canale  che  da  essa    ha    origino:    in  due    casi    però  l'apertura    predetta 


fri  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PBTROSQUAMOSI  221 

era  localizzata  completamento  nello  spessore  della  squama  temporale.  Dobbiamo 
avvertire  che,  anche  nei  casi  in  cui  detto  forame  è  situato  nella  sutura  squamoso- 
parietale,  la  squama  temporale  presentando  per  delimitarlo  una  profonda  incisura 
ed  essendo  quindi  molto  bassa,  esso  non  dista  che  di  1  mm.  circa  dalla  estremità 
posteriore  del  margine  superiore  più  o  meno  smusso  dell'apofisi  zigomatica,  in  guisa 
che  esso  si  può  ben  considerare  come  un  forami  soprazigomatico.  Da  questo  ha  ori- 
gine un  canale  diretto  verticalmente  in  basso,  o  interamente  nello  spessore  della 
squama,  oppure  nella  sutura  squamosa  per  raggiungere  la  parte  laterale  e  superiore 
della  incavatura  visibile  dall'endocranio  fra  la  porzione  squamosa  e  petrosa  del  tem- 
porale, il  cui  fondo  è  rappresentato  dall'apertura  endocranica  del  canale  sottozigoma- 
tico mediale.  Una  setola  introdotta  dal  forame  soprazigomatico  fuoriesce  colla  mas- 
sima facilità  dal  forame  sottozigomatico  mediale,  mentre  è  assai  difficile  far  seguire 
alla  setola  la  direzione  inversa. 

In  tutti  i  crani  da  noi  esaminati  sulla  superficie  esterna  del  processo  zigomatico, 
immediatamente  in  avanti  e  superiormente  al  punto  in  cui  il  margine  inferiore 
della  base  si  continua  colla  cresta  poco  pronunciata  rappresentante  il  cono  artico- 
lare, esiste  un  forellino  microscopico,  per  lo  più  perfettamente  circolare,  in  cui  tut- 
tavia può  entrare  nella  maggioranza  dei  casi  una  finissima  setola;  da  esso  ha 
origine  un  canale  diretto  orizzontalmente  in  dentro,  attraversante  cioè  in  direzione 
frontale  tutto  lo  spessore  della  squama,  per  riuscire  nella  parete  laterale  della  esca- 
vazione sopra  descritta  fra  l'apertura  del  canale  soprazigomatico  e  quella  del  canale 
sottozigomatico.  In  un  caso  e  da  un  solo  lato  l'apertura  di  questo  canale,  che  noi 
potremmo  chiamare  per  i  rapporti  che  contrae  col  cono  articolare  forame  sottozi- 
gomatico laterale,  era  spostata  assai  più  in  addietro  del  cono  articolare,  immediata- 
mente in  avanti  della  sutura  squamosomastoidea  rilevata  a  cresta,  in  guisa  da 
meritare  il  nome  di  forame   postsquamoso. 

Inoltre,  in  quasi  tutti  gli  esemplari  esaminati,  nella  parte  alta  della  porzione 
mastoidea  del  temporale,  subito  dorsalmente  alla  sutura  squamosomastoidea  si  riscontra 
un  ampio  forame  pure  permeabile  ad  una  grossa  setola,  il  quale  conduce  in  un  canale 
diretto  orizzontalmente  in  avanti  ed  aprentesi  nella  parete  posteriore  della  escavazione 
descritta  nella  fossa  media  fra  l'osso  petroso  e  l'osso  squamoso:  anche  per  questo 
forame  mastoideo  osserviamo  che  una  setola,  che  vi  sia  introdotta,  può  fuoriescire  con 
facilità   dal   forame   sottozigomatico  mediale. 

Finalmente  dobbiamo  avvertire  ancora  che  in  alcuni  casi  la  porzione  del  solco 
trasverso  immediatamente  sovrastante  al  confluente  dei  vari  canali  nella  fossa  media 
può  essere  trasformata  in  un  canale  completo,  canale  parietopetroso :  in  ogni  caso  è 
interessante  ricordare  come  nell'i?,  europaeus  sia  caratteristica  la  molteplicità  dei  canali 
emissari  temporali,  con  spiccata  prevalenza  per  il  calibro  del  canale  sottozigomatico 
mediale:  verrebbero  poi  per  importanza  il  canale  mastoideo  ed  il  soprazigomatico  [sopra- 
squamoso di  Cope)  ;  infine,  per  quanto  assolutamente  esile,  è  costante  un  canalino  sotto- 
zigomatico  laterale:  cos'i  pure  è  caratteristica  la  confluenza  dei  vari  canali  in  un 
medesimo  punto  della  fossa  cranica  media,  il  qual  fatto  dimostra  che  il  canale 
sottozigomatico  mediale,  appunto  per  il  suo  calibro  maggiore,  rappresenta  la  via  di 
deflusso  collettrice  del  sangue  decorrente  negli  altri  canali.  Per  il  canale  soprazigo- 
matico, astraendo  da  ogni  possibile  via  arteriosa  che  vi  decorra  dalla  cavità  cranica 


222  ALFONSO    BOVEKO    —    UMBERTO    CALAMIDA  64 

all'esterno,  è  probabilmente  vera  l'osservazione  di  Kopetsch,  che  sia  destinato  ad  una 
vena  raccogliente  il  sangue  degli  involucri  cutanei  :  questa,  come  pure  la  vena  decor- 
rente nel  canale  mastoideo,  probabilmente  funzionano  da  emissari  solo  in  via  affatto 
secondaria. 

Fam.  Talpidae.  —  Assai  diverso  è  il  comportamento  dei  canali  emissari  nella 
Talpa,  per  la  quale  vale  completamente  la  descrizione  data  da  Kopetsch.  Manca  com- 
pletamente un  cono  articolare  ;  subito  all'indietro  ed  in  basso  della  superficie  articolare, 
a  distanza  di  mm.  1,5-2  dalla  faccia  inferiore  della  base  dell'apofisi  zigomatica  estre- 
mamente esile,  superiormente  e  medialmente  all'apertura  uditiva  esterna  assai  spostata 
in  basso,  si  riscontra  una  finissima  apertura,  la  quale  si  continua  in  un  canale  scavato 
esclusivamente  nello  spessore  della  squama,  decorrente  orizzontalmente  in  dietro,  de- 
cussando perciò  la  parete  superiore  del  condotto  uditivo  esterno  nella  sua  porzione 
laterale,  per  aprirsi,  dopo  un  decorso  da  2  a  '■'<  mm.,  nella  fossa  cranica  media  in 
fondo  di  una  docciatura  più  o  meno  evidente  posta  nella  sutura  petrosquamosa. 
Questa  docciatura  continua  a  sua  volta  la  direzione  dorsale  del  canale  sopra  descritto 
e,  a  livello  della  estremità  posteriore  della  sutura  petrosquamosa,  si  continua  ancora 
in  un  canale  aprentesi  all'esterno  con  una  apertura  ampia  per  lo  più  1  mm.,  circolare 
od  ovalare,  posta  nella  porzione  posteriore  della  pars  mastoidea  in  tutta  prossimità 
della  sutura  temporooccipitale  :  una  setola  introdotta  dal  forame  prima  descritto 
(per  la  posizione  corrisponde  ad  un  sottozigomatico  laterale),  assai  più  esile  del  forame 
mastoideo,  che  fu  ritenuto  da  Rathke  e  Luschka  come  foramen  jugulare  spurium, 
può  colla  massima  facilità  fuoriescire  posteriormente  attraverso  quest'ultimo;  così 
pure  si  verifica  il  fatto  inverso.  Data  la  diversa  ampiezza  dei  due  canali  è  probabile 
che  la  principale  via  di  deflusso  sia  rappresentata  appunto  dal  canale  mastoideo. 

È  a  notarsi  come  in  crani  di  individui  presumibilmente  vecchi  il  solco  petro- 
squamoso  sia  in  gran  parte  trasformato  in  un  canale  completo,  rimanendo  coperto 
solo  per  un  tratto   di  mm.  0,5-1. 

Ord.  CARNIVORA. 

E  inutile  riportiamo  qua  ancora  una  volta  i  reperti  avuti  dai  vari  A  A.  sopra 
l'esistenza  dei  canali  emissari  nelle  diverse  famiglie  di  Carnivori,  avendo  già  rile- 
vato dall'esame  della  letteratura,  come  quasi  tutti  gli  AA.  [Otto  (50),  Rathke  (55), 
Verga  (72),  Luschka  (ihab),  Flower  (15),  Ellenberger  e  Baum  (13o),  ecc.]  ritengano 
come  carattere  costante  nella  fam.  Canidae  la  esistenza  di  un  ampio  forame  posto 
immediatamente  all'indietro  del  conus  articidaris  potentemente  sviluppato.  Il  medesimo 
reperto  è  dato  come  caratteristico  pure  delle  fam.  Mustelidae,  Vìver ridae  e  Ursidae 
(Otto,  Rathke,  Flower)  :  al  contrario  tale  caratteristica  farebbe  difetto,  come  nel- 
l'Uomo, nella  fam.  Felidae  (Luschka,  Flower,  Denker  (12«)),  o  per  lo  meno  esiste- 
rebbe solo  negli  individui  molto  giovani  (Otto). 

Cope  (!),'  afferma  che  nei  Carnivori  i  forami  sono  pochi  di  numero  e  assai  bene 
definiti,  nessuno  di  essi  ne  avrebbe  più  di  3,  mentre  nelle  forme  specializzate  terrestri 
od  acquatiche  non  ve  ne  sarebbe  traccia:  così  esisterebbe  solamente  un  forame  post- 
glenoide  nei  gen.  Procyon,  Nasua,  Bassaris,  Canis,  Vulpes,  Urocyon,  Viverra,  Mustela, 
Putorius   e  Mephitis;  nei  gen.  Ursus,  Arcboiherium,  Hyaenodon,  Enhydrocyon,  Temnocyon 


65  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQUAMOS] 

ed  altri,  esisterebbe,  accanto  al  forame  postglenoide,  un  forame  postparietale  e 
in  taluni  anche  un  forame  mastoideo:  tra  i  Felidi  il  Gatto  avrebbe  talvolta  un  forame 
postglenoide;  ne  mancherebbero  completamente  i  gen.  Hyaena,   lincia,  Cynadurus. 

Kopetsch  (34)  ha  trovato  che,  su  192  crani  di  quest'ordine.  150  posseggono  un 
forame»!  juguìare  spurium,  solo  42  ne  mancano  affatto.  Il  forame  giugulare  spurio 
venne  da  questo  A.  trovato  costante  nei  crani  delle  fam.  Canidae  (81),  Viverridae  (10) 
ed  Ursidae  (16),  eccezionale  ne  sarebbe  la  mancanza  nelle  fam.  Mustelìdae  (su  45  man- 
cava solo  in  3)  :  invece  ne  sarebbe  rarissima  (1  su  37)  la  presenza  nelle  fam.  Felidae, 
costante  la  mancanza  nella  fam.  Ryaenidae  (3). 

Le  nostre  ricerche  confermano  in  generale,  completandoli,  i  reperti  avuti  da 
questo  A.;  per  alcune  famiglie  tuttavia,  specialmente  per  il  Gatto,  i  nostri  risultati 
sono  affatto  diversi. 

Fam.  Canidae.  —  Noi  abbiamo  esaminato  in  complesso  89  crani  di  questa  fa- 
miglia, e  cioè  30  di  Canis  familiaris  di  varie  razze  e  delle  età  più  disparate.  27  di 
C.  lupus,  1  di  Lupulus  mesomelas,  1  di  Lupus  magellanicus ,  4  di  C.  Azarae,  24  di 
Vulpes  vulgaris  di  provenienze  diverse.  2  di  C.  lagopus.  Possiamo  nella  descrizione 
dei  reperti  delle  varie  specie  riferirci  completamente  a  quanto  occorre  nel  Cane,  ap- 
punto perchè,  salvo  leggere  differenze,  il  comportamento  dei  canali  che  stiamo  stu- 
diando è  perfettamente  analogo  in  tutti. 

Nel  C.  familiaris,  come  nelle  altre  specie  sovraccennate,  il  processus  articu- 
laris  posterior  o  conus  articularis  è  costantemente  molto  sviluppato  sotto  forma  di 
"  una  robusta  apofisi  a  faccia  inferiore  concava,  posteriore  convessa,  margine  esterno 
più  lungo  dell'interno,  base  spessa  ed  apice  arrotondato  „  [Cabibbe  (4)]  ;  l'apice  più 
o  meno  tagliente  è  costantemente  rivolto  in  avanti  a  mo'  di  un  becco.  Sulla  faccia 
dorsale  del  cono  articolare  (Fig.  27  co),  più  verso  il  margine  mediale  di  tale  processo 
che  non  verso  quello  laterale,  nell'interstizio  delimitato  anteriormente  da  detta 
faccia  del  cono,  in  alto  e  lateralmente  dalla  faccia  inferiore  della  linea  temporale 
disposta  sotto  forma  di  una  pronunciatissima  cresta,  in  addietro  e  medialmente 
dall'attacco  dell'osso  timpanico,  alla  estremità  superiore  di  una  docciatura  fortemente 
scavata  nella  faccia  dorsale  del  cono  e  diretta  verticalmente,  si  riscontra  un'ampia 
apertura  che  per  la  continuazione  colla  docciatura  predetta  appare  ovalare  e  per  la 
ubicazione  è  da  ritenersi  come  un  foro  sottozigomatico  'posteriore  molto  ampio  (fpg)- 
Tale  apertura  può  essere  più  o  meno  ricoperta  o  mascherata,  specialmente  nei  crani 
di  individui  molto  avanzati  in  età,  dalla  sporgenza  del  margine  ricurvo  in  avanti 
dell'osso  timpanico. 

La  docciatura  verticale  (Fig.  27  a),  scavata  sulla  faccia  dorsale  del  cono  artico- 
lare, va  via  via  affievolendosi  e  scomparendo  verso  1'  apice  del  cono  stesso  ed  è 
nella  massima  parte  dei  casi  rivolta  direttamente  indietro;  qualche  volta,  special- 
mente nelle  razze  pure  od  incrociate  a  cranio  relativamente  largo,  essa  può  essere 
aperta  in  dietro,  in  basso  e  un  po'  lateralmente,  come  pure  pare  che,  essendo  l'aper- 
tura inferiore  del  canale  sottozigomatico  spostata  alquanto  in  alto  e  dorsalmente  per 
rispetto  all'apertura  del  condotto  uditivo  esterno,  la  docciatura  si  mantenga  non  più 
verticale,  ma  fortemente  curva  in  alto  ed  in  addietro  :  per  queste  disposizioni  il  forame 
sottozigomatico  sembra,  a    parità  di  condizioni,  più  ampio  che  non  negli  altri  casi. 


22  1  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  66 

Per  seguire  l'ulteriore  decorso  del  canale  temporale  è  necessario,  come  osserva 
Kopbtsch  (34),  di  esaminare   un  cranio   aperto,    o   meglio    ancora   le   varie   porzioni 
dell'osso  temporale  isolate.  Si  scorge  allora  che  il  canale    predetto   attraversa  obli- 
quamente  dal    basso   in    alto,  volgendosi  anche    dorsalmente,   la    porzione  inferiore 
della  squama  del  temporale  per  aprirsi  superiormente  fra  l'osso  petroso  ed  il  tavo- 
lato interno  dell'osso  parietale  in  prossimità    della   estremità   laterale  dello   spigolo 
superiore  della  piramide:  il  canale  presenta  costantemente  un  calibro  molto    ampio, 
abbastanza  costante  entro  certi  limiti  anche  per  crani  di  volume  molto   diverso,  da 
2  mm.  a  3-4-5  min.,  il  qual  fatto  fa  sì  che  il  canale  appare  relativamente  più  ampio 
nei  crani  piccoli:  esso  nella  sua  porzione  inferiore  è  esclusivamente  circoscritto  dal- 
l'osso petroso  e  dallo  squamoso,  è  cioè  esclusivamente  un  canalis  temporalis;  più  in 
alto  invece,  mentre  la    sua    parete    laterale    è    formata  dalla  parte    superiore  della 
squama,  la  sua  parete  superiore  è  costituita  dall'apposizione  del  tavolato  interno  del 
parietale  al  margine    opposto    della    piramide,  si  trasforma   cioè  in  canalis  temporo- 
parietalis.  Alla  apertura  endocranica  (Fig.  28)  fa  seguito  dorsalmente  il    solco  molto 
affondato  per  il  sinus  transversus,  il  quale  dalla  faccia  interna  dello  squamoso  passa 
sulla  faccia  interna  dell'angolo  mastoideo  del  parietale  per  immettersi  in  seguito,  in 
rapporto  della  faccia  cerebrale  della  squama   occipitale,  fra  le  due  lamine   del  ten- 
torium  cerebelli  ossificato.  Data  la  grande  ampiezza  del  canalis  temporalis  (et)  ci  si  spiega 
molto  facilmente  come,  ciò  che  appunto  avviene,  la  massima  parte  del  sangue  venoso 
della  cavità  craniana  defluisca  alla  v.  jugularis  externa  attraverso  il  canale  descritto. 
Nel  Cane,  come  nel  Lupo  e  nella  Volpe,  il  comportamento  di  questo  canale  nel 
suo  decorso,  come  nella  apertura  endocranica  e  nei  suoi  rapporti  con  il  solco  per  il 
sinus  transversus,  è  perfettamente  identico.  Negli  uni  come  negli  altri  possono  occor- 
rere delle  piccole  differenze  individuali,  o  anche  dipendenti  dall'età  del  soggetto  che 
si  esamina,  nella  lunghezza  relativa  del  canale,  occorrendo  talvolta  specie  nei  sog- 
getti giovani  di  riscontrarne  l'apertura  superiore  molto  spostata  in  avanti  quasi  per- 
pendicolarmente al  di  sopra  dell'apertura  inferiore  :  il  canale  in  questi  casi  è  esclu- 
sivamente un  canalis  temporalis  ed  il  sulcus  transversus  si  presenta  relativamente  più 
lungo  per  una  non  effettuata  apposizione  o  sinostosi   del   tavolato   interno   dell'osso 
parietale  col  margine  opposto    dell'osso    petroso.  Altre  volte  invece  il    sulcus  trans- 
versus è  assai  breve  arrivando  il  canale  temporale  precisamente  sino  a  ridosso  della 
estremità  laterale  dello  spigolo  superiore  della  piramide,  od  anche  alquanto  più  dor- 
salmente. 

È  a  notarsi  che  quasi  costantemente  in  rapporto  della  porzione  anteriore  del 
contorno  dell'apertura  sottozigomatica,  nel  punto  in  cui  questa  si  continua  colla  doc- 
ciatura sovradescritta,  attraverso  alla  quale,  dato  il  calibro,  si  può  introdurre  anche 
una  sonda  flessibile  di  calibro  corrispondente,  si  riscontrano  uno  o  due  forametti 
molto  piccoli,  che  rappresentano  semplicemente  lo  sbocco  di  canali  diploici. 

Come  leggiere  differenze  da  ciò  che  abbiamo  sopra  detto,  ricordiamo  come  nel 
C.  lupus  il  forame  sottozigomatico  appaia  relativamente  più  ampio  che  non  nel  Cane, 
mentre  in  complesso  la  docciatura  che  continua  il  forame  predetto  sulla  faccia  po- 
steriore del  cono  articolare,  è  indubbiamente  meno  nettamente  pronunciata  e  meno 
estesa.  Nella  Volpe  infine  l'apertura  predetta  occupa,  come  già  notò  Eopetsch  per 
il  C.  aureus  e  per  il   C.  cerdo,  una    posizione    alquanto  superiore  a   quella  occupata 


67  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  225 

generalmente  dal  forame  corrispondente  nel  C.  familiaris  per  rispetto  al  contorno 
dell'osso  timpanico. 

Nel  Cane  ci  è  occorso  anche  alcune  volte,  oltre  al  forame  sottozigomatico  poste- 
riore, di  osservare  in  rapporto  della  base  del  margine  laterale  tagliente  del  cono 
articolare,  nel  punto  in  cui  esso  si  continua  in  avanti  col  margine  laterale  della 
fossa  mandibolare,  un  microscopico  forametto  non  accessibile  però  neanche  alla  più 
lina  delle  setole  e  che  per  la  posizione  corrisponderebbe  precisamente  ad  un  forame 
sottozigomatico  laterale,  quale  noi  abbiamo  riscontrato  nell'Uomo  ed  in  alcune  Scimmie. 
Data  la  piccolezza  di  tale  canale  e  della  sua  apertura  esterna,  certamente  non  è  da 
assegnarglisi  alcun  valore  come  emissario:  tuttavia  noi  abbiamo  voluto  ricordarlo  in 
quanto  per  la  sua  occorrenza  non  assolutamente  infrequente  nel  C.  familiaris,  ma 
per  la  costanza  della  sua  posizione,  come  pure  anche  perchè  non  venne  finora  de- 
scritto da  altri  AA.,  ci  è  parso  non  indegno  di  nota,  ne  privo  di  valore  morfologico. 
Accenniamo  ancora  a  questo  proposito  come  specialmente  nel  C.  familiaris  possano 
occorrere  saltuariamente  al  di  sopra  della  base  dell'apofisi  zigomatica,  in  posizioni 
diverse,  come  pure  nella  parte  alta  della  squama,  dei  minuti  forellini,  affatto  ana- 
loghi a  quelli  che  possono  occorrere,  a  parità  di  condizioni,  anche  nella  nostra  specie, 
ed  ai  quali  si  deve  dare  semplicemente  il  valore  di  canali  diploici. 

Nel  Cane  e  nel  Lupo  è  costante  da  ambi  i  lati  un  forame  mastoideo  più  o  meno 
ampio,  occorrente  nella  parte  alta  della  sutura  occipitomastoidea.  Il  calibro  di  tale 
forame  oscilla  entro  limiti  molto  ampi,  a  differenza  di  quanto  avviene  per  il  canalis 
temporalis:  per  lo  più  si  presenta  sotto  forma  di  una  fessura  irregolare  col  massimo 
diametro  secondo  la  direzione  della  sutura:  tale  fessura  può  anche  mancare  come 
accade  di  frequente  nella  Volpe,  oppure  assumere  delle  dimensioni  molto  rilevanti 
(6-7  mm.  di  lunghezza  per  3-4  di  larghezza).  Si  riscontrano  anche  evidenti  delle  asim- 
metrie: nel  cranio  di  un  C.  familiaris,  molto  interessante  per  altre  particolarità  (annul- 
lamento completo  della  sutura  sagittale  per  interposizione  di  ossificazioni  anomale, 
come  in  un  caso  già  pubblicato  da  Staurenghi),  il  forame  mastoideo  a  sinistra  assume 
l'aspetto  di  una  vera  soluzione  di  continuo,  irregolarmente  ovalare  (6  mm.  per  5  mm.), 
mentre  a  destra  è  ridotto  ad  una  fessura  che  dà  appena  passaggio  ad  una  fine  sonda. 
In  ogni  caso  il  forame  mastoideo  si  apre  all'  endocranio  subito  inferiormente  al 
solco  per  il  sinus  transversus.  Il  foramen  jugulare  nei  Canidi  è  molto  ristretto,  certo 
sempre  meno  ampio  del  canalis  temporalis. 


Fani.  TJvsidae.  —  Noi  abbiamo  avuto  a  nostra  disposizione  complessivamente 
23  crani  delle  varie  specie  (U.  maritimus,  U.  arctos,  U.  americamts)  e  in  tutti  abbiamo 
riscontrato  il  medesimo  comportamento,  non  dissimile  per  altro  da  ciò  che  abbiamo 
descritto  nella  precedente  famiglia.  Il  conus  articularis  è  robustissimo,  concavo  ven- 
tralmente, convesso  in  addietro.  Sulla  sua  faccia  dorsale,  in  tutta  prossimità  del  suo 
margine  mediale,  in  una  posizione  alquanto  inferiore  a  quella  riscontrata  nella  fam. 
Canidae,  si  apre  un  foro  sottozigomatico  posteriore  molto  ampio,  a  cui  fa  seguito  in 
basso  una  docciatura  meno  evidente  che  nella  fam.  Canidae:  il  canale,  che  da 
questa  apertura  ha  origine,  ha  d'altronde  i  medesimi  rapporti  ;  il  forame  sottozigo- 
matico si  differenzia  solamente  in  quanto  è  più  spostato  verso  la  linea  mediana. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  d< 


226  ALFONSO    BOVERO    — ■    UMBERTO    CALAMIDA  68 

Fani.  Cercoleptinae.  —  In  4  crani  di  Nasua  socialis,  nella  parte  intermedia 
della  faccia  dorsale  del  cono  articolare,  in  rapporto  della  sutura  squarnosotimpa- 
nica,  si  riscontra  dai  due  lati  un'apertura  perfettamente  circolare  forame  sottozigo- 
matico posteriore:  manca  ogni  traccia  della  gronda  che  continua  nelle  fam.  Canidae 
e   Ursidae  il  forame  predetto  sulla  faccia  posteriore  del  conus  .articularis. 

Fam.  Mustelidae.  —  Di  questa  famiglia  noi  abbiamo  presi  in  considerazione 
3  crani  di  Meles  taxus  (subf.  Melinae),  3  di  Mephitis  suffocans,  6  di  Mustela  ermineti, 
1  di  M.  Pennantii,  4  di  M.  martes,  1  di  M.  americana,  38  di  M.  fobia  (subf.  Mustelidae), 
9  crani  di  Lutra  (subf.  Lutrinae).  Anche  per  questi  i  nostri  reperti  sono  complessi- 
vamente analoghi  a  quelli  di  Kopetsch. 

Nel  Meles  taxus  il  conus  articularis  si  presenta  sotto  forma  di  una  cresta  molto 
allungata  ia  direzione  frontale  e  relativamente  poco  alta;  la  sua  altezza  va  aumen- 
tando portandosi  verso  la  linea  mediana  ove  misura  in  media  mm.  2,5-3;  in  com- 
plesso questa  cresta  è  concava  in  avanti  servendo  cosi  a  delimitare  posteriormente 
la  fossa  mandibolare,  la  quale  si  presenta  appunto  assai  allungata  in  direzione  fron- 
tale. La  sua  faccia  posteriore  è  molto  ampia,  disposta  obliquamente  dal  basso  in 
alto  e  dall'avanti  all'indietro,  in  guisa  che  l'interstizio  fra  la  sporgenza  della  cresta 
e  il  contorno  anteriore  dell'apertura  uditiva  esterna  è  di  circa  1  cm.  A  6  nini, 
medialmente  all'apertura  uditiva  esterna,  nella  sutura  squamosotimpanica,  e  quindi 
ad  un  livello  inferiore  all'apertura  uditiva  stessa,  alla  base  della  faccia  dorsale  del 
cono  articolare  più  vicino  alla  sua  estremità  mediale  che  non  a  quella  laterale,  vi 
ha  un  forame  circolare,  ampio  mm.  1,5-2,  forame  sottozigomatico  posteriore,  da  cui  ha 
origine  un  canale  diretto  in  alto  e  dorsalmente  nello  spessore  della  porzione  squa- 
mosa, il  quale  si  comporta  superiormente  nell'identico  modo  descritto  per  la  fam. 
Canidae.  Da  notarsi  in  un  caso  una  evidentissima  asimmetria  nei  forami  sottozigo- 
matici dei  due  lati,  in  quanto,  quello  di  destra  essendo  normalmente  sviluppato,  quello 
di  sinistra  invece  è  assolutamente  ridotto  di  calibro  in  guisa  da  dare  appena  pas- 
saggio ad  una  fine  setola.  Comparativamente  il  canale  temporale  ha  un  tragitto  più 
lungo  che  non  nella  fam.  Canidae  e  nel  suo  decorso  contorna  come  un  semimanicotto 
la  doccia  della  porzione  squamosa,  che  limita  cranialmente  il  condotto  uditivo  esterno. 

Nelle  varie  specie  di  Mustela  noi  abbiamo  avuto  costantemente  un  reperto  ana- 
logo al  precedente.  Il  conus  articularis  è  anche  qui  poco  rilevato,  è  invece  assai 
esteso  in  larghezza,  fortemente  concavo  in  avanti;  dorsalmente  ad  esso  si  estende 
una  larga  superficie  irregolarmente  quadrangolare,  rivolta  in  basso  ed  in  addietro, 
che  ne  costituisce  come  la  faccia  posteriore.  In  prossimità  dell'estremità  laterale  della 
scissura  squamosotimpanica,  e  quindi  in  una  posizione  immediatamente  superiore 
alla  apertura  uditiva  esterna,  si  trova  situato  un  forame  emissario  sottozigomatico 
posteriore,  che  noi  abbiamo  riscontrato  in  tutti  i  51  crani  delle  varie  specie,  con 
differenze  solo  leggere  di  posizione.  Nella  M.  erminea,  come  nella  M.  foina,  il  forame 
è  relativamente  più  esile,  completamente  nascosto  nei  crani  di  adulti  dal  contorno 
anteriore  dell'anello  timpanico,  continuato  sulla  porzione  mediale  della  larga  super- 
ficie dorsale  del  cono  articolare  da  una  docciatura  nettamente  pronunciata  a  mo' 
di  una  intaccatura.  Il  canale  che  fa  seguito  a  tale  forame  sottozigomatico  posteriore 
è,  come  nel  Meles  taxus,  fortemente  curvo  indietro  ed  in  alto,  quasi  ad  abbracciare 


69  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  227 

il  contorno  anteriore  della  docciatura  squamosa,  che  entra  a  delimitare  l'apertura 
uditiva  esterna.  AU'endocranio  si  apre  nella  solcatura  petrosquamosa  più  o  meno 
completamente  trasformata  in  un  canale  a  seconda  dell'età.  L'apertura  esocranica 
di  detto  canale,  essendo  continuata  dalla  docciatura  sopra  descritta,  appare  ovalare 
e  misura  in  media  da  mm.  0,5  a  1  mm.  In  una  .1/.  americana  (Fig.  29  fszl)  l'aper- 
tura di  detto  canale  misura  invece  2  mm.  circa,  si  presenta  situata  subito  superior- 
mente all'apertura  uditiva  esterna,  non  mascherata  cioè  dall'osso  timpanico. 

In  un  Ermellino  l'apertura  esocranica  del  canale  sottozigomatico  è  duplice,  cia- 
scuno dei  due  forami  però  dà  appena  passaggio  ad  una  fine  setola.  Un  comporta- 
mento analogo  a  quanto  abbiamo  accennato  per  la  Mustela  si  verifica  nel  Mephitis. 

Nella  Lutra,  dietro  il  conus  articularis,  tra  questo  e  il  condotto  uditivo  esterno 
si  estende  pure  una  larga  superficie  pianeggiante,  rappresentante  la  superficie  dor- 
sale del  cono  articolare  stesso,  ampia  cent.  1,5  nel  senso  frontale,  cm.  1  sagittal- 
mente. All'  estremità  esterna  della  sutura  squamosotimpanica  si  apre  un  forame 
sotto  zigomatico  posteriore,  generalmente  molto  ampio  (2-3  mm.),  che  è  l'ingresso  di  un 
canale  diretto  quasi  orizzontalmente  dall'avanti  all'indietro,  come  nelle  Mustelidae. 
Per  quanto  l'apertura  esocranica  sia  relativamente  ampia,  in  alcuni  casi  il  passaggio 
di  una  setola  è  difficoltato  dal  decorso  onduloso  e  probabilmente  anche  da  restrin- 
gimenti o  da  spicole  ossee.  Nel  cranio  di  una  Lontra  adulta,  ventralmente  e  late- 
ralmente al  foro  sottozigomatico  posteriore,  sulla  faccia  dorsale  della  base  dell'apotìsi 
zigomatica,  vi  ha  bilateralmente  un  forellino  circolare,  forame  sottozigomatico  laterale, 
più  ampio  a  destra  (mm.  0,5)  che  a  sinistra;  esso  conduce  in  un  canale  diretto 
obliquamente  in  avanti  e  cranialmente,  ove  riesce  sulla  faccia  superiore  della  base 
dell'apofisi  zigomatica  mediante  un'apertura  esattamente  corrispondente  al  forame 
soprazigomatico  anteriore  da  noi  descritto  nel  cranio  umano;  con  opportuni  artifizi 
però  una  setola  introdotta  dal  forame  sottozigomatico  laterale  invece  di  fuoriuscire  dal 
forame  soprazigomatico  riesce  nella  cavità  craniana  nella  porzione  anteriore  del  solco 
petrosquamoso.  A  sinistra  il  forame  sottozigomatico  laterale  è  più  esile,  ne  ci  è 
riuscito  penetrarvi  con  la  setola  tranne  che  per  breve  tratto;  da  questo  lato  manca 
pure  ogni  traccia  di  forame  soprazigomatico. 

È  interessante  ricordare  come  anche  nel  cranio  di  un'  altra  Lontra  giovane 
bilateralmente  esista  un  esilissimo  forellino  sul  margine  laterale  del  cono  artico- 
lare immediatamente  al  di  sotto  della  linea  temporale,  però  non  permeabile  ad  una 
setola:  cosi  pure  in  una  L.  esanguis  bilateralmente  e  in  una  L.  brasiliensis  solo  a 
sinistra,  noi  abbiamo  riscontrato,  oltre  al  foro  sottozigomatico  posteriore  coi  soliti 
caratteri,  nella  posizione  ora  descritta,  anche  un  forellino  sottozigomatico  laterale, 
ampio  circa  mm.  0,5,  il  quale  dà  passaggio  ad  una  robusta  setola,  che  riesce  nella 
porzione  ventrale  del  canale  petrosquamoso. 

Negli  altri  5  crani  di  Lontra  da  noi  esaminati,  esiste  esclusivamente  il  foro 
sottozigomatico  posteriore,  mancando  invece  quello  laterale.  L'occorrenza  di  un  canale 
sottozigomatico  laterale  accompagnato  o  non  da  un  eventuale  forame  sopra-  o  prezi- 
gomatico ci  pare  quindi  uu  fatto  non  tanto  raro  nella  Lontra,  e  giustifica  l'accenno 
che  noi  abbiamo  fatto  di  una  formazione  presso  a  poco  identica  nel  Canis  familiaris: 
oltre  a  ciò  ci  pare  degna  di  rilievo  tale  evenienza  anche  per  il  fatto  che  non  venne 
ancora  notata  da   altri  AA.  nelle    varie  famiglie  dei   Carnivori,  e  perchè   il   forame 


228  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  70 

sottozigomatico  laterale,  sia  pure  come  fatto  eccezionale,  occorre  in  famiglie  in  cui 
è  normale  una  grande  ampiezza  del  canale  sottozigomatico  posteriore,  che  rappre- 
senta la  via  principale  di  deflusso  del  sangue  (Cane,  Lontra),  potendo  in  questi  even- 
tualmente funzionare  anche  da  vero  emissario  (Lontra),  come  pure,  a  quanto  vedremo 
tosto,  in  altri  in  cui  il  canale  sottozigomatico  posteriore  è  pure  di  molto  ridotto  per 
ampiezza,  come  anche  per-  frequenza. 

Pam.  Hyaenidae  e  Viverridae.  —  Mentre  Kopetsch  (34)  afferma  che  in 
un  cranio  di  Hyaena  crocuta  avrebbe  trovato  dai  due  lati,  dietro  il  cono  articolare, 
una  fine  apertura  solo  parzialmente  sondabile,  a  noi  invece  non  riusci  di  trovarne 
traccia  alcuna  in  due  crani  di  H.  striata. 

Similmente  abbiamo  pure  avuto  reperto  negativo  in  un  cranio  di  Herpestes 
ichneumon,  in  cui  per  altro  Kopetsch  (34)  avrebbe  trovato  anteriormente  e  superior- 
mente all'apertura  uditiva  esterna  un  foramen  jugulare  spurium  capillare. 

Fam.  Felidae.  —  I  risultati  delle  nostre  ricerche  in  questa  famiglia  discor- 
dano notevolmente  da  quelli  avuti  dalla  grande  maggioranza  degli  altri  AA.,  i  quali 
negano  per  lo  più  la  esistenza  di  forami  emissari  temporali  nelle  varie  specie.  Noi 
abbiamo  esaminato  a  questo  riguardo  43  crani  di  Felis  catus  di  tutte  le  età  e  delle 
provenienze  le  più  diverse,  ma  a  preferenza  della  varietà  domestica,  5  crani  di  F.  con- 
color, 3  di  F.  pardus,  4  di  F.  tigris,  e  4  di  F.  leo. 

Per  quanto  si  riferisce  al  Gatto  è  a  notarsi  che  il  conus  articularis  è  relativa- 
mente ben  pronunciato,  sotto  forma  di  una  apofisi  laminare  quasi  verticale  o  per 
lo  meno  solo  un  po'  concava  in  avanti,  più  alta  medialmente  che  lateralmente.  In 
14  crani  senza  distinzione  di  età  noi  abbiamo  trovato  assolutamente  mancante  ogni 
traccia  di  forami  o  di  canali  che  potessero  con  sicurezza  riferirsi  a  canali  venosi 
emissari  :  negli  altri  29  crani,  e  cioè  nei  due  terzi  dei  casi,  abbiamo  invece  trovato 
dei  veri  canali  emissari  e  di  categorie  nettamente  diverse,  con  una  proporzione 
differente  per   ciascheduna. 

Ordinariamente,  in  specie  negli  individui  giovani,  ma  non  raramente  anche  in 
individui  avanzatissimi  in  età  come  si  può  giudicare  per  la  completa  sinostosi  delle 
loro  suture  craniane,  sul  margine  mediale  del  cono  articolare,  oppure  sulla  faccia 
posteriore  del  cono  stesso,  però  costantemente  in  tutta  prossimità  del  margine 
mediale,  si  riscontra  un  esile  forellino  circolare  nettamente  distinto  dalla  sutura 
squamosotimpanica  (Fig.  30  fszm),  dalla  quale  è  costantemente  separato  mediante 
un  lieve  ponticello  osseo.  Tale  forametto  è  nella  massima  parte  dei  casi  assoluta- 
mente piccolo,  talvolta  visibile  solo  coll'aiuto  di  una  lente,  mascherato  tal'altra 
dall'attacco  anteriore  del  cercine  timpanico  :  per  quanto  piccolo,  tuttavia  nella  mas- 
sima parte  dei  casi  può  dar  passaggio  ad  un  minutissimo  crine  di  cavallo;  si  può 
dimostrare  quindi  con  relativa  facilità  come  il  canale,  di  cui  il  forame  sottozigomatico 
mediale,  ora  descritto,  rappresenta  l'apertura  esocranica,  riesce  nel  cranio  attraverso 
la  squama  del  temporale  nella  porzione  anteriore  della  sutura  petrosquamosa,  sutura, 
che,  specialmente  nei  giovani  soggetti,  si  presenta  ampiamente  aperta  e  con  dispo- 
sizioni perfettamente  simili  a  quelle  del  temporale  di  individui  giovani  della  nostra 
specie.  Manca  tuttavia  all'endocranici  un   sulcus  transversus  aperto   o  trasformato  in 


71  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQUAMOSI  229 

canale  paragonabile  a  quello  descritto  nel  Cane  e  negli  altri  Carnivori.  Una  volta  noi 
abbiamo  riscontrabile  anzi  da  ciascun  lato  un  forame  sottozigomatico  mediale  posto  esat- 
tamente al  punto  di  attacco  del  margine  mediale  del  cono  articolare  ed  un  altro 
forame  più  piccolo  posto  sulla  faccia  posteriore  del  cono  a  mm.  1,5  di  distanza  dal 
precedente:  esistevano  cioè  dai  due  lati  due  forami  sottozigomatici  mediali. 

Men  frequentemente,  ma  però  certo  non  estremamente  di  rado,  assieme  al  fu- 
rarne sottozigomatico  mediale  od  anche  indipendentemente  da  questo,  si  può  verifi- 
care sulla  faccia  dorsale  del  cono  articolare  stesso  (Fig.  30  fszl),  ma  verso  la  sua  parte 
esterna  ed  anteriore,  a  distanza  di  2-3  mm.  al  di  sotto  del  margine  superiore  tagliente 
della  base  dell'apofisi  zigomatica,  un  altro  forellino,  foro  sottozigomatico  laterale, 
sempre  piccolissimo,  difficilmente  permeabile  alla  più  fina  delle  setole,  in  guisa  che 
noi  siamo  una  sol  volta  riesciti  a  dimostrare  perentoriamente  dai  due  lati  la  comu- 
nicazione del  canale,  che  fa  seguito  a  tale  apertura,  colla  porzione  anteriore  della 
solcatura  petrosquamosa. 

Più  raramente  ancora,  anzi  solo  come  fatto  estremamente  eccezionale,  si  può 
riscontrare  una  terza  apertura,  pure  minutissima,  immediatamente  al  di  sopra  della 
linea  temporale,  in  una  posizione  che  corrisponderebbe  esattamente  a  quella  occupata 
nella  nostra  specie  dai  forami  soprazigomatici  posteriori;  tale  apertura  a  noi  occorse 
in  verità  solo  una  volta  (Fig.  30  fszp)  e  dai  due  lati,  contemporaneamente  alla  esistenza 
pure  da  ciascun  lato  di  un  foro  sottozigomatico  mediale  e  di  uno  sottozigomatico 
laterale:  per  essa  però  non  ci  riuscì  di  far  penetrare  una  fine  setola  altro  che  per 
un  tratto  di  circa  2  mm. 

Noi  abbiamo  riscontrato  un  forame  sottozigomatico  mediale,  sondabile  o  non,  dai 
due  lati  in  18  casi,  3  volte  solo  a  destra,  2  volte  solo  a  sinistra;  in  un  caso  il 
forame  sottozigomatico  mediale  era  duplice  da  ciascun  lato.  Esisteva  invece  solo  un 
forame  sottozigomatico  laterale  dai  due  lati  in  un  solo  cranio  (Gatto  del  Pampas,  ad.)  ; 
in  due  casi  esistevano  bilateralmente  il  sottozigomatico  laterale  e  quello  mediale,  in 
due  il  mediale  occorse  dai  due  lati,  quello  laterale  solo  a  destra. 

Data  la  piccolezza  del  calibro  di  questi  differenti  canali,  evidentemente  la  somma 
di  sangue,  che  può  esserne  esportata,  è  assolutamente  minima  e  il  loro  valore  fisio- 
logico come  emissari  è  naturalmente  trascurabile;  la  ubicazione  delle  varie  aperture 
però  è  così  fissa  e  caratteristica  per  le  differenti  categorie  ed  anche  così  frequente, 
per  lo  meno  per  i  forami  sottozigomatici  mediali,  nei  crani  di  tutte  le  età,  e  non 
solamente  in  crani  di  individui  molto  giovani,  che  stupisce  non  ne  sia  stato  finora 
rilevato  esattamente  e  nella  giusta  misura  il  significato  morfologico. 

Fra  4  crani  di  F.  leo  mancava  ogni  traccia  di  forami  emissari  in  2  ;  invece  negli 
altri  2  (1  5  ad.  ed  1  5  juv.)  sulla  faccia  posteriore  del  conus  articularis  straordi- 
nariamente sviluppato,  in  prossimità  della  sua  estremità  laterale,  al  di  sotto  del  mar- 
gine arcuato  tagliente  della  linea  temporale  nella  femmina,  spostato  più  medialmente 
nel  maschio,  abbiamo  veduto  dai  due  lati  un'apertura  relativamente  ampia,  mm.  2,5-3, 
corrispondente  ad  un  foro  sottozigomatico  posteriore  ;  sull'ulteriore  decorso  del  canale 
che  fa  seguito  a  tale  apertura  noi  non  possiamo  dare  alcun  schiarimento. 

In  4  crani  di  F.  tigris  non  ci  riuscì  verificare  l'esistenza  di  alcun  forame  cui 
si  potesse  dare  il  valore  di  emissario. 

In  un  F.  concolor  e  in  due  F.  pardus  manca  pure  ogni  traccia  di   canali  emis- 


230  ALFONSO    BOVERO    UMBERTO    CALAMIDA  72 

sari  ;  invece  in  un  altro  F.  pardus  ed  in  4  F.  concolor  esiste,  come  nel  Gatto,  bila- 
teralmente un  foro  esilissiino,  appena  permeabile  ad  una  setola,  alla  parte  superiore 
della  faccia  dorsale  del  robusto  cono  articolare,  in  tutta  vicinanza  del  margine  me- 
diale dello  stesso,  foro  sottozigomatico  mediale;  manca  invece  ogni  traccia  di  canali 
sottozigomatici  laterali. 

Da  quanto  abbiamo  esposto,  senza  che  ci  diffondiamo  di  più  a  discutere  i  risul- 
tati ottenuti,  emerge  che,  mentre  nelle  fam.  Canidae,  Cercoleptinae,  Mustelidae  ed  Ur- 
sidae  il  forame  sottozigomatico  posteriore  rappresenta  l'apertura  inferiore  di  un  canale 
corrispondente  alla  via  tenuta  dalla  gran  parte  del  sangue  endocranico  per  ritornare 
al  cuore,  e  cioè,  più  che  considerarsi  come  semplice  emissario,  è  da  ritenersi  come 
la  via  principale  di  deflusso,  nella  fam.  Felidae,  i  canali  delle  varie  categorie  sono 
ridotti  realmente  al  valore  di  emissari  di  importanza  molto  secondaria.  Ancora  è  da 
osservarsi  che,  mentre  la  costanza  e  la  ubicazione  dell'apertura  inferiore  del  canalis 
temporalis  delle  prime  famiglie  di  Carnivori  sono  giustamente  riconosciute  dalla  mas- 
sima parte  dagli  AA.,  i  reperti  da  noi  avuti  nelle  fam.  Felidae,  e  più  specialmente 
nel  Gatto,  si  discostano  notevolmente  da  quelli  consegnati  nella  letteratura. 

Ord.  P1KNIPJEDIA. 

Sono  scarsissimi  e  contradditori  i  cenni  sugli  emissari  temporali  nelle  varie  specie 
di  questo  ordine:  difatti  mentre  Otto  (50)  nega  l'esistenza  di  un  canalis  temporalis 
nel  gen.  Trichecus,  avrebbe  avuto  risultato  positivo  per  il  genere  Phoca.  Un  reperto 
analogo  ha  avuto  Cope  (9),  il  quale  non  trovò  forami  nel  gen.  Trichecus  ed  Arctoce- 
phalus,  solo  un  postglenoide  rudimentale  nella  Phoca.  Kopetsch  (34)  nega  e  canalis 
temporalis  e  foramen  jugulare  spurium  nei  Pinnipedi  (25  crani),  non  arrischiandosi 
a  dare  tale  significato  ad  una  o  due  aperture  non  sondabili,  che  occorrerebbero  in 
tutti  i  casi  dietro  la  cresta  rappresentante  il  cono  articolare. 

Le  nostre  ricerche  confermano  completamente  il  risultato  negativo  degli  altri  AA. 
per  quanto  riguarda  il  Trichecus  rosmarus  (fam.  Trichecidae),  non  essendo  noi  riusciti 
a  verificare  l'esistenza  in  6  crani  di  alcun  forame,  che  verosimilmente  potesse  interpre- 
tarsi come  emissario.  I  nostri  reperti  sono  invece  diversi  per  ciò  che  si  riferisce 
alla  fam.  Phocidae:  di  questi  noi  abbiamo  esaminati  13  crani  e  cioè  7  di  P.  vitulina, 
4  di  P.cristata,l  di  P.  groenlandica,  ed  1  di  P.hispida:  solamente  in  3  casi  (P.  groen- 
landica,  P.  vitulina  e  P.  cristata)  dai  due  lati  ed  in  un  altro  (P.  vitulina)  a  sinistra, 
noi  abbiamo  potuto  escludere  perentoriamente  la  esistenza  di  qualsiasi  traccia  di 
eanali  emissari  temporali  delle  varie  categorie. 

Nella  Phoca  esiste  costantemente  un  conus  articularis  lamelliforme,  molto  pro- 
nunciato, più  spesso  e  più  alto  medialmente.  In  alcuni  casi  (fig.  31  fszm)  alla  faccia  dor- 
sale di  tale  lamina  apofisaria,  in  tutta  prossimità  del  suo  margine  mediale,  nell'inter- 
stizio che  sta  fra  il  cono  ed  il  contorno  anteriore  della  bulla  tympanica  (bt),  esiste  un 
forame  circolare  o  leggermente  ovalare,  ampio  mm.  1-1,5,  continuato  verso  l'estre- 
mità inferiore  del  cono  articolare  da  una  docciatura  più  o  meno  evidente.  Da  tale 
t'orarne  ha  origine  un  canale  diretto  dapprima  verticalmente  in  alto,  poi  quasi  oriz- 
zontalmente in  dietro,  per  aprirsi  in  seguito  nel  pavimento  della  fossa  cranica  media, 
1  cm.  ventralmente  alla  sutura  petrosquamosa,  verso  la  quale  è  continuato  da 
una  docciatura  ben  pronunciata:  usando  le  debite  precauzioni  noi  siamo  riusciti  a  far 


73  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  --''l 

penetrare  a  traverso  tutto  il  canale  descritto  una  grossa  setola  :  l'impedimento  ad 
entrare  nel  cranio  può  a  nostro  avviso  essere  rappresentato  dal  brusco  cambiamento 
di  direzione  del  canale  stesso  e  da  ciò  che  questo  nella  sua  porzione  orizzontale  è 
coperto  dal  tavolato  interno  della  squama,  contro  il  quale  viene  ad  urtare  vertical- 
mente una  setola  introdotta  dal  forame  sottozigomatico  mediale.  Noi  abbiamo  riscon- 
trato il  forame  sottozigomatico  mediale,  solo  od  accompagnato  con  forami  di  altra 
categoria,  e  di  cui  ci  riuscì  dimostrare  la  comunicazione  diretta  colla  cavità  craniana, 
3  volte  dai  due  lati,  una  solo  a  destra. 

Contemporaneamente  all'apertura  suddescritta  (Fig.  31  fszl),  oppure  indipendente- 
mente da  essa,  può  occorrere  nel  cranio  di  Phoca,  un  forame  sottozigomatico  laterale, 
posto  sulla  porzione  esterna  della  faccia  dorsale  del  cono,  6-7  mm.  al  disotto  della 
linea  temporale  più  o  meno  sporgente:  detto  forame  è  volto  direttamente  all'esterno, 
continuato  però  in  alto  da  una  docciatura  più  o  meno  pronunciata:  è  ampio  mm.  1-1,5 
e  si  continua  medialmente  con  un  canale  a  decorso  orizzontale  o  solo  un  po'  obliquo 
in  alto,  il  quale  raggiunge  il  canale  sovra  descritto  nel  punto  in  cui  da  verticale  si 
fa  orizzontale.  Anche  per  l'apertura  sottozigomatica  laterale  ci  venne  fatto  di  pene- 
trare con  una  setola  nella  cavità  craniana:  la  comunicazione  con  il  canale  sotto- 
zigomatico mediale  e  colla  cavità  cranica  si  può  anche  dimostrare  facilmente  con 
iniezioni  di  sostanze  colorate.  Il  forame  sottozigomatico  laterale  occorse  nelle  nostre 
osservazioni  4  volte  dai  due  lati;  in  un  caso  (Fig.  31)  esisteva  pure  il  sottozigoma- 
tico mediale  bilateralmente,  in  un  altro  quest'  ultimo  esiste  solo  a  destra,  in  un 
altro  ancora  al  lato  sinistro  coesiste  un  esilissimo  forame  però  non  sondabile  al  di 
sopra  della  base  della  apofisi  zigomatica:  finalmente  in  un  caso  dai  due  lati  si  veri- 
ficò solo  l'esistenza  esclusiva  del  sottozigomatico  laterale. 

Ancora,  noi  abbiamo  constatato  l'occorrenza  di  un  forame,  situato  3-4  mm.  supe- 
riormente alla  linea  temporale,  lungo  una  verticale  che  decussi  il  contorno  poste- 
riore dell'apertura  uditiva  esterna  e  per  la  sua  posizione  riferibile  ad  un  forami- 
emissario  postsqaamoso  :  tali  aperture  sono  per  lo  più  assolutamente  piccolissime, 
quasi  microscopiche:  in  casi  eccezionali  (1  P.  frittata)  il  forame  è  ampio  circa  1  mm. 
ed  il  canale,  che  gli  fa  seguito,  attraversa  a  tutto  spessore  la  squama  diretto  dorsal- 
mente e  medialmente. 

Finalmente  anche  al  di  sopra  della  base  della  apofisi  zigomatica  possono  occor- 
rere dei  microscopici  forametti,  i  quali,  pur  rappresentando  per  lo  più  lo  sbocco  di 
semplici  canali  diploici,  tuttavia  possono  talvolta  (un  caso  e  da  un  solo  lato)  dar 
passaggio  ad  una  finissima  setola  (foro  soprazigomatico  posteriore). 

Risulta  quindi  evidente  che  nel  gen.  Phoca,  a  differenza  di  quanto  asseriscono  gli 
altri  AA.,  si  riscontrano  appunto  dei  forami  emissari  temporali  molteplici  e  da  classi- 
ficarsi in  categorie  diverse:  è  tuttavia  da  avvertirsi  come,  specialmente  per  quelli  posti 
al  di  sopra  dell'apofisi  zigomatica  e  della  linea  temporale,  si  debba  ventilare  l'ipotesi 
che  essi  siano  ridotti  a  semplici  canali  diploici:  certamente,  pure  ammettendo  la  im- 
portanza complessivamente  minima  degli  emissari  delle  varie  categorie,  i  superiori  non 
sono  in  genere  degni  di  nota  altro  che  per  il  loro  significato  morfologico:  a  noi  basta 
aver  dimostrato  perentoriamente  l'esistenza  degli  uni  e  degli  altri. 

In  un  cranio  di  Callorhynus  ursinus  (fam.  Otariidae)  bilateralmente,  in  altro  solo 
a  destra,  sul  margine  laterale    del    cono    articolare  abbiamo  verificato   la    esistenza 


232  ALFONSO  BOYERO  —  UMBERTO  CALAMIDA  74 

di  un  forame,  sondabile  però  solo  per  breve  tratto,  corrispondente  affatto  per  la  ubi- 
cazione al  forami'  sottozigomatico  Intende  descritto  per  la  Phoca. 

Ord.  RODENTI  A. 

11  decorso  delle  vie  sanguigne  di  deflusso  del  sangue  endocranico  attraverso 
l'osso  temporale  nella  grande  maggioranza  dei  Roditori  è  abbastanza  ben  conosciuto, 
appunto  perchè,  come  nel  massimo  numero  dei  Carnivori  e  degli  Ungulati,  esso  costi- 
tuisce una  disposizione  perfettamente  normale:  e  noi  abbiamo  di  già  ricordato  diffu- 
samente nella  letteratura  i  reperti  dei  vari  A  A.  Noteremo  qui  solamente  ancora  una 
volta  come  Salzer  (57)  abbia  studiato  il  modo  con  il  quale  si  stabiliscono  tali  vie 
per  rispetto  alla  cronologia  dello  sviluppo  appunto  principalmente  nella  Cavia,  rodi- 
tore in  cui,  come  carattere  permanente,  lo  sgorgo  di  gran  parte  del  sangue  si  fa 
attraverso  il  temporale.  I  vari  ricercatori  si  limitano  per  lo  più  ad  accennare  vaga- 
mente tale  fatto,  specialmente  in  relazione  alla  ubicazione  della  apertura  esterna  dei 
canali  ossei,  che  a  detta  via  danno  ricetto.  Così  secondo  Cope  (9)  nei  Roditori  non 
sarebbero  mai  presenti  il  forame  sopraglenoideo  ed  il  postparietale,  il  mastoideo  è 
raro,  generalmente  presente  il  subsquamoso,  che  si  può  facilmente  confondere  col 
postsquamoso  :  in  alcune  specie  (Lepus,  Lagomys,  Lagidium,  Cercolabes)  non  esiste- 
rebbe traccia  alcuna  dei  vari  forami,  in  altri  invece  esisterebbe  un  forame  postgle- 
noideo  isolato  (Lagostomus,  Geomys,  Erithizon),  o  confluente  con  un  postsquamoso 
(Hystrix,  Hydrochaerus,  Neotoma,  Arvicola),  oppure  separato  da  questo  {Castor,  Oynomys, 
Spermophilus). 

Più  esatte  e  più  diffuse  sono  le  descrizioni  cbe  dà  Kopetsch  (34)  nelle  varie 
famiglie:  dalle  sue  ricerche  risulterebbe  che  non  tutti  i  Roditori,  relativamente  alle 
particolarità  che  abbiamo  in  esame,  si  comportano  in  modo  identico:  nei  Leporidi  non 
esisterebbe  alcun  forame  giugulare  spurio,  il  quale  invece,  pur  essendo  piccolo,  sarebbe 
costante  nei  gen.  Sciurus,  Tamias,  Oynomys,  ('attor,  Cercolabes,  Cavia  e  Dasyprocta: 
alquanto  maggiore  occorre  pure  nei  gen.  Arctomys,  Georrychus  ed  Hydrochaerus  :  final- 
mente il  forame  predetto  raggiunge  la  massima  ampiezza,  presentandosi  sotto  forma 
di  una  larga  fessura  semilunare,  nei  gen.  Cricetus,  Mtts,  Meriones,  Arvicola,  Hystrix, 
Coelogen/js  e  Myopotamus. 

Le  nostre  ricerche  confermano,  in  gran  parte,  dilucidandoli  ed  allargandoli,  i 
risultati  di  Kopetsch  :  per  alcuni  riguardi  però  i  nostri  risultati  sono  completamente 
diversi  da  quelli  di  tale  A. 

Subord.  Sciuromorpha  ;  Fam.  Sciuridae.  —  Di  questa  famiglia  noi  abbiamo 
esaminato  15  crani  di  Sciurus  (3  S.  concolor,  12  S.  vulgaris),  1  di  Xerus  Erytropus, 
6  di  Arctomys  marmata  e  in  tutti,  salvo  leggere  differenze,  esiste  un  identico  com- 
portamento. Negli  uni  e  negli  altri,  come  del  resto  in  tutti  i  Roditori,  manca  com- 
pletamente ogni  traccia  di  cono  articolare  e  la  fossa  mandibolare  si  presenta 
diretta  sagittalmente,  limitata  lateralmente  dalla  faccia  inferiore  della  base  del  pro- 
cesso zigomatico,  medialmente  dalla  porzione  basilare  della  squama  temporale:  le 
dimensioni  della  fossa  mandibolare  variano  naturalmente  a  seconda  della  specie. 

Nello  Sciurus  al  di  sotto  della  radice  orizzontale  del  processo  zigomatico,  poste- 
riormente al  punto  in  cui  da    detta   radico    si   distacca  il    margine  dorsale  tagliente 


75  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  233 

fortemente  convesso  in  basso  e  posteriormente  del  processo  stesso,  a  2-4  mm.  supe- 
riormente ed  anteriormente  al  contorno  dell'apertura  uditiva  esterna,  vi  ha  da  ciascun 
lato  nello  spessore  della  squama  temporale,  oppure  nel  limite  fra  l'osso  timpanico 
e  l'osso  squamoso  un'apertura  ovalare  scavata  a  fossetta,  larga  da  1  a  2  mm.,  che 
si  può  ritenere  come  un  foro  sottozigomatico  laterale.  Tale  apertura  è  ordinariamente 
il  confluente  di  3-4  canali,  dei  quali  uno,  più  lungo,  è  diretto  in  alto  e  dorsalmente 
fra  la  squama  e  l'osso  petroso  ed  arriva  nella  cavità  del  cranio  nella  sutura  petro- 
squamosa subito  in  avanti  e  superiormente  al  braccio  anteriore  del  canale  semicir- 
colare superiore  ;  questo  canale  non  solo  è  il  più  lungo,  ma  è  anche  quello  relativa- 
mente più  ampio  in  guisa  che  una  grossa  setola  può  percorrerlo  con  la  massima 
facilità. 

Un  altro  canale  invece,  assai  più  breve,  conduce  quasi  trasversalmente  nella 
fossa  media,  a  3-4  mm.,  al  davanti  dell'apertura  endocranica  di  quello  precedente- 
mente descritto,  sempre  però  nella  sutura  petrosquamosa  ;  una  setola  introdotta  dal- 
l'apertura endocranica  del  primo  canale  può  riuscire,  invece  che  all'esterno,  nell'in- 
terno del  cranio  dall'apertura  superiore  del  canale  aprentesi  nella  fossa  media;  vi 
ha  cioè  un  tratto  della  sutura  petrosquamosa,  corrispondente  alla  porzione  ventrale 
del  solco  per  il  sinus  transversus,  completamente  chiuso  e  trasformato  in  un  canale, 
il  cui  comportamento,  astrazion  fatta  dalle  aperture  esocraniche,  è  analogo  a  quello 
del  canale  di  Verga  dell'Uomo. 

Costantemente  ancora  alla  apertura  sottozigomatica  laterale  ora  descritta  giunge 
pure  un  canale  diretto  verticalmente  in  alto,  fra  la  faccia  interna  della  squama  e 
il  tavolato  interno  del  parietale,  ed  aperto  inoltre  all'esocranio  nella  sutura  parieto- 
squamosa  sotto  forma  di  una  vera  fessura  molto  allungata  in  direzione  sagittale: 
la  lunghezza  di  quest'ultimo  canale  varia  da  1  a  2  mm.  ed  una  setola  introdotta 
dall'apertura  parietosquamosa  può  fuoriescire  con  eguale  facilità  o  dal  forame  sotto- 
zigomatico laterale,  oppure  dal  forame  endocranico  situato  nella  sutura  petrosqua- 
mosa nella  fossa  craniana  media.  In  2  casi,  invece  di  un  forame  parietosquamoso, 
l'apertura  superiore  del  canale  verticalmente  diretto  era  scavata  esclusivamente  nello 
spessore  della  squama;  data  la  minima  altezza  di  questa  si  può  ben  parlare  di  un 
forame  soprazigomatico  posteriore  {soprasquamoso  nel  senso  di  Cope). 

Finalmente  nella  massima  parte  dei  casi  alla  apertura  sottozigomatica  laterale, 
o  per  lo  meno  alla  parte  posteriore  della  fossetta,  che  la  rappresenta,  riesce  pure 
un  fine  canalino,  il  quale  origina  da  un  forametto  situato  subito  posteriormente  ad 
essa,  immediatamente  al  disopra  della  apertura  esterna  del  condotto  uditivo,  essendo 
separato  dal  sottozigomatico  laterale  mediante  un  esile  ponticello  osseo.  Per  la  sua 
ubicazione,  quando  non  si  voglia  ritenere  come  uno  sdoppiamento  del  sottozigoma- 
tico laterale,  si  potrebbe  ritenere  come  un  sottosquamoso  (Cope)  ;  certo  è  sempre  molto 
più  esile  dello  altre  aperture,  ridotto  per  lo  più  ad  una  fine  fessura,  nella  quale  si 
introduce  colla  massima  difficoltà  una  minutissima  setola;  nei  casi  in  cui  esso  manca, 
si  può  ammettere  siasi  confuso  col  sottozigomatico  laterale,  appunto  perchè  quest'ul- 
timo si  presenta  in  tali  casi  assai  più  ampio  e  cioè  sotto  forma  di  una  fessura  semi- 
lunare, quale  noi  riscontreremo,  però  più  esagerata,  in  altri  generi  di  Goditori.  Nello 
Sciurus  quindi  si  deve  ritenere  come  affatto  costante  l'esistenza  di  un  forame  sotto- 
zigomatico  laterale  molto  ampio,  che  rappresenta  il  confluente  di  parecchi  altri  canali 
Serie  II.  Tom.  LUI.  , 


23-1  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  76 

secondari,  di  cui  due  si  aprono  all'endocranio  in  punti  diversi  della  sutura  petrosqua- 
mosa,  un  altro  si  apre  superiormente  come  forame  parietosquamoso  o  soprazigomatico, 
un  altro  come  sottosquamoao. 

Neil' Arctomys  marmata  esistono  disposizioni  alquanto  differenti  da  quelle  descritte 
per  lo  Sciurus:  costantemente  al  disopra  della  radice  sagittale  dell'apofisi  zigoma- 
tica, ad  1-2  mm.  di  distanza  dal  margine  tagliente  di  detta  radice,  in  una  posizione 
complessivamente  ventrale  all'apertura  esterna  del  canale  uditivo,  nello  spessore 
della  parte  bassa  della  porzione  verticale  della  squama  temporale,  vi  ha  un'ampia 
apertura  ovalare  (Fig.  32  fszp),  con  un  massimo  diametro  di  5-7  mm.  disposto  sagittal- 
mente e  che  corrisponde  ad  un  forame  soprazigomatico  posteriore:  all'apertura  esterna 
ne  corrisponde  un'altra  perfettamente  analoga  sulla  faccia  cerebrale  dell'osso  squa- 
moso isolato  (Fig.  33  fszp).  Dall'apposizione  dell'osso  petroso  allo  squamoso  ne  risulta 
medialmente  a  tale  apertura  una  specie  di  fossetta,  che  può  considerarsi  come  il 
punto  di  confluenza  di  parecchi  altri  canali.  Di  questi,  uno  ha  origine  da  un  forel- 
lino  per  lo  più  molto  esile  apreatesi  all'esterno  sopra  la  radice  sagittale  del  pro- 
cesso zigomatico,  immediatamente  all'  indietro  del  precedente,  vale  a  dire  subito 
superiormente  all'apertura  esterna  del  condotto  uditivo:  e  questo,  quando  non  voglia 
considerarsi  come  prodotto  dallo  sdoppiamento  del  forame  soprazigomatico  poste- 
riore, potrebbe  anche  considerarsi,  come  un  foro  postsquamoso  nel  senso  di  Core: 
esso  tuttavia  è  tutt' altro  che  costante,  avendolo  noi  riscontrato  una  sol  volta  dai  due 
lati  ed  in  un  cranio  solamente  dallato  sinistro;  in  ogni  caso  il  canale  che  lo  continua, 
del  resto  assai   breve,  riesce  alla  parte  posteriore  della  fossetta  prima  descritta. 

Più  frequente  è  invece  un  altro  forame  (Fig.  32  fszl)  posto  caudalmente  alla  radice 
orizzontale  del  processo  zigomatico,  che  lo  ricopre,  mascherandolo  lateralmente;  esso 
può  considerarsi  come  un  forame  sottozigomatico  laterale;  è  sempre,  quando  esiste, 
assai  più  piccolo  del  soprazigomatico,  per  lo  più  ovalare,  con  un  massimo  diametro 
di  mm.  0,5-4,  evi  corrisponde  nella  faccia  interna  dello  squamoso  un'apertura  affatto 
corrispondente,  distinta  da  quella,  del  soprazigomatico  (Fig.  33  fszl)  :  il  canalino,  che 
fa  seguito  all'apertura  del  forame  sottozigomatico,  riesce  ad  ogni  modo  alla  parte  bassa 
della  fossetta  delimitata  medialmente  al  forame  soprazigomatico  dalla  apposizione 
dell'osso  petroso  allo  squamoso,  in  guisa  che  una  setola  o  una  sonda,  introdotte  ver- 
ticalmente dal  foro  soprazigomatico,  fuorescono  immediatamente  dal  foro  sottozi- 
gomatico. Quest'ultimo  non  è  tuttavia  assolutamente  costante:  in  2  casi  (uno  gio- 
vanissimo ed  un  adulto)  non  ci  riusci  di  trovarne  traccia  alcuna. 

Dalla  sutura  dello  squamoso  coll'osso  petroso  risulta  che  la  fossetta  sovraccen- 
nata, a  cui  confluiscono  i  vari  canali,  è  per  lo  più  ampiamente  aperta  in  alto  e 
medialmente,  rappresentando  cosi  la  via  di  deflusso  del  seno  trasverso,  che  lascia 
traccie  molto  evidenti  in  avanti  ed  in  addietro  nella  sutura  petrosquamosoparietale, 
sotto  forma  di  una  pronunciatissima  solcatura.  Accade  però,  specie  negli  individui 
adulti  (Fig.  34  sps),  che  il  sulcus  transversus  venga  parzialmente  trasformato  in  un  vero 
canale  dalla  riunione  dell'osso  petroso  col  tavolato  interno  dell'angolo  mastoideo  del 
parietale;  onde,  osteologicamente,  la  fossetta  descritta,  posta  fra  la  squama  e  la 
piramide,  si  aprirebbe  nella  cavità  cranica  rispettivamente  con  una  apertura  ante- 
riore (a)  e  con  una  posteriore  (fi),  corrispondenti  appunto  esattamente  alle  rispettive 
aperture  del  canale  teinporoparietalo. 


77  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  235 

Nella  Marmotta  quindi  si  deve  ritenere  come  carattere  fisso  l'esistenza  di  un 
forame  soprazigomatico  posteriore,  molto  ampio,  attraverso  cui  defluisce  la  maggior 
parte  del  sangue  del  seno  trasverso:  i  forami  sottozigomatico  laterale  e  postsquamoso 
sono  meno  costanti  ed  hanno  anche  per  il  loro  calibro  un'  importanza  piuttosto 
secondaria. 

Poiché  stiamo  discorrendo  dell' Ar et omgs  marmata  crediamo  interessante  rile- 
vare come  in  questo  roditore  gli  apici  delle  due  rocche  petrose  vengono  a  riu- 
nirsi fra  di  loro,  superiormente  alla  faccia  endocranica  del  basisfenoide  per  mezzo 
di  due  robusti  prolungamenti  ossei  appiattiti  in  direzione  craniocaudale,  in  guisa 
da  determinare  la  formazione  di  una  sutura  sagittale  fortemente  dentata,  lunga  2-3  mm. 
al  disopra  del  basisfenoide  (sutura  crittica)  :  su  questo  fatto  molto  interessante  e 
così  oscuro  ritornerà  prossimamente  uno  di  noi  (Bovero). 

Ancora  della  fam.  Sciuridae,  nello  Xerus  Erythropus  esiste  solo  un  forame  sopra- 
zigomatico ovalare,  ampio  2  mm.,  mancando  invece  il  forame  sottozigomatico. 

Fam.  Castovidae.  —  Nel  Gastor  fiber  (6  crani)  il  condotto  uditivo  è  molto 
proeminente  in  alto  e  spostato  in  addietro,  lasciando  fra  il  margine  posteriore  del- 
l'apofisi  zigomatica  e  il  suo  contorno  anteriore  un  interstizio  di  17-18  mm.  Subito 
al  disotto  della  linea  temporale  vi  ha  costantemente  un  forame  irregolarmente  ova- 
lare o  circolare  di  min.  1-2,5,  forame  sottozigomatico  laterale,  scavato  completamente 
nella  squama,  a  cui  segue  un  canale  diretto  in  alto  e  dorsalmente  per  raggiungere 
il  sulcus  transversus  all'estremità  posteriore  della  sutura  pari etopetrosa  :  in  un  cranio 
dai  due  lati,  in  altri  2  solo  dal  lato  destro,  invece  di  un  solo  forame  sottozigo- 
matico se  ne  riscontrano  due,  dei  quali  il  posteriore  è  costantemente  il  più  ristretto, 
sì  da  dar  passaggio  appena  ad  una  setola:  il  canale  che  gli  fa  seguito  si  riunisce 
tosto  al  precedente.  Quasi  costantemente  vi  ha  ancora  un  altro  canalino,  vertical- 
mente discendente  dalla  sutura  parietosquamosa  a  raggiungere  il  canale  originante 
dal  foro  o  dai  fori  sottozigomatici. 

Subord.  Myomorpha;  Fam.  Muridae.  —  Di  questa  famiglia  abbiamo  preso 
in  esame  43  crani  e  cioè:  23  di  Mus  decumanus,  7  di  M.  rattus,  4  di  M.  musculus,  6  di 
Cricetus  frumentarius,  e  3  di  Arvicola  amphibius,  in  grande  maggioranza  macerati  da 
uno  di  noi  (Bovero),  ed  in  tutti  abbiamo  verificato  press'a  poco  l'identico  comportamento. 
Dietro  la  superficie  articolare  per  la  mandibola,  allungata  sagittalmente,  caudalmente 
alla  linea  temporale,  che  si  fa  tanto  più  smussa  quanto  più  si  considera  in  addietro, 
nel  limite  fra  il  margine  inferiore  della  squama  temporale  ed  il  contorno  anteriore 
dell'osso  timpanico,  esiste  un'ampia  soluzione  di  continuo  sotto  forma  di  fessura  semi- 
lunare, a  grande  asse  obliquo  in  alto  e  dorsalmente,  la  quale  mette  direttamente 
nella  cavità  craniana.  Questa  fessura  è  limitata  specialmente  nel  suo  margine  supe- 
riore da  una  concavità  molto  marcata  del  margine  inferiore  dello  squamoso,  poste- 
riormente ed  inferiormente  dalla  convessità  dell'osso  timpanico.  Le  dimensioni  di 
detta  fessura,  attraverso  la  quale  defluisce  la  gran  parte  del  sangue  endocraniano, 
variano  naturalmente  a  seconda  della  specie:  nel  M.  decumanus  il  diametro  mag- 
giore oscilla  da  4  a  6  mm.,  quello  minore  verticale  da  2-3  mm.:  negli  altri  Mus  queste 
dimensioni  sono  notevolmente  diminuite.  AU'endocranio    tale   ampia  fessura  si  apre 


236  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  /8 

nella  fossa  media,  subito  a  ridosso  della  piramide  e  si  continua  dorsalmente  e  late- 
ralmente con  il  solco  transverso. 

Oltre  alla  predetta  apertura,  i  cui  caratteri  corrispondono  abbastanza  esatta- 
mente a  quelli  descritti  da  Kopetsch,  noi  ne  abbiamo  ritrovata  costantemente  un'altra 
piccolissima,  talvolta  veramente  microscopica,  raramente  sondabile  con  un  finissimo 
crine,  posta  in  alto  ed  in  avanti  alla  fessura  semilunare  ora  descritta,  immediata- 
mente al  di  sotto  del  punto  in  cui  la  linea  temporale  si  continua  col  margine  poste- 
riore del  processo  zigomatico:  tale  minutissimo  forellino  è  per  lo  più  in  forma  di 
fessura  e  dista,  per  lo  meno  nel  M.  decumanus,  1-2  mm.  dalla  porzione  del  margine 
inferiore  della  squama  delimitante  la  fessura  squamosotimpanica  :  il  canalino,  che  ne 
origina,  attraversa  la  squama  a  tutto  spessore,  obliquo  in  alto  e  ventralmente  per 
aprirsi  nel  cranio  alquanto  al  disopra  della  precedente  apertura:  per  distinguere  le 
due  aperture  sottozigomatiche  ora  descritte  si  potrebbe  chiamare  la  prima  fessimi 
sottozigomatica,  la  seconda  forame  sottozigomatico  laterale,  avvertendo  che  quest'ultimo 
sfuggi  completamente  a  Kopetsch  come  agli  altri  AA. 

Altre  aperture,  però  non  costanti  ed  evidenti,  occorrono  ancora  nel  gen.  Mus: 
frequentemente,  in  ispecie  nel  M.  decumanus,  come  pure  nel  Cricetus  frumentarius,  nel 
quale  la  mancanza  è  veramente  l'eccezione,  subito  al  disopra  dell'estremità  posteriore 
della  linea  temporale,  od  anche  sulla  sporgenza  stessa  di  quest'ultima,  immediatamente 
in  avanti  del  prolungamento  temporale  della  cresta  occipitale,  cui  corrisponde  la  sutura 
squamosomastoidea,  si  verifica  l'esistenza  di  un  forametto  sempre  esilissimo,  microsco- 
pico, notevole  solo  per  la  frequenza  con  la  quale  compare  e  per  la  costanza  della 
sua  ubicazione,  sì  che  ragionevolmente,  anche  senza  che  non  vi  si  possa  mai  far 
penetrare  una  fine  setola,  si  deve  ritenere  come  un  emissario  e  più  precisamente 
come  emissario  postsquamoso  nel  senso  di  Cope  :  questo  forametto  venne  pure  osser- 
vato da  Kopetsch  in  un  Cricetus  ed  in  un  Meriones. 

Infine,  ancora  nelle  varie  specie  di  Mus,  abbiamo  riscontrato  non  raramente, 
specie  nel  M.  decumanus,  l'esistenza  di  un  forame  sempre  esilissimo  (una  volta  ci  fu 
possibile  farvi  penetrare  una  fine  setola)  nella  sutura  parietosquamosa,  nel  punto 
ove  questa  si  fa  orizzontale  e  cioè  lungo  una  linea  verticale,  che  decussa  il  margine 
posteriore  del  processo  zigomatico,  a  distanza  di  mm.  1-1,5  dalla  sporgenza  della 
linea  temporale  :  in  un  cranio  di  M.  decumanus  tale  forame  era  dai  due  lati  scavato 
completamente  nello  spessore  della  squama,  subito  cranialmente  alla  linea  temporale, 
in  guisa  da  costituire  un  forame  soprazigomatico  posteriore:  questo  assumeva  per 
rispetto  all'esile  forame  sottozigomatico  laterale,  naturalmente  astrazion  fatta  dal 
calibro,  la  medesima  posizione  che  il  soprazigomatico  costante  nella  Marmotta  assume 
per  rispetto  al  sottozigomatico  incostante. 

Riassumendo,  nel  gen.  Mus  la  via  di  deflusso  principale  del  sangue  venoso  en- 
docraniano  decorre  attraverso  un'ampia  fessura  sottozigomatica  o  squamosotimpanica  : 
costantemente  però  vi  ha  inoltre  un  forame  emissario  sottozigomatico  laterale,  frequen- 
temente un  forame  emissario  postsquamoso,  ed  un  forame  parietosquamoso,  eccezional- 
mente un  forame  soprazigomatico  posteriore. 

Subord.  Hystrichomorfa  ;  Fani.  Hystricidae.  —  In  2  crani  di  Hystrix 
cristata  la  sutura  timpanicosquamosa  è  ampiamente    aperta   all'esterno.    Alla    parte 


79  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  237 

posteriore  e  superiore  di  questa  sutura,  e  quindi  cranialmente  all'apertura  del  con- 
dotto uditivo  esterno,  esistono  due  ampi  forami  irregolarmente  ovalari,  separati  da 
un  esile  ponticello  osseo,  i  quali  si  aprono  superiormente  e  isolatamente  in  fondo  di 
una  spiccatissima,  solcatura  petrosquamosa.  La  loro  apertura  esterna  è  sormontata 
da  una  specie  di  labbro  osseo  dipendenza  della  squama,  che  si  prolunga  avanti  ed 
in  basso,  servendo  cosi  a  delimitare  una  docciatura  obliqua  caudalmente,  in  avanti 
e  lateralmente,  il  cui  fondo  è  occupato  dalla  sutura  petrosquamosa:  all'estremità 
anteriore  di  tale  docciatura  la  sutura  petrosquamosa  cambia  direzione  per  farsi 
trasversale. 

In  un  altro  Hystrix  sja.?  e  dai  due  lati,  invece  di  due  aperture,  vi  ha  un'unica 
ampia  fessura  squamosotimpanica,  come  descrive  appunto  neìY  Hystrix  il  Eopetsch  : 
del  resto  il  comportamento  è  identico  ai  casi  precedenti. 

Fam.  Octodontiflae.  —  In  2  Myopoiamus  coypus  il  reperto  da  noi  avuto  è 
perfettamente  analogo  a  quanto  abbiamo  visto  néìl'Hystrix,  osservando  però  che  la 
apertura  squamosotimpanica  è  unica. 

Fam.  Lagostomi dae.  —  Anche  in  2  Lagostomus  tricodaetylus  la  porzione 
squamosa  ripara  completamente,  come  ne\Y Hystrix,  con  un  processo  fortemente  spor- 
gente e  disposto  a  semicanale,  la  porzione  petrotimpanica.  Superiormente  ed  ante- 
riormente al  condotto  uditivo  esterno  la  sutura  petrosquamosa  si  apre  a  costituire 
una  specie  di  fessura  dilatata  posteriormente,  e  cioè  un  forame  ovalare,  che  conduce 
nella  cavità  cranica. 

Fam.  Dasyproctidae.  —  Noi  abbiamo  esaminato  un  cranio  di  Dasyproda 
Azarae  e  2  di  Coelogenìs  Paca  (Paraguay):  nell'uno  e  nell'altro  le  disposizioni  sono 
poco  differenti.  Il  comportamento  della  regione  che  ci  occupa  nel  D.  Azarae  è  anche 
perfettamente  analogo  a  quello  della  Cavia  :  la  squama  temporale  è  completamente 
distinta  dall'osso  petroso  e  la  sutura  fra  le  due  ossa  è  fortemente  curva  colla 
concavità  posta  al  di  sopra  del  condotto  uditivo  esterno  :  più  che  di  una  vera  sutura 
si  tratta  qui  di  una  fessura  anteroposteriore,  qua  e  là  più  o  meno  allargata,  sì  da 
dar  passaggio  ad  una  setola.  Oltre  a  questo,  al  punto  di  riunione  della  regione  ba- 
silare colla  porzione  laterale  della  sutura  petrosquamosa,  immediatamente  all'indietro 
della  fossa  mandibolare,  in  una  posizione  cioè  corrispondente  al  forame  sottozigo- 
matico laterale  di  altri  Roditori,  vi  ha  un  esile  forellino  circolare  separato  dalla  por- 
zione ventrale  della  sutura  predetta  da  un  leggero  ponticello  osseo,  forellino  che  dà 
passaggio  solo  a  una  finissima  setola. 

Nel  Coelogenìs  Paca  la  rima  delimitata  dalla  squama  e  dalla  porzione  petrosa  è 
assai  più  larga,  aprendosi  ampiamente  all'interno  del  cranio,  specialmente  allargata 
alla  sua  porzione  anteriore:  in  uno  dei  2  crani  tale  porzione  anteriore  è  trasfor- 
mata in  un  forame  circolare,  ampio  3  mm.,  perfettamente  distinto  dal  resto  della 
porzione  dorsale  della  fessura  per  l'apposizione  al  margine  inferiore  concavo  della 
squama  di  un  robusto  dentello  osseo,  dipendenza  dell'osso  petroso.  Nel  Dasyprocta, 
come  nel  Coelogenìs,  il  labbro  superiore  della  fessura  sporge  all'esterno  assai  più  che 
non  il  labbro  inferrore  costituito  dall'osso  petroso. 


2     -  ALFONSO    BOVEEO    —    UMBERTO    CALAMIDA  80 

Fani.  Caviidae.  —  In  6  crani  di  Cavia  cobaya  occorrono  ancora  le  medesime 
disposizioni  riscontrate  nel  Coelogenis.  La  fessura  petrosquamosa  semilunare  è  tut- 
tavia assai  più  ristretta,  allargata  solamente  a  costituire  una  specie  di  forame  cir- 
colare, ampio  all'  incirca  1  mm.  alle  sue  estremità  rispettivamente  anteriore  e  po- 
steriore: di  questi  due  forami,  che  danno  comodamente  passaggio  ad  una  grossa 
setola,  l'anteriore  è  posto  immediatamente  in  addietro  della  fossa  mandibolare,  nel 
punto  in  cui  la  porzione  laterale  della  sutura  petrosquamosa  si  continua  con  la 
porzione  basilare  trasversale  e  questo  rappresenterebbe  un  forame  sottozigomatico  la- 
terale; il  posteriore  invece  occupa  per  rispetto  al  condotto  uditivo  una  posizione  supe- 
riore ed  alquanto  dorsale,  in  guisa  che  corrisponderebbe  ad  un  sottosquamoso  (Cope). 


Subord.  Lagomorpha.  Fam.  Leporidae.  —  I  reperti  da  noi  avuti  in  questa 
famiglia  non  concordano  punto  con  quelli  di  Kopetsch. 

In  15  crani  di  Lepus  timidus  ed  in  16  di  L.  cuniculus  di  differente  età  e  di  prove- 
nienza diversa,  noi  abbiamo  costantemente  visto  che  la  fessura  squamosopetrosa,  già 
descritta  in  altri  Roditori,  è  anche  qui  fortemente  curva  colla  concavità  rivolta  in  basso 
ed  alquanto  dorsalmente,  quasi  ad  abbracciare  il  contorno  superiore  del  condotto  udi- 
tivo osseo.  Più  che  una  vera  sutura  si  tratta  della  apposizione  del  margine  inferiore 
concavo  della  porzione  posteriore  della  squama  ridotta,  come  del  resto  in  molte  fa- 
miglie di  Roditori,  ad  una  tenue  lamella  ossea,  all'osso  petroso,  in  guisa  che  questo 
si  trova  coperto  dal  margine  predetto  della  squama  :  in  altre  parole  il  margine  della 
squama  delimitante  la  fessura  sporge  a  guisa  di  un  orletto  al  di  sopra  e  lateralmente 
all'  osso  petroso.  Per  la  massima  parte  di  questa  fessura  le  due  ossa  vengono  a 
mutuo  contatto  in  guisa  da  non  lasciar  passare  neanche  la  più  fina  delle  setole;  solo 
nella  sua  porzione  anteriorsuperiore  vi  ha  costantemente  una  vera  soluzione  di 
continuo,  e  cioè  un'  apertura  ovalare  più  o  meno  ampia  (mm.  0,5-1  in  senso  antero- 
posteriore,  1-2  mm.  in  senso  verticale),  che  mette  immediatamente  nel  solco  petro- 
squamoso.  Contrariamente  cioè  a  quanto  asserisce  Kopetsch  (34),  attraverso  alla  fes- 
sura petrosquamosa  e  nella  sua  porzione  anteriorsuperiore  vi  ha  un'  apertura,  che 
serve  appunto  per  il  decorso  di  un  ramo  venoso  di  deflusso  della  cavità  craniana. 

Indipendentemente  da  questa  via  e  dalla  rispettiva  apertura  ossea,  ancora  costan- 
temente nel  Coniglio  e  nella  Lepre  noi  abbiamo  verificato,  subito  indietro  della 
superficie  articolare  allungata  trasversalmente  sotto  la  base  del  processo  zigomatico, 
nell'interstizio  fra  il  limite  posteriore  di  detta  superficie  articolare  e  il  margine  poste- 
riore della  base  dell'apofisi  stessa,  nel  fondo  di  un  solco  arcuato  disposto  trasversal- 
mente, fortemente  concavo  in  basso,  l'esistenza  di  un  minutissimo  forellino  circolare 
od  ovalare,  attraverso  il  quale,  solo  molto  raramente,  si  può  far  passare  una  minu- 
tissima setola  e  che  per  la  posizione  si  può  considerare  come  analogo  ai  forami 
sottozigomatici  laterali  ripetutamente  descritti.  Esso,  ripetiamo,  costituisce  un  carat- 
tere affatto  costante,  per  lo  meno  in  tutti  gli  esemplari  da  noi  esaminati,  qualche 
volta  è  cosi  fine  da  essere  necessario  l'aiuto  della  lente  per  dimostrarlo:  altre 
volte  però  può  assumere  delle  dimensioni  abbastanza  rilevanti,  come  è  dimostrato 
da  un  caso  (L.  timidus,  ad.)  in  cui  a  destra  misurava  1  mm.  di  diametro,  a  sinistra 
circa  0,5  mm.,  ed   era  perfettamente  sondabile.  In  ogni  caso  esso-  si  continua  con  un 


81  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETBOSQUAMOSI  239 

canale,  .che  attraversa  la  squama  del  temporale  e  si  apre  nella  fossa  cranica  media 
superiormente  alla  porzione  ventrale  del  sulcus  transversus. 

Ancora,  nella  Lepre  come  nel  Coniglio,  noi  abbiamo  riscontrato  talvolta  un  altro 
forametto  pure  estremamente  esile  immediatamente  al  di  sopra  del  margine  poste- 
riore della  base  dell'apofisi  zigomatica;  attraverso  ad  esso  però  non  siamo  riusciti 
mai  a  penetrare  nella  cavità  cranica:  noi  lo  ricordiamo  solamente  come  foro  sopra- 
zigomatico  posteriore  per  la  costanza  della  sua  ubicazione;  certamente  i  due  forami 
sopra-  e  sottozigomatico  devono  avere  un  valore  molto  secondario  come  emissari,  per 
rispetto  all'apertura  situata  più  dorsalmente  nella  sutura  squamosopetrosa  :  questa 
a  sua  volta,  paragonata  alle  ampie  fessure  riscontrate  in  altri  generi,  ha  pure  dimi- 
nuita la  sua  importanza. 

Riassumendo,  nelle  varie  famiglie  di  Roditori  noi  troviamo  delle  disposizioni  assai 
differenti  sulle  quali  d'altra  parte  ci  siamo  già  fermati  assai  diffusamente.  Anzitutto 
è  da  ricordare  come  in  tutti  i  Roditori,  ciò  che  del  resto  è  dimostrato  dalla  storia 
dello  sviluppo  ed  in  parte  è  noto  già  per  precedenti  ricerche,  gran  parte  del  sangue 
della  cavità  craniana  fuoriesce  dal  cranio  attraverso  l'osso  temporale  e  cioè  mediante 
canali  perforanti  preferibilmente  ed  esclusivamente  la  squama,  oppure  decorrenti  lungo 
le  linee  di  riunione  della  squama  con  l'osso  petroso:  le  vie  di  deflusso  si  possono 
distinguere  in  principali  ed  in  secondarie,  costituenti  quest'ultime,  fisiologicamente, 
dei  veri  emissari,  il  che  del  resto  si  verifica,  come  abbiamo  visto,  anche  per  altri 
ordini  di  Mammiferi.  Mentre  nelle  specie  in  cui  la  squama  temporale  si  è  ridotta  di 
molto  nei  suoi  diametri  verticali,  le  vie  principali  decorrono  all'esterno  attraverso  la 
sutura  petrosquamosa,  disposta  a  fessura  di  varia  foggia,  in  altri  Roditori  (Sciurus, 
Arctomys  etc.)  le  medesime  vie  principali  decorrono  invece  essenzialmente  attraverso 
la  squama  stessa  (foro  soprazigomatico,  f.  sottozigomatico),  e  ciò  avviene  nelle  famiglie 
in  cui  la  squama  temporale,  pur  mantenendosi  per  tutta  la  vita  completamente  distinta 
dalla  porzione  petrosa,  ha  conservato  delle  dimensioni  verticali  relativamente  grandi. 
In  questo  gruppo  di  Roditori  occorre  anche  un  maggior  numero  di  forami  secondari, 
veri  emissari,  fra  i  quali  più  frequenti  sono  il  sottozigomatico  laterale  (costante  o  quasi) 
ed  il  postsquamoso.  Il  sottozigomatico  laterale  si  riscontra  pure  come  carattere  quasi 
fisso  anche  in  taluni  Roditori  (Lepre,  Coniglio)  in  cui  le  vie  di  deflusso  attraversanti 
la  fessura  petrosquamosa  sono  relativamente  ad  altri  (Coelogenys,  Mus)  diminuite  di 
valore  fisiologico. 

Ord.  UNGULATA. 

I  rapporti  del  sistema  venoso  con  l'osso  temporale  variano  assai  nelle  differenti 
famiglie  di  quest'ordine,  perchè,  mentre  da  una  parte  in  parecchie  famiglie  il  deflusso 
del  sangue  endocraniano  si  fa  prevalentemente  per  opera  della  vena  giugulare  esterna 
attraverso  il  canale  temporale,  in  altri  invece  il  sangue  refluo  è  esportato  preva- 
lentemente dalla  v.  giugulare  interna,  oppure  dalla  v.  vertebrale,  oppure  ancora  per 
opera  della  giugulare  esterna  mediante  gli  emissari  occipitali,  sfenoidali,  orbitari  ed 
anche  per  mezzo  delle  vene  satelliti  dei  tronchi  nervosi  cerebrali.  Il  comportamento 
dei  canali  ossei,  che  danno  ricetto  al  vaso  od  ai  vasi  riunienti  il  seno  trasverso 
alla  vena  giugulare  esterna,  siano  questi  canali  destinati  a  vie  principali  come  a  vii 
accessorie  decorrenti  attraverso  le  varie  parti  costituenti  l'osso  temporale,  è  abbastanza 


240  ALFONSO  BOVERO  UMBERTO  CALAMIDA  82 

ben  conosciuto,  in  ispecie  per  ciò  che  riguarda  i  Mammiferi  domestici,  in  quanto  questi 
fanno  essenzialmente  oggetto  di  studio  dell'Anatomia  veterinaria,  come  abbiamo  del 
resto  visto  minutamente  dalle  descrizioni  dei  vari  AA.  Per  alcune  famiglie  tuttavia 
il  materiale  studiato  è  ancora  relativamente  scarso,  in  guisa  che  non  paiono  inutili 
ulteriori  ricerche;  per  altri  infine,  relativamente  a  talune  particolarità  secondarie,  noi 
non  troviamo  cenni  abbastanza  chiari  e  concordanti,  oppure  anche  questi  mancano 
completamente.  Tralasciando  ora  i  dati  generali  già  riferiti  nella  rivista  della  letteratura 
(Otto,  Gurlt,  Schwab,  Hallmann,  Rathke,  Luschka,  Flower,  Denker,  Lowenstein, 
Legge,  Chauveau  e  Arloing,  Ellenberger  e  Baum,  Sussdorf,  ecc.)  noi  vediamo  come 
Cope  (9)  neghi  l'esistenza  di  qualsiasi  forame,  che  rappresenti  l'apertura  di  canali  venosi 
attraversanti  il  temporale,  negli  Iracoidi,  nei  Proboscidei  e  in  taluni  Artiodattili  omnivori 
(Sus,  Dycotiles,  Phacochaerus):  nei  Perissodattili  il  numero  dei  forami  va  aumentando 
dal  Bhinocerus  (postparietale)  e  dal  Tapirus  (postparietale  e  mastoideo)  alla  famiglia 
degli  Equidi  (postparietale,  postsquamoso,  postglenoide  e  supraglenoide):  fra  gli  Artio- 
dattili omnivori,  YHyppopotamus  ed  il  Chaeropsis,  a  differenza  dei  Suini,  avrebbero 
parecchi  dei  forami  sopra  accennati  :  i  Ruminanti,  sia  attuali  che  fossili,  sono  carat- 
terizzati dalla  presenza  di  un  numero  di  forami  superiore  a  quello  di  qualunque  altro 
ordine  di  Mammiferi. 

Kopetsch  (34)  conferma  la  mancanza  di  ogni  traccia  di  forame  venoso  emissario 
temporale  negli  Iracoidi  (7  crani),  nei  Proboscidei  (3  cr.),  negli  Artiodattili  non  rumi- 
nanti (Obesa,  4  cr. ;  Suina,  17  cr.):  negli  Artiodattili  ruminanti  (Cavicornia,  80  cr.; 
Cervina,  41  cr.;  Deoexa,  1  cr. ;  Moschidae,  1  cr. ;  Camelidae.,  1  cr.)  è  costantemente 
presente  un  foramen  iugulare  spurium  per  lo  più  molto  ampio,  il  quale  conduce, 
o  direttamente  o  coll'interposizione  di  un  breve  canale  (meatus  temporalis),  nella  ca- 
vità craniana:  in  modo  analogo  si  comportano  tutti  i  Perissodattili  (Eauidae,  13  cr.; 
Nasicomia,  2  cr.;  Tapirina,  2  cr.). 

Per  le  considerazioni  prima  esposte  e  per  la  conoscenza  relativamente  ampia 
dell'argomento  che  ci  occupa  nei  Mammiferi  domestici  vediamo  ora,  più  succinta- 
mente che  per  gli  altri  ordini,  i  reperti  avuti  dalle  nostre  ricerche. 

Subord.  Hyracoidea.  —  Fani.  Procaviidae.  —  In  un  Byrax  capensis  il  forame 
giugulare  è  discretamente  ampio  dai  due  lati,  il  cono  articolare  enormemente  svi- 
luppato: manca  tuttavia  qualsiasi  traccia  di  forame  temporale,  che  si  possa  inter- 
pretare come  una  via  venosa. 

Subord.  Proboscidea.  —  Fara.  Elephiintiilae.  —  In  un  Elephas  indicus  giova- 
nissimo (Museo  Se.  Veter.  di  Torino)  il  cono  articolare  si  presenta  ancora  sotto  forma 
affatto  rudimentale,  a  mo'  di  una  piccola  cresta  limitante  dorsalmente  la  superficie 
articolare:  da  ciascun  lato  sul  margine  esterno  di  detta  cresta,  inferiormente  alla 
radice  sagittale  del  processo  zigomatico,  ventralmente  al  contorno  anteriore  dell'osso 
timpanico,  vi  ha  un  esilissimo  forellino  circolare,  ampio  uu  po'  meno  di  1  mm., 
non  permeabile  che  per  un  tratto  brevissimo  ad  una  setola;  questo  forellino  cor- 
risponde con  ogni  probabilità  ad  un  forame  emissario  sottozigomatico  laterale.  Inoltre 
dai  due  lati,  superiormente  alla  base  del  processo  zigomatico,  verso  la  parte  poste- 
riore della  porzione  del  planum  temporale  immediatamente  sovrastante  a  detto  pro- 
cesso, esiste  un  forellino    circolare,  ampio  mm.  1,5  a  sinistra.   1  mm.   a  destra,  dal 


83  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAHOSI  241 

quale  ha  origine  un  canale  diretto  medialmente  ;  attraverso  tale  apertura,  che  per  la 
ubicazione  rappresenterebbe  un  emissario  soprazigomatico  posteriore,  non  siamo  riusciti 
tuttavia  a  penetrare  nella  cavità  craniana. 

In  altri  due  crani  di  E.  indicus  ad.  (M.  d'An.  Comp.)  con  cono  articolare  enor- 
memente  sviluppato,  i   nostri  reperti  furono  completamente  negativi. 

Subord.  Perissodactyla.  —  Fam.  Rhinocerotidae  e  fam.   Tapiridae.  — 

Nel  cranio  di  un  Rhinocerus  javanicus,  analogamente  a  quanto  ha  riscontrato  Kopetsch 
in  un  R.  indicus,  noi  abbiamo  osservato,  superiormente  e  alquanto  medialmente  alla 
superficie  articolare  per  la  mandibola,  un'  apertura  ampia  5  mm.,  cui  segue  un  canale, 
che  sbocca  superiormente  nella  cavità  del  cranio.  Manca  ogni  traccia  di  forami  sopra- 
zigomatici. 

In  un  Tapirus  americanus  il  cono  articolare  è  robustamente  sviluppato  ;  indietro 
e  medialmente  a  questo  vi  ha  un'  apertura  ovalare,  ampia  2  mm.,  foro  sottozigomatico 
mediale.  Al  di  sopra  della  radice  sagittale  del  processo  zigomatico  esiste  pure  bila- 
teralmente un  forellino  circolare,  foro  soprazigomatico  posteriore,  attraverso  a  cui  si 
giunge  nella  cavità  cranica. 

Fam.  Equidae.  —  ì$ell'Equus  caballus  (10  ci\),  come  nell'i?,  asinus  (3  cr.),  e 
nell'i?,  quagga  (1  cr.),  esistono  disposizioni  fondamentalmente  identiche,  in  guisa  che 
le  descrizioni  dell'uno  possono  riferirsi  anche  agli  altri. 

Il  cono  articolare  si  presenta  sotto  forma  di  un  robusto  mammellone  osseo, 
schiacciato  in  senso  dorsoventrale,  più  alto  medialmente  che  non  lateralmente:  sulla 
faccia  posteriore  del  cono  si  riscontra  un'ampia  e  profonda  docciatura,  decorrente 
sagittalmente  in  addietro,  limitata  lateralmente  e  medialmente  da  due  creste  dipen- 
denti dello  squamoso:  dalla  apposizione  dell'osso  petrosotimpanico  allo  squamoso, 
tale  docciatura,  conformata  a  semicanale  rivolto  in  basso  e  dorsalmente,  viene  chiusa 
e  trasformata  in  addietro  in  un  canale  completo,  la  cui  apertura  è  parzialmente 
mascherata  dalla  sporgenza  dell'osso  timpanico.  Essa  ad  ogni  modo  occupa  una  po- 
sizione immediatamente  posteriore  al  cono  articolare,  merita  perciò  di  essere  con- 
siderata come  un  foro  sottozigomatico  posteriore:  il  canale,  che  si  origina  da  detta 
apertura,  è  dapprima  compreso,  come  abbiamo  detto,  fra  l'osso  petroso  e  lo  squamoso, 
si  volge  obliquamente  curvo  in  alto  ed  all'indietro,  per  farsi  in  seguito  orizzontale; 
in  questa  sua  porzione  orizzontale  è  limitato  lateralmente  dalla  squama  tempo- 
rale, inferiormente  dalla  faccia  superiore  della  base  della  rocca,  medialmente  dal 
tavolato  interno  dell'osso  parietale  suturato  o  sinostosato  coll'osso  petroso.  In  ad- 
dietro, giunto  cioè  a  livello  della  estremità  laterale  dello  spigolo  superiore  della 
rocca,  il  canale  viene  a  continuarsi  ancora  orizzontalmente  sulla  faccia  interna  del- 
l'osso occipitale.  Esso  corrisponde  cioè  esattamente  al  decorso  del  seno  trasverso 
della  dura  madre  e,  date  le  ossa  che  lo  delimitano,  viene  giustamente  denominato 
dalla  maggioranza  dei  Zootomi  canale  temporoparietale.  Tale  canale  al  suo  sbocco 
inferiore,  come  nelle  due  porzioni  petrosquamosa  e  parietoteinporale,  ha  una  sezione 
per  lo  più  circolare  ed  un'  ampiezza  varia  da  6-7  mm.  ad  1  centim.,  corrispondente- 
mente all'ampiezza  del  seno  venoso  cui  dà  ricetto,  il  quale,  come  è  noto,  è  destinato 
ad  esportare  dal  cranio  la  massima  parte  del  sangue  refluo. 

Il   canale   temporoparietale   riceve  nel  suo  decorso  lo  sbocco  di  parecchi    altri 

Serie  II.  Tom.  LUI.  f1 


242  ALFONSO    BOVEKO    —    UMBERTO    CALAJIIDA  84 

canali  secondari.  Anzitutto  dobbiamo  notare  come  posteriormente,  al  di  sopra  della 
estremità  dorsale  della  linea  temporale  costantemente  molto  rilevata  nel  Cavallo  e 
nell'Asino,  assai  meno  sporgente  nel  Quagga,  nella  sutura  fra  il  margine  posteriore 
della  squama  temporale  ed  il  margine  anteriore  della  squama  occipitale,  esista  costan- 
temente un'  ampia  soluzione  di  continuo,  irregolarmente  circolare  od  ovalare,  oppure 
in  forma  di  fessura  corrispondente  alla  così  detta  fessura  mastoidea  dei  Zootomi:  da 
questa  ha  origine  un  breve  canale,  che  raggiunge  la  estremità-  posteriore  del  canali 
temporoparietale  nel  punto  in  cui  questo  sta  per  continuarsi  colla  porzione  occipitale. 
Poiché  il  calibro  del  canale  parietotemporale,  come  noi  abbiamo  potuto  persua- 
derci con  sezioni  opportune,  è  assai  maggiore  della  porzione  occipitale  dello  stesso 
canale,  è  presumibile  che  attraverso  il  forame  occipitosquamoso  {fessura  mastoidea) 
entri  nello  spessore  delle  pareti  craniane  una  parte  del  sangue  refluo  dalla  porzione 
posteriore  dei  tegumenti  del  cranio,  per  fuoriescire  ancora  assieme  al  sangue  refluo 
del  cervello  dal  forame  sottozigomatico  posteriore. 

Al  canale  temporoparietale,  nella  sua  porzione  orizzontale  (canale  parietosqua- 
mosopetroso)  confluiscono  inoltre,  aprendosi  nella  sua  parete  superiore,  un  numero 
vario  di  piccoli  canali,  i  quali  si  aprono  all'esterno  nella  parte  alta  della  squama 
temporale  {forami  soprasquamosi),  oppure  talvolta  anche  nella  sutura  parietosquamosa, 
od  ancora  nella  porzione  inferiore  della  faccia  esterna  del  parietale  (forami  postpa- 
rietali  di  Cope)  :  ordinariamente  i  fori  soprasquamosi  nel  Cavallo  e  nell'Asino  sono  in 
numero  di  3-4,  a  breve  distanza  uno  dall'altro,  a  1-2  cm.  al  davanti  della  fessura  occi- 
pite-squamósa ed  hanno  un'ampiezza  di  1-3  mm.  I  canali,  che  da  detti  forami  hanno 
origine,  raggiungono  il  canale  temporoparietale  con  un  decorso  per  lo  più  verticale: 
nell'i?,  quagga  da  noi  esaminato  i  fori  soprasquamosi  sono  in  numero  di  9  a  destra, 
6  a  sinistra,  disposti  in  serie  lineare  in  tutta  prossimità  della  sutura  parietosquamosa. 

Non  costantemente  nella  parete  inferiore  della  porzione  orizzontale  del  canale 
temporoparietale  del  Cavallo  e  dell'Asino,  si  apre  ancora  un  canale  diretto  obliqua- 
mente in  basso,  in  addietro  e  lateralmente,  il  quale  sbocca  all'esterno  immediatamente 
al  di  sotto  della  linea  temporale,  alla  estremità  superiore  della  sutura  squamoso- 
mastqidea,  con  un'apertura  irregolare  a  margini  frastagliati,  ampia  2-3  mm.  (foro 
sottosquamoso). 

Ancora,  nella  parete  anteriore  del  canale  temporoparietale,  nel  punto  in  cui  la 
porzione  obliqua  si  continua  con  la  porzione  orizzontale,  si  apre  un  canale  di  am- 
piezza varia,  obliquamente  diretto  in  avanti  e  lateralmente  per  sboccare  all'esterno 
nell'angolo  diedro  formato  dalla  base  del  processo  zigomatico  col  planimi  temporale,  con 
un  forame  di  ampiezza  variabilissima  da  1  a  4  mm.,  foro  soprazigomatico  posteriori. 
Mentre  questo  forame  è  affatto  costante  nei  vari  esemplari  da  noi  esaminati,  non 
così  costante  invece  ci  è  parsa  la  connessione  del  canale  che  gli  fa  seguito  col  con- 
dotto temporoparietale,  in  quanto  alcune  volte  per  il  piccolissimo  calibro  pare  ridotto 
ad  un  semplice  canale  diploico.  Detto  canale  può  d'altra  parte  comunicare  col  con- 
dotto temporoparietale  con  parecchie  aperture,  una  o  due  delle  quali  sono  anche 
visibili  dall'esterno,  in  fondo  del  semicanale  costituito  dallo  squamoso  dietro  il  cono 
articolare. 

Per  le  connessioni  dei  forami  soprazigomatico,  soprasquamoso  e  sottosquamoso  ora 
descritti  col  canale  temporoparietale  propriamente  detto,  è  chiaro  che,  mentre  quest'ul- 


CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  24:ì 

timo  rappresenta  la  via  principalissiina  di  deflusso,  agli  altri  sopranominati  è  preci- 
samente riferibile  il  valore  di  semplici  emissari. 

oltre  a  questi  ultimi  però  possono  inoltre  occorrere  altri  canali  emissari  indipen- 
denti dal  canale  temporoparietale.  Noi  abbiamo  trovato  difatti  in  2  casi,  in  uno  da 
entrambi  i  lati,  in  un  altro  solo  al  lato  sinistro,  in  fondo  di  un'ampia  fossetta  situata 
sulla  faccia  inferiore  della  squama  temporale,  subito  medialmente  al  conus  articularis, 
un  forametto  circolare,  ampio  1-2  mm.,  il  quale  si  apre  immediatamente,  dato  il  mi- 
nimo spessore  della  squama  in  questo  punto,  nella  fossa  craniana  media,  ove  è  con- 
tinuato in  avanti  da  una  evidente  fine  docciatura:  a  questo  forametto  possiamo  ben 
dare  il  significato  di  un  emissario  squamoso  sottozigomatico  mediale;  la  sua  presenza, 
per  quanto  finora  non  ricordata  da  altri  AA.,  si  deve  tuttavia  ritenere  più  come  una 
condizione  eccezionale  che  non  come  un  carattere  normale. 

Negli  Equidi  quindi,  oltre  al  canale  temporale  o  temporoparietale  dei  Zootomi, 
aprentesi  con  una  apertura  sottozigomatica  posteriore,  occorrono  dei  canali  emissari 
secondari,  che  si  aprono  all'esterno  con  forami  delle  varie  categorie:  così  ancora 
possono  esistere  nello  spessore  della  squama  dei  canali,  che  si  debbono  ritenere  pure 
come  emissari,  però  perfettamente  indipendenti  dal  canale  principale  temporoparietale. 

Subord.  Artiodactyla.  —  Fani.  Suidae.  —  Analogamente  a  quanto  hanno 
riscontrato  tutti  gli  altri  AA.,  in  1-4  crani  di  Sus  scropha,  var.  domestica,  delle  razze 
e  provenienze  più  diverse,  noi  non  abbiamo  mai  potuto  riscontrare  traccia  alcuna  di 
forami  emissari  nelle  diverse  porzioni  della  squama  temporale,  per  cui  si  deve  ra- 
gionevolmente ammettere  che  il  sangue  venoso  endocraniano  defluisca  per  altre  vie 
e  più  precisamente  attraverso  il  forameli  jugulare,  discretamente  ampio,  riunito  col 
forameli  lacerum  anterius  mediante  una  ristretta  fessura. 

I  reperti  sono  alquanto  diversi  nel  Cinghiale  (Sus  scropha,  var.  fera)  di  cui  noi 
abbiamo  potuto  esaminare  27  crani,  eziandio  di  provenienze  le  più  diverse.  In  15  di 
questi,  in  gran  parte  provenienti  da  San  Rossore  (Toscana)  e  dalla  Sardegna,  i  reperti 
sono  pure  affatto  negativi,  come  nel  Sus  scropha,  var.  domestica.  Invece  in  quasi  tutti 
gli  altri  12,  provenienti  dall'America  del  Sud  (Equador,  Pampas)  noi  abbiamo  tro- 
vato delle  traccie  abbastanza  evidenti  di  forami  emissari. 

Uno  di  questi  è  situato  al  di  sopra  della  faccia  superiore  molto  ampia  della  base 
del  processo  zigomatico,  in  una  posizione  corrispondente  al  forame  soprazigomatico 
posteriore.  Ordinariamente  tale  forame  è  situato  nell'angolo  diedro  aperto  all'esterno, 
delimitato  da  detta  faccia  e  dal  piami m  temporale:  è  circolare,  ampio  meno  di  1  mm., 
difficilmente  sondabile.  In  un  cranio  di  individuo  molto  giovane  (America)  esso  è 
spostato  in  alto  ed  in  addietro,  in  guisa  che  a  destra  si  trova  subito  al  di  sotto  della 
sutura  squamosa,  a  sinistra  nella  sutura  squamosa  stessa  [forame  soprasquamoso).  Del 
resto  la  ubicazione  è  abbastanza  costante,  come  pure  è  normale  la  sua  esistenza  in 
tutti  i  Cinghiali  esotici  da  noi  esaminati,  poiché  fra  12  crani  esso  mancava  solamente 
2  volte  da  un  lato  (a  sinistra),  esistendo  invece  dal  lato  opposto  (a  destra).  Noi 
non  possiamo  asserire  alcunché  di  perentorio  sul  destino  del  canale,  che  da  detto 
forame  ha  origine,  poiché  non  ci  riuscì  di  far  penetrare  mai,  probabilmente  anche  a 
causa  dello  stato  di  macerazione,  una  setola  entro  di  essi  all'infuori  di  un  breve 
tratto:  è  probabile  però  che  il  foro  soprazigomatico,  tale  almeno  per  la  sua  ubica- 


244  ALFONSO    BOVEEO    UMBERTO    CALAMIDA  86 

zione.  serva  esclusivamente  per  il  tragitto  di  una  vena  proveniente  dalla  mucosa  tap- 
pezzante le  cavità  pneumatiche  scavate  nello  spessore  della  squama,  ed  invadenti 
anche  la  base  del  processo  zigomatico  :  tutt'al  più  si  potrà  pensare  ad  un  vero  foro 
emissario  nell'unico  caso  in  cui  l'apertura  per  la  sua  ubicazione  era  da  classificarsi 
fra  i  soprasquamosi. 

Il  medesimo  significato  si  deve  pure  necessariamente  dare  ad  un  forame  assai 
meno  frequente,  riscontrato  2  volte  bilateralmente  nei  Cinghiali  d'America,  una 
volta  pure  dai  due  lati  in  un  Cinghiale  di  San  Rossore,  situato  medialmente  e  poste- 
riormente all'ampia  superficie  articolare  per  la  mandibola,  verso  la  estremità  mediale 
della  sutura  squamosotimpanica,  in  una  posizione  cioè  affatto  corrispondente  al  foro 
sottozigomatico  mediale.  Tale  forametto  è  molto  esile,  ne  ci  riuscì  che  una  sol  volta  di 
introdurvi  una  minutissima  setola,  la  quale  riesce  appunto  sul  pavimento  di  una  delle 
cellule  della  cavità  pneumatica  surricordata,  cavità  per  altro  perfettamente  indipen- 
dente dal  cavo  craniano:  noi  ci  siamo  persuasi  dei  rapporti  che  il  canalino  sotto- 
zigomatico mediale  contrae  colla  sua  estremità  superiore,  demolendo  dall'endocranio 
la  parete  interna  e  superiore  del  recesso  pneumatico  stesso. 

Noi  non  osiamo  certamente  pensare  che  funzionino  come  emissari  ne  i  forami 
soprazigomatici,  ne  quelli  sottozigomatici  ora  descritti;  tutto  al  più  ci  permettiamo  no- 
tare la  costanza  della  occorrenza  del  soprazigomatico  nei  Cinghiali  d'America  e  la  posi- 
zione perfettamente  identica  occupata  dal  sottozigomatico  mediale  nei  3  casi  ricordati. 
I  canali  corrispondenti  con  la  massima  probabilità  sono  destinati  a  dar  ricetto  a 
venuzze  provenienti  dalla  mucosa  della  cavità  pneumatica  e  le  loro  aperture  esterne, 
come  i  eanali  stessi,  possono  tuttavia  ben  considerarsi  come  un  rudimento  dei  canali 
e  delle  aperture,  che  in  altre  famiglie  dello  stesso  ordine  rappresentano  o  dei  vari 
canali  principali  o  semplicemente  delle  vie  emissarie. 

Ci  piace  poi  far  rilevare  la  differenza  veramente  strana  che  si  ha  fra  il  Sus 
scropha  ed  i  Cinghiali  nostrani  da  una  parte  ed  i  Cinghiali  esotici  dall'  altra.  La 
esistenza  dei  canali  da  noi  descritti,  non  ricordata  da  altri  AA.,  ci  pare  possa  clas- 
sificarsi molto  appropriatamente  fra  i  caratteri  di  razza,  potendo  anche  rappresentare 
uno  degli  esempi  molto  netti  di  variabilità  nella  medesima  specie. 

In  un  Phacochaerus  aetiopieus,  come  in  2  Potamochaerus  sp.  ?  manca  ogni  traccia 
di  forami  sopra-  o  sottozigomatici. 

Fam.  Hii>popotainitlae.  —  In  un  esemplare  di  Hippopotamus  amphibhis  noi 
abbiamo  riscontrato  dai  due  lati,  nella  parte  posteriore  della  fossa  temporale,  ad 
1  cm.  al  di  sotto  della  sutura  squamosoparietale ,  un  forame  aperto  obliquamente 
in  alto,  forame  soprasquamoso,  cui  segue  un  canale  diretto  in  basso,  in  avanti  e  me- 
dialmente, il  quale  riesce  nella  cavità  cranica.  Nello  stesso  individuo  sul  margine 
inferiore  del  parietale  vi  ha  un  foro  consimile  (foro  postparietale  di  Cope).  In  altri  2 
Hippopotamus  manca  il  foro  soprasquamoso,  esiste  invece  dai  due  lati  il  postparietale; 
in  uno  di  essi  questo  interessa  la  porzione  posteriore  della  sutura  parietosquamosa. 

Fam.  Camelidae.  —  In  2  Camelus  dromedarius,  al  davanti  del  condotto  udi- 
tivo, sulla  faccia  dorsale  del  cono  articolare,  ad  1  cm.  inferiormente  alla  sporgenza 
della  linea  temporale,  esiste  un'apertura,  ampia  4  mi.,  rivolta  direttamente  all'esterno 
ed  alquanto  in  basso;  il  canale  che  gli  fa  seguito,  ugualmente  ampio,  si  dirige  oriz- 


87  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  245 

zoii  tal  mente  in  dentro  verso  la  cavità  craniana;  data  la  direzione  di  questo  canale 
e  la  posizione  della  relativa  apertura,  forame  sottozigomatico  posteriore,  fatta  astrazione 
del  calibro  molto  maggiore,  tale  formazione  corrisponde  abbastanza  bene  a  quella 
descritta  con  egual  nome  nell'Uomo,  come  in  molte  altre  specie  dei  diversi  ordini. 

Oltre  a  detto  forame  ve  ne  ba  pure  un  altro  relativamente  ampio,  meno  però 
dei  precedenti  (2,5-3  mm.),  posto  al  disopra  della  base  del  processo  zigomatico,  forame 
soprazigomatico  posteriore,  cui  segue  pure  un  canale  diretto  orizzontalmente  in  dentro 
e  dorsalmente. 

In  5  crani  di  Llama  il  comportamento  degli  emissari  temporali  è  presso  a  poco 
analogo  a  quanto  abbiamo  descritto  per  il  Cammello.  Vi  esistono  cioè  un  foro  sot- 
tozigomatico posteriore  ed  un  foro  soprazigomatico  posteriore  meno  ampio:  i  due 
canali ,  che  fanno  seguito  ad  essi ,  raggiungono  fondendosi  uno  all'  altro  il  sulcus 
transversus  :  alcune  volte  però  (in  un  cranio  bilateralmente)  il  foro  soprazigomatico  è 
doppio  da  ciascun  lato  e  dei  due  canali,  che  seguono  a  tali  fori,  uno  si  apre  im- 
mediatamente in  quello  che  continua  il  forame  sottozigomatico,  l'altro  può  sboccare 
isolatamente  nella  cavità  craniana.  In  2  casi  abbiamo  riscontrato  pure  due  forami 
postsquamosi  nella  parte  alta  della  squama  temporale  in  tutta  vicinanza  della  sutura 
squamosoparietale;  in  un  altro  invece  detto  forame  corrispondeva  alla  sutura  stessa. 

Fam.  Cervidae.  —  In  39  crani  di  parecchie  specie  (Cervus  alces  2  cr.;  C.  elaphus 
21  cr.;  Rangifer  tarandus  3  cr.;  C.  Wapiti  2  cr.;  C.  gymnotus  4  cr.;  C.  canadensis 
1  cr.  ;  C.  capreolus  6  cr.)  il  comportamento  dei  canali  venosi  attraversanti  il  temporale 
è  fondamentalmente  identico  in  tutti  ed  anche  analogo,  salvo  leggere  differenze,  a  quello 
riscontrato  nelle  precedenti  famiglie.  Vi  ha  cioè  costantemente  un'apertura  molto 
ampia  (3-4-5  mm.),  posta  dorsalmente  al  cono  articolare,  rappresentante  lo  sbocco 
di  un  canale  temporoparietale  affatto  simile  a  quanto  abbiamo  in  questo  stesso 
ordine  diffusamente  descritto.  È  da  notarsi  solo  che  l'apertura  inferiore  di  detto 
canale,  forame  sottozigomatico  posteriore,  destinato  al  tragitto  della  principalissima  via 
sanguigna  di  deflusso,  può  presentarsi  abnormemente  divisa  in  due,  di  modo  che 
esistono  allora  due  forami  sottozigomatici  posteriori,  posti  uno  medialmente  all'  altro 
(C.  elaphus  di  Sardegna  a  destra,  C.  canadensis  bilateralmente):  in  ogni  caso  il  forame 
sottozigomatico  posteriore  occupa  preferibilmente  la  parte  mediale  del  cono  arti- 
colare ;  alcune  volte  però  l'apertura  è  spostata  alquanto  lateralmente,  rivolta  in  basso 
ed  all'esterno. 

Mentre  il  comportamento  di  detto  canale  nella  ubicazione  e  nel  calibro  della  sua 
apertura  esterna  è  relativamente  costante,  si  notano  invece  differenze  sensibili,  indi- 
viduali o  di  razza,  per  rispetto  al  numero  ed  alla  ubicazione  di  altri  forami  posti 
al  di  sopra  del  processo  zigomatico  e  della  linea  temporale,  che  continua  dorsal- 
mente tale  processo.  Ordinariamente  subito  al  disopra  della  base  del  processo  zigo- 
matico esistono  1,  2  o  più  forami  aggruppati,  oppure  in  numero  maggiore  (6-8) 
scaglionati  a  livello  diverso  nello  spessore  della  squama,  in  guisa  da  rappresentare 
delle  forme  di  passaggio  fra  i  forami  soprazigomatici,  i  soprasquamosi  e  i  post- 
squamosi.  Quando  esiste  un  unico  forame  soprazigomatico  posteriore,  posto  cioè  im- 
mediatamente al  disopra  della  base  del  processo  zigomatico,  esso  può  avere  un  ca- 
libro molto  diverso,  da  1  mm.  a  4  mm.,  e  il   canale   che  gli   fa   seguito   si   riunisce 


■_>  1 6  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  00 

per  lo  più  al  canale  principale  aprentesi  dietro  il  cono  articolare.  Quando  invece 
abbiamo  parecchi  forami  soprazigomatici,  uno  di  essi  ha  per  lo  più  un  calibro  mag- 
giore (2-3  mm.),  gli  altri  sono  assai  più  esili  sì  da  dare  per  lo  più  passaggio  solo 
ad  una  setola:  tuttavia  questi  forami  soprazigomatici  possono  mancare  anche  total- 
mente, contemporaneamente  alla  mancanza  di  forami  posti  pure  subito  al  di  sopra 
della  linea  temporale,  oppure  mancare  nella  loro  posizione  abituale  al  di  sopra  della 
base  dell'apofisi  zigomatica,  pure  essendo  presenti  uno  o  più  postsquamosi  ed  uno  o 
più  soprasquamosi.  La  mancanza  di  forami  soprazigomatici  posteriori  è  stata  da  noi 
verificata  dai  due  lati  in  3  C.  gymnotus  su  4,  e  in  2  C.  capreolus  su  6. 

Per  lo  più  vi  hanno  pure  nelle  varie  specie  di  Cervus  dei  forami  nella  sutura 
parietotemporale  in  numero  di  1-2  :  oppure  questi  possono  essere  spostati  un  po'  più 
in  basso  nello  spessore  stesso  della  squama.  Quasi  costantemente  ancora  noi  abbiamo 
verificato  l'esistenza  di  1-2  forami,  ampi  1-2  mm.  al  disopra  della  estremità  poste- 
riore  della  linea  temporale,  subito  ventralmente  alla  cresta  squamosoccipitale.  Così 
pure  quasi  costantemente  al  di  sotto  della  estremità  posteriore  di  detta  linea,  nella 
parte  alta  della  sutura  squamosomastoidea,  come  nella  sutura  mastoidoccipitale 
esistono  dei  forami  venosi  di  calibro  diverso. 

Nei  Cervidi  quindi,  accanto  al  canale  temporoparietale  aprentesi  all'  esocranio 
con  un  forame  sottozigomatico  posteriore,  canale  che  rappresenta  la  via  tenuta  dalla 
massima  parte  del  sangue  endocraniano  nel  suo  decorso  refluo,  vi  ha  una  serie  mu- 
tevole per  numero,  per  ubicazione,  per  costanza,  di  altri  canali  in  ogni  caso  di  ca- 
libro minore,  aprentisi  all'esocranio  con  forami  delle  varie  categorie  (soprazigomatici, 
soprasquamosi,  postsquamosi,  sottosquamosi,  mastoidei  nel  senso  di  Cope),  i  quali  canali 
comunicano  per  lo  più  direttamente  col  canale  temporoparietale,  oppure  con  la  por- 
zione del  solco  transverso  situata  dorsalmente  alla  apertura  endocranica  del  canale 
stesso,  oppure  ancora  direttamente  colla  cavità  craniana,  indipendentemente  cioè  dal 
solco  trasverso  :  la  piccolezza  del  calibro,  come  la  variabilità  numerica  e  disposizione 
del  loro  sbocco  esocranico,  dimostrano  chiaramente  come  ad  essi  si  debba  dare  il 
significato  di  veri  emissari  venosi  del  seno  trasverso. 

Relativamente  poi  ai  reperti  che  noi  abbiamo  avuto  nel  C.  gymnotus  e  nel  C.  ca- 
preólus,  possiamo  affermare  che  nell'  aggruppamento  e  nella  posizione,  come  nella 
mancanza  di  taluni  di  detti  forami,  sono  da  ricercare,  più  che  delle  variazioni  indi- 
viduali, delle  vere  variazioni  di  razza  o  di  specie. 

Fani.  Giraffidae.  —  Nella  Giraffa  (2  cr.)  vi  ha  dai  due  lati,  dietro  al  cono 
articolare,  un  largo  foro  circolare,  ampio  mm.  10,  rappresentante  lo  sbocco  inferiore 
del  canalis  temporoparietalis,  diretto  obliquamente  in  alto,  in  avanti  e  medialmente. 
Un  altro  forame  bilaterale,  aperto  superiormente  alla  base  dell'apofisi  zigomatica,  si 
continua  con  un  canalino,  che  imbocca  il  canale  temporale  dalla  sua  parete  anteriore 
in  tutta  vicinanza  dell'apertura  sottozigomatica. 

Fam.  Bovtdae.  —  Subfam.  Neotraginae.  —  In  due  Pediotragus  campestris  vi 
ha  un  comportamento  identico  a  quello  della  Giraffa,  e  cioè  un  canalis  temporalis 
aperto  inferiormente  con  un  forame  sottozigomatico  posteriore  ed  un  piccolo  forametto 
soprazigomatico   posteriore.    Quest'  ultimo  in  un  Oreotragus  saltatoi-  è  spostato   più  in 


89  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETKOSQUAMOSI  24  ! 

addietro,  sopra  la  linea  temporale,  è  esilissimo  sì    da  non  permettere    il   passaggio 
ad  una  setola. 

Subfam.  Antilopinae.  —  Noi  abbiamo  preso  in  esame  un  cranio  di  Aepyceros 
melampus,  10  cr.  di  varie  specie  di  Antilope  (Antilope  Saiga,  A.  Alcini,  A.  Somme- 
ringi,  Gazzella  subgutturosa,  Colui  elipsiprymnus),  nei  quali  tutti  vi  hanno  le  mede- 
sime disposizioni.  Esiste  cioè  un  ampio  foro  sottozigomatico  posteriore  dietro  la  cresta 
appena  accennata  rappresentante  il  conus  articularis :  tale  apertura  è  ordinariamente 
circolare,  talvolta  però  in  forma  di  fessura;  più  che  un  vero  canale  temporale  si 
verifica,  per  lo  meno  nei  giovani  soggetti,  che  all'apertura  esocranica  corrisponde 
immediatamente  dall'endocranio  un'apertura  similare,  posta  nella  porzione  anteriore 
del  solco  trasverso. 

Costantemente  vi  hanno  inoltre  1-3  aperture,  il  cui  calibro  è  sempre  minore 
del  foro  sottozigomatico,  poste  immediatamente  al  di  sopra  della  base  del  processo 
zigomatico,  comunicanti  pure  direttamente  colla  cavità  craniana:  quando  vi  ha  un 
unico  foro  soprazigomatico,  questo  può  continuarsi  con  un  breve  canale,  diretto  alquanto 
dorsalmente  per  isboccare  nel  contorno  anteriore  del  foro  sottozigomatico. 

Nel  Colus  elipsiprymnus  il  foro  soprazigomatico,  a  differenza  delle  altre  Antilopi, 
assume  uno  sviluppo  preponderante  per  rispetto  al  sottozigomatico  ;  si  presenta  cioè 
circolare,  ampio  1  cm.  e  si  apre  direttamente  nella  parte  anteriore  del  solco  trasverso. 

Spesso  esiste  inoltre  un  piccolo  forame,  ampio  da  1  a  2  mm„  superiormente  alla 
porzione  posteriore  della  linea  temporale  ;  altre  volte  ve  ne  ha  un  altro  in  rapporto 
della  parte  alta  della  squama,  oppure  in  rapporto  della  sutura  parietosquamosa  :  la 
presenza  di  questi  ultimi  però  non  appartiene  certo  alle  condizioni  assolutamente 
costanti,  mentre  invece  si  deve  ritenere  tale  nelle  Antilopinae  la  esistenza  dell'emis- 
sario soprazigomatico,  funzionante  vicariamente  al  canale  temporale. 

Subfam.  Hippotraginae.  —  In  un  Hippotragus  equinus,  assieme  al  canale  tem- 
porale comportantesi  come  d'ordinario,  vi  hanno  da  ciascun  lato  due  piccoli  forami 
soprazigomatici;  mancano  invece  gli  emissari  postsquamosi  e  soprasquamosi. 

Subfam.  Traghelaphinae.  —  In  questa  sottofamiglia  (Traghelaphus  scriptus  1  cr.; 
T.  Spekai  2  cr.;  Tragocamelus  pallas  1  cr.;  Strepsiceros  Kudu  1  cr.;  S.  capensis  1  cr.) 
si  mantiene  ancora  il  rapporto  sovraenunciato  tra  il  canale  temporale,  aprentesi 
in  basso  dietro  il  conus  articularis  appena  accennato,  ed  i  forami  soprazigomatici 
posteriori,  occorrenti  per  lo  più  in  numero  di  2  nell'angolo  diedro  delimitato  dal 
planum  temporale  colla  faccia  superiore  della  base  del  processo  zigomatico:  i  canali 
od  il  canale  corrispondenti  si  aprono  per  lo  più  nel  contorno  anteriore  del  canale 
temporale. 

Più  frequentemente  che  nelle  Antilopine,  nella  grande  maggioranza  dei  crani 
sopraricordati  esistono  inoltre  1-2  piccoli  forametti,  posti  subito  superiormente  alla 
estremità  posteriore  della  cresta  temporale  e  comunicanti  pure  col  canale  temporale, 
forami  postsquamosi.  Costantemente  ancora,  indietro  del  foro  uditivo,  nella  sutura  squa- 
mosomastoidea,  ad  1  o  2  min.  al  disotto  della  sporgenza  della  cresta  temporale,  vi 
ha  un  esile  forametto  ampio  mm.  0,5-1,  forame  emissario  sottosquamoso,  che  rap- 
presenta pure  un  emissario  del  canale  temporale.  Forami  analoghi  si  possono  anche 


248  ALFONSO  BOVERO  —  UMBERTO  CALAMIDA  90 

talvolta  constatare  nella  parte  alta  della  squama  temporale,  oppure  direttamente  nella 
sutura  parietosquamosa. 

Nel  Traghelaphus  scriptus,  fra  la  porzione  inferiore  e  posteriore  del  margine 
superiore  della  squama  ed  il  margine  anteriore  dell'  angolo  mastoideo  del  parietale, 
vi  ha  un'  ampia  fessura ,  alla  quale  viene  a  sboccare  una  diramazione  del  canalis 
temporalis,  appunto  come  abbiamo  verificato  negli  Equidi. 

Subfam.  Rupicaprinae.  —  In  un  Haplocerus  americanus,  oltre  all'ampia  apertura 
sottozigomatica  del  canale  temporale,  occorrono  da  ciascun  lato  un  forame  emis- 
sario soprazigomatico,  un  postsquamoso  ed  un  sottosquamoso,  come  nelle  precedenti 
famiglie. 

Subfam.  Caprinae.  —  Le  nostre  ricerche  vertono  su  8  crani  di  Capra  ibex,  6  di 
C.  oegagrus,  10  di  C.  hircus,  7  crani  di  Ovis  aries,  2  di  0.  nahoor,  9  di  0.  mussimi»!, 
nei  quali  occorre  una  straordinaria  concordanza  di  comportamento.  Dietro  al  cono 
articolare,  presentatesi  sotto  forma  di  una  cresta  tagliente  disposta  in  direzione 
frontale  ed  assai  più  alta  medialmente,  inferiormente  all'apertura  esterna  del  con- 
dotto uditivo  si  scorge  una  ampia  apertura  circolare,  scavata  completamente  nello 
spessore  della  squama  temporale;  da  questa  ha  origine  un  canale  decorrente  curvo 
in  alto  ed  in  addietro,  per  aprirsi  sulla  cavità  craniana  a  livello  della  estremità 
laterale  del  margine  superiore  della  piramide,  essendo  nella  sua  porzione  posteriore 
delimitato  superiormente  dall'osso  parietale,  canale  petrosquamosoparietale.  Il  foro  sotto- 
zigomatico  posteriore  ha  un  diametro  che  oscilla  fra  5  mm.  ed  1  cm.;  può  tuttavia 
essere  suddiviso  in  2-3  aperture  secondarie ,  poste  una  medialmente  all'  altra  e  di 
calibro  naturalmente  assai  piccolo;  per  questa  via  fluisce,  come  è  noto,  gran  parte 
del  sangue  venoso  endocraniano. 

Oltre  a  detto  forame  vi  ha  ancora  al  disopra  della  base  del  processo  zigomatico 
un'altra  apertura,  pure  molto  ampia,  in  nessun  caso  minore  della  precedente,  spesso 
anche  maggiore  (da  5  a  12  mm.),  forame  soprazigomatico  posteriore.  I  forami  sopra- 
e  sottozigomatici  si  corrispondono  un  l'altro  di  guisa  che  il  breve  canale,  il  quale  li 
riunisce,  pare  attraversi  verticalmente  la  base  del  processo  zigomatico:  al  contorno 
posteriore  di  questo  canale  infrazigomatico  giunge  la  estremità  ventrale  del  canalis 
temporalis  propriamente  detto.  In  altre  parole  il  forame  soprazigomatico  ha  assunto, 
nella  sottofamiglia  Caprinae,  come  carattere  fisso  un'  ampiezza  per  lo  meno  pari  a 
quella  del  sottozigomatico,  cui  nella  grande  maggioranza  delle  famiglie  di  Ungulati 
fin'ora  esaminate,  nelle  quali  il  deflusso  del  sangue  endocraniano  avviene  appunto 
prevalentemente  attraverso  l'osso  temporale,  spetta  la  maggior  importanza  funzionale 
corrispondentemente  al  maggior  calibro.  Il  foro  soprazigomatico  cioè  rappresenta,  non 
più  lo  sbocco  di  un  semplice  emissario,  ma  bensì  una  delle  aperture  principalissime 
del  canalis  temporalis. 

Il  valore  di  semplici  emissari  è  invece  conservato  nelle  Caprinae  ad  altri  pic- 
coli forami,  che  occorrono  quasi  costantemente  nella  parte  alta  della  squama,  oppure 
nella  porzione  posteriore  della  sutura  squamosoparietale  (fori  soprasquamosi  nel  senso 
di  Cope),  oppure  immediatamente  al  disopra  della  cresta  temporale,  che  continua  in 
addietro  il  margine  laterale  del  processo  zigomatico,  oppure  direttamente  sulla  spor- 


91  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  249 

genza  laterale  della  stessa  cresta  più  o  meno  in  prossimità  della  sutura  squamoso- 
mastoidea  (fori  postsquamosi  di  Cope).  Sia  i  forami  soprasquamosi  come  i  postsqua- 
mosi  hanno  generalmente  un'ampiezza  da  1  a  2  min,  ;  sono  per  lo  più  unici,  talvolta 
invece,  specialmente  i  soprasquamosi,  in  numero  di  1,  2,  3  o  più:  i  canali,  che  da 
essi  hanno  origine,  confluiscono  con  decorso  a  direzione  diversa  al  canale  temporale. 
La  presenza  dei  canali  delle  due  categorie,  semplici  o  molteplici,  appartiene  alle 
condizioni  normali,  tuttavia  ci  pare  più  costante  la  esistenza  dei  forami  soprasqua- 
mosi, mentre  non  di  rado  mancano  il  forame  od  i  forami  postsquamosi,  oppure  sono 
ridotti  estremamente  di  calibro,  sì  che  a  mala  pena  danno  passaggio  ad  una  fine  setola. 

Subfam.  Bovinae.  —  In  12  crani  di  Boa  taurus  di  provenienze,  sesso  ed  età 
diverse  noi  abbiamo  verificato  un  comportamento  presso  a  poco  analogo  a  quanto 
abbiamo  ora  descritto  nella  subfam.  Caprinae.  La  differenza  essenziale  sta  in  ciò  che 
il  forame  soprazigomatico  posteriore  ha  caratteri  meno  fissi  di  quanto  non  occorra 
nella  subfam.  Caprinae.  Mentre  cioè  talune  volte,  ciò  che  succede  specialmente  nei 
Vitelli,  tale  apertura  ha  un'ampiezza  anche  superiore  a  quella  del  forame  sottozigo- 
matico, altre  volte  occorre,  e  in  modo  speciale  negli  individui  adulti  ma  anche  in 
quelli  giovani,  che  esso  abbia  un  calibro  ridottissimo,  sino  a  mm.  0,5-1-2.  Alcune 
volte  invece  i  forami  soprazigomatici,  costantemente  piccoli,  sono  in  numero  di  3-4; 
del  resto,  qualunque  ne  sia  il  calibro,  essi  si  comportano  per  rispetto  al  canale  tem- 
porale ed  alla  sua  apertura  sottozigomatica  nell'identico  modo  da  noi  di  già  ripetuta- 
mente descritto.  Per  il  foro  sottozigomatico  dobbiamo  notare,  che  in  2  Vacche  si  pre- 
senta da  ciascun  lato  suddiviso  in  due  forami  secondari,  disposti  frontalmente  uno 
accanto  all'altro:  l'ampiezza  del  forame  sottozigomatico  unico,  oscilla  da  3-4  mm.  (negli 
individui  giovani)  fino  ad  1  cm. 

Quasi  costantemente  al  disopra  della  estremità  posteriore  della  cresta  temporale, 
oppure  sulla  sporgenza  stessa  di  questa  cresta,  si  nota  un  forametto  ovalare  o  cir- 
colare [forame  postsquamoso),  talvolta  anche  2  o  più  scaglionati  sagittalmente,  i  quali, 
con  canali  propri  attraversanti  la  squama  in  avanti  e  medialmente,  raggiungono  il  ca- 
nale temporale  in  prossimità  della  sua  apertura  endocranica.  Costantemente  pure  esi- 
stono uno  o  due  altri  fonimi  soprasquamosi,  nella  parte  alta  della  porzione  posteriore  della 
squama  temporale,  oppure  nella  sutura  parietosquamosa,  immediatamente  in  avanti 
della  cresta  occipitomastoidea.  Altro  forame,  però  meno  frequente,  si  può  ritrovare 
al  disotto  della  cresta  temporale  nella  parte  alta  della  sutura  squamosomastoidea 
(forame  sottosquamoso). 

Nei  Bovini  quindi  noi  dobbiamo  ritenere  che  costantemente  la  via  principalis- 
sima  di  deflusso  del  sangue  venoso  endocraniano  è  rappresentata  dal  canale  tem- 
porale; nei  giovani  soggetti,  come  talvolta  anche  nell'adulto,  il  forame  soprazigoma- 
tico, il  quale  pure  nella  maggioranza  dei  casi,  ha  il  valore  di  un  semplice  emissario, 
può  diventare  equipollente  funzionalmente  al  sottozigomatico.  Il  valore  di  emissari 
è  conservato  ai  forami  sottosquamosi  e  postsquamosi. 

Riassumendo  quindi  noi  vediamo  come  negli  Ungulati  i  rapporti  dell'osso  tem- 
porale colle  vie  venose  di  deflusso  del  cranio  siano  molto  diversi  nei  vari  sottordini  : 
difatti,  mentre  in  alcuni  di  questi  (Iracoidi,  Proboscidei,  Tapiridi,  Rinocerotidi,  Suidi) 
i  canali  venosi  emissari  temporali  dei  vari  gruppi  mancano  o  sono  estremamente 
Serie  II.  Tom.  LUI.  a* 


250  ALFONSO    BOTERÒ    —    UMBERTO    CALAMIDA  92 

ridotti,  invece  in  tutti  gli  Artiodattili  ruminanti  e,  fra  i  Perissodattili,  negli  Equidi 
non  solo  l'osso  temporale  è  scavato  dal  canale  omonimo,  percorso  cioè  dalla  via 
principale  di  deflusso  del  sangue  venoso,  ma  anche  vi  esistono  per  lo  più  un  numero 
abbastanza  rilevante  di  canali  accessori  destinati  a  dar  ricetto  a  vie  di  deflusso 
semplicemente  sussidiarie.  I  canali  accessori  raggiungono  il  loro  numero  maggiore 
negli  Artiodattili  ruminanti,  e  più  ancora  in  talune  famiglie  (Ovinae,  Bovinae),  che 
non  in  altre.  Dei  vari  forami  sussidiari  al  canale  temporale  il  più  frequente  è  il  foro 
soiim zigomatico  posteriore  ed  è  pure  quello  che  va  soggetto  alle  maggiori  oscillazioni 
nel  calibro,  fino  a  raggiungere  (Caprinae  ed  eventualmente  anche  Bovinae)  un'am- 
piezza tale  da  doversi  considerare  necessariamente  come  equipollente  al  sotto- 
zigomatico. Gli  altri  forami  emissari  (soprasquamoso ,  postsquamoso  e  sottosquamoso) 
conservano  per  lo  più  un  calibro  relativamente  minimo,  come  pure,  esaminati  nella 
serie  delle  varie  famiglie,  sono  anche  meno  costanti  e  nella  posizione  e  nella  loro 
esistenza  stessa.  Le  nostre  ricerche  poi  se  da  una  parte  confermano  i  reperti  nega- 
tivi degli  altri  AA.  relativamente  agli  Iracoidi,  dimostrano  pure  per  altri  sottordini, 
ad  es.,  per  i  Proboscidei,  per  gli  Obesa  (Hippopotamus),  come  anche  per  la  fam.  Suidai . 
contrariamente  alle  affermazioni  degli  altri  ricercatori,  la  esistenza  di  formazioni  che 
possono  essere  interpretate  come  traccie  o  rudimenti  di  canali  emissari  venosi  delle 
varie  categorie.  Relativamente  a  questi  ultimi  noi  ricorderemo  ancora  una  volta  il 
fatto  caratteristico  riscontrato  nel  Cinghiale,  in  cui  la  esistenza  di  un  emissario  sotto- 
zigomatico mediale  può  essere  considerata  come  un  vero  carattere  di  razza. 

Ord.  SIBERIA.  —  Ord.  CETACEA. 

In  un  Manatus  australis  (Sirenia),  in  6  crani  di  Delphinus  Delphis,  come  in  1 
di  Beluga  leucas  ed  in  1  di  Balenoptera  (Cetacea),  non  venne  a  noi  dato  mai  di 
verificare  l'esistenza  di  forami  nella  regione  temporale,  che  si  possano  ricondurre  a 
canali  venosi  emissari,  analogamente  ai  dati  di  Otto  (50),  Denker  (11,  b),  Cope  (9), 
e  Kopetsch  (34).  È  da  notarsi  tuttavia  come,  data  la  scarsità  del  materiale  da  noi 
e  da  altri  studiato,  come  pure  le  difficoltà  di  una  macerazione  veramente  completa 
del  cranio,  non  è  impossibile  che  tali  emissari  vengano  appunto  dimostrati  in  pro- 
sieguo da  altri  ricercatori. 

Ord.  EDENTATA. 

Negli  Sdentati  le  conoscenze  dei  rapporti,  che  le  vie  venose  contraggono  even- 
tualmente con  l'osso  temporale,  sono  scarsissime,  però  sufficientemente  concordanti 
fra  loro.  Difatti  Otto  (50)  ammette  l'esistenza  del  canalis  temporalis  in  Myrmeco- 
phaga  jubata,  in  .1/.  tridaetyla  e  nel  Dasypus,  negandolo  invece  nel  gen.  Bradypux. 
Cope  (9),  come  già  Hybtl  (30,  a),  e  come  più  tardi  venne  più  diffusamente  descritto 
da  Tandler  (67«,  b)  anche  nei  Monotremi,  accenna  al  fofame  d'ingresso  per  l'arteria 
diploetica  magna,  in  una  posizione  molto  prossima  al  forame  emissario  venoso  sub- 
squamoso, nella  Tamandua  :  nel  Dasypus  sexcintus  vi  sarebbe  un  foro  postglenoideo 
ampio,  un  postsquamoso  ed  un  sottosquamoso,  nel  Clamydophorus  un  postglenoideo 
unico,  nel  Manis  un  postzigomatico ;  mancherebbe  invece  ogni  traccia  di  forami  nel 
Bradypus  e  nel  Cholaepus.  Kopetsch  (34)  conferma  l'esistenza  di  un  foramen  jugulare 


93  (.'ANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETR0SQUA1I0SI  251 

spurium  nei  gen.  Myrmecophaga  e  Dasypus,  nei  quali  anzi  sarebbe  doppio,  mentir 
nei  gen.  Manis,  Orycteropus  e  Bradypus  non  se  ne  troverebbe  traccia. 

Noi  abbiamo  potuto  usufruire  anche  di  un  materiale  relativamente  assai  scarso 
ed  i  risultati  che  noi  abbiamo  avuti  sono  puramente  confermativi.  In  2  Bradypus 
tridaetylus  mancano  tutti  i  forami,  che  si  possano  interpretare  come  emissari  venosi 
della  porzione  basilare  del  temporale:  in  un  solo  cranio  ed  esclusivamente  dal  lato 
destro  esiste  sul  prolungamento  dorsale  del  margine  superiore  del  processo  zigoma- 
tico un  forame  comunicante  con  la  porzione  dorsale  del  seno  trasverso. 

In  3  Myrmecophaga  'tubata  alla  parte  posteriore  della  superficie  articolare,  nella 
sutura  squamosotimpanica  vi  ha  una  irregolare  fessura  unica  o  divisa  in  due  porzioni 
(1  cr.  bilateralmente)  in  guisa  da  costituire  due  piccoli  forami  posti  uno  a  lato  dell'altro 
e  ampi  poco  più  di  1  mm.:  sia  la  fessura,  come  i  due  forami,  attraversano  la  squama 
temporale  per  aprirsi  verticalmente  in  alto  nel  fondo  del  solco  trasverso  (forami 
sottozigomatici  posteriori).  In  un  caso  al  di  sopra  della  base  del  processo  zigomatico 
rudimentale  vi  hanno  da  entrambi  i  lati  due  piccoli  forami,  attraverso  i  quali  può 
penetrare  nella  cavità  cranica  una  piccola  setola,  foranti  soprazigomatici  posteriori. 

In  3  Dasypus  novemeintus,  in  avanti  e  superiormente  al  condotto  uditivo  esterno, 
vi  ha  bilateralmente  un  forame,  ampio  1  mm.,  corrispondente  per  la  posizione  al 
soprazigomatico  posteriore,  dal  quale  si  può  penetrare  nella  cavità  craniana:  in 
2  casi  vi  ha  inoltre  sul  prolungamento  posteriore  della  radice  zigomatica  un  forame 
ovalare  ampio  all' incirca  2  mm.;  in  un  altro  da  ciascun  lato  vi  sono  nella  parte 
alta  della  squama  parecchi  minuti  forellini  non  permeabili  però  ad  una  setola. 

In  un  Manis  Temninki  esiste  un  forame  irregolarmente  ovalare  sulla  superficie 
esterna  dell'ampio  processo  zigomatico:  il  detto  forame  si  continua  con  un  canale 
diretto  orizzontalmente  in  addietro  e  medialmente  verso  la  cavità  craniana. 

Facendo  quindi  astrazione  dallo  scarso  materiale  e  dai  rapporti  più  complicati 
con  branche  arteriose  proprie  dei  Mammiferi  inferiori  (Sdentati  e  Monotremi),  quali 
cioè  non  compaiono  normalmente  negli  ordini  di  Mammiferi  sinora  studiati,  si  può 
asserire  che  anche  negli  Sdentati  una  parte  del  sangue  venoso  endocraniano  può 
defluire  all'esterno  attraverso  l'osso  temporale,  sboccando  all'esocranio  in  punti  cor- 
rispondenti all'apertura  delle  vie  principali  (sottozigomatico)  od  accessorie  (soprazigo- 
matico,  soprasquamoso,  postsquamoso)  dei  Mammiferi  finora  studiati. 


Ord.  MARSUPIALIA.  —  Ord.  MONOTREMATA. 

Anche  nei  Marsupiali  una  parte  del  sangue  venoso  endocraniano  decorre  per 
imboccare  la  giugulare  esterna  attraverso  l'osso  temporale.  Secondo  Cope  (9)  i  tipi 
di  quest'ordine  hanno  generalmente  il  foro  postglenoide  e  quasi  mai  il  supraglenoide 
o  il  postparietale;  essi  si  distinguerebbero  generalmente  per  la  presenza  del  sotto- 
squamoso, il  quale  in  alcuni  (Phascolarctos)  può  rappresentare  l'unica  via  di  deflusso 
del  seno  laterale:  nei  Marsupiali  inoltre  esisterebbe  sopra  il  meato  uditivo  esterno 
un  forame  sopratimpanico,  comunicante  con  la  cavità  dell'orecchio  medio.  Kopetsch  (34) 
a  sua  volta  afferma  che,  ad  eccezione  del  gen.  Phalangista,  tutti  gli  altri  Marsupiali 
posseggono  un  foranien  jugulare  spurium. 


252  ALFONSO    BOVEEO    —    UMBERTO    CALAMIDA  9  l 

In  8  crani  di  Macropus  halmaturus  giganteus  ed  in  un  M.  Bennettii,  immediata- 
mente al  davanti  dell'apertura  esterna  del  condotto  uditivo,  sulla  faccia  posteriore 
di  un  con us  articularis  costantemente  ben  sviluppato,  più  in  prossimità  del  suo 
margine  mediale  che  non  di  quello  laterale,  vi  ha  un  forame  sempre  relativamente 
ampio,  da  mm.  1,5  a  3-4  mm.,  più  o  meno  regolarmente  circolare,  cui  segue  un  canale 
diretto  verticalmente  in  alto,  il  quale  sbocca  nella  cavità  cranica,  nella  porzione 
anteriore  della  sutura  petrosquamosa  :  a  detto  forame  si  può  assegnare  il  valore  di 
un  sottozigomatico  posteriore. 

Costantemente  ancora,  al  disotto  della  radice  sagittale  del  processo  zigomatico, 
immediatamente  al  disopra  del  porus  acusticus  externus,  vi  ha  un  forellino  ovalare, 
ampio  1  mm.,  aperto  al  fondo  di  una  specie  di  docciatura,  cui  segue  un  canale  obli- 
quamente diretto  in  basso  ed  in  avanti  e  comunicante  con  la  cavità  timpanica.  Molto 
probabilmente  è  appunto  a  questo  forame,  destinato  certo  al  decorso  di  vasi  arteriosi 
o  venosi,  che  allude  Cope  parlando  del  forame  sopratimpanico. 

Oltre  a  quelli  ora  ricordati,  quasi  costantemente  al  disopra  della  radice  sagit- 
tale del  processo  zigomatico,  nello  spessore  della  squama  temporale,  verticalmente 
al  di  sopra  del  poro  acustico  e  quindi  del  foro  sopratimpanico  di  Cope,  esiste  un 
forellino  circolare  ampio  2  mm.,  cui  corrisponde  un  canale  attraversante  la  squama 
per  aprirsi  nel  solco  petrosquamoso.  Alcune  volte  tale  forame  venne  da  noi  riscon- 
trato esattamente  sulla  sporgenza  della  linea  temporale  ;  nell'un  caso  come  nell'altro 
questo  forame  soprazigomatico  posteriore  è  sempre  relativamente  ampio  ed  è  facile 
dimostrarne  la  comunicazione  diretta  col  solco  petrosquamoso,  a  cui  giunge  per  lo 
più  nel  medesimo  punto  in  cui  sbocca  il  canale  sottozigomatico.  Infine  in  un  cas<  i  i 
dai  due  lati  {M.  giganteus  ad.),  oltre  al  forame  soprazigomatico,  al  sottozigomatico 
ed  al  sopratimpanico,  esisteva  pure  dai  due  lati  un  foro  post  squamoso.  E  a  notarsi 
che  nei  Macropus,  come  del  resto  anche  negli  altri  Marsupiali,  vi  ha  un'ampiezza 
relativamente  grande  del  forameli  jugulare. 

In  un  Phascolomys,  nella  parte  verticale  della  squama,  subito  al  disopra  della 
base  del  processo  zigomatico,  vi  hanno  bilateralmente  3  piccoli  forami  aggruppati, 
forami  sopra  zigomatici  posteriori,  ampi  circa  1  mm.  caduno,  i  quali  si  aprono  in  un 
unico  canale,  che  sbocca  nel  seno  petrosquamoso;  un  altro  foro  della  stessa  cate- 
goria è  posto  più  dorsalmente,  sopra  la  linea  temporale  a  livello  del  condotto  uditivo 
e  si  apre  isolatamente  nel  solco  petrosquamoso;  le  condizioni  di  macerazione  ci  im- 
pedirono di  ben  esaminare  la  porzione  basilare  della  squama. 

In  un  Didelphys  Azarae  e  in  un  I).  vìrginiana,  dorsalmente  al  eonus  articularis 
molto  sviluppato,  in  prossimità  del  suo  margine  mediale,  vi  ha  un  forame  ovalare 
ampio  4  mm.,  che  si  apre  immediatamente  in  alto  nel  seno  petrosquamoso.  Nel  D.  vìr- 
giniana, lateralmente  al  cono  articolare,  subito  al  disotto  del  margine  tagliente  della 
radice  sagittale  del  processo  zigomatico,  vi  ha  un  piccolo  forellino  (1  mm.),  il  quale 
mette  nel  seno  petrosquamoso  unitamente  al  precedente;  in  questo  cranio  quindi 
esistono  due  forami  sottozigomatici,  uno  mediale  ed  uno  laterale. 

Per  i  Monotremi  noi  non  abbiamo  criteri  personali,  in  quanto  nell'unico  esem- 
plare da  noi  avuto  in  esame  di  Echydna  histrix  le  condizioni  di  macerazione  ci  impe- 
divano assolutamente  di  poter  pronunciare  un  giudizio:  ricorderemo  solamente  come, 
mentre  Tandler  (67  b)  descrive  e  raffigura  solo  il  foro  per  l'ingresso  dell'a,  diploetica 


95  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PBTBOSQTJAMOSI  253 

magna  nell'Echydna  aculeata  tipica,  Cope  (9)  nel  Tachyglossus  oltre  ai  forami  per  la 
detta  arteria,  accenna  pure  ad  un  forame  postzigomatico,  nell' Ornithorhyncus  ad  un 
postzigomatico  e  ad  un  postsquamoso.  In  ogni  caso  però  questi  ultimi  hanno  sem- 
plicemente il  valore  di  emissari,  poiché,  come  è  noto,  specialmente  per  le  ricerche 
di  Hochstetter  (28),  il  seno  trasverso  dei  Monotremi,  invece  di  imboccare  o  un  forameli 
iugulare  spurium  oppure  il  forameli  jugulare  veruni,  segue  la  via  della  vena  capiti 
lateralis,  contraendo  cioè  rapporti  molto  stretti  colle  varie  porzioni  dell'  osso  tem- 
porale, seguendo  all'incirca  il  decorso  del  n.  facialis,  e  mantenendo  quindi  come  defi- 
nitivo un  comportamento  che  è  abbozzato  di  già  nelle  prime  fasi  di  sviluppo  del 
sistema  venoso  anche  degli  altri  ordini  di  Mammiferi.  Oltre  a  ciò,  come  abbiamo  di 
già  osservato  altra  volta  per  le  eventuali  branche  venose  accompagnanti  attraverso 
la  squama  temporale  un'a.  temporale  profonda  posteriore  abnormemente  originata 
dall'a.  meningea  media  (Uomo,  Cercocebus,  ecc.),  anche  per  gli  Sdentati  e  per  i  Mono- 
tremi non  è  assurdo  ammettere  che  i  forami  ed  i  canali  scavati  nella  squama  tem- 
porale e  destinati  a  dar  ricetto  alla,  diploetica  magmi  normale  possano  accogliere 
pure  diramazioni  venose  satelliti  dell'arteria  stessa,  alle  quali  competa  precisamente 
l'ufficio  di  canali  venosi  emissari  della  circolazione  endocranica. 

Del  resto,  data  la  complessità  di  rapporti  e  le  modificazioni  profonde  che  avven- 
gono nella  conformazione  della  regione  temporale  degli  ultimi  ordini  di  Mammiferi 
studiati  (Sdentati,  Marsupiali,  Monotremi)  relativamente  agli  altri,  i  quali  d'altronde 
sono  anche  a  questo  riguardo  meglio  conosciuti,  si  capisce  come,  mentre  per  noi  è 
sufficiente  aver  dato  un  cenno  rapido  delle  particolarità  che  possono  eventualmente 
aver  rapporto  con  l'argomento  che  siamo  andati  studiando,  per  una  più  minuta  cono- 
scenza delle  stesse,  sarebbe  necessario  un  materiale  assai  più  ampio  e  differentemente 
conservato  e  uno  scopo  più  lato  di  quello  che  noi  ci  siamo  prefissi. 


Abbiamo  finito  così  la  lunga  rassegna  dei  reperti  avuti  da  noi  in  tutte  le  classi 
dei  Mammiferi  attuali,  dall'Uomo  ai  Marsupiali,  relativamente  alle  vie  tenute  dal 
sistema  venoso  refluo  dalla  cavità  craniana  per  giungere  all'esterno  attraverso  l'osso 
temporale.  La  nostra  descrizione  è  necessariamente  stata  assai  diffusa  come  era  in- 
dispensabile per  rendere  possibile  la  comparazione  dei  diversi  risultati.  Per  quanto 
una  parte  dei  reperti  da  noi  avuti  collimi  abbastanza  esattamente  con  quelli  di  altri 
ricercatori,  pure  noi  ci  siamo  persuasi,  come  emerge  d'altronde  dalla  lunga  serie 
delle  nostre  ricerche,  che  la  questione  delle  comunicazioni  fra  il  sistema  venoso  endo- 
craniano  e  la  e.  jugularis  externa  è  assai  più  complessa  di  quanto  non  appaia  dalle 
osservazioni  prima  d'ora  eseguite.  In  realtà  difatti  noi  abbiamo  pure  esposto  un  gran 
numero  di  constatazioni  obbiettive,  le  quali  si  devono  ritenere  affatto  nuove,  di  modo 
che  è  giustificata  appieno  la  nostra  convinzione  di  aver  notevolmente  allargata  la 
conoscenza  delle  vie  venose  emissarie  temporali  in  quasi  tutti  gli  ordini  di  Mammiferi 
esaminati,  o  per  lo  meno  in  moltissimi  generi  delle  varie  famiglie  dei  differenti 
ordini,  spesso  anche  in  generi  sui  quali  più  completo  era  l'accordo  fra  i  molteplici  AA., 
che  prima  di  noi  si  occuparono  di  questo  argomento. 

A  parte  le  considerazioni  puramente  descrittive,  noi  abbiamo  tenuto  dietro  passo 
a  passo  alla  evoluzione  seguita    dalle    sovraccennate    comunicazioni   attraversanti  il 


254  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  96 

complesso  osso  temporale,  sia  che  queste  rappresentino  delle  vie  semplicemente  ausi- 
liarie, o  pure  delle  vie  di  importanza  vieppiù  crescente  sino  a  diventare  le  princi- 
palissime,  se  non  le  uniche,  per  il  decorso  del  sangue  refluo  dall'encefalo  e  dai  suoi 
involucri. 

Nei  Primati,  e  fra  questi  precipuamente  nell'Uomo  e  nelle  Scimmie  antropo- 
morfe, i  canali  venosi  temporali  squamosi  e  petrosquamosi,  costanti  od  eventuali, 
tributari  della  giugulare  esterna,  sono  per  lo  più  rudimentali,  di  modo  che  si  pos- 
sono funzionalmente  classificare  fra  le  vie  semplicemente  emissarie,  appunto  come 
altri  canali  più  o  meno  costanti,  i  quali  attraversano  le  ossa  della  calvaria  e  della 
base  cranica,  in  quanto  le  venuzze  a  cui  detti  canali  danno  passaggio  suppliscono  in 
parte  la  via  principale  rappresentata  dalla  vena  giugulare  interna.  Ma  noi  vediamo 
che,  a  differenza  dell'Uomo  e  dei  Primati  superiori,  in  molti  altri  ordini  di  Mammiferi 
la  via  principale  di  deflusso  del  sangue  venoso  endocraniano  non  è  rappresentata  più 
dalla  vena  giugulare  interna,  ma  bensì  dalla  giugulare  esterna,  riunientesi  alla  por- 
zione ventrale  del  seno  laterale  attraverso  il  canale  temporale:  in  questo  caso  la  vena 
giugulare  interna  stessa,  se  pure  esiste,  può  rappresentare  a  sua  volta  semplicemente 
una  via  sussidiaria,  certo  di  importanza  minore,  alla  giugulare  esterna:  in  questo 
caso  ancora,  attraverso  all'osso  temporale,  oltre  al  canale  omonimo,  possono  eventual- 
mente aver  decorso  altre  vie  pure  egualmente  sussidiarie,  le  quali  si  aprono  all'esterno 
indipendentemente  dal  canale  temporale,  col  quale  pure,  qualora  non  si  originino 
direttamente  dalla  cavità  cranica,  possono  avere  delle  ampie  comunicazioni. 

Dallo  studio  da  noi  fatto  risulta  quindi  che  la  via  principale  di  deflusso  va  grada- 
tamente spostandosi  dalla  giugulare  interna  (Uomo,  Antropoidi)  alla  giugulare  esterna 
considerando  la  serie  stessa  dei  Primati  e  la  diminuzione  di  importanza  della  prima 
va  di  pari  passo,  parallelamente  all'aumento  di  calibro  e  quindi  di  importanza,  alla 
maggiore  frequenza  e  quindi  anche  al  maggior  numero  dei  canali  che  nell'Uomo, 
occorrendo  eventualmente,  rappresentano  delle  semplici  vie  ausiliarie. 

Discendendo  infatti  dall'Uomo  agli  Arctopiteci,  noi  abbiamo  viste  le  modifica: 
zioni,  sulle  quali  è  ora  inutile  ritornare,  che  subiscono,  nella  frequenza  e  nell'am- 
piezza, i  canali  venosi  temporali.  Discendendo  tuttavia  negli  altri  ordini  di  Mammiferi 
si  può  verificare  facilmente  ancora  come,  quanto  più  ci  allontaniamo  dai  Primati, 
tanto  più  aumenta  abbastanza  costantemente  l'importanza  delle  vie,  o  almeno  in  modo 
speciale  di  una  di  queste,  attraversanti  l'osso  temporale  e  come  parallelamente  au- 
mentino anche  e  nel  numero  e  nell'  ampiezza  i  canali  temporali  che,  relativamente 
a  quello  principale,  canale  temporale  propriamente  detto  o  canal-  temporoparietale,  sono 
da  ritenersi  come  sussidiari. 

In  altre  parole,  data  la  successione  cronologica  dei  vari  periodi  dello  sviluppo 
del  sistema  venoso  della  cavità  cranica,  quale  si  deve  ritenere  definitivamente  e 
perentoriamente  dimostrata  dagli  studi  di  Salzer,  Hochstetter,  Grosser  e  Fischer 
pei  Mammiferi,  nell'Uomo  o  nei  Primati  superiori  si  mantengono,  come  in  altro  modo 
nei  Monotremi,  delle  condizioni  che  appartengono  ad  un  periodo  più  primitivo  dello 
sviluppo,  mentre  nei  Primati  inferiori  e  nella  massima  parte  degli  altri  Mammiferi 
acquistano  carattere  permanente  di  fissità  delle  disposizioni,  che  rappresentano  nella 
storia  dello  sviluppo,  un  periodo  più  evoluto. 

Quali  siano  le  cause  che  favoriscono  nell'Uomo  e  nei  Primati  superiori  la  per- 


97  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  255 

manenza  di  condizioni,  che  si  stabiliscono  in  un  periodo  più  precoce  della  ontogenesi, 
noi  non  possiamo  certamente  affermare:  è  probabile  tuttavia  che  il  grande  svi- 
luppo della  massa  encefalica,  o  il  modo  con  cui  evolve  la  craniogenesi  della  capsula 
labirintica,  oppure  ancora  la  posizione  occupata  rispettivamente  ai  tronchi  nervosi 
dalle  vie  venose,  oppure  tutte  queste  cause  sommate  assieme  rendano  inutile  se  non 
impossibile  la  formazione  delle  vie  attraverso  all'osso  temporale;  o  per  lo  meno  queste 
pur  comparendo  mantengono  costantemente  un  carattere  rudimentale. 

Anche  come  formazioni  rudimentarie  però  esse  sono  passibili  di  una  schema- 
tizzazione abbastanza  facile,  in  quanto  le  varietà  della  ubicazione  esterna  delle  aper- 
ture dei  canali  destinati  a  dette  vie  ausiliarie  si  possono  ricondurre  ad  alcuni  tipi 
fondamentali,  in  ciascuno  dei  quali  le  oscillazioni  di  posizione  e  di  frequenza  ripetono 
esattamente  le  eguali  condizioni  di  ubicazione  e  di  frequenza  che  noi  ritroviamo  nella 
serie  degli  altri  Mammiferi.  Così  ad  esempio  noi  sappiamo  come  nell'Uomo,  sia  pure 
come  varietà,  i  canali  emissari  temporali  si  aprano  più  frequentemente  all'  esterno 
in  una  posizione  tale  per  cui  sono  da  classificarsi  come  sottozigomatici  mediali  o  late- 
rali; e  noi  vediamo  pure  ripetersi  nella  serie  dei  Mammiferi  con  continuo  crescendo 
di  importanza  la  medesima  posizione  di  ubicazione  dell'apertura  esterna  del  canalis 
temporalis.  Ancora,  noi  abbiamo  osservato  come  ai  canali  emissari  sottozigomatici 
seguano  immediatamente  per  frequenza  e  per  importanza  i  soprazigomatici,  e  noi 
abbiamo  verificato  in  egual  modo  come  in  quasi  tutta  la  serie  di  quei  Mammiferi, 
in  cui,  ripetiamo,  occorre  quale  carattere  fisso  un  canalis  temporalis  aprentesi  sotto 
la  radice  sagittale  del  processo  zigomatico,  fra  i  canali  semplicemente  emissari  delle 
varie  categorie,  sia  pure  il  soprazigoma^co  quello  che,  dopo  il  sottozigomatico,  ha 
la  maggiore  frequenza  e  la  maggiore  importanza,  fino  a  diventare  equipollente  (Ca- 
prinae)  o  quasi  (Bovinae)  al  sottozigomatico. 

Ma  anche  esaminando  le  variazioni  che  avvengono  nell'ambito  di  ogni  singolo 
tipo,  in  un  dato  ordine,  noi  possiamo  seguire  il  passaggio  graduale,  quasi  diremmo 
sistematico,  da  un  sottogruppo  all'altro:  difatti  dei  due  sottogruppi  in  cui  noi  ab- 
biamo distinto,  ad  es.,  i  forami  sottozigomatici,  noi  sappiamo  come  nell'Uomo  il 
sottozigomatico  mediale  sia  quello  più  degno  di  nota  sotto  l'aspetto  della  frequenza 
ed,  in  certe  condizioni,  anche  dell'ampiezza:  ora  nella  serie  degli  stessi  Primati  in- 
feriori all'Uomo  è  appunto  il  forame  sottozigomatico  mediale,  che  va  aumentando 
gradatamente  d'importanza  discendendo  agli  Arctopiteci,  aumento  che,  salvo  ecce- 
zioni, si  va  pronunciando  ancora  di  più  negli  altri  ordini  di  Mammiferi  ;  coll'aumento 
d'importanza  e  di  calibro  del  canale  stesso,  noi  possiamo  pure  seguire  lo  spostamento 
graduale  di  detto  forame  dal  margine  mediale  del  cono  articolare  alla  faccia  poste- 
riore dello  stesso. 

Anche  per  i  forami  più  raramente  occorrenti,  ad  esempio,  per  il  prezigomatico, 
come  per  i  postsrpiamosi,  gli  uni  e  gli  altri  veramente  eccezionali  nell'Uomo,  noi 
abbiamo  veduto  come  essi,  nell'ordine  stesso  dei  Primati,  si  riproducano  con  mag- 
giore frequenza,  si  da  diventare  per  talune  sottofamiglie  o  generi  anche  un  carattere 
fìsso  (foro  prezigomatico  dei  Mycetes,  foro  postsquamoso  delle  fam.  Cebidae,  Hapalidae). 

Abbiamo  accennato  anche  alle  variazioni  che  sono  possibili  nella  occorrenza  di 
un  dato  canale  in  varietà  diverse  del  medesimo  genere,  in  guisa  che  la  presenza  o 
la  mancanza  dell'emissario  stesso  si  può  ritenere,  fino  ad  un  certo  punto,  non  comi' 


256  ALFONSO    BOVERO    —    UMBERTO    CALAMIDA  98 

una  variazione  individuale,  ma  bensì  come  una  variazione  di  razza  (Cinghiali  esotici, 
C.  nostrani).  Noi  non  abbiamo  criteri  sufficienti  per  giudicare  se  questo  fatto  si  possa 
verificare  anche  per  la  specie  nostra:  non  sarebbe  strano  però  ammettere  tale  pos- 
sibilità aprioristicamente,  tenendo  calcolo  di  quanto  avviene  per  altre  particolarità 
osteologiche  del  cranio. 

Queste  poche  considerazioni  ci  pare  facciano  risaltare  a  sufficienza  il  valore 
morfologico  delle  formazioni  che  noi  abbiamo  preso  in  esame  e  giustificano  anche 
la  diffusione  che  noi  abbiamo  dato  al  nostro  studio. 

È  impossibile  riassumere  ora  in  poche  semplici  proposizioni  i  reperti  da  noi 
avuti  nei  singoli  ordini  di  Mammiferi:  questo  d'altra  parte  è  stato  parzialmente 
fatto  a  mò  di  conclusione  per  i  reperti  avuti  in  ciascun  ordine  ;  e  noi  abbiamo  volta 
a  volta  paragonato,  quando  ciò  era  possibile,  i  reperti  avuti  nelle  famiglie  più  o 
meno  numerose  di  uno  stesso  ordine;  sarebbe  quindi  una  ripetizione  inutile  riferire 
ancora  una  volta  i  paralleli  da  noi  fatti  precedentemente.  Le  considerazioni  generali, 
alle  quali  noi  siamo  venuti  ora,  possono  servire  benissimo  di  conclusione  alla  somma 
delle  constatazioni  obbiettive  fatte  per  ogni  singola  famiglia  di  ciascun  ordine,  come 
la  parte  descrittiva  del  nostro  lavoro  rappresenta  lo  schiarimento  delle  considera- 
zioni morfologiche  derivanti  dalla  conoscenza  della  letteratura  ed  esposte  come  spie- 
gazione dei  criteri  fondamentali  ai  quali  ci  siamo  attenuti  nelle  nostre  ricerche. 

Dall'Istituto  anatomico  dell'Università  di  Torino,  diretto  dal  prof.  R.  Fi-sari. 
Marzo  1903. 


99  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETROSQUAMOSI  257 


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de  Paris,  1896,  n.  162. 

40.  Lauth  T.  A.,  Nuoro  inumiti!,'  per  l'anatomico.  Bologna,  1841,  pag.  484. 

41.  Ledouble   F.  A.,    (a)  "  Bulletins    de    la   Société    d'Anthropologie   de   Paris  „ ,    T.  8   (IV   Serie), 

1897,  pag.  479.  —  (6)  Sillon  temporo-pariital  externe,  "  Comptes-Rendus  de  l'Association  des 
Anatomistes  „,  IV  Session.  Montpellier,  1902,  pag.  204.  —  (e)  Lettera  privata,  14  aprile  1902. 

—  (d)  Les  variations  osseuses,  "  Gazette  medicale  du  centre  „.  Tours,   1903,  N°  1,  pag.  10. 

42.  Legge  F.,  Il  foratimi  jugulare  spurium    ed    il    canalis    temporalis    nel    cranio    di  un  uomo  adulto, 

"  Bollettino  delle  Scienze  mediche  di  Bologna  „,  Serie  VII,  Voi.  I,  1890. 

43.  Loder  .1.  Cu.,  Anatomisches  Handbuch,  1788  (I  Aufl.),  Jena,  Bd.  I,  s.  49.—  1800(11  Aufl.),  Bd.I,  s.  56. 

44.  Loewenstein  E.,  Ueber  das  Foramen  jugulare  spurium   und  den    Canalis  temporalis  ani  Scln'iiìi  !  des 

Menschen  und  einiger  Affen,  Inaugural-Dissertation.  Konigsberg  i.  Pr.,  1895. 

45.  Luschka  H.,  (a)  Das  Foramen  jugulare  spurium  und  der  Sulcus  petroso-squamosus   des   Menschen, 

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—  (b)  Die  Venen  des  menschlichen  Halses,  "  Denkschriften  der  K.  Akad.  der  Wissensch.,  Mathem. 
Naturwissensch.  Classe  „,  Bd.  XX,  1862,  II  Abth.,  s.  199-226.  —  (e)  Die  Anatomie  des  Menschen, 
III  Bd.,  II  Abth.  Der  Kopf,  1867,  s.  88. 

46.  Maoewen,  Ftjogenic  Infective  Diseases  of  the  Bruni  and   spiani  L'uni,    meningitis  Abscess  0]    Brain 

infective  Sinus   Tii rombosis,  1893,  pag.  318. 

47.  Malacarne  V.,  (a)  Encefalotomia  nuora  a  ni  remale.  Torino  MDCCLXXX,  part.  1,  pag.  106-108,  pag.  133. 

—  (b)  Ricordi  dell'Anatomia  chirurgica  spettanti  al  capo  ed  al  collo.  Padova,  MDCOCI,  pag.  64. 

48.  Milne  Edwards  H.,  Lecona  sur  la  physiologie  et  l'anatomie  comparée  de  Vhommi   et    dea   animaux. 

Tomo  III,  Paris,  1888,  pag.  507. 

49.  Morris  H.,  Aliatomi/,  pag.  661. 

50.  Otto  A.  G.,  (a)  De  Animalìum  quorundam  per  hyemem  dormentium  vasis  cephalicis  et  aure  interna. 

Nova  Acta  Physico-medica  Academiae  Caesareae  Leopoldinae  Carolinae  Naturae  Curiosorum. 
Tom.  XIII,  pag.  1,  Bonn,  1826,  s.  23-85.  —  (è)  De  rarioribus  quibusdam  sceleti  Immani  cum 
animalìum    sceleto  analogiis.  Vratislaviae,  1839,  -.  14  18. 


101  CANALI    VENOSI    EMISSARI    TEMPORALI    SQUAMOSI    E    PETKOSQCAMOSI  259 

51.  Patella  ni.  Abbozzo  per  un  trattato  d'Anatomia  e  fisiologia  veterinaria.  Voi.  1,  pag.  143,  Torino.  1845. 

52.  Poibier  P.,  Tratte  d'Anatomie  inondine.  Tome  I.  Osteologie,  pag.  417,  418,  430,  431,  Paris,  1893. 

53.  Portal  A.,   Ciiurs  d'Anatomie  medicale  ou  Éléments  ili  l'Anatomie  de  l'homme.  Paris,  1804,  Tom.  IV, 

pag.  15. 

54.  Quain,  Elements  uf  Aliatomi'  [editeci  1>.\    Schàefeb  a.  Thane).  Ninth  Edition,  Voi.   I,  pag.  505.  — 

Thenth  Edition,  Voi.  II.  pari  II,  pag.  524. 

55.  Rathke  H.,   Ueber  den  Bau  und  die  Entwickelung  des  Venenst/stems  des  Wirbélthiere.  Dritter  Bericht 

iiber  das  naturwissenschaftliche  Seminar  bei   der   Universitat    zu    Konigsberg,    1838,    s.  1-23. 

56.  Romiti  G.,   Trattato  di  anatomia  dell'uomo.  Voi.  I.   Osteologia,  pag.  258. 

57.  Salzer  H..    Ueber  die  Entwicìdung  der  Kopfvenen  des  Meerschweinnchens,    "   Gegenbauk's  Morpho- 

logisches  Jalirl.uch  „,  XXIII  Band,  s.  232,  1895. 

58.  Schdltz  G.  J.,  Bemerhungen  iiber  den  Bau  der  normale»  MenschensckOdel.  Leipzig,  ls.V2.  s.  31-32. 

59.  Schwab  K.  L.,  Lehrbuch  der  Anatomie  des  Hausthiere,  III  Aufl.,  1839,  s.  42. 

60.  Semlau  P.,  Démonstrations  d'Anatomie.  Paris,  1892,  pag.  91. 

61.  Spee  G. ,    Skeletlehre.    Abth.    II.  Kopf.    (in    "  Handbuchs    der  Anatomie  des  Menschen  ..    berausg. 

v.  Bardeleben).  Jena,  1896,  s.  161. 

62.  Sperino  G„  Circolazione  venosa  del  capo.  Rapporto  fra  la  circolazione  endo-  ed  extrac: 

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vertébrés,  par  H.  Stannius),  pag.  484,  Paris,  1850. 

64.  Strambio  G.,  Trattato  elementare  di  Anatomia  descrittiva.  Voi.  I,  pag.  74,  1865,  Milano. 

65.  Strangeways  Th.,  J.  C,  Descriptive  Anatomy  o{  the  Horse.  Edinburg,  1870,  pag.  67. 

66.  Sussdorf   M. ,   Lehrbuch    der    vergleichenden    Anatomie    des-    Haussàugethiere.    1    Bd.  .    s.    185-186, 

Stuttgart,  1895. 

67.  Tandler  J.,  (a)  Zur  vergleichenden  Anatomie  des  Kopfarterien  bei  den  Mammalia,  "  Denkschriften 

der  KK.  Akademie  der  Wissenscbaften  „;  Mathem.-naturwiss.  Classe,  voi.  LXII.  Wien,  1899, 
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68.  Testut  L.,  Traiti  d'Anatomie  luminine,  Tom.  I,  pag.  134;  Tom.  II,  pag.   211,  1889-1891.    —  Tra- 

duzione italiana  di  Sperino  e  Varaglia.  Voi.  I,  pag.  166,  1901  (2"  ediz.),  Osteologia.  Voi.  II, 
part.  I,  1894,  pag.  194. 

69.  Thomas,  Éléments    d'Osteologie    descriptive    et    comparée    ih     l'homme    et    des  animane  domestiques. 

Paris,  1865,  pagg.  122,  124. 

70.  Trolard,  Les   veines  méningées   moyennes.  Étude  anatomique,  physiologique  et  pathologique,   "  Lea 

sciences  biologiques  „,  décembre  1890,  pagg.  491,  494,  495. 

71.  Trouessart  E.  L.,  Catalogne  Mammalium  tam  viventiitm  quam  fossilium.  Berolini,  R.    Friedlander 

et  Sohn,  1897-1899. 

72.  Verga  A.,  Sul  sistema  venoso  della  fossa  media  della  base  del  cranio  umano   e  specialmente   su    di 

un  nuovo  canale  osseo  od  acquedotto  per  cui  comunica  con  lincilo  della  fossa  posteriore,  "  Giornale 
del  R.  Istituto  Lombardo  „,  Tomo  VI,  fase.  36,  1855  —  ristampa  in  A.  Verga,  Studi  anatomici 
sul  cranio  e  sull'encefalo,  Voi.  I,  parte  anatomica,  1896,  pagg.  48-54. 

73.  Wagner  L,  De  partibus  mammalium  os  temporum  constituentibus.  Dorpat,   1858,  s.  35. 

74.  Winslow  J.   B..   Esposizione  anatomica  della  struttura  del  corpo  umano.  Trad.  Napoli,  1763,  pag.  122, 

Tom.  IV. 

75.  Zdcherkandl  E.,  Beitrag  zur  Anatomie  des  SchlSfenbeins  "  Monatschrift  tur  Ohrenheilkunde  ,,  1873, 

N.  9,  s.  202.  203. 


260  ALFONSO    BOVERO    -    UMBERTO    CALAMIDA    —    CANALI    VENOSI    EMI  102 

SPIEGAZIONE  DELLE  FIGURE 


Indicazioni  generali:  st  squama  temporalis  —  ot  os  tympanicum  —  pp  pars  petrosa  —  pm  pars 
mastoidea — fG  fìssura  Glaseri  —  mpst  margo  parietalis  equamae  temporalis  ■  mpst  margo 
petrosus  squamai;  temporalis  —  bt  bulla  tympanica  —  satpp  sulcus  arteriae  temporalis 
profundae  posterioris  —  pz  processus  zigomaticus  ci  «rista  infratemporalis  —  It  linea 
temporalis  —  ca  conus  articularis  —  fin  fossa  mandibularis  —  pae  porus  acu  bicus   externus 

—  pai  porus  aoustious  internus  —  e  in  crista  mastoidea  —  sps  sulcus  petrosquamosus  _— 
et  canalis  temporalis  —  fszl  foro  sottozigomatico  Litorale  —  fszm  l'oro  sottozigomatico 
mediale  —  fpg  foro    sottozigomatico    posteriore  —  fszp  foro  soprazigomatioo    posteriore  — 

—  fsza  foro  soprazigomatico  anteriore  —  fps  foro  prezigomatico  superiore  —  fpi  foro  pre- 
zigomatico inferiore  —  fp  foro  postsquamoso  —  fin  foro  infrasquamoso  —  fj  forameli  .iugu- 
lare —  eps  emissario  petrosquamoso  —  font  forameli  occipitale  niagnum  —  co  condylus 
occipitali» —  rm  condylus  maxillaris  —  op  os  parietale  —  oo  os  occipitale  —  oz  os  zygoma- 
ticum  —  ama  ala  magna  sphenoidalis  —  fs  forameli  spinosum  —  samm  sulcus  arteriae 
meningeae  mediae. 

(Le  fig.  1-14  sono  tratte  da  fotografìe  eseguite  dal   prof.  R,   Fusahi). 
Fig.     1".  Cranio  J  ad.  (Collez.  Crim.,  N.  3  Cat.,  assassino)  -  Regione  temporale,  dal  basso  e  da  sinistra. 
„       2*.      „        6  ad.  (Collez.  Var„  N.  310  C),  „ 

„      3*.      „        9  an.  34  (Collez.  Crim., N.107C, prostituta) -Regione  temp.,  da  destra  e  dall'indietro. 
4».  m  „  -  Fossa  cerebrale  media  e  faccia  superiore 

della  piramide,  dall'alto. 
5».       „         §   an.  58  (Collez.  Nomi.,  N.  141  C.)  -  Regione  temporale  sinistra,  dall'esterno. 
6».       „         9  an.  60  (Collez.  Crim.,  N.  259  C.)  -  ,  ,  dal  basso. 

7".       ,         5  ad.  (Collez.  Var.,  N.  252  C.)  -  ,  „  dal  basso  e  dall'avanti. 

8*.       ,         $  ad-  (Collez.  Var.,  N.  337  C.)  -  „  „  dal  basso  e  dall'esterno. 

(11  processo  zigomatico  fu  resecato  presso  alla   base). 
9".       n  „  „  -  Fossa  cranica  media  sinistra,  dall'alto. 

„     10°.       „         9  ad.  (Collez.  Var.,  N.  47  C.)  -  Regione  temporale  sinistra,  dall'alto  e  dall'esterno. 
„     11».       ,        è  ad.  (Collez.  Var.,  N.  312  C.)  -        „  „  »         dilato. 

,     12\       ,         9  ad.  a.  64   (Collez.   Crini.,  N.  326  C.)  -   Regione  temporale   ed  infratemporale    di 
sinistra,  di  lato  e  dall'avanti    (Il    processo  zigomatico   fu   resecato  in  prossimità 
della   sua  I 
„     13".       „         c5  ad.  (Collez.  Var.,  N.  290  C.)  -  Regione  temporale  sinistra,  di  lato  e  un  po'  dall'alto. 
„     14\       „         $  a.  47  (Collez.  Crim.,  N.  47  C,  suicida)  -  Regione  temporale  destra,  di  lato  e  dal- 
l'indietro —  a  Sutura  sagittale  anomala  della  squama. 
,     15a.  Osso  temporale  sinistro  di  $  giov.  (9-10  anni)  -  Faccia  cerebrale,  dall'alto  e  dall'indietro. 
„     16".  „  destro  di  9  di  6  anni  -  Faccia  inferiore  della   piramide    e    della  squama. 

17a.  „  sinistro  di  J  giov.  -  Dal  basso  e  lateralmente  (Il  tegmen  tympani  fu  com- 

pletamente asportato  assieme  al  condotto  uditivo  osseo). 
,     18".  Osso  squamoso  di  sinistra  isolato  di  J  giov.,  faccia  cerebrale. 
„     19a.  Satyrus  Orang  9,  2  anni  -  Regione  temporale  destra,  dal  basso  e  di  lato. 
„     20*.  Hylobates  hoolok  -  Fossa  infratemporale  destra,  dal  basso. 

„     21*.  Semnopithecus  entellus,  ad.  -  Regione  temporoparietale    destra,  di  lato  e  dall'indietro. 
„     22*.  Cercocebus  ftUiginosus  „  »  »         di  lato  e  dall'avanti. 

„     23».  »  -  Fossa  craniana    media,  dall'  alto   —  a  tratto    scoperto    del    canale 

infrasquamoso  posteriore. 
„     24*.   Maeaeu»  nemestrinus,  ad.  -  Piramide  temporale  sinistra,  dalla   taccia  inferiore. 
„     25*.  Oynopithecus  nigrescens  -  Piramide  temporale  destra,  faccia  cerebrale  dall'alto  e  dall'indietro. 
„     26:i.  Mycetes  seniculus  niger  -  Fossa  infratemporale  di  destra,  di  lato  e  dall'alto. 
„     27».   Canis  familiaris  -  Regione  temporale  di  sinistra,  dal  basso  —  a  docciatura  verticale  sulla 

faccia  dorsale  del  cono. 
„     28*.  ,  -  Fossa  cranica  media,  dall'alto. 

„     29".  Mustela  americana  -  Regione  temporale  sinistra,  dall'esterno. 
„     30*.  Felis  Catti*,  ad.  -  Regione  temporale,  dalla  faccia  inferiore  e  di  lato. 
„     31*.   Phoea  vitulina,  iuv.  -  Faccia  inferiore  regione  temporale  sinistra,  dal  basso  e  dall'avanti. 
„     32*.  Arctomys  mai-mota  9  ad.  -  Regione  temporale  destra,  di  lato. 
„     33*.  „  „         -  Osso  squamoso  destro,  faccia  cerebrale. 

34».  „        -  Metà  destra  del    cranio    dalla    Faccia     ìerebrale    e   di   lato   — 

pertura  endocranica  anteriore,  g  id.  posteriore  del  canale  temporale. 


BOVERO  e  CALAMIDA-Canali  venosi  emissari  temporali  ecc 

ì 


GRUPPI  DI   TRASFORMAZIONI  GEODETICHE 


MEMORIA 

DI 

GUIDO    FUBINI 


Approvata  nell'adunanza  del  22  Febbraio  1903. 


Il  problema  della  trasformazione  delle  equazioni  dinamiche  fu  assai  studiato  in 
recenti  lavori  :  io  mi  sono  proposto  di  determinare  quei  problemi  dinamici  le  cui  traiet- 
torie ammettono  un  gruppo  continuo  di  trasformazioni  in  sé  stesse,  e  che  presentano 
perciò  speciali  proprietà  per  la  loro  integrazione.  Ho  cominciato  naturalmente  dal  caso 
di  forze  impresse  nulle  ;  in  questo  caso  il  problema  si  può  tradurre  geometricamente  nel 
problema  di  trovare  tutti  gli  spazii,  che  ammettono  un  gruppo,  che  conservi  le  geode- 
tiche: a  questo  problema  è  riservato  il  presente  lavoro.  Sotto  questa  forma  il  problema 
non  è  nuovo;  già  il  Lie  lo  affrontò  per  il  caso  delle  superficie  senza  riuscire  a  risolverlo. 
Il  Koenigs  (cfr.  p.  es.  la  Nota  del  Koenigs  aggiunta  al  4°  volume  della  Théorie  des 
surfaces  del  Darboux)  indica  (*),  partendo  da  ricerche  generali,  un  mezzo,  con  cui  si 
potrebbero  per  le  superficie  completare  i  risultati  del  Lie.  Una  parte  del  problema 
in  questione  fu  già  completamente  da  me  risoluta  ("  Annali  di  Matematica  „,  1902), 
quando  ho  risoluto  il  problema  di  determinare  tutti  gli  spazii  che  ammettono  un 
gruppo  continuo  di  movimenti.  Però  ne  i'  metodi  da  me  seguiti  in  questa  memoria, 
né  i  metodi  del  Lie,  con  cui  l'illustre  analista  non  riuscì  a  risolvere  il  problema  per 
il  caso  delle  superficie,  possono  certo  bastare  per  la  trattazione  generale  del  pro- 
blema. In  questa  memoria  svolgerò  dei  nuovi  procedimenti  che  possono  bastare  per 
il  caso  di  spazii  a  2  o  a  3  dimensioni  e  che  anche  completano  quasi  interamente  la 
trattazione  per  il  caso  generale  di  spazii  a  un  numero  qualsiasi  n  di  dimensioni. 
Solo  appunto  in  questo  caso  generale  si  presenta  uno  specialissimo  caso  particolare, 
per  cui  non  mi  riuscì  di  esaurire  interamente  la  discussione.  Esempii  particolari,  dal 
cui  studio  non  riuscii  a  trarre  un  procedimento  generale,  mi  fanno  credere  però 
che  i  miei  metodi  possano  essere  sufficienti  per  studiare  con  bastante  rapidità  anche 


(*)  Cfr.  anche  Raffy,  "  Journal  de  Mathématiques  „,  1894.  —  Quando  il  presente  lavoro  era  già 
in  corso  di  stampa,  in  una  nota  dei  "  Comptes  Rendus  „,  Bodlangek  trova  un  elemento  lineare  a 
tre  variabili,  che  ammette  un  gruppo  geodetico  a  un  parametro  ;  il  metodo  usato  conduce  però  a 
equazioni,  che  allo  stesso  autore  sembrano  inestricabili. 


262 


GUIDO    FUBIXI 


questi  specialissimi  casi  eccezionali;  cosa  del  resto  che,  credo,  il  lettore  riconoscerà 
facilmente.  Come  esempio  di  trattazione,  io  svilupperò  poi  completamente  il  caso  di 
n  =  3,  e  accennerò  al  caso  di  n  =  2,  senza  però  sviluppare  per  w=2  tutti  i  calcoli 
relativi,  che  sarebbero  senza  interesse,  dopo  la  memoria  del  Koenigs.  Il  principio 
fondamentale  della  presente  memoria  consiste  in  questo:  mentre  le  equazioni,  cui 
devono  soddisfare  i  coefficienti  delle  trasformazioni  infinitesime  del  nostro  gruppo 
sono  alle  derivate  parziali  del  secondo  ordine,  ciò  che  rende  difficilissima  la  discus- 
sione, si  riesce  con  particolari  artifici  a  ridurre  il  sistema  al  successivo  studio  di 
sistemi  di  equazioni  alle  derivate  parziali  del  primo  ordine  e  molto  spesso  di  sole 
equazioni  alle  derivate  ordinarie. 


Sia 


(1) 


§  1.  Formule  preliminari. 


ds'2  =  Z  (/,t  dx,  dx,, 


l'elemento  lineare  di  uno  spazio  a  n  dimensioni.  Indicheremo  con  |a|  il  discriminante 
di  questa  forma,  con  Atlc  il  complemento  algebrico  di  a,k  in  questo  discriminante 
diviso   per   \a\   stesso.  Naturalmente   questo    è  lecito,  perchè   |« |=H=  0.   Indicheremo 

con      '  '     dove  i,  k,  l  sono  tre  indici  qualunque  della  serie  1,2,  ....  n   l'espressione: 

.   .  J_  /   ò"ii     i      orna  9a 

W  2    '    ftxt     '      te,  dxi  I  ' 


(3) 


Porremo  poi: 


i?i=s^ra- 


Indicheremo   con  (rk,  ih)  dove  al  solito  r,  k,  i,  h  sono  indici    qualunque  i   sim- 
boli di  Riemann: 


*■    •*  2    \  ÒXi  ftafc    '     ÒXrÒX),         ÒXhÒXk  teròx,  I     '     Z-é  \  L  m  J  L  l   J 

Questi  simboli  come  si  sa  soddisfano  alle  identità: 

(kr,  ih)  =  —  {rk,  ili)  =  (ih,  kr)  =  —  (kr.  hi) 


(5) 


[rk,  ih)  +  (ri,  hk)  +  {rh,  ki)  =  0. 
Porremo  poi,  indicando  con  r,  v,  i,  h  indici  qualsiasi: 


:J[T]: 


(6) 


!>-v.  i//j  =  Ii„(ri,  ih) 


:ì 


•i?j 


!)x\ 


òx, 


>s~ì  i  Sh)  ' 


3  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  263 

Come  è  noto  è: 
(7)  \rv,  ih{  =  —  }rv,  hi[. 

Dalle  formule  precedenti,  si  trae: 

raditi 

(8) 

(rk,  ih)  ==  I  «,..,  1  /7,  /A  '. 

Queste  notazioni  sono  le  stesse  che  il  prof.  Bianchi  usa  nella  sua  Geometria  Dif- 
ferenziale. Un  teorema  di  Schur  ci  dice  che  affinchè  lo  spazio  in  discorso  sia  a  cur- 
vatura costante  K  è  necessario  e  sufficiente  (se  n  >  3)  che  esso  sia  a  curvatura 
costante  K  in  ogni  singolo  punto  per  qualsiasi  orientazione.  Tradotto  analiticamente  (*) 
questo  teorema  ci  dice  che  se  è: 

(9)  (rk,  ih)  —  K(a„  aM  —  a  ,  <>.,..)  =  0 

(ciò  che  ci  esprime  costante  in  ogni  punto  la  curvatura  K)  è  K  una  costante;  e  lo 
spazio  è  a  curvatura  costante  K.  Moltiplicando  questa  relazione  per  A,r,  dove  v  è  un 
indice  qualsiasi  e  sommando  rispetto  a  k  da  1  a  n,  la  precedente  formula  diventa: 

(10)  )rv,  ih  j  —  K(ar:€h,  —  arhet,)  =  0 

dove  £/,»(«„)  sia  nullo  se  A==v(<  — v)  e  sia  uguale  a  "  1  „  nel  caso  contrario. 

Ricorderemo  ancora  che  se  xlt ...,  ~xn  sono  un  nuovo  sistema  di  coordinate,  e  se: 

To,.,I.,\iÌj' 

è  l'elemento  lineare  espresso  con  esse  sarà: 

/-, ,  v  V"*  _      te     òxk  .         ST1  te     te 

i,ì  i,k 

Forinole  analoghe  valgono  per  ogni  sistema  covariante  della  forma,  come  è  ben 
noto.  In  particolare  se  con  (rs,tk)  indichiamo  i  simboli  a  quattro  indici  per  la  forma 
trasformata  è: 

,i,n  z r~i       V1  ,  ■ ,    ,n  te       àxk      tei     òxi 

(12  (rs,tv)=  >   (ik,lil)-z= c=-  -5= 5= — 

y     '  v     '     '       Lj  te-     òx,      dxt      te 

ik.hl 

Consideriamo  ora  ima  trasformazione  infinitesima: 


(*)  Bianchi,  Sui  simboli  a  4  indici,  ecc.,   "  Rendiconti  dei  Lincei  „,  5  gennaio  1902. 


264  GUIDO    FL'BINI  4 

Denotiamo  con  e  una  costante  infinitesima:  e  applichiamo  questa  trasformazione 
al  nostro  elemento  lineare;  esso  diverrà: 

(14)  La,i.dx,dxt  -|- eX[Xa, -<lx.<lx  | 

che  noi  scriveremo  per  semplicità  sotto  la  forma  : 

Taikdx,dx,:  -f-  £Ì-a'ikda 

dove,  come  sappiamo  dalle  formuli'  del  Killing,  o.  come  si  verifica  tosto,  ricor- 
dando che  : 

X{Z.ailldxidx1)  =  'ZX(aik)dx,dxk  +  TarlldX(xr)  dx*  +  laridX(xr)dxi, 
abbiamo  che: 

r 

È  per  noi  ora  importante  la  seguente  considerazione.  Per  passare  dall'ele- 
mento (1)  all'elemento  (14)  si  può  anche  procedere  col  seguente  metodo:  fare  dap- 
prima il  cangiamento  di  coordinate  seguente: 

x,  =  ./,  +  a,{x\  ...  x'„)  {i  =  1,  2,  ....  n) 

dove  le  E,  si  deducono  dalle  E,  che  compariscono  nelle  (13)  sostituendovi  alle  x^.-.x,, 
le  x'1...x'n;  e  nell'elemento  lineare  trasformato  con  questo  cambiamento  di  variabili 
porre  le  xx ...  xn  al  posto  delle  x-l  ...x'„.  Mostrerò  ora  dapprima  come  da  questo  punto 
di  vista  le  (15)  si  deducono  subito  dalle  (11).  Poniamo  : 

Za„dxrdxs  =  1b,t(ìx't<ìx'h. 

Avremo  : 

,  V  ÒZr        ÒX, 

r,s 

Prendiamo  nel  secondo  membro  le  x\  ...  x'n  come  variabili  indipendenti  e  diamo 
alle  er, ,  efa  il  significato  più  sopra  stabilito.  Avremo  : 

2>.<* m|è=S[(^¥)(.+^)|^^)} 

Da  cui  sviluppando,  ordinando  secondo  e,  trascurando  le  potenze  di  e  di  espo- 
nente maggiore  di  1  troviamo  che: 

„  =«,M  +  e  ^W)  *&  +  2*40  ^  +  £«»<*')  ^ 

Ponendo  le  x%  al  posto  delle  x,'  troviamo  precisamente  le  (15).  Questo  stesso 
ragionamento  si  può  applicare  a  ogni  sistema  Xr,,„.  .,.„  covariante  ad  ni  indici. 


5  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  265 

Noi  disegneremo  sempre  d'ora  in  poi  sei  è  una  quantità  qualunque  relativa 
alla  (1)  con  A  +  e  A'  la  quantità  analoga  corrispondente  alla  (14).  Avremo  allora 
con  ragionamenti  analoghi  ai  precedenti: 

Se  Xr,r,...r„  è  un    qua ! u nque   sistema   covariante   ad  m  indici,  varranno  sempre   le 

formule  : 

(16)  A",,,  ..,.  =  £  [>  £  <*"  ■'->  +  X-  — •  "•'  &{  +  -  ] 

t 

dove  nel  secondo  membro  t  si  sostituisce  successivamente  a  r,,  r2,  r3)  ...  rm. 
In  particolare  otteniamo  : 

(17)  (ih,kl)'=^lZr~(ih,ty+(rh,kl)^+(ir,kl)^^^ 

che  è  per  noi  una  equazione  di  importanza  fondamentale. 

Se  noi  seguissimo  per  le  Aik  un  metodo  analogo  a  quello  tenuto  pei  sistemi 
covarianti,  potremmo  pure  trovare  le  A'm;  e  con  metodi  analoghi  trovare  le  formule 
anàloghe  alle  (16)  per  i  sistemi  controvarianti.  Noi  procederemo  per  maggior  brevità 
cosi.  Dalle: 

(a)  ZaikJih  =  elch 

si  deduce: 

Z(a'ikAih  +  aikA'ih)  =  0. 

Moltiplicando  per  Aky  e  sommando  rispetto  a  k  otteniamo: 

J\v  +  I-Ó,.l,.  ,i,,  =  o 
donde,  per  la  (15)  si  trae: 

(18)  A>^{Z,^-A^-Ah,- 

Dalla  (2)  si  trae: 

.,  \'  i  k  "y 5«'.i  j 

òxì  dxi 

Ricordando  le  (15),  sostituendo,  otteniamo  con  facili  riduzioni: 

(-)[?j=i[-£fe+^C"]+i-v]£+mt+L?j^]- 

Dalle  (3)  otteniamo: 

Ricordando  le  (18)  e  le  (19)  troviamo  le  formule  fondamentali  seguenti: 

<9M      \iki'—   a'e»    |  yr?    a  jik)  ,  \ir\  ae,    ,  \kr\  as,      \>kj  di. 

(        '  }v    S  ~  ÒXiòXH    "T"   Li  L    '    j7r|v(  +  |v|tet|»U  \   r   )■  dxr    J 

r 

Serik  II.  Tom.  LUI.  i1 


(»  2[?]  =  -tf+Ì 


266  GUIDO   FUBINJ  6 

Troviamo  infine  il  valore  di  )r\,ih\'.  Dalla  (6)  si  ha: 
|rv,  ih{'  =  Z[A'„(rl,  ih)  +  A  Ari.  ih)'  \ 

donde  per  le  (17),  (18)  si  ricava  con  facili  riduzioni: 

(21)    !,v,^;'  =  2[E'àirv'^-^^!'6+^i7C+''-v-/A^^!''v'^ 
t 

La  trattazione  in  alcuni  punti  acquisterebbe  di  simmetria  se  noi  considerassimo 
anche  le  variazioni  dei  primi  membri  delle  (9),  (10);  ma,  tanto  per  non  introdurre 
fin  da  principio  nuovi  simboli,  useremo  soltanto  quelli  finora  descritti,  anche  so  l'ele- 
ganza e  la  semplicità  dovessero  un  pochino  essere  diminuite. 

In  ogni  modo  la  considerazione  delle  )rv,  ih\'  è  uno  dei  punti  fondamentali  del 
presente  lavoro. 


§  2.  Formule  fondamentali. 

Noi  diremo  che  una  trasformazione  infinitesima  è  geodetica  per  un  dato  spazio. 
quando  il  gruppo  da  essa  generato  permuta  tra  loro  le  geodetiche  dello  spazio  stesso  : 
un  gruppo  generato  da  trasformazioni  infinitesime  geodetiche  sarà  detto  geodetico. 
Noi  ora  ci  chiediamo  quando  una  trasformazione  (13)  sarà  geodetica  per  (1).  Ciò, 
com'è  ben  chiaro,  avverrà  allora  e  allora  soltanto  che  su  (1)  e  (14)  si  corrispondano 
le  linee  geodetiche.  Noi  troveremo  ora  le  semplici  equazioni,  che  traducono  questo 
fatto;  esse  sono  di  grande  importanza,  e  contengono  le  derivate  seconde  delle  £ 
rispetto  alle  x. 

Per  lo  spazio  (1)  l'equazione  delle  geodetiche  è: 

m  ^.ydx^dx^^ikl  (i,k,t=l,2 n). 

yl>  <fea      '    Li  às       ds     ì  !  s  y 

i,k 

Indicheremo  con  A,  il  primo  membro  della  (1);  al  sistema  di  queste  potremo 
chiaramente  sostituire  il  sistema  equivalente: 

(2)  A,^-A,.-^  =  0  (•**)    (M  =  l,  2,  •..,«)• 

Però  mentre  nelle  (1)  la  variabile  "  s  „  è  l'arco  delle  geodetiche,  nelle  (2)  la  "  s  ., 
può  avere  un  significato  qualunque  o,  in  altre  parole,  nelle  (2)  la  "  s  „  è  un   qual- 
siasi parametro  individuante  i  punti  di  una  geodetica.  Osserviamo  ora  che  nella  (2) 
il  coefficiente  di    *"%**     se  i<¥t,  k^t   è  2J'*j;   il   coefficiente   di    **f^ 
k-  ■-,:  k^t,  è  2J'*J-2J*j;  infine  il  coefficiente  di   -^-  è  2  j'«  \-  \™\- 

Scriviamo  ora  le  equazioni  analoghe  alle  (2)  per  l'elemento  (14);  esse  natural- 
mente si  dedurranno  dalle  (2)  col  semplice  scambio  di  ogni  simbolo  yl  l  (1=1,2 n) 


7  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  267 

j„  'ykt  _|_e  J'7'"!';  e  ciò,  appunto  perchè    nelle  (2),  il  significato  del   parametro  *  s  , 

non  è  determinato.  Affinchè  dunque  sugli  elementi  (1)  e  (14)  del  §  1  si  corrispondano 
le  linee  geodetiche  dovranno  essere  nulli  i  coefficienti  di  "  e  „  nelle  nuove  equazioni 
testé  costruite  per  l'elemento  (14),  ossia  dovranno  essere  verificate  le: 

(3)  2!?(-  j?j'HVf=°       (^M^;M,*=i,2,...  ,»). 

Le  equazioni  (3)  ci  danno  sotto  una  semplice  forma  simbolica  le  equazioni 
richieste,  che  sono  le  equazioni  fondamentali  del  nostro  problema.  Ma  lo  sviluppo 
effettivo  del  sistema  (3)  conduce  a  un  sistema  di  equazioni,  che  è  tutt'altro  che  facile 
approfondire.  Altri  saranno  i  metodi  che  noi  useremo. 

È  tale  però  l'importanza  delle  (3)  che  noi  le  vogliamo  ritrovare  in  un'altra  ma- 
niera, che  ci  darà  un'  altra  forma  elegante  delle  nostre  equazioni  fondamentali. 

Consideriamo  una  geodetica  qualunque,  di  cui  individueremo  i  punti  per  mezzo 
di  un  parametro  qualunque  t  ;  poniamo  : 

dxi       ■■  <fxi  ,/-^ ; — ; — 

''  =  -,—  ,   *t  =  — S3-1  v  =  K  X'^.r.x,. . 
ut  dt 

Le  equazioni  della  geodetica  si  potranno  scrivere: 

W  ZL¥^]-2£|ZvM=0         ('=!.*. ) 

La  variazione  del  primo  membro  corrispondente  alla  X  deve  essere  identicamente 
nulla  in  virtù  delle  (4)  stesse. 

Ciò  che  dà,  posto   W=  Za'npinip: 


V(  1     òa'tk  1     òaa    W  ì   .  .  ,    d  V  r  a'a  1        w  1  • 


Poniamo  ora  t=s,  dove  con  s  indichiamo  l'arco  della  geodetica;  col  che  v=l, 
le  (4)  diventano  equivalenti  alle  (1);  sostituendo  nella  (5)  la  1  al  posto  di  v  e  ponendo 
in  luogo  delle  sk  i  valori  che  se  ne  traggono  dalle  (1)  otteniamo  con  facili  riduzioni: 

(6)  ^  AJ.',\.h  =  —  2/^.-.'',.  ^7  (£«'>,,<<'■  )  (J=l,  2, ...,  »). 


dove  : 


Uhi' 


Per  le  (1)  la 
(8)  —  (la'^à,   ;  I 

che  comparisce  nel  secondo  membro  delle  (6)  si  può  considerare  come  una  forma  di 
terzo  grado  nelle  x,  (i=l,  2, ...,  n).  Essa  ha  un  notevole  significato  geometrico,  come 


268  91  11)0    Fl'BINl  b 

risulta  dalla  (14)  (§  1).  Per  le  (6)  abbiamo  dunque  che  —  (Za'mpxmxp)  dev'essere  in 
virtù  della  ?.am,Amx,,  =  1  uguale  a  una  forma  di  primo  grado  nelle  x,;  e  che  a  questa 
medesima  forma  devono  essere  uguali  tutti  i  quozienti: 

£.1'    iltXiXt 

(GÌ  —£-= : (/=1.   2 »). 

k 

Questa  condizione  non  è  altro  che  un'altra  forma  della  condizione  (3).  Ciò  che 
si  conferma  del  resto  facilmente  col  calcolo  effettivo.  Infatti  moltiplichiamo  numera- 
tore e  denominatore  della  (9)  per  Alv;  e  sommiamo  tanto  al  numeratore  quanto  al 
denominatore  rispetto  a  l.  Essendo  tutte  le  (9)  uguali,  otterremo  così  un'altra  fra- 
zione uguale  ad  esse,  che  per  la  (7)  è: 

,.k  I   r  \ 


Affinchè  questo  quoziente  sia  una  forma  di  primo  grado  nelle  x,  deve  essere 
appunto  y  '(  =0  per  iM=v,  A-  =!=?>.  Questo  quoziente  diventa  allora: 

(8'»  »[jvf*+,,S{':j*] 

dove  i  percorre  tutti  i  valori,  eccettuato  il  valore  v.  Questa  ultima  espressione  d(  ve 
essere  poi  indipendente  da  v\  ciò  che  dà  che  se  iM=v   devono   essere    verificate   le: 

w/' ->  S'  r)' 

I    ,    S  "  -  /    r   S    ■ 

Queste  equazioni  sono  appunto  le  (3).  Quanto  di  nuovo  abbiamo  perii  appreso 
da  questa  discussione  è  l'elegante  significato  geometrico  (8)  della  espressione: 

(b   )  Li  >   >•  \       ds 

e  le  altre  semplici  forme  sotto  cui  questa  stessa  espressione  si  può  scrivere.  Questa 
forma  (8")  è  covariante,  nel  senso  che  non  muta  il  suo  significato  col  variare  del 
sistema  coordinato;  ciò  che  ce  ne  dà  una  assai  curiosa  particolarità;  essa  ci  misura 
la  derivata  seconda  rispetto  all'arco  di  una  geodetica  dell'incremento  che  per  la  X  subisce 
l'arco  stesso  (diviso  per  (.). 

§  3.  Equazioni  del  primo  tipo 
alle  derivate  parziali  del  prim'ordine  per  le  E.. 

Come  abbiamo  già  detto  nell'introduzione,  noi  vogliamo  trovare  delle  equazioni 
alle  derivate  parziali  del  primo  ordine  per  le  lT.  Con  due  particolari  artifici  noi  ne 
troveremo  due  sistemi;  e  comincieremo  intanto  dal  primo. 


9  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  269 

Dalle  (6)  del  §  1  abbiamo  chiaramente: 
Ariì'      Arhr 

che  naturalmente  dev'essere  equivalente  alla  (21)  del  §  1.  Sia  ora  p.  es.  v  — r,  v=M, 
v=#/i.  Otterremo  per  le  (3)  del  §  2: 

iv|-iv|-U' 

Cosi  pure  dei  termini  che  compariscono  nella  sommatoria  del  secondo   membro 
sono  differenti  da  zero  soltanto  i  termini  (se  è  ancho  r  =4=  i,  r  =4=  li)  : 

{riì'krhì       iril'Uh).    \  r  i ì  ivhì'  _  \rhYiril        \rhY  Ufi        l  Wi  J  IviJ' 
!fi!v|t!n|vjt[v}(ȓ         f  r  H  v  J       (Mfvi        |vjiv| 

Ma  per  le  (?>)  stesse: 

JrrfJ'lvtJ'     \riY_ir\V     JvAl'_J**J' 

Se  ne  conclude  che  anche  tutta  la  somma  del  secondo  membro  della  (1)  è  nulla. 
Avremo  perciò  che: 

(2)  \rv,ih\'  =  0  (v4=r,  v=K  v=4=/t) 

nel  caso  che  sia  anche  r=M,  r=j=A.  Ma  si  vede  tosto  che  queste  disuguaglianze 
ultime  sono  superflue.  Intanto  osserviamo  che  se  i  =  h  la  (2)  è  identica;  cosicché 
supposto  p.  es.  r  =  i ,  potremo  ammettere  r  =4=  h.  In  questo  caso  unici  termini  non 
nulli  tra  quelli  che  compariscono  nella  sommatoria  del  secondo  membro  di  (1)  sono: 

liiì'lihì    |    iiiìivhì'       |f*J'U»;       Uhl'iiil       UA)jv»7 

Mlf»)"*"!»)!»)     ìmIvì    f  f  n v j    [vii»! 

E  questa  espressione  è  ancora  nulla,  perchè  per  le  (3)  del  §  2,  ij  : 

(t  f  {'_  o  J*<ì'_  9$  Vi  1'  _  Uf  )'     ,     J»  *)'.     \  v/,  )'  _  l*«' 

La  (2)  è  perciò  dimostrata  in  generale. 
Sia  ora  r  =  v ,  r=4=  i,  r  =4=  A. 

In  questo  caso  avviene  ancora  che  la  sommatoria  del  secondo  membro  delle  (1) 
è  nulla  perchè  unici  termini  non  nulli  sono  : 

iriì'irhì    i^riì'iihì  j_iri)  irh)'        Irhl'Lriì         irh)' ihi\  _  irkì  iriV 
}  r  \\A  +  \iS}r\+\r\\r\~\  r  \  \  r%\        \  h  \  \r  j         \  r  \}r] 

che  si  riduce  a: 


270  GUIDO    FUBIN'I  10 

che  è  nulla  per  le  (3)  del  §  2;  il  termine: 


per  le  (3)  del  §  2  è  uguale  a 


e  dipende  perciò  soltanto  dai  valori  di  i,  h  e  non  da  quello  di  r;  cosicché,  se  abbiamo 
un  quarto  indice  s  tale  che  s  =+=  i ,  s  =4=  v ,  sarà  : 

(2')  )rr,  ih\' —  \ ss,  ih[  =  U  (s#=i,  s4=A)  (r=j=i,  r=(=A). 

Se  s  =  r,  oppure  i=h  quest'equazione  è  un'identità. 

Sia  ora  v  =  h;  allora  si  trova  facilmente  che  per  le  (3)  del  §  2  se  r- 


Ari)' 

•w 

ÙXh 

'.''. 

1 

[•IVI' 

•{Yil 

•2 

ÒXh 

dxt 

rh,  ihl'  — 


dx,        -T  |   r  J   ?  ft  J  "T"  |   »  H  M  "+"  4J  ?  I   5  ?  /'  * 

_  s  '•/'  i'  }*•**_$  »■*  n  *'i  _  i r/'  ì  i  **ì' — 

di  rri' 

2        òxì         *     2  La}  l   Sì  l\     >)  h\ì  h  \  2  ')  h\  ]  h  S 

irrì' 


+  2  Zj  n  « 


2        dm       ~T    2  Là')  1  S  I  I  \ 
i 

Questa  espressione  non  dipende  evidentemente  da  "  h  „.  Indicando  con  k  un 
quarto  indice  avremo  perciò: 

(2")  )  rh,  ih  ('  —  )  ?•/,-,  i k['  =  0  (r  =!-=/<,  »={=A,  *•#=&,  i=!=A-) 

Si  verifica  infatti  analogamente  a  quanto  abbiamo  fatto  più  sopra  che  questa 
equazione  vale  anche  se  r  =  i. 

Le  (2),  (2'),  (2")  ci  danno  un  semplice  sistema  di  equazioni  alle  derivate  par- 
ziali del  primo  ordine  per  le  Sr,  sistema  che  è  naturalmente  per  noi  della  massima 
importanza.  Noi  vedremo  infatti  più  tardi  che  non  useremo  quasi  mai  delle  equa- 
zioni (3)  del  §  2,  alle  derivate  parziali  del  second'ordine  nelle  "  E  „.  E  in  particolare, 
useremo  specialmente  delle  (2)  che,  com'è  chiaro,  sono  più  semplici  che  le  (2'j  e  le  (2"). 


§  4.  Prirne  conseguenze  delle  equazioni  del  §  2. 

Una  prima  conseguenza  immediata  è  questa:  Se  una  trasformazione  conforme  è 
insieme  geodetica,  essa  è  una  trasformazione  simile.  Infatti  se  una  trasformazione  X  è 
conforme,  avremo  che  a'it  =  \a,,, ;  dove  X  è  funzione  delle  coordinate.  Dico  che  se  X  è 


11  SUI    GRUPPI    DI    TKASFORMAZIONI    GEODETICHE  271 

anche  geodetica,  deve  essere  X  costante.  Infatti  dalla a'ai=\aik  si  trae  perla  (a)  (§  1) 
A'tk  —  —  \Alk  e  per  la  (t)  dello  stesso  paragrafo: 

La  (P)  del  §  1  ci  dà: 

Fikl'      .  I  ikl    ,     1  T      dX    ,  òX  dX  1 

E  l'equazione  precedente  diventa  dunque  per  le  (a)  del  §  1  : 

Ma  se  i  =4=  v,  A;  =4=  v  questa  espressione  dev'essere  nulla  per  la  (3)  del  §  2  anche 
se  i  =  k.  E  poiché  a,*  =4=0,  se  »  =  &  (perchè  restiamo  nel  campo  reale)  sarà: 


2 


4,-^  =  0 


qualunque  sia  poi  l.  Poiché  il  determinante    \AU\   che  è  reciproco  di  \a\  è  differente 

da  zero,  è  ben  chiaro  che  - — =0  ossia  X  =  cost.  Viceversa  è  evidente  che  una  tras- 
òxi 

formazione  simile  è  geodetica  conforme. 

Dimostreremo  ora  che  dalle  (3)  del  §  2    si    possono    dedurre   le  derivate  terze 

delle  it1  £2,  ...,  E„  in  funzione  delle  E,  stesse  e  delle  loro  derivate    prime   e  seconde. 

E  poiché  le  (2)  del  §  3    ci    danno    espresse  tutte   le    derivate   seconde   in   funzione 

delle  E,,  delle  loro  derivate  prime   e  delle  -r-4-  ,  ne  risulterà  che  una  trasformazione 
r  dx \ 

geodetica  è  determinata  quando  sono  dati  i  valori  delle  E,-,  delle  5—  edelle ^—t(i,k=l,2..n), 

ossia  quando  sono  dati  n  (n  +  2)  costanti  ;  il  gruppo  geodetico  di  uno  spazio  qua- 
lunque non  può  perciò  contenere  più  di  »(«  -f-  2)  costanti  arbitrarie.  Le  equazioni 
del  §  3  dovranno  naturalmente  potersi  ottenere  come  condizioni  per  l'integrabilità 
del  nostro  sistema;  il  numero  massimo  n(n-\-2)  di  costanti  arbitrarie  non  potrà  esser 
raggiunto,  che  quando  queste  equazioni  siano  identità. 

È  intanto  ben  chiaro  che  dalle  (3)  del  §  2  si   possono    ottenere    tutte   le    deri- 
da 
vate  -t— t — r —  (l^=i,  l=\=k)  in  funzione  delle  E,,  delle  loro  derivate  prime  e  seconde. 

Per  far  questo  basta  ricordare  che  è  sempre  in  questa  ipotesi: 

_J_W_o 

dx,  Uì 

Supposto  poi  sempre  i  =f=  l,  l  =)=  k,  la  : 

ci  permetterà  di   ottenere    .    "  ,    in  funzione  di  -,    .  "', — ,  delle  E,  delle  loro  derivate 
OXioari  riXiO.rhO.ri 


272  GUIDO    FUBINI  12 

prime  e  seconde  ;  ossia  per  il  risultato  precedente  anche  in  funzione  soltanto  delle  £, 
delle  loro  derivate  prime  e  seconde.  Infine  dalla: 


[ì'/f-i  ì'/ì'j-»  e*« 


otteniamo,  ricordando  il  precedente  risultato  relativo  a     ^       ,    .  che  si  potrà  espri- 
mere anche  f-J-  in  funzione  al  solito  delle  E  e  delle  loro  derivate  prime    e  seconde. 
Sari 

A  noi  non  interessa  però  di  scrivere  effettivamente  le  formule  definitive. 

Soltanto  osserveremo  che  quando  lo  spazio  ammette  un  gruppo  geodetico  con 
n(n-\-2)  parametri,  esso  è  uno  spazio  a  curvatura  esimiti-,  e  il  gruppo  corrispondenti 

ciò  propria  il  gruppo  proietti m  degli  spazii  ad   "  n  „   dimensioni. 

Infatti  in  tal  caso  (Lie,  Transformationsgruppen,  tomo  1°,  teor.  112)  il  gruppo  è 
appunto  simile  al  gruppo  proiettivo  su  n  variabili;  da  ciò  si  deduce  facilmente  che 
lo  spazio  è  geodeticamente  applicabile  p.  es.  su  uno  spazio  euclideo  ed  è  quindi  a 
curvatura  costante  per  un  noto  teorema  di  Beltrami. 

Daremo  ora  un  esempio  particolare  di  applicazione  delle  precedenti  formule, 
risolvendo  una  questione  interessante  per  la  geometria  degli  spazii  a  tre  dimensioni, 
che  ammettono  un  gruppo  G±  di  movimenti  a  4  parametri.  Se  noi  p.  es.  prescindiamo 
dalle  questioni  di  realità,  abbiamo,  come  dimostrò  il  prof.  Bianchi  {Sugli  spazii  a  tri- 
dimensioni,  ecc.  "  Memorie  della  Società  Italiana  delle  Scienze  „,  1897J,  due  soli  tipi 
di  tali  spazii,  i  cui  elementi  lineari  sono  : 

(I)  dx\  -\-  dx\  -\-  2 x1dx2dx3  -4-  (x\  -\-  l)dxl 

(II)  dx\  +  i-'ulA  -\-  2neXìdx2dx3  4-  dx\  (m=cos  t 

i  cui  gruppi  di  movimenti  non  sono  simili.  Noi  ci  chiediamo:  Sono  questi  due  spazii 
applicabili  geodeticamente  l'uno  sull'altro?  Se  questo  fosse,  dovrebbe  esistere  una 
trasformazione  che  conducesse  le  geodetiche  dell'uno  su  quelle  dell'altro,  e  quindi 
anche  il  massimo  gruppo  geodetico  del  primo  sul  massimo  gruppo  geodetico  dell'altro. 
E  poiché  i  due  spazii  hanno  ciascuno  un  gruppo  G4  di  movimenti  non  simile  a  quello 
dell'altro,  bisognerà  intanto  che  l'uno  e  l'altro  posseggano  un  gruppo  geodetico  a  più 
di  4  parametri.  Sarà  dunque  da  risolvere  la  questione  preliminare.  Ammette,  p.  es., 
lo  spazio  I  un  gruppo  geodetico  a  più  di  4  parametri?  Noi  dimostreremo  ora  di  no; 
e  sarà  allora  dimostrato  che  gli  spazii  I,  II  non  sono  geodeticamente  applicabili.  Per 
vedere  questo  costruiamo  intanto  i  simboli  a  3  indici  per  lo  spazio  1°.  Si  trova:  che 
tutti  sono  nulli,  eccetto  che  i  seguenti: 

\SSi_  i  12  i x,     U'^_l      S  23  ^ J_     \13t_  1-A  .   M3/    |     x, 

?  1  S~  _  Xl'  ?  2  \ 2  ;  1  3  )~  T'  ?  1  S~~         2  '  )  2  S ~      2      '  ì  3  W     2  ' 

Le  equazioni  (3)  del  §  2  diventano  così: 


w  /  1  1  ò.r2,    '      '  dar,  dx3  L   bx3 


W  In-  òxsbx3  "T"    2     (V,  2    d.T3  2     dx2        Xl    òxt 


13 
(T) 
W 
(€) 

(2) 

(n) 

(6) 

(0 


SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE 


273 


US 


ò% 


Ò^'i 


da:2 
1  d.r, 


+  (1-^) 


d£3 
òri 


!828f=ft+^-&-' 


hr 

4  Hi'. 

?  3  S 

I22i' 
j  3  \ 

ii2  e 

/  8  \ 


d;£2 


da^da^ 


da:, 


1-a:2,  d£2 


da;2 


-^-+1^+^  =  0 

da;-,  Ò^l  0#1 


a*ga 

da-22 

d2E3       .     .r,    ò£3  1    d£3 

da:,da'2  2    da:»         2    òx3 


4^  =  o 
ox3 

a,  ò£a    |  1—  &\    àii    .    1— a:2,  j)E3 

"  "2~  da-3    '  2       òxi    '         2      òx3 


J_   d£,      |J_^fi_l_*lÒ£3  0 

2   da;,     •"   "    »--  "  "    "    A~ 


a-,  _d£j 
~2~da^ 


=  0 


2    da-2^    2   da 


l  Jlli'_)12i'_<18i'        1_  i  22  i' (  21 1' <  23  i'        1_  }  33  i'  _  V 13  4'  _  1  23  i' 

Fhi~|2!_(3Ì;      2  ?  8  I  — f  1  J        C  S  ?  '      2  ?  3  S  ~  ?  U         ì  2\ 


Le  equazioni: 

M 

diventano  infine: 
(X) 


(M) 
(v) 
(0) 
(tt) 

(p) 


1  d2s, 

2  da-2, 


ò% 


da-,da:2 
d3E3 


ih 


da-,da:3~^   2    *' 


J_d^ 
'   2    d*3 

1-a;3,   dj 

2        da;2 


a^dj^    ■    1  -x\   d£3 
2  daji     '         2       da:2 


A--"1"   2   da;,"1"    °    »- 


2    da-, 


1  d%   a-,  d£^  __     d2£,       ,     a;,  jfa 

2  da;22  2  da-a         da:,da-2    '      2     da: 

d2£ 


1  d£, 

2  da;3 


J^d£, 
2  da-, 


da;3da;2     '     2     da:,      '      2    da;2   "T"   2    da:3 


\r- 


da-,da;3 


agi  \  _    re 

t;2d 
1  —a:1,    d£,         a-,  d£, 


d2£3     >„  B.-Lr   *3l\  —     ò***  "  4-  J   ^  _  iì 

'^d*,  "r"^  daj  ~~   da;2da-3  "•"   2    da-,  2    da-3 


a-,     d£,    ,      1— a;2,     d£. 


da:2 


da:2 


J_  d£a  _  x     d% 

2   da;3         2    da;,  x  da;. 


Se  noi  deriviamo  la  (a)  rapporto  x2,  la  (P)  rapporto  (%)  e  sottraggiamo,  ricor- 
dando le  seguenti  otteniamo: 


da;2 


=  0 


per  cui  dalla  (t)  si  ottiene: 


■'■:. 
da?g 


=  0 


ossia 


ossia 


h  =  h  (*i,  *») 


:  £3(^1,  X3). 


Dalle  (p),  (1)  sottratte  l'ima  dall'altra  si  ottiene  : 

0         ossia         52  =  £2  (xt,  xs) 


Ì..C-2 


Sebie  li.  Tom.  LUI. 


274 

GUIDO    PUBENI 

col  che  le  (8),  (i) 

Ihnno: 

mentre  la  (v)  dà: 

dii  =  te3 

ÒX3 
ÒE,   _           dls 

14 


Le  quali  due  ultime  equazioni  ci  dicono  intanto  che  EXl  S2  sono  funzioni  armo- 
niche coniugate  delle  variabili  a;, ,  x3.  Le  (b),  (e)  sommate  ci  dicono  che  anche  E3  è 
armonica  nelle  variabili  ;ru  .<y   Per  le  precedenti  equazioni  la  (a)  si  potrà  scrivere: 


■-«.)  =  »■.<<-' 


E  la  (n)  si  può  scrivere: 

Quindi  anche  ■riè1,  y-3 Eg  sono    armoniche  coniugate.    Poiché  £j  e   .r,  E,    sono 

ambedue  armoniche,  dovrà  essere   r-1-  =0,  donde: 

A/-':  a»  dar, 

Ma  la  -T-T-  =  0        si  può  scrivere:        -r — j^-=0. 

OX   3  r  !<.,'/ 

Questa  equazione  insieme  alla  -  ",  =0  ci  dice  che  ?—  =k  dove  &=cost.  Da 
cui  si  deduce,  indicando  con  h,  l  nuove  costanti: 

Es  =  te,  +  A 

Él  =  —  *».  +  l. 

E  poiché  .r1El  è  coniugata    armonica    di  -y1 E2  si  deduce  indicando  con  m  una 

nuova  costante: 

h  =  -j  iA  —  «!)  —  i-r-s  +  w  • 

Il  gruppo  geodetico  più  ampio  dello  spazio  in  discorso  ha  perciò  soltanto  4  pa- 
rametri e  coincide  quindi  col  gruppo  di  movimenti  dello  spazio  stesso. 

La  nostra  questione  è  perciò  risoluta. 

Un  metodo  analogo  si  può  naturalmente  applicare  alla  ricerca  del  gruppo  gì  - 
detico  più  ampio  dello  spazio  II,  anzi  di  uno  spazio  qualunque. 


§  :>.  Secondo  tipo  di  equazioni 
alle  derivate  parziali  del  primo  ordine  per  le  Er. 

Daremo  in  questo  paragrafo  delle  nuove  equazioni  alle  derivate  parziali  del  primo 
ordine  per  le  E,  che  in  alcuni  casi  offrono  il  mezzo  più   comodo   per   la   discussione 


15 


SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE 


■li: 


del  nostro  problema,  e  specialmente  nel  caso  di  n  =  2,  in  cui  le  equazioni  del  §  'A 
si  riducono  a  identità,  danno  un  mezzo  diretto  per  la  risoluzione  del  problema  di  Lie. 
Per  ottenere  queste  equazioni,  ricordiamo  che,  come  abbiamo  già  osservato,  aftinché 
una  trasformazione  infinitesima  sia  conforme,  devono  essere  soddisfatte  le  equazioni: 


(«) 


U".). 


dove  u  sia  una  funzione  delle  coordinate  dei  punti  dello  spazio;  se  poi  u  è  costante, 
le  (a)  ci  esprimono  le  condizioni  necessarie  e  sufficienti,  affinchè  la  trasformazione  in 
discorso  sia  insieme  conforme  e  geodetica.  Noi  cercheremo  ora  di  generalizzare  le  (a) 
e  di  ottenere  un  sistema  di  equazioni  di  tipo  analogo,  che  valgano  per  ogni  trasfor- 
mazione geodetica  non  conforme.  Per  ottenere  questo  ricorderemo  i  noti  risultati  del 
prof.  Dini  (che  già  il  Lie  stesso  conosceva)  generalizzati  dal  prof.  Levi-Civita  alle 
varietà  di  un  numero  qualunque  di  dimensioni.  Il  risultato  del  prof.  Levi-Civita  è 
il  seguente  (Cfr.  "  Annali  di  Matematica  „,  Sulle  trasformazioni  delle  equazioni  dina- 
miche,  1896): 

Se  due  spazii  S„  sono  geodeticamente  applicabili  l'uno  sull'altro,  i  loro  elementi  lineari 
sono  riducibili  alla  forma: 


(1) 


(2)      da*-- 


ds* 


TT/(y;,, .  —  ij/„,)      I       KTSdxTdx, 

1  ',»=ph+i 


{«■VP,  +  &)(<iVr?-\-t)-{.<*'Vpn- 


'  &  Zj  ayp. 


<*M>Pi  +  P 


TT',  {yp 


Hip)       I        A'  ,</./■.  dx, 

'r.«=pi_1-t-l 


Ecco  ora  il  significato  dei  varii  simboli.  1  numeri 


Po ,  Pi,  Pi, 


Pn-m  -  . 


sono  numeri  posti  in  ordine  crescente,  tali  che  p„_m+l=  r,  y0  =  0;  m  è  un  intero  non 
maggiore  di  n.  Si  può  supporre  anche  che  le  p  si  susseguano  in  modo  che  le  dif- 
ferenze di  due  p  consecutive  non  vadano  crescendo;  i  simboli  a,  R  indicano  costanti 
qualsiasi.  Quanto  alle  yPì,  se  p,^  -f-  1  =  pt ,  allora  *pPi  è  una  funzione  di  xPl  ;  se  invece 
i  >  1  allora  ty,,,  è  una  costante.  Le  \\>Pl  devono  però  in  ogni  caso  essere  distinte 
l'una  dall'altra.  Li'  K...  dove  r,  s  sono  indici  compresi  tra  p,_[-j-l  e  p,  sono  funzioni 
qualsiasi  di  xPl_l-\-l,xPli-\-2,  ...,xPr  Se  p,  —  p,_,  =  1,  allora  di  tali  K„  havvene  una 
sola,  a  cui  si  può  dare  il  valore  1. 

Infine  nei  fattoriali  Tì't(}i>p —  hiPì),  /  percorre  tutti  i  valori  1,  2,  ...,  n  —  m-{  1 
eccetto  che  il  valore  j=l. 

Noi  faremo  anzi  sempre  la  convenzione  che  accentuando  il  simbolo  di  fattoriale 
(sommatoria)  si  debbano  escludere  quei  valori  dell'indice  variabile,  che  danno  un  fat- 
tore nullo  (un  addendo  infinito  o  indeterminato). 

Facciamo  ora  alcune  osservazioni  sugli  elementi  lineari  (1),  (2).  Se  fosse  m  =  n, 
le  p  e  le  ijj  si  ridurrebbero  alla  p0  =  Q,  aliaci  e  alla  vy,,,;  la  \\>Pì  sarebbe  una  costante 
e  i  due  elementi  lineari  sarebbero  simili;  noi  escludiamo  senz'altro  questo  caso.  Divi- 


276  GUIDO    FUBINI  16 

deremo  allora  le  variabili  .f,  .r, e„  in  tanti  gruppi  ponendo  in  un  medesimo  gruppo 

le  XiX2 ....  :/>,;  in  un  secondo  gruppo  le  xPt+i ,  xPì+2....xp,  e  così  via.  Diremo  che  duo 
variabili  sono  della  stessa  specie,  o  anche  che  i  loro  indici  sono  della  stessa  specie, 
quando  appartengono  a  uno  stesso  dei  precedenti  gruppi.  Se  alcuni  di  tali  gruppi 
sono  formati  di  una  sola  variabile,  essi  per  l'ipotesi  fatta  saranno  i  frinii  di  tutti. 
Noi  diremo  che  le  variabili  e  gli  indici  corrispondenti  sono  del  primo  sistema  :  cosicché 
se  di  tali  gruppi  ve  ne  sono  t  noi  diremo  che  il  primo  sistema  contiene  t  variabili 
e  indici  ;  denominazione  che  conserveremo  anche  se  t  fosse  uguale  a  zero.  Le  varia- 
bili e  gli  indici  poi  di  specie  t+1,  t+  2, si  diranno  rispettivamente  del  secondo, 

del  terzo  sistema  e  così  via.  Il  sistema  cui  appartiene  un  indice  si  indicherà  con  un 
affisso;  p.  es.  con  r,  indicheremo  un  indice  del  v-esimo  sistema;  con  ri"'  invece  indi- 
cheremo un  indice  di  specie  v.  Infine  diremo  elemento  lineare  aggiunto  dell'  ele- 
mento (1)  l'elemento 

dsi  =  n'z\T]/(wPj— VPl)~\dxl 

Se  ognuno  dei  numeri  p  supera  di  1  il  precedente,  l'elemento  lineare.  (1)  coin- 
cide col  suo  elemento  aggiunto. 

Faremo  poi  la  seguente  semplice  osservazione,  che  insulta  senz'altro  chiara  dalla 
Memoria  del  prof.  Levi-Civita  citata. 

Data  la  corrispondenza  geodetica  tra  gli  spazii  (1),  (2),  il  sistema  delle  xx,  x2,....  x„ 
è  completamente  individuato,  se  ogni  specie  contiene  una  sola  variabile.  In  caso  opposto 
vi  è  una  indeterminazione,  la  quale  proviene  dal  fatto  che  alle  m  variabili  di  una  stessa 
specie  possiamo  sostituire  come  coordinate,  in  loro  funzioni  indipendenti  qualunque.  Quest'os- 
servazione sarà  nel  seguito  per  noi  abbastanza  importante. 

Consideriamo  ora  una  trasformazione  infinitesima  X,  che  supponiamo  geodetica 
non  conforme  per  il  nostro  spazio  (1)  del  §  1.  E  consideriamo  una  trasformazione 
generica  T  del  gruppo  G1  da  quella  generato.  La  trasformazione  T  stabilirà  una  cor- 
rispondenza geodetica  non  conforme  tra  due  pezzi  distinti  della  varietà  e  perciò  nel- 
l'intorno di  un  punto  0  regolare  per  X  e  per  la  varietà,  ci  definirà  un  sistema 
coordinato  (di  cui  abbiamo  già  vista  la  eventualmente  possibile  indeterminazione)  che 
dovrà  fare  assumere  all'elemento  lineare  la  forma  (1)  del  paragrafo  attuale.  Facciamo 
tendere  ora  la  trasformazione  T  verso  l'identità.  Questo  sistema  coordinato  tenderà 
verso  un  sistema  limite,  che  noi  diremo  un  sistema  canonico  relativo  alla  nostra  tras- 
formazione. La  sua  possibile  indeterminazione  è  precisata  dall'osservazione  precedente. 
La  trasformazione  infinitesima  X  dovrà  mutare  l'elemento  (1)  in  un  elemento  del 
tipo  (2)  però  infinitamente  vicino  al  tipo  (1).  Quando  mai  può  avvenire  che  un  ele- 
mento lineare  (1)  e  un  elemento  (2)  siano  infinitamente  vicini?  Ciò  non  può  avvenire 
che  quando  a,  8-1  siano  quantità  infinitesime  che  noi  potremo  indicare  rispettiva- 
mente con 

/)  q 

—  e —  e  — - — 

n  —  m  -f- 1  n  —  m 

dove  p,  q  sono  nuove  costanti.  Fatte  queste  posizioni,  dovrà  l'elemento  (2)  essere 
uguale  al  trasformato  di  (1)  per  A",  ossia  esso  dovrà  essere  uguale  a: 

ZaadXidx*  +  tX('Za,i.<l.r..dxk)  —  Iff,,,f/.r//.;\.  +  eJ.a'ilcdXidxl 


17  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  277 

dove  con  Ta,kdx,dxk  indichiamo  l'elemento  (1).  Sviluppando  i  coefficienti  di  (2)  rispetto 
a  €  e  trascurandone  le  potenze  superiori  alla  prima,  si  trova  infine: 

(3)  (l=l,2,...,n— m  +  l)(*>*=|>l_i  +  llpw  +  2,...,l»0; 

'<',l—(l„:['l  +  PH>l  -\-P(Wp,  +  M'ft+  —  +  %'„_„,  +  ,)]• 

Sono  queste  le  equazioni  cercate,  che,  com'è  chiaro,  dipendono  soltanto  dalle  derivate 
prime  delle  l.  Naturalmente  le  (3)  del  §  2  sono  una  conseguenza  differenziale  di 
queste,  che  si  deduce  da  esse,  eliminando  le  costanti  p,  q.  Ma  non  viceversa  dalle  (3) 
del  §  2  si  possono  dedurre  queste  ultime  equazioni  ;  le  quali ,  com'  è  ben  chiaro, 
non  valgono  che  se  il  sistema  coordinato  è  già  sistema  canonico  per  la  trasforma- 
zione. Se  noi  facciamo  p  =  0  otteniamo  le  (a)  relative  alle  trasformazioni  simili. 

Del  resto  anche  per  queste  valgono  le  precedenti  considerazioni;  se  non  che  in 
tal  caso  il  sistema  canonico  è  formato  tutto  di  variabili  della  stessa  specie  ed  è 
quindi  completamente  indeterminato.  Se  nelle  (3)  è  p=k=Q,  la  corrispondente  tras- 
formazione è  geodetica  non  conforme;  poiché  poi  aggiungendo  alle  V  una  stessa 
costante,  l'elemento  lineare  non  cambia,  potremmo  in  questo  caso  servircene  per  fare 
5  =  0.  Moltiplicando  la  X  per  —  si  può  poi  fare  p=l.  Ma  dalle  formule  (3)  ri- 
sulta una  proprietà  notevolissima,  per  giungere  alla  quale  noi  ci  proponiamo  la  seguente 
domanda:  Quando  mai  a  un  sistema  canonico  possono  corrispondere  più  trasforma- 
zioni geodetiche  non  conformi? 

Prima  di  rispondere  a  questa  domanda,  vogliamo  vedere  quando  mai  uno  spazio 
può  ammettere  un  gruppo  GT  a  più  di  un  parametro  di  similitudini,  che  non  siano 
tutte  puri  e  semplici  movimenti.  Per  veder  questo  ricorriamo  alle  (a),  ossia  alle 

dove  ur  è  una  costante  che  varierà  dall'una  all'altra  trasformazione  infinitesima 
Xu  X2,  ...,  X\  del  gruppo,  e  almeno  per  una  di  queste  trasformazioni  dovrà  essere 
differente  da  zero.  Sia  p.  es.  u,  =t=  0.  Allora  alle  trasformazioni  infinitesime  distinte 

ut  A',  —  u,  Xj  (*=  2,  3,  ...,  n) 

corrisponderanno  evidentemente  costanti  nulle,  ossia  esse  saranno  dei  puri  movimenti. 
Dunque  : 

Se  un  S„  ammette  un  Gr  di  trasformazioni  conformi  geodetiche  (simili)  ammette 
almeno  un  Gr_!  di  movimenti,  invariante  in  Gr. 

Ritorniamo  alla  questione  precedente.  Esista  un  gruppo  Gr  =  (X1,  X2,  ...,  Xr)  le 
cui  trasformazioni  infinitesime  corrispondano  tutte  allo  stesso  sistema  canonico.  Var- 
ranno per  ciascuna  delle  X{  le  (3)  dove  si  faccia  p=Pi,  q=qt-  Se  tutte  le  p,  fossero 
nulle  il  gruppo  sarebbe  un  gruppo  conforme;  sia  p.  es.  pi-=0;  allora  alle  trasforma- 
zioni p±Xi  —  piX1(i  =  2,  2,  ...,  n)  distinte  corrispondono  valori  nulli  delle  costanti  p; 
esse  sono  perciò  conformi.  Quindi: 

Se  a  un  sistema  canonico  corrisponde  un  gruppo  Gr,  questo  Gr  {se  r  >  1)  contiene 
un  Gr_,  di  trasformazioni  simili  e  questo  almeno  un  fir_,  di  movimenti. 


GUIDO    FCBINI 


L8 


versa  se  Y  è  la  pia  generale  trasformazione  simile  di  uno  spazio  in  sé,  e  X  è 
una  trasformazione  geodetica  non  conforme,  le  trasformazioni  infinitesime  X  +  jiY,  dove 
jì  =  cost,  ammettono  uno  stesso  sistema  canonico;  nessun' altra  trasformazione  geodetica 
dello  spazio  ammette  lo  stesso  sistemo  canonico. 


§6.  Applicazione  dei  risultati  precedenti  al  problema  di  Lie. 

Noi  vogliamo  ora  indicare  come  i  precedenti  risultati  conducano  a  un  metodo 
diretto  per  risolvere  il  problema  di  Lie,  cioè  a  trovare  quelle  superficie  che  ammet- 
tono un  gruppo  geodetico.  Noi  non  svilupperemo  tutti  i  calcoli,  che  dopo  i  risultati 
del  Koenigs  e  del  Raffy  non  avrebbero  più  alcun  interesse,  ne  tratteremo  completa- 
mente il  problema.  Ci  arresteremo  soltanto  al  punto  fondamentale  della  questione, 
quello  appunto  di  cui  il  Lie  non  riuscì  a  trionfare,  alla  ricerca  cioè  delle  superficie 
che  ammettono  una  trasformazione  geodetica  non  conforme.  Ci  varremo  appunto  delle 
formule  del  §  5.  Scriviamo  l'elemento  lineare  della  superficie  sotto  la  forma: 

ds*  =  (Uì  —  U2){dx*  —  dx%\ 

dove  l\  è  funzione  di  xu  U2  è  funzione  di  x2-t  x2  si  deve  supporre  puramente  imma- 
ginario, se  si  suppone  ^j  reale.  Le  equazioni  del  §  5  assumono  la  forma  (ricordiamo 
che  si  può  fare  p  =  1,  q  —  0): 

a'll  =  all(2Ul  +  £-,);     a'„  =  aw{U1  +  2Ut)i     o'12  =  0 
ossia  : 

O      <^l       ,      ì,U,'—  Ì2C2    9r-     _l_    TT 


(i)  ,--^.;v:^^r1  +  2^ 

I  te,  _  te.  _ 

~ *   bx, 

Queste  equazioni  sono  molto  più  semplici  di  quelle  da  cui  parte  il  Lie,  che  natu- 
ralmente contengono  le  derivate  seconde  delle  E. 
Da  esse  discende  : 

_      ò2      |  te, 
òxidrs   \  fa  dxidx3   \  òm 

ossia: 

d*     i  „    te,   \  __  _  dj     I ,}    te 

Sostituendo  a    2  ^'-,2-'^  i  valori  che  si  traggono  da  (1).  eseguendo  le  opera- 

nx,  BXa 

zioni,  ricordando  le: 

)Es  j         d'h  __    a       àj|  \ 

'.r  j  \   Ò  ^S 


19  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  279 

e  le  analoghe,  otteniamo,  dopo  facili  riduzioni,  l'equazione: 

W  '    t£l  I        "  '  iC,-r,f         2   (Ui-Utfl  ^  da:,   \  D,-D,  2(,D-D8)S/J 

+      'TW.-W         2  lOi-DiJV         9xsId3-D,         2  (DS-D,)3JJ 

__  3      ft     f    PJPJ'  \    ■     1  /ir     I    nrrW     Pi"  3        D,a      \ 

-T-^Tl^ai'  +  T^  +  ^^H  Di-Di         2  (D,-D2)»J 

-1(^  +  2^)1 

Quando  mai  questa  equazione  può  essere  identica?  Si  vede  che  in  tal  caso 
potremmo  integrare  le  (1)  prefissando  a  piacere  i  valori  iniziali  di  El7  E2,  —A  =  ~ 
E  poiché  Ej  =  S2  =  0  non  è  una  soluzione  del  sistema  (1)  avremmo  quattro  trasfor- 
mazioni infinitesime  linearmente  indipendenti  geodetiche  non  conformi  con  lo  stesso 
sistema  canonico  ;  la  superficie  ammetterebbe  perciò  almeno  un  G3  di  similitudini  e 
quindi  almeno  un  G.2  di  movimenti  e  sarebbe  perciò  a  curvatura  costante.  Notiamo 
anzi  che,  essendo  nelle  (1)  nulla  la  costante  q  che  compare  nelle  equazioni  generali  (?>) 
del  §  5  si  potrebbe  facilmente  riconoscere  che  il  G3  teste  citato  è  addirittura  un 
gruppo  di  movimenti. 

La  (2)  si  può  supporre  perciò  non  identica;  noi  potremo  risolverla  rispetto  Et  o  E2, 
e  sostituire  poi  nelle  (1).  Troveremo  così  p.  es.  le  derivate  di  S2  in  funzione  lineare 
della  Eg  stessa;  anzi  una  delle  derivate  sarà  data  sotto  due  forme. 

La  condizione  di  integrabilità  e  la  condizione  che  le  derivate  siano  ben  deter- 
minate daranno  infine  cosi  due  equazioni  lineari  per  E2.  Se  esse  fossero  identità,  vor- 
rebbe dire  che  il  valore  iniziale  di  E2  è  indeterminato;  la  superficie  ammetterebbe 
almeno  due  trasformazioni  infinitesime  con  lo  stesso  gruppo  canonico;  e  perciò  per 
l'osservazione  precedente,  sarebbe  una  superficie  di  rotazione  che  ammette  un  Gl 
geodetico  non  conforme  (oltre  al  G1  di  movimenti).  Se  esse  invece  non  fossero  iden- 
tità, si  otterrebbe  da  esse  la  determinazione  di  £2  e  quindi  per  la  (2)  di  lu  ecc.  ecc. 
Risostituendo  i  valori  così  trovati  di  tx  e  H2  nelle  (1),  si  avrebbero  equazioni  in  '',. 
U2  che  integrate  risolverebbero  il  nostro  problema.  Si  noti  ancora  che  i  calcoli  si 
possono  un  po'  abbreviare,  quando  si  pensi  che  le  equazioni  tra  l\  e  U2  sono  equa- 
zioni tra  funzioni  di  due  variabili  indipendenti  tra  di  loro.  Io  non  svilupperò  tutti  i 
calcoli,  facendo  soltanto  osservare  qual  è  la  causa  che  rende  il  nostro  metodo  più 
semplice  di  quello  di  Lie.  Essa  è  semplicemente  questa,  che  mentre  il  Lie  dà  equa- 
zioni che  valgono  per  ogni  trasformazione  geodetica,  noi  scindiamo  il  problema  cer- 
cando una  alla  volta  queste  possibili  trasformazioni  e  dando  equazioni  che  valgono 
solo  per  una  di  esse,  considerata  indipendente  dalle  altre.  La  rapidità  dei  nostri  me- 
todi si  riconoscerà  meglio  in  un  caso  specialmente  importante,  nel  caso  cioè  di  w  =  3, 
che  vogliamo  ora  trattare  completamente. 


280  GUIDO    FUBINI  20 

§  7.  Risoluzione  completa 

del  problema  di  determinare  gli  spazii  a  tre  dimensioni 

che  ammettono  un  gruppo  geodetico. 

Comincieremo  intanto  a  determinare  quegli  spazii  a  tre  dimensioni  che  ammet- 
tono una  trasformazione  geodetica  non  conforme,  e  ne  cercheremo  poi  il  gruppo 
geodetico  più  ampio.  Il  resto  della  ricerca,  come  è  intuitivo  e  noi  rapidamente 
mostreremo,  non  presenta  poi  alcuna  difficoltà. 

Se  uno  spazio  a  tre  dimensioni  ammette  un  gruppo  geodetico  non  conforme,  il 
suo  elemento  lineare  sarà  (§  5)  riducibile  a  una  delle  due  forme  seguenti: 

(1)  ds2  =  T[T]/(U,-U,)cH\ 

(2)  ds2  —  (  Ux  —  a)  \dx\  +  Edx\  +  2Fdx<idx-.,  +  Gdxl] 

dove  le  U,  non  dipendono  che  da  #,,  a  è  costante,  E,  F,  G  non  dipendono  da  xx. 
Il  caso  (1)  è  caratterizzato  dalla  proprietà  di  coincidere  con  l'elemento  aggiunto  (§  5). 
Noi  comincieremo  dallo  studio  di  questo  caso.  Si  verifica  facilmente  che  tutti  i  sim- 
boli a  4  indici  relativi  ad  esso  sono  nulli,  eccetto  che  i  simboli 

|12,12{  =  — J12.21J;  )23,23(  =  —  ì  23,  32  (  ;  |31,  31  <  =  —  J31, 13| . 

Se  perciò,  indicando  con  i,j,  k  i  simboli  1,  2,  3  scritti  in  un  ordine  qualunque, 
scriviamo  (§  3)  l'equazione: 

5  ij,  ki  \'  =  0 
otteniamo  l'equazione 

(3)  [|<M*l-l*;,i;|]H-  =  o. 

Si  verifica  facilmente  che 
[   '  {Uj—m)au 

è  simmetrica  nei  tre  indici  i,j,k;  noi  la  indicheremo  con  A;  cosicché  la  (3)  si  scrive: 

J^  =  0. 

Analogamente  avremo  per  simmetria: 


A   *!l  =  o        A  P-  =  0 

A^-  =  0       A^  =  0 
Se  dunque  A=¥§  sarà  certamente 


A  — 

òxj 


da-j  d?k  à-c,  ò-r,  dar,  d.n 


21  SUI    GRUPPI    DI    TEASF0EMAZI0N1    GEODETICHE  281 

ossia: 

(5)  E,  =  £.('-.). 

Vediamo  un  poco  che    cosa    avverrebbe  se  A  =  0.  In  tal   caso   dovrebbe  essere 
chiaramente 

(6)  \ij,  i;|  =  }»*,«*! 
e,  per  simmetria: 

(6')  I /*,;'*  j  =  i  ;"•>/»( 

(6")  )ì-i,ki\  =  )kj,kjl. 

Le  ultime  tre  equazioni  si  possono  anche  scrivere: 

(/,/,  /,/)  _  M  .       .//■■,i^  __  (./'■■/«)  .      (A-- »,/-•/)  _  (fc/,  *-y) 
«i/i  «tt  "^  «"  "jj 

oppure  anche  su  ito  la  forma: 

(7)  '''■''■''■'■'  =  '/;;-''-'=  !/ 

^      '  (ludi,  OitflWt  «;;"/.;. 

che  (§  1)  dimostrano  essere  lo  spazio  a  curvatura  costante  in  ciascun  punto  e  quindi 
a  curvatura  assoluta  costante.  Noi  possiamo  ora  ricercare  la  natura  dell'  elemento 
lineare  (1)  in  questo  caso,  ossia  riconoscere  che  specie  di  superficie  sono  le  x1,x2,xs. 
Se  noi  procedessimo  alla  discussione  analitica  del  precedente  sistema,  troveremmo 
che  esso  ci  dà  (in  generale): 

(8)  U'i  =  aU\  +  blT\  +  cU\  +  d 

dove  a,  b,  e,  d  sono  costanti.  Ma  assai  più  rapido  e  il  metodo  sintetico.  Il  sistema 
coordinato  xu  x2,  x3  per  l'elemento  (1)  è  (§  5)  il  sistema  canonico  per  una  trasfor- 
mazione g  geodetica  non  conforme  del  nostro  spazio,  che  ora  supponiamo  a  curva- 
tura costante.  Sia  T  il  suo  assoluto  e  V  la  varietà  trasformata  di  T  per  g;  nella 
trasformazione  g  havvi  certamente  per  ogni  punto  0  una  (e  per  ipotesi  una  sola)  terna 
di  rette  ortogonali  che  resta  ortogonale  anche  se  trasformata  per  g  (questa  terna  è 
precisamente  quella  delle  normali  in  0  alle  superficie  coordinate  passanti  per  0).  Ma 
questa  terna  non  è  che  la  terna  degli  spigoli  del  triedro  che  ha  il  vertice  in  0  e  che 
è  autoconiugato  rispetto  a  T,  T,  ossia  è  la  terna  delle  direzioni  uscenti  da  0  nor- 
mali (rispetto  all'assoluto  T)  alle  quadriche  inscritte  nella  sviluppabile  circoscritta  a 
T,  T',  ossia  alle  quadriche  omofocali  con  T". 

Il  sistema  delle  xu  x2,  x3  è  dunque  un  sistema  di  quadriche  omofocali.  E  osser- 
viamo di  più  che  la  supposta  trasformazione  infinitesima  che  ha  questo  sistema  orto- 
gonale per  sistema  canonico  lo  trasforma  in  se  stesso.  Ma  però  naturalmente  le  altre 
trasformazioni  geodetiche  del  nostro  spazio,  che  non  hanno  il  sistema  coordinato  per 
sistema  canonico  non  sono  certamente  tutte  di  questo  tipo. 

Viceversa  si  può  dimostrare  che  preso  un  sistema  di  quadriche  omofocali  come 
sistema  coordinato  in  uno  spazio  a  curvatura  costante,  si  può  in  generale  porre  l'ele- 
Serik  II.  Tom.  LUI.  k1 


282  GUIDO    FUBINI  22 

mento  lineare  sotto  la  forma  (1)  dove  siano  verificate  le  (8).  Per  lo  spazio  euclideo 
ciò  è  cosa  ben  nota.  Nello  spazio  ellittico,  in  cui  si  usino  coordinate  di  Weierstrass 
legate  dalle  x\  +  x\  -\-  x\  -j-  x\  —  1  l'equazione  di  un  sistema  triplo  ortogonale  di  qua- 
driche  omofocali  si  può  porre  sotto  la  forma: 


P>  ZfeTT  = 


dove  le  kx  sono  costanti,  X  è   il  parametro    variabile    da    quadrica    a    quadrica    del 
sistema.  La  (9)  si  può  anche    suppone    essere   l' equazione    che    determina  i  valori 
Xi,X2,X3  del  parametro  \  corrispondenti  alle  3  quadriche    del    sistema  passanti  per 
un  punto  0.  Si  dimostra  allora,  con    procedimento    analogo  a  quello    che    si    si 
nello  spazio  piano,  che: 

3 

ds*  =  dx\  -f-  Ciri  +  dxt  +  dx\  =  ^T   TT',^)X')    d\\ 

1=1 

dove  P{\)  è  un  polinomio    di  quarto   grado  in  X.  Mutando  i  parametri  X,  nei  para- 
metri I    dXi      l'elemento    lineare    diventa   appunto  della  forma  (1),  dove  le    V   sod- 

J  l  P(K) 
disfano  alle  (8).  Abbiamo  così  trovato  in  più  modi  il  teorema: 

II  sistema  canonico  relativo  a  una  trasformazione  geodetica  di  uno  spazio  a  curva- 
tura costante  è  un  sistema  di  quadriche  omofocali  (in  generale). 

A  cui  si  può  aggiungere  l'altro,  che  si  dimostrerebbe  in  maniera  analoga: 

Nella  rappresentazioni  geodetica  ili  due  spazii  a  curvatura  costante  l'uno  sull'altro 
esiste  (se  la  rappresentazione  non  è  una  similitudi  terale  uno  <■  un  solo  si 

ortogonale,  che  si  conserva  ortogonale.  Questo  sistema  è  un  sistema  di  quadriche  confocali. 

Esaurito  così  lo  studio  del  caso  A  =  0,  passiamo  al  caso  di  vi  =4=0,  in  cui,  come 
abbiamo  dimostrato,  è: 

£=g,(x.)  (i=l,2,3). 

Allora  ogni  trasformazione  infinitesima  geodetica,  trasforma  in  se  il  sistema  triplo 
ortogonale  delle  xu  x.2,  x3.  Questo  è  dunque  senz'altro  il  sistema  canonico  relativo  a 
qualsiasi  trasformazione  infinitesima  del  gruppo  geodetico  e  varranno  quindi  per 
qualsiasi  trasformazione  geodetica  le  formule  (3)  del  §  5.  Di  più  se  il  gruppo  ha 
p.  e.  r  parametri,  siccome  esso  deve  per  ipotesi  contenere  almeno  una  trasformazione 
geodetica  non  conforme,  possederà  (§  5)  se  r  >  1  un  sottogruppo  a  "  r  —  1  „  para- 
metri di  similitudini  e  questo  se  r  >  2  possederà  almeno  un  sottogruppo  a  "  r — 2  „ 
parametri  di  movimenti.  Scriviamo  intanto  le  equazioni  (3)  del  §  1.  Esse  diventano: 

(10)  2-^+  i>n'rlf'3+  K*')?*   =P  +  2gP1  +  gpi   r1r* 

0 .i'|  '   i  —    U3  I  ::  —    (-1 

ed  analoghe,  dove  p,  q  sono  costanti.  Poiché  £,  =  £,(*,)  ne  deduciamo  che 
hV^zM±-qUl-qUs 


2  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  283 

non  dipende  da  x2  e  quindi  per  simmetria  neppure  da  xx.  Questa  espressione  è  dunque 
una  costante  effettiva  e3  e  noi  potremo  porre 

(11)  ^:f'    =qU1  +  qUa  +  ea 

oltre  alle  equazioni  analoghe  che  si  ottengono  rotando  gli  indici. 
La  (10)  diventa  cosi 

(10') 

donde  si  deduce  indicando  con  \x,  \2,  X3  nuove  costanti 

(12)  E,  =  |  (P  -  e2  -  e3)*i  +  y 
e  le  analoghe.  La  (11)  ci  dà  allora: 

I  due  membri  di  questa  uguaglianza  dipendendo  rispettivamente  soltanto  da  xx 
e  da  x2,  saranno  ambedue  uguali  a  una  stessa  costante  n3.  Ripetendo  le  stesse  con- 
siderazioni, ma  scambiando  gli  indici  2,  3  troviamo  così: 

(11')  \i±(p-e.2-e3)x1^^U'ì  =  qU\  +  e3Ul+r]3  =  qU-i+e2U1  +  r]2 

e  le  analoghe  che  si  ottengono  rotando  gli  indici.  Dalla  (11')  si  trae: 

(13)  (€3-62)^  +  %-n^O. 

Cosicché  se  non  è  ?71=cost,  sarà  €2=63,  1;>  =  1'3-  Analogamente  se  U2^=cost, 
sarà  e1  =  e3,  11  =  13-  Ossia  se  almeno  due  delle  Ux,  U2,  U3  non  sono  costanti  è 
€,  =  €3=e3,  ni=la=l3.  Poiché  le  U1,  TJ2,  U3  non  sono  tutte  e  tre  costanti  (nel 
qua!  caso  lo  spazio  sarebbe  euclideo,  ciò  che  escludiamo),  se  due  delle  U,  sono 
costanti,  la  terza  è  certamente  variabile.  Sia  p.  es.  ?7i=f=cost,  mentre  U2,  U3  sono 
costanti  (naturalmente  distinte,  che  altrimenti  l'elemento  (1)  sarebbe  degenere).  Sarà 
intanto  per  la  (13) 

(1-1)  €2  =  £3;  12=1:; 

e  si  avrà  poi  la  seguente  equazione  analoga  alla  (13): 

(^-e^+tn,  — r,3)=:0 
ossia  per  (14) 

(ex—  e2)U2  +  {rìl-rÌ2)  =  0 

(e1-e2)P3  +  (ni-n2)  =  0. 

Poiché   U2^=U3l  queste  due  equazioni  danno  di  nuovo 
*i=*y,         1i=l2- 


GUIDO    TUBINI  24 

In  tutti  i  casi  è  dunque  e1=€2=e3;  Hi— 12— %•  Noi  potremo  perciò  senz'altro 
sopprimere  gli  indici  delle  e  e  delle  n.  La  (12)  e  la  (11')  diventano  cosi: 

(IT.)  E,  =  \  (p  -  2e).r,  +  *'  (/ =  1.2,3) 

(16)  ±-[(p-2e)xi  +  \i]U',=;qUii-\-  eUi  +  r,-  (»  =  1,2,8) 

E  la  nostra  questione  è  così  ridotta  alla  facile  discussione  del  sistema  (15).  (16). 
Le  (15),  (16)  ci  danno  però  un  assai  elegante  risultato  che  può  servire  a  semplificare 
ancora  il  calcolo.  Per  ottenerlo  notiamo  che  se  q  =  0  la  trasformazione  è,  come 
dimostrano  le  (10),  conforme.  Supponiamo  ora  che  sia  g=t=0  e  che  nessuna  delie  t\ 

sia  costante,  nel  qual  caso  lo  spazio  ammetterebbe  già  il  movimento  — .  Allora  cer- 
tamente aggiungendo  a  tutte  le  U,  una  stessa  costante  (che  può  anche  essere  com- 
plessa) (ciò  che  non  muta  l'elemento  lineare  (1))  si  può  fare  chiaramente  nelle  (16) 

n  =  0. 

Poiché  per  ipotesi  nessuna  delle  U{  è  costante,  e  quindi  nessuna  delle  nuove  Ut 
può  essere  nulla,  potremo  mutare  le  U,  in  ---  .  Con  questa  trasformazione  si  passa 
per  i  risultati  di  Levi-Civita,  ad  uno  spazio  applicabile  geodeticamente  sul  prece- 
dente. Infatti  gli  spazii 

sono  per  le  formule  già  citate  al  §  5  applicabili  geodeticamente.  Se  noi  poniamo 
ora   C,  =  -=r  nelle  (10)  in  cui  sia  fatto  n  =  0,  troviamo 

(1 6')  |  [(p  -  2e)  x,  +  X,]  V\  =  -  e  V,  -  q. 

Quindi  la  trasformazione  geodetica  per  il  primo  spazio  iniziale  e  quindi  anche 
per  lo  spazio 

Z[U',(V,—  Vt)]dx\ 

è  una  trasformazione  conforme  per  questo  ultimo  spazio,  perchè  nei  secondi  membri 
delle  (16')  manca  il  termine  in   V;2. 

Dunque:  Se  uno  spazio  del  tipo  (1)  ammette  una  trasformazione  geodetica  esso  è 
geodeticamente  applicabile  su  un  nitro  spazio,  per  cui  questa  trasformazione  è  soltanto 
una  similitudine;  esclusi  luti'  al  più  quelli  ili  questi  spazii  per  cui  una  delle  U,  è  costante 
e  che  perciò  ammettono  un  movimento  puro. 

Escludiamo  perciò  il  caso  che  una  Ci  sia  costante  ;  allora,  poiché,  com'è  evidente 
per  la  natura  stessa  della  nostra  questione,  noi  non  dobbiamo  considerare  come 
distinti  due  spazii  geodeticamente  applicabili,  basterà  che  risolviamo  il  semplice  pro- 
blema di  riconoscere  quando  uno  spazio  (1)  ammette  una  similitudine,  ossia  quando 
è  risolubile  il  sistema  delle  (15),  (16),  dove  si  ponga  '/=0.  Ciò  che  si  risolve  senz'altro. 


25  SUI    GKUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  285 

Poiché  nessuna  delle  U,  è  costante  non  potrà  per  la  (16)  essere  nulla  una  dello  E,,  né 
potrà  essere  contemporaneamente  e  =  r|  =  0  ;  e  quindi  le  (16)  si  potranno  scrivere: 

f  \  7  k  n 


eUi  +  r)  ""  (p—  2€)r,  +  X,  - 

Distingueremo  ora  parecchi  casi. 

I)  Sia  e  =#=  0 ,  p  —  2e  ={=  0  ;  aggiungendo  alle   U,  una  stessa   costante  e  alle  x, 
delle  altre  costanti  potremo  fare  assumere  al  sistema  (17)  la  forma: 

(17')  d-^  =  h^-  (A  =  cost) 

x       '  ili  xì 

che  ci  dà 

(A)  U,  =  taf .  (A-,  =  cost)  (»  =  1, 2, 3) 

II)  caso:  Sia  e  =  0,  p —  2e=)=0.  Mutando  lo  spazio  in    uno    spazio    simile   e 
aggiungendo  alle  xt  convenienti  costanti,  le  (17)  si  possono  ridurre  alla  forma: 

X, 

donde 

(B)  U{  =  log hXi .  {h  =  cost)  (i  =  1 ,  2,  3) 

III)  caso:  Sia  e—  ^  =  0.  Indicando  con  k,  delle    costanti,  le  (17)  si  scrivono 
sotto  la  forma: 

dUi  =  k,dxi 

donde,  aggiungendo  alle  x%  convenienti  costanti, 

(C)  Ux  =  hx, . 

IV)  caso:  Sia  p —  2e  =  0,  e  =4=0.  Con  i  soliti   mutamenti  si  vede  che  le  (17) 
si  possono  scrivere: 

l£-  =  kidxt  (*,  =  cost) 

donde  si  trae: 

(D)  Ui=  htekiXi .  (h,  =  cost;  k,  =  cost)  {i  =  1 .  2,  3) 

Prima  di  studiare  questi  4  tipi  passiamo  al  caso  che  vi  sia  qualche  Ui  costante  ; 
ve  ne  sia  dapprima  una  sola  costante,  p.  es.  la  TJX  che  si  potrà  supporre  nulla; 
perchè  se  fosse  p.  es.  Ul  =±=  0  basterebbe  aggiungere  alle  Ut  la  —  Ul  per  renderla  nulla. 
Noi  dovremo  ricorrere  alle  (15),  (16). 

Posto  nelle  (16)  s'  =  l,  se  ne  trae: 

n=0 

cosicché  per  le   Ut,  U3  varranno  le: 

(18')  \  [X,  +  (p  -  2e)*,]  U/=  U,(qUt+  e).  (t  =  2,  3) 


286  GUIDO   FUBINI  26 

Se  fosse  q  =  €  =  0,  allora  sarebbe,  poiché  TJ'2  =4=  0,   U'3  =j=  0, 

\2  =  \3  =  p  —  2e  =  ()       ossia       E,  =  -~  ;  23=  £2  =  0 

e  la  trasformazione  sarebbe  la  v-  .  Escluso  questo  caso  possiamo  supporre  q  ed  e  non 
contemporaneamente  nulli  e  scrivere  l'equazione  precedente  sotto  la  forma 

Discutiamo  ora  la  (18).  Sia  g  =  0;  sarà  allora  e  =4=0. 

I)  3e  p  —  2e  =  0;  la  (18)  integrata  ci  darà  indicando  con  h2,h3,k2,  k3  delle 
costanti  : 

(E)  &i  =  0,   U2  =  h2<*&,   U3  =  h3e*#*. 

II)  Sia  p  —  2e=4=0.    Aggiungendo    alle  z2,  #3   opportune    costanti,    possiamo 
tare  \2  =  X3  =  0;  la  (18)  integrata  dà,  indicando  con  h,k2,k3  delle  costanti: 

(F)  C,  =  0,   U2  =  k2x\,   I 

Sia  ora  invece  g  =4=  0.  Se  fosse  e  =4=  0,  sostituendo  alle   C,  le  1  —  £    =  F, 

otterremo  uno  spazio  applicabile  geodeticamente  sul  nostro,  per  cui  V1=0;  e  si 
verificherebbe  che  la  nostra  trasformazione  sarebbe  simile  per  questo  spazio,  ossia 
si  tornerebbe  ai  tipi  (E),  (F).  Supponiamo  dunque  e  ==  0. 

I)  Sia  p  =  0;  la  (18)  integrata  dà,  indicando  con  k2,k3  delle  costanti 


Ci  =0;       r    =k2x3;     —  = 


tipo  che  rientra  nel  precedente  per  h  =  —  1 . 

II)  Sia  p  =4=0.  Aggiungendo  alle  x2,x-ò  opportune  costanti,  si  può  fare  \,=  0; 
le  (18)  integrate  danno  indicando  con  h,k2lk3  tre  costanti: 

(G)  17,  =  0;    -~  =  hlogk2x2      -^r  =  h\ogk3x3. 

Siano  ora  invece  due  delle  C,  costanti,  p.  es.  la   C,  e  la  U2. 

Passando  a  uno    spazio    simile    e    aggiungendo  alle   U,  una  stessa    costante    si 

potrà  fare 

C,=  0;         17,=  1. 

Lo  spazio  ammetterà   intanto  i  due  movimenti  t—  ,  -z —  . 

Facendo  nella  (16)  successivamente  »=1,  i  =  2,  troviamo: 

«1  =  0,  e  =  —  q. 

Si  riconosce  come  al  solito  che  per  una  terza  trasformazione  infinitesima  geo- 
detica che  non  appartenga  al  G2  generato  dai  precedenti  movimenti  la  (16)  si  può 
scrivere  (per  i  =  3) 

/ ,  q-v  dUz  p  dri 

1      '  sDi(Di— «  (p  +  '2q)x3+\3 

dove  5=4=0.  Come  abbiamo  già  osservato  al  §  5  si  potrà  senz'altro  porre  2  =  1. 


27  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  281 

I)  Sia  p  +  2  =  0.  La  (19)  ci  darà 

=  hdxs  (h  =  cost) 


DifPi-1) 

e  si  potrà  faro,  mutando  .r3  in  ot3  -f-  cost 

Di 

ossia 

(H)  Pi=0        UB=1        U, 


1  —  e1'1- 


II)  Sia  invece  p  -\-  2  =4=  0.  Potremo  supporre  a3=0. 
E  la  (19)  integrata  dà,  indicando  con  k,  h  due  costanti 

:V7    =  **S  - 


ossia 

(i)  cr,  =  o      v2=i      u3  = 


1  -  A:.r3" 


E  abbiamo  dunque:  Se  uno  spazio  del  tipo  I  ammette  una  trasformazione  geodetica 
[oltre  al  movimento  ^—   nel    caso    che   una  delle   U,  sia  costante  <>  ai    due    movimenti 

\  òr, 

-jr— ,  -v —  se  Ui,  Uk  sono  costanti)  esso  è  geodeticamente  applicabile  su  uno  degli  spazii 
di  uno  dei  tipi  (A),  (B),  ...(I)  con  conservazione  del  sistema  ortogonale  xl,xi,x3;  e 
quindi  dai  precedenti  si  può  dedurre  con  le  formule  del  prof.  Levi-Civita. 

Se  noi  perciò,  di  tutti  questi  tipi  di  spazii,  determineremo  il  gruppo  geodetico 
più  ampio,  avremo  completamente  risoluta  quella  parte  della  nostra  ricerca,  che  si 
riferisce  agli  spazii  (1). 

Tipo  A)  U,  =  £,.«•;'         fi  =  1,2, 3)         fc,4=0         {h  =4=0). 

Sostituendo  nelle  (16)  si  trova 

J_  [(p  _  2e).r,  +  \^hhxtl  =  qkìxf  -f  ek.xl  +  1  • 
Supponiamo  dapprima  /*=i«l.  Ne  traggiamo 

ti  =  0         e  =  \  (p  -  2e). 

Se  anche  /j=4= — 1  è  inoltre  ^  =  0,  q  —  Q  e  si  ha  la  sola  trasformazione  infini- 
tesima (conforme)  la;,  t-.  Il  caso  poi  di  /*  =  —  1  si  può  trascurare,  poiché  sosti- 
tuendo alle  U{  le  loro  inverse  (con  che  lo  spazio  resta  geodeticamente  applicabile 
su  se  stesso),  si  può  fare  /*  =  1.  In  questo  caso  la  più  generale  trasformazione  geo- 
detica è 

ò 


\yx,—  +  u)  -r-  s—  (^.  u  costanti  arbitrarie). 

Lj     òr,  L-à  !',    Òx, 


'_>-  GUIDO    FUBINI  28 

Lo  spazio  ammette  perciò  un  gruppo  generato  dalle 

yti      vii 

«_J   '  a**  —    *'■    da-. 

Quindi  il  tipo  (A)  dà  origine  ai  due  tipi: 

I)  Il  =  krf  (£,  =  cost  =4=  0)  (i  =  1,  2,  3)  (h  =  cost  #=  0)  (A  =4=  +  1) 

che  ammette  la 

Si 
x,  ^—        (conforme). 

II)  tr,  =  £,a+1  (A,  =  cost  =4=  0)  (i  =  1,2,  3) 
che  ammette  le 

/Ai-    (conforme)  >  y  r-     (conforme). 

Ili)  Il  tipo  (B),  come  si  verifica  in  modo  analogo,  ammette  sempre  una    sola 
trasformazione  infinitesima.  Per  esso  è: 

Ut  =  log  k\  ./', 

E  la  trasformazione  infinitesima  corrispondente  è 

ò 


y  Xj-j —         (conforme). 


Del  tipo  (C)  è  inutile  occuparci,  perchè  rientra  nel   tipo  (A),  anzi   coincide   col 
tipo  (A),  dove  si  ponga  A=l. 

IV)  Come  si  verifica,  sostituendo  come  sopra  nelle  16,  il  tipo  (D)  per  cui  è 

l\  =  hi  e"<*< 
ammette  la  sola  trasformazione  infinitesima  geodetica: 

Si  -à     (conforme)- 

V)  Il  tipo  (E)  è  definito  da: 

Ul  =  0  U2  =  h2ek^  U3  =  h3ek*> . 

Sostituendo  in  (18)'  i  valori  di   U2,   U3  si  trova: 

q=p  —  2e  =  0         ^-^7         (»=2,S). 

Dove  =  è  simbolo  di  proporzionalità.  Se  ne  deduce  che  esiste  soltanto  il  gruppo 
generato  dalle  trasformazioni 

è;  -  £  k +  h  k    (confonni>- 


29  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  289 

VI)  Studiamo  il  tipo  (F)  in  cui 

CTj  =  0  Ih  =  k2  4  U3  =  k3xl 

Sostituendo   in  (18)  si    trova   che  se  h=¥= — 1  esistono    le    sole    trasformazioni 
infinitesime 

3 

d 


(conformi). 
óxt 


VII)  Se  invece  /;  = —  1,  esistono  le  tre  trasformazioni: 

i 
Vili)  Il  tipo  (G),  in  cui  è 

Ui  =  0         -jjr  =  /(  log  A2  r2         —  =  /«  log  As  .cs 

ammette  soltanto,  come  si  verifica  coi  soliti  metodi,  le: 

3 

d 


IX)  Il  tipo  (H)  è  definito  dalle: 

Pj  =  0         17,1  =  1 


Esso  ammette  i   movimenti  —,   ^-;  per  trovare  le  altre  possibili  trasformazioni 

geodetiche  si  ricorra  alla  (19);  e  si  troverà  che  esso  ammette  inoltre  soltanto  la  ~— . 

dx3 

X)  Il  tipo  (I),  definito  dalle: 

17.  =0         U.  =  l         Ua= — —-, 

1  2  3       1— fce3*  ' 

ammette  soltanto  le  trasformazioni  : 

—    —    y  x  — 

ì 

come  si  verifica  tosto,  ricorrendo  alla  (19). 

Ora  facciamo  una  semplice  osservazione  :  Se  noi  non  vogliamo  considerare  come 
identici  spazii  geodeticamente  applicabili,  dovremo  ai  tipi  precedenti  aggiungere 
quelli  che  si  deducono  da  essi  col  metodo  del  Prof.  Levi-Civita,  anche  usando  di 
costanti  complesse,  e  che  corrispondono  a  essi  con  conservazione  delle  geodetiche. 
Ma  se  noi,  come  pare  più  naturale,  riguarderemo  identici  dal  nostro  punto  di  vista 
spazii  geodeticamente  applicabili,  potremo  ridurci  ai  10  casi  precedenti,  anzi  potremo 
senz'altro  trascurare  i  primi  casi  fino  al  VI)  incluso ,  le  cui  trasformazioni  geodetiche 
sono  tutte  delle  pure  similitudini  (caso  che  noi  studieremo  più  avanti)  e  considerare 
soltanto  i  4  tipi  VII,  Vili,  IX,  X. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  Ti 


290  GUIDO    FUBINI  30 

Con  questa  convenzione  dunque  abbiamo  che  gli  spazii  del  tipo  (1)  danni)  oltrt  gli 
spazii  a  curvatura  costante  <•  oltre  spazii  ••<>»  un  gruppo  di  sole  similitudini  soltanto 
quattro  nuovi  casi:  il   VII,  l'VIII,  il  IX,  il  X. 

Per  trovare  tutti  i  possibili  58  che  ammettano  un  gruppo  geodetico,  non  com- 
pletamente composto  di  trasformazioni  conformi,  ora  ci  basta  studiare  gli  spazii  del 
tipo  (2).  Per  ottenere  anche  qui  delle  formule  semplici  ed  eleganti  in  modo  che  una 
trasformazione  geodetica 

/—A      rVT, 

1 

sia  sempre  del  tipo 

i 

ricorreremo  a  un  semplice  artificio;  introdurremo  cioè  come  variabili  x2,  x3  i  para- 
metri delle  linee  di  lunghezza  nulla  delle  x1  —  cost  ;  dovremo  però  sempre  ricordare 
(poiché  noi  trattiamo  sempre  soltanto  del  caso,  in  cui  spazio  e  trasformazioni  sono 
reali)  che  x2,  x3  sono  variabili  immaginarie  coniugate.  Così  l'elemento  (2)  diventa 
del  tipo 
1 20 1  ds2  =  (  Ut  —  ot  )  {dx\  —  2  X  dx%  dx3 1 

dove  a  =  cost, 

l\=  Ul(x1),\  =  \(x2,xì). 

Scritto  sotto  forma  reale,  l'elemento  (20)  si  scrive 

(20')  ds-  =  ( Di  —  a)  [difi  —  2  m  (ch/l  -\ 

dove 

y!  =  Xi  ;  x2  =  t/2  +  i  ih  ■  ->*3  =  ìli  —  i  Ih,  :  x  (-r2,  »s)  =  M  I  .'/„• ,  Jfo  I. 
Posto 

H—  1  /tfMogn    ,    tf  logn\         A_    V      _3_I_U'_)2 

2\    dy\     "r"     dy\    )  U-a  2     U—a  ' 

le  equazioni: 

j  23,  23  {'  =  5  21,  21  ('  ;  j  31,  81 }'  =  1 32.  32  (' 

J23,  12j'  =  |82, 13  (' =  0 

J21,  23 {'  =  )  SI,  32  J'  =  0 

per  l'elemento  (20')  danno  (se  indichiamo  con  X=  //li  5—  la  supposta  trasforma- 
zione geodetica): 

V  ,  Il  -  uA)  +  2  (H—  m  A)  |^  =  X(H—  uA)  +  2  (H—  uA)  ^  =  0 

ry/2  0^3 

(fl-  uA)??  =  {H _  uAl  |13  =  (ff_    A)  *u  =  (J7_  A)  *k  =  0 

'  °</,  rtl/,  Ò'Jì  02/3 


e  quindi  è 

(21') 

dna  ^h  . 

ònj  _ 
9yi 

*n3 
9»  " 

_    òni 

31  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  291 

L'equazione  H — uA  =  0  è  equivalente  alla 

|21,  21|  =  |23,28|  =  |81,  81 1 

ossia  alle 

(21,21)   _   (23,23)    _   (31,31) 


e  dimostra  perciò  costante  in  ogni  punto  e  quindi  anche  in  tutto  lo  spazio  la  curva- 
tura. Escluso  questo  caso  è  perciò 

H—  MA  =4=0 

Chiaramente  dunque  anche  con  le  variabili  dell'elemento  (20)  avremo  indicando 
con  /  £,  r—  la  trasformazione  geodetica  in  queste  nuove  variabili  che  dovrà  essere 

(211  d£i  __   d£|  __   fó2  __  d£3  _  q 

>     '  dar,  dx3  dx,  dx, 

Osserviamo  ora  che  le  equazioni: 

122)'  _  \33l'  _  (32)' U22)'  _  132)'  _    1  (33)'  _  . 

\b]   —U)   ~U)  tU)    ~"U)  2/3} 

per  l'elemento  (20')  dimostrano  per  le  (21')  che  r)2 1-  n.3-7—  è  una  trasforma- 
zione geodetica  per  le  superfìcie  xy  =  cost;  se  essa  fosse  conforme,  dovrebbe  essere 
£2  =  £2  (x2),  £3  =  £3  (x3)  perchè  le  linee  di  lunghezza  nulla  dovrebbero  restare  linee 
di  lunghezza  nulla.  Se  non  fosse  conforme,  potremmo  supporre  (§  6)  l'elemento  lineare 
delle  #i  =  cost  già  ridotto  alla  forma  di  Lionville  e  varrebbero  equazioni  del  tipo 
seguente  (dove  alle  antiche  y3,  n.3  si  sono  sostituite  le  i  y3,  i  n3) 

(a)  u  =  U2  (ij2)  —  U3  (y3) 

(T)  2  |J.  +  "'^-y-1'  =  U2  +  2  Ua 

0!)2  ^2  <->3 


(b) 

insieme  alla 


dia  _  dr^ 
ày3         <tya 

Sia   __  J^fo 


che  si  ricava  dalle  (21').  Quest'ultima  equazione  unita  alle  (|$),  (y)  darebbe  U2  =  J7S 
e  quindi  per  la  (a)  u  =  0  ;  ciò  che  è  assurdo.  Si  può  dunque  supporre  £2  —  £2  (z2)  ; 
£3  =  £3(0:3).  0,  più  semplicemente,  le  (21)  dimostrano   che   per   ogni   trasformazione 


292  GUIDO    FDBINI  :^2 

geodetica  di  (20)  il  sistema  delle  .>\,  x2,  x:.  forma  il  sistema  canonico  e  quindi  (§  5) 
devono  valere  le  equazioni  (3)  del  §  5,  che  qui  diventano  (*)  : 

(22)  £17&+2^T  =  a  +  2^ 

(23)  ^  +  ^+E3A^  +  £  +  ||=f/1  +  2« 

■941  ?!    =   dh  =   9£l         \   dh  =   ò£|         K  ò£a  =  0 

*      '  d#2  òa;3  da;2  òxt  òx3  dx, 

Le  (2-!)  dirimi]  appunto  che  E2  —  ?2  fe),  23  =  E;;  [x3  .  Di  queste  forinole  io  ho 
anche  data  la  precedente  dimostrazione,  perchè  apparisca  più  chiaro  che  il  sistema 
coordinato  è  per  ogni  trasformazione  geodetica  proprio  il  sistema  canonico  e  si  pos- 
sono quindi  applicare  le  (3)  del  §  5;  ciò  che  poteva  non  riuscire  abbastanza  chiaro 
per  l'indeterminazione,  già  da  noi  precisata  al  §  5,  del  sistema  canonico  in  questo 
e  in  simili  casi.  Se  noi  dunque  vogliamo  trovare  tutti  gli  spazii  del  tipo  (2)  oltre  a 
quelli  a  curvatura  costante  che  ammettono  un  gruppo  geodetico,  tale  che  almeno  una 
delle  sue  trasformazioni  infinitesime  non  sia  conforme,  dovremo  intanto  cercare  (piando 
si  possono  integrare  le  (22),  (23)  con  valori  non  tutti  nulli  delle  E„  E2,  £8,  in  cui 
sia  E,  =  E,  (xì).  Se  noi  poi  vogliamo  cercare  quelli  degli  spazii  (2)  per  cui  il  gruppo 
citato  sia  un  gruppo  a  più  di  un  parametro,  dovremo  poi  determinare  quelli  tra  gli 
spazii  determinati  per  cui  si  ammette  ancora  una  trasformazione  simile^E,  (.r,)  — . 

Risolviamo  intanto  la  prima  parte  di  questo  problema;  ricerchiamo  cioè  quando 
è   integrabile   il   sistema   delle   (22),  (23)   quando  E;  (*  =  1,  2,  3)   sia   funzione   della 
sola  xt.  Si   riconosce  facilmente  che,   indicando  con  k  una  costante,  la  (23)   si   può 
scrivere  : 
(25)  g1_El__(U1  +  2a)=:-* 

,0R,  ?    e) log*  _i_  z    dlog*     i     dE.     i     oh  _  k 

(26)  ^  ^r  +  3  ò*s  +  d*s  ^  à*,  - A  • 

Dalle  (22),  (25)  si  ricava 

(27)  2^=U1-a  +  k  =  all  +  k. 

E  il  sistema  delle  (22),  (23)  è  equivalente  al  sistema  delle  (25),  (26),  (27).  Poiché 
noi  vogliamo  sempre  studiare  soltanto  spazii  e  trasformazioni  reali,  le  l2,h  °  *"IK) 
ambedue  nulle,  o  sono  ambedue  differenti  da  zero;  in  questo  secondo  caso  potremo 
(essendo  H2  =  i2(^2),  h—hi^sì),  cambiando  i  parametri  delle  linee  x2,x3,  supporre 
E2=l,  E3  =  l;  cosicché  la  trasformazione  geodetica  considerata  si  potrà  supporre 
di  uno  dei  due  tipi: 

(28)  «iWi 

(29)  M*j£4  £  +  £• 


(*l  Qui,  trattandosi  di  una  trasformazione  geodetica  non  conforme,  abbiamo  posto  7  =  0,  p  —  1; 
ciò  che  abbiamo  già  notato  essere  sempre  lecito. 


33  SUI    «RUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  293 

Nel  caso  (28)   la  (26)  dà  £  =  0;  e    X    può    essere    qualunque;  per    la  (27)    poi 
essendo  an=\=  0,  si  ha  .à- =4=0.  Eliminando  quindi   £7,  fra  le  (25),  (27)  si  ottiene: 

(30)  Mi"  =  3a£/  +  2E/2 

dove  per  l'osservazione  precedente  è  Ei=f=cost. 

I)  Se  a  =  0  la  (30)  ci  dà  integrando,  indicando  con  d,  e  due  costanti  (d  H=  0) 

2i  = 


«,  +  e  '  n  (x,-(-C)2- 

Mutando  a^  in  .<-,  +  e,  si  può  fare  e  =  0 ;  passando  quindi  a  uno  spazio    simile 
si  può  fare  d=l,  cosicché  si  ha  infine: 

(A)  E1  =  -  ;         a11  =  -—ì. 

II)  Sia  a  =4=  0.  Presa  (poiché  £t  4=  cost)   la   Et  come    variabile   indipendente  y, 
la  2/  come  incognita  z,  posto  a'  =  — ,  la  (30)  diventa  : 

yz'  =  2z  +  3a 
ossia 

dz  _    dy 


2z  +  3a   —    y         "«"""       ~  2   "' 

Integrando  e  indicando  con  e  una  costante  si  trova: 

a 
2St' —  c£2  —  3a     oppure    Ei'  = 5-  <*• 

Reintegrando  e  indicando  con  d  un'altra  costante,  si  trova  che 

_l/!^  1  +  4'iWr-M  .  a     _  12a       d/3^r,+  (i 

oppure 

Si  = —  ax!  +  rf        «11  =  —  3a. 

Nel  primo  di  questi  due  casi,  otteniamo  prendendo  \/3ca.  xx  -\-  d  come  parametro 
delle  x,  =  cost,  passando  a  uno  spazio  simile  e  moltiplicando  la  trasformazione  infi- 
nitesima per  un  conveniente  fattore  che  si  potrà  porre: 

(C) 


1  _  &  ~"         (1  _  e*>f 

Nel  secondo  caso  troviamo,  con  procedimenti  analoghi,  che  si  potrà  fare: 

(C)  £,=*,  «n  =  l. 

Risolviamo  intanto  la  questione:  Quando  i  tre  spazii  dei  tipi  definiti  dalle  (A), 
(B),  (C)  possono  ammettere  un  gruppo  geodetico  a  più  di  un  parametro,  ossia,  per 


294  GUIDO   FUBINI  -'.4 

quanto  abbiamo  già  dimostrato,  quando    mai    possono  dessi  ammettere  una  trasfor- 
mazione simile 

3 

a 


&w£ 


E  noi  risolveremo  dapprima  la  questione  generale:  Quando  mai  lo  spazio  (20) 
ammette  una  trasformazione  simile,  che  sarà  necessariamente  della  forma  precedente? 
Varranno  in  tal  caso  chiaramente  le  (22),  (23)  in  cui  si  ponga  una  costante  "  h  „ 
nei  secondi  membri  al  posto  di  2J7,  +  a,  [7,  +  2a.  E  la  (28)  cosi  modificata  si  sdoppia 
di  nuovo  in  due  equazioni;  cosicché,  indicando  al  solito  con  k  una  nuova  costante 
avremo  il  sistema  : 

E,  -K      +  2  -**-  =  h 

MogX.  .àlogX    +    d£,   +   ò^  =  k 

v   '  J      àx2       '      à      òx3        '     dx*     '     òx3 

E  la  prima  e  l'ultima  di  queste  danno: 
(y)  2^=  k      ossia      E]  =  -5-  flJj  +  e       (e  =  cost). 

La  (a)  dimostra,  ciò  che  sapevamo,  che  E2  t^~  +  ^3  Tjr  è  una    similitudine   per 

le  xt  =  cost,  e  se  ne  deduce  (ponendo  e  ==  k  =  h  =  0). 

I)  Lo  spazio  (20)  ammette  come  similitudini  (che  sono  del  risto  puri  movimenti) 

tutti  i  movimenti  E2  ^ r~  ^3^ —  ammessi  eventualmente  da  ds2=  —  2\dr.,<l,i,. 

0'r2  nX3 

h 

Ponendo  k  =  0,  e  4=  0  si  ha  Ei  =  e  e  per  la  (3)  —^  =  —  ossia  an=-les     ,  dove 

fu  € 

^  è  una    costante    che,  passando    a    uno    spazio    simile,  o   mutando  xx  in  xx  -\-  cost 
(se  7*  =4=  0),  si  può  rendere  uguale  ad  1. 

II)  Gli  spazii  (20)  dove  an=  Ul  —  a  =  e**'  (ò  =  cost)   ammettono    la    trasfor- 
mazione simile   —- — (-E2r — (-  E3  t — ,  se  E2  "a h  23  -r —   è  il  più   generale    movimento 

di  ds2=  —  2\dx2dxs. 

Se  A 4=0,  allora  mutando  «1  in  asj  -f-  cost,  e  moltiplicando  la  trasformazione  per 
un  conveniente  fattore,  si  può  fare  in  (y)A;=  2,  e  =  0  ossia  E,  =  xt.  La  (B)  dà,  allora, 
integrando  : 

U1  —  a  =  an  =  lx\~- 

dove  al  solito  si  può  fare  l=\.  Posto  h  —  2  =  ò  si  ottiene  per  (a)  : 

III)  Gli  spazii  (20)  dove  sia  an  —  Ux  —  a  =  x§  (ò  =  cost)  ammettono 

Ò*l  ÒXl  ÒX3 


35  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  295 

come  trasformazione  simile,  quando  £2  ~i H^'~S —  sia  la  più  generale  eventuale  trasfor- 
mazione simile  di 

ds-  =  —  2\dx%  '/>',; 

per  cui  "  2  „  sia  il  rapporto  di  similitudine,  ossia  tale  che 

r2  IT  ""■"  £S  "dlT  )    (Xrf*2^)  =  2  Xffa2  '/''   ■ 

Abbiamo  così  determinati  tutti  i  casi,  in  cui  uno  spazio  (20)  può  ammettere 
una  trasformazione  simile  (oltre  al  caso  in  cui  (20)  fosse  a  curvatura  costante). 

E  ne  otteniamo  subito: 

Il  precedente  tipo  (B)  non  potrà  ammettere  altre  trasformazioni  geodetiche  che  se 
le  xt  =  cost  ammettono  dei  movimenti  (che  saranno  in  tal  caso  dei  movimenti  per  tutto 
lo  spazio),  ossia  se  le  xy  =  cost  sono  di  rotazione  o  a  curvatura  costante. 

Il  tipo  (A)  rientrn  nel  ci/so  del  teor.  Ili  precedente  ;  esso  non  potrà  ammettere  altre 
trasformazioni  geodetiche  dir  nel  <'<iso  in  cui  le  Xi  =  cost  ammettono  delle  trasformazioni 

simili.  Se  E2-r 1-  ^3^ —  è  ^a  più  generale  trasformazioni'  simile  per  le  xx  =  cost  e  se 

con  k  indichiamo  il  corrispondente  rapporto  di  similitudine,  sarà  —  -e f-  £*-k- — h  £3^ — 

la  più  generale  ulteriore  trasformazione  geodetica  per  gli  spazii  del  tipo  (A),  (oltre  natu- 
ralmente alla  trasformazione  geodetica  che  abbiamo  già  determinata). 

Analogamente  si  trova:  Il  tipo  (C)  oltre  alla  trasformazione  geodetica  .rt  — —  e  al 

movimento  -5 —  ammette  tutte  le  trasformazioni  simili  ammesse  eventualmente  dalle  x,  =  cost. 
òr, 

Il  nostro  studio  dei  tipi  (A),  (B),  (C)  ossia  degli  spazii  (20)  che  ammettono  una 
trasformazione  geodetica  (28)  è  cosi  completamente  esaurito  (*).  Ne  è  più  difficile  Io 
studio  di  quelli,  che  ammettono  una  trasformazione  (29).  La  (26)  dimostra  in  tal  caso 

che  -^ 1 — - —  deve  essere  simile  per  ds2  =  —  2\dx2dx3  ;  integrata  la  (26)  ci  dà: 

02*2  O^.t 

(31)  X  =  q>  (x2  —  xt)  e  *«• 


(*)  Esso  è  ricondotto  alla  ricerca  ben  facile  e  nota  delle  superficie  che  ammettono   un  gruppo 
di  similitudini;  ecco  qui  sotto  i  varii  tipi  di  tali  superficie. 

Superficie  con  un  G;  di  similitudini  :  ds1  =  dy%  -f-  dy1}  (piano). 

Superficie  con   un   G3  di  similitudini  (che  sono  anzi  puri  movimenti): 

dsi  =  dy\-\-BeD.tyIdy*a  ds1  =  dy*3  -f-  e2x\fa-sa  (sfera  e  pseudosfera). 

Superficie  con  un  G2  di  similitudini  :  d&  =  (y3  -f-  y3)m  (dy\  +  dy23)  (in  =  cost)    che    ammettono    la 

9  d  b     ,  d 

r —  —  t~  e  la  }'2  c \-  ih  5—  • 

òijì        oy3  dyt  dy3 

Superficie  con  un  G,  di  similitudini:  ds*  =  <p  (  —  j(t/a  -|-  y3)m  (dy\  -\-  dy\)   dove  <p I  —  I  è  funzione 

arbitraria   di   —  I  che  ammette  la  y,  t \-y3x — . 

yj  *  ày%       Jiò;h 

Superficie' che    ammettono  un   G3  integrabile    di    similitudini  ds'2=  ext{dx\-\-  dx23)   che   ammettimi) 
le  A-         ì 


296  GUIDO    FUBINI 

dove  q>  è  funzione  arbitraria  di  x2  —  x3.  La  (27) 


(27')  Di  -  o  =  «„  =  2  -||l  -  * 

dà,  sostituita  in  (25), 

(32)  2E1E1"=(2E1'-i)2  +  (Sa-*)  (2 E/  —  *). 

.1  ogni  integrale  Ej  di  questa  equazione  alle  derivate  ordinarie  (che  si  può  ridurre 
facilmente  del  prim'ordine)  corrisponde  un  corrispondente  spazio  del  tipo  (20)  cow  ««a 
trasformazione  geodetica  (29)  definito  dalle  (27'),  (31). 

E  noi  ci  chiediamo:  Quando  mai  un  tale  spazio  ammetterà  anche  un  gruppo 
geodetico  a  più  di  un  parametro,  ossia  ammetterà  qualche  trasformazione  simile? 
Per  i  teoremi  I,  II,  III  teste  dimostrati  ciò  potrà  avvenire  soltanto  in  tre  casi. 

I)  La  funzione  qp  è  tale  che  le  x1  =  cost  ammettano  anche  qualche  movi- 
mento, che  sarà  anche  un  movimento  della  q>3;  dalla  nota  precedente  lo  studio  di 
questo  caso  è  esaurito. 

II)  La  funzione  an  definita  dalla  (27')  è  della  forma  heòr'  (h,b  costanti).  Il  nostro 

spazio  ammetterebbe  in  tal  caso  le  trasformazioni  simili  -^-  e  S2  -^-  +  h^~ ,  quando 

E2^ f-£3—^— fosse  il  più  generale  movimento  infinitesimo  ammesso  eventualmente 

dalle  Xi  =  cost.  Tratteremo   a  parte  il  caso  di  ò  =  0  ossia  di  an  =  cost;   ma   sup- 
posto ò=t=0  è  per  la  (27') 

-fr  =  l  +  ir^     ossia      E^e+A^  +  JLe*,, 

dove  e  è  una  nuova  costante.  Sostituendo   in  (32)  si  trova  h  =  Q  e  quindi  au  =  0, 
ciò  che  è  assurdo.  Di  questo  caso  è  perciò  inutile  occuparci. 

Ili)  La  funzione  an  definita  dalla  (27')  è  della  forma  hxf  (h,b  costanti).  Esclu- 
deremo il  caso  in  cui  fosse  ò  =  0  ossia  an  =  cost.  E  ne  trarremo  in  modo  analogo 
al  precedente: 

»»+-!       -&=i  +  i*?    *.=«+£«.+-!-&• 

Nel  primo  di  questi  casi  si  trova,  sostituendo,  l'eguaglianza  assurda  h  =  0.  Nel 
secondo  si  trova,  ricordando  che  b  =1=  —  1,  b  =4-  0,  sostituendo  in  (32)  che  deve  essere 
b  =  —  2.  E  perciò  si  ritorna  al  caso  (A)  già  studiato. 

Ed  anche  del  caso  au  =  cost  è  inutile  occuparci,  perchè  esso  rientra  nel  tipo  (C) 
precedente.  Ci  basta  perciò  determinare  ora  soltanto  quelli  dei  nostri  spazii  che. am- 
mettono oltre  agli  eventuali  movimenti  delle  xt  =  cost  un  gruppo  geodetico  a  non 
più  di  un  parametro;  e  bisogna  perciò  integrare  la  non  semplice  equazione  (32).  Noi 
ci  serviremo  del  seguente  artificio  per  semplificarla:  Se  non  si  considerano  distinti 
spazii   geodeticamente   applicabili   si  può   supporre    nella  (32)  3 a  —  k  =  0.  Sia   infatti 

3  a  —  k  =4=  0;  poniamo  per  semplicità  U—  a  =  M/;P  =  3a  —  ft;  dyx  =  77=4=;  H=  ,jrjpjr 


37  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  297 

Lo  spazio  (2) 

ds2  =  \\i  (dx\  —  2  X  dx2  dx3) 

è  geodeticamente  applicabile  per  il  teor.  di  Levi-Civita  sullo  spazio: 

(2')  ds'*  =  H  j  dy\  —  -j-  dx2  dxJ  . 

La  trasformazione 

-  Ò  ,      .         Ò  Irò"  _  Ò  I      r         Ò  |       -         Ò 

dove  rii  ^  *P  +P  =  ii  sarà  perciò  geodetica  su  (2').  Io  dico  ora  che  essa  è  per  (2') 
proprio  una  trasformazione  simile.  Dal  confronto  delle  (25),  (f3)  si  vede  che,  poten- 
dosi  supporre  u;  #=  cost,  come   abbiam   già   notato,    si   vede  che  basterà   dimostrare 

che  ri,  -5—  log  H  è  costante  ossia  che  è  costante  £,  r —  log  — -?-=-. 
0;/]      °  *   bxt       °    Hi-(-g 

Ma  infatti  per  la  (25)  è  : 

Dunque  se  esiste  un  gruppo  a  un  solo  parametro,  questo  si  può  se  3  a  —  k  =4=  0 
supporre  senz'altro  un  gruppo  simile. 
Si  può  dunque  supporre 

3a  —  k  =  0 

col  che  la  (32)  assume  la  forma  più  semplice: 
(32')  2£1£1"  =  (2E1'-À-)*. 

Gli  altri  casi  rientrano  in  quello  degli  spazii  con  un  gruppo  geodetico  tutto 
formato  di  similitudini;  problema  che  ora  noi  tratteremo. 

Come  abbiamo  testé  osservato,  per  la  risoluzione  completa  del  nostro  problema, 
manca  ora  soltanto  la  ricerca  di  quegli  S3,  che  ammettono  un  gruppo  geodetico  tutto 
formato  di  similitudini;  perchè,  come  abbiamo  visto,  tutti  gli  altri  si  riducono  ai 
quattro  tipi  citati  a  pag.  30,  ai  tipi  (A),  (B),  (C)  di  pag.  33,  al  tipo  definito  dalle 
(31),  (27'),  (32')  e  agli  spazii  a  curvatura  costante  (*). 

Spazii  che  ammettono  un  Gj  di  similitudini.  Se  con  t-   indichiamo  la  trasforma- 
ne 

zione  generatrice,   le  equazioni  — —  =  u  (u  cost)  danno 

aik  =  e-"r'  cik  {x2l  x3). 

Spazii  che  ammettono  un  G2  di  similitudini  (e  che   quindi   ammettono  un    Gx  di 

movimenti).  Prima  di  studiare  questo  caso,  dimostreremo  il  seguente  teorema  generale: 

Nessuno  spazio  può  ammettere  due  trasformazioni  simili  con  le  medesime  traiettorie. 


(*)  Le  considerazioni  seguenti  si  potrebbero  semplificare,  valendoci  dei  risultati  della  mia  nota 
sui  gruppi  conformi,  pubblicati  negli  Atti  di  codesta  Accademia,  dopo  già  cominciata  la  stampa  del 
presente  lavoro  ;  da  essa  si  deduce  che  gli  spazii  ora  cercati  sono  conformemente  (non  geodeticamente) 
applicabili  sugli  spazii,  che  ammettono  puri  movimenti. 

Serik  II.  Tom.  LUI.  Mi 


298  GUIDO   FUBINI  38 

Questo  teorema  corrisponde  al  teorema  analogo  del  prof.  Bianchi  (Sugli  spazzi 
a  tre  dimensioni,  ecc.,  "  Memorie  della  Società  Italiana  delle  Scienze  „,  1897)  che  dice 
non  potere  esistere  uno  spazio,  che  ammetta  due  movimenti  infinitesimi  con  le  stesse 
traiettorie.  Però,  mentre  il  teorema  del  prof.  Bianchi  vale  in  generale,  nella  dimo- 
strazione del  presente  teorema,  io  farò  uso  della  condizione  che  lo  spazio  sia  reale  : 
unico  caso  del  resto  che  c'interessi.  La  nostra  dimostrazione  è  naturalmente  perciò 
un  po'  più  complicata  e  distinta  da  quella,  che  il  prof.  Bianchi  dà  per  i  gruppi  di 
movimenti  (*). 

Siano  .Xj ,  X2  due  trasformazioni  simili  con  le  stesse  traiettorie  ;  per  il  teor.  del 
prof.  Bianchi  esse  non  potranno  essere  ambedue  due  movimenti.  Esisterà  però  (§  5) 
una  loro  combinazione  lineare  che  è  un  movimento  puro  ;  e  per  semplicità  diremo  A', 
questa  combinazione  lineare;  indicando  con  X2  un' altra  combinazione  lineare  distinta 
da  X, ,  sarà  X2  una  trasformazione  simile,  ma  non  un  movimento  e  per  essa  varranno 
le  formule:  a'ik=  uà*,  dove  u  è  una  costante  non   nulla,  che,  moltiplicando    la    X8 

per  — ,  si  può  rendere  uguale  ad  1.  Poniamo: 


1        Lj      òzi 


dove  con  n  indichiamo  il  numero  delle  dimensioni  dello  spazio;  indicando  con  X  una 
funzione  di  x1,xt,...,xn  sarà 

*=^±- 

Poiché  Xt  è  un  movimento,  avremo 

E  poiché  X2  è  una  trasformazione    simile    per  cui  1  è  il  rapporto    di   similitu- 
dine, sarà: 

(34)  2i  LXEr  i^r  + a"  ~hr  + a*  -^r  J  =  ""■  ■ 

Sottraendo  dalla  (34)  la  (33)  moltiplicata  per  X  si  ottiene: 

v  r       r      9X       .  _     ÒX   _i 

(35)  Lla'X^  +  ak'Ir^.\  =  'U- 

Ponendo  nella  (35)  i  =  k  si  ottiene: 
dX 


(36)  2-^  £«*£,  =  a ,.. 

Moltiplicando  la  (35)  per  2  ^-  ^-  e  ricordando  che  per  (36)  si  ha: 

otteniamo 

/«,„■*  là*  \*   i  /    ÒX      2        n  ^        <^ 


(*)  Cfr.  la  mia  Nota  citata   per  un  teorema  più  completo. 


39  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  299 

Ma  ora,  trattandosi  di  elementi  reali,  è 
(38)  lan akk  —  4<4  >  0.  (i=¥=k) 

Moltiplicando  la  (38)  per  (-%—  * —  ]2  otteniamo, 

se  t—  -5 —  =4=  0.   Se    invece    fosse  -t —  t —  =  0    dovremmo    nella    (39)    al   posto    del 

ÒXi    OXk  0X,      OXìt  v       >  * 

segno  >   sostituire  il  segno  = .  Ma  ora  la  (39)  diventa  per  la  (37) 

Mas)  Masr)  -W^r)  +°»l-sr)  J  >0 

ossia 

che  è  un'uguaglianza  assurda.  E  dunque  sempre: 


Se  dunque  fosse  p.  es.  -ì     =4=  0  dovrebbe  essere 

ossia 

X  =  X  (x'j). 

Cambiando  le  coordinate,  si  vedrebbe  che  dovrebbe  essere  perciò  X  =  cost,  e 
quindi  sarebbe  assurda  la  (35).  Ma  anche  più  chiaramente  si  può  procedere  così: 
Ponendo  nella  (35)  t=t=l,  fe=)=l  si  otterrebbe  per  le  (40) 

0  =  a,,;  (*'4=1,  A- =4=1) 

uguaglianza,  che  è  evidentemente  assurda.  È  perciò  assurda  la  nostra  ipotesi;  né 
quindi  potrà  mai  esistere  uno  spazio  reale  con  due  trasformazioni  simili  che  ammet- 
tano le  stesse  traiettorie. 

Premesso  questo  teorema,  noi  possiamo  ritornare  alla  nostra  questione  che  è 
immediatamente  risoluta.  Siano,  p.  es.,  Xlt  X2  le  due  trasformazioni  simili  dello 
spazio.  Per  i  noti  teoremi  di  Lie  noi  potremo  supporre  o 

(X,  X2)  =  (i         oppure         (X,  X2)  =  X,. 

Una  combinazione  lineare  delle  X1,  X2  dovrà  essere  un  puro  movimento  ;  nel 
primo  caso  possiamo  supporre  che  questo  movimento  sia  proprio  la  X1;  nel  secondo 
caso  potremo  supporre  che  esso  sia  la  Xx  o  la  Xa.  Anzi,  poiché  il  gruppo  di  movi- 
menti è  invariante  nel  gruppo  totale  di  similitudini,  dovranno  essere  o  ambedue  le 
Xa,  À'2  puri  movimenti  (caso  del  prof.  Bianchi)    oppure  la   Xx  sarà  un  movimento. 


300  GUIDO    FUCINI  ^O 

Poiché  le  Xu  X2  sono  linearmente  indipendenti,  potremo,  per  i  teoremi  di  Lio,  porre 
nel  primo  caso 

^  *  =  £'         X>=h< 

Nel  secondo  caso  potremo  porre 

Nel  caso  (41),  indicando  con  u  la  costante  di  similitudine  di  ars,  avremo: 

ò  '.     „  ògg     

da  -,  c\i_,  ^    ,k 

ossia 

dove  le  c,fc  sono  funzioni  di  ,r3.  Nel  caso  (42)  troveremo,  con  notazioni  analoghe, 
dai*  __,  dn,t     ,  à(e-*s)     .  d(f— *0  rt 

^-  =  M«,       e  -^-gj-  +  «.,  -^-  +  aw      ^      =  0 
donde 

rtu  =  e."*»cu(a;s);  a13  =  e."-^,..^);  a33  =  f"'V:;:j(.rs) 

«12  =  «-"H^ic^^s)  +  c12(.r3)]         a32  =  ef^ixiCuixs)  +  c23(*3)] 
,/,,„  =  e/*"  [2aj,Ci2(a!3)  +  c22(a;3)  +  ajfcls(a;8)]  . 

Spazzi  83  che  ammettono  un  S3  di  similitudini.  Essi  ammetteranno  un  gruppo  G2 
di  movimenti;  perciò  (Bianchi,  loc.  cit.)  il  loro  elemento  lineare  si  potrà  supporre 
di  uno  dei  due  tipi: 

(43)  ds2  =  dx\  +  adx\  +  2$dx2dxs  +  i<!r 

(44)  ds'2  =  dx\  -4-  adxi  -j-  2({5  —  ax2)dx2dx:i  -4-  {axì  —  2$x2  -4-  i)dx\ 

dove  a,  (5,  T  sono    funzioni  di  x1.  Nel    primo    caso  il  G2  corrispondente    è    generato 

dalle  Xi  =  - — ,  -3T2  =  -r — ;  nel  secondo  caso  dalle  X1  =  a —  ;   À'2=e2!3  .      .  Poiché 

noi  trascuriamo  il  caso  in  cui  il  G3  sia  tutto  composto  di  movimenti  (che  allora  si 
ritornerebbe  al  problema  del  Prof.  Bianchi)  questo  G2  è  un  sottogruppo  invariante 
del  nostro  G3;  cosicché  se  X3  è  una  terza  trasformazione  infinitesima  di  questo 
gruppo,  indipendente  da  Xu  X2  avremo  delle  equazioni  del  tipo  : 

(45)  (  XtX3)  =  aXt  +  bX2         (X2X3)  =  cX,  +  dX2 

dove  a,  b,  e,  d  sono  costanti.  Prima  di  procedere  oltre  nella  discussione  dimostreremo 
un  altro  teorema  generale: 

Se  uno  spazio  S„  ammette  un  gruppo  Gm  di  similitudini,  e  questo  un  sottogruppo 
(?„,_!  di  movimenti,  e  se  i  gruppi  Gm,  Gm^  hanno  le  stesse  varietà  minime  invarianti 
V„_k  (k  >  0),  allora  il  gruppo  G„,  è  un  gruppo  di  movimenti. 

Infatti  in  tal  caso  l'elemento  lineare  del  nostro  spazio  si  può  porre  sotto  la  forma 

ds*  =  dx\  -4-  ^  atlidx,dxi 


41  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  301 

e  il  gruppo  Crm_!  ha  trasformazioni  generatrici  del  tipo 

>\A  dove  ^=0 

La     Aav  da;f 

(Cfr.  la  mia  meni.:  Sugli  spazii  a  un  numero  qualunque  di  dimensioni  che  ammettono 
un  gruppo  continuo  di  movimenti,  §  1°,  "  Annali  di  Matematica  „,  1902).  Se  indi- 
chiamo con 


H=I>i 


la  w-esima  trasformazione  generatrice  di  Gm  oltre  a  quelle  di  6rm_,  sarà  per  l'ipotesi 
fatta  n,  =0.  Sia  ora  u  il  parametro  di  similitudine  di  questa  trasformazione;  sarà 

a'ik  =  [xaik 
e  in  particolare 

a'u  =  M«n 

ossia  (poiché  «u=l,  alk  —  0  se  fc=f=l,  r)i  =  0): 

0  =  |*. 

Quindi  anche  H  è  un  movimento;  il  gruppo  Gm  è  tutto  formato   di  movimenti. 

Ritorniamo  ora  al  nostro  problema;  siccome  il  G3  supposto  non  è  un  gruppo 
di  puri  movimenti,  non  potrà  per  il  teorema  precedente  essere  intransitivo;  ossia, 
posto  : 


X, 


La    *'T> 


dovrà  essere  S^O.  Per  gli  spazii  (43)  troviamo  per  (45)  che  sarà: 

^L=È!l  — o-     ò^-=a-      ^-  =  c-     ò-^-  =  b-     ^*-  =  d 

dx,        à.r3  '     dx?  '       òx3  '      *x3  '      <Vr, 

e  quindi,  indicando  con  Hi,  12,13  delle  funzioni  di  xt,  avremo: 

X3=  m -$£  +  («e,  +  c«3  +  lo)  -^r  +  (&*2  +  cfe3  +  n3)  ^  • 

Indichiamo  con  2u  la  costante  di  similitudine  per  questa  trasformazione.  Otter- 
remo dalle: 

a'n=2\xan;  «'12=2u«12;  «r/13=  2ua13 
che: 

2ti'1(»1)  =  2u       on'a  -f  Pi'*  =  0       rn's  +  Pn'a  =  0 

ossia,  poiché  ay  —  32  >  0 

n'i(.*'i)  =  M         n's  =  Tl'3  =  °- 
Cambiando  il  parametro  xx  in  xy  +  cost ,  moltiplicando  la  X3  per  un  conveniente 


302  GUIDO    FUBIN1  42 

fattore    costante    e    sottraendone    una    conveniente    combinazione    lineare  di  X, ,  X2 
vediamo  perciò  che  si  potrà  fare: 

A':;  =  xl  j^  4-  {ax2  +  c^3)  ^-  4-  (&e2  +  cfo3)  ^-  . 

Le  «'22  =  2«22,  «'33  =  2a33,  «'23  =  2a23  danno  un  sistema    di    equazioni    lineari 
per  le  a,  (3,  y  che  s'integrano  con  le  solite  regole. 
Nel  caso  (44)  la  condizione: 

(T.fXX,)  )  +  (A,(A:;A,)  )  +  (WA)  )  =  0 

dà  a=c  =  0.  Togliendo  poi  da  Xs  un  conveniente  multiplo  di  X2,  si  ha  per  le  (4.")) 
che  si  può  supporre  b  =  0.  Per  le  (45)  avremo,  che    indicando    con  ni,n2,n3   delle 
unzioni  di  .r,,  si  può  porre: 

*  =  m-£  +  [n,  +  (*  +  n,)*l£+n.-£. 

Si  riconosce,  come  sopra,  che  si  può  fare  ih  =  .'i  e  che  è  n2  =  cost,  n3  =  cost. 
Sottraendo  da  A'3  la  Xt  moltiplicata  per  la  costante  n3,  mutando  .r2  in  :r2  +  cost, 
si  vede  facilmente  che  si  può  fare 

Z3=*i^+-^     oppure     X,=  *1^|;-+*.-4. 

Le  equazioni  corrispondenti,  tanto  nell'uno  che  nell'altro  caso,  si  integrano 
senza  difficoltà. 

Non  è  poi  necessaria  la  ricerca  degli  S3  che  ammettono  un  gruppo  simile  a  più 
di  tre  parametri;  perchè,  ammettendo  essi  allora  un  gruppo  di  movimenti  ad  almeno 
tre  parametri,  essi  rientrano  tutti  nei  tipi  studiati  dal  prof.  Bianchi.  Il  nostro  pro- 
blema è  così  completamente  risoluto  (*). 


§  8.  Ricerca  generale  degli  spazii  ad  n  dimensioni 
che  ammettono  un  gruppo  geodetico. 

Poiché  il  problema  della  determinazione  degli  spazii  ad  n  dimensioni,  che  am- 
mettono un  gruppo  continuo  di  movimenti  è  già  stato  da  me  ampiamente  trattato 
in  una  Memoria  già  citata,  e  poiché  uno  spazio  che  ammette  un  Gr  geodetico  con- 
forme, ammette  anche  un  G ._,  di  movimenti,  noi  considereremo  già  risoluto  il  pro- 
blema della  determinazione  degli  spazii  che  ammettono  un  gruppo  geodetico  tutto 
formato  di  trasformazioni  conformi  ;  e  ci  accontenteremo  di  ricordare  oltre  ai  risul- 
tati, che  si  possono  dedurre  dalla  mia  Memoria,  quelli  ottenuti  per  il  caso  generale 
nelle  ultime  pagine  del  §  7  e  quelli  della  mia  Nota  citata.  E  ricercheremo  ora  quegli 
spazii  ad  n  dimensioni,  che  ammettono  una  qualche  trasformazione  geodetica  non  con- 


(*)  Per  i  risultati  della  mia  nota  citata  un  S3  con  un  G,  di  similitudini  dovrebbe  essere  appli- 
cabile conformemente    su   uno  dei  tre  tipi    di    spazii   che    ammettono  un  (?4  di    movimenti,  il  cui 
gruppo  6r3  derivato  dovrebbe  ancora  essere  un   G3  di  movimenti:  la  ricerca  è  perciò  una  cosa  faci- 
immediata. 


43  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE 

forme.  I  loro  elementi  lineari  devono  essere  del  tipo  (1)  del  §  5  e  di  più  il  sistema 
coordinato  deve  essere  il  sistema  canonico  di  qualche  trasformazione  infinitesima. 
Cominciamo  intanto  a  studiare  quelli  di  questi  spazii,  il  cui  elemento  lineare  coincide 
con  l'elemento  aggiunto,  ossia  gli  spazii  del  tipo 

(i)  «fo»  =  £rn/(q*— ¥,)]&£. 

Fondamento  della  nostra  ricerca  è  la  semplice  osservazione  che  tutti  i  simboli 
a  4  indici  di  seconda  specie  di  questo  spazio  sono  tutti  nulli  eccetto  che  i  simboli 
del  tipo  \ij,  ij\  =  —  )ij,ji\  (*=f=/)  e  che  tra  questi  valgono  le  due  seguenti  identità, 
di  cui  la  prima  fu  già  da  noi  trovata  nel  caso  particolare  di  n  =  3. 

I)  Le  quantità  —   ,1J .    _^_'  '  '    *    per   i  =#=/#=  &4=  i    sono    simmetriche   nei    tre 
indici  i,j,  k;  noi  le  indicheremo  con  (i,j,k)  e  potremo  quindi  scrivere: 

(i,  j,  k)  =  (j,  i,  k)  =  {i,  k,  j)  =  (k,  j,  i)  =  (k,  i,j)  =  (/,  k,  i).  (i  =j=j  dp  / 

II)  Se  i,j,  li,  k  sono  quattro  indici  distinti  qualunque,  è: 

(2)  (ip.  —  H>,)  (*  i  j)  +  (%  -  mi»)  (kj  h)  4-  (Và  -  Vl)  (Jfc  A  j)  =  0. 

Questa  identità  si  verifica  facilmente  con  l'effettivo  sviluppo. 
Premesse  queste  due  serie  di   identità,  il  nostro  problema  per  gli  spazii  (1)  si 
risolve  rapidamente.  L'equazione 

)ij,ki\'  =  0  {i^j=^k) 

dà: 

[  ;  ij,  ij  j  -  )  i  k,  ik  (  ]  -gL  =  o        ossia        (i  kj)-gr  =  0. 

Se  non  è  quindi     .'    =  0  (j=hk)  sarà  qualunque  sia  i,  purché  differente  da  j,  k 

(3)  (ikj)  =  0  (i~k.i^j). 

Siano  i,  h  due  indici  distinti  tra  loro  e  differenti  da  ;',  k;  sarà  per  (3) 

(ikj)  =  (hkj)  =  0. 
E  quindi  per  (2)  sarà 

(3')  {khi)  =  0  (i^h:i^=k.i^j-h^kj,-\i\. 

Le  (3),  (3')  danno  che  sarà  sempre 
{3")  {khi)  =  0  {h^i^k^h). 

Sia  t  un  indice  distinto  da  /•,  h,  i.  Avremo 
(3'")  (kti         0  (t^=k,  li,  i;k^i). 

Le  (3"),  (3'")  insieme  all'equazione  che  si  deduce  da  (2)  ponendovi  k.  t,  li,  i  al 
posto  di  k,  h,  j,  i  danno  infine 

(4)  (ith)  =  Q 


304  GUIDO    FTJBIN1 


44 


con  la  sola  condizione  che  i  =*=  t  4=  /t  =#=  ».  Dunque  se  anche  una  sola  delle  derivate     — 
non  è  nulla  0'=t=/fc),  dovranno  essere  verificate  tutte  le  (4)  ossia  avremo  sempre 

\it,it\  =  \i  h,  i  li  (i  =f=  M  =#=  &) 

ossia 

(<  <,  t  Q    (i  h,  i  h) 

mi  ahh 

ossia  le  espressioni  Ji^L  («=)=*)  saranno  tutte  uguali;  e  per  un  teorema  di  Schur 
lo  spazio  sarebbe  a  curvatura  costante.  Quanto  al  sistema  delle  xu  x2,  x3 x„  ba- 
sterebbe poi  ora  ripetere  le  considerazioni  già  svolte  per  «  =  3.  Escluso  questo  caso 
anche  per  n  >  3  potremo  perciò  scrivere  E,  =  2,  (x,)  ;  e  quindi  il  sistema  coordinato 
sarebbe  canonico  per  ogni  Gt  geodetico  e  si  avrebbero  quindi  le: 

La  discussione  di  questo  sistema  per  n  >  3  è  in  parte  analoga  e  in  parte  no  a 
quella  svolta  per  il  caso  n  =  3.  Noi  la  svolgeremo  rapidamente.  Dalle  (5)  si  deduce, 
come  nel  caso  n  =  3  che 

Ei  W,'  —  irV/r  i  i  -v 

ip,  —  njr  1  VT  ' 

è  una  costante,  che  noi  indicheremo  con  n,r  =  nri.  Ne  traggiamo 
E,  ip,'  —  q  Vi2  —  Htr  V.  =  gr  Mi/  —  g  vp,'2  —  n„  i(i,. 
Queste  due  espressioni   saranno   uguali   ad   una  stessa  costante  eir  =  er,.  E  noi 
avremo  : 

(ti)  2,  Vi  =  2  W  +  n,r  Y,  +  e,r- 

Le  (5)  diventano  così 

(7)  2     g     =p-(n-8)jM.i-2'nfr  =  0 

dove  nella  sommatoria  del  secondo  membro  si  deve  escludere  che  sia  r  =  i.  Dalle  (6) 

si  ha  poi  che 

Air  Mi.  +  Ut 

non  dipende  dal  valore  dell'indice  r,  (naturalmente  però  differente  da  i).  Ora,  siccome 
per  ipotesi  lo  spazio  non  è  a  curvatura  costante  nulla,  si  potrà  supporre  che  una 
delle  iji  almeno,  p.  es.  la  \\>1,  non  sia  costante. 

Poiché  le  riir  Vi  4-  £ir  sono  uguali,  se  ne  deduce  che  nlr,  elr  non  dipendono  dal 
secondo  indice;  cosicché  si  potrà  scrivere 

Hlr  =  n  «ir  =  £ 

dove  n,  e  sono  due  costanti.  Ma  ora  per  l'osservazione  precedente,  se  r,  s  sono  due 
indici  distinti  fra  loro  e  da  1,  sarà 

(Tiri  —  HrS)  Vr  +  (<Vl  —  *rs)  =  0 

(l,i  —  r\„)  mi,  +  (e,i  —  £.,r)  =  0. 


45  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  305 

Poiché 

n,i  =  n,i  =  n,  n»  =  n.,-,  e«  =  e«-,  «,.,  =  e„  =  e, 

si  ha: 

(ti,.  -  n)  Vr  +  (««  -  e)  =  0 

(ìl„  —  n)  Y.  +  K  -  e)  =  o. 

Poiché  r=f=s,  è  certo  i|»r=l=»p,  perchè  altrimenti  l'elemento  (1)  sarebbe  degenere. 

È  perciò 

n„  =  n     e,,  =  e 

qualunque  siano  gli  indici  r,  s. 
Le  (6),  (7)  diventano: 

(8)  £,  w,'  =  <ì  Vi2  +  n  M>,  +  e 

2  £,'  =  j3  —  (w  —  1)  n  —  («  —  3)  ^  l|), 

e  scrivendo  ^?  in  luogo  di  p  —  (n  —  1)  n 

(9)  2  l'—p  —  (n  —  S)qWi- 

Dalla  (8)  ricaviamo,  poiché  tutte  le  ijj,  sono  distinte: 

Se  alcuna  delle  4»,  è  costante  e  lo  spazio  (1)  ammette  una  trasformazione  geode- 
tica, le  y,  costanti  saranno  soluzioni  di  una  stessa  equazione  di  secondo  grado;  non 
possono  perciò  esistere  più  di  due  ip;  costanti. 

Studiamo  dapprincipio  il  caso  in  cui  nessuna  delle  iy,  sia  costante.  Si  può  allora 
dimostrare  un  teorema  generalizzazione  di  uno  già  trovato  per  n  =  3. 

Se  uno  di  questi  spazii  ammette  una  trasformazione  geodetica  X,  esso  è  applicabile 
geodeticamente  su  un  altro  spazio  per  cui  X  è  una  trasformazione  simile.  Infatti  se  in  (8) 
fosse  g  =  0  la  trasformazione  sarebbe  per  (5)  simile.  Supponiamo  dunque  q  =4=  0.  Allora 
aggiungendo  alle  tp,  una  stessa  costante  si  può  fare  e  =  0.  Osserviamo  ora  che  lo 
spazio  (1)  è  geodeticamente  applicabile  su 

(10)  =^y^^=^dxi 

Mutiamo  i  parametri  x„  ponendo 

dtj\  =  ni"-3  dx\. 
L'elemento  (10)  si  scriverà  con  le  nuove  coordinate 

(il)  JjTT/w-rodtf 

dove  V  —  — ,  Vi  =  — .La  trasformazione  X=  7  £,  -» —  diventa  X  =   7  n, dove 

1         %  Vt  Lj      ox,  /_i      di'. 

,  dx, 

e  la  (8)  diventa  (poiché  e  =  0) 
(8')  ni^==_T|Fi-j 

Serie  II.  Tom.   LUI.  N1 


306  GUIDO    FUBIXI  i6 

che  è  analoga  alla  (8)  dove  manchi    il    termine  che  contiene   il   quadrato  di   V,.   La 
nostra  trasformazione  è  perciò  una  similitudine  per  (11). 

Come  per  w  =  3,  abbiamo  qui  dovuto  escludere  il  caso  che  una  delle  i\>  iniziale 
fosse  costante,  perchè  altrimenti  avrebbe  potuto  una  delle  V,  diventare  infinita. 

Ma  noi  ora  possiamo  per  il  caso  n>3  completare  il  precedente  risultato.  Per  il 
risultato  precedente  possiamo  porre  g  =  0  nelle  (8),  (9). 

Esse  diventano  così  : 
(8")  E,  ip,'  —  imi,  +  r 

(9").  2Zi'=P         ossia         £,=   ;;   a 

dove  X,  sono  costanti.  La  (8")  diventa  quindi 

(12)  ■-.  +X,  )Vl'  =  imi,  4-e. 

Naturalmente  di  tutti  questi  spazii  non  ci  interessano  che  quelli  che  oltre  alla 
supposta  trasformazione  simile  ammettono  eventualmente  una  qualche  trasformazione 
geodetica  non  conforme;  per  cui  oltre  alla  (12)  dovranno  sussistere  altre  equazioni 
come  le  (8),  (9)  in  cui  il  valore  di  q  non  è  nullo.  Indicando  con  j,;  n,,  p,,  «,  delle 
costanti,  dovranno  sussistere  le  equazioni  : 


(13)  li  hV  =  g,  m  +  li  Vi  +  €,       (gì  =t=  o) 

,/E; 
dxi 


(14)  2    g    =  px-(«  -3)glV, 


dove  naturalmente  è  Hj  =  S^  (»<). 

Noi  studieremo  un  po' più  tardi  questo  sistema  di   equazioni;  e  vogliane 
minare  dapprima  il  caso  in  cui  una  o  due  delle  i)J,  siano  costanti.  Se  lo  spazio  cor- 
rispondente  ammette  solo   un  gruppo  G1  geodetico    (oltre   al    movimento  -—  se    la 

sola  i)j,  è  costante,  oppure  oltre  ai  movimenti  a  -r 1-  B  -j—  (a,  S  costanti)  se  sono 

costanti  le  ip„  %.)  si  possono  ripetere  ragionamenti  analoghi  a  quelli  tenuti  per  il 
caso  n  =  3.  Si  deve  cioè  supporre  nelle  (8),  (9)  q  =f=  0,  e  si  deve  ammettere  che  il 
polinomio  del  secondo  membro  delle  (8)  si  annulli  quando  al  posto  di  ip,  si  sostitui- 
scano i  valori  di  quella  o  di  quelle  ty  che  si  suppongono  costanti.  L'eliminazione 
dalle  (8),  (9)  delle  l  ci  dà  poi  un'equazione  alle  derivate  ordinarie  per  quelle  iy,  che 
non  sono  costanti,  e  che  serve  a  definirci  tutti  gli  spazii  cercati. 

Noi  ora  vogliamo  risolvere  la  questione  di  cercare  quelli  di  questi  spazii  che 
ammettono  oltre  alle  trasformazioni  ora  citate,  qualche  altra  trasformazione  geode- 
tica, ossia  (§  5)  qualche  trasformazione  conforme.  Anche  qui,  come  precedentemente, 
il  problema  si  riduce  alla  ricerca  di  quei  sistemi  di  valori  delle  iy,  per  cui  valgono 
le  (12)  e  si  possono  integrare  le  (13).  E  alla  discussione  di  questo  problema  noi  ora 
ci  rivolgeremo. 

I"  caso.  Siano  due  delle  iy„  p.  es.  le  ij»i,  H»2,  costanti.  Ponendo  in  (12)  i=  1, 
i  =  2  si  trova  n  i^  -f-  e  =  n  ip2  -f-  e  =  0  ;  poiché  i)^  =i=  n>2  sarà  ti  =  £-0  e   quindi 

(-£-  Xi  +  \  )  v/  —  0.  Poiché  se  i  =4=  2,1  è  qi/  4=  0,  sarà  dunque  p  =  0,  X,  =  0  (i  =4=  1,2); 


47  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  307 

quindi  le  uniche  trasformazioni  conformi  possibili  sono    i    movimenti  noti    a    priori 
— ,   ^-;  di  questo  caso  è  perciò  inutile  occuparci  più  oltre. 

II0  caso.  Sia  una  sola  al  più  delle  ijj„  p.  es.  al  più  la  \yu  costante. 

Se  p  =  0,  aggiungendo  alle  x,  opportune  costanti,  si  può  fare  X,  =  0. 

Se  n  4=  o,  aggiungendo  alle  iji;  una  stessa  costante  si  può  fare  e  =  0. 

Sia  p.  es.  p=4=  0,  n  =f=  0.  Avremo  dalla  (12)  che  sarà  H>,  —  k\  x,0  (A„  ò  costanti). 
Dalla  (14)  otterremo,  indicando  con  v,  delle  costanti: 

2  E,  =  v,  +  Pl  Xi  -  (n  -  3)  ch  ^~-  x^    (se  b  =H  -  1) 
2  li  =  Vi  +  px  cui  —  (n—  3)  g  fc,  log  a',     (se  b  #=  —  1). 

Sostituendo  in  (13)  troviamo  nel  secondo  caso,  poiché  ^  #=  0,  »-3=)=  0,  che 
sarebbe  fc,  =  0  ;  ciò  che  è  assurdo.  Nel  primo  caso  (osservando  che  b  =4=  0)  troviamo, 
paragonando  i  coefficienti  di  scf" , 

2l/^=  —  («  —  B)q1k\  -j^- 
che  è  assurda,  poiché 

3x4=0,  A-,  ==  0  (i  >  1),  »>3,  ò=*=0,  b=i=—  1. 
Sia  ora  invece  p  =  0,  n=t=0:  si  potrà  supporre  e  =  0.  Dalla  (12)  otteniamo: 

yi  =  hieWi  dove  h„\Xi  sono  costanti  e  /ì,  =!=  0,  u,  =4=0  (se  «  >  1). 
Per  la  (14)  è,  indicando  con  v,  delle  costanti: 

2  2,  =  v,  +  p,  .r,  £■  2x  «"**  (»  -  8)  (»  >  1) . 

Sostituendo  in  (13)  e  uguagliando  a  zero  il  coefficiente  di  e2^»  si  trova  l'ugua- 
glianza assurda: 

-  (n  —  8)  -|-  *J  e*?"*<  j,  =  gr,  h]  e-'"--  . 

Sia  ora  p  ==0,  ti  —  0.  Si  potrà  supporre  \,  =  0.  E  dalla  (12)  si  ottiene  che,  indi- 
cando con  €,  p,  delle  costanti,  si  può  fare: 

H>,  =  e  log  Xi  4-  p,  (e  =4=  0) 

donde,  per  la  (14), 

2  2,  =  v,  -f  [px  —  («  —  3)  gx  p,]  .r,  —  (»  —  3)  ft  €  (r,  log  a*  —  j\) 
—  v.  +  bi  +  (w  —  3)  2i  (e  —  P')J  x<  ~~  ("  —  3)  2i  €  ''•  lo=  ''■■ 
Sostituendo  in  (13)  e  confrontando  i  coefficienti  di  log2  .r,  si  trae  l'uguaglianza 
assurda 

-  («-3)gi4  =  2i€2- 

Dovremo  dunque  supporre  j>  =  n  =  0.  Se  anche  e  fosse  nullo  dalla  (12)  si  trar- 
rebbe X,  =  0  per  i>l  e  anche  per  i  =  1  se  ^1  =*=  cost- 

Non  vi  sarebbe  perciò  nessuna  nuova  trasformazione  conforme.  Sia  dunque  e  =1=0; 


308  GUIDO    FUBINI  48 

sarà  allora  per  (12)  ip,'=!=0  anche  per  *  =  1;  ossia  nessuna  ip,  sarebbe  costante:  e 
potremmo  porre  per  (12) 

4»,  =  2  k,  x,         (À-,  =  cost). 

La  (14)  ci  dà: 

2  l:  =  v,  +  ^-  x,  —  (n  —  3)  g,  /, 

che  sostituito  in  (13),  dà  un'uguaglianza  che   dev'essere    identicamente    soddisfatta. 
Annullando  il  coefficiente  di  x\  abbiamo: 

—  («— -3)  v,A-;  =  4  qxk\ 

che  è  assurdo.  Possiamo  dunque  dire: 

Lo  spazio  (1)  se  non  è  a  curvatura  costante  e  se  nessuna  delle  u»,  è  costante  non 
può  per  ii  >  '■'<■  ammettere  più  di  una  trasformazione  geodetica  noti  conforme;  e  per  un 
teorema  precedente  si  può  perciò  restringere  la  ricerca  a  quei  casi  in  cai  una  <>  dm 
delle  i)i,  sono  costanti.  E  anche  lo  studio  di  questi  casi  si  trova  completato  nelle 
pagine  precedenti. 

Volgiamoci  ora  all'altro  caso:  al  caso  cioè  di  quegli  elementi  lineari  del  tipo  (1) 
del  §  5  che  non  coincidono  con  l'elemento  lineare  aggiunto. 

Imprendiamo  le  notazioni  e  le  denominazioni  del  §  5.  Risolviamo  intanto  il  pro- 
blema di  determinare  tutti  gli  elementi  (1)  per  cui  il  sistema  coordinato  sia  inva- 
riante e  quindi  anche  canonico  per  qualche  trasformazione  geodetica  dello  spazio  e 
di  trovare  corrispondentemente  tutte  queste  trasformazioni.  Osserviamo  per  maggior 

precisione,  che  con  ciò  intendiamo  dire  che  queste  trasformazioni  >  £r  -z — sono  tali 

che  le  H;  il  cui  indice  è,  p.  es.,  della  v-esima  specie  sono  funzioni  soltanto  delle  x, 
della  v-esima  specie.  Scriviamo  intanto  le  (3)  del  §  5.  Esse  sono: 

r,  rW 

Nella  (16)  la  specie  £-esima  non  deve  essere  del  primo  sistema;  >\  prende  natural- 
mente soltanto  i  valori  degli  indici  del  primo  sistema,  mentre  i,  k,  r  prendono  soltanto 
i  valori  degli  indici  di  specie  ^-esima.  Se  poi  indichiamo  con  i,  k  due  indici  di  specie 
differente  avremo  le: 


ht,      .    V         òi 


d7)  «'<■=!>..  A +  5> 


_  0 

O.T, 


dove  ;'  percorra  tutti  gli  indici  della  stessa  specie  di  i,  li  tutti  gli  indici  della  specie 
di  k.  Queste  equazioni  (77)  sono  nella  nostra  ipotesi  identicamente  soddisfatte. 
Come  precedentemente,  dalle  (15),  1(5)  le  quantità 

(18)  e„  =  e„  =       ^r_Vft        -  9  fa*  - 


49  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE 

sono  effettive  costanti;  cosicché  dalle  (15)  si  trae,  posto  u  =  «  —  m +  1, 
(19)  2  g  =  p  -  £'e*  -  (fi  -  3)  g  ift, 

dove  nella  sommatoria  del  secondo  membro  è  s=M. 

Il  sistema  delle  (18),  (19)  si  discute  come  i  sistemi  analoghi  precedentemente. 
La  (16)  in  virtù  delle  precedenti  diventa  poi: 

(1 
La  (20)  dimostra  che  N    lT  -y-   è  una  similitudine  per 

r(i] 

Zk,h  d.i\  d.r 

se  i,  k  variano,  restando  di  specie  ^-esima.  Poiché  i  gruppi  simili  furono  da  me  già 
studiati  in  memorie  citate,  noi  potremo  senz'  altro  riguardar  note  le  Er  di  specie 
Z-esima  (/=i=l)  e  le  K,k  relative.  Le  Er  del  primo  sistema  si  ottengono  dalle  (18),  (19) 
(■oii  metodi  analoghi  a  quelli  usati  nelle  pagine  precedenti. 

È  così  risoluto  completamente  il  problema  di  trovare  gli  spazii  (1)  del  %  •">  che  am- 
mettono trasformazioni  geodetiche,  per  cai  il  sistema  coordinato  è  invariante,  e  di  deter- 
minare  queste  corrispondenti  trasformazioni  infinitesime. 

Noi  ora  dimostreremo  che,  tranne  al  più  qualche  caso  specialissimo,  tutte  ti 
trasformazioni  geodetiche  'li  un  qualsiasi  spazio  del  tipo  (1)  del  §  5  lasciano  invariato 
il  sistema  coordinato;  e.  per  il  teorema  precedente  si  potrà  quindi  immaginare  risoluto, 
eccetto  al  più  in  questi  specialissimi  casi,  il  nostro  problema.  Di  più  troveremo  una 
lunga  serie  di  equazioni  che  anche  per  questi  specialissimi  casi  permetterebbero  cer- 
tamente, volta  per  volta,  di  completare  senza  difficoltà  la  discussione,  sebbene  io  non 
sia  riuscito  a  dimostrar  questo  per  il  tipo  generale  e  per  n  qualsiasi.  Prima  di  di- 
mostrare quanto  abbiamo  ora  enunciato,  voglio  fare  due  osservazioni,  che  sono  assai 
utili  per  semplificare  volta  per  volta  la  discussione  degli  eventuali  casi  eccezionali 
testé  citati. 

1...T 

Se  /  £>--^—  è  una  trasformazione  geodetica  per  il  nostro  spazio,  allora  ^  E,,— 
(>\  del  primo  sistema)  è  geodetica  per  l'elemento  lineare. 

T 

Za     ile 
l 

quando  nelle  lr,  si  riguardino  come  parametri  arbitrarvi  le  "  x  .,  del  secondo,  del  terzo  ecc 

sistema . 

Così  pure  più  in  generede  la 

dove  r  percorre  gli  indici  di  un  certo  numero  di  sistemi  /compreso  il  primo)  è  geodetica 
,,er  quell'elemento  line  ire  dir  si  ottiene  do  quello  del  nostro  spazio  annullando   i  coeffi- 


;ll(l  GUIDO    FUBIXI  50 

denti  che  moltiplicano  differenziali  di  variabili  degli  altri  sistemi,  'piando  nella  (a)  a 
queste  variàbili  si  dia  il  significato  di  parametri  arbitrarli. 

Per  vedere  questo  basta  osservare  che  questi  elementi  lineari  sono  chiaramente 
elementi  lineari  di  varietà  totalmente  geodetiche  nello  spazio  ambiente.  Questa  osser- 
vazione fa  sì  che  lo  studio  dei  nostri  spazii  (1)  del  §  5  con  t  sistemi  distinti  di  indici 
si  potrebbe  parzialmente  ridurre  allo  studio  di  spazii  con  soli  t  —  1,  t  —  2,  ecc.  sistemi 
di  variabili  ;  di  più,  dall'osservazione  che  il  gruppo  geodetico  di  una  varietà  è  sempre 
d'un  numero  finito  di  parametri,  riesce  in  parte  determinata  la  forma  delle  nostre 
trasformazioni  geodetiche;  perchè  al  variare  delle  x,  che  nel  teorema  precedente  si 
devono  considerare  soltanto  come  parametri  arbitrarli,  le  trasformazioni  (a)  devono 
generare  un  gruppo  con  un  numero  finito  di  parametri. 

Cosi,  p.  es.,  esistano  due  sistemi  di  variabili,  e  il  primo  sistema  sia  formato  di 
almeno  due  variabili.  Allora  indicando  con  Xx.  A', Xa  delle  trasformazioni  geo- 
detiche per  l'elemento  lineare  che  si  deduce  da  quello  dello  spazio  dato,  annullando 
i  differenziali  delle  variabili  del  secondo  sistema,  avremo  che  la  più  generale  trasfor- 
mazione geodetica  del  nostro  spazio  dovrà  essere  del  tipo 

(a)  Z  <p,  (xr.)  A',  +  8, 

dove  le  tp,  siano  funzioni  delle  variabili  del  secondo  sistema,  ed  S  sia  una  trasfor- 
mazione infinitesima  su  queste  variabili,  con  coefficienti  che  possono  anche  dipendere 
dalle  variabili  del  primo  sistema.  Se  esistessero  tre  sistemi  di  variabili,  e  il  primo 
fosse  formato  di  almeno  due  variabili,  la  più  generale  trasformazione  geodetica  del 
nostro  spazio  sarebbe  del  tipo: 

IP)  Z <p.  (*ra )  V,  Uv,  )  A,  +  Z  X,  ir,, )  S,  +  Z  u,  (avs )  3 

i 

dove  le  qp  e  u  sono  funzioni  delle  variabili  del  secondo  sistema,  le  ip  e  le  X  delle 
variabili  del  terzo,  le  St  (/?,)  sono  trasformazioni  infinitesime  sulle  variabili  del  se- 
condo (terzo)  sistema,  con  coefficienti  che  possono  anche  dipendere  dalle  variabili  del 
primo  sistema.  E  così  via.  La  dimostrazione  delle  (a),  (P)  si  compie  facilmente  con 
semplici  artifici;  la  ricerca  generale  si  può  quindi  suddividere  nella  ricerca  di  trasfor- 
mazioni (et),  di  trasformazioni  (p),  ecc. 

Ritorniamo  ora  al  problema  generale;  e  premettiamo  alcune  semplicissime  osser- 
vazioni: Tutti  i  simboli  a  quattro  indici  relativi  al  nostro  spazio  sono  tutti  nulli,  se 
gli  indici  non  sono  tutti  della  stessa  specie,  eccetto  che  nel  caso  che  il  secondo  in- 
dice è  uguale  al  terzo  o  al  quarto,  mentre  gli  altri  due  sono  della  stessa  specie. 
Se  poi  quattro  indici  sono  della  stessa  specie,  p.  es.,  della  v-esima,  i  simboli  saranno 
evidentemente  nulli  se  gli  indici  sono  del  primo  sistema.  Ora  insieme  al  nostro  spazio 
consideriamo  l'elemento  aggiunto  e  l'elemento  che  si  deduce  dall'elemento  iniziale, 
ponendo  uguali  a  costanti  le  variabili  che  non  sono  della  specie  v  ;  i  simboli  relativi 
a  questi  due  ultimi  elementi  lineari  si  distingueranno  rispettivamente  con  un  affisso  a 
e  con  un  affisso  v.  Possiamo  allora  dare  sotto  la  seguente  forma  i  valori  dei  simboli 
a  quattro  indici  non  identicamente  nulli 

(21)  P,V»f»\  =  -)&f*,j*W\>=)t8,t8'„klk         (s 


51  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETI  311 

dove  naturalmente,   se   la   specie  t  fosse  del  primo  sistema  e  quindi  i  =  k,  sarebbe 

fr*  =  l. 

(22)  |*.;„*>U  =  l»i,*J|.        (?=^h,j=hl)        (s=4=l) 

.  i  h,\  =  \i  i,  jh\,  +  4-  Y—  ? — — — fO'*  /"  i  ■■■   > 

Tutti  i  simboli  a  quattro  indici,  che  non  entrano  in  uno  dei  tipi  (21),  (22).  (23) 
sono  certamente  nulli.  Ammettiamo  ora  che  esistano  almeno  tre  specie  di  indici  ossia 
che  l'elemento  aggiunto  contenga  almeno  tre  variabili.  L'equazione 

JiWjfcW   JMJM('  =  0 

dove  s,  t,  h  sono  simboli  di  specie  distinte  ci  dà 

ossia  per  la  (21) 

A-„  [  }sm,  swj„  —  J**,s*(«J  -^-  =0. 

Òli  A 

Poiché  fctì  H=  0,  ne  deduciamo  che  se  -r—  =4=  0 

J  SW,  SW  j„  =  j  St,  SÌ  f0 

qualunque  sia  s,  purché  distinto  da  £,  u.  Ripetendo  ragionamenti  già  usati,  ne  dedu- 
ciamo che  lo  spazio  aggiunto  è  a  curvatura  costante. 

Dunque,  se  lo  spazio  aggiunto  non  è  a  curvatura  costante,  e  se  esistono  almeno 
tre  specie  di  variabili,  certamente  i  coefficienti  di  una  trasformazione  geodetica,  corri- 
spondenti alle  variabili  della  v-esima  specie,  non  possono  dipendere  che  da  queste  stesse 
variabili. 

Già  di  qui  si  vede  che  il  caso  da  noi  discusso  è  il  caso  generale;  noi  vedremo 
subito  che  se  le  £  corrispondenti  a  variabili  di  una  certa  specie  fossero  funzioni 
anche  di  variabili  di  altra  specie  dovrebbe  essere  soddisfatta  anche  un'  altra  lunga 
serie   di  equazioni.  La 

\ith„k,l,['  =  0     (h  =4=  k =4=  l  =4=  h)     (s  =4=  *)     (s  =4=  1  ) 
dà 

ossia  per  (22) 

La  equazione 

}»**>*  >,!<-/>■'  !'  -;;v  r./"1. /,M,:'  =  o    (4=4=  Z) 

dove  u  è  indice  d'una  specie  distinta  dalle  specie  v,  s  e  queste  sono  distinte  tra  loro  dà 
(supposto  naturalmente  che  la  specie  s  non  sia  del  primo  sistema)  : 


312  GUIDO   FUBINI  52 

r«)  ri') 

(a)  ^l^i^+S^^lS- 

ri«)  rni 

Diciamo  ora  t  la  curvatura,  supposta  costante  dello  spazio  aggiunto,  avremo, 
indicando  con  Zbkk  dx\  (fe  =  1,  2,  ...  >*  —  m  +  1)  quest'elemento  aggiunto  : 

|sri,sHJa  =  Y&«  (s=#=H). 

E  quindi  per  la  (21) 

jr<"  «;w,  Z(sì  <"*»(  =  feri  )«  M,  a  uja  =  fer!  T6„=Tart. 
L'equazione  (a)  diventa  così: 

Le  equazioni  (24),  (25)  si  possono  porre  sotto  una  forma  più  simmetrica.  Po- 
niamo (Cfr.  §  1): 

[i  k,lt]  =  (i  k,  lt)  —  f  (a,,  au  —  a,,  al:l)  = 
=  Xa,*[|*v,  lt\  —  T(e„  a«  —  e,,  a,,)]. 

V 

Queste  quantità,  se  fossero  nulle  dimostrerebbero  lo  spazio  a  curvatura  costante  ; 
e  soddisfano  alle  stesse  equazioni  lineari  cui  soddisfano  i  simboli  di  Riemann  (§  1). 
Le  (24),  (25)  si  possono  scrivere: 

£  [jr  h,  k  l{  +  eu  t«h  -  e,,,  T«*r]  ||  =  0. 
Moltiplicando  per  ahv  e  sommando  rispetto  ad  h  si  trova  mutando  gli  indici  h,  v: 
(26)  S[r*'*']-&  =  ° 

che  vale  dunque  se  h,  le,  l  sono  indici  qualunque  di  una  stessa  specie  che  non  sia 
del  primo  sistema,  e  ì  è  un  indice  di  un'altra  specie  qualunque.  Naturalmente  la  (26) 
è  molto  più  simmetrica  delle  (24),  (25),  perchè  con  lecite  permutazioni  si  può  por- 
tare l'indice  r,  rispetto  a  cui  si  somma,  ad  un  posto  qualunque,  oltre  che  al  primo. 
Sia  ora  v  una  specie  del  primo  sistema,  s  una  specie  che   non    sia    del    primo 

sistema.  La 

|AW,w  #4  JW|'  —  o 

dà,  analogamente  alle  precedenti  equazioni: 

E;  fcw  ,.o  fcw  y,  t  *Zl  _  j  h  i,  i  i  {  pi  —  )  h  i,  k  i  {  U  =  0 


53  SUI    GRUPPI    DI    TRASFORMAZIONI    GEODETICHE  313 

ossia 


I 


r,    dà        i  SE,  OS, 


)hr,kl[-^-  -^fau^  —  fahkT^  =  0 


ossia,  posto 


i-M 

[)hl,km\]  =  'ZAnlhv,km~\, 
ci  dà: 

(27)  £D*r'^G  £=0- 

Formule  analoghe  si  troverebbero  nel  caso  che  esistessero  2  sole  specie  di  indici. 

Dalle  (26),  (27)  si  vede  a  quante  equazioni  lineari  dovrebbero  soddisfare  le  de- 
rivate delle  i  di  una  specie  rispetto  alle  variabili  di  un'altra  specie;  se  esse  non 
fossero  tutte  nulle  dovrebbero  esistere  tra  i  simboli  a  quattro  indici  citati  più  sopra 
lunghe  serie  di  relazioni  che  non  sono  certo  soddisfatte  in  generale;  ciò  che  con- 
ferma quanto  abbiamo  enunciato.  Del  resto  le  (26),  (27)  insieme  alle  (a),  (f5),  ecc., 
di  pag.  64,  danno  un  sistema  di  equazioni,  che  assai  probabilmente  bastano  in  ogni 
caso  particolare  a  completare  la  discussione;  io  però  non  sono  riuscito  a  discutere 
il  caso  generale  (*).  Si  deve  ancora  ricordare  che  il  sistema  coordinato  si  deve  sup- 
porre canonico  per  almeno  una  trasformazione  geodetica  non  simile;  per  la  quale, 
oltre  alle  equazioni  precedenti,  valgono  le  (15),  (16),  (17). 

Detta    /    5r  -r—  questa  trasformazione,  le  (16)  dimostrano  che 


2> 


ò 

dav<" 


dove  r  varia,  prendendo  i  valori  di  tutti  gli  indici  di  specie  v,  è  una  trasformazione 
conforme  (che  eventualmente  potrebbe  anche  non  essere  simile)  per  l'elemento 
lineare  I  Ku  dx,  dxu  ;  dove  i,  k  variano  restando  di  specie  v-esima  ;  lo  studio  degli 
spazii  con  trasformazioni  conformi,  cui  ho  dedicato  una  nota,  pubblicata  teste  negli 
"  Atti  dell'Accademia  „ ,  dà  perciò  un  nuovo  metodo  per  la  discussione  di  quegli 
eccezionalissimi  casi  eventuali  per  cui  non  fosse  sufficiente  la  precedente  discussione. 
Nel  caso  n  =  3  del  resto  abbiamo  già  visto  p.  es.  come  i  nostri  metodi  permettano 
di  studiare  il  caso  eccezionale  (per  la  teoria  generale)  di  un  elemento  lineare  aggiunto 
a  due  sole  variabili. 


(*)  A  queste    equazioni  se  ne  può  anche   aggiungere    un'altra  assai  semplice;  se  i  è  di  specie 
distinta  dagli  indici  h,  I  supposti  pure  distinti  tra  loro,  dalla  <       >  =  0  si  deduce  che  : 


(a) 


(dove  r  varia  restando  della  stessa  specie  di  h,  1)  è  indipendente  da  xv,  ossia  la  (a)  dipende  soltanto 
dalle  variabili  della  specie  di  h,  I.  Naturalmente  nella  discussione  generale  si  dovrebbe  anche  tener 
conto  delle  equazioni  del  §  2. 


Serie  II.  Tom.  LUI. 


ECHINIDI  DELLA  SCAGLIA  CRETACEA  VENETA 


MEMORIA 

DEL    DOTTOR 

CARLO  AIRAGHI 


Appr.  nell'Adunanza  del  5  Aprile  1903. 


Nel  Veneto  le  formazioni  del  cretaceo  superiore,  che  da  più  d'un  secolo  passano 
sotto  il  nome  di  scaglia,  sono  molto  sviluppate  e  si  può  dire  che  dal  Garda  si  esten- 
dono senza  interruzione  alcuna  fino  all'Isonzo.  Talora,  com'è  noto,  sono  costituite  da 
calcari  bianchi  o  rossi,  compatti  o  mandorlati,  a  struttura  scagliosa,  a  frattura  irre- 
golare, tal'  altra  da  calcari  marnosi ,  rosei ,  alternati  da  calcari  bianco-gialli  con 
traccie  di  selce. 

Di  queste  formazioni  molti  geologi  si  sono  occupati  e  tra  i  principali  noto  Ca- 
tullo (1),  De  Zigno  (2),  Secco  (3),  Taramelli  (4),  Rossi  (5),  Muniek  (6),  Nicolis  (7), 
Balestra  (8),  Dal  Lago  (9),  ma,  caso  tutt'altro  che  raro,  questi  geologi  non  giunsero 
tutti  alle  medesime  conclusioni,  e  mentre  alcuni  ritennero  la  scaglia  veneta  senoniana, 
altri  conclusero  essere  la  scaglia  daniana,  altri  ancora  senoniana  in  parte  e  in  parte 
daniana,  conclusioni  queste  che  discuterò  in  base  allo  studio  degli  echinidi  che,  per 
la  stratigrafia,  come  venne  già  dimostrato  da  molti  autori,  hanno  un'importanza 
tutt'altro  che  trascurabile. 

Alcuni  echinidi  della  scaglia  veneta  vennero  fin  dal  1827  descritti  da  Catullo 
nel  suo  Saggio  di  Zoologia  fossile,  e  benché  di  poi  essi  siano  stati  oggetto  di  osser- 


(1)  T.  A.  Catullo,  Saggio  di  Zoologia  fossile  delle  provincie  venete,  Padova,   1827. 

(2)  A.  De  Zigno,  Osservazioni  sul  terreno  cretaceo  dell'Italia  sett.  ("  N.  saggi  d.  Acc.  di  Padova  ,, 
voi.  VI),  Padova,  1846.  —  Id.,  Nouvelles  observ.  sur  les  terr.  crét.  de  l'Italie  sept.  ("  Bull.  Soc.  Géol. 
de  France  „,  2e  sér.,  voi.  VII),  Paris,  1849.  —  Id.,  Sulla  costit.  geol.  dei  M.  Euganei  ("  ,R.  Acc.  di 
Padova  ,),  Padova,  1861. 

(3)  A.  Secco,  Guida  geologico-alpina  di  Bassano  e  dintorni,  Bassano,  1880. 

(4)  T.  Taramelli,  Geologia  delle  provincie  venete  ("  Mem.  B.  Acc.  dei  Lincei  „),  Roma,  1882. 

(5)  A.  Rossi,  La  provincia  di  Treviso  ("  Boll.  Soc.  geol.  ital.  „),  Roma,  1883. 

(6)  Munier  Chalmas,  Étud.   du  Thit.,  du  Crét.  et  du  Tert.  du   Vicentin,  Parigi,  1891. 

(7)  E.  Nicolis,   Carta  geologica  della  provincia  di   Verona,  Verona,  1882. 

(8)  A.  Balestra,  Contrib.  geol.  al  periodo  cret.  del  Bassanese  ("  Boll.  Ann.  del  Club  Alpino  Bassa- 
nese  ,,  voi.  Ili),  Bassano,  1897. 

(9)  D.  Dal  Lago,  Note  geol.  sulla  Val  d'Agno,  Valdagno,  1899. 


316 


CARLO    AIRAGHI 


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3  ECHINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  317 

vazioni  da  parte  dell' Agassiz  (1),  Desor  (2),  D'Orbigny  (3),  Quenstedt  (4),  Munier  (5), 
pur  tuttavia  non  si  può  dire  che  quest'echinofauna  sia  tra  le  meglio  conosciute.  Gli 
ultimi  autori  citati  non  hanno  fatto  altro  che  ricordare  le  specie  illustrate  da  Catullo 
con  poche  aggiunte;  aggiunte  di  cui  spesso  non  si  può  tener  conto,  entrando  alcune 
specie,  considerate  come  autonome,  nella  sinonimia  d'altre  già  note  per  la  formazione 
scagliosa. 

Una  revisione  quindi  si  faceva  necessaria,  tanto  più  potendo  disporre  d'un  mate- 
riale veramente  ricco,  come  è  quello  dei  R.  Musei  geologici  di  Torino,  Pavia,  Padova, 
del  Museo  civico  di  Milano,  delle  private  collezioni  del  Cav.  Uff.  Ing.  Nicolis,  e  degli 
egregi  Dott.  Dal  Lago  e  Fabiani,  materiale  che  mi  ha  permesso  non  solo  d'indicare 
nuove  località  per  le  specie  già  note,  ma  d'aumentare  l'echinofauna  d'alcune  specie, 
tanto  ch'essa  attualmente  risulta  formata  dalle  16  che  qui  appresso  elenco. 

In  questo  mio  computo  però  faccio  notare  di  non  aver  tenuto  conto  di  diversi 
esemplari  classificati  da  Catullo,  molto  mal  conservati  e,  secondo  il  mio  parere, 
affatto  indeterminabili,  così  pure  non  ho  compreso  il  Pericosmus  latus  e  il  Macropneustes 
Beaumonti  ricordati  dal  D'Orbigny  (6)  e  dal  Desor  (7),  poiché  con  tutte  le  probabilità, 
come  del  resto  ha  già  fatto  notare  il  Lambert  nella  sua  Monografia  del  genere  Mi- 
craster  (8),  almeno  per  quanto  riguarda  il  Pericosmus  latus,  si  debbono  ritenere  forme 
terziarie. 

Dal  quadro  compilato  si  vede  che  alcunespecie  non  permettono  dei  raffronti  con 
altre  località,  essendo,  almeno  fino  ad  ulteriori  ricerche,  esclusive  della  scaglia  ve- 
neta, ma  che  altre  invece,  quali  il  Cidaris  pseudopistillum  Cott.,  il  Tylocidaris  cla- 
vigera Koemg,  Y  Echinocorys  vulgaris  Breyn.  sp.,  la  Stenonia  tuberculata  Defr.  sp., 
YOffaster  pillila  Lam.  sp.,  il  Cardiaster  subtrigonatus  Cat.  sp.,  YOvulaster  Zignoanus 
D'Orb.  sp.,  il  Micraster  fastigatus  Gauth.,  sono  specie  del  senoniano,  e  precisamente 
il  Tylocidaris  clavigera  Koenig  del  turoniano  e  senoniano  dell'Yonne,  il  Cidaris  pseu- 
dopistillum del  corberiano  e  campaniano  dell'Aquitania  e  della  Turenna,  le  altre  del 
eampaniano  dell'Apennino  Centrale,  della  Svizzera,  della  Francia,  della  Spagna,  della 
Germania  del  Nord.  Le  conclusioni  di  Munier  quindi,  che  ritiene  la  scaglia  daniana, 
non  si  possono  accettare,  e  ciò  è  anche  confermato  dal  fatto  che  nell'Apennino  Cen- 
trale gli  strati  a  Stenonia  e  a  Stegaster  (Stegaster  Bonarellii  n.  sp.),  la  formazione 
omotipica  della  scaglia  veneta,  non  sono  gli  ultimi  della  serie  senoniana  propriamente 
detta,  e  che  i  depositi  di  Mancha  Real  in  Spagna,  in  cui  per  la  prima  volta  vennero 
trovati  alcuni  rappresentanti  dell'echinofauna  della  scaglia,  e  dal  Munier  presi  come 
termine  di  paragone,  recentemente  dal  Grosseuvre  (9)  furono  riferiti  al  senoniano 
anziché  al  daniano  ch'egli  toglie  dal  cretaceo  e  riferisce  al  cenozoico. 


(1)  L.  Agassiz,  Catal.  syst.  ("  Ann.  Se.  Nat.  Zool.  ,1,  1846. 

(2)  E.  Desor,  Synop.  des  échin.  foss.,  Parigi,  1857. 

(3)  A.  D'Orbigny,  Échin.  crétac.  ("  Paléont.  frani;.  „),  Parigi,  1853-55. 

(4)  P.  A.   Quenstedt,  Petref.  deut.,  ecliin.,  Leipzig,   1872-75. 

(5)  Munier  Chalmas,  loc.  cit- 

(6)  A.  D'Orbigny,  Échin.  crét.  (1.  e.),  voi.  6,  pag.  277,  tav.  901. 

(7)  E.  Desor,  Synop.  des  échin.  foss.,  pag.  411. 

(8)  J.  Lambert,  Monogr.  du  genre  Micraster  in  A.    de    Grossouvre,  Recherc.    sur  la    craie  super. 
(*  Mém.  pour  servir  à  l'expl.  de  la  carte  géol.  détail.  de  la  France  „),  Parigi,  1901. 

(9)  Loc.  cit. 


318  CAELO    AIRAGHI  4 

Né  maggiori  ragioni  si  avrebbero,  volendo  sostenere  l'ipotesi  di  Munier,  anche 
considerando,  come  vorrebbero  alcuni,  il  Micraster  fastigatus  Gauth.  come  una  varietà 
del  M.  gibbus,  perchè  allora  non  solo  si  avrebbero  dei  legami  coll'echinofauna  di 
Reims,  zona  ad  Àctinochamax  quadrata,  ma  anche  con  quella  della  zona  ad  Am.  cam- 
panensis  di  Palarea  presso  Nizza  e  col  campaniano  di  Coesfeld,  Lagerdorf,  Helgoland 
nella  Germania  del  Nord. 

Concludendo  adunque  la  scaglia  veneta  si  deve  riferire  nella  maggior  parte  al  cam- 
paniano ;  ma  poiché  il  Gauthiericeras  Margae  (1),  come  ha  fatto  notare  il  prof.  Parona, 
specie  caratteristica  del  coniaciano,  venne  trovato  negli  strati  più  bassi  di  tale  for- 
mazione, e  poiché  il  Cidaris  pseudopistillum  oltre  che  del  campaniano  è  anche  del 
coniaciano  e  del  santoniano,  e  il  Tylocidaris  clavìgera  compare  già  alla  fine  del  turo- 
niano,  bisogna  ritenere  ch'essa  rappresenti  in  tutto  il  suo  complesso  il  senoniano  (cor- 
beriano  e  campaniano).  Il  daniano,  considerato  come  parte  più  recente  del  senoniano, 
nella  scaglia  sarebbe  rappresentato  dal  solo  Coraster,  genere  caratteristico,  secondo 
Grosseuvre,  di  tale  piano;  ma  a  proposito  di  ciò  credo  utile  ricordare  che  il  Coraster 
nei  Pirenei  Occidentali  si  trova  insieme  al  genere  Stegaster  proprio  del  senoniano,  e 
che  però  le  conclusioni  del  ricordato  autore,  secondo  il  mio  modo  di  vedere,  hanno 
tutt'ora  bisogno  d'una  conferma. 

Ed  ora  adempio  il  gradito  compito  di  ringraziare  i  chiar.mi  Prof.  Omboni,  Tara- 
melli,  Mariani,  nonché  i  sigg.  Nicolis,  Dal  Lago  e  Fabiani  per  l'invio  dei  loro 
echini.  Al  Prof.  Parona  che,  oltre  all'aver  messo  le  collezioni  del  Museo  che  dirige  a 
mia  disposizione,  mi  fu  largo  di  consigli  e  d'aiuti,  esprimo  i  sensi  della  mia  più  viva 
riconoscenza. 

Torino,  R.  Museo  Geologico,  1903. 


DESCRIZIONE  DELLE  SPECIE 


Cidaris  pseiulopistillum  Cott. 

1860.  Cidaris  pseudopistillum  Cotteau  et  Teiger.  Échin.  de  la  Sarthe,  pag.  255,  tav.  41,   fig.    10,  12. 

Sono  solamente  dei  frammenti  di  radioli  che  mi  permettono  d'annoverare  questa 
specie  tra  gli  echinidi  della  scaglia  rossa  del  Veneto.  Essi  sono  cilindrici,  più  o  meno 
allungati,  ornati  da  aculei  o  spine  molto  forti  e  lunghi,  ineguali  e  disposti  in  serie 
più  o  meno  regolari.  Nessuno  è  fornito  del  capo. 

La  somiglianza  che  questi  radioli  presentano  con  quelli  del  Cidaris  figueiroensis 
De  Lor.  (2)  è  veramente  sorprendente,  e  forse  di  essi  se  ne  sarebbe  fatta  una  sola 
specie,  benché  provenienti  da  piani  alquanto  diversi,  l'una  dal  senoniano.  l'altra  dal 


(1)  C.  F.  Parona  in  A.  Balestra,  Contrib.  geol.  al  periodo  cret.  del  Bassanese  (1.  e),  p.  93. 

(2)  De  Loriol,  Descript,   d.   échin.    du    Portugal,    Faune  crét.  ("  Comm.   d.   trav.  géol.   du   Por- 
tugal,  1887  „),  pag.  9,  tav.  1,  fig.  15,  20. 


5  E<  HINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  319 

cenomaniano,  se  non  si  conoscessero  i  gusci  degli  echini  da  cui  provengono,  alquanto 
diversi. 

Questa  specie  è  già  nota  per  il  coniaciano,  santoniano,  campaniano,  dordoniano 
dell' Aquitania,  e  pel    campaniano   della   Turenna. 
Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago,  R.  M.  Geol.  di  Torino)  (1). 


Tylocidaris  clavigera  Koenigh  sp. 
1822.  (Marti  clavigera  Koenigh  in  Mantell,  Geol.  of  Sussex,  pag.  194,  tav.  17,  flg.  11,  14. 

Anche  di  questa  specie  ho  in  esame  solamente  dei  radioli,  che  però  stante  la 
loro  caratteristica  forma,  non  lasciano  alcun  dubbio  sulla  loro  determinazione  spe- 
cifica. Sono  claviformi,  allungati,  arrotondati  e  rigonfi  alla  loro  estremità  superiore, 
cilindrici  alla  base,  coperti  da  piccole  costole  dentellate  e  spinose,  che  scompaiono 
nella  parte  superiore.  È  una  specie  nota  per  diversi  giacimenti  del  senoniano  e  del 
turoniano. 
Località  trevigiane:  Possagno  (R.  M.  Geol.  di  Torino). 

Echinocorys  vulgaris  Breyn. 

1732.  Echinocorys  vulgaris  Breynius,  Schediasma  d.  Echin.,  tav.  3,  fig.  1,  2. 

1857.  Ananchytes  ovata  (pars)  Desob,  Synops.  des  Échin.  foss.,  pag.  330. 

1870.  Echinocorys  Beaumonti  Bayan,  Note  sur  le  terr.  tert.  de  la  Vénétie  ("  Bull.  Soc.  Géol.  de  France  ,), 

pag.  444. 
1882.  Ananchytes  ovata  Nicolis,  Note  ili.  della  carta  yeol.  della  prov.  di   Verona,  pag.  72,  73. 
1891.  ,  Beaumonti  Munier,  Étud.  du  Tith.,  du  C'rét.  et  du  Tert.  du  Vicentin,  pag.  11. 

I897  Balestra,    Contrib.   geol.    al  periodo   cret.    del    Bassanese  (1.  e),  pag.  92 

1897.  „  ovata  Balestra,  Ihid.,  pag.  93. 

1899.  ,  ovatus  Dal  Lago,  Note  geol.  sulla  Val  d'Agno,  pag.  48. 

1899.  „  Beaumonti  Dal  Lago,  Ibid. 

1899.  „  sulcatus  Dal  Lago,  Ibid. 

Nella  scaglia  veneta  questa  specie  colle  sue  varietà  ovata  e  conica  è  veramente 
comune,  e  benché  nella  maggior  parte  dei  casi  si  tratti  d'esemplari  alquanto  defor- 
mati, pure  diversi  permettono  di  stabilire  con  certezza  il  loro  riferimento  specifico,  e 
per  la  loro  fisionomia  generale,  per  le  dimensioni,  formazione  degli  ambulacri,  delle 
assule,  ecc. 

Tra  essi  alcuni  sono  di  grandi  dimensioni,  di  forma  ovale,  arrotondati  all'avanti, 
ristretti  posteriormente,  colla  faccia  superiore  subconica,  e  quella  inferiore  piana,  col 
peristoma  lontano  dal  margine,  cogli  ambulacri  lunghi,  larghi,  con  pori  allungati 
(var.  ovata);  altri  invece  sono  regolarmente  conici,  colla  faccia  inferiore  non  piana 
in  causa  dei  margini  molto  arrotondati,  cogli  ambulacri  meno  larghi,  e  più  acuti  alla 
sommità,  composti  d'assule  molto  alte  con  pori  ovali  (var.  conica). 

Questa  specie  è  comune  nel  senoniano  di  Hainaut,  Halden,  Coesfeld,  Ciply,  ecc. 


(1)  Il  nome  messo  tra  le  parentesi  indica  la  collezione;  le  abbreviazioni:  Coli.,  M.  Geol.,  M.  Civ., 
significano:  Collezione,  Museo  Geologico,  Museo  Civico. 


320  CARLO    AIRAGHI  fi 

Località  veronesi:  S.  Perette  di  Negrar,  Prun,  Naveya,  Cerna  (Coli.  Nicolis).  Negrar 
(R.  M.  Geol.  di  Padova). 

Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago,  R.  M.  Geol.  di  Padova,  Torino),  Valdagno 
(Coli.  Dal  Lago,  R.  M.  Geol.  di  Padova),  Monte  Magre  (R.  M.  Geol.  di  Padova, 
M.  Civ.  di  Milano),  Solagna,  Chiampo  (R,  M.  Geol.  di  Pavia,  Padova). 

Località  trevigiane:  Cavoso  (R.  M.  Geol.  di  Pavia). 

Località  bellunesi:  Lamon  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 


EcJiinocorys  concava  Cat.  sp. 
Tav.  I.  fig.  1. 

1527.  Ananchytes  concava  Catullo,  Saggio  di  Zoologia  fossile,  pag.  222,  tav.  4. 

1882.  ,  ,         Nicolis,  Note  ili.  della  carta  geol.  delia  prov.  di   Verona,   pag.  73. 

1891.  Scagliaste!-  concavus  Munier,  Étude  da   Tith.,  du   Crét.,  du   Tert.  du    Visentin,  pag.  11. 

1899.  „  „         Dal  Lago,  Note  geol.  sulla   Val  d'Agno,  pag.  48. 

1900.  Cardiaster  „         Schlutek,    Uéber  fin.  Kreide  Echin.  ('  Zeitschr.  deuts.  geol.  „),  pag.  376. 

Dimensioni:  Lungh.  mm.  120,  largii,  mm.  115,  alt.  mm.  50. 

Questa  bella  specie  illustrata  da  Catullo  fin  dal  1827  pare  sia  stata  da  diversi 
echinologi  dimenticata,  e  da  altri  male  interpretata.  Infatti  non  è  citata  ne  dal- 
l'Agassiz,  ne  da  Desor  e  D'Orbigny  ;  dal  Munier  e  dal  Del  Lago  venne  considerata 
uno  Scagliaste);  dallo  Schluter  un  Cardiaster.  ma  di  queste  varie  interpretazioni  dirò 
più  avanti  a  proposito  del  Cardiaster  subtrigonatus. 

Come  ha  fatto  notare  Catullo,  questa  specie  pel  suo  volume  si  discosta  dalle 
altre,  come  pure  la  caratterizza  la  sua  faccia  inferiore  pianeggiante  e  i  margini 
molto  acuti.  Catullo,  avendo  in  esame  un  esemplare  colla  faccia  inferiore  molto  de- 
pressa e  quindi  concava,  ritenne  una  tale  deformazione  un  carattere  costante,  e  ha 
chiamato  la  specie  coll'aggettivo  concava. 

È  una  specie  leggermente  cuoriforme,  larga  anteriormente  e  ristretta  posterior- 
mente, colla  faccia  superiore  conica,  quella  inferiore  piana. 

Apice  ambulacrale  subcentrale,  allungato;  ambulacri  larghi,  lunghi,  acuti  alla 
loro  estremità  apicale,  composti  da  pori  piccoli  allungati,  disposti  ad  accento  circon- 
flesso. Peristoma  lontano  dal  margine,  infossato,  semilunare;  periprocto  grande,  molto 
vicino  al  margine;  tubercoli  grossi,  rari,  disposti  attorno  al  margine  e  sulla  faccia 
inferiore. 
Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago,  R.  M.  Geol.  di  Padova,  Torino),  Valdagno 

(R.  M.  Geol.  di  Torino),  Magre,  Chiampo  (R,  M.  Geol.  di  Torino). 
Località  veronesi  :  Valecchia,  Negrar,  Cerna  (Coli.  Nicolis). 


Stenonia  taberculata  Defr.  sp. 

1816.  Ananchytes  tuberculata  Defrance,  Dict.  de  se.  nat.,  2,  pag.  41,  n.  3. 

1855.  „  ,  D'Orbigny,  Éehin.  crét.  (1.  e),  pag.  67.  tav.  807  (cum  syn.). 

1857.  Stenonia  „  Desor,  Sinops.  dei  Échin.  foss.,  pag.  333,  tav.  39,  fig.  10. 

1861.  Ananchytes  ,  De  Zigno,  Salla  costit.  geol.  dei  M.  Euganei  (1.  e),  pag.   17. 

1872.  Stenonia  ,  Quenstedt,  Petrefact.  Echin.,  voi.  I,  pag.  601,  tav.  85. 

1882.  „  „  Nicolis,   Note  ili.  della  carta  geol.  delia  pror.  di  Verona,  pag.  73. 


7  ECHINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  321 

1891.  Stenonia  tuberculata  Mcnieb,   Étud.  du  Tith.,  du   Crii    et  du   Tert.  du   Vicentin,  pag.  11. 

1897.  ,  ,  Balestra,   Contri!/.  lodo  eret.  del  Bassanese  (1.  e),  pag.    92. 

1899.  „  ,  Dal  Lago,  Note  geol.  sulla   Val  d'Agno,  pag.  48. 

1900.  „  »  Schluteb,   Ueber  fin.  Kreide  Echin.  (1.  e),  pag.  376. 

È  questa  la  specie  la  più  comune  della  scaglia  rossa  del  Veneto,  inquantochè 
gli  esemplari  che  ad  essa  riferisco  sono  delle  centinaia.  Le  descrizioni  e  le  figuro 
date  per  questa  specie  dai  diversi  autori  in  generale  sono  buone,  e  però  non  credo 
necessario  darne  nuovamente  delle  altre. 

Oltre  che  nel  Veneto  questa  specie'  venne  trovata  anche  nella  scaglia  rossa  del- 
l'Apennino  centrale:  a  M.  Nerone  in  provincia  di  Urbino-Pesaro,  a  Sassoferrato  in 
prov.  di  Ancona,  sui  Monti  Sibillini  in  provincia  di  Ascoli  Piceno  (1),  e  in  Spagna 
nei  calcari  a  Stegaster  ed  Ovulaster  di  Mancha  Real  nei  Pirenei  riferiti  dal  Seunes  (2) 
al  senoniano  superiore. 

Credo  che  sia  poi  utile  ricordare  che  il  genere  Stenonia  recentemente  venne  tro- 
vato dal  signor  De  Morgan  nel  senoniano  della  Persia  (3). 

Località  veronesi:  Mazzurega  (Coli.  Nicolis,  R.  M.  Geol.  di  Pavia),  da  Negrar  a 
Brun,  Cerna  (Coli.  Nicolis). 

Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago,  Nicolis,  R.  M.  Geol.  di  Padova,  Torino), 
Valdagno  (R.  Museo  Geol.  di  Padova,  Torino,  Pavia,  M.  Civ.  di  Milano), 
Crespadoro,  Chiampo,  Gallio,  Magre  (R.  M.  Geol.  di  Padova,  Torino,  M.  Civ. 
Milano),  Macheri  presso  Bolca  (Coli.  Nicolis),  S.  Giovanni  Barione  (R.  M.  Geol. 
di  Padova),  Marano,  S.  Vito  presso  Schio,  Valrovina,  Piana  (R.  M.  Geol.  di 
Torino),  M.  dei  Donati  sugli  Euganei  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 

Località  bellunesi:  Lamon  (R.  M.  Geol.  di  Padova),  Quero  (Coli.  Fabiani). 

Località  trentine:  Trento  (Coli.  Fabiani). 


Offaster  pillila  Lam.  sp. 

1816.  Ananchytes  pilula  Lamakck,  An.  s.  vert.,  3,  pag.  27,  n°  11. 

1827.  Nucleolites  coravium  Catdllo,  Saggio  di  Zoologia  fossile,  pag.  226,  tav.  2,  fig.  E. 

1827.  Nucleolites  convexus  Catullo,  Ibid.,  pag.  228,  tav.  2,  fig.  G. 

1855.  Cardiaster  pillila  D'Orbigny,  Échin.  crét.  (1.  e),  pag.  126,  tav.  824. 

1872.  Dysaster         „       Quenstedt,  Petrefact.  Echin.,  voi.  I,  pag.  624,  tav.  86,  fig.  33. 

Di  questa  specie,  citata  già  da  Catullo  sotto  nome  specifico  errato,  e  quindi 
da  Quenstedt,  ho  in  esame  degli  esemplari  veramente  cattivi,  e  certo  l'esemplare 
migliore  finora  trovato  nel  Veneto  è  quello  figurato  da  Quenstedt. 

h'Ojfaster  pillila  è  comune  nel  senoniano  della  Francia  e  della  Svizzera,  e  credo 
che  sia  utile  ricordare  come  questo  genere  sia  stato  trovato  anche  in  regioni  alquanto 


(1)  G.  Bonarelli,  I  foss.  senoniani  dell' Apennino  centrale,  ecc.  f  Atti  R.  Accademia  di  Torino  „, 
voi.  XXXIV,  pag.   1). 

(2)  *  Bull.  Soc.  géol.  frane.  „,  serie  3°,  voi.  XVI,  1888,  pag.  820. 

(3)  "  Compt.  rendus  d.  séances  de  la  Soc.  géol.  de  France  ,,  Séance  du  1"  dèe.  1902,  pag.  193. 

Sebik  II.  Tom.  LUI.  pl 


322  CARLO    AIRAGHI  O 

lontane;  il  Drd  (1)  infatti   lo  cita   tra    i   fossili  senoniani   di    Kislovodsk,  Piatigorsk 
nel  Caucaso. 

Località  vicentine:  Valdagno  (Coli.  Dal  Lago). 

Località  trentine:  Roveredo  (Vedi  Quenstedt). 


Lampadocorys  sulcatus  Cott.  sp. 

Tav.  II,  fig.  1,  2. 

1873.  Holaster  sulcatus  Cotteau,  Échin.  nota:  ou  peu  comi.  ("  Rev.  et  Mag.  de  Zoologie  ,),   pag.  399, 
tav.  7,  fig.  5,  6. 

Dimensioni:  Lungh.  mm.  45,  largii,  mm.  45,  alt.  inm.  40. 

Specie  di  mediocri  dimensioni,  tanto  larga  quanto  lunga,  arrotondata  all'avanti, 
più  stretta  e  subtronca  posteriormente.  Faccia  superiore  alta,  rigonfia  all'avanti  ; 
faccia  inferiore  quasi  piana,  fornita  all'avanti  da  un  solco  profondo  che  intacca  for- 
temente il  margine,  ma  che  non  si  prolunga  sulla  faccia  superiore.  Sommità  ambu- 
lacrale  eccentrica  all'avanti.  Area  ambulacrale  impari  diritta,  superficiale,  senza  traccia 
di  solco  alcuno,  formato  come  gli  altri  ambulacri  da  pori  ineguali.  Aree  ambulacrali 
pari  leggermente  rigonfie  e  convesse,  specialmente  vicino  all'apice  ambulacrale,  com- 
posti da  pori  disuguali,  allungati,  subvirgoliformi  quelli  esterni,  subrotondi  quelli 
interni.  Vicino  al  margine  poi  gli  ambulacri  tendono  a  restringersi,  i  pori  diventano 
più  piccoli,  quasi  eguali  e  si  avvicinano  sempre  più  tra  di  loro.  Peristoma  subcir- 
colare, infossato,  posto  all'estremità  d'un  solco  profondo;  periprocto  circolare,  sub- 
marginale. 

Questa  specie  riferita  dapprima  al  genere  Holaster  divenne  di  poi  il  tipo  del 
genere  Lampadocorys  Pomel,  e  finora  è  l'unica  specie  del  genere  che  si  conosca. 

L'esemplare  descritto  da  Cotteau  è  di  località  ignota,  ma  il  signor  Lambert  (2) 
dice  d'aver  avuto  dal  signor  Klian  un  altro  esemplare  di  questa  specie  trovato  a 
Rioufroid  presso  Lus  (Dróme)  in  un  calcare,  secondo  il  signor  Lory,  del  cenomaniano  ; 
ma  che  un  echino  passi  dal  cenomaniano  al  senoniano  mi  pare  un  po'  difficile;  d'altra 
parte  non  potendo  separare  i  miei  esemplari  dalla  specie  descritta  da  Cotteau  e 
non  essendovi  alcun  dubbio  sulla  loro  provenienza,  non  posso  che  supporre  che  il 
signor  Lort  abbia  commesso  un  errore  di  stratigrafia.  L'unica  diversità  che  si  os- 
serva in  due  dei  miei  esemplari,  confrontati  colla  figura  di  Cotteau,  consiste  nell'es- 
sere il  peristoma  meno  lontano  dal  margine,  ma  in  altri  tre  esso  è  alquanto  più 
lontano,  più  di  un  terzo  del  diametro  longitudinale,  epperò  maggiormente  identici  al 
tipo  della  specie. 
Località  vicentine  :  Novale  (Coli.  Dal  Lago),  Sette  Comuni  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 


il)  Note  sur  la  geologie  et  hydrologie  de  hi  région  du  Bechtaou  t  Rassie-Caucase),  ("  Bull.  Soc.  géol. 
frani;.  „,  voi.  12,  ser.  3,  pag.  514). 

(2)  Échin.  du  Madagascar  (1.  e),  pag.  317. 


9  ECHINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  323 

Stegaster  Dàllagoi  n.  sp. 

Tav.  I,  fig.  2. 

Dimensioni  :  Lungh.  min.  70,  largii,  mm.  70,  alt.  mm.  50. 

È  una  nuova  specie  non  solo  per  l'echino  fauna  senoniana  del  Veneto,  ma  anche 
per  la  scienza.  Essa  è  cuoriforme,  pressoché  larga  che  lunga,  colla  faccia  superiore 
molto  alta,  conica,  gibbosa  nell'area  impari  posteriore,  quella  inferiore  quasi  perfet- 
tamente piana.  Il  solco  anteriore  è  largo  e  profondo  vicino  al  margine,  ma  scompare 
totalmente  prima  di  arrivare  all'  apice  ambulacrale.  Questo  è  allungato.  Ambulacri 
diritti,  lunghi,  aperti,  composti  da  pori  quasi  eguali,  più  grandi  e  forse  leggermente 
oblunghi  gli  esterni,  molto  bene  sviluppati  presso  l'apice  ambulacrale,  più  avvicinati 
vicino  al  margine,  ma  sempre  posti  alla  base  delle  assule,  che  si  fanno  sempre  più 
alte  partendo  dalla  sommità  verso  i  margini. 

Le  dimensioni  e  la  conformazione  della  faccia  superiore  e  del  solco  anteriore 
chiamano  alla  mente  i  Stegaster  del  senoniano  dei  Pirenei  occidentali  illustrati  dal 
Seunes,  se  non  che  le  assule  molto  più  basse,  specialmente  vicino  all'apice  ambula- 
crale, non  permettono  alcuna  confusione. 

Tra  le  specie  illustrate  dal  Seunes  certo  quelle  che  si  avvicinano  di  più  a  quella 
che  presento  come  nuova  sono  lo  Stegaster  Bouillei  Cott.  e  lo  Stegaster  altus  Seunes. 
Ma  lo  Stegaster  Bouillei  ha  la  faccia  superiore  più  alta  non  solo,  ma  molto  più  conica 
e  l'area  interambulacrale  posteriore  meno  allungata  e  quindi  anche  meno  carenata. 
Lo  Stegaster  altus  invece  differisce  dallo  Stegaster  Dàllagoi  non  solo  per  la  faccia  poste- 
riore più  alta  e  diritta,  ma  anche  per  la  faccia  superiore  più  depressa  e  meno  conica. 
Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago). 

Cardiaster  subtrigonatus  Cat.  sp. 

Tav.  II,  fig.  3. 

1827.  Nucleolites  subtrigonatus  Catullo,  Saggio  di  Zoologia  fossile,  pag.  226,  tav.  2,  fig.  8. 

1827.  ,  cordiformis  Catullo,  Ibid.,  pag.  229,  tav.  2,  fig.  4. 

1840.  Holaster  italicus  Agassiz,  Cat.  syst.(ì.c),  pag.  1. 

1855.  Cardiaster     ,        D'Orbigny,  Échin.  crét.  (1.  e),  pag.  142,  tav.  831. 

1857.  Holaster         „        Desob,  Synops.  des  Échin.  foss.,  pag.  337. 

1861.   Cardiaster     ,        De  Zigno,  Sulla  costit.  geol.  dei  M.  Euganei  (1.  e),  pag.  17. 

1871.  ,  ,        Quenstedt,  Petrefact.  Echin.,  voi.  I,  pag.  625. 

1891.  ,  ,        Mumer,  Étud.  du  Tith.,  du  Crét.  et  du  Tert.  du   Vicentin,  pag.  11. 

1897.  „  „        Balestra,   Contrib.  geol.  al  periodo  cret.  del  Bassanese  (1.  e),  pag.  92. 

1899.  „  „        Dal  Lago,  Note  geol.  sulla   Val  d'Agno,  pag.  48. 

Dimensioni:  Lungh.  mm.  55,  largii,  mm.  50,  alt.  mm.  48. 

È  una  specie  dalla  faccia  superiore  molto  varia,  talvolta  quasi  perfettamente 
conica,  tal'altra  quasi  uniformemente  convessa.  Ciò  ha  fatto  sì  che  alcuni  autori  oltre 
che  la  specie  stabilita  da  Catullo  ne  distinguessero  un'altra  {Cardiaster  italicus  Agass), 
specie  però  che   di  poi  dal   De  Loriol  (1)  venne   considerata  come  una   varietà  del 


(1)  De  Loriol,  Échinologie  helvétique  (1873,  "  Mat.  pour  servir  a  la  Paléont.  suisse  „,  6e  sèrie), 
II  p.,  pag.  336,  tav.  28,  fig.  3.  —  Id.,  Descript.  des  Échin.  des  env.  de  Camerino  ("  Mém.  Soc.  de 
Phys.  et  Hist.  nat.  „,  1882),  pag.  11,  tav.  1,  fig.  4. 


324  CARLO    AIKAi.lII  10 

Nucleolites  subtrigonalus  Cat.  Recentemente  il  Doti.  Bonakelli  (1J  tentò  di  nuovo 
di  considerare  le  due  varietà  come  due  specie  distinte;  ma  l'esame  de'  miei  nume- 
rosi esemplari  non  mi  permette  di  convalidare  un  tale  modo  di  vedere,  e  perchè  nei 
due  tipi  diversi  nguale  è  la  loro  fisionomia  generale,  uguale  è  la  conformazione  degli 
ambulacri,  uguale  il  solco  anteriore,  uguale  è  la  posizione  del  periprocto  e  del  peri- 
stoma,  uguale  è  l'andamento  della  faccia  inferiore  e  posteriore,  e  gradatamente  si 
passa,  mediante  forme  intermedie,  dalla  varietà  a  faccia  superiore  alta,  subconica,  a 
quella  a  faccia  superiore  meno  alta  e  quasi  uniformemente  convessa. 

Questa  specie  e  lo  Spatangus  truncatus  Gold.,  Cardiaster  pigmeus  Forbes,  Ovu- 
laster  Zignoanus  D'Orb.,  vennero  dal  Pomel  inglobati  in  un  sol  genere,  Stegaster, 
benché  tipi  tanto  diversi ,  epperò  il  Seunes  (2)  trovò  facile  verificare  un  tale  er- 
roneo modo  di  vedere,  e  dimostrare  come  il  Cardiaster  Zignoanus  sia  un  Ovulaster, 
ì'Holaster  subtrigonalus  e  il  Cardiaster  pigmeus  dei  veri  Cardiaster.  Se  non  che  Munieb 
più  tardi,  della  specie  in  questione  ne  fece  il  tipo  di  un  nuovo  genere.  Scagliaster, 
ma  che  cosa  sia  questo  genere,  e  quali  siano  i  suoi  confini,  credo  impossibile  il  po- 
terlo dire,  poiché  in  esso  l'autore  riunisce  il  Cardiaster  subtrigonatus  coli' Echinocorys 
concava  Cat.  sp.,  due  specie  troppo  diverse,  anche  per  un  profano,  per  poterle  avvi- 
cinare tra  loro,  per  cui  è  impossibile  tenere  in  alcun  conto  un  tale  genere.  Ed  è 
forse  nell'aver  voluto  tenere  in  considerazione  questo  genere  che  il  Dott.  Bonarelli  (3) 
confuse  tra  loro  i  generi  Cardiaster  e  Stegaster.  Le  figure  1,2,  3,  4,  date  dal  Bona- 
relli {Scagliaster  italicus,  Stegaster  subtrigonatus,  Stegaster  cfr.  subtrigonatus)  rappre- 
sentano sempre  la  stessa  specie,  ossia  il  Cardiaster  subtrigonatus  Cat.,  e  il  suo 
Scagliaster  sp.  ind.,  fig.  6,  è  un  vero  Stegaster,  che  in  omaggio,  chiamerò  Stegaster 
Bonarellii  (4). 

11  Cardiaster  subtrigonatus  da  Seunes  venne  trovato  a  Mancha  Beai  in  Spagna 
insieme  alla  Stenonia  tubercidata,  da  Bonarelli  a  Penne  nei  Monti  Sibillini  in  pro- 
vincia d'Ascoli  Piceno,  a  Taverne  presso  Macerata,  a  Costano  presso  Bastia  nel- 
l'Umbria, alla  Villa  di  Costacciaro  sulle  pendici  del  M.  Cucco  pure  nell'Umbria,  al 
Colle  di  Serra  presso  Sassoferrato,  dal  Canavari  nella  scaglia  rosata  nei  dintorni  di 
Camerino,  da  me  alla  Rocchetta  di  Arcevia,  e  da  De  Loriol  in  Svizzera  a  Seewen. 
Località  veronesi:  Cerna  (Coli.  Nicolis).  M.  Baldo,  Negrar  (K.  M.  Geol.  di  Padova), 
Fumene  (R.  M.  Geol.  di  Pavia). 


(1)  G.  Bonarelli,  I  foss.  senonianì  dell' Apennino  centrale  (1.  e,  pag.  5,  fig.   1. 

(2)  Échin.  crét.  des  Pyrén.  ore  (*  Bull.  Soc.  géol.  frani;.  „,  1889),  pag.  811. 

(3)  /  foss.  senonianì  iteti' Apennino  centrale  (1.  e),  pag.  4. 

li  Stegaster  Bonarellii  n.  sp.  L'esemplare  figurato  da  Bonarelli  (1.  e.)  senza  alcun  dubbio,  come 
ha  fatto  notare  anche  Lambert  nella  Rivista  del  Cossmann  (Anno  1900,  pag.  133),  è  uno  Stegaster. 
La  faccia  superiore  è  alta,  fortemente  intaccata  all'avanti,  acuminata  posteriormente,  le  aree  ambu- 
lacrali,  come  si  può  vedere  nelle  figure  6°,  6C,  sono  larghe,  le  zone  porifere  molto  strette,  formate 
da  pori  piccoli,  rotondi,  eguali,  posti  alla  base  delle  assule,  che  al  contrario  sono  grandi  e  spe- 
cialmente molto  alte,  peristoma  lontano  dal  margine,  periprocto  rotondo,  posto  molto  in  alto,  tutti 
caratteri  questi  proprii  del  genere  Stegaster.  Questa  nuova  specie  poi  si  distingue  da  quelle  illu- 
strate dal  Seunes,  quali  lo  Stegaster  altus  e  lo  Stegaster  Bouillei,  che  maggiormente  le  assomigliano, 
per  il  periprocto  posto  molto  più  in  alto,  per  essere  più  arrotondata  posteriormente  e  più  unifor- 
memente convessa  sulla  faccia  superiore. 

Questa  specie  venne  trovata  nella  scaglia  senoniana  di  Sassoferrato  in  provincia  d'Ancona. 


11  ECHIXIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA 


32E 


Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal    Lago,  R.  M.  Geol.   di  Padova,  Torino,  Pavia), 

Magre  (R.  M.  Geol.  di    Padova,  Torino,  M.  Civ.  di   Milano),   Chiampo  (R,  M. 

Geol.  di  Padova,  M.  Civ.  Milano),  Asiago,  S.  Pietro  Montagnola  (R.  M.  Geol. 

di  Padova),   Bastia   Euganei  (R.  Istituto  Tecnico  di   Padova),  Marami  (R.  M. 

Geol.  di  Torino). 
Località  bellunesi:  Lamon  (Coli.  Fabiani,  R.  M.  Geol.  di  Padova,  Pavia). 
Località  trevigiane:  S.  Pietro  di  Possagno  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 

Cardiaster  Dallagoi  n.  sp. 

Tav.  II,  fig.  4. 

Dimensioni:  Lungh.  mm.  71,  largh.  mm.  61,  alt.  mm.  20. 

Il  Cardiaster  che  presento  come  nuovo  è  molto  affine  al  Cardiaster  Cotteanus 
D'Orb.,  da  cui  si  distingue  oltre  che  per  le  maggiori  dimensioni  in  modo  speciale  per 
l'apice  ambulacrale  molto  più  spostato  all'avanti  e  la  faccia  superiore  più  depressa  e 
allargata. 

È  una  specie  cuoriforme,  depressa,  più  lunga  che  larga,  intaccata  fortemente 
nella  parte  anteriore  del  solco,  ristretta  e  allungata  posteriormente,  avente  la  mag- 
giore larghezza  in  corrispondenza  dell'apice  ambulacrale  che  è  spostato  molto  all'avanti. 
a  un  terzo  circa  della  lunghezza  totale.  La  faccia  superiore  ha  la  sua  maggior  altezza 
in  corrispondenza  dell'apice  ambulacrale,  da  cui  discende  regolarmente  a  forma  di 
tetto  verso  i  margini.  La  faccia  inferiore  è  piana.  Il  solco  anteriore  è  grande  e  pro- 
fondo, provvisto  da  due  forti  carene  laterali.  Gli  ambulacri  sono  molto  mal  conser- 
vati specialmente  vicino  alla  sommità,  composti  da  pori  disuguali.  Peristoma  ovale, 
trasversale;  periprocto  ovale,  posto  appena  al  disopra  del  margine;  dei  fascioli  nes- 
suna traccia. 

Tra  i  Cardiaster  è  una  di  quelle  specie  che  ricordano  maggiormente  il  genere 
Guetharia,  come  il  Guetharia  Bocardi  Cott.  (1),  se  non  che  diversa  è  la  disposizione 
e  il  numero  dei  pori  genitali. 

Oltre  questa    specie  si  dovrà   forse   annoverare   tra  l'echinofauna   della  scaglia 
veneta  anche  il  Cardiaster  Cotteanus  D'Orb.,  raccolto  nel  senoniano  della  creta  bianca 
di  Dieppe  (Seine  Inf.),  ina   l'unico  esemplare  che   potrebbe   rappresentarlo   e  di  cui 
dispongo,  è  troppo  deteriorato  e  non  permette  una  determinazione  specifica  certa. 
Località  vicentina:  Valdagno  (Coli.  Dal  Lago). 

Cardiaster?  sp.  n. 

Tav.  II,  fig.  5. 
È  con  dubbio  che  riferisco  questa  specie  al  genere  Cardiaster  perchè  l'esemplare 
che  lo  rappresenta  mentre  è  perfettamente  conservato  nella  parte  posteriore,  manca 
quasi  totalmente  della  parte  anteriore,  e  però  non  si  può  conoscere  né  l'ambulacro  im- 
pari, ne  il  peristoma.  La  sua  forma  si  avvicina  molto  a  quella  di  una  pera,  colla  faccia 
superiore    alta,  subconica,  appuntita   in    corrispondenza    della   sommità    apicale.  Gli 


(1)  Cotteau  in  Lambert,  Échin.  du  Madagascar  (1.  e),  pag.  311 


326  CARLO    AIRAGHI 


12 


ambulacri  pari  sono  larghi,  lunghi  fino  al  margine,  leggermente  convessi,  con  zone 
porifere  pure  larghe,  formate  da  pori  piccoli  gli  interni,  lunghi  gli  esterni,  disposti 
ad  accento  circonflesso.  Aree  interambulacrali  formate  da  assule  molto  alte  e  legger- 
mente convesse  ;  quella  impari  posteriore  fornita  d'una  leggera  carena,  sotto  cui  sta 
il  periprocto  tutto  quanto  sopramarginale. 

Tra  le  specie  illustrate  essa  assomiglia  maggiormente  a\Y  Ananchytes  perconicus  di 
Quenstedt  (1.  e,  tav.  85,  fig.  15),  da  cui  si  distingue  per  la  faccia  superiore  meno 
piriforme,  più   conica,  il  periprocto  maggiormente  lontano  dal  margine,  l'area  inter- 
ambulacrale  posteriore  carenata,  la   conformazione  degli  ambulacri  molto  diversa. 
Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago). 

Ovulaster  Zignoanus  D'Orb.  sp. 

1854.  Cardiaster  Zignoanus  D'Ordiony,  Échin.  crét.  (1.  ci,  pag.  145,  tav.  832. 

1857.  Offaster  „  Desor,  Synops.  des  Échin.  foss.,  pag.  335. 

1888.  Ovulaster  ,  Seunes,  Échin.  crét.  des  Pyrénées  occ.  (1.  e),  pag.  802. 

1891.  „  „  Munikb,  Étud.  du   Tith.,  du  Crét.  et  du  Tert.  du   Vicentin,  pag.  11. 

1897.  „  „  Balestra,  Contrib.  ijeol.  al  periodo  cret.  del  Bassanese,  pag.  92. 

1899.  „  „  Dai.  Lago,  Note  geol.  sulla   Val  d'Agno,  pag.  48. 

È  una  specie  alquanto  comune  nella  scaglia  veneta,  e  ritenuta  dapprima  un  Car- 
diaster venne  di  poi  inglobata  nel  genere  Offaster,  e  quindi  da  Pomel  insieme  al 
Cardiaster  subtrigonatus  nel  suo  genere  Stegaster,  e  si  deve  a  Seunes  se  finalmente  essa 
venne  bene  classificata  genericamente. 

Nella  sua  sinonimia  entra  YOvulaster  Gauthieri  Cott.,  e  ciò  credo  sia  bene  ricor- 
darlo poiché  serve  a  dimostrare  sempre  più  l'affinità  della  echinofauna  della  scaglia 
veneta  colla  echinofauna  di  Mancha  Real  in  Spagna,  dove  appunto  YOvulaster  Gauthieri 
venne  trovato  insieme  alla  Stenonia  tubercolata  e  al  Cardiaster  subtrigonatus. 

A  questa  specie  si   dovrà   pure  a  mio  avviso   riferire   anche  YHolaster  nasutus 
Quenstedt  (1.  e,  pag.  626,  tav.  86,  fig.  32)  trovato  nella  scaglia  di  Chiampo;  sembra 
infatti  esso  un  cattivo  esemplare  della  specie  in  questione  e  alquanto  deformato,  col 
peristoma  forse  esageratamente  disegnato  lontano  dal  margine. 
Località  vicentine:  Novale  (Coli.  Dal  Lago,  R.  M.  Geol.  di   Padova),  M.  Magre  (R. 

M.  Geol.  di  Padova),  Marana,  Crespadoro  (R.  M.  Geol.  di  Torino). 
Località  veronesi:  Mazzurega  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 
Località  padovane:  Teolo  (R.  Istituto  Tecnico  di  Padova). 

Coraster  sp.  ind. 

Questo  genere  venne  per  la  prima  volta  trovato  nella  scaglia  veneta  dal  Munier, 
e  di  poi  venne  citato  da  Seunes,  Balestra  e  Dal  Lago.  Il  Seunes  crede  poi  che 
esso  sia  molto  abbondante  nel  Veneto,  mentre  invece  io  credo  ch'esso  sia  veramente 
molto  raro,  poiché  tra  le  centinaia  d'esemplari  che  ho  in  esame,  uno  solo  si  può  rife- 
rire con  certezza  al  genere  Coraster,  ma  che  sgraziatamente  non  posso  classificare 
specificamente  stante  l'abrasione  della  parte  anteriore.  La  disposizione  però  degli 
ambulacri,  dei  pori,  del  fasciolo  paripetalo  non  lasciano  alcun  dubbio  che  si  tratti 
del  genere  Coraster. 


13  ECHIXIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  327 

Questo  genere  oltre  che  nel  daniano  di  Mancha  Real,  dei  Bassi  Pirenei,  venne 
trovato  anche  nel  senoniano  di  Tersakhan  nel  Turkestan  (1). 
Località  veronese:  Veronese  (Coli.  Nicolis). 


Micraster  fastigatus  Gauthier 
Tav.  II,  fig.  6,  7. 

1887.  Micraster  fastigatus  Gautuikr,  Descript,  des  esp.  de  la  craie  de  Beims  ("  Bull.  Soc.  de»  Se.  hist.  nat. 
de  l'Yonne  „),  pag.  237,  tav.  VI,  fig.  1,  5. 

Dimensioni:  Lungh.  ram.  42,  largh.  mm.  40,  alt.  mm.  29. 

Specie  di  mediocri  dimensioni  un  po'  più  lunga  che  larga,  cuoriforme,  intaccata 
fortemente  dal  solco  anteriore,  tronca  posteriormente.  Faccia  superiore  subconica, 
alta,  fortemente  inclinata  verso  i  margini,  tranne  che  nell'area  interambulacrale  po- 
steriore perchè  carenata;  faccia  inferiore  leggermente  rigonfia,  terminante  nella  parte 
posteriore  con  due  protuberanze  alquanto  marcate. 

Apparecchio  apicale  con  quattro  pori  genitali  e  leggermente  spostato  all'avanti. 
L'ambulacro  impari  è  posto  in  un  solco  abbastanza  profondo  vicino  al  margine  che 
viene  così  intaccato.  E  un  po'  meno  lungo  e  largo  degli  ambulacri  pari  anteriori, 
con  pori  leggermente  disuguali,  gli  esterni  più  oblunghi  degli  interni. 

Ambulacri  pari  anteriori  posti  in  una  depressione,  alquanto  svasata,  più  larghi 
e  lunghi  di  quello  impari,  con  pori  molto  più  sviluppati,  più  lunghi  gli  esterni  degli 
interni.  Ambulacri  pari  posteriori  lunghi  quanto  quello  anteriore,  ma  meno  larghi  di 
quelli  pari  anteriori. 

Peristoma  semilunare,  labiato,  posto  molto  vicino  al  margine  anteriore;  peri- 
procto  rotondo,  posto  alla  sommità  della  faccia  posteriore,  che  si  eleva  fin  quasi  alla 
metà  dell'altezza  totale  dell'echino. 

I  due  esemplari  che  riferisco  a  questa  specie  sono  un  po'  meno  cuoriformi  dei 
tipi  figurati  da  Gauthier,  un  po'  più  trigonali,  colla  carena  posteriore  un  po'  più 
marcata,  e  colla  faccia  superiore  pure  più  alta,  caratteri  questi  secondo  me  che  ren- 
dono meno  facile  la  riunione  di  questa  specie  col  Micraster  gibbus  Lam.  sp.,  come 
sarebbe  d'avviso  il  Lambert  (2).  Infatti  paragonando  i  miei  esemplari  con  quelli  di 
Palarea  (M.  cordatus ,  M.  gibbus  Sism.)  che  sarebbero  i  tipi  del  vero  M.  gibbus,  li 
trovo  alquanto  diversi,  tanto  che  credo  sia  più  conveniente  considerare  il  M.  fasti- 
gatus una  vera  specie  che  una  varietà  del  M.  gibbus,  da  cui  si  distinguerà,  a  mio 
modo  di  vedere,  per  la  forma  meno  circolare,  più  allungata,  per  la  faccia  superiore 
non  regolarmente  conica,  ma  gibbosa  e  carenata  posteriormente,  per  la  faccia  poste- 
riore più  alta,  fornita  alla  base  da  due  forti  mammelloni,  per  il  solco  anteriore  molto 
più  profondo  al  margine,  per  la  faccia  inferiore  più  rigonfia  e  infine  per  i  margini 
più  rotondeggianti. 

Del  resto  sia  che  il  Micraster  fastigatus  lo  si  consideri  come  una  specie  auto- 
noma, sia  che  lo  si  consideri  come  una  varietà  del  Micraster  gibbus,  è  sempre  inte- 


(1)  Cotteau,  Note  sur  un  exempl.  du  Coraster   Villatiovae  de  Tersakha  (Turkestan)    ("  Bull.    Soc. 
géol.  frane.  „,  voi.  17,  ser.  3). 

(2)  Monogr.  du  genre  Micraster  in  lìech.  sur  la  ernie  sup.  par  M.  De  Gkossouvre  (1.  e.). 


328  CARLO    AIRAGHI  14 

ressante  che  un  altro  echino  della  scaglia  permetta  di  fare  dei  confronti  con  altre 
località.  Lo  si  consideri  come  una  specie  autonoma  e  allora  si  avranno  dei  gradi  di 
parentela  tra  il  senoniano  del  Veneto  e  la  creta  a  B.  quadrata  di  Reims,  lo  si  con- 
sideri invece  una  varietà  del  M.  gibbus  e  allora  si  avranno  dei  legami  di  parentela 
anche  col  senoniano  di  Palarea  presso  Nizza,  di  Sens,  '  di  Breteuil  (Oise),  Beauvois, 
dell'Allemagna,  della  Polonia,  ecc. 

È  utile  però  ricordare  che  il  vero  M.  gibbus  è  pure  una  specie  della  scaglia,  se 
non  del  Veneto,  dell'  Apennino.  Un  esemplare  infatti  del  R.  Museo  geologico  di 
Pavia  trovato  a  Montepallaro  presso  Chieti,  corrisponde  perfettamente,  nelle  dimen- 
sioni, nella  conformazione  degli  ambulacri,  della  faccia  superiore,  posteriore,  inferiore, 
al  tipo  della  specie  di  Palarea. 
Località  bellunesi:  Lamon  (Coli.  Fabiani,  11,  M.  Geol.  di  Padova). 

Micraster  massalongianus  Zigno 

Tav.  I,  fig.  3. 
—   Micraster  massalongianus  Zigno.  In  schaedis. 

Dimensioni:  Lungh.  mm.  40,  largh.  mm.  39,  alt.  mm.  29. 

In  verità  è  un  esemplare  allo  stato  di  modello  interno  troppo  malandato  per 
poter  classificarlo  specificamente  con  una  certa  sicurezza,  epperò  lascio  il  nome  dato 
da  Zigno  provvisoriamente,  fintantoché  altri  esemplari  meglio  conservati  possano 
stabilire  con  maggiore  certezza  se  si  tratti  veramente  d'una  specie  autonoma  o  d'una 
varietà  delle  tante  che  si  conoscono  di  questo  genere. 

È  un  esemplare  di  mediocri  dimensioni,  cuoriforme,  colla  faccia  superiore  uni- 
formemente convessa,  leggermente  carenata  sull'area  impari  posteriore,  quella  infe- 
riore piana,  coi  margini  arrotondati,  col  solco  anteriore  quasi  nullo  superiormente  e 
molto  largo  al  margine  e  più  profondo  vicino  al  peristoma,  cogli  ambulacri  pari  pe- 
taliformi,  depressi,  quelli  anteriori  sviluppatissimi,  col  periprocto  subrotondo  posto 
alla  sommità  della  faccia  posteriore  che  è  molto  alta  e  verticale,  col  peristoma  poco 
lontano  dal  margine,  ma  mal  conservato. 

Conoscendo  la  difficoltà  grandissima  che  si  incontra  volendo  classificare  un  echino 
allo  stato  di  modello  interno,  mi  rivolsi  alla  gentilezza  e  alla  erudizione  del  signor 
Lambert  comunicandogli  una  discreta  fotografia  dell'esemplare  in  questione;  ma  anche 
egli  mi  rispose  essere  troppo  difficile  il  volerlo  classificare  specificamente.  Esso  visto 
di  profilo  si  avvicina  alquanto  al  Micraster  Brongniarti  Hebert,  ma  resta  sempre 
però  caratterizzato  dalla  forma  allargata  del  solco  anteriore,  dalla  lunghezza  dei 
petali  pari  anteriori,  dall'apice  ambulacrale  postato  all'avanti,  dalla  sua  faccia  po- 
steriore alta  e  verticale. 

Oltre  a  questo  esemplare  nel  senoniano  veneto  vennero  trovati  altri  due  modelli 
interni    di  Micraster  a  Vernasso   presso   S.  Pietro    al  Natisone,  ma   non  permettono 
una  determinazione  specifica  (1). 
Località  veronesi:  Veronese  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 


(1)  Tommasi,  Contrib.  allo  studio  della  fauna  cret.  del  Friuli  C   Atti  R.  Ist.  ven.  se.  lett.  „,  t.  II, 
ser.  VII),  pag.   1110. 


15  ECHINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  329 


Tsojmeustes  Lamberti  sp.  ri. 

Tav.  I,  fig.  4. 

Dimensioni:  Lungli.  inni.  32,  largii,  mm.  30,  alt.  mm.  18. 

E  non  senza  qualche  dubbio  che  riferisco  la  nuova  specie  al  genere  Isopneustes, 
epperò  sarebbe  necessario  il  rinvenimento  di  altri  esemplari  meglio  conservati  per 
poter  stabilire  con  certezza  la  presenza  di  questo  genere  nella  scaglia  veneta.  L'esem- 
plare infatti  che  ho  in  esame  se  lo  distinguo  dal  genere  Epiaster  per  i  pori  del  suo 
ambulacro  impari  simili  a  quelli  degli  altri  e  dall' Hyspaster  per  la  mancanza  del 
solco  anteriore  e  il  peristoma  labiato,  dai  generi  Gyclaster  e  Isaster  per  quattro  pori 
genitali,  non  posso  asserire  se  esso  sia  fornito  o  no  di  fascioli,  essendo  il  suo  guscio 
abraso. 

L'esemplare  che  rappresenta  la  nuova  specie  è  di  mediocri  dimensioni,  colla 
faccia  superiore  alta  due  terzi  della  lunghezza,  avente  la  sua  maggior  altezza  in  cor- 
rispondenza dell'apice  ambulacrale,  coll'area  interambulacrale  posteriore  regolarmente 
inclinata  a  foggia  di  tetto,  con  quella  inferiore  piana,  e  quella  posteriore  alta  e  incli- 
nata all'avanti. 

Apice  ambulacrale  con  quattro  pori  genitali,  spostato  molto  all'avanti.  Solco 
anteriore  nullo  alla  faccia  superiore,  appena  accennato  sul  margine.  Ambulacro  im- 
pari anteriore  conservato  solo  per  metà,  ma  composto  da  pori  eguali  a  quelli  degli 
altri  ambulacri.  Ambulacri  pari  differenti,  gli  anteriori  più  lunghi  e  divergenti  dai 
posteriori,  forniti  da  pori  disuguali,  gli  esterni  più  lunghi  degli  interni.  Peristoma 
alquanto  vicino  al  margine,  labiato;  periprocto  subrotondo  posto  alla  sommità  della 
faccia  posteriore. 

Questa  se  è  un  vero  Isopneustes  sarebbe  la  seconda  specie  del  genere,  compren- 
dendo esso  fin'ora  il  solo  Isopneustes  Bourgeoisi  Cott.  Le  specie  descritte  dal  Seunes 
e  riferite  a  questo  genere,  come  giustamente  ha  stabilito  il  signor  Lambert  nella 
sua  insuperabile  Monografia  del  genere  Micraster,  si  debbono  considerare  come  dei 
Gyclaster,  poiché  sono  provviste  non  di  quattro  pori  genitali,  ma  di  tre,  e  per  avere 
l'ambulacro  impari  diverso  dagli  altri. 

Località  padovane:  S.  Pietro  Montagnoli  (R.  M.  Geol.  di  Padova). 


Serie  IL  Tom.  LUI. 


330  CARLO    AIRAGHI    ECHINIDI    DELLA    SCAGLIA    CRETACEA    VENETA  16 


SPIEGAZIONE  DELLA  TAVOLA  I 


1.  Echinocorys  concava  Cat.  sp. .     .  Collezione  R.  M.  Geol.  di  Padova 

2.  Stegaster  Dallagoi  n.  sp.     .     .     .                 „  Dal  Lago 

3.  Micraster  Massalongianus   Zigno                 „  R.  M.  Geol.  di  Padova 

4.  Isopneustes  Lamberti  n.  sp.    .     .                 „  „ 


SPIEGAZIONE  DELLA  TAVOLA  II 


1,  2.  Lampadocorys  sulcatus  Cott.  sp.  Collezione  R.  M.  Geol.  di  Padova 

3.  Cardiaster  subtrigonatus  Cat.  sp.  „  „ 

4.  „  Dallagoi  n.  sp.      .     .  „  Dal  Lago 

5.  „  ?  n.  sp ,  „ 

6.  Micraster  fastigatus  Gauth.    .     .  ,  R.  M.  Geol.  di  Padova 

7.  ,  „  ...  „  Fabiani. 


A  I  R  A  G  H  I  G  .  Echinidi.  Tav.  I. 


^Itcmotic  cfl.  deca?.  cc((c   Sciente 
?i     ?oti  uo  .  Ser.  II.  Voi.  53 


Stab.  Eliotipico   Ing.  Molfese-To: 


A  I  RAG  H  I  G  .  Echinidi.  Tav.  II. 


S)ÌLcmo:ic  alt.  diccad.  ce  ffc  Scienza 
ci     Sozino  .  Ser.  II.  Voi.  53 


Stab.  Eliotipico   Ing.  Molfose-Tori 


I  FUNGHI  IPOGEI  ITALIANI 


RAI  COLTI    DA 


0.  BECCARI  ■  L.  CALDESI  -  A.  CARESTIA  -  V.  CESATI  •  P.  A.  SACCARDO 


ILLUSTRATI    DA 


ORESTE   MATTIROLO 


Approvata    nell'adunanza    del   22    Marzo    1903. 


Appena  sotto  alla  superficie  del  suolo  o  più  profondamente  in  esso,  in  tutti  i 
climi  e  sotto  tutte  le  latitudini,  vivono  numerosi  funghi,  appartenenti  a  tipi  svaria- 
tissimi,  la  cui  importanza,  apprezzata  un  tempo  unicamente  in  rapporto  al  loro  impiego 
nell'arte  culinaria,  viene  oggi  in  ben  altro  modo  valutata  dalla  scienza;  dopo  che 
essa  riuscì  a  provare  che  i  micelii  di  detti  funghi  vivono  nel  terreno,  mantenendosi 
ivi  in  stretto  mutualismo  simbiotico  colle  radici  delle  piante. 

La  scienza  è  giunta  di  fatto  a  dimostrare  che  nessuna  pianta  può  bastare  a  se 
stessa;  nel  senso  cioè,  che  nessuna  pianta  può  vivere  da  sola,  senza  contrarre  rap- 
porti mutualistici  con  esseri  ad  essa  inferiori  nella  organizzazione,  che  l'aiutano  nel- 
l'esercizio di  quelle  funzioni  le  quali,  unanimemente,  si  riteneva  fossero  senz'altro  eser- 
citate dalle  radici. 

Una  immensa  categoria  di  forme  fungine,  prive  di  clorofilla,  prive  quindi  della 
facoltà  di  assimilare  il  carbonio  atmosferico,  vive  al  disotto  della  superficie  del  ter- 
reno all'infuori  dell'influenza  diretta  delle  radiazioni  che  si  percepiscono  come  luce 
ordinaria,  espandendo  i  loro  micelii  ovunque  fra  le  particelle  del  terreno,  contraendo 
ivi  Ultimissimi  rapporti  cogli  apparati  radicali  che  le  piante  sviluppano  nel  terreno 
stesso  e  che  loro  servono  ad  un  tempo  come  mezzo  di  sostegno  degli  organi  assimi- 
latori  e  fruttificatori  epigei  e  come  organi  di  assorbimento  dei  liquidi  nutrizì  conte- 
nuti nel  terreno. 

Tanto  le  piante  arboree,  quanto  quelle  erbacee  contraggono  relazioni  simbiotiche 
con  questi  esseri,  la  cui  azione   funzionale  incomincia  oggi   appena  ad   essere  inve- 


I  micelii  degli  Ipogei,  che  rivestono  le  parti  apicali  delle  radici  delle  piante,  che 
ne  avvolgono  a  guisa  di  guanto  le  estremità,  che  sostituiscono,  espandendosi  do- 
vunque nel  terreno,  i  peli  assorbenti  ;  che  penetrano  e  si  annidano  anche  nei  tessuti 
ipodermici,  esplicano  le  loro  proprietà  enzimatiche  sui  materiali  che  compongono  il 
terreno,  rendendoli  atti  ad  un  impiego  utile  nell'economia  dei  vegetali  superiori,  aiu- 


332  ORESTE    MATTIROLO  2 

tano  i  processi  osmotici  delle  radici,  traggono  dal  terreno  l'acqua  e  i  sali  sciolti  in 
essa,  necessari  ai  bisogni  delle  piante;  mentre  essi  stessi  ricevono,  in  compenso  della 
loro  attiva  cooperazione,  dalla  pianta  che  li  ospita,  i  materiali  idrocarbonati  di  cui 
necessariamente  hanno  bisogno. 

Gli  apparati  riproduttori  di  questi  micelii  costituiscono  i  cosidetti  funghi  ipogei, 
la  cui  conoscenza  viene  oggi  a   rivestire  una  importanza  tutto  affatto  speciale. 

I  funghi  ipogei  rappresentano  uno  dei  fattori  principali  nella  vita  delle  piante, 
e  la  conoscenza  esatta  dei  loro  rapporti  colle  radici,  potrà  permettere  in  avvenire 
di  procedere  razionalmente  nell'esame  delle  principali  questioni  che  hanno  rapporto 
coll'arboricultura,  ed  è  perciò  che  lo  studio  della  Flora  sotterranea  riveste  un  doppio 
interesse,  botanico  cioè  ed  agricolo. 

D'altra  parte  è  notissima  cosa,  che  alcuni  di  questi  funghi,  specialmente  quelli 
appartenenti  ai  Tuberacei,  costituiscono  un  cibo  ricercatissimo  per  la  delicatezza  del 
profumo,  e  che  la  coltivazione  razionale  di  essi,  basata  essenzialmente  sulla  propa- 
gazione e  coltivazione  delle  piante  sulle  radici  delle  quali  vive  in  relazione  simbiotica 
il  loro  micelio,  potrebbe  rappresentare,  anche  da  noi,  una  sorgente  non  indifferente 
di  guadagno,  quale  da  tempo  si  verifica  in  Francia. 

Al  difficile  lavoro  di  censimento  di  queste  forme  fungine  ipogee  e  agli  studi  di 
indole  biologica  che  riguardano  tanto  la  loro  storia  di  sviluppo,  quanto  il  modo  di 
estrinsecarsi  delle  loro  proprietà  funzionali,  si  sono  rivolti  gli  sforzi  dei  moderni 
ricercatori,  e  ogni  giorno  che  passa,  si  può  dire,  segna  un  progresso  in  questo  diffi- 
cilissimo campo  di  studi.  Per  essi  si  schiuderanno  orizzonti  nuovi  che  porteranno  alla 
scoperta  di  verità,  quali  pochi  anni  or  sono  neppure  si  sarebbero  potute  sospettare  ; 
quando  ogni  vegetale  era  ritenuto  capace  di  bastare  da  solo  al  suo  sviluppo  e  tutte 
indistintamente  le  forme  fungine  si  consideravano  senz'altro  come  parassite  o  sapro- 
fite, nel  significato  stretto  di  queste  parole. 

Molto  già  si  è  fatto  in  questa  via,  ma  moltissimo  rimane  da  fare  e  ciò  anche 
per  la  ragione  che  oggi  ancora  straordinariamente  monche  e  scarse  sono  le  cogni- 
zioni nostre  intorno  alla  morfologia  dei  principali  tipi  di  funghi  adattatisi  a  vivere 
la  vita  sotterranea. 

Le  difficoltà  gravissime  che  il  micologo  sa  di  incontrare  quando  si  dedica  alla 
ricerca  di  questi  strani  esseri  che  vegetano  nascosti  e  che  nascostamente  si  ripro- 
ducono nel  terreno,  sono  tali  e  tante  che  non  ci  permisero  ancora  di  giungere  nem- 
meno lontanamente  ai  risultati  che  si  sono  invece  verificati  nella  sistemazione  delle 
forme  fungine  epigee. 

Mentre  alcuni  (e  questi  sono  perciò  stesso  i  più  noti)  fruttificando  emettono 
odori  speciali  che  ne  denunciano  la  presenza  agli  animali  che  educhiamo  per  la  loro 

ricerca,  che    attirano  insetti,  uccelli,  roditori,  incaricati    forse   di  ingerire   e   di 

influenzare  le  spore  rendendole  atte,  dopo  il  passaggio  nell'intestino,  a  germinare; 
altri  invece  non  ci  concedono  segni  della  loro  presenza  nel  suolo,  e  vi  rimangono 
nascosti,  vi  si  distruggono  spappolandosi,  refrattari  alle  ricerche  più  minuziose. 

Queste  forme  quindi  non  si  scoprono  altrimenti  che  rovistando,  razzolando  con 
enorme  dose  di  pazienza  il  terreno  che  le  protegge  nascondendole,  e  ciò  ancora  solo 
riesce,  quando  si  è  potuto  avere  una  idea  dei  luoghi  di  loro  predilezione! 

Tralasciando  di  trattare  di  quanto  si  è  fatto  presso  altre  nazioni,  possiamo  dire 


8  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  333 

che  nel  campo  degli  studi  che  riguardano  gli  Ipogei,  la  lodatissima  Monographia 
Tuberacearum,  edita  a  Milano  nell'anno  1831  da  Carlo  Vittadini,  costituisce  oggi 
ancora  il  lavoro  fondamentale  intorno  alle  forme  fungine  che  vivono  nel  sottosuolo 
italiano,  e  che,  a  partire  da  quell'epoca,  nessuno  più  tra  noi  si  occupò  di  proposito  di 
questo  argomento,  al  quale  mi  sono  da  molti  anni  dedicato,  nel  duplice  intento  di 
riescire  ad  un  censimento  delle  varie  forme  ipogee  italiane,  e  allo  studio  dei  pro- 
blemi che  ne  riguardano  gli  scopi  e  l'attività  fisiologica. 

Il  presente  lavoro  (come  altri  consimili  già  da  me  fatti  di  pubblica  ragione), 
rappresenta  una  parte  del  lungo  studio  preliminare  destinato  a  servire  di  base  al 
lavoro  monografico  che  ho  speranza  di  riescire  a  condurre  a  termine  fra  non  lunga 
serie  di  anni. 

Illustrando  i  materiali  italiani  raccolti  da  Odoardo  Beccari,  Lodovico  Caldesi, 
Antonio  Carestia,  Vincenzo  Cesati,  P.  A.  Saccardo,  rimasti  per  la  massima  parte 
indeterminati  negli  Erbari,  intendo  dare  un  saggio  dei  risultati  ottenuti  dai  più  illu- 
minati micologi  italiani  che,  dopo  Carlo  Vittadini,  si  occuparono  della  ricerca  degli 
Ipogei  e  segnalare  le  forme  che  per  opera  loro  siamo  giunti  a  conoscere. 

In  questo  scritto  non  farò  che  l'enumerazione  delle  specie  ipogee,  trovate  dai 
predetti  autori,  senza  alcuna  esclusione  e  senza  tentarne  una  sistemazione,  la 
quale  verrà  fatta  nel  lavoro  monografico,  al  quale  è  destinato  lo  studio  di  questi 
materiali. 

Odoardo  Beccari  raccolse  prevalentemente  in  Toscana  e  nell'Emilia  ed  inviò  le 
sue  collezioni,  assai  prima  dell'anno  1882  (1)  a  Vincenzo  Cesati,  perchè  servissero  ad 
un  lavoro  di  cui  non  rimase  altro  che  il  titolo  "  1  Fungi  Hypogaei  Beccariani  „;  poiché 
ad  esso  non  potè  attendere  il  compianto  botanico,  in  causa  della  lunga  malattia 
che  doveva  trarlo  a  morte  il  13  febbraio  1883.  Rimasero  quindi  sino  all'anno  1900 
perduti  fra  la  congerie  di  materiali  accatastati  prima  del  riordinamento  dell'Erbario 
Cesatiano  operatosi  per  cura  di  R.  Pirotta  nei  locali  del  R.  Istituto  botanico  di  Roma, 
ed  in  quell'anno  furono  affidati  alle  mie   cure  per  lo  studio. 

I  materiali  raccolti  in  Romagna  da  Ludovico  Caldesi,  provengono  dall'Erbario 
Caldesi  da  lui  lasciato  in  eredità  all'Istituto  botanico  dell'Università  di  Bologna.  In 
parte  già  da  me  studiati  (1896-97)  a  Bologna,  mi  vennero  cortesemente  ora  concessi 
per  lo  studio  dal  Prof.  Fausto  Morini.- 

Gli  Ipogei  del  Reverendo  Abate  Antonio  Carestia  mi  furono  da  lui  amichevol- 
mente inviati  ;  mentre  devo  quelli  dell'Erbario  di  Vincenzo  Cesati  alla  cortesia  del- 
l'amico R.  Pirotta. 

Da  P.  A.  Saccardo  ebbi  in  esame  la  parte  del  notevolissimo  suo  erbario  riguar- 
dante le  Tuberacee  e  le  Hymenogastree,  ed  in  esso  potei  studiare  le  specie  raccolte 
in  Italia,  tanto  dall'eminente  micologo,  quanto  dai  corrispondenti  suoi. 

Mi  è  quindi  graditissimo  il  dovere  di  ringraziare  i  colleghi  0.  Beccari,  A.  Ca- 
restia, F.  Morini,  R.  Pirotta  e  P.  A.  Saccardo;  ricordando  ancora  il  compianto 
Professore  M.  Cornù  e  il  Sig.  Dott.  Paul  Hariot  del  Museo  di  Parigi,  per  la  gentile 


(1)  Esistono  due  lettere  del  Cesati,  15  giugno  1882  e  22  luglio  dello  stesso  anno,  relative  allo 
smarrimento  e  alla  ricerca  delle  Tuberacee  raccolte  dal  Beccari;  nel  pacco  rinvenni  poi  un  foglietto 
di  mano  del  Cesati,  sul  quale  egli  aveva  iniziata  la  enumerazione  dei  Fungi  hypogaei  Beccariani. 


334:  ORESTE    MATTIROLO  * 

loro  cooperazione  alle  mie  ricerche,  avendomi  affidato  rarissimi  autoptici  che  mi  ser- 
virono come  tipi  di  paragone.  Devo  avvertire  che  gli  Ipogei  da  me  esaminati  nella 
Collezione  Beccari  si  conserveranno  nell'Erbario  Cesati  (Roma),  e  in  parte  passeranno 
al  Museo  di  Firenze;  che  la  raccolta  Cesati  rimarrà  a  Roma;  quella  di  Caldesi  potrà 
essere  consultata  nell'Erbario  dell'Istituto  botanico  di  Bologna,  e  quella  di  P.  A.  Sac- 
cardo  si  potrà  studiare  nell'Erbario  Saccardo  a  Padova  (1). 


TUBERACEI 
Genea  Vitt, 

Genea  liispidula  Berk. 

Genea  hispidula  Berk.  in  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  History  »,  XVIII,  76.  —  Tulasne,  F.H., 
p.  121.  —  Corda,  le,  p.  59,  tab.  XIII,  fig.  109  (sub.  G.  papillosa).  —  Hessb,  H.  D., 
voi.  II,  p.  57.  —  Fischer,   Tub.,  p.  20. 

La  Genea  hispidula  già  nota  in  Europa  per  l'Inghilterra,  la  Francia  e  la  Ger- 
mania, viene  oggi  per  la  prima  volta  registrata  per  l'Italia.  I  paragoni  da  me  fatti 
cogli  esemplari  autoptici  di  Berkeley  (Herb.  Tulasne)  e  quelli  istituiti  coi  materiali 
dell'Erbario  di  Strassburgo  (Herb.  De  Bary),  favoritimi  dalla  cortesia  del  Prof.  Solms 
Laubach,  non  lasciano  alcun  dubbio  sulla  identità  della  specie,  raccolta  nell'ottobre  1862 
nella  Selva  Pisana  al  Palazzetto,  da  Odoardo  Beccari. 

La  forma  delle  sculture  periniali,  larghe,  emisferiche,  toccantisi  le  une  colle 
altre;  il  feltro  che  ricopre  la  faccia  esterna  del  peridio,  la  colorazione  delle  spore... 
sono  i  caratteri  che  distinguono  questa  dalle  specie  congeneri,  tutte  distribuite  sopra 
larghissime  aree.  La  G.  hispidula  fu  registrata  anche  da  H.  W.  Harkness  per  la 
California  (2). 

Genea  verrucosa  Vitt. 

Genea  verrucosa  Vitt..  .1/.  T.,  p.  28,  tab.  II,  fig.  VII  e  tab.  V,  fig.  I.  —  Tulasne,  F.  H., 
p  119.  _  Hesse.  IL  D.,  voi.  II,  p.  55.  —  Mattirolo,  Ipogei  di  Sardegna  e  di  Sicilia 
(V.  ivi  la  bibliografia  e  la  sinonimia),  "  Malpighia  „,  anno  XIV. 

Di  questa  specie  eminentemente  pleomorfa,  distinta  per  la  regolarità,  la  piccolezza 
delle  protuberanze  emisferiche  o  coniche  del  perinio  albuminoso  delle  spore,  esistono 
moltissimi  individui  nella  Collezione  Caldesi  ;  mentre  altri,  raccolti  pure  da  L.  Caldesi 
in  Val  di  Sennio  (Romagna)  nell'inverno  del  1872-73,  notai  nell'Erbario  Beccari. 


(1)  Avverto  il  lettore  che,  per  brevità,  nel  testo,  la  classica  opera  di  L.  René  et  Chables  Tulasne 
Fungi  Hypogaei  verrà  indicata  colle  lettere  F.  H. 

La  Monographia  Tuberacearum  di  Vittadini  con  M.  T.;  e  con  H.  D.  si  indicherà  l'opera  di 
Rudolph  Hesse,  Die  Hypoyaeen  Deutsehlands. 

Al  nome  "  Fischer  ,  corrisponderà  il  noto  lavoro  Tuberaceen  und  Hemiasceen  che  fa  parte  della 
Eabenhorst  Kryptogamen  Flora,  V  Abtheil.  Leipzig,  1897. 

(2)  H.  W.  Harkness,  Califomian  Eypogaeus  fungi,  "  Prooeedings  of  the  California  Academy  of 
Sciences  „,  III  serie,  voi.  I,  N.  8.  Botanik.  1899,  S.  Francisco. 


5  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  335 

La  G.  verrucosa,  comune  in  Piemonte,  in  Lombardia,  nell'Emilia  e  nella  Toscana, 
fu  raccolta  pure  in  Sicilia  ;  mentre  in  Sardegna  fu  da  me  notata  una  sua  varietà,  la 
var.  badia  Matt.  che  descrissi  come  sinonimo  di  G.  papillosa  Vitt  e  di  G.  Kunzeana 
Lobel  (V.  Mattirolo,  loc.  cit.). 

La  G.  verrucosa  è  pure  annoverata  fra  gli  Ipogei  californiani  di  Harkness. 

Genea  Klotzschii  Berk. 

Genea  Klotzschii  Berk.  et  Broome,  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  History  „,  XVIII,  p.  78.  — 
Tulasne,  F.  H.,  p.  120.  —  Hesse,  H.  D.,  p.  56,  voi.  II.  —  Fischer,  Tub.,  p.  23  (Vedi 
ivi  letteratura  e  sinonimia). 

Di  questa  Genea,  che  io  ricordai  già  per  l'Italia  (1),  incontrai  N.  7  esemplari 
indeterminati  od  erroneamente  determinati  nell'Erbario  Caldesi,  raccolti  tutti  nel 
gennaio  1875  nei  dintorni  di  Faenza  (Scavignano,  Marzeno,  Osservanza,  Olmatello...), 
di  Castelbolognese  e  di  Brisighella. 

Un  tipico  esemplare  trovato  a  Novi  Ligure  da  Pietro  Modesto  Ferrari,  deter- 
minato da  De  Notaris  per  G.  verrucosa,  incontrai  pure  nell'Erbario  Tulasne  del  Museo 
di  Parigi  (Erbario  Dott.  Roussel). 

Genea  sphaerica  Tul. 

Form,  sporis  splnuloso-tuberculatis  Mattirolo. 
(Tav.  fig.  17). 

Genea  sphaerica  Tul.,  Champignons  hypogés  de  la  Famille  des  Lycoperdacés  observés  dans 
leu  environs  de  Paris  et  les  départements  de  la  Vienne  et  d'Indre  et  Loire ,  "  Ann.  Se. 
Nat.  „,  2"  sèrie,  tom.  XIX,  pag.  378,  1843.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  120,  tab.  TV,  fig.  II, 
tab.  XII,  fig.  1  et  tab.  XIII,  fig.  VI.  -  Hesse,  H.  D.,  voi.  II,  p.  54,  tab.  XII,  fig.  9 
et  tab.  XVI,  fig.  32.  —  Fischek,  loc.  cit,  p.  14  et  p.  24,  fig.  1,  2,  3. 

A  Boscolungo  nell'Apennino  Pistoiese  sotto  gli  Abeti,  nell'agosto  1900,  0.  Bec- 
cari  raccoglieva  e  gentilmente  mi  comunicava  alcuni  esemplari  di  una  Genea,  identica 
ad  altra  già  da  me  raccolta  il  17  luglio  1899  alle  Cascine  di  Firenze,  corrispondente, 
sia  per  i  caratteri  generali,  come  per  il  tipo  e  le  dimensioni  delle  spore,  alla  Genea 
sphaerica  di  Tulasne;  ma  differente  per  la  forma  dei  depositi  periniali;  che  perfet- 
tamente regolari,  emisferici,  minuti  e  regolarmente  disposti  nella  Genea  sphaerica, 
sono  invece  nettamente  e  grossolanamente  spinuloso-tuberculati  nella  presente  forma 
(V.  Tav.  fig.  17). 

La  descrizione  generale  della  Genea  sphaerica  si  adatta,  è  vero,  a  questa  forma  ; 
ma  essa,  pare  a  me,  che  meriti  di  essere  segnalata  e  distinta,  perocché,  in  tutti 
gli  esemplari  esaminati,  le  spore  si  mostrarono  sempre  differenti  da  quelle  della 
forma  tipica.  Pure  avendo  lunga  pratica  della  polimorfia  che  possono  presentare 
i  depositi  periniali  delle  spore  nelle  differenti  specie  del  genere  Genea  (talora  anche 
in  |quelle   racchiuse    in   uno  stesso   asco),  sarei  stato  propenso,  vista  la  costanza  di 


(1)  V.  Mattirolo,  "  Malpighia  „,  voi.  XIV,  I  funghi  Ipogei  di  Vallombrosa ;  e  Gli  Ipogei  di  Sardegna 
e  di  Sicilia. 


336  ORESTE    MATTIROLO  O 

questo  carattere,  ad  assegnare  a  questa,  che,  per  ora,  considero  come  una  forma,  il 
valore  di  specie,  ove  avessi  potuto  esaminare  uu  numero  maggiore  di  esemplari  e 
studiarli  nelle  naturali  condizioni  e  non  essiccati  come  mi  avvenne  di  dover  fare. 

Devo  notare  che  l'attenzione  di  Tulasne  fu  pure  fermata  sopra  questa  forma. 
Egli  raccolse  infatti  alcuni  esemplari,  identici  ai  miei,  nel  Bois  de  la  Dame  rose  a 
Meudon  presso  Parigi,  nel  settembre  dell'anno  1843.  Questi  esemplari  conservati 
nel  Museo  di  Parigi,  come  risulta  dal  cartellino,  furono  dapprima  da  lui  determinati 
come  appartenenti  alla  Genea  verrucosi!  di  Vittadini,  quindi  indicati  col  nome  di  Genea 
sphaerica  Tul.  forma  insolita;  traspare  di  qui  il  dubbio  che  l'eminente  micologo  ebbe 
intorno  a  questo  tipo  meritevole  di  studi  ulteriori,  quali  spero  di  poter  istituire  quando 
potrò  disporre  di  materiali  freschi. 

A  proposito  di  questa  forma  e  della  Genea  sphaerica,  credo  utile  accennare  qui, 
che  molto  materiale  già  da  me  determinato  come  appartenente  alla  Genea  sphaerica 
di  Tulasne,  rappresenta  invece  la  discussa  Genea  Lespiaulti  Corda  ;  e  che,  parte  degli 
esemplari  della  Genea  sphaerica  da  me  ricordata  fra  gli  Ipogei  delle  Foreste  di 
Vallombrosa,  rappresentano  invece  la  Genea  Lespiaulti,  che  pure  incontrai  fra  i  ma- 
teriali determinati   da  Tulasne  come  appartenenti   alla  Genea   sphaerica  (1). 


Stephensia  Tulasne. 

Stephensia  bombycina  Tul. 

Genea  bombycina  Vitt.,  M.   T.,  p.  29,  tav.  Ili,  fig.  XIII  et  tav.  IV,  fig.  Vili.  —  Bekk.,  in 

"  Ann.  Magaz.  of  Nat.  Hyst.  „,  voi.  XIII,  p.  357. 
Stephensia  bombycina  Tul,  F.  H.,  p.  130,  tab.  XII,  fig.  IV.  —    Fischer,  loc.  cit.,  p.  29. 

Questa  curiosa  specie,  che  io  trovai  frequente  in  Toscana,  nel  terreno  stesso 
del  R.  Orto  Botanico  (Orto  dei  Semplici)  nel  centro  di  Firenze  (V.  Mattirolo,  Gli 
Ipogei  di  Sicilia  e  di  Sardegna,  p.  6);  che  rinvenni  in  Lombardia,  nel  Canton  Ticino 
(Stabio)  e  nell'Emilia  ;  fu  raccolta  anche  da  0.  Beccari  nel  R.  Orto  Botanico  di  Pisa 
nell'ottobre  1860. 

A  proposito  di  questo  ipogeo  giova  ricordare  che  il  diametro  delle  sue  spore 
(le  quali  hanno  il  perinio  liscio  e  mai  verrucoso,  come  ammette  il  Berkeley,  v.  loc. 
cit.)  varia  assai  collo  stato  di  maturazione.  Questo  fatto  dà  ragione  delle  differenze 
metriche  che  si  notano  nelle  descrizioni.  Tulasne  (loc.  cit.)  fissa  i  limiti  diametrali 
fra  19  e  22  micra:  mentre  il  Fischer  (che  pure  esaminò  esemplari  autoptici  delle  Rac- 
colte Vittadini  e  Tulasne)  assegna  loro  limiti  fra  i  21  ed  i  28  micra,  ciò  che  è  secondo 
la  verità,  come  lo  dimostra  una  serie  di  misurazioni  da  me  fatte  tanto  sopra  esem- 
plari miei,  quanto  sopra  esemplari  autoptici  di  Vittadini  e  di  Tulasne,  ottenendo  una 
media  di  25,  con  un  minimum  di  24  ed  un  maximum  di  28  micra.  L'esemplare  di 
Vittadini  presentò  una  media  di  26,  sopra  12  misurazioni,  con  un  minimum  di  21  ed 
un   maximum  di  28;  mentre  diametri    uguali  a  quelli   segnati    dal  Tulasne  e  certe 


\\)  V.  Mattirolo.  loc.  cit,,  "  Malpighia  „,  anno  XIV. 


I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI 


337 


volte  anche  minori,  osservai  in  individui  giovani.  Lo  stato  di  maturazione  può  essere 
valutato  col  criterio  della  prova  del  glicogeno  (1),  nonché  con  quello  del  colore  delle 
spore,  che  vanno  ingiallendo  colla  maturazione  perfetta;  ed  infine  coi  criteri  che  ci 
sono  forniti  anche  dalle  dimensioni  stesse  dell'individuo. 


Pachyphloeus  Tulasne. 

"  Giornale  Botanico  Italiano  ,,  anno  I,  fase.  7,  8,  1844,  L.  R.  e  C.  Tulasne,  Fungi  nonnuUi 
hypogaei  novi  v.  minus  cogniti  —  Choeromgcis  sp.  Tulasne  et  Berk.  "  Ann.  and  Magaz. 
of  Nat.  ffist.  „,  voi.  XIII,  p.   359. 

Pachyphloeus  Saccardoi  Mattirolo  nov.  sp. 

(V.  Tavola,  fig.  11  a  15). 

Questo  ipogeo,  caratterizzato  dal  tipo  e  dalle  dimensioni  delle  spore,  fu  trovato 
nel  giugno  1872  dal  Prof.  P.  A.  Saccardo  "  ad  terram  „  nel  R.  Orto  Botanico  di 
Padova  (2)  ;  epperò  mi  sembra  cosa  naturale  che  io ,  presentandone  la  descrizione, 
lo  onori  del  nome  dell'illustre  micologo. 

Non  potendo  parlare  ne  della  forma  esterna,  probabilmente  irregolarmente  glo- 
bosa, tuberculosa,  né  dei  caratteri  cromatici  del  peridio,  ne  del  decorso  delle  vena- 
ture, né  infine  delle  proprietà  organolettiche  del  nuovo  Pachyphloeus,  perchè  non  vidi 
altro  che  materiale  essiccato  e  sezionato,  limiterò  forzatamente  la  illustrazione  ai 
dati  che  ho  potuto  desumere  dall'esame  microscopico  del  materiale  secco,  nella  spe- 
ranza di  poter  completare  le  lacune  descrittive  sopra  nuovo  materiale. 

Il  P.  Saccardoi  presenta  un  Peridio  di  color  bruno  intenso  (nel  secco),  avente 
spessore  non  uniforme;  pseudoparenchimatico  all'esterno,  fibroso  invece  all'interno, 
dove  si  continua  formando  le  venature  della  trama.  Da  queste  si  origina  Yimenio 
regolarmente  formato  da  aschi  e  da  ife  sottilissime,  che  rappresentano  le  parafisi  e 
si  continuano  nelle  cosi  dette  vene  esterne,  interimeniali. 

Gli  aschi  numerosissimi,  stipati  fra  di  loro,  sono  irregolarmente  disposti  a  mo'  di 
palizzata  sopra  tutta  la  superficie  delle  venature  della  trama,  formando  degli  strati 
imeniali  ondulati  nastriformi,  tra  loro  separati  dal  tessuto  componente  le  vene  esterne, 
il  cui  decorso  nei  materiali  esaminati,  non  si  potè  esattamente  orientare. 

La  forma  degli  aschi  è  clavato-cilindrica  ;  ma  non  raramente  sono  essi  anche 
ripiegati,  ondulati  con  parvenze  che  stanno  forse  in  rapporto  colle  condizioni  nelle 
quali  si  svolgono,  stipati  gli  uni  contro  gli  altri  e  gli  uni  più  degli  altri  sviluppati. 

Gli  aschi  di  questa  nuova  specie,  allungatissimi,  ripieni  di  materiale  glicogenico 
quando  ancora  non  sono  sporificati,  sono  fortemente  rifrangenti  e  raggiungono  una 
lunghezza  che  varia  dai  250  ai  300  micra  e  largh.  di  30-45  micra  e  quindi  sono  essi 
più  lunghi  che  in  tutte  le  altre  specie  del  genere,  finora  note  ai  micologi. 


(1)  V.  0.  Mattirolo,  Sul  valore  sistematico  del  Choiromyces  meandriformis,  e  del  Choiromyces  gan- 
gliformis  Vitt.,  "  Malpighia  „,  anno  VI,  1892,  pag.  20  e  21. 

(2)  Nell'Erbario  Saccardo  trovavasi  aistemato  sotto  il  nome  di  Choiromyces  meandriformis  Vitt.  (?). 

Serie  II.  Tom.  LUI.  R' 


338  ORESTE    MATTIROLO  O 

Per  la  forma,  la  disposizione  e  per  i  caratteri  esterni  essi  ricordano  quelli  del 
vicino  genere  Stephen  sia  Tul.  Alla  base  presentano  costante  il  noto  ingrossamento 
laterale  d'attacco. 

Neo-li  aschi  si  contengono  generalmente  otto  spore  (che  raramente  tutte  matu- 
rano) disposte  in  generale  sopra  una  serie,  stipate  nella  parte  apicale. 

Queste  spore  presentano  un  perinio  elegantemente  munito  di  numerosissime  punte, 
brevi,  esilissime,  coniche,  più  minute,  più  lunghe  (misurando  esse  da  2  a  4  micra), 
più  appuntite  e  numerose  che  non  nelle  altre  specie  del  genere.  Queste  spinule  ricor- 
dano quelle  caratteristiche  del  perinio  delle  spore  del  Tuber  brumale  Vitt.  ad  es., 
ma  sono  ancora  più  minute,  numerose  ed  eleganti. 

Le  spore,  sferiche,  hanno  color  bruno,  quando  sono  mature;  misurano  18  a 
24  micra  (senza  gli  aculei)  di  diametro  —  e  quindi  si  presentano  assai  più  grandi  di 
quelle  appartenenti  alle  specie  congeneri  a  spore  pure  spinulose  (P  melanoxanthus  Tul. 
e  P.  citrinus  Berk.). 

Le  parafisi  sono  filiformi,  sottilissime,  stipate  fra  gli  aschi,  cementate  in  una 
massa  gelatinosa,  che  forma  come  un  tessuto  di  riempimento  fra  gli  aschi;  tanto 
che  per  studiarne  il  decorso  ho  dovuto  ricorrere  alla  colorazione  loro  col  rosso  di 
Rutenio. 

Le  parafisi  di  questa  specie  ricordano  quelle  che  caratterizzano  il  vicino  genere 
Stephensia,  col  quale  il  P.  Saccardoi  ha  pure  molti  punti  di  affinità. 

Il  nuovo  fungo  si  distingue  dalle  vicine  specie  P.  citrinus  Berk.  e  P.  melanoxan- 
thus Tul.  per  le  dimensioni  e  la  forma  degli  aschi  e  per  le  dimensioni  delle  spore  e  le 
spinulosità  caratteristiche  del  perinio;  differisce  dal  P.  conglomeratus  Berk.  {—Cryptica 
lutea  Hesse)  e  dal  P  Ligericus  Tul.  per  la  forma  dei  rilievi  periniali  ottusi,  bitor- 
zoluti, in  queste  specie.  Dalla  Stephensia  bombycina  Tul.  si  allontana  perchè  manca 
di  spore  perfettamente  liscie. 

Da  quanto  si  è  esposto,  risulta  che  la  determinazione  di  questa  specie  riesce 
facilissima  anche  sui  materiali  essiccati,  essendo  sufficienti  i  caratteri  accennati  per 
farla  distinguere  fra  tutte  le  forme  ipogee  finora  note. 

La  frase  diagnostica  si  potrebbe  riassumere  nel  seguente  modo  : 

PachijpJdoeus  Saccardoi  Mattirolo,  nov.  sp. 

Fungus  vix  hypogaeus,  irregulariter  globosus  -  Pendio  brunneo  (sicco)  laeviter 
tuberculato,  crasso  -  externe  pseudoparenchymatico  -  interne  fibroso.  Caro  (sicca)  brunnea, 
venis  duplicis  notata  -  Ascis  elongatis  cylindricis,  clavatis  (250  a  300  micra  long., 
30-45  lat.)  -  Sporis  sphaericis  brunneis  diam.  18-24  -  eleganter  minutissime  spinulosis; 
spinulis  rigidis  conicis  acutissimis  (2-4  micra  long.). 

Hab.  Ad  terram  in  B.  Horto  botanico  Patavino,  ubi  Clarissimus  Saccardo  detexit  - 
20  juni  1872  (In  Herb.  Saccar diano) . 


9  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  339 

Pachyphloeus  conglomeratus  Berk.  e  Broome. 

Pachyphloeus  conglomeratus  Berk.  et  Broome,  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  Hist.  „,  XVIII,  79. 

—  Tulasne,  F.  H.,  p.  132. 
Pachyphloeus  luteus  (Fischer),  Fischer  in  "  Rabenhorst  Krypt.  Fior.  „,  voi.  I,  p.  34. 

(V.  Tavola  fig.   16). 

Di  questo  Ipogeo,  che  Berkeley  prima  del  1857  aveva  già  raccolto  nei  dintorni 
di  Lucca  e  comunicato  al  Tulasne  (v.  F.  K,  pag.  132),  trovai  un  esemplare  nella 
Collezione  Cesati,  frammisto  alle  specie  del  genere  Oetaviania  e  portante  scritto: 
Odaviania  inquirenda.  Biella,  1857.  Settembre. 

La  superficie  peridiale  liscia  ed  i  diametri  delle  spore  varianti  da  18  a  20  micra; 
la  membrana  loro  di  color  brunastro,  le  verruche  ottuse  che  le  rivestono,  nonché  la 
forma  degli  ascili,  confermano  questa  determinazione  e  mi  permettono  di  asso- 
ciarmi all'opinione  di  Fischer,  che  la  Cryptica  lutea,  della  quale  esaminai  preparati 
tolti  da  un  autoptico  conservato  nel  Museo  di  Firenze  (gentilmente  favoritomi  dal 
Prof.  Baccarini),  sia  realmente  da  considerarsi  come  sinonimo  di  questa  forma  rara. 


Tuber  Micheli. 

Tuber  aestivum  Vitt. 

Tuber  aestivum  Viti,  M.  T.,  p.  39.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  137.    —    Hesse,  H.   D.,  p.    14, 
voi.  II.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  38. 

Alcuni  saggi  di  questa  specie  assai  comune  (nelle  più  deplorevoli  condizioni  di 
conservazione)  raccolti  dal  Beccari  a  Bologna  nel  marzo  e  nel  giugno  del  1864, 
concordano  mirabilmente  con  quelli  che,  sopra  indicazioni  dello  stesso  Beccari, 
scavai  più  volte  nell'inverno  e  nell'estate  degli  anni  1897,  98-99,  tanto  nell'antico 
Orto  botanico  di  Firenze,  come  nell'attiguo  giardino  di  Boboli  e  nei  giardini  dei  din- 
torni della  città. 

Lo  studio  di  questi  esemplari  di  Toscana,  raccolti  nel  luogo  classico  citato  dal 
Micheli  (1),  mi  hanno  portato  alla  identificazione  del  Tuber  albidum  di  Cesalpino  (2), 
di  Micheli  (3),  di  Fries  (4);  attorno  al  quale  nulla  ancora  si  sapeva  di  positivo,  dopo 
la  dubbiosa  sinonimia  accettata  da  Vittadini  col  suo  T.  (estivimi  e   le   strane    frasi 


(1)  Micheli,  Nov.  Plant.  genera.  Florentiae,  1729,  pag.  221  :  Tuber  aestivum,  pulpa  suboscura,  minus 
sapida,  ac  odora.  Tuber  alludimi  Caesalp.  613:  Tartufo  nostrale  —  In  Boboli  viridario ,  atque  aliis 
similibus  locis  sylvosis  circa  Florentiam,  julio  mense,  plerumque  viget. 

Nel  manoscritto  inedito  della  Flora  Toscana  (R.  Orto  botanico  di  Firenze)  si  trovano  le  seguenti 
parole: 

"  Tuber  aestivum,  pulpa  suboscura,  minus  sapida  ac  odora.  Micheli,  Nov.pl.  gen.,  p.  221.  Tuber. 
albidum  Casalp.,  613.  Tartufo  nostrale.  Per  le  selve  attorno  alla  città,  ed  in  quelle  dell'istessa 
città  ancora,  come  in  Boboli  dove  si  osservano  in  luglio  „. 

(2)  Caesalpino,  Lib.  XVI,  p.  613. 

(3)  Loc.  cit. 

(4)  Fries,  Syst.  Mycolog.,  voi.  II,  p.  291. 


340  ORESTE    MATTIROLO 


10 


del  Fries  (1).  Questi  ammetteva  che  il  T.  aìbidum  di  Cesalpino  e  di  Micheli  avesse 
relazione  col  caotico  Tuber  cibarium  degli  autori  antichi,  nel  quale  si  concretarono 
tutte  le  descrizioni  e  tutto  quanto  si  scrisse  sui  Tartufi,  prima  di  Vittadini,  da 
Teofrasto  (2),  da  Plinio  (3),  da  Mattioli  (4),  dall' Anguillara  (5),  da  Castore 
Durante  (6),  da  Tabernamontanus  (7),  dall'ameno  Baldassar  Pisanelli  (8),  medico 
bolognese,  dal  reverendo  Padre,  Abate  Filippo  Picinelli  (9)  e  da  quanti  altri  mai 
autori,  che  in  un  modo  o  nell'altro  hanno  parlato  di  queste  cibarie  delicate,  copiando 
l'uno  dall'  altro  le  castronerie  inventate  dagli  antichi  sopra  i  prodotti  della  Terra 
condensata  ! 

Il  Tuber  aìbidum  di  Cesalpino,  rappresenta  (e  in  questo  mostrò  indirettamente 
di  aver  ragione  il  Vittadini)  (10)  il  T.  (estivimi  tipico,  non  ancora  maturo.  Nel 
Tuber  aìbidum  la  polpa  fruttifera  è  molto  chiara  ;  perciò,  che  le  spore,  non  essendo 
in  essa  pure  anco  sviluppate,  non  lasciano  trasparire  il  loro  colore,  che  a  maturità 
si  risolve  nel  noto  colore  brunneo,  più  o  meno  intenso,  caratteristico  degli  individui 
perfetti  del  T.  cestivum.  Nel  T.  aìbidum  la  enorme  quantità  di  glicogeno  contenuto 
negli  aschi  e  nelle  ife  ascogene  (11);  gli  aschi  ancora  sterili;  la  mancanza  di  odore; 
la  carne  ancora  omogenea,  facilmente  risolventesi  in  frustuli  sotto  la  pressione  delle 
dita,  dimostrano  la  verità  della  mia  asserzione,  fondata  sull'esame  di  materiali  rac- 
colti nella  località  e  nell'epoca  indicata  dal  Micheli. 

Il  T.  cestivum,  colle  sue  varietà,  così  impropriamente  battezzato  dal  Vittadini, 
si  incontra  da  noi  in  tutte  le  epoche  dell'anno,  tanto  maturo,  come  immaturo.  È  specie 
eminentemente  calcicola,  a  grande  area  di  distribuzione.  In  Italia  io  1'  osservai  in 
Piemonte,  in  Lombardia,  nella  Liguria,  nell'Emilia,  nel  Veneto,  nelle  Marche,  in 
Romagna,  in  Toscana,  nell'Umbria,  nel  Napoletano.  Per  la  Sicilia  lo  notò  Inzenga 
(v.  Mattirolo,  loc.  cit.,  p.  68)  e  per  la  provincia  di  Campobasso  lo  ricordò  Pedicino. 


(1)  Sunt  qui  praecedentis  (T.  cibarium)  aetatem  juniorem  statuunt;  alti  cum  Rhi:op.  albo  confundunt; 
forsan  quaedam  e  prioribus  varietatibus  huc  pertinent  (Fries,  loc.  cit.). 

(2)  Thbophr.  Ekesii,  de  Hist.  Flant.,  lib.  I,  pag.  27  (sub  Yovov).  (Ediz.  J.  B.  Stapel). 

(3)  Plinio,  Historiae  Naturalis,  lib.  XIX,  cap.  2°. 

(4)  P.  A.  Mattioli,  Discorsi  sul  secondo  Lib.  di  Dioscoride.  Venezia,  1581,  Eredi  di  V.  Valgrisi. 
pag.  388,  ediz.  lat.  Venezia,  1565. 

(5)  Anguillara  L.,  Semplici  li  quali  ecc.  Venezia,  Valgrisi,  1561,  p.  118. 

(6)  Castore  Durante,  Herbario  dì  Castore  Durante  di  Gualdo  Medico  et  cittadino  Romano,  p.  433. 
Ediz.  a  cui  manca  la  data. 

(7)  Tabernamontands  J.  Th.,  Eicones  plantarum  ecc.,  pag.  1119. 

(8)  Baldassar  Pisanelli,  Trattato  dei  Cibi  et  del  Bere.  Carmagnola,  M.  A.  Bellone,  1589. 

(9)  F.  Picinelli,  Mondo  Simbolico  formato  da  imprese  scelte,  spiegate  ed  illustrate.  Milano,  Fran- 
cesco Vigone,  1669. 

(10)  Ecco  le  parole  che  il  Vittadini  adopera  parlando  del  T.  aìbidum  Fries,  pag.  40  Monographia 
Tuberacearum  :  "  Obs.  IL  Tuber  aìbidum  Fries.  ob  Michela  phrasim  huc  tantum  itti  synonimon  allegavi; 
ceterum  diversa  species  videtur,  certe  immatura.  Color  externus  albidus  in  Tuberibus  muricatis  mihi 
prorsus  extraneus,  suspectus.  Hinc  Albidi  nomen  ambiguum,  Tuberibus  cortice  nigro  et  carne  alba 
(immaturis),  et  cortice  albo,  carne  subnigra  (maturis)  saepius  appositvm,  perpetuo  rejicendum  „. 

(11)  Ho  ampiamente  trattato  del  valore  diagnostico  che  può  avere  per  il  sistematico  l'esame  del 
o-licogeno,  mediante  il  quale  si  pub  giudicare  con  esattezza  lo  stato  di  maturazione  delle  Tuberacee, 
la  quantità  di  glicogeno  contenuta  negli  aschi  e  nelle  ife  ascogene  essendo  direttamente  proporzio- 
nale allo  stato  evolutivo  delle  Tuberacee.  V.  a  questo  riguardo  0.  Mattirolo,  Sul  valore  sistematico 
del  Choiromyces  gangliformis  Vitt.  e  del  C.  meandriformis,  pag.  20  e  seg.,  "  Malpighia  „  anno  VI,  1892. 


11  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI 


341 


Numerosi  individui  di  questa  specie  determinai  pure  nei  materiali  dell'Erbario 
Cesati,  in  gran  parte  però  allo  stato  di  residui;  essendo  il  T.  cestivum  uno  degli 
Ipogei  maggiormente  appetiti  dagli  insetti  che  rovinano  le  collezioni.  Anche  nel- 
l'Erbario Caldesi  trovai  esemplari  raccolti  nel  1856  dal  De  Notaris;  e  altri  dal  Bagnis 
trovati  a  Monte  Mario  di  Roma,  figurano  nell'Erbario  Saccardo,  unitamente  ad  indi- 
vidui raccolti  in  località  non  precisata  del  Veneto. 

Tuber  mesentericum  Vitt. 

Tuber  mesentericum  Vitt.,  M.   T.,  p.  40,  tab.  Ili,  flg.  XIX.  —  Tulasne,  F.  K,  p.  139.  — 

Hesse.  H.  D.,  p.  17. 
Tuber  aestivum  3  mesentericum,  Fisohek,  loc.  cit.,  p.  39. 

Nella  collezione  Beccavi  trovai  dei  residui  di  esemplari  provenienti  da  Vulturara 
Irpina,  nei  quali  esistono  ancora  delle  spore  concordanti  con  quelle  di  altri  esemplari 
che  io  ebbi  da  Ascoli  Piceno,  da  Avellino  e  da  Vulturara  Irpina  stessa,  apparte- 
nenti a  quella  varietà  di  T.  mesentericum  che  Berkeley  e  Broome  (1)  indicano  col 
nome  di  T.  bituminatimi;  e  che  Ferry  de  la  Bellone  distinse  ancora  in  altre  due 
varietà:  1)  Tuber  bituminatum  (sphaerosporum);  2)  Tuber  bituminatimi  (ellipsosporum) 
(Ferry  de  la  Bellone,  La  Truffe,  Paris  1888,  pag.  142  e  seg.). 

Anche  nella  raccolta  Cesati  notai  alcuni  individui  di  questa  specie  e  più  preci- 
samente di  questa  forma  del  T.  mesentericum  Vitt.  trovati  nei  monti  del  Lazio  nel 
mese  di  settembre  1847. 

Tuber  macrosporum  Vitt. 

Tuber  macrosporum  Vitt.,  M.  T.,  p.  35,  tab.  1,  flg.  V.  —  Tclasne,  F.  H.,  p.  139.  —  Hesse, 
H.  D.,  Band  II,  p.  23.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  41. 
Il  T.  macrosporum,  che  finora  rinvenni  abbastanza  comune  in  Piemonte,  nel- 
l'Emilia, nella  Lombardia,  nella  Romagna,  nel  Veneto,  nella  Toscana  e  nelle  Marche, 
è  rappresentato  nella  collezione  Cesati  da  due  esemplari,  i  quali  però  non  portano 
indicazioni  di  località.  L'Erbario  Caldesi  ne  possiede  tre  dei  dintorni  di  Faenza.  Il 
T.  macrosporum  fu  da  Passerini  pubblicato  nell'  anno  1868  al  N.  195  dell'  Erbario 
Crittogamico  italiano,  Serie  II. 

Tuber  brumale  Vitt. 

Tuber  brumale  Viti,  il.   T..  p.  37.  —  Tilasne.  F.  H.,  p.  135  (V.  Bibliografia).  —   Hesse, 
loc.  cit.,  Band  II,  p.  7.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  42. 

Un  solo  individuo  raccolto  nel  marzo  1873  da  L.  Caldesi  sulle  colline  di  Faenza 
è  rappresentato  nella  collezione  Beccari.  Parecchi  esemplari  di  Piemonte  si  notano 
in  quelle  di  Cesati  e  di  Caldesi  e  molti  altri  si  conservano  nell'Erbario  Saccardo.  Il 
T.  brumale,  specie  prettamente  invernale,  è  comune  in  Piemonte,  in  Lombardia,  nel 
Veneto,  nel  Trentino ,  in  Liguria ,  nell'  Emilia,  nelle  Marche ,  nella  Romagna ,  nella 


(1)  Berkeley  et  Broome,  "  Annals  of  Nat.  History  „,  voi.  VII,  p.  183. 


342  ORESTE    MATTIROLO  12 

Toscana  e  nell'  Umbria.  Esso  non  solo  abita  il  piano ,  ma  si  incontra  pure  nelle 
regioni  montuose  e  non  fa  difetto  anche  nelle  regioni  alpine  (Alpi  Cozie);  però  ivi 
non  si  incontra  nelle  elevate  altitudini,  ma  nei  boschi  che  tappezzano  lateralmente  le 
grandi  vallate,  e  che  si  svolgono  sopra  terreno  essenzialmente  calcareo.  Il  T.  brunitili 
è  ovunque  in  Italia  ritenuto  edule,  ma,  a  ragione,  vi  è  poco  pregiato. 

Dal  Beccaei,  negli  anni  1897  e  1901  ricevetti  alcuni  esemplari  di  T.  brumale 
raccolti  in  ottobre  e  sul  principio  di  novembre  nella  sua  villa  di  Bagno  a  Ripoli 
presso  Firenze,  sotto  a  piante  di  nocciuolo.  Detti  esemplari  di  color  rosso-ferrugineo, 
con  verruche  assai  più  piccole  di  quelle  normali,  mi  parvero  rappresentanti  di  una 
specie  nuova,  e  non  mi  riuscì  che  più  tardi  di  identificarli  col  T.  brumale,  quando 
venni  a  conoscenza  di  una  osservazione  del  Tulasne  (1)  il  quale  accenna  di  aver 
raccolto  nelle  colline  calcaree  del  dipartimento  dell'  Ardèche ,  esemplari  giovani  di 
T.  brumale,  che  gli  indigeni  indicavano  col  nome  di  rougeottes,  i  caratteri  dei  quali 
collimano  perfettamente  con  quelli  degli  individui  raccolti  dal  Beccaki.  Devo  aggiun- 
gere poi,  che  anche  recentemente  alcuni  esemplari  immaturi  identici  a  quelli  raccolti 
dal  Beccari,  vennero  da  me  scavati  nel  mese  di  gennaio  del  corrente  anno  nelle 
colline  dell'anfiteatro  morenico  di  Rivoli  presso  Torino,  in  territorio  di  Trana. 


Tuber  melanosporum  Vitt. 

Tuber  melanosporum  Vitt.,  M.  T.,  p.  36.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  136.  —  Hesse,   loc.    cit., 
p.  9,  voi.  IL  —  Fischer,  loc.  cit.,  pag.  43  sub.   Tuber  brumale  Vitt.  B  melanosporum. 

Di  questa  profumata  Tuberacea  che  incontrasi  in  Italia  :  in  Piemonte ,  nella 
Liguria  (2),  nel  Veneto,  nel  Trentino,  nell'Emilia,  in  Romagna,  nelle  Marche,  in 
Toscana,  nell'Umbria,  alcuni  esemplari  di  origine  piemontese,  furono  determinati  fra  i 
materiali  della  raccolta  Cesati  (inverno  dell'anno  1854). 


Tuber  rapaeodorum  Tul. 

Tuber  rapaeodorum  Tul.,  "  Ann.  Se.  Naturelles  ,,  2e  serie,  tom.  XIX,  1843,  pag.  380.  — 
Tulasne,  F.  H.,  1851,  p.  147,  tab.  V,  fig.  IV  et  tab.  XVIII,  fig.  1.  -  Hesse,  H.  D., 
p.  28,  tav.  XVI,  fig.  18. 

Questo  Tartufo  da  me  trovato  nel  maggio  del  1898  sotto  i  Lecci  nel  giardino  di 
Boboli  a  Firenze;  che  già  indicai  nell'Elenco  delle  Tuberacee  di  Vallombrosa,  fu  rac- 
colto dal  Beccari  nell'anno  1862  nelle  località  seguenti: 

Ottobre  1862    —  Macchie  di  Castagnolo  presso  Pisa. 
„  „        —  Selva  Pisana 

Autunno  1862  —     , 


(1)  Tulasne,  Fungi  Hypogaei,  p.   135,  Obs. 

(2)  A  Rocca  di  Perti  presso  Finalborgo  nel  gennaio  del  1858,  Fossati  raccolse  pure  questa  specie 
che  distribuì  al  N.  45  dell'Erbario  Crittogamico  italiano. 


13  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  343 


Tuber  Borchii  Vitt. 

Tuber  Borchii  Vitt.,  M.   T.,  p.  44.  —  TWsne,  F.  H.,  p.  145.  —  Hesse,  loc.  cit.,  p.  24.  — 
Fischer,  loc.  cit.,  p.  46. 

Di  questa  specie ,  propria  anche  alla  regione  insulare  d' Italia  (v.  Mattirolo, 
loc.  cit.,  pag.  20),  esistono  nella  raccolta  Beccari  alcuni  campioni  in  cattive  condizioni 
di  conservazione,  raccolti  (da  quanto  si  può  arguire  da  cartellini  non  stati  fissati)  in 
Toscana;  nonché  altri  (ben  conservati)  provenienti  dalla  Romagna  (colli  di  Faenza, 
nel  gennaio  dell'anno  1873),  ivi  raccolti  da  Caldesi.  Gli  esemplari  di  Toscana 
parrebbero  provenienti  nella  Selva  Pisana  (?).  Del  resto  è  questa  specie  primaverile 
comunissima  in  Piemonte,  in  Toscana,  nell'Emilia,  in  Lombardia,  nelle  Marche,  in 
Romagna,  nell'Umbria,  ecc.,  e  non  manca  anche  nelle  valli  alpine  (Cellio  in  Valsesia, 
secondo  esemplari  comunicatimi  dall'Abate  A.  Cabestia).  Anche  nella  raccolta  Cesati 
si  conservano  individui  di  T.  Borchii  fatti  essiccare  nel  1848  nel  mese  di  marzo 
nell'oltre-Po  pavese;  e  13  individui  sezionati  osservansi  pure  nella  collezione  Caldesi, 
tutti  provenienti  dalla  Romagna  (Faenza  e  Castelbolognese)  (gennaio,  marzo)  negli 
anni  1874-75.  Nell'Erbario  Saccardo  osservai  gli  esemplari  pubblicati  dal  Cavara  e 
dal  Bizzozero. 

Tuber  dryophilum  Tul. 

Tuber  dryophilum  Tul.,  *  Giornale  Bot.  Italiano  „,  loc.  cit.,  pag.  7  (Estratto),  1844;  F.  H., 

p.  147,  tab.  V,  fig.  Ili  e  tab.  XIX,  fig.  Vili.    —    Schrotek,  Kryptogamen   Flora  voti 

Schlesien,  III  voi.  Breslau,  1893,  p.  195  (pr.  parte).  —  Hesse,  H.  D.,  p.  25,  voi.  IL  — 

Fischer,   Tub.,  loc.  cit.,  p.  51. 

Alcuni  saggi  di  questa  Tuberacea,  già  molte  volte  da  me  osservata  in  Piemonte 

e  nella  Toscana,  furono    raccolti    sotto    i    pioppi  nella  Villa  Beccari   in   Firenze  il 

1°  luglio  1902  e  dal  Beccari  gentilmente   favoritimi  unitamente  ad  altro  materiale 

della  stessa  specie  da  lui  raccolto  pure  in  detta  località  nel  marzo  1898. 

Il  T.  dryophilum  fu  da  me  pubblicato  nell'anno  1887  per  il  Piemonte  (v.  "  Mal- 
pighia  „,  anno  II,  1888-89,  pag.  124). 


Tuber  Magnatum  Pico. 

Tuber  Magnatum  Pico,  Vittadini,  M.   T.,  p.  42,  tav.  I,  fig.  IV  et   tab.  II,  fig.   IX  (V.   ivi 
antica  bibliografia).  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  150.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  52. 

Di  questo  ipogeo,  comune  in  Piemonte,  nell'Emilia,  nella  Romagna,  nella  Toscana, 
nelle  Marche  e  nell'Umbria,  la  collezione  Beccari  contiene  un  esemplare  raccolto  dal 
Caldesi  a  Faenza  nel  novembre  1863  ed  un  altro  dal  Beccari  nella  primavera  del- 
l'anno 1859  negli  orti  del  Collegio  di  Lucca.  L'indicazione  di  data  è  assai  curiosa, 
poiché  in  generale,  mentre  il  T.  Magnatum  matura  nell'autunno  e  nell'inverno,  compa- 
rendo immaturo  e  inodoro  già  nell'agosto,  per  quanto  io  mi  sappia,  non  si  trova  più, 
oltre  il  gennaio.  Nell'agosto  e  nel  settembre  incontrai  anche  in  Toscana  questa  specie, 
ma  casualmente,  ed  è   ivi  allora  immatura  ed  inodora  come  in  Piemonte.  Una  sola 


344  ORESTE    MATTIROLO  14 

volta  in  provincia  di   Torino  a  Gassino  (30  luglio  1894)  raccolsi   esemplari,  giova- 
nissimi, non  ancora  sporificati,  ricchissimi  di  glicogeno  (1). 

Caldesi  pubblicò  nel  N.  880  dei  Fungi  Europaei  di  Eabenhorst  il  Tuber  Magnatum 
dei  contorni  di  Faenza  (novembre  1864)  (Herb.  Cesati).  —  Molti  altri  individui  rac- 
colti dal  Caldesi,  dal  Cesati  e  dal  Malinverni  determinai  ancora  nell'Erbario  Caldesi, 
provenienti,  al  solito,  dai  dintorni  di  Faenza  ed  ivi  raccolti  negli  anni  1863-64-73-74; 
e  alcuni  anche  trovai  nell'Erbario  Saccardo. 


Tuber  excavatum  Vitt. 

Tuber  excavatum  Vitt.,  M.  T.,  p.  49,  tab.  I,  fig.  VII.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  144.  —  Hesse, 
//.  D.  —  Fischer,  in  "  Rabenliorst  „,  loc.  cit.,  p.  55. 

Un  solo  esemplare  proveniente  da  Lazzisi  sul  Lago  di  Garda  trovai  nella  collezione 
Cesati.  Il  T.  excavatum  (colle  sue  varietà)  è  ipogeo  assai  comune  in  tutta  l' Italia 
continentale,  ma  non  nelle  isole:  nel  Piemonte  cioè,  nel  Veneto,  nella  Lombardia, 
nell'Emilia,  nella  Toscana,  nelle  Marche,  nella  Campania,  ecc. 


Tuber  rufum  Pico. 

Tuber  rufum  Pico,  Melethemata  inauguratici  de  Fungorum  generatione  et  propagatione.  Aug. 
Tarn-.,  1788,  con  2  tav.  col.,  pag.  80.  —  Vittadini,  M.  T.,  1831,  p.  48,  tab.  I,  fig.  I. 
—  Tulasne,  F.  H.,  1851,  p.  141  (ivi  bibliografia).  —  Hesse,  H.  J>.,  1894,  p.  11.  — 
Fischer,  in  "  Rab.  Crypt.  Flora  „,  pag.  57. 

Questa  Tuberacea  nota  oramai,  si  può  dire,  di  tutta  Italia  e  anche  delle  isole  (2); 
che  Vittadini,  vorrebbe  riconoscere  già  ricordata  dalle  parole  enigmatiche  che  allu- 
dono al  Tuba-uni  tertium  genus  di  Mattioli  (3),  è  rappresentata  nella  collezione  Bec- 
cavi da  un  unico  individuo  raccolto  da  Ludovico  Caldesi  nel  gennaio  1873  nelle 
colline  di  Faenza. 

La  raccolta  Cesati  contiene  pure,  senza  indicazione  di  epoca,  un  individuo  di 
questa  specie  trovato  a  Biella.  L'Abate  Carestia  raccolse  e  mi  trasmise  il  1°  di- 
cembre  1895  questo   ipogeo    da    Cellio    in  Valle    Sesia.  N.  10    esemplari  (1872-75) 


(1)  Una  statistica,  tolta  dal  registro  riguardante  il  T.  Magnatum,  dimostra  che  io,  sopra  100  volte, 
raccolsi  detta  specie  1  volta  sola  in  luglio;  4  volte  in  agosto;  5  in  settembre;  17  in  ottobre;  30  in 
novembre;  31  in  dicembre  e  12  in  gennaio. 

(2)  Nei  miei  registri  trovo  il  T.  rufum  raccolto  in  :  Piemonte,  Lombardia,  Veneto,  Emilia, 
Toscana,  Romagna,  Marche,  Campania,  Sicilia  e  Sardegna. 

(3)  Ecco  le  parole  testuali  del  Mattioli  [Edizione  di  V.  Valgrisi ,  Venezia,  1565,  testo  latino] 
nelle  quali  il  Vittadini  vorrebbe  trovare  indicato  il  T.  rufum  :  "  Est  et  tertium  genus  in  Ananiensi 
et  Tridentino  tractu  proveniens  laevi  corticc,  colore  subrufo,  caeteris  longe  minus ,  insipidimi  et  gitslu 
iniucundo  „.  —  Queste  parole  nel  testo  italiano  [Venezia,  1581,  Eredi  di  Vincenzo  Valgrisi]  sono 
così  tradotte:  "  Trovatisi  nella  Valle  Anania  della  giuridittione  di  Trento  di  quelli  (Tartufi)  che  oltre 
all'esser  piccioli,  hanno  la  scorza  liscia  et  pallida,  sciapiti  et  poco  aggradevoli  al  gusto  ,..  —  Ora,  io 
reputo,  che  trattando  il  Mattioli  di  specie  eduli,  voglia  alludere  al  T.  excavatum  di  Vittadini  e  alle 
sue  varietà  comuni  nel  Trentino  (olivacee  e  subrufe,  mai  rufe),  che  ancora  si  mangiano  in  Lombardia 
(Canton  Ticino  e  monti  del  Lago  di  Como)  dove  si  conoscono  sotto  il  nome  di  "  Tartufi  bianchi  ., 
(  Trifui  bianch),  che  sono  poco  pregiate. 


15  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  315 

dei  dintorni  di  Faenza,  figurano  nell'Erbario  Caldesi,  tutti  scavati  nei  mesi  di  dicembre 
e  gennaio  ;  ed  un  esemplare  proveniente  da  Conegliano  (veneto)  si  trova  nell'Erbario 
Saccardo. 

Tuber  nitidum  Vitt. 

Tuber  nitidum  Viti,  M.   T.,  p.  48,  tab.  II,  fig.  X.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  142.  —  Hesse,  H.D., 

p.   12,  voi.  II,  tab.  XVI,  f.  4.  —  Mattirolo,  Gli  Ipogei  di  Sardegna  e  di  Sicilia,  p.  29, 

loc.  cit. 

Due   esemplari  (in    gran  parte  rovinati),  figurano  nella  collezione  Caldesi,  l'uno 

proveniente  dai  dintorni  di  Forlì,  l'altro  da  quelli  di  Faenza  (gennaio  1875).  Intorno 

a  questa    specie,  che   va    ritenuta    sinonima    dell' Oogaster  Venturii  di   Corda  {Tuber 

Vmturii,  menzionato  da  Tulasne,  F.  H.,  p.  151,  fra  le  specie  "  nondum  descriptae  ,) 

e  al  suo  valore  sistematico  mi  sono  già  espresso  nel  lavoro  sopracitato. 


Bafsamia  Vitt. 

Balsamia  vulgaris  Vitt. 

Balsamia  vulgaris  Vitt.,  ,1/.   T.,  p.  30.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  123.  —  Hesse,  H.  D.,  Band  II, 
p.  35.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  63. 

Questo  ipogeo  veramente  volgare  in  Italia  ;  dove  occorre,  secondo  le  mie  ricerche, 
ovvio,  in  Piemonte,  in  Lombardia,  nel  Veneto,  nell'Emilia,  nella  Romagna,  in  To- 
scana, nelle  Marche,  in  Sicilia,  ecc.,  è  rappresentato  da  un  solo  frustulo  di  esemplare 
nella  raccolta  Beccari,  trovato  da  L.  Caldesi,  nell'inverno  dell'anno  1872-73  presso 
Casola  in  Val  di  Sennip.  La  B.  vulgaris,  che  conta  fra  le  specie  eduli  più  vili  a  ca- 
gione del  suo  intenso  odore  nauseabondo,  è  rappresentata  poi  da  ben  25  esemplari 
nella  collezione  Caldesi,  provenienti:  N.  20  dai  dintorni  di  Faenza  (località  diverse), 
gli  altri  da  Forlì  e  da  Castelbolognese;  esemplari  tutti  stati  raccolti  negli  anni 
1872-73-75.  Nell'Erbario  Saccardo  trovai,  oltre  ai  tipi  autoptici  classici,  individui 
provenienti  da  Ascoli  Piceno,  ivi  raccolti  dal  Mascarini. 


GhOÌromyceS  Yittaclini. 

Choiromyces   meandriformis  Vitt. 

Choiromyces  meandriformis  Vitt,,  Vittadini,  M.  T.,  1831,  p.  51,  tab.  II,  fig.  1.  —  Tulasne, 

F.  H.,  1851,  p.  170,  tab.   XIX,    fig.    7.  —  Zobel,  in  "  Corda  Icon.  Fung.  „,  voi.  VI, 

1854,  p.  68.  -  Hesse,  H.  D.,  Bd.  II,  1894,  p.  37,  tab.  XII,  fig.  22  e  tab.  XVI,  fig.  22. 

—  Fischer,   Tuberaceen  und  Hemiasceen,  in  "  Rabenhorst  Kryptog.  Flora  „,  p.  68,  74. 

Per  la   sinonimia  di  questa   specie  vedi   Mattirolo,  Sid    valore  sistematico   del 

"  Choiromyces  meandriformis  „    Vitt.  e   del  "  Ch.  meandriformis  „    Vitt.  "  Malpighia  „, 

anno  VI,  1892. 

Alcuni  esemplari  raccolti  nel  Trentino  da  Beesadola  si  conservano  nell'Erbario 
Saccardo.  Il  Choiromyces  meandriformis,  specie  relativamente  comune  in  Piemonte,  in 
Lombardia,  nell'Emilia,  nella  Toscana,  è  da  ritenersi  velenoso. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  s1 


346  ORESTE    MATTIROLO  16 

Terfezia  Tulasne. 
Terfezia  Leonis  Tul. 

(Vedi  la  Bibliografia  relativa,  nei  lavori  di  Tulasne,  di  Chatin  e  in  quello  recente  di  Pirotta 
e  Baldini  (1)). 

Nell'Erbario  Caldesi  si  trovano  gli  esemplari  N.  242  e  91  dell'Erbario  Crittoga- 
mico italiano,  raccolti  rispettivamente  da  Inzenga  e  da  Gennari;  nonché  l'etichetta 
errata  del  N.  241  dei  Fungi  Europaei  di  Rabenhorst,  di  cui  ho  trattato  in  altro 
lavoro;  mentre  nella  collezione  Saccardo  esistono  esemplari  raccolti  da  Bagnis  a  Civi- 
tavecchia nell'anno  1875. 

Terfezia  Magnusii  Matt. 

(Vedi  Mattirolo,  Illustrazione  di  tre  nuove  Tuberacee,  "  Meni,  della  K.  Acc.  delle  Scienze  di 
Torino  „,  1887,  e  "  Bollettino  della  Soc.  Bot.  Italiana  „,  1896.  Firenze  (2)). 

Di  questa  specie,  sotto  il  nome  errato  di  Choìromyces  meanolriformis  Sardous,  esiste 
nella  collezione  Caldesi  l'esemplare  N.  185  dell'Erbario  Crittogamico  italiano  pubblicato 
dal  Gennari  nel  1864. 

Delastria  Tulasne. 

Delastria  rosea  Tul. 

Delastria  rosea  Tul.,  F.  H.,  p.  178,  tab.  Vili,  fig.  I  et  tab.  XVI,  fig.  1.  —  Corda,  Icones 
fung.,  voi.  VI  (curante  Zobel),  tab.  XX,  fig.  145,  p.  67.  —  0.  Mattirolo,  La  Delastria 
rosea  Tul.  in  Italia,   "  Bollettino  della  Società  Botanica  Italiana  „,  14  giugno  1896. 

Numerosi  esemplari  di  questa  specie,  molti  dei  quali  rovinati  dagli  insetti,  si 
trovano  nella  collezione  Beccari.  Essi  furono  trovati  nella  stessa  località  nella  quale 
Pietro  Savi  ed  Odoardo  Beccari  raccolsero  nell'ottobre  1862  gli  individui  pubblicati 
nell'Erbario  Crittogamico  italiano,  Serie  II,  N.  346. 

Per  ordine  di  data  i  cartellini  dei  5  cartocci  segnano: 

I.  Selva  Pisana  in  S.  Rossore.  Ottobre  1862. 

II.  „  „  in  Palazzetto,  sui  tomboli  arenosi.  9  ottobre  1862  (3). 

III.  „  „  Autunno  1862. 

IV.  ,  „  in  S.  Rossore.  Ottobre  1862. 

V.  „  „  Autunno  1863. 


(1)  R.  Pirotta  e  A.  Albini,  Osservazioni  .sulla  biologia  del  Tartufo  giallo  {Terfezia  Leonis  Tul.), 
"  Rendiconti  Accademia  dei  Lincei  „,  voi.  IX,  1°  sem.,  serie  5,  fase.  I,  gennaio  1900. 

(2)  0.  Mattirolo,  Che  cosa  sia  il  "  Choiromyces  meandriformis  „  (Sardous)  di  Gennari  e  De  Notaris, 
pubblicato  nel!"  Erbario  Crittogamico  Italiano  „  al  N.  185  (1185),  anno  1864. 

(3)  Avverto  il  lettore  a  cui  interessassero  ragguagli  intorno  alla  località  precisa  (Viale  del  Gombo 
a  S.  Rossore),  dove  certo  ancora  si  potrebbe  raccogliere  questo  raro  ed  elegante  ipogeo,  di  leggere 
la  mia  nota.  Gli  esemplari  raccolti  da  Pietro  Savi  e  comunicati  all'"  Erbario  Crittogamico  „,  portano 
la  data  1867;  mentre  quelli  che  di  lui  si  conservano  nel  R.  Orto  botanico  di  Pisa  (come  ho  saputo  per 
gentile  comunicazione  del  Prof.  Arcangeli)  segnano  il  22  ott.  1862  come  data  di  raccolta.  Il  Beccari 
invece  scrive  9  ottobre;  da  ciò  mi  pare  lecito  arguire  che  il  merito  della  scoperta  della  Delastria 
in  Italia  spetti  al  Beccari. 


17  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  347 

Elaphomyces  Nees  v.  Es. 
Elaphomyces  mutabilis  Vitt. 

Elaphomyces  mutabilis  Vitt.,  M.  T.,  p.  65,  tab.  IV,  fig.  14;  Mori.  Lycoperd.,  "  Meni,  della 
E.  Acc.  delle  Scienze  „,  serie  2*,  tom.  V,  1843,  p.  213.  —  Tulasne,  F.  H. ,  p.  103, 
tab.  Ili,  fig.  I;  tab.  XIX,  fig.  III.  —  Hesse,  H.  D.,  voi.  II,  p.  65.  —  Fischer,  loc. 
cih,  p.  84. 

li  Elaphomyces  mutabilis  (che  io  trovai  abbondante  in  Piemonte,  in  Lombardia, 
che  incontrai  pure  in  Toscana),  è,  nel  solo  Erbario  Saccardo,  rappresentato  da  alcuni 
autoptici  di  Spegazzini  già  pubblicati  nelle  Decades  Mycologicae  Italicae  al  N.  6. 

Elaphomyces  citrinus  Vitt. 

Elaphomyces  citrinus  Vitt.,  M.  T. ,  p.  65,  tav.  IV,  fig.  16;  Monog.  Lycop.,  p.  214.  — 
Tulasne,  F.  H.,  p.  103.  —  Spegazzini,  Decades,  n.  5.  —  Fischer,  in  "  Rabenhorst 
Kiypt.  Fior.  „,  p.  85-86.  —  Saccardo,  Bytlog.,  Vili,  p.  864. 

L'Erbario  Saccardo  contiene  gli  autoptici  di  Vittadini  e  di  Spegazzini  già  pub- 
blicati nei  lavori  sopracitati. 

Elaphomyces  anthracinus  Vitt. 

Elaphomyces  anthracinus  Vitt.,  M.  T.,  p.  66,  tav.  Ili,  fig.  Vili;  Monograph.  Lycoperd., 
p.  72.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  106.  —  Fischer,  loc.  cit.,  p.  89. 

Il  cartellino  accompagnante  i  frustuli  di  un  esemplare  contenuto  nella  Collezione 
Beccavi,  lo  dice  raccolto  a  Riva  Valdobbia  nell'anno  1865,  sulla  terra,  in  una  selva, 
dall'Abate  Carestia.  Lo  stato  veramente  deplorevole  dell'esemplare  mi  ha  obbligato 
a  fare  la  determinazione  avendo  riguardo,  quasi  unicamente,  ai  caratteri  morfologici  e 
metrici  delle  spore,  che  risultarono  perfettamente  identiche  a  quelle  degli  esemplari 
autoptici  di  Vittadini.  Nell'Erbario  Saccardo  invece  si  conservano  i  tipi  di  Spegazzini 
pubblicati  al  N.  4  delle  Decades,  e  ricordati    sulla  Michelia,  IV,  p.   416. 

Elaphomyces  variegatus  Vitt. 

Elaphomyces  variegatus  Vitt.,  M.  T.,  p.  68;  Mon.  Lycop.,  p.  220.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  108 
et  "  Annal.  Scienc.  Nat.  „,  1841,  p.  23.  —  Hesse,  H.  D.,  Band  II,  p.  72.  —  Fischer, 
loc.  cit.,  p.  91. 

La  raccolta  Beccavi  non  contiene  altro  che  un  esemplare  dimezzato  di  questo 
ipogeo,  ovvio  in  Piemonte,  Lombardia,  nel  Veneto,  nel  Trentino,  nell'Emilia,  in  To- 
scana. Questa  metà  di  esemplare  con  corteccia  di  colore  ocraceo,  con  verruche  poco 
sviluppate,  concorda  colla  forma  "  pallens  „  di  Tulasne  (V.  IV,  p.  108). 

Nell'Erbario  Cesati  figura  un  esemplare  raccolto  in  Oropa  il  17  maggio  1865  ; 
mentre  nella  collezione  Saccardo,  esistono  numerosi  individui  raccolti  da  Spegazzini, 
da  Massalongo,  da  Bizzozero  e  già  da  loro  pubblicati. 


348  e  IRESTE    MATTIROLO  18 


Elaphomyces  decipiens  Vitt. 

Elaphomyces  decipiens  Vitt.,  M.  T.,  p.  68;  Monog.  Lycop.,  p.  75,  tab.  Ili,  fig.  IV.  —  Tulasne, 
F.  H.,  p.  108.  —  Sacoardo,  Michetta,  TV,  p.  416.  —  Spegazzini,  Decades,  N.  3.  — 
Fischer,  in   "  Rabenhorst  „,  ecc.,  p.  93. 

L'Erbario  Saccardo,  oltre  agli  autoptici  di  Vittadini  e  di  Spegazzini,  contiene 
anche  quelli  di  Bizzozero.  L'È.  decipiens,  forma  assai  curiosa,  sul  valore  sistema- 
tico della  quale  non  è  detta  ancora  l'ultima  parola,  risultò  finora  propria  dell'Italia 
settentrionale  (Lombardia- Veneto),  della  Francia  e  della  Boemia  (Vittadini,  Spegaz- 
ztni,  Bizzozero,  Tulasne  e  Corda). 


Elaphomyces  Persoonii  Vitt. 

Elaphomyces  Persoonii  Vitt.,  M.  T.  Milano,  1831,  p.  70,  tav.  IV,  fig.  XVIII  e  tav.  V,  fig.  II; 
Monographia  Lycoperdineorum ,  Aug.  Taurinoram,  1842,  "  Mem.  Acc.  delle  Scienze  di 
Torino  „  serie  II,  tom.  V,  p.  79  (Estratto).  —  Tclasne,  F.  H.,  p.  112.  —  P.  A.  Sac- 
cardo, Michelia,  IV,  p.  417.  —  Spegazzini,  Decades  Mycol.  Hai.,  N.  2.  —  Bizzozero, 
Fior.  Veti.  Critt.,  p.  362.  —  E.  Fischer,  in  *  Rabenhorst  Krypt.  Fior.  „,  Tuberaceen 
und  Hemiascee».  Leipzig,  V  Abth.,  1897,  p.  99.  —  P.  A.  Sacoardo,  SyUoge,  voi.  Vili, 
pag.  870. 

Di  questo  elegante  Elaphomyces,  che  si  può  ritenere  caratteristico  della  Flora 
idnologica  italiana,  alcuni  esemplari  ancor  giovani,  raccolti  sul  Monte  Pisano  a  Vico- 
pelago,  nell'autunno  del  1863,  si  osservano  nella  collezione  Beccari.  L'È.  Persoonii, 
che  io  raccolsi  in  migliaia  di  esemplari  nei  boschi  di  quercia  e  di  castagno  dell'alta 
Lombardia  (intinti  del  lago  di  Como  e  di  Varese),  nei  boschi  dell' Apennino  Toscano; 
che  fu  trovata  da  Spegazzini,  da  Bizzozero,  da  Cuboni  nel  Veneto  (V.  Erbario  di 
P.  A.  Saccardo)  e  altrove,  ci  presenta,  per  un  caso  singolare,  uno  strano  errore  di 
sinonimia  che,  copiato  successivamente,  rimase  per  oltre  mezzo  secolo  nella  scienza  e 
nei  libri  che  si  occupano  di  Ipogei,  e  nel  quale  incorsi  io  pure  (Elenco  degli  Ipogei 
di   Vallombrosa,  p.    14). 

La  storia  di  questo  errore  è.  brevemente  riassunta,  la  seguente:  L.  R.  Tulasne 
nell'anno  1853  (Editio  altera)  trattando  (V.  F.  H.,  p.  112)  dello  E.  Persoonii,  di  cui 
egli  aveva  soltanto  veduto  esemplari  secchi,  segnò  come  sinonima  di  questa  specie 
una  ipotetica  Phlyctospora  Persoonii  Corda,  ap.  Sturm,  Deutschlands  Fiora,  19-20, 
p.  21  (1),  incorrendo  con  questa  citazione  in  due  errori;  poiché: 

I.  Corda  nel   libro,  citato  dal   Tulasne,  descrisse  e  figurò   un  fungo  che  egli 
indicò  col  nome  di  Phlyctospora  fusca,  senza  parlare  ivi  di  una  P.  Persoonii. 

IL  La  descrizione  è  a  p.  51  e  non  21.  Curioso  particolare  che  è  prova  evi- 
dente dei  successivi  errori. 


(1)  Corda  si  occupa  in  due  lavori  del  genere  Phlyctospora.  Nella  Flora  tedesca  di  Sturm 
1841,  ne  dà  la  figura  e  la  descrizione;  quindi  a  pag.  95  dell' Anleituny  zum  Studium  der  Mycologie 
riferì  la  frase  latina  precedentemente  pubblicata  e  sistemò  il  fungo  fra  le  Sclerodermaceae  coi 
generi  Hyperrhiza,  Melanogaster,  CeratogaBter,  Elaphomyces,  Pompholix,  Scleroderma,  Calostoma,  Diplo- 
derma,  Mylitta  e  Anixia. 


19  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI 


349 


E  ciò  che  maggiormente  stupisce  in  questa  citazione  è  il  fatto  che  Tulasne 
stesso  si  occupò  diffusamente  del  genere  Phlyctospora  e  della  P.  fusca  (V.  F.  H., 
pp.  98.  99);  facendo  rilevare,  ciò  che  poi  venne  confermato  più  tardi,  che  questo  ge- 
nere doveva  avere  relazione  col  genere  Scleroderma  "  Phlyctospora  forsan  scleroderma 
subterraneum  foret  „. 

Dopo  il  lavoro  di  Tulasne,  senza  che  venisse  dato  uno  sguardo  né  agli  esem- 
plari, ne  alla  figura  di  Corda,  ne  al  testo,  lo  Zobel  si  impadronì  dell'errore  e 
nel  1854,  nel  volume  VI  delle  Icones  di  Corda,  edito  dopo  la  morte  dell'eminente 
micologo  (sventuratamente  spentosi  nell'anno  1849  nelle  acque  americane)  nella 
Osservazione  II,  a  p.  52,  portò  nuova  confusione  nella  questione  ;  parlando,  anche 
lui,  dopo  il  Tulasne,  della  ipotetica  Phlyctospora  Persoonii  che  Corda  non  aveva  mai 
sognato  di  descrivere  e  di  figurare!  Lo  Zobel,  basandosi  sul  criterio  desunto  dalle 
spore  reticolate,  ritiene  che  tanto  Y  Elaphomices  Persoonii  di  Vitt.  quanto  YE.  cianosporus 
Tulasne,  debbano  far  parte  del  genere  Phlyctospora,  e  ciò  gratuitamente,  discutendo 
senza  aver  mai  osservato  i  detti  funghi!  Tanto  è  vero,  che  al  Corda  non  era  venuto 
in  mente  che  il  genere  Phlyctospora  potesse  essere  confuso  col  genere  Elaphomycesl 

Più  tardi  si  occuparono  del  genere  Phlyctospora:  Rabenhorst  (1)  che  lo  classi- 
ficò fra  i  Trichogastres  (2)  di  Fries.  Tulasne  (3)  che  lo  annoverò  fra  gli  Hymeno- 
gastrei,  come  fecero  Winter  (4)  e  Saccardo  (5).  Gunther  Beck  (6)  che  in  uno  studio 
interessantissimo  sul  modo  di  formazione  delle  spore,  ne  dimostrò  le  relazioni  coi 
Melanogastrei  fra  gli  Eymeuoyastrei.  Fischer  E.  (7)  che  ne  curò  la  sistemazione  fra 
le  Sclerodermataceae(Plectobasidiineae),  facendone  un  sottogenere  del  gen.  Scleroderma; 
e  finalmente  F.  Bucholtz  (8)  che  parimenti  classifica  le  due  specie  ben  note  del  ge- 
nere Phlyctospora  nel  genere  Scleroderma  di  Pers.  nell'antica  divisione  degli  Sclero- 
derma di  Fries,  fra  i  quali  egli  comprende  pure  i  generi  Melanogaster,  Corditubera, 
Scleroderma,  Pompholyx,  Pisolithus  e  Sclerangium. 

Da  questa  breve  inchiesta,  risulta  adunque  provato:  I.  Che  il  genere  Phlyctospora 
(ora  Scleroderma  p.  p.)  fu  fondato  da  Corda  e  da  lui  giustamente  classificato  in  vici- 
nanza del  genere  Scleroderma;  IL  Che  Tulasne  (non  si  può  saper  per  quale  ragione!), 
inventò  (con  citazione  errata)  una  Phlyctospora  Persoonii  Corda,  e  che  la  sua  citazione, 
gonfiata  da  Zobel,   fu    copiata  tale    e    quale,  da  E.  Fischer  (9),  da  Saccardo   (10) 


(1)  Rabenhorst,  Deutschland  Kryptog.  Flora,  I,  s.  296  (1846). 

(2)  E.  Fries,  Syst.  Mycolog.,  1829,  voi.  Ili,  p.  3. 

(3)  Tulasne,  Fungi  Hipogaei,  p.  98,  99. 

(4)  Winter- Rabenhorst,  Krypt.  Flora,  II  ediz.,  1884.  —  Winter,  Die  Pilze,  voi.  I,  p.  884,  classifica 
il  genere  Phlyctospora  fra  i  generi  dubbiosi  degli  Hymenogastrei,  e  riferisce  la  figura  di  Corda. 

(5)  P.  A.  Saccardo,  Sylloge,  voi.  VII,  pag.  179.  Il  genere  Phlyctospora  figura  quivi  fra  i  "  Genera 
minus  nota  „  delle  Hymenogastree. 

(6)  G.  Beck,  Ueber  die  Sporenbildung  der  Gattung  Phlyctospora  Corda,  "  Berichte  d.  Deut.  Bot. 
Gesell.  „,  1889,  p.  212. 

(7)  E.  Fischer  in  Engler  e  Prantl.  Pflanzenfamilien,  1897,  p.  336. 

(8)  F.  Bucholtz,  Beitrage  zar  Morphologie  und  Systematik  der  Hypogaeen.  Praga,  1902,  p.  173, 
ricorda  le  due  specie  di  Phlyctospora  fusca  Corda  e  di  P.  Magni  Ducis  di  Sorokin,  nel  genere 
Scleroderma,  senza  entrare  in  questioni  minute  di  sinonimia. 

(9)  E.  Fischer  in  "  Rabenhorst  Kryptog.  Flora  „,  II,  Die  Filze,  "V.  Abt.  Tuberaceen  und  Hemiasceen, 
pag.  99. 

(10)  P.  A.  Saccardo,  Sylloge  fungorum,  voi.  Vili.   Tuberoidee  =  auct.  J.  Paoletti,  p.  870. 


350  ORESTE    MATTIROLO  20 

(Paoletti)  e  purtroppo  anche  da  me  (1);  ragione  per  cui  ora  ho  creduto  dover  fare 
questa  rettifica,  perchè  l'errore  non  rimanga  nei  cataloghi  e  nelle  Flore. 

Nello  studio  dell'i?.  Persoonii  va  tenuto  presente  che  gli  individui  singoli,  pure 
conservando  le  caratteristiche  proprie  del  tipo,  possono  tra  loro  variare  nel  colore 
del  Peridio  pseudoparenchimatoso,  che  a  seconda  dell'età  va  dal  bianco  dei  giovani 
individui  (parte  interna),  al  bruno  scuro  di  quelli  perfettamente  maturi,  prossimi 
cioè  a  disgregarsi.  La  massa  delle  spore  varia  essa  pure  di  colore  collo  stato  di  matu- 
razione; di  color  glauco  nei  giovani,  è  verde  scuro  negli  individui  maturi;  carnosa 
nei  primi  è  pulverulenta  nei  secondi. 

La  grossezza  e  la  regolarità  delle  verruche  (in  certi  individui  identiche  a  quelle 
dei  Tuber  (T.  brumale,  tnelanosporum  ad  es.),  varia  essa  pure;  imperocché  queste  ver- 
ruche alcune  volte  e  per  estesi  tratti  cedono  il  posto  a  superficie  tubercolose  o  a 
superficie  liscie.  Varia  anche  assai  notevolmente  la  forma  complessiva  dei  singoli 
individui  e  la  grossezza;  alcuni  si  presentano  piriformi,  altri  lenticolari,  altri  sferoi- 
dali, altri  infine  bilobi  o  differentemente  formati;  variabile  è  pure  la  base  general- 
mente conica  e  i  tratti  occupati  dal  caratteristico  micelio  giallo  che  decorre  rego- 
larmente fra  le  verruche. 

L'È.  Persoonii  di  Vittadini,  a  spore  con  perinio  reticolato,  quale  è  magistralmente 
descritto  dall'Autore,  risulta  specie  essenzialmente  italiana  —  ed  io  continuerò  a  ri- 
tenerla tale,  sino  a  quando  la  citazione,  di  E.  Fries  nella  Stimma  vegetabilium  Scafi- 
lii mirine  (1846-49,  p.  445)  (2),  venga  confermata  —  parendomi  un  fatto  assai  strano, 
che  un  fungo  noto  finora  di  paese  relativamente  meridionale,  si  debba  anche  trovare 
nell'ambito  di  una  alta  ree/ione  boreale  limitata,  mancando  in  tutto  l'immenso  tratto 
di  paese  che  corre  tra  l'una  e  l'altra  regione;  dove  (trattandosi  di  un  fungo  di  dimen- 
sioni vistose)  non  avrebbe  potuto  sfuggire  alle  ricerche  degli  Idnologi. 


HYMENOGASTREAE 
Hymenogaster  Vitt. 

Hymenogaster  luteus  Vitt. 

Hymenogaster  luteus  Vitt.,  M.  T.,  p.  22,  tav.  Ili,  fig.  IX.  —  Ti-lasxe,  F.  H.,  tab.  I,  fig.  III. 
—  Corda,  le.  Fung.,  p.  40,  tav.  VIII,  fig.  76.  —  Hesse,  B.  D.,  tab.  VII,  fig.  41  e 
pag.  130,  voi.  I.   —  Winter,  in   "  Rabenhorst  Krypt.  Fior.  ,,  p.  875,  voi.  I. 

N.  18  esemplari  di  questa  specie  distinta  per  la  tessitura  del  Peridio,  per  il 
color  della  carne  e  per  il  tipo  delle  spore  (ellittiche,  oblunghe,  ottuse  od  acute,  prive 
di  papilla,  provviste  di  un  tenue  residuo  di  stilo,  liscie,  trasparenti,  di  color  giallo 
pallido)  figurano  nell'Erbario  Caldesi.  Di  esse  N.  16  furono  trovate  in  località  vicine 
alla  città  di  Faenza  (Sarna,  S.  Giorgio,  Scavignano,  Pergola,  Guaiola,  Errano,  ecc.)  ; 


(1)0.    Mattirolo,    Elenco    dei    "Fungi    Hijpogaci  „    raccolti    nelle    foreste    di    VaUùnibrosa    negli 
anni  1S99-900  (estratto,  p.   14). 

(2)  Ivi  è  semplicemente  (.letto:   "  E.  Persomi  Vitt.,  1.  Seau.  „. 


21  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  351 

e  due  a  Castelbolognese  e  a  Montecchio.  presso  Brisighella.  Questa  specie  che  Vit- 
tadini  trovò  in  Lombardia  e  nella  Lomellina,  fu  da  me  già  ripetutamente  raccolta 
anche  nell'Emilia,  in  Toscana  ed  in  Romagna. 


Hymenogaster  Bulliardi  Vitt. 

Hymenogaster  Bulliardi  Vitt.,  M.  T.,  p.  23,  tab.  Ili,  fig.  V.  —  Ti  lasse,  '  Ann.  Sciences 
Naturelles  „,  tom.  XIX,  2'  sèrie,  fig.  14-16;  F.  H.,  p.  71.  —  Hbssb,  H.  D.,  p.  120, 
voi.  I.   —  Witter,  in  "  Eabenhorst  ,,  voi.  I,  p.  876. 

L'Rym.  Bulliardi  Vitt.,  che  io  già  raccolsi  in  Piemonte  e  nella  Toscana,  figura 
in  due  esemplari  dell'Erbario  Caldesi;  l'uno  raccolto  il  17  gennaio  1875  a  Scavignano 
presso  Faenza;  l'altro  due  giorni  dopo  a  Castelbolognese.  Gli  esemplari  di  Caldesi 
corrispondono  perfettamente  agli  autoptici  di  Tulasne. 

Hymenogaster  calosporus  Tul. 

Hymenogaster  calosporus  Tul,  F.  H.,  p.  70,  tab.  X,  fig.  IV.  —  Hbsse,  H.  D.,  voi.  I,  p.  129, 
tav.  VII,  fig.  34. 
Di  questa  Hymenogastrea  sinora  nota  di  Francia  e  di  Germania,  un  solo  esem- 
plare fu  trovato  da  0.  Beccari  a  Ripoli  nell'aprile  1898,  e  da  lui  gentilmente  comu- 
nicatomi. La  forma  delle  spore,  la  tessitura  del  Peridio,  ecc.,  corrispondono  perfet- 
tamente a  quella  degli  esemplari  autoptici  Tulasneani,  coi  quali  ebbi  la  ventura  di 
poter  fare  dei  paragoni.  Anche  nell'Erbario  Caldesi  osservai  un  Hymenogaster  raccolto 
a  Campiano  presso  Faenza  il  9  gennaio  1875,  che  pur  avendo  molte  analogie  con 
quello  ora  ricordato,  ne  differisce  per  riguardo  alla  struttura  delle  spore,  più  lunghe, 
più  strette. 

Hymenogaster  Klotzschii  Tul. 

Hymenogaster  Klotzschii  Tul.,  F.  H.,  p.  64,  tab.  X,  fig.  XII.  —  Hesse,  H.  D.,  voi.  I, 
p.  123,  tav.  II,  fig.  10-13;  tav.  VII,  fig.  48.  —  Exicc.  "  Rabenborst  „ ,  Fungi  Europaei, 

N.  242.  —  Schkòter,  Filze  Schlesiens,  N.   1679. 

Questo  Hymenogaster  distinto  fra  gli  altri  per  la  piccolezza  delle  spore  (10-14x6-9), 
trasparenti,  ocracee,  ovali,  finamente  bitorzolute,  ad  apice  ottuso,  generalmente  prive 
di  un  qualsiasi  accenno  ad  un  ispessimento  papillare,  e  nelle  quali  è  appena  appena 
riconoscibile  l'attacco  stilare,  è  rappresentato  nella  collezione  Caldesi  da  un  solo  indi- 
viduo raccolto  il  26  gennaio  1875  a  Celle  presso  Faenza. 

Noto  che  YHym.  Klotzschii  ha  un'  area  di  distribuzione  vastissima,  come  si  os- 
serva in  genere  in  tutti  gli  Imenogastrei  e  nelle  Tuberacee,  abbracciante  l'Europa, 
Francia  (Tulasne),  Germania  (Hesse-Klotzsch),  Svezia  (Fries),  Inghilterra  (Berkeley), 
Italia  (Mattirolo),  Australia  occidentale  (V.  Saccaedo,  Silloge,  VII,  p.  170).  In  Italia 
trovai  già  questa  specie  in  Toscana  e  nella  Sicilia  (V.  Mattirolo,  loc.  cit.). 


352  ORESTE    MATTIROLO 


22 


Hymenogaster  muticus  Berk. 

Hymenogaster  muticus  Berk.  et  Broome,  "  Annal.  and  Magaz.  of  Nat.  History  „,  serie  II, 
voi.  II,  p.  267  (ott.  1848).  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  65,  tab.  X,  fig.  VII.  —  Hesse,  H.  D., 
voi.  I,  p.  118. 

Nella  raccolta  Beccavi,  trovansi  due  individui  di  questa  specie  provenienti  dalla 
Selva  Pisana  (Sotto  i  Lecci,  ottobre  1862  e  1863);  ed  un  altro  mi  fu  pure  comu- 
nicato dal  Beccari,  raccolto  a  Ripoli  (Villa  Beccari)  nell'aprile  1898. 

L'Erbario  Caldesi  è  ricco  di  N.  10  individui,  tutti  provenienti  dai  dintorni  di 
Faenza,  Castelbolognese,  Brisigbella,  Sarna. 

L'area  di  distribuzione  di  questa  specie  in  Italia  deve  essere  ritenuta  assai 
vasta  ;  mentre  io  l'aveva  finora  indicata  della  Sicilia  e  della  Toscana,  posso  regi- 
strare ora  la  sua  presenza  anche  in  Piemonte,  nella  Romagna  e  nell'Emilia.  Le 
spore  obovate  oblunghe,  prive  di  papilla,  misuranti  18-23X10-13,  distinguono  questa 
specie. 

Hymenogaster  Lycoperdineus  Vitt. 

Hymenogaster  Lycoperdineus  Vitt.,  M.  T.,  p.  22,  tab.  II,  fig.  V.  —  Tulasne,  F.  H.,  tab.  X, 
fig.  V  e  pag.  64. 

Di  questa  specie,  distinta  per  la  forma  e  le  dimensioni  delle  spore,  trovai  N.  9 
esemplari  nell"  Erbario  Caldesi,  tutti  raccolti  in  differenti  località  nei  dintorni  di 
Faenza,  nel  gennaio  e  nel  febbraio  del  1875.  A  Bologna  e  a  Firenze,  e  quivi  anche 
nell'Orto  botanico  dei  Semplici  a  S.  Marco,  avevo  già  incontrato  questo  fungo  che 
Vittadini  dice  abbondante  nei  colli  e  nei  monti  transpadani,  dove  vive  unitamente 
al  Tuber  Borchii,  col  quale,  per  i  caratteri  esterni,  potrebbe  essere  confuso. 

Questo  ipogeo,  secondo  le  indicazioni  della  Sylloge,  sarebbe  stato  trovato  anche 
in  Francia  e  nella  Fennia. 

Lo  Splanchnomyces  lycoperdineus  di  Corda  (le,  voi.  VI,  p.  42,  tav.  Vili,  fig.  81) 
non  pare,  a  giudicare  dalla  descrizione  e  dalle  figure,  possa  essere  ritenuto  sinonimo 
della  specie  vittadiniana. 

Hymenogaster   Populetorum  Tul. 

Hymenogaster  Populetorum  Tul.,  "  Ann.  Se.  Naturelles  »,  2"  sèrie,  tom.  XIX;  F.  H.,  p.  66, 
tav.  X,  fig.  X.   —  Hesse,  H.  D.,  voi.  I,  p.  119. 

Di  questo  Hymenogaster,  la  cui  determinazione  riesce  difficilissima  sul  materiale 
secco,  incontrai  tre  soli  esemplari  nella  collezione  Caldesi,  raccolti  in  Romagna  nel 
gennaio  e  nel  febbraio  del  1875  (dintorni  di  Faenza  e  di  Castelbolognese).  La  deter- 
minazione fu  decisa  dietro  a  paragoni  cogli  esemplari  autoptici  di  Tulasne.  Trat- 
tandosi di  una  specie  appartenente  ad  un  gruppo  estremamente  critico,  ed  operando 
io  sopra  materiale  secco,  ho  dovuto  ricorrere  a  questo  mezzo  di  determinazione, 
l'unico  che,  in  tanta  confusione  di  descrizioni,  permetta  di  intuire  il  pensiero  ed  i 
criteri  diagnostici  del  Tulasne. 


23  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI 

L'H.  populetorum,  che  vive   in   Francia  ed  in  Germania  (dove  fu   incontrato  da 
Tulasne  e  da  Hesse),  fu  già  da  me   ricordato  fra   le   specie  componenti  la  Morula 
ipogea  dell'Orto   botanico   fiorentino    dei   Semplici  (V.  Mattirolo.   Gli  Ipogei  d 
degna  e  di  Sicilia). 

Hymenogaster  tener  Berk. 

Hymenogaster  tener  Berk.,  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  Hystory  „,  XIII,  349  et  XVIII,  75. 
Hymenogaster  argenteus  Tul.,  "  Giornale  Botanico  Italiano  „,  anno  I,  fase.  7-8,  p.  55,  1844. 
Hymenogaster  tener  Tul.,  F.  H.,  p.  72,  tab.  I,  fig.  IV;  tab.    X,   fig.  I.  —   Hesse,  H.   D., 

voi.  I,  p.  122,  tav.  VII,  fig.  47.  —  Wintek  ,    in   "  Rabenhorst   Krypt.  Flora  „,  voi.  I, 

p.  877,  N.  2602.  —  Mattieolo,  loc.  cit.,  Ipogei  di  Sardegna. 

Nella  raccolta  Cesati  esiste  un  solo  individuo  di  questa  specie,  trovato  il  3  di- 
cembre 1873  in  H.  hot.  Neapolitano,  in   Vallecula,  sub  Ollis. 

Non  credo  errata  la  determinazione,  quantunque  essa  sia  stata  fatta  su  materiale 
secco,  mancante  per  conseguenza,  dei  caratteri  cromatici  ed  organolettici,  per  ciò 
che  le  spore  si  presentarono  binate,  ternate,  a  contorno  ovato  ellittico  (non  obovate 
come  nel  vicinissimo  H.  arenarius  Tul.),  asperate  da  piccoli  bitorzoli,  attenuate 
inferiormente  in  un  piccolo  residuo  stilare  e  superiormente  in  una  minuta  papilla 
diafana,  mancante  nelle  spore  dell'IT,  arenarius,  come  ho  rilevato  sui  materiali  autoptici 
di  Beoome  e  di  Tulasne  e  sopra  altri  già  da  me  raccolti  in  Toscana. 

L' Hym.  tener,  noto  di  Inghilterra,  di  Francia,  di  Germania  e  di  California 
(Hartkness)  ;  che  fu  già  da  me  ricordato  fra  le  specie  componenti  la  Florida  degli 
Ipogei  viventi  nell'Orto  botanico  di  Firenze  nel  centro  della  città  (V.  Mattieolo, 
loc.  cit.,  Ipogei  di  Sardegna,  pag.  7),  fu,  a  mio  avviso,  illustrato  dal  Cavara,  sotto 
il  nome  di  Hym.  cerebellus  (1). 

Coli' Hym.  tener  probabilmente  dovrà  essere  confuso  YH.  niveus  di  Vittadini.  il 
quale,  da  questo  e  d&ll'Hym.  arenarius,  come  risulta  dalle  'descrizioni,  differirebbe 
solo  per  caratteri  cromatici  ed  organolettici. 

Le  spore  delle  specie  arenarius,  tener  (Cerebellus)  esigono,  per  essere  differen- 
ziate, un  esercizio  continuato  ed  una  pratica  lunga  :  queste  specie  necessitano  ancora 
di  diagnosi  più  precise. 


Hymenogaster  niveus  Vitt. 

Hymenogaster  niveus  Viti,  M.  T.,  p.  24,  tab.  IV,  fig.  IX.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  71.  — 
Hesse,  H.  D.,  p.  I,  p.  121.  —  Wintek,  "  Krypt.  Flora  di  Rabenhorst  ,,  voi.  I,  p.  876, 
N.  2601. 

Registro  fra  le  Hijmenogastreae  della  collezione  Beccari  anche  questa  specie,  affi- 
nissima  all'IT,  tener  Berk.,  perchè  il  cartellino  dell'esemplare,  portando  scritto  di  pugno 
del  Beccaei  Hym.  niveus,  mi  affida  che  all'acutezza  di  tanto  micologo  non  saranno 
sfuggiti  i  caratteri   diagnostici    accennati    dal    Vittadini,  i  quali    si  possono  riassu- 


(1)  F.  Cavara,  Intorno  alla  morfologia  e  bioloffia  di  una  nuora  specie  di   lli/menoffctster,  "  Atti  del 
Laboratorio  Crittogamico  di  Pavia  „,  1893,  voi.  III. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  t! 


354  ORESTE    MATTIROLO  24 

mere  nell'odore  particolare,  nel  nitore  sericeo  del  peridio  (bianco  niveo).  rufescente  al 
tatto,  e  nella  mollezza  della  carne.  Hesse  assegna  alle  spore  di  questo  Hymenogastreo 
(di  cui  non  mi  fu  possibile  vedere  esemplari  autoptici)  10-14X9-10;  episporio 
rugoso,  rosso  bruno,  munito  di  piccole  papille,  e  di  residuo  stilare  come  nell'i?,  tener. 

Secondo  Vittadini  YH.  niveus  odorerebbe  di  Pelargonium,  mentre  secondo  Tulasne 
ed  Hesse  YH.  tener  avrebbe  odore  fungino  debole  e  le  vicine  specie  H.  arenarius 
odore  alliaceo  intensissimo  (acerrimus);  YH.  pusillità  odorerebbe  pochissimo.  Tutte  e 
quattro  queste  specie  hanno  peridio  bianco,  gleba  dapprima  carnicina  poi  bruna.  Del- 
YH.  niveus  manca  qualsiasi  figura  che  accenni  ai  caratteri  morfologici  delle  spore  e 
l'indicazione  di  Vittadini,  scritta  nel  1851,  —  sporidia  ovata  —  non  è  sufficiente  a 
distinguere  questa  specie  che  dovrebbe  essere  frequente  in  Lombardia  e  che  io  non 
riuscii  a  trovare  ancora,  quantunque  ivi  io  abbia  raccolto  YH.  tener  di  Tulasne. 

Beccari  trovò  questo  ipogeo  nell'ottobre  1862  nella  Selva  Pisana  a  Palazzetto, 
sotto  le  foglie  delle  quercie. 

Hymenogaster  citrinus  Vitt. 

Hymenogaster  citrinus  Vitt.,  M.  T.,  p.  21,  tab.  Ili,  fig.  II.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  69,  tab.  I, 
fig.  I;  tab.  X,  fig.  Ili;  "  Annales  des  Sciences  Naturelles  „,  2"  sèrie,  voi.  XIX,  tab.  17, 
fig.  9-io.  —  Corda,  le,  tona.  V,  tab.  IX,  fig.  87.  -  Hesse,  H.  D.,  voi.  I,  p.  112, 
tav.  VII,  fig.  29.  —  Berkeley,  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  Hystory  „ ,  tom.  XIII,  346, 
"  British  Fung.  „,  fase.  IV,  284.  —  Fries,  Sion.  Veget.  Scand.,  p.  436.  —  Winter,  in 
"  Rabenhorst  „,  voi.  I,  p.  875,  N.  2597.  —  Exicc.  Rabenhorst  Fung.  Europaei ,  N.  34. 

Di  questa  elegante  specie  distinta,  sia  per  il  colore  giallo  citrino  del  peridio  nei 
giovani  individui,  sia  per  quello  della  gleba,  come  anche  per  le  spore  limoniformi 
papillate.  opache,  rugose,  fornite  di  una  appendice  stilare  molto  spesso  ripiegata 
(20-30  X  10-14),  incontrai  due  esemplari  nella  raccolta  Caldesi;  ambedue  provenienti 
dalla  Komagna  (dintorni  di  Faenza  e  di  Castelbolognese,  gennaio  dell'anno  1875). 

L'Hy.  citrinus,  che  Vittadini  notò  frequente  nei  colli  e  nei  monti  traspadani,  è 
specie  ubiquitaria.  Fu  trovato  in  Italia,  in  Francia,  in  Inghilterra,  Svezia,  Germania 
e  ancora  nell'America  boreale  (V.  Sylloge,  VII,  pag.  169).  In  Italia  incontrai  finora 
questo  Hymenogastreo  in  Toscana,  in  Komagna  ed  in  Sicilia  (V.  Mattirolo,  loc.  cit., 
pag.  49). 

Hymenogaster  vulgaris  Tul. 

Hymenogaster  vulgaris  Tul.,  "  Ann.  des  Se.  Naturelles  „,  serie  2\  tom.  XIX,  tab.  17,  fig.  15 
(sub.  Hym.  griseus  Vitt.).  ;  F.  H.,  p.  67,  68,  tab.  X,  fig.  XIII  (non  Hesse). 

Di  questo  Hymenogaster  (che  a  me  pare  debba  presentare  intimi  rapporti  co\YHy»t. 
griseus  di  Vittadini,  del  quale,  per  mancanza  di  materiale  adatto,  non  ho  potuto  ancora 
avere  un  concetto  preciso)  trovai  due  esemplari  nell'Erbario  Caldesi,  raccolti  a  Savi- 
gnano  presso  Faenza  il  17  gennaio  1875.  La  forma  delle  spore,  oblunghe,  fusiformi, 
coll'apice  acuto  e  col  residuo  stilare  allungato,  coll'episporio  rugoso  e  intensamente 
colorato;  le  dimensioni  loro  di  30  circa  per  14,  e  più  di  tutto  i  paragoni  da  me  fatti 
con  esemplari  autoptici  Tulasneani,  mi  permettono  di  segnalare  questa  specie  fra 
le  specie  italiane,  quantunque  io  non  abbia  potuto  ancora  osservare  altro  che  mate- 
riale essiccato. 


25  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  355 

Hymenogaster  Thwaitesii  Berk.  et  Broome. 

Hymenogaster  Thwaitesii  Berk.  et  Broome.  "  Ann.  and  Magaz.  of  Nat.  History  „,  voi.  XVIII, 
p.  75.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  71,  tab.  X,  fig.  XI.  —  Hesse,  H.  D.,  p.  125. 

Di  questo  ipogeo,  finora  osservato  in  Inghilterra  ed  in  Germania,  trovai  tre  esem- 
plari nelle  raccolte  Beccavi  e  Caldesi.  La  forma  quasi  globosa  delle  spore  (differenti 
da  tutte  quelle  delle  altre  specie),  scabre,  papillate,  ed  i  paragoni  colle  figure  di 
Tulasne,  mi  autorizzano  a  ritenere  esatta  la  determinazione  fatta  su  materiale  secco. 

Lo  H.  Thwaitesii  fu  raccolto  dal  Beccari  due  volte  nell'Orto  botanico  di  Pisa  nel 
settembre  e  nell'ottobre  1862  ;  dal  Caldesi  nei  dintorni  di  Faenza,  il  12  febbraio  1875. 

Octaviania  Vittadini. 
Octaviania  asterosperma  Vitt. 

Octaviania  asterosperma  Vitt.,  M.  T.,  p.  17,  tab.  Ili,  fig.  VII.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  77, 
tab.  XI,  fig.  1.  —  Corda,  Icon.,  VI,  p.  35.  —  Hesse,  E.  D.,  p.  72,  voi.  I. 

Di  questa  Octaviania  che  io  già  incontrai  in  differenti  località  di  Lombardia,  del 
Canton  Ticino  e  della  Toscana,  esiste  nella  collezione  Cesati,  1  esemplare  da  lui  stesso 
raccolto  nell'anno  1845,  nel  mese  di  settembre,  a  Costalunga,  località  che  non  mi  fu 
concesso  di  specificare,  ma  che  deve  essere  piemontese,  poiché  in  quell'anno  il 
Cesati  non  si  scostò  dalla  provincia  di  Novara  (Vercelli-Biella). 

Hydnangium  Walroth. 
Hydnangium  carneum  Walr. 

Octaviania  carnea  Corda,  Icon.,  tom.  VI,  p.  36,  tav.  VII,  fig.  66.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  75. 
-  Hesse,  H.  D.,  p.  82,  tav.  II,  fig.  18  e  19;  tav.  V,  fig.  16. 

Questa  Hijmenogastvea,  caratteristica  degli  Ericeti  (V.  Broome,  Klotzsch,  Tu- 
lasne, HESseì,  che  io  non  raccolsi  finora,  ma  ebbi  dalla  cortesia  dei  colleghi 
Prof.  Baccarini  e  Dr.  Petri;  che  Broome  aveva  già  trovata  in  Italia  (a  Lucca), 
presenta  una  strana  predilezione  (V.  Tul.,  F.  H.t  pag.  75)  pel  terreno  dei  vasi  delle 
aranciere  degli  orti  botanici,  dove  a  mia  conoscenza  ebbero  già  a  raccoglierla  De  Bary, 
Schroter,  Hoffmann,  Hesse,  De  Notaris,  Cesati,  Baglietto,  Canepa,  Baccarini  e 
Petri.  Nell'Erbario  Cesati  esistono  esemplari  raccolti  nell'anno  1845  nelle  serre  del 
Parco  Reale  di  Monza  (in  calidarii  H.  B.  (Modiciensis)  )  ;  e  nell'Erbario  Crittogamico 
Italiano,  sotto  il  nome  di  Octaviania  mollis  (N.  51)  si  riscontrano  individui  raccolti 
dal  De  Notaris,  da  Baglietto  e  da  Canepa  durante  gli  anni  1854,  1861  e  1862 
nelle  aranciere  dell'Orto  Botanico  di  Genova,  nei  vasi  con  terriccio  di  castagno  e  di 
brughiera  contenente  piante  delle  famiglie  delle  Mirtaceae  e  delle  Rhamnaceae  (1); 
mentre  a  Firenze  la  stessa  specie  fu  riscontrata  da  Baccarini  e  Petri  nei  vasi  di 
Mirtacee  e  Cesalpiniee. 


(1)  Intorno  a  questo  Ipogeo  vedi  le  pagine  scritte  da  De  Notaris  nel  "  Comm.  della  Soc.  Critt. 
italiana  „,  N.  1,  febbraio  1861,  Genova,  1861,  p.  33.  35,  tav.  II,  fig.  IV. 


:;;,l,  ORESTE    MATTIROLO  26 

Le  differenze  che  De-Notaeis  invoca  nel  Commentario  per  segnare  l'autonomia 
della  sua  nuova  specie,  e  le  differenze  tra  essa  e  VE.  carneum,  dopo  minuzioso  esame 
e  misurazioni,  mi  parvero  doversi  riguardare  come  insufficienti. 


Leucogaster  Hesse. 

Hesse.  Die  Bypogaeen   Deutschlands.  Halle,  1891,  p.  68. 
Leucogaster  badius  Mattirolo  nov.  sp. 

(Vedi  Tavola,  fig.  1,  2,  3). 

Nel  luglio  1862,  0.  Beccari  raccolse,  quasi  epigei,  nell'Abetina  di  Boscolungo 
nell'Apennino  Pistoiese,  alcuni  esemplari  di  un  Leucogaster,  affluissimo  a  quello  da 
me  trovato  nelle  Abetine  di  Vallombrosa  e  descritto  sotto  il  nome  di  Leucogastt  r 
fragrans  (1);  ma  da  esso  differente,  sia  per  il  colore  del  pendio,  come  per  quello 
della  gleba  e  conseguentemente  delle  spore;  e  per  le  maggiori  loro  dimensioni. 

In  omaggio  al  significato  della  parola  creata  dall'HEssE,  per  servire  di  appel- 
lativo ad  un  raggruppamento  di  specie  aventi  un  peridio  bianco,  l'ipogeo  raccolto 
dal  Beccari  di  colore  castaneo-badio  (2).  non  andrebbe  compreso  sotto  il  nome  di 
Leucogaster,  ove  la  costituzione  anatomica  e  istologica  di  esso  non  consigliasse  la 
infrazione  alle  leggi  che  dovrebbero  regolare  l'uso  delle  parole  aventi  un  significato 
determinato.  Ma  però  i  funghi  del  Beccari,  quantunque  non  sieno  bianchi,  tuttavia 
sono  siffattamente  concordanti  colle  specie  ascritte  al  genere  Leucogaster,  che  io  non 
esito  a  riferirli  a  questo,  avvertendo  però  che  io  mi  affido  in  questa  descrizione 
unicamente  allo  esame  di  esemplari  essiccati;  e  che  sfortunatamente  ancora  non 
posseggo  indicazioni    intorno  ai  caratteri  del  nuovo  Leucogaster,  in  natura. 

A  giudicare  adunque  dagli  esemplari  d'Erbario,  il  Leucogaster  badius  presenta  un 
corpo  fruttifero  irregolarmente  sviluppato,  grosso  come  una  nocciuola  od  una  piccola 
noce,  mammellonato,  di  colore  castaneo-badio,  sulla  superficie  del  quale  (come  si  os- 
serva anche  nel  L.  fragrans),  decorrono  delle  fibrille  rizomorfiche.  La  superficie  è 
liscia,  qua  e  colà  notata  da  screpolature  lineari  e  la  tessitura  del  peridio  è  fibrosa. 

La  polpa  fruttifera,  o  gleba,  è  pure  di  colore  castaneo-badio,  più  scuro  di  quello 
esterno;  e  in  essa  si  notano  le  areole  sporifere  poligonali,  assai  evidenti,  come  nelle 
specie  del  genere  Melanogaster  (Melanogaster  variegatus  e  rubescens);  alle  quali  per 
gli  esterni  caratteri  si  può  avvicinare  il  nuovo  Leucogaster. 

Le  areole  per  lo  più  sono  esagonali,  o  anche  pentagonali  o  irregolarmente 
poligonali,  ripiene  di  una  polpa,  derivante  dalla  gelatinizzazione  delle  ife  imeniali 
(basidii  e  ife)  che  cementano  fra  loro  le  numerosissime  spore  chiuse  nelle  areole  limi- 
tate da  setti  fibrosi,  formati  da  ife  sottilissime  incolore,  gelatinose  e  molto  rifrangenti. 

Mentre  (nel  secco)  le  areole  della  porzione  più  esterna  della  gleba  sono  ripiene 
di  polpa  sporifera,  si  mostrano  invece  lacunose  e  vuote  quelle  della  porzione  interna, 


(1)  0.  Mattjbol  »,    Elenco    dei    "  Fungi    Hypogaei  „    raccolti   nelle    Foreste   di    Vallombrosa   negli 
anni  1899-900,  ivi  a  pag.  20,  21,  22  dell'estratto  "  Malpighia  „,  voi.  XIV. 

(2)  Almeno  negli  esemplari  essiccati  in  Erbario. 


27  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  '■'■'>! 

come  succede  in  genere  nei   Mejlanogaster,   nelle   Octavìanit   e  come  fu  già  segnato  da 
Messe  per  il  Lene,  floccosus  e  come  pure  io  riconobbi  nel  Leno,  fragrali*. 

L'imenio  che  tappezza  dette  lacune  non  è  differenziato  e  regolare  come  nella 
Octaviania  e  nella  Martellia,  ecc.,  ma  invece  assai  poco  differenziato,  come  nel  vicino 
genere  Melanogaster,  dove  esso  è  formato  dalle  ife  che  decorrono  lungo  la  parte 
esterna  delle  reticolature;  le  quali  si  erigono,  dirigendosi  verso  l'interno  delle  lacune, 
gonfiandosi  alla  loro  parte  apicale  e  diventando  terminazioni  basidiali. 

Negli  esemplari  secchi  non  fu  possibile  studiare  il  numero  delle  basidiospore; 
ma  posso  dire  però  che  l'imenio,  e  conseguentemente  i  basidii,  si  mostrano  costruiti 
sul  tipo  di  quelli  descritti  dall'HESSE  e  da  me  studiati  nei  giovani  esemplari  di  Leuc. 
fragrane. 

Le  spore  presentano  cortissime  appendici  sterigmatiche,  le  quali  diffìcilmente 
si  possono  ancora  riconoscere  nelle  spore  mature. 

Esse  sono  in  generale  sferiche  e  presentano  la  proprietà  che  caratterizza  le 
spore  del  genere  Leucogaster;  possiedono  cioè  una  parete  leggermente  bernoccoluta, 
avente  la  parvenza  quasi  di  essere  ricoperta  da  un  reticolo  a  maglie  sottili,  av- 
volta da  un  involucro,  ialino,  rifrangente,  gelatinoso  (1).  Le  spore  del  Leuc.  badius 
si  differenziano  da  quelle  delle  specie  congeneri,  per  il  colore  molto  più  intenso,  di 
un  giallo  scuro,  se  viste  isolate  al  microscopio,  e  di  un  castaneo-badio,  se  vedute  in 
massa,  come  nell'interno  delle  areote. 

La  membrana  gelatinosa  è  meglio  visibile  nelle  spore  giovani,  ancora  poco  colorate 
e  aventi  dimensioni  minori;  mentre  quasi  interamente  scompare  nelle  spore  mature, 
aventi  diametro  maggiore  e  colorazione  assai  intensa. 

In  media,  i  diametri  delle  spore  variano  fra  i  12  e  i  15  miera,  la  forma  è  ge- 
neralmente sferica,  quantunque  non  rare  sieno  le  spore  allungate,  ovoidali. 

Il  nuovo  Leucogaster,  da  quanto  si  è  detto,  risulta  vicinissimo  al  Leuc.  fragrans, 
differendone  in  specie  per  il  colore  ;  poiché  anche  gli  esemplari  vecchi  del  Line. 
fragrans,  mantengono,  essiccando,  il  loro  colore  bianco-giallastro,  che  nemmeno  lon- 
tanamente si  avvicina  al  colore  del  Leuc.  badius,  le  cui  spore  sono  evidentemente 
anche  più  grosse,  in  complesso,  di  quelle  delle  altre  specie. 

I  particolari  della  struttura  delle  spore;  le  piccole  prominenze  che  in  esse 
simulano,  come  nel  Leucogaster  fragrans,  una  reticolatura,  appaiono  bene  evidenti 
colorando  i  preparati  colla  tintura  di  iodio  od  anche  col  rosso  di  rutenio. 

La  nuova  specie  vive  (secondo  le  indicazioni  del  Beccaei),  quasi  epigea,  mentre 
assolutamente  sotterranee  vivono,  secondo  Hesse,  le  altre  specie  del  genere  {streng 
subterran),  ed  io  stesso  trovai  fra  le  radici  dei  Faggi  e  degli  Abeti  di  Vallombrosa, 
al  disotto  della  superficie  del  terreno  il  Leucogaster  fragrans. 

Lasciata  alquante  ore  nell'acqua  distillata  una  sezione  di  Leucogaster  badius, 
essa  le  comunicò  una  colorazione  brunastra  assai  marcata,  ciò  che  avvenne,  in  molto 
minor  proporzione,  per  alcune  sezioni  di  Leuc.  fragrans  mantenute  nelle  identiche 
condizioni. 


(1)  Va  ricordato  che  questo  involucro  gelatinoso  fu  notato  e  descritto  anche  dal  Tulasne  nelle 
spore  di  Scleroderma.  V.  Tulasne,  Fructification  du  scleroderma,  "  Ann.  de  Sciences  Nat.  „,  IP  serie, 
tom.  XVII,  et  planche  lc,  fig.  9. 


358  ORESTE    MATTIROLO  28 

Trattate  con  alcune  goccie  di  una  soluzione  di  percloruro  di  ferro,  le  due  solu- 
zioni diventarono  scure  in  proporzione  della  intensità  della  colorazione  primitiva, 
rivelando  la  presenza  di  sostanze  tanniche  come  materiali  coloranti. 

Riassumendo,  i  caratteri  più  salienti  della  nuova  specie,  si  potrebbero  espri- 
mere cosi: 

Leucogaster  badius  Mattirolo  nov.  sp. 

L.  irregularis,  globosus,  vel  gibberosus,  castaneo-badius  (siccus),  nucis  avéllanae,  aut 
ovi  magnitudine.  Peridium  fibrosum  laeve,  tenue,  micelii  ramulis  radiciformibus  adhae- 
rentìbus  Saltini  instructum.  Gleba  castaneo-badia  loculis  sporiferis,  plerumque  pólygonis, 
magnitudine  varia  faretti  —  loculis,  ob  basidio,  dein  labe, dia,  sporis  plerumque  repletis, 
quae  12-15  mirra  circiter  diam.  mentiuntur.  Exosporium  minutissime  tuberculatum,  rattì- 
culum  simula iis,  gelatina  hyalina  cinctum. 

Habitat  in  Abetinis  Boscolungo  prope  Pistorium  Oppidum  ubi  C/ar.  0.  Beccavi 
detexit,  anno  1862  mense  juli. 

Rhizopogon  Fries. 
Rhizopogon  rubescens  Tul. 

Rhizopogon  rubescens  Tul.,  Fungi  nonnulli  hypogaei,  novi  vel  minus  cogniti,  "  Giornale  Bota- 
nico Italiano  „,  amio  I,  fascicoli  7,  8,  1844.    —  Tul.,  F.  H.,  p.  89. 

Hysterangiurn  rubescens  Tul.,  Champignons  hypogés  de  la  Famttle  des  Lycoperdacées  observés 
dans  les  environs  de  Paris  et  les  départements  de  la  Vienne  et  d'I, aire  et  Loire,  "  Ann. 
des  Sciences  Naturelles  „,  1843,  2°  sèrie,  tom.  XIX,  p.  375. 

Hysteromyces  vulgaris  Vitt.,  Notizie  naturali  e  civili  della  Lombardia,  voi.  I.  Milano,  1844. 

Rhizopogon  rubescens,  var.  Vittadinii,  Titlasxe,  F.  H.,  p.  89. 

Rhizopogon  rubescens  Tul.,  Hesse  et  Aut. 

Le  raccolte  Beccavi  e  Cesati  contengono  buon  numero  di  esemplari  di  questo 
ipogeo  caratteristico  del  suolo  delle  Pinete;  alcuni  furono  trovati  dal  Cesati  nella 
estate  (1860?)  nelle  Pinete  di  Sciolze  (Piemonte);  altri  invece  furono  dal  Beccari 
raccolti  nel  giugno  e  nel  settembre  dell'anno  1862,  lungo  lo  stradone  del  Gombo 
(Pisa-S.  Rossore);  e  nell'ottobre  e  nel  novembre  dello  stesso  anno  nella  Selva  Pisana 
in  Palazzotto. 

A  proposito  di  questo  comune  Hymenogastreo,  che  si  incontra  epigeo  o  appena 
appena  ipogeo,  e  allora  visibile  attraverso  alle  screpolature  del  terreno,  credo  oppor- 
tuno indicare  che  il  Tulasne  fu  il  primo  a  descriverlo  sotto  l'attuale  nome  di  Rhi- 
zopogon rubescens,  dopo  averne  fatto  menzione  un  anno  prima,  fra  gli  Hysterangium 
(V.  loc.  cit.). 

La  descrizione  di  Tulasne,  apparsa  nel  medesimo  anno  (1844),  nel  quale  Vit- 
tadini  pubblicava  lo  stesso  fungo  e  lo  illustrava,  battezzandolo  col  nome  di  Hyste- 
romyces vulgaris  (1)  (V.  Vitt.,    loc.    cit.),  e  la  pubblicazione    di    Vittadini,    rimasta 


(1)  Il  genere  Hysteromyces  di  Vittadini  comprendeva  due  specie:  Lo  H.  vulgaris  di  cui  ora 
stiamo  trattando  e  VHyst.  graveolens  che  (a  giudicare  dalle  osservazioni  di  Tulasne,  il  quale  ebbe 
agio  di  studiare  un  frammento  di  un  esemplare  autoptico  :  v.  F.  Hyp.,  p.  88)  deve  essere  riguardato 
come  identico  al  Rhizopogon  luteolus  del  Tulasne:  Sporae  finn  forma  cuoi  colore  et  erassitudine  ab 
illis  Eh.  luteoli  non  clifferunt,  dice,  dopo  la  descrizione,  il  Tulasne. 


29  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  359 

quasi  ignota  ai  micologi  (1),  contribuirono  all'abbandono  del  genere  Hysteromyces, 
e  alla  definitiva  sistemazione  del  Rhizopogon  rubescens  nel  genere  Rhizopogon  già  isti- 
tuito da  Fries  nel  1817  (Symbolae  Gasteromycorum  ad  illustrandam  Floram  suecicam. 
Lundae,  1817-18,  pag.  5). 

Ciò  che  sorprende,  è  la  creazione  di  una  speciale  varietà  istituita  dal  Tulasne 
per  gli  esemplari  inviatigli  dal  Vittadini,  i  quali  vennero  da  lui  classificati  sotto 
il  nome  di  Rhiz.  rubescens  P  Vittadinii,  avendo  ritenuto  il  Tulasne  che  essi  fossero 
differenti  da  quelli  di  Francia. 

Specìmina  Hysteromycetis  mlgaris  Vitt.  quae  copiosa  exsiccata  a  ci.  Vittadinio  ipso 
Mediolani  olim  accepimus  formam  a  typo  ob  crassitudinem  vulgo  majorem  et  sporas 
subminores  dilutioresque  forsitan  paulo  discrepantem  sistere  videntur.  Fungis  typicis 
commixtam  liane  formam  nonnunquam  videmus  in  Pinetis  Olbiis. 

Avendo  avuto  occasione  di  raccogliere  durante  parecchi  autunni  a  Roderò  (Prov. 
di  Como)  alcune  migliaia  di  esemplari  di  Rliizopogon  rubescens;  e  avendo  studiato 
e  paragonato  questi,  con  esemplari  autoptici  di  Tulasne  (avuti  dalla  cortesia  del 
compianto  M.  Cornu),  credo  poter  affermare  che  i  due  funghi  non  differiscono  fra 
loro;  e  che  la  grossezza  dei  corpi  fruttiferi  e  la  minor  colorazione  delle  spore,  si 
osservano  saltuariamente  anche  in  individui  che  paiono  provenire  dalle  briglie  di  uno 
stesso  micelio;  e  che  differenze  apprezzabili  di  grossezza  nelle  spore,  degli  individui 
più  grossi  e  meno  colorati,  io  non  sono  riuscito  a  trovare,  paragonandoli  a  quelli 
tipici.  Anche  Hesse  (Hip.  Deutsch.,  pag.  94),  trovò  concomitanti  gli  individui  grossi 
e  meno  colorati,  cogli  altri  più  piccoli  e  più  intensamente  colorati  nella  parte  spo- 
rifera. "  Sie  triti  gar  nicht  selten  an  denselben  Platzen  auf,  an  denen  Rh.  rubescens 
Tid.  vorhommt,  und  zwar  haiifig.  epigaisch  „. 

Il  Rhiz.  rubescens  è  esempio  degli  Ipogei  ubiquitari,  a  vastissima  area  di  distri- 
buzione. Nel  giro  di  una  quindicina  di  anni  mi  fu  dato  esaminare  esemplari  di 
questa  specie,  provenienti  dalla  Russia  (Bucholtz),  dalla  Francia,  dalla  Germania, 
dall'Inghilterra,  dall'America  (Carolina  del  Sud,  Ravenel),  N.  Jersey  (Ellis),  dall'Au- 
stralia e  dal  Giappone.  In  Italia  osservai  la  specie  e  la  raccolsi  in  Piemonte,  in 
Lombardia,  nel  Canton  Ticino,  in  Toscana,  nel  Trentino,  nel  Modenese. 

Specie  congeneri  in  Italia  non  mi  fu  dato  ancora  di  osservare,  quantunque,  a 
giudicare  da  quanto  scrisse  il  Vittadini,  debba  incontrarsi  pure  da  noi  Y Hysteromyces 
graveolens  Vitt.,  che  il  Tulasne  considera  come  specie  sinonima  del  suo  Rhizopogon 
luteolus. 

L' Hysteromyces  graveolens,  fu  da  Vittadini,  trovato  presso  Uboldo  (circa  Medio- 
lanum)  humo  semi-immersus  vere,  haud  frequens  (V.  loc.  cit.). 

Facilissimo  riescirebbe  a  distinguere  questo  e  il  Rhiz.  provincialis  Tul.  dal  Rhiz. 
rubescens,  perchè  queste  due  prime  specie  hanno  un  peridio  relativamente  spesso, 
subcoriaceo,  avvolto  da  un  capillizio  di  fibrille  rizomorfiche  miceliari,  e  cellule  ime- 
nifere  minutissime,  che  negli  individui  essiccati  di  Rhiz.  luteolus  sono  completamente 
riempite  di  spore. 

Dall'esame    degli    autoptici   di  Tulasne,    posso    assicurare    che    il   fungo    cornu- 


ti) Perchè  rappresenta  un  solo  capitolo  di  un'opera  assai  nota  avente  riguardo   alle  condizioni 
politiche  e  naturali  della  Lombardia  (V.  cit). 


360  !'   -  ''•     MATT1ROLO  30 

nicato  da  J.  Babla  (1),  nell'Erbario  Crittogamico  italiano  al  N.  350,  raccolto  nelle 
pinete  dei  dintorni  di  Nizza  marittima,  nell'autunno  dell'anno  1859,  non  rappresenta 
altro  che  il  Rhizopogon  rubescens  identico  a  quello  di  Piemonte  e  di  Lombardia. 

Dell' Hysteromyces  graveolens  di  Vittadini,  per  quanto  io  abbia  cercato,  non  potei 
riescire  a  procurarmi  un  esemplare. 


Melanogaster  Curia. 

Melanogaster   variegatus  Tul. 

Octaviania  variegata  Viti,  M.   T.,  p.   16,  tab.  Ili,  fig.  IV.  —  Tdlasne,   u  Ann.  d.  Sciences 
Naturelles  „,  tab.  17,  fig.  22,  2"  serie,  toni.  XIX,  pag.  377.  —  He-<e.  //.  D.,  p.  59  et 
r.   -  Tulasne,  F.  H.,  p.  92,  tab.  II,  fig.  IV  et  tab.  XII,  fig.  VI. 

Questa  Hymenogastrea  che  io  raccolsi  ripetutamente  in  Lombardia,  in  Toscana, 
in  Piemonte  e  che  vive  anche  nel  Lazio,  che  mi  fu  inviata  dalla  Sardegna  (Cavara, 
Belli),  è  rappresentata:  nella  raccolta  Cesati  da  alcuni  esemplari  scoperti  nel  1845 
e  nel  1847  in  Val  Verde  (S.  Gottardo)  nell'autunno;  nell'Erbario  Saceardo  da  cam- 
pioni provenienti  da  Lecce  (Cuboni,  ottobre  1889)  e  da  Monte  Serva  nel  Bellunese 
(Spegazzini,  2Q  ottobre  1878). 

Il  Melanogaster  variegatus,  menzionato  anche  da  Bizzozero,  appare  adunque  come 
un  ipogeo  comune  a  tutta  Italia. 

Melanogaster  ambiguus  Tul. 

Octaviania  ambigua  Viti,  M.  T.,  p.  18,  tab.  IV",  fig.  III. 

Melanogaster  ambiguus  Tul,  "  Ann.  Se.  Nat.  „,  2°  serio,  toni.  XIX,  p.  378;  F.  H.,  p.  94, 
tab.  II,  fig.  V  e  tab.  XII,  fig.  V.  —  Elesse,  H.  D.,  p.  G2  et  fig. 

vri  raccolse  a  Biella  nell'autunno  dell'anno  1850  questa  specie,  di  cui  finora 
io  non  avevo  avuto  che  alcuni  esemplari  dal  sig.  Marzichi  Lenti  di  Firenze,  rac- 
colti a  Collegalle,  presso  Greve  nel  Chianti,  nell'anno  1900  (10  marzo),  sotto  ai  Lecci. 

Gali  fiera  Vittadini. 
Gautiera  graveolens  Vitt. 

Gautiera  graveolens  Vitt.,  M.  T.,  p.  27,  tab.  IV,  fig.  XIII.  —  TYlasne,  F.  IL,  p.  63.  — 
Cokda,  Icon.  Fung.,  tom.  VI,  p.  34,  tab.  VII,  fig.  63.  -  Hessb,  H.  !>.,  p.  106-108, 
tav.  II,  fig.  5-9;  tav.  V,  fig.  9-10;  tav.  VII,  fig.  4-6;  tav.  IX,  fig.  27-34. 

L'Erbario  di  P.  A.  Saccardo  contiene  un  autoptico  vittadiniano  di  questa  rara 
specie  che  io  già  trovai  in  Toscana  (V.  Mattirolo,  I,  loc.  cit.)  e  che  mi  fu  comu- 
nicata in  un  certo  numero  di  esemplari  dai  dintorni  di  Serravalle  Sesia,  dal  signor 
Cacciami  Italo,  studente  in  medicina,  nel  dicembre  dell'anno  1902. 


(1)  6.  Pollacci,  Micologia  Ligustica,  Genova,  "  Atti  della  Società  Ligustica  di  Scienze  Naturali  „, 
voi.  Vili,  fase.  I,  1897,  ricorda  fra  gli  Ipogei  di  Liguria  il  Rh.  provinciali*  di  Barla,  che  vuol  essere 
quindi  corretto  in  Rh.  rubescens  Tul.  e  V  Octaviania  mollis  De  Notaris,  sinonimo  di  Hydnangium 
carneum. 


31  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  361 

HYMENOMYCETES  (?) 

Cenococcum  Fries. 

Cenococcum  Fries,  Syst.  Orò.  veget,  1,  p.  364;  Syst.  myc,  IV,  p.  65. 

Cenococcum  geophilum  Fries,  Scler.  Suec.  exic.  Dee,  XXXVII;  Fries,  Syst.  Myc,  III,  p.  65. 

—  Vittadini,  Nonographia  Lycoperdineorum,  p.  85,  tab.  Ili,  fig.  V.  —  Tulasne,  F.  H., 

p.  179,  180,  181,  tav.  XXI,  fig.  Vili. 

Queste  curiose  formazioni ,  che  in  Italia  trovansi  frequenti  nella  terra  di 
castagno  in  Piemonte  ed  in  Lombardia,  furono  pure  raccolte  nell'autunno  del  1863, 
dal  Beccari  nei  monti  Pisani  a  Vicosi,  e  quivi  pure  immerse  nell'humus.  Quantunque 
i  recenti  studi  di  Boudier  e  Patouillard  (1)  e  di  Van  Bambeke  sul  Cenococcum 
xylophilum  Fr.  (ora  Coccobotrys  xylophilus  Boud.  et  Pat.)  abbiano  fatta  conoscere  la 
vera  natura  di  analoghi  granuli,  che  il  Fries  cosi  efficacemente  definisce:  gru  ut/In 
exacte  globosa,  libera,  omne  thallo  et  radice  destituta,  laevia,  glabra,  aterrima,  magni- 
tudine seminis  viciae,  in  humo  atro  copiosissime  nidulantur,  pure  ho  creduto  bene  ricordare 
fra  i  Funghi  Ipogei  anche  questo,  perchè  dalla  maggior  parte  dei  botanici  ed  anche 
da  specialisti  eminenti,  come  Vittadini,  Tulasne,  ecc.,  fu  ritenuto  per  lungo  tempo 
avessero  le  specie  del  genere  Cenococcum  relazione  con  quelle  del  genere  Elaphomyces. 

Ora  i  rappresentanti  del  genere  Cenococcum  pare  si  devano  ritenere  come  stadi 
vegetativi  scleroziati  di  un  micelio;  forme  miceliari  per  cosi  dire  transitorie,  perchè 
quelle  appartenenti  al  Cenococcum  xylophilum  di  Fries  (ora  Coccobotrys  xylophilus  di 
Boudier  et  Pat.)  si  dimostrarono  appartenere  al  ciclo  di  sviluppo  della  Lepiota 
Meleagris  (Sow)  Sacc.  Ed  è  curioso  che  Fries  (lo  scopritore)  considerasse  i  Ceno- 
coccum come  Sclerozii  dapprima,  e  poi  li  avvicinasse  agli  Elaphomiceti,  avendo  cre- 
duto di  trovare  in  essi  delle  spore,  che  pure  il  Tulasne  descrisse  nella  sua  opera, 
ma  che  mancano  affatto  in  natura. 

Nessuno  finora  sa  però  quali  relazioni  abbia  il  Cenococcum  geophilum,  né  quale 
possa  essere  il  presumibile  basidiomiceto  che  dovrà  rappresentarne  la  forma  perfetta, 
la  quale  a  me  non  è  riuscito  ancora,  malgrado  i  tentativi  fatti  e  quelli  che  sto  fa- 
cendo, di  poter  ottenere.  Ricordo  che  notevoli  differenze  si  riscontrano  fra  il  Ceno- 
coccum geophilum  e  il  Cenococcum  xylophilum. 

LYCOPERDINEAE 

Gastrosporium  Mattirolo,  nov.  gen. 
Gastrosporium  simplex  Matt.  nov.  sp. 

(Vedi  Tavola,  fig.  4  a  10). 
Singolare  tipo  è  quello  rappresentato  dal  fungo,  che  Odoardo  Beccari  raccolse 
fra  le  radici  delle  graminacee   in  due  località  differenti:  S.  Giuliano  (Monte  Pisano, 
die.  1862)  e  Sasso  (Bologna,  aprile  1864)  e  lasciò  indeterminato  nella  sua  collezione. 


(1)  Boudieb  et  Patouillard,  Note  sur  deux  chcimpignons  hypogés,  "  Bull.  Soc.  Myo.  de  France  „, 
t.  XVI,  1900,  fase.  Ili,  p.  141.  —  Van  Bambeke,  Le  Cenococcum  Coccobotrys  xylophilus  (Fries)  Boudier 
et  Patouillard  (Cenococcum  xylophilum  Fries)  est  le  Mt/celium  des  Lepiota  meleagris  (Sow)  Sacc. 
"  Soc.  Roy.  de  Bot.  Belge  ,,  Séance  dèe.  1900. 

Serie  IL  Tom.  LUI.  u» 


362  ORESTE    MATTIROLO  32 

Esso  è  ili  costruzione  assai  semplice  ;  ma  di  sistemazione  difficile,  anche  perchè 
le  conclusioni  risultanti  dal  suo  studio,  si  basano  soltanto  sopra  l'esame  dell'apparato 
riproduttore  giunto  allo  stato  di  perfetta  maturazione. 

Il  Gastrosporium,  come  indica  il  nome,  è  formato  da  una  cavita  ripiena  di  innu- 
merevoli minutissime  spore,  limitata  da  una  parete  doppia  (V.  Tavola,  fig.  4  a  7). 

Il  corpo  fruttifero  globoso  o  globoso-Iobato  è  di  color  bianco  latteo,  di  grossezza 
che  varia  da  quella  di  un  pisello  a  quella  di  una  noce,  misurando  il  più  grosso  esem- 
plare esaminato  un  diametro  di  circa  tre  cent. 

Il  Pendio  è  formato  da  due  strati  nettamente  differenziati  (V.  Fig.  8). 

L'esterno,  dello  spessore  di  circa  *  2  mill.  pulverulento,  calceo,  risulta  (negli  esem- 
plari essiccati)  composto  di  un  materiale  farinoso,  facilmente  esportabile  colle  dita. 
In  esso  si  notano  ife  sottilissime  lassamente  fra  loro  intrecciate,  immerse  in  una 
massa  di  sostanza  microcristallina,  che  agisce  sulla  luce  polarizzata  e  che  calcinata 
annerisce,  lasciando  un  residuo  bianco,  il  quale,  coll'acido  solforico,  dà  luogo  a  cristalli 
aghiformi  geminati  a  ferro  di  lancia  (V.  Fig.  8,  S.  E.). 

Quanto  alla  natura  dell'acido  combinato  colla  calce  :  l'insolubilità  in  acido  acetico 
e  la  solubilità  in  acido  cloridrico,  lasciano  giudicare  si  tratti,  con  tutta  probabilità, 
di  acido  ossalico.  La  sostanza  microcristallina  adunque  sarebbe  ossalato  di  calcio 
cristallizzato. 

L'interno  strato,  spesso  circa  1/8  di  mill.,  e  quindi  meno  sviluppato  di  quello 
esterno,  nettamente  dal  primo  differenziato,  risulta  di  ife  saldate  fra  di  loro  intima- 
mente da  una  gelatina  tenace,  brillante  (V.  Fig.  8,  S.  /.). 

Col  rosso  di  Rutenio  la  massa  gelatinosa  si  colora  e  più  intensamente  si  colorano 
le  ife,  dimostrando  cosi  la  natura  pectica  delle  loro  membrane. 

La  colorazione  indicata  permette  di  seguire  il  decorso  sinuoso  delle  ife  sottili, 
intrecciate,  aggrovigliate,  ramificate,  qua  e  colà  inspessite,  presentanti  nel  loro  de- 
corso diametri  differenti  (1). 

Questo  strato  molto  rifrangente  limita  le  cavità  della  gleba,  dentro  la  quale,  e 
per  breve  tratto,  si  vedono  sporgere  le  ife  parietali. 

Gleba.  —  La  gleba  è  formata  da  una  massa  di  sostanza  avente  colore  olivaceo 
chiaro,  composta  niente  altro  che  da  spore  piccolissime,  misuranti  nel  diametro  circa 
3  micra,  a  contorno  circolare  o  leggermente  ovale,  le  quali,  solamente  a  forte  ingran- 
dimento, lasciano  scorgere  ancora  il  punto  di  attacco  colla  sterigma  (V.  Fig.  8,  10). 

Queste  spore  sono  liscie,  hanno  colore  verdastro  chiaro,  sono  trasparenti,  con- 
tengono nell'interno  un  materiale  molto  rifrangente,  oleoso.  Col  rosso  di  Rutenio  la 
loro  membrana  si  colora  debolmente. 

Su  tutta  la  gleba,  manca  qualsiasi  accenno  ad  ife  appartenenti  ad  una  trama, 
ne  si  notano  traccio  di  capillizio;  null'altro  ho  notato  nella  gleba,  che  una  quantità 
di  spore. 

La  frase  diagnostica,  la  quale  vale  tanto  per  il  genere,  come  per  l'unica  specie, 
può  quindi  essere  così  riassunta  : 


(1)  Queste  ife  più  grandi,  presentanti  dei  rigonfiamenti,  si  potrebbero  considerare  analoghe  alle 
note  ife  vascolari. 


33  I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  363 

Gastrospoi'ium  .simplex.  —  Fungus  hypogaeus  globosus  vet  globoso-irregularis, 
pendio  crasso,  exterm  lacteo,  pulverulento ;  interne  gelatinoso  hyalino  intente,  Gleba  omo- 
genea, sine  lacunis;  sporis,  innumeris  minutissimis  sphaericis,  laevibus,  hyalinis,  olivaceis 
3  micra  diam.  composita. 

Capillitio  ìndio. 

Hab.  —  Inter  radices  graminum  Etruria-Emilia.  Sept.  Dee.  leg.  Clar.  0.  Beccari. 

Posizione  sistematica.  —  La  posizione  di  questo  genere  nella  seriazione  naturale 
delle  forme  è  assai  difficile  a  concretarsi  ;  perocché  se  indubbiamente  possiamo  assi- 
curare che  la  nuova  forma  appartiene  ai  Gastromycetes ,  non  possiamo  ugualmente 
indicare  a  quale  dei  gruppi  di  questi  funghi  debba  essere  ascritta,  mancando  l'esame 
degli  stadi  di  evoluzione. 

Fra  i  Gastromycetes,  come  è  noto,  si  contano  parecchie  serie  e  da  tutte  si  distingue 
il  Gastrosporium  per  caratteri  importanti  e  facili  a  rilevarsi.  Così   esso  differisce  : 

I)  Dagli  Hymenogastrei,  per  la  mancanza  assoluta  nella  gleba  delle  tipiche 
concamerazioni  tappezzate  dall'Imenio;  per  la  struttura  del  peridio  e  per  il  tipo 
delle  spore. 

II)  Dalle  Lycoperdineae,  per  la  mancanza,  nella  gleba  matura,  di  capillizio;  per 
il  tipo  strutturale  del  peridio,  che  pure  è  doppio. 

Ili)  Dalle  Phalloideae,  perchè  privo  di  una  glejsa  a  concamerazioni  imeniali; 
perchè  manca  di  un  ricettacolo,  di  una  volva,  e  perchè  differentemente  si  comporta 
durante  lo  sviluppo. 

IV)  Dalle  Nidulariaceae  perchè  privo  dei  Peridioli  concamerati,  ecc. 

Il  Gastrosporium  adunque  non  può  essere  altrimenti  classificato  che  fra  le  forme 
più  semplici  dei  Gastromycetes;  fra  quelle,  che  per  non  essere  state  ancora  sufficien- 
temente studiate  in  tutti  i  periodi  della  storia  di  sviluppo,  Edoardo  Fischer  cre- 
dette recentemente  di  riunire  in  un  gruppo,  a  cui  diede  il  nome  di  "  Plectobasidineae  „ . 

Le  Plectobasidineae  però  non  rappresentano  una  unità  sistematica  indipendente, 
ma  un  gruppo  artificiale,  nel  quale  si  comprendono  forme  relativamente  semplici  ap- 
partenenti alle  vai'ie  sezioni  dei  Gastromycetes  ;  imperocché  fra  le  Plectobasidineae  di 
Fischer,  le  Sci  eroder  mataceae  hanno  rapporti  evidentissimi  colle  tipiche  Hymenogastreae; 
le  Calostomataceae  e  le  Tulostomataceae  e  forse  anche  le  Podaxineae,  colle  vere  Lyco- 
perdineae; il  genere  Pisolithus  colle  Nidulariaceae;  mentre  il  genere  Spliaerobolus  si 
connette  alle  Phalloideae. 

Il  Gastrosporium  adunque  sarebbe,  per  ora,  da  riguardarsi  come  una  Plectobasidinea, 
nel  senso  che  rappresenta  un  Gastromicete  semplicissimo,  con  gleba  priva  di  conca- 
merazioni, senza  vene  sterili,  risolventesi  a  maturità  in  una  massa  pulverulenta  priva 
di  capillizio,  con  peridio  formato  da  due  strati  ;  ma  però  come  un  tipo  che  presenta 
moltissime  analogie  colle  Lycoperdineae,  dalle  quali  unicamente  differisce  per  la  man- 
canza del  capillizio;  imperocché  le  spore  sono  morfologicamente  identiche  a  quelle 
della  maggior  parte  dei  tipi  ascritti  a  questa  famiglia,  e  il  peridio  è  duplice,  e  pul- 
verulento come  in  alcune  specie  del  genere  Lycoperdon  e  l'aspetto  generale  è  analogo 
a  quello  delle  Lycoperdineae. 


364  ORESTE    MATTIROLO  34 

La  sistemazione  del  nuovo  genere  non  può  ancora  essere  ritenuta  definitiva, 
poiché,  per  ora,  mancano  quei  dati  indiscutibili  di  giudizio,  i  quali  allora  soltanto  si 
potranno  avere,  quando  i  botanici  ritroveranno  questa  forma  e  la  potranno  studiare, 
avendo  riguardo  ai  primi  stadi  evolutivi  dell'apparato  sporifero. 


SCLERODERMATACEAE  Fischer. 
Phlyctospora. 

Phlyctospora  fusca  Corda. 

Phlyctospora  fusca  Corda,  in  "  Sturm  Deutschland  Flora  „,  III  Abth. ,  19-20  Heft,  1841, 
p.  51,  tab.  16.  —  Tulasne,  F.  H.,  p.  99.  —  Winter,  in  "  Rabenhorst  Plora  „,  p.  885, 
voi.  I.  —  G.  Beck,  Ueber  die  Sporeribildung  der  Gattung  Phlyctospora  Corda,  "  Bericbt. 
d.  d.  Boi  Gesell.  „,  Band  VII,  1889,  p.  212-216. 

Scleroderma  fuseum  E.  Fischer,  in  "  Engler  und  Prantl.  Naturi.  Pflanzenfaniilien  „,  toni.  I, 
Abt.  I,   1900,  p.  336. 

Un  solo  esemplare  di  questa  specie,  nota  finora  di  Boemia  (Corda),  di  Francia  (Tu- 
lasne), di  Moravia  (Welwich) ,  di  Russia  (Bucholtz,  "  Beitrage  zur  Morphologie  und 
Systematik  der  Hypogaeen  „,  Riga,  1902,  p.  172  e  seg.),  di  Portogallo  (Saccardo, 
Sylloge,  VII,  p.  179),  esiste  nella  collezione  Cesati,  raccolto  nel  1859  a  Biella 
(S.  Giovanni).  Lo  Scleroderma  fuseum  è  qui  menzionato  per  riguardo  alla  sua  stazione 
quasi  ipogea.  L'esemplare  di  Cesati  concorda  esattamente  con  un  autoptico  di  Hollos, 
raccolto    nell'agosto    1899,  in  Transilvania. 

ONYGENACEAE  (Fischer). 

Onygena  Fers. 

Onygena  equina  (Wild)  Pers. 

(Vedi  la  Bibliografia  relativa  a  queste  specie  in:  Fischer,  Tuberaceen  und  Hemiasceen  e 
"  Kabenborst  Kryptog.  Fior.  „,  V  Abth.  Leipzig,  1897,  p.  103,  e  nel  recente  lavoro  di 
Marshall-  Ward). 

Di  questa  specie,  la  cui  parentela  cogli  Elaphomycetes  e  cogli  Aspergini  è  stret- 
tissima, trovai  alcuni  esemplari  nelle  raccolte  Cesati  e  Beccari,  provenienti: 

Da  Riva  Valdobbia,  26  dicembre  1863  ed  ivi  raccolta  dall'Abate  Carestia  (sul- 
l'unghia putrescente  di  un  bovino)  —  (V.  Bresadola  e  Saccardo,  Enumerazione  dei 
Funghi  della  Valsesia,  Genova,  "  Malpighia  „,  1897).  Da  Bocca  d'Arno,  1863  (O.  Bec- 
cari) (sullo  zoccolo  di  un  cavallo). 

DISCOMYCETES 

Hydnocystis  Beccari  Mattirolo. 

Hydnocystis  Beccari  Mattirolo,  Gli  Ipogei  di  Sardegna  e  di  Sicilia,  "  Malpighia  „,  anno  XIV 
1900,  p.  57  e  seg. 
Senza  indicazione  precisa  di  località,  contiene  la  raccolta  Beccari,  alcuni  fru stuli 
di  questa  specie  che,  già  da  me  indicata  per  la  Toscana  e  la  Sicilia,  venne  nel  maggio 


35  I    FUNGHI   IPOGEI    ITALIANI  365 

del  corrente  anno  scoperta  dal  Dott.  G.  Gola,  fra  le  radici  di  un  Oistus  proveniente 
dalla  Scaffa  presso  Cagliari. 

Nel  lavoro  citato,  ho  abbastanza  ampiamente  trattata  la  questione  relativa  alla 
sistemazione  del  genere  Hydnocystis  Tul.  fra  i  Diseomycetes,  per  dovervi  ritornare  sopra 
in  questa  occasione;  in  appoggio  alle  mie  conclusioni  credo  opportuno  accennare  ora, 
che  in  un  esemplare  di  questa  specie,  della  raccolta  Tulasne  del  Museo  di  Parigi, 
osservai  il  parassita  classico  delle  Pezize  limicole  (della  Lachnea  art  nieola  Quél,  ad  es.). 

La  presenza  della  Melanospora  Zobelii  Corda  sull'imenio  delle  Hydnocystis  (fatto 
già  osservato  da  Tulasne,  v.  F.  H.,  p.  186)  mi  pare  una  nuova  conferma  delle  re- 
lazioni intime  fra  le  Pezizae  e  le  Hydnocystis. 

L'esemplare  della  raccolta  Tulasne,  determinato  col  nome  di  Hyd.  arenaria  Tul., 
concorda  esattamente  colla  mia  Hydn.  Beccavi  e  non  si  adatta  alla  descrizione 
della  Hyd.  arenaria;  cosicché  io  non  dubito  di  affermare  che,  anche  la  mia  specie 
debba  esser  ritenuta  propria  della  Flora  idnologica  di  Francia.  L'esemplare  da  me 
esaminato  proveniva  dalle  isole  di  Ht/ères. 


OOPHYCOMYCETES  (?) 
Endogone  Link. 

Endogone  lactiflua  Berk. 

Endogone  lactiflua  Berk.,  Notices  of  british  hypogaeus  Fungi,  "  Annal  and  Magaz.  of  Naturai 
Hystory  „,   voi.    XVIII,    1846,   p.    81.  -    Tulasne,  F.  H.,  p.  183.  —  Hesse,  H.  D., 
Band  II,  77,  78.  —  Fischer,  loc.  cit,  p.  126.  —  Mattirolo,  Elenco  chi  "  Fungi  Hypogaei  „ 
raccolti  nelle  foreste  di   Vallombrosa,   "  Malpighia  „,  1900. 
Questa  bella  specie,  da  me  già  raccolta  in  alcune  località  della  Toscana  (Vallom- 
brosa,   Bivigliano),    venne    incontrata    dal    Beccaei    nell'  ottobre    1862    nella    Selva 
Pisana,  nei  luoghi  umidi   sotto  le  foglie,  nei  boschi  di  Quercie.  La  determinazione  fu 
avvalorata  col  paragone  di  materiali  autoptici  di  Berkeley  appartenenti  al  Museo  di 
Parigi.   Per   le   ricerche  di  Baccarini  e  Pampaloni  (1)   pare   accertato  che  i  funghi 
ipo  o  semi-ipogei  del  genere  Endogone  debbano   riguardarsi  come   appartenenti  agli 
Ooficomiceti. 


(1)  Baccarini,  So2>ra  i  caratteri  di  qualche  Endogone,  App.  al  "  Nuovo  Giorn.  Bot.  Ital.  „,  voi.  X, 
1903,  N.  1.  —  Id.,  Sopra  alcuni  microrganismi  del  Dissodile  di  Melilli,  "  Bull.  Acc.  Gioenia  „.  Catania. 
—  Pampaloni,  Microfauna  e  microflora  del  Dissodile  di  Melilli,  "  R.  Acc.  Lincei  „,  voi.  XI,  2°  sem., 
serie  5',  fase.  9".  —  Id.,  /  resti  organici  nel  Dissodile  di  Melilli  in  Sicilia,  *  Paleontografia italiana,, 
voi.  Vili.  Pisa,  1902. 


366  ORESTE    MATTIROLO    I    FUNGHI    IPOGEI    ITALIANI  36 


SPIEGAZIONE  DELLA  TAVOLA 


Fig.  1,  2.  —  Leucogaster  badius  Mattirolo,  nov.  sp.  Aspetto  esterno  di  un  individuo  essiccato 

e  sezionato. 
,3.  —  Spore,  dello  stesso.  Obb.  8;  Ocul.    2   Hartnack;   Cam.    lucida   Nachet;  i,  involucro 

gelatinoso. 
,     4,  5,  6.  —  Gastrosporium  simplex  Mattirolo,  nov.  sp.  Aspetto  esterno  di  alcuni  individui 

in  grandezza  naturale. 
n     7.  —  Id.  Id.  Aspetto  di  un  individuo  sezionato  conservato  in  Erbario.  G,  Gleba. 
„     8.  —  Id.  Id.  Sezione  del  peridio.  5.  E.    strato  esterno;    8.   I.    strato   interno.    S.    spore; 

Obb.   4  Hartnack;  Ocul.  2;  Cam.  L.  Nacb.  (per  segnare  i  contorni  della  figura). 
,     9.  —  Id.  Id.  Ife  decorrenti  nello  spessore  dello  strato  peridiale  interno   gelatinoso   (colo- 
rate con  rosso  di  Rutenio).  Obb.  10  Hart.  irnni.  ;  Ocul.  2;  C.  L.  N. 
„     10.  —  Id.  Id.  Spore.  Ocul.  2;  Obb.  8  Hartnack;  C.  L.  N. 
,     11.  —  Pachyphloeus  Saccardoi  Mattirolo,  nov.  sp.   Sezione,   per  far  vedere:    TV.   trama; 

V.  E.  vene  esterne;  As.  aschi.  Obb.  2;  Ocul.  2.  Figura  a  metà  schematica. 
,      12,  13.  —  Id.  Id.  Aschi  giovani.  Nella  fig.  12  è  rappresentato  un  asco  ancora  sprovvisto 

di  spore;  mentre  esse  sono  già  iniziate  nella  fig.  13.  Obb.  8;  Ocul.  2  Hartnack;  C.  L.  N. 
1     14.  —  Id.  Id.  Parafisi  filamentose,  decorrenti  fra  gli  aschi,  colorate  col  rosso  di  Rutenio. 

Obb.  10  imm.  acqua.  Hartnack;  Ocul.  2;  C.  L.  N. 
„      15.  —  Id.  Id.  Spore.  Obb.  8  Hart.;  Ocul.  2;  C.  L.  N. 

„     16.  —   Pachyphloeus  conglomeratus  Berk.  Spore.  Obb.  8;  Ocul.  2  Hartnack;  C.  L.  N. 
s     17.  —  Genea  sphaerica  Tul.,  forma  sporis  spinuloso-tuberculatis  Mattirolo.  Spore.  Obb.  8; 

Ocul.  2  microm.  Hartn.  ;  C.  L.  N. 


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LA  FISIOLOGIA  DELL'APNEA  STUDIATA  NELL'UOMO 


MEMORIA 

DEL    SOCIO 

ANGELO    MOSSO 


Approvata  nell'Adunanza  del  26  Aprile   1903. 


§  1. 
Le  variazioni  personali  nella  produzione  dell'apnea. 

La  presente  memoria  è  un  tentativo  per  studiare  l'apnea  sull'uomo.  Le  espe- 
rienze fatte  sopra  noi  stessi  hanno  il  vantaggio  che  oltre  al  tracciato  dei  movimenti, 
uno  sente  cosa  succede  dentro  di  sé.  È  stato  nelle  esperienze  fatte  sopra  me  stesso 
che  mi  accorsi  essere  la  funzione  del  ritmo  una  cosa  indipendente  da  quella  della 
forza  dei  movimenti  respiratori. 

Il  tracciato  1  fu  scritto  con  un  pneumografo  doppio  applicato  sopra  le  mammelle 
e  stretto  bene  intorno  al  torace  (1)  :  mi  ero  proposto  di  produrre  l'apnea  mentre  ero 
coricato  orizzontalmente,  e  di  respirare  subito  appena  che,  dopo  finite  le  dieci  inspi- 
razioni profonde,  venisse  un  impulso  interno.  Ero  pronto  a  respirare  al  minimo  cenno 
di  un  bisogno  che  si  svolgesse  spontaneamente  senza  partecipazione  della  volontà, 
avendo  per  parte  mia  solo  il  desiderio  di  dargli  sfogo  quando  si  presentasse:  ma 
trascorsero  38  secondi  (come  si  vede  sotto  nel  tracciato  del  tempo  scritto  ogni  2  se- 
condi) prima  che  questo  impulso  venisse,  e  quando  comparve,  le  respirazioni  erano 
più  forti  del  normale.  Ritornerò  in  seguito  su  questo  argomento  mostrando  come  in 
altre  persone  possa  dopo  l'apnea  diminuire  la  forza  dei  movimenti  respiratori.  Questo 
è  un  altro  tipo  di  apnea,  nel  quale  si  forma  dopo  il  riposo  una  scala  ascendente  di 
inspirazioni  successivamente  più  forti,  mentre  in  me  sono  decrescenti  le  respirazioni 
che  faccio  dopo  l'apnea.  In  questo  tracciato  si  vede  pure  che  la  tonicità  del  torace 
diminuisce  durante  l'apnea,  cos'i  che  il  torace  prende  una  posizione  espiratoria  più 
pronunziata  che  non  avesse  prima.  Questa  diminuzione  della  tonicità  per  effetto  del- 


ti) In  tutte  le  esperienze  contenute  in  questa  memoria  adoperai  il  pneumografo  doppio  quale 
trovasi  nel  catalogo  del  meccanico  Verdin,  di  Parigi,  figura  22. 


368 


ANGELO    MOSSO 


l'apnea  è  molto  più  notevole  nel  diaframma  e  può  considerarsi  come  un  fatto  costante. 
Finita  l'apnea,  nel  tracciato  1,  occorrono  circa  8  respirazioni  perchè  si  ristabilisca 
la  tonicità  primitiva. 

Sapendo  che  si  può  trattenere  volontariamente  il  respiro,  sembra  a  primo  aspetto 
che  tali  ricerche  non  debbano  dare  risultati  sicuri  :  ma  basta  fare  una  sola,  e  meglio 
parecchie  inspirazioni  profonde,  per  sentire  che  il  respiro  cessa  spontaneamente  per 
un  tempo  molto  più  lungo  di  quanto  non  possa  farsi  colla  inibizione  volontaria,  e  si 
prova  una  minore  molestia,  anzi  nessuna  mentre  dura  l'apnea.  Le  esperienze  procedono 
del  resto  con  tale  regolarità    che    scrivendo  il  respiro  uno  s'accorge  dalla   costanza 


Fig.  1. 

dei  risultati  che  non  entra  una  perturbazione  dovuta  all'elemento  incostante  della 
volontà. 

Negli  animali  l'apnea  si  produce  artificialmente  dilatando  i  polmoni  per  mezzo 
di  un  soffietto,  nell'uomo  le  inspirazioni  profonde  sono  fatte  volontariamente.  Questa 
è  una  differenza  che  merita  di  essere  esaminata  subito.  Generalmente  si  crede  che 
non  esista  la  fatica  nei  muscoli  della  respirazione,  ma  ho  già  pubblicato  i  tracciati 
dai  quali  si  vede  che  anche  dai  muscoli  respiratori  si  può  ottenere  una  curva  della 
fatica  simile  a  quella  che  si  ottiene  nei  muscoli  delle  estremità  per  mezzo  dell'ergo- 
grafo  (1).  Basta  fare  15  o  20  inspirazioni  profonde  l'una  dopo  l'altra  con  un  ritmo 
più  frequente  del  normale  per  conoscere  gli  effetti  della  fatica  respiratoria. 

Nelle  esperienze  sulla  apnea  non  è  tanto  la  diminuzione  successiva  nella  forza 
delle  inspirazioni  profonde  che  dobbiamo  prendere  in  considerazione  quanto  il  fatto 
centrale  della  fatica  che  tende  ad  abbreviare  il  periodo  di  riposo  dell'apnea  se  si 
prolungano  per  un  tempo  troppo  lungo  le  inspirazioni  profonde.  Per  dare  un  esempio 
del  rapporto  che  passa  fra  il  numero  delle  inspirazioni  profonde  e  la  durata  del- 
l'apnea riferisco  una  esperienza  fatta  sopra  di  me.  Dopo  il  numero  delle  inspirazioni 
profonde  è  scritto  il  tempo  in  secondi  che  ha  durato  l'apnea.  Fra  una  esperienza  e 
l'altra  intercedono  3  minuti. 


1  =  18'       3  =  22" 


6 


24"       9  =  22"       12  =  18"       15  =  18". 


Il  massimo  effetto   l'ottenni  facendo  6   inspirazioni   profonde,  e   dopo  il   tempo 
dell'apnea  diminuiva,  sebbene  io  sentissi  una  leggera  vertigine  per  i  mutamenti  suc- 


(1)  A.  Mosso,  Fisiologia  dell'uomo  sulle  Alpi,  1898.  p.  34. 


3  LA    FISIOLOGIA    DELL'APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO  369 

ceduti  nella  circolazione  del  sangue.  Sopra  di  me  bastavano  dunque  6  inspirazioni 
profonde  per  produrre  la  durata  massima  dell'apnea.  Ma  questo  vale  solo  per  questo 
giorno.  Infatti  nel  primo  tracciato  si  vede  che  per  dieci  inspirazioni  l'apnea  fu  molto 
più  lunga  e  durò  38".  Per  evitare  la  complicazione  della  fatica  respiratoria,  mi  limitai 
nel  maggior  numero  delle  esperienze  a  produrre  l'apnea  con  un  numero  minore  di 
inspirazioni. 

Comincierò  colle  esperienze  eseguite  facendo  una  sola  inspirazione  profonda. 
Occorre  a  tale  scopo  di  lasciare  libero  il  respiro  e  respirare  tranquillamente  secondo 
gli  impulsi  automatici  senza  cercare  di  dominarli,  rimanendo  il  più  che  sia  possibile 
distratti.  Le  esperienze  fatte  stando  in  piedi  non  riescono  bene,  perchè  presto  uno  si 
affatica;  anche  da  seduti  non  sono  sempre  paragonabili  i  tracciati,  perchè  gli  organi 
dell'addome  possono  modificare  i  movimenti  del  diaframma;  da  coricati  non  si  è 
sempre  comodi  a  cagione  della  posizione  del  capo  e  del  peso  del  corpo  che  preme 
orizzontalmente,  e  perchè  sono  diverse  le  curve  della  colonna  vertebrale  nelle  inspi- 
razioni profonde.  Per  evitare  tali  inconvenienti  ho  preferito  di  fare  queste  esperienze 
appoggiandomi  ad  un  piano  inclinato  in  modo  che  il  mio  corpo  faceva  un  angolo 
di  45°  colla  verticale  :  a  tale  scopo  serve  comodamente  la  bilancia  a  tavola  costrutta 
dal  meccanico  Corino  per  studiare  i  mutamenti  della  circolazione  ;  ma  qualunque  tavola 
larga,  ricoperta  da  una  materassa,  può  servire  a  tale  scopo.  Più  che  tutto  occorre 
in  queste  esperienze  di  rimanere  tranquilli,  e  questo  l'ottenevo,  lavorando  solo  in  una 
stanza  coll'aiuto  di  un  assistente  e  cercando  di  mantenermi  distratto,  senza  che  però  la 
distrazione  fosse  troppo  completa.  I  movimenti  del  respiro  tanto  per  il  ritmo  come 
per  la  forza  procedono  in  tali  condizioni  con  grande  regolarità. 


Fig.  2. 

Il  tracciato  2  rappresenta  una  serie  di  inspirazioni  profonde  fatte  da  me  al  mat- 
tino, mentre  sto  poggiato  contro  il  letto  a  45°.  Il  pneumografo  doppio  è  messo  intorno 
al  torace,  all'altezza  delle  mammelle,  ed  oltre  che  dalla  cinghia  è  tenuto  in  tale  posi- 
zione da  un  nastro  che  passa  intorno  al  collo.  Ad  ogni  inspirazione  profonda  succede 
una  pausa  apnoica  di  circa  20"  ;  verso  il  fine  della  medesima  sento  che  il  cuore  batte 
più  forte,  come  succede  in  me  nel  leggero  grado  di  asfissia,  quando  si  ferma  il  re- 
spiro. Le  inspirazioni  che  compaiono  dopo  finita  l'apnea  sono  più  profonde  che  non 
siano  le  normali  e  vanno  rapidamente  decrescendo.  Ad  ogni  45"  un  assistente  mi 
avverte  che  devo  fare  una  nuova  inspirazione  profonda.  Il  tempo  è  segnato  ogni 
2  secondi.  Dopo  la  pausa  apnoica  solo  la  forza  delle  inspirazioni  cambia  e  va  decre- 
scendo: il  ritmo  è  quello  primitivo.  Nell'ultima  parte  si  vede  il  tempo  che  occorre 
perchè  le  inspirazioni  diventino  normali. 

Sebie  IL  Tom.  LUI.  v1 


370 


ANGELO    MOSSO 


Il  tracciato  3  è  una  esperienza  eguale  fatta  sopra  me  stesso,  scritta  con  velocità 
maggiore  del  cilindro.  Anche  qui  il  tempo  come  in  tutti  i  tracciati  successivi  è  segnato 
ogni  2  secondi  e  per  brevità    non    ripeterò    più    tale    avvertimento.  L'ultima  apnea 

I  invece  di  durare  20",  durò  solo  14".  Questo  esempio  indica 

l'errore  massimo  che  si  produce    in    me    quando    faccio   una 
serie  di  inspirazioni  profonde  egualmente  forti. 
Tale  errore   non  può  recare    una   perturbazione,  perchè 
nella  discussione  che  farò  dell'apnea  non  occorre  tenere  cal- 
colo di  simili  differenze.  Qualche  volta  le  variazioni  dipendono 
da  ciò  che  le  inspirazioni  che  generano   l'apnea   non   furono 
fatte  egualmente  profonde.  Per  economia  ho  tagliato  la  parte 
superiore  della  curva  e  quindi  il  lettore  non  può  più  giudicare 
di  queste  differenze;  sarebbe  stato  uno  spazio  troppo  grande 
di  sfondo  nero,  e  ho  creduto  meglio  sopprimerlo  nei  tracciati 
per  poterne   riprodurre   un  numero  maggiore.  Ma  i  tracciati 
delle  inspirazioni  saranno    dati    per    intero  anche  in  altezza, 
quando    sarà    indispensabile  di  mostrare    che  le   inspirazioni 
profonde  erano  egualmente  forti  in  una  serie  dove  sianvi  dei 
raffronti  importanti. 
Ripetendo    queste  esperienze  e  vedendo   che    il    respiro 
^       dopo  l'apnea  si  rinforza  senza  che  uno  cerchi  di  trattenerlo, 
g       e  sentendo  che  il  cuore  batte  più  forte  verso  il  fine  dell'apnea, 
subito  si  pensa  che  succederà  in  noi  quanto  Gad  aveva  osser- 
vato sul  coniglio  (1).  Levando  lo  sterno  senza  aprire  la  pleura 
e  facendo  la  respirazione  artificiale  egli  vide  che  l'orecchietta 
destra  del   cuore  aveva  il  suo   colore  venoso  ed    era    invece 
più   rossa  e  quasi    di    colore   scarlatto    la  sinistra:  prodotta 
l'apnea,  Gad  vide  che  i  movimenti  del  respiro  incominciavano 
solamente  quando  l'orecchietta  sinistra  era  diventata  notevol- 
mente più  scura  che  in  condizioni  normali.  Questo  prova  se- 
condo Gad  che  per  mezzo  delle  manipolazioni  del  respiro  ar- 
tificiale si  è  diminuita  la  eccitabilità  del  centro  respiratorio. 
L'aumento   della  forza  delle    respirazioni    che   osservasi 
nel  mio  tracciato  dopo  l'apnea  può  sembrare  a  primo  aspetto 
che  dipenda  dall'arresto  volontario  del  respiro:  ma  il  fenomeno 
è  più  complesso,  esso  corrisponde  ad  un  mutamento  della  ecci- 
tabilità del    centro  respiratorio  il  quale   vedesi   anche   negli 
animali  profondamente  addormentati  quando  si  produce  l'apnea 
per  mezzo  della  respirazione  artificiale. 
Nel  tracciato  4  si  scrive  il  respiro  di  un  coniglio  del  peso  di  1700  grammi,  leg- 
germente   addormentato  colla  iniezione   di   un  grammo   di   cloralio   nell'addome.  La 
trachea  aveva  un  tubo  a  T  il  quale  da  una  parte  era  libero  e  serviva  al  passaggio 
dell'aria,  dall'altra  era  in  comunicazione  con  un  timpano  di  Marey  che  scriveva  sul 


(1)  J.  Gad  und  Heymans,  Kurzes  Lehrbuch  der  Physiologie  des  Menschen,  1892,  p.  414. 


5  LA    FISIOLOGIA    DELL'APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO  371 

cilindro  rotante:  il  tempo  è  segnato  in  secondi.  La  respirazione  artificiale  si  fa  per 
mezzo  di  un  soffietto  :  durante  la  medesima  si  ferma  il  cilindro  e  si  chiude,  compri- 
mendo il  tubo  di  gomma,  il  passaggio  dell'aria  nel  timpano  a  leva  di  Marey.  La 
prima  volta  si  fanno  12  respirazioni;  la  seconda  15;  la  terza  18.  A  queste  piccole 
differenze  nel  numero  delle  respirazioni  da  12  a  15  a  18  corrisponde  un  aumento 
crescente  nella  intensità  e  nella  durata  dell'apnea. 


Fig.  4. 

Quando  ricomincia  il  respiro  le  prime  inspirazioni  sono  deboli  e  vanno  succes- 
sivamente crescendo.  Sorpassano  anche  qui  l'altezza  della  respirazione  normale  e  dopo 
decrescono.  Nel  ritmo  succede  dopo  l'apnea  un  leggero  rallentamento  e  quindi  cresce 
la  frequenza  nelle  respirazioni  successive. 

L'interpretazione  più  semplice  di  questi  tracciati  è  che  essi  rappresentino  una 
azione  diminuita  del  centro  respiratorio,  il  quale  riprendendo  a  funzionare  dopo  la 
pausa,  trova  una  quantità  di  anidride  carbonica  nel  sangue  maggiore  del  normale, 
come  dimostrò  Gad  nel  coniglio. 

Vi  sono  delle  persone  che  non  riescono  a  produrre  l'apnea  con  una  semplice 
inspirazione  profonda  in  nessuna  epoca  del  giorno,  mentre  altre  riescono  al  mattino 
e  non  nel  pomeriggio,  a  digiuno  e  non  dopo  aver  mangiato.  Qui  appare  subito  una 
prima  differenza  colle  ricerche  fatte  dal  Lcevy,  il  quale  trovò  che  la  eccitabilità  del 
centro  respiratorio  non  varia,  mentre  invece  vedremo  in  una  prossima  memoria  che 
essa  è  variabilissima  nell'uomo:  ma  costante  per  determinate  condizioni. 

Le  persone  da  me  studiate  trovai  che  possono  dividersi  in  tre  gruppi  : 

1°  quelle  in  cui  è  difficile  produrre  l'apnea;  nelle  quali  poche  respirazioni, 
cioè  quattro  o  cinque,  per  quanto  siano  profonde  e  rapide  l'una  dopo  l'altra,  non 
bastano  per  dare  un  arresto  del  respiro; 

2°  quelle  nelle  quali  si  riesce  con  una  inspirazione  profonda  a  produrre  l'apnea, 
ma  non  sempre,  cosicché  di  regola  occorre  farne  parecchie  ; 

3°  quelle  nelle  quali  si  ottiene  l'apnea  con  una  sola  inspirazione  profonda. 

Al  primo  gruppo  appartengono  generalmente  le  persone  giovani  fino  oltre  i 
20  anni.  Nel  secondo  stanno  comunemente  le  persone  fino  ai  50.  Nell'altro  (ed  anche 
qui  la  cosa  non  può  affermarsi  in  modo  assoluto)  le  persone  di  un'età  più  avanzata. 

Per  brevità  non  riproduco  alcun  tracciato  delle  persone  del  primo  gruppo  che 
diedero  risultati  negativi;  e  comincierò  con  quelle  del  secondo  gruppo.  Fra  queste 
ho  studiato  bene  l'inserviente  del  mio  laboratorio ,  Giorgio  Mondo ,  di  anni  44,  che 
da  oltre  22  anni  mi  serve  per  gli  studi  sulla  respirazione.  In  lui  una  sola  respira- 
zione non  basta  generalmente  a  produrre  l'apnea,  e  questo  succede  specialmente  nel 
pomeriggio  quando  è  un  po'  eccitato  per  il  lavoro  e  le  occupazioni  sue  e  dopo  che 
ha  mangiato.  Al  mattino  a  digiuno,  o  alla  sera  e  nel  pomeriggio,  quando  stando  co- 


372 


ANGELO    MOSSO 


ricato  viene  preso  dalla  sonnolenza,  è  più  facile  che  si  produca  l'apnea  per  una  sola 
inspirazione  profonda  come  si  vede  nella  fig.  5. 

Mentre  nei  miei  tracciati  la  scala  delle  inspirazioni  dopo  l'apnea  è   decrescente, 
cioè  finita   l'apnea  comincia  una  serie  di  inspirazioni  più   forti  del  normale  le  quali 


formano  una  scala  decrescente,  qui  come  in  altre  persone,  e  come  nel  tracciato  4  del 
coniglio,  la  scala  è  crescente:  cioè  le  respirazioni  incominciano  coll'essere  deboli  e 
gradatamente  si  rinforzano. 

Dimostrerò  meglio  in  un  prossimo  lavoro  come  la  funzione  del  ritmo  e  della 
forza  della  respirazione  siano  due  funzioni  distinte  del  centro  respiratorio  e  studierò 
quali  siano  i  fattori  che  le  modificano.  Per  ora  basta  supporre  che  in  questo  caso  la 
funzione  del  ritmo  divenga  attiva  prima  di  quella  che  accresce  la  forza  delle  inspi- 
razioni; mentre  invece  sopra  di  me  si  desta  meno  presto  la  funzione  del  ritmo  e 
diviene  solo  attiva  quando  l'altro  meccanesimo  dal  quale  dipende  la  forza  delle  inspi- 
razioni ha  già  ripreso  tutta  la  sua  attività.  Iu  alcune  persone  l'apnea  non  si  manifesta 
come  un  arresto  del  respiro,  ma  si  produce  solo  un  rallentamento  considerevole  del 
ritmo.  Esaminerò  questi  casi  in  una  prossima  memoria  sull'azione  dell'aria  rarefatta. 


Il  tracciato  6  ve  nne  scritto  dal  Dott.  Alberto  Aggazzotti,  di  anni  25,  nelle  ore 
del  pomeriggio  in  condizioni  analoghe  alle  precedenti:  cioè  stando  appoggiato  al 
piano  inclinato  a  45°.  Anche  in  lui  si  produce  in  modo  costante  una  serie  di  inspi- 
razioni crescenti.  Invece  di  una  sola  il  Dott.  Aggazzotti  faceva  quattro  inspirazioni 
profonde  e  molto  rapide  l'una  dopo  l'altra.  Ciò  malgrado  il  respiro  non  si  arrestava, 
e  l'apnea  si  manifesta  solo  con  una  diminuzione  nella  forza  delle  inspirazioni  che 
vanno  dopo  gradatamente  rinforzandosi,  essendovi  nel  principio  un  leggiero  aumento 
nella  frequenza  del  respiro. 


La  diminuzione  di  eccitabilità  del  centro  respiratorio  nell'apnea. 

Il  tempo  che  dura  l'apnea  e  il  numero   delle   inspirazioni  che  bisogna  fare  per 
produrla  sono  estremamente  variabili  e  dipendono  dallo  stato  di  eccitabilità  del  centro 


LA    FISIOLOGIA    DELL  APNEA    STUDIATA    XELL  UOMO 


373 


respiratorio.  I  mutamenti  che  si  producono  nei  gas  del  sangue  per  la  ventilazione 
maggiore  o  minore  nei  polmoni,  si  rendono  evidenti  solo  in  quanto  essi  riescono  a 
modificare  la  eccitabilità  del  centro  respiratorio  per  produrre  una  sospensione  dei 
moti  del  respiro;  essi  sono  il  mezzo  per  agire  sul  centro 
respiratorio,  ma  non  sono  essi  i  fattori  preponderanti. 

Per  vedere  come  si  spengano  i  movimenti  del  respiro 
nell'apnea  occorre  prendere  un  animale  che  abbia  una  ec- 
citabilità forte  del  centro  respiratorio  come  si  vede  nel 
tracciato  7. 

È  un  cane  del  peso  di  9  Kg.,  il  quale  fu  avvelenato 
col  curare,  esso  ha  i  vaghi  intatti  e  tutti  i  muscoli  sono 
paralizzati  eccetto  il  diaframma  che  si  contrae  con  forza  e 
basta  a  mantenere  la  respirazione.  Faccio  la  respirazione 
artificiale  per  mezzo  di  un  soffietto  messo  in  comunicazione 
colla  trachea.  La  respirazione  artificiale  non  fa  scomparire 
subito  le  respirazioni  normali  e  queste  vanno  lentamente 
decrescendo  fino  a  che  cessano.  Sospesa  la  respirazione  arti- 
ficiale l'apnea  dura  poco.  Il  tempo  è  scritto  ogni  2  secondi. 
Ripeto  nuovamente  la  respirazione  artificiale  e  questa 
volta  invece  di  9  il  cane  eseguisce  spontaneamente  solo 
4  respirazioni  decrescenti.  Ripeto  una  terza  volta  la  respi- 
razione artificiale  e  succedono  solo  3  inspirazioni  spon- 
tanee. 

In  questo  tracciato  nel  quale  sono  scritte  contempo- 
raneamente le  inspirazioni  naturali  e  quelle  artificiali,  si 
vede  come  va  diminuendo  l'eccitabilità  del  centro  respira- 
torio fino  alla  produzione  dell'apnea.  La  frequenza  del  ritmo 
dopo  l'apnea  è  minore,  ed  è  anche  minore  l'altezza  delle 
inspirazioni:  e  nelle  tre  volte  che  si  produsse  l'apnea  fu 
necessario  un  numero  decrescente  di  inspirazioni  artificiali 
per  arrestare  i  moti  spontanei  della  respirazione. 

Nel  diaframma  diventarono  più  evidenti  e  più  forti  le 
ondulazioni  della  tonicità  muscolare:  e  di  questo  fenomeno 
parlerò  in  un  prossimo  lavoro. 

Per  mostrare  che  i  gas  del  sangue  non  hanno  un'im- 
portanza decisiva  nella  produzione  dell'apnea,  ma  che  questa 
può  ottenersi  più  o  meno  rapidamente,  più  completa  o 
meno,  secondo  lo  stato  di  eccitabilità  del  centro  respira- 
torio, si  può  fare  la  seguente  esperienza. 

Ad  un  cane  amministrai  due  grammi  di  cloralio  nella 
vena  giugulare  e  quando  era  profondamente  tranquillo  gli 
feci  la  tracheotomia  e  vidi  che  sei  inspirazioni  profonde  produc  evano  regolarmente 
un  arresto  del  respiro  di  circa  20".  Lasciato  l' animale  tranquillo,  dopo  un'ora  era 
cessata  l'azione  del  cloralio  e  l'animale  si  era  bene  svegliato;  il  medesimo  numero 
di  inspirazioni  fatte   col  soffietto    non  bastava  più  a  produrre    1'  apnea  e  neppure  il 


374 


ANGELO    MOSSO 


doppio  bastava;  ma  bisognava  prolungare  la  respirazione  artificiale  per  un  tempo 
quattro  volte  più  lungo  onde  ottenere  l'apnea. 

Esamineremo  con  altre  esperienze  simili  i  risultati  che  ottenni  facendo  l'analisi 
del  sangue;  posso  intanto  affermare  che  la  condizione  dell'apnea  non  dipende  dallo 
stato  momentaneo  dei  gas  del  sangue:  perchè  questo  può  essere  eguale  e  mancare 
l'apnea,  quando  non  si  riesca  colla  ventilazione  polmonare  a  diminuire  l'eccitabilità 
del  centro  respiratorio. 

Onde  convincersi  che  nell'apnea  è  depressa  la  eccitabilità  del  centro  respiratorio 
basta  guardare  il  tracciato  8.  Esso  è  preso  da  un  coniglio  del  peso  di  1700  gr.  al 
quale  si  era  iniettato  un  gramma  di  cloralio  nell'addome:  quando  fu  addormentato 
si  legò  nella  trachea  un  tubo  a  T,  un  ramo  lo  si  mise  in  comunicazione  con  un  tim- 
pano di  Marey  che  scriveva  sul  cilindro  i  movimenti  della  corrente  dell'  aria  respi- 
rata che  passava  nell'altro  ramo  aperto.  Nel  punto  A  si  ferma  il  cilindro  e  si  fanno 


Fig.  8. 


12  forti  movimenti  respiratori  col  soffietto  e  poi  torna  a  mettersi  in  movimento  il 
cilindro.  Il  respiro  si  ferma  per  48'':  ma  i  movimenti  non  tornano  più  all'altezza  di 
prima,  se  non  dopo  un  altro  minuto  dalla  fine  del  presente  tracciato.  Il  tempo  è 
scritto  ogni  2  secondi. 

Che  l'eccitabilità  del  centro  respiratorio  sia  diminuita  durante  l'apnea,  l'aveva 
dimostrato  primieramente  Rosenthal,  quando  trovò  che  l'eccitazione  elettrica  del  mon- 
cone centrale  del  vago  rimane  senza  effetto  nell'apnea  (1). 

Dopo  lo  dimostrarono  Kronecker  e  Marckwald  irritando  direttamente  il  centro 
respiratorio  nell'apnea  (2).  L'azione  dell'apnea  si  estende  a  tutto  il  sistema  nervoso 
perchè  la  pupilla  si  restringe  quando  cessa  il  respiro,  e  la  pressione  nelle  arterie 
diminuisce  perchè  si  dilatano  i  vasi  sanguigni,  e  Leube  trovò  che  cessano  le  convul- 
sioni prodotte  dalla  stricnina. 

Knoll  (3)  aveva  già  veduto  che  per  mezzo  del  cloroformio  e  dell'etere  è  più  facile 
produrre  l'apnea  negli  animali  e  che  essa  dura  più  lungamente,  e  lo  stesso  avevano 
trovato  Kionka  e  Filehne  (4)  per  mezzo  della  morfina,  e  quanto  più  intenso  era  l'av- 
velenamento tanto  maggiore  era  l'apnea. 

Anche  nell'uomo  succede  una  diminuzione  nell'eccitabilità  del  centro  respiratorio 
per  effetto  dell'apnea  simile  a  quella  che  osservammo  nel  tracciato  7  preso  su  di 
un  cane.  Riferisco  una  esperienza  fatta  sopra  di  me  (fig.  9).  Dopo  colazione  alle  14 


(1)  '  Archiv  f.  Phys.  „  1879,  p.  593. 

(2)  "  Arch.  f.  An.  und  Phys.  „,  1867,  p.  629. 

(3)  Knoll,  "  Akad    Berichte,  Wien  „,  1876,  p.  233. 

(4)  Filehne  und  Kionka,   "  Pfliiger's  Archiv  „,  1896,  p.  234. 


LA    FISIOLOGIA    DELL  APNEA    STUDIATA    NELL  UOMO 


37.: 


mi  seggo  e  applicato  il  pneumografo  doppio  sul  torace  all'altezza  delle  mammelle  sto 
15  minuti  immobile,  perchè  il  respiro  diventi  normale  e  regolare.  Ad  un  certo  punto 
un  assistente  mi  dice  di  fare  tre  profonde  inspirazioni.  La  pausa  che  succede  dura 
solo  9".  Il  tempo  è  scritto  ogni  2  secondi.  Dopo  l'15" 
che  feci  la  prima  inspirazione  profonda  sono  nuova- 
mente avvertito  che  devo  fare  tre  inspirazioni  pro- 
fonde. Questa  volta  l'apnea  dura  16".  Dopo  un  tempo 
eguale  al  primo,  ripeto  tre  profonde  inspirazioni  e 
l'apnea  dura  22".  Faccio  una  quarta  volta  tre  inspi- 
razioni e  l'apnea  dura  nuovamente  22"  e  dopo  conti- 
nuando non  cresce  più  ma  rimane  costante  22". 

Aspetto  15  minuti  senza  fare  alcun  esercizio  di 
apnea,  stando  seduto  perchè  il  centro  respiratorio 
torni  ad  essere  nelle  condizioni  di  prima:  facendo  nuo- 
vamente tre  inspirazioni  il  periodo  di  arresto  è  sempre 
di  20"  a  22". 

Delle  esperienze  simili  le  feci  con  eguale  risul- 
tato sul  meccanico  del  mio  Laboratorio,  Luigi  Corino, 
d'anni  51,  ma  non  mi  riuscirono  su  altre  persone  e 
ricorderò  fra  queste  l'inserviente  Giorgio  Mondo  e  il 
Dott.  Aggazzotti,  nei  quali  sono  meno  evidenti  e 
spesso  mancano  completamente  i  fenomeni  dell'apnea 
per  tre  ed  anche  per  sei  inspirazioni  profonde. 

Malgrado  queste  eccezioni  si  può  tuttavia  consi- 
derare come  una  regola  confermata  nel  cane  e  nel 
coniglio,  che  quando  si  produce  per  la  prima  volta 
l'apnea  con  un  numero  determinato  di  respirazioni, 
questa  ha  una  durata  minore  che  non  abbia  l'apnea 
successiva  fatta  con  un  numero  eguale  di  respirazioni, 
e  questa  è  più  breve  della  terza. 

Tali  differenze  si  osservano  solo  se  l'apnea  viene 
fatta  ad  intervalli  di  tempo  non  troppo  lunghi,  e  di- 
pendono dalla  diminuzione  di  eccitabilità  che  produce 
nel  centro  respiratorio  ogni  singola  apnea,  cosi  che 
riprendendo  la  respirazione  artificiale  il  centro  respi- 
ratorio non  ebbe  ancora  tempo  a  rimettersi  comple- 
tamente dal  disturbo  subito  nelle  precedenti  apnee. 

Qualche  volta  succede  di  trovare  delle  persone  nelle 
quali  l'eccitabilità  del  centro  respiratorio  è  così  grande 
che  invece  di  scemare  la  forza  delle  respirazioni  dopo 
averne  fatte  alcune  profonde  invece  aumenta. 

Dei  vari  esempi  che  mi  capitarono  ne  riferisco  uno  solo  :  Depaoli  Maria  è  una 
donna  robusta  di  22  anni  nella  quale  non  è  possibile  produrre  l'apnea  con  una  serie 
di  inspirazioni  profonde.  Si  osserva  anzi  il  fenomeno  contrario;  perchè  quanto  più 
durano  le  inspirazioni  profonde  e  sono  più  numerose,  altrettanto  cresce  dopo  la  forza 


376  ANGELO    MOSSO 


10 


del  respiro  per  effetto  della  fatica.  In  questa  donna  un  arresto  di  20"  dei  movimenti 
respiratori  non  produce  alcun  effetto,  come  si  vede  nel  tracciato  10.  Essa  è  appog- 
giata alla  tavola  imbottita  nell'inclinazione  di  45°.  Con  un  pneumografo  doppio  sul 
torace  stretto  sopra  le  mammelle  ed  un  altro  sull'addome  fissato  all'altezza  dell'om- 
bellico.  La  linea  superiore  è  quella  del  torace,  la  inferiore  dell'addome.  Le  chiudo 
le  narici  comprimendole  colle  dita  durante  20",  e  si  vede  che  non  succede  alcun 
mutamento  nel  torace  e  nel  diaframma,  e  i  movimenti  respiratori  ricominciano  inal- 
terati colla  medesima  forza  di  prima.  Ripeto  una  seconda  volta  l'esperienza  con  eguale 
assenza  di  reazione.  Questa  insensibilità  del  centro  respiratorio  ai  mutamenti  del 
sangue,  apparve  anche  più  evidente  quando  le  feci  respirare  dell'anidride  carbonica; 
ma  di  questo  parlerò  in  una  prossima  memoria.  Dirò  solo  che  la  respirazione  in  me 
si  cambia  in  modo  profondo  per  delle  inalazioni  di  anidride  carbonica,  che  in  questa 
donna  non  producevano  alcun  effetto  e  questo  dimostra  che  esistono  delle  differenze 
profonde  nella   eccitabilità   del   centro   respiratorio. 


Fig.  10. 

È  noto  per  le  ricerche  di  vari  autori,  e  per  quelle  recenti  di  Aronson  (1)  che 
nei  neonati  non  si  riesce  a  produrre  l'apnea  e  nei  gatti  anche  una  ventilazione  che 
durasse  cinque  minuti  non  era  capace  di  produrre  una  pausa  del  respiro.  La  spiega- 
zione che  diede  Aronson  di  questo  fatto  non  mi  persuade;  per  comprendere  questo 
stato  refrattario  del  centro  respiratorio  ai  mutamenti  del  sangue  che  succedono  ad 
una  forte  ventilazione,  a  me  pare  molto  più  semplice  di  ammettere  che  le  cellule  del 
centro  respiratorio  funzionino  per  virtù  propria  e  non  si  lascino  influenzare  da  questi 
mutamenti  dei  gas  del  sangue. 

Questo  vale  per  uno  stato  di  grande  vitalità  del  centro  nervoso,  e  specialmente 
negli  animali  neonati  e  molto  giovani.  Quando  coi  cambiamenti  del  respiro,  facendo 
una  ventilazione  forte  del  polmone  si  riesce  a  produrre  l'apnea,  è  segno  che  la  vita- 
lità non  è  più  così  grande,  e  che  si  può  facilmente  produrre  una  depressione  nella 
eccitabilità  delle  cellule  nervose.  Ritornerò  su  questo  argomento  in  una  prossima 
memoria  sulla  fisiologia  generale  della  respirazione;  per  ora  mi  basta  mostrare  che 
le  persone  nelle  quali  per  mezzo  di  una  serie  di  inspirazioni  profonde  non  sono  riu- 


(1)  H.  Aronson,   Ueber  Apnoe  bei  Kaltblutern  und  neugeborenen   Saugethieren ,  '  Arch.   f.   Phys.  ,, 
pag.  267. 


11 


LA    FISIOLOGIA    DELL  APNEA    STUDIATA    NELL  UOMO 


377 


scito  a  produrre  l'apnea,  erano  anche  insensibili  alla  diminuzione  dell'ossigeno  e  ad 
un  aumento  dell'anidride  carbonica  nel  sangue. 

Un  fenomeno  simile  lo  si  può  osservare  in  modo  molto  più  evidente  nei  cani 
leggermente  curarizzati  che  hanno  tutti  i  riflessi  esagerati.  Questo  lo  vediamo  in 
questo  cane  della  Fig.  11  :  In  alto  è  scritta  la  respirazione  toracica,  in  basso  l'ad- 
dominale;  il   tempo   è  segnato  ogni  2". 

Tutte  tre  le  volte  che  facciamo  il  respiro  artificiale  aumenta  la  forza  delle  re- 
spirazioni, e  poi  queste  vanno  rapidamente  decrescendo.  L'aumento  della  forza  è 
maggiore  nel  diaframma  che  non  sia  nel  torace. 


Fig.  11. 


I  tracciati  riprodotti  in  questo  capitolo  mostrano  quali  siano  le  difficoltà  che 
presentansi  in  questo  studio  per  le  variazioni  individuali,  e  per  i  cambiamenti  che 
succedono  nella  stessa  persona  in  condizioni  differenti.  Quando  però  le  esperienze 
siano  limitate  a  delle  persone  che  si  conoscono  bene  e  queste  si  studino  nelle  condi- 
zioni del  determinismo  sperimentale,  le  variazioni  non  sono  punto  di  ostacolo,  anzi 
costituiscono  un  mezzo  efficace  per  l'analisi  dell'apnea,  perchè  lavorando  nelle  stesse 
condizioni,  i  fenomeni  sono  costanti  in  ogni  individuo  e  le  variazioni  individuali  aiu- 
tano a  conoscere  meglio  la  natura  dell'apnea. 


§  3. 
Inspirazioni  coli 'ossigeno  —  l'anidride  carbonica  e  l'idrogeno. 


Facendo  una  inspirazione  profonda  coll'ossigeno  non  si  trova  un  effetto  diverso 
da  quello  che  si  produca  facendo  una  inspirazione  egualmente  profonda  coll'aria:  e 
neppure  respirando  a  lungo  l'ossigeno  si  produce  più  rapidamente  l'apnea  di  quanto 
succeda  coll'aria  atmosferica.  Queste  esperienze  hanno  una  grande  importanza  per  la 
dottrina  dell'apnea,  ed  è  stato  Hoppe-Seyler  il  primo  che  abbia  fatto  notare  come 
l'aumento  dell'ossigeno  nel  sangue  non  abbia  importanza  nella  produzione  dell'apnea. 
Vi  fu  intorno  a  questo  argomento  un  lungo  dibattito  che  non  è  qui  il  luogo  di  pren- 
dere minutamente  in  esame  perchè  si  trova  riferito  in  quasi  tutti  i  lavori  sull'apnea. 

Seme  II.  Tom.  LUI.  x1 


378  ANGELO    MOSSO  12 

Dirò  solamente  che  le  ultime  ricerche  di  Fredericq  (1)  colle  quali  determinò  la  ten- 
sione dell'ossigeno  nel  sangue  arterioso  di  cani  che  respiravano  dei  miscugli  gassosi 
ricchi  in  ossigeno,  permisero  di  troncare  tale  questione  mostrando  che  l'aumento  del- 
l'ossigeno nel  sangue  ha  pochissima  influenza  nella  produzione  dell'apnea.  Infatti  la 
tensione  dell'ossigeno  raggiunge  il  70  °/0  di  un'  atmosfera  nel  sangue  di  un  cane  il 
quale  respira  dell'ossigeno  puro,  senza  che  si  produca  l'apnea. 

Venne  cosi  definitivamente  abbandonata  la  dottrina  di  Pfliiger  il  quale  ammetteva 
nelle  prime  ricerche  fatte  per  analizzare  l'apnea,  che  nel  sangue  vi  sia  una  provvista 
di  sostanze  facilmente  ossidabili  le  quali  producono  la  dispnea,  e  che  devono  essere 
continuamente  distrutte  dall'ossigeno.  Quando  si  produce  una  lunga  ventilazione  dei 
polmoni,  facciamo  aumentare  il  contenuto  dell'ossigeno  libero  nel  plasma  e  nei  tes- 
suti e  diminuisce,  o  si  distrugge,  questa  provvista  di  sostanze  facilmente  ossidabili. 
In  seguito  a  tale  modificazione  del  sangue  l'animale  nell'apnea  consuma  meno  ossi- 
geno, o  quasi  punto,  perchè  non  esistono  più  queste  sostanze  facilmente  ossidabili  ; 
e  solo  lentamente  tornano  ad  accumularsi.  Ammesso  che  la  mancanza  di  ossigeno 
fosse  la  causa  dei  movimenti  respiratori,  Pfliiger  credeva  di  aver  spiegato  in  questo 
modo  l'apnea. 

Anche  Rosenthal  (2)  al  quale  dobbiamo  la  parola  apnea,  e  che  studiò  profonda- 
mente questo  fenomeno,  credeva  che  il  grado  di  attività  del  centro  nervoso  della 
respirazione  si  dispiegasse  in  ragione  inversa  del  contenuto  in  ossigeno  del  sangue, 
e  che  succedesse  l'apnea  quando  il  sangue  era  saturo  di  ossigeno  ;  ma  queste  dottrine 
insieme  a  quella  di  Hoppe-Seyler  (3)  che  faceva  dipendere  l'apnea  dalla  stanchezza 
dei  muscoli  respiratori  non  servono  per  spiegare  l'apnea. 

Per  brevità  non  riproduco  i  tracciati  delle  esperienze  che  feci  respirando  l'ossi- 
geno, non  essendosi  osservato  alcuna  differenza  in  raffronto  coll'aria,  tanto  nelle  per- 
sone nelle  quali  si  produceva  facilmente  l'apnea,  quanto  in  quelle  nelle  quali  era  più 
difficile  e  nelle  altre  in  cui  non  si  poteva  ottenere. 

Che  l'ossigenazione  più  abbondante  del  sangue  non  sia  il  fattore  dell'apnea  era 
già  risultato  dalle  esperienze  di  Thiry  fin  dal  1865,  il  quale  era  riuscito  a  produrre 
l'apnea  con  una  mescolanza  a  parti  eguali  di  aria  e  di  idrogeno  (4).  Ma  è  stato 
Head  (5)  il  fisiologo  che  recentemente  ha  studiato  meglio  la  respirazione  dei  gas 
indifferenti  e  riuscì  a  produrre  l'apnea  nel  coniglio,  insufflando  per  mezzo  di  una 
pompa  dell'idrogeno  puro  nei  polmoni. 

Esperienze  simili  possono  anche  farsi  sull'uomo,  come  si  vede  nel  tracciato  12. 
Mi  servo  di  due  cilindri  della  capacità  di  circa  50  litri,  come  quelli  che  si  trovano 
nel  commercio  per  trasportare  l'ossigeno  compresso  a  10  atmosfere.  Uno  di  questi 
cilindri  è  pieno  di  aria  compressa  a  2  atmosfere  e  l'altro  è  pieno  di  idrogeno  a 
2  atmosfere.  Una  maschera  che  serve  a  coprirmi  la  faccia  è  messa  in  comunicazione 
con  un  cilindro  pieno  di  idrogeno  compresso.  La  corrente    di   idrogeno  è   così  forte 


(1)  "  Centralblatt  f.  Physiologie  ,,  1894,  p.  34. 

(2)  J.  Rosenthal,  Altes  und  Neues  ilber  Athcmbewegungen,  "  Biologisches  Centralblatt  „,  I  B.,  p.  121. 

(3)  Hoppe-Seiler,   Ueber  die   Ursache  der  Athembewegungen,  "  Zeitschrift  f.   phys.  Chemie  „,  1879, 
m  B.,  p.  105. 

(4)  Fbedehicq,  Dictionnaire  de  Physiologie  par  Charles  Richet,  Tome  I.  634. 

(5)  Head,  On  the  Regulation  of  Respiration,  "  Journal    of  Physiology  „,  Voi.  X,  1889,  p.  40. 


13 


LA    FISIOLOGIA    DELL'APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO 


379 


quando  si  apre  la  chiavetta,  che  sono  sicuro  di  respirare  solo  idrogeno.  Dopo  fatta 
questa  prima  parte  della  esperienza  nella  quale  si  vede  in  R  che  l'apnea  durò  16",  un 
poco  meno  di  quanto  per  solito  succeda  in  me  dopo  una  inspirazione  profonda,  faccio 
una  esperienza  coll'aria  contenuta  in  un  cilindro  eguale  e  compressa  egualmente  a 
2  atmosfere.  Adopero  la  medesima  maschera  e  faccio  una  sola  inspirazione  mentre 
che  passa  una  forte  corrente  d'aria,  e  non  si  vede  in  A  una  differenza  notevole  nella 
durata  dell'apnea. 


Fig.  12. 

Il  tracciato  13  è  un'esperienza  fatta  sopra  Giorgio  Mondo,  a  digiuno,  stando 
coricato,  dopo  che  aveva  dormito.  Nel  cilindro  avevo  fatto  una  mescolanza  di  aria 
compressa  e  di   idrogeno  in  modo  che  l'analisi  dava  7,3  °/0  di   ossigeno.  Dopo  una 


Fig.  13. 


inspirazione  profonda,  l'arresto  durò  26".  La  curva  è  diversa  da  quella  del  tracciato  5 
preso  sulla  medesima  persona.  Ma  questa  differenza  1'  attribuisco  alla  sonnolenza 
nella  quale  trovavasi  Giorgio  Mondo  e  la  medesima  curva  si  ottiene  talvolta  anche 
se  respira  l'aria  normale. 

Se  però  invece  dell'aria  atmosferica  facciamo  una  inspirazione  con  dell'anidride 
carbonica,  anche  se  questa  trovasi  mescolata  a  molt'aria,  succede  un  mutamento  no- 
tevole nel  respiro.  Analizzerò  meglio  queste  esperienze  con  un  tracciato  fatto  sopra 
me  stesso. 

Nella  fig.  14  faccio  una  inspirazione  di  anidride  carbonica  servendomi  della  stessa 
maschera  che  aveva  servito  per  l'idrogeno  e  per  l'aria.  Un  assistente,  nel  punto  se- 
gnato C02 ,  mentre  stavo  compiendo  una  inspirazione,  fa  passare  una  forte  corrente 
di  anidride  carbonica  dentro  la  maschera  ;  succede  un  leggero  arresto  e  dopo  l'inspi- 
razione procede  senza  essere  molto  profonda. 

Eccetto  il  sapore  acido  dell'anidride  carbonica,  durante  l'inspirazione  e  l'espira- 
zione successiva,  non  provai  alcuna  sensazione.  Anche  nella  prima  inspirazione  che 
feci  dopo  coll'aria  normale  non  sentii  nulla  di  variato  dentro  di  me:  ma  nella  seconda 


380 


ANGELO    MOSSO 


14 


si  manifestò  una  leggera  ambascia,  sentii  che  diventava  più  forte  il  bisogno  di  respi- 
rare e  anche  nel  capo  ebbi  una  impressione  di  molestia,  come  di  una  fugace  sen- 
sazione di  vertigine  e  di  ronzìo  nelle  orecchie.  Il  tempo  è  segnato  ogni  2  secondi. 
Il  ritardo  di  oltre  10  secondi  nella  sensazione  soggettiva,  è  dovuto  non  solo  al 
tempo  che  occorre  perchè  il  sangue  più  ricco  di  ossigeno  arrivi  al  midollo  ed  al  cer- 
vello, per  questo  basterebbero  due  o  tre  secondi,  ma  i  10  secondi  sono  necessari 
perchè  si  accumuli  l'anidride  carbonica  nelle  cellule  del  midollo.  E  dunque  piuttosto 
la  funzione  del  lavaggio  e  della  ripulitura  che  è  impedita  e  il  C02  non  agisce  av- 
velenando colla  sua  penetrazione,  che  in  tale  caso  sembra  dovrebbe  essere  più  rapido, 
l'effetto  della  sua  presenza  nel  sangue. 


Fig.  14. 

Quanto  alla  durata  così  lunga  dell'azione  dell'anidride  carbonica,  quando  certa- 
mente l'aria  nei  polmoni  ed  i  gas  del  sangue  ritornarono  normali,  è  una  questione 
che  studierò  con  maggiore  attenzione  in  un  prossimo  lavoro. 

Nell'inserviente  Giorgio  Mondo  l'anidride  carbonica  produce  il  medesimo  effetto. 
Il  tracciato  15  è  un'  esperienza  fatta  scrivendo  la  respirazione  toracica  nella   quale 


Fi*.  15. 


l'anidride  carbonica  viene  inspirata  insieme  a  molt'  aria,  perchè  la  maschera  è  tenuta 
lontana  quasi  5  centimetri  dalla  faccia.  Vi  fu  una  sola  inspirazione  fatta  colla  mesco- 
lanza di  aria  ed  anidride  carbonica,  ma  l'effetto  è  grande:  non  solo  manca  l'apnea 
che  prima  mi  ero  assicurato  che  producevasi  con  una  inspirazione  egualmente  pro- 
fonda coll'aria  e  che  vedemmo  prodursi  anche  coll'idrogeno  nella  Fig.  13;  ma  i  mo- 
vimenti del  respiro,  rinforzatisi,  impiegano  un  tempo  lungo  prima  di  tornare  allo  stato 
primitivo. 

Tali  esperienze  avendo  mostrato  che  nell'apnea  si  produce  una  diminuzione  della 
eccitabilità  del  centro  respiratorio  e  le  osservazioni  fatte  coll'idrogeno  avendo  pro- 
vato che  l'apnea  non  dipende  da  un  aumento  di  ossidazione  del  sangue,  resta  un  solo 


15  LA    FISIOLOGIA    DELL'APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO  381 

fatto  che  noi  dobbiamo  considerare  come  causa  dell'apnea  ed  è  la  diminuzione  del- 
l'anidride carbonica  nel  sangue. 

Avendo  io  dato  il  nome  di  acapnia  alla  diminuzione  dell'anidride  carbonica  nel 
sangue  ed  ai  fenomeni  che  essa  produce,  devo  considerare  come  una  forma  dell'acapnia 
l'arresto  del  respiro  e  i  fenomeni  che  si  producono  nell'organismo,  quando  per  mezzo 
di  una   ventilazione  più  attiva  dei  polmoni  scema  nel  sangue  l'anidride  carbonica. 


§  4. 
Analisi  dei  gas  del  sangue  nell'apnea. 

La  dottrina  dell'apnea  si  fonda  in  parte  sulle  analisi  del  sangue  apnoico  fatte 
da  Pfliiger  (1)  e  da  Ewald  (2),  e  i  risultati  delle  loro  ricerche  sono  noti.  Augusto  Ewald 
trovò  che  nell'apnea  il  contenuto  di  ossigeno  nel  sangue  arterioso  è  aumentato  fino 
quasi  alla  sua  completa  saturazione,  mentre  che  è  molto  diminuito  il  contenuto  di 
anidride  carbonica. 

Ho  voluto  ripetere  le  analisi  del  sangue  arterioso  e  mi  servii  a  tale  scopo  del- 
l'apparecchio di  Barcroft  e  Haldane  (3),  il  quale  permette  di  fare  analisi  esatte  dei 
gas  del  sangue  con  delle  quantità  molto  più  piccole  di  sangue  di  quelle  che  si  ado- 
peravano prima  per  simili  studi. 

Ad  un  cane  da  pastore  del  peso  di  circa  10  chilogrammi  iniettiamo  alle  ore  15.5' 
4  grammi  di  soluzione  di  cloralio  nella  cavità  dell'addome  per  renderlo  più  tranquillo. 

Ore  15.55  prendiamo  1  ce.  di  sangue  dalla  carotide  destra.  Vediamo  che  il  sangue 
è  meno  rosso  del  normale 

02  =  16.65%  C02  =  39.50% 

Ore  16.7  si  fa  agire  il  soffietto  per  35"  fino  a  che  si  produce  l'apnea,  e  si  prende 
un  ce.  a  cominciare  da  15"  fino  alla  fine  del  respiro  artificiale 

O2  =  20.1%  C02  =  27.35%. 

La  quantità  di  anidride  carbonica  contenuta  nel  sangue  apnoico  di  questo  cane 
è  molto  maggiore  che  non  siasi  trovato  nelle  ricerche  di  Ewald,  il  quale  in  alcune 
analisi  trovò  appena  la  sesta  parte  di  anidride  carbonica  nel  sangue  arterioso  durante 
l'apnea,  essendo  scese  da  35.1  a  6.5  %.  La  quantità  maggiore  di  anidride  carbonica 
da  me  trovata  dipende  dal  tempo  molto  più  breve  che  ha  durato  la  ventilazione;  perchè 
la  ventilazione  durava  nelle  esperienze  di  Ewald  mai  meno  di  15  minuti.  In  questo 
cane  avevo  prodotto  il  sonno  per  mezzo  del  cloralio  e  anche  questo  contribuisce  a 
rendere  maggiore  la  quantità  di  anidride  carbonica. 


(1)  E.  Pfluger,   Ueber  die   Ursache  der  Athembewegungen,  sowie  der  Dyspnoe  und  Apnoe,  *  Arch. 
f.  d.  g.  Physiol.  „  I  Bd.,  1868,  p.  101. 

(2)  Adgust  Ewald,  Zur  Kenntniss  der  Apnoe,  "  Arch.  f.  d.  g.  Physiologie  „,  VII  B.,   575,  1873. 

(3)  Barcroft  and  J.  S.  Haldane,  A  method  of  estimuting  the  oxygen  and   carbonio  acid    in   sinall 
quantities  of  blood,  "  Journal  of  Physiology  „,  Voi.  XXVIII,  p.  232. 


382 


ANGELO    MOSSO 


Ui 


Nella  esperienza  della  Fig.  16  appare  evidente  che  l'apnea  non  si  produce  quando 
i  gas  del  sangue  hanno  raggiunto  un  valore  determinato:  ma  quando  invece  essi  modi- 
ficarono la  eccitabilità  del  centro  respiratorio  in  modo  tale  di  depressione  da  pro- 
durre l'apnea.  Si  tratta  di  un  cane  nel  quale  ho  fatto  l'analisi  del  sangue  arterioso 
preso  nella  carotide  in  due  condizioni  differenti  di  eccitabilità  procurando  di  ottenere 
colla  respirazione  per  mezzo  del  soffietto  le  medesime  variazioni  nei  gas  del  sangue. 


Fi?.  16. 


Per  rendere  più  eccitabile  il  midollo  amministro  all'animale  5  ce.  di  una  soluzione 
di  curare,  del  quale  0.2  bastano  per  paralizzare  una  rana,  il  cane  pesa  circa  9400  gr. 
Quando  l'animale  è  paralizzato  quasi  completamente  e  funziona  solo  più  il  diaframma, 
mi  assicuro  che  non  può  ottenersi  l'apnea  nel  modo  ordinario.  Nel  punto  segnato  P  e 
fino  nel  segno  {  prendo  il  sangue  che  analizzo: 


0,=  16.91  °/0 


C02  =  22.44  °/0. 


Fig.  17. 

È  dunque  un  sangue  che  ha  i  caratteri  dell'apnoico,  e  sebbene  contenga  meno 
ossigeno  e  meno  anidride  carbonica  del  sangue  precedente,  che  ho  riferito  per  raf- 
fronto, non  si  riesce  a  produrre  l'apnea. 

Aspetto  che  sia  passata  l'azione  del  curare  e  dopo  un'ora  somministro  ripetuta- 
mente quattro  schizzetti  che  contengono  ciascuno  1/2  gr.  cloralio.  Diminuita  a  questo 
modo  la  eccitabilità  del  midollo  compare  l'apnea  quando  si  fa  la  respirazione  artifi- 
ciale. La  Fig.  17  rappresenta  la  continuazione  della  esperienza,  in  alto  è  scritta  la 
respirazione  toracica,  in  basso  l'addominale:  poi  viene  il  tracciato  del  tempo  scritto 
ogni  2  secondi. 


17  LA    FISIOLOGIA    DELL' APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO  383 

Quando  è  finita  la  respirazione  artificiale  che  continuai  per  un  tempo  quasi  eguale, 
prendo  dalla  carotide  un  altro  campione  di  sangue  da  a  in  ai. 
L'analisi  diede 

02  =  17.59%  C02  =  22,94%. 

La  quantità  del  C02  era  dunque  quasi  eguale  a  quella  dell'esperienza  precedente 
e  poco  superiore  l'ossigeno,  ma  questa  volta  si  produsse  l'apnea,  mentre  è  mancata 
nell'altra. 


§  5. 
Influenza  della  posizione  del  corpo  sulla  durata   dell'apnea. 

È  noto  che  il  respiro  ed  il  polso  cambiano  la  loro  frequenza  secondo  le  posizioni 
del  corpo.  Se  studiamo  la  durata  dell'apnea  stando  in  piedi,  o  coricati,  osservasi  una 
differenza  ;  nella  posizione  eretta  dobbiamo  fare  uno  sforzo  e  la  contrazione  dei  mu- 
scoli ci  stanca:  ma  il  fenomeno  è  più  complesso.  Esaminerò  meglio  in  un  prossimo 
lavoro  come  varii  il  respiro  nelle  varie  posizioni  del  corpo,  per  ora  mi ,  limito  a  dire 
che  l'apnea  dura  meno  nella  posizione  orizzontale,  che  nella  posizione  verticale.  In 
queste  esperienze,  come  nelle  precedenti,  le  persone  per  non  affaticarsi  si  appoggia- 
vano contro  il  letto  inclinato  a  45°  ;  e  questo  poteva  facilmente  mettersi  in  posizione 
orizzontale  senza  che  la  persona  si  movesse,  perchè  la  tavola  era  fissa  con  due  perni 
intorno  ai  quali  poteva  girare  facilmente  prendendo  l'inclinazione  da  noi  voluta. 

Nell'inserviente  Giorgio  Mondo  stando  in  posizione  orizzontale  l'apnea  prodotta 
da  quattro  inspirazioni  profonde  durava  circa  18  secondi:  mentre  che  per  un  egual 
numero  di  inspirazioni  profonde  fatte  stando  inclinato  a  45°  l'apnea  durava  in  media 
24  secondi.  Riferisco  per  maggiore  esattezza  le  cifre  di  una  serie  di  simili  esperienze. 

Posizione  orizzontale. Fa  quattro  profonde  inspirazioni:  durata  dell'apnea  17".  Dopo 
10  minuti  fa  altre  quattro  inspirazioni:  durata  20"  e  dopo  altri  10  minuti  durata  17". 

Mettiamo  Giorgio  Mondo  nella  posizione  inclinata  a  45°  girando  la  tavola,  sulla 
quale  è  coricato.  Facendo  quattro  inspirazioni  egualmente  profonde  e  alla  medesima 
distanza  l'una  apnea  dall'altra,  otteniamo  i  seguenti  valori  22",  24",  25". 

Nel  Dott.  Marro  una  serie  di  esperienze  eguali  diede  un  risultato  analogo.  Stando 
orizzontale  e  facendo  quattro  inspirazioni  profonde,  in  lui  si  produce  un'apnea  più 
lunga   che  nell'inserviente  Giorgio  Mondo;  ecco  i  risultati  di  due  serie. 

Posizione  orizzontale.  Durata  dell'apnea  in  tre  osservazioni  fatte  l'una  dopo 
l'altra  alla  distanza  di  10  minuti:  30",  25",  25". 

Lo  si  mette  nella  posizione  di  45°,  girando  la  tavola  colla  materassa.  Fa  nuova- 
mente una  serie  di  tre  osservazioni  alla  distanza  di  10  minuti,  con  quattro  inspira- 
zioni profonde  per  ciascuna,  la  durata  dell'apnea  è  maggiore,  perchè  l'arresto  del 
respiro  dura  33",  34",  35".  Dice  che  sente  la  vertigine  più  forte  che  non  provasse 
nella  posizione  orizzontale,  e  che  compare  prima,  cioè  a  14"  e  15"  dopo  la  prima 
inspirazione  profonda,  mentre  che  nella  posizione  orizzontale  la  vertigine  per  anemia 
cerebrale  compariva  dopo  16"  a  17"  ed  era  più  debole. 


384 


ANGELO    MOSSO 


18 


Facendo  queste  esperienze  ci  eravamo  messi  davanti  ad  un  grande  orologio  a 
pendolo  che  segnava  i  secondi,  cosi  che  potevasi  vedere  il  tempo.  Eguali  esperienze 
fatte  sopra  di  me  ed  altre  persone  diedero  i  medesimi  risultati. 

In  un  prossimo  lavoro  dimostrerò  che  la  quantità  d'aria  misurata  non  cambia 
se  facciamo  una  inspirazione  profonda  stando  coricati,  o  stando  nella  posizione  di  45°. 
Le  differenze  che  osservammo  ora  dipendono  dai  mutamenti  che  succedono  nella 
circolazione  del  sangue  per  effetto  delle  inspirazioni  profonde. 


§  6. 
La  pressione   del   sangue  nell'apnea. 

Studiando  nell'uomo  l'apnea  collo  sfigmomanometro  si  vede  che  la  pressione  del 
sangue  diminuisce. 

La  fig.  18  è  un'esperienza  fatta  sul  Dott,  Colombo.  L'altezza  delle  pulsazioni  co- 
mincia già  a  diminuire  durante  le  8  inspirazioni  profonde  e  diventa  minore  nell'apnea 


Fig.  18. 

per  crescere  durante  le  prime  inspirazioni.  Le  ondulazioni  di  Hering  e  Traube  che 
prima  erano  bene  evidenti  scompaiono.  La  pressione  era  11  cent,  di  mercurio. 

Sopra  di  me  (fig.  19)  appare  meno  evidente  la  diminuzione  nella  forza  del  polso, 
ma  pure  è  notevole  la  diminuzione  della  pressione  sanguigna  durante  l'apnea,  che 
prima  era  uguale  a  12  cm.  di  mercurio. 

Qualche  volta,  come  si  vede  in  questo  tracciato  preso  su  me  stesso  collo  sfigmo- 
manometro, vi  è  un  aumento  successivo  della  pressione  sanguigna,  il  quale  corrisponde 
al  periodo  dell'incipiente  asfissia,  quando  sono  anche  più  forti  le  respirazioni. 

La  diminuzione  della  pressione  sanguigna  durante  l'apnea  e  il  successivo  au- 
mento, quando  ricominciano  i  moti  respiratori,  si  può  vedere  meglio  nel  tracciato 
preso  sopra  di  un  cane  (fig.  20). 

In  un  cane  del  peso  di  10.500  gr.,  al  quale  si  è  fatta  la  tracheotomia,  si  scrive  la 
pressione  del  sangue   per  mezzo  di  un   manometro  a  mercurio   messo   nella    arteria 


19  LA    FISIOLOGIA    DELL'APNEA    STUDIATA    NELL'UOMO  385 

femorale.  Un  pneumografo  di  Marey  applicato  sul  torace  trasmette  i  movimenti  della 
respirazione  ad  un  timpano  a  leva.  Le  curve  sono  rovesciate,  cioè,  contrariamente  a 
tutte  le  altre  riprodotte  prima,  la  linea  scende  nella  inspirazione  e  sale  nella  espi- 
razione. La  pressione  oscilla  fra  12  e  14  centimetri  di  mercurio  nel  principio  del  trac- 
ciato. Devo  avvertire  che  fu  trattenuta  la  penna  del  timpano  che  scriveva  il  respiro 
perchè    non  toccasse    la  curva   della   pressione,  cos'i  che   le  inspirazioni  non  furono 


scritte  in  tutta  la  loro  escursione,  dal  punto  dove  comincia  la  respirazione  col  sof- 
fietto fino  dove  finisce.  La  pressione  si  abbassa  notevolmente  durante  la  respirazione 
artificiale.  Appena  questa  cessa,  sale  la  pressione  sanguigna.  La  frequenza  del  polso 
è  maggiore  durante  l'apnea,  ma  di  poco.  Quando  la  pressione  ha  raggiunto  e  supe- 
rato il  valore  primitivo  non  è  ancora  ricominciato  il  respiro. 


Fig.  20. 

Finita  l'apnea  il  torace  si  porta  in  una  posizione  fortemente  espiratoria.  Anche 
nell'uomo  vi  è  questa  diminuzione  di  attività  del  centro  respiratorio,  come  abbiamo 
detto  in  principio,  cosi  che  il  torace  prende  una  posizione  espiratoria  più  pronunciata. 
Tale  depressione  del  torace  la  vediamo  in  quasi  tutti  i  tracciati  precedenti  ed  è  un 
segno  che  l'attività  del  centro  respiratorio  è  scemata  nell'apnea.  Ma  si  vede  pure  nei 
Sekie  II.  Tom.  LUI.  i1 


386 


ANGELO    MOSSO    LA    FISIOLOGIA    DELL  APNEA    STUDIATA    NELL  UOMO 


20 


tracciati  che  la  tonicità  si  ristabilisce  rapidamente  e  torna  normale  la  condizione  di 
riposo  dei  muscoli  del  torace  e  quella  del  diaframma. 

Riferisco  ancora  una  esperienza  fatta  sul  coniglio.  La  pressione  sanguigna  nella 
carotide  era  13  cm.  di  mercurio  nel  principio  del  tracciato  21.  L'animale  aveva  una 
cannula  nella  trachea  a  tre  vie,  un  tubo  a  T,  da  una  parte  vi  era  un  timpano  a  leva 
di  Marey  il  quale  scriveva  la  corrente  dell'aria  inspirata  ed  espirata  come  si  vede 
nella  linea  superiore. 


Fig.  21. 


Al  coniglio  si  era  iniettato  1  gr.  di  cloralio  nell'addome.  Quando  si  faceva  la 
respirazione  col  soffietto  da  a  in  uu  dovevamo  chiudere  comprimendolo  il  tubo  di 
gomma  che  metteva  la  cannula  della  trachea  in  comunicazione  col  timpano  a  leva 
per  non  guastare  la  sua  membrana  coi  colpi  del  soffietto. 

La  pressione  scende  di  oltre  2  centimetri  durante  la  respirazione  artificiale  e 
cresce  rapidamente  appena  cessa  il  movimento  del  soffietto.  Durante  l'apnea  cresce 
ancora  e  supera  il  livello  che  aveva  prima.  È  questo  un  fatto  costante  il  quale  cor- 
risponde al  periodo  asfittico  che  osservasi  nell'apnea  per  la  forte  depressione  nella 
eccitabilità  del  centro  respiratorio.  Tale  aumento  lo  osservai  in  modo  costante,  così 
che  può  dirsi  che  tanto  nell'uomo,  quanto  negli  animali,  vi  è  una  contrazione  dei  vasi 
che  precede  ed  accompagna  le  prime  inspirazioni  quando  cessa  l'apnea. 

Questo  almeno  lo  verificai  sempre,  quando  cessa  l'apnea  nei  casi  in  cui  le  respi- 
razioni sono  più  profonde;  e  dopo  lentamente  la  pressione  torna  al  valore  di  prima, 
mentre  pure  le  respirazioni  vanno  prendendo  l'aspetto  normale. 

Mostrerò  in  una  prossima  memoria  come  un  rapido  abbassamento  della  pressione 
sanguigna  possa  arrestare  i  movimenti  del  respiro.  Nei  casi  qui  esposti  non  credo  che 
tale  mutamento  della  circolazione  fosse  da  solo  capace  di  produrre  l'apnea;  ma  l'ab- 
bassamento della  pressione  del  sangue  che  precede  l'apnea  in  modo  costante,  è  certo 
un  fattore  non  trascurabile  della  medesima.  La  diminuita  eccitabilità  del  centro  respi- 
ratorio da  cui  dipende  l'arresto  del  respiro  nell'apnea  si  produce  più  facilmente,  se 
insieme  all'acapnia  vi  è  una  incipiente  anemia  del  centro  respiratorio. 


L'APNEA 


QUALE    SI    PRODUCE 

NEI  CAMBIAMENTI    DI    POSIZIONE    DEL    CORPO 


MEMORIA 

DEL    SOCIO 

ANGELO    MOSSO 


Approvata  nell'adunanza  del  24  Maggio  1903. 


§  1. 

Salathé  (1)  fu  il  primo  a  studiare  nel  Laboratorio  di  Marey  col  metodo  grafico 
i  mutamenti  che  succedono  nella  respirazione  di  un  coniglio  legato  sopra  una  tavo- 
letta di  Czermak,  tenuto  verticale  colla  testa  in  alto  e  i  piedi  in  basso.  In  questa 
posizione  i  movimenti  del  respiro  vanno  rallentandosi  e  diminuiscono  di  ampiezza 
fino  a  che  cessano  completamente,  mentre  il  cuore  continua  ancora  a  battere. 

Si  tratta  qui  di  un  fenomeno  molto  complesso.  Salathé  fa  dipendere  la  diminu- 
zione e  l'arresto  del  respiro  dall'anemia  del  cervello  e  dai  mutamenti  che  succedono 
nella  secrezione  del  liquido  cerebrale,  io  ho  preso  in  considerazione  altri  fattori.  Il 
metodo  più  comodo  per  tale  studio  è  di  legare  un  cane  che  dorma  per  mezzo  del 
cloralio,  sopra  un  sostegno  girevole  di  Rothe  ;  e  di  scrivere  con  due  pneumografi  il 
respiro  addominale  e  toracico.  Quando  dalla  posizione  orizzontale  si  gira  il  sostegno 
in  modo  che  l'animale  abbia  la  testa  in  alto,  succede  un  arresto  del  respiro,  cui  segue 
un  rallentamento  molto  notevole  del  ritmo  respiratorio,  senza  che  cresca  in  propor- 
zione corrispondente  la  forza  dei  movimenti  respiratori.  Si  produce  una  vera  apnea, 
come  si  vede  nel  tracciato  1.  In  questo  come  in  tutti  i  tracciati  seguenti  si  scrissero 
in  alto  i  movimenti  della  respirazione  toracica  e  in  basso  quelli  del  diaframma.  Per 
brevità  non  starò  più  a  ripetere  tale  avvertimento  pei  tracciati  successivi  (2). 

A  prima  vista  questo  tracciato  potrebbe  lasciar  credere  che  per  il  cambiamento  di 
posizione  siasi  modificato  il  bisogno  di  respirare,  perchè  il  cane  rimase  mezzo  minuto 
senza  respirare,  e  dopo  il  torace  e  l'addome  cominciarono  a  muoversi  con  un  ritmo 


(1)  Salathé,  De  l'anemie  et  de  la  congestion  cérébrales  provoquées  mécaniquement .  Travaux  du  Labo- 
ratoire  de  M.  Mabey,  II,  1877,  pag.  259. 

(2)  Il  respiro  fu  scritto  con  due  pneumografi  fatti  da  un  timpano  a  bottone  colla  membrana 
elastica;  il  movimento  veniva  registrato  sul  cilindro  colla  trasmissione  ad  aria  per  mezzo  di  un 
timpano  a  leva  del  Marey.  Le  penne  erano  così  disposte  che  nella  inspirazione  la  linea  si  alza,  e  si 
abbassa  nella  espirazione.  Per  brevità  mi  servirò  di  questo  segno  °  per  indicare  la  posizione 
verticale  colla  testa  in  alto  ;  e  di  questo  o—  per  indicare  la  posizione  orizzontale. 


388 


ANGELO    MOSSO 


lentissimo  quale  si  vede  nella  seconda  parte  della  fig.  1.  È  però  facile  convincersi 
che  l'arresto  del  respiro  produce  un'incipiente  asfissia  e  che  il  ritmo  è  divenuto  troppo 
lento  per  provvedere  in  modo  sufficiente  allo  scambio  dei  gas. 


lavimi» """ ■"'  L»"""""*  L*""  '   X^*"** 


Fig.  1. 

La  fig.  2  rappresenta  le  fasi  successive  di  un'altra  esperienza  simile.  E  un  cane 
grosso  leggermente  cloralizzato.  Scrissi  il  tracciato  della  respirazione  addominale 
e  toracica,  ma  per  brevità  riproduco  solo  quello  della  respirazione  del  torace;  la 
penna  che  scriveva  era  messa  in  modo  che  la  linea  scende  nella  inspirazione  e  si 
alza  nella  espirazione.  Il  cane  era  legato  sopra  il  sostegno  di  Rothe;  nel  principio 
si  trova  in  posizione  orizzontale  »-,  quando  lo  metto  verticalmente  °,  succede  un 
arresto   del   respiro   che  dura  24".   Il   tempo    è   scritto   sotto    ed    ogni    interruzione 


Fig.  '2. 

corrisponde  a  2";  per  brevità  non  ripeterò  più  tale  avvertimento.  Dopo  una  inspira- 
zione più  profonda  il  respiro  ricomincia  colla  stessa  forza  di  prima,  ma  il  ritmo  è 
ridotto  quasi  alla  metà.  La  parte  superiore  della  curva  che  segna  la  espirazione 
va  leggermente  rafforzandosi.  Quando  mettiamo  nuovamente  il  cane  orizzontale  nel 
segno  o-  succede  un  rapido  aumento  della  frequenza  e  i  movimenti  respiratori  sono 
più  intensi  di  quelli  che  vedonsi  in  principio  del  tracciato.  Torniamo  a  mettere  il 
cane  in    posizione   verticale  nel  segno    i    e  si  riproduce   l'apnea  come   prima. 

Per  ottenere  questa  apnea  dovuta  ai  cambiamenti  di  posizione  del  corpo  occorre 
che  gli  animali  siano  addormentati  con  un  narcotico  qualunque. 

In  altre  esperienze,  come  già  osservammo  nello  studio  dell'apnea  nell'uomo,  le 
respirazioni  formano  una  serie  crescente,  mentre  che  l'animale  persiste  nella  posizione 
colla  testa  in  alto  e  le  gambe  in  basso. 


l'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo 


389 


Il  tracciato  3  è  preso  sopra  un  cane  cloralizzato,  e  fisso  sul  supporto  di  Rothe, 
nel  quale  si  scriveva  il  respiro  per  mezzo  di  un  tubo  a  T  messo  nella  trachea:  per 
per  un  ramo  passava  l'aria  e  l'altro  stava  in  comunicazione  con  un  timpano  di  Marey. 
Era  un  piccolo  cane  del  peso  di  4700  gr. 

Anche  qui  sebbene  per  brevità  non  sia  riprodotto  il  tracciato  normale  della 
posizione  »•—  prima  dell'apnea,  si  vede  il  fenomeno  dell'aumentata  respirazione  pas- 
sando alla  posizione  orizzontale.  La  reazione  che  succede  colla  intensità  maggiore  dei 


Fig.  3. 

movimenti  respiratori,  e  la  frequenza  cresciuta,  mostrano  che  l'animale  mentre 
era  nella  posizione  verticale  non  respirava  a  sufficienza  e  dalla  forma  della  scala 
crescente  e  decrescente  possiamo  farci  fino  ad  un  certo  punto  un'idea  dei  bisogni 
respiratori  e  del  modo  col  quale  si  è  riparato  al  disturbo  succeduto.  Nella  seconda 
parte  della  fig.  3  vediamo  come  si  ristabilisce  spontaneamente  il  respiro  nella  inci- 
piente asfissia  per  mezzo  di  una  serie  crescente  di  respirazioni. 


Fig.  4. 

Facendo  delle  esperienze  sui  conigli  si  vede  che  l'apnea  è  tanto  più  lunga  e 
completa  quanto  più  diminuiscono  le  forze  dell'animale  ed  è  profondo  l'assopimento. 
Il  tracciato  4  è  una  esperienza  fatta  sopra  di  un  coniglio  del  peso  di  1800  gr.,  al 
quale  iniettammo  32  ce.  di  soluzione  di  cloralosio  1  °/0.  Si  era  messa  nella  trachea 
una  cannula  a  T,  un  ramo  della  quale  era  in  comunicazione  con  un  timpano  di  Marey 
e  scriveva  i  movimenti  del  respiro  sul  cilindro,  mentre  l'altro  serviva  al  passaggio 
dell'aria.  Si  scrive  un  primo  tracciato  A  sollevando  il  coniglio  nel  segno  °:  esso  non 
era  legato  alla  tavoletta,  e  lo  tenemmo  semplicemente  per  le  orecchie  alzandolo, 
mentre  le  gambe  pendevano  in  basso.  Aspettiamo  che  l'assopimento  sia  divenuto  più 
profondo  e   torniamo  a  sollevarlo    nello    stesso    modo.  La  curva   sottostante  B  rap- 


390  ANGELO    MOSSO  4 

presenta  questa  esperienza:  vediamo  nel  segno  °  che  il  respiro  cessa  completamente 
e  tale  arresto  è  durato  più  di  un  minuto. 

Qualche  volta  l'arresto  è  tanto  completo  che  l'animale  muore. 

Quando  il  respiro  è  molto  lento  e  debole  questo  metodo  della  cannula  a  T  non 
basta  per  decidere  se  sono  cessati  i  moti  respiratori. 

Per  convincersene  basta  guardare  il  tracciato  5.  Si  tratta  di  un  coniglio  clora- 
lizzato  che  ha  una  cannula  a  T  nella  trachea  colla  quale  si  scrive  il  respiro  con  un 
timpano  Marey  ;  mettendolo  in  posizione  verticale,  nel  segno  f  il  respiro  si  arresta  ; 
ma  tale  arresto  è  solo  in  apparenza  completo:  chiudendo  la  cannula  tracheale  in 
modo  che  i  polmoni  restino  in  comunicazione  solo  col  timpano  registratore  subito 
appaiono  evidenti  i  moti  del  respiro. 


Fig.  5. 

Nel  tracciato  5  è  pure  evidente  che  successe  una  diminuzione  profonda  nella  fre- 
quenza del  ritmo  e  nella  forza  dei  movimenti  respiratori  passando  dalla  posizione  oriz- 
zontale alla  verticale.  Nell'ultima  parte  della  fig.  5  appare  quanto  sia  intensa  la  reazione 
che  succede  nella  forza  e  nella  frequenza  del  respiro  quando  si  torna  alla  posizione 
orizzontale ,  e  dalla  forma  delle  curve  vediamo  che  prevale  la  corrente  espiratoria. 

Oltre  all'anemia  cerebrale  di  cui  si  è  già  occupato  Salathé  (senza  averla  però 
analizzata  con  sufficiente  estensione)  nasce  il  dubbio  che  questo  arresto  del  respiro 
sia  un  fenomeno  riflesso,  ed  una  inibizione  simile  a  quella  che  studieremo  fra  poco 
nell'uomo,  dove  osserveremo  rallentarsi  il  respiro  nel  passare  dalla  posizione  oriz- 
zontale alla  verticale.  Avendo  però  veduto  che  alcuni  conigli  profondamente  clora- 
lizzati  possono  morire,  quando  si  mettono  in  posizione  verticale,  senza  poter  più  ese- 
guire alcun  movimento  respiratorio,  si  deve  respingere  il  dubbio  che  si  tratti  di  una 
inibizione  in  via  riflessa. 

§  2. 
La  circolazione  sanguigna  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo. 

L'influenza  che  la  forza  di  gravità  esercita  sulla  circolazione  del  sangue  venne 
già  studiata  da  L.  Hill  (1). 

Interessandomi  di  analizzare  meglio  questa  influenza  per  i  rapporti  che  essa  ha 
coi  fenomeni  dell'apnea,  ho   voluto  fare  alcune  esperienze  scrivendo  contemporanea- 


(1)  L.  Hill,   The  influence  of  the  force  of  gravity  on  the  circulation  of  the  blood,  "  Journal  of  Phy- 
siology  ,,  Tome  18,  pag.  15. 


l'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo 


391 


mente  il  respiro  e  la  pressione  del  sangue  con  un  manometro  a  mercurio,  come  si 
vede  nel  tracciato  6.  È  un  coniglio  del  peso  di  1900  gr.  avvelenato  con  15  ce.  di  solu- 
zione satura  di  cloralosio  iniettato  nella  vena  giugulare.  Ho  messo  nella  trachea  un 
tubo  a  T  e  dal  ramo  libero  scrivo  nella  linea  superiore  i  movimenti  della  corrente  di 
aria  respirata.  Noi  vediamo  che  la  pressione  sanguigna  diminuisce  quando  l'animale 
passa  dalla  posizione  orizzontale  a  quella  verticale.  Se  si  tiene  per  breve  tempo  il 
coniglio  in  questa  posizione  succede  un  abbassamento  della  pressione  di  60  o  70  mm. 
e  si  sarebbe  inclinati  a  credere  che  questa  sia  la  causa  dell'apnea;  ma  prolungando 


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Kg.  6. 

per  un  tempo  più  lungo  1'  osservazione  come  succede  in  questa  esperienza  (fig.  6) 
vediamo  che  la  pressione  da  130  mm.  scende  a  76  mm.,  poi  si  rialza  e  supera  il  valore 
primitivo  per  scendere  nuovamente  a  100  mm. 

L'influenza  che  la  posizione  del  corpo  può  esercitare  sulla  circolazione  del  sangue 
e  sulla  funzione  del  respiro  appare  evidente  nella  sincope  la  quale  succede  nelle  per- 
sone molto  deboli,  se  dopo  una  lunga  malattia  passano  improvvisamente  dalla  posi- 
zione orizzontale  a  quella  verticale. 

Hill  attribuisce  a  questi  mutamenti  della  circolazione  un'influenza  inibitrice  sul 
respiro;  egli  crede  che  nel  cambiamento  di  posizione  vi  sia  uno  stimolo  dei  nervi 
sensibili  e  che  le  terminazioni  dei  vaghi  siano  eccitate  da  una  tensione  dovuta  al 
cambiamento  di  posizione.  Ma  vedremo  che  l'apnea  ed  il  rallentamento  del  respiro 
si  producono  anche  negli  animali  che  hanno  i  vaghi  tagliati:  onde  tale  fatto  deve 
spiegarsi  in  altro  modo. 


§  3. 
Influenza  della  gravità  sui  movimenti  del  respiro. 

Il  peso  degli  organi  contenuti  nella  cavità  dell'addome  e  del  torace,  quando  questi 
gravitano  e  tirano  in  basso  il  diaframma  e  il  torace,  può  diventare  un  ostacolo  per 
il  libero  funzionamento  dei  moti  respiratori.  Un  coniglio  normale,  come  un  cane,  può 
respirare  per  un  certo  tempo,  quando  è  messo  in  posizione  verticale:  ma  se  per 
mezzo  del  cloralio,  o  dell'anemia,  o  di   un  mezzo   qualunque,  si   diminuisce  la  forza 


392  ANGELO    MOSSO  0 

dei  centri  nervosi  e  dei  muscoli,  esso  non  può  più  respirare  bene,  ed  è  specialmente 
il  diaframma  che  ne  soffre. 

L'esperienza  della  fig.  7  venne  fatta  sopra  un  coniglio  coi  vaghi  tagliati,  che 
pesava  1600  gr.,  al  quale  iniettammo  1  gr.  di  cloralio  nella  cavità  addominale.  L'ani- 
male è  legato  sul  supporto  di  Czermak  e  scriviamo  il  respiro  per  mezzo  di  una  can- 
nula a  T  messa  nella  trachea,  essendo  un  ramo  del  tubo  in  comunicazione  con  un 
timpano  a  leva.  Nel  passaggio  dalla  posizione  orizzontale  alla  verticale  il  respiro 
quasi  scompare  nel  tracciato  tanto  sono  deboli  gli  impulsi  che  la  corrente  dell'aria 
trasmette  al  timpano  registratore.  Mettendo  nuovamente  il  coniglio  in  posizione  oriz- 
zontale, succede  una  forte  reazione.  I  movimenti  espiratori  sono  essi  che  colla  intensità 
insolita  producono  questo  effetto,  che  sembra  sproporzionato  alla  causa  della  breve 
interruzione    che   lo    ha  prodotto. 


Per  eliminare  gli  effetti  della  gravità  pensai  di  immergere  gli  animali  nell'acqua. 
Preparai  un  grande  recipiente  pieno  di  acqua  tiepida  a  36°.  Nella  fig.  8  si  vede  nel 
principio  il  tracciato  normale,  poi  nel  segno  f  il  cambiamento  di  posizione.  Quando 
si  mette  il  coniglio  verticale  il  respiro  si  arresta,  ma  appena  in  A  si  immerge  il 
coniglio  nell'  acqua  fino  al  collo,  cessa  1'  arresto  del  respiro.  Evitata  l'azione  della 
gravità,  il  diaframma  e  l'addome  funzionano  bene. 

Torno  a  rimettere  il  coniglio  in  posizione  orizzontale  o-  e  manca  la  reazione,  od 
è  piccola.  Nel  segno  °  si  rimette  il  coniglio  nell'acqua  in  posizione  verticale  e  manca 
l'apnea. 

L'arresto  del  respiro  non  è  dunque  dovuto  all'azione  dei  vaghi  che  siano  stirati, 
perchè  qui  erano  recisi;  e  neppure  è  la  circolazione  che  basti  a  produrlo,  ma  la 
influenza  preponderante  è  meccanica.  Il  peso  dei  visceri  che  agiscono  sul  dia- 
framma (e  che  prenderò  meglio  in  esame  fra  poco)  l'animale  può  sollevarlo  nella 
espirazione,  finché  sono  normali  le  sue  forze,  ma  se  per  mezzo  del  cloralio,  o  di  altro 
narcotico,  si  indebolisce  l'animale,  i  movimenti  del  respiro  cessano.  Succede  pel  dia- 
framma, quanto  vediamo  nei  muscoli  flessori  delle  dita  coll'ergografo,  che  non  sono 
più  capaci  di  muovere  un  peso,  quando  questo  supera  colla  sua  resistenza  lo  sforzo 
del  quale  i  muscoli  sono  capaci. 

Fenomeni  simili  di  arresto  avvengono  pure  nell'  uomo,  benché  in  grado  meno 
spiccato.  È  noto  che  la  frequenza  del  respiro  cambia  secondo  la  posizione  del  corpo, 
la  media  che  trovasi  nei  trattati  per  la  frequenza  del  respiro  nell'uomo  adulto  è  di 
13  movimenti  al  minuto  stando  coricati,  19  seduti,  e  22  stando  in  piedi. 

Questo  non  lo  si  verifica   più   stando  per  qualche  tempo  orizzontali  e  passando 


7  l'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del    corpo 

dopo  alla  posizione  verticale.  Se  nelle  circostanze  comuni  della 
vita  la  respirazione  è  più  frequente  stando  in  piedi,  ciò  dipende 
da  altre  cause  che  sono  più  influenti  per  accelerare  il  respiro 
di  quelle  che  ora  studiamo. 

Il  tracciato  9  fu  preso  prima  in  posizione  orizzontale  su 
Giorgio  Mondo.  Dopo  aver  scritto  la  respirazione  toracica  e  ad- 
dominale inclino  il  tavolo  sul  quale  esso  è  coricato.  Nel  passare 
alla  posizione  °  di  45°,  il  torace  si  deprime  portandosi  in  una 
posizione  più  espiratoria,  mentre  il  diaframma  si  abbassa  por- 
tandosi più  in  inspirazione.  Giorgio  Mondo  in   questa   come   in 


393 


Tor 


Ad 


Fig.  9. 


tutte  le  altre  esperienze  simili  sente  una  leggera  vertigine  nel 
momento  che  passa  dalla  posizione  orizzontale  a  quella  di  45°: 
è  questo  un  segno  di  un'incipiente  anemia  cerebrale.  I  movi- 
menti del  torace  si  rinforzano,  ma  divengono  più  lenti  ;  e  poco 
per  volta  tendono  a  prendere  la  frequenza  e  la  forza  di  prima. 
I  movimenti  dell'  addome  rimangono  più  deboli  nella  posizione 
verticale  di  quanto  non  fossero  nella  orizzontale. 

Sopra  di  me  il  rallentamento  del  respiro  nel  passaggio 
dalla  posizione  orizzontale  alla  verticale  dura  più  a  lungo  e 
anche  la  forza  delle  inspirazioni  toraciche  diviene  maggiore,  come 
si  vede  nella  figura  10  dove  è  scritta  solo  la  respirazione  tora- 
cica. Verso  la  metà  venne  inclinata  la  tavola  su  cui  ero  coricato 
e  passai  dalla  posizione  orizzontale  a  quella  di  45°.  In  me  non 
si  produce  la  sensazione  della  vertigine,  sebbene  il  peso  degli 
organi  addominali  che  agiscono  tirando  in  basso  il  torace  e  il 
diaframma  sia  maggiore.  Infatti  io  sono  più  grasso  e  peso 
85  chilog.  con  una  statura  di  1,78,  mentre  Giorgio  Mondo  pesa 
solo  64  chilog.  ed  è  alto  1,69.  Osservai  che  nelle  persone  magre 
e  giovani  succede  un  rallentamento  del  respiro  meno  notevole, 
quando  passano   dalla  posizione  orizzontale  alla   verticale. 

Gli  organi  che  agiscono  sul  diaframma  pesano  più  di  4  chilog. 

Serie  II.   Tom.  LUI. 


394 


ANGELO    MOSSO 


Il  fegato  pesa  da  solo  quasi  2  chilog.  La  milza,  lo  stomaco  non  li  contiamo,  ma  il 
cuore  gravita  certo  sul  diaframma  nella  posizione  eretta,  e  sono  350  gr.  pel  muscolo 
cardiaco  e  360  per  il  sangue  contenuto  nei  ventricoli  senza  contare  le  orecchiette 
ed  i  grossi  vasi.  I  polmoni  pesano  in  media  1300  grammi,  ma  varia  molto  il  peso 
del  sangue  che  possono  contenere.  Questo  peso,  che  può  calcolarsi  ad  un  minimum  di 


Fig.  10. 


4  chilog.  ma  che  certo  lo  supera,  agisce  in  due  direzioni  dal  disopra  e  dal  disotto 
del  diaframma  e  tirando  injbasso  il  diaframma  produce  un  aumento^,  della  capacità 

dei  polmoni,  come  si  vede  nel  tracciato  della  fig.  11. 
Io  ero  nel  principio  coricato  sulla  tavola  in  posi- 
zione orizzontale.  Sotto  il  tempo  che  segna  i  2  se- 
condi vi  è  una  linea  spezzata  fatta  per  mezzo  di 
una  penna  che  si  alza  quando  passo  dalla  posizione 
orizzontale  alla  verticale  e  viceversa  torna  ad  ab- 
bassarsi ad  ogni  movimento  orizzontale  che  viene 
impresso  alla  tavola.  In  FP  è  indicata  la  posizione 
delle  penne.  Faccio  alcune  inspirazioni  profonde  in 
modo  da  produrre  1"  apnea ,  poi  chiudo  la  narice 
destra  con  un  tappo  di  cera  modellato  prima  sulla 
apertura  della  mia  narice  destra  in  modo  che  la 
chiuda  bene.  Questo  tappo  è  attraversato  da  un 
tubo  di  vetro  che  comunica  con  un  timpano  a  leva 
di  Marey.  Chiudo  la  narice  sinistra  comprimendo 
col  dito  contro  il  setto  nasale.  L'aria  dei  polmoni, 
mentre  tengo  aperta  la  laringe,  forma  una  cavità 
chiusa  dal  timpano  e  si  scrivono  le  pulsazioni  del 
cuore.  Nel  punto  A  si  abbassa  la  tavola  dalla 
parte  dei  piedi  e  passo  alla  posizione  di  45°, 
l'aria  nei  polmoni  si  dilata  e  la  leva  si  abbassa. 
Subito  dopo  si  torna  a  mettere  la  tavola  in  posi- 
zione orizzontale  e  la  leva  si  alza  e  torna  alla  posizione  di  prima.  In  B  passo  nuo- 
vamente alla  posizione  verticale  e  torna  a  dilatarsi  la  cavità  toracica  e  la  pressione 
diventa  negativa.  Ritorno  alla  posizione  orizzontale  e  l'aria  torna  alla  pressione  di 
prima.  In  C  si  ripete  ancora  una  volta  il  passaggio  alla  posizione  di  45°  e  torna  a 
prodursi  una  rarefazione  dell'aria. 

Il  restringimento  del  torace  che  producesi  tutte  le  volte  che  noi  passiamo  dalla 


Fig.  il. 


9  l'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo         395 

posizione  orizzontale  alla  verticale,  è  dunque  compensato  dall'allungamento  del  dia- 
metro verticale  per  l'abbassarsi  del  diaframma. 

Per  conoscere  il  valore  reale  di  questi  mutamenti  della  capacità  polmonare,  ho 
messo  un  manometro  in  comunicazione  colle  narici.  Era  un  semplice  tubo  di  vetro 
piegato  ad  U  pieno  di  acqua,  con  una  divisione  in  millimetri.  Feci  l'esperienza  che 
ho  riferito  colla  fig.  11,  solo  che  invece  di  scrivere  i  cambiamenti  di  pressione  col 
timpano  di  Marey,  si  leggevano  i  valori  della  pressione  sul  manometro.  Ripetendo 
queste  esperienze,  facendo  precedere  una  leggera  apnea,  trovai  che  passando  dalla 
posizione  orizzontale  alla  verticale  di  45°  producesi  una  pressione  negativa  di  15  mm. 
di  acqua  nei  polmoni. 

La  differenza  di  volume  deve  essere  maggiore  (1),  come  dimostrai  studiando  la 
circolazione  nei  polmoni  in  seguito  ai  movimenti  del  respiro,  nel  mio  lavoro  sulla 
circolazione  del  sangue  nel  cervello  dell'uomo  (Capitoli  IX  e  X).  Esaminerò  ancora 
in  una  prossima  memoria  sulla  fisiologia  comparata  del  diaframma  e  del  torace  i 
mutamenti  che  succedono  nel  respiro  pei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo. 


(1)  Supponendo  che  in  me  l'aria  residua  e  di  riserva,  cioè  1'  aria  contenuta  nei  polmoni  alla 
fine  di  una  espirazione  moderata,  come  succedeva  in  queste  esperienze,  sia  di  2800  ce,  la  diminu- 
zione di  volume  che  si  produrrebbe  passando  dalla  posizione  orizzontale  alla  verticale,  sarebbe  solo 
di  4  o  5  ce. 


MOVIMENTI    RESPIRATORI 

DEL  TORACE  E  DEL  DIAFRAMMA 


KICEBCHE 


ANGELO   MOSSO 


Approvata  nell'adunanza  del  24  Maggio  1903. 


I. 
L'azione  dei  centri  nervosi  sui  movimenti  del  respiro. 

I  problemi  fondamentali  della  respirazione  intorno  ai  quali  da  lungo  tempo  discu- 
tono i  fisiologi  sono  essenzialmente  due:  si  tratta  di  sapere  se  i  movimenti  del  respiro 
siano  riflessi  od  autoctoni  ;  se  vi  sia  solo  un  centro  respiratorio  nel  midollo  allungato, 
o  se  pure  esistano  altri  centri  nel  midollo  spinale  e  nel  cervello. 

Mi  sono  già  occupato  due  volte  di  questo  argomento:  nel  1878  (1)  e  nel  1885  (2). 
Ora  comunico  altre  esperienze  le  quali  dimostreranno  meglio  che  i  movimenti  del 
respiro  sono  autoctoni,  e  che  i  movimenti  del  torace,  del  diaframma,  della  faccia  e 
dell'addome  funzionano  in  modo  indipendente  per  mezzo  di  centri  nervosi  speciali  fra 
loro  associati. 

Comincierò  con  una  esperienza  fatta  sopra  un  animale  coi  vaghi  tagliati,  per 
vedere  subito  cosa  succede  facendo  la  respirazione  artificiale  in  un  cane  dove  sia 
eliminata  la  variazione  ritmica  dei  gas  del  sangue  che  si  produce  nella  respirazione 
normale,  e  dove  sia  esclusa  la  sensibilità  dei  polmoni. 

Si  tratta  di  un  cane  del  peso  di  8500  grammi,  il  quale  in  ripetute  iniezioni  aveva 
ricevuto  9  grammi  di  cloralio  nella  vena  giugulare,  ed  al  quale  si  erano  dopo  tagliati 
i  due  nervi  vaghi.  Quando  incomincia  il  tracciato  (fig.  1)  è  più  di  un  minuto  che  fac- 


(1)  A.  Mosso,  Sui  rapporti  della  respirazione  addominale  e  toracica    nell'uomo,  "  Archivio    per  le 
scienze  mediche  ,,  1878. 

(2)  Id.,  La,  respirazione  periodica,  "  Memorie  della  R.  Acc.  dei  Lincei  ,,  1885. 


Tor 


Ad 


398  ANGELO    MOSSO  2 

ciamo  la  respirazione  artificiale  per  mezzo  di  un  soffietto  messo  in  comunicazione  colla 
trachea,  senza  che  ci  riesca  di  modificare  i  movimenti  del  respiro.  In  alto  è  scritta  la 
respirazione  toracica  ed  in  basso  l'addominale.  Adoperai  a  tale  scopo  due  timpani 
messi  intorno  al  torace  come  quelli  del  pneumografo  di  Marey,  i  quali  per  mezzo  di 
un  tubo  a  forchetta  comunicavano  con  un  timpano  a  leva,  il  quale  scriveva  sul  ci- 
lindro di  un  motore  Baltzar.  Un  altro  timpano  che  portava  sulla  membrana  elastica 
un  bottone  sporgente  di  sughero,  poggiava  sull'addome  in  corrispondenza  della  regione 
epigastrica,  ed  era  tenuto  in  posto  da  un  tubo  di  piombo  pieghevole  per  adattarlo 
meglio  per  mezzo  di  un  sostegno  nella  posizione  voluta.  In  questo  come  in  tutti  i 
tracciati  seguenti  le  linee  si  alzano  nella  inspirazione  e  scendono  nella  espirazione: 
il  tempo  è  scritto  in  modo  che  ogni  dente  corrisponde  a  un  intervallo  di  due  secondi. 
Per  brevità,  non  dirò  più  nulla  riguardo  al  tempo,  bastando  questo  avvertimento 
anche  pei  tracciati  successivi. 


Quando  si  sospende  la  respirazione  artificiale  vediamo  che  il  ritmo  del  respiro 
spontaneo  procede  inalterato,  che  i  movimenti  del  torace  e  del  diaframma  non  cam- 
biano menomamente.  Una  respirazione  artificiale  intensa  che  aveva  durato  più  di  un 
minuto  non  era  dunque  bastata  a  produrre  l'apnea,  e  dobbiamo  conchiudere  che 
questo  animale  sia  insensibile  ai  mutamenti  dei  gas  del  sangue  che  si  producono  per 
mezzo  della  respirazione.  Nel  tracciato  1  ricominciamo  due  volte  a  far  la  respira- 
zione artificiale  per  circa  40  secondi  e  tutte  due  le  volte  vediamo  che  il  respiro  non 
subisce  alcun  mutamento. 

Da  questa  esperienza  appare  che  anche  dopo  il  taglio  dei  vaghi  esiste  un  go- 
verno della  respirazione,  e  che  i  mutamenti  del  sangue  quali  si  producono  anche  nella 
respirazione  più  intensa,  non  bastano  a  modificare  il  ritmo  e  la  forza  dei  movimenti 
respiratori  e  che  per  ciò  dobbiamo  considerarli  come  automatici,  od  autoctoni,  come 
il  Gad  propose  di  chiamarli. 

Tutte  le  modificazioni  del  respiro  che  succedono  negli  animali  coi  vaghi  intatti 
si  possono  riprodurre  dopo  recisi  questi  nervi,  solo  che  bisogna  adoperare  degli  sti- 
moli più  forti.  Questo  lo  vediamo  nel  tracciato  2. 

È  un  coniglio  del  peso  di  1600  gr.  al  quale  si  amministrò  un  grammo  di  cloralio 
nell'addome.  Fatta  la  tracheotomia,  quando  fu  bene  addormentato  gli  si  tagliarono  i 
vaghi,  e  legammo  un  tubo  a  T  nella  trachea:  un  ramo  fu  messo  in  comunicazione 
con  un  timpano  di  Marey;  l'altro  libero  serviva  alla  respirazione.  La  cur.va  scritta  in 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


399 


questo  tracciato  rappresenta  la  velocità  della  corrente  dell'aria  inspirata  ed  espi- 
rata, e  siccome  il  coniglio  impiegava  un  tempo  più  lungo  ad  inspirare  che  non  ad 
espirare,  così  nel  tracciato  normale  quasi  non  si  vede  l'inspirazione  e  solo  appare 
l'espirazione  colla  linea  ascendente. 

Nel  punto  a  segnato  da  una  freccia  }  avviciniamo  un  debole  getto  di  anidride  car- 
bonica al  tubo  della  trachea  donde  penetra  l'aria  nei  polmoni.  La  inspirazione  si 
rinforza,  ma  la  espirazione  diviene  più  energica  che  non  sia  l'aumento  della  inspira- 
zione. In  w  cessa  l'amministrazione  di  anidride  carbonica  che  penetrava  nei  polmoni 
mescolata  con  molta  aria. 

Sebbene  fossero  inattivi  i  vaghi,  vediamo  che  si  è  prodotta  una  modificazione 
profonda  del  respiro.  Le  due  curve,  quella  che  unirebbe  il  vertice  di  tutte  le  espi- 
razioni da  a  in  iu;  e  quella  sottostante  che  unirebbe  il  principio  di  tutte  le  espira- 
zioni, non  si  rassomigliano.  Questo  dipende  da  ciò  che  per  eifetto  dell'anidride  car- 


Fig.  2. 


bonica  reagirono  in  modo  diverso  il  centro  inspiratorio  e  quello  dei  muscoli  espiratori. 
L'effetto  sulla  espirazione,  come  vedesi  nella  curva  guardando  il  vertice  delle  espi- 
razioni nella  linea  superiore,  si  mantiene  più  lungamente  elevata  che  non  la  linea 
che  passerebbe  per  la  base  di  tutte  le  inspirazioni  verso  il  basso. 

Questa  esperienza  è  istruttiva  per  coloro  che  ancor  oggi  non  ammettono  che  la 
espirazione  sia  attiva.  Qui  appare  evidente  che  l'anidride  carbonica  agisce  per  un 
tempo  più  lungo  e  più  intensamente  sul  centro  espiratorio  che  non  su  quello  inspi- 
ratorio. L'anidride  carbonica  esagera  i  fenomeni  respiratori  nell'animale  coi  vaghi 
tagliati  dove  vediamo  entrare  in  azione  i  muscoli  espiratori  dell'addome  e  spesso 
anche  quelli  della  faccia  in  modo  più  forte   che  non  succeda   nel  respiro   normale. 

Ritornerò  su  questo  argomento  con  altre  esperienze  più  evidenti  dove  scriveremo 
le  contrazioni  dei  muscoli  retti  dell'addome. 

L'animale  è  così  profondamente  addormentato  per  mezzo  del  cloralio  che  non 
reagiva  più  al  dolore.  Per  tale  ragione  dobbiamo  ammettere  che  l'anidride  abbia 
agito  direttamente  sui  centri  della  respirazione.  Non  può  essere  un  riflesso"  dovuto 
ai  nervi  della  pelle,  o  ad  altri  nervi  sensibili,  perchè  comprimendo  forte  le  zampe 
con  una  tanaglia  non  erasi  ottenuto  prima  alcun  effetto. 

Non  mi  fermo  a  discutere  se  la  respirazione  dipenda  da  riflessi  che  si  producono 
per  influenza  della  sensibilità  generale;  dirò  solo  che  ad  un  cane  avvelenato  profon- 
damente col  curare  e  nel  quale  solo  il  diaframma  si  muove,  si  possono  stritolare  le 


400  ANGELO    MOSSO  4 

ossa  delle  dita,  senza  che  succeda  la  più  piccola  modificazione  nel  ritmo  e  nella  forza 
delle  contrazioni  diaframmatiche. 

Ho  già  pubblicato  i  tracciati  di  cani  resi  insensibili  col  cloralio  (1),  nei  quali 
aprii  largamente  l'addome  e  il  diaframma,  e  i  muscoli  del  torace  continuavano  a 
funzionare,  mentre  i  polmoni  erano  in  collasso,  cosicché  i  movimenti  respiratori  erano 
inutili. 

La  stessa  anidride  carbonica,  che  forse  è  lo  stimolo  più  potente  del  centro  respi- 
ratorio, può  diventare  anch'essa  inattiva.  Amministrando  ripetutamente  del  cloralio 
ad  un  coniglio  si  ottiene  un  sopore  così  profondo,  che  la  temperatura  rettale  può 
scendere  a  24°.  I  movimenti  del  respiro  diventano  estremamente  deboli.  Se  in  tali 
condizioni  si  chiude  la  trachea,  spesso  gli  animali  muoiono  di  asfissia  senza  reagire. 
I  movimenti  del  respiro  si  rallentano  e  crescono  pochissimo  di  profondità,  fino  a  che 
cessano  completamente. 

Centri  respiratori  cerebrali. 

Ho  già  dimostrato  in  un  altro  lavoro  le  relazioni  dei  centri  respiratori  cerebrali 
coi  muscoli  della  faccia;  ora  vedremo  meglio  come  agiscano  sul  respiro  i  centri  respi- 
ratori cerebrali  e  le  funzioni  psichiche.  Quando  scrissi  il  tracciato  3  io  ero  coricato 


Fig.  3. 

sopra  un  sofà  ed  avevo  intorno  al  torace  un  pneumografo  doppio  (2)  ;  ero  solo  nella 
stanza  e  sul  tavolo  dinanzi  a  me  stava  il  motore  Baltzar,  sul  quale  scrivevasi  il 
tracciato  del  respiro.  Stando  profondamente  tranquillo  compaiono  delle  ondulazioni 
nel  tracciato,  e  mi  accorgo  che  esse  corrispondono  ai  fenomeni  psichici.  Quando, 
sto  attento,  il  tracciato  forma  una  linea  orizzontale:  ma  tutte  le  volte  che  mi 
distraggo,  la  serie  delle  respirazioni  si  abbassa.  Quando  mi  accorgo  che  nella  mia 
coscienza  appaiono  delle  imagini  e  delle  cose  alle  quali  prima  io  non  pensavo,  e  si 
stabiliscono  dei  fatti  psichici  che  non  hanno  più  una  concatenazione  collo  stato  pre- 
cedente delle  idee,  guardando  il  cilindro  vedo   che  la   penna  si  è  alzata  e  il  torace 


(1)  La  respirazione  periodica  e  di  lusso.  Tav.  VII,  pag.  43. 

(2)  In  tutte  le  esperienze  fatte  sull'uomo  in  questa  memoria,  adoperai  il  pneumografo  doppio 
di  Ch.  Verdin  che  non  descrivo  perchè  la  figura  trovasi  a  pag.  102  del  suo  catalogo.  Dirò  solo  che 
feci  sempre  attenzione  perchè  la  membrana  elastica  dei  due  timpani  fosse  egualmente  tesa.  Una 
cinghia  di  cotone  inestensibile  serviva  a  fissare  il  pneumografo  per  mezzo  di  una  fibbia  intorno  al 
torace  o  all'addome.  La  tensione  giusta  della  membrana  elastica  si  ottiene  facendo  scorrere  late- 
ralmente 1'  uno  o  1'  altro  timpano  che  sono  mobili  e  si  fissano  per  mezzo  di  una  vite  a  pressione. 
Nella  inspirazione  la  penna  si  alza. 


5  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  401 

è  passato  in  posizione  inspiratoria  più  forte.  Le  inspirazioni  diventano  più  piccole  e 
la  tonicità  dei  muscoli  toracici  aumenta. 

La  differenza  nei  mutamenti  del  torace  e  dell'addome  durante  l'attenzione,  la 
distrazione  ed  il  sonno  l'ho  già  descritta  in  due  lavori  precedenti,  ma  non  avevo 
tenuto  calcolo  della  rapidità  colla  quale  si  compiono  queste  modificazioni.  Nel  sonno 
è  facile  dimostrare  che  la  coscienza  ed  il  pensiero  si  destano  e  funzionano  prima  che 
abbia  potuto  modificarsi  la  circolazione.  In  un  mio  prossimo  libro  sul  sonno  pubbli- 
cherò le  osservazioni  che  feci  in  tale  riguardo  studiando  la  circolazione  sanguigna 
nel  cervello  dell'uomo.  I  riflessi  si  compiono  nell'uomo  con  ritardi  abbastanza  lunghi, 
ed  è  lunghissimo  fra  tutti  quello  della  deglutizione. 

Fra  l'eccitazione  dei  nervi  sensibili  e  la  contrazione  successiva  dei  muscoli  inter- 
cede un  tempo  percettibile;  ma  per  i  mutamenti  del  respiro,  non  ho  potuto  accorgermi 
di  questo  ritardo;  quando  succede  il  mutamento  psichico  succede  contemporaneamente 
il  mutamento  nel  respiro.  Guardando  il  tracciato  appena  cessa  la  distrazione  e  si 
ristabilisce  il  fenomeno  dell'attenzione,  vedo  che  si  è  arrestata  nella  discesa  la  penna 
e  che  è  già  cominciata  una  inspirazione  più  alta.  Sono  dunque  fenomeni  sincroni  e 
diversi  dai  riflessi  comuni,  onde  si  deve  ammettere  l'esistenza  di  centri  respiratori 
cerebrali. 

Pur  riconoscendo  che  vi  sia  nel  midollo  allungato  un  centro  che  manda  impulsi 
ritmici  ai  centri  spinali  del  respiro,  dobbiamo  ritenere  che  fra  la  corteccia  cerebrale 
ed  il  centro  del  midollo  allungato  devono  esistere  delle  relazioni  più  intime  e  più 
dirette  che  non  siano  quelle  che  producono  i  riflessi  ordinari,  i  quali  si  compiono  con 
lentezza  molto  maggiore. 


Differenze  individuali,  e  mutamenti  nella  eccitabilità  del  centro  respiratorio. 

Il  concetto  che  noi  dobbiamo  farci  di  un  eccitamento  è  quello  di  una  causa  che 
produce  un  mutamento  nella  condizione  della  vita  delle  cellule;  di  una  causa  cioè  che 
è  capace  di  alterare  la  costituzione  chimica  delle  cellule.  Quanto  maggiore  è  la  vita- 
lità delle  cellule,  tanto  più  sarà  grande  la  resistenza  che  esse  oppongono  agli  agenti 
perturbatori.  È  questa  una  affermazione  che  a  primo  aspetto  lascia  dubbiosi  ;  ma  per 
comprendere  come  dobbiamo  tenere  distinto  il  concetto  della  vitalità  da  quello  della 
eccitabilità,  basta  pensare  a  cosa  succede  negli  animali  neonati,  che  sono  i  più  refrat- 
tari all'asfissia.  Invecchiando  gli  animali  e  l'uomo  diventano  sempre  meno  resistenti 
alle  cause  perturbatrici  del  respiro. 

È  questo  un  fatto  importante  per  la  fisiologia  generale  della  respirazione  che  ho 
già  accennato  in  una  precedente  memoria  sull'apnea,  e  che  torna  utile  di  esaminare 
meglio.  Loewy  in  un  lavoro  che  fece  sulla  eccitabilità  del  centro  respiratorio  giunse 
alla  conclusione  che  "  la  eccitabilità  del  centro  respiratorio  presenta  una  grande 
(auffallend)  costanza  „  (1).  Le  esperienze  che  ho  fatto  sull'uomo  mi  diedero  dei  risul- 
tati che  contraddicono  tale  affermazione. 


(1)  A.  L(ewt,  Zur  Kennlniss  der  Erregbarkeit  des    Athemcentrums,  "  Arch.  f.  d.  g.  Physiologie 
voi.  47,  pag.  620. 

Sesie  II.  Tom.  LUI.  a2 


402 


G     LO    MOSSO 


Non  mi  fermerò  qui  a  fare  la  critica  del  metodo  di  Lcewy,  né  a  cercare  la 
ragione  di  questa  differenza.  Credo  clie  ad  impugnare  tale  affermazione  del  Lcewy 
siano  sufficienti  le  esperienze  che  ho  già  pubblicate  intorno  all'apnea  e  quelle  che 
esporrò  adesso. 

Il  metodo  che  adoperai  in  queste  ricerche  consiste  nel  chiudere  il  naso  e  sospen- 
dere la  respirazione  per  un  tempo  eguale  p.  e.  10"  e  vedere  quali  sono  le  modifica- 
zioni che  succedono  nel  respiro.  Mettendo  un  pneumografo  intorno  al  torace  e  scri- 
vendo i  movimenli  respiratori  si  osserva  una  grande  costanza  nei  tracciati  quando 
le  persone  stanno  tranquille.  Per  maggiore  regolarità  dei  tracciati  è  meglio  chiudere 
le  narici  sempre  alla  fine  di  una  espirazione. 


Fi"    4. 


Il  primo  fatto  che  risulta  da  queste  esperienze  è  che  le  persone  giovani  sono 
generalmente  più  refrattarie  all'asfissia  che  non  gli  adulti  od  i  vecchi,  cioè  un  arresto 
del  respiro  produce  nei  giovani  una  reazione  meno  intensa  che  negli  adulti  e  nei  vecchi. 


Questo  lo  vediamo  nei  seguenti  tracciati:  Al  ragazzo  del  laboratorio  Gay  Giu- 
seppe, che  ha  l'età  di  15  anni,  applico  un  pneumografo  doppio  di  Marey  intorno 
all'addome.  Come  nelle  precedenti  ricerche  sull'apnea,  per  evitare  la  fatica  di  stare 
in  piedi,  le  persone  da  me  studiate  si  appoggiavano  contro  una  tavola  imbottita  che 
stava  inclinata  a  45°. 

Nel  tracciato  4  chiudo  per  3  volte  successive  il  naso,  comprimendogli  colle  dita 
le  narici.  L'addome  si  rilascia  e  passa  in  una  posizione  espiratoria  maggiore  durante 
la  pausa  del  respiro  ;  l'altezza  delle  inspirazioni  rimane  quasi  costante,  solo  la  toni- 
cità e  la  posizione  espiratoria  del  diaframma  si  è  modificata  e  dopo  si  ristabilisce. 

Il  tracciato  5  rappresenta  pure  il  respiro  del  diaframma  e  fu  preso  sopra  di  una 
donna  coricata  in  posizione  orizzontale.  Il  tempo  nel  quale  le  tenevo  chiuse  le  narici 
è  più  lungo  e  varia  da  16"  a  20". 

Anche  qui  vediamo  che  la  pausa  del  respiro  non  produce  alcun  effetto  e  le  inspi- 
razioni che  succedono  dopo  tale  arresto  non  sono  cambiate,  ne  per  il  ritmo,  ne  per 
la  forza. 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


403 


Il  tracciato  6  lo  prendemmo  sopra  un  garzone  del  laboratorio  meccanico,  certo 
Clhiffa,  di  anni  15:  esso  rappresenta  la  respirazione  del  torace  scritta  mentre  stava 
coricato  orizzontalmente.  Gli  chiudo  le  narici  e  dopo  24"  le  apro:  succede  una  inspi- 
razione più  forte,  ma  questo  non  è  un  fatto  costante,  perchè  era  mancata  nell'esperienza 


precedente  e  manca  pure  nella  successiva.  L'importante  è  di  vedere  che  un  arresto 
così  lungo  produce  un  effetto  minimo  sulle  respirazioni  successive. 

Nelle  persone  adulte  non  vi  è  più  questa  impassibilità  del  respiro  per  una  pausa. 
Dei  molti  esempi  che  potrei  riferire,  ne  prendo  due  a  caso  nella  serie  delle  esperienze 
fatte  e  li  riproduco  colle  figure  7  ed  8.  Un  vecchio  di  76  anni,  certo  Manini  Carlo, 


404  ANGELO    MOSSO  O 

ha  il  pneumografo  doppio  intorno  al  torace  (fig.  7).  Per  quattro  volte  gli  chiudo  le 
narici  comprimendole  colle  dita  durante  10".  In  tutte  queste  esperienze,  come  nelle 
precedenti,  e  nelle  successive  fatte  in  altri  giorni  per  raffronto,  ottenni  sempre  una 
reazione  più  forte  del  respiro  che  non  succeda  nei  giovani  per  una  pausa  eguale  del 
respiro,  o  per  una  molto  più  lunga. 

Il  tracciato  8  fu  preso  sopra  Agostino  Caudana,  un  uomo  robusto  dell'età  di  51  anno, 
sul  quale  feci  le  mie  prime  ricerche  sulla  respirazione  ora  sono  già  più  di  25  anni. 
Anche  in  lui,  come  succede  in  me,  l'arresto  del  respiro  fatto  per  10"  produce  una 
reazione  costante  e  molto  più  grande  che  nelle  persone  più  giovani. 

In  queste  esperienze  non  possiamo  dire  che  l'eccitamento  fosse  minore:  anzi 
siamo  certi  che  nello  stesso  tempo  si  accumula  nei  giovani  una  quantità  maggiore  di 
anidride  carbonica  nel  sangue.  Forse  era  doppia  la  quantità  di  anidride  carbonica  che 
per  il  medesimo  peso  in  chilogrammi  produceva  il  ragazzo  di  18  anni  e  la  donna 
di  22,  in  confronto  del  vecchio  di  76,  secondo  avevano  già  mostrato  le  esperienze  di 
Scharling.  In  questo  sono  tutti  d'accordo  che  il  ricambio  materiale  sia  più  attivo  nei 
giovani  che  nei  vecchi,  e  malgrado  che  l'intensità  dell'eccitamento  sia  maggiore  (se 
vogliamo  chiamare  con  tale  nome  la  diminuzione  dell'ossigeno  e  l'accumularsi  del- 
l'anidride carbonica  nel  sangue)  è  minore  la  reazione  del  centro  respiratorio  nei  gio- 
vani, mentre  è  più  intenso  l'effetto  negli  adulti  e  nei  vecchi. 

Il  prof.  Benedicenti  fece  nel  mio  Laboratorio  una  serie  di  ricerche  con  altro 
metodo,  le  quali  diedero  il  medesimo  risultato  (1)  :  studiando  il  tempo  che  uno  può 
resistere  tenendo  il  naso  chiuso,  trovò  delle  grandi  differenze,  come  era  già  noto  ;  ma 
analizzando  l'aria  espirata  dopo  la  pausa,  vide  che  la  durata  più  o  meno  lunga  non 
dipende  dalla  capacità  polmonare,  ne  dalla  quantità  di  ossigeno  consumata,  ne  da 
quella  dell'anidride  carbonica  eliminata,  ma  che  le  differenze  sono  dipendenti  dalla 
maggiore,  o  minore  resistenza  dei  centri  nervosi  nei  diversi  individui. 

Ho  pubblicato  nel  mio  libro  sulla  Fisiologia  dell'uomo  sulle  Alpi,  a  pag.  274,  una 
tabella  grafica  nella  quale  si  vedono  i  rapporti  fra  la  capacità  polmonare  e  il  tempo 
che  uno  può  resistere  quando  gli  si  chiude  il  naso.  Facendo  queste  esperienze  sugli 
studenti  che  frequentano  le  mie  lezioni  ho  trovato  delle  differenze  personali  inaspet- 
tate, che  certo  non  possono  spiegarsi  coll'eccitamento  per  l'accumularsi  dell'anidride 
carbonica  nei  polmoni,  o  coll'azione  che  la  diminuzione  dell'ossigeno  può  avere  come 
eccitamento  sul  centro  respiratorio. 

Uno  studente  di  Veterinaria,  il  sig.  Gambarotta,  di  aspetto  piuttosto  debole  e 
pallido,  ci  sorprese  colla  grande  resistenza  che  egli  presentò  all'asfissia.  Credo  sia  un 
caso  eccezionale,  perchè  in  parecchie  esperienze  poteva  stare  un  minuto  e  mezzo  senza 
respirare;  e  questo  succedeva  anche  quando  non  faceva  una  inspirazione  profonda 
prima  che  gli  chiudessi  le  narici,  come  si  vede  nel  tracciato  9.  In  questo  foglio  vi 
erano  due  tracciati  eguali  fatti  sopra  di  lui.  Ho  dovuto  tagliarne  uno  in  due  per  non 
riprodurre  una  figura  troppo  lunga.  Il  respiro  fu  scritto  nel  solito  modo  con  un  pneu- 
mografo messo  intorno  al  torace.  La  penna  scende  nella  inspirazione  e  si  alza  nella 
espirazione.  Non  ho  scritto  il  tempo,  perchè  lo   contavo  coll'orologio   a   secondi.  In 


(1)  A.  Benedicenti,  Sull'arresto  del  respiro  nell'uomo  e  cause  che  ne  modificano  la  durata,  R.  Acca- 
demia di  medicina,  aprile  1897. 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


405 


questo  tracciato  da  a  in  w  sono  passati  91  secondi  prima  che  aprisse  la  bocca.  Per 
quasi  un  minuto  il  tracciato  del  torace  è  perfettamente  immobile  e  si  vedono  i  bat- 
titi del  cuore.  In  principio  della  seconda  linea  il  torace  non  sta  più  fermo  ed  immo- 
bile come  prima,  ma  vedesi  un  leggero  tremito  coll'accenno  a  dei  moti  inspiratori. 

Questo  tracciato  fa  uno  strano  contrasto  con  altri  che  pubblicherà  fra  poco  il 
prof.  Galeotti,  che  pure  essendo  giovane  e  robusto  resiste  normalmente  solo  8  secondi 
alla  chiusura  delle  narici,  e  deve  qualche  volta  aprire  anche  prima  la  bocca  per 
respirare. 

Degna  di  meraviglia  in  questo  tracciato  è  la  durata  minima  della  reazione  che 
manifestasi  quando  il  signor  Gambarotta  apre  la  bocca  e  respira  spontaneamente. 
Dopo  due  inspirazioni  profonde  il  respiro  era  normale.  Lo  stesso   è  succeduto  anche 


Fig.  9. 

in  un  tracciato  dove  stette  98  secondi  senza  respirare.  Non  ho  riprodotto  questo 
tracciato  perchè  nell'ultima  parte  il  torace  era  meno  immobile  che  in  questo  della 
figura  9. 

Nei  suoi  compagni  della  medesima  età  e  dello  stesso  corso  il  respiro  si  potè 
trattenere  in  media  solo  circa  30",  alcuni  anche  solo  17",  senza  che  vi  fosse  alcun 
rapporto  colla  capacità  polmonare,  il  peso,  o  la  statura,  come  appare  dai  dati  miei  e 
da  quelli  che  pubblicò  il  prof.  Benedicenti. 

Questi  fatti  mostrano  quanto  sia  diverso  lo  stato  di  eccitabilità  del  centro 
respiratorio  e  come  non  siano  attendibili  le  conclusioni  alle  quali  è  giunto  Lcewy, 
che  ammette  essere  costante  in  tutte  le  persone  e  in  tutte  le  circostanze  e  le  ore 
della  giornata  la  eccitabilità  del  centro  respiratorio,  facendo  dipendere  tutto  dagli 
eccitamenti  che  agiscono  irritando  il  centro  respiratorio. 


Critica  delle  dottrine  fisiologiche  per  mezzo  delle  esperienze  fatte  sull'uomo. 

Gli  studi  grafici  che  ho  pubblicato  e  che  pubblicherò  in  seguito  sulla  respirazione 
spero  avranno  per  risultato  di  convincere  i  colleghi  che  gli  esperimenti  sull'uomo 
siano  per  molti  problemi  preferibili  alle  ricerche  che  si  fanno  sugli  animali.  Fu  un 
errore  di  non  aver  cercato  sempre  prima  di  enunciare  una  dottrina,  se  non  era  possi- 
bile di  rettificarla  sull'uomo.  I  conigli,  sui  quali  vennero  fatte  fino  ad  ora  la  maggior 
parte  delle  esperienze  per  fondare  la  dottrina  generale  della  respirazione,  hanno 
l'inconveniente  di  respirare  con  un  tipo  diverso  dal  nostro.  La  vivisezione,  l'uso  dei 
frenografi  e  degli  strumenti  che  si  applicano  direttamente  al  diaframma  aprendo  la 


40G  ANGELO    MOSSO  10 

cavità  dell'addome  sono  metodi  violenti  che  servono  meno  bene  dello  studio  grafico 
fatto  sull'uomo. 

Dopo  le  ricerche  di  Hering  e  Breuer  (1)  tutti  i  fisiologi  danno  una  grande  im- 
portanza alle  eccitazioni  dei  rami  nervosi  terminali ,  colle  quali  i  nervi  vaghi  si 
distribuiscono  al  polmone. 

È  noto  come  Breuer  ed  Hering  abbiano  affermato  in  seguito  alle  loro  espe- 
rienze che  i  mutamenti  di  volume  dei  polmoni,  cioè  la  loro  estensione  e  il  loro 
restringimento,  influiscono  per  mezzo  del  nervo  vago  sui  moti  della  respirazione;  così 
che  la  distensione  dei  polmoni  agisce  in  via  riflessa  paralizzando  l'inspirazione  e 
producendo  l'espirazione,  e  viceversa  che  per  mezzo  della  diminuzione  del  volume 
polmonare  si   ferma  la  espirazione,  e  si  eccita  una  inspirazione. 

Questi  risultati  non  si  ottengono  nell'uomo.  Esaminando  molte  persone  in  varie 
ore  della  giornata,  alle  quali  chiudevo    le    narici   per   un  tempo  più    o   meno  lungo 


Fig.  10. 

e  ripetutamente  con  metodo  nelle  varie  fasi  della  rivoluzione  respiratoria,  mi  accorsi 
che  non  si  verifica  nell'uomo  la  legge  dei  riflessi  enunciata  da  Breuer  ed  Hering. 
Questo  disaccordo  si  vede  nel  tracciato  10  preso  sopra  Agostino  Caudana,  dove 
essendosi  chiuse  le  narici  alla  fine  di  una  inspirazione,  non  incomincia  dopo  una  espi- 
razione, ma  succede  invece  un'  altra  inspirazione.  Nella  'seconda  esperienza  avendo 
chiuso  le  narici  alla  fine  di  una  espirazione  si  produsse  una  inspirazione  dopo  l'ar- 
resto. Nella  terza  ripetendo  la  chiusura  alla  fine  di  una  inspirazione  si  ottiene  non 
già  una  espirazione,  ma  un'altra  inspirazione,  e  così  successe  parecchie  volte  di  seguito. 
Per  eliminare  il  contatto  colla  pelle  ho  ripetuto  queste  esperienze  servendomi  di 
una  maschera  di  guttaperca  modellata  sulla  faccia  delle  persone  che  servivano  alle 
mie  esperienze.  Il  tubo  di  vetro  messo  in  corrispondenza  del  naso  poteva  chiudersi 
facilmente  por  mezzo  di  un  tappo  conico  di  sughero .  o  di  gomma ,  che  chiudeva 
ermeticamente  l'apertura.  La  maschera  era  a  tenuta  d'aria  per  mezzo  di  mastice  da 
vetrai  messo  intorno  sul  bordo.  La  persona  dopo  essersi  riposata  respirando  spon- 
taneamente, sapeva  che  bisognava  lasciar  funzionare  liberamente  il  respiro  senza 
intervenire  in  nessun  modo  colla  volontà.  Durante  la  chiusura  la  linea  decorre 
orizzontale. 


(1)  Breuer,  Die  Sélbststeuerung  der  Athmung  durch  den  Nervus   Vagus,  *  Sitzungsberichte  k.  Ak. 
der  Wiss.  Wien  „,  1868,  pag.  909. 


11 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


407 


Il  tracciato  11  fu  preso  sopra  Giorgio  Mondo;  esso  ha  un  timpano  doppio  intorno 
al  torace  e  sta  coricato  nella  posizione  di  45°. 

Nella  prima  esperienza,  chiudendo  l'accesso  dell'aria  alla  fine  di  una  inspirazione, 
non  vi  è  alcun  cenno  di  una  espirazione  e  siamo  incerti  se  si  verifichi  la  legge  di 
Breuer  ed  Hering,  ma  nelle  due  esperienze  successive  non  si  verifica  più.  Quindi  non 


possiamo  ammettere  che  nella  respirazione  normale  l'azione  del  centro  nervoso  sia 
influenzata  dagli  stimoli  meccanici  che  vengono  dalla  periferia  per  mezzo  del  nervo 
vago.  Qui  vediamo  che  la  distensione  polmonare  dovuta  all'inspirazione  non  produsse 
l'inibizione  del  movimento  inspiratorio  :  la  prima  volta  si  ebbe  un  prolungamento  della 
inspirazione,  e  nelle  due  ultime  esperienze  il  respiro  cominciò  con  una  inspirazione. 
Bastano,  credo,  questi  esempi  per  mostrare  che  la  dottrina  di  Breuer  ed  Hering 
non  può  applicarsi  all'uomo  e  ritornerò  in  seguito  su  questo  argomento. 

Respirazione  coli' idrogeno. 

Dopo  essermi  convinto  con  queste  esperienze  che  manca  la  sensibilità  tattile  e 
per  cosi  dire  meccanica  per  i  movimenti  del  polmone,  uno  può  facilmente  convincersi 
che  manca  pure  la  sensibilità  chimica  nelle  terminazioni  periferiche  del  vago.  Respi- 


Fig.  12. 

rando  l'idrogeno,  l'azoto,  e  l'acido  carbonico  mi  assicurai  che  questi  gas  non  eccitano 
il  polmone,  e  che  per  essi  il  polmone  è  insensibile. 

L'idea  di  servirsi  dell'idrogeno  per  eliminare  l'azione  dell'ossigeno  nella  respi- 
razione, fu  una  delle  prime  che  venne  ai  fisiologi:  ma  non  si  trasse  da  queste  espe- 
rienze molto  profitto,  perchè  si  faceva  respirare  troppo  lungamente  questo  gas  in 
modo  da  produrre  l'asfissia.  Bisogna  fare  solo  due  o  tre  inspirazioni. 

Riproduco  una  esperienza  fatta  coll'idrogeno  sopra  me  stesso  (Fig.  12).  Mentre 
sono  coricato  in  posizione  orizzontale  col  pneumografo  doppio  sul  torace  e  si  scrive  il 


408  ANGELO    MOSSO  12 

respiro,  mi  viene  messa  sopra  la  faccia  una  maschera  di  metallo  dalla  quale  esce  una 
forte  corrente  di  idrogeno  puro  che  trovasi  compresso  a  5  atmosfere  in  un  cilindro. 
La  corrente  è  così  forte  che  sono  quasi  certo  di  respirare  tutto  idrogeno.  Faccio  tre 
inspirazioni  profonde  e  non  ho  alcuna  sensazione,  i  movimenti  profondi  del  respiro 
si  compiono  liberamente  come  se  respirassi  dell'aria,  manca  ogni  riflesso  che  accenni 
menomamente  a  modificare  il  respiro,  anche  l'apnea  che  succede  è  normale:  ma  i 
movimenti  quando  cominciano  sono  molto  più  forti  che  non  fossero  quando  respiro 
dell'aria.  Questo  si  spiega  perchè  i  polmoni  erano  pieni  di  idrogeno  e  il  sangue  cir- 
colando per  essi  ha  potuto  liberarsi  dell'acido  carbonico,  ma  non  ha  potuto  trovare 
l'ossigeno  occorrente. 

Head  (1),  al  quale  dobbiamo  le  prime  esperienze  fatte  col  metodo  grafico  per 
studiare  l'apnea  nella  respirazione  coll'idrogeno,  esperimentando  nei  conigli  per  mezzo 
di  una  pompa  colla  quale  insufflava  il  gas,  trovò  che  la  durata  dell'apnea  è  minore 
di  quanto  non  si  trovi  respirando  l'aria  atmosferica  o  l'ossigeno.  Questo  mio  trac- 
ciato è  più  dimostrativo  che  non  sia  la  curva  V  della  Tav.  V  di  Head.  Nell'uomo 
questa  esperienza  riesce  dunque  meglio  che  nel  coniglio.  E  non  trovai  che  la  durata 
dell'apnea  sia  molto  minore. 

Ho  ripetuto  nel  giorno  che  feci  questa  esperienza  sei  altre  eguali  e  tutte  dettero 
un  risultato  identico  a  questo  tracciato  che  riprodussi.  Non  riproduco  per  brevità 
alcun  tracciato  dell'apnea  ottenuta  respirando  l'aria  atmosferica  con  tre  inspirazioni 
profonde,  perchè  simili   tracciati  li    pubblicai   nella  memoria  precedente   sull'apnea. 

La  cosa  importante  non  sta  nel  vedere  che  per  mezzo  di  un  gas  indifferente 
possa  prodursi  l'arresto  del  respiro,  il  che  prova  che  non  è  l'aumento  di  ossigeno 
del  sangue  che  generi  l'apnea;  ma  piuttosto  che  la  diminuzione  dell'anidride  carbo- 
nica produca  l'apnea.  Non  possiamo  però  dire  che  in  questo  tracciato  non  si  veda 
alcun  effetto  per  la  deficienza  dell'ossigeno. 

Paragonando  le  respirazioni  che  succedono  dopo  l'arresto  del  respiro  nell'aria 
atmosferica,  troviamo  in  modo  costante  che  esse  sono  meno  alte  di  quello  che  siano 
dopo  la  respirazione  dell'idrogeno.  Dopo  la  respirazione  dell'idrogeno  si  osserva  un 
aumento  di  tonicità  maggiore  che  non  si  osservi  dopo  aver  respirato  l'aria  atmosfe- 
rica. Il  ritardo  che  succede  prima  che  si  manifesti  questa  reazione  ed  il  piccolo  effetto 
per  la  mancanza  di  ossigeno,  ci  mostra  come  l'azione  di  questo  gas  nei  limiti  di 
queste  esperienze  sia  meno  importante  dell'anidride  carbonica,  nell'intimo  meccane- 
simo  della  respirazione.  Malgrado  che  i  polmoni  siano  pieni  di  un  gas  irrespirabile, 
vi  fu  una  pausa  del  respiro  che  ha  durato  16  a  20  secondi. 


(1)  H.  Head,  On  the  regulation  of  respiration,  "  Journal  of  Physiology  „,  voi.  10,  pag.  40. 


13  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  409 


n. 

Il  ritmo,  la  forza  dei  moti  respiratori 
e  il  tono  dei  muscoli  che  servono  al  respiro  sono  fra  loro  indipendenti. 

Il  numero  dei  muscoli  che  prendono  parte  alla  funzione  del  respiro  è  troppo 
grande,  perchè  sia  ragionevole  il  supporre  che  tutti  vengano  messi  in  azione  dalle 
poche  cellule  nervose  che  stanno  nel  midollo  allungato.  La  differenza  fra  le  funzioni 
del  diaframma  e  del  torace  che  tratterò  fra  poco  in  un  capitolo  speciale,  sono  così 
profonde  che  certo  devono  essere  dei  centri  nervosi  diversi  quelli  che  entrano  in 
azione.  È  possibile  che  nel  midollo  allungato  esista  il  centro  coordinatore  di  tutti  i 
centri  secondari,  ma  vedremo  che  ciascuno  di  questi  centri  può  funzionare  in  modo 
indipendente,  con  delle  variazioni  sue  proprie  nel  ritmo,  nella  forza  delle  contrazioni 
e  nella  tonicità  dei  suoi  muscoli. 

Uno  dei  fatti  più  comuni  nello  studio  grafico,  quando  si  confronta  la  forza  dei 
movimenti  respiratori,  è  di  trovare  nei  tracciati  una  serie  crescente,  o  decrescente 
di  movimenti  respiratori,  la  quale  si  forma  mentre  che  rimane  costante  la  frequenza 
del  ritmo.  Questo  dimostra  che  la  trasformazione  delle  energie  chimiche  dalla  quale 
si  generano  gli  eccitamenti  succede  con  un  ritmo  il  quale  si  sviluppa  e  funziona  in 
modo  indipendente  dalla  intensità  delle  conflagrazioni.  Cosicché  dobbiamo  supporre 
che  esistano  dei  congegni  estranei  al  ritmeggio  i  quali  regolano  l'intensità  del  pro- 
cesso distruttivo  che  genera  gli  impulsi  nervosi,  che  vengono  mandati  ai  muscoli 
sotto  forma  di  eccitamenti,  ora  deboli  ed  ora  più  forti,  ora  limitati  ad  alcuni  muscoli 
ed  ora  estesi  ad  altri.  La  tonicità  ossia  l'azione  persistente  colla  quale  le  cellule  dei 
centri  respiratori  tengono  in  un  leggero  grado  di  contrazione  i  muscoli  che  servono 
al  respiro,  è  anch'essa  una  funzione  che  si  estrinseca  senza  dipendere  dalle  altre.  Per 
conoscere  l'economia  energetica  delle  cellule  nei  centri  nervosi  dell'  attività  respi- 
ratoria non  abbiamo  altro  mezzo  che  studiare  queste  tre  funzioni,  che  sono: 
E  la  ritmicità  che  può  chiamarsi  ritmo  e  forse  meglio  ritmeggio  ; 
F  la  forza  ossia  l'intensità  dei  movimenti  respiratori; 
T  la  tonicità  ossia  il  tono  dei  muscoli  che  presiedono  al  respiro. 

Le  combinazioni  possibili  di  R  ed  Fsono  otto  che  possono  esprimersi  coi  seguenti 
segni  : 

l°i?>.^>.     2°R<.F>.     3°R<.F<.     i°R>.F<.     5°  R  costante  .  F  > . 
6°  R  costante  .  F  < .     1°  R  <.F  costante.     8°  R>.  F  costante. 

Le  prime  tre  combinazioni  possono  facilmente  verificarsi  sopra  un  medesimo 
animale.  Sappiamo  infatti  dalle  ricerche  di  Winterberg  sulla  nicotina  (1)  che  le  pic- 
cole dosi  di  questo  veleno  agiscono  affrettando  il  ritmo  ed  approfondendo  la  inspira- 
zione cioè  R  >.  F  >.  Le  dosi  medie  rallentano  il  respiro  e  lo  approfondiscono  R  <.  F>. 


(1)  Winterberg,    Ueber    die   Wirkung    des    Nicotins    auf   die    Athmung,   "  Arch.  f.  exp.  Path.  und 
Pharmak.  „,  XL1TI,  pag.  406. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  b2 


410  ANGELO    MOSSO  14 

Le  forti  dosi  rallentano  la  frequenza  dei  moti  respiratori  e  fanno  diminuire  la  loro 
forza  fi  < .  F  < . 

Le  esperienze  sul  dolore  sono  quelle  dove  senza  volerlo  si  vede  più  spesso  l'in- 
fluenza del  sistema  nervoso  sul  respiro,  e  dove  appaiono  le  altre  combinazioni,  che 
mostrano  disgiunti  la  profondità  ed  il  ritmo  del  respiro.  Per  impressioni  deboli  ge- 
neralmente si  accelera  solo  il  ritmo  e  non  cambia  la  profondità,  ma  possono  anche 
crescere  entrambe  in  modo  imponente:  oppure  si  possono  col  dolore  far  entrare  in 
azione  altri  muscoli  che  non  funzionano  normalmente  nel  respiro,  e  specialmente  quelli 
espiratori  dell'addome;  come  pure  si  modifica  profondamente  la  tonicità  dei  muscoli. 

Nella  febbre,  nella  tachipnea  prodotta  dal  caldo,  è  facile  osservare  nei  cani  che 
la  respirazione  è  molto  frequente  e  superficiale.  La  debolezza,  le  fatiche,  le  emor- 
ragie, le  emozioni  psichiche  e  molti  farmaci  producono  il  medesimo  effetto  che  può 
rappresentarsi  col  simbolo  E>.F<.  Nell'avvelenamento  col  cloralio  e  nelle  inala- 
zioni fatte  con  anidride  carbonica  si  presentano  le  due  combinazioni  R  costante  .F> 
oppure  R  costante  .  F  < .  La  settima  forinola  si  ottiene  per  mezzo  del  cloralio  o  del 
dolore  R  <.F  costante.  L'ottava  R  >.F  costante  può  aversi  respirando  dell'aria  che 
contenga  20  a  30  %  di  anidride  carbonica. 

Non  riferisco  altri  esempì,  che  sarebbe  facile  mettere  insieme  una  lunga  lista  di 
citazioni  prese  dal  campo  della  farmacologia  :  mi  basta  affermare  che  esistono  tutte 
queste  otto  combinazioni,  e  con  esse  viene  dimostrato  che  le  due  funzioni  fonda- 
mentali del  ritmo  e  della  forza  sono  fra  loro  indipendenti. 

Nel  cuore  il  ritmo  varia  direttamente  con  la  eccitabilità  :  nel  respiro  queste 
funzioni  non  sono  collegate  fra  loro  da  un  intimo  rapporto.  Però  anche  nello  studio 
della  respirazione  appare  con  evidenza  l'applicazione  di  una  legge  generale  nei  pro- 
cessi della  vita,  che  la  diminuzione  della  temperatura  rallenta  e  scema  l'intensità  dei 
processi  chimici  e  quindi  anche  delle  funzioni  delle  cellule  :  mentre  quando  aumenta 
la  temperatura  delle  cellule  nervose  diventano  più  intense  le  loro  funzioni. 

Ho  già  detto  nella  precedente  memoria  sull'apnea  come  io  sento  dentro  di  me 
la  funzione  del  ritmo  cessare  in  modo  indipendente  da  quella  della  forza;  mentre  in 
alcune  persone  quando  si  produce  l'apnea  le  respirazioni  incominciano  essendo  pic- 
cole e  vanno  crescendo,  in  me,  come  in  altre  persone,  succede  il  fenomeno  inverso, 
che  le  inspirazioni  dopo  la  pausa  sono  più  forti  del  normale  e  vanno  decrescendo 
formando  una  scala  inversa. 

Siccome  sento  che  durante  l'apnea  manca  dentro  di  me  lo  stimolo  a  respirare  e 
quando  questo  si  ristabilisce  trovo  che  sono  più  forti  i  movimenti  respiratori,  devo 
conchiudere  che  sono  due  funzioni  fra  loro  indipendenti,  perchè  l'una  diminuisce  e 
scompare  mentre  l'altra  cresce. 

Tale  indipendenza  può  anche  osservarsi  negli  animali.  Il  tracciato  13  fu  preso 
sopra  un  grosso  cane  al  quale  avevamo  iniettato  4  gr.  di  cloralio  nella  giugulare  ed 
al  quale  erasi  chiusa  la  trachea  in  modo  da  produrre  l'asfissia.  Si  era  aspettato  che 
cessasse  completamente  il  respiro,  e  dopo  cominciammo  la  respirazione  artificiale  col 
soffietto,  la  quale  durò  circa  un  minuto  senza  che  l'animale  ricominciasse  a  respirare 
spontaneamente.  Questi  tracciati  Tor  e  Ad  sono  scritti  per  mezzo  di  due  pneumografi 
di  Marey  messi  l'uno  sul  torace  e  l'altro  sull'addome,  in  modo  che  le  due  penne  dei 
timpani  registratori  si  alzano  nella  inspirazione  e  scendono  nella  espirazione. 


15  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  411 

Nel  principio  del  tracciato  13  si  vede  come  fosse  cessata  la  respirazione  arti- 
ficiale, il  torace  in  alto  e  il  diaframma  in  basso  sono  completamente  immobili.  In  A 
si  comincia  nuovamente  la  respirazione,  il  cane  fa  una  inspirazione  spontanea,  con- 
tinuasi per  poco  il  respiro  artificiale  e  subito  dopo  l'animale  comincia  a  fare  delle 
respirazioni  forti  che  formano  una  scala  decrescente.  La  frequenza  dopo  le  prime 
respirazioni  si  accelera  alquanto  e  dopo  si  rallenta. 

Anche  qui  il  congegno  nervoso  che  regola  la  forza  dei  movimenti  respiratori  era 
pronto  a  funzionare;   mentre   quello    del    ritmo,  malgrado   la   respirazione  artificiale 


Tor 


Ad 


Fig.  13. 

prolungata  per  circa  un  minuto,  non  era  in  condizione  da  poter  funzionare.  Nel  torace 
col  ristabilirsi  della  funzione  respiratoria  vediamo  che  si  solleva  lentamente  la  posi- 
zione di  espirazione,  il  che  accenna  ad  un  aumento  di  tonicità  che  non  compare  nel- 
l'addome. 

Quando  per  azione  della  fatica,  della  corsa  o  dell'acido  carbonico  o  del  freddo 
facciamo  variare  profondamente  il  ritmo  e  la  forza  delle  respirazioni,  è  la  forza  dei 
movimenti  respiratori  che  torna  prima  allo  stato  normale  (e  qualche  volta  diviene 
anche  più  piccola)  senza  che  la  frequenza  del  ritmo  siasi  ancora  ristabilita  al  valore 
di  prima. 

È  dunque  la  funzione  del  ritmo  che  dura  più  a  lungo  alterata:  ed  è  questa  la 
più  sensibile,  in  cui  appaiono  più  facilmente  le  modificazioni  per  delle  cause  minime, 
come  si  vede  nei  fenomeni  psichici  e  nel  dolore. 


Esperienze  sulla  tonicità  dei  muscoli  respiratori. 

Ho  già  scritto  un  capitolo  intorno  alle  oscillazioni  della  tonicità  dei  muscoli  che 
servono  alle  funzioni  del  respiro  (1),  ora  riprendo  questo  studio  per  analizzarlo  meglio 
e  mostrare  la  sua  indipendenza  dalla  funzione  del  ritmo  e  della  forza  dei  movimenti 
respiratori.  Vedremo  pure  che  il  tono  presenta  delle  oscillazioni  indipendenti  nei 
vari  centri,  così  che  le  oscillazioni  del  tono  diaframmatico  non  corrispondono  a  quelle 
della  cassa  toracica. 


(1)  A.  Mosso,  La  respirazione  periodica,  *  Memorie  della  R.  Aocad.  dei  Lincei  „,  1885,  cap.  VI. 


412 


ANGELO    MOSSO 


Iti 


Guardando  un  coniglio  che  respiri  tranquillo  si  vede  che  l'addome  presenta  oltre 
ai  movimenti  del  respiro,  dei  sollevamenti  e  degli  abbassamenti  dovuti  ai  cambia- 
menti di  tonicità  del  diaframma.  Questi  movimenti  si  compiono  in  modo  lento  ed  è 
per  ciò  escluso  il  dubbio  che  dipendano  dai  muscoli  dell'addome. 

Il  tracciato  14  rappresenta  i  movimenti  del  respiro  di  un  grosso  coniglio.  Si  era 
messo  sotto  all'addome  un  timpano  che  aveva  nel  mezzo  un  bottone  di   sughero:  un 


tubo  di  gomma  faceva  comunicare  questo  timpano  con  un  altro  timpano  a  leva  capo- 
volto, cosicché  la  linea  scende  quando  l'addome  si  dilata  e  la  curva  rappresenta  i 
movimenti  dell'addome  come  si  vedono  coll'occhio  e  come  sono  effettivamente  nel 
diaframma.  Il  coniglio  era  libero  ed  in  condizioni  perfettamente  normali. 

La  prima  idea  che  viene  vedendo  questi  cambiamenti  continui  che  presenta  la 
posizione  del  diaframma,  che  ora  si  innalza  ed  ora  si  abbassa,  mentre  respira  tran- 
quillamente, è  che  si  tratti  di  fenomeni  psichici.  Guardando  i  vasi  dell'orecchio  per 
trasparenza  vedo  però  che  i  loro  movimenti  di  dilatazione  e  di  restringimento  non 
corrispondono  ai  mutamenti  di  tonicità  del  diaframma. 


Fig.  15. 

Per  decidere  se  hanno  un  rapporto  con  dei  fenomeni  psichici  che  non  si  rivelino 
con  un  cambiamento  nello  stato  dei  vasi,  provo  ad  addormentare  il  coniglio  iniettan- 
dogli mezzo  grammo  di  cloralio  nella  cavità  dell'addome. 

Quando  il  coniglio  dorme  profondamente  torno  a  scrivere  i  movimenti  del  re- 
spiro (fig.  15),  trovo  che  sono  rallentati  e  meno  forti:  male  oscillazioni  della  tonicità 
esistono  egualmente,  anzi  sono  divenute  più  forti.  Non  dobbiamo  dare  importanza  alla 
diminuzione  nell'ampiezza  dei  movimenti  respiratori,  perchè  può  dipendere  in  parte 
dalla  posizione  dell'animale:  ma  erano  realmente  più  deboli  guardandoli  direttamente. 
Inietto  un  altro  mezzo  grammo  di  cloralio  per  produrre  una  narcosi  più  profonda 
e  trovo  che  le  oscillazioni  nella  tonicità  sono  completamente  scomparse.  Per  due 
minuti  la  linea  è  perfettamente  orizzontale  ed  uniforme. 

Il  tracciato  16  fu  preso  in  queste  condizioni:  poco  prima  che  cominci  il  tracciato 
gli  amministrai  dell'anidride  carbonica  e  per  ciò   la  serie  delle  respirazioni  va  leg- 


17  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  413 

germente  decrescendo  per  ritornare  allo  stato  normale  ;  in  S  si  grida  forte  nell'orecchio 
e  non  succede  alcun  mutamento. 

In  a  avvicino  alla  testa  dell'animale  una  debole  corrente  di  anidride  carbonica. 
Le  respirazioni  si  rinforzano,  ma  il  ritmo  cambia  poco.  Entrano  in  funzione  i  muscoli 
dell'espirazione  attiva  ;  in  w  cessa  l'inalazione  di  anidride  carbonica  e  il  respiro  torna 
lentamente  allo  stato  di  prima. 

In  S  faccio  un  suono  forte  per  mezzo  di  una  campana  e  anche  questa  volta  non 
vi  è  più  alcun  effetto  per  l'azione  del  cervello  sul  respiro.  Noi  vediamo  come  siano 
scomparse  le  oscillazioni  della  tonicità,  mentre  persistono  le  altre  due  funzioni  del 
ritmo  e  della  forza. 

Ora  viene  spontanea  la  domanda  se  questa  tonicità  abbia  il  suo  centro  di  azione 
nel  midollo  allungato,  o  nel  midollo  spinale:  se  cioè  lo  stato  di  leggera  contrazione 
nella  quale  sono  tenuti  i  muscoli  del  respiro  abbia  per  origine  una  relazione  di  sen- 
sibilità che  esiste  nel  midollo  spinale  (come  succede  per  gli  altri  muscoli)  :  oppure 
se  dobbiamo  ammettere  che  tali  mutamenti  abbiano  la  loro  sede  nel  midollo  allungato. 

Coi  progressi  della  tecnica  si  misureranno  con  esattezza  questi  tempi  e  sarà 
questo  un  campo  fecondo  di  studi;  per  ora  possiamo  solo  dire,  giudicando  grossola- 
namente, sia  più  logico  l'ammettere  che  i  fenomeni  della  tonicità  da  noi  riferiti  pei 
muscoli  respiratori  abbiano  la  loro   origine  nel  midollo   spinale  e   nel    cervello. 

Nella  fig.  17  scrivo  contemporaneamente  sopra  di  me  i  movimenti  del  torace  e 
dell'addome  e  vediamo  che  si  corrispondono  nelle  loro  variazioni.  Tutte  le  volte  che 
diminuisce  la  tonicità  del  torace  nella  linea  superiore  Tor,  diminuisce  pure  l'am- 
piezza dei  movimenti  del  diaframma  linea  Ad:  e  quaildo  cresce  la  tonicità  del  torace 
cresce  anche  la  forza  dei  movimenti  del  diaframma.  Vi  è  qui  una  corrispondenza 
simile  a  quella  che  ho  descritto  nella  fig.  2  della  Memoria  sulla  respirazione  perio- 
dica nell'uomo  studiando  gli  effetti  della  distrazione  e  dei  fenomeni  psichici.  Vi  è 
dunque  una  relazione  immediata  fra  i  centri  della  respirazione  toracica  e  del  dia- 
framma colla  tonicità  dei  muscoli  che  entrano  in  azione,  e  la  forza  dei  movimenti 
respiratori  presenta  delle  variazioni  sincrone  coi  mutamenti  di  tonicità  del  dia- 
framma e  del  torace. 

Colle  impressioni  sui  nervi  della  pelle  può  modificarsi  profondamente  la  tonicità 
dei  muscoli  respiratori. 

Per  economia  riferisco  solo  la  parte  inferiore  di  un  grande  tracciato  nel  quale 
scrissi  sopra  me  stesso  la  respirazione  del  torace  e  dell'addome  durante  l'azione  del 
freddo. 

Il  tracciato  18  rappresenta  la  parte  inferiore  delle  respirazioni  come  furono  scritte 
dall'addome  e  vediamo  in  esso  i  mutamenti  che  successero  nella  posizione  del  dia- 
framma per  l'azione  del  freddo.  Nel  principio  del  tracciato  le  respirazioni  sono  rego- 
lari. Nel  punto  segnato  dalla  prima  freccia,  mentre  mi  trovavo  nella  posizione  incli- 
nata di  45°  coi  piedi  scoperti,  il  meccanico  li  bagna  con  acqua  a  14°  coll'inaffiatoio 
che  serve  alla  pulizia  del  laboratorio.  Dove  c'è  la  seconda  freccia  in  basso  cessa  il 
getto  dell'acqua  sui  piedi.  Per  azione  del  freddo  il  torace  si  portò  in  forte  posizione 
inspiratoria  e  cosi  pure  il  diaframma,  tanto  che  nel  tracciato  non  si  vedono  queste 
prime  inspirazioni  che  furono  molto  rapide  e  forti  e  la  loro  base  nella  espirazione 
passò  sopra  il  vertice  delle  inspirazioni.  La  stessa  cosa  successe  pure  nel  torace,  come 


414 


ANGELO    MOSSO 


18 


vedremo  meglio  in  seguito  parlando  del  tetano  inspiratorio.  Mentre  durava  ancora  il 
getto  dell'acqua  fredda  sui  piedi    il  diaframma  si  rilasciò  e   prese   una   posizione  di 


X 


espirazione  profonda,  nella  quale  però  eseguiva  dei  movimenti  molto  più  ampi.  Il 
torace  e  l'addome  si  comportarono  in  modo  diverso,  ma  sarà  questo  uno  studio  che 
faremo  in  seguito,  per  ora  basta  notare  quanto  siano  profondi  i  cambiamenti  nella 
tonicità  del  diaframma  e  come  questa   diminuisca,  mentre   ancora  persiste   l'azione 


19  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  415 

eccitante;  che  la  frequenza  del  respiro  è  diventata  quasi  doppia  di  quanto  fosse 
prima,  che  i  moti  del  diaframma  si  fecero  profondissimi  e  che  l'azione  ha  durato 
lungamente  quando  già  era  cessata  la  sensazione  del  freddo.  Alla  fine  malgrado  un 
moto  cosi  violento  del  respiro  continuato  per  un  tempo  cosi  lungo,  io  non  ebbi  alcuna 
sensazione  di  stanchezza,  mentre  meno  di  venti  respirazioni  volontarie  egualmente 
profonde  avrebbero  bastato  a  stancarmi. 

Quale  sia  la  ragione  di  questa  reazione  cos'i  intensa  è  difficile  comprendere. 
Certo  questi  riflessi  della  pelle  fanno  parte  di  un  congegno  regolatore.  Ma  la  rea- 
zione che  succede  per  'una  causa  cosi  piccola,  è  tanto  intensa,  che  non  sembra  pro- 
porzionata all'effetto  utile  cui  devono  tendere  i  movimenti  riflessi  per  la  conserva- 
zione dell'individuo  producendo  una  intensità  maggiore  del  respiro.  Questa  forte  e 
prolungata  diminuzione  del  tono  nel  diaframma  appare  come  un  effetto  patologico 
dovuto  forse  alla  stanchezza  che  si  produce  nel  centro  diaframmatico  in  seguito  ad 
una  eccitazione  troppo  forte. 

Per  effetto  del  freddo  e  del  dolore  sembra  che  la  costituzione  chimica  delle 
cellule  dalle  quali  dipendono  i  movimenti  respiratori  sia  divenuta  più  instabile.  Si 
comprende  che  questo  sia  utile  nei  processi  moderatori,  e  che  i  nervi  sensibili  alla 
superficie  del  corpo  regolino  i  processi  del  metabolismo  nel  centro  respiratorio.  Qui 
vediamo  nella  sua  massima  intensità  la  funzione  di  questi  congegni  e  questo  ci 
spiega  come  l'effetto  del  freddo  e  del  dolore  durino  così  a  lungo  per  la  conservazione 
dell'economia. 

Il  fatto  che  entrino  in  funzione  i  muscoli  dell'addome  e  l'azione  degli  stimoli 
respiratori  in  un  campo  più  esteso  di  muscoli,  fa  comprendere  l' intento  cui  sono 
destinati  questi  riflessi,  che  è  quello  di  mantenere  il  sangue  nelle  condizioni  migliori 
che  occorrono  per  la  nutrizione  efficace  degli  organi,  quando  giunge  dall'esterno  una 
causa  perturbatrice. 

Tetano  inspiratorio. 

Si  crede  giustamente  che  i  movimenti  riflessi  siano  tutti  coordinati  ad  uno  scopo 
utile  che  è  quello  della  conservazione  dell'individuo;  ma  spesso  non  riusciamo  a  sco- 
prire il  lato  utile  dei  riflessi:  e  questo  lo  si  vede  anche  nei  movimenti  della  respi- 
razione. 

Riferisco  come  esempio  il  tracciato  19  dove  io  respirai  una  mescolanza  di  20  % 
di  C02  :  30  ossigeno  e  50  aria.  In  un  cilindro  stava  compresso  a  5  atmosfere  questa 
mescolanza  di  gas,  eguale  ad  ossigeno  40  %,  anidride  carbonica  20  °/0,  azoto  50  %• 
Nel  punto  segnato  dalla  linea  superiore,  quando  mi  si  avvicina  alla  faccia  la  ma- 
schera dalla  quale  esce  un  forte  getto  di  questa  mescolanza  di  gas,  la  linea  si 
abbassa,  e  quando  cessa  si  alza;  succede  un  tetano  inspiratorio,  simile  a  quello  che 
produce  il  freddo:  non  saprei  come  chiamare  altrimenti  questo  fatto  pel  quale  le 
contrazioni  dei  muscoli  del  torace  diventano  rapidamente  più  piccole  e  più  alte. 

Prima  che  sia  finita  l'inalazione  cominciano  già  a  diminuire  le  respirazioni  e 
dopo  la  tonicità  scende  sotto  il  normale.  Non  ebbi  alcuna  sensazione  spiacevole,  solo 
mi  accorsi  dal  gusto  acido  che  respirava  anidride  carbonica,  ebbi  un  po'  di  caldo 
alla  testa  e  sentii  rinforzarsi  il  respiro.  Vedendo  che  il  torace  si  portò  in  posizione 


416 


ANGELO    MOSSO 


20 


inspiratoria  e  che  i  movimenti  sono  divenuti  più  piccoli,  non  si  comprende  quale  sia 
l'effetto  utile  di  questo  riflesso  dove  insieme  alla  dilatazione  profonda  del  torace 
succede  una  serie  di  inspirazioni  più  piccole  e  più  frequenti.  La  tonicità  del  torace 
subisce  dopo  una  diminuzione,  e  anche  di  questo  non  sappiamo  comprendere  l'utilità. 
L'accasciarsi  del  torace  che  a  primo  aspetto  si  sarebbe  inclinati  a  considerare  come 
un  fenomeno  di  fatica  non  è  cosa  costante  e  lo  vidi  mancare  anche  quando  l'azione 
dell'anidride  carbonica  fu  più  intensa. 


Nel  tracciato  20  per  poco  non  perdetti  la  coscienza.  Io  ero  coricato,  e  si  scri- 
veva il  respiro  toracico  come  al  solito.  Il  meccanico  Corino  mi  avvicinò  la  maschera 
al  volto  dopo  aver  aperto  il  robinetto  del  cilindro  pieno  di  anidride  carbonica 
compressa.  Avevo  fatto  alcuni  minuti  prima  un'esperienza  simile,  ma  non  avevo 
potuto  resistere  perchè  l'azione  irritante  del  gas  mi  aveva  prodotto  un  leggero  colpo 
di  tosse. 


Fig.  20. 

Nel  tracciato  20  respiro  l'anidride  carbonica  da  a  in  w.  La  maschera  non  era 
ermeticamente  chiusa  sulla  faccia;  ma  fu  questa  la  volta  che  ne  respirai  di  più 
perchè  l'ambascia  e  l'affanno  furono  profondissimi  e  mi  sentii  male:  però  il  ronzio 
negli  orecchi  e  la  palpitazione  del  cuore  cessarono  presto;  tenni  gli  occhi  chiusi  e 
mi  parve  che  si  offuscasse  la  coscienza  poco  dopo  aver  fatto  segno  colla  mano  di 
allontanare  la  maschera. 

In  questa  esperienza  sebbene  sia  stato  più  forte  l'eccitamento,  se  così  è  lecito 
esprimersi,  fu  minore  l'effetto  che  nel  tracciato  precedente  quanto  alla  tonicità  del 
torace. 


21 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


417 


Nei  movimenti    del    diaframma  per    l'azione   dell'  anidride    carbonica   si   osser- 
vano tali  variazioni  nella  stessa  persona,  adoperando  la  stessa  mescolanza,  che  per 
spiegarle  dobbiamo    ammettere  una   variazione  di   eccitabilità  dei  centri  respiratori. 
Ho  già  riferito  una  esperienza  fatta  coll'anidride 
carbonica   su   Giorgio   Mondo,  qui  ne  riproduco 
un'  altra    dove    l' effetto   sulla  tonicità   del  dia- 
framma e  del  torace  è  più  intenso  (fig.  21). 

Egli  stava  in  posizione  orizzontale:  e  nella 
fig.  21  si  vede  che   per  1'  inalazione    fatta    con 

anidride  carbonica  a  20  %  essendo  il  resto    di  Tor 

aria,  compare  un  forte  tetano  inspiratorio  nel  to- 
race e  nel  diaframma. 

Quando  si  fanno  le  esperienze  in  posizione 
verticale  sono  meno  evidenti  le  variazioni  nella 
tonicità  del  diaframma  perchè  il  peso  del  fegato 
e  dei  visceri  addominali  tirano  in  basso  il  dia- 
framma. Questo  spiega  in  parte  le  differenze: 
ma  non  basta  a  spiegarle  completamente,  come 
dimostrerò  meglio  nel  capitolo  seguente. 

Quando  si  trattiene  il  respiro  succede  un 
aumento  della  tonicità  del  torace.  Nel  tracciato 
della  fig.  22  venne  scritta  con  due  timpani  la 
respirazione  toracica  e  addominale.  Una  persona 

mi  chiudeva  le  narici  e  quando  facevo  un  segno  Pi„  21. 

colla  mano  mi  lasciava  libero  il  naso  ed  io  co- 
minciavo a  respirare  profondamente.  La  tonicità  del  torace  si  mantiene  elevata  per  un 
certo  tempo  e  l'effetto  è  maggiore  nel  torace  che  nell'addome.  Per  vedere  se  le  penne 


Ad 


Fig.  22. 


a  leva  scrivevano  bene  essendo  eguali  i  quattro  timpani  sull'addome  e  sul  torace  nel 
segno  X  faccio  fermare  il  cilindro  ed  invertire  i  tubi.  La  linea  del  torace  viene  in  basso 
e  quella  dell'addome  in  alto.  Ripeto  l'esperienza.  L'asfissia  compare  meno  presto  perchè 
fermai  alla  fine  di  una  inspirazione  e  dopo  ricomincia  con  una  inspirazione  profonda. 

Serie  IL  Tom.  LUI.  e2 


418 


ANGELO    MOSSO 


22 


La  fig.  23  rappresenta  un'esperienza  fatta  su  Giorgio  Mondo,  egli  era  in  posi- 
zione orizzontale  ed  aveva  la  maschera  sul  volto.  Nel  punto  segnato  da  una  freccia 
applico  nel  tubo  della  maschera  il  tubo  di  gomma  che  comunicava  colle  valvole  di 
Muller.  Queste  erano  molto  grosse:  in  quella  che  serviva  all'uscita  dell'aria  espirata 


Tor 


Ad 


"" ' ' """" "■■■"■■«■ ■ .,m...,....iii.i.ii.miimmim 


Fig.   23. 

vi  era  appena  tant'acqua  che  bastasse  a  chiudere  ed  impedire  che  nelle  forti  inspi- 
razioni l'aria  penetrasse  nel  recipiente.  In  quella  che  serviva  all'entrata  dell'aria  per 
l'inspirazione  vi  erano  55  mm.  di  acqua  sopra  il   livello    inferiore  del  tubo  per   cui 


Tor 


Ad 


Fig.  24. 

doveva  entrare  l'aria  inspirata.  Anche  qui   1'  effetto  è  immediato  :  aumenta  la   forza 
delle  inspirazioni  e  si  rallenta  il  ritmo. 

Non  si  tratta  dunque  di  un  effetto  chimico,  ma  di  un  riflesso  di  natura  mecca- 
nica; non  è  in  altre  parole  un  aumento  nella  forza  dei  movimenti  respiratori  causato  da 
un  mutamento  succeduto  nel  sangue.  Quando  si  leva  il  tubo  immediatamente  il 
respiro  torna   normale  senza    alcun  segno    di    fatica.    Questa   resistenza   di  55  mm. 


23  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  419 

viene  superata  senza  che  si  modifichi  la  tonicità,  e  scompare  senza  che  la  tonicità 
si  alteri. 

L' aumento  di  tonicità  si  osserva  non  solo  per  le  cause  chimiche ,  per  il 
freddo,  ecc.,  ma  anche  per  le  cause  meccaniche. 

Sopra  Giorgio  Mondo  chiudo  bene  la  maschera  con  mastice  da  vetrai  sulla  faccia; 
un  tappo  di  gomma  conico  entra  esattamente  nel  tubo  di  vetro  della  medesima  e  lo 
chiude.  Nel  punto  segnato  da  una  freccia  {  nella  fig.  24  chiudo  il  passaggio  dell'aria, 
ma  non  completamente,  metto  solo  un  ostacolo  ed  una  piccola  parte  può  ancora  pas- 
sare. Vediamo  che  la  seconda  inspirazione  diviene  più  forte,  e  il  ritmo  si  rallenta. 
Succede  come  un  tetano  inspiratorio:  appena  levo  il  tappo  torna  al  normale  la  toni- 
cità del  torace,  e  la  respirazione  un  poco  più  forte  ricomincia  collo  stesso  ritmo. 
Durante  la  chiusura  non  vi  fu  un  effetto  di  asfissia,  ma  agirono  dei  semplici  movi- 
menti riflessi  che  rinforzarono  i  movimenti  del  l'espiro  e  la  tonicità  dei  muscoli. 
Anche  qui  appare  la  legge  generale  che  quando  mettiamo  un  ostacolo  alle  inspirazioni, 
è  il  torace  che  reagisce  ed  ha  la  prevalenza,  perchè  sono  diventate  più  piccole  le 
contrazioni  del  diaframma. 

A  primo  aspetto  si  potrebbe  credere  che  si  tratti  di  un  fatto  dipendente  dal 
senso  muscolare,  e  che  l'impulso  che  deve  mettere  in  moto  i  muscoli  si  rinforzi  spon- 
taneamente quando  incontra  un  ostacolo  che  impedisce  al  muscolo  di  raccorciarsi 
in  misura  proporzionata  allo  stimolo.  Ma  la  modificazione  del  ritmo  e  il  rallentamento 
del  respiro,  non  può  spiegarsi  a  questo  modo  :  per  esso  deve  esistere  un  riflesso  cen- 
trale. Vedremo  in  seguito  che  un  ostacolo  messo  sopra  il  torace  con  un  peso  di 
40  chilogr.  non  basta  per  produrre  questo  rallentamento,  cosi  che  sono  probabilmente 
i  nervi  vaghi  che  servono  alla  produzione  di  questi  riflessi. 

Influenza  della  fatica  sulla  tonicità  dei  muscoli  respiratori. 

Per  studiare  la  fatica  dei  muscoli  respiratori  bisogna  eliminare  l'apnea  e  cercare 
di  mantenere  costante  e  normale  la  composizione   del  sangue.  A   tale  fine  adoperai 


Fig.  25. 

un  grosso  e  lungo  tubo  capace  di  contenere  tutta  l'aria  complementare.  Applicata 
la  maschera  sul  volto  facevo  il  tracciato  della  respirazione  toracica.  Dopo  con  un  lungo 
tubo  di  gomma  della  capacità  di  circa  1500  ce.  facevo  delle  inspirazioni  profonde. 
Nel  tracciato  25  ho  fatto  una  tale  esperienza  sopra  me  stesso.  Dopo  aver  ese- 
guito 14  inspirazioni  profonde  nel  tubo  di  gomma  si  vede  che  è  diminuita  la  toni- 
cità del  torace  e  che  va  lentamente  scomparendo  tale  effetto,  mentre  che  le  respi- 
razioni rimangono  per  un  certo  tempo  più  intense  di  prima. 


420 


ANGELO    MOSSO 


24 


Tutto  induce  a  credere  che  in  questa  esperienza  si  tratti  non  di  fatti  bulbari, 
ma  di  fenomeni  corticali  e  spinali  dovuti  agli  impulsi  volontari,  ed  è  probabile  che 
gli  impulsi  che  in  questa  esperienza  fecero  agire  i  muscoli  del  respiro  non  siano 
passati  per  il  centro  respiratorio  come  ho  già-  detto  parlando  dell'azione  del  freddo. 

Che  nella  stanchezza  si  produca  una  diminuzione  della  tonicità  è  facile  vederlo 
anche  senza  fare  un  grande  lavoro  muscolare.  Al  ragazzo  del  laboratorio  Giuseppe 
Gay  applicavo  il  pneumografo  doppio  intorno  al  torace  lasciandovi  sulla  pelle  solo 
una  maglia  di  lana  bene  aderente.  Il  pneumografo  era  fissato  non  solo  circolarmente 
all'altezza  delle  mammelle,  ma  per  mezzo  di  due  grossi  nastri  inestensibili  si  fissava 
pure  sulle  spalle  anteriormente  e  posteriormente  in  modo  da  essere  sicuri  che  non 
si  movesse  correndo. 

Dopo  aver  scritto  il  tracciato  normale  (fig.  26)  mentre  era  appoggiato  in  posi- 
zione di  45°,  si    alzò,  prese   in    mano  il   sostegno  di  ferro   che   portava  il    timpano 


Fig.  26. 


registratore  e  fatta  una  breve  corsa  fino  in  fondo  al  corridoio  del  laboratorio,  salì 
sulle  soffitte,  poi  scese  in  cantina,  tornò  sulle  soffitte  e  poi  sceso  al  1°  piano  donde 
era  partito,  ritornò  in  l'30"  a  coricarsi  sul  letto  in  posizione  di  45°  avendo  percorso 
due  volte  16  metri  in  altezza  sopra  una  scala  di  94  gradini.  Prima  di  scrivere  nuo- 
vamente il  tracciato  mi  assicuravo  per  mezzo  dei  segni  fatti  che  il  pneumografo 
fosse  a  posto  come  prima. 

Come  si  vede,  le  respirazioni  sono  molto  accelerate  e  profonde.  La  tonicità  del 
torace  è  diminuita.  Per  un  po'  si  mantiene  alla  medesima  altezza  la  posizione  espi- 
ratoria del  torace  e  poi  diminuisce. 

Questo  fatto  lo  riscontrai  in  tutte  le  esperienze  che  feci  su  questo  ragazzo.  In 
altri  questa  seconda  parte  era  meno  evidente;  ma  in  tutti  la  posizione  del  torace 
dopo  una  corsa  faticosa  con  affanno  del  respiro,  portavasi  in  basso,  come  si  vede  in 
questo  tracciato. 

Il  prof.  V.  Aducco  pubblicò  già  una  serie  di  tracciati  interessanti  sulle  varia- 
zioni della  tonicità  muscolare  respiratoria  nei  cani  che  gli  servirono  per  i  suoi  studi 
sull'azione  della  cocaina  sul  centro  respiratorio  bulbare  (1).  In  questo  lavoro  il 
prof.  Aducco  vide  che  si  manifestavano  dei  cambiamenti  di  tonicità  nei  muscoli  della 


(1)  V.  Aducco,  Sur  l'existenee  et  sur  la  nature  du  centre   respiratoire   bulbaire,  "  Arch.  ital.  de 
Biologie  „,  Tome  XIII,  pag.  116. 


25 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


421 


cassa   toracica,  mentre    era  completa   la   paralisi  bulbare  ed  esisteva  l'assenza   dei 
movimenti  respiratori  spontanei. 

Il  tracciato  27  fu  preso  sopra  un  cane  avvelenato  col  cloralio  nel  quale  si  pro- 
dusse l'asfissia  chiudendo  la  trachea.  Quando  cessò  il  respiro  si  aprì  la  trachea,  il 
cuore  batteva  forte,  e  si  cominciò  la  respirazione  artificiale  col  soffietto,  che  durò  più 


Tor 


di  due  minuti  senza  che  l'animale  respirasse  spontaneamente.  Nel  tracciato  27  si 
vede  in  alto  la  respirazione  toracica  in  basso  l'addominale.  Al  cessare  della  respira- 
zione artificiale  succede  una  espirazione  forzata  e  dopo  lentamente  il  torace  riprende 
la  posizione  di  riposo.  Nell'addome  succede  un  movimento  inverso.  Ripeto  tre  volte 
queste  pause  e  tutte  tre  le  volte  si  produce  un  tracciato  identico  al  pezzo  riprodotto 
nella  fig.  27. 

Nel  tracciato  successivo,  mentre  si  fa  la  respirazione  artificiale  dopo  l'asfissia, 
come  si  vede  nella  fig.  28,  succedono  tre  cambiamenti  che  per  la  lentezza  colla  quale 


Tor 


Ad 


Fig.  28. 

si  producono  non  sappiamo  bene  decidere  se  siano  movimenti  respiratori  o  semplici 
cambiamenti  di  tonicità.  Per  la  durata  loro  di  12  e  più  secondi,  cioè  di  5  al  minuto, 
sarebbero  dei  moti  come  non  si  osservano  generalmente.  Ma  la  cosa  più  singolare 
è  che  riprendendo  il  respiro  artificiale,  benché  questo  si  compia  in  modo  uniforme, 
compaiono  differenze  nel  tracciato  delle  singole  respirazioni,  che  sono  dovute  ai  cam- 
biamenti di  tonicità  nei  muscoli  del  torace  e  del  diaframma. 


422  ANGELO    MOSSO  26 

Il  cambiamento  di  tono  dei  muscoli  è  una  delle  questioni  difficili  che  abbiamo 
nella  fisiologia;  mi  occupai  già  di  questo  studio  colle  ricerche  che  feci  per  mezzo 
dell'ergografo  sulla  contrattura  nell'uomo  (1).  Dopo  ritornai  su  questo  argomento 
colle  ricerche  fatte  col  miotonometro  insieme  al  prof.  Benedicenti  (2).  Se  ne  occupò 
pure  il  prof.  Aducco  nel  mio  Laboratorio  (3),  pubblicando  dei  tracciati  simili  a  quelli 
che  qui  ho  riprodotto  colle  fig.  27  e  28. 

In  questa  esperienza  vediamo  come  la  tonicità  non  solo  sia  una  funzione  dei 
muscoli  indipendente  da  quella  del  ritmo,  e  dalla  forza  delle  contrazioni,  ma  appare 
qui  come  il  primo  segno  della  influenza  che  il  centro  nervoso  respiratorio  risveglian- 
dosi esercita  sui  muscoli.  L' interpretazione  più  semplice  di  questi  fatti  è  quella 
di  ammettere,  come  abbiamo  già  sostenuto  prima,  che  il  centro  respiratorio  abbia  solo 
la  funzione  di  coordinare  e  di  regolare  i  vari  centri  che  costituiscono  il  sistema  re- 
spiratorio. Comunque  sia  essendo  la  tonicità  un  riflesso  prodotto  da  una  eccitazione 
debole  e  permanente  che  giunge  ai  muscoli  dal  midollo  per  mezzo  dei  nervi  motori, 
dobbiamo  riconoscere  che  la  sensibilità  per  produrre  il  tono  si  risveglia  nelle  cellule 
nervose  centrali  prima  dell'attività  dalla  quale  dipendono  il  ritmo  e  la  forza  dei 
movimenti  respiratori. 


Considerazioni  sulla  natura  dei  centri  respiratori. 

Tra  la  funzione  del  cuore  e  quella  dei  centri  respiratori  vi  è  una  rassomiglianza 
profonda,  perchè  entrambi  questi  organi  trasformano  l'energia  loro  interna  in  un'altra 
forma  di  energia  che  si  manifesta  periodicamente  per  mezzo  del  ritmo,  della  forza 
delle  contrazioni  e  della  tonicità  muscolare.  Ritornerò  su  questo  argomento  in  una 
prossima  memoria  sulla  respirazione  periodica.  Le  ricerche  contenute  in  questa  serie 
di  pubblicazioni  alla  quale  mi  accingo,  confermarono  i  concetti  esposti  da  Luciani  (4) 
e  da  me  ora  sono  già  passati  più  di  venti  anni,  cioè  che  le  funzioni  dei  centri  re- 
spiratori non  dipendono  dall'azione  diretta  ed  immediata  degli  stimoli  esterni  ed 
estrinseci  ad  essi,  ma  dai  processi  chimici  delle  cellule  nervose  inerenti  alla  loro 
vita  e  dei  quali  non  conosciamo  ancora  il  meccanesimo. 

Il  centro  respiratorio  dobbiamo  considerarlo  come  un  complesso  di  energie  chi- 
miche le  quali  si  tramutano  ritmicamente  in  altre  forme  di  energia.  Certo  la  vita  di 
queste  cellule  è  legata  alle  condizioni  generali  dell'organismo,  ed  abbiamo  veduto 
come  si  modifichino  le  loro  funzioni  per  gli  agenti  estrinseci,  ma  ciò  nulla  meno  queste 
cellule  hanno  dei  processi  chimici  loro  propri  che  le  rendono  indipendenti  dagli  sti- 
moli esterni.  Come  in  ogni  organo  fisiologicamente  attivo,  dobbiamo  ammettere  l'esi- 
stenza di  una  corrente  centripeta  che  porta  il  materiale  per  la  nutrizione  delle  cellule 
nervose;  ma  questo  anabolismo  sono  pochi  i  fatti  che  lo  mettano  in  evidenza;  e  così 
pure  l'altra  corrente  di  ripulitura  e  di  lavaggio  dei  congegni  nervosi  per  mezzo  della 


(1)  A.  Mosso,  "  Arch.  ital.  de  Biologie  „,  XIII,  pag.  168. 

(2)  Benedicenti,  "  Archives  ital.  de  Biologie  „,  Tome  XXV,  1896,  pag.  385. 

(3)  Aducco,  Ibidem,  Tome  XIII,  p.  116. 

(4)  L.  Luciani,  Del  fenomeno  di  Cheyne  e  Stokes  in  ordine   alla   dottrina   del   ritmo  respiratorio, 
Sperimentale  „.  Firenze,  1879. 


27  I  MOVIMENTI  RESPIRATORI  DEL  TORACE  E  DEL  DIAFRAMMA  423 

circolazione  linfatica  e  sanguigna  è  difficile  studiarla.  La  parte  che  conosciamo  meglio 
è  quella  del  processo  distruttivo,  ossia  del  catabolismo,  che  appare  manifesta  nei 
movimenti  respiratori. 

Lo  studio  della  respirazione  è  interessante  per  la  fisiologia  generale,  perchè  dal- 
l'azione che  queste  cellule  esercitano  automaticamente  sui  muscoli,  noi  desumiamo 
quale  sia  il  corso  e  l'intensità  dei  processi  chimici  che  succedono  in  esse. 

La  mancanza  di  ossigeno,  l'accumularsi  dell'anidride  carbonica,  le  emozioni  psi- 
chiche, l'azione  del  freddo  e  del  caldo,  modificano  i  processi  chimici  nelle  cellule  del 
centro  respiratorio,  rendendo  più  instabile  l'equilibrio  del  loro  edificio  e  promoven- 
done un  disfacimento  più  rapido. 

I  fenomeni  per  mezzo  dei  quali  si  estrinseca  il  catabolismo  nelle  cellule  dei 
centri  respiratori  sono  come  delle  conflagrazioni  periodiche;  e  vi  sono  dei  processi 
regolatori  i  quali  impediscono  che  l'energia  accumulata  nelle  cellule,  sviluppi  con  un 
processo  continuo  la  sua  forza  fino  all'esaurimento  delle  energie  nervose  motrici. 

Le  cellule  nervose  dalle  quali  partono  gli  impulsi  che  fanno  muovere  i  muscoli 
della  respirazione,  essendo  le  sole  che  indiscutibilmente  abbiano  un'attività  periodica 
loro  propria,  lo  studio  di  questa  loro  proprietà  è  utile  non  solo  per  controllare  lo 
studio  controverso  della  innervazione  cardiaca,  ma  noi  possiamo  con  esso  estendere 
meglio  le  nostre  conoscenze  sulla  vita  delle  cellule  nervose. 

La  struttura  dei  centri  respiratori  è  foggiata  sul  medesimo  tipo  degli  altri  centri 
nervosi;  essi  sono  probabilmente  costituiti  da  cellule  afferenti  o  centripete,  da  cel- 
lule intermediarie  nelle  quali  si  sviluppano  gli  eccitamenti  autoctoni  e  da  cellule 
efferenti  o  centrifughe  che  trasmettono  gli  impulsi  ai  muscoli,  ma  è  anche  possibile 
che  non  esistano  le  cellule  intermediarie. 

Le  scorie  e  i  prodotti  chimici  dovuti  alle  trasformazioni  che  succedono  nelle 
cellule  per  effetto  della  loro  attività  non  dobbiamo  considerarle  come  dei  prodotti  inutili 
e  nocivi,  perchè  essi  prendono  parte  nei  processi  regolatori.  Così  ad  esempio,  l'ani- 
dride carbonica  respirata  produce  un  forte  aumento  nella  forza  e  nel  ritmo  del  respiro, 
mentre   che    la    sua    diminuzione   nell'apnea  e  nell'acapnia   li    diminuisce  entrambi. 

Quando  vediamo  che  il  cervello  modifica  tutti  i  riflessi  anche  i  più  lontani,  che 
esso  può  inibire  od  eccitare  i  muscoli  involontari,  quando  in  una  rana  senza  cervello 
vediamo  che  le  comunicazioni  fra  le  cellule  del  midollo  spinale  sono  così  facili  e  com- 
plete che  basta  pungere  la  pelle  in  un  punto  qualunque,  perchè  tutti  i  muscoli  delle 
estremità  e  del  tronco  si  contraggano,  sembra  inutile  il  voler  ammettere  che  solo  in 
un  centro,  cioè  nel  midollo  allungato,  esistano  le  cellule  che  rispondano  in  modo  coor- 
dinato agli  impulsi  che  generano  i  moti  del  respiro. 

La  velocità  dei  processi  nervosi  è  così  grande  ed  i  moti  del  respiro  sono  così 
lenti  che  possono  sussistere  fra  le  cellule  dei  centri  spinali  e  cerebrali  addetti  alle 
funzioni  del  respiro,  delle  relazioni  molto  più  complesse  di  quanto  non  si  creda  ora 
generalmente. 

I  lavori  recenti  degli  istologi  e  specialmente  quelli  del  Golgi  che  mostrarono 
nelle  cellule  nervose  una  rete  tanto  fitta  di  terminazioni  delle  fibre  sensibili  e  delle 
ramificazioni  del  cilindro  dell'asse,  vengono  indirettamente  a  dare  una  base  anatomica 
alla  dottrina  del  decentramento,  cosicché  possiamo  ammettere  l'esistenza  di  un  sistema 
respiratorio  costituito  dalle  cellule  che  si  trovano  in  varie  parti  dei  centri  nervosi. 


424  ANGELO   MOSSO  28 

III. 

Fisiologia  comparata  del  diaframma  e  del  torace. 

In  due  miei  lavori  precedenti  (1)  ho  già  iniziato  questo  studio:  oravi  aggiungo 
altre  osservazioni. 

La  differenza  fisiologica  tra  il  diaframma  e  i  muscoli  del  torace  appare  evidente 
nell'azione  del  curare.  Il  tracciato  29  rappresenta  le  respirazioni  del  torace  e  dell'ad- 
dome scritte  contemporaneamente  in  un  cane  con  due  pneumo grafi.  Era  un  cane  del 
peso  di  8500  grammi  al    quale  in  C  iniettiamo   lentamente  10  ce.  di  una    soluzione 


Tor 


Ad 


Fig.  29. 

di  curare,  della  quale  0,2  ce.  bastano  per  curarizzare  una  rana  ;  vediamo  che  la  forza 
delle  contrazioni  toraciche  diminuisce  rapidamente,  mentre  cambia  poco  quella  del 
diaframma.  Nel  segno  \  cessa  l'amministrazione  del  curare.  Poco  dopo  il  ritmo  si 
rallenta  e  le  contrazioni  del  diaframma  si  mantengono  per  lungo  tempo  forti  e  costanti 
nel  ritmo,  mentre  la  respirazione  toracica  va  poco  per  volta  scomparendo  comple- 
tamente. 

Questa  maggiore  resistenza  del  diaframma  pel  curare  era  già  nota  e  Tillie  (2) 
l'ha  osservata  e  descritta.  Viceversa  nell'avvelenamento  colla  sparteina,  Cushny  e 
Matthews  (3)  trovarono  che  i  muscoli  del  torace  e  dell'addome  si  contraggono  quando 


(1)  A.  Mosso,  Sui  rapporti  delia  respirazione  addominale  e  toracica  nelV  uomo,  "  Archivio  delle 
scienze  mediche  „,  1878.  —  Id.,  La  respirazione  periodica  e  di  lusso,  "  Memorie  della  R.  Accademia 
dei  Lincei  „,  1885. 

(2)  Schmiedeberg,  Grundriss  der  Arzneimittellehre,  3.  Auflage,  pag.  62. 

(3)  Cdshnt  und  Matthews.  Ueber  die  Wirhung  des  Sparteins,  "  Arch.  f.  exp.  Path.  u.  Pharm.  „ 
XXXV,  pag.  136. 


29 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


425 


il  diaframma  è  già  paralizzato  per  modo  che  anche  irritando  il  nervo  frenico  colle 
correnti  non  si  muove  più.  Ancora  recentemente  nel  Laboratorio  farmacologico  di 
Tokio,  Hayashi  e  Muto  (1)  studiando  l'Andromedotossina,  videro  che  quando  il  nervo 
frenico  era  ineccitabile,  non  erano  ancora  paralizzati  il  centro  respiratorio  e  gli  altri 
muscoli  respiratori  del  torace  e  della  testa. 

Nel  mio  lavoro  del  1878  sui  Rapporti  della  respirazione  addominale  e  toracica 
nell'uomo,  ho  già  dimostrato  la  differenza  e  l'antagonismo  che  si  produce  nel  sonno 
fra  la  funzione  dei  muscoli  del  torace  e  del  diaframma  ;  per  cui  mentre  quest'ultimo 
scema  la  forza  dei  suoi  movimenti,  quelli  del  torace  la  rinforzano.  Altre  osservazioni 
che  mostrano  delle  differenze  nel  modo  di  funzionare  del  torace  e  del  diaframma  le 
pubblicai  nella  Memoria  sulla  respirazione  periodica  e  di  lusso  del  1885,  dimostrando 
come  dovesse  abbandonarsi  il  concetto  dell'esistenza  di  un  solo  centro  respiratorio. 
Ora  pubblico  altre  esperienze  che  servono  a  svolgere  meglio  tale  concetto  per  mezzo 
dei  movimenti  riflessi. 

Riflessi  meccanici. 

'  Mettendo  improvvisamente  una  resistenza  ai  movimenti  di  inspirazione,  o  di  espi- 
razione si  producono  nell'uomo  dei  mutamenti  nello  stato  di  contrazione  o  di  rila- 
sciamento dei  muscoli  del  torace,  e  nel   diaframma.  Ho  già  parlato  di  queste  espe- 


Tor 


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Ad 


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Fig.  30. 

rienze  in  un  capitolo  precedente  nel  quale  dimostrai  che  le  conclusioni  degli  studi 
fatti  sugli  animali  da  Breuer  ed  Hering  non  possono  applicarsi  all'uomo.  Adesso 
riferisco  altre  esperienze  dalle  quali  si  vede  che  nei  movimenti  riflessi  per  un  impe- 
dimento alla  respirazione,  si  comportano  in  modo  diverso  il  torace  e  il  diaframma. 
Invece  di  chiudere  le  narici  colle  dita  per  evitare  ogni  contatto  colla  pelle  e  chiu- 
dere improvvisamente  il  passaggio    dell'aria  nella  trachea,  preferisco   servirmi  della 


(1)  Hayashi    und    Muto,   Ueber  Athemversuche    mit  einigen    Giften ,  *  Archiv  f.  exper.  Path.  und 
Pharmak.  ,.  XLVII,  pag.  209. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  D* 


426 


\.\(.i:i.u    MU--ÌU 


30 


maschera  di  guttaperca  bene  modellata  sul  volto,  in  modo  che  chiuda  ermetica- 
mente mettendovi  intorno  un  po'  di  mastice  da  vetrai  rammollito  con  vasellina  od 
olio.  Un  tappo  di  sughero,  o  di  gomma,  leggermente  conico,  chiude  pure  ermetica- 
mente il  tubo  di  vetro  piantato  nel  mezzo  della  maschera  e  può  mettersi  dentro, 
per  chiudere  l'accesso  dell'  aria,  e  levarsi  dopo  con  eguale  facilità.  Il  tracciato  30 
rappresenta  una  di  queste  esperienze  fatta  su  Giorgio  Mondo  mentre  stava  inclinato 
a  45°  con  due  pneumografi ,  1'  uno  intorno  al  torace  Tor,  e  l'altro  sull'  addome  Ad, 
colla  maschera  bene  applicata  sul  volto.  Per  tre  volte  chiudo  alla  fine  di  una  inspi- 
razione e  tutte  tre  le  volte,  come  del  resto  succede  sempre,  si  arresta  la  respira- 
zione, ma  in  modo  diverso  ed  opposto  nel  torace  e  nel  diaframma.  Il  torace  fa 
ancora  una  leggera  mossa  inspiratoria  e  poi  si  ferma.  Il  diaframma  si  rilascia  imme- 
diatamente e  tutti  due  fanno  dopo  un  movimento  inspiratorio  contrariamente  alla 
legge  di  Breuer  ed  Hering. 

Se  invece,  come  avviene  nel  tracciato  31,  chiudiamo  alla  fine  di  una  espirazione, 
succede  un  rilasciamento  del    torace  ed  una  contrazione  del  diaframma  che  appena 


Tor 


Ad 


Tor 


Ad 


Fig.  31. 


Ficr.   32. 


iniziata  si  arresta.  Vediamo  cioè  che  nel  torace  i  fenomeni  si  compiono  perfettamente 
al  contrario  di  quanto  avevano  stabilito  Breuer  ed  Hering.  Essi  infatti  affermarono  che 
la  diminuzione  del  volume  dei  polmoni  arresta  l'espirazione  e  subito  produce  l'inspi- 
razione, mentre  che  la  dilatazione  dei  polmoni  arresta  in  via  riflessa  la  inspirazione 
e  produce  la  espirazione  successiva. 

Il  riflesso  che  si  produce  tanto  nel  torace  quanto  nel  diaframma  quando  si  mette 
un  ostacolo  che  permette  all'aria  di  penetrare,  ma  con  una  certa  difficoltà,  ed  in 
proporzione  molto  minore  di  quanto  succede  normalmente,  è  assai  istruttivo.  Il  tubo 
della  maschera  per  cui  passa  l'aria  ha  un  diametro  interno  di  15  millimetri.  Vi  met- 
tevo dentro  un  tappo  che  lasciava  intorno  uno  spazio  un  po'  minore  ad  un  millimetro, 
e  lo  tenevo  colle  mani,  solo  per  metà  circa  di  un  atto  inspiratorio. 

Nel  tracciato  32  sono  scritte  contemporaneamente  la  respirazione  toracica  e 
quella  addominale.  Nel  punto  segnato  da  una  freccia  si   vede  che  con   un   ostacolo 


31  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  427 

momentaneo  al  passaggio  dell'aria,  subito  l'inspirazione  si  rinforza  e  diventa  più  lungo 
il  tempo  nel  quale  si  compie.  Tale  fatto  dipende  certamente  da  un  riflesso  centrale: 
siccome  le  respirazioni  successive  sono  quasi  eguali  alle  precedenti,  dobbiamo  escludere 
ogni  azione  chimica,  e  considerarlo  come  un  riflesso  dovuto  ad  un'azione  meccanica. 

Anche  in  altra  maniera  può  vedersi  che  funzionano  in  modo  diverso  il  centro 
dei  movimenti  del  torace  e  quello  del  diaframma.  La  mancanza  di  sincronismo  nel 
sonno  che  ho  già  descritto,  studiando  i  rapporti  della  respirazione  addominale  e  tora- 
cica, fino  dal  1878,  appare  spesso  evidentissima  in  condizioni  normali  e  sempre  quando 
si  mette  un  ostacolo  alla  inspirazione. 

Il  tracciato  33  rappresenta  una  esperienza  fatta  sopra  Giorgio  Mondo,  mentre  sta 
in  posizione  di  45°  ed  ha  il  pneumografo  doppio  intorno  al  torace  ed  un  altro  intorno 


Tor 


Ad 


Fìet.  33. 


all'addome.  Gli  avevo  messo  sulla  faccia  la  maschera  di  guttaperca  chiusa  ermeti- 
camente, col  tubo  della  maschera  si  erano  messe  in  comunicazione  per  mezzo  di  una 
forchetta  le  valvole  di  Miiller.  Quella  per  la  espirazione  conteneva  appena  tant'acqua 
che  bastasse  per  impedire  il  passaggio  dell'aria  inspirata:  nella  valvola  dove  passava 
l'aria  inspirata  vi  erano  55  mm.  di  acqua,  che  serviva  come  di  resistenza  alla  inspi- 
razione. Questi  tracciati  rassomigliano  a  quelli  già  pubblicati  da  Marey  nei  suoi  primi 
studi  sui  movimenti  respiratori  (1),  ed  io  non  mi  fermerò  a  descrivere  le  modifica- 
zioni che  produce  un  ostacolo  alla  inspirazione.  Solo  che  nel  presente  tracciato,  oltre 
la  respirazione  toracica  scritta  in  alto,  vi  è  anche  l'addominale  sotto.  Il  tempo  è 
scritto  in  secondi,  si  vede  dai  punti  di  ritrovo  segnati  in  corrispondenza  della  posi- 
zione delle  penne  che  il  diaframma  entra  in  azione  prima  del  torace  e  si  rilascia 
quando  i  muscoli  del  torace  sono  ancora  in  azione.  La  differenza  del  tempo  è  note- 
vole, perchè  il  torace  funziona  nell'espirazione  con  un  ritardo  di  oltre  un  secondo,  ciò 
che  per  i  fenomeni  nervosi  costituisce  una  mancanza  di  sincronismo  troppo  grande 
perchè  tali  movimenti  possano  avere  un  centro  comune  dal  quale  ricevano  l'impulso. 
Le  esperienze  che  feci  colle  inalazioni  di  anidride  carbonica,  vengono  pure  ad 
appoggiare  tale  concetto. 


(1)  Maket,  Pneumographie,  "  Journal  de  l'Anatomie  „,  1865,  pag.  447. 


428  ANGELO    MOSSO  32 

Nel  tracciato  34,  Giorgio  Mondo  sta  in  posizione  inclinata  di  45°  col  pneuino- 
grafo  doppio  intorno  al  torace  e  all'addome  e  sul  principio  del  tracciato  si  scrive  il 
respiro  normale.  In  a  si  avvicina  la  maschera  alla  faccia  e  si  fa  passare  una  cor- 
rente di  aria  mescolata  a  26,5%  di  anidride  carbonica;  si  era  preparata  prima 
questa  mescolanza  in  un  cilindro  per  mezzo  dell'aria  compressa  a  5  atmosfere;  così 
che  bastava  aprire  la  chiavetta  del  recipiente  per  avere  un  getto  abbondante  di 
quest'aria.  Appena  incomincia  la  respirazione  di  quest'aria,  succede  un  forte  tetano 
inspiratorio  nei  muscoli  del  torace,  mentre  il  diaframma  si  mantiene  nella  sua  posi- 
zione e  rinforza  molto  i  suoi  movimenti. 


Tor 


Ad 


Fig.  34. 

Anche  qui  entrano  in  azione  due  centri  che  hanno  un  modo  diverso  di  compor- 
tarsi per  l'anidride  carbonica;  ne  si  può  ammettere,  come  per  il  curare,  che  si  tratti 
di  un'azione  periferica  diversa  sui  muscoli.  11  ritmo  si  accelera  molto,  come  nelle 
esperienze  precedenti:  mentre  che  per  mescolanze  dove  l'anidride  era  in  quantità 
minore,  Gad,  Marcuse  e  Lcewy  non  trovarono  una  differenza  nel  ritmo. 

La  differenza  fra  le  contrazioni  del  diaframma  e  dei  muscoli  toracici  appare  in 
modo  costante  per  poco  che  la  tecnica  grafica  sia  buona. 

Nel  tracciato  35  sono  le  curve  del  respiro  toracico  e  addominale  scritte  sopra 
di  me  nel  solito  modo.  Dopo  aver  fatte  10  inspirazioni  profonde,  succede  l'apnea. 
Come  ho  già  mostrato  in  un  mio  precedente  lavoro  (1),  si  accumula  del  sangue  nei 
polmoni  durante  l'attività  maggiore  del  respiro. 

Sebbene  io  sia  coricato  in  posizione  orizzontale  ed  una  parte  del  peso  del  sangue 
accumulatosi,  sia  sopportata  dalla  cassa  toracica,  ciò  nulla  meno  la  dilatazione  dei 
polmoni,  e  forse  anche  quella  dei  grossi  vasi  sanguigni,  spinge  il  diaframma  verso 
la  cavità  dell'addome. 

Vediamo  infatti  che  nell'addome  succede  un  movimento  inverso  a  quello  del  torace. 

La  tonicità  varia  in  modo  differente  nel  torace  e  nell'addome  :  infatti  guardando 
la  parte  inferiore  delle  curve  si  vede  che  la  linea  la  quale  passerebbe  per  la  posi- 


ci) A.  Mosso,  La  circolazione  del  sangue  nel  cervello  dell'uomo,  "  Memorie  della  R.  Accademia  dei 
Lincei  „,  1880,  capitolo  X. 


33 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


429 


zione  della  base  espiratoria  delle  singole  respirazioni  addominali  e  toraciche  ha  un 
decorso  diverso,  e  cosi  pure  la  forza  delle  respirazioni  non  si  comporta  in  modo  iden- 
tico nel  torace  e  nel  diaframma.  Qui  abbiamo  la  gravità  ed  il  peso  del  sangue  che 
agiscono  allungando  il  diametro  verticale  della  cassa  toracica  abbassando  il  diaframma. 


Tor 


Ad 


Fig.  35. 

Quando  l'azione  meccanica  della  gravità  è  meno  intensa,  e  si  tratta  di  persone 
giovani  che  hanno  una  tonicità  maggiore  dei  vasi  sanguigni,  e  nelle  quali  il  diaframma 


!B....ii.i.iii.ii.iii..i..iM.ii..iiiMiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiniiiiiiiuiuii;t':i;iiiiiii 

Fig.  36. 

è  più  resistente,  come  nel  ragazzo  del  Laboratorio,  Giuseppe  Gay,  durante  un  arresto 
del  respiro  osservasi  un  movimento  inverso  del  diaframma,  cioè  un  sollevamento  del 
medesimo  in  posizione  maggiormente  espiratoria,  così  che  la  linea  scende  come  si 
vede  nel  tracciato  4. 

Per  eliminare  il  dubbio  che  questa  differenza  tra  le  due  esperienze  ora  riferite 
dipenda  dall'apnea,  riproduco  un  altro  tracciato,  fig.  36,  preso  su  Giorgio  Mondo,  che 
ha  44  anni.  Vediamo  che  in  esso,  durante  un  arresto  di  14  .secondi  per  chiusura 
delle  narici,  si  produce  un  abbassamento  del  diaframma  come  succede  in  me  e  una 


430  ANGELO    MOSSO  34 

dilatazione  della  cavità  toracica.  Anche  in  questa  esperienza  la  persona  era  in  posi- 
zione orizzontale.  Dopo  ricominciando  il  respiro  vi  è  un  forte  aumento  della  tonicità 
nel  torace,  mentre  che  nel  diaframma  succede  il  fatto  inverso.  Nei  punti  segnati  da 
una  -f-  si  ferma  il  cilindro,  si  aspetta  un  minuto  e  dopo  torna  a  mettersi  in  movi- 
mento. Queste  differenze  nel  modo  di  comportarsi  della  tonicità  del  diaframma  nei 
cambiamenti  di  posizione  sono  importanti  perchè  mostrano  il  modo  diverso  di  com- 
portarsi dello  stesso  muscolo  in  persone  di  differente  età  e  complessione. 


Paragone  fra  la  forza  del  diaframma  e  dei  muscoli  toracici  inspiratori. 

Dopo  le  ricerche  di  Hutchinson  (1)  vennero  quelle  di  Valentin  (2),  il  quale  per 
primo  fece  delle  misure  attendibili  per  mezzo  del  suo  pneumatometro.  Vi  sarebbero 
molti  autori  che  dovrei  citare  i  quali  studiarono  la  forza  dei  muscoli  inspiratori  ed  espi- 
ratori. Fra  i  lavori  più  recenti,  ricorderò  quelli  di  Aducco  (3),  di  Sewall  e  Pollard  (4). 
Questi  ultimi  facendo  su  loro  le  misure,  trovarono  che  si  respira  di  più  col  torace 
che  non  col  diaframma,  facendoli  contrarre  separatamente. 

Non  è  difficile  dominare  i  muscoli  respiratori  in  modo  da  far  contrarre  solo  il 
diaframma,  o  solo  i  muscoli  del  torace. 

Hultkrantz  (5),  dimostrò  in  questo  esercizio  una  abilità  tecnica  non  ancora  su- 
perata ;  trovò  sopra  se  stesso  che  la  parte  centrale  del  diaframma  nella  inspirazione 
tranquilla  si  abbassa  di  10,5  mm.  Nelle  inspirazioni  profonde  42  mm. 

Egli  faceva  fare  delle  escursioni  al  diaframma  come  massimo  dalla  posizione 
espiratoria  di  58  a  63  mm. 

Hultkrantz  trovò  delle  differenze  nella  medesima  persona  secondo  le  ore  della 
giornata,  i  vestiti,  il  riempimento  dello  stomaco,  ecc.  La  stessa  cosa  riscontrai  nelle 
misure  che  feci  per  mezzo  di  un  contatore  su  varie  persone  che  mi  servirono  a 
questi  studi. 

Per  assicurarmi  che  il  torace  stesse  immobile  quando  doveva  contrarsi  il  dia- 
framma e  viceversa,  facemmo  prima  degli  esercizi  preparatori;  ci  mettevamo  un 
pneumografo  intorno  al  torace  e  un  altro  intorno  all'addome  e  guardando  le  penne 
che  scrivevano  sul  cilindro,  cercavamo  di  ottenere  delle  curve  indipendenti  e  questo 
non  riesce  difficile.  Il  contatore  era  bene  equilibrato  e  funzionava  con  soli  2  o  3  mm. 
di  pressione  di  acqua. 

I  seguenti  numeri  sono  presi  sopra  di  me  mentre  ero  in  posizione  inclinata  di  45°. 

Colla  inspirazione  toracica       inspiro       2025  ce. 
addominale      „  1350   , 


(1)  John  Hutchinson,   Voti  der  Capacitàt  der  Lungeti,  1849. 

(2)  Valentin,  Lehrbuch  der  Physiologie,  I  Bd.,  1847,  pag.  530. 

(3)  V.  Adocco,  Centro   espiratorio    ed   espirazione  forzata,  "  Atti  R.  Accademia  delle  Scienze  di 
Torino  ,,  marzo  1899. 

(4)  Sewall  e  Pollard,  Oh  the  relations   of  diaphragmatic   and   costai    respiratioii,  "  Journal    of 
Physiology  „,  voi.  II,  pag.  159. 

(5)  W.  Hultkrantz,   Ueber  die  respirato  risene  n  Bewegungen  des  menschlichen  Zwerchfells,  '  Skand. 
Arch.  f.  Physiol.  „,  II  Bd.,  pag.  70,  1891. 


35 


I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA 


431 


Per  brevità  non  riferisco  i  tracciati  e  neppure  le  cifre  che  ottenni  sopra  Giorgio 
Mondo  e  Carlo  Foà,  perchè  variavano  sensibilmente  da  un  giorno  all'altro  ed  anche 
ripetendo  una  serie  di  osservazioni  successive,  presentavano  delle  variazioni.  I  risul- 
tati che  ottenni  sono  come  quelli  di  Sewall  e  Pollard. 

Più  costante  invece  è  la  forza  del  diaframma  e  del  torace,  perchè  la  misuravamo 
col  manometro  a  mercurio  che  è  uno  strumento  di  misura  meno  sensibile  del  contatore. 

Queste  ricerche  furono  fatte  servendosi  della  maschera  di  guttaperca,  o  per  mezzo 
di  un'altra  metallica  che  aveva  un  bordo  fatto  con  un  tubo  di  gomma  pieno  di 
aria  per  modo  che  comprimendo  la  maschera  sopra  la  faccia  si  chiudeva  ermetica- 
mente sulla  pelle  del  naso,  delle  guancie  e  del  mento,  e  si  poteva,  facendo  una  inspi- 
razione, rarefare  l'aria  e  sollevare  la  colonna  di  mercurio  del  manometro. 


Fig.  37. 


Fig.  38. 


Il  tracciato  37  fu  scritto  dal  Dott.  Carlo  Foà.  La  prima  linea  discendente  segna 
la  forza  della  inspirazione  quando  si  contrae  solo  il  diaframma;  la  seconda  quando 
si  contraggono  solo  i  muscoli  del  torace  e  la  terza  quando  si  fa  una  inspirazione 
completa,  facendo  agire  i  muscoli  del  torace  insieme  al  diaframma.  Sapendo  che 
dobbiamo  moltiplicare  per  2  questi  valori  di  1,1,6,2,8,  avremo  che  la  forza  del  dia- 
framma nel  Dott.  Carlo  Foà  è  tale  che  il  diaframma  solleva  20  mm.  di  mercurio:  32  il 
torace  e  56  tutti  due  insieme.  Si  ripete  poco  dopo  la  medesima  esperienza,  i  valori 
sono  un  poco  più  piccoli  e  stanno  fra  loro  presso  a  poco  nel  medesimo  rapporto. 

Il  tracciato  38  è  un'esperienza  fatta  sopra  Giorgio  Mondo:  vediamo  in  questa 
persona,  che  ha  la  medesima  statura,  una  forza  maggiore  dei  muscoli  inspiratori 
toracici,  mentre  che  la  forza  del  diaframma  è  presso  a  poco  eguale.  I  rapporti  sono: 

Diaframma  10  X  2  =  20         Torace  solo  20  X  2  =  40 
Inspirazione  completa  38  X  2  =  76. 


Misurando  la  forza  inspiratoria  diaframmatica  sopra  di  me  (fig.  39) ,  trovai  dei 
valori  più  piccoli  che  sopra  Foà  pel  diaframma,  cioè  5  X  2  =  10  ;  la  mia  inspirazione 
toracica  invece  era  più  forte  19  X  2  =  38. 

Vedendo  questi  valori  in  mercurio,  uno  può  illudersi  sulla  reale  forza  del  torace 
e  del  diaframma,  ma  dobbiamo  pensare  che  quando  noi  solleviamo,  colla  contrazione 


432 


ANGELO    MOSSO 


36 


dei  muscoli  del  torace,  una  colonna  di  mercurio  alta  30  o  40  mm.,  succede  nel  nostro 
torace  e  sul  diaframma  ciò  che  vediamo  nel  torchio  idraulico.  Le  pressioni  dei  gas 
come  quelle  dei  liquidi  si  trasmettono  in  tutti  i  sensi.  La  pressione  che  si  produce 
sulla  colonna  negativa  di  30  o  40  mm.  di  mercurio  del  manometro  e  la  solleva,  agisce 
nella  stessa  direzione  e  colla  stessa  forza  su  tutta  la  superficie  della  cassa  toracica 
e  del  diaframma,  e  per  ciò  è  grandissima  la  forza  che  noi  produciamo  colla  semplice 
inspirazione  dei  muscoli  toracici  e  del  diaframma. 


/ywwwvwww 


VvV/^vvvvwm., 


WV.V.VVVVVVVVV 


+MAww<m<AM^ 


V  V-V  ■  »  »  V  n  V  V  uv  V 


lor 


Ad 


Fig.  39. 


B 

Fig.  40. 


Il  tracciato  40  rappresenta  una  esperienza  fatta  sopra  di  me,  nella  quale  il  to- 
race sollevava  40  chilogrammi.  Mi  coricai  orizzontale  sopra  una  tavola  stretta  ed 
imbottita,  larga  40  centimetri,  sul  torace  aveva  messo  una  forte  cinghia  di  tela  che 
scendeva  in  basso  da  una  parte  e  dall'altra  per  la  lunghezza  di  circa  60  centimetri. 
Questa  forte  cinghia,  larga  20  centim.,  portava  alle  sue  estremità  due  uncini  metal- 
lici ai  quali  si  potevano  attaccare  dei  grossi  pesi  di  10  chilogrammi,  due  per  parte. 
Il  bordo  inferiore  della  cinghia  è  un  poco  sotto  il  capezzolo  delle  mammelle  e  mi 
copre  in  alto  tutto  lo  sterno. 

Comincio  a  scrivere  in  A  il  tracciato  normale.  Intorno  all'addome  ho  il  pneu- 
mografo  doppio,  sulla  cinghia  che  sta  sul  torace  poggia  il  bottone  di  un  timpano  con 
membrana  elastica  che  scrive  i  movimenti  del  respiro  e  nella  curva  si  vedono  anche 
le  pulsazioni  del  cuore. 

Ho  tagliato  il  foglio  nel  quale  scrissi  questa  esperienza  e  ne  pigliai  tre  pezzi  A,  B,  C. 
Il  primo  rappresenta  la  respirazione  normale  del  torace  e  dell'addome  quando  vi  è 
la  fascia  senza  pesi  sul  petto  all'altezza  delle  mammelle.  In  B  metto  10  chilog.  per 
parte,  il  torace  si  deprime,  il  diaframma  si  abbassa,  ma  in  proporzione  minore  che  non 
siasi  abbassato  il  torace,  le  sue  inspirazioni  si  rinforzano,  i  movimenti  del  torace  solle- 
vano questo  peso  di  20  chilog.  senza  che  io  ne  senta  molestia,  solo  che  diventarono  un 
poco  meno  estesi.  Nel  terzo  pezzo  si  mettono  altri  10  chilogrammi  per  parte.  Il  torace  si 
accascia  di  meno,  il  diaframma  si  abbassa  e  le  sue  contrazioni  si  rinforzano.  Io  non  provo 
alcuna  sofferenza  e  posso  rimanere  parecchi  minuti,  respirando  sotto  la  pressione  di 
40  chilogrammi.  I  movimenti  del  torace  sono  poco  diversi  dal  normale  e  solo  alquanto 


37  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  433 

meno  estesi.  Guardando  la  penna  che  scrive,  sento  il  ritardo  col  quale  si  compiono 
i  movimenti  del  torace.  L'inspirazione  del  diaframma  produce  una  corrente  di  aria 
alle  narici  prima  che  incominci  a  muoversi  il  torace  e  così  sento  che  il  diaframma 
si  rilascia  prima  che  cominci  la  espirazione  toracica,  come  abbiamo  veduto  nel  trac- 
ciato 33  mettendo  un  ostacolo  alla  inspirazione  per  mezzo  delle  valvole  di  Miiller.  Il 
ritmo  non  essendosi  modificato,  malgrado  la  pressione  di  40  chilog.,  è  probabile  che 
nei  riflessi  meccanici  che  ho  studiati  prima  il  riflesso  sia  di  origine  interna.  Forse 
si  può  conchiudere  che  il  riflesso  si  compia  per  mezzo  del  nervo  vago,  vedendo  che 
un  ostacolo  così  grande  applicato  esternamente  non  rallenta  la  frequenza  del  respiro. 
Levando  i  pesi  e  tornato  alla  respirazione  libera,  i  movimenti  del  torace  diven- 
tano più  forti,  ma  poco  più  del  normale;  quelli  del  diaframma  si  indeboliscono. 


Tor 


Ad      I 


La  compressione  sull'addome  essendo  molesta,  ho  cercato  di  paragonare  la  forza 
del  diaframma  e  del  torace  per  mezzo  del  vento  che  producevo  nel  seguente  modo. 

Nel  mio  laboratorio  ho  una  camera  di  ferro  nella  quale,  per  mezzo  di  una  pompa, 
posso  comprimere  l'aria  per  studiare  sull'uomo  l'azione  dell'aria  compressa.  Messe 
in  moto  le  pompe,  comprimevo  l'aria  dentro  la  camera  fino  ad  1  atmosfera  e  mezzo. 
Quindi  per  mezzo  di  un  grosso  tubo  di  gomma  che  terminava  in  una  maschera,  po- 
tevo, aprendo  una  grossa  chiavetta,  far  passare  una  corrente  fortissima  di  aria  sulla 
faccia,  come  succederebbe  nel  vento  il  più  impetuoso.  La  figura  41  rappresenta  una 
di  queste  esperienze  fatta  sopra  di  me.  Io  ero  in  piedi  accanto  alla  camera  di  ferro, 
ed  il  tubo  che  veniva  alla  faccia  era  lungo  appena  41  centim.  Quando  un  assistente 
apre  la  chiavetta,  il  torace  che  era  alla  fine  di  una  inspirazione,  tende  a  passare  in 
espirazione,  ma  non  vi  riesce. 

Il  diaframma  spinto  da  questa  pressione  di  una  atmosfera  e  mezza,  si  abbassa 
maggiormente.  Il  respiro  si  arresta  spontaneamente.  Io  sento  che  non  posso  respi- 
rare. Quando  cessa  la  corrente  impetuosa  dell'aria  che  mi  ha  raffreddato  fortemente 
la  faccia,  succede  una  serie  di  inspirazioni  più  profonde.  La  corrente  era  tanto  forte 
che  dovevo  stringere  con  forza  le  labbra  perchè  non  mi  aprisse  la  bocca.  Anche  in 
questa  prova  si  vede  la  prevalenza  del  torace  che  è  più  forte. 

Serie  II.  Tomo  LUI.  e3 


434 


ANGELO    MOSSO 


38 


Nello  stesso  giorno  e  colla  stessa  pressione  di  1  atmosfera  e  mezzo  dell'aria 
compressa,  ho  fatto  una  esperienza  su  Giorgio  Mondo.  Credevo  che  avrebbe  resistito 
meglio  di  me,  perchè  la  forza  del  suo  diaframma,  misurata  al  manometro,   è  quasi 


Tor 


Ad 


Fisr.  42. 


doppia  della  mia.  Ma  il  [suo  diaframma    cedette  molto    più    del  mio  alla   pressione 
interna,  come  si  vede  nel  tracciato  42. 


Tor 


Ad 


Fig.  43. 


In  queste  esperienze  non  abbiamo  1  atmosfera  e  mezzo  che  agisca  sul  polmone, 
perchè  la  maschera  non  toccava  la  faccia  e  l'aria  prima  di  arrivare  nei  bronchi 
doveva  vincere  tutte  le  resistenze  delle  anfrattuosita  del  naso:  certo  però  agiva  con 


39  I    MOVIMENTI    RESPIRATORI    DEL    TORACE    E    DEL    DIAFRAMMA  435 

molta  violenza  e  queste  non  sono  esperienze  scevre  di  pericoli,  come  racconterò  in 
un  altro  lavoro. 

La  cosa  singolare  è  che  mentre  il  torace  si  contrae  mostrando  una  minima  dif- 
ferenza nella  forza  delle  sue  inspirazioni  quando  è  caricato  di  40  chilog.,  quando 
è  libero,  presenti  invece  delle  variazioni  fortissime  nel  ritmo  e  nella  forza  pei  cam- 
biamenti di  posizione,  come  ho  mostrato  in  una  precedente  memoria  (1).  Il  trac- 
ciato 43  rappresenta  una  di  queste  esperienze  fatta  sopra  il  ragazzo  del  laboratorio, 
Giuseppe  Gay.  Nella  prima  parte  °  si  scrive  il  respiro  toracico  ed  addominale  coi 
soliti  pneumografi  mentre  trovasi  in  posizione  inclinata  di  45°  :  nel  punto  o-  si  gira 
la  tavola  e  lo  si  mette  in  posizione  orizzontale,  il  respiro  toracico  si  rinforza,  abbiamo 
una  dilatazione  del  torace  che  passa  in  posizione  inspiratoria  :  il  diaframma  si  innalza 
e  prende  una  posizione  espiratoria  più  pronunziata. 

Il  fatto  che  i  movimenti  del  torace  e  del  diaframma  si  modifichino  in  modo  così 
profondo  per  un  semplice  cambiamento  di  posizione  del  corpo,  fa  nascere  il  dubbio 
che  anche  il  volume  dell'aria  inspirata  sia  diverso  nella  posizione  orizzontale  ed  in 
quella  verticale.  Ho  già  studiato  questo  argomento  nelle  ultime  pagine  della  prece- 
dente memoria  (1):  per  completare  queste  indagini  ho  fatto  delle  misure  per  mezzo 
di  un  contatore  e  della  maschera  applicata  sulla  faccia  colle  valvole  di  Miiller  e  nel 
caso  presente  come  in  altre  persone  trovai  differenze  poco  notevoli  tra  la  posizione 
orizzontale  del  corpo  e  quella  inclinata  a  45°. 

Queste  esperienze  si  riattaccano  a  quelle  del  paragrafo  precedente  sui  riflessi 
meccanici  e  ci  obbligano  ad  ammettere  una  regolazione  automatica  che  funziona  solo 
per  stimoli  meccanici.  Siccome  respiriamo  generalmente  una  quantità  di  aria  mag- 
giore di  quanto  occorra  per  i  bisogni  chimici  dell'organismo,  vedendo  che  malgrado 
i  mutamenti  nella  forza  della  resph-azione  toracica  e  diaframmatica  noi  respiriamo 
egualmente  lo  stesso  volume  di  aria,  si  deve  ammettere  l'esistenza  di  un  potere 
regolatore  automatico  che  compensa  reciprocamente  ed  in  modo  meccanico  le  diffe- 
renze nei  moti  inspiratori  del  torace  e  del  diaframma. 

I  congegni  nervosi  che  provvedono  ai  movimenti  del  respiro  appaiono  tanto  più 
complessi  quanto  maggiormente  si  approfondisce  lo  studio  della  loro  funzione. 


(1)  A.  Mosso,  L'apnea  quale  si  produce  nei  cambiamenti  di  posizione  del  corpo,  "  Mera.  Acc.  Scienze 
Torino  „  1903. 


(L'arco  elastico  senza  cerniere,  Memoria  del  Prof.  C.  Guidi,  Tomo  LE,  pag.  294). 

ERRATA-CORRIGE 
Pag.  35,  lin.  11  e  12  dal  basso     .     .     .     otto     leggasi     quattro 
„  5  .    .    .      P  P 

Nella  Fig.  10,  Tav.  II,  la  retta  dei  segmenti  relativa  al  poligono  funicolare  p2'  dev'essere 
ruotata  fino  a  divenire  parallela  all'asse  X\.  Analoga  correzione  devesi  intendere  eseguita 
per  l'altro  poligono  funicolare  che  fornisce  lo  stesso  segmento  nt;  come  pure  nella  Fig.  19 
e  nella  Tav.  VI;  sebbene  per  tutte  e  tre  le  figure  il  risultato,  cioè  il  segmento  «i,  per 
compenso  fra  i  vari  termini  della  sommatoria,  non    resti   influenzato  da  tale  correzione. 


SCIENZE 

MORALI,  STORICHE  E  FILOLOGICHE 


INDICE 


CLASSE  DI  SCIENZE  MORALI,  STORICHE 
E  FILOLOGICHE 

La  vita  oltremondana  ;  Memoria  del  Socio  Giuseppe  Allievo  .         .         .        Pag.  1 

Il  -pensiero  pedagogico  di  L.  A.  Muratori;  Memoria  del  Prof.  Stefano  Grande  „  65 
Studio  intorno  alla  Vita  di  Carlo  Botta  tracciato  con  la  guida  di  lettere  in  gran 

parte  inedite;  Memoria  della  Dott.  Emilia  Regis                                       „  147 

Per  un'opera  inedita  di  Pietro  Giannone;  Memoria  della  Prof.  Maria  Begey  „  181 
Vita  di  Carlantonio  Dal  Pozzo  arcivescovo  di  Pisa,  fondatore  del  Collegio  Puteano; 

Memoria  di  Domenico  Valla „  221 

Esame  storico  critico  dell'opera  del  sig.  Jules  De  Gaultier,  intitolata  :  "  Da  Kant 

a  Nietzsche  „;  Memoria  del  Prof.  Romualdo  Bobba                                    „  253 


LA   VITA   OLTREMONDANA 


MEMORIA 

del  Socio 

GIUSEPPE   ALLIEVO 


Approvata   nell'Adunanza  del  18  Gennaio  1903. 


INDICE   SOMMARIO 

Introduzione. 

Osservazioni  preliminari  intorno  i  due  fenomeni  della  vita  e  della  morte:  il  trapasso  delle  sostanze 
dal  non  essere  all'essere  e  la  loro  ricaduta  dall'essere  nel  non  essere  :  origine  del  problema 
della  vita  futura  oltremondana:  importanza  di  questo  problema  considerato  in  se  e  nel  suo 
rapporto  coll'ideale  supremo  della  vita:  osservazione  relativa  al  positivismo  contemporaneo: 
difficoltà  del  problema. 

La  vita  oltremonusma. 

Concetto  generale  del  problema:  come  esso  non  si  riduca  alla  sola  disamina  dell'immortalità  del- 
l'anima umana:  questione  intorno  la  vita  fisica  futura:  forinola  generale  del  problema:  pro- 
blemi elementari  in  cui  si  risolve:  come  la  vita  futura  sia  oggetto  non  solo  della  ragione,  ma 
di  tutte  le  potenze  dell'anima:  il  sentimento  religioso  ed  il  culto  dei  morti:  compito  speciale 
della  ragione  riguardo  alla  vita  oltremondana  :  se  la  ragione  debba  aver  riguardo  alle  afferma- 
zioni delle  altre  potenze:  suoi  limiti  imposti  1°  dal  dovere  di  riconoscere  la  natura  umana  in 
tutte  le  sue  potenze,  2°  dall'armonia  propria  dell'umano  soggetto  :  conseguenza  che  ne  deriva 
—  Commento  di  un  passo  di  F.  Panlhan  intorno  questo  punto. 

Discussione  storica  del  problema  —  Considerazioni  preliminari  —  Sistemi  negativi,  il  materialismo, 
il  panteismo:  concetto  generale  del  materialismo  e  suo  rapporto  col  problema:  se  esso  renda 
ragione  delle  facoltà  mentali  proprie  dello  spirito:  l'immortalità  degli  atomi  e  l'immortalità 
dell'anima  —  Principio  fondamentale  costitutivo  del  panteismo  —  Suo  rapporto  col  problema 
della  vita  futura  e  col  positivismo  —  Sistemi  affermativi:  osservazioni  generali:  come  il  pro- 
blema della  vita  futura  sia  stato  differentemente  concepito  e  risolto  dalla  sapienza  antica  e  dal 
pensiero  moderno:  processo  del  pensiero  moderno  fondato  sul  puro  concetto  della  spiritualità  e 
dell'immortalità  dell'anima  —  La  dottrina  dell'antica  sapienza  riguardo  alla  vita  futura:  suo 
punto  di  partenza:  cenni  storici;  il  sistema  Sankhya  :  i  filosofi  platonici  ed  alessandrini:  la 
trasformazione  dell'essere  umano  alla  morte  del  corpo:  le  ombre  infernali:  l'immaginazione 
popolare  e  poetica  —  Il  concetto  della  vita  futura  dell'anima  nella  Divina  Commedia:  le  potenze 
dell'anima;  la  sua  virtù  formativa  od  animatrice:  il  ritorno  alle  funzioni  della  vita  sensitiva; 
riscontro  di  tale  concetto  con  alcuni  fenomeni  dello  spiritismo  odierno  :  la  dottrina  della  metem- 
psicosi riguardo  alla  vita  futura  —  La  teoria  di  Carlo  Bonnet:  come  egli  abbia  concepito  il 
problema  sotto  nuovo  aspetto  :  le  ipotesi  sulla  vita  futura  :  dottrina  dell'autore  intorno  la  natura 
dell'uomo:  dipendenza  dell'anima  dal  corpo:  il  problema  della  vita  futura  quale  consegue  dalla 
sua  dottrina  antropologica:  come  venga  sciolto:  osservazioni  critiche  riguardanti  1°  la  dottrina 
dell'autore  intorno  le  attinenze  tra  l'anima  ed  il  corpo,  2°  il  valore  scientifico  della  sua  teoria 
Serib  II.  Tom.  LUI.  1 


2  GIUSEPPE    ALLIEVO 

intorno  la  vita  futura  —  La  teoria  di  Claudio  Turlot  intorno  l'atomo  organico:  cenno  sulla 
dottrina  di  Keratry,  di  E.  Martin  —  Sguardo  sintetico  sui  sistemi  affermativi  compiuti:  l'opinione 
degli  antichi  filosofi:  la  metempsicosi,  suo  concetto  fondamentale;  sotto  qual  riguardo  sia  accet- 
tabile: la  dottrina  dell'involucro  corporeo  aereo:  la  teoria  dell'atomo  organico;  quali  elementi 
di  verità  essa  contenga,  e  come  si  colleghi  colle  ricerche  della  moderna  fisiologia  e  col  sistema 
dell'atomismo:  il  valore  scientifico  del  principio  di  identità:  conclusione.  —  Sistemi  affermativi 
incompiuti:  carattere  loro  proprio:  concetto  erroneo  intorno  la  natura  dell'anima  umana:  inse- 
parabilità della  spiritualità  e  della  sensitività  nell'anima  umana,  della  vita  mentale  e  della 
fisica:  compenetrazione  delle  due  vite  nell'unità  dell'io  umano  :  origine  di  questi  sistemi  ricer- 
cata nel  concetto  dell'unione  tra  l'anima  ed  il  corpo,  e  nell'evoluzionismo  :  il  progresso  continuo 
della  natura  dall'imperfetto  al  perfetto,  e  la  formazione  dell'uomo  attraverso  la  trasforma- 
zione delle  specie:  la  terra  ordinata  al  cielo:  l'uomo  spiritualizzato  nell'esistenza  oltremon- 
dana :  osservazioni  relative  all'evoluzione  delle  specie,  al  progresso  influito,  all'alterazione  della 
natura  umana:  l'infinitamente  piccolo  della  materia  e  l'infinitamente  grande  dell'universo.  — 
Il  concetto  dell'anima  forma  del  corpo,  in  rapporto  colla  vita  futura:  la  teoria  di  Aristotele  su 
questo  punto;  conseguenza  che  ne  deriva:  il  concetto  psicologico  di  Aristotele  seguito  dalla 
filosofìa  scolastica:  contraddizione  e  difficoltà  nella  teoria  scolastica:  la  definizione  dell'anima 
data  da  S.  Tommaso:  sviluppo  di  questo  concetto:  dipendenza  dell'anima  dal  corpo:  se  S.  Tom- 
maso abbia  risolto  le  difficoltà:  il  concetto  dell'anima,  forma  del  corpo,  riscontrato  nella  dot- 
trina pitagorica  :  l'anima  del  mondo  e  le  anime  particolari  :  importanza  de'  due  concetti  di 
spirito  e  di  materia,  e  difficoltà  di  definirli. 

Il  problema  esaminalo  in  se  stesso  — Condizioni  dell'esistenza  oltremondana:  1°  la  conservazione 
della  personalità  individua;  2°  la  memoria  della  vita  passata;  esame  di  un  passo  di  Pierre 
Leroux  su  questo  punto;  l'essenza  della  vita  e  le  sue  manifestazioni;  il  vincolo  di  continuità 
tra  le  medesime;  la  personalità  dell'io  umano  e  la  facoltà  della  memoria;  3°  l'attività  della 
vita;  4°  le  condizioni  di  luogo  e  di  tempo  —  Metodo  conveniente  all'esame  del  problema;  due 
.specie  di  processo  metodico,  razionale  ed  empirico:  critica  del  processo  razionale  per  la  dimo- 
strazione della  vita  futura  :  esame  delle  prove  dell'immortalità  derivate  dalla  natura  dell'anima, 
la  sostanzialità,  la  semplicità,  l'intelligenza,  l'attività:  il  principio  di  finalità  come  fondamento 
della  dimostrazione,  secondo  la  teoria  di  C.  Piat  (La  destinée  de  l'homme)  :  procedimento  da  lui 
seguito  nella  sua  opera:  i  fatti  psicologici;  il  loro  soggetto,  la  vita  dello  spirito  :  come,  secondo 
lui,  la  semplicità  dell'anima  non  valga  a  dimostrarne  la  spiritualità,  e  quindi  l'immortalità:  il 
principio  della  finalità  e  la  vita  futura;  prove  della  medesima:  esame  dell'opera  dell'autore: 
punti  dominanti:  osservazioni  critiche  riguardanti,  1°  il  suo  concetto  della  sostanzialità  dell'anima 
e  il  suo  procedimento,  2°  l'applicazione  del  principio  biologico  della  finalità  ;  studio  dei  fatti 
psicologici  attinenti  alla  vita  futura:  1°  l'istinto  dell'immortalità;  sua  natura  razionale;  suo 
carattere  universale;  suo  contrasto  col  potere  distruggitore  delle  cose:  2°  il  desiderio  della  feli- 
cità; analisi  de'  suoi  elementi;  suo  carattere  razionale;  suo  antagonismo  colla  infelicità:  3°  la 
brama  della  verità  e  l'istinto  del  conoscere;  opposizioni  e  contrasti  al  possesso  della  verità: 
4°  l'aspirazione  all'ideale  morale;  la  lotta  coi  sensi  e  colle  passioni;  risultato  di  questa  lotta  — 
fatti  di  psicologia  sociale:  la  credenza  universale  del  genere  umano  nell'immortalità:  il  culto 
dei  morti  :  la  vita  futura  presso  gli  antichi  poeti  e  filosofi  —  Parte  critica  di  questo  studio  psi- 
cologico: le  contraddizioni  tra  le  tendenze  dell'anima  ed  il  loro  oggetto  in  rapporto  coll'ordine 
universale  della  natura  e  col  disegno  provvidenziale  divino  :  l'immortalità  riservata  alla  specie 
umana  e  negata  ai  singoli  individui  :  il  pessimismo  e  la  negazione  dell'  immortalità  :  valore 
della  credenza  del  genere  umano  nella  vita  futura:  accordo  tra  la  ragione  ed  il  sentimento  su 
questo  punto:  distinzione  tra  la  ragione  universale  comune  a  tutta  l'umanità  e  la  ragione  par- 
ticolare propria  del  pensatore. 

Attinenze  tra  il  problema  dell'immortalità  e  la  filosofia  antropologica,  la  psicologia ,  la  metafisica, 
l'etica,  la  teodicea,  la  storia  universale  e  la  letteratura  —  Il  problema  considerato  sotto  il  suo 
aspetto  soggettivo  —  Conclusione. 


LA    VITA    OLTREMONDANA 


INTRODUZIONE 


Il  mutabile  umano. 

È  un  pronunciato  del  positivismo  trasformistico,  che  nell'essere  umano  niente  vi 
ha  di  permanente,  di  assolutamente  immutabile,  che  tutto  è  mutabile  e  fenomenico. 
La  disamina  di  questa  sentenza  ci  porta  allo  studio  del  mutabile  umano,  e  per  ab- 
bracciare con  larghezza  di  pensiero  il  proposto  argomento  occorre  anzi  tutto  innal- 
zarci al  concetto  di  cangiamento  preso  in  tutta  la  generalità  sua. 

Il  cangiamento  è  il  gran  fatto  universale,  che  si  avvera  in  ogni  momento  del 
tempo,  in  ogni  punto  dello  spazio,  che  si  mostra  in  noi,  fuori  di  noi,  in  ogni  essere 
della  natura  ;  è  il  fenomeno  dei  fenomeni,  o  meglio  la  forma  universale  di  ogni  feno- 
meno. Un  antico  filosofo  greco  della  scuola  jonica,  Eraclito,  già  insegnava,  che  le 
cose  sono  in  un  perpetuo  scorrimento,  in  un  continuo  flusso  e  riflusso,  che  mai  non 
s'arresta;  nascono  e  periscono  in  un  punto,  spuntano,  scompaiono,  e  più  non  sono. 
Tutto  passa,  niente  permane,  tutto  cangia,  niente-  è.  L'universo  è  come  una  gran  fiu- 
mana, che  tutto  trascina  nel  suo  corso  irrefrenabile.  Tu  stesso  non  potresti  tuffarti 
una  seconda  volta  nel  medesimo  fiume,  perchè  in  ogni  momento  vi  scorre  altr'acqua, 
e  tu  non  sei  più  quel  medesimo  di  prima.  Siccome  la  vita  delle  cose  sta  nell'inces- 
s  ante  mutamento,  cosi  ciò,  che  comincia  ad  esistere,  non  acquista  mai  un  essere  fermo 
e   determinato,  una  natura  propria,  che  lo  distingua  da  ogni  altra  cosa. 

Così  filosofava  Eraclito,  ed  a'  dì  nostri  Hegel  riponeva  in  questa  assoluta  muta- 
bilità universale  il  supremo  principio  dell'essere  e  del  sapere,  per  cui  tutto  diventa 
e  niente  è,  e  questo  medesimo  concetto  è  il  punto  di  mossa  del  positivismo  evolu- 
zionistico contemporaneo. 

Ho  detto,  che  il  cangiamento  si  manifesta  da  per  tutto,  in  noi  e  fuori  di  noi  (1). 
La  natura  esteriore  tutta  quanta  è  un  immenso  teatro  di  incessanti  mutamenti,  di 
sorprendenti  trasformazioni.  Essa  ci  apparisce  dominata  da  una  perpetua  forza  tras- 
formatrice, che  la  porta  a  mutare  senza  posa  il  proprio  aspetto.  La  materia  inor- 
ganica e  bruta  si  trasforma  di  continuo  scomponendosi  ne'  suoi  elementi,  e  nessuno 
sa  seguire  coll'occhio  e  col  pensiero  gli    infiniti  volteggiamenti  e  le  metamorfosi  di 


(1)  "  Un  continuo  cangiamento  si  compie  nella  materia  tutta,  che  senza  posa  si  rinnovella,  sicché 
un  animale,  pur  conservando  le  medesime  apparenze,  non  conserva  punto  ne  lo  stesso  sangue,  ne 
la  stessa  carne,  ne  le  medesime  ossa,  perchè  le  particelle,  onde  consta,  scorrono  senza  posa  e  sempre 
ne  sopravvengono  delle  nuove  che  prendono  il  loro  posto.  L'anima  soggiace  a  tali  vicende  quanto 
i  corpi:  i  suoi  costumi,  le  sue  abitudini,  le  sue  opinioni,  i  suoi  desiderii,  i  suoi  gusti,  i  suoi  dolori, 
i  suoi  timori  provano  frequenti  rivolgimenti,  le  sue  conoscenze  medesime  non  ne  vanno  esenti  , 
(Platone,  Il  Convito). 


4  GIUSEPPE    ALLIEVO 

un  piccolo  atomo  di  idrogeno  attraverso  l'immensità  dello  spazio.  Gli  esseri  organici 
ed  animati  manifestano  la  loro  vita  sotto  forme  sempre  diverse.  Ma  gli  è  segnata- 
mente nelle  sorprendenti  metamorfosi  degli  insetti,  che  si  mostra  in  tutta  la  sua  luce 
questa  virtù  trasformatrice  della  natura,  tantoché  si  direbbe  che  ad  ogni  nuova  fase 
di  sviluppo  il  vivente  non  sia  più  quello  di  prima.  Il  bruco  diventa  crisalide,  che  sta 
assopita  fra  le  tenebre  del  suo  carcere,  pressoché  senza  organi,  senza  moto,  senza 
nutrimento.  Dalla  crisalide  spunta  la  farfalla  con  una  struttura  organica  affatto  nuova, 
la  quale  la  pone  in  un  rapporto  affatto  diverso  collambiente  esteriore. 

Malgrado  i  cangiamenti  incessanti  e  profondi,  a  cui  soggiace,  la  natura  si  man- 
tiene pur  sempre  ordinata  e  costante  nel  suo  processo  ;  il  che  prova  che  essi  sono 
governati  da  leggi  generali,  che  segnano  i  limiti,  a  cui  debbono  arrestarsi,  e  la  mi- 
sura, che  li  circoscrive  ;  altramente  il  disordine  ed  il  caos  sarebbero  inevitabili.  I  can- 
giamenti non  ispuntano  quasi  per  incanto,  ne  avvengono  per  caso  e  senza  ragione, 
ma  sono  regolarmente  determinati  dalla  natura  specifica  degli  esseri,  in  cui  si  com- 
piono. Sarebbe  ridevole  cosa  l'aspettarci  da  un  sasso  inanimato  i  mutamenti  proprii 
di  una  pianta  o  di  un  organismo  animale.  Le  metamorfosi  della  mitologia  non  hanno 
leggi  naturali,  che  le  governino,  ma  per  ciò  appunto  sono  mere  creazioni  della  fan- 
tasia poetica,  senza  verun  fondamento  nella  realtà.  L'immaginazione  omerica  ci  ritrae 
l'infelicissima  Niobe  tramutata  in  una  rupe,  la  nave  de'  Feaci  in  pietra,  la  figlia  di 
Pandoro  in  usignuolo  ;  ed  il  Proteo  della  favola,  che  veste  per  incanto  le  più  disparate 
sembianze,  simboleggia  lo  sfrenato  trasmutamento  di  tutte  le  cose  mondiali. 

Che  se  le  cose  tutte  quante  cangiano  senza  posa,  diremo  noi,  che  il  mutamento 
finisca  nella  distruzione  dell'essere,  nel  nulla?  Se  cosi  fosse,  verrebbe  un  punto,  in 
cui  il  cangiamento  stesso  avrebbe  termine,  ma  siccome  esso  si  perpetua  senza  fine, 
quindi  è  che  sempre  vi  debb'essere  alcunché,  il  quale  muti,  vai  quanto  dire,  che 
l'essere  è  indistruttibile.  Mercurio  Trismegistro  nel  Pimandro  afferma,  che  "  nihil 
eorum,  quae  in  mundo  sunt,  interit  „  (1).  Ovidio  nel  libro  XV  delle  Metamorfosi  pone  in 
bocca  a  Pitagora  questa  sentenza:  u  Omnia  mutantur,  nihil  interit  „.  Il  che  significa 
che  il  cangiamento  tocca  la  forma,  e  lascia  intatta  l'intima  sostanza  o  l'essenza.  E 
veramente  il  cangiamento  sta  appunto  nel  trapasso  di  un  essere  da  un  modo  di  esi- 
stere ad  un  altro,  ossia  è  una  modificazione  dell'essere  stesso.  Chi  dall'ignoranza 
passa  alla  conoscenza,  muta  modo  di  esistere,  ma  la  sua  individualità  permane  sostan- 
zialmente. Un  cangiamento  di  natura  od  essenza  e  non  di  semplice  forma,  non  sa- 
rebbe più  cangiamento  o  trasformazione  nel  senso  naturale  del  vocabolo,  bensì  un 
trasnaturamento,  e  tali  sono  appunto  le  metamorfosi  della  mitologia. 

Che  se  l'essere  sempre  muta  riguardo  alla  forma,  omnia  mutantur,  e  permane 
indistruttibile  nella  sua  sostanza,  nihil  interit,  sorge  il  problema,  dove  risieda  questa 
indestruttibilità  sostanziale,  problema  che  può  essere  risolto  in  sensi  diversi.  Il  pan- 
teismo sostiene,  che  l'essere  primitivo  ed  assoluto  esso  solo  è  veramente  indestrutti- 
bile  e  permanente,  essendo  l'unica  ed  eterna  sostanza,  della  quale  le  altre  cose  tutte 
non  sono  che  forme  passeggiere  e  continui  cangiamenti.  Lo  Spencer  anch'esso  con- 


dì Lo  stesso  concetto  riscontrasi  in  Ippocrate  nel  libro  De  Dieta,  in  Lucrezio,  lib.  1°,  versi  264,  265, 
in  Seneca  nell'Epistola  36,  in  Macrobio,  nel  libro  2",  capo  12  intorno  il  Sogno  di  Scipione. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  0 

cepisce  l'essere  primitivo  siccome  la  forza  unica  persistente,  di  cui  tutte  le  forze  par- 
ticolari ed  i  fenomeni  non  sono  che  altrettanti  modi,  ma  che  però  ci  è  assolutamente 
ignoto  in  sé  medesimo. 

Il  positivismo  evoluzionistico  contemporaneo  si  avvicina  sotto  un  certo  riguardo 
a  questa  dottrina  e  si  può  considerare  siccome  una  forma  speciale  di  panteismo, 
essendoché  sentenzia,  che  le  varie  specie  di  esseri  non  conservano  indestruttibile  l'es- 
senza sostanziale  loro  propria,  ma  si  trasformano  le  une  nelle  altre  passando  per  una 
serie  progressiva  di  cangiamenti  governati  dalla  legge  di  continuità  e  di  perfettibilità 
indefinita,  sicché  rimontando  il  corso  delle  passate  metamorfosi  ci  troveremmo  di 
fronte  ad  una  sostanza  unica  primordiale.  Un  altro  modo  di  risolvere  il  problema  sta 
nell'ammettere,  che  le  sostanze  esistenti  sono  molteplici  e  varie,  e  non  già  una  sola, 
e  che  le  sostanze  composte  dissolvendosi  cangiano  e  si  distruggono  perdendo  l'indi- 
vidualità propria,  mentre  le  sostanze  semplici  ed  indecomponibili,  quali  sarebbero  da 
un  lato  gli  ultimi  atomi  della  materia,  dall'altro  le  anime  razionali,  rimangono  in- 
destruttibili. 

Ognun  vede  che  il  proposto  problema  varca  i  limiti  proprii  della  scienza  antro- 
pologica e  si  stende  nel  campo  della  filosofia  superiore,  siccome  quello,  che  ricerca 
la  parte  mutabile  e  la  immutabile  non  nel  solo  essere  umano,  ma  nell'intiero  universo. 
Ragion  voleva  però  che  ci  elevassimo  a  concepire  il  problema  in  tutta  l'universalità 
sua,  essendoché  l'uomo  è  di  tutta  la  natura  la  parte  più  sublime  e  comprensiva. 

Premesso  il  concetto  del  cangiamento  in  generale,  discendiamo  a  studiare  di 
proposito  la  parte  mutabile  dell'essere  umano.  E  qui  lascio  da  banda  il  gran  mondo 
umano  esteriore  o  sociale,  giacché  il  contemplare  gli  immensi  e  svariati  mutamenti, 
che  l'umanità  ha  percorso  attraverso  i  secoli,  è  ufficio  che  appartiene  alla  storia  ed 
alla  filosofia  della  storia. 

Lo  studio  nostro  sta  tutto  raccolto  in  quel  piccolo  mondo  psicologico,  che  si 
svolge  dentro  ciascuno  di  noi;  e  per  procedere  con  ordine  occorre  esordire  da  una 
classificazione  dei  cangiamenti,  a  cui  soggiace  il  soggetto  umano  individuo.  L'uomo 
ha  duplice  natura,  fisica  e  mentale  ;  quindi  abbiamo  due  classi  di  mutamenti,  gli  uni 
proprii  dell'organismo  corporeo,  gli  altri  dello  spirito.  La  vita  umana  scorre  per  i 
successivi  periodi  dell'infanzia,  dell'adolescenza,  della  virilità,  della  vecchiaia,  mani- 
festandosi sotto  forme  diverse  corrispondenti:  di  qui  altre  categorie  di  mutamenti 
proprii  di  ciascuna  età  della  vita.  L'uomo  esplica  il  suo  essere  interiore  mediante  la 
triplice  potenza  del  sentire,  dell'intendere  e  del  volere;  quindi  presenta  tre  specie 
diverse  di  cangiamenti,  secondochè  riguardano  ciascuna  delle  tre  potenze  :  esso  muta 
sentimenti,  pensieri  e  voleri.  Soltanto  di  quest'ultima  classe  di  cangiamenti  qui  ter- 
remo discorso,  giacché  delle  altre  due  abbiamo  già  fatto  parola  ne'  nostri  Studi  an- 
tropologici, e  negli  Studi  psicofisiologici. 

Basta  interrogare  per  poco  la  storia  del  nostro  cuore  per  rilevare  che  la  vita 
del  sentimento  e  dell'affetto  mai  non  rimane  immobile  nel  medesimo  stato.  Si  passa 
dalla  gioia  al  dolore,  dall'amore  all'odio,  dalle  pili  brillanti  e  confortatrici  speranze 
alle  ore  dello  scoraggiamento  e  del  disinganno.  I  nostri  sentimenti  mutano  d'intensità 
sotto  l'impero  del  tempo,  mutano  di  oggetto  nel  loro  processo.  L'anima  colpita  da 
irreparabil  sciagura  si  veste  a  lutto,  si  abbandona  al  sentimento  di  una  opprimente 
malinconia,  e  vorrebbe  essere  morta  per  sempre  alla  vita.  Il  tempo  vi  passa  sopra 


GIUSEPPE    ALLIEVO 


ed  a  poco  a  poco  vi  sparge  l'obblìo  cancellando  le  impronte  del  dolore,  che  semina- 
vano indelebili,  distruggendo  quelle  meste  e  care  ricordanze,  che  si  credevano  eterne 
e  si  rientra  nel  corso  della  vita,  si  sente  di  nuovo  l'esistenza.  La  forza  trasformatrice 
del  tempo  non  solo  modera  ed  attuta  la  profonda  intensità  del  dolore,  ma  scema  e 
spegne  le  gioie  più  vive  e  più  incantevoli.  Infatti  l'anima  perdutamente  innamorata 
di  un  oggetto,  vive  tutta  quanta  raccolta  nel  desiderio  di  possederlo,  anelandovi 
come  a  termine  della  sua  felicità  suprema:  il  suo  ardente  desiderio  è  adempiuto: 
essa  possiede  l'oggetto  unico  del  suo  amore,  si  sente  beata  :  ma  il  suo  paradiso  a 
poco  a  poco  scompare,  la  sua  beatitudine  va  scemando  d'intensità  ed  energia,  finche 
a  canto  dell'oggetto  amato  finisce  per  vivere  con  una  calma,  che  pare  indifferenza. 
La  sazietà  del  possesso  ha  smorzato  il  fervido  entusiasmo  del  desiderio.  Anche  l'am- 
biente fisico  e  sociale,  in  cui  la  nostra  vita  si  espande,  produce  mutazioni  continue 
nella  nostra  natura  affettiva.  Ogni  oggetto,  che  ci  impressiona,  suscita  in  noi  un  sen- 
timento, il  quale  cede  il  posto  ad  un  altro  in  presenza  di  un  nuovo  oggetto  :  quindi 
è  che  nell'età  della  fanciullezza  i  sentimenti  sono  freschi,  sempre  nuovi  e  mutabili, 
perchè  allo  sguardo  del  fanciullo  la  natura  apparisce  sempre  nuova  e  svariata,  mentre 
apparisce  arida  e  fredda  all'anima  del  vecchio  già  ammaestrata  da  lunga  e  dura 
esperienza.  Per  lo  contrario,  il  vivere  monotono  e  sempre  circondato  dai  medesimi 
oggetti  o  suscita  il  desiderio  di  andare  in  cerca  di  nuove  impressioni  o  genera  la 
noia  e  l'apatia. 

Nell'unità  del  soggetto  umano  il  cuore,  potenza  del  sentimento  e  dell'affetto,  non 
vive  isolato  dall'intelletto  e  dalla  volontà;  epperò  queste  due  potenze  sono  anch'esse 
cagione  de'  mutamenti,  che  in  esso  si  avvicendano.  Quando  il  pensiero  si  spossa  in 
un  meditar  incessante,  faticoso,  profondo,  anche  il  cuore  ne  soffre  e  sentesi  inaridito, 
mentre  ogni  nuova  verità  scoperta  dall'intelligenza,  ogni  atto  generoso  e  nobile  della 
volontà  è  accompagnato  da  un  gradevole  sentimento.  Per  lo  contrario  l'anima  passa 
dal  più  fervido  ed  elevato  sentimentalismo  alla  fredda  indifferenza,  alloraquando  l'ideale, 
che  lo  sorreggeva,  o  si  eclissa  davanti  al  pensiero,  od  illanguidisce  davanti  alla  volontà. 

Non  meno  frequenti  e  notevoli  sono  i  cangiamenti,  che  si  avvicendano  nella 
nostra  potenza  intellettiva,  siccome  quella,  che  passa  di  continuo  dall'uno  all'altro 
oggetto  conoscibile,  oppure  discorre  dall'uno  all'altro  dei  molteplici  elementi  del  me- 
desimo oggetto.  Il  primo  cangiamento,  da  cui  si  inizia  la  vita  dell'intelligenza,  sta 
nel  trapassare  che  essa  fa  dall'ignoranza  alla  conoscenza,  vai  quanto  dire  dalle  te- 
nebre alla  luce:  il  pensiero  si  desta  alla  vita,  quando  la  luce  della  verità  discende 
ad  illuminarlo.  Ad  ogni  acquisto  di  cognizione  la  vergine  intelligenza  del  fanciullo 
muta  aspetto,  si  rinnova,  si  amplia,  si  ringagliardisce.  Poi  viene  lo  sviluppamene 
progressivo  della  cognizione  acquistata,  poi  altre  cognizioni  anch'esse  nuove,  poi  il 
loro  intreccio  e  coordinamento  od  unità  ideale;  anche  queste  sono  mutazioni,  che 
sopravvengono  ad  imprimere  all'intelligenza  una  nuova  forma  più  ampia  e  più  com- 
prensiva. Se  non  che  le  cognizioni  acquistate  con  tanta  fatica  ed  affidate  alla  me- 
moria, possono  eclissarsi,  confondersi  con  altre,  od  andare  smarrite  del  tutto  ;  il  pen- 
siero può  dalla  conoscenza  ripiombare  nell'ignoranza,  dalla  luce  ricader  nelle  tenebre 
obliando  l'appreso:  ecco  qui  un  cangiamento  di  ben  altra  natura,  che  compromette 
le  sorti  di  tutta  la  nostra  vita  intellettiva.  La  storia  ricorda  pensatori,  che  per  una 
repentina  perdita  della  memoria  passarono  ad  un  miserevole  idiotismo. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  I 

Tutti  questi  sono  cangiamenti  comuni,  di  cui  ognuno  può  essere  testimone  in  se 
stesso  e  che  non  oltrepassano  il  consueto  procedimento  del  pensiero.  Ma  sonvene 
altri  tanto  profondi  e  radicali,  che  rompono  il  filo  del  passato  e  gittano  il  pensiero 
in  lotta  con  se  medesimo.  Non  mancano  potenti  intelligenze,  che  rinnegarono  il  pro- 
prio sistema  filosofico,  frutto  di  lunghe  ed  intense  meditazioni  e  passarono  ad  una 
teoria  in  tutto  od  in  parte  opposta.  Queste  forme  straordinarie  di  cangiamenti  sono 
rivoluzioni  mentali,  sono  apostasie  del  pensiero  ;  e  la  storia  ci  porge  non  pochi  esempi 
di  queste  scosse  mentali.  Schelling  (per  tacere  di  parecchi  altri  pensatori)  dopo  l'a- 
pertura del  suo  corso  a  Berlino  nel  1841,  professò  principii  filosofici,  che  contraddi- 
cono al  suo  primitivo  sistema  dell'idealismo  trascendentale. 

Come  si  spiegano  questi  radicali  mutamenti  del  pensiero?  La  legge  psicologica 
della  continuità  importa,  che  ogni  nuovo  fenomeno,  che  spunta  nella  coscienza,  abbia 
la  sua  ragione  e  la  sua  causa  nel  fenomeno,  che  lo  ha  preceduto;  ma  ognun  vede 
che  balzando  da  una  dottrina  filosofica  alla  sua  opposta  o  contraddittoria,  l'una  non 
può  di  certo  essere  causa  e  ragione  dell'altra.  Che  anzi  ci  troviamo  di  fronte  al 
problema,  come  si  possano  conciliare  queste  rivoluzioni  ed  apostasie  del  pensiero 
colla  legge  psicologica  della  continuità. 

Anche  la  potenza  volitiva  soggiace  a  mutamenti  conformi  alla  sua  natura  :  essa 
cangia  di  oggetto,  di  intensità,  di  forza,  vuole  e  disvuole,  passa  dal  bene  al  male, 
dalla  virtù  al  vizio,  e  vi  ritorna,  cade  e  risorge.  Ma  un  certo  qual  grado  di  fermezza 
e  di  stabilità  le  è  pur  sempre  necessario,  perchè  possegga  quella  dote  tutta  sua  pro- 
pria, il  carattere,  ed  il  carattere  è  inconciliabile  con  una  volontà  sempre  mutabile, 
volubile,  incostante.  La  fermezza  della  volontà  riposa  sopratutto  sui  principii  morali 
e  religiosi  direttivi  della  vita,  immutabili  ed  assoluti:  ripudiando  questi  principii, 
abbiamo  le  apostasie  della  volontà,  come  abbiamo  le  apostasie  del  pensiero.  Ricer- 
cando la  cagione  di  questo  radicai  mutamento  della  volontà,  la  quale  rinuncia  alle 
pristine  credenze,  talvolta  la  ritroviamo  nella  lotta,  che  entro  di  noi  si  dibatte  tra 
la  ragione  e  la  fede.  Teodoro  Jouffroy  ci  ha  lasciato  una  commoventissima  ed  inte- 
ressante pagina  di  storia  della  sua  vita  intima  (1),  nella  quale  ritrae  le  atroci  tor- 
ture, che  dilaniarono  il  suo  spirito  allorquando  ripudiò  le  credenze  religiose,  nelle 
quali  era  nato  e  fu  educato,  per  seguire  la  pura  ragione,  che  poi  lo  abbandonò  in 
balìa  dello  scetticismo. 

Come  il  sentimento  è  la  potenza  affettiva,  come  l'intelligenza  è  la  potenza  pen- 
sante e  conoscitiva,  cosi  la  volontà  è  la  potenza  essenzialmente  e  propriamente  ope- 
rativa, siccome  quella,  che  ha  per  ufficio  di  tradurre  in  atto  l'ideale  della  vita,  che 
le  sta  davanti.  Sotto  questo  riguardo  abbiamo  ragione  di  distinguere  i  cangiamenti 
della  volontà  in  due  specie,  secondochè  essa  nel  suo  operare  si  allontana  dall'ideale 
proposto  e  discende  nella  bassa  sfera  degli  istinti  animali  e  delle  ignobili  passioni, 
oppure  si  innalza  all'ideale  conformandosi  ai  principii  immutabili,  del  vero,  del  giusto, 
dell'onesto  e  del  divino.  La  nostra  vita  operativa  è  un'  alternata  vicenda  di  questi 
due  movimenti,  discensivo  ed  ascensivo.  Quando  ci  troviamo  caduti  in  basso  loco,  av- 
voltolati nel  fango  della  realtà  materiale,  il  sentimento  della  nostra  dignità  umana 
suscita  in  noi  il  desiderio  di  rialzarci,  di  rifare  la  nostra  vita,  di  ritornare  là,  dove 


(1)  Vedi  P.  Lerroux,  De  la  mutilation  d'un  écrit  de  Jouffroy. 


GIUSEPPE    ALLIEVO 


la  voce  del  dovere  ci  chiama ,  allora  si  cangia  indirizzo  ;  succedono  le  conversioni 
dell'anima,  conversioni  per  lo  più  lente,  faticose,  oscillanti,  e  qualche  rara  volta  re- 
pentine, straordinarie,  inaudite,  avvolte  nell'arcano,  come  quella  di  S.  Paolo,  che  col- 
pito sulla  strada  di  Damasco  da  forza  misteriosa,  si  mutò  da  persecutore  in  apostolo 
della  nuova  fede.  Sonvi  poi  certe  tempre  di  volontà  ferree,  adamantine,  che  si  man- 
tengono ferme,  incrollabili  intorno  l'ideale  della  vita,  ne  mai  lo  abbandonano  per 
volgere  di  anni  e  di  vicende;  anch'esse  cangiano,  ma  il  loro  cangiare  è  un  progres- 
sivo innalzarsi,  un  avvicinarsi  sempre  più  da  presso  al  sublime  ideale,  un  avanzare 
continuo  nella  via  della  perfezione.  Queste  volontà  rarissime  davvero  e  tanto  privi- 
legiate dalla  natura,  trovano  la  loro  corrispondenza  in  quelle  elette  intelligenze,  che 
giunte  alla  più  tarda  vecchiaia,  conservano  l'operosità  ed  il  vigore  proprii  degli  anni 
giovanili  (1). 

Queste  brevi  considerazioni  intorno  i  cangiamenti  della  volontà  sono  poi  feconde 
di  pratiche  applicazioni  nella  scienza  e  nell'arte  pedagogica.  Educare  la  volontà  del- 
l'alunno non  significa  punto  annientarla,  condannandola  all'inerzia,  all'immobilità, 
all'impotenza,  non  significa  violentarla,  togliendole  il  suo  libero  movimento  e  trasfor- 
mandola in  un  meccanismo  di  cieche  ed  automatiche  abitudini,  bensì  risiede  nell'am- 
maestrarlo  intorno  l'ideale  della  vita,  nel  rafforzare  la  sua  volontà  a  conseguirlo, 
tenendo  vivo  nell'animo  suo  il  sentimento  della  sua  responsabilità  e  la  coscienza  del 
suo  operare,  e  sorreggendolo  nella  formazione  del  suo  carattere. 

Ricordiamo  le  cose  fin  qui  discorse  e  raccogliamoci.  La  nostra  vita  scorre  per 
una  serie  continua  di  cangiamenti,  i  nostri  sentimenti,  i  pensieri,  i  voleri  non  riman- 
gono mai  immobili  un  solo  istante.  Ma  non  vi  è  dunque  nulla  di  permanente,  di 
inalterabile  nel  nostro  essere?  Certo  che  si,  e  la  risposta  affermativa  ci  viene  data 
in  modo  incontrastabile  dalla  coscienza.  Noi  siamo  consapevoli,  che  la  nostra  per- 
sona, pur  mutando  modo  di  esistere,  non  diventa  un'  altra  persona,  che  essa  soprav- 
vive ai  cangiamenti,  a  cui  soggiace,  e  si  mantiene  sempre  lei  in  tutto  il  corso  della 
sua  esistenza,  che  essi  toccano  soltanto  la  sua  forma  esteriore,  ma  lasciano  intatta 
l'intima  sua  sostanza.  L'io  umano  sa  di  essere  qualche  cosa  di  superiore  a'  suoi  can- 
giamenti, sa  che  sono  suoi,  che  appartengono  a  lui,  vai  quanto  dire  che  è  una  so- 
stanza, e  non  già  un  mero  complesso  di  modificazioni  o  di  fenomeni.  Egli  è  fornito 
della  coscienza  della  sua  identità  personale,  mercè  di  cui  non  solo  avverte  i  suoi 
cangiamenti  attuali,  ma  ricordando  il  suo  passato  sa  di  essere  ancor  di  presente  la 
persona,  che  ha  provato  tali  e  tali  altri  sentimenti,  che  ha  acquistato  queste  o  quelle 
altre  cognizioni. 

Distinta  ed  esaminata  la  parte  mutabile  del  soggetto  umano,  abbiamo  conchiuso 
che  esso  mantiene  immutabile  la  sua  individua  sostanzialità  personale  in  tutto  il  corso 
della  terrena  esistenza.  Ma  il  nostro  io  rimarrà  esso  indestruttibile  passando  ad  una 
seconda   vita  successiva  alla  presente?  Ecco  il  problema  della  vita  oltremondana. 


(1)  Platone  scriveva  ancora  all'età  di  80  anni,  Isocrate  componeva  il  Panegirico  a  96  anni,  l'ora- 
tore Gorgia  applicava  allo  studio  già  varcati  i  100  anni,  Varrone  compose  il  suo  trattato  Delle 
occupazioni  rustiche  a  80  anni,  Sofocle,  ancora  più  vecchio,  dettò  il  suo  Edipo  a  Colono,  Teofrasto 
scrisse  i   suoi  Caratteri  a  99  anni  e  nella  stessa  età  Fontenelle  poetava  ancora. 


LA    VITA    OLTREMONDANA 


La  vita  oltremondana. 

La  vita  è  moto,  ed  il  soggetto  umano  percorrendo  il  circolo  della  sua  vita  ter- 
rena si  muove  passando  per  una  serie  continua  di  sentimenti,  di  pensieri,  di  voleri 
sempre  nuovi  e  cambia  forme  e  modi  di  essere,  finché  giunge  all'ultimo  e  radicai 
trasmutamento,  che  si  manifesta  nel  fenomeno  della  morte.  La  vita  e  la  morte,  il 
nascere  ed  il  perire,  il  cominciamento  ed  il  termine  di  un  essere,  ecco  i  due  più 
solenni  cangiamenti  delle  sostanze  esistenti. 

Il  trapasso  di  qualche  cosa  dal  nulla  (la  non  esistenza)  all'esistenza,  la  sua  rica- 
duta dall'esistenza  nel  nulla,  sono  i  due  supremi  fenomeni,  in  cui  si  risolvono  gli 
esseri  cosmici,  e  che  si  richiamano  perpetuamente  come  due  contrarii  si  richiamano 
l'un  l'altro.  Tutto  ciò,  che  vive  e  sussiste  in  natura,  possiede  un'  individualità  sua 
propria,  che  lo  distingue  da  tutta  la  rimanente  realtà.  Esiste  un  fiore,  un  uccello,  un 
uomo,  ma  queste  individualità  da  prima  non  esistevano,  erano  un  nulla  :  già  preesi- 
stevano gli  elementi,  le  molecole,  gli  atomi,  onde  constano,  ma  appartenevano  alla 
natura  in  generale,  non  ancora  a  quel  dato  essere  singolare,  ossia  non  erano  ancora 
riuniti  insieme  in  virtù  di  certe  forze,  secondo  certe  leggi  e  proporzioni  da  costituire 
una  sostanza  individua,  e  potevano  altresì  comporsi  insieme  in  altra  foggia,  sotto 
l'impero  di  altre  forze.  Così  spuntano  i  singoli  esseri  viventi  della  natura  fisica  :  ciò, 
che  prima  esisteva  in  modo  generico,  indistinto,  indeterminato,  passa  ad  assumere 
un  aspetto  particolare,  distinto,  determinato,  si  circoscrive  in  un  dato  punto  del  tempo 
e  dello  spazio,  rivestendo  una  individualità  incomunicabile.  Ma  a  questo  solenne  fe- 
nomeno succede  e  fa  corrispondenza  il  suo  opposto,  la  vita  termina  nella  morte.  ,Un 
essere  dalla  natura  scompare,  quando  la  sua  individualità  vien  meno,  quando  cioè  i 
suoi  componenti  non  più  congiunti  insieme  dalla  forza,  che  li  governava,  si  disgre- 
gano qua  e  là  abbandonati  al  potere  generale  della  natura;  gli  elementi  ultimi  riman- 
gono ancora  in  forma  generica,  indeterminata,  ma  l'individuo  non  è  più.  Però  questi 
medesimi  elementi  possono  rientrare  nel  cerchio  della  vita,  e  ricomporre  una  nuova 
esistenza.  Così  la  vita  rinasce  dalla  morte  per  ricadérvi  di  nuovo. 

Anche  l'essere  umano  passa  dalla  vita  alla  morte,  nasce  e  perisce,  ma  i  suoi 
sostanziali  componenti,  spirito  e  materia,  rimangono  essi  indestruttibili,  oppure  pe- 
riscono e  cadono  nel  nulla?  Ciascuno  di  noi  ha  cominciato  ad  esistere,  dacché  anima 
e  corpo  si  composero  insieme  ad  unità  di  essere  ;  la  morte  li  separa  ;  che  ne  sarà  di 
ciascuna  di  queste  due  sostanze?  Il  mio  essere  perisce  tutto  quanto,  oppure  avvi  una 
parte  di  me,  che  sopravvive  conservando  l'individualità  sua?  La  morte  disfà  e  dis- 
solve il  mio  organismo  corporeo,  ma  il  mio  spirito  proseguirà  esso  la  sua  vita  e  si 
ricomporrà  il  suo  materiale  involucro?  Ecco  il  problema  della  vita  oltremondana. 

Importanza  del  problema. 

Se  la  vita  nostra  personale  si  spenga  tutta  quanta  e  per  sempre,  oppure  si  ri- 
componga con  un  altro  atteggiamento  e  quale  nuova  forma  essa  rivesta,  è  il  pro- 
blema di  tutti  i  secoli,  di  tutte  le  menti,  di  tutta  l'umanità.  Questo  problema  sovrasta 

Serie  II.  Tom.  LUI.  2 


10  GIUSEPPE    ALLIEVO 

ad  ogni  altro  problema  filosofico  per  la  sua  gravità  ed  importanza,  siccome  quello, 
che  interessa  ciascuno  di  noi  e  tocca  le  sorti  supreme  della  nostra  esistenza.  Esso 
s'impone  al  pensiero  di  ogni  uomo,  che  seriamente  rifletta,  e  ricerchi  la  ragione  per 
cui  vive  quaggiù.  Se  siam  venuti  al  mondo  ignari  del  nostro  avvenire,  non  possiamo 
abbandonarlo  senza  preoccuparci  della  sorte,  che  ci  attende,  e  del  dove  andremo  a 
finire  (1).  C'interessa  sommamente  di  sapere,  se  l'istinto  indestruttibile  della  propria 
conservazione,  questa  continua  protesta  contro  l'annientamento  della  nostra  perso- 
nalità, sia  un  preludio  della  vita  futura,  oppure  una  mera  illusione  della  nostra  mente. 

La  somma  importanza  di  questo  problema  apparisce  vieppiù  manifesta  dalla  sua 
intima  connessione  coll'ideale  supremo  della  vita  umana.  Poiché,  se  gli  è  vero  che 
la  vita  nostra  ha  un  ideale,  a  cui  è  naturalmente  ordinata,  sorge  tosto  la  dimanda, 
se  quest'ideale  si  assolva  nella  cerchia  della  vita  presente,  oppure  consegua  il  suo 
pieno  avveramento  in  una  vita  oltremondana.  Tutti  i  viventi  tendono  alla  perfezione 
propria  della  loro  specie,  siccome  a  loro  ideale ,  con  questo  grande  divario ,  che  i 
viventi  irragionevoli  vi  aspirano  ciecamente  e  per  impulso  irrefrenabile  di  natura, 
l'uomo,  con  cognizione  d'intelletto  e  libertà  di  volere.  Il  granellino,  che  si  schiude  dal 
proprio  germe,  tende  a  trasformarsi  in  perfetta  spica;  è  il  suo  ideale,  ma  è  la  na- 
tura, che  ve  lo  conduce.  L'uomo  conosce  il  suo  ideale,  e  liberamente  lo  vuole.  L'ideale 
della  vita  nostra  presente  è  molteplice  e  vario:  ogni  età,  ogni  genere  di  vita,  ogni 
individuo  ha  il  suo  ideale  particolare,  ma  tutti  vanno  a  metter  capo  nell'ideale  su- 
premo della  vita  umana. 

Intorno  a  questo  supremo  ideale  si  agita  e  si  muove  tutta  la  nostra  vita  pro- 
sente.  Esso  è  il  centro  delle  nostre  aspirazioni,  il  principio  motore  di  tutto  il  nostro 
operare,  il  nostro  entusiasmo  ed  il  nostro  tormento  (2).  Ma  esso  si  compenetra  col- 
l'idea  della  vita  futura,  in  virtù  della  quale  assume  un  più  alto  significato  ed  un 
indirizzo  affatto  speciale  e  supremo.  Chi  ha  fede  in  una  esistenza  oltremondana,  com- 
pone ed  atteggia  la  vita  sua  in  modo  conforme  a  quella  credenza.  Chi  non  crede  ad 
un  al  di  là,  vive  come  se  tutta  la  sua  esistenza  dovesse  finire  quaggiù.  Si  vive  e  si 
opera  come  si  crede  e  si  pensa  ;  epperò  mal  si  appongono  coloro,  che  negano  alla 
vita  futura  una  vera  efficacia  sulla  nostra  vita  operativa  e  morale. 

Il  positivismo  contemporaneo  riducendo  la  vita  tutta  quanta  ad  un  intreccio  di 
fenomeni  passeggieri  senza  sostanza  vivente,  a  cui  appartengano,  rigetta  siccome 
antiscientifico  ogni  problema  riguardante  la  destinazione  finale  degli  esseri,  e  quindi 
anche    il    problema    della  vita  oltremondana.  Ma  in  ciò  non  procede  a  dirittura  di 


(1)  L'imperatore  Adriano,  presso  a  morire,  rivolse  alla  sua  anima  questi  versi:  "  Animula  vagula. 
Manchila  —  Hospes,  comesque  corporis  —  Quae  nunc  abibis  in  loca?  —  Pallidula,  rigida,  nudula 
—  Nec  ut  soles,  dabis  jocos  „  (Sr-AHTiANus,   Vita  Hadriani,  e.  XXIII). 

(2)  Questo  concetto  dell'ideale  della  vita  trova  uno  spontaneo  riscontro  nella  scienza  e  nell'artp 
pedagogica  e  richiama  a  se  tutta  la  meditazione  dell'educatore.  Senza  un  ideale  non  si  riesce  a 
nulla  di  buono  in  nessun  ordine  di  cose.  Un  educatore  senza  ideale  cammina  alla  ventura,  sempre 
inconsapevole  se  avanzi  od  indietreggi  nel  suo  magistero.  Poniamo  che  quest'ideale  o  non  risplenda 
vivo  e  vero  davanti  alla  mente  dell'educatore  e  dell'alunno,  o  rimanga  oscurato  dall'ignoranza  o 
dalle  passioni,  o  peggio  ancora  adulterato  da  false  idee  o  da  pregiudizi,  allora  l'educazione  fallisce 
al  suo  scopo.  Occorre  impertanto  illuminare  la  mente  dell'alunno  perche  riformi  l'ideale  della  vita 
sceverandolo  da  ogni  ideale  chimerico,  ingannevole  o  disperato,  e  disciplinare  la  sua  volontà  perchè 
operi  conforme  a  quel  vero  ideale. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  11 

logica:  poiché  è  un  fenomeno,  che  reclama  la  sua  ragione  spiegativa  anche  questo, 
che  cioè  l'uomo,  raccogliendosi  nell'intimità  della  sua  coscienza,  dimanda  a  se  me- 
desimo :  quando  il  flusso  e  riflusso  dei  cangiamenti,  fra  cui  scorre  la  mia  vita,  avrà 
chiuso  il  suo  ciclo,  che  ne  sarà  di  me?  Il  positivismo  non  può  logicamente  rifiutarsi 
dal  rispondere  a  questa  dimanda,  rendendo  ragione  anche  di  questo  fenomeno.  Ci 
risponderà,  che  dove  vada  a  finire  questo  perpetuo  ritornello  di  fenomeni  che  chia- 
mano vita,  non  se  ne  sa  proprio  nulla  ;  e  sia  pure  :  sarebbe  questa  una  soluzione 
negativa  del  problema,  e  la  critica  sentenzierà  se  sia  vera  o  falsa.  Ma  di  tal  modo 
voi  non  avete  respinto  il  problema,  bensì  lo  avete  accolto  e  discorso,  essendoché 
anche  per  averlo  risolto  in  modo  negativo  occorre  averlo  disaminato.  Come  l'ombra 
suppone  il  corpo,  che  la  proietta,  cosi  il  fenomeno  importa  la  realtà  sostanziale,  in 
cui  si  radica.  Fenomeno  e  sostanza,  morte  e  immortalità  sono  due  concetti,  che  si 
presentano  al  pensiero  indisgiungibili:  e  Platone  già  scrisse  nel  Fedone  che  i  filosofi 
bramano  effettivamente  di  morire,  perchè  nella  vita  futura,  liberi  dalle  illusioni  de' sensi 
corporei,  acquisteranno  la  vera  sapienza. 

Alla  somma  rilevanza  del  proposto  problema  corrisponde  la  somma  difficoltà  che 
presenta  ad  essere  di  tutto  punto  risolto.  Il  mistero  della  morte  diffonde  una  certa 
qual  ombra  di  oscurità  su  questo  problema,  il  quale  perciò  è  stato  contemplato  e 
risolto  in  sensi  i  più  disparati  ed  ha  fornito  argomento  alle  affermazioni  più  ardite 
ed  esorbitanti,  senzachè  mai  siasi  giunto  a  dissipare  il  punto  nero,  che  lo  adombra. 
Furono  messe  in  campo  le  opinioni  più  strane  a  spiegare  la  vita  futura,  e  basti  ri- 
cordare quella  degli  stoici,  i  quali  (a  quanto  ne  riferisce  Plutarco  nel  suo  opuscolo 
Delle  sentenze  dei  filosofi,  lib.  4,  cap.  7)  sentenziarono,  che  alloraquando  l'anima  se 
ne  esce  dal  corpo,  muore  insieme  col  composto,  se  è  imbecille,  quali  sono  quelle 
degli  idioti;  per  contro  se  è  potente,  quali  quelle  dei  sapienti,  dura  sino  alla  confla- 
grazione universale.  Essere  o  non  essere;  è  la  questione  suprema:  essere  così  o  così; 
è  questione  secondaria.  La  ragione  può  dimostrare,  che  nel  mondo  di  là  ci  saremo 
ancora;  ma  in  che  modo  ci  saremo?  questo  essa  non  ce  lo  può  spiegare  con  tanta 
lucidità  e  certezza  da  dissipare  ogni  ombra  di  dubbio. 


Concetto  generale  del  problema. 

La  vita  oltremondana  o  futura  ci  si  presenta  quale  una  sopravvivenza  alla 
morte,  epperò  contiene  in  sé  il  concetto  dell'immortalità.  Ora  questo  concetto  è  for- 
nito di  tanta  universalità  ed  ampiezza  che  può  essere  riscontrato  dovunque  apparisce 
un  essere  vivente  ;  epperò  potrem  dimandare,  se  sia  immortale  non  solamente  l' io 
umano  individuo,  ma  altresì  la  specie  umana,  tutti  gli  esseri  viventi,  tutto  quanto  il 
visibile  universo.  S'intende  da  sé  che  il  nostro  problema  è  circoscritto  alla  disamina 
della  vita  oltremondana  propria  dell'io  umano  individuo;  ma  anche  riguardato  sotto 
questo  speciale  aspetto  esso  non  va  rimpicciolito  oltre  il  convenevole,  bensì  contem- 
plato in  tutta  la  sua  naturale  ampiezza.  Alcuni  ristringono  tutto  quanto  il  problema 
alla  sola  disamina  dell'immortalità  dell'anima  e  reputano  di  averlo  risolto  quando 
siano  riusciti  a  dimostrare  che  l'anima  di  ciascuno  sopravvive  sola  al  dissolvimento 


12  SEPPE    ALLIEVO 

del  corporeo  organismo.  Costoro  non  avvertono  che  i  componenti  sostanziali  dell'io 
umano  sono  spirito  e  corpo,  stretti  insieme  da  un  vincolo  personale  cotanto  intimo, 
che  l'anima  cesserebbe  di  essere  umana,  se  venisse  considerata  come  uno  spirito 
puro  sciolto  da  ogni  rapporto  colla  materia.  Quando  avrete  posto  in  sodo,  che  l'anima 
dura  oltre  tomba,  voi  vi  troverete  in  faccia  a  questa  inevitabil  questione:  che  ne  è 
di  tutta  la  sua  vita  fisica,  che  essa  aveva  vissuto  quaggiù  nel  suo  intimo  e  lungo 
commercio  col  corpo?  Si  spegnerà  essa  tutta  quanta?  E  allora  come  potrà  reggersi 
la  sua  vita  mentale,  che  nel  suo  sviluppo  temporaneo  si  era  intimamente  compene- 
trata  colla  vita  corporea?  Come  mai  l'anima  potrà  ancora  percepire  il  mondo  ma- 
teriale esterno  ed  accoglierne  l'impressione  ?  Oppure  quella  vita  fisica  continuerà 
ancora?  In  questo  caso,  sotto  qual  nuova  forma  diversa  dalla  presente  terrena  si  ma- 
nifesterà essa  mai?  L'anima  si  comporrà  un  altro  involucro  materiale,  che  le  tenga 
luogo  del  corpo,  che  non  ha  più,  siccome  necessario  strumento  del  suo  lavorìo  razio- 
nale, oppure  si  ricostruirà  in  altra  guisa  il  suo  organismo  corporeo  precedente? 

Da  questa  considerazione  appar  manifesto,  che  l'immortalità  dell'anima  umana 
non  comprende  in  tutta  la  sua  compitezza  il  problema  della  vita  futura  oltremondana, 
perchè  non  si  tien  conto  di  amendue  i  sostanziali  componenti  dell'umano  soggetto, 
e  che  perciò  ad  abbracciare  tutto  quanto  e  quale  è  il  proposto  problema  va  formu- 
lato nei  termini  seguenti  :  se  il  dramma  della  nostra  esistenza  abbia  nella  morte  del 
corpo  il  suo  finale  e  definitivo  scioglimento,  oppure  il  nostro  io  personale  sia  desti- 
nato ad  una  seconda  vita  futura  oltremondana.  Questa  è  la  forinola  generale  e  com- 
plessiva del  problema:  qui  ci  troviamo  di  fronte  alla  grande,  alla  suprema  questione 
dell'essere  o  non  essere,  dalla  quale  però  scaturisce  una  seconda  questione,  che  riguarda 
il  modo  di  essere.  Quindi  quel  concetto  generale  del  problema  viene  a  scomporsi  in 
questi  altri  problemi  elementari:  in  qual  guisa  l'io  umano  ricomporrà  nell'unità  del 
suo  essere  personale  la  sua  duplice  vita,  fisica  e  mentale,  spezzata  dalla  morte?  Qual 
nuovo  atteggiamento  prenderanno  le  sue  potenze  in  ordine  al  loro  oggetto?  Come  si 
svolgeranno  in  lui  le  impressioni  esterne,  i  sentimenti,  gli  affetti,  i  pensieri,  i  voleri? 
Qual  rapporto  avranno  tutti  questi  fenomeni  con  quelli  della  vita  presente?  Ricor- 
deremo il  nostro  passato,  penseremo  alle  persone  ed  alle  cose  di  quaggiù,  che  furono 
tanta  parte  della  nostra  terrena  esistenza? 

Tale  è  il  concetto  generale  del  problema  inteso  nel  suo  significato  supremo  e 
ne'  suoi  integrali  elementi.  Come  la  morte  è  la  solenne  e  radicai  trasformazione  di 
tutto  il  nostro  essere,  cosi  la  vita  futura  oltremondana  non  solo  s'impone  alla  ragione 
per  essere  meditata  e  discussa,  ma  preoccupa  altresì  e  richiama  a  se  tutte  le  altre 
potenze  dell'anima.  Poiché  essa  è  una  costante  aspirazione  del  cuore,  che  attende  al 
di  là  l'ideale  supremo  de'  suoi  amori  e  delle  sue  speranze  non  mai  raggiunto  quaggiù  : 
è  un'affermazione  dell'istinto  indomabile  della  propria  conservazione,  che  rifugge 
dall'annientamento  della  nostra  esistenza  personale:  è  una  verità  naturale  di  senti- 
mento, suffragata  dal  consenso  universale  del  genere  umano:  è  un  mondo  arcano, 
che  apre  all'immaginazione  un  campo  svariatissimo  ed  immenso  alle  sue  fantastiche 
creazioni,  come  apparisce  nella  Divina  Commedia,  dove  l'Alighieri  ritrae  con  insupe- 
rabile magistero  di  fantasia  poetica  lo  stato  dell'anima  nella  vita  futura.  La  facoltà 
del  libero  volere,  mentre  da  un  lato  genera  la  responsabilità  del  nostro  operare,  dal- 
l'altro importa  una  sanzione,  la  quale  avrà  il  suo  compiuto  avveramento  nella  vita 


LA    VITA    OLTREMONDANA  13 

futura.  Infine  anche  il  sentimento  religioso,  facoltà  indestruttibile  della  natura  umana, 
afferma  recisamente  l'esistenza  oltremondana.  Il  culto  dei  morti  e  la  riverenza  dei 
sepolcri  sono  un  fatto  universale  e  costante  nella  storia  dell'umanità,  che  rimarrebbe 
inesplicabile  qualora  si  negasse  l'esistenza  della  vita  futura.  Giambattista  Vico  ne' suoi 
Principi  di  una  Scienza  nuova,  esordisce  osservando  che  "  le  religioni  tutte  ebbero 
gittate  le  loro  radici  in  quel  desiderio  che  hanno  naturalmente  tutti  gli  uomini  di 
vivere  eternalmente  „  ;  ed  altrove  scrive  che  "  è  un  placito,  nel  quale  certamente  son 
convenute  tutte  l  nazioni  gentili,  che  l'anime  restassero  sopra  la  ferra  inquiete,  ed  an- 
dassero errando  intorno  a'  loro  corpi  insepolti;  e  in  conseguenza  che  non  muoiano 
co'  loro  corpi,  ma  che  siano  immortali  „  (1).  ÀI  culto  dei  morti  accennava  il  cantor 
dei  Sepolcri  rilevando  la  celeste  corrispondenza  d'amorosi  sensi  tra  i  viventi  ed  i  tra- 
passati, corrispondenza,  che  suppone  la  sopravvivenza  delle  anime  oltre  la  tomba, 
sebbene  poi  rinneghi  l'immortalità  degli  spiriti  proclamando  che  Anche  la  speme, 
vittima  dea,  fugge  i  sepolcri,  e  di  tal  modo  contraddicendo  a  se  medesimo.  Il  cantore 
della  Dirimi  Commedia  vide  anch'egli  scritto  al  sommo  di  una  porta:  Lasciate  ogni 
speranza  o  voi  ch'entrate;  ma  non  era  la  porta  del  Camposanto,  bensì  dell'Inferno,  dove 
entrano  le  anime  dannate,  ed  egli  cantava  che  gli  spiriti  umani  si  risveglieranno  un 
giorno  dal  sonno  della  morte  corporale. 

La  facoltà  della  ragione  e  della  scienza  in  riguardo  alla  vita  futura  oltremon- 
dana ha  un  compito  speciale  suo  proprio,  diverso  da  quello  delle  altre  facoltà  fin 
qui  enumerate.  Qui  non  si  tratta  più  di  tendenze  istintive,  di  aspirazioni,  di  senti- 
menti, di  immagini  fantastiche,  di  credenze  universali:  la  ragione  medita  intorno  il 
gran  problema  dell'immortalità  dell'io  umano,  riflette,  discute,  dimostra,  lavora  nel 
campo  della  scienza  teorica  e  dell'astratta  speculazione,  pone  in  sodo  la  verità  sce- 
verando il  certo  dall'incerto,  il  probabile  dal  dubbio.  Ma  qui  sorge  una  questione 
assai  rilevante,  che  non  va  trascurata.  La  ragione  scientifica  può  essa  mantenersi 
estranea  ed  indifferente  alle  affermazioni  delle  altre  umane  potenze  intorno  a  questo 
gran  punto,  e  senza  riguardo  di  sorta  imporre  i  suoi  ragionamenti  e  le  sue  conclu- 
sioni quali  che  siano,  oppure  sonvi  limiti,  a  cui  deve  arrestarsi,  riguardi  da  rispettare? 
Ha  essa  un  diritto  assoluto  di  impugnare  a  priori  e  rigettar  fra  le  chimere  le  aspi- 
razioni del  cuore,  le  tendenze  istintive  della  natura  umana,  le  intuizioni  spontanee 
dell'intelligenza,  le  creazioni  tutte  della  fantasia,  le  credenze  universali  del  genere 
umano  e  del  sentimento  religioso?  Io  non  lo  credo  punto.  Poiché  primo  dovere  della 
ragione  speculativa  e  della  scienza  è  questo,  di  riconoscere  e  rispettare  la  natura 
umana  in  tutte  le  manifestazioni  della  sua  attività,  in  tutta  l'integrità  de'  suoi  ele- 
menti. Ora  è  un  fatto,  che  le  potenze  tutte  quante,  che  costituiscono  il  soggetto 
umano,  si  sentono  per  così  dire  attratte  verso  il  gran  punto  della  vita  oltremondana; 
e  per  conseguente  la  ragione  non  ha  diritto  di  serbarsi  libera  ed  indipendente  asso- 
lutamente dalle  loro  affermazioni  e  discutere  il  problema  della  vita  futura  all'infuori 
della  natura  umana.  L'io  umano  -non  è  tutto  quanto  ragione,  non  è   esclusivamente 


(1)  Principi  di  scienza  nuova,  Opere,  voi.  0.  Milano  1830,  pag.  143.  Lo  Spencer  ripone  nel  culto 
dei  morti  l'origine  primitiva  e  la  genesi  di  tutte  le  religioni.  Anche  il  Guyot  a  pag.  358  della  sua 
L'Irréligiori  de  l'avenir,  scrive  che  *  in  mezzo  allo  sfasciarsi  di  tutte  le  religioni  sussisterà  la 
rimembranza  e  la  venerazione  de'  trapassati  „ . 


14  GIUSEPPE    ALLIEVO 

pensiero  e  niente  più,  ma  è  altresì  sentimento,  è  libertà,  è  religiosità,  è  imma- 
ginazione. 

Inoltre  l'umano  soggetto  non  è  soltanto  molteplice  e  vario  nelle  sue  potenze, 
ma  altresì  uno  ed  armonico  nel  suo  essere.  Quell'io,  che  ragiona  e  ragionando 
costruisce  la  scienza,  è  quel  medesimo,  che  sente,  immagina,  vuole,  intuisce  e  crede. 
Le  molteplici  potenze  non  sono  forze,  opposte  e  contrarie,  che  si  urtano  e  si  elidono, 
ma  compongono  una  forza  unica  e  vivente.  Questa  legge  dell'armonia  o  del  sinte- 
sismo  psichico  esige  che  la  ragione  scientifica  armonizzi  le  sue  conclusioni  ed  i  suoi 
pronunziati  colle  affermazioni  proprie  delle  altre  potenze  anche  in  riguai'do  a  questo 
gravissimo  argomento  della  vita  oltremondana.  Non  è  vera  scienza  quella,  che  su- 
perba di  sé  sola,  si  pone  in  antagonismo  con  tutto  ciò,  che  è  oggetto  del  sentimento, 
dell'affetto,  dell'istinto  morale  e  religioso  e  conculca  le  giuste  aspirazioni  del  cuore, 
le  legittime  speranze  dell'umanità.  La  scienza  vera  non  introduce  il  dissolvimento  e 
lo  scompiglio  nell'intimo  dell'io  umano,  ma  l'unità  e  l'armonia  ;  non  accumula  rovine, 
ma  lavora;  non  distrugge,  ma  edifica  sul  fondamento,  che  natura  pone. 

Questa  naturale  armonia  propria  dell'umano  soggetto  ci  conduce  ad  un'  altra 
rilevantissima  conseguenza.  La  ragione  speculativa  non  solo  non  ha  diritto  di  invadere 
il  dominio  proprio  delle  altre  potenze,  di  tiranneggiarle,  di  chiamarle  come  giudice 
infallibile  al  proprio  tribunale  e  pronunciare  sopra  di  esse  una  sentenza  di  vita  o  di 
morte,  ma  non  basta  a  se  sola,  come  nessuna  potenza  basta  a  se  medesima,  bensì 
abbisogna  del  concorso  di  tutte  le  altre  per  lo  stesso  suo  lavorìo  scientifico.  Infatti 
ci  sono  verità  di  senso  comune  intuite  per  natura,  ammesse  dal  consenso  del  genere 
umano,  sentite  dal  cuore,  inspirate  dall'affetto  e  dall'istinto,  verità  che  non  furono 
scoperte  dalla  speculazione,  né  dimostrate  dalla  scienza,  ma  che  la  ragione  medesima 
è  costretta  ad  accogliere  o  riconoscere  siccome  dati  fondamentali,  da  cui  deve  pi- 
gliare le  mosse.  La  scienza  abbisogna  altresì  dell'immaginazione,  che  la  sorregga 
alloraquando  nelle  sue  speculazioni  trascendentali  le  idee  assolutamente  pure  ed 
astratte  vengono  meno  e  sottentrano  le  immagini,  che  ne  facciano  le  veci.  Come  vi 
ha  un'  immaginazione  poetica,  che  ha  per  oggetto  il  Bello  dell'arte,  così  si  dà  un'  im- 
maginazione schematica  o  simbolica  propria  della  scienza,  che  raffigura  il  vero.  Nes- 
suno contesterà  alla  ragione  scientifica  il  diritto  ed  il  dovere  di  sceverare  ciò,  che 
vi  ha  di  meramente  fantastico  e  fittizio  da  ciò,  che  evvi  di  sodo,  vero  e  reale  nella 
Divina  Commedia  di  Dante,  e  nel  Fedone  di  Platone  in  riguardo  alla  vita  oltremon- 
dana; ma  non  perciò  deve  riguardare  que' due  capolavori  siccome  mere  creazioni  di 
fantasia  poetica,  destituiti  di  ogni  valore  scientifico.  Infine  la  ragione  non  può  far 
senza  nemmanco  della  facoltà  della  fede  e  dell'autorità.  Si  suol  dire,  che  la  scienza 
non  crede,  ma  ragiona,  non  si  piega  all'  autorità,  ma  discute,  non  dommatizza,  ma 
dimostra.  Voi  adunque  riputate  la  ragione  valida  e  potente  a  scoprire  di  per  se  sola 
la  verità  e  dimostrarla;  ma  io  non  mi  sto  pago  della  vostra  parola;  dimostratemi 
che  la  ragione  è  fornita  di  tanto  valore.  La  dimostrazione  vi  torna  impossibile,  perchè 
vi  sarebbe  giuocoforza  adoperar  la  ragione  per  dimostrar  la  ragione,  epperò  la  vostra 
dimostrazione  non  ha  valore  di  sorta.  Se  adunque  la  ragione  non  può  dimostrare  la 
propria  efficacia  e  virtù  speculativa,  ciò  vuol  dire  che  essa  esordisce  col  dogmatismo, 
incomincia  con  un  atto  di  fede  nella  sua  autorevolezza.  Quando  si  aggiunga,  che  la 
scienza  non  solo  è  dogmatica  ed  autoritaria  nel  suo   inizio,  ma   che   nel   suo   arduo 


LA    VITA    OLTREMONDANA  15 

cammino  s'incontra  ad  ogni  pie  sospinto  in  difficolta  insuperabili  ed  in  profondi  mi- 
steri, che  la  avvolgono,  si  scorgerà  di  leggieri,  che  le  credenze  religiose  nella  vita 
futura  fondate  sull'autorità  vuoi  umana,  vuoi  divina,  vanno  dalla  ragione  non  disco- 
nosciute, ma  tenute  in  quel  conto,  che  si  meritano. 

"  La  scienza  (scrive  a  questo  proposito  F.  Paulhan)  non  ha  per  iscopo  di  conso- 
larci e  divertirci  :  essa  cerca  di  conoscere  il  vero  e  diffonderlo  ;  contenta  quando  vi 

riesce,  e  non  si  cura  di  altro Conviene  considerare  la  vita  futura   soltanto   come 

l'oggetto  di  un  desiderio  o  di  una  speranza,  non  come  una  verità  dimostrata  sia  dal- 
l'intelligenza incapace  di  sciogliere  la  questione,  perchè  l'osservazione  vien  meno,  sia 
dal  cuore,  a  cui  non  dobbiamo  affidarci  quando  si  tratta  di  stabilire  un  fatto  „  (1). 
Io  convengo  che  la  scienza  non  ha  per  iscopo  di  consolarci;  aggiungerò  anzi,  che 
essa  non  ha  mai  asciugato  una  lacrima  ;  ma  neanco  ha  diritto  di  strapparci  dall'anima 
quelle  credenze  naturali,  che  sono  il  conforto  della  vita  ed  il  fondamento  della  di- 
gnità umana,  di  gittarci  la  disperazione  nel  cuore  e  trascinarci  a  maledire  l'esistenza. 
Sarebbe  scienza  disumana  questa,  epperciò  insussistente  e  fallace.  Primo  carattere 
della  scienza  vera  questo  è,  che  sia  umana,  non  distruttiva  dell'umanità,  ma  perfe- 
zionativa. La  scienza,  dice  l'autore,  cerca  di  conoscere  e  diffondere  il  vero  e  non  si 
cura  di  altro;  ed  io  osservo,  che  ciò,  che  è  propriamente  e  realmente  vero,  non  può 
trovarsi  in  contraddizione  colle  altre  manifestazioni  dello  spirito  umano,  perchè  la 
ragione,  che  ha  per  oggetto  il  vero,  non  può  contraddire  al  bello,  al  buono,  al  giusto, 
alla  felicità,  oggetto  delle  altre  potenze  umane.  Se  la  scienza  non  si  cura  di  altro, 
abbia  però  cura  di  non  iscambiare  la  verità  vera,  mi  si  passi  l'espressione,  con  la 
verità  apparente  ed  illusoria.  Ma  veniamo  più  di  proposito  al  nostro  argomento. 

In  sentenza  dell'autore,  la  vita  futura  è  l'oggetto  di  un  desiderio  e  di  una  spe- 
ranza. Ma  io  vi  dimando  :  questo  oggetto,  in  cui  si  appunta  il  nostro  desiderio  e  la 
nostra  speranza,  è  vero  e  reale,  oppure  vano  ed  ingannevole  ?  Se  è  una  realtà,  voi 
rimanete  d'accordo  con  noi.  Se  una  mera  apparenza  e  vanità,  provatemelo  ;  ma  in 
tal  caso  avvertite  bene,  che  voi  distruggete  anche  la  vostra  scienza  e  la  stessa  ragione 
umana;  poiché  siccome  questo  desiderio  e  questa  speranza  di  una  vita  futura  è  radi- 
cato in  noi  per  mano  medesima  della  natura,  sarebbe  giuocoforza  ammettere  che  è 
la  natura  medesima,  che  c'inganna,  e  se  essa  ci  illude  su  questo  gravissimo  punto, 
chi  ci  assicura  che  non  inganni  altresì  la  ragione,  la  quale  si  crede  potente  di  sco- 
prire la  verità  e  dimostrarla,  di  comporre  la  scienza  e  sceverare  il  vero  dal  falso, 
il  certo  dal  probabile  e  dal  dubbio?  Così  saremmo  involti  in  uno  scetticismo  uni- 
versale. 

L'autore  considera  la  vita  futura  come  oggetto  di  un  desiderio,  non  come  una 
verità  dimostrata.  Ma  forsechè  tutte  le  verità  possono  e  debbono  essere  dimostrate? 
No  certamente.  Ci  sono  verità  sia  di  principio,  sia  di  fatto,  che  non  si  dimostrano, 
perchè  non  hanno  bisogno  di  prova,  e  che  tuttavia  non  cessano  di  essere  splendide 
e  incontrastabili  verità,  pari  all'onore,  che  si  sente  e  non  si  discute.  Che  anzi  tutte 
le  grandi  e  solenni  verità,  che  tornano  necessarie  al  genere  umano  siccome  fonda- 
mento della  sua  vita  operativa  e  guarentigia  delle  sue  sorti  non  furono  scoperte  né 


(1)  Physiologie  de  l'esprit,  pag.  184,  185. 


16  GIUSEPPE    ALLIEVO 

dimostrate  dalla  scienza,  bensì  impresse  dalla  mano  di  natura  nella  mente  di  tutti, 
e  dalla  natura  tutelate  contro  la  lotta  di  tanti  sistemi  e  dottrine  contrarie  ed  opposte, 
che  la  ragione  crea  e  distrugge  nella  storia  del  pensiero  umano.  E  giacche  l'autore 
asserisce  che  la  vita  futura  non  è  una  verità  dimostrata,  alla  nostra  volta  noi  pos- 
siam  dimandargli:  la  verità  della  vostra  dottrina  positivistica  l'avete  voi  dimostrata? 
E  la  vostra  dimostrazione  è  forse  cosi  rigorosa,  e  stringente,  che  regga  inconcussa 

alla  logica? 

Voi  confortate  la  vostra  asserzione  osservando  che  la  vita  futura  non  è  verità 
dimostrata  ne  dall'intelligenza,  né  dal  cuore:  non  dall'intelligenza,  perchè  le  manca 
l'osservazione,  non  dal  cuore,  perchè  in  cose  di  fatto  non  è  meritevole  di  fede.  Con 
ciò  voi  supponete,  che  ogni  qualvolta  l'intelligenza  imprenda  a  dimostrare  una  verità, 
non  abbia  altra  via  che  l'osservazione  dei  fatti,  mentre  anche  le  idee  possono  fornire 
alla  dimostrazione  il  suo  punto  di  mossa,  come  occorre  appunto  nelle  scienze  esatte 
e  matematiche.  Però  nel  caso  nostro  non  manca  l'osservazione  psicologica  di  fatti 
interni,  su  cui  si  può  condurre  una  dimostrazione  della  vita  futura,  giacché  non  tutta 
l'osservazione  va  ridotta  alla  cerchia  del  mondo  fisico  esteriore.  Che  poi  il  cuore  non 
sia  autorevole  testimone  lorchè  si  tratta  di  stabilire  un  fatto,  è  tal  sentenza  che  viene 
smentita  dalla  stessa  esperienza  interna.  Per  altra  parte  non  è  dal  cuore,  che,  come 
vorrebbe  l'autore,  vuoisi  attendere  la  dimostrazione  di  una  verità.  Il  cuore  mostra, 
ma  non  dimostra. 

La  discussione  del  problema. 

Il  pensiero,  che  medita  intorno  il  proposto  problema,  può  riuscire  a  queste  tre 
conclusioni  diverse:  1°  L'esistenza  della  vita  futura  oltremondana  è  una  credenza  na- 
turale del  cuore,  che  la  ragione  deve  rispettare,  ma  che  non  può  dimostrare  né  vera, 
né  falsa  colla  virtù  del  ragionamento.  2°  L'io  umano  perisce  alla  morte  del  corpo. 
3°  L'io  umano  è  personalmente  immortale.  Secondo  la  prima  conclusione  né  si  afferma, 
né  si  nega  ;  il  problema  rimane  insolubile  tra  il  sì  ed  il  no.  La  seconda  conclusione 
è  negativa;  la  terza  è  affermativa.  Lasciamo  da  banda  la  conclusione  della  prima 
classe,  siccome  quella,  che  non  porge  argomento  a  discussione  di  sorta,  e  facciamoci 
tosto  ai  sistemi  negativi. 

Sistemi  negativi. 

Il  materialismo  ed  il  panteismo  sono  i  due  precipui  sistemi,  che  conducono  a 
filo  di  logica  alla  negazione  della  vita  futura  oltremondana.  Pronunciato  fondamentale 
del  materialismo  è  questo,  che  l'uomo  tutto  quanto  è  niente  più  che  una  compagine 
di  materia  organata  secondo  certe  forze  fisiche,  governata  da  certe  leggi  fisiologiche. 
Le  facoltà  mentali  della  ragione  e  della  libertà  morale,  che  noi  attribuiamo  ad  una 
sostanza  distinta  dal  corpo,  cioè  all'anima,  sono  funzioni  dell'organismo  corporeo. 
Come  il  fegato  è  l'organo  che  secerne  la  bile,  cosi  il  cervello  è  l'organo  che  forma 
i  pensieri,  ed  i  movimenti  delle  fibre  nervose  sono  l'organo  dell'attività  volontaria. 
Ciò  posto,  siccome  l'organismo  corporeo  si  dissolve  alla  morte  del  corpo,  e  con  lui 
il  cervello  e  le  fibre  nervose,  cosi  per  logica  necessità  anche  le  facoltà  mentali  del- 


LA    VITA    OLTREMONDANA  17 

l'intendere  e  del  volere  si  spengono  e  l'io  umano  individuo  scompare.  Sarà  quindi 
vero  che  non  esiste  vita  futura,  a  condizione  che  sia  vero  il  principio  fondamentale 
del  materialismo,  da  cui  consegue  siffatta  conclusione  negativa.  Ma  tale  sistema  è 
esso  fondato  in  verità?  Lascio  alla  critica  il  facilissimo  compito  di  dimostrare  l'in- 
sussistenza della  grossolana  dottrina  dei  materialisti,  che  Cicerone  già  appellava  filo- 
sofi plebei.  Io  mi  ristringo  a  questa  dimanda:  Se  l'io  umano  è  niente  più  che  una 
compagine  di  materia  per  quantunque  ben  organata,  spiegatemi  come  mai  il  pensiero 
s'innalza  al  di  sopra  della  materia  sino  alle  sublimi  regioni  ideali  del  vero,  del  giusto, 
del  divino,  che  trascendono  il  mondo  delle  cose  corporee  e  sensibili?  Se  la  mia  libera 
volontà  è  anch'essa  un  movimento  nervoso  della  materia,  come  si  spiega  la  lotta 
continua,  che  si  dibatte  nell'intimo  della  coscienza  umana  tra  lo  spirito  e  la  materia, 
tra  gli  ignobili  istinti  animali  ed  i  generosi  propositi,  come  si  spiega  il  sentimento 
della  dignità  umana,  il  sentimento  morale  e  religioso,  lo  slancio  dell'anima  verso 
l'infinito,  l'immenso,  l'eterno,  mentre  ogni  organismo  di  materia  è  per  necessità  cir- 
coscritto in  un  limitato  punto  dello  spazio  e  del  tempo?  Spiegatemi  come  mai  il  con- 
cetto medesimo  della  materia  possa  originare  dalla  materia,  mentre  possiede  caratteri 
affatto  opposti?  Come  mai  il  pensiero  può  essere  un  movimento  delle  fibre  cerebrali, 
mentre  esso  le  esamina,  le  giudica,  e  con  ciò  mostrasi  superiore  alle  medesime? 

Il  materialismo  nega  l'immortalità  all'anima  e  la  attribuisce  agli  atomi  materiali, 
che,  dissolvendosi  il  nostro  organismo  corporeo,  si  sperperano  qua  e  là  e  rimangono 
indestruttibili.  Ma  conoscete  voi  il  secreto  lavorìo  della  natura  fisica,  allorché  adope- 
rando certe  forze,  seguendo  certe  leggi,  attenendosi  a  certe  proporzioni  compone 
insieme  un  determinato  numero  di  atomi  formanti  un  io  umano  individuo?  E  se  igno- 
rate questo  lavorìo,  voi  non  avete  sicura  ragione  di  negare  l'immortalità  dell'io 
umano,  essendoché  potrebbe  darsi  che  tutti  quegli  atomi,  in  cui  si  scioglierà  alla 
morte  il  presente  mio  organismo  corporeo,  si  riuniscano  di  bel  nuovo  nel  medesimo 
atteggiamento  e  ricompongano  redivivo  il  mio  io  personale. 

Il  materialismo  non  solo  è  impotente  a  dare  una  ragione  spiegativa  dei  fatti  fin 
qui  accennati,  ma  si  chiarisce  insussistente  davanti  al  fatto  medesimo  del  problema 
dell'immortalità.  Questo  problema  potrà  essere  discusso  e  risolto  in  un  senso  o  in 
un  altro  ;  ma  il  solo  proporlo  riuscirebbe  impossibile  se  l'io  umano  fosse  tutto  quanto 
materia  e  niente  più.  Infatti  il  concetto  di  immortalità,  che  giace  in  fondo  di  questo 
problema  ed  essenzialmente  lo  costituisce,  non  potrebbe  nemmeno  cadere  nella  mente 
umana,  se  essa  fosse  onninamente  materiale.  Il  concetto  di  immortalità  trascende  i 
confini  della  materia. 

Il  panteismo  anch'esso  conduce  per  altra  via  alla  negazione  della  vita  oltremon- 
dana, propria  dell'io  personale  umano.  Tutto  è  Dio,  è  il  suo  principio  fondamentale, 
espresso  dallo  stesso  significato  etimologico  della  parola.  Niente  esiste  o  sussiste 
fuori  di  lui  e  distinto  da  lui,  tutto  fa  parte  di  lui.  Egli  è  la  sostanza  unica  univer- 
sale, che  in  se  assorbe  ed  identifica  tutto  quanto  esiste.  Gli  esseri  cosmici  non  sono 
vere  sostanze,  vere  realtà  sussistenti  ciascuna  in  sé  stessa  e  fornite  di  individualità 
loro-  propria,  ma  sono  forme,  manifestazioni,  evoluzioni  della  sostanza  divina,  o  illu- 
sioni della  nostra  mente.  Questa  sostanza  unica,  universale  è  l'infinito,  l'assoluto, 
l'indeterminato,  l'identità  di  tutte  le  cose,  l'unità  di  tutto  quanto  esiste,  la  grand'anima 
universale.  Jupiter  est  quodcumque  vides,  quodcumque  movetur. 

Serie  IF.  Tom.  LUI.  3 


18  GIUSEPPE    ALLIEVO 

Uscirei  fuori  di  argomento,  se  qui  mi  facessi  ad  esporre  in  tutta  la  sua  esten- 
sione questo  sistema,  dividendone  le  diverse  specie,  narrandone  le  tante  forme,  che 
ha  rivestito  nella  storia,  instituendone  la  critica.  Io  devo  restringermi  a  notare  come 
esso  conduca  per  logica  necessità  alla  negazione  dell'  immortalità  personale  dell'  io 
umano.  Infatti  questa  immortalità  importa  che  l'io  umano  possegga  e  conservi  una 
personalità,  una  vita  tutta  sua  propria,  incomunicabile,  distinta  da  tutte  le  altre  so- 
stanze, ed  abbia  coscienza  della  vita  sua.  Per  lo  contrario  è  un  pronunciato  della 
dottrina  panteistica,  che  io  non  vivo  una  vita  mia  personale,  non  ho  sentimenti,  pen- 
sieri, voleri,  che  siano  miei,  ma  è  l'essere  assoluto,  che  vive  in  me,  opera,  pensa, 
sente,  vuole  in  me.  L'io  umano  non  esiste,  come  una  realtà  distinta,  bensì  è  una 
mera  parvenza  dell'Assoluto.  Per  lui  adunque  non  si  dà  una  esistenza  futura  oltre- 
mondana, perchè  non  si  dà  neanco  una  vera  esistenza  presente  e  terrena.  L'antica 
dottrina  panteistica  indiana,  il  Sankhya,  ripone  la  liberazione  definitiva  dell'anima 
nella  cessazione  della  nostra  personalità  empirica,  la  quale  si  smarrisce  nella  inco- 
scienza universale,  nel  gran  nulla,  come  una  goccia  d'acqua  si  perde  nell'immenso 
Oceano,  da  cui  si  era  evaporata,  e  conchiude  con  questa  proposizione,  siccome  verità 
unica,  definitiva,  incontrastabile  :  Né  l'io,  né  tutto  ciò,  che  riguarda  l'io,  esiste;  ogni  esi- 
stenza individuale  è  una  chimera. 

Cosi  la  povera  navicella  della  nostra  vita,  sbattuta  da  tanti  venti  contrarii,  agi- 
tata da  tante  tempeste,  finisce  per  naufragare  nel  mare  dell'infinito.  L'esistenza  nostra 
aveva  esordito  coll'inconsapevolezza  di  se  e  termina  coll'inconscienza  assoluta,  ossia 
nel  nulla,  poiché  una  creatura  intelligente,  che  viva,  ma  non  sappia  punto  di  vivere, 
vai  quanto  non  esistesse,  pari  ad  un  insensibile  tronco.  L'inconscienza  è  la  negazione 
della  ragione;  ed  in  questo  concetto  dimora,  secondo  me,  la  confutazione  del  pan- 
teismo, il  quale  nega  allo  spirito  umano  la  coscienza  della  sua  personalità  sostanziale, 
mentre  un  soggetto  intelligente  e  ragionevole,  che  ignori  se  medesimo,  è  una  contrad- 
dizione nei  termini.  Però  se  io  fossi  forzato  a  scegliere  tra  il  materialismo  ed  il  pan- 
teismo, abbandonerei  il  primo  per  appigliarmi  al  secondo:  anziché  finire  nel  fango, 
meglio  smarrirsi  negli  immensi  spazii  dell'etereo  idealismo  e  ripetere  i  versi  del 
Leopardi  : 

Così  tra  questa 
Immensità  s'annega  il  pensier  mio 
E  il  naufragar  m'è  dolce  in  questo  mare. 
(L'Infinito). 

Il  panteismo  presenta  alcuni  punti  di  contatto  e  di  rassomiglianza  col  positivismo 
in  riguardo  al  problema  della  vita  oltremondana.  Entrambi  negano  agli  esseri  finiti 
la  sostanzialità  loro  propria  concedendo  ad  essi  un'  esistenza  meramente  fenomenica 
e  fluttuante,  con  questo  divario  però,  che  il  panteismo  toglie  la  realtà  sostanziale 
agli  esseri  finiti  per  attribuirla  esclusivamente  e  tutta  quanta  all'essere  assoluto, 
mentre  il  positivismo  nega  ogni  sostanza  e  riduce  tutte  quante  le  esistenze  a  meri 
fenomeni  trattando  le  ombre  come  cosa  salda.  Ma  gli  è  evidente  che  anche  il  positi- 
vismo si  chiarisce  inconciliabile  coll'immortalità,  la  quale  importa  la  sostanzialità 
dell'io,  opperò  va  aggiunto  alla  classe  dei  sistemi  negativi. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  19 


Sistemi  affermativi. 


Tutti  questi  sistemi  convengono  nell'ammettere  l'immortalità  dell'io  umano,  ma 
diversificano  nel  concepire  e  discutere  il  nuovo  atteggiamento  e  la  forma  della  vita 
novella,  che  esso  va  assumendo.  Tornano  quindi  opportune  alcune  considerazioni  ge- 
nerali intorno  l'argomento. 

Anzi  tutto  vuoisi  porre  ben  mente  di  non  confondere  il  certo  col  probabile  e 
col  dubbio  intorno  a  questa  gravissima  ed  ardua  questione.  Poiché  se  egli  è  certo 
che  l'io  continuerà  la  sua  esistenza  nella  vita  futura,  non  si  può  pretendere  pari  cer- 
tezza nel  determinare  lo  stato  psicologico  dell'io,  e  parimenti,  dacché  non  si  possono 
avere  che  opinioni  più  o  meno  probabili  su  questo  secondo  punto,  non  vuoisi  arguire 
che  abbiasi  a  negare  l'immortalità  dell'io. 

Una  seconda  considerazione  riguarda  il  genere  di  dimostrazione  relativa  alla  vita 
futura.  Alcuni  pretendono  una  dimostrazione  rigorosamente  matematica,  e  dacché 
essa  torna  impossibile,  ne  arguiscono  che  non  si  dà  vita  futura.  Costoro  non  avver- 
tono che  la  natura  di  una  dimostrazione  corrisponde  alla  natura  della  materia,  intorno 
a  cui  versa,  epperciò  assume  un  valore  logicamente  rigoroso  e  concludente  da  questa 
corrispondenza.  Onde  consegue  che  una  dimostrazione  matematica  possiede  tutto  il 
suo  valore  irrepugnabile  nel  dominio  delle  discipline  matematiche,  ma  non  può,  né 
deve  aver  luogo  in  altre  materie,  quali  sarebbero  la  psicologia,  la  giuridica,  la  politica, 
le  scienze  sociali  e  via  discorrendo. 

La  sapienza  antica  ed  il  pensiero  moderno,  pur  convenendo  tra  di  loro  nell'am- 
mettere una  vita  futura  oltremondana,  discordano  nel  concepire  e  nel  determinare 
la  nuova  forma  propria  di  essa,  ossia  il  nuovo  atteggiamento,  che  prenderà  l'io  umano 
nell'esercizio  delle  sue  potenze.  Il  pensiero  filosofico  moderno  generalmente  riguardato 
ne'  suoi  più  illustri  rappresentanti,  e  salve  le  eccezioni,  ridusse  il  problema  della  vita  ■ 
futura  al  problema  dell'immortalità  dell'anima,  e  fu  risolto  in  questo  senso  esclusivo, 
come  se  l'organismo  corporeo  potesse  tornare  indifferente  e  pressoché  estraneo  alla 
vita  dell'anima  stessa.  Delle  due  vite,  fisica  e  mentale,  che  l'umano  soggetto  possiede 
nell'unità  del  suo  essere,  la  prima  fu  lasciata  da  banda,  e  la  questione  fu  ridotta  a 
quest'unico  punto:  se  l'anima  razionale  sopravviva  alla  morte  del  corpo.  Abbiamo 
quindi  ragione  di  suddividere  i  sistemi  affermativi  in  compiuti  ed  incompiuti  :  quelli 
ammettono  l'immortalità  dell'io  umano  nella  sua  duplice  vita,  fisica  e  spirituale, 
questi  sostengono  la  sopravvivenza  dell'anima  anche  sciolta  da  ogni  contatto  colla 
materia. 


20  GIUSEPPE    ALLIEVO 


A.. 

IL  PROBLEMA  ESAMINATO  STORICAMENTE 


Sistemi  affermativi  compiuti. 

1.  —  La  Sapienza  antica. 

L'antica  sapienza  riconobbe  in  tutta  la  sua  integrità  la  duplice  natura  dell'uomo, 
fisica  e  razionale,  e  conformemente  a  questo  concetto  ammise  una  duplice  vita  futura 
corrispondente,  corporea  e  spirituale.  Certamente  non  intese  con  ciò  di  proclamare 
immortale  questo  ammasso  di  materia  grossolano,  pesante,  visibile  e  palpabile,  che 
chiamiamo  nostro  corpo  nella  vita  presente,  ma  essa  si  formò  della  materia  e  dei 
corpi  un  concetto  alquanto  diverso  da  quello  che  abbiamo  noi  moderni. 

Il  sistema  Sankhya  dell'antichissima  filosofia  indiana  distingue  nei  viventi  e 
quindi  anche  nell'uomo  il  corpo  materiale  grossolano,  il  corpo  sottile  o  Unga  e  l'anima 
razionale,  e  concepisce  il  corpo  sottile  siccome  un  fluido  etereo,  impalpabile,  invisibile, 
che  avviluppa  l'anima  accompagnandola  attraverso  il  corso  delle  sue  migrazioni,  e 
con  essa  sopravvive  al  dissolversi  del  corpo  materiale  organico  (1).  Giovanni  Filopono, 
filosofo  alessandrino,  vissuto  tra  il  sesto  ed  il  settimo  secolo,  commentando  i  libri  di 
Aristotele  intorno  l'anima,  riferisce  essere  opinione  di  antichi  filosofi  che  oltre  di 
questo  corpo  terreno  e  materiale  un  altro  corpo  sottilissimo  ed  etereo  denominato 
spirito  rimane  vincolato  coll'anima  non  solo  nella  vita  presente,  ma  altresì  dopo  la 
morte.  Era  concorde  opinione  dei  platonici,  che  le  anime  umane  discesero  dalle  re- 
gioni celesti  in  questi  corpi  terreni  già  rivestite  di  un  corpo  etereo,  e  che  con  questo 
medesimo  involucro  ritornano  lassù  dopo  la  morte  del  corpo  materiale.  Il  filosofo  pi- 
tagorico Jerocle  commentando  il  verso  67  degli  Aurei  Carmi,  scrive  che  il  soggetto 
intelligente  cominciò  la  sua  esistenza  congiunto  con  un  corpo  datogli  dall'artefice  su- 
premo, per  guisa  che  per  quantunque  non  sia  corpo,  non  può  tuttavia  andar  privo 
del  corpo;  ma  pur  essendo  incorporeo,  la  sua  virtù  fosse  tutta  nell'informare  il  corpo. 
Di  qui  egli  definì  l'uomo  un'  anima  ragionevole,  congiunta  con  un  corpo  immortale 
secolei  generato,  attribuendo  così  l'immortalità  della  vita  non  all'anima  sola,  ma  ben 


(1)  Questo  concetto  antropologico  dell'antica  filosofia  fu  seguito  da  alcuni  scrittori  cristiani  dei 
primi  secoli  della  Chiesa.  Taziano,  uno  degli  apologisti  del  Cristianesimo,  riguarda  anch'egli  l'uomo 
siccome  composto  del  corpo  formato  di  materia,  dell'anima  materiale  e  dello  spirito  divino.  Anche 
secondo  Origene  l'uomo  consta  di  tre  elementi,  che  sono  la  ragione,  l'anima  corporea  identica  col- 
l'anima dei  bruti  e  la  carne.  Questo  concetto  antropologico  ha  generato  la  gravissima  questione 
agitata  nella  filosofia  moderna  tra  gli  animisti  ed  i  vitalisti,  sostenendo  gli  uni  che  l'anima  razio- 
nale umana  è  essa  stessa  il  principio  originario  di  tutte  le  funzioni  fisiologiche  ed  animali,  gli  altri 
riponendo  esso  principio  in  una  forza  vitale  distinta  dall'anima  razionale  e  dall'organismo. 


LA    VITA    OLTREMONDANA 


21 


anco  al  corpo  suo.  Questo  suo  concetto  intorno  l'animo  umano  venne  da  lui  esteso  a 
qualunque  sostanza  intelligente,  ai  genii,  agli  angeli,  ai  demoni,  agli  eroi,  ai  quali 
tutti  egli  applica  la  definizione  di  animi  ragionevoli  e  congiunti  con  un  corpo  lucido 
ossia  etereo,  siccome  quelli,  che  in  sua  sentenza  non  possono  sussistere  senza  muo- 
vere ed  agitare  un  corpo  (1).  Questo  medesimo  concetto  riscontriamo  nei  filosofi  neo- 
platonici. Plotino  nella  Enneadi  (lib.  3,  cap.  4)  scrive  che  l'anima  nostra  anche  dipar- 
tendosi dal  corpo  suo,  non  è  mai  separata  del  tutto  da  ogni  corpo.  Porfirio  nelle 
Sentenze,  §  31,  esprime  la  stessa  idea  :  "  Allorché  l'anima  esce  da  questo  solido  corpo, 
lo  spirito  (cioè  il  corpo  spirituale  e  sottile)  che  essa  aveva  raccolto  dalle  sfere,  la 
accompagna  „. 

Posto  che  l'essere  umano  consti  di  un  corpo  materiale  terreno,  di  uno  spirito 
etereo  sottile  e  di  un'  anima  razionale,  quale  trasformazione  subisce  alla  morte  l'umano 
composto  secondo  l'antica  sapienza?  Il  corpo  materiale  si  scompone  nel  suo  orga- 
nismo e  si  perde  fra  gli  elementi  della  terra.  Le  animo  umane,  che  quaggiù  vissero 
schiave  delle  cupidigie  de'  sensi,  i  quali  accecarono  la  loro  ragione,  discendono  nei 
luoghi  infernali  insieme  col  loro  involucro  o  fluido  aereo,  mentre  le  anime  di  coloro, 
che  vissero  incontaminati,  o  consacrarono  la  vita  alla  ricerca  ed  amorosa  contempla- 
zione della  verità,  o  morirono  per  la  patria,  salgono  alle  regioni  celesti,  dove  si  cin- 
gono di  un  corpo  etereo  luminoso,  mentre  il  loro  corpo  sottile  e  sensitivo  discende 
sotterra.  Di  qui  le  ombro  infernali  separate  dal  corpo  rimasto  in  terra  e  dalla  mente 
salita  al  cielo,  specie  di  simulacri  impalpabili,  intangibili,  sfuggevoli,  che  ritengono 
le  inclinazioni  dell'anima  e  le  sembianze  del  corpo.  Ennio  pitagorico  presso  Lucrezio 
(De  rerum  natura,  lib.  1)  le  appella  "  quaedam  simulacra  modis  pallentia  miris  „.  Vir- 
gilio pone  in  bocca  a  Didone  queste  parole  :  "  Et  nunc  magna  mei  sub  terris  ibit 
imago  „  (Aeneis,  lib.  IX);  ed  Ovidio  parlando  di  Cesare  scrive:  "  Qui  cecidit  ferro, 
Caesaris  umbra  fuit;  Ille  quidem  caelo  positus  Jovis  atria  vidit  „  (Fast.,  1).  Anche 
Omero  accenna  a  certa  corporea  immagine,  che  accompagna  l'anima  nell'atto  di  uscire 
dal  corpo.  Di  qui  la  costumanza  degli  antichi  gentili,  che  alle  anime  dei  loro  morti 
parenti  apponevano  cibo  e  bevanda,  immaginandosi  che  fossero  incorporate,  epperciò 
bisognevoli  di  essere  confortate  con  materiale  alimento.  Anche  presso  gli  Ebrei  vigeva 
tale  consuetudine,  come  apparisce  dal  libro  di  Tobia,  cap.  4. 

Tali  erano  i  pensamenti  de'  filosofi:  l'immaginazione  popolare  e  poetica  intervenne 
a  colorirli  colle  sue  leggende  e  colle  finzioni  della  mitologia,  rappresentando  il  luogo 
dove  vivono  le  anime  ed  il  genere  della  loro  vita.  L'antica  sapienza  immaginava  il 
regno  sotterraneo  delle  anime  diviso  in  tre  regioni.  La  prima  conteneva  quelle  anime 
che  potevano  purgarsi  delle  loro  macchie  e  ricuperare  la  pristina  mondezza.  Nella 
seconda,  dai  poeti  denominata  i  Campi  Elisi,  vivevano  le  anime,  che  uscirono  monde 
dal  carcere  terreno.  La  terza,  appellata  il  Tartaro,  era  abitata  dalle  anime,  che  con- 
giunte coi  loro  simulacri  erano  dannate  a  pene  eterne  per  le  loro  scelleraggini.  Di 
questi  luoghi  infernali  Virgilio  nel  sesto   dell'Eneide  ci  porge  una  mirabil  pittura.  La 


(1)  Fra  i  filosofi  moderni  Leibnitz  riprodusse  questo  concetto.  Nella  tesi  75  della  sua  Monado- 
logia scrive  :  *  neque  etiam  dantur  animae  separatae  „  ;  e  nella  sua  Epistola  a  Bierlingium  dice  : 
"  Non  est  necesse  ad  animae  separatae  immortalitatem  tuendam  ut  sit  substantia  separata;  potest 
enim  induta  manere  subtili  corpore,  quale  etiam  angelis  attribuo  „. 


22  GIUSEPPE    ALLIEVO 

fantasia  poetica  e  popolare  ha  immaginato  Plutone,  l'imperator  del  doloroso  regno, 
che  governa  quella  sterminata  folla  di  anime  e  le  tiene  a  segno;  Cerbero,  che  ve- 
gliando alle  porte  d'inferno  latra  caninamente  con  tre  gole,  rispondenti  alle  tre  regioni 
sotterranee;  Rodomonte,  Minosse,  Eaco,  che  giudicano  le  anime;  Mercurio,  che  loro 
addita  la  via,  per  cui  si  discende  ai  luoghi  bui;  Caronte,  che  le  raccoglie  nella  barca 
e  le  approda  all'altra  riva.  Sono  personaggi  non  vivi  e  reali,  bensì  fantastici  e  fit- 
tizii;  ma  in  fondo  a  queste  creazioni  dell'immaginazione  sta  il  concetto  del  pensiero 
filosofico. 

2.  —  La  Metempsicosi. 

La  dottrina  della  metempsicosi  può  essere  riguardata  siccome  un  tentativo  per 
risolvere  il  problema  se  e  come  de'  due  elementi  spirito  e  materia,  da  essa  ricono- 
sciuti nell'umano  composto,  il  primo  rimanga  superstite  al  secondo  alla  morte  del 
corpo.  Secondo  l'antica  filosofia  indiana,  il  corso  dell'umana  esistenza  è  un'incessante 
peregrinazione  dell'anima  di  corpo  in  corpo.  Ogni  qualvolta  la  morte  spezza  l'orga- 
nismo corporeo,  con  cui  l'anima  è  congiunta,  essa  rinasce  trasmigrando  nel  corpo  di 
una  pianta,  o  di  un  bruto,  o  di  un  uomo,  o  di  un  dio,  a  seconda  del  merito  o  del 
demerito  della  sua  vita  anteriore;  ma  il  dolore  è  inesorabil  compagno  dell'esistenza 
terrena  in  ogni  suo  stadio,  sotto  ogni  sua  forma.  La  vita  è  agitazione,  instabilità, 
trasformazione,  travaglio,  dolore;  ma  è  ad  un  tempo  aspirazione  continua,  indestrut- 
tibile  ad  una  quiete  assoluta,  eterna,  imperturbabile,  ad  un  al  di  là,  che  più  non  sia 
il  mondo  del  dolore,  e  dove  l'anima,  compiuto  il  suo  peregrinaggio,  non  più  condan- 
nata a  nuova  rinascita,  riposi  sicura  dal  timor  della  morte.  Il  mondo  presente  è  il 
mondo  del  cangiamento,  della  vanità,  della  trasmigrazione,  del  dolore  ;  il  mondo  fu- 
turo è  il  mondo  della  verità,  del  riposo,  della  realtà  e  della  liberazione.  Il  trapasso 
dall'uno  all'altro  dei  due  mondi  si  compie  mediante  la  conoscenza  filosofica,  la  quale 
dissipando  l'illusione  e  la  vanità  della  vita  presente,  ci  rivela  il  vero  nostro  essere 
sostanzialmente  identico  coll'essere  assoluto,  unico,  universale,  che,  secondo  il  Ve- 
danta,  è  Brahma,  l'uno  tutto,  secondo  il  Sankhya,  il  Se  individuale  nella  sua  assoluta 
purezza,  l'anima  sciolta  da  ogni  elemento  eterogeneo,  empirico,  materiale,  secondo  il 
Buddismo,  l'ignoto,  l'indefinito,  il  gran  nulla,  il  Nirvana.  Il  Buddismo  cerca  di  metter 
termine  alle  rinascenze  ed  alle  trasmigrazioni  metamorfiche  assegnando  come  scopo 
finale  dell'esistenza  e  destinazione  umana  la  distruzione  di  ogni  velleità  di  esistenza 
personale  ed  individua,  spegnendo  il  desiderio  medesimo  della  vita  nel  suo  in- 
timo fondo. 

La  trasmigrazione  delle  anime  fu  altresì  una  credenza  del  popolo  egizio.  Si  co- 
minciò col  ritenere  siccome  una  verità  di  fatto  il  passaggio  delle  anime  di  Iside  e 
di  Osiride  in  corpi  di  animali  prima  di  giungere  agli  astri,  e  generalizzando  quel 
fatto  immaginario  si  giunse  a  credere  come  verità  dogmatica,  che  ogni  anima  uscendo 
dal  corpo  suo  passi  in  quello  di  altro  uomo,  o  di  un  bruto,  continuando  ad  espiare  i 
suoi  falli  per  una  lunga  circolazione  di  penitenze,  finche  purificata  dalle  sue  colpe  e 
libera  dalle  sue  cupidigie  giunga  ad  abitare  la  stella  od  il  pianeta,  che  le  fu  asse- 
gnato a  dimora.  Secondochè  riferisce  Erodoto  intorno  questa  credenza  egizia,  l'anima 
per  tre  mila  anni  abita  corpi  di  animali  prima  terrestri,  poi  acquatici,  infine  aerei; 
dopo  questo  periodo  ritorna  ad  animare  un  uomo. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  23 

Dall'Egitto  Pitagora  trasportò  iti  Italia  il  dogma  della  metempsicosi,  e  di  se 
medesimo  affermava  che  una  volta  era  appellato  Euforbo  e  che  aveva  combattuto 
sotto  le  mura  di  Troia.  Secondo  i  pitagorici  questo  trasmigrare  dell'anima  in  un  altro 
corpo  non  avviene  per  caso  e  comechesia:  essa  si  unisce  a  quel  corpo  soltanto,  con 
cui  vi  corra  una  certa  corrispondenza  e  secondo  le  leggi  generali  della  natura.  Inoltre 
essi  ammettevano  che  l'anima  anche  fuori  dell'organismo  corporeo  può  vivere  una 
vita  affatto  speciale,  vita  imperfetta  simile  a  quella  delle  ombre  infernali  e  riposta 
in  una  specie  di  sogno:  tale  è  quella  che  essa  vive  nel  periodo  di  tempo  intermedio 
tra  la  sua  uscita  da  un  corpo  organico  ed  il  suo  trapasso  in  un  altro. 

Il  Ritter  nella  sua  Storia  della  filosofia  antica,  attribuisce  ai  pitagorici  l'opinione 
che  i  demoni  e  gli  eroi  fossero  anime,  che  non  informarono  ancora  corpi  di  animali, 
o  già  ne  uscirono  (1). 

Raffrontando  fra  di  loro  le  tre  forme  speciali,  che  presenta  la  dottrina  della 
metempsicosi  presso  gli  indiani,  gli  egizi  ed  i  pitagorici,  riscontriamo  in  tutte  questi 
elementi  comuni,  che  la  trasmigrazione  delle  anime  di  corpo  in  corpo  è  una  specie 
di  punizione,  una  espiazione  delle  colpe  commesse  in  una  vita  anteriore,  che  questa 
trasmigrazione  terminerà  e  sarà  seguita  da  uno  stato  dell'anima  definitivo,  perma- 
nente e  finale,  in  cui  sarà  sciolta  da  ogni  mistura  corporea  e  materiale,  e  che  perciò 
l'unione  dell'anima  con  i  corpi  successivi  è  meramente  transitoria.  Ma  questi  tre 
punti  comuni  sono  accompagnati  da  altri  punti  di  discrepanza.  Poiché  secondo  la 
filosofia  indiana  e  specialmente  il  sistema  Sankhya  il  trapasso  di  ciascuna  trasmigra- 
zione è  governato  da  una  cieca  ed  inesorabile  necessità  denominata  la  legge  del  me- 
rito, che  però  non  ha  nessun  carattere  morale,  bensì  risiede  in  una  forza  invisibile 
e  ferrea  della  natura,  per  cui  le  condizioni  e  le  azioni  proprie  di  ciascuna  forma  del- 
l'esistenza sono  già  fatalmente  predominate  da  quelle  dell'esistenza  anteriore:  ogni 
nuova  migrazione  dell'anima  accumula  e  porta  con  se  le  disposizioni  di  tutte  le  pre- 
cedenti: è  il  determinismo  nella  metempsicosi.  Per  lo  contrario,  secondo  la  dottrina 
pitagorica,  l'unione  dell'anima  con  un  nuovo  corpo  è  governata  dalla  legge  di  conve- 
nienza. Secondo  la  metempsicosi  indiana,  l'anima  compiuto  il  ciclo  delle  sue  trasmi- 
grazioni andrà  a  confondersi  in  seno  all'Essere  infinito  perdendo  la  coscienza  di  se 
medesima,  mentre  secondo  le  credenze  egizie  essa  fermerà  la  sua  dimora  nelle  sfere 
celesti. 

Parecchie  osservazioni  occorrono  intorno  questa  dottrina,  delle  quali  le  une  ri- 
guardano il  periodo  delle  successive  trasmigrazioni  dell'anima,  le  seconde  lo  stato 
finale,  a  cui  essa  perviene,  compiuto  quel  periodo  di  prova.  Quanto  al  primo  punto, 
ognun  vede  che  la  morte  del  corpo  non  segnerebbe  più  l'ultimo  termine  della  nostra 
esistenza  terrena  ed  il  principio  di  una  vita  oltremondana,  poiché  i  nuovi  corpi,  in 
cui  l'anima  trasmigra,  appartengono  a  questo  mondo  terreno,  che  abitiamo,  ed  il  suo 
peregrinare  di  corpo  in  corpo  si  compirebbe  quaggiù.  Quindi  sorge  tosto  questa  di- 
manda: perchè  mai  l'anima,  anziché  passare  in  nuovi  corpi,  non  prosegue  la  sua  vita 
terrena  insieme  con  quel  corpo  medesimo,  con  cui  è  congiunta?  Si  risponderà,  che  la 
trasmigrazione  è  una  giusta  punizione  delle  colpe  commesse  dall'anima,  una  espia- 


ti) Tomo  I,  libro  IV,  cap.  2.  Diogene  Laerzio  nel  libro  ottavo  del  suo  De  vita  et  moribus  phi- 
losophorum  scrive  che  le  anime  erranti  nell'aria  sono  dai  pitagorici  appellate  dèmoni  ed  eroi. 


24  GIUSEPPE    ALLIEVO 

zione  necessaria,  affinchè  essa  purgata  e  pura  diventi  degna  di  salire  al  cielo.  Anche 
Platone  opinava,  che  le  anime  umane,  da  prima  beate  in  seno  agli  Dei,  furono  in- 
truse nel  corpo  attuale  come  in  un  carcere,  per  pagare  il  fio  di  colpe  commesse  lassù. 
Ma  il  considerare  l'organismo  corporeo  siccome  una  dura  prigione,  una  schiavitù,  uno 
strumento  di  castigo,  è  un  concetto  erroneo,  perchè  contraddice  alla  natura  stessa 
dell'uomo,  essendoché  a  costituire  l'essere  umano  sono  essenziali  tanto  il  corpo, 
quanto  l'anima,  amendue  ne  fanno  parte  integrale  e  necessaria.  Perciò  il  corporeo 
organismo  non  va  riguardato  come  alcunché  di  ostile  e  di  contrario  all'anima,  e  la 
sua  vitale  unione  con  essa  come  un  castigo,  uno  stato  transitorio  o  deplorevole,  bensì 
come  uno  stato  naturale  affatto.  Quindi  appare  ragionevolissimo  e  conforme  alla  na- 
tura umana  il  dogma  cristiano  della  risurrezione  finale  de'  corpi  umani.  Inoltre  l'anima 
umana,  per  ciò  appunto  che  è  di  natura  umana,  non  solo  richiede  un  corpo  organico, 
con  cui  sia  congiunta  e  conviva,  ma  altresì  esige  un  corpo  organico  umano,  e  non 
un  corpo  qualsiasi,  quale  sarebbe  quello  di  un  bruto,  o  di  una  pianta  (1).  Quindi 
anche  da  questo  lato  apparisce  riprovevole  la  dottrina  della  metempsicosi,  la  quale 
condanna  un'anima  umana  a  passare  nel  corpo  di  un  bruto:  sarebbe  un'anima 
davvero  abbrutita,  epperò  impotente  ad  espiare  i  suoi  falli,  a  ricuperare  la  sua  spi- 
rituale purezza  ed  innalzarsi  in  alto  (2). 

Passando  all'altro  punto,  la  dottrina  indiana  insegna,  che  l'anima  compiuto  il 
ciclo  delle  sue  trasmigrazioni,  si  inabissa  nell'essere  infinito,  perdendo  la  sua  indivi- 
dualità personale  e  passando  ad  uno  stato  di  incoscienza  assoluta.  Ma  questo  stato 
sarebbe  la  morte,  e  non  la  vita  dell'anima;  sarebbe  il  suo  annullamento:  se  il  mio 
io  scompare,  che  importa  a  me  di  esistere  ancora,  mentre  non  so  nemmeno  di  esi- 
stere ed  ignoro  tutto  il  mio  passato?  Tanto  varrebbe  che  esista  altri  in  vece   mia. 

3.  —  Platone. 

Platone  ripensò  la  dottrina  della  metempsicosi  sotto  una  forma  più  ampia,  nuova 
ed  originale.  Alcuni  commentatori  tedeschi  distinguendo  nelle  opere  del  pensatore 
ateniese  una  parte  mitica  e  simbolica  dovuta  all'immaginazione  ed  alle  credenze  po- 
polari dalla  parte  rigorosamente  filosofica  dovuta  alla  ragione  speculativa,  asseriscono, 
che  la  sua  dottrina  della  metempsicosi  è  meramente  immaginaria  e  fittizia  ;  ma  è 
questa  una  sentenza,  che  non  regge  alla  critica,  poiché  tale  dottrina  si  compenetra 
intimamente  colla  sua  metafisica,  colla  psicologia  e  colla  morale,  e  quindi  viene  ad 
assumere  da  tutte  le  altre  parti  della  sua  filosofia  un  carattere  speculativo. 

Dio  e  la  materia  sono  per  lui  i  due  opposti  principii  universali.  Dio  è  spirito 
puro,  mente  perfetta  contenente  in  sé  le  idee  tipiche  di  tutti  gli  esseri,  principio  e 


(1)  Contro  la  metempsicosi,  osserva  il  Bormet  nella  sua  Palingenesi  filosofica  a  pag.  201  del 
tomo  1°,  che  "  la  memoria  ha  la  sua  sede  nel  cervello  :  un'anima  che  trasmigrasse  da  un  corpo  in 
un  altro,  non  vi  conserverebbe  nessun  ricordo  del  suo  stato  precedente  ,.  L'osservazione  è  giusta, 
non  già  perchè  la  memoria  è,  come  egli  sostiene,  una  facoltà  essenzialmente  corporea,  sibbene 
perchè  la  vita  mentale  dell'anima  nella  presente  esistenza  terrena  rimane  tutta  quanta  compenetrata 
colla  vita  fisiologica  dell'organismo  corporeo,  con  cui  essa  e  attualmente  congiunta. 

(2)  Al  perpetuo  peregrinare  dell'anima  di  corpo  in  corpo  i  moderni  fisiologi  hanno  sostituito  il 
perpetuo  circolare  degli  atomi,  che  escono  dai  disciolti  organismi,  ed  entrano  a  comporre  nuovi 
organismi  viventi. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  25 

termine  della  verità  pura  :  da  lui  originano  le  anime  razionali,  destinate  appunto  a 
contemplare  la  verità  nella  sua  natia  purezza,  sgombra  da  ogni  immagine  sensibile. 
La  materia,  identica  collo  spazio,  è  principio  passivo,  informe,  indeterminato,  capace 
di  ricevere  tutte  le  forme,  e  quindi  mutabile,  contingente  principio  dell'imperfezione, 
della  limitazione,  della  negazione,  del  disordine,  della  deficienza,  del  male:  da  essa 
provengono  i  corpi  colle  loro  forme  distinte,  circoscritte  nei  limiti  dello  spazio.  Dio 
formò  il  mondo  improntando  nella  materia  da  prima  informe  i  tipi  ideali,  presenti 
alla  sua  mente.  Le  anime  umane  nella  loro  originaria  esistenza  vivevano  sciolte  da 
ogni  vincolo  colla  materia,  e  con  Dio  unite  contemplavano  le  essenze  ideali  delle  cose; 
poi  ribellatesi  da  Dio  vennero  intruse  nella  prigione  di  questo  corpo  mortale,  dove 
attraverso  le  ingannevoli  immagini  dei  sensi  vennero  ad  oscurarsi  le  loro  idee  pri- 
mitive. La  scienza,  che  vanno  acquistando  quaggiù,  riesce  una  mera  reminiscenza 
delle  verità  già  intuite  nella  vita  anteriore  alla  presente.  Questa  prima  caduta  del- 
l'anima dal  suo  stato  originario  e  tutto  spirituale  in  un  corpo  mortale,  dal  mondo 
dello  spirito  nel  mondo  della  materia,  segna  il  punto,  in  cui  esordisce  il  ciclo  delle 
metempsicosi. 

Incatenata  all'organismo  corporeo,  l'anima  viene  acciecata  dai  sensi  e  trascinata 
al  male  dalle  passioni  e  dagli  istinti  animali,  poiché  la  materia  è  pur  sempre  la 
fonte  di  ogni  disordine:  essa  però  può  e  deve  mediante  la  ragione  dissipare  le  illu- 
sioni de'  sensi  e  sommettere  le  passioni  al  suo  imperio.  In  mezzo  a  questa  continua 
lotta  si  agita  tutta  la  vita  presente,  e  l'anima  aspira  al  possesso  ed  alla  contempla- 
zione spirituale  della  pura  verità  come  a  termine  finale  della  sua  destinazione.  La 
morte  viene  a  troncare  momentaneamente  questa  lotta.  L'anima  sopravvive,  perchè 
la  vita  anteriore  alla  presente,  che  essa  aveva  già  vissuta  in  cielo,  è  manifesto  ar- 
gomento che  la  sua  esistenza  è  indipendente  dalla  sua  unione  col  corpo  attuale  (1). 
Che  ne  è  adunque  di  lei,  separata  che  sia  dal  corpo?  Tale  sarà,  quale  avrà  vissuto 
quaggiù  nella  sua  lotta  col  principio  del  male.  Ogni  nuova  trasmigrazione  dipenderà 
dall'uso,  che  essa  avrà  fatto  della  sua  ragione  per  dominare  la  parte  materiale,  con 
cui  visse  congiunta.  Le  anime,  che  uscirono  dal  loro  corpo  aggravate  dal  peso  delle 
sensazioni  terrene,  vanno  errando  fra  le  tombe  e  migrano  in  corpi  animali  conformi 
alla  loro  viziata  natura.  Quelle,  che  praticarono  le  virtù  civili  e  sociali  procacciate 
senza  il  sussidio  della  riflessione  e  della  filosofia  e  per  via  di  abitudini,  rivestiranno 
la  forma  di  api  o  di  formiche,  o  rientreranno  di  nuovo  in  corpi  umani.  Ma  elevarsi 
sino  al  consorzio  degli  Dei  non  è  dato  se  non  a  coloro,  che  accesi  dell'amore  della 
sapienza  consacrarono  la  vita  all'acquisto  della  pura  verità  col  mezzo  della  filosofia 
e  puri  uscirono  dal  carcere  terreno.  Ogni  mille  anni  si  compie  una  nuova  trasmi- 
grazione seguita  da  un  giudizio  divino,  poi  da  una  pena  o  da  una  ricompensa,  com- 
piuta la  quale  però  l'anima  sceglierà  da  se  un'  altra  esistenza.  Il  filosofo  solo  può 
dopo  tre  vite  consimili  risalire  alla  sua  pristina  vita  divina,  mentre  le  altre  anime 
vi  giungono  dopo  diecimila  anni  e  dieci  esistenze. 

In  questa  dottrina  della  metempsicosi  riscontrasi  il  concetto  metafisico  di  Pia- 


ti) Altro  argomento  dimostrativo  dell'immortalità  trae  Platone  dall'idea  medesima   dell'anima, 
sostanza  in  se  sussistente  e  semovente,  che  non  comporta  la  morte  perchè  l'energia  vitale  costituisce 
la  sua  atessa  essenza,  sicché  se  essa  venisse  a  morire,  la  vita  ed  il  moto  verrebbero  meno  nel  mondo. 
Serie  II.  Tomo  LUI.  4 


26  GIUSEPPE    ALLIEVO 

tone  intorno  lo  spirito  e  la  materia,  il  suo  concetto  morale  delle  punizioni  e  delle 
ricompense  ed  il  concetto  psicologico  della  parte  razionale  dell'uomo  dominante  sulla 
parte  materiale.  Egli  ripone  l'io  umano  nella  pura  razionalità  e  riguarda  il  corpo 
siccome  estraneo  ed  opposto  alla  sua  natura,  epperò  egli  ammette  la  metempsicosi 
come  una  punizione  dell'anima,  e  non  già  perchè  le  abbisogni  un  involucro  corporeo 
per  vivere  una  vita  oltremondana.  "  L'anima  è  intieramente  distinta  dal  corpo  ;  in 
questa  vita  medesima  essa  sola  ci  costituisce  quel  che  siamo  ;  il  nostro  corpo  non  è 
che  un'  immagine,  che  accompagna  ciascuno  di  noi,  e  con  ragione  si  dà  il  nome  di 
simulacri  ai  corpi  dei  morti.  Il  nostro  essere  individuale  è  una  sostanza  immortale 
di  sua  natura,  appellata  anima.  Dopo  la  morte  quest'anima  va  a  trovare  altri  dèi  per 
render  loro  conto  delle  sue  azioni,  secondo  la  tradizione  „  (1). 

4.  —  La  Divina  Commedia. 

Il  concetto  dell'anima,  che  al  di  là  della  tomba  si  riveste  di  un  involucro  ma- 
teriale, si  riscontra  presso  alcuni  Padri  della  Chiesa  seguaci  delle  dottrine  platoniche 
di  Origene,  e  più  tardi  lo  ritroviamo  stupendamente  espresso  nella  Divina  Commedia. 
Nel  canto  XXV  del  Purgatorio  il  poeta  ci  ritrae  l'anima,  che  esce  dal  corpo  suo  ter- 
reno, portando  con  sé  l'umano  e  'l  divino,  cioè  le  potenze  della  sensibilità  animale  e 
le  spirituali;  quelle  rimangono  inerti  per  manco  degli  organi  de'  sensi,  queste,  cioè 
memoria,  intelligenza  e  volontà,  divengono  più  energiche  e  più  operose.  Essa  va  tosto 
ad  occupare  il  luogo  o  di  espiazione,  o  di  pena,  o  di  ricompensa,  rispondente  al  me- 
rito od  al  demerito  delle  sue  azioni.  Giunta  al  luogo  suo,  irraggia  intorno  a  sé  la 
virtù  formativa  ed  animatrice  tutta  sua  propria,  e  l'aria  circostante  assume  quella 
nuova  forma,  che  le  viene  impressa  dall'anima,  in  quella  guisa  che  l'atmosfera,  quando 
è  inumidita,  si  colorisce  della  luce  solare,  che  dentro  vi  si  riflette.  Così  dell'aria  cir- 
costante l'anima  si  forma  un  corpo  sottile  pari  nelle  fattezze  e  nell'estensione  a  quello, 
che  essa  animava  quaggiù,  un  corpo  etereo,  dove  ciascun  senso  ha  il  suo  organo, 
ciascun  pensiero  la  sua  esterna  espressione,  e  l'anima  ritorna  così  alle  funzioni  della 
sua  vita  corporea  sensitiva,  e  manifesta  i  suoi  interni  desiderii  colle  parole,  colle  la- 
crime, coi  sospiri.  Fu  detto,  che  nella  Divina  Commedia  Dante  abbia  seguito  la  filo- 
sofia scolastica  dominante  ;  ma  su  questo  punto  si  attenne  alla  sapienza  antica  ed  al 
suo  maestro  Virgilio,  scostandosi  dal  principe  della  Scolastica  S.  Tommaso,  che  soste- 
neva la  dottrina  dell'anima  separata  da  ogni  involucro  corporeo. 

Cosa  singolare  !  Questo  concetto  dell'anima,  che  dell'aria  circostante  si  compone 
un  corpo  sottile  suo  proprio  mediante  la  sua  virtù  formativa,  ai  giorni  nostri  è  ri- 
sorto sotto  nuova  forma  in  quella  specie  di  fenomeni  dello  spiritismo  designati  col 
nome  di  materializzazione  degli  spiriti.  Consiste  essa  nella  formazione  temporanea  di 
un  oggetto  materiale  o  di  un  involucro  organato,  intorno  ad  uno  spirito,  mediante 
l'opera  di  un  medium.  Intorno  al  medium  collocato  in  luogo  oscuro  si  presentano  delle 
forme  materializzate,  che  possono  da  lui  allontanarsi  di  qualche  metro,  o  anche  cam- 
minare, parlare,  scrivere.  Quando  la  materializzazione  raggiunge  il  suo  massimo  grado, 
il  fantasma  ha  tutte  le  apparenze  del  corpo  umano  senza  averne  la  densità  e  sembra 

(1)  Le  leggi,  lib.  XII,  verso  il  fine. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  2( 

vivere  come  un  essere  umano.  Dopo  un  certo  tempo  questi  fantasmi  scompaiono  rapi- 
damente e  spesso  si  assiste  alla  loro  dissoluzione.  Questi  fenomeni  accertati  suppon- 
gono l'intervento  di  una  intelligenza,  la  quale,  quando  fosse  provato  che  appartiene 
agli  spiriti  dei  trapassati,  porgerebbe  buon  argomento  dell'esistenza  oltremondana  del- 
l'anima. 

Un  altro  punto  di  contatto  qui  ci  si  presenta  tra  lo  spiritismo  contemporaneo 
e  la  dottrina  della  Divina  Commedia.  Dante  attribuisce  alle  anime  di  oltretomba  la 
facoltà  di  penetrare  i  desiderii  altrui  non  manifestati,  di  leggere  il  pensiero  non 
espresso.  Beatrice  ha  conoscenza  dei  sentimenti  e  dei  pensieri  di  Dante  (1).  Virgilio 
stesso  è  dotato  di  questa  facoltà  sopranaturale  (2). 

5.  —  Carlo  Bonnet  (1720-1793). 

Fra  i  moderni  filosofi,  che  ripigliarono  e  svolsero  il  concetto  antico  intorno  la 
vita  futura,  emerge  il  ginevrino  Carlo  Bonnet,  illustre  naturalista  non  meno  che  in- 
signe psicologo.  Egli  pubblicava  nel  1760  un  Saggio  analitico  sulle  facoltà  dell'anima, 
e  nove  anni  dopo  la  Palingenesi  filosofica,  o  idee  sullo  stato  presente  e  sullo  stato  futuro 
degli  esseri  viventi.  Il  titolo  di  questa  seconda  opera  mostra  come  egli  affrontò  il  pro- 
blema della  vita  futura,  tenendo  rivolto  lo  sguardo  non  alla  sola  destinazione  propria 
dell'essere  umano,  ma  a  tutti  i  viventi  dell'universo.  A  qualunque  specie  apparten- 
gano, i  viventi  di  quaggiù  tutti  quanti  risorgono  da  morte  a  vita  novella,  rinnovati 
nell'organismo  per  guisa  da  potersi  elevare  al  più  sublime  grado  di  perfezione  ;  tale  è 
il  concetto,  che  informa  la  sua  Palingenesi  filosofica,  e  che  già  appariva  nel  Saggio 
analitico  sulle  facoltà  dell'anima,  ristretto  però  allo  studio  della  vita  futura  dell'uomo. 

Che  l'anima  sopravviva  alla  dissoluzione  del  corpo,  è  tal  sentenza,  che  il  Bonnet 
non  pone  menomamente  in  forse.  Ciò  posto,  egli  pone  il  problema,  in  quale  stato 
rimanga  l'anima  durante  quel  periodo  di  tempo  che  intermedia  fra  la  morte  del  corpo 
e  la  sua  risurrezione.  Nessuno,  che  io  mi  sappia,  ha  saputo,  come  l'autore,  concepire 
e  propoi-re  il  problema  dell'immortalità  dell'anima  sotto  questo  specialissimo  e  mo- 
mentoso  aspetto,  che  riguardala  vita  intermediaria  o  mediana,  come  egli  la  denomina; 
tutti,  in  generale,  riguardano  l'anima,  che  dalla  morte  del  corpo  trasmigra  in  altro 
organismo,  come  adoperano  i  fautori  delle  metempsicosi  :  oppure  già  ricongiunta  col 
proprio  corpo  nel  risorgimento  finale.  Lo  stato  dell'anima  separata  dal  suo  materiale 
involucro  è  argomento  profondamente  filosofico,  e  non  so  se  più  rilevante  per  natura 
o  più  arduo  ad  essere  risolto,  siccome  quello,  che  tocca  la  destinazione  finale  della 
nostra  esistenza. 

Intorno  la  vita  intermediaria  dell'anima  tre  ipotesi  si  presentano  alla  mente  del- 
l'autore. Primamente  è  lecito  supporre,  che  l'anima  giaccia  immersa  in  un  sonno 
incessante  e  profondo  tanto,  che  né  senta,  né  pensi  alcunché  di  particolare;  e  sic- 
come mancandovi  la  successione  delle  idee,  viene  meno  anche  il  tempo,  così  il  pe- 
riodo intermedio  tra  la  morte  del  corpo  ed  il  suo  risorgimento,  fosse  pure  di  migliaia 
di  anni  e  di  secoli,  non  sarebbe  per  l'anima  che  un  istante  indivisibile.  La  seconda 


U)  Farad.,  XXIX,  v.  10-13. 
(2)  Inferno,  X. 


28  GIUSEPPE    ALLIEVO 

ipotesi  sarebbe  quella  di  chi  ammette,  che  la  vita  intermediaria  dell'anima  sarà  una 
successione  di  sogni  più  o  meno  frequenti,  più  o  meno  connessi.  Una  terza  ipotesi 
sarebbe  quella,  che  riguarda  la  vita  intermediaria  siccome  una  vita  attiva,  una  veglia 
continua,  in  cui  l'anima  prosegue  non  solo  ad  esercitare  le  sue  potenze,  ma  ben  anco 
a  perfezionarle,  perchè  congiunta  con  un  corpo  etereo,  che  le  fornirà  nuove  perce- 
zioni e  queste  composte  insieme  colle  idee  acquistate  nella  vita  terrena,  imprimeranno 
alla  sua  attività  un  nuovo  impulso.  L'autore  non  instituisce  un  raffronto  critico  di 
queste  tre  ipotesi  appena  accennate  in  una  nota  al  paragrafo  742  del  citato  Saggio 
analitico,  ma  si  appiglia  alla  terza  e  si  argomenta  di  confermarla  nel  corso  del  libro. 

Il  Bonnet  concepisce  l'uomo  un  composto  di  anima  e  di  corpo  naturalmente 
distinti  ed  assolutamente  inseparabili,  e  muovendo  da  questo  concetto  antropologico, 
va  contemplando  la  vita  dell'anima  siccome  compenetrata  indissolubilmente  coll'orga- 
nismo  corporeo  in  tutto  il  corso  della  sua  esistenza  da  prima  terrena,  poi  oltremon- 
dana. Secondo  la  dottrina  dell'autore,  l'unione  dell'anima  e  del  corpo  nell'uomo  è  un 
fatto  incontrastabile  e  ad  un  tempo  un  mistero  impenetrabile,  perchè  sono  due  sostanze, 
che  non  hanno  alcunché  di  comune. 

Che  cosa  sia  l'anima  in  se  stessa  e  quali  operazioni  possa  compiere  separata  dal 
corpo,  a  noi  non  è  dato  saperlo.  Siccome  non  agisce  se  non  col  corpo  e  sul  corpo, 
né  può  conoscere  se  medesima  e  verun'  altra  cosa  se  non  pel  ministero  de'  sensi,  così 
va  studiata  non  già  in  se  stessa,  bensì  nelle  funzioni  dell'organismo  in  cui  rivela  sé 
medesima  ;  e  parimenti  le  sue  idee  vanno  studiate  non  in  se  stesse,  ma  nel  movimento 
delle  fibre,  che  ne  sono  gli  organi  e  che  soggiacciono  alla  nostra  osservazione  sensi- 
bile, per  quantunque  ignoriamo  come  mai  il  movimento  di  una  fibra  produca  un'idea, 
e  come  all'occasione  di  un'  idea  si  ecciti  il  movimento.  L'anima  si  fornisce  di  idee, 
ma  originano  dai  sensi  e  le  nozioni  più  astratte  sono  niente  più  che  idee  sensibili 
lavorate  dalla  riflessione  e  rivestite  di  segni  o  termini,  che  cadono  anch'essi  sotto  i 
sensi,  per  modo  che  l'intelligenza  non  è  che  una  sensibilità  più  elevata  della  sensi- 
bilità fisica  e  fornita  anch'essa  di  fibre  intellettuali,  che  però  in  fondo  sono  fibre 
sensibili.  Parimenti  l'attività  o  forza,  di  cui  essa  è  fornita,  e  che  in  se  stessa  ci  è 
affatto  ignota,  prende  forma  ed  atteggiamento  diverso  dalle  diverse  movenze  dell'or- 
ganismo, e  produce  sensazioni  e  volizioni  in  occasione  de'  movimenti,  che  gli  oggetti 
eccitano  nelle  fibre  sensibili. 

In  breve,  tutto  ciò  che  l'anima  prova,  sente,  pensa  ed  opera,  tutto  quell'insieme 
di  modificazioni  che  in  essa  si  avvicendano,  e  di  cui  si  compone  la  sua  vita  personale, 
nasconde  le  sue  prime  origini  nelle  latebre  dell'organismo,  ed  occorre  pur  sempre 
risalire  alla  parte  fisica  dell'uomo  per  conoscerne  la  parte  mentale  :  il  mondo  umano 
si  rispecchia  nel  fisico.  "  Il  corpo  è  la  prima  sorgente  di  tutte  le  modificazioni  del- 
l'anima, l'anima  è  tutto  ciò,  che  il  corpo  la  fa  essere  „  {Saggio  analitico  ecc.,  §  25). 

Ciò  nullameno  l'autore  ripudia  incisamente  la  nota  di  materialista,  avvertendo 
che  la  sensazione  ed  il  pensiero  proprii  dell'anima,  sono  assolutamente  semplici  ed 
inestesi,  epperò  escludono  la  materialità  (1),  e  che  la  sensazione  si  trasforma   bensì 


(1)  Vedi  l'Analisi  abbreviata  del  Saggio  analit.,  cap.  XIX,  contenuta  nella  Palingenesi,  ed  il  Saggio 
analitico,  §  509. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  29 

in  idea,  ma  il  movimento  delle  fibre  cerebrali  è  sibbene  condizione  necessaria,  che 
precede  la  sensazione,  ma  non  diventerà  mai  sensazione,  che  è  tutta  propria  dell'anima. 
Rimane  a  vedere,  come,  secondo  l'autore,  i  sensi  intervengano  in  tutte  le  opera- 
zioni dell'anima.  Gli  oggetti  corporei  operando  sugli  organi  de' sensi  esterni  vi  susci- 
tano un  movimento,  che  mediante  i  nervi  si  propaga  sino  al  cervello,  e  là  l'anima 
sente  ed  avverte  le  impressioni  ricevute.  I  nervi  racchiudono  un  fluido,  la  cui  sotti- 
gliezza ed  elasticità  pressoché  pari  a  quella  della  luce  o  dell'etere,  porge  ragione 
della  celerità,  con  cui  le  impressioni  si  comunicano  all'anima,  e  con  cui  l'anima 
compie  tante  differenti  operazioni.  Però  non  tutto  quanto  il  cervello  piglia  parte  ai 
movimenti  nervei,  bensì  soltanto  una  piccola  parte,  dove  vanno  a  riunirsi  tutte  le 
impressioni  sensibili.  Esso  è  il  punto  centrale  di  tutto  il  sistema  nervoso,  il  sensorio, 
ossia  l'organo,  dove  all'impressione  materiale  succede  la  sensazione,  e  quindi  la  sede 
dell'anima,  lo  strumento  immediato  del  sentimento,  del  pensiero  e  dell'azione.  Quando 
una  fibra  nervosa  è  scossa  la  prima  volta  dall'impressione  di  un  oggetto,  produce 
nell'anima  una  sensazione  affatto  nuova,  ma  quella  medesima  fibra  messa  in  moto 
dal  medesimo  oggetto  una  seconda,  una  terza  volta,  diventa  sempre  più  flessibile  e 
disposta  a  ripetere  il  medesimo  movimento  risuscitando  l'impressione  passata,  e  quindi 
permette  all'anima  di  distinguere  la  sensazione  riprodotta  dalla  sensazione  nuova; 
nel  che  dimora  la  facoltà  della  reminiscenza,  mercè  di  cui  l'anima  riconosce  che  già 
altra  volta  è  stata  quale  è  di  pi-esente.  Onde  si  scorge  che  la  reminiscenza  o  me- 
moria è  di  origine  corporea,  siccome  quella,  che  dipende  dalla  conservazione  de'  me- 
desimi movimenti  delle  fibre  cerebrali  e  dalla  disposizione  a  ripeterli.  La  memoria 
conferisce  ad  un  essere  senziente  il  sentimento  della  personalità  sua  propria,  del  suo 
me.  Quando  pronunciamo  il  vocabolo  io,  intendiamo  di  significare  l'insieme  delle  idee, 
che  l'anima  nostra  è  andata  successivamente  acquistando  ;  ma  le  idee  acquistate  pos- 
sono andar  perdute,  e  l' Io  si  conserva  in  quelle,  che  la  memoria  ha  ritenuto,  sicché 
la  personalità  verrebbe  meno  del  tutto  collo  spegnersi  della  memoria. 

Fin  qui  ho  compendiato  le  idee  dominanti  dell'autore  intorno  la  vita  psicologica 
umana  di  quaggiù.  Ma  egli  ammette  una  vita  futura  oltremondana,  nella  quale  l'Io 
umano  conserverà  la  sua  personalità  individuale  mantenendo  la  ricordanza  di  ciò  che 
fu  nella  vita  terrena,  essendoché  senza  questo  ricordo  non  sarebbe  più  l'essere  nostro 
proprio,  che  farebbe  passo  ad  una  seconda  esistenza,  bensì  un  nuovo  individuo,  che 
ne  prenderebbe  il  posto.  Ma  io  domando:  se  i  sensi  corporei  sono  la  fonte  originaria 
di  tutta  la  vita  fìsica  e  mentale,  che  costituisce  il  nostro  io,  e  se  la  morte  tronca 
ogni  comunicazione  dell'anima  coi  sensi  e  coll'organismo  corporeo,  come  mai  essa 
anima  priva  di  sensi  e  di  corpo,  che  sono  lo  strumento  necessario  del  suo  operare, 
potrà  ancora  esercitare  le  sue  facoltà  spirituali,  sentire,  pensare,  volere,  insomma, 
conservarsi  vivente  nel  mondo  futuro  ?  Se  la  memoria,  alla  quale  dobbiamo  il  senti- 
mento della  nostra  identità  personale,  è  talmente  complicata  colle  fibre  cerebrali 
da  "  non  poter  essere  distrutta  senzachè  l'anima  cessi  di  ragionare  „  (1),  come  potrà 
ancora  l'anima  priva  del  cervello  e  delle  sue  fibre  sensibili  conservare  la  ricordanza 
della  sua  vita  terrena  e  la  coscienza  della  sua  identità  personale?  Ecco  il  problema 
dell'immortalità,  quale  spunta  dalla  dottrina  dell'autore,  e  che  egli  affronta,  pur  te- 


(1)  La  Palingenesi,  t.  1,  pag.  39. 


30'  GIUSEPPE    ALLIEVO 

nendo  per  fermo,  che  l'anima  separata  dal  corpo  non  solo  giacerebbe  immemore  del  suo 
passato,  ma  più  non  avrebbe  di  che  vivere  ed  operare. 

Ciò  posto,  il  Bonnet  non  vede  altre  vie,  per  cui  l'anima  conservi  nella  vita  fu- 
tura il  ricordo  della  sua  vita  terrena,  se  non  queste  tre  sole:  1°  una  rivelazione' 
interiore  fatta  da  Dio  all'anima  stessa;  2°  la  creazione  di  un  nuovo  corpo,  in  cui  il 
cervello  conterrebbe  fibre  proprie  a  risvegliare  davanti  all' anima  questo  ricordo  ; 
3°  una  preordinazione,  per  cui  il  cervello  attuale  ne  contenga  un  altro,  su  cui  esso 
faccia  impressioni  durevoli,  e  che  sia  destinato  a  svilupparsi  in  un'altra  vita  (1).  Egli 
si  appiglia  alla  terza  ipotesi  sostenendo  che  l'anima  si  congiungerà  un  giorno  con  un 
nuovo  corpo,  per  non  esserne  separata  giammai,  e  ritenendo  siccome  probabile  che  sif- 
fatto corpo  già  preesista  germinalmente  inchiuso  in  quello,  che  essa  abita  di  presente. 
Questo  germe  corporeo  conserva  le  impressioni,  che  il  cervello  vi  stampa  durevol- 
mente nella  vita  presente  e  quando  si  sarà  esplicato  nella  vita  futura,  quelle  impres- 
sioni risvegliandosi  ridaranno  all'anima  le  ricordanze  del  suo  passato.  Il  corpo  gros- 
solano e  terreno,  che  noi  vediamo  e  palpiamo,  ha  un  rapporto  diretto  ed  immediato 
col  mondo  che  abitiamo,  ed  è  un  mero  involucro  del  corpo  novello,  opperò  soggetto 
al  potere  dissolvente  della  morte;  il  corpo  futuro  ha  un  rapporto  col  mondo,  che 
abiteremo  un  giorno,  durerà  imperituro  ed  indestruttibile,  ed  avrà  per  ufficio  di  re- 
care al  sommo  della  loro  perfezione  tutte  le  facoltà  dell'anima.  Poiché  "  il  corpo 
etereo,  con  cui  essa  non  cesserà  punto  di  essere  congiunta,  libero  dai  legami  del 
corpo  grossolano,  potrà  fornirle  percezioni  di  un  nuovo  ordine,  le  quali  ricomposte 
colle  idee  acquistate  nella  vita  terrena,  daranno  un  nuovo  slancio  alla  sua  attività  „  (2). 
L'autore  si  ingegna  di  chiarire  la  ragionevolezza  della  sua  ipotesi  con  argomenti  de- 
sunti dal  germe  della  farfalla  racchiuso  nel  bruco,  dal  germe  della  pianta  nascosto 
nella  sementa,  e  conforta  il  suo  asserto  coi  pronunciati  della  rivelazione,  secondo  la 
quale  questo  corpo  corruttibile  rivestirà  l'incorruttibilità,  questo  corpo  animale  risorgerà 
spirituale.  Questo  germe  corporeo,  che  ora  rinchiuso  nel  sensorio,  si  svilupperà  poi  in 
un  nuovo  corpo  umano,  consta  di  una  materia  sottilissima,  analoga  a  quella  del  fuoco, 
della  luce,  dell'etere  ammesso  dai  filosofi  moderni,  epperò  durerà  inalterabile,  incor- 
ruttibile; e  siccome  il  fuoco  e  la  luce  non  hanno  pesantezza,  così  il  nostro  corpo 
risorto  potrà  a  grado  della  nostra  volontà  trasportarsi  da  un  punto  all'altro  dello 
spazio,  forse  colla  celerità  medesima  propria  della  luce  (3).  E  dacché  il  germe,  di  cui 
facciamo  parola,  ha  natura  analoga  a  quella  del  fuoco  o  della  luce,  consegue  pur 
anco,  che  da  una  materia  simile  a  quella  del  fuoco  o  della  luce  attingerà  la  virtù 
necessaria  per  esplicarsi  in  un  nuovo  corpo  umano  incorruttibile  ed  imperituro. 

L'autore  non  si  arresta  a  questo  punto;  ma  passando  dal  Saggio  analìtico  sul- 
l'anima umana  alla  Palingenesi  universale  applica  il  suo  principio  psicologico  a  tutti 
i  viventi  cosmici  assegnando  anche  agli  animali  uno  stato  futuro  oltremondano,  in 
cui  rinasceranno  a  nuova  e  perfettissima  vita.  Superstite  alla  morte  l'anima  del  bruto 
rimarrà  unita  con  quel  piccolo  corpo  etereo,  indestruttibile,  che  già  preesisteva  entro 
il  corpo  grossolano  e  distruttibile.  Quel   corpicciuolo   germinale,  avendo   ritenuto    le 


(1)  Saggio  analitico,  §  730. 

(2)  Idem,  ibidem,  §  742  in  nota. 

(3)  Vedi  op.  cit,  §  747,  748,  738,  752. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  31 

impressioni  osterne  prodotte  nella  vita  presente  sulle  fibre  sensibili,  che  sono  la  sede 
della  memoria,  conserverà  al  bruto  la  sua  esistenza  e  la  sua  personalità  mediante  la 
ricordanza  dello  stato  passato,  e  si  trasformerà  in  quel  corpo  novello,  che  il  bruto 
rivestirà  nel  suo  stato  futuro.  Questo  futuro  corpo  degli  animali  consterà  di  una 
materia  siffattamente  sottile  ed  eterea  da  guarentirlo  da  ogni  corrompimento,  e  di- 
verserà dal  corpo  presente  nella  forma,  nella  struttura,  nelle  parti,  nella  grandezza, 
sicché  la  sua  meccanica  sovrasterà  di  gran  lunga  a  quella,  che  osserviamo  di  presente. 

Come  all'uomo,  cos'i  al  bruto,  il  Bonnet  attribuisce  un'anima  anch'essa  incor- 
ruttibile ed  immortale  non  solo,  ma  chiamata  ad  una  perfezione  finale,  che  trascende 
financo  la  sua  medesima  specie.  Partendo  con  Leibnitz  dalla  legge  di  continuità,  in 
virtù  della  quale  tutti  gli  esseri  della  natura  si  inanellano  in  una  sola  catena  per 
guisa,  che  non  si  può  segnare  il  punto  preciso,  in  cui  una  specie  finisce  e  l'altra 
comincia,  egli  ne  arguisce,  che  tutti  sono  suscettivi  di  un  progresso  illimitato.  La 
perfettibilità  delle  anime  è  in  ragion  diretta  del  loro  organismo  corporeo,  esercitando 
esso  sul  loro  sviluppo  una  influenza  immensa.  Nella  vita  futura  il  corpo  risorgerà 
rifornito  di  organi  affatto  nuovi  e  di  sensi  più  squisiti,  da  cui  le  facoltà  psichiche 
attingeranno  un  singolare  incremento  ed  uno  sviluppo  meraviglioso,  essendoché 
il  numero  e  la  portata  de' sensi  determina  il  vario  grado  di  perfezione.  L'anima 
umana  progredirà  tant'  alto  da  abbracciar  l'universo  colla  sua  triplice  facoltà  di  co- 
noscere, di  amare  e  di  operare.  L'anima  del  bruto,  che  quaggiù  è  circoscritta  nell'an- 
gusta cerchia  dell'istinto,  raggiungerà  la  virtù  della  ragione  conquistando  quel  primo 
posto,  che  l'uomo  occupa  oggidì  fra  gli  animali  del  nostro  pianeta,  e  "  in  mezzo  alle 
scimmie  ed  agli  elefanti  potranno  trovarsi  i  Newton  ed  i  Leibnitz  „  ;  ed  in  questa 
universale  rinascenza,  mentre  il  bruto  sale  al  rango  dell'uomo,  la  pianta  si  innalza 
progredendo  dalla  vita  vegetativa  propria  della  sua  specie  alla  vita  animale».  Così 
il  nostro  mondo  ne' suoi  primordii  vestiva  la  forma  apparente  di  verme  o  dibruco; 
di  presente  la  forma  di  crisalide  ;  nella  sua  suprema  trasformazione  diventerà  farfalla. 

Ingegnosa  certamente  e  meritevole  di  considerazione  è  questa  teoria  dell'autore, 
ma  troppo  si  risente  del  lavorio  dell'immaginazione,  la  quale  nelle  speculazioni  filo- 
sofiche deve  cedere  il  campo  alla  severa  e  rigorosa  ragione.  Egli  medesimo  riconosce 
che  cammina  sopra  un  terreno  malfermo  ed  incerto,  giacché  presenta  la  sua  opinione 
non  come  verità  inconcussa,  ma  quale  una  mera  ipotesi  più  o  meno  probabile,  rinun- 
ciando ad  ogni  pretesa  di  penetrare  il  mistero  di  oltretomba,  ed  asserisce  che  lo  stato 
dell'anima  nella  vita  futura  cotanto  diversa  da  quello  in  cui  ci  troviamo  di  presente, 
che  alla  stessa  Rivelazione  divina  non  sarebbe  stato  possibile  darcene  idee  chiare 
senza  mutare  la  nostra  costituzione  attuale  (1).  Ma  un'ipotesi  non  va  campata  in 
aria,  bensì  abbisogna  di  ragioni  speciali  che  la  sorreggano  ;  e  siffatte  ragioni  mi  pare 
che  manchino  nel  caso  nostro.  Poiché  la  sua  teoria  posa  tutta  quanta  sul  pronunciato, 
che  preesiste  latente  nel  cervello  un  germe  corporeo  etereo,  sottile,  preordinato  a  tras- 
formarsi in  un  novello  organismo  nella  vita  futura.  Ciò  posto,  né  l'osservazione,  né 
l'esperienza,  a  cui  deve,  secondo  l'autore,  conformarsi  la  scienza  dell'anima  egual- 
mente che  del  corpo  in  tutto  il  suo  processo,  non  ci  attestano  né  punto,  né  poco, 
l'esistenza  di  siffatto  corpicciuolo  primordiale,  non  ce  ne  rivelano  la  natura  eterea, 


(1)  Vedi  Saggio  analit.,  §  742  in  nota,  e  Palingenesi,  t.  2,  pag.  410,  413. 


32  GIUSEPPE    ALLIEVO 

o  luminosa,  o  elettrica,  la  quale  per  altra  parte  ^  tuttora  avvolta  nel  mistero,  né 
tanto  meno  c'informano,  che  sia  fornito  di  tale  virtù  germinativa  da  tradursi  in  un 
nuovo  organismo  più  svariato  e  più  potente  del  corpo  attuale.  Io  non  dirò  già  che 
in  tutto  ciò  siavi  alcunché  di  impossibile  e  di  ripugnante:  dico  soltanto,  che  è  una 
mera  e  pura  asserzione  non  confortata  da  ragione,  che  renda  probabile  l'esistenza 
del  fatto  supposto.  Né  punto  approda  all'autore  il  riconoscere  oltre  la  conoscenza 
intuitiva  appoggiata  ai  sensi  ed  all'osservazione,  la  conoscenza  riflessa  appoggiata  al 
ragionamento;  poiché  questa  seconda  guisa  di  conoscere  origina,  secondo  lui,  tutta 
quanta  dalla  prima,  epperò  non  può  trascenderne  la  cerchia  (1);  per  conseguente  il 
ragionamento  non  può  rivelarci  alcunché  là,  dove  mancano  i  dati  del  senso,  come 
incontra  nel  caso  nostro. 

Riguardando  alla  duplice  natura  dell'uomo,  fisica  e  spirituale,  l'autore  saggia- 
mente sostiene  l'intimo  ed  assoluto  congiungimento  dell'anima  col  corpo  e  nella  vita 
presente  e  nella  futura;  ma  non  mi  sembra  che  abbia  giustamente  determinato  il 
valore  comparativo  di  queste  due  sostanze  costitutive  dell'uomo.  Poiché  egli  troppo 
esalta  la  virtù  operativa  del  corpo,  troppo  detrae  alla  natura  propria  dell'anima,  la 
quale,  in  sua  sentenza,  deve  ai  sensi  fisici  il  suo  pensare  e  conoscere,  il  suo  operare 
e  volere,  tutte  le  sue  idee  anche  più  elevate  e  trascendentali,  insomma  diversamente 
si  atteggia  a  seconda  delle  diverse  impressioni  dell'organismo  corporeo. 

In  quale  funzione  dell'organismo,  mi  si  dica,  in  quale  lavorìo  del  sistema  nervoso 
troveremo  noi  la  spiegazione  di  un  generoso  proposito,  o  di  un  eroico  sacrificio  com- 
piuto dall'anima,  o  di  una  sublime  speculazione  metafisica?  Come  mai  un  movimento 
delle  fibre  cerebrali  potrà  renderci  ragione  di  un'idea  della  mente,  se  quello  è  tut- 
t'altra  cosa  da  questa  ?  Occorrerebbe  in  tal  caso  ammettere  tante  specie  diverse  di 
movimenti,  quante  sono  le  diverse  specie  di  idee  corrispondenti.  Sostiene  l'autore,  che 
tutte  le  nozioni,  anche  più  astratte,  più  elevate  e  soprasensibili  sono  niente  più  che 
trasformazioni  delle  idee,  che  dobbiamo  ai  sensi  fisici  esterni.  Ma  come  mai  la  rifles- 
sione potrà  ritrarre  dall'osservazione  del  mondo  corporeo  o  materiale  le  idee  del  di- 
ritto, del  giusto,  dell'onesto,  del  divino,  della  libertà  morale,  che  non  ci  sono,  né  ci 
possono  essere  in  verun  modo?  Da  ciò,  che  le  funzioni  dell'organismo  concorrono 
nelle  operazioni  dell'anima  e  nella  formazione  delle  idee,  l'autore  erroneamente  ar- 
guisce, che  in  quelle  risieda  l'origine  e  la  ragione  spiegativa  di  queste.  Tanto  var- 
rebbe quanto  il  dire,  che  lo  scultore  deve  la  sua  virtù  scultoria  non  al  proprio  genio, 
ma  allo  scalpello,  che  maneggia,  ed  al  marmo,  che  adopera.  Il  vero  si  è,  che  l'anima 
e  fornita  della  facoltà  dell'osservazione  interiore,  mercè  di  cui  può  studiarsi  ne'  suoi 
fenomeni  mentali,  siccome  quelli,  che  rampollano  dalla  sua  attività  intima  originaria. 
e  non  già  dai  sensi  corporei.  Per  lui  l'anima  umana  non  è  una  sostanza  pensante,  ma 
una  sostanza  che  può  pensare;  e  penserà  di  fatto,  quando  glielo  consentirà  il  movi- 
mento delle  fibre  sensibili;  e  le  stesse  fibre  da  lui  denominate  intellettuali,  mercè 
di  cui  essa  ragiona,  sono  una  dipendenza  della  vista  e  dell'udito,  perchè  i  vocaboli 
o  segni  artificiali  delle  idee  astratte,  che  entrano  nel  ragionamento,  agiscono  sul  cer- 
vello per  mezzo  della  vista  o  dell'udito  (2).  Egli  non  fa  differenza  specifica  tra  l'anima 


(1)  Palingenesi,  t.  2,  pag.  146  e  seg. 

(2)  l'alili, /, a,  .  1,  pag.  134. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  33 

ragionevole  dell'uomo  e  l'anima  sensitiva  del  bruto;  anche  questa  è  indestruttibile 
ed  immortale;  e  se  quaggiù  i  bruti  sono  dominati  dal  solo  istinto  e  non  mostrano 
la  virtù  della  ragione,  gli  è  per  ciò  solo,  che  "  la  meccanica  del  loro  cervello  non 
contiene  tutte  le  condizioni  necessarie  alla  generalizzazione  delle  idee  „  (1);  e  queste 
condizioni  saranno  adempiute  dal  nuovo  organismo,  che  rivestiranno  nella  vita  futura. 
Ciò  vuol  dire,  che  l'anima  non  è  razionale  od  irrazionale  per  natura  sua  propria, 
bensì  è  tale,  quale  la  fa  il  diverso  congegno  e  la  diversa  squisitezza  dell'organismo, 
che  la  involge  ;  dottrina  questa,  che  troppo  consuona  col  materialismo,  da  cui  tuttavia 
il  Bonnet  si  dichiara  ricisamente  alieno.  A  lui,  per  non  essere  schierato  fra  i  mate- 
rialisti, basta  il  ritenere  distinta  dal  corpo  l'anima  per  ciò  solo,  che  il  sentimento, 
che  essa  ha  di  sé  stessa,  essendo  semplice,  indivisibile  ed  uno,  esclude  la  materialità  ; 
il  suo  spiritualismo  si  arresta  qui,  mentre  egli  ripone  nel  corpicciuolo  cerebrale  il 
principio  motore  di  tutta  la  vita  psichica,  e  non  avverte,  che  semplice,  indivisibile 
ed  uno  lo  è  altresì  un  punto  dello  spazio,  una  forza  della  natura,  un  atomo  inde- 
componibile di  materia. 

L'autore,  seguendo  il  cartesianismo,  sostiene  che  l'anima  ed  il  corpo  sono  due 
sostanze  siffattamente  eterogenee,  che  non  hanno  alcunché  di  comune  fra  di  loro. 
Questo  suo  pronunciato  riesce  in  aperta  contraddizione  collo  smodato  ingerimento 
dell'organismo  corporeo  nei  fenomeni  psichici  dell'anima,  da  lui  sostenuto.  Se  queste 
due  sostanze  non  hanno  alcunché  di  comune  e  rimangono  perciò  divise  da  un  abisso, 
come  mai  il  corpo  può  essere  il  principio  originario  di  tutte  le  modificazioni  dell'anima? 

Questa  predominanza  del  principio  corporeo  sullo  spirituale  mostrasi  vieppiù 
manifesta  nella  sua  teoria  del  risorgimento  universale  degli  esseri  della  natura,  in 
cui  un  nuovo  grado  di  perfezione  organica  determina  una  forma  più  elevata  di  perfe- 
zione psichica.  L'anima  del  bruto  risorta  diventerà  razionale  al  pari  di  quella  del- 
l'uomo, in  grazia  del  nuovo  e  più  squisito  organismo  corporeo,  sicché  su  per  l'im- 
mensa scala  della  perfettibilità  universale  gli  è  pur  sempre  il  corpo,  che  organandosi  in 
forma  più  comprensiva  e  più  prestante,  innalza  con  sé  l'anima  ad  un  punto  più  alto 
di  progressivo  sviluppo.  L'autore  vagheggia  e  ritrae  coi  più  splendidi  colori  della  sua 
immaginazione  poetica  il  tempo  avvenire,  in  cui  gli  esseri  della  natura  risorti  da 
morte  a  nuova  vita  progrediranno  al  di  là  della  propria  specie. 

Certamente  questo  sublime  ideale  di  perfezione  concepito  dall'autore  può  eserci- 
tare qualche  attrattiva  sull'anima  umana,  innalzarla  molto  al  di  sopra  della  presente 
misera  realtà  e  confortarla  nella  lotta  contro  il  male.  Ma  è  un  vero  ideale  questo  ? 
Abbiamo  noi  ragione  di  ritenere,  che  verrà  tempo,  in  cui  sparirà  dal  creato  universo 
ogni  ombra  di  male  fisico  e  morale  e  gli  esseri  tutti  quanti  conseguiranno  una  per- 
fezione assoluta  e  permanente?  Se  dobbiamo  argomentare  dal  passato  e  dal  presente, 
non  possiamo  trarne  tanto  augurio  per  l'avvenire,  giacché  la  storia  dell'umanità  è 
tutta  quanta  una  storia  continua  di  dolori,  che  la  affliggono,  di  delitti,  che  la  disono- 
rano. Ed  anche  la  storia  naturale  non  ci  porge  esempio  di  specie  viventi,  che  abbiano 
progredito  sino  a  trasformarsi  in  altre  specie  superiori  più  perfette.  L'autore  ha  di- 
menticato il  grande  e  perpetuo  problema  dell'origine  del  male  ;  e  quando  ci  sarà  dato 


(1)  Saggio  analitico,  §  823. 
Serie  II.  Tom.  LUI. 


34  GIUSEPPE    ALLIEVO 

di  scoprire  donde  esso  origini,  allora  soltanto  potremo  divinare,  se  in  un  tempo  av- 
venire scomparirà  affatto  dall'umanità. 

Darwin  ed  i  moderni  propugnatori  dell'evoluzionismo  trasformatore  delle  specie 
incontrano  in  lui  un  ardito  precursore  della  loro  dottrina,  con  questo  notevolissimo 
divario,  che  l'autore  della  Palingenesi  addita  l'immortalità  degli  esseri  in  una  vita 
futura  oltremondana,  in  cui  la  gran  legge  universale  del  progresso  indefinito  toccherà 
il  suo  compiuto  avveramento.  Ben  vide  il  pensatore  ginevrino,  che  quaggiù  la  storia 
della  natura  non  presenta  veruna  prova  di  fatto  in  conferma  della  trasformazione 
progressiva  delle  specie  ;  ma  alla  sua  volta  la  teoria  della  rinascenza  degli  esseri  da 
lui  propugnata  è  una  mera  ipotesi,  che  per  manco  di  buone  ragioni  si  perde  nei 
campi  aerei  dell'immaginazione.  E  veramente  il  collocare,  come  fa  l'autore,  un'anima 
immortale  in  un  otre,  in  un  aragno,  in  un  insetto,  l'attribuire  ad  una  violetta  un 
sentimento  di  dolore  allorché  ne  stacchiamo  una  foglia  per  respirarne  il  profumo, 
tutto  ciò  non  è  un  pensare  con  serietà,  bensì  un  sostituire  ai  concetti  severi  della  rifles- 
sione filosofica  le  finzioni  di  un'immaginazione  poetica. 

Malgrado  queste  censure,  l'autore  ben  si  appose  al  vero  sostenendo,  che  l'anima 
umana  non  essendo  uno  spirito  puro,  è  di  sua  natura  tale,  che  la  sua  esistenza  non  può 
mai  essere  separata  da  qualche  involucro  corporeo  tanto  nella  vita  presente,  quanto 
nella  vita  oltremondana,  e  giustamente  avvisò,  che  la  nostra  presente  costituzione 
mentale,  tutta  implicata  nell'attuale  organismo  corporeo,  non  ci  consente  di  formarci 
un  chiaro  e  giusto  concetto  dello  stato  oltremondano  dell'anima.  Che  se  non  gli  venne 
fatto  di  addurre  buone  ragioni,  che  conferiscano  un  grado  di  probabilità  alla  sua  ipo- 
tesi, noi  alla  nostra  volta  non  abbiamo  ragioni  che  valgano  per  rigettarla  siccome 
irragionevole  ed  assurda.  Giacche  la  fisiologia  medesima  non  è  ancora  giunta  a  deter- 
minare qual  parte  della  massa  cerebrale  concorra  direttamente  alla  produzione  dei  sen- 
timenti e  dei  pensieri. 

6.  _  Francesco  Claudio  Turlot   (1745-1824). 

Francesco  Claudio  Turlot  nella  sua  opera  pubblicata  a  Parigi  nel  1810  col  titolo 
Études  sur  la  théorie  de  l'avenir,  ripigliò  la  teoria  del  Bonnet  e  tentò  di  consolidarne 
le  fondamenta  confortandola  con  ingegnose  e  nuove  considerazioni.  A'  suoi  occhi  il 
Bonnet  si  mostrò  troppo  modesto,  collocando  nel  novero  delle  ipotesi  la  sua  scoperta, 
mentre  facendo  tesoro  delle  grandi  cognizioni  fisiologiche,  di  cui  era  fornito,  avrebbe 
potuto  avvalorare  la  sua  opinione  elevandola  al  di  sopra  della  verosimiglianza.  Egli 
adunque  ebbe  in  animo  di  supplire  al  modesto  ritegno  del  celebre  naturalista  di  Gi- 
nevra dimostrando,  come  l'esistenza  di  una  sostanza  semimateriale  latente  nel  cervello, 
mentre  risolve  il  problema  della  vita  futura,  gitta  altresì  una  chiara  luce  sulla  miste- 
riosa unione  dell'anima  col  corpo  e  sul  vicendevole  operare  di  queste  due  sostanze  l'ima 
sull'altra. 

Io  mi  tengo  sicuro,  che  la  più  nobile  parte  di  me  medesimo  sopravviverà  alla 
morte  del  corpo  ;  ne  ho  l'intimo  sentimento.  Ma  qual  nuova  maniera  di  essere  terrà 
dietro  a  questa  finale  trasformazione?  Qual  sorta  di  gaudii  debbo  io  sperare,  qual 
guisa  di  felicità  attendere  ?  Non  cessando  punto  di  esistere,  bisogna  pure  che  io  con- 
tinui la  mia  esistenza  in  qualche  luogo:  dove  esisterò  io?  dove  vado  ?  Cosi  egli  formola 
il  problema  della  vita  futura.  A  tal  uopo,  seguendo  il  Bonnet,  pone  intermedio  tra 


LA    VITA    OLTREMONDANA  35 

l'anima  ed  il  corpo  nell'uomo  un  atomo  organico,  sostanza  semimateriale  dotata  della 
facoltà  di  ricevere  le  impressioni  materiali  esteriori,  focolare  impercettibile  di  tutte 
le  sensazioni  e  suscettivo  di  un  perfetto  sviluppo  dopo  la  morte  nella  vita  futura. 
Inseparabile  da  quest'  atomo  organico  l'anima  nostra  può  portare  con  se  dopo  la  morte 
il  ricordo  delle  sue  azioni,  la  coscienza  di  sé  e  l'impronta  di  tutti  i  suoi  sentimenti, 
e  da  questa  forma  corporea  più  pura  dell'attuale  grossolano  organismo  ritrarre  sensi 
più  perfetti.  Così  l'autore  reputa  di  avere  risolto  il  problema  ammettendo  tra  le  so- 
stanze corporee  una  tutta  speciale,  la  cui  tenuità  e  sottigliezza  è  tanta  e  tale  da 
potersi  ravvicinare  ad  una  sostanza  spirituale,  qual  è  l'anima  umana,  e  con  essa  com- 
penetrarsi. 

Giova  chiarire  viemeglio  il  pensiero  dell'autore  intorno  la  natura  propria  di 
quest'atomo  organico,  il  suo  ufficio  e  la  sua  reale  esistenza.  Dacché  l'anima  umana 
non  è  uno  spirito  puro,  per  ciò  stesso  debb'essere  essenzialmente  ed  inseparabilmente 
congiunta  colla  materia  ;  e  siccome  è  semplicissima  ed  indivisibile,  così  non  può  essere 
posta  in  immediato  e  diretto  contatto  colla  materia  grossolana,  estesa  e  divisibile 
quale  è  quella,  che  cade  sotto  i  nostri  sensi,  bensì  soltanto  con  una  particella  di 
sostanza  materiale  sottilissima,  semplice  ed  attenuata  a  segno  da  non  avere  più  né 
forma  sensibile,  né  colore,  né  estensione,  insomma  nessuna  delle  proprietà  conosciute 
della  materia  e  diventare  per  così  dire  smaterializzata,  spiritualizzata.  Tale  è  appunto 
l'atomo  organico:  esso  forma,  tra  ciò  che  è  materiale  e  ciò  che  non  lo  è,  una  grada- 
zione, che  sembra  tenere  dell'uno  e  dell'altro;  è  di  natura  semimateriale  (1).  In  virtù 
della  sua  semplicità  esso  si  compenetra  coll'anima  tanto  da  formare  con  essa  una  sola 
e  medesima  sostanza;  in  grazia  poi  della  sua  facoltà  sensitiva,  è  il  punto  centrale, 
dove  si  riuniscono  tutte  le  vibrazioni  comunicate  dai  sensi  esteriori  e  pone  l'anima 
in  corrispondenza  con  le  fibrille  impercettibili  del  cervello.  "  Durante  la  vita  presente 
questa  sostanza  rimane  compressa  dall'azione  del  corpo,  a  cui  soggiace,  ma  nell'istante 
della  morte  se  ne  svincola,  si  sviluppa,  si  schiude  in  qualche  guisa,  si  avvicina  alla 
natura  angelica  rivestendo  sensi  più  perfetti  e  nella  sua  nuova  maniera  di  essere  con- 
serva tuttavia  l'eterna  impronta  de'  suoi  sentimenti  e  pensieri  „  (2). 

L'esistenza  di  siffatto  atomo  organico  è  una  verità  fisiologica  di  fatto.  Poiché  la 
natura  medesima  presenta  a  chi  attentamente  la  osserva,  sostanze  semplici,  impercet- 
tibili e  tali,  che  non  cadono  menomamente  sotto  la  nostra  esperienza  sensibile,  ed 
una  di  queste  sostanze  le  più  perfette  è  appunto  quella  che  forma  l'impercettibile 
involucro  dell'anima  umana,  compenetrandosi  colle  facoltà  intellettuali. 

La  teorica  dell'autore  posa  tutta  quanta  sul  concetto  dell'atomo  organico,  ed  è 
contro  di  questo  che  la  critica  rivolge  le  sue  censure.  Il  suo  medesimo  pensiero  mo- 
strasi così  incoerente  ed  oscillante  su  questo  punto,  che  già  se  ne  intravede  l'insus- 
sistenza della  sua  dottrina.  Poiché  ora  egli  confonde  l'atomo  organico  colla  stessa 
anima  in  una  sola  ed  identica  sostanza,  ora  ne  lo  distingue  chiamandolo  un  mero 
involucro  dell'anima  stessa,  un  suo  strumento,  che  la  pone  in  corrispondenza  coli 'or- 
ganismo corporeo  ;  ora  lo  riguarda  come  onninamente  differente  dalla  materia  propria- 
mente detta  sino  a  denominarlo  smaterializzato,  spiritualizzato,  ed  ora  si  sta  pago  di 


(1)  Opera  citata,  tomo  1,  p.ig.  382-384. 

(2)  Idem,  ibidem,  pag.  481. 


36  GIUSEPPE    ALLIEVO 

appellarlo  semimateriale.  Egli  ammette  una  differenza  tra  la  materia  bruta,  inorganica, 
inanimata  e  grossolana  e  la  materia  per  cosi  dire  eterea  e  suscettiva  di  sensazioni 
ed  anche  di  idee  ;  ma  con  tutto  ciò  egli  non  esce  mai  dal  mondo  della  materia,  giacche 
la  differenza  da  lui  posta  sarebbe  una  mera  distinzione  di  grado  e  non  di  essenza. 
Sforziamoci  pure  di  rimpicciolir  col  pensiero  la  materia  o  un  pezzo  di  materia  tanto 
da  ridurlo  ad  un  punto  impercettibile;  avremo  noi  con  ciò  tolto  ad  esso  le  qualità 
inseparabili  della  materia,  quali  sono  l'estensione,  la  divisibilità,  la  forma  spaziale? 
No  certamente;  ci  sarà  giuocoforza  arrestarci  davanti  ad  un  atomo  di  materia  sia  pur 
semplicissimo,  giacche  la  materia  non  è  divisibile  all'infinito,  e  quell'atomo  non  diven- 
terà mai  alcunché  di  spirituale.  Già  prima  di  lui  il  Cudwort  erasi  ingegnato  di  spie- 
gare l'unione  dell'anima  col  corpo  escogitando  il  suo  mediatore  plastico,  che  ponesse 
in  corrispondenza  queste  due  opposte  sostanze:  il  nostro  autore  assegna  al  suo  atomo 
organico  il  medesimo  ufficio  ma  non  ha  migliore  fortuna. 

Il  Bonnet  si  era  fermato  alla  sua  ipotesi  del  germe  corporeo  riguardato  come 
una  sostanza  eterea,  sottilissima,  senza  punto  muover  questione,  se  essa  appartenga 
al  mondo  della  materia  o  dello  spirito;  il  Turlot  per  lo  contrario  si  sforza  di  dimo- 
strare che  il  suo  atomo  organico  partecipa  dell'una  e  dell'altra  natura,  e  quindi  invi- 
luppa la  sua  teorica  in  difficoltà  inestricabili. 

E  noto,  che  Cartesio  aveva  scavato  un  abisso  tra  lo  spirito  e  la  materia,  riguar- 
dandole come  due  sostanze  non  solo  essenzialmente  distinte,  ma  assolutamente  sepa- 
rate ed  incomunicabili  per  guisa,  che  l'una  esclude  da  sé  tutti  gli  attributi  dell'altra, 
né  hanno  verun  elemento  comune,  verun  punto  di  contatto.  Quindi  torna  impossibile 
che  la  materia  senta,  o  pensi,  impossibile  che  lo  spirito  sia  esteso,  materiale,  divisi- 
bile in  parti.  Questo  reciso  ed  assoluto  dualismo  lo  portò  poi  a  negare  agli  animali 
la  facoltà  di  sentire  e  riguardarli  come  meri  automi  semoventi  meccanicamente,  e 
questo  medesimo  dualismo  ci  porta  a  considerare  l'anima  razionale  non  come  la  forma 
animatrice  del  corpo,  ma  come  uno  spirito  puro  ed  intelligente. 

Ora  il  Turlot  colloca  il  suo  atomo  organico  tra  lo  spirito  e  la  materia,  partecipe 
dell'una  e  dell'altra  di  queste  due  sostanze,  partendo  dal  principio  supposto,  ma  non 
dimostrato,  che  nell'ordine  della  creazione  esistono  esseri  intermediarii  partecipanti 
egualmente  delle  proprietà  di  due  specie  e  formanti  una  gradazione  tra  l'una  e  l'altra, 
come  i  zoofiti  tra  i  vegetali  e  gli  animali. 

7.  Augusto  Barione  Keratrij  (1769-1859).  —  Enrico  Martin. 

Il  Keratry  pubblicò  a  Parigi  le  sue  Introduci  ions  morales  et  physiologiques  collo 
scopo  di  chiarire  l'armonica  corrispondenza,  che  esiste  tra  la  fisiologia  e  la  morale. 
Muovendo  dal  concetto  dell'Essere  propriamente  detto,  che  è  Dio,  discende  a  discor- 
rere partitamente  dell'essere  materiale  e  dell'essere  spirituale,  poi  della  loro  unione 
nell'essere  animato,  quindi  della  loro  separazione  ossia  della  morte,  infine  del  loro 
ricongiungimento,  ossia  della  immortalità;  e  qui  discute  il  problema  della  vita  oltre- 
mondana dell'anima.  Egli  non  fa  buon  viso  alla  teorica  di  coloro,  i  quali  insegnano, 
che  l'anima  staccandosi  dal  corpo,  rimane  unita  ad  una  sostanza  eterea,  germe  del- 
l'organamento cerebrale  ed  atta  ad  identificarsi  con  una  nuova  vita  sensitiva.  Egli 
rigetta  la  dottrina  di  Carlo  Bonnet,  che  ammette  la  persistenza  di  un  germe  corporeo 


LA    VITA    OLTREMONDANA  37 

rinnovatore  dell'organismo,  avvertendo  che  "  l'aderenza  dell'anima  ad  un  germe  inde- 
struttibile  ed  immateriale  (se  una  sostanza  eterea  potesse  esserlo)  non  è  che  o  una 
duplice  spiritualità  assolutamente  inutile,  poiché  essa  non  saprebbe  adempiere  le  con- 
dizioni volute,  o  una  complicazione  di  difficoltà,  se  gli  elementi  ne  appartengono  in 
qualsiasi  modo  alla  materia  „  (1). 

In  sua  sentenza,  l'anima  dell'uomo  (essere  spirituale)  si  unisce  al  corpo  (essere 
materiale),  poi  alla  morte  se  ne  separa,  non  già  per  proseguire  solitaria  ed  isolata 
la  sua  esistenza,  ma  per  ricongiungersi  con  un  altro  organismo  più  squisito  e  più 
perfetto,  di  cui  Dio  solo  conosce  il  secreto,  e  che  non  aveva  nessuna  radice  germinale 
nel  corpo  presente,  senza  avere  nessun  domicilio  fisso  in  qualche  astro  o  pianeta. 
L'anima  umana  è  viaggiatrice  e  peregrina  per  natura:  essa  percorre  tutta  l'infinità 
dello  spazio,  ed  ha  per  misura  l'universo.  I  pianeti  ci  attendono  l'un  dopo  l'altro. 
"  Come  mai  vi  saremo  trasportati?  Quali  sono  gli  organi  che  ci  saranno  aggiunti  ? 
Quali  percezioni  ci  daranno  essi?  fin  dove  queste  si  potranno  estendere?  È  il  secreto 
della  Divinità:  sarà  il  nostro  secreto  in  pochi  anni,  forse  in  poche  ore  „  (2).  L'autore 
immagina  che  l'anima  rivestita  di  un  involucro  assai  più  leggiero  del  pesante  orga- 
nismo corporeo  attuale,  potrà  a  suo  grado  attraversare  qua  e  là  lo  spazio,  superare 
le  distanze  in  un  batter  d'occhio  ed  essere  presente  ad  un  tempo  a  luoghi  i  più 
separati. 

Ma  quali  prove  egli  adduce  in  appoggio  della  sua  teoria?  Egli  si  abbandona  alla 
onnipotenza  e  saggia  bontà  del  Creatore  e  biasima  il  Bonnet,  che  si  è  conformato 
alla  debolezza  del  nostro  spirito  ed  al  corso  ordinario  delle  nostre  idee,  anziché  avere 
riguardo  ai  mezzi  immensi,  di  cui  Dio  può  disporre.  Ma  almeno  il  Bonnet  ha  tentato 
di  dimostrare  la  ragionevolezza  della  sua  ipotesi,  mentre  il  Keratry  si  abbandona  ad 
un  aereo  illuminismo. 

Ài  dì  nostri  T.  Enrico  Martin  pubblicava  un  volume,  intitolato  La  vita  futura,  in 
cui  ragiona  del  problema  dell'immortalità  con  profonda  penetrazione  di  mente  e  gran 
sentimento  di  verità.  Ricercando  la  ragione,  per  cui  i  corpi  viventi,  in  mezzo  alla 
continua  trasmutazione  delle  loro  molecole,  conservano  l'identità  della  loro  natura 
specifica  e  della  loro  individualità  sostanziale,  è  condotto  ad  ammettere  qualche  cosa 
a  noi  ignoto,  che  costituisce  il  loro  principio  di  identità.  Questo  qualche  cosa  è  reale, 
ed  egli  congettura,  che  questo  misterioso  principio  sia  imponderabile,  e  che  negli  esseri 
composti  di  anima  e  di  corpo,  quale  è  l'uomo,  si  trova  coll'anima  in  un  certo  rap- 
porto, il  quale  conservasi  indestruttibile,  sopravvivendo  alla  dispersione  totale  della 
materia  nella  morte,  come  sorvive  al  continuo  rinnovarsi  delle  molecole  durante  la 
vita.  Nella  sua  costante  unione  coll'anima  questo  principio  può  forse  per  volontà  del 
Creatore  ricostruire  e  riprodurre  il  corpo  distrutto. 

Sguardo  sintetico  sui  sistemi  affermativi  compiuti. 

Abbiamo  esordito  accennando  l'opinione  di  quegli  antichi  filosofi,  i  quali  ritene- 
vano che  l'anima  umana  per  sua  stessa  natura  richiede  un  organismo  corporeo  che  la 
rivesta,  e  per  conseguente  anche  nella  sua  esistenza  oltremondana  vivrà   congiunta 


(1)  Op.  cit.,  lib.  VI,  cap.  IV,  pag.  400,  2"  ediz.  Parigi  1818. 

(2)  Pag.  429,  430. 


38  GIUSEPPE    ALLIEVO 

con  un  involucro  materiale.  Ma  in  che  modo  queste  due  sostanze  disgiunte  dalla 
morte  si  ricongiungeranno  insieme  a  vita  novella?  Quei  pensatori  non  proposero  una 
teoria  speciale,  che  risponda  a  tale  inchiesta. 

Nella  storia  dell'antica  sapienza  la  metempsicosi  apparisce  un  primo  tentativo 
per  risolvere  il  problema  della  vita  futura.  La  metempsicosi  fu  una  credenza  religiosa 
professata  da  quasi  tutti  i  popoli  dell'antico  Oriente,  ed  ancora  oggidì  è  seguita  dagli 
Indiani  della  riva  del  Gange  e  dalla  gente  Chinese  ;  e  quella  credenza  fu  trasformata 
in  una  dottrina  filosofica  dai  pensatori  dell'antica  Grecia,  Pitagora,  Empedocle,  Pla- 
tone, poi  penetrò  nella  letteratura  latina,  segnatamente  presso  Virgilio  ed  Ovidio,  che 
fu  appellato  il  poeta  della  metempsicosi.  Il  concetto  fondamentale,  che  la  informa,  è 
l'immortalità  dell'anima,  la  quale  passa  di  corpo  in  corpo  in  punizione  ed  in  ricom- 
pensa delle  sue  cattive  o  buone  azioni;  e  la  critica  accoglie  come  razionale  e  giusto 
questo  concetto  dell'anima  immortale  e  moralmente  responsabile  del  proprio  operare; 
ma  non  può  egualmente  ammettere  il  migrare  dell'anima  in  corpi  di  animali  irragio- 
nevoli e  bruti,  siccome  quelli,  che  ripugnano  alla  natura  intelligente  e  libera  dell'anima 
umana  e  ne  deturpano  la  dignità  e  l'eccellenza  con  una  specie  di  brutale  ibridismo. 

La  dottrina  platonica  professata  da  Virgilio  e  riprodotta  nella  Divina  Commedia, 
che  l'anima  separata  dal  corpo  attuale  informi  l'aria  che  la  circonda  e  se  ne  com- 
ponga un  involucro  materiale,  se  per  una  parte  riconosce  giustamente  il  potere,  che 
essa  esercita  sul  mondo  corporeo,  per  l'altra  mostrasi  insufficiente  in  quantochè  questo 
involucro  prettamente  etereo  ed  inconsistente  non  può  tener  luogo  di  quell'organismo 
corporeo  saldo  e  perfetto,  con  cui  l'anima  deve  tutta  quanta  compenetrarsi  sino  a 
convivere  insieme.  L'unione  delle  due  sostanze  riesce  meramente  esteriore. 

La  teoria  del  Bonnet  e  del  Turlot  è  assai  più  soddisfacente  delle  dottrine  pre- 
cedenti, e  sebbene  non  sia  confortata  da  argomenti  cos'i  saldi  e  rigorosi,  da  uscire 
dal  campo  della  probabilità  ed  essere  accolta  come  una  verità  dimostrata,  tuttavia 
possiede  alcuni  concetti  giusti  e  meritevoli  di  considerazione.  Poiché  qui  è  essenzial- 
mente riconosciuta  l'intima  unione  tra  l'anima  ed  il  corpo  e  la  continuità  tra  la  vita 
presente  e  la  futura,  essendoché  l'organismo  corporeo,  con  cui  l'anima  si  congiungerà 
nell'esistenza  oltremondana,  già  aveva  il  suo  germe  latente  nel  suo  attuale  organismo. 
Anche  la  memoria  del  passato,  che  è  una  delle  condizioni  della  vita  futura,  trova 
suo  luogo  in  questa  teoria,  perchè  le  impressioni,  che  riceviamo  nel  mondo  presente, 
sono  conservate  in  quel  corpicciuolo  impercettibile  della  massa  cerebrale,  dove  l'anima 
ha  la  sua  sede.  Il  concetto  del  Bonnet,  il  quale  ammette  esistente  nella  massa  ce- 
rebrale un  corpicciuolo  sottilissimo,  etereo,  impercettibile,  siccome  punto  centrale,  in 
cui  vanno  a  riunirsi  tutte  le  vibrazioni  e  le  impressioni,  che  ci  vengono  dal  di  fuori, 
si  collega  col  pronunciato  della  moderna  fisiologia,  la  quale  riguarda  il  sistema  ner- 
voso siccome  l'organo  essenziale  della  vita  sensitiva  ed  intellettiva,  posto  in  contatto 
immediato  e  diretto  coll'anima  e  lo  riconduce  tutto  quanto  ad  un  punto  cerebrale, 
da  cui  muovono  ed  in  cui  si  riuniscono  tutti  quanti  i  nervi  sparsi  per  la  compagine 
dell'organismo  corporeo.  Similmente  il  concetto  dell'atomo  organico,  ammesso  dal 
Turlot,  trova  il  suo  riscontro  nella  moderna  teoria  de'  microbi,  i  quali  altro  non  sono 
che  organismi  impercettibili,  ossia  atomi  di  materia  vivente,  organica  ed  animata. 
Però  la  dottrina  degli  atomi  vuoi  organici,  vuoi  inorganici,  è  assai  controversa  e 
dibattuta  dalla  critica  sia  nella  storia  della  filosofia,  sia  nelle  scienze  naturali,  perchè 


LA    VITA    OLTREMONDANA  39 

sta  implicata  nella  questione  sempre  agitata  e  non  ancora  risolta,  se  la  materia  sia 
divisibile  all'infinito,  senza  mai  incontrare  un  punto,  a  cui  si  arresti,  oppure  finisca 
in  elementi  semplici  ed  indecomponibili,  quali  appunto  si  suppongono  gli  atomi. 

Venendo  per  ultimo  al  principio  di  identità,  mercè  di  cui  il  Martin  risolve  il  pro- 
blema della  vita  futura,  esso  è  certamente  un  concetto  giusto,  originale,  fornito  di 
valore  scientifico  e  fecondo  di  sviluppo,  quando  esso  sia  preso  in  se  stesso  ;  ma  l'au- 
tore applicandolo  al  proposto  problema,  lascia  sussistere  il  dubbio,  se  esso  risieda 
nell'anima  stessa,  oppure  costituisca  un  principio  distinto,  che  collega  l'anima  coll'or- 
ganismo  corporeo,  una  specie  di  forza  vitale,  che  pervade  l'organismo  e  lo  conserva  so- 
stanzialmente identico  fra  i  suoi  continui  cangiamenti. 

Quale  conclusione  scaturisce  da  questo  rapido  sguardo  sintetico  intorno  i  sistemi 
affermativi  compiuti?  Essi  sono  concordi  nell'ammettere  l'immortalità  dell'io  individuo 
umano  nella  sua  duplice  vita  corporea  e  mentale;  e  questa  è  una  verità,  che  conforta 
l'animo  di  tutti  coloro,  che  pensano  in  sul  serio  alle  sorti  finali,  che  ci  attendono. 
Ma  quale  sarà  la  nuova  forma  della  nostra  vita  oltremondana,  e  quale  nuovo  vincolo 
ricongiungerà  insieme  l'anima  ed  il  corpo?  In  riguardo  a  questo  gran  punto  noi  ci 
troviamo  avvolti  in  mezzo  ad  ipotesi  controverse,  ad  incertezze,  ad  opinioni  mal 
ferme,  a  difficoltà  gravissime,  non  abbiamo  nulla  di  rigorosamente  dimostrato  e  certo; 
e  questa  incertezza  ci  sconforta  assai,  perchè  ci  sta  tanto  a  cuore  ed  immensamente 
ci  interessa  di  sapere  come  vivremo  la  vita.  Se  ignoriamo  il  nostro  dimani,  non  è 
forse  soverchia  pretesa  il  voler  conoscere  in  modo  lucido  e  sicuro  la  nostra  nuova 
esistenza  attraverso  l'infinita  durata  del  tempo?  Eppure  non  giungeremo  mai  a  questa 
nitida  e  sospirata  conoscenza?  Sì  certamente  :  ognuno  di  noi  porta  dentro  di  sé,  nel- 
l'intimo dell'animo  il  problema  della  sua  destinazione  oltremondana,  ed  ognuno  ha  il 
suo  giorno,  la  sua  ora,  in  cui  questo  problema  se  lo  vedrà  risolversi  da  sé,  quando  la 
mano  della  morte  straccierà  il  velo,  che  ricopre  il  mistero. 


Sistemi  affermativi  incompiuti. 

Questi  sistemi  ammettono  l'immortalità,  ma  la  riguardano  come  una  prerogativa 
propria  dell'anima,  e  non  come  una  proprietà  essenziale  all'organismo  corporeo,  con 
cui  è  congiunta.  Quindi  essi  derivano  le  prove  dell'immortalità  dell'anima  esclusiva- 
mente dalla  sua  natura  spirituale,  non  tenendo  nessun  conto  del  corpo,  come  se  essa 
non  potesse  partecipare  alla  vita  futura  se  non  a  condizione  che  si  svincoli  dall'ani- 
malità e  l'organismo  dovesse  venire  rimosso  come  un  impedimento.  I  seguaci  di  questi 
sistemi  partono  da  un  erroneo  concetto  dell'anima  umana,  la  quale  non  è  esclusiva- 
mente spirituale,  ma  altresì  essenzialmente  sensitiva  :  la  sensitività  animale  è  tanto 
necessaria  alla  sua  natura,  quanto  la  stessa  spiritualità.  Togliete  ad  essa  la  sua  virtù 
sensitiva,  e  voi  la  avrete  convertita  in  un  puro  spirito,  avrete  alterata  la  sua  natura. 
Quindi  consegue  che  l'anima  riunisce  in  sé  la  duplice  vita,  fisica  e  spirituale  ;  e  questa 
duplice  vita  le  è  essenziale  tanto  nella  presente  esistenza,  quanto  nella  oltremondana, 
perchè  la  natura  dell'anima  non  va  alterata. 

È  un  fatto  incontrastabile  ed  evidente,  che  nella  nostra  vita  presente  l'organismo 
corporeo  col  suo  sistema  nervoso  e  coll'attività  de'  suoi  sensi  fisici  contribuisce  essen- 


40  GIUSEPPE    ALLIEVO 

zialmente  a  svolgere  le  facoltà  spirituali  del  pensare  e  del  volere,  sicché  il  cooperare 
vicendevole  di  queste  sostanze  è  tanto  intimo,  che  le  due  vite  si  compenetrano  senza 
confondersi  nell'unità  dell'io.  L'anima  vive  nell'organismo  corporeo  informandolo  ed 
atteggiandolo  colla  sua  virtù,  ed  alla  loro  volta  i  pensieri,  i  desiderii,  le  voglie  del- 
l'anima vivono  in  immagini  empiriche,  in  movimenti  de'  sensi.  Sono  per  cosi  dire  due 
esistenze,  i  cui  destini  stanno  insieme  stretti  da  un  vincolo  indissolubile.  L'anima 
riguarda  il  corpo  non  come  un  estraneo,  che  incontra  per  via,  ma  come  un  compagno, 
che  è  cresciuto  con  lei,  che  ha  diviso  con  lei  le  lotte  dell'esistenza,  le  gioie  ed  i  do- 
lori della  vita,  e  quando  interviene  la  morte,  essa  sente  tutta  l'amarezza  del  distacco, 
gli  augura  il  riposo  del  sepolcro,  quasi  dicendogli:  a  rivederci  in  altre  regioni,  sotto 
altro  cielo.  Cosi  nella  Basvilliana,  di  Vincenzo  Monti,  l'anima  di  Ugo  Basville  stac- 
casi dal  corpo  suo: 

Dormi  in  pace,  dicendo,  o  di  mie  pene 
Caro  compagno,  insin  che  del  gran  die 
L'orrido  squillo  a  risvegliar  ti  viene. 

Un  erroneo  concetto  dell'unione  tra  l'anima  ed  il  corpo  può  condurre  a  filo  di 
logica  alla  dottrina  dell'anima  separata,  propria  di  questi  sistemi  incompiuti  ed  esclu- 
sivi. Se  noi  ammettiamo  con  Platone,  che  l'unione  tra  queste  due  sostanze  è  analoga 
a  quella,  che  passa  tra  un  nocchiero  e  la  nave,  allora  siamo  portati  a  concepire  la 
vita  futura  dell'anima  siccome  solitaria  e  separata  dal  corpo.  Poiché  l'unione  tra  il 
nocchiero  e  la  nave  non  è  intima  ed  operosa,  ma  meramente  estrinseca,  non  è  essen- 
ziale, ma  accidentale;  la  nave  non  esercita  nessuna  attività  sul  nocchiero,  ed  il  noc- 
chiero le  si  accosta,  o  se  ne  stacca  secondo  il  bisogno  e  l'opportunità  del  momento, 
quindi  non  formano  un  essere  unico  ed  individuo,  mentre  l'anima  ed  il  corpo  si  com- 
penetrano insieme  sino  a  costruire  l'unità  personale  individua  dell'io  umano.  Così 
l'anima  alla  morte  del  corpo  se  ne  stacca  e  vive  separata  da  se  (1).  Inoltre  Platone 
riguarda  il  corpo  siccome  un  carcere,  in  cui  l'anima  umana  fu  rinchiusa  in  punizione 
del  suo  fallo,  epperò  l'unione  tra  l'una  e  l'altro  viene  ad  essere  uno  stato  anormale, 
violento  e  contrario  alla  natura  stessa  dell'anima,  e  la  morte  riesce  una  liberazione 
da  un'abborrita  prigione.  L'anima  separata  nella  vita  futura  è  una  necessaria  conse- 
guenza di  tale  concetto  antropologico. 

L'evoluzionismo  concepito  da  alcuni  suoi  seguaci  in  senso  esclusivamente  spiri- 
tualistico e  metafisico  li  ha  portati  ad  ammettere  l'anima  separata  da  ogni  organismo 
corporeo  nella  sua  esistenza  oltremondana.  Il  progresso  continuo,  infinito,  dall'imper- 
fetto al  perfetto  è,  secondo  questa  dottrina,  la  legge  suprema  della  natura,  la  quale 
procedendo  per  questa  via  ha  trasformate  le  specie  inferiori  degli  esseri  in  ispecie 
superiori  sempre  più  perfette.  L'uomo  è  il  capolavoro  della  natura:  la  natura  ha 
formato  l'uomo  compendiando  in  lui  tutto  il  lavorio  da  essa  compiuto  attraverso  la 
serie  successiva  di  tutte  le  sue  metamorfosi  dagli  esseri  infimi  più  imperfetti  sino  a 


(1)  L'idea  dell'anima,  che  esce  solitaria  e  scompagnata  dal  suo  organismo  per  vivere  una  vita 
separata,  si  scorge  poeticamente  espressa  nei  versetti  dell'imperatore  Adriano  superiormente  citati 
a  pag.  2,  dove  l'anima  'e  appellata  nudula,  cioè  spoglia  del  suo  materiale  ammanto  ed  isolata  dal 
corpo,  già  suo  ospite  e  compagno. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  41 

lui.  Ma  lo  sviluppo  progressivo  della  vita  umana  non  si  arresta  quaggiù:  la  terra 
non  segna  l'ultimo  limite  del  suo  perfezionamento.  Il  campo  di  attività  dell'anima 
umana  si  stende  per  tutta  la  immensa  distesa  dei  mondi,  rivestendo  nuovi  e  sempre 
più  perfetti  organismi.  La  terra  è  scala  al  cielo,  e  nel  cielo  si  chiude  il  ciclo  della 
perfezione  umana.  Noi  siamo  passeggieri  quaggiù  ;  e  per  quantunque  meravigliosa  e 
stupenda  apparisca  la  struttura  del  nostro  attuale  organismo,  pure  l'anima  è  ancora 
in  balìa  de'  sensi  ;  essa  non  avrà  raggiunto  l'ultimo  stadio  del  suo  perfezionamento 
se  non  allora  quando  si  sarà  del  tutto  svincolata  dagli  istinti  dell'animalità. 

Il  cielo  è  la  vera  sede  suprema  dell'anima  umana:  colà  soltanto  può  toccare 
l'apogeo  della  sua  grandezza,  conquistare  tutta  la  nobiltà,  che  le  spetta.  Così  l'uomo 
ne' 8uoi  primordii  sN  confondeva  cogli  esseri  più  infimi  e  più  imperfetti  della  natura 
materiale,  giaceva  nei  più  bassi  fondi  della  terra:  ora  è  in  cielo,  ha  deposto  il  suo 
involucro  materiale,  non  ha  più  bisogno  dell'aiuto  de' sensi,  si  è  spiritualizzato,  è 
tutto  anima,  nient'altro  che  mente,  è  uno  spirito,  la  cui  purezza  non  è  più  offuscata 
da  nessun  contatto  colla  materia.  Però  anche  in  questa  nobilissima  e  suprema  tras- 
formazione egli  è  sempre  lui  ;  sebbene  partecipi  della  natura  angelica,  rimane  pur 
sempre  uomo.  L'organismo  corporeo  non  fa  parte  necessaria  della  natura  umana, 
come  l'universo  non  fa  parte  della  natura  di  Dio.  Gli  angeli  e  le  creature  celesti 
sono  esseri,  che  ci  hanno  preceduto  lungo  l'infinita  via  della  perfezione,  e  non  ci 
sono  ragioni,  per  cui  dobbiamo  arrestarci  allo  stato  di  quaggiù.  L'anima  separata 
nella  sua  esistenza  oltremondana,  ecco  la  final  conclusione  di  questo  evoluzionismo 
esposto  nell'opera  Terra  e  Cielo  di  Giovanni  Reynaud. 

È  grandiosa,  è  seducente,  è  poetica  questa  teoria,  ma  troppo  più  poetica,  che 
scientifica,  più  immaginosa,  che  razionale.  Essa  posa  tutta  quanta  sul  supposto  prin- 
cipio della  trasformazione  radicale  delle  specie  per  via  di  una  graduale  evoluzione 
progressiva;  ma  questo  principio  è  una  mera  ipotesi,  non  una  verità  dimostrata,  è 
una  asserzione  non  confortata  ne  dall'osservazione,  né  dal  ragionamento.  Infatti  se 
le  specie  degli  esseri  inferiori  si  fossero  davvero  trasformate  nelle  superiori,  avreb- 
bero per  ciò  stesso  cessato  di  esistere  e  sarebbero  scomparse  dal  teatro  della  natura 
vivente,  mentre  l'osservazione  ci  attesta  che  le  specie  imperfette  sussistono  tuttora 
accanto  alle  più  perfette  nella  gerarchia  universale  degli  esseri.  Anche  il  ragiona- 
mento sta  in  contrario,  poiché  o  la  specie  inferiore  contiene  in  se  il  germe,  che  si 
svolgerà  nella  specie  immediatamente  superiore,  o  no;  nel  primo  caso  il  vegetale  par- 
teciperebbe altresì  della  natura  animale,  e  non  sarebbe  più  specificamente  vegetale 
nel  vero  e  proprio  senso  della  parola;  nel  secondo  caso  lo  svolgimento  è  impossibile, 
perchè  dal  nulla  esce  nulla. 

Un'  altra  considerazione  riguarda  la  legge  del  progresso  continuo  indefinito  della 
natura  quale  è  inteso  dal  Reynaud.  Se  questo  progresso  non  riconosce  limiti,  perchè 
riguardare  la  spiritualizzazione  dell'uomo  nella  vita  oltremondana  siccome  il  punto 
più  sublime  a  cui  deve  arrestarsi  il  suo  perfezionamento  ?  Perchè  non  escogitare  un 
altro  ideale  di  perfezione  più  elevato?  Perchè  attribuire  la  perfezione  finale  esclusi- 
vamente all'anima  dell'uomo  e  negarla  al  corpo?  Forsechè  anche  il  suo  organismo 
corporeo  non  poteva  progredire  ad  una  forma  di  sviluppo  superiore  all'attuale  e 
corrispondente  al  perfezionamento  dell'anima?  Se  il  campo  di  attività  dell'anima  si 
stende  per  tutti  i  mondi  dell'universo,  essa  dovrebbe  pur  sempre  possedere  un  orga- 

Serik  II.  Tom.  LUI.  6 


42  GIUSEPPE    ALLIEVO 

nismo  corporeo  per  sentirli  questi  mondi  ed  acquistarne  una  vita  più  ampia  e  più 
intensa.  L'uomo  ha  abbandonato  la  terra,  ha  conquistato  il  cielo,  ma  ha  perduto  una 
parte  essenziale  di  se  medesimo.  Invano  si  asserisce,  che  l'uomo  spiritualizzato,  seb- 
bene partecipi  della  natura  angelica,  rimane  sempre  lui  :  il  vero  si  è,  che  la  sua  na- 
tura viene  alterata,  mutilata.  L'uomo  destituito  di  corpo  non  è  più  uomo,  come  non 
lo  sarebbe  senza  spirito:  esso  non  è  ne  un  angelo,  ne  un  bruto,  ma  una  vivente  armonia 
di  spirito  e  di  materia:  tale  è  la  sua  costitutiva  natura. 

Il  nostro  evoluzionista  ha  cercato  le  prime  origini  dell'uomo  nei  bassi  fondi  della 
natura  materiale,  dove  non  poteva  trovarsi,  ha  additato  la  sua  finale  destinazione 
in  un  cielo,  dove  non  è  più.  Ha  cominciato  coll'abbassarlo  al  di  sotto  della  sua  nobil 
natura,  ha  finito  coll'esaltarlo  troppo  sino  a  confonderlo  coli' angelo.  La  verità  non 
trascorre  sino  agli  estremi,  ma  si  adagia  nel  giusto  punto  di  mezzo.  Malgrado  però 
queste  censure  la  critica  riconosce  in  questa  dottrina  una  certa  impronta  di  spiritua- 
lismo, che  la  nobilita,  la  solleva  al  di  sopra  di  tante  altre  teorie,  le  quali  rassegnano 
l'uomo  tra  i  bruti,  affogando  negli  istinti  animali  la  libertà  del  volere,  il  sentimento 
morale  e  religioso.  Il  progresso  continuo  della  natura  ci  porta  all'infinitamente  grande, 
l'universo,  come  la  divisibilità  continua  della  materia  conduce  all'infinitamente  pic- 
colo, l'atomo. 

Abbiamo  cominciato  lo  studio  dei  sistemi  affermativi  incompiuti  esaminando  il 
concetto  psicologico  di  quei  filosofi,  i  quali  ripongono  tutta  l'essenza  costitutiva  del- 
l'anima umana  nella  pura  e  mera  spiritualità,  riguardando  la  sensibilità  animale  sic- 
come accidentale  alla  sua  natura,  e  quindi  abbiamo  veduta  la  ragione,  per  cui  essi 
riuscirono  ad  ammettere  l'anima  separata  dal  corpo  nella  vita  futura.  Ora  ci  si  pre- 
senta al  nostro  esame  un  concetto  psicologico  ben  diverso  e  contrario,  che  nella  storia 
della  filosofia  si  è  propagato  dai  tempi  antichi  fino  a  noi,  voglio  dire  il  concetto 
dell'anima  riguardata  come  la  forma  del  corpo.  S'intende  da  se,  che  qui  il  vocabolo 
forma  non  è  preso  nel  senso  del  linguaggio  moderno  siccome  la  figura,  che  presenta 
il  corpo  nel  suo  organismo,  bensì  nel  senso  antico  latino,  siccome  il  principio  infor- 
matore e  vivificatore  del  corpo,  il  principio  cioè,  l'energia,  a  cui  il  corpo  deve  il  suo 
organismo  vivo  ed  operoso,  giusta  la  sentenza  "  forma  est,  quod  dat  esse  rei  „.  Tale 
è  il  concetto  psicologico  di  Aristotele.  Egli  definisce  l'anima  il  principio  vitale  di  un 
corpo  naturale  organico,  quindi  nella  sua  teoria  appartiene  all'essenza  dell'anima  l'in- 
formare un  organismo  corporeo,  come  appartiene  all'essenza  di  un  corpo  organico 
l'esserne  avvivato.  Un'  anima  separata  dal  corpo  perderebbe  la  sua  essenza,  non  sa- 
rebbe più  anima,  non  sussisterebbe  più  :  il  simigliante  accadrebbe  ad  un  corpo  sepa- 
rato dall'anima,  non  sarebbe  più  organico,  non  vivrebbe  più.  Perciò  l'anima  ed  il 
corpo,  la  forza  vitale  e  la  materia  organica  sono  due  entità  distinte,  ma  inseparabili  ; 
l'una  non  è  l'altra,  ma  Luna  non  può  stare  senza  l'altra.  La  conseguenza,  che  deriva 
da  questa  teoria  in  riguardo  alla  vita  futura,  si  manifesta  da  se:  o  l'anima  cessa  di 
esistere  alla  morte  del  corpo,  e  allora  anche  il  corpo  finisce,  o  continua  a  sussistere, 
ed  anche  allora  informerà  un  organismo  corporeo:  in  altri  termini,  o  l'anima  incor- 
porata anche  nella  vita  futura,  o  non  più  anima;  o  l'immortalità  di  tutto  1  io  umano, 
o  nessuna  immortalità.  Aristotele  non  ammette  esplicitamente  l'immortalità  dell'io 
umano  ;  è  bensì  vero  che  attribuisce  all'anima  umana  la  facoltà  razionale,  e  sostiene 
che  la  ragione  per  sua  stessa  natura  è  eterna  e  non  muore  mai,  ma  questa  ragione, 


LA    VITA    OLTREMONDANA  43 

di  cui  proclama  l'immortalità,  non  è  la  ragione  umana  propria  di  ciascuno  di  noi, 
bensì  la  ragione  divina  ed  universale. 

Questo  concetto  aristotelico  dell'anima,  forma  del  corpo,  fu  seguito,  discusso  ed 
ampiamente  disvolto  dalla  filosofia  scolastica,  ma  invece  di  accettarne  la  conclusione, 
che  ne  fluiva  a  filo  di  logica,  essa  si  mise  in  contraddizione  con  se  medesima  e  si 
impigliò  in  difficoltà  inestricabili.  Gli  Scolastici  da  un  lato  consentivano  con  Aristo- 
tele, che  l'anima  umana  è  forma  del  corpo,  dall'altro  professavano  la  dottrina  del- 
l'anima separata  dal  corpo  nella  vita  futura,  ecco  la  contraddizione.  Se  appartiene 
all'essenza  dell'anima  l'informare  un  corpo,  come  mai  potrà  continuare  la  sua  vita 
separata  da  esso?  Ecco  la  difficoltà.  Essi  riconoscevano,  è  vero,  le  facoltà  razionali 
dell'anima  umana,  che  costituiscono  la  sua  natura  spirituale,  e  di  qui  argomentarono 
la  sua  immortalità,  ma  dacché  la  riguardavano  siccome  forma  o  principio  animatore 
del  corpo,  ciò  vuol  dire,  che  consideravano  siccome  essenziale  all'anima  non  la  sola 
spiritualità,  ma  altresì  la  sensitività  corporea  e  le  ritenevano  inseparabili  l'una  dal- 
l'altra. L'anima  non  può  perdere  uno  di  questi  suoi  elementi  costitutivi  senza  smarrire 
anche  l'altro,  non  sarebbe  più  anima  umana,  ma  spirito  puro. 

Lucrezio  seguendo  le  traccie  di  Epicuro  si  argomenta  di  dimostrare  la  mortalità 
dell'anima,  muovendo  dal  concetto  che  essa  conferisce  al  corpo  la  sua  virtù  sensitiva, 
ma  alla  sua  volta  e  per  se  stessa,  quando  sia  scissa  dal  corpo,  perde  ogni  sentire, 
e  quindi  perisce  coll'organismo  corporeo  disciolto.  Ne  il  corpo  può  sentire  senza 
l'anima,  ne  questa  senza  di  quello  (1).  Quest'argomentazione  epicureistica  perde  ogni 
valore,  anzi  non  ha  più  ragione,  quando  si  ammetta  con  noi  la  inseparabilità  del- 
l'anima dal  corpo  anche  nella  vita  futura  sebbene  sotto  nuova  forma,  ossia  la  duplice 
vita  dell'io  umano,  fisica  e  mentale. 

Giova  disaminare  in  quale  guisa  il  principe  della  Scolastica,  San  Tommaso,  si 
argomenti  a  dimostrare  la  sua  dottrina  dell'anima  separata  nell'esistenza  oltremon- 
dana. Egli  definisce  l'anima  umana  "  intellectualis  substantia  corpori  unita  ut  forma  „ 
(S.  e.  g.  II,  e.  68);  e  bene  sta:  con  ciò  egli  riconosce  nell'essenza  di  essa  la  spiritualità 
e  la  sensitività.  Riconferma  questo  suo  concetto  scrivendo:  "  Corpus  non  est  de  essentia 
animae,  sed  anima  ex  natura  suae  essentiae  habet  quod  sit  corpori  unibilis  „  (S.  Th.,  I, 
qu.  75,  art.  7,  ad  3m),  ed  aggiunge  che  "  si  anima  non  esset  corpori  unibilis,  tunc 
esset  alterius  naturae  „  (II,  Dist.  I,  qu.  2,  art.  4,  lm):  è  una  verità  anche  questa,  con 
cui  si  pone  che  l'anima  non  solo  è  distinta  dal  corpo,  ma  che  ad  un  tempo  non 
potrebb'esserne  separata  senza  perdere  la  propria  natura.  Ma  come  e  fino  a  che  segno 


(1)  At  neque  seorsum  oouli,  neque  nares,  nec  manus  ipsa 

Esse  potest  anima,  neque  seorsum  lingua,  nec  aures 
Absque  anima  per  se  possunt  sentire,  nec  esse. 
Et  quoniam  toto  sentimus  corpore  inesse 
Vitalem  sensum,  et  totum  esse  animale  videmus, 
Si  subito  medium  celeri  praeciderit  ictu 
Vis  aliqua,  et  seorsum  partem  secernat  utramque  ; 
Dispertita  procul  dubio  quoque  vis  animai, 
Et  discissa  simul  cum  corpore  disiicietur; 
At  quod  scinditur,  et  porteis  discedit  in  ullas, 
Scilicet  aeternam  sibi  naturam  abnuit  esse. 

(De  rerum  natura,  lib.  3,  versi  630-641). 


44  GIUSEPPE    ALLIEVO 

essa  dipende  dal  corpo?  Questa  sua  dipendenza  è  proprio  assoluta  sicché  senza  di 
esso  non  possa  sussistere  in  verun  modo?  Ecco  il  punto  della  questione,  che  si 
tratta  di  discutere. 

Secondo  il  nostro  filosofo,  l'anima  dipende  dal  corpo  in  quanto  che  separata  da 
esso  non  rappresenta  più  la  specie  umana,  in  cui  trova  la  sua  naturale  perfezione, 
bensì  una  parte  soltanto  di  esso,  ma  non  ne  dipende  al  punto  da  non  poter  esistere 
senza  di  esso.  L'anima  può  sussistere  per  se,  ma  per  se  non  possiede  la  perfezione 
propria  della  sua  natura,  se  non  è  unita  col  corpo.  Essa  è  bensì  una  forma  semplice, 
come  l'angelo,  ma  non  riceve  l'essere  suo  proprio  se  non  nel  corpo  (1).  In  tutti  questi 
pronunciati  si  asserisce,  ma  non  si  dimostra  punto,  che  l'anima  possa  effettivamente 
sussistere  separata  dal  corpo  e  mantenere  inalterata  la  sua  specifica  natura;  che  anzi 
dal  loro  logico  costrutto  dirittamente  si  argomenta  la  proposizione  contraria.  Infatti 
se  essa  non  è  una  natura  angelica,  ma  riceve  il  suo  essere  nel  corpo,  se  è  nata  fatta 
per  comporre  con  esso  la  specie  umana  per  guisa  che  senza  questo  suo  congiungi- 
mento sarebbe  di  altra  naturai  ne  consegue  che  isolata  e  scissa  da  ogni  commercio 
coll'organismo  corporeo  non  solo  non  avrebbe  ragion  di  esistere,  perchè  fallirebbe  alla 
sua  propria  natura  e  rimarrebbe  mutilata,  ma  non  esisterebbe  di  fatto.  Noi  possiamo 
bensì  in  virtù  dell'astrazione  separare  nella  specie  umana  l'anima  dal  corpo  e  con- 
siderarle disgiuntamente;  ma  alla  nostra  astrazione  non  risponderebbe  la  realtà: 
avremmo  davanti  a  noi  non  un'anima  sussistente  e  viva  in  natura,  ma  una  mera  entità 
astratta.  Il  nostro  filosofo  con  un  ingegnoso  sforzo  di  mente  tenta  di  dimostrare,  che 
l'anima  anche  separata  dal  corpo  suo,  conserva  pur  sempre  l'attitudine  e  la  inclina- 
zione a  ricongiungersi  con  esso,  opperò  può  continuare  ad  esistere  quantunque  non  ne 
sia  la  forma  in  atto,  senza  perdere  la  sua  natura  (2).  Questa  distinzione  tra  la  pos- 
sibilità che  ha  l'anima  di  essere  congiunta  col  corpo  ed  il  suo  attuale  congiungimento, 
tra  la  sua  attitudine  e  tendenza  ad  informarlo  e  lo  informarlo  di  fatto,  è  ingegnosa 
e  sottile,  ma  fallisce  al  suo  intento,  conduce  ad  un'anima  meramente  possibile,  ma 
non  sussistente.  Egli  stesso  ha  definito  l'anima  umana  non  una  sostanza  intelligente, 
che  può  essere  congiunta  col  corpo,  siccome  forma,  bensì  che  è  "  corpori  unita,  ut 
forma  „.  Non  ci  fu  tempo,  in  cui  essa  fosse  solamente  in  potenza  ad  informare  il  corpo, 
ma  ne  fu  la  forma  sostanziale  fin  dal  primo  punto  della  sua  esistenza;  epperò  lo 
debb'essere  in  tutta  la  sua  durata.  In  breve,  appartiene  all'essenza  dell'anima  umana 
l'informare  effettivamente  il  corpo  suo,  epperò  essa  non  può  esistere,  quando  questa 


(1)  "  Anima  aliquam  dependentiam  habet  ad  corpus,  in  quantum  aine  corpore  non  pertingit 
ad  complementum  suae  speciei,  non  tamen  dependet  a  corpore ,  quin  sine  corpore  esse  possit  , 
(De  anima,  art.  1  ad  12m).  —  *  Licet  anima  humana  per  se  possit  subsistere ,  non  tamen  per  se 
habet  speciem  completam  „  (Ibid-,  ad  4m).  —  "  Anima  cum  sit  pars  humanae  naturae ,  non  habet 
perfectionem  suae  naturae  nisi  in  unione  ad  corpus  „  (De  spirti,  creat.,  art.  2,  5m.  ld.,  Stimma  Th.,  1, 
q.  90,  art.  4,  e).  —  "  Etsi  (anima)  possit  per  se  subsistere,  non  tamen  habet  speciem  completam, 
sed  corpus  advenit  ei  ad  complementum  speciei  ,  (De  anima,  art.  4  ad  lm).  —  "  Quamvis  anima 
sit  forma  simplex,  sicut  et  angelus,  tamen  non  recipit  esse,  nisi  in  corpore  „  (S.  Th.,  I,  qu.  90, 
art.  4,  e). 

(2)  "  Corrupto  corpore,  non  perit  ab  anima  natura,  secundum  quam  competit  ei,  ut  sit  forma, 
licet  non  perficiat  materiam  aetu,  ut  sit  forma  ,  (De  anima,  art.  1,  ad  lm).  —  "  Anima  humana  manet 
in  suo  esse,  cum  fuerit  a  corpore  separata,  habens  aptitudinem  et  inclinationem  naturalem  ad  cor- 
poris  unionem  „  (S.  Th.,  I,  qu.  76,  art.  1,  ad  6m). 


LA    VITA    OLTREMONDANA  45 

sua  virtù  informativa  cessi  di  fatto  o  si  supponga  meramente  possibile.  Alessio  Lé- 
picier  nella  sua  opera  Uno  sguardo  al  di  là  della  tomba,  a  pag.  62  si  argomenta  di 
risolvere  la  difficoltà,  che  presenta  la  dottrina  di  S.  Tommaso  su  questo  punto,  ma 
la  sua  difesa  non  regge,  dacché  egli  stesso  a  pag.  66  dichiara  che  "  l'anima  separata 
dal  corpo,  trovasi  in  uno  stato  preternaturale,  direi  quasi  contro  natura  „,  citando 
S.  Tommaso  (1). 

Questo  concetto  dell'anima  riguardata  siccome  la  forma  sostanziale  del  corpo, 
che  Aristotele  pose  a  fondamento  della  sua  dottrina  psicologica,  assai  prima  di 
lui  era  già  stato  intuito  dagli  antichi  filosofi  sotto  il  suo  amplissimo  ed  universale 
aspetto  e  riguardato  come  il  più  elevato  principio  filosofico  spiegativo  dell'universo. 
Abbracciando  in  un  solo  concetto  lo  spirito  e  la  materia,  essi  si  innalzarono  col  pen- 
siero dalle  anime  particolari  all'anima  universale  del  mondo,  dai  corpi  particolari,  alla 
materia  universale.  Essi  facevano  differenza  tra  la  materia  pura,  universale,  ed  i 
corpi  particolari,  che  cadono  sotto  i  nostri  sensi:  quella  esiste  per  sé  stessa,  ed  è 
sostanza,  che  conservasi  incorrotta,  inalterabile,  immortale,  questi  si  corrompono,  mu- 
tano forma,  atteggiamento,  positura,  compaiono  e  scompaiono.  Pei  Pitagorici  (secondo 
Alessandro  presso  Diogene  Laerzio)  la  materia  prima  ed  originaria  è  l'etere,  di  cui 
scrive  Cicerone  nel  De  natura  Deorum  (2),  e  che  veniva  riguardato  siccome  una  so- 
stanza ignea,  un  fuoco  sottilissimo,  uno  spirito,  che  penetra  in  tutti  quanti  gli  esseri 
corporei  e  vi  diffonde  la  vita  animandoli,  opperò  fu  detto  anima  del  mondo;  anima 
universale,  di  cui  le  anime  particolari  dei  singoli  viventi  sono  altrettante  emanazioni, 
corruscazioni,  irraggiamenti.  Queste  anime  emanate  dall'anima  del  mondo,  ossia 
dall'etere  supremo,  costituiscono  appunto  quel  corpo  sottile  ed  invisibile,  che  avvi- 
luppa e  circonda  le  sostanze  intelligenti  qualichesiano,  la  mente  dell'uomo,  i  demoni, 
i  genii,  gli  eroi.  Non  sono  materiali,  come  i  corpi  grossolani,  che  cadono  sotto  i  sensi, 
ma  neanco  sono  identici  alla  sostanza  intelligente,  sono  alcunché  di  incorporeo  come 
l'etere  animatore  del  mondo  (3).  Quest'etere  universale  avviluppa  altresì  la  mente 
divina,  è  il  suo  gran  corpo,  che  essa  muove  ed  adopera  come  strumento  per  operare 
sul  mondo,  diffondervi  e  mantenervi  la  vita  (4),  come  i  fluidi  particolari  eterei  avvol- 
gono le  nature  intelligenti  finite,  a  cui  servono  di  veicolo  e  di  strumento  per  eser- 


(1)  *  Esse  separatum  a  corpore  est  praeter  rationern  suae  (animae)  naturae  „  (S.  Th.,  I,  qu.  89, 
art.  1,  e.).  —  "  Esse  sine  corpore  est  sibi  (animae)  contra  naturam  ,  (Ibid.,  qu.  118,  art.  3). 

(2)  "  Aether  vero  est  ultimus,  et  a  domiciliis  nostris  altissimus,  omnia  cingens,  et  coercens 
coeli  complexus,  extrema  ora  et  determinatio  mundi,  in  quo  cum  admirabilitate  maxima  igneae 
formae  cursus  ordinatos  definiunt  „  (lib.  2,  cap.  40). 

(3)  Qui  ricorre  al  pensiero  il  corpicciuolo  cerebrale  del  Bonnet  e  l'atomo  organico  del  Turlot. 

(4)  Virgilio  ritrasse  mirabilmente  questo  concetto  pitagorico  dell'anima  universale  nel  sesto  libro 
dell' Eneide,  versi  724  e  seg.: 

Principio  coelum  ac  terras  camposque  liquentes, 
Lucentemque  globum  lunae,  titaniaque  astra 
Spiritus  intus  alit,  totamque  infusa  per  artus 
Mens  agitat  molem,  magnoque  se  corpore  miscet. 
Inde  hominum,  pecudumque  genus,  vitaeque  volantum 
Et  quae  marmoreo  fert  monstra  sub  aequore  pontus. 
Igneus  est  illis  vigor  et  caelestis  origo 
Seminibus 


46  GIUSEPPE    ALLIEVO 

citare  la  loro  virtù  sull'organismo  corporeo  terreno  (1).  L'etere  era  dai  pitagorici 
contemplato  siccome  il  principio  animatore  di  tutti  gli  esseri  viventi,  ossia  il  corpo 
sottile  e  fluido,  che  avvolge  l'anima  intelligente  ossia  la  mente,  era  esso  stesso  un'anima 
particolare,  uno  spirito  distinto  ad  un  tempo  sia  dalla  mente,  sia  dal  corpo  grosso- 
lano e  terreno,  in  altri  termini  era  il  principio  animatore  dell'organismo  corporeo  (2). 
Che  esista  davvero  in  natura  quest'anima  del  mondo  riposta  dai  pitagorici  nella 
materia  eterea,  incorruttibile,  distinta  ad  un  tempo  dallo  spirito  intelligente  e  dalla 
materia  corporea  corruttibile,  è  cosa  assai  discutibile.  Essi  però  ben  si  apponevano 
riguardando  lo  spirito  ed  il  corpo  siccome  i  due  concetti  supremi  dominatori  del 
pensiero  umano,  inseparabili  l'uno  dall'altro,  e  tentarono  di  ravvicinarli  mediante  il 
principio  unitivo  della  materia  eterea  sottilissima  senza  materializzare  lo  spirito,  ne 
spiritualizzare  la  materia  (3).  Il  problema  della  vita  futura  posa  tutto  quanto  su  questi 
due  grandi  concetti  e  sul  loro  rapporto,  ed  ognuno  sa  le  ardue  difficoltà,  che  s'incon- 
trano nel  determinare  in  modo  netto  ed  esatto  la  natura  intima  e  costitutiva  della 
materia.  Si  suol  definirla  comunemente  ciò,  che  cade  sotto  i  nostri  sensi,  definizione 
affatto  insussistente  sia  perchè  la  materia  potrebbe  esistere  anche  nell'ipotesi,  che 
non  esistessero  i   nostri  sensi,  e  sia  perchè  i  sensi  fisici  sono  già  essi  stessi  impli- 


(1)  A'  dì  nostri  la  scienza  fisica  ha  ripigliato  questo  antico  concetto  dell'etere  e  lo  va  intima- 
mente perscrutando  coll'intendimento  di  comporre  una  teoria,  la  quale  porga  la  ragione  spiegativa 
di  tutti  i  fenomeni  della  luce,  dell'elettricità  e  del  calorico. 

(2)  Anche  questo  concetto  riscontrasi  con  altro  nome  nella  scienza  moderna.  Questa  particella 
di  etere,  questo  corpo  fluido,  invisibile,  involucro  della  nostra  mente,  è  appunto  ciò  che  i  moderni 
fisiologi  appellano  forza  vitale,  i  psicologi  anima  animale,  principio  della  sensitività  e  del  movimento 
spontaneo.  Tutte  le  difficoltà,  che  la  critica  può  muovere  contro  quel  concetto  antico,  ricadono  sulle 
opinioni  professate  dai  moderni  su  questo  punto.  Le  due  opposte  scuole  dell'animismo  e  del  vitalismo 
discutono  fra  di  loro,  se  nell'umano  soggetto  l'anima  animale  e  l'anima  razionale  rimangano  essen- 
zialmente distinte,  o  si  confondano  in  una  sola.  Il  principio  animatore  riposto  dai  pitagorici  in  un 
sottilissimo  fuoco  presenta  qualche  aspetto  di  probabilità,  essendoché  il  fuoco  è  luce  e  calore,  senza 
di  cui  non  esiste  vita  corporea  ed  animale.  L'organismo  muore  allorché  il  calore  vitale  lo  abban- 
dona e  vi  sottentra  il  freddo  gelido  della  morte,  la  rigidità  cadaverica 

(3)  L'accusa  di  materialismo  mossa  a  moltissimi  Padri  e  scrittori  dei  primi  secoli  dell'era  cri- 
stiana ebbe  appunto  origine  dal  diverso  significato,  in  cui  erano  allora  presi  i  vocaboli  anima,  corpo, 
spirito,  intelligenza.  Origene  scrisse  essere  proprio  di  Dio  solo  il  poter  essere  concepito  esistente 
senza  sostanza  materiale,  scevro  di  ogni  involucro  corporeo  ')•  San  Giustino  asserisce,  che  se  noi 
chiamiamo  Dio  incorporeo,  non  è  già  che  tale  sia  in  realtà,  ma  perchè  usiamo  appropriare  certi 
nomi  a  certe  cose.  Lattanzio  ed  Arnobio  professavano  la  materialità  dell'anima,  e  S.  Agostino  sostiene 
che  gli  angeli  sono  congiunti  con  corpi  diversi  dai  nostri  e  Claudiano  Mamerto  è  dello  stesso  avviso  2). 
S.  Ilario  vescovo  di  Poitiers,  Giovanni  vescovo  di  Tessalonica,  S.  Gregorio  Nazianzeno  3),  S.  Am- 
brogio *)  opinano  che  Dio  solo  è  affatto  immateriale ,  incorporeo ,  non  così  gli  angeli ,  le  anime,  i 
demoni.  Secondo  Metodio  s)  gli  angeli  posseggono  una  sostanza  formata  d'aria  pura  e  di  fuoco,  che 
niente  ha  della  natura  terrestre.  Scrive  Macario  6)  che  "  l'angelo,  l'anima,  il  demonio,  considerati 
nella  loro  sussistenza,  figura  ed  immagine,  sono  corpi  sottili,  siccome  la  nostra  sussistenza  consiste 
in  un  corpo  grosso  „. 


')  De  princip.,  lib.  I,  cap.  6. 

2)  De  staiu  animae,  1.  III. 

3)  Orat.,  37. 

'     De   Abraham,  II,  e.  8. 
')  Apud  Photium,  cod.  234. 
e)  Homilìa  IV. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  47 

cati  nella  materia,  sicché  quella  definizione  si  risolverebbe  in  quest'altra:  materia  è 
ciò,  che  cade  sotto  la  materia.  Altri  la  definiscono  il  complesso  dei  corpi  componenti 
l'universo  visibile;  ma  forsechè  l'universo  visibile  non  è  sinonimo  di  universo  mate- 
riale? Anche  qui  adunque  abbiamo  una  definizione  tautologica.  Inoltre  giova  avver- 
tire, che  i  corpi  particolari,  sebbene  specificamente  distinti  gli  uni  dagli  altri,  hanno 
qualità  comuni,  per  cui  rientrano  tutti  nella  categoria  di  materia.  Ora  in  che  risiede 
questa  qualità  a  tutti  comunissima  di  materia?  Ecco  quello,  che  la  definizione  doveva 
chiarire  e  che  lascia  nell'oscurità.  Cartesio  e  Spinoza  hanno  preteso  di  determinare 
l'essenza  della  materia  definendola  una  sostanza  estesa.  È  una  definizione,  che  esprime 
qualche  cosa  di  positivo,  ma  va  incontro  a  due  problemi  insolubili.  Primamente  la 
materia  essendo  estesa  importa  divisibilità  :  ora  è  essa  divisibile  all'infinito,  oppure 
si  risolve  in  atomi  inestesi,  in  punti  indivisibili?  E  in  questo  secondo  caso,  come  mai 
l'inesteso  può  formare  l'esteso?  Secondamente,  l'estensione,  ossia  lo  spazio  è  tutto 
quanto  occupato  da  materia,  oppure  si  danno  parti  dello  spazio  affatto  vuote?  Il  con- 
cetto dello  spirito  presenta  assai  meno  difficoltà  che  la  materia  perchè  sorge  spon- 
taneo dalla  osservazione  interiore.  Infatti  la  coscienza  psicologica  ci  attesta,  che  esiste 
in  noi  un  principio,  il  quale  intende  e  vuole,  ossia  che  il  nostro  io  è  una  sostanza 
formata  di  intelligenza  conoscitiva  e  di  attività  volontaria  la  quale  appunto  denomi- 
niamo spirito.  Sembra  cosa  naturalissima,  che  allo  spirito  riesca  più  agevole  inten- 
dere se  stesso,  che  ciò,  che  non  è  lui,  vale  a  dire  la  materia. 


48  GIUSEPPE    ALLIEVO 

IL  PROBLEMA  ESAMINATO  IN  SE  STESSO 


Sin  qui  abbiamo  contemplato  il  problema  della  nostra  esistenza  oltremondana 
attraverso  la  mente  dei  pensatori,  che  lo  hanno  studiato,  chiamando  a  rassegna  cri- 
tica le  differenti  classi  di  sistemi,  che  lo  riguardano.  Ora  dobbiamo  far  passo  dal 
campo  storico  al  campo  speculativo  disaminando  il  problema  in  se  stesso;  ed  anzi 
tutto  occorre  ricercare  le  condizioni  richieste  per  la  nostra  esistenza  oltremondana 
e  determinare  il  processo  metodico  conveniente  alla  risoluzione  del  problema. 

Condizioni  dell'esistenza  oltremondana. 

Queste  condizioni  devono  scaturire  dalla  natura  medesima  dell'io  umano,  il  quale 
passa  dalla  esistenza  presente  alla  futura.  Ora  l'essenza  costitutiva  del  nostro  io  ri- 
siede nella  personalità:  è  una  sostanza  individua  fornita  di  intelligenza  e  di  libera 
volontà,  conscia  di  se  ed  arbitra  del  proprio  operare,  vitalmente  congiunta  con  un 
organismo  corporeo.  Quindi  nella  sua  esistenza  oltremondana  deve  conservare  la  sua 
personalità  individuale:  ecco  la  prima  condizione.  La  dottrina  panteistica  di  qualunque 
specie  essa  sia,  non  può  logicamente  ammettere  l'esistenza  oltremondana,  propriamente 
intesa,  siccome  quella,  che  spoglia  l'io  umano  della  sua  individualità  personale  assor- 
bendolo nell'essenza  infinita  dell'Assoluto.  L'io  possiede  la  coscienza  di  se  medesimo, 
per  cui  sa  di  essere  personalmente  identico  con  se  stesso  attraverso  lo  sviluppo 
successivo  della  sua  vita;  di  qui  sorge  una  seconda  condizione:  egli  conserverà  la 
memoria  della  sua  vita  passata,  la  quale  si  compenetrerà  intimamente  colla  sua  vita 
futura.  Anche  la  nostra  esistenza  attuale  è  un  tutto  indisgiunto  e  continuo,  in  cui 
il  presente  s'intreccia  col  passato  e  s'inanella  coll'avvenire.  Togliete  ad  un  uomo 
la  memoria  di  ciò,  che  fu  ;  egli  non  è  più  lui,  è  per  così  dire  una  nuova  persona,  che 
comincia  in  questo  punto  la  sua  esistenza.  Interrogando  il  nostro  passato,  talvolta 
non  vediamo  che  rovine  sui  nostri  passi;  rimaniamo  sgomentati  osservando  che  tutto 
passa,  tutto  è  fugace  in  noi  ed  intorno  a  noi.  Ciò  nullameno  il  nostro  passato  ci  sta 
incancellabile  davanti  al  pensiero,  e  rivive  col  nostro  presente,  si  fonde  nel  nostro 
avvenire.  Noi  non  rivivremo  lassù  se  non  a  condizione  che  ci  ricordiamo  d'aver  vis- 
suto quaggiù. 

Pierre  Leroux  nella  sua  opera  De  l'humanité  muovendo  dal  principio  che  la  nostra 
identità,  la  nostra  personalità,  il  nostro  io  non  risulta  dalla  memoria,  deride  coloro, 
i  quali  asseriscono  che  io  non  sarò  più  io,  se  non  mi  ricordo  più,  e  pretendono  che 
per  credere  alla  vita  futura,  loro  si  dimostri  che  portano  con  se  nell'altro  mondo 
tutto  l'attuale  bagaglio  dei  loro  ricordi  e  delle  loro  manifestazioni.  "  Quest'idea  (egli 
scrive)  che  costoro  si  fanno  della  vita  futura,  è  presa  non  dall'essenza  della  vita,  ma 


LA    VITA    OLTREMONDANA  49 

dalle  sue  manifestazioni.  Voi  rimarrete  tanto  più  voi  medesimi,  quanto  più  vi  ricor- 
derete meno...  Una  tale  persistenza  delle  nostre  anteriori  manifestazioni  non  accre- 
scerebbe il  nostro  essere,  ma  lo  opprimerebbe  atrofizzandolo...  Gli  antichi  erano  assai 
più  nel  vero  col  loro  mito  del  fiume  Lete...  Noi  esisteremo,  noi  ci  ritroveremo.  Ma 
abbiamo  noi  per  ciò  bisogno  di  ricordare  le  nostre  forme,  le  nostre  esistenze  ante- 
riori? „.  Questo  passo  dello  scrittore  francese  ci  suggerisce  alcune  considerazioni  cri- 
tiche relative  all'argomento.  Egli  giudica  erroneo  il  concetto  della  vita  futura  quando 
sia  attinto  non  già  dall'essenza  della  vita,  bensì  dalle  sue  manifestazioni;  ma  forsechè 
la  vita  non  è  una  continua  manifestazione  di  se  medesima?  In  motu  vita,  dicevano  gli 
antichi:  la  vita  è  essenzialmente  attività,  discorrimento,  sviluppo,  come  la  morte  è 
immobilità  assoluta.  Che  è  il  viver  nostro?  Amare  ed  odiare,  volere  e  disvolere,  spe- 
rare e  temere,  soffrire  e  godere,  pensare  ed  operare,  ecco  la  vita  nostra.  Ora  tutte 
queste  manifestazioni  della  nostra  vita  succedendosi  le  une  alle  altre  ed  intreccian- 
dosi insieme  costituiscono  la  storia  del  nostro  passato  e  stampano  un'impronta  inde- 
lebile nel  nostro  essere  e  questa  impronta  la  portiamo  con  noi  sulle  soglie  della  nostra 
esistenza  oltremondana.  Non  è  adunque  erronea,  come  pretende  l'autore,  l'idea  della 
vita  futura,  presa  dalle  manifestazioni  della  vita,  essendoché  una  vita,  che  non  si 
manifesti  sotto  nessuna  forma,  si  converte  nel  nulla.  A  conferma  di  questa  verità 
giova  riflettere,  che  le  manifestazioni  della  vita  non  solo  si  succedono  le  une  dopo 
le  altre,  ma  le  seguenti  conseguono  dalle  precedenti  come  altrettanti  anelli  formanti 
una  sola  catena.  Tutto  il  corso  della  nostra  esistenza  costituisce  un'unità  continuata 
ed  inscindibile  per  modo  che  se  questo  filo  di  continuità  venisse  spezzato,  il 
nostro  essere  medesimo  cesserebbe  di  esistere.  Non  vi  è  interruzione,  non  distacco 
tra  la  nostra  infanzia,  l'adolescenza,  la  gioventù,  la  virilità,  la  vecchiaia.  Ognuno  di 
noi  è  di  presente  quale  lo  ha  fatto  il  suo  passato,  e  sarà  quale  va  ora  diventando 
passo  passo.  Se  adunque  la  vita  è  essenzialmente  un  ciclo,  che  si  svolge  senza  inter- 
ruzione di  sorta,  consegue  che  la  nostra  presente  esistenza  si  addentella  con  vincolo 
indissolubile  colla  futura,  e  l'autore,  che  ammette  la  seconda  disgiunta  dalla  prima, 
mostra  di  non  avere  un  giusto  concetto  dell'essenza  medesima  della  vita.  Supponiamo 
con  lui,  che  nell'atto  di  porre  il  piede  sulla  soglia  della  vita  futura  io  debba  deporre 
tutto  il  bagaglio  de'  miei  ricordi  e  delle  mie  manifestazioni  passate,  sicché  in  me  non 
vi  rimanga  più  nulla  di  quello,  che  fui,  in  tal  caso  che  cosa  sarei  io  mai?  La  mia 
personalità  sarebbe  certamente  scomparsa:  ed  in  vece  mia  sorgerebbe  un  nuovo  es- 
sere, che  spunta  come  per  incanto  dal  nulla. 

Scrive  l'autore:  "  Voi  rimarrete  tanto  più  voi  medesimi,  quanto  più  vi  ricorde- 
rete meno  „  ;  e  conchiude  con  queste  parole:  "  Noi  esisteremo,  noi  ci  ritroveremo  „. 
Qui  egli  riconosce  la  personalità  del  nostro  essere,  e  ad  un  tempo  disconosce  la  facoltà 
della  memoria,  che  le  è  affatto  essenziale.  Il  nostro  io  non  sarebbe  persona,  se  non 
avesse  la  coscienza  di  sé,  e  della  sua  identità  personale,  per  cui  egli  è  consapevole 
di  rimanere  sempre  lui  attraverso  le  fasi  successive  della  sua  esistenza.  Egli  non  solo 
vive,  ma  sa  di  vivere;  non  solo  sente,  pensa,  vuole,  ma  sa  che  i  pensieri,  i  senti- 
menti, i  voleri,  tanto  presenti,  quanto  passati,  sono  suoi,  appartengono  a  lui.  Spo- 
gliatelo della  ricordanza  del  suo  passato,  e  voi  gli  avrete  tolto  la  coscienza  di  se,  e 
quindi  la  sua  natura  personale,  lo  avrete  confuso  con  le  piante,  col  bruto,  i  quali 
vivono  e  non  sanno  di  vivere,  non  hanno  consapevolezza  della  vita,  che  si  va  in  essi 

Serie  II.  Tomo  LUI.  7 


50  GIUSEPPE    ALLIEVO 

svolgendo.  Ci  ritroveremo,  dice  l'autore;  ma  come  potremo  ritrovar  noi,  se  non  sap- 
piamo neanco  di  essere  già  stati,  di  avere  vissuto?  A  che  la  natura  ci  avrebbe  for- 
niti della  facoltà  memorativa,  se  essa  anziché  contribuire  al  perfezionamento  del  nostro 
essere,  lo  opprime  e  lo  atrofizza?  Senza  il  ricordo  della  nostra  vita  passata  come  si 
giustifica  la  sanzione  del  premio  e  della  pena,  che  accompagnerà  la  vita  futura? 

La  ricordanza  della  vita  passata  siccome  necessaria  condizione  dell'immortalità 
dell'io  venne  implicitamente  riconosciuta  dallo  stesso  Lucrezio.  Poniamo,  egli  dice, 
che  dopo  morte  gli  atomi  del  nostro  corpo  venissero  raccolti  e  ricomposti  in  quello 
stesso  ordine,  che  formava  il  nostro  organismo  primitivo  sicché  rivedessimo  la  luce 
della  vita,  ciò  non  importerebbe  punto  a  noi,  dacché  la  morte  ha  spezzata  la  conti- 
nuità delle  nostre  azioni  e  spenta  la  memoria  di  quel  che  fummo  altra  volta  (1). 

Mi  sono  di  proposito  indugiato  su  questo  capitalissimo  punto  della  coscienza  di 
sé  e  della  ricordanza  del  passato,  inseparabile  dalla  personalità  umana,  che  è  il  con- 
cetto fondamentale  e  dominante  del  problema  dell'esistenza  oltremondana.  L'attività 
della  vita  è  anch'essa  una  delle  condizioni  necessarie,  di  cui  facciamo  parola,  siccome 
quella,  che  è  proprietà  essenziale  della  persona.  In  motti  vita;  quest'apoftegma  vale 
altresì  per  l'esistenza  di  oltre  tomba.  Se  l'io  rimanesse  in  uno  stato  di  assopimento 
universale  e  di  immobilità  assoluta,  non  sarebbe  più  vita  la  sua,  bensì  una  inerte 
incoscienza  pari  alla  morte.  Si  può  muover  questione  intorno  il  nuovo  atteggiamento, 
che  prenderanno  le  umane  potenze,  intorno  il  grado  ed  il  lavoro  del  loro  progressivo 
sviluppo,  il  maggiore  o  minore  vigoreggiare  delle  une  rispetto  alle  altre  (2),  ma  il 
loro  operare  non  può  venire  impedito  o  sospeso,  perchè  necessario  alla  vitp  dell'io 
personale,  che  è  di  sua  natura  attività  incessante  e  conscia  di  sé.  Lo  stato  dell'anima 
separata  dal  corpo  fu  dai  gentili  riguardato  come  un  silenzio,  una  quiete,  un  riposo 
assoluto,  un  sonno:  così  il  sonno,  che  nella  vita  presente  vien  simboleggiato  sotto 
l'immagine  della  morte,  sarebbe  lo  stato  definitivo  della  vita  futura.  I  morti  dormono; 
ma  se  la  morte  è  un  sonno,  esso  accenna  alla  sveglia. 

Ogni  vivente  finito  soggiace  alle  condizioni,  del  tempo  e  dello  spazio.  Anche  la 
vita  futura  importa  un  tempo,  ossia  una  durata,  per  cui  scorra,  un  luogo  in  cui  si 
svolga:  ecco  altra  condizione,  che  viene  ad  aggiungersi  a  quelle  accennate  fin  qui. 
La  storia  delle  credenze  religiose  e  mitologiche  ci  presenta  una  moltiplicità  svaria- 
tissima  di  opinioni  intorno  al  soggiorno  de'  trapassati,  dai  più  reconditi  luoghi  del 
globo,  che  noi  abitiamo,  sino  alle  più  elevate  regioni  dello  spazio  celeste.  La  dottrina 
egizia  additava  gli  astri  come  finale  e  stabile  dimora  dell'anima,  che  abbia  compiuta 


(1)  Nec,  si  materiam  nostrani  conlegerit  aetas 

Post  obitum,  rursumque  redegerit,  ut  sita  mino  est, 
Atque  iterum  nobis  fuerint  data  lumina  vitae, 
Pertineat  quicquam  tamen  ad  nos  id  quoque  factum, 
Interrupta  semel  oum  sit  repetentia  nostra. 

{De  rerum  natura,  lib.  3,  versi  859-863). 

(2)  Il  Bach  nel  suo  opuscolo  pubblicato  a  Rouen  nel  1835  col  titolo:  De  V  ètat  de  V àme  depuis 
le  jnur  de  la  mori  jusqu'à  eelui  dn  jugement  dernier  d'apri»  Dante  et  Saint  Thomas,  ha  raffrontato  fra 
di  loro  la  dottrina  tomistica  e  l'opinione  contenuta  nella  Divina  Commedia  intorno  l'esercizio  delle 
potenze  dell'anima  nella  vita  futura.  Anche  il  Lépicier  nel  capo  secondo  dell'opera  superiormente 
citata  svolge  quest'argomento  in  senso  tomistico. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  51 

la  serie  delle  sue  trasmigrazioni  (1).  I  cuori  cristiani  collocano  la  sede  dell'anima  buona 
in  alto  (il  sursum  corda)  nel  cielo,  quella  delle  anime  perdute  in  tasso  nell'inferno. 
Alcuni  immaginano  che  l'anima  eletta  prima  di  giungere  all'empireo,  sede  della  Di- 
vinità e  della  beatitudine,  salga  di  sfera  in  sfera  come  per  altrettanti  gradini  del- 
l'immenso universo  per  giungere  sino  al  Creatore.  In  generale  poi  la  natura  triste  o 
serena  del  soggiorno  sta  in  corrispondenza  coll'infelicità  o  colla  beatitudine  dell'anima, 
conseguente  dalla  sanzione  futura  (2). 

L'altra  categoria  del  tempo  o  della  durata  riguarda  più  propriamente  la  san- 
zione ed  il  miglioramento  progressivo  dell'anima,  come  si  scorge  segnatamente  nei 
periodi  successivi  della  metempsicosi.  La  durata  interminabile  della  vita  futura 
consegue  per  logica  necessità  dalla  immortalità  dell'io  rigorosamente  dimostrata. 
Poiché  questa  immortalità  riuscirebbe  vana  ed  illusoria,  quando  nel  corso  dell'esistenza 
oltremondana  avvenisse  un  tempo,  in  cui  la  vita  dell'io  umano  venisse  a  cessare,  o 
fosse  mestieri  che  se  ne  ponesse  nuovamente  in  sodo  l'esistenza.  Mentre  il  materia- 
lista attribuisce  l'eternità  della  durata  al  più  piccolo  atomo  di  materia,  sarebbe 
la  più  solenne  stranezza  che  venisse  negata  allo  spirito  umano,  il  quale  per  eccel- 
lenza di  natura  sorpassa  quanti  mai  atomi  di  materia  esistano  o  possano  esistere  in 
tutto  l'universo,  e  colla  sua  mente  percorre  l'immensità  del   tempo   e    dello  spazio. 


Processo  metodico  per  lo  scioglimento  del  problema. 

La  logica  distingue  due  guise  di  processo  metodico  :  l'uno  muove  dall'  intima 
natura  delle  cose,  dalle  proprietà  necessarie,  che  ne  costituiscono  l'essenza,  ed  appel- 
lasi metodo  a  priori,  o  razionale,  l'altro  esordisce  dai  fatti,  che  si  svolgono  dall'es- 
senza propria  di  un  essere,  e  si  denomina  a  posteriori,  od  empirico.  Il  primo  di  questi 
due  procedimenti  è  universalmente  seguito  da  quanti  imprendono  a  dimostrare  l'esi- 
stenza della  vita  futura  ;  ma  procedendo  per  questa  via  essi  rimangono  ad  ogni  passo 
intricati  in  tali  difficoltà  e  si  trovano  di  fronte  a  tali  controversie,  che  loro  non 
vien  fatto  di  approdare  a  buon  porto.  Tutti  partono  dall'idea  dell'anima  umana  ri- 
guardata nella  sua  natura  e  nelle  sue  proprietà  essenziali,  e  di  qui  intendono  di  ar- 
gomentare la  sua  immortalità.  Ma  perchè  separano  fin  dalle  prime  l'anima  dell'uomo 
dal  suo  organismo  corporeo  per  proclamar  immortale  essa  sola,  mentre  la  vita  del- 
l'una e  la  vita  dell'altro  formano  nell'unità  dell'io  umano  un  tutto  indisgiungibile  ? 
Chi  vi  dà  ragione  di  smembrare  in  tal  modo  la  natura  umana?  Ecco  già  una  diffi- 
coltà, che  si  presenta. 


(1)  Il  Maspero  ne'  suoi  Étucles  de  mythologie  et  d'archeologie  égyptiennes,  I,  343,  distingue  tre 
sorta  di  soggiorni  de'  morti  secondo  le  credenze  egiziane:  1°  la  vita  della  tomba,  o  sotterranea; 
2°  il  paradiso,  luogo  al  di  là  delle  abitazioni  degli-  uomini  al  nord-est  del  Delta  del  Nilo;  3°  il 
viaggio  del  morto  con  Rà  o  Dio  del  sole  intorno  al  mondo. 

Leone  Feer  ha  pubblicato  una  monografia  intorno  il  soggiorno  dei  morti  secondo  le  credenze 
degli  indiani  e  de' greci,  nella  Revue  de  l'histoire  des  religions,  tomo  17,  anno  1888. 

(2)  Intorno  a  questo  punto  scrisse  il  P.  Casto  Innocente  Ansaldi  nella  sua  opera  pubblicata  in 
Torino  l'anno  1775  col  titolo:  Saggio  intorno  alle  immaginazioni  ed  alle  rappresentazioni  della  felicità 
somma;  e  nell'altra:  Della  speranza  e  della  consolazione  di  rivedere  i  nostri  cari  morti  nell'altra  vita. 


52  GIUSEPPE    ALLIEVO 

1.  —  Esame  del  processo  metodico  a  priori. 

Ma  esaminiamo  i  punti  di  questo  procedimento.  —  L'anima  umana  è  una  sostanza, 
che  forma  un  tutto  da  sé,  distinto  dal  corpo.  —  No,  vi  risponde  qui  il  materialista 
arrestandovi  al  primo  passo  :  l'anima  non  possiede  una  sostanzialità  sua  propria,  ma 
fa  parte  dell'organismo  corporeo,  è  un  risultato  delle  funzioni  fisiologiche.  Eccoci  av- 
viluppati nella  gravissima  questione  del  materialismo.  Ma  poniamo  pure  che  abbiate 
dimostrata  la  sostanziai  distinzione  tra  l'anima  ed  il  corpo  :  con  ciò  non  avrete  pro- 
vata la  vostra  tesi,  poiché  da  ciò,  che  l'anima  è  distinta  dal  corpo,  consegue  sol 
questo,  che  essa  può  esistere  anche  senza  di  esso,  ma  non  già  che  esisterà  di  fatto. 
—  L'anima  è  semplice  di  sua  natura;  ma  tutto  ciò,  che  è  semplice,  è  incorruttibile 
ed  immortale  ;  dunque  essa  è  immortale.  —  Questo  ragionamento  non  ha  maggior 
valore  del  primo  :  a  questa  stregua  anche  l'anima  sensitiva  dei  bruti,  anche  l'atomo, 
anche  il  punto  matematico  sarebbero  immortali.  Dacché  una  sostanza  é  semplice,  ne 
viene  che  non  può  disfarsi  in  parti  e  corrompersi,  ma  punto  non  consegue  che  non 
possa  cessar  di  esistere.  —  Altra  proprietà  dell'anima  umana  è  la  sua  virtù  intellet- 
tiva o  facoltà  di  pensare  e  di  conoscere.  L'intelligenza  umana  (cosi  si  ragiona)  ha 
per  essenziale  oggetto  la  verità;  ma  la  verità  è  di  sua  natura  eterna  ed  imperitura; 
dunque  l'anima  nostra  essendo  essenzialmente  intellettiva,  e  quindi  essenzialmente 
unita  alla  verità,  che  è  eterna,  ha  un'  esistenza  corrispondente,  vai  quanto  dire  inde- 
fettibile, imperitura,  immortale.  La  dimostrazione  è  speciosa  ed  appariscente,  ma  non 
regge  alla  critica.  Se  l'anima  nostra  intelligente  é  fatta  per  pensare  e  conoscere  la 
verità,  ciò  vuol  dire  che  finché  esiste,  di  necessità  intuirà  il  vero,  ma  io  posso  sup- 
porre che  essa  cessi  di  esistere,  e  con  tutto  ciò  non  cesserà  la  verità,  eterna  di  sua 
natura,  perchè  vi  sarà  pur  sempre  l'intelligenza  divina,  la  quale  la  abbraccia  tutta 
quanta  e  la  comprende  in  sé.  Così  il  mio  occhio  è  fatto  per  vedere  la  luce,  suo 
essenziale  oggetto,  e  finché  esiste,  continuerà  a  contemplarla;  ma  la  luce  non  si 
spegnerà,  anche  scomparso  l'occhio  mio  e  quello  di  tutti  i  viventi  dotati  del  senso 
visivo.  Una  dimostrazione  consimile  è  quella  di  Platone,  il  quale  partendo  dal  con- 
cetto, che  la  natura  dell'anima  sta  nell'essere  un  principio  intrinseco  di  vita,  di  atti- 
vità, di  energia,  per  cui  si  muove  per  virtù  sua  propria,  e  non  per  un  impulso 
esteriore,  ne  argomenta  che  è  immortale,  perchè  la  vita  non  può  perire.  Platone  non 
ha  avvertito  che  l'anima  non  esiste  per  sé,  ma  deve  il  suo  principio  di  vita  e  di 
attività  all'Essere  assoluto.  Egli  non  ha  punto  dimostrato,  che  l'anima  sia  sempre 
esistita  e  siasi  sempre  mossa  per  virtù  sua  propria:  il  suo  movimento  ha  cominciato 
colla,  sua  esistenza,  e  non  è  eterno. 

Il  concetto  razionale  della  spiritualità  dell'anima  preso  come  fondamento  della 
dimostrazione  della  sua  immortalità  venne  recentemente  disaminato  sotto  un  nuovo 
aspetto  da  C.  Piat  nella  sua  opera  Destinée  de  l'homme,  pubblicata  a  Parigi  nel  1898. 
Egli  riconosce  che  questa  base  di  argomentazione  posta  nella  spiritualità  sembra 
momentaneamente  scossa  e  crede  di  raffermarla  mediante  il  principio  universale  della 
finalità,  che  è  il  fondamento  supremo  della  biologia.  Sotto  questo  punto  di  vista  il 
suo  procedimento  metodico  apparisce  razionale,  essendoché  il  concetto  teleologico  ha 
la  sua  prima  origine  dalla  facoltà  della  ragione.  Il  suo  lavoro  mostra  un'impronta 
originale,  per  cui  merita  di  esser  preso  in  serio  esame. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  53 

"  Il  soggetto,  che  costituisce  la  nostra  personalità,  è  esso  radicalmente  distinto 
dalla  materia,  e  se  tale  è  in  realtà,  può  ancora  e  pensare  e  volere  lorchè  si  trova 
allo  stato  separato  ?  „  In  siffatti  termini  l'autore  formola  il  problema  della  vita  futura, 
ed  avvisa  che  riesca  impossibile  il  risolverlo  mediante  la  sola  analisi  ontologica  dei 
fenomeni  interni  e  delle  operazioni  dell'anima.  Egli  divide  il  suo  lavoro  in  tre  parti, 
nella  prima  delle  quali  segna  i  punti  certi  ed  irrepugnabili,  che  presenta  lo  studio 
dell'anima,  nella  seconda  espone  gli  sbagli  ed  i  traviamenti,  in  cui  si  incorre  nella 
discussione  del  problema,  nella  terza  adduce  le  prove,  su  cui  si  appoggia  la  nostra 
credenza  nell'immortalità  dell'anima.  Esaminiamo  anzi  tutto  i  fenomeni  interni,  in  cui 
si  manifesta  la  nostra  attività  mentale,  quali  sono  i  pensieri,  le  emozioni,  i  desiderii, 
i  voleri,  e  ci  verrà  dato  di  constatare,  che  essi  non  sono  un  movimento  organico 
della  materia,  ossia  non  sono  ne  estesi,  ne  divisibili  in  parti,  ma  semplici  di  loro  na- 
tura. Ecco  un  punto  certo  ed  incontrastabile.  Questi  fenomeni  interni  si  riuniscono 
nel  nostro  io,  a  cui  tutti  appartengono,  e  che  è  perciò  semplice  ed  uno,  e  permane 
sempre  identico  a  se  stesso  in  mezzo  a'  suoi  cangiamenti.  Ecco  un  secondo  punto 
anch'esso  certo  ed  inconcusso,  quanto  il  primo.  L'io  manifesta  la  sua  attività  e  vita 
nei  fenomeni  interni  del  pensare  e  del  conoscere,  nel  sentire  e  nel  volere,  ed  anche 
questa  sua  vita  psicologica  non  è  un  movimento  della  materia,  ma  è  tutta  propria 
di  lui,  sebbene  egli  rimanga  unito  coll'organismo  corporeo,  unito  ma  pur  distinto. 

Che  se  Io  spirito  umano  ha  la  sua  vita  in  se  stesso,  non  ne  consegue  forse  che 
questa  vita,  la  quale  è  tutta  sua  propria,  possa  conservarla  anche  quando  è  disfatto 
l'organismo  corporeo,  con  cui  è  attualmente  congiunto  ?  No,  risponde  l'autore.  I  feno- 
meni interni  dei  pensieri,  delle  emozioni  e  dei  voleri,  in  cui  si  manifesta  la  vita  del- 
l'anima, dimostrano  bensì,  che  essa  è  un  soggetto  semplice,  uno,  indivisibile,  perma- 
nente, ma  non  provano  punto  la  sua  spiritualità,  sulla  quale  soltanto  si  fonda  la  sua 
immortalità.  Finche  non  avremo  posto  in  sodo  la  spiritualità  pura  dell'anima,  prove 
salde  e  sicure  della  vita  futura  non  ne  avremo  mai.  S'ingannano  a  gran  partito  e 
sbagliano  la  via  tutti  coloro,  che  s'ingegnano  di  ritrarre  dai  fenomeni  interni  del- 
l'anima gli  argomenti  dimostrativi  della  sua  spiritualità.  Infatti  se  noi  esaminiamo 
quei  fenomeni  psicologici,  che  appellansi  emozioni  e  passioni,  noi  scorgiamo  sempre 
in  fondo  alle  medesime  alcunché  di  ignoto,  di  inconscio,  di  inconoscibile,  che  non  ci 
consente  di  rilevare,  se  l'anima  nostra  sia  radicalmente  distinta  da  tutto  il  rimanente. 
Esse  non  contengono  verun  indizio  di  spiritualità  pura,  assoluta,  indipendente  dalla 
materia.  Anche  l'esame  dei  fenomeni  intellettuali  fallisce  allo  scopo.  Infatti  le  idee 
sono  bensì  eterne,  universali,  necessarie,  ma  per  ciò  appunto  non  appartengono  a 
nessuno  in  particolare,  epperciò  non  attestano  la  personalità  della  vita  futura,  propria 
di  ciascuno  di  noi.  L'intelligenza  poi  niente  può  pensare,  niente  conoscere  senza  l'in- 
tervento delle  percezioni  corporee  e  de'  fantasmi  sensibili,  epperò  essendo  vincolata 
nel  suo  esercizio  alle  funzioni  cerebrali  dell'organismo  non  ci  consente  di  penetrare 
nell'intimo  fondo  dell'anima  a  fine  di  rilevare  se  la  sua  spiritualità  sia  assolutamente 
pura,  e  radicalmente  distinta  ed  indipendente  dalla  materia.  Arroge  che  lo  sviluppo 
della  nostra  intelligenza  non  solo  dipende  dalla  sensibilità  fisica,  ma  varia  secondo 
il  variar  dell'età,  si  risente  delle  fatiche  del  pensiero,  e  può  crescere  o  scemare  di 
vigoria  all'indefinito.  Come  l'analisi  delle  passioni  e  delle  idee,  cosi  quella  della  libertà 
mostrasi  impotente  a  stabilire  la   spiritualità  dell'anima  umana.   Del  nostro    libero 


54  GIUSEPPE    ALLIEVO 

operare  noi  non  possediamo  che  una  conoscenza  incompiuta,  e  la  nostra  coscienza 
mai  non  può  comprenderlo  in  tutta  la  sua  interezza.  Così  apparisce  errato  il  nostro 
calcolo,  avendo  noi  ricercate  le  prove  della  spiritualità  dell'anima  nei  fatti  interni 
delle  passioni,  delle  idee,  della  libera  volontà;  ma  dal  canto  suo  anche  il  materia- 
lismo non  ha  prove  salde  e  convincenti  contro  l'immortalità. 

Che  rimane  a  fare  ?  Allo  spiritualismo  rimane  aperta  una  nuova  via  per  giungere 
all'intento,  ed  è  il  principio  di  finalità,  su  cui  si  fonda  tutta  quanta  la  biologia.  E 
legge  suprema  direttiva  di  tutti  gli  esseri  viventi  e  quindi  anche  dell'uomo  questa, 
che  ogni  funzione  vitale  è  acconciata  all'ambiente;  non  si  dà  funzione  biologica,  che 
non  abbia  il  suo  punto  correlativo  nella  realtà.  Alla  luce  di  questa  legge  teleologica 
occorre  scandagliare  gli  intimi  penetrali  dell'anima  e  ricercare  se  vi  sia  alcunché, 
che  trascenda  la  sua  vita  psicologica  ordinaria  e  riveli  la  sua  spiritualità  pura  e 
sciolta  da  ogni  vincolo  col  suo  materiale  organismo,  occorre  ricercare  se  tra  le  fun- 
zioni vitali  dell'anima  ve  ne  siano  alcune  così  elevate  e  trascendenti,  che  non  rin- 
vengono quaggiù  il  loro  naturale  ed  adequato  oggetto,  e  che  perciò  in  virtù  della 
legge  di  finalità  esigono  un  aldilà  oltremondano,  che  loro  corrisponda,  una  vita  futura. 
Or  bene  esaminiamo  la  vita  razionale  dell'anima,  e  qui  ci  troveremo  le  prove  della 
sua  spiritualità  pura,  della  sua  immortalità.  Il  nostro  pensiero  non  rimane  circoscritto 
in  un  punto  del  tempo  e  dello  spazio,  ma  si  muove  nell'eterno,  nell'immenso,  nell'in- 
finito ;  dunque  non  raggiunge  il  suo  ideale  nell'ambiente  passeggiero  della  vita  pre- 
sente, ma  è  ordinato  ad  una  durata  infinita.  Come  il  pensiero,  così  anche  il  cuore 
esige  un'  altra  vita,  che  corrisponda  alle  sue  aspirazioni,  poiché  sente  profondamente 
la  vanità  di  tutte  le  cose  e  concepisce  l'universo  come  insufficiente  alle  sue  brame. 
Anche  la  vita  operativa  dell'anima  può  trovare  soltanto  nel  concetto  della  vita  futura 
lo  scopo,  a  cui  è  ordinata,  le  norme,  che  la  dirigono,  i  mezzi  pratici,  che  le  occor- 
rono per  raggiungere  l'ideale  del  dovere.  Così  la  credenza  spiritualistica  nell'immor- 
talità posa  su  prove,  che  posseggono  la  stessa  certezza  delle  leggi  della  scienza  spe- 
rimentale, vale  a  dire  sul  principio  biologico  della  finalità. 

L'opera  dell'autore  presenta  non  pochi  cospicui  pregi,  concetti  nuovi  e  originali, 
parecchi  punti  di  psicologia  sono  contemplati  con  larghezza  di  vedute,  discorsi  con 
vigore  di  ragionamento,  esaminati  con  analisi  acuta  e  profonda.  È  poi  sopratutto 
lodevole  il  suo  intendimento  di  ricercare  un  nuovo  fondamento  alla  dimostrazione 
dell'esistenza  oltremondana.  Tutto  il  suo  lavoro  posa  su  due  punti  dominanti:  il  con- 
cetto della  spiritualità  ed  il  principio  di  finalità,  e  su  questi  due  punti  raccoglierò 
il  mio  esame  critico.  Dal  tenore  medesimo,  con  cui  ha  formolato  il  problema,  appa- 
risce che  per  lui  l'anima  umana  non  avrà  un'esistenza  oltremondana  se  non  a  con- 
dizione che  diventi  uno  spirito  puro,  sciolto  affatto  da  ogni  organismo  corporeo,  una 
natura  schiettamente  angelica.  Ciò  non  è  conforme  a  verità,  perchè  l'anima  umana 
avrebbe  cambiata  natura  o  la  sua  vita  futura  non  sarebbe  più  la  continuazione  della 
presente,  ma  specificamente  diversa  dalla  vita  umana.  Egli  considera  l'organismo 
corporeo  siccome  contrario  ed  opposto  alla  vita  dello  spirito,  e  citando  la  sentenza 
di  S.  Tommaso  (1),  che  "  perfectio  animae  consistit  in  abstractione  quadam  a  corpore  „, 
ripone  l'ideale  della  perfezione  umana  nella  libertà  dello  spirito,  il  quale  è  svincolato 

(1)  S.  philos.,  II,  79,  325. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  ÓÒ 

dai  legami  materiali  in  cui  si  trova  inceppato  per  vivere  in  sé  e  per  se  e  rinchiu- 
dersi nel  mondo  intelligibile.  Se  così  fosse,  andrebbe  incolpata  la  natura,  che  ha 
creato  l'uomo  in  contrasto  ed  antagonismo  con  se  medesimo.  L'autore  deplora  che 
lo  spirito  sia  schiavo  dei  sensi  ed  esalta  lo  spirito  libero  e  puro,  che  non  ha  più  di 
che  lottare  colla  materia.  Ma  forsechè  lo  spirito  umano  è  di  sua  natura  condannato 
alla  schiavitù  dei  sensi?  Forsechè  la  sua  eccellente  e  sublime  libertà  non  si  manifesta 
appunto  nel  tenerli  soggetti  al  suo  impero  ed  adoperarli  in  servizio  del  suo  perfe- 
zionamento? Mediante  il  senso  visivo  lo  spirito  percepisce  le  forme  svariatissime  degli 
oggetti,  la  bellezza  delle  persone  e  delle  cose,  la  specie  infinita  degli  esseri  viventi  ; 
coll'udito  sente  le  armonie  de'  suoni  e  la  potenza  della  parola  umana  ;  colla  voce 
manifesta  il  suo  mondo  interiore;  colla  mano  lavora  la  materia  e  trasforma  l'uni- 
verso circostante  ;  mediante  il  ministero  de'  sensi  le  anime  umane  s'intendono,  si 
associano,  convivono  insieme,  e  la  persona  umana  mostra  in  sé  alcunché  di  angelico 
e  di  divino,  allorché  sacrifica  le  sue  passioni,  i  piaceri  della  vita,  le  voluttà  de'  sensi 
ad  un  sublime  e  santo  ideale. 

L'autore  ci  pone  sott'occhio  lo  spirito  schiavo  de'  sensi,  tiranneggiato  da  ignobili 
passioni  :  noi  gli  opponiamo  il  martire,  che  versa  il  sangue  per  il  trionfo  di  un  prin- 
cipio divino,  l'anacoreta  del  deserto,  che  mortifica  la  carne,  ma  ha  occhi  per  guardare 
al  cielo,  lingua  per  inneggiare  al  suo  Dio.  No,  uno  spirito  puro  non  è  uno  spirito 
umano:  calpestando  il  mondo  della  materia,  voi  vi  smarrite  in  un  aereo  idealismo  e 
siete  uscito  fuori  del  mondo  dell'umanità. 

L'avere  scambiato  lo  spirito  propriamente  umano  con  uno  spirito  essenzialmente 
puro  e  separato  fu  cagione,  per  cui  nella  dimostrazione  della  spiritualità  dell'anima 
l'autore  tenne  un  procedimento  tortuoso,  che  fallisce  allo  scopo.  Egli  mal  si  appone 
sostenendo  che  dall'analisi  de'  fatti  psicologici  si  argomenta  bensì  la  semplicità  del- 
l'anima umana,  non  però  la  sua  spiritualità.  Poiché  i  costitutivi  dello  spirito,  di  qua- 
lunque specie  esso  sia,  sono  l'intelligenza  pensante  e  l'attività  volontaria:  e  questi 
due  costitutivi  egli  stesso  li  aveva  rilevati  nell'esame  che  fece  de'  fenomeni  interni 
psicologici.  Immaginandosi  che  questa  supposta  spiritualità  pura  e  separata  non  po- 
tesse dimorare  altrove  che  in  una  parte  recondita  ed  arcana  dell'anima,  egli  si  pose 
a  ricercarla  in  un  alcunché,  che  trascende  la  vita  psicologica,  scisso  affatto  dalla  ma- 
teria, mentre  nell'  io  umano,  di  cui  abbiamo  coscienza,  i  fenomeni  interni  più  sem- 
plici ed  umili  si  svolgono  insieme  implicati  co'  più  complessi  e  sublimi  e  se  si  tra- 
scende la  sfera  della  coscienza  si  cade  nel  vuoto.  Il  fatto  è,  che  l'autore  ricercando 
gli  indizi  della  spiritualità  fu  costi-etto  a  rintracciarli  in  quell'analisi  medesima  dei 
fenomeni  psicologici,  che  aveva  rigettata  siccome  insufficiente  all'uopo,  essendoché 
quelle  supreme  ed  elevate  forme  dell'attività  dell'anima,  in  cui  scorge  gli  indizi  della 
spiritualità,  si  svolgono  dal  pensiero  e  dalla  libera  volontà  insieme  colle  forme  infe- 
riori della  sensitività  animale. 

Parve  all'autore  di  avere  posta  sopra  una  base  salda  la  dimostrazione  dell'im- 
mortalità dell'anima  fondandola  sul  principio  biologico  della  finalità,  in  vn-tù  del  quale 
le  forme  spirituali  dell'attività  psichica  non  ritrovando  nella  realtà  presente  terrena 
il  loro  corrispondente  oggetto,  esigono  un  al  di  là  oltremondano,  in  cui  si  svolgano. 
Ma  anzi  tutto  questa  legge  di  finalità  verrebbe  qui  ad  essere  dimezzata,  anziché  ri- 
conosciuta nella  sua  integrità,  essendoché  essa  importa  una  effettiva  corrispondenza 


56  GIUSEPPE    ALLIEVO 

delle  funzioni  vitali  col  loro  ambiente,  e  quindi  la  loro  simultanea  esistenza,  mentre 
nel  caso  nostro  le  forme  spirituali  della  vita  dell'anima  già  esisterebbero  quaggiù, 
pur  non  avendo  ancora  nella  realtà  presente  il  loro  corrispondente  oggetto.  Oltre  di 
che  l'autore  ha  preso  dalla  biologia  il  principio  di  finalità,  che  è  tutto  proprio  dei 
viventi,  organici  o  materiali,  intorno  ai  quali  si  travagliano  le  scienze  fisiologiche  e 
sperimentali,  e  lo  ha  applicato  alla  psicologia.  Ma  ognun  vede  quanto  e  qual  pro- 
fondo divario  ci  corra  tra  le  funzioni  vitali  proprie  degli  esseri  organici  e  le  funzioni 
spirituali  proprie  dell'anima,  tra  l'ambiente  materiale  proprio  degli  uni  ed  il  mondo 
ideale  proprio  dell'altra.  Toccava  quindi  all'autore  il  proporre  e  risolvere  il  dubbio,  se 
il  principio  biologico  della  finalità,  senza  perdere  punto  il  suo  valore,  possa  applicarsi 
alla  vita  spirituale  dell'anima  umana. 

2.  —  Esame  dei  fatti  psicologici  attinenti  alla  vita  futura. 

Due  opposte  vie,  abbiamo  detto,  si  affacciano  a  chi  tenta  lo  scioglimento  del 
problema  della  vita  futura:  luna  esordisce  dal  concetto  razionale  della  natura  del- 
l'anima, l'altra  da  certi  fenomeni  speciali,  in  cui  si  manifesta  la  vita  psicologica.  La 
prima  di  queste  due  vie  ci  apparve  malsicura  e  fallisce  allo  scopo.  Ci  rimane  la  via 
del  procedimento  empirico  ;  ma  qui  occorre  notare  che  l'esperienza  segna  soltanto  il 
punto  di  mossa  del  nostro  studio  ;  essa  ci  ammannisce  i  fatti  psicologici,  i  quali,  esa- 
minati da  prima  in  se  stessi,  poi  contemplati  nelle  loro  supreme  ragioni,  ci  guidano 
alla  meta. 

Fra  i  fenomeni  interni,  che  si  rivelano  alla  nostra  coscienza,  va  segnalata  la 
tendenza,  che  proviamo,  a  persistere  senza  mai  fine  nella  nostra  esistenza  personale, 
e  che  potrebbe  propriamente  denominarsi  istinto  dell'immortalità.  Noi  ci  teniamo 
avviticchiati  alla  vita  con  una  tenacità  veramente  indestruttibile,  e  per  ciò  appunto 
abborriamo  la  morte,  abbiamo  in  orrore  la  distruzione,  il  nulla.  Quest'istinto  dell'im- 
mortalità è  tutto  proprio  della  natura  umana,  e  non  va  confuso  coll'istinto  fisico 
della  propria  conservazione,  che  è  comune  anche  ai  bruti,  poiché  il  bruto  non  sa  la 
misura  del  tempo,  ignora  il  suo  dimani,  mentre  l'istinto  dell'immortalità  importa 
l'idea  di  una  durata  senza  fine  alla  quale  s'innalza  il  pensiero  umano,  che  concepisce 
l'eternità  dell'essere  e  l'assurdità  di  un  nullismo.  Il  bruto  non  solo  vive  alla  giornata 
ignorando  lo  scorrere  successivo  del  tempo,  ma  muore  pur  non  sapendo  che  cosa  sia 
il  morire,  mentre  l'uomo  possiede  un  concetto  dell'immortalità  e  della  morte,  e  questo 
concetto  attesta  già  di  per  se  la  persistenza  del  suo  essere,  poiché  l'idea  d'immor- 
talità supera  l'apprensiva  di  una  natura  mortale  (1).  Per  tal  guisa  l'istinto  dell'im- 
mortalità fa  parte  della  natura  razionale  dell'uomo  e  riveste  un  carattere  religioso, 
perchè  trova  la  sua  ragione  suprema  nell'eternità  di  Dio:  di  qui  si  spiega  il  perchè 
la  morte  ci  inspira  orrore  ;  tanto  ci  pare  ripugnante  che  la  divina  eccellenza  della 
nostra  persona  vada  a  finire  nel  nulla.  Inoltre  giova  aggiungere  che  l'istinto,  di  cui 
facciamo  parola,  non'  solo  ha  una  natura  razionale,  che  essenzialmente  lo  differenzia 
dall'istinto  della  conservazione  animale,  ma  altresì  è  universale  e  costante,  giacché 
non  si  manifesta  soltanto  in  alcune  nature  privilegiate  ed  in  alcuni  singolari  momenti 
della  vita,  ma  si  fa  sentire  in  tutte  le  umane  coscienze,  in  tutti  i  tempi  e   luoghi, 


(1)  "  Nulli  naturae  mortali  natura  immortalis  cognita  est  „  (Sallustio,  De  diis  et  mando,  eap.  Vili). 


LA    VITA    OLTREMONDANA 


57 


tanto  negli  uomini  grandi  che  colla  potenza  del  genio  cercano  l'immortalità  della 
fama  colle  stupende  creazioni  della  scienza  e  dell'arte,  quanto  nelle  anime  comuni  e 
modeste,  che  hanno  cura  del  loro  buon  nome. 

Plutarco  nel  suo  opuscolo  Che  non  si  può  vivere  felicemente  seguendo  la  dottrina 
di  Epicuro,  pone  in  luce  questo  fatto  psicologico,  che  di  tutte  le  nostre  affezioni,  di 
tutti  i  nostri  desiderii,  di  tutti  i  nostri  istinti  il  più  antico,  il  più  persistente,  il  più 
vivo  è  il  desiderio  di  essere.  Il  non  esistere  è  per  tutti  gli  uomini  uno  stato  contro 
natura.  Questo  concetto  di  Plutarco  è  confortato  dal  racconto  biblico  del  fallo  del- 
l'uomo primo,  che  fu  dannato  alla  morte  perchè  peccò  contro  Dio  e  contro  la  legge 
della  vita,  sicché  non  la  morte,  ma  l'immortalità  era  conforme  all'ordine  delle  cose. 
Il  racconto  biblico  riapparve  sotto  forma  mitica  nella  credenza  religiosa  dei  popoli 
ancora  incivili  ed  incolti,  i  quali  reputavano  che  lo  stato  originario  ed  incorrotto 
dell'uomo  primitivo  escludeva  la  morte. 

Se  non  che  questo  amore  persistente  della  vita  soggiace  quaggiù  a  durissime 
prove,  che  lo  scuotono  nel  suo  intimo  fondo.  Se  noi  volgiamo  lo  sguardo  fuori  di 
noi,  scorgiamo  che  in  tutta  quanta  la  natura  animata  accanto  alla  legge  della  vita 
domina  la  legge  della  morte.  Tutto  ciò,  che  nasce,  perisce,  tutto  ciò,  che  sorge  al- 
l'esistenza, tramonta;  tutto  ciò,  che  si  forma,  si  disfà  e  scompare;  niente  rimane 
stabile  nel  proprio  essere,  tutto  si  distrugge.  Se  entriamo  in  noi  stessi,  rimaniamo 
sgomentati  delle  ruine  accumulate  sul  nostro  passato.  Il  tempo  affievolisce  i  nostri 
sentimenti,  scolorisce  le  nostre  immagini,  scrolla  i  nostri  più  saldi  propositi,  sparge 
l'obblìo  sui  nostri  più  cari  affetti,  che  credevamo  eterni,  sicché  la  nostra  esistenza 
ci  diventa  quasi  indifferente  ed  ignobile.  Di  fronte  a  sì  desolante  spettacolo  l'istinto 
della  nostra  immortalità  rimane  profondamente  scosso,  e  ci  domandiamo:  se  tutto 
corre  alla  distruzione,  rimarrò  io  incolume  in  mezzo  alla  ruina  universale,  oppure 
anche  per  me  verrà  giorno  in  cui  tutto  sarà  finito  per  me? 

Il  desiderio  della  felicità  è  un  altro  fatto  psicologico,  che  si  presenta  al  nostro 
esame  ed  ha  un'  intima  attinenza  colla  vita  futura.  Questo  desiderio  vien  dal  cuore 
ed  ha  per  forma  l'amore.  La  felicità  è  il  riposo  imperturbabile  del  cuore  nel  possesso 
dell'oggetto  amato.  Il  cuore  cerca  la  felicità  amando  le  persone  e  le  cose,  amando 
la  gloria,  la  scienza,  l'arte,  amando  la  famiglia,  la  patria,  l'umanità,  Dio;  e  il  suo 
amore  può  essere  più  o  meno  potente,  può  essere  una  soave  e  subitanea  emozione, 
una  passione,  un  entusiasmo,  un'  estasi.  Ma  qualunque  siasi  l'oggetto  che  si  ama  ed 
il  grado  dell'amore,  questo  desiderio  della  felicità  ha  una  natura  razionale  tutta  propria 
dell'uomo,  per  cui  essenzialmente  si  dispaia  dalla  cieca  e  sensuale  felicità  comune 
ai  bruti,  in  quella  guisa  che  l'istinto  dell'immortalità  si  differenzia  dall'istinto  ani- 
male della  propria  conservazione.  Poiché  la  felicità,  a  cui  aspira  il  cuore  umano,  è 
illuminata  dall'intelletto,  che  gli  rivela  l'amabilità  degli  esseri  dalle  creature  finite 
sino  all'infinità  di  Dio.  Ma  anche  questo  desiderio  della  felicità  soggiace  ad  aspris- 
sime  lotte,  che  lo  convertono  in  un  vero  tormento.  L'amore  è  sempre  inseparabile 
dal  dolore,  e  non  vi  ha  anima  umana,  che  non  provi  di  quando  in  quando  più  o  men 
vivo  il  sentimento  dell'infelicità  propria.  Una  forza  ignota  ed  insuperabile  ci  rapisce 
l'uri  dopo  l'altro  gli  oggetti,  su  cui  posava  il  cuore,  ed  alla  felicità  vi  succede  una 
serie  di  disinganni  e  di  sconforti.  Talvolta  il  cuore  medesimo  per  una  certa  quale 
mutabilità  ed  irrequietezza  insita  in  lui  sente  inconsciamente  languire  l'affetto,  che 
Serie  U.  Tom.  LUI.  8 


58  GIUSEPPE    ALLIEVO 

nutriva  verso  una  creatura,  la  quale  gli  diventa  pressoché  indifferente,  mentre  da 
prima  era  il  suo  paradiso.  Che  più?  L'amore  stesso  di  Dio,  che  arde  in  alcune  anime 
sante,  ha  dei  periodi  di  languore  e  di  sconforto,  che  tocca  la  disperazione.  In  mezzo 
a  tanti  amori  contrastati,  a  tante  lotte  del  cuore  noi  siamo  portati  a  dimandarci  : 
o  felicità,  che  tu  non  sii  altro  che  un  vano  fantasma,  un'  atroce  derisione? 

Accanto  all'istinto  dell'immortalità  ed  al.  desiderio  della  felicità  sta  l'amore  della 
verità  e  la  brama  incessante  di  conoscerla  e  possederla  tutta  quanta,  in  tutta  la  sua 
immensità.  Il  nostro  intelletto  va  continuamente  scrutando  la  ragion  delle  cose,  aspira 
a  comprendere  la  realtà  tutta  quanta,  avanza  di  cognizione  in  cognizione,  e  mai  non 
si  arresta,  mai  non  si  sazia,  se  il  Ver  non  lo  illustra  di  fuor  dal  qual  nessun  vero  si 
spazia  (1).  Per  certo  non  abbiamo  tutti  una  pari  energia  intellettiva,  ne  la  medesima 
indole  e  tempra  d'ingegno;  epperò  nell'immensa  distesa  delle  cose  conoscibili  chi  ri- 
volge l'occhio  della  mente  sovra  un  punto  e  chi  sopra  un  altro,  come  pure  vi  ha  chi 
si  sofferma  col  pensiero  ad  un  dato  segno  e  chi  si  spinge  più  oltre  assai.  Quale  smi- 
surata distanza  tra  il  genio  filosofico  di  Platone  ed  il  semplice  buon  senso  di  un  po- 
polano! Pur  tuttavia  in  mezzo  a  tanta  disparità  di  menti  l'istinto  del  sapere  si  fa 
sentire  in  tutte  le  intelligenze  umane,  e  ciascuna  nell'ordine  suo  prosegue  la  sua  via 
senza  mai  intravederne  il  termine  ;  più  se  ne  sa,  e  più  se  ne  vorrebbe  sapere,  giacche 
nel  mondo  intelligibile  rimane  sempre  alcunché  di  nuovo  e  di  inesplorato,  e  la  novità 
di  sua  natura  esercita  un'  attrattiva  sul  pensiero  e  suscita  la  curiosità  del  conoscere. 
Ma  la  verità  è  pur  sempre  l'aspirazione  suprema  ed  incessante  dell'umano  intelletto  : 
non  si  pensa  unicamente  per  pensare;  non  ci  appaga  un  conoscere  quale  che  siasi; 
l'istinto  del  sapere  ci  porta  a  conoscere  le  cose  non  già  alterate  e  contrafatte,  ma 
quali  sono  realmente  in  se  stesse,  vai  quanto  a  conoscere  il  vero,  giacché  la  verità 
è  per  appunto  quello,  che  è. 

Ma  la  nostra  intelligenza  raggiunge  essa  sempre  la  pura  e  schietta  verità,  a  cui 
naturalmente  aspira  e  la  raggiunge  tutta,  quanta  è  nel  suo  costante  desiderio  ?  Anche 
qui  l'esperienza  ci  risponde,  che  la  nostra  potenza  intellettiva  si  trova  di  fronte  a 
forze  nemiche  ed  ineluttabili,  che  le  contrastano  il  cammino.  Il  traviamento  e  l'aber- 
razione dei  sensi  fisici  esterni,  la  prepotenza  delle  passioni,  l'intemperanza  dell'im- 
maginazione non  solo  rendono  faticosa  all'intelletto  la  conquista  della  verità,  ma  lo 
travolgono  in  un  labirinto  di  errori  alterando  la  schietta  realtà  delle  cose.  Fu  agitata 
la  questione,  se  nella  vita  umana  prevalgano  le  gioie  od  i  dolori;  si  potrebbe  qui 
ricercare,  se  sia  maggiore  o  minore  il  numero  delle  conoscenze  vere  di  fronte  alle 
erronee.  Sentenziava  Democrito  che  la  verità  è  in  un  pozzo;  vai  quanto  dire  che 
non  sempre  si  riesce  a  trarla  fuori  alla  luce  del  giorno  in  mezzo  all'acciecamento 
delle  passioni,  alle  lusinghe  de'  sensi,  al  contrasto  delle  opinioni.  Né  soltanto  il  volgo 
è  avviluppato  in  errori  di  ogni  sorta,  che  talfiata  rendono  raro  perfino  quel  senso, 
che  appellasi  senso  comune,  ma  anche  la  storia  dell'umano  sapere  accanto  alla  sco- 
perta di  belle  e  grandi  verità  ci  presenta  un  perpetuo  conflitto  di  sistemi  e  di  dot- 
trine, che  compaiono  e  scompaiono  distruggendosi  a  vicenda,  e  sulle  loro  rovine  si 
innalza  lo  scetticismo,  che  grida  protervo:  la  verità  è  una  chimera.  Alle  opinioni 
instabili  ed  ai  sistemi  erronei  vengono   ad    aggiungersi   i   tanti   problemi   insolubili, 


(1)  Dante,  Divitut  Commedia,  Parad.,  canto  4°,  vers.  124-126. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  59 

giacché  nell'intimo  fondo  di  tutte  le  cose  giace  un  mistero  indecifrabile,  come  la 
sfinge  egizia,  che  intima  alla  ragione:  non  muovere  un  passo  più  in  là.  In  conclusione, 
la  natura  ha  posto  nell'intelligenza  umana  una  brama  insaziabile  di  tutto  conoscere, 
tutto  sapere,  ed  invece  della  verità  pura  e  compiuta,  a  cui  aspira,  essa  non  vede 
che  un  impercettibile  punto  luminoso,  che  riluce  in  mezzo  a  dense  tenebre  universali. 

Il  Vero,  oggetto  dell'intelligenza,  è  indisgiungibile  dal  Buono,  oggetto  della  vo- 
lontà, giacché  la  verità  conosciuta  viene  tradotta  in  atto  mediante  la  libera  attività. 
Quindi  ci  si  presenta  un  quarto  fatto  psicologico  attinente  alla  vita  futura,  ed  è  l'aspi- 
razione continua  dell'anima  al  possesso  dell'ideale  morale  mediante  l'adempimento 
del  dovere  ed  il  culto  della  virtù.  L'uomo  vagheggia  quest'ideale  della  sua  perfe- 
zione, scorge  nel  dovere  alcunché  di  divino,  che  a  sé  lo  attrae,  ammira  la  virtù  sic- 
come il  titolo  più  sublime  della  dignità  umana,  e  la  esalta  al  di  sopra  della  scienza, 
dell'arte,  di  ogni  altro  bene  umano.  "  Virtus  clara,  aeternaque  habetur  „  (1).  Quest'ideale 
costa  sacrificii,  il  dovere  è  inconciliabile  cogli  ignobili  istinti  e  colle  turpi  passioni, 
e  l'uomo  combatte,  ma  la  sua  lotta  è  un'alternata  vicenda  di  trionfi  e  di  sconfitte,  di 
generosi  propositi  e  di  infelici  ricadute,  e  l'ideale  vagheggiato  non  lo  raggiunge  mai; 
che  anzi  quest'ideale  più  di  una  volta  si  eclissa  davanti  a' suoi  occhi;  egli  si  scon- 
forta pensando  che  il  giusto  è  oppresso,  l'iniquo  trionfa,  e  che  anche  la  virtù,  questo 
bene  divino  acquistato  con  tanta  fatica,  si  può  perdere  da  un  giorno  all'altro,  e  sta 
per  rinunciare  alla  lotta,  come  se  una  forza  bruta,  arcana,  insuperabile  trascini  dietro 
a  sé  tutti  i  voleri  umani  cancellando  ogni  divario  tra  la  virtù  ed  il  vizio.  "  0  virtù 
(esclamava  Bruto  morente),  non  sei  tu  altro  che  un  nome  vano?  „.  Così  anche  quest'aspi- 
razione dell'anima  verso  il  suo  ideale  morale  patisce  una  disdetta,  tende  ad  esso  con 
incessante  sforzo  e  non  lo  raggiunge  mai. 

Abbiamo  preso  ad  esame  quattro  specie  di  fatti  psicologici,  i  quali  si  collegano 
col  problema  dell'esistenza  oltremondana:  l'istinto  dell'immortalità,  il  desiderio  della 
felicità,  la  brama  della  verità,  l'aspirazione  all'ideale  morale.  Per  dare  a  questo  studio 
la  maggior  compitezza  possibile  occorre  contemplare  altri  fatti,  che  ci  somministra 
non  più  la  psicologia  individuale,  ma  la  psicologia  sociale,  e  che  hanno  cogli  altri  una 
intima  corrispondenza:  così  i  due  esami  si  rinforzano  e  si  compiono  a  vicenda. 

La  storia  dell'umanità  è  unanime  nell'attestare,  che  tutte  le  genti  umane  e  an- 
tiche e  moderne,  e  barbare  e  civili  professarono  il  dogma  dell'immortalità  dell'anima, 
e  che  questo  dogma  fa  parte  delle  credenze  religiose  di  tutti  i  popoli  (2)  insieme  con 
quello  dell'esistenza  di  Dio.  Dio  esiste;  l'anima  è  immortale;  ecco  i  due  cardini  fon- 
damentali della  religione  universale,  la  sostanza  delle  credenze  religiose  in  mezzo  alle 
loro  svariatissime  forme.  Qui  ci  ristringiamo  a  constatare  il  fatto  storico  lasciando 
da  banda  le  forme  diverse  che  ha  rivestito  questa  credenza,  quale  sarebbe  la  me- 
tempsicosi. Questa  fede  di  tutti  i  popoli  nell'immortalità  è  confermata  da  un  altro 


(1)  Sallustio,   Catilinaria,  1. 

(2)  Si  consultino  all'uopo  Strabone,  Rerum  geograph.,  1.  15,  pag.  7,  15;  Diodobo  Siculo,  lib.  V, 
n"  212,  pag.  13;  Psello  presso  Stanleio,  Hist.  phil.,  t.  2,  p.  1128;  Giulio  Cesare,  De  bello  gallico, 
lib.  Ili;  Plutarco,  De  orami,  defeclu,  dove  scrive:  "  Tutti  i  misteri  hanno  rapporto  colla  vita  futura 
e  collo  stato  delle  anime  dopo  la  morte  „;  Valerio  Massimo,  lib.  IT,  cap.  6;  Erodoto,  lib.  V,  num.  1; 
Pellout,  Storia  dei  Celti,  t.  11,  cap.  18;  Ugo  Grozio,  De  verit.  relig.  christ.,  e.  1,  1.  2;  Ranieri,  Storia 
generale  delle  cerimonie,  usanze  e  costumi  religiosi  di  tutti  i  popoli  del  inondo,  t.  5. 


gQ  GIUSEPPE    ALLIEVO 

fatto  di  psicologia  sociale,  quale  è  la  cura  delle  sepolture  ed  il  culto  dei  morti.  Un 
corpo  umano  fatto  cadavere  ha  per  noi  alcunché  di  sacro  e  ci  inspira  una  pia  rive- 
renza, perchè  fu  la  dimora  di  un'anima,  che  non  è  morta  con  esso.  A  questi  consen- 
timenti del  genere  umano  nella  credenza  dell'immortalità  fa  bella  corrispondenza  il 
consenso  degli  antichi  poeti  e  filosofi.  Omero,  Esiodo,  Pindaro  ci  ritraggono  le  anime 
giuste  dei  trapassati,  che  vegliano  sulle  sorti  dei  viventi.  Talete,  Pitagora,  Socrate, 
Platone,  Cicerone.  Seneca  ci  lasciarono  nei  loro  lavori  filosofici  meditazioni  profonde 
intorno  all'esistenza  oltremondana. 

Abbiamo  esaminati  in  se  stessi  i  fatti  psicologici  attinenti  alla  vita  futura  e 
siamo  giunti  a  questa  conclusione  finale  :  esiste  un  profondo  conflitto,  una  dura  con- 
traddizione tra  l'istinto  dell'immortalità  ed  il  fenomeno  universale  della  morte,  tra 
il  desiderio  della  felicità  ed  il  dolore,  tra  la  brama  insaziabile  della  verità  e  l'errore 
ed  il  mistero,  tra  l'ideale  morale  e  la  corruzione  e  l'impotenza  a  raggiungerlo.  Ora 
dobbiamo  passare  alla  parte  critica  e  razionale  del  nostro  studio,  ricercare  il  come 
possa  risolversi  questo  conflitto,  dimandare  se  esso  sia  conforme  all'ordine  universal 
delle  cose,  sia  rispondente  alla  ragion  divina. 

L'istinto  dell'  immortalità  è  radicato  in  noi  dalla  mano  medesima  della  natura, 
epperciò  la  morte,  ossia  l'annientamento  della  nostra  persona,  la  distruzione  del  nostro 
io  non  può  essere  negli  intendimenti  della  natura,  non  può  entrare  nel  disegno  prov- 
videnziale di  Dio,  perchè  è  un  disordine,  e  perchè  noi  medesimi  troviamo  ripugnante, 
che  la  nostra  mente,  la  quale  per  l'eccellenza  della  sua  natura  percorre  tutto  l'uni- 
verso e  spazia  nell'infinito,  vada  a  finire  nel  nulla.  Se  si  ammette  la  Provvidenza  di- 
vina, necessita  ammettere  altresì  una  vita  futura  in  cui  l'istinto  dell'immortalità  abbia 
il  suo  adempimento.  Tolta  l'immortalità,  riesce  inutile  la  Provvidenza.  "  Inutilis 
est  Providentiae  doctrina,  sublata  animae  immortalitate  (1)  „  ;  e  Rousseau  nella  Pro- 
fessione di  fede  del  Vicario  savoiardo  lasciò  scritto:  "  Se  l'anima  è  immateriale, 
può  sopravvivere  al  corpo;  e  se  gli  sopravvive,  la  Provvidenza  è  giustificata  „.  Quindi 
si  scorge  come  nelle  credenze  religiose  dell'umanità  i  due  concetti  dell'esistenza  di 
Dio  e  dell'immortalità  dell'anima  siano  inseparabili  e  ne  costituiscano  l'intima  sostanza. 
I  materialisti  e  gli  atei,  essi  soltanto,  possono  rigettare  l'immortalità  dell'io  umano  e 
rifugiarsi  nel  nulla;  e  sono  logici,  poiché  negata  l'eternità  di  un  Dio  personale,  riesce 
impossibile  l'immortale  durata  degli  spiriti  umani,  e  ridotto  tutto  l'uomo  a  pura  ma- 
teria, la  sua  individualità  scompare  col  dissolversi  dell'organismo.  Costoro  sostengono 
l'immortalità  del  genere  umano,  ma  non  quella  dei  singoli  individui,  e  sentenziano 
che  i  singoli  uomini  debbono  scomparire  gli  uni  dopo  gli  altri  affinchè  si  conservi 
perpetua  la  specie  umana,  mentre  in  realtà  non  sussistono  che  individui  e  la  specie 
è  una  mera  astrazione.  Questa  dottrina  del  nullismo  professa  con  un'audacia,  che 
tocca  il  cinismo,  un  seguace  di  Hegel,  Luigi  Feuerbach,  che  trasse  il  materialismo 
dal  sistema  del  suo  maestro.  "  Nulla  adunque  (egli  scrive)  dopo  la  morte?  Nulla!  Né 
questo  debbe  punto  sorprendervi:  giacché  se  vivendo  siete  stati  tutto,  giusto  è  che 
siate  nulla  dopo  la  vita.  Mentre  l'uomo  è  mortale,  il  genere  umano  non  lo  è.  Voi 
uscirete  una  volta  dal  mondo  della  coscienza  umana  ed  altri  vi  entreranno,  a  persone 
succederanno  persone,  né  il  genere  umano  soffrirà  per  la  scomparsa  vostra  e  di  chiunque 


(1)  Leibnitz,  Epistola  ad  Bierling  responsio  ad  epist.  XII. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  61 

altri.  Io  non  ambisco  di  andare  ad  incontrare  Socrate,  Carlo  Magno  o  S.  Agostino  nel 
regno  delle  ombre,  e  preferisco  immergermi  nel  nulla,  giacche  l'azione  morale  e  ma- 
teriale di  tutta  la  mia  vita  ha  finito  per  istancarmi  (1);  lasciatemi  dormire  in  pace 
il  sonno  eterno.  Io  discendo  nel  nulla,  ma  nel  tempo  stesso  un  altro  uomo  entra  nel 
mondo  (2)  a  surrogarmi  ,  (3). 

Le  altre  contraddizioni,  che  si  riscontrano  nel  mondo  psicologico  della  coscienza, 
tra  il  desiderio  della  felicità  ed  il  dolore,  tra  la  brama  della  verità  e  l'errore  accom- 
pagnato dal  mistero,  tra  l'ideale  morale  e  l'impotenza  di  conseguirlo,  non  possono 
anch'esse  risolversi  altrimenti  se  non  ammettendo  la  vita  futura  siccome  richiesta 
dall'ordine  universale  della  natura  e  dal  disegno  divino  provvidenziale.  La  vita  presente 
oppressa  da  tanti  dolori  e  da  tante  tristizie,  e  non  confortata  dall'idea  di  una  vita 
migliore,  ci  porterebbe  ad  imprecare  alla  natura,  non  più  provvida  madre,  ma  spie- 
tata matrigna,  che  si  compiace  di  creare  tanti  infelici:  l'uomo  dovrebbe  invidiare  la 
pietra,  che  non  sente  dolore,  od  il  bruto,  che  vive  senza  sentire  disinganni  e  scon- 
forti, e  muore  senza  saper  di  morire.  Il  pessimismo  sarebbe  inevitabile. 

Il  consenso  del  genere  umano  nella  credenza  della  vita  futura  ha  un  gravissimo 
peso  ed  un  sommo  valore  che  non  può  essere  disconosciuto,  perchè  essendo  univer- 
sale e  costante  è  l'espressione  di  una  voce  della  natura  la  quale  è  infallibile  nei  suoi 
pronunciati.  "  Opinionum  commenta  (scrisse  Cicerone)  delet  dies,  naturae  judicia  con- 
firmat  „.  È  egli  possibile,  che  le  genti  umane  tutte  versino  nell'errore  in  cosa  disi 
alto  momento,  che  riguarda  le  sorti  della  loro  finale  destinazione?  Ma  non  potrebbe 
forse  darsi  che  questa  credenza,  quando  fosse  sottoposta  alla  rigorosa  critica  della 
ragione  si  risolvesse  in  una  vana  illusione  del  sentimento  e  del  cuore,  in  una  chimera 
dell'immaginazione?  (4).  Questo  dubbio  suppone  che  la  ragione  sia  essa  la  sola  e  su- 
prema fonte  della  verità,  la  sovrana  ed  infallibile  giudice  di  tutte  le  aspirazioni  del 
cuore,  e  che  tra  l'una  e  l'altro  vi  possa  essere  un  conflitto  naturale  ed  assoluto,  ciò, 
che  non  è.  Il  sentimento  e  la  ragione  hanno  un  punto  comune,  in  cui  armonizzano; 
e  sta  nelle  aspirazioni  primigenie  proprie  dell'uno  e  nelle  intuizioni  delle  verità  uni- 
versali proprie  dell'altra.  Le  verità  primissime  ed  universali,  su  cui  si  fonda  la  vita 
dell'io  individuo  e  dell'umanità,  sono  ad  un  tempo  sentite  dal  cuore  ed  intuite  dalla 
ragione  e  su  questo  punto  l'armonia  tra  le  due  potenze  umane  è  perfetta  e  neces- 
saria. Non  si  confonda  la  ragione,  che  intuisce  le  verità  primissime  universali,  e  che 
è  la  stessa  in  tutte  le  intelligenze  umane,  colla  ragione,  che  medita  e  contempla,  e 
che  è  propria  del  dotto  e  del  filosofo:  quella  è  infallibile,  perchè  costituisce  il  lume 
medesimo  della  ragione;  questa  è  fallibile.  Nell'argomento,  che  abbiamo  per  le  mani, 


(1)  Che  linguaggio  ributtante  !  Quanta  abbiettezza  ed  ignobilità  di  sentire  !  Ben  altrimenti  sentiva 
Catone  il  maggiore,  al  quale  Cicerone  nel  termine  del  suo  libro  De  Senectute  mette  in  bocca  queste 
nobili  parole:  "  0  praeclarum  diem,  quum  ad  illud  divinum  animorum  concilium,  coetumque  profi- 
ciscar,  et  quum  ex  hac  turba  et  colluvione  discedam  „. 

(2)  Confortiamoci  che  altri  verranno  a  prendere  il  nostro  posto  nel  mondo  !  È  curioso  quel- 
l'hegeliano,  che  vagheggia  il  nulla  dopo  la  morte,  mentre,  secondo  il  sistema  di  Hegel,  l'immorta- 
lità della  vita  futura  è  un  privilegio  riservato  ai  soli  idealisti  contemplatori  dell'Assoluto  hegeliano. 

(3)  Essenza  della  religione  —  Morte  ed  immortalità. 

(4)  Vedi  i  capitoli  Sur  l'immortalité  de  Vaine  contenuti  nell'opera  di  M.  Guizot,  Méditations  et 
étttdes  morales.  Bruxelles  1852. 


62  GIUSEPPE    ALLIEVO 

la  credenza  universale  degli  uomini  nella  vita  futura  non  può  essere  dalla  critica  giu- 
dicata erronea  e  rigettata  siccome  una  vana  illusione  del  sentimento  e  del  cuore, 
perchè  la  storia  della  filosofia  e  della  scienza  registra  nelle  sue  pagine  i  nomi  glo- 
riosi d'innumerevoli  e  potentissimi  pensatori  e  filosofi,  i  quali  non  solo  non  rigetta- 
rono siccome  insussistente  la  vita  futura,  ma  validamente  la  sostennero  e  la  propu- 
gnarono colla  potenza  del  loro  pensiero.  Il  Feuerbach  audacemente  rinnegando  la 
esistenza  oltremondana  siccome  un  vano  fantasma  dichiarava  che  non  recava  danno  di 
sorta  alle  persone  strappando  ad  esse  i  loro  convincimenti  religiosi,  che  anzi  appa- 
riva il  loro  benefattore,  il  loro  salvatore,  perchè  le  riconduceva  alla  verità  ed  alla  ra- 
gione. Come  se  di  fronte  al  genere  umano  egli  solo  fosse  nel  vero  !  Come  se  soltanto 
la  sua  ragione  fosse  infallibile,  e  non  contasse  per  nulla  la  ragione  di  infiniti  altri 
pensatori  assai  più  potenti  di  lui,  che  profondamente  meditarono  e  riconobbero  sic- 
come verità  solenne  la  vita  futura!  Ma  a  lui  piacque  meglio  innalzarsi  al  di  sopra 
di  tutti  costoro,  e  soffocare  nel  nullismo  la  dignità  della  persona  umana  e  delle  sue 
sublimi  aspirazioni  ideali.  Certo  è,  che  la  discussione  del  problema  presenta  dissidii, 
controversie  e  disparità  di  pareri  fra  i  filosofi  storici,  che  lo  risolsero  in  senso  affer- 
mativo; ma  occorre  avvertire,  che  il  loro  disaccordo  cade  soltanto  sul  modo  e  sulla 
forma  nuova,  che  assumerà  la  vita  futura  dell'io  umano,  mentre  sono  concordi  nel- 
l'ammetterne  l'esistenza:  il  che  sommamente  importa  al  nostro  intendimento. 


Conclusione. 

Volgendo  uno  sguardo  al  cammino,  che  abbiamo  percorso  intorno  l'argomento, 
che  abbiamo  preso  ad  oggetto  del  nostro  studio,  noi  possiamo  ora  misurarne  tutta  la 
gravità  e  l'ampiezza.  Il  problema  dell'esistenza  oltremondana  non  è  una  questione  di 
nervi  od  uno  scatto  di  isterismo,  come  potrebbe  apparire  agli  spiriti  superficiali  ed 
agli  animi  volgari,  ed  io  non  ho  fatto  che  sfiorare  quest'immenso  problema  toccan- 
done il  punto  più  saliente;  ma  prima  di  abbandonarlo  è  pregio  dell'opera  segnarne  la 
grandissima  ampiezza  indicando  i  punti  di  contatto  e  le  attinenze,  che  lo  collegano 
colle  altre  parti  dell'umano  sapere.  Anzi  tutto  esso  si  collega  con  quel  ramo  di  filo- 
sofia antropologica,  che  contempla  l'origine  dell'uomo  e  la  sua  natura  personale,  es- 
sendoché i  tre  sommi  problemi  —  donde  vengo,  che  cosa  sono,  dove  vado  —  sono  inse- 
parabili e  si  chiariscono  a  vicenda.  Secondamente  ha  una  stretta  dipendenza  con 
quelle  parti  di  psicologia,  che  hanno  per  oggetto  di  ricercare  il  legame  tra  l'anima 
ed  il  corpo  e  determinare  il  vario  operare  delle  umane  potenze.  In  terzo  luogo  esso 
presuppone  che  la  scienza  filosofica  abbia  determinato  il  concetto  di  spirito  e  di  ma- 
teria (1)  e  risolta  la  questione,  che  si  dibatte  tra  il  materialismo  e  lo  spiritualismo. 
In  quarto  luogo  dipende  dalla  scienza  etica,  alla  quale  spetta  discutere  la  sanzione 
morale,  tanto  intimamente  connessa  colla  vita  futura,  come  pure  dipende  dalla  teo- 
dicea, che  contempla  la  giustizia  e  la  provvidenza  divina  in  riguardo  al  mondo.  Infine 
ha  pur  anco  un  punto  di  contatto  colla  storia  civile  e  colla  letteraria,  la  quale  re- 


(i)  Discuterò  di  proposito  questo  punto  in  altro  mio  lavoro  intitolato:  Lo  spirito 
nell'universo,  l'anima  ed  il  corpo  nell'uomo. 


LA    VITA    OLTREMONDANA  63 

gistra  la  credenza  di  tutte  le  nazioni  nella  vita  futura  e  le  tradizioni  mitologiche 
espresse  nelle  opere  degli  scrittori  greci  e  latini.  Noi  italiani  abbiamo  nell'autore 
della  Divina  Commedia  il  sublime  cantore  della  vita  futura. 

L'immortalità  dell'io  è  una  solenne  e  costante  aspirazione  del  cuore,  un  teorema 
della  ragione,  un  pronunciato  della  sapienza  comune,  una  credenza  religiosa  del  ge- 
nere umano.  Questo  principio  dell'esistenza  futura  si  presenta  sotto  differenti  aspetti 
alle  persone,  che  lo  contemplano.  La  sua  gravità  è  diversamente  sentita,  ed  il  suo 
significato  differentemente  inteso  dall'apatico  che,  vive  alla  giornata  senza  pensare 
al  dimani,  e  dal  melanconico,  che  sente  l'infelicità  della  vita;  dal  giovane  fervido  di 
speranze  rivolte  al  mondo  presente,  e  dal  vegliardo,  che  vede  i  suoi  giorni  volgere 
al  tramonto  ;  dallo  sventurato,  che  piange  sulla  tomba  di  una  persona  caramente  di- 
letta, e  dal  filosofo,  che  fa  di  questo  gran  problema  una  questione  meramente  astratta 
come  se  toccasse  né  punto,  ne  poco  la  sua  individua  persona. 

Raccogliamo  la  conclusione  finale.  La  morte  non  è  l'annientamento  del  nostro 
io,  ma  una  solenne  trasfigurazione  della  nostra  vita  fisica  e  mentale  ;  è  una  sincope 
temporanea  del  nostro  essere,  alla  quale  succede  il  risveglio  di  un'attività  vitale  af- 
fatto nuova.  Nella  crisalide  la  scintilla  della  vita  non  è  spenta,  ma  sopita;  essa  rompe 
il  suo  involucro  e  ne  esce  farfalla,  che  riveste  una  nuova  vita  e  vola  liberamente  per 
lo  spazio  aereo.  Quando  si  chiudeva  nel  suo  bozzolo  come  in  un  piccolo  sepolcro  da 
lei  costrutto,  avrebbe  potuto  dire:  tutto  è  finito  per  me:  ora  può  ben  dire:  tutto 
ricomincia  per  me. 

Ho  detto  che  la  morte  non  è  l'annientamento  del  nostro  io:  ecco  quanto  di  vero, 
di  certo,  di  saldo  emerge  dalla  discussione  di  questo  formidabil  problema,  il  punto, 
in  cui  sono  concordi  l'aspirazione  del  sentimento  e  l'intuizione  della  ragione,  le  cre- 
denze universali  del  genere  umano  e  la  filosofia.  Ho  aggiunto  che  la  nostra  è  una 
solenne  trasfigurazione  della  nostra  vita  presente:  ma  in  che  consiste  questa  trasfi- 
gurazione? Qual'è  la  nuova  forma  di  vita  psichica,  propria  dell'esistenza  oltremondana? 
Ecco  la  parte  insoluta,  e  forse  insolubile  del  problema,  involta  in  difficoltà,  ipotesi, 
dubbiezze,  opinioni  controverse  (1).  Chi  può  rintracciare  le  vestigia  delle  migliaia  di 
persone  umane,  che  sono  scomparse  dalla  faccia  della  terra?  Ma  dall'altro  lato  for- 
sechè  questo  piccolo  globo,  che  abitiamo,  è  di  tutto  l'immenso  universo  l'unico  sog- 
giorno delle  creature  viventi?  Eppoi  anche  gli  atomi,  in  cui  si  è  disciolto  un  orga- 
nismo animale,  sono  scomparsi  dai  nostri  occhi ,  e  veruno  può  seguirne  le  traccie  ; 
eppure  son  forse  caduti  nel  nulla? 


(1)  Luigi  Bourdeau  nel  suo  volume  :  Le  problhne  de  la  mori,  ses  soluiions  imagìnaires  et  la  science 
positive,  discorrendo  con  una  leggerezza  umoristica  sconveniente  ad  un  serio  pensatore,  le  condizioni 
di  luogo  e  di  durata  dell'esistenza  futura,  e  le  funzioni  fisiologiche  e  psichiche  relative  alle  mede- 
sime, affastella  le  tante  dubbiezze,  in  cui  è  intricato  siffatto  argomento  e  sotto  la  loro  valanga 
si  immagina  di  avere  sepolta  la  credenza  universale  nella  vita  oltremondana.  Ma  dacché  non  si 
riesce  a  determinare  per  bene  la  forma  della  vita  futura  dell'io  umano,  non  evvi  ragione  di  negarne 
l'esistenza.  Il  mistero  va  rispettato,  e  non  rigettato  in  nome  di  una  così  detta  scienza  positiva,  che 
non  è  scienza,  e  davanti  ad  una  pleiade  di  potentissimi  pensatori  e  filosofi,  che  discussero  ed  ammi- 
sero col  genere  umano  l'esistenza  oltremondana. 


IL  PENSIERO  PEDAGOGICO  DI  L.  A.  MURATORI 


MEMORIA 

DEL 

Prof.  STEFANO  GRANDE 


Approvata  nell'Adunanza  del  19  Aprile  1903. 


NOTIZIE    GENERALI 


I.  —  Gli  Italiani  nella  storia  della  pedagogia. 

Gabriele  Compayrè,  nella  sua  notissima  "  Storia  della  Pedagogia  „  (1),  non  re- 
gistra, in  tutto  il  decorso  della  nostra  storia,  che  due  soli  nomi  di  pedagogisti  ita- 
liani: Vittorino  da  Feltro  e  Pietro  Siciliani,  quest'ultimo  poi  appena  in  nota.  Come 
si  può  spiegare  tanto  vuoto  in  questa  scienza  da  parte  degli  Italiani?  Non  vantiamo 
noi  nella  nostra  storia  sommi  indagatori  del  vero,  illustri  creatori  di  scienze,  acuti 
rinnovatori  di  metodi,  buoni  filosofi,  insigni  maestri?  Galileo  e  Vico,  Machiavelli  e 
Leonardo  da  Vinci,  Andrea  Cesalpino,  Romagnosi,  Aporti,  Gino  Capponi,  Lambru- 
schini,  Tommaseo,  Gioberti,  Rosmini,  Rayneri,  Angiulli,  Gabelli,  e  molti  e  molti  altri, 
per  non  parlare  dei  viventi,  tutti  costoro  sono  dunque  per  l'illustre  storico  della 
pedagogia  altrettanti  Cameade? 

Secondo  noi,  la  lacuna,  o  meglio  il  silenzio  del  Compayrè  si  deve  riguardare 
sotto  un  duplice  aspetto,  per  cui,  da  una  parte  è  conforme  a  verità,  dall'altra  le 
è  superiore. 

È  verissimo  che  noi,  prima  e  dopo  Vittorino  da  Feltre,  manchiamo  di  proprii  e 
veri  pedagogisti,  sì  nella  teorica  che  nella  pratica  riflessa  dell'educazione;  ma  se  il 
buon  metodo  nelle  diligenti  esperienze,  nelle  sottili  ricerche,  nelle  nuove  applicazioni, 
nell'ammaestrare  con  sicurtà  popoli  e  nazioni,  nel  procacciare  utili  cognizioni,  riguar- 
dano la  scienza  dell'educazione,  o  almeno  la  pedagogia  applicata,  noi  ben  per  tempo 
conoscemmo  la  metodica  e  l'arte  dell'  educazione  in  generale.  Ecco  :  non  si  pensò 
presso  noi  a  coltivare  espressamente  la  pedagogia,  a  scrivere  veri  e  proprii  trattati 
intorno  ad  essa  ;  ma  pensieri,  idee,  teorie  pedagogiche  disseminate  a  larghi  tratti  nelle 
opere  dei  nostri  dotti  non  mancano.  Il  fatto  dell'educazione  ha  preceduto  la  scienza, 
la  pratica  naturale  precede  la  teoria  speculativa,  e  noi  fino  alla  metà  del  secolo  XIX 
vaghiamo  nel  periodo  dell'arte  spontanea  dell'educazione.  Ma  arrivati  a  questo  tempo, 
è  certo,  indubitato,  che  anche  per  noi  incomincia  l'arte  riflessa,  consapevole,  razionale, 


(1)  G.  Compayrè,  Storia  della   Pedagogia.  Traduzione   ed    aggiunte   di    Angelo  Valdarnini.    Terza 
edizione,  Paravia,  1899. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  9 


66  STEFANO    GRANDE  2 

incomincia  la  vera  scienza,  e  i  nostri  nomi  possono  sostenere  il  confronto  con  quelli  delle 
altre  nazioni.  Così  si  deve  interpretare  la  lacuna  dell'illustre  storico  della  pedagogia. 
Nel  periodo  pertanto  che  dicemmo  dell'arte  spontanea,  ove  insigni  filosofi,  giu- 
risti, letterati  italiani  ci  diedero  cognizioni,  idee,  teorie  pedagogiche,  cade  la  grande 
figura  del  Muratori,  che  noi  ci  proponiamo  di  studiare.  Anche  per  lui  si  verifica  quello 
che  già  dicemmo  per  altri  grandi  :  non  è  già  che  vi  manchi  il  pensiero  pedagogico, 
sia  pur  spontaneo,  manca  piuttosto  chi  lo  voglia  rintracciare  e  studiare.  Del  resto 
che  così  stia  la  cosa,  che  questo  periodo  sia  non  meno  ricco  di  quello  dell'arte  ri- 
flessa, lo  dimostra  chiaramente  fra  gli  altri,  l'opera  dell'egregio  Professore  G.  B.  Ge- 
rini,  che  tante  elaborate  pagine  scrisse  nel  campo  della  nostra  storia  pedagogica, 
che  tanti  nomi  richiamò  dall'oblìo,  tanti  dimenticati  portò  alla  luce  del  giorno. 

II.  —  Scritti  del  Muratori  più  attinenti  alla  pedagogia. 

Il  posto  che  occupa  nella  Storia  Letteraria  Italiana  Ludovico  Antonio  Muratori, 
il  suo  ben  noto  valore,  la  sua  immensa  attività,  ci  dispensano  dal  tesserne  la  biografia 
ed  anche  la  bibliografia.  Dotato  d'ingegno  veramente  universale,  d'amore  intenso  agli 
studi,  di  desiderio  ardente  di  essere  utile  alla  società,  all'umanità  intera,  nessun  lato 
dello  scibile  umano  lasciò  intentato.  La  figura  del  Muratori  offre  ancor  ora,  nella 
sua  grandezza,  molti  aspetti  di  considerazione  allo  studioso.  Storico,  letterato,  filo- 
sofo, ovunque  rivolse  il  suo  ingegno  riuscì  splendidamente,  e  l'opera  sua  ci  prepara 
ancora  grate  sorprese.  Nessuna  meraviglia  pertanto  se  accanto  al  Muratori  storio- 
grafo può  sorgere  il  Muratori  poeta;  se  accanto  al  Muratori  filosofo  tenta  sorgere 
il  Muratori  pedagogista. 

Fra  le  molte  opere  muratoriane  alle  quali  dobbiamo  rivolgere  il  nostro  esame, 
non  è  mestieri  dirlo,  presentano  più  ampia  messe  al  nostro  scopo  le  filosofiche,  e 
più  particolarmente  ancora ,  il  trattato  della  Filosofia  Morale  (1) ,  per  la  necessaria, 
evidente  relazione  che  corre  fra  la  filosofia  e  la  pedagogia. 

Ma  anche  altrove  il  Muratori  ha  occasione  di  trattare  di  questioni  e  di  fatti 
attinenti  a  pedagogia  e  didattica,  e  noi  rivolgemmo  pure  particolare  attenzione  ai 
suoi  trattati:  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buoy,  Gusto  nelle  Scienze  e  nelle  Arti,  Delie- 
Forze  della  Fantasia  Umana,  Della  Forza  dell'Intendimento  Umano,  Della  Pubblica 
Felicità,  ecc.  ecc.,  e  cioè  ad  ogni  opera  riferentesi  comunque  a  filosofia;  perchè  se 
è  un  fatto  certo  che  ogni  grande  pedagogista  è  un  vero  filosofo,  è  pur  certo  che 
ogni  vero  filosofo  ha  in  qualche  modo  parlato  di  educazione. 

Ma  speciale,  specialissima  attenzione  rivolgemmo  al  suo  copioso  epistolario,  alla 
sua  larghissima  corrispondenza  coi  letterati,  filosofi,  eruditi  italiani,  e  coi  numerosis- 
simi amici,  favoriti  come  siamo  dall'accurata  e  benemerita  opera  del  Marchese  Matteo 
Campori,  che  dell'Epistolario  del  Muratori  pubblicò  già  —  1902  —  con  metodo  vera- 
mente felice  e  diligenza  non  comune,  quattro  grandiosi  volumi.  Ma  qui  non  è  tutta  la 
corrispondenza  muratoriana  e  parecchi  volumi  devono  ancora  veder  la  luce,  i  quali 
attendono  con  ansia  gli  studiosi,  persuasi  di  aver  campo  di  esaminare  il  Muratori 
sotto  nuovi  aspetti.  Ci  fermammo    più    specialmente  sulle  lettere,  perchè  esse  dilu- 


1)  La  Filosofia  Morale  esposta  e  proposta  ni  giovani  da  L.  A.  Muratori.  con  gli  avvertimenti  di 
Monsignor  Cesari   Sjj  '"  '''  Cremona.  Venezia,  Remondini,  17G3. 


3  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  67 

cidano  non  solo  la  vita  e  le  opere  dell'autore,  ma  ne  seguono  passo  passo  le  vicende, 
ne  rivelano  limpidamente  l'animo,  gli  atteggiamenti  dell'intelletto  e  del  cuore.  La 
lettera  è,  per  esprimerci  così,  una  pagina  di  psicologia  intima,  perchè  segna  il  pen- 
siero parlante  dell'autore,  di  cui  estrinseca  l'indole,  il  carattere,  il  giudizio  partico- 
lare e  minuto  sugli  uomini  e  sulle   cose. 

Per  la  sua  biografia  scientifica  poi,  cercammo  di  mettere  in  rilievo  un  solo  fatto 
particolare,  importantissimo  e  nello  stesso  tempo  trascuratissimo,  ricordando  che  il 
Muratori  non  fu  solamente  insegnante  privato,  ma  pur  anche  istitutore  e  precettore 
del  Principe  Ereditario  di  Modena.  Ci  parve  questa  una  qualità  molto  propizia  ad 
essere  esaminata  per  lo  scopo  nostro,  ed  importantissima,  perchè  come  precettore  di 
tanto  allievo  il  Muratori  può  contribuire,  quantunque  indirettamente,  a  dare  forza 
e  valore  a  quelle  idee  e  precetti  pedagogici  che  per  avventura  noi  raccogliemmo  nei 
suoi  scritti. 

Ma  noi  non  pretendiamo  di  presentare  qui  il  Muratori  come  un  vero  e  grande 
pedagogista,  balzato  fuori  dall'oblìo  in  cui  l'aveva  condannato  l'incuria  degli  studiosi; 
a  noi  è  sufficiente  stabilire  che  alla  luce  dei  suoi  pensieri  pedagogici  indirettamente 
riflessi,  si  rivela  un  raggio  nuovo,  o  almeno  non  prima  osservato,  nell'opera  del  grande 
erudito  italiano.  In  questo  senso  solo  poi  abbiamo  cercato  di  fare  un  lavoro  com- 
piuto, raccogliendo  cioè  quanto  il  Muratori  potè  aver  scritto  riferentesi  a  pedagogia 
e  didattica,  o  comunque  avente  relazione  con  gli  studi  e  colle  discipline  scolastiche, 
ordinando  il  tutto  secondo  i  criteri,  le  leggi  e  le  divisioni  della  scienza  pedagogica 
dettate  dai  migliori  pedagogisti. 

Osserviamo  poi  fin  d'ora  che  non  si  deve,  in  sintesi  generale,  pretendere  dal  Mu- 
ratori idee  e  teorie  del  tutto  nuove,  o  strettamente  particolari  ed  esclusive  ;  questo 
non  poteva,  e  viste  le  sue  intenzioni,  non  doveva  darci  egli:  ma  considerando 
tali  idee  e  teorie'  in  riguardo  ai  suoi  tempi,  alle  condizioni  civili  e  sociali  del  se- 
colo XVIII ,  allo  stato  stesso  di  questi  studi ,  riconosceremo  che  esse  racchiudono, 
almeno  in  germe,  una  scienza  nuova  rassodata  poi  dai  tempi  più  recenti,  ed  aprono 
nel  tempo  stesso  un  nuovo  indirizzo  per  gli  studi  pedagogici. 

III.  —  Divisione  della  pedagogia. 

La  pedagogia,  che  è  scienza  logicamente  ed  immediatamente  subordinata  alla 
antropologia  —  checché  si  blateri  di  fisiologia  — ,  come  l'antropologia,  ci  presenta 
una  triplice  divisione.  Essa  considera  l'educazione  umana: 

1)  Nella  sua  essenza  suprema  ed  universale,  quindi  studia  il  concetto,  il  me- 
todo, la  durata,  i  caratteri,  i  mezzi,  ecc.  dell'educazione. 

2)  Nelle  forme  e  specie  particolari  del  suo  sviluppo,  quindi  educazione  fisica, 
intellettuale,  morale,  ecc. 

3)  Nella  sua  sintesi  ed  oggetto    finale,    quindi    formazione,    cultura,  ecc.  del 
carattere  (1). 

Noi  cercheremo  di  esaminare  le  idee  pedagogiche  muratoriane  sotto  questi  diversi 
aspetti,  raccogliendo  le  parole  ed  i  pensieri  suoi  sotto  la  cerchia  di  questa  divisione, 
col  metodo  più  sistematico  e  razionale  che  ci  sarà  dato. 


(1)  G.  Allievo,  Studi  pedagogici.  Torino,  Tip.  Subalpina,  1893. 


68  STEFANO    GRANDE 


PARTE    PRIMA 


IV.  —  L'educazione  considerata  nella  sua  essenza  universale. 

Concetto,  Necessità,  Ragione  dell'  educazione.  —  Che  l'antropologia  porga  il  suo 
fondamento  scientifico  all'arte  educativa,  è  un  fatto  certo  anche  pel  Muratori.  Egli 
che  à  meditato  lungamente  e  profondamente  intorno  all'uomo,  sì  da  procurarsene 
una  conoscenza  profonda  e  verace,  è  naturalmente  portato  ad  esaminare  pure  la  sua 
educazione,  e  con  uno  sguardo  comprensivo  e  sicuro,  se  non  razionale  e  sistematico, 
l'abbraccia  tutta  quanta. 

L'uomo,  esordisce  egli  nel  suo  trattato  della  Filosofia  Morale,  è  fra  tutti  e  tutto 
l'essere  più  nobile  e  mirabile,  il  suo  studio  quindi  il  più  importante  e  necessario. 
"  S'io  chieggio,  qual  sia  fra  tante  creature  che  si  mirano  sopra  la  terra,  la  più  no- 
bile, la  più  mirabile  e  stimabile,  non  sarebbe  già  degno  di  esser  chiamato  Uomo, 
chi  non  rispondesse  tosto,  che  è  l'Uomo.  Adunque  ragion  vuole,  che  più  a  conoscere 
l'Uomo  che  l'altre  creature  s'applichi  lo  studio  de'  Mortali:  e  tanto  più  perchè  essendo 
ancor  noi  compresi  in  questa  avventurosa  schiera,  si  tratta  di  conoscere  noi  stessi; 
il  che  è  di  somma  importanza,  e  non  solamente  utile,  ma  necessario  per  ben  rego- 
lare la  vita  presente,  e  sperar  buon  esito  nell'altra  che  aspettiamo.  Il  Nosce  te  ipsum 
cioè  studia  ed  impara  a  ben  conoscere  te  stesso,  fu  una  delle  celebri  sentenze  degli 
antichi  amatori  della  sapienza,  verissima  in  tutti  i  tempi,  e  che  dovrebbe  scriversi 
in  ogni  facciata  di  casa  per  non  dimenticarla  giammai  „. 

Accennato  cosi  al  "  Nosce  te  ipsum  „,  si  ferma  a  chiarirne  il  vero  e  profondo 
significato,  perchè  egli  sa  che  è  facile  cosa  il  mutilarlo.  E  continua:  "  Il  conoscere 
l'Uomo,  e  per  conseguenza  sé  stesso,  consiste  nello  scoprir  tutte  le  differenti  se- 
grete ruote  che  il  muovono,  come  creatura  Ragionevole,  a  tante  azioni  morali,  o 
buone,  o  cattive,  o  indifferenti;  e  le  sorgenti  della  Virtù,  dei  Vizi,  delle  Passioni, 
dei  Costumi;  e  le  regole  che  s'hanno  da  osservare  per  reggere  saviamente  sé  stesso. 
per  praticare  lodevolmente  con  altri  e  per  soddisfare  a  tutti  i  doveri  verso  il  pa- 
drone supremo  dell'Universo,  verso  se  stesso,  verso  altri  Superiori,  eguali  ed  infe- 
riori. Questo  è  propriamente  studiar  l'uomo,  e  penetrar  ne' gabinetti  dell'Uomo  „. 

Così  il  Muratori  ci  ha  dato  il  primo  abbozzo  del  suo  piano  d'educazione,  e  noi 
possiamo  di  già  arguire,  in  sintesi  generale,  le  sue  idee  e  teorie.  Giova  pertanto  qui 
osservare,  giacché  ce  ne  porge  occasione  l'accenno  al  suo  Trattato,  che  come  la  scienza 
dell'educazione  non  può  fare  a  meno  della  filosofia,  così  necessariamente  essa  deve 
informarsi  alle  sue  teorie,  e  però  l'indirizzo  filosofico  d' uno  scrittore  segna  pure  il 
suo  indirizzo  pedagogico. 

Ora  il  Muratori  è,  in  filosofia,  un  seguace  schietto  della  scuola  spiritualistica,  di 
quello  spiritualismo  antico  e  universale  riconosciuto  già  da  Socrate  e  da  Platone,  che 
non  sostiene  punto  che  lo  spirito  abbia  a  sussistere  esso  solo  sulle  rovine  del  mondo 
materiale  e  la  vita  terrena  annientata  col  corpo,  ma  bensì  che  lo  spirito  umano  è 
subordinato  al  divino,  la  vita  presente  alla  futura. 


5  -  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MUEATOEI  b'9 

Di  qui  si  ricava  clie  l'educazione  deve  rispondere  a  questa  duplice  destinazione: 
allo  spirito  immortale  e  alla  creatura  che  si  estingue.  E  lo  schietto  indirizzo  tradi- 
zionale italiano. 

Ma  pur  troppo  questa  scienza,  che  è  la  regina  delle  scienze,  la  scienza  delle 
scienze,  è  fra  tutte  la  più  trascurata  e  nella  vita  e  nelle  scuole  pur  anche,  e  il  buon 
Muratori  se  ne  duole  amaramente.  "  Non  ho  io  mai  lasciato  di  meravigliarmi  al 
vedere,  come  nelle  scuole,  e  fino  in  alcune  celebri  Università  dei  nostri  tempi,  si 
poca  cura  si  tenga  di  questa,  che  pure  è  il  nerbo  principale  di  ciò,  che  si  appella 
Filosofia.  Chiamisi  pure  con  questo  nome,  ch'io  non  voglio  oppormi,  la  Logica,  la 
Metafisica  e  la  Fisica,  non  potrà  già  negarmi  chiunque  rettamente  giudica  delle 
cose,  che  il  meglio,  e  il  più  importante  di  essa  Filosofia  non  consista  nella  scienza 
de'  Costumi,  e  nello  studio  delle  azioni  morali  dell'Uomo  „  (1).  Insiste  pertanto,  quel- 
l'anima candida,  sulla  necessità  di  tale  studio  che  deve  informare  e  regolare  tutta 
la  nostra  vita,  che  deve  reggere  tutte  le  scienze,  che  più  da  vicino  ci  tocca  e  ci 
interessa,  che  più  d'ogni  altro  può  costituire  la  nostra  felicità,  e  senza  cui  non  si 
dà  scienza,  coltura,  progresso;  "  Maximum  enim  sapientiae  argumentum  est  se  ipsum 
nosse  „  (2).  —  Informandosi  invece  a  questi  principii,  non  si  può  non  avere  buoni 
risultati  per  le  scienze  e  per  la  società,  anzi  ottimi  risultati,  perchè,  mentre  per  le 
altre  scienze  il  progresso  dipende  dalla  perspicacia  ed  acutezza  dell'intelletto,  che 
non  può  certo  il  maestro  comunicare  al  discente,  qui  anche  un  mediocre  ingegno  di 
leggeri  ne  intende  gli  insegnamenti,  non  essendo  questione  che  di  volontà,  di  cui 
nessuno  scarseggia.  Che  se  poi  qualche  volta  l'effetto  non  corrisponde  alle  aspetta- 
zioni, e  quest'arte  si  riduce  ad  essere  inefficace,  non  si  deve  in  tal  preconcetto  tra- 
scurarla. "  Può  essere,  che  la  nave  non  arrivi  al  porto,  ma  intanto  la  prudenza  esige, 
che  essa  non  entri  in  mare  senza  buon  corredo,  e  senza  buon  Piloto  bene  informato 
del  viaggio,  e  delle  tempeste  „  (3). 

Metodo.  —  Con  queste  ultime  parole  viene  indirettamente  dichiarato  un  grande 
principio  pedagogico,  che  l'educazione  non  è  tutto  nella  vita  dell'uomo.  Questi,  secondo 
il  Muratori  che  ritorna  spesso  alla  carica,  sorte  da  natura  tal  gagliardia  di  indole,  che 
non  potrà  mai  del  tutto  esser  domata.  Naturarti  expellas  furca,  tamen  usque  recurret. 

Per  lui  educazione  è  sviluppo,  ma  sviluppo  che  implica  e  presuppone  un  intimo 
principio  di  vita  che  spontaneamente  e  per  propria  virtù  interiore  si  evolve,  e  non 
già  per  meccanica  sovrapposizione  di  parti  esterne.  E  l'indirizzo  opposto  al  sensismo, 
che  alla  educazione  attribuisce  illimitata  efficacia;  l'educazione  coopera  bensì  a  rad- 
drizzare e  a  modificare  una  cattiva  inclinazione,  concorre  bensì  alla  formazione  del 
carattere,  ma  non  ne  è  la  creatrice.  Difficilmente  infatti,  osserviamo  noi,  si  può  am- 
mettere quanto  il  Locke,  ad  esempio,  afferma,  che  cioè  i  nove  decimi  degli  uomini  sono 
buoni  o  malvagi,  utili  o  no,  secondo  l'educazione  ricevuta,  causa  prima  delle  grandi 
differenze  del  genere  umano.  Né  quanto  osserva  un  altro  sensista,  l'Elvezio,  mi  pare 
conforme  a  verità,  che  cioè  l'uomo  sarà  nella  vita  quello  che  l'educazione  l'avrà  fatto, 
perchè  queste  teorie  ritraggono  forza  da  un  principio  molto  discutibile,  che  il  bara- 


ti) Filosofia  Morale,  cap.  I,  pag.  14-15. 

(2)  Lettera  a  6.  Benedetto  Borromeo  Arese,  1699,  Epistolario  del  Campori,  voi.  II,  pag.  416-418. 

(3)  Filosofia  Morale,  cap.  I,  pag.  16. 


70  STEFANO    GRANDE  0 

bino  è  una  cera  od  una  carta  bianca  da  maneggiare  e  modificare  a  beneplacito  del- 
l'educatore. Oh!  quante  buone  madri,  osserviamo  al  Locke,  all' Elvezio,  al  Con- 
dillac  ecc.,  non  abbiamo  visto  noi,  di  carattere  candido,  di  schietta  indole,  che  hanno 
fatto  dei  loro  pargoletti  i  cittadini  più  onesti  e  utili,  contravvenendo  del  tutto  ai 
precetti  pedagogici  da  loro  predicati. 

L'educazione,  lo  ripetiamo,  perchè  il  Muratori  ci  insiste  (1),  non  crea  nell'alunno 
nessuna  nuova  potenza  o  virtù,  ma  solo  esplica  ed  attua  quelle  che  già  vi  preesi- 
stono, e  come  nulla  crea,  così  nulla  può  distruggere  di  quanto  la  natura  ha  creato. 
Chiarito  ciò,  viene  legittimo  e  spontaneo  il  principio  generale  pedagogico  che  il  Mu- 
ratori ammette  e  segue:  l'arte  educativa  compie  e  perfeziona  il  portato  della  natura, 
e  di  questa  segue  il  metodo,  secondando  l'attività  personale  dell'alunno  ed  atteg- 
giandosi alle  sue  attitudini  speciali  caratteristiche. 

Il  metodo  di  natura  fu  già  intuito  fin  da  Quintiliano,  da  Dante,  e  proclamato 
poi  solennemente,  fra  gli  altri,  dal  Rousseau,  e  più  degnamente  ancora  dal  Pestalozzi, 
e  seguito  quindi  dai  migliori  pedagogisti.  È  pertanto  questo  un  bel  merito  del  nostro 
autore,  il  quale  poi  al  metodo  educativo  naturale  connette  strettamente  il  principio 
dell'esperienza,  e  dell'osservazione. 

Il  Muratori  infatti  è  uno  strenuo  propugnatore  dell'esperienza  che  egli  eleva  a 
sicuro,  efficacissimo  coefficiente  dell'educazione  umana,  senza  però  intaccare  od  esclu- 
dere i  principi  universali  della  ragione.  Egli  vuole  che  si  miri  al  fatto,  al  concreto,  al 
pratico,  e  nemico  delle  formole  rigide,  assolute,  propende  verso  il  sistema,  anche  sover- 
chiamente pratico,  degli  Spartani  (2).  Ma  particolarizzando,  egli  vuole  che  si  pongano 
davanti  agli  occhi  dei  giovani,  con  esempi  pratici  e  palpabili,  i  vantaggi  che  si  rica- 
vano dalla  pratica  della  virtù,  e  i  danni  che  derivano  dal  vizio  ;  che  si  dimostri  loro 
la  bellezza  interna  ed  esterna  di  quella,  e  la  bruttezza  e  detestabilità  del  vizio;  le 
soddisfazioni  di  chi  pratica  il  bene,  e  i  rimorsi  dei  malvagi;  i  premi  che  ci  atten- 
dono o  le  punizioni  che  ci  sovrastano.  E  nel  suo  profondo  senso  pratico  delle  cose, 
egli  loda  anche  quel  padre  di  famiglia  che  conduce  alla  bettola  il  giovane  figlio  per 
apprendergli  il  triste  spettacolo,  il  ripugnante  aspetto  di  chi  s'ubbriaca,  persuaso  che 
tener os  animos  aliena  opprobria  saepe  absterrent  vìtìis  (3). 

Data  questa  efficacia  della  pratica,  si  devono  praticamente  proporre  al  giovane 
grandi  esempi  di  imitazione,  di  virtù,  scienza,  coraggio,  pietà,  affinchè  l'animo  suo 
si  scuota,  li  senta,  e  tenda  a  raggiungerli.  E  diciamo  che  debbonsi  raccogliere  tali 
esempi  nella  vita  reale,  fra  persone  di  conoscenza,  in  luoghi  noti,  perchè  di  gran 
lunga  torna  più  gagliarda  ed  efficace  1*  impressione.  Così  occorre  coltivare  l'animo 
nostro  e  allevarlo  alla  scuola  dell'osservazione,  indicandogli  tutto,  facendogli  osser- 
vare tutto,  di  tutto  dandogli  ragione,  di  tutto  deducendogli  le  conseguenze  (4).  Ma 


(1)  Cfr.  Filosofa  Morale,  cap.   IV.  pag.  50  e  seg.;  cap.  Vili,  pag.  99-100,  ecc. 

(2)  Idem,  cap.  XXV,  pag.  228;  cap.  XLII .  pag.  393-96,   ed   anche   Della   Forza  della    Fantasia 
Umana,  pag.  154,  ecc. 

(3)  Idem,  cap.  XXV,  pag.  228,  e  cap.  X,  pag.  116  e  117. 

(4)  11  Muratori,  studiosissimo  di  Orazio,  doveva  pensare  qui  certamente  all'osservazione  oraziana: 

.  .  .  insuevit  pater  optimus  hoc  me 
ut  fugerem  exemplis  vitiorum  quaeque  notando 
[Satira  IV,  1.  1). 


7  IL    PENSIERO' PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  71 

l'osservare  non  basta,  occorre  poi  andarlo  avvezzando  a  giudicare  rettamente  di  ciò 
che  è  lodevole  o  biasimevole,  da  imitare  o  da  fuggire  nelle  azioni  altrui,  affinchè 
su  quelle  sagge  osservazioni  e  deduzioni  modelli  la  sua  vita. 

Molti  mezzi  ci  si  offrono  per  questa  pratica  ed  efficace  educazione,  e  molti  ce 
ne  suggerisce  egli  stesso,  quali  considerare  il  giovane  un  po'  superiormente  alla  sua 
età,  metterlo  alla  confidenza  degli  affari  domestici,  farlo  partecipe  delle  nostre  in- 
tenzioni e  speranze  ...  ed  altri  parecchi,  dei  quali  tratteremo  a  tempo  opportuno. 
Educazione  ed  Istruzione.  —  Anche  in  L.  A.  Muratori  è  sentitissima  la  distin- 
zione fra  educazione  ed  istruzione.  L'educazione  è  la  coltura  del  cuore  e  della  vo- 
lontà e  mira  all'operare  e  alla  virtù;  l'istruzione  invece  è  la  coltura  dell'intelligenza 
e  mira  al  pensare  e  al  conoscere.  E  qui  c'è  posto  di  scrivere  una  bella  pagina  sul 
Muratori,  la  cui  vita,  le  cui  opere,  i  cui  pensieri  sono  tutti  informati  a  questo  grande 
principio,  che  non  incombe  tanto  all'uomo  d'esser  dotto,  quanto  d'esser  virtuoso  ;  che 
in  capo  al  pensiero  dello  studioso  non  deve  star  tanto  la  scienza  quanto  l'onestà. 
Come  lo  studio  deve  guidare  la  ragione,  così  l'onestà  deve  guidare  lo  studio.  Sotto 
la  scorta  dello  studio,  la  ragione  è  guidata  nella  scelta  e  nel  giudizio  delle  cose 
mediante  la  riflessione  e  l'esame  ;  senza  di  esso  più  che  di  bene  è  fonte  di  molte 
rovine  (1).  Saper  male  si  è  lo  stesso  che  saper  nulla  (2);  saper  molto  e  operai- 
male,  è  una  grande  ignoranza  (3).  Il  sapere  pertanto  non  è  ciò  che  più  importa, 
esso  non  è  in  sé  che  un  nobile  ornamento  dell'uomo,  un  soccorso  alla  buona  vita, 
ma  esso  suppone  qualche  cosa  al  di  sopra  di  se  per  cui  acquista  valore  e  pregio  (4). 
Tolto  questo,  esso  diventa  indifferente,  ed  anche  pernicioso.  ."  Scompagnata  la  Let- 
teratura dalla  Sapienza  e  dalla  Virtù,  può  anche  cangiarsi  in  uno  strumento  d'in- 
famia, e  del  comune  biasimo  „  (5). 

Questi  ed  altri  simili  pensieri  espone  magistralmente  il  Muratori  in  una  delle 
sue  più  importanti  lettere  (6),  ove  descrive  l' importanza  dell'istruzione  e  la  neces- 
sità dell'educazione.  In  essa  tutto  è  esaminato,  vagliato,  ponderato;  anche  le  sacre 
scritture  sono  portate  in  campo:  "  ove  non  è  la  scienza  quivi  non  v'è  la  felicità 
d'animo  „,  ed  anche:  "  perchè  tu  abborristi  il  sapere,  ancora  io  abborrirò  la  tua 
persona,  né  ti  vorrò  per  mio  sacerdote  „.  Ma  se  il  sapere  è  sì  gran  pregio,  pregio 
maggiore  è  l'impartirlo  a  prò'  degli  altri.  "  Gran  lode,  gran  consolazione  è  il  sapere 
per  se  stesso,  ma  di  gran  lunga  è  maggior  pregio  il  convertire  in  prò'  d'altri  il 
proprio  sapere  „  (7). 

Ma  l'insegnamento  non  consiste  solo  nell'impartir  a  voce  agli  altri  la  nostra 
dottrina,  esso  presenta  più  modi,  e  noi  ne  saremo  altrettanto  benemeriti  "  togliendo 
via  gli  abusi  degli  studi,  ampliando  i  confini  dell'Erudizione,    incitando    allo  studio, 


(1)  Cfr.   Filosofìa  Morale,  cap.  VII,  pag.  79. 

(2)  Id.,  cap.  X,  pag.  110. 

(3)  Id.,  cap.  XXVI,  pag.  241. 

(4)  Della  Pubblica  Felicità,  oggetto  de'  buoni  principi.  Lucca,  1741,  pag.  166. 

(5)  Filosofia  Morale,  cap.  XVII,  pag.  157,  ed  anche  Della  Forza  dell'Intendimento  Umano.  Prefa- 
zione, pag.  V. 

(6)  Lettera  ai  Capi,  Maestri,  Lettori  ed  altri  Ministri  degli  Ordini  Religiosi  d'Italia,  1705,  Cam- 
pori,  II,  pag.  800-15. 

(7)  Lettera  ai  Generosi  Letterati  d'Italia,  1705,  Campori,  II,  pag.  789-94.  Fa  pur  parte  d'un  opuscolo 
del  Muratori:  /  Primi  Disegni   della   Repubblica  Letteraria  d'Italia,  di  cui  diremo  in  seguito. 


72  STEFANO    GRANDE  O 

scoprendo  miglior  sentiero  agli  studi  traviati  „  (1).  Chiude  quell'elaborata  ed  eru- 
dita lettera  colla  massima  sacra:  "  quelli  che  saranno  dotti,  riluceranno  come  lumi 
del  firmamento,  e  quelli,  che  ammaestreranno  gli  altri  nella  giustizia,  risplenderanno 
come  stelle  per  eternità  perpetue  „. 

Il  fine  degli  studi,  delle  arti  e  delle  scienze,  nota  il  Muratori,  è  triplice:  am- 
maestrare, giovare,  dilettare.  Ammaestrano  e  giovano  le  varie  discipline  coll'inse- 
gnare  e  persuadere  all'intelletto  e  alla  volontà  il  vero  e  il  buono,  dilettano  con  la 
scoperta  di  questo  vero,  di  questo  buono  prima  ignoti  (2).  Ma  nell'  insegnare  o  co- 
municare comunque  agli  altri  le  scienze  ed  arti,  noi  ci  incontriamo  in  parecchi  eccessi 
che  intralciano  il  nostro  metodo.  Fra  i  giù  generali  notiamo  il  credere  troppo  ai 
nostri  sensi  e  il  credervi  troppo  poco;  il  dubitare  di  tutto  ed  il  dubitare  di  nulla; 
l'acconsentire  alla  sola  ragione  quando  basta  l'autorità  e  l'accontentarsi  dell'autorità 
quando  si  richiede  la  ragione;  il  cercare  di  soverchio  questioni  frivole  e  minute  e  il 
trascurare  le  necessarie,  ecc.  ecc.  Venendo  poi  al  particolare,  ogni  scienza  presenta 
i  suoi  eccessi.  Tali,  nella  filosofia  dei  costumi,  il  voler  sradicare  dall'uomo  tutti  gli 
affetti,  a  guisa  degli  Stoici,  o  il  soddisfarli  pienamente,  a  guisa  degli  Epicurei;  nella 
Teologia  Morale  il  troppo  restringere  od  allargare  la  giurisdizione  della  coscienza, 
esser  rigorista  o  troppo  liberale;  nella  Storia  narrare  solo  i  biasimi  e  i  difetti  altrui, 
oppure  i  soli  pregi  e  le  lodi;  nella  Rettorica  e  nella  Poesia  l'amare  ed  il  rifuggire 
troppo  l'acutezza,  la  brevità,  il  fantastico,  il  naturale,  il  sentenzioso  ...  e  così  pel- 
le altre  scienze.  Occorre  pertanto  scegliere  il  giusto  mezzo  e  uniformarsi  pienamente 
all'opportunità  e  verità  del  ne  quid  nimis. 

Ma  il  Muratori,  e  nelle  scienze  e  nelle  scuole  pur  anche,  da  quell'acuto  osservatore 
che  egli  è,  vede  introdursi  un  ben  grave  male:  l'istruzione  che  tenta  assorbir  tutto. 
Ormai  la  scienza  dell'educazione  è  passata  in  seconda  linea,  e  scopo  principale  di  chi 
studia  si  è  arricchirsi  la  mente  di  cognizioni  di  scienza,  non  di  pratica  moralità.  Il 
medievo  ha  fatto  il  suo  tempo,  e  mentre  allora  l'educazione  era  tutto,  l' istruzione 
ben  poca  cosa,  ora  si  invertono  i  termini  e  si  preparano  i  tempi  in  cui  tutto  deve 
essere  pel  sapere,  ben  poco  per  l'onesto  operare  e  per  la  coltura  del  carattere  mo- 
rale. È  il  preludio  dei  nostri  tempi,  osserviamo  noi,  in  cui  si  promuovono  con  ardore 
febbrile  gli  studi,  e  si  guarda  con  indifferenza  all'educazione  del  cuore.  Ma  io  non 
dico  bene:  intorno  al  grande  edificio  dell'educazione  si  lavora  dappertutto,  presso 
ogni  stato,  da  privati  cittadini  e  pubblici  magistrati,  da  municipi  o  governi,  da  chie- 
rici e  laici,  si  opera  assai  insomma,  ma  si  opera  male.  Conseguenze  funeste  sono 
l'antagonismo  fra  l'istruzione  e  l'educazione,  fra  lo  stato  e  la  chiesa,  fra  gli  istituti 
governativi  e  i  privati,  fra  l'educazione  classica  e  la  tecnica,  fra  l'autorità  domestica 
e  la  politica,  fra  l'istruzione  religiosa  e  la  profana,  in  una  parola,  antagonismo  e 
lotta  dappertutto  (3). 

Ai  tempi  del  M.  in  realtà,  le  cose  non  erano  ancora  a  questo  punto,  ma  già 
l'enciclopedismo  incominciava  la  sua  opera  deleteria  per  l'educazione.  Il  M.,  conscio 


(1)  Lettera  citata  ai  Generosi  Letterati  d'Italia,  ecc. 

(2)  Cfr.  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto  nelle  Scienze  e  nelle  Arti  di  Lamindo  Pritannk.  (pseu- 
donimo anagramrnatico  di  L.  A.  Muratori).  Venezia,  Pezzana,  1723,  parte  II,  pag.  50. 

(3)  Vedi  Giuseppe  Allievo,  Studi  Pedagogici,  p.  21. 


9  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  73 

del  grave  male,  se  ne  lamenta  e  molto  fortemente:  si  rimpinza  la  memoria  di  idee 
indigesto,  e  si  lascian  vuote  la  ragione  e  la  coscienza  (1). 

"  Bene,  scrive  egli  (2),  è  l' imparar  a  pensar  bene,  a  guardarsi  dalle  proprie  e 
dalle  altrui  fallacie  ne' ragionamenti:  di  questo  filo  ed  aiuto  lian  bisogno  tutte  l'altre 
vie  del  sapere,  ed  anche  il  quotidiano  uso  della  vita  nostra.  Bene  è  parimenti  il  cono- 
scere nella  Fisica  l'opere  mirabili  della  mano  di  Dio,  quantunque  tale  Scienza  per 
molti  altri  non  sia,  che  un  vano  riempimento  del  loro  intelletto,  perchè  non  cercano 
punto  Dio  nelle  loro  fisiche  osservazioni.  Bello  è  il  sapersi  alzare  sopra  la  Materia, 
e  acquistare  e  vagheggiare  l'Idee  Intellettuali,  potendo  tutto  questo  servir  molto 
bene  di  scala  a  conoscere  lo  stesso  Dio.  Ma  dopo  sì  fatti  studi,  certo  di  maggiore 
utilità  ed  importanza  dee  confessarsi  l'imparare  ad  operar  bene,  ad  operar  da  Crea- 
tura ragionevole.  Perciocché  a  che  serve  l'ornare,  ed  anche  il  perfezionare  l'inten- 
dimento nostro,  l'empierlo  di  notizie,  e  il  sapere  raziocinare,  se  in  tutt'altro  si 
adopera  poi  la  forza  e  '1  sapere  dell'intelletto,  che  a  dirigere  la  Volontà  nostra 
nell'Elezione  del  Bene,  e  nella  fuga  del  Male?  dal  che  dipende  la  felicità,  o  l'infe- 
licità, la  gloria,  l'infamia  di  noi  viventi,  e  insieme  il  buon  o  cattivo  stato  della 
Repubblica  „. 

Così  il  M.  passa  in  rassegna  le  diverse  discipline  scientifiche,  esamina  l'utilità 
loro,  ma  conchiude  all'eccellenza  e  superiorità  della  scienza  dei  buoni  costumi,  del 
retto  ed  onesto  operare.  A  lui  poi  preme  di  fare  una  distinzione  nella  scienza,  che 
stava  già  a  cuore  ad  un  altro  grande  maestro  italiano,  e  per  molti  rispetti  simile 
a  lui,  a  G.  B.  Vico  (3).  "  Non  bisogna  confondere  la  Scienza  colla  Sapienza.  Sarà 
la  piirna  ne  i  Dotti;  trovasi  la  seconda  in  quei  solamente  che  sanno  ben  vivere 
con  Dio,  con  gli  altri  uomini  e  in  sé  stessi.  Ora  l'essere  Dotto  o  Dottore  appar- 
tiene a  pochi;  ma  il  ben  vivere  saggiamente,  è,  o  certo  dovrebbe  essere  il  me- 
stiere d'ognuno  „  (4). 

Ma  frattanto  scienza  e  sapienza  devono  trovarsi  unite,  perchè  si  ottenga  il  fine 
ultimo  dello  studio  :  fare  prima  dell'alunno  un  galantuomo,  poi  un  dotto.  Ora  sì  no- 
bile intento  si  può  ottenere  con  un  mezzo  sicuro,  stabilendo  grandi  punti  di  corri- 
spondenza fra  la  scuola  e  la  vita.  Non  scoine  sed  vitae  discendimi.  L' intelligenza 
dev'essere  svolta  in  bell'armonia  colla  realtà  della  vita,  il  ben  pensare  col  ben  ope- 
rare, l' istruzione  della  mente  coli'  educazione  del  cuore  (5).  Ora  la  disarmonia  fra 
la  scuola  e  la  vita  la  sentiva  già  fortissima  il  M.,  come  sentiva  pure,  per  logica 
derivazione,  i  mali  che  ne  erano  il  frutto.  Ma  la  realtà  della  vita,  si  gridi  fin  che 
si  vuole,  non  esclude  l'idealità,  e  il  M.,  conforme  all'indirizzo  schiettamente  spiritua- 
lista da  lui  professato,  ammette  e  propugna  un  ideale  che  deve  reggere  ogni  scuola, 
a  cui  deve  informarsi  tutta  la  nostra  vita,  perchè  senza  ideale  non  c'è  vita.  Questo 
ideale  pel  M.,  non  fa  mestieri  dirlo,  è  il   principio  supremo,  infinito,   creatore,  Dio. 


(1)  Cfr.  6.  Allievo,  La  riforma  dell'Educazione  moderna  mediante  la  riforma  dello  Stato. Torino, 
Tip.  Subalpina,  1879. 

(2)  Filosofia  Morale,  cap.  I,  pag.  15. 

(3)  Vedi  G.  B.    Gekiw,    Le    idee  pedagogiche    di  G.  B.  Vico,  Estr.  dal    "  Nuovo  Risorgimento  ,, 
Torino,  1898. 

(4)  Filosofia  Morale,  cap.  I,  pag.  15. 

(5)  Idem,  pag.  16-17. 

Serie  II.  Tomo  LUI.  10 


74  STEFANO   grandi:  10 

Il  moderno  positivismo  pedagogico  ha  cercato  di  fugare  dalla  scuola,  e  relegare  fra 
le  chimere  ogni  ideale,  mal  distinguendo  forse  fra  idea  e  ideale,  ma  finora  esso  s'è 
dimostrato  impotente  a  crearne  dei  nuovi.  Si  vuole,  si  reclama  la  forza  coll'ideale, 
ma  il  dì  che  la  forza  adeguerà  l'ideale,  che  dire  dell'anima  che  aspira  alla  perfe- 
zione, di  un  popolo  che  si  sacrifica  e  muore    per  la  libertà?  (1). 

Ma  noi  varchiamo  i  limiti  prefissici,  e  della  concezione  ideale  parleremo  altrove, 
a  proposito  dell'educazione  religiosa. 

Durata  dell'educazione.  —  Diciamo  che  la  gioventù  è  il  tempo  dell'educazione, 
ma  impropriamente,  perchè  tutta  la  vita  dev'essere  come  un'educazione  continuata. 
Il  M.  è  grandemente  persuaso  di  questa  verità,  ma  non  trattando  egli  direttamente 
di  educazione,  non  si  ferma  a  dare  una  netta  ed  esplicita  distinzione  fra  educazione 
infantile,  scolastica,  autonoma,  ecc.;  ma  non  trascura  tuttavia  di  darci  precetti 
e  consigli  per  questi  diversi  periodi.  Non  c'è  l'ordine  sistematico  nella  sua  esposi- 
zione, ma  la  materia  prima  non  manca.  L'educazione  deve  incominciare  dalla  culla; 
i  primi  educatori  sono  i  genitori;  la  prima  palestra  la  casa,  ed  importa  assaissimo 
che  a  questa  prima  educazione  si  attenda  colla  massima  cura,  e  senza  por  tempo 
in  mezzo.  "  In  primo  luogo  è  da  desiderar  la  buona  educazione  de'  figliuoli,  argo- 
mento trattato  da  varj  eccellenti  Maestri.  Chi  ben  alleva  quelle  tenere  piante,  può 
sperar  buon  frutto  a  suo  tempo.  Convien  dunque  piantar  di  buon'ora  nel  loro  capo 
delle  salutevoli  Idee,  ispirando  ad  essi  le  Massime  sante  del  Vangelo,  l'amore  delle 
azioni  buone,  Tabborriuiento  delle  cattive,  e  mostrando  loro  la  bellezza  ed  utilità 
delle  prime,  la  deformità  e  le  perniciose  conseguenze  delle  altre  . . .  Fortificata  per 
tempo  l'anima  giovanile  con  saggi  documenti  e  colle  Idee  della  Virtù,  e  tenuta  lungi 
dall'aspetto  di  certi  lusinghieri  Vizi,  finche  sia  formato  il  Giudizio,  si  può  dir  prov- 
veduta d'armi  potenti  per  far  fronte  a  i  fantasmi  incitatori    del    mal  fare  . . .  „  (2). 

Non  è  già  per  questo,  continua  egli,  che  sia  in  salvo  "  la  rocca  dell'anima  „, 
ma  ad  ogni  modo  si  sarà  gettato  il  primo  buon  seme.  Mutar  la  natura,  già  lo  sap- 
piamo, è  impossibile,  ma  correggerla,  ma  istradarla  al  bene,  oh!  questo  sta  nelle 
nostre  mani,  e  questo  è  appunto  il  compito  diretto  dell'educazione.  E  qui  il  M.  in 
una  riuscita,  sentita,  efficacissima  pagina  abbraccia  e  risolve,  si  può  dire,  i  princi- 
pali quesiti  dell'educazione  infantile.  Qui  ammonimenti  pei  genitori,  qui  precetti  da 
seguire,  qui  verità  da  praticare,  qui  davvero  egli  ci  si  rivela  padre,  maestro,  sacerdote. 

"  Mettere  al  mondo  figli,  e  alimentare  i  lor  Corpi,  è  un  gran  benefizio.  Pure  il 
più  rilevante  consiste  nel  ben  educare  gli  Animi  loro  ;  perchè  in  fine  l'aver  de'  Fi- 
gliuoli non  è  quel  che  rallegra  e  consola,  ma  sì  bene  l'averli  buoni.  Né  è  per  un 
Figliuolo  felicità  il  venire  al  Mondo,  se  poi  dovesse  riuscire  un  malvivente,  e  d 
norare  e  perdere  sé  stesso,  e  solamente  recar  affanni  per  ricompensa  a  Genitori 
proprj.  Han  questi  adunque  da  educare  il  meglio  che  possono  la  lor  prole,  né  per- 
donare a  spesa  e  attenzione,  affinchè  ben  s'allevino  queste  tenere  piante.  Fino  a 
una  certa  età  i  fanciulli  non  son  dissimili  dalle  bestiuole;  talora  ancora  hanno  men 
giudizio  che  le  bestiuole    stesse;    esposti    a    far    mille   mali,  anche    in    danno   di  sé 


(1J  Vedi  G.  Allievo.  Del  realismo  in   Pedagogia.  Tonno,  Roux,  1878. 

(2)  Della  Forza  della  Fantasia   Umana.  Ediz.  5a.  Parma,  1770,  Fratelli  Borsi,  pag.   154.  —   Vedi 
anche  Introduzione  alla   Filosofia  Morale,  cap.  V  e  VI- 


11  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  75 

stessi,  perduti  sol  dietro  alla  bagatelle;  già  vaghi  di  operare  a  loro  capriccio.  Cre- 
sciuti poi,  e  privi  di  esperienza  del  Mondo  cattivo,  imitano  chi  primo  loro  si  pre- 
senta davanti,  e  più  facilmente  il  Vizio,  che  la  Virtù.  E  se  manca  loro,  chi  gli 
aiuti  con  salutevoli  consigli,  e  tenga  le  briglie  a  i  loro  passi,  alle  lor  voglie  ed 
inclinazioni,  eccoti  de  i  solenni  scapestrati,  peso  ed  obbrobrio  della  Repubblica,  e 
rovina  delle  proprie  Case.  Cura  pertanto  ha  da  essere  dei  Genitori,  parte  colla 
dolcezza  e  co  i  premj,  parte  con  un  modesto  rigore,  e  sempre  col  buon  esempio, 
di  ben  condurre  questi  orgogliosi  poliedri,  rompendo  il  torrente  delle  lor  sregolate 
passioni,  istruendoli,  mettendo  loro  in  capo  delle  Massime  buone,  e  facendo  loro 
conoscere  le  cattive  conseguenze  dell'operar  male,  le  utili  dell'operar  bene.  Non 
carezzarli  troppo,  non  lasciar  che  si  accorgano  del  troppo  amore  paterno  e  ma- 
terno ;  ma  nello  stesso  tempo  non  disgustarli  senza  ragione  ;  non  far  apparire  mag- 
giore parzialità  per  l'uno  che  per  l'altro;  non  continuamente  intonar  loro  ingiurie 
e  minaccie,  e  massime  non  batterli  senza  de  i  gagliardi  motivi.  Ove  si  possa  ot- 
tenere (e  questo  convien  bene  procurarlo)  che  un  Figliuolo  concepisca  amore  e 
rispetto  per  gli  suoi  Superiori,  non  è  difficile  conseguire  il  resto.  A  questo  fine, 
utile  è  l'ammetterli  alla  confidenza  de  gli  affari  domestici.  Ma  sopratutto  tenerli 
lungi  da  chi  può  far  loro  scuola  di  Massime  perniciose,  o  dare  esempi  di  pazzie, 
e  di  biasimevoli  costumi  „  (1). 

Sono  cose  note,  idee  comuni  se  volete,  e  per  giunta,  messe  lì  alla  rinfusa,  ma 
esse  racchiudono  tanta  verità  e  tanto  insegnamento,  che  rivelano  nel  Nostro  tutta  la 
potenza  d'un  vero  pedagogista.  Ma  già  a  questi  grandi  precetti  della  prima  educa- 
zione poco  si  bada  in  generale  dai  genitori,  i  quali  o  abbandonano  in  mani  merce- 
narie i  loro  giovani  figli,  confondendo  malamente  istruzione  ed  educazione,  o  li 
trascurano  per  attendere  alle  necessità  della  vita.  Dei  primi  già  dicemmo,  e  diremo 
ancor  molto  in  seguito,  e  per  gli  altri  il  M.  riconduce  a  queste  cause  la  mancata  edu- 
cazione: incuria,  ignoranza,  impossibilità  paterna.  "  0  non  vogliono  i  poveri  Genitori 
durar  la  fatica  e  cura  convenevole,  acciocché  la  lor  prole  non  apprenda  e  non  pra- 
tichi i  Vizi,  e  i  Viziosi,  o  non  possono,  perchè  mal 'allevati  anch'essi,  e  difettosi,  man- 
cando d'arte  e  d'accortezza  per  ben  educare  gli  altri.  Ed  è  anche  un'arte, assai  difficile, 
e  saputa  da  pochi,  quella  di  ben  educare  quel  superbo  Animale,  e  sì  impaziente  di 
freno,  che  Uomo  si  chiama,  e  massimamente  nell'età  priva  di  Giudizio  „  (2). 

Ma  a  noi  sembra  di  aver  detto  a  sufficienza  della  prima  educazione;  delle  altre 
forme  poi,  dell'extradomestica,  scolastica,  ecc.  avremo  occasione  di  parlare  altrove, 
trattando  dell'educazione  fisica,  intellettuale,  morale. 

Carattere  dell'educazione.  —  L'  Educazione  deve  essere  essenzialmente  e  sovra- 
namente personale,  cioè  opera  di  intelligenza  e  di  libera  volontà  sia  rispetto  all'edu- 
catore che  all'educando.  Qui  il  M.  non  può  darci  grandi  cognizioni,  essendo  questo  un 
principio  di  pura  pedagogia,  su  cui  solo  indirettamente  doveva  egli  fermarsi.  Questo 
carattere  di  personalità  esige  —  ciò  che  stava  tanto  a  cuore  a  lui  —  che  mai  atto, 
cenno  e  azione  sia  compiuto  dall'educatore,  che  possa  in  qualche  modo  offendere  la 
dignità  umana. 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  XXV,  pag.  227-28. 

(2)  Id.,  cap.  XLII,  pag.  395. 


76  STEFANO    GKANDE  12 

Ma  se  il  M.  non  può  darci  qui  gran  che  di  strettamente  particolare  al  campo 
della  pedagogia,  in  compenso  ci  dà  molto  nel  campo  filosofico,  perchè  non  mirando 
tanto  all'educazione  d'un  fanciullo  che  d'una  società,  egli  riguarda  le  cose  da  un 
punto  di  vista  più  generale,  e  imprende  una  terribile  guerra  contro  l'autorità  dei 
sistemi  e  delle  scuole  che  ai  suoi  giorni  tiranneggiavano  lo  spirito  e  la  mente  dei 
discenti.  Noi  che  sappiamo  in  quali  strettoie  si  erano  ridotti  allora  gli  studi,  non 
possiamo  ch'essere  doppiamente  riconoscenti  al  M.  per  questa  dupplice  lotta  contro 
i  principi  soverchiamente  autoritari  dei  maestri,  e  il  dispotismo  delle  scuole,  assolu- 
tamente e  del  tutto  contrari  ai  tre  grandi  caratteri  che  vuol  avere  l'educazioue,  di 
ragionevole  autorità,  di  libertà  personale  dell'alunno,  di  consapevole  universalità  delle 
azioni  educative. 

Cosi  il  M.  riconosce  implicitamente  questi  tre  grandi  principi,  e  li  sostiene,  e  li 
propugna  vittoriosamente  in  un  campo  più  vasto  del  pedagogico  e  del  didattico,  nella 
filosofia  universale. 

"  Certo  è  che  molti,  scrive  egli  al  Conte  di  Porcia  (1),  con  tutto  il  lor  divorar  libri, 
non  giungono  mai  a  levarsi  di  capo  certi  falsi  pregiudizj  conficcati  nel  loro  cervello 
fin  dai  teneri  anni;  perciocché  non  cade  mai  loro  in  pensiero,  che  in  quelle  opi- 
nioni, o  maniere  di  procedere  negli  studj,  bevute  da  lor'  primi  maestri,  ci  possa 
esser  difetto,  o  darsi  meglio.  Ma  entrino  un  po'  in  sé  stessi,  riflettendo  che  se  può 
esser  male  il  dubitar  di  tutto,  né  pure  è  bene  il  dubitar  di  nulla;  e  che  un  giorno 
insegna  all'altro  ;  e  che  i  fanciulli  vanno  per  dove  son  guidati,  ma  gli  uomini  fatti 
hanno  da  cercare  la  via  migliore,  se  c'è  „. 

Ecco  dunque  il  pensiero  del  Muratori  :  autorità  sì,  ma  non  dispotismo  nell'inse- 
gnare  e  nell'educare,  e  autorità  non  come  fine  a  sé  stessa,  ma  come  mezzo  alla  libera 
e  spontanea  cultura  dell'alunno  (2). 

Ma  il  M.  va  ben  oltre  ancora,  e  sotto  ai  suoi  strali  Ville  dixit,  cagione  non 
ultima  della  poca  tenerezza  muratoriana  verso  i  Metafisicanti  e  gli  Aristotelici  da 
strapazzo,  corre  davvero  poco  buon  tempo.  Ma  egli  è  pur  sempre  ragionevol 
scrive  (3):  "Ne  gli  anni  teneri  il  giogo  dell'autorità  è  salutevole.  Convien  seguire 
qualche  scorta,  e  lasciarci  reggere  ne'  passi,  finché  siamo  discepoli.  Ma  non  contenti 
di  ciò  noi  vogliamo  obbligarci  d'esser  sempre  fanciulli,  ove  sia  d'uopo  tener  sempre 
dietro  a  quel  Maestro,  che  o  la  nostra  elezione,  o  l'altrui  comandamento  ha  ren- 
duto  tiranno  dei  nostri  studj.  E  chiamo  tirannia  de  gli  studj,  chiamo  sciocchezza 
questo  non  volere  adoperare  la  libertà  dell'Ingegno,  per  andare  in  traccia  del  Vero. 
Chiamo  un  evidente  pericolo  di  errore,  il  fidarsi  così  ciecamente  a  chi  non  è  infallibile, 
e  l'addurre  per  sola  ragione  l'autorità  altrui,  o  il  darsi  così  in  preda  ad  uno,  clic  piut- 
tosto si  voglia  seco  talora  fallare,  che  abbandonarlo.  Siano  quanto  esser  si  vogliano 
valentuomini  Socrate,  Platone,  Aristotele,  Epicuro;  sono  però  uomini:  e  più  di  loro  ci 
ha  da  essere  cara  la  Verità,  la  quale  può  trovarsi,  e  non  trovarsi  nelle  loro  sentenze  „. 


(1)  Lettera  al  Conte  Giovanni  Artico  di  Pureia.  nella  quale  il  M.  dà  conto  de' suoi  studi.  È  in 
parte  la  sua  autobiografia  scientifica.  Modena,  10  uov.  1721.  —  Fu  pubblicata  la  prima  volta  nell'Ar- 
chivio Muratoriano:  Scritti  inediti  di  L  A.  Murai,  pubblicati  a  celebrare  il  secondo  centenario  dalla 
sua  nascita.  Bologna,  Zanichelli,  1872.  Ce  ne  serviremo  in  seguito  molto. 

(2)  Cfr.  pure   Filosofia  Morale,  cap.  Vii,  pag.  90. 

(3)  Delle  Riflessioni  sopra  iì  Buon  Gusto,  parte  I.  cap.  IV. 


13  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  77 

Occorre  quindi  che  l'alunno,  il  discente,  l'uomo  goda  di  una  libertà  personale, 
perchè  egli  è  una  attività  conscia  di  sé  e  del  suo  operare,  e  non  deve  già  essere 
contrastato,  ma  secondato  e  favoreggiato  nell'esplicazione  e  nello  svolgimento  delle 
sue  attitudini  e  delle  sue  potenze.  Ma  anche  questa  libertà  non  deve  trasmodare  e 
cambiarsi  in  licenza,  ma  l'una  e  l'altra,  l'autoritì.  di  chi  insegna,  e  la  libertà  di  chi 
apprende,  devono  essere  vincolate  dai  sicuri  limiti  della  reciproca  dignità  personale. 
E  qui,  e  a  proposito  dell'  universalità  delle  azioni  educative ,  noi  conosciamo  già  e 
conosceremo  ancor  meglio,  le  idee  muratoriane,  delle  quali  pur  demmo  un  bel  cenno 
a  proposito  della  teoria  del  mezzo  fra  gli  estremi. 

Mezzi  educativi.  —  Intendendosi  per  mezzo  educativo  tutto  ciò  che  in  qualche 
modo  giova  ad  eccitare  o  svolgere  le  facoltà  educative  dell'alunno,  dobbiamo  distin- 
guere tanti  ordini  di  mezzi  quante  sono  le  forme,  funzioni,  parti,  specie  ecc.  del- 
l'educazione. Ma  tutti  questi  ordini  di  mezzi,  quantunque  diversi  fra  loro,  hanno,  per 
esprimerci  così,  un  centro  comune  a  cui  tendono,  perchè  tutti  devono  essere  adope- 
rati in  armonia  fra  loro,  e  conformemente  alla  dignità  della  natura  umana.  In  virtù 
di  quest'armonia  e  conformità,  noi  ci  limiteremo  a  raccogliere  ed  ordinare  i  diversi 
mezzi  suggeriti  dal  M.  solamente  sotto  un  dupplice  aspetto: 
1     Mezzi  che  mirano  alla  formazione  del  carattere. 

2°  Mezzi  che  l'uomo  fatto  somministra  a  se   stesso    per   raggiungere    il    fine 
ultimo  della  sua  destinazione. 

/  premi,  la  lode,  la  gloria.  —  Fra  i  mezzi  educativi  più  efficaci  si  devono  anno- 
verare i  premi,  i  quali  esercitano  un'influenza  grandissima  non  solo  sull'animo  dei 
giovani,  ma  ben  anche  dei  dotti  stessi.  L'amore  della  gloria,  il  premio  della  coscienza 
non  sono  i  cardini  precipui  del  lavoro,  e  il  sudore  piace  in  quanto  è  fruttifero. 
"  Equidem  querulus  homo  non  sum,  —  scrive  egli  (1),  —  quum  homines  sine  grafia, 
aut  ambitione,  ipsius  tantum  conscicntiae  pretio  ad  virtutem  arbitrer  devehendos. 
At  in  aperto  quoque  est  praecipuos  laboris  cardines  in  praemii  spe  versari,  sudo- 
reinque  ideo  piacere,  quia  fructiferum  ,.  Il  M.  è  troppo  uomo  pratico  per  non  rico- 
noscerlo: il  lavoro  conferisce  pregio,  va  bene,  ma  prima  ci  deve  conferire  la  vita, 
e  Orazio  quando  osanna  ha  la  pancia  piena.  "  Qualunque  operazione  facciano  gli 
uomini,  nota  egli  chiaramente,  siccome  animali  per  natura  pieni  d'amor  proprio,  e 
intenti  sempre  all'unico  e  principale  oggetto  di  giovare  a  se  stessi,  e  di  acquistare 
qualche  porzione  di  beatitudine  ancora  in  questa  vita,  l'indirizzano  essi  al  bene 
proprio,  e  vogliono  che  o  gli  Animi  loro,  o  i  Corpi  loro  ne  ritraggano  qualche  uti- 
lità o  diletto  „  (2).  Ma  egli  altrove  determina  anche  quali  sieno  questi  premi,  chi 
possa  distribuirli,  e  non  trascura  il  lato  materiale.  *  La  speranza  del  Premio  è  la 
nutrice  degli  Ingegni,  è  il  più  possente  stimolo  alle  famose  imprese.  Ne  gli  onori, 
ne  gli  pubblici  gradi,  nella  gloria,  nell'accrescimento  degli  agi  della  vita  e  della  for- 
tuna, ed  in  altre  cose,  può  consistere  questo  premio  „  (3). 

Coll'appetito  del  premio  il  M.  unisce  strettamente  il  sentimento  della  lode,  uno 
dei  primi  motori  delle  azioni  umane,  e  a  proposito  di  esso  egli  si  rivela  altrettanto 


(li  Lettera  a  Girberto  Borromeo  Arese.  Mutinae,  Idibus  Jul.  MLKJXCIII.  Càmpobi,  1,  10-35. 
(2j   Delle  Riflessioni  sopra  il  lima  Gusto,  ecc.,  parte  li,  p: 

(3)  /  Primi   Disegni    della    Repubblica    Letteraria    d'Italia    di    Lamindo    Pkitannio.    Napoli  (leggi 
Venezia),   1703.  Fanno  pure  parte  del  trattato  s.  e.  delle  Riflessioni  sopra  il  Buon   Gusto,  ecc. 


7g  STEFANO    GRANDE 


14 


schietto,  che  profondo  conoscitore  degli  uomini,  e  scrive  una  bella  pagina  di  psicologia 
intima.  È  inutile  dissimularlo,  osserva  egli,  la  lode  piace  a  tutti,  o  perchè  è  dolce 
cosa  sapere  che  altri  fa  gran  conto  di  noi,  e  in  noi  riconosce  delle  buone  prerogativa 
o  perchè  essa  ci  conferma  nella  nostra  opinione  di  aver  noi  dei  pregi  e  dei  beni  da 
ammirare;  o  per  l'una  o  per  l'altra  ragione  insieme.  Temistocle,  interrogato  qual 
musica  gli  fosse  tornata  più  gradita;  quella,  rispose,  che  cantò  le  mie  lodi.  E  il  Mu- 
ratori, nella  schiettezza  del  suo  carattere,  l'afferma  e  l'ammette  egli  pure.  "  Non  c'è 
musica  più  grata  e  armoniosa  alle  nostre  orecchie,  quanto  udire  i  rapporti  delle 
nostre  lodi,  e  benché  talora  facciamo  gli  schivi,  pure  ne  pur  ci  dispiace,  che  sul 
volto  nostro  si  canti,  purché  con  qualche  garbo,  questa  melodiosa  canzone  „  (1). 
È  così;  il  sentimento  della  lode  è  un  fatto  universale,  è  un  appetito  regalatoci  da 
natura,  e  vecchi  e  giovani,  grandi  ed  umili,  tutti  lo  sentiamo.  "  Mirinsi  attentamente 
i  fanciullini  ancor  più  teneri:  appena  spuntano  in  essi  i  primi  raggi  dell'intelli- 
genza, che  all'ascoltare  il  suono  della  Lode  si  ringalluzziscono,  e  godono,  provando 
anch'essi  diletto  al  vedere  incensate  le  loro  azioni,  e  apprezzate  le  lor  persone  e 
coserelle  „  (2). 

Ma  non  si  ferma  qui  il  M.,  e  stabilito  il  fatto,  si  eleva  a  dedurne  un  efficace 
precetto  pedagogico.  Favorite,  sviluppate  questo  sentimento,  proponete  al  bambino 
la  lode,  e  non  negategliela  quando  se  la  merita;  voi  avrete  in  mano  un  mezzo  po- 
tentissimo di  buona  educazione.  "  Quei  Genitori  che  sanno  ben  prevalersi  di  questa 
facil  moneta  non  rade  volte  comperano  l'animo  de'  Figliuoli,  e  l'incamminano  alle 
azioni  virtuose,  ispirando  loro  all'incontro  orrore  del  Biasimo  per  le  cattive  „,  e 
termina  il  suo  dire,  con  una  nota,  significantissima  massima,  "  A'  Cavalli  sprone  e 
freno,  a'  Fanciulli  vergogna  e  lode  „  (3). 

È  questa  una  sentenza  nota,  l'abbiamo  detto,  comunissima,  ma  essa  non  è  messa 
li  a  caso,  e  racchiude  un  grande  principio  pedagogico:  La  lode  o  la  vergogna  che 
derivano  dalle  proprie  azioni,  siano  al  giovane  il  premio  o  la  pena  del  suo  operare. 
È  il  principio  propugnato  già  dal  Locke,  ad  esempio,  poi  dal  Rousseau,  ed  in  generale 
da  tutti  i  pedagogisti  moderni.  Non  è  bene  dare  ai  ragazzi  il  castigo  come  castigo, 
sarà  più  efficace  la  lezione  morale,  la  vergogna  che  ne  verrà  dalla  loro  cattiva 
azione  (4).  È  ben  vero  che  bisogna  ancor  vedere  se  le  tenere  menti  dei  fanciulli 
siano  proprio  capaci  di  questo  sentimento  dell'onore  e  della  vergogna,  ma  data  questa 
potenza,  il  buon  effetto  è  sicuro.  Ma  d'altra  parte,  osserviamo,  se  la  lode  piace  ed  è 
sentita  anche  dal  fanciullo,  perchè  è  la  conferma  dei  suoi  pregi,  non  s'intende  perchè 
non  debba  sentire  anche  la  vergogna  o  il  biasimo  che  ne  è  la  negazione  e  che  rintuzza 
aspramente  quell'innata  credenza.  Non  c'è  asino,  canta  il  proverbio  popolare,  il  quale 

non  prezzi  sé  stesso  al  pari  dei  cavalli  del  re 

Ma  comunque  sia  in  ragione,  l'esperienza  prova  che  il  sentimento  del  premio  e 
della  vergogna  agisce  potentemente  sull'animo  dell'uomo,  sia  esso  fanciullo  o  adulto,  ed 
il  M.  se  ne  rese  davvero  benemerito,  consigliandolo  come  efficace  principio  di  educazione. 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  XVII,  pag.  154. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Ibidem. 

(4)  Cfr.   G.  G.  Rousseau,  Emilio,  II. 


15  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATOSI  79 

Col  sentimento  della  lode  è  strettamente  congiunto  quello  della  gloria,  di  cui  il 
M.  fu  ghiottissimo,  tanto  da  considerarlo  di  origine  divina.  Dicano  pure  gli  altri,  che 
la  gloria  è  un  fumo,  un  vento,  un'ombra:  "  la  verità  si  è:  che  l'Amor  della  Gloria, 
o  sia  l'inclinazion  di  distinguersi  da  gli  altri,  d'alzarsi  e  di  acquistar  la  stima  uni- 
versale, viene  dal  Sapientissimo  Autor  della  Natura,  che  anche  di  questo  si  serve 
per  istimolarci  alla  Virtù,  per  farci  apprendere  l'Arti  e  le  Scienze,  e  divorar  le 
fatiche  occorrenti,  senza  le  quali  niun  giunge  alla  Gloria,  e  nello  stesso  tempo  per 
difenderci;  o  allontanarci  dalla  viltà,  dalla  pigrizia,  e  dalle  operazioni  malvagie  „  (1). 

Data  questa  celeste  origine  e  natura  della  gloria,  è  spiegabilissimo  l'ardor  del 
M.  verso  di  essa,  che  però,  bisogna  pur  dirlo,  per  lui  non  è  punto  la  gloria  che  viene 
dalla  letteratura,  dalle  scienze,  o  dalle  dignità  umane,  ma  bensì  la  gloria  del  retto 
operare,  e  dei  buoni  costumi.  "  La  vera  gloria,  scrive  egli  (2),  è  fondata  nelle  vir- 
tuose azioni,  e  queste  hanno  il  lor  fondamento  sulla  corrispondenza  con  le  leggi  del 
Cielo,  e  con  gli  ammaestramenti  della  retta  maestra  de' costumi,  la  Filosofia  „. 

Come  si  vede,  è  questa  del  M.  una  gloria  più  pura,  più  nobile,  più  santa,  ma  è 
pur  sempre  quella  grande  aspirazione  delle  anime  nostre,  a  cui,  per  essere  schietti, 
non  possiamo  del  tutto  rinunziare  giammai.  "  Ma  chi  è  mai  così  fortunato,  così  pa- 
drone di  se  stesso,  che  si  muova  con  ardore  a  imparare  o  insegnare  le  Scienze,  e 
pubblicare  de  i  Libri,  e  possa  giurare  di  non  desiderare  lode,  e  gloria,  o  altro  ancora 
men  utile  vantaggio,  da  quella  sua  tanta  fatica?  Si  vogliono  adunque  tollerare  ne 
gli  studiosi  queste  altre  passioni,  giacché  servono  anch'esse  per  incitare  gli  uomini 
maggiormente  alla  correzione  e  all'accrescimento  delle  lettere,  e  giacché  per  dir 
meglio,  poco  o  niun  profitto,  e  pochi  o  niun  seguace  possono  sperare  le  lettere,  se 
non  s'aggiungono  all'uomo  questi  altri  men  lodevoli  sproni  „  (3). 

Ma  devesi  poi  ancor  notare  che  il  premio  della  gloria  è  incerto  ed  infido,  e 
"  ut  ad  scientias,  ac  artes  instaurandas  et  augendas,  homines  compellamus,  praeter 
ipsam  rei  honestatem  et  delectationem,  alia,  medius  fidius,  sunt  incitamenta  adhi- 
benda  „  (4).  Questi  più  potenti  incitamenti,  già  lo  vedemmo,  sono  i  premi  materiali, 
i  quali  per  lo  più  stanno  in  mano  di  buoni  protettori,  di  munifici  mecenati  (5),  il  cui 
fiorire  è  correlativo  al  fiorir  delle  scienze.  "  Da  mini  fautores  ingenuos,  da  opum  et 
honorum  proposita  proemia,  et  complures  intueberis  voluti  cestro  percitos  ad  scientias 
convolare,  atque  in  iis  mirum  in  modum  progredì  „  (G). 

Castighi  corporali.  —  Accennammo  or  ora  all'efficacia  dei  castighi  morali  nell'edu- 
cazione della  mente  e  del  cuore,  vediamo  ora,  per  logica  concatenazione,  de' castighi 
corporali.  In  sentenza  del  M.  è  da  respingersi  la  sferza  dai  genitori  non  solo,  ma 
anche,  e  principalmente,  dall'educatore.  Tale  mezzo  non  eccita  né  la  coscienza,  né  la 
vergogna  del  fallo,  su  cui  tanto  contava  il  M.;  ma  al  contrario  abitua  il  giovane 
alla  simulazione,  e  crea  in  lui  un  carattere  servile.  Sopratutto  poi  è  da  rigettarsi  la 


!     Filosofia  Morale,  cap.  XVII,  pag.  155. 
"2\  Lettera  ;i   Gian  Simone  Enriquez  de  Cabrerà,  1707,  Campori,  451-52. 

(3)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  ecc.,  parte  I,  pag.  143. 

(4)  Lettera  di  Jacopo  Gronovio  (.leggi    Lod.    Ant.    Muratori)  ad  Antonio    Magliabechi.   Lugduni 
Batavorum,  XU  Kal.  Quintilis  MDCCIII.  Fa  pur  parte  dei  Primi  Disegni  della  Repubbl.  Lett.  d'Italia,  ecc. 

(5)  /  Primi  Disegni  della  Repubbl.  Letter.  d'Italia,  ecc. 

(6)  Lettera   citata  del  Gronovio  al  Magliabechi. 


3TEFAN  >    GRANDE 


Ili 


sferza,  perchè  non  solo  soffoca  ogni  propensione  allo  studio  "  ma  fa  sembrare  ai  gio- 
vani una  galera  la  scuola,  e  non  può  infine  metter  l'ingegno  ove  non  c'è  „  (1). 

Devesi  saper  grado  al  M.  per  questa  mitezza  di  punizioni  corporali,  proclamata 
in  tempi  in  cui  la  sferza  doveva  esser  Io  stendardo  della  scuola.  Tuttavia  alle  volte 
il  castigo  corporale  pare  si  imponga,  e  il  M.  in  un  caso,  ma  sol  o,  lo  per- 

mette: nei  falli  dei  costumi.  Di  quest'avviso  era  già  stato  G.  Locke,  che  pure  in 
un  caso  solo  acconsentiva  che  il  fanciullo  fosse  battuto,  quando  si  mostrava  ostinato 
e  ribelle;  ma  anche  allora  in  guisa  che  non  il  dolore,  ma  la  vergogna  avesse  la 
parte  principale  nel  castigo. 

Del  resto  prima  di  loro,  fra  i  molti  altri,  anche  Michele  de  Montaigne  nel  suo 
aureo  Libro  dei  Saggi,  che  fu  giustamente  appellato  dal  Cardinale  Du  Perron  "  il 
'•  breviario  dei  galantuomini  „,  aveva  già  scritto  contro  le  pene  corporali  usate  contro 
i  discenti  (2). 

In  seguito  il  sistema  d'educazione,  a  base  di  battiture,  andò  sempre  scompa- 
rendo sotto  i  colpi  dei  dotti,  ma  non  tanto  rapidamente  e  facilmente,  se  da  noi  solo 
nel  18K)  fu  definitivamente  abolito,  quale  del  tutto  antipedagogico  e  servile. 

Ma  per  ritornare  a  noi,  siccome  il  M.  intendeva  far  notare  la  gravità  dei  falli 
dei  costumi,  ci  pare  non  s'apponesse  male  ricorrendo,  in  quell'unico  caso,  alla  gravita 
ed  eccezionalità  della  punizione.  Del  resto  il  suo  scopo  era  evitare  assolutamente  ogni 
avversione  alla  scuola,  ed  in  questo  modo  egli  riusciva  benissimo  nel  suo  intento. 

Ad  evitare  poi  le  occasioni  di  questi  castighi  che  avviliscono  non  meno  l'educando 
che  l'educatore,  il  M.  suggerisce  di  ricorrere  alla  ragione,  e  di  dimostrare  al  giovane 
che  volontariamente  erra,  il  torto  che  fa  a  chi  cerca  il  suo  bene  e  non  bada  a  pre- 
mure e  sacrifizi  (3).  Se  questo  pure  non  vale,  è  inutile  ricorrere  alla  forza,  perchè 
difficilmente  si  ottiene  con  essa  quanto  fu  negato  alla  prudenza  e  alla  ragione. 

I  sistemi  moderni,  l'abbiamo  già  detto,  hanno  dimostrato  che  il  M.  aveva  ra- 
gione, e  a  noi  non  resta  che  registrare  questo  merito  di  più  nell'opera  civile  mu- 
ratori a  na. 

La  parola  indirizzata  al  cuore,  e  la  conversazione  coi  dotti.  —  Ma  primo,  principa- 
lissimo  mezzo  pedagogico  si  deve  considerare  la  parola  che  lega  l'educatore  all'educando. 


(1)  Lettera  al  Conte  Giovanni  Artico  di  Porcia. 

(2)  "  J'accuse  toute  violence  en  l'éducation  d'une  ame  tendre,  qu'on  dresse  pour  l'honneur  et 
"  la  liberto.  Il  ny  a  ie  ne  scais  quoy  de  servile  en  la  rigueur  et  en  la  contrainete  ;  et  tiens  que  se 
"  qui  ne  se  peult  taire  par  la  raison,  et  par  prudence  et  addresse,  ne  se  faict  iamaia  par  la  force. 
*  On  m'a  ainsin  eslevé:  ils  disent  qu'en  tout  rnon  premier  ange,  ie  n'ay  tasté  des  verges  qu'à  deux 
"  coups,  et  bien  mollement  „.  Egli  pertanto  usa  il  medesimo  trattamento  coi  figli  suoi,  per  i  quali 
non  adopra  per  correggerli  "  que  paroles,  et  bien  doulces:  et  quant  mon  desir  y  seroit  frustré,  il 
"  est  assez  d'aultres  causes  ausquelles  nous  prendre  sans  entrer  en  reproche  avecques  ma  discipline, 
"  que  ie  scais  estre  iuste  et  naturelle.  Je  n'ay  veti  aultre  effect  aux  verges  sinon  de  rendre  les  ames 
"  plus  laches,  ou  plus  malicieusement  opiniastre  „  (M.  de  Montaigne,  Essate.  Parigi,  1843,  libro  II, 
cap.  Vili,  pag.  239-40,1  Ed  altrove  riferendosi  al  comune  uso  della  scuola,  di  "  imparar  il  verbo  al 
suon  di  nerbo  „  si  esprime  con  non  minor  forza  ed  efficacia.  "  Cette  institution  „  —  l'insegnamento 
—  "  se  doibt  conduire  par  une  severe  douleeur,  non  comme  il  se  faiet;  au  lieu  de  convier  les  enfants 
"  aux  lettres,  on  ne  Ieur  presente,  a  la  verité,  que  horreur  et  crauté.  Ostez  moy  la  violence  et  la 
"  force:  il  n'est  rien,  à  mon  advis,  qui  abastardisse  et  estourdisse  si  fort  une  nature  bien  nee  „ 
(Kb,  libro  I,  cap.  XXV,  pag.  89). 

(3)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XX,  pag.  175. 


17  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI 


81 


Mercè  la  parola  maestro  e  discepolo  comunicano  insieme,  si  interrogano,  si  rispondono  ; 
mercè  la  parola  si  ammaestra,  si  erudisce,  si  compie  in  fine  il  più  alto  magistero 
educativo.  "  La  lingua  dell'Uomo  è  uno  strumento  mirabile  delle  umane  azioni,  a  lui 
dato  da  Dio,  acciocché  l'uno  possa  comunicare  coll'altro  gl'interni  suoi  pensieri  per 
mezzo  delle  parole  „  (1).  Ma  anche  la  parola  deve  essere  educata  e  guidata  da 
sagge  regole,  e  perchè  essa  riesca  veramente  efficace  deve  essere  rivolta  al  cuore. 
Si  deve  mirar  sempre,  e  prima  di  tutto  al  cuore,  consiglia  continuamente  ed  insi- 
stentemente il  M.,  bisogna  parlare  al  cuore,  indirizzarsi  al  cuore,  lusingarlo  colla  lode, 
coll'approvazione,  coll'amor  proprio,  che  è  il  primo  mobile  delle  azioni  umane  (2). 
Ma  anche  qui  occorre  badare  che  il  discente  non  luceva  passivo  la  parola  del- 
l'educatore, ma  essa  sia  l'effetto  del  loro  lavoro  mentale,  e  alla  sua  formazione 
concorra  l'opera  d'entrambi.  A  tal  uopo  utilissima  torna  la  conversazione  coi  dotti, 
che  si  può  davvero  dire  la  più  dilettevole  e  facile  palestra  d'istruzione.  Il  M.  ne 
fu  sempre  vaghissimo,  ed  essa  appunto  formava  il  desiderio  più  imperioso  della 
sua  gioventù.  È  commovente  vedere  come  egli  scrive  a  venticinque  anni:  "  Haec  una 
me  tangit  cupido,  hoc  unum  mihi  votimi  inhaeret,  ut  ab  eruditis  literarum  culto- 
ribus  amoiis  communionem  obtineam  „  (3).  Ed  in  seguito:  "  Dulce  est  erudictionis 
sectatoribus  quotidie  cum  mortuis  (=  libri)  versari,  dulcius  profecto  futurum  cum 
vivis,  a  quibus  brevi  facilique  compendio  eruditior  in  die  discedas  „.  E  con  dolce, 
affettuosa  compiacenza  ricorda  ancora  quel  giorno  (4),  in  cui  per  la  pubblicazione  di 
alcuni  versi  potè  aver  l'adito  alla  dotta  conversazione  di  alcuni  felici  ingegni  e  let- 
terati. Oh!  possano  questo  intendere  taluni,  e  persuadersi  una  volta  che  grande,  im- 
menso bene  può  a  volte  derivare  da  una  sola  parola  loro,  da  un  solo  sguardo,  da 
un  saluto.  Se  lo  ricordino  cui  tocca,  se  lo  ricordino  cui  sta  a  cuore  il  progresso  delle 
scienze,  che  l'inaccessibilità  non  è  mai  virtù,  ma  debolezza  perniciosa,  e  che  nessuno 
mai  nacque  maestro. 

Imitazione.  —  L'imitazione  è  un  fatto  necessario,  naturale  alla  creatura  umana, 
perchè  dal  di  fuori  questa  deve  prendere  gli  elementi  che  le  abbisognano  per  lavo- 
rarli internamente  e  uniformarli  a  se,  onde  formare  il  carattere.  Grande  importanza, 
secondo  il  M.,  occorre  quindi  dare  all'imitazione,  e  grande  cura  aversi  perchè  gli  ele- 
menti che  essa  si  assimila  siano  sani.  Occorre  pertanto  che  il  bambino  sia  circondato 
da  persone  che  si  comportino  bene,  perchè  più  potente  e  gagliarda  che  mai  è  l'imi- 
tazione nei  verdi  anni.  Infatti  come  il  bambino  si  appropria  della  lingua  loro,  così 
si  appropria  dei  loro  costumi,  e  un  abito  contratto  in  gioventù  resta  generalmente 
compagno  per  tutto  il  rimanente  della  vita.  Indicibile  è  la  forza  dell'ambiente,  e 
quelle  stesse  leggere  impressioni  che  noi  crediamo  senza  conseguenza,  finiscono  col 
t^mpo  di  imprimersi  nella  mente  del  bambino  con  tanta  forza,  che  egli  seguiterà 
adulto  a  fare,  od  evitare,  ciò  che  allora  gli  piaceva,  o  ripugnava.  Devesi  inoltre  av- 
vertire che  la  forza  delle  impressioni  cattive  è  maggiore  di  quelle  buone,  vuoi  per 
l'innata  tendenza  al  male,  vuoi  perchè  la  fantasia  nostra  propende  maggiormente  pel 
piacere  immediato  che  suol  seguire  alle  azioni   cattive,  che  non  pel  remoto  che   ci 


(1)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XX,  pag.  170. 

(2)  Id.,  cap.  XII,  pag.  126. 

(3)  Lettera  a  Corrado  Janning.  Milano,  VII  Kal.  Aprili*,  1627,  Camfori,  I,  316-17. 

(4)  Vedi  lettera  al  conte  di  Porcia. 
Sekie  II.  Tom.  LUI. 


82  STEFANO    GRANDE  18 

offre  la  virtù.  "  Certo  se  non  mancassero  a  questo  dovere  i  Genitori,  e  se  tutti  sa- 
pessero dare,  come  il  latte  per  cibo  a  i  Corpi,  cosi  il  latte  dei  buoni  Costumi  a  gli 
Animi  de'  loro  figliuoli,  non  sarebbe  così  copiosa  al  mondo  la  schiera  dei  malviventi 
e  degli  scapestrati  „  (1). 

Ma  non  basta  che  l'imitazione  sia  spontanea,  non  basta  che  si  lasci  imita] 
deve  far  imitare,  e  favorire  l'imitazione,  ma  imitazione  riflessiva  e  consapevole  di  se. 
Questa  imitazione  poi  suppone  due  termini  armonici:  il  tipo  da  imitarsi,  e  l'azione 
di  chi  scientemente  imita  ;  termini  che  abbracciano,  si  può  dire,  tutta  la  scienza  pe- 
dagogica, e  dei  quali  non  ci  occorre  parlare  partitamente,  perchè  intorno  ad  essi  si 
aggira  tutto  il  complesso  della  nostra  trattazione. 

Emulazione.  —  Frutto  dell'imitazione  riflessiva  e  consapevole  di  sé,  si  può  rite- 
nere l'emulazione.  È  questa  un  potente  mezzo,  e  una  forza  di  primo  ordine  pel  pro- 
gresso scientifico  e  per  la  coltura  in  generale.  Occorre  pertanto  che  il  buon  istitutore 
la  favorisca,  ma  nello  stesso  tempo  abilmente  la  guidi,  affinchè  non  fuorvii  e  degeneri 
dal  suo  scopo.  "  Concordia  nimirum,  et  collatis  consiliis  res  literaria  crescet,  ac  ubi 
aemulationem  ingenia  conceperint,  non  nisi  uberrimi  fructus  in  literis  videntur  spe- 
randi  „  (2).  Ma  essa  è  un'  arma  di  difficile  uso,  e  il  M.  stesso  che,  per  trar  frutto 
da  una  sana  emulazione,  aveva  tentato  di  riunire  in  una  Repubblica  Letteraria  i  più 
valorosi  ingegni  d'Italia,  se  ne  ricredeva  tosto,  persuaso  che  ne  verrebbe  più  scandalo 
che  vantaggio,  perchè  quella  che  egli  proponeva  per  emulazione,  si  sarebbe  tosto 
cambiata  in  ringhiosa  invidia.  "  E  al  vedere  in  lontananza,  scrive  egli  (3),  le  mene, 
le  brighe,  le  invidie,  i  sotterfugi,  le  calunnie  di  quella  gente  (i  Letterati),  che  sarà 
da  vicino?....  Che  non  farebbero  quei  grandi  animali  della  gloria  (sic),  cioè  gli  uomini 
di  lettere,  posti  tutti  in  un  serraglio  (continua  la  metafora,  scriverebbe  il  Giusti!) 
e  tutto  dì  gli  uni  sul  volto  degli  altri?....  Pur  troppo  allora  più  che  mai  si  vedrebbe, 
che  il  bollor  degl'ingegni,  la  diversità  delle  sentenze,  e  l'ostinazione  in  esse,  il  cre- 
dersi, o  almeno  il  desiderarsi  superiore  agli  altri,  e  il  concorrere  a'  medesimi  premj, 
o  pure  al  sol  premio  della  gloria,  son  tutti  troppo  gagliardo  incentivo  alle  gare  et 
invidie  „  (4). 

Ma  è  un  fatto  innegabile  che  usata  in  più  modeste  proporzioni,  e  saggiamente 
interpretata,  l'emulazione  non  può  a  meno  di  dare  buonissimi  frutti.  Occorre  col- 
tivarla senza  timore,  ma  insieme  con  maestria  e  destrezza;  ed  allora  è  così  certa 
la  sua  efficacia,  che  in  base  ad  essa  principalmente  il  M.  stesso  non  dubita  di 
anteporre  le  scuole  pubbliche  alle  private,  ove  essa  manca,  riconoscendo  che  "  essa 
è  la  fonte  prima  di  quel  diletto  che  rende  agevole  ed  anche  dolce  ogni  fatica,  e 
il  quale  con  gran  cura  dovrebbe  studiarsi  per  farlo  nascere  in  cuore  ai  giova- 
netti „  (5). 

Ma  anche  altrove  (6)  il  M.  si  dimostra  assai  favorevole  alla  saggia  emulazione, 
ed  anzi  nella  sua  importantissima  lettera  del  1721  al  Conte  di  Porcia,  afferma  che 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  XLII,  pag.  395. 

(2)  Lettera  a  Girberfco  Borromeo  Arese,   1699,  Campobi,  li,  416-18. 

(3)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 

(4)  Ibidem. 

(5)  Ibidem. 

(6)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XXX,  pag.  '-'77. 


19  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  83 

all'emulazione  sopratutto  egli  doveva  i  suoi  progressi  giovanili.  E  pertanto  da  con- 
siderarsi essa  come  un  grande  mezzo  educativo,  e  molto  da  consigliarsi,  se  ebbe  il 
vanto  di  ottenere  sì  lusinghiera  confessione  da  tanto  maestro. 

Ordine  e  (/irida  negli  studi.  —  Accanto  ai  grandi  mezzi  pedagogici  citati  dob- 
biamo riporre  l'ordine  che  deve  esser  ispirato,  nel  suo  magisterio,  da  chi  educa  e 
da  chi  insegna.  "  Uno  dei  pregi  grandissimi  e  di  chi  insegna,  e  di  chi  pubblica  (e 
di  chi  studia,  aggiungiamo  noi)  è  l'ordine  che  facilita  la  memoria,  che  favorisce 
l'intelletto,  e  da  cui  nasce  la  scienza,  ed  un  Ingegno  mediocre,  ben  regolato,  e 
infaticabile  nello  studio,  può  giungere  a  fare  cose  mirabili,  e  superar  di  lunga 
mano  altri  Ingegni  grandi,  e  vasti,  ma  non  regolati,  ma  impazienti,  ma  incapaci 
di  applicazione,  e  di  fatica  „  (1).  Il  danno  che  deriva  dalla  mancanza  del  buon 
ordine  è  incalcolabile,  e  molti  ingegni  vanno  cosi  sciupati,  perchè  "  o  non  istruiti 
o  mal  regolati  sulle  pi-ime,  gittano  mesi  ed  anni  in  imparar  quello,  che  nulla  deve 
loro  servire;  e  troppo  tardi  conoscendo  quel  buono,  o  quel  meglio,  che  si  doveva 
loro  ispirare  o  insegnare  nell'età  giovanile,  o  niun  frutto  poi  danno,  o  ne  danno 
assai  meno  di  quel  che  avrebbero  potuto  „  (2).  Si  va  dicendo  che  l' Italia  è  povera 
di  grandi  ingegni,  che  essa  ha  fatto  il  suo  tempo  ;  niente  di  più  errato.  Ingegni  non 
ne  mancano,  ma  noi  li  strozziamo  nella  culla  per  non  saperli  istradare  e  favorire  (3). 

Grande  pertanto  è  il  vantaggio  che  viene  dall'ordine  negli  studi,  ordine  che 
necessariamente  ci  deve  esser  ispirato  e  suggerito  da  una  saggia  guida  e  dal  saggio 
criterio  altrui  (4). 

Tali  concetti  propugna  pure  il  M.  nella  celebre  lettera,  già  ricordata,  ai  "  Capi, 
Maestri,  Lettori,  ecc.  degli  Ordini  religiosi  „  ed  altrove  ancora  (5),  dove  saggia- 
mente tratta  pure  del  metodo  e  dell'ordine  degli  studi,  disapprovando  di  sana  pianta 
il  sistema  delle  scuole  dei  suoi  tempi,  principalmente  religiose,  e  alla  mancanza  di 
esso  attribuendo  la  mancanza  di  dotti  religiosi,  ed  anche  di  grandi  ingegni  italiani. 

Bellissime  parole  intorno  al  buon  ordine  negli  studi,  e  alla  scelta  del  metodo 
scrisse  pure  il  M.  nella  sua  eruditissima  lettera  al  Conte  di  Porcia,  più  volte  citata, 
ma  noi  dobbiamo  accontentarci  di  questo  breve  accenno,  per  non  dilungarci  troppo 
nella  nostra  trattazione. 

Veniamo  ora  ai  mezzi  della  seconda  specie,  cioè  a  quelli  propri  dell'educazione 
che  l'uomo  fatto  dà  a  sé  stesso  per  raggiungere  il  fine  ultimo  della  sua  destinazione. 
Anche  questi  si  differenziano  secondo  le  diverse  forme  del  mondo  fisico  e  sociale  in 
cui  l'uomo  assolve  la  sua  vita,  e  secondo  quell'ordine  dovrebbero  essere  distribuiti, 
ma  noi  ci  limitiamo  ad  esporli  semplicemente  in  base  al  criterio  citato. 

Lettura.  —  È  questo  uno  dei  più  potenti  e  facili  mezzi  che  l'uomo  ha  in  sua 
facoltà  di  adoperare  per  la  propria  educazione,  e  la  sua  efficacia  è  così  evidente  che 
in  nessun  trattato  pedagogico  o  filosofico  essa  è  trascurata.  Dato  questo  universale 
accenno,  non  bisogna  qui  aspettarci  dal  M.  gran  che  di  nuovo,  ma  in  questo  campo, 


(1)  Delle  Riflessioni,  parte  II,  cap.  VII. 

(2)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 

(3)  Cfr.  Delle  Riflessioni,  parte  I,  cap.  I,  pag.  122. 

(4)  Cfr.  Lettera  al  Porcia. 

(5)  Cfr.  Delle  Forze   dell'Intendimento   Umano,  o   sia    il  Pirronismo   confutato.    Venezia,  Pasquali, 
1745,  pag.  340. 


84  STEFANO    GKANDE  20 

del  resto  mai  del  tutto  sfruttato,  più  che  altrove  "  repetita  juvant  „.  La  lettura, 
osserva  il  M.,  deve  essere  ordinata  e  saggia;  non  è  col  divorare  libri  che  si  istruisce 
e  si  educa  la  mente,  ma  col  leggere  buoni  libri,  morigerati,  dettati  da  persone  di 
dottrina  e  pietà.  Senza  grande  e  buona  lettura  difficilmente  s'otterrà  gloria  e  fama 
nel  mondo  letterario,  né  giammai  si  potrà  mirare  con  ampiezza  il  grande  orizzonte 
delle  scienze  e  delle  arti.  Colla  lettura  si  sveglia  l'ingegno,  si  facilita  lo  stile,  si 
invoglia  allo  studio,  si  scopre  la  nostra  distanza  dai  grandi  ingegni,  si  giudica  con 
più  riguardo  delle  virtù  e  dei  difetti  altrui,  si  apprendono  i  principi,  gli  assiomi,  le 
massime  generali  delle  scienze,  gli  argomenti  poco  o  male  trattati,  ci  prepariamo 
un  vasto  e  fertile  campo  d'azione  .  .  .  (1). 

Frutto  di  mancanza  di  lettura,  o  di  disordinata  lettura,  è  quel  fare  da  saputelli 
che  distingue  i  giovani  appena  usciti  dalle  pubbliche  scuole  (2),  i  quali  si  danno  a 
giudicare  e  sentenziare  di  tutto  temerariamente  (3).  Il  M.  con  riuscito  paragone  li 
confronta  alla  mosca  di  Esopo,  che  dal  razzo  della  ruota  dove  si  era  posta,  pavo- 
neggiandosi, mormorava:  "  Quantum  pulverem  moveo!  „.  Ora  tale  difetto  non  può 
esser  meglio  corretto  che  dall'abbondante  e  sana  lettura,  che  ci  fa  intendere  la  vera 
portata  delle  nostre  forze  e  delle  altrui.  E  infatti  universalmente  ammesso  che  più 
si  impara,  più  si  conosce  che  c'è  da  imparare,  perchè  viemeglio  si  rivelano  alla 
nostra  mente  gli  sconfinati  orizzonti  della  scienza. 

"  Bisogna  confessarlo,  benché  sospirando;  per  quanto  l'uomo  studj,  e  si  discer- 
veili nelle  Scuole,  e  su  i  Libri,  oppure  sul  vivo  e  vastissimo  libro  del  Mondo  ;  in- 
comparabilmente sempre  sarà  più  quello,  che  gli  resterà  da  sapere;  e  sempre,  se 
ha  senno,  e  non  è  un  misero  adulator  di  se  stesso,  potrà  e  dovrà  confessare,  es- 
sere maggiore  senza  comparazione  la  sua  Ignoranza,  che  la  Dottrina  sua  „  (4). 
Data  questa  nostra  insufficienza,  il  M.  deduce  che  la  scienza,  anzi  che  superbia, 
deve  ingenerare  umiltà  (5). 

Così  essendo  in  realtà  le  cose,  ecco  quale  dev'essere  la  bandiera  dello  studioso  : 
"  Bisogna  primieramente  studiar  molto,  leggere  molto,  meditar  molto,  e  mettere  un 
buon  capitale  di  pi-imi  Principi,  di  Riflessioni,  e  d'Erudizione,  nella  guardaroba  della 
Memoria.  Ma  questa  è  una  trafittura  ai  melensi,  ai  neghittosi,  ai  troppo  agiati  Pro- 
fessori del  sapere,  e  della  Letteratura,  i  quali  forse  si  aspettavano  una  facile  e 
nuova  strada  per  giungere  in  quattro  passi  alla  Gloria.  Altra  io  per  me  non  ne 
so  ;  ed  altra  non  se  n'è  finora  conosciuta,  né  si  conoscerà,  quando  il  Cielo  non 
voglia  far  de'  miracoli  „  (6). 

Questa  pertanto  la  via  alla  vera  scienza,  alla  gloria,  via  erta  e  difficile,  ma 
resa  sommamente  più  agevole  dalla  pratica  delle  cose  suggerite,  e  sopratutto  dalla 
buona  lettura.  A  complemento  di  queste  osservazioni  mi  piace  riferire  quanto  il  M. 
dice  di  sé  stesso,  quando  giovane  ed  inesperto,  pasceva  la  sua  fervida  mente  delle 
fole,  e  delle  trovate  fantastiche  de'  romanzieri. 


(1)  Ct'r.   Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  pai-te  II,  pag.  315-25. 

(2)  Cfr.  Filosofìa  Morale,  cap.  XXXIX,  pag.  372. 

(3)  Cfr.  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon   Gasto,  parte  II,  pag.  318. 

(4)  Filosofia  Morale,  cap.  X,  pag.  112. 

eap.  XXXIX,  pag.  373. 
(6)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  317. 


21  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  00 

-  Ne'  miei  più  teneri  anni  mi  avvenni  in  alcuni  Romanzi,  i  quali  tanto  mi  sol- 
leticarono il  gusto,  che  quanti  ne  potei  ottenere,  tutti  con  incredibile  avidità  i- 
vorai,  fino  a  portarli  meco  alla  mensa,  pascendo  con  più  sapore  allora  di  quelle 
favole  la  mia  curiosità,  che  il  corpo  de'  cibi.  S'io  dirò  che  questa  lettura  serv'i  non 
poco  a  svegliarmi  l'ingegno,  a  facilitarmi  lo  stile,  e  ad  invogliarmi  sempre  più  di 
leggere,  forse  dirò  il  vero.  Ma  debbo  nello  stesso  tempo  intimare  massimamente 
a  i  giovanetti,  che  non  venisse  lor  mai  talento  d'imitare  un  sì  pericoloso  esempio; 
perciocché  quand'anche  potessero  qualche  cosa  guadagnare  dalla  parte  dell'ingegno, 
potrebbono  perdere  molto  da  quella  de'  costumi . .  .  „  (1). 

Il  M.  parla  per  esperienza,  e  noi  non  sappiamo,  se  non  avessimo  altra  via  da 
contemperar  la  scienza  colla  virtù,  se  sarebbe  bene  ritentare  liberamente  la  sua 
prova;  ad  ogni  modo  questo  è  il  fatto,  che  ci  devono  più  star  a  cuore  i'  buoni  co- 
stumi che  le  scienze,  perchè  il  mondo,  fu  già  detto,  può  viver.e  senza  grandi  ingegni, 
ma  non  senza  galantuomini. 

Giornali.  —  Dopo  la  lettura  in  generale,  riguardata  come  mezzo  pedagogico,  si 
devono  considerare  per  importanza,  popolarità  ed  efficacia,  i  giornali.  Ma  il  M.  non 
ha  occasione  di  occuparsi  di  giornali  politici  e  quotidiani,  che  questi  sono  un  regalo 
dei  tempi  nostri:  egli  si  riferisce  più  particolarmente  a  giornali  d'erudizione,  di 
lettere,  di  scienze,  dei  quali  si  augura  larga  diffusione,  lontano  di  molto  dal  pen- 
siero che  essi  avrebbero  un  giorno  inondata  la  società.  "  L'Italia  nostra,  scrive 
egli  (2),  ha  da  rallegrarsi,  che  se  ne  sia  ripigliata  la  fabbrica  anche  presso  di  noi 
altri  ne'  Giornali  che  oggidì  si  stampano  in  Venezia,  con  gloria  de'  loro  Autori,  ed 
utilità  e  diletto  del  pubblico.  Egli  è  da  desiderare,  che  loro  abbondino  i  buoni  Libri, 
e  che  la  savia  Lode  o  la  savia  Critica  invaghino  sempre  più  i  Lettori  di  comporne 
de  i  migliori  „. 

Propugna  frattanto  alacremente  nuove  istituzioni  di  riviste  di  scienza,  annuali 
e  mensili,  sull'esempio  delle  nazioni  più  progredite,  affinchè  si  dia  notizia  dei  migliori 
libri  composti  sì  italiani  che  stranieri,  perchè  se  ne  adornino  le  biblioteche  e  se  ne 
approfittino  gli  studiosi.  Ma  il  marchio  doveva  farsi  sentire  già  fin  d'allora,  perchè 
il  M.  si  lamenta  che  esse  sieno  talora  troppo  ligie  e  partigiane,  miranti  spesso  non 
tanto  a  raccomandare  un  buon  libro,  quanto  a  compiacere  un  amico,  o  ad  adulare 
un  influente  personaggio  (3). 

Ad  ogni  modo  i  suoi  desideri  furono  effettuati  dai  tempi  posteriori,  con  immensi 
vantaggi  davvero  per  la  coltura  e  per  le  scienze,  ma  non  senza  gravi  strappi  a  quella 
parte  che  stava  più  a  cuore  al  M.,  e  noi  non  sapremmo  se  egli,  ai  tempi  nostri, 
rinunzierebbe  piuttosto  alle  sue  idee  o  a  questo  progresso. 

Stampa.  —  Considerati  gli  effetti,  è  naturale  risalire  alle  cause,  e  trattato  della 
lettura  e  dei  giornali,  si  presenta  spontanea  la  questione  della  stampa  in  genere,  e 
della  sua  utilità.  Noi  siamo  usi,  e  a  ragione,  di  parlar  della  stampa,  come  di  una 
delle  più  maravigliose  invenzioni  dell'ingegno  umano,  ma  il  M.  considerando  la  que- 
stione dal  lato  morale,  si  propone  di  esaminare  se  questo  nostro   naturale   giudizio 


(1)  Lettera  al  Conte  di  l'orchi. 

(2)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  328. 

(3)  Idem,  parte  I,  cap.  [,  e  Lettere  ad  A.  Vallismeri,  Campori,  IV,  pag.  1329-331,  1545,  1553-54. 


86  STEFANO    GBANDE  l'I 

sia  proprio  giusto,  e  dà  sentenza  che  può  credersi  arrischiata.  "  Ingens  Bibliotheca 
—  scrive  egli  (1) —  ingens  malum  est,  et  si  rogetis  quid  commodi  Ars  Impressola 
non  intulerit,  ego  reponam,  quid  non  incommodi?  „.  E  la  questione  de'  tempi,  e  il 
male,  si  può  osservare,  era  già  sentito  fin  da  quando,  prima  della  stampa,  il  libro 
costava  tante  noie  e  disturbi  prima  che  entrasse  in  circolazione,  ed  era  già  lamen- 
tato da  Cicerone  stesso.  Ma,  continua  egli,  "  nisi  aliquando  tempus  cribrimi  admoveat, 
quo  progressura  est  insana  haec  cudendi  libros  prurigo?  „  (2).  E  qui  che  cosa  dob- 
biamo rispondere  noi  del  secolo  vigesimo?  Che  diremo  noi,  non  già  della  quantità  dei 
libri,  che  sarebbe  il  meno  male,  ma  dell'immorale,  indecoroso  uso  della  stampa,  che 
è  fatta  ormai  ministra  di  corruzione?  Non  ci  farebbe  sorridere  l'esortazione  del  M. 
agli  stampatori  di  consigliarsi  con  uomini  dotti  e  savi,  prima  di  intraprendere  la 
stampa  di  un  libro?  (3). 

In  tal  questione  poi  il  M.  viene  a  trovarsi  nell'imbarazzo,  e  alla  revisione  di  stampa 
che  allora  esisteva,  e  come!,  verrebbe  quasi  ad  aggiungere  un'altra  opera  simile,  per 
frenare  le  intemperanze  e  gli  eccessi  degli  scrittori.  Cosi  egli  che  si  dimostra  altrove 
tutt'altro  che  tenero  per  la  revisione,  tanto  da  invocare  piuttosto  il  tempo  dei  ma- 
noscritti, ora  si  professa  tutt'altro  che  proclive  alla  libertà  della  stampa.  E  per  l'una 
scrive:  "  Un'  (sic)  incomparabil  beneficio  noi  certo  riconosciamo  dalla  mirabil'inven- 
zione  della  stampa,  potendo  noi  oggi,  se  vogliamo,  con  poca  spesa,  divenir  dotti. 
Ma  dappoiché  senza  misura,  senza  scelta  alcuna  han  faticato,  e  faticano  i  torchi, 
per  imprimere  tanti  libri,  che  non  meritano  la  luce  e  tanti  ancora  che  meritavano 
di  perderla,  abbiamo  anche  di  che  lagnarci  di  questo  beneficio  ,  (4).  D'altra  parte 
poi  lamenta  la  crassa  ignoranza  e  grettezza  dei  censori,  la  loro  completa  dipendenza 
e  partigianeria,  per  cui  egli  stesso  è  obbligato  a  non  dir  ciò  che  sente  e  gli  "  re- 
stano nella  penna  molte  osservazioni,  forse  non  inutili,  le  quali  vorrebbero  pure  la 
licenza  di  scappar  in  Pubblico,  ma  son  costrette  a  restar  in  casa  „  (5).  E  ricorda 
un  increscioso  incidente  che  gli  capitò,  in  grazia  di  questa  revisione,  a  proposito 
della  pubblicazione  del  suo  trattato:  "  De  Ingeniorum  moderatione,  ecc.  „.  È  questa 
un'opera  della  più  sana  ortodossia  (6),  compenetrata  del  più  giusto  rispetto  agli  uo- 
mini e  alle  cose,  ove  il  M.  dimostra  che  la  religione,  di  origine  divina,  e  quindi  di 
natura  infallibile,  deve  far  chinare  la  fronte  agli  ingegni  umani  di  natura  fallaci; 
esser  pertanto  da  biasimarsi  coloro  che  lasciano  troppo  la  briglia  ai  loro  cervelli, 
ma  tuttavia  esser  necessaria  una  certa  giusta  libertà  di  pensiero.  Ora  in  grazia  di 
una  gretta  revisione  "  in  una  delle  gran  città  d'Italia,  scrive  egli  (7),  non  se  ne 
volle  permettere  la  stampa,  perchè  si  pretendeva  che  in  un  punto  io  non  dessi  assai 
al  Capo  visibile  della  Chiesa  di  Dio;  e  né  pure  in  Francia  all'incontro  mi  si  voleva 
permettere,  perchè  si  pretendeva,  che  in  quel  medesimo  punto  io  gli  dessi  troppo 
Il  libro  pertanto  fini  coli'  esser  pubblicato  a  Parigi,  ma  con  giunte  e  parentesi  che 
il  M.  dovette  poi  pubblicamente  riprovare. 


(1)  Lettera  citata  a  Gilberto  Borromeo  Arese. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Cfr.   /  Primi  Dissenni  della   Repubblica   Letteraria,  ecc. 
(4    Della  Pubblica  Felicità,  ecc.,  pag.  76. 

(5)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  22. 

(6)  Cfr.  Campori,  voi.  Ili,  pag.  914-15;  920;  1100-1. 

(7)  Lettera  al  Porcia. 


23  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  87 

Inconvenienti  gravissimi  pertanto  da  una  parte  e  dall'altra,  rimediabili,  nella 
mente  del  M.,  gli  uni  coll'istruzione,  ..."  imperciocché  non  fanno  già  paura  a  i  Let- 
terati i  Censori  dotti  e  savi,  ma  bensì  gli  ignoranti  e  gli  imprudenti . .  .  „  (1)  e  gli 
altri  coll'educazione.  Ma  ai  giorni  nostri  il  male  si  acuì  siffattamente  da  una  parte 
e  dall'altra,  che  pur  riconoscendo  le  buone  intenzioni  del  M.,  non  possiamo  a  meno 
di  paragonare  la  sua  voce  a  quella  del  "  clamantis  in  deserto  „. 

Belle  Arti.  —  Ci  sono  delle  occupazioni  e  degli  studi  che  possono  cooperare  mol- 
tissimo alla  cultura  della  mente  e  del  cuore,  e  nel  tempo  stesso  ricreare  lo  spirito  : 
tale  la  moderata  applicazione  alle  Belle  Arti.  La  pittura,  la  musica,  ecc.  sono  oppor- 
tunissime  a  sollevare  la  mente  profondamente  immersa  negli  studi  gravi,  e  il  M.  non 
cessa  di  raccomandarle  agli  studiosi.  Così  scrive  (2)  al  matematico  Gian  Simone 
Enriquez  de  Cabrerà:  "  Ella  può  temperar  bene  un'applicazione  sì  seria  (le  matema- 
tiche) con  la  dolcezza  ed  amenità  delle  arti  liberali,  e  massimamente  della  musica 
e  pittura.  E  per  verità  non  è  solamente  convenevole,  ma  necessario  ancora  agli  animi 
nostri,  questo  dolce  tradimento  che  si  fa  agli  studi  gravi  „. 

Alla  musica  e  alla  pittura  poi  egli  unisce  la  loro  indivisibile  sorella,  la  poesia, 
"  il  cui  proprio  fine  è  quello  dei  dilettare  „  (3).  Altrove,  in  verità,  il  M.  è  disposto 
a  vedere  altri  più  nobili  intenti  nello  studio  della  poesia  e  delle  arti  belle,  e  pensa 
alle  loro  alte  concezioni  etiche  e  morali,  ma  qui  non  può  che  riferirsi  al  loro  scopo 
ricreativo,  a  cui  evidentemente  e  mirabilmente  servono.  "  La  poesia  è  da  lodare 
perchè  dirozza  l'Intelletto  ed  aguzza  l'Ingegno,  e  se  non  altro,  può  dilettare:  il  che 
è    un  Bene  a  cui    non    manca  il  suo  pregio  „  (4). 

Ma  anche  il  fatto  di  mutar  momentaneamente  occupazione,  può  esser  di  sollievo 
al  nostro  spirito,  ed  in  questo  senso  appunto,  più  che  altrimenti,  devesi  intendere 
il  metodo  suggeritoci  di  alternar  il  profondo  studio  coll'applicazione  alle  arti  amene. 
Ed  egli  canta  ai  giovani: 

Non  La  quiete,  ma  il  mutar  fatica 
Alla  fatica  sia  solo  ristoro  (5). 

È  un  metodo  un  po'  duretto,  ma  non  fallisce  giammai.  u  Si  meraviglia  talora  la 
gente  oziosa  in  veder  persone  di  lettere,  che  non  sanno  levar  gli  occhi  da'  libri, 
sempre  studiando,  e  senza  perdonarla  neppure  alla  villeggiatura.  Ve',  dicono,  quel 
buon  uomo  !  ne  sa  tanto  o  crede  di  saperne  tanto,  e  non  sa  che  egli  è  dietro  a  farsi 
seppellire  prima  del  tempo  .  .  .  „  (6). 

Ma  io  non  vorrei  che  si  prendessero  troppo  alla  lettera  queste  espressioni,  e  si 
pensasse  al  mio  M.  come  ad  un  cupo  e  taciturno  cultore  delle  scienze,  o  ad  un  mi- 
santropo ;  egli  pure  ama  il  divertimento,  lo  consiglia,  lo  esige  anzi  (7).  Il  soverchio 
lavoro  gravita  troppo  sul  cervello  e  lo  affatica  eccessivamente,  sicché  lo  stesso  sistema 
nervoso  è    sinistramente    scosso.    È    necessario,    doveroso    il  sollievo    ed  il    diverti- 


ti) Delle  Riflessioni,  ecc.,  parte  II,  pag.  22. 

(2)  Lettera  dedicatoria  del  1°  libro  della  Vita  di  C.  M.  Maggi,  Campori,  II,  452. 

(3)  Delle  Riflessioni,  parte  I,  cap.  IV. 

(4)  Della  Pubblica  Felicità,  ecc.,  pag.  171. 

ritti  inediti  di  L.  A.  Muratori,  pubblio,  pel  suo  secondo  centenario,  pag.  45. 

(6)  Lettera  al  Porcia. 

(7)  Cfr.  Filosofia   Morale,  cap.  VIII,  pag.  97. 


STEFANO    GRANDE 


24 


mento  (1),  ed  il  M.  pure  sapeva  a  tempo  e  luogo  prenderselo  ed  anzi  egli,  l'ardente 
ed  infaticato  cultore  delle  scienze,  arriva  perfino  a  raccomandare  al  suo  principe  di 
istituire  pubblici  spettacoli,  giuochi,  divertimenti,  accademie,  ecc.,  tome  un  bisogno 
e  sollievo  del  popolo. 

Teatro.  —  "  E  perciocché  il  mondo  vuol  ridere,  e  sarebbe  un  misantropo  (sic), 
chi  non  ammettesse  pubblici  e  privati  divertimenti,  io  non  ho  difficoltà  di  dire,  che 
anche  le  Commedie  potrebbono  influire  non  poco  nel  medesimo  fine  „  (2).  Grandis- 
sima importanza  infatti  dà  il  Muratori  al  teatro,  e  non  dubita  punto  di  considerarlo, 
se  interpretato  bene  e  guidato  da  buon  fine,  come  una  grande  scuola  intellettiva  e 
morale.  "  Francamente  oso  affermare,  scrive  egli  (3),  che  fra  tutti  i  pubblici  spetta- 
coli, approvati  dalla  Politica  e  dalla  Morale  per  ricreazione  de'  popoli,  il  più  profit- 
tevole, e  quasi  direi  il  più  dilettevole,  è  quel  delle  Tragedie  e  Commedie,  purché 
queste  siano  composte  secondo  le  Regole,  che  loro  e  dalla  Filosofia  Morale,  e  dalla 
Poetica  sono  prescritte,  e  purché  siano  recitate  da  valorosi  attori  „.  Più  che  alla 
tragedia  poi,  egli  dà  importanza  etica  alla  commedia,  perchè  più  piana  e  semplice, 
e  più  direttamente  parla  al  cuore  del  popolo;  ripetutamente  pertanto  consiglia  agli 
studiosi  d'occuparsi  di  questa  parte  della  letteratura,  che  è  fra  le  più  feconde  e  le 
meno  coltivate  (4). 

Ma  anche  sotto  altri  aspetti  è  da  approvarsi  e  promuoversi  il  teatro.  Di- 
cemmo già  che  esso  può  servir  di  palestra  di  buon  costume,  ed  ora  aggiungiamo 
che  può  anche  servire  al  principe  come  buon  mezzo  di  popolarità  e  di  ben  operare. 
"  Il  teatro  per  sé  stesso  non  è  illecito.  Tale  lo  fan  divenire  le  oscenità  dei  Comici, 
e  le  Commedie  di  cattivo  costume;  il  che  troppo  disdice  ad  un  ben  regolato  Governo, 
e  molto  più  alla  purità  del  Cristianesimo.  Il  veder  quivi  insegnate  le  malizie,  scre- 
ditata e  messa  in  ridicolo  la  Virtù,  il  Vizio  allo  stringer  de'  conti  felice,  non  ci  vuol 
già  un  Catone,  per  riconoscere  la  deformità  di  un  tale  abuso,  tanto  più  pernicioso, 
quanto  maggiore  è  la  folla  degli  spettatori.  Commedie  adunque  o  in  prosa  o  in  versi, 
le  quali  sapessero  far  ridere,  correggessero  il  ridicolo  de'  costumi,  delle  usanze  mal 
concertate,  delle  Opinioni  stolte  del  volgo,  e  destramente  porgessero  buoni  ammae- 
stramenti, o  almeno  nuocere  non  potessero:  renderebbero  il  Teatro  una  scuola  se- 
greta del  ben'  operare,  e  però  utile  alla  Repubblica.  Se  i  Principi  saggi  oggidì  im- 
piegassero stipendi  e  regali  a  chi  provvedesse  il  Teatro  di  Commedie  tali,  s'ha  egli 
da  dubitare,  che  non  ne  riportassero  lode  ed  onore  nel  Mondo,  e  dirò  anche  paga- 
mento da  Dio?  Lo  stesso  è  da  dire  delle  belle  e  varie  Tragedie;  ma  di  queste  non 
ne  scarseggia  l'Italia  „  (5). 

Dato  questo  ottimo  fine  e  questa  innocenza,  il  M.  non  teme  di  venir  meno  alla 
sua  gravità,  e  alla  santità  del  suo  ministerio,  occupandosi  egli  stesso  di  recitazioni 
teatrali,  incaricandosi  di  scegliere  gli  argomenti,  di  distribuire  le  parti,  di  provve- 
dere i  personaggi  per  le  rappresentazioni  le  quali,  principalmente  per  merito  suo, 
si  allestivano  alle  Isole  Borromee,  a  Cesano,  ed  altrove,  dove  il  M.  andava  coi  suoi 


(1)  Cfr.  Lettera  al  Porcia. 

(2)  Filosofia  Morale,  cap.  XXVIII.  pag.  259. 

(3)  Della  Perfetta  Poesia  Italiana.  Venezia,  Coleti,  1730,  pag.  47 

(4)  Cfr.  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 

(5)  Della  Pubblica  Felicità,  ecc.,  pag.  172-73. 


25  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  »y 

protettori  a  villeggiare.  "  Finora,  scrive  egli  stesso  (1),  ci  siamo  ricreati  con  burlette 
improvvise,  che  son  riuscite  a  meraviglia  bene.  A  me  è  toccata  la  cura  di  trovar 
ogni  giorno  i  soggetti  nuovi  e  poi  di  essere  il  direttore  di  tutto  con  fatica  e  diletto  „. 

Il  M.  era  troppo  uomo  pratico  per  non  conoscere  i  bisogni  della  natura  umana, 
e  cercando  di  appagarli  nei  giusti  limiti,  non  farne  buon  tesoro  (2).  Bisogna  con- 
temperar la  fatica  coll'opportuno  sollievo,  perchè  anche  questo  è  una  necessità  della 
natura  nostra,  ed  il  M.  stesso,  come  desiderava  primeggiare  nello  studio,  nelle  occu- 
pazioni intellettuali  così  non  ricusava  di  cercar  la  lode  anche  nel  divertimento.  "  Se 
si  potesse  avere  qualche  relazione  di  quel  prodigioso  e  dilettevole  giuoco  di  T(arocco?), 
in  cui  fate  prodezze,  scrive  all'amico  Gatti  (3),  mi  farei  grande  onore  in  questa  città  „. 
In  un  piano  di  studi  pertanto,  o  in  un  trattato  pedagogico,  devesi  pur  tener  conto 
del  divertimento,  e  sia  questo  il  teatro  o  siano  i  tarocchi,  purché  non  si  trasmodi, 
si  provvederà  ad  un  ragionevole  bisogno  della  natura  umana.  Ma  del  teatro  e  di 
altri  divertimenti  e  giuochi  terremo  parola  altrove. 

Conferenze.  —  Posto  non  trascurabile  fra  i  fattori  delle  scienze  hanno  le  con- 
ferenze, le  quali  in  un  piano  di  studi  dovrebbero  aver  larga  parte.  Il  M.  nella  famosa 
lettera  ai  Capi,  Maestri,  Lettori  degli  Ordini  religiosi,  suggerisce  insistentemente 
questa  pratica,  della  quale  vede  tutta  l'efficacia,  e  pel  vivo  incitamento  allo  studio, 
e  per  la  soddisfazione  dell'allievo.  L'efficacia  delle  conferenze  è  sociale,  perchè  ri- 
guarda un  pubblico  intero,  che  molto  più  facilmente  s'adatta  ad  apprendere  le  no- 
zioni generali  d'una  qualunque  scienza  esposte  a  voce,  che  non  su  libri;  è  scolastica 
perchè  scuote  la  mente,  per  lo  più  soverchiamente  passiva  del  discente,  sicché  questi 
segue  con  attenzione  particolare  l'oratore,  per  approvarlo  ed  imitarlo  se  per  lui  ha 
stima  già  prima  concepita;  per  criticarlo,  o  almeno  per  giudicarlo,  se  l'oratore  gli 
è  nuovo,  o  press'a  poco  della  sua  portata.  Propone  pertanto  il  M.  che  si  stabiliscano 
dei  giorni  fissi,  destinati  esclusivamente  alle  conferenze,  ed  ogni  allievo  per  turno 
tenga  la  sua,  potendosi  così  formare  un'utile  palestra  di  emulazione,  di  gara,  di  studio. 
Noi  moderni  possiamo  esser  giudici  delle  rette  opinioni  del  M.,  noi  che  sappiamo 
qual  voga  abbiano  preso  ai  dì  nostri  le  conferenze,  ciò  che  non  sarebbe  davvero  un 
male,  se  la  tendenza  ad  esse  non  si  fosse  cambiata  in  vera  manìa. 

Molti  altri  mezzi  usa  l'uomo  ancora  per  continuare  la  sua  coltura  individuale, 
e  raggiungere  il  suo  fine  nel  mondo  in  cui  deve  vivere;  e  molti  in  realtà  ne  sug- 
gerisce ancora  qua  e  là  il  M.,  viaggi,  passeggiate,  accademie,  foro,  ecc..  ma  a  noi 
pare  di  aver  detto  abbastanza  per  rivelare  il  pensiero  e  l'attitudine  pedagogica  mu- 
ratoriana,  tanto  più  che  di  alcuni  di  essi  avremo  occasione  di  parlare  ancora  lungo 
la  nostra  trattazione. 


(1)  Lettera  a  Gio.  Jacopo  Tori.  Cesano,  7  ottobre  1699,  Campori,  II,  410-11;  cfr.  inoltre  la  lettera 
a  Carlo  Borromeo  Arese,  1699,  Campori,  II,  410;  e  quella  ad  Apostolo  Zeno,  1699,  Campori,  II.  394-95. 

(2)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XXVIII,  pag.  260. 

(3)  Lettera  ad  Antonio  Gatti,  1701,  Campori,  II,  503. 


Serie  IL  Tomo  LUI.  12 


90  vo  graxde  26 


PARTE  SECONDA 


L'educazione  considerata  nelle  sue  forme. 

V.  —  L'Educazione  Fisica. 

Seguendo  l'ordine  naturale  della  scienza,  considereremo  i  pensieri  pedagogici 
muratoriani  secondo  la  comune  divisione  dell'educazione  in  Fisica,  Intellettuale  e  Mo- 
rale, prendendo  le  mosse  dalla  prima. 

L'educazione  fisica  ha  la  sua  origine  fondamentale  nella  necessaria  unione  fra 
lo  spirito  e  il  corpo;  e  siccome  lo  spirito  si  serve  del  corpo  come  strumento  della 
sua  operosità  esteriore,  appare  facilmente  quanto  importa  che  questo  sia  conve- 
nientemente educato.  Tale  certa  ed  evidente  corrispondenza,  affermata  più  o  meno 
incondizionatamente  fin  dai  tempi  più  antichi,  è  pur  notata  in  tutta  la  sua  ampiezza 
dal  nostro  diligente  maestro.  "  È  da  por  mente,  che  se  non  in  tutto,  almeno  in  gran 
parte,  l'animo  umano  non  può  operare  senza  ajuto  de'  Sensi,  e  dipendenza  dagli 
organi  del  Corpo.  Ed  in  oltre  lo  stesso  corpo,  coi  suoi  movimenti,  spiriti,  ed  umori, 
ha  bene  spesso  una  potente  influenza  sopra  dell'animo  „  (1). 

Organi  del  pensiero  sono  segnatamente  quelli  proprii  dei  sensi  fisici  esterni,  i 
quali  tutti  hanno  il  loro  centro  nel  cerebro.  E  qui  il  M.  scrive  parecchie  eruditissime 
pagine  —  Capitoli  II,  III,  IV  della  "  Filosofia  Morale  „  —  dimostrandosi  informatissmo 
dei  pronunziati  e  dei  progressi  dell'anatomia  e  fisiologia,  sorprendendoci  talora  della 
competenza  e  precisione  delle  sue  cognizioni.  I  sensi  fisici  sono  le  finestre  per  cui  le 
impressioni  del  mondo  corporeo  entrano  nell'anima,  che  su  di  esse  elabora  le  sue 
conoscenze,  le  quali  quindi  saranno  tanto  più  perfette  quanto  più  perfetto  è  l'ufficio 
dei  sensi. 

Da  quanto  egli  espone  possiamo  fra  l'altro,  stabilire:  1°  che  havvi  una  inces- 
sante e  intima  corrispondenza  d'azioni  fra  l'anima  e  il  corpo;  2°  che  lo  spirito  si 
sviluppa  mercè  il  sussidio  dei  sensi  fisici  esterni.  Da  questi  due  punti  pertanto  emanano 
due  grandi  conseguenze  pedagogiche: 

a)  che  la  vita  corporea  ben  sviluppata  esercita  una  benefica  influenza  sulla  vita 
della  mente  ; 

b)  che  lo  spirito  umano  ha  nel  corpo  uno  strumento  adatto  alla  sua  attività. 
se  esso,  mediante  l'educazione  fisica,  è  cresciuto  agile,  sano  e  vigoroso. 

Sono  due  grandi  leggi  pedagogiche  di  indiscutibile  verità  ed  universalmente  am- 
messe, le  quali  devono  pure  indicare  qualche  cosa  nella  concezione  scientifica  murato- 
riana.  Ma  procediamo. 

È  variamente  discussa  la  questione  dell'eredità  fisiologica  in  pedagogia,  se  cioè 
i  figli  sortano  dalla  nascita  un  organismo  preformato  e  predestinato  ad  un  avvenire 
patologico  simile  ai  genitori.  Il  M.  l'accetta  e  vi  riconosce  una  moderata  influenza, 
ma  a  questa  contrappone  un'  altra  forza,  l'ambiente   fisico,  il   quale  fa   pure  sentire 


(1)  Filosofia  Mordle,  cap,  11,  pag.  25. 


27  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  91 

vivamente  la  sua  virtù  modificatrice  sul  nostro  corpo.  Ed  ecco  come  ragiona  :  "  Do- 
vrebbe un  Uomo  dotato  di  felicissimo  ingegno ,  o  sia  di  un  Cerebro  lavorato  con 
gran  parzialità  d'artificio,  produrre  un  altro  Uomo  affatto  simile;  dovrebbe  la  testa 
meschina  d'un  altro  mirarsi  copiata  a  puntino  ne' suoi  figliuoli;  e  in  fatti  nella  prole 
si  trasfondono  non  di  rado  i  lineamenti,  le  inclinazioni,  e  massimamente  le  malattie 
de'  Padri.  Ma  questi  innesti  noi  li  osserviamo  non  poche  altre  volte  poco  simili  al 
tralcio  loro.  E  non  per  altro,  se  non  perchè  l'Uomo,  quantunque  solo  principio  vero 
della  generazione  corporea  dell'altr'Uomo,  non  può  senza  il  concorso  altrui  formare 
un  altro  se  stesso:  e  concorrendo  il  Sangue,  gli  Spiriti,  il  Latte  e  insino  la  Fan- 
tasia della  sua  Compagna  a  concepire,  a  formare,  a  perfezionare  ed  alimentare  il 
feto,  vien  questo  perciò  a  sortire  bene  spesso  configurazioni,  forze,  spirito,  ed  umori, 
che  son  tutti  diversi  da  quei  del  Padre,  e  dissomiglianti  ancora  da  quei  della  Madre  : 
non  potendo  se  non  troppo  difficilmente  in  un  miscuglio  di  tali  spiriti  mantenersi 
quella  sola   architettura,  che  proveniva  dal  Padre  „  (1). 

Non  è  quello  che  si  può  dare  di  più  rigorosamente  scientifico,  tuttavia  il  con- 
cetto muratoriano  balza  fuori  chiaro  e  netto.  Ma  oltre  alla  ragione  fisiologica,  deve 
pur  tenersi  conto,  nella  produzione  e  nello  sviluppo  umano,  della  ragione  fisica,  ed 
il  Capitolo  IV  della  "  Filosofìa  Morale  „  è  in  gran  parte  destinato  dal  M.  a  dimostrare 
l'influenza  degli  oggetti  fisici  esterni  sulla  nostra  formazione  e  costituzione.  Il  clima 
caldo  pi-oduce  ingegni  più  vivaci,  perchè  il  calore  solare  sviluppa  calore  interno  nel 
corpo;  il  freddo  esterno  genera  forza  e  vigore  alle  fibre  e  ai  muscoli,  ma  general- 
mente produce  spiriti  grossolani.  L'aria  è  pure  un  efficacissimo  coefficiente  fisico.  I 
paesi  umidi,  paludosi  e  bassi  difficilmente  produrranno  spiriti  di  egual  vigore  che  le 
colline  e  i  monti,  mentre  l'aria  pura,  asciutta,  colla  sua  maggiore  elasticità  confe- 
rendo maggior  brio,  "  e  per  così  dire  un  certo  fuoco  al  sangue  „,  produrrà  ingegni 
più  sottili  e  pronti.  Altrettanto  è  da  dirsi  per  chi  abita  al  mare,  o  lontano  da  esso, 
in  paesi  soggetti  a  venti  secchi  o  a  venti  umidi,  ecc.  ecc.,  cause  tutte  che  influiscono 
sulla  salute  e  sullo  sviluppo  del  corpo. 

Ma  il  M.  non  si  contenta  di  stabilire  così  semplicemente  il  fatto,  egli  vuol  de- 
durne norme  etiche  e  pedagogiche.  Questo  infatti  è  il  magistero  dell'educazione  fisica, 
che  studiando  le  cause  e  ponendole  in  armonia  colle  leggi  fisiologiche,  ne  ricava 
norme  e  mezzi  che  contribuiscono  ad  assolvere  il  suo  compito.  Questi  mezzi  pertanto, 
secondo  i  migliori  pedagogisti  (2),  si  riducono  a  tre:  Igiene,  Ginnastica,  Coltura  dei 
sensi  fisici. 

Riguardo  all'igiene  osserviamo,  che  se  poco  può  darci  il  M.  sotto  l'immediato 
rispetto  pedagogico,  intorno  ad  essa  in  generale  considerata,  scrisse  erudite  disserta- 
zioni "  De  potu  vini  calidi  „  e  buoni  trattati  "  Del  Governo  della  Peste  „  ecc.,  e  parte 
della  "  Filosofia  Morale  „  ;  per  lo  scopo  nostro  particolare  detta  poi  sagge  osserva- 
zioni sulla  casa,  sui  vestiti,  sulla  nettezza  e  pulizia  del  corpo,  salubrità  dell'aria, 
nutrizione,  sonno,  ecc.,  ed  in  generale  su  tutti  i  fenomeni  della  vita  vegetativa  (3). 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  Ili,  pag.  49-50. 

(2)  Cfr.  G.  Allievo,  Studi  Pedayogici,  pag.  375. 

(3)  Si  può  dire  che  tutto  il  Trattato  del  Governo  della  Peste  sia  basato    su  norme    igieniche ,  e 
ad  esso  mandiamo  pei-  questa  parte. 


92  STEFANO    GRANDE  28 

Ma  più  abbondanti  sono  i  suoi  accenni  al  secondo  mezzo  dell'educazione  fisica, 
alla  ginnastica,  la  quale  egli  considera  anche  dal  punto  di  vista  morale.  "  Nei  secoli 
barbari  si  esercitava  la  nobil  Gioventù  in  Giostre,  Tornei,  ed  altri  armeggiamenti, 
in  Caccio  e  Giuochi  faticose  e  in  suonar  vari  strumenti.  Ne  sapevano  più  de'  nostri 
tempi,  ne'  quali  veggiamo  di  che  tempra  sieno  i  solazzi  della  nobil  Gioventù.  Quanto 
meno  sarà  essa  in  Ozio,  dandosi  ad  applicazioni  e  fatiche  oneste,  tanto  più  sarà 
lungi  dall'abbandonarsi  a  i  Vizi.  Giacché  molti  non  hanno  mente  capace  d'alti  i 
nobili  applicazioni,  almeno  tengano  il  corpo  applicato  a  onesti  esercizi,  o  ad  arti 
convenevoli  a  persone  civili.  Io  non  oserei  dire  che  i  Giovani  de'  vecchi  tempi,  fos- 
sero migliori  de' nostri:  ma  si  può  ben  dire  che  nel  loro  contegno  comparisse  più 
del  virile,  non  perdendosi  essi  le  due  ore  alla  Toletta,  per  addottrinar  la  zazzera 
colle  maniere  femminili,  e  per  prendere  in  prestito  dai  bussolotti  quel  colore  che  la 
natura  lor  negò  „  (1). 

Cosi  egli  dalla  ginnastica,  mezzo  di  educazione  fisica,  si  eleva  a  considerazioni 
morali  e  sociali ,  e  raccomanda  ai  Principi ,  e  in  generale  ai  Capi  del  governo,  di 
aver  a  cuore  la  prosperità  fisica  dei  loro  popoli,  di  non  lasciarli  infiacchire  nel- 
l'ozio e  nella  quiete,  di  allestir  per  loro  pubblici  spettacoli  ginnici,  corse  di  cavalli, 
giostre,  carroselli,  regate  ecc.  (2). 

Colla  ginnastica  hanno  strettissima  relazione  i  divertimenti  e  in  generale  tutte 
le  azioni  che  suppongono  moto,  e  al  bisogno  del  moto  è  subordinata  tutta  la  vita,  e 
principalmente  la  giovanile.  Ma  il  M.  non  si  contenta  di  parlar  in  generale  di  diver- 
timenti ed  esercizi  fisici,  egli  viene  anche  al  particolare,  e  li  considera  e  li  individua- 
lizza dal  punto  di  vista  di  convenienza  a  ciascuna  età,  condizione,  sesso,  luogo  ecc. 
"  V'ha  di  que'  giuochi,  che  non  solamente  son  leciti,  ma  anche  tali,  che  se  ne  può 
lodare  e  raccomandar  l'uso  a  i  Giovani,  e  son  quelli,  che  entrano  nella  schiera  degli 
esercizi  corporei,  e  contribuiscono  alla  conservazione  d'un  importante  bene,  cioè  della 
Sanità.  Sono  da  annoverare  fra  questi  la  Lotta,  la  Racchetta,  la  Palla  (non  osando 
io  parlare  si  francamente  del  pallone)  il  Trucco  da  Tavola,  o  sia  il  Bigliardo,  il 
Pallamaglio,  le  Poma  ecc.  Altri  son  leciti  e  lodevoli  per  le  persone  gravi,  come  i 
giuochi  d'ingegno,  purché  onesti,  gli  Scacchi,  lo  Sbaraglino,  ecc.  Altri  infine  sono  o 
pericolosi,  o  cattivi,  se  non  per  loro  natura,  certamente  per  l'abuso,  che  ne  fan  d'or- 
dinario gli  stolti  mortali,  col  cagionare  o  a  se  stessi,  o  ad  altri,  un  grave  danno  ..  (3). 
Cosi  ottemperando  alle  esigenze  ed  ai  bisogni  della  natura,  il  M.  informa  tutti  i 
divertimenti  giovanili  al  moto  ed  alla  ginnastica.  Alla  lotta,  palla,  bigliardo  ecc. 
egli  unisce  altrove  l'equitazione,  la  caccia,  il  nuoto  ecc.,  ma  prima  di  tutte  e  in 
modo  speciale,  le  passeggiate.  E  non  è  poco  pel  secolo  XVIII,  e  dico  anche  pei 
tempi  nostri,  in  cui  falsandosi  un  giusto  intento,  si  obbligano  maestri  e  scuolari  a 
far  nella  scuola  capitomboli,  salti,  l'uomo  volante,  e  simili  giuochi  da  acrobatici  della 
piazza  (4). 


(1)  Della  Pubblica  Felicità,  pag.  39. 

(2)  Id.,  eap.  26. 

(3)  Filoso/io  Morale,  eap.  Vili,  pag.  98. 

(4)  Cfr.  G.  Allievo.   La  riforma  dell'Educazione  modi  ma,  ecc.,  pag.  61  :  ed  0.  Turchetti  in  "  Gaz- 
zetta di  Torino  „,  29  ottobre  1878. 


29  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    t.    A.    MURATORI 

Ma  il  M.  nel  campo  dell'educazione  fisica  è  benemerito  anche  sotto  altri  aspetti. 
Egli  vuole  che  si  lasci  alla  natura  di  formar  il  corpo  come  crede,  e  senza  incorrere 
nelle  esagerazioni  degli  Spartani,  bandisce  gli  eccessivi  riguardi,  le  soverchie  atten- 
zioni che  rendono  delicati  e  viziati  i  fanciulli,  e  irresistenti  alle  menome  contra- 
rietà (1).  E  questo  già  il  pensiero  di  Quintiliano,  che  insorge  contro  la  soverchia 
accondiscendenza  fisica  verso  i  fanciulli:  u  Utinam  liberorum  nostrorum  mores  non 
"  ipsi  perderemus.  Infantiam  statini  deliciis  solvimus:  mollis  illa  educatio,  quam  indul- 
"  gentiam  vocainus.  nervos  omnes  et  mentis  et  corporis  frangit  „  (2).  Non  diversamente 
la  pensava  il  Montaigne,  il  quale  pure  scriveva  (Mi:  L  Endourcissez  l'enfant  à  la  sueur 
"  et  au  froid,  au  vent.  au  soleil,  et  aux  hazards  qu'il  lui  fault  mespriser:  ostez  luy 
"  toute  mollesse.  et  delicatesse  au  vestir  et  coucher,  au  manger,  et  au  boire  ;  accou- 
"  stumez  le  à  tout:  que  ce  ne  soit  pas  un  beau  garson  et  dameret,  mais  un  garson 
*  vert  et  vigoreux.  Enfant,  nomine  vieil,  i'ay  tousiours  creu  et  jugé  de  mesme  „.  Punto 
diversamente  scriveva  il  Locke,  e  in  tempi  piti  vicini  a  noi  il  Rousseau  ed  in  gene- 
rale tutti  i  più  insigni  maestri  dell'arte  pedagogica. 

Di  qui  alla  morale  è  breve  e  facile  il  passo  pel  M..  il  quale  si  ferma  attorno 
a  questa,  tanto  più  volentieri,  in  quanto  che  per  lui  la  ginnastica  non  è  solo  l'indice 
più  sicuro  della  buona  sanità,  ma  anche,  e  giustamente,  un  valido  mezzo  di  pratica 
moralità. 

Ma  anche  dei  mezzi  opportuni  pel  buon  mantenimento  della  salute  parla  il  M.. 
e  tra  i  primissimi  ricorda  la  Temperanza  "  virtù  cotanto  essenziale,  che  da  i  saggi 
è  riposta  fra  le  primarie,  e  che  sobrietà  si  nomina,  in  quanto  ci  ammaestra,  affinchè 
non  rechiamo  nocumento  a  questa  material  parte  di  noi  stessi,  ed  essa  noi  rechi 
all'altra,  cioè  all'Anima  nostra  „  (4).  Nocivi  al  corpo  sono  pertanto  tutti  gli  eccessi 
di  qualunque  genere,  "  imperciocché  ogni  eccesso  che  si  commetta  nei  piaceri  corporei, 
snerva  o  infievolisce  il  Corpo  stesso,  e  gli  prepara  una  dura  penitenza  di  febbri  e 
d'altri  malanni  „  (ó).  Qui  egli  passa  in  esame  le  funzioni,  gli  usi,  gli  scopi  dei  sensi, 
di  tutti  notando  le  intemperanze  e  gli  eccessi,  e  sopratutto  fermandosi  sul  Gusto.  "  Del 
"  Ne  quid  nimis  „,  celebre  documento  d'un  antico  filosofo,  dappertutto  deve  farsene 
conto:  e  qui  specialmente,  essendo  evidente,  che  l'opprimere  col  cibo  e  colla  bevanda 
il  Corpo,  o  presto  o  tardi  si  ha  da  pagar  caro  colle  Malattie,  e  spesso  ancora  con 
quelle  che  non  han  rimedio  „  (6).  II  male  è  vecchio  e  il  M.  cita  l'epistola  XCV  di 
Seneca,  dove  i  cuochi  non  sono  davvero  considerati  come  i  più  grandi  benefattori 
dell'umanità:  "  Nunc  quam  longe  processerunt  mala  valetudinis!  Has  usuras  Volu- 
"  ptatum  pendimus,  ultra  modum  fasque  concupitami  ni.  Innumerabiles  esse  Morbos 
"  miraris  ?  Numera  coquos  „. 

Non  meno  utili  e  sagge  osservazioni  ci  dà  sugli  altri  sensi,  la  vista,  l'udito,  il 
tatto  ecc.,  per  il  che,  anche  senza  poterlo  oltre  seguire,  ci  pare  di  poter  rilevare  qui 


(1)  Filosofi»  Morale,  cap.  XXXIV,  pag.  318.  —  Identici  concetti  espone  pure  nel  lib.  T,  cap.  XXV. 
pag.  81,  e  lib.  II,  cap.  VI,  pag.  227  dei  suoi  Saggi  il  Montaigne,  che  al  Muratori  non  doveva  certo 
essere  ignoto. 

(2)  Quintiliano,  Istituzioni  Oratorie. 

(3)  Mohtaighb,   Essais,  lib.  1.  cap.  XXV.  pag.  89. 
4     Filosofia  Morale,  cap.  XXXIII,  pag.  301. 

(5)  Idem,  pag.  302. 

(6)  Ìbidem. 


9  |  STEFANO    GRANDE  30 

un  nuovo  merito  del  M.  Egli  infatti  senza  punto  piccarsi  di  pedagogia,  non  solo  non 
trascura  nessuna  parte  di  essa,  ma  parla  anche  diffusamente  della  coltura  dei  sensi  (1), 
ciò  che  altri  della  professione,  e  sensisti  convinti,  si  dimenticarono  di  fare. 

Molti  altri  mezzi  di  educazione   fisica,  che  possiamo   dire   indiretti,  si    pò 
raccogliere  nel  M.,  quali  la  tranquillità  e  serenità  dell'animo,  la  moderata   applica- 
zione del  pensiero,  l'integrità  del  costume  ecc.,  ma  questi  mezzi  s'accostano  di  troppo 
alla  filosofia  morale,  ed  è  forse  sufficiente  l'accennarli  semplicemente  così. 

Chiudiamo  pertanto  queste  poche  cose  sull'educazione  fisica,  ritornando  ancora 
>ul  inerito  del  M.  il  quale,  in  tempi  in  cui  la  sana  cultura  del  corpo  era  del  tutto, 
o  quasi,  trascurata,  si  riferiva  ad  essa  insistentemente,  dando  regole  e  precetti  se 
non  del  tutto  originali,  certo  non  trascurabili,  sulla  conservazione  della  salute  cor- 
porale, e  sullo  svolgimento  delle  forze  fisiche;  scopo  la  prima  dell'igiene,  il  se- 
condo  della   ginnastica. 

VI.  —  Educazione  Intellettuale. 

Dopo  l'educazione  del  corpo  si  presenta  a  noi  spontanea  e  diretta  la  trattazione 
dell'educazione  della  mente,  che  si  divide  in  intellettuale,  estetica,  morale  e  religiosa. 

L'educazione  intellettuale  deve  essere  formale  e  materiale;  quella  ha  per  ufficio 
il  pensare,  questa  il  conoscere.  Tale  divisione  misconosciuta  da  alcuni,  che  tutta  la 
cultura  intellettuale  riducono  all'apprendere,  cioè  all'istruzione,  troviamo  accennata 
dal  M.  nella  sua  definizione  dell'intelligenza  e  dell'ingegno.  "  Quantunque  Intelletto 
ed  Ingegno  o  siano  o  paiano  la  stessa  cosa,  tuttavia  per  nostro  modo  d'intendere, 
nel  nome  d'Ingegno,  noi  siamo  soliti  a  significare  la  forza  dell'Intelletto,  perciocché 
tutti  gli  uomini  hanno  Intelletto,  ma  non  tutti  Ingegno  „  (2).  Ingegno  pertanto  è  la 
forza  dell'intelletto.  "  e  col  nome  di  Intelletto  (3),  che  anche  si  vuol  appellare  Mente, 
intendiamo  la  Facoltà  o  Potenza,  che  ha  l'anima  nostra,  di  pensare,  cioè  di  appren- 
dere le  Idee  delle  cose,  di  combinarle,  di  dividerle,  di  astrarre,  di  giudicare,  di  formar 
assiomi  universali,  di  raziocinare,  di  far  altre  simili  azioni,  delle  quali  è  solamente 
capace  un  Ente  ed  Agente  reale  spirituale,  ed  è  incapace  la  Materia,  per  quanto  si 
voglia  organizzata  e  sottilizzata  „. 

Da  tutto  questo  pertanto  si  deduce  che  pel  M.  l'ingegno  è  l'intelligenza  cono- 
scente, scopo  della  cultura  materiale;  l'intelletto  la  pensante,  scopo  della  cultura 
formale.  Ma  quantunque  non  siano  l'identica  cosa,  il  pensare  e  il  conoscere  hanno  il 
loro  centro  d'unità  nella  medesima  potenza,  e  per  conseguenza  anche  le  due  specie 
di  cultura  intellettuale  devono  integrarsi  a  vicenda,  e  in  guisa  armonizzare  che  l'una 
sia  il  necessario  complemento  dell'altra.  Ma  il  M.  rilevato  cosi  il  fatto,  non  può  fer- 
marsi a  dar  precetti  separati  per  queste  due  funzioni  dell'intelligenza,  e  a  noi  non 
rosta  quindi  a  considerarle  che  come  miranti  ad  un  fine  solo,  l'istruzione. 

Relazione  fra  le  scienze.  —  Cominciamo  col  metter  in  evidenza  il  merito  del  M. 
di  aver  notata  e  propugnata,  sì  in  teoria  che  in  pratica,  la  necessaria  corrispondenza 
ed  armonia  fra  le  scienze.  Non  è  una  novità,  il  M.  stosso  ne  conviene,  e  ricorda  che 


(1)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XXIII.  XXI V.  XXV. 

(2)  Delle  Forze  dell'Intendimento  Umano,  ecc.,  pag.  338. 

(3)  Della  Forza  della   Fantasia   Umana,  pag.    i. 


31  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    I..    A.    MURATORI  95 

già  Aristotele  scrisse  (1):  "  èmKoivoùo"i  iràffai  éTno"rrmai  àXXiiXais  „;  e  Cicerone:  "  omnes 
"  artes,  quae  ad  humanitatem  pertinent,  habent  quoddam  commune  vinculum,  et 
"  quasi  cognatione  quadam  iater  se  contineatur  .,  (2).  Data  quest'universale  corrispon- 
denza delle  scienze,  si  vede  subito  la  grande  utilità  che  deriva  dall'applicarsi  con- 
temporaneamente ad  esse.  "  Non  si  può  dire,  quanto  gran  vantaggio  possa  trarre 
l'ingegno  umano  da  tanto  apparato,  mentre  le  ragioni,  i  fondamenti,  le  divisioni,  e 
tant'altri  lumi  di  una  Scienza  possono  poi  servir  di  base,  prova,  ornamento  ed  esempio 
dell'altre.  E  ci  ha  alcune  d'esse,  che  necessarie  assolutamente  sono  per  ben  inten- 
derne, e  ben  trattarne  alcune  altre,  inquantochè  chi  manca  nelle  prime,  sicuramente 
non  passerà  franco  per  le  seconde  „  (3). 

Ma  il  M.  non  vuole  consigliare  agli  studiosi  la  coltura  contemporanea  di  tatti- 
le discipline,  perchè  sa  benissimo  che  spesso,  al  dir  di  Eraclito,  "  TroXuuàGiv  voòv  où 
òiòàffKe'.  ,,-"A  me  basta  di  dire,  che  la  cognizione  di  molte  scienze  ed  arti  e  la 
diversa  Erudizione,  qualora  s'accoppiano  con  Ingegno  e  Giudizio  singolari,  possono 
produrre  effetti  mirabili,  e  cagionare,  che  allora  perfettamente  si  truovi  e  mostri  il 
Bello  di  quella  Disciplina,  che  si  vuol  trattare  ex  professo.  E  Plutarco  nel  Libro 
dell'Educazione  dei  Figliuoli  è  di  parere  che  almeno  s'abbia  da  assaggiare  l'Enciclo- 
pedia, in  guisa  che  non  ci  arrivino  nuove  le  varie  Discipline  „  (4). 

Il  pensiero  del  Muratori  pertanto  si  è,  che  occorre  applicare  la  mente  giovanile 
contemporaneamente  in  un  vasto  campo,  non  in  uno  studio  solo,  perchè  cosi  essa  può 
esplicarsi  e  fortificarsi  meglio.  Il  voler  subito  restringerla  in  una  data  materia,  è 
volerle  precludere  ogni  altra  via  di  azione  e  di  estrinsecazione,  cosa  che  sarà  poi 
necessario  praticare  quando,  corroborata  dai  principi  generali  comuni  fra  le  scienze, 
essa  si  sarà  rivolta  da  se,  spontaneamente,  ad  una  scienza  particolare.  Cosi  fece  egli, 
senza  punto  temere  di  cadere  in  un  lavoro  vano,  o  in  una  confusione  di  materie  e 
studi.  Del  resto,  la  varietà  delle  opere  stesse  del  M.,  le  diverse  scienze  da  lui  feli- 
cemente trattate,  nel  tempo  stesso  che  ci  rivelano  l'universalità  del  suo  ingegno,  ci 
provano  luminosamente  la  verità  delle  sue  asserzioni. 

Ma  primo  frutto  di  questa  generale  coltura  delle  scienze  è  l'indecisione,  e  il  Mu- 
ratori stesso,  a  22  anni,  quando  ha  già  dato  prova  di  non  comune  ingegno,  quando 
ha  già  scritto  brillantemente  una  celebre  e  dotta  dissertazione  sulla  lingua  greca,  e  ne 
prepara  un'  altra  non  meno  insigne  sulla  storia  —  le  vedremo  tutte  due  —  e  sta  pub- 
blicando il  primo  tomo  dei  suoi  Aneddoti,  il  M.  stesso,  dico,  indeciso,  sconfortato, 
piena  la  testa  di  studi,  ma  incerto  dove  piegare  il  suo  ingegno,  mestamente  scrive: 
"  Equidem  nonnunquam  et  nunc  temporis  potissimum  sollicitari  non  desino,  quum 
nullam  ^istituendi  studii  rationem  comperiam,  et  inter  tot,  quibus  animum  possem 
advertere,  nulla  se  meis  obiiciant  oculis,  quae  certam  fructus  olim  referendi  spem 
faciant  „  (5).  Passate  pertanto  in  breve  rassegna  le  scienze,  a  ino'  di  conclusione  ri- 
batte: "  quod  obiici  posset  nosco,  sed  quo  pendere  mens  debeat  hactenus  non  vidi, 
et  quidem  unde  mihi  honor  lucrumque  sii  obventurum  ignoro „.  Ma  questa  inde- 


(1)  Aristotele,  Analitici  Posteriori. 

(2)  Cicerone,  Orazione  a  furor  d'Archia. 

(3)  Delle  Riflessioni,  ecc.,  pag.  321. 

(4)  Ibidem,  pag.  322. 

(5)  Lettera  a  Francesco  Caula.  Mutinae,  V  Idib.  Feb.  1694,  Campori,  I.  478. 


96  STEFANO    GRANDE  32 

cisione  gli  tornerà  utile,  ed  egli  non  lascierà  di  compiacersene,  e  di  proporla  all'altrui 
imitazione.  "  Non  si  sarà  già  maravigliata  V.  S.  Illustrissima  —  scrive  egli  tutto  sod- 
disfatto, un  quarto  di  secolo  dopo,  al  Conte  di  Porcia  —  ma  potrebbe  ben  maravi- 
gliarsi e  ridere  alcun' altra  persona  al  vedere  tanta  mia  instabilità,  e  tanto  mio 
caracollare  per  varie  arti  e  scienze,  potendo  parer  questa  un'  intemperanza  d'ingegno, 
e  una  voglia  di  non  imparar  nulla,  per  voler  imparar  tutto;  ma  chi  giudicasse  cosi 
non  si  scoprirebbe  testa  di  gran  circonferenza.  Ne  si  può  dire,  che  aiuto  e  che  nerbo 
dia  un'  arte  all'altra  e  che  legame  abbia  insieme  la  maggior  parte  della  erudizione 
e  della  scienza  „. 

Ne  il  M.  si  cura  di  suggerir  piuttosto  questo  o  quello  studio,  tutti  sono  buoni, 
purché  si  coltivino  con  serietà  e  giudizio,  e  tutti  si  danno  infine  la  mano,  essendo 
comune  a  tutti  lo  scopo  ultimo.  I  difetti  che  nelle  scienze  e  nelle  arti  noi  riscon- 
triamo, non  sono  veramente  difetti  loro,  ma  di  noi  stessi  che,  o  non  le  sappiamo 
bene,  o  le  studiamo  male,  o  le  esercitiamo  peggio  (1).  Non  è  che  tutte  le  scienze 
abbiano  eguale  importanza,  ognuna  ha  un  valore  proprio,  ma  qualunque  esso  sia,  qua- 
lunque siano  le  nostre  occupazioni  intellettuali,  esso  ci  sarà  utile,  perchè  ogni  scienza 
riceve  dall'altra  forza,  lume  ed  aiuto  per  progredire. 

Fermata  così  la  corrispondenza  fra  le  scienze,  facciamo  una  corsa  fra  esse. 

La  Repubblica  Letteraria  Italiana. 

L.  A.  Muratori  aveva  21  anni  quando  sognò  di  unire  in  una  grande  lega  tutti 
i  letterati  d'Italia,  fondendo  in  essa  le  numerose  accademie  italiane,  frivole  e  stec- 
chite. Fu  un  sogno,  ma  uno  di  quei  sogni  di  cui  sono  capaci  le  sole  anime  grandi, 
bisognose  di  estrinsecarsi.  Lo  scopo  della  grande  Repubblica  era  l'accrescimento  e 
la  perfezione  delle  arti  e  scienze,  e  la  gloria  d'Italia;  il  mezzo  triplice:  a)  determi- 
nare le  cause  del  fiorire  e  del  decadere  delle  lettere  ;  b)  descrivere  i  difetti  delle 
singole  arti  e  scienze,  e  proporne  i  rimedi;  e)  correggere  e  migliorare  l'insegnamento 
delle  scuole,  determinando  le  vie  da  seguirsi.  Troppo  giovane  per  acquistarsi  l'uni- 
versale fiducia  per  sì  grandiosa  impresa,  ricorse  allo  pseudonimo,  e  pubblicò  a  Venezia, 
colla  falsa  data  di  Napoli,  nel  1703,  i  suoi  Primi  Disegni  della  Repubblica.  Letteraria 
d'Italia,  firmandosi  Lamindo  Pritanio  (anagramma  del  suo  pseudonimo  Antonio  Lam- 
pridi).  II  progetto  fece  rumore,  i  migliori  approvarono,  i  più  arditi  applaudirono,  ed 
il  M.  rinvigoriva  il  suo  sogno  con  lettere,  con  scritti,  con  nuovi  incitamenti.  Qual- 
cuno anche  si  oppose,  il  dotto  e  pio  Padre  Bianchini  —  Lettera  del  7  febbraio  1705 
da  Roma  —  che  scambiava  i  generosi  sentimenti  del  M.  per  una  sete  perniciosa  di 
gloria  mondana.  Entrano  in  campo  i  cortesi  e  generosi  Letterati  d'Italia,  i  Lettori 
dell'Università  di  Padova,  i  Principi  più  munifici  e  potenti ...  e  il  sogno  si  va  con- 
cretando, se  non  nella  realtà  del  fatto,  almeno  negli  effetti  desiderati  dall'autore. 

Fra  gli  effetti  più  immediati,  e  per  noi  più  benefici,  di  questo  grandioso  disegno, 
ricordiamo  l'opuscolo  ora  citato  dei  Primi  Disegni,  ecc.  e  il  trattato  del  Buon  Ghisto 
nelle  Scienze  e  nelle  Arti,  opere  interessanti  ed  erudite,  le  quali,  scambiate  per  que- 
stioni formali  ed  accademiche,  sono  forse  fra  le  opere  Muratoriane  le  meno   note  e 


(1)  Cfr.  Delle  Riflessioni,  pag.   155  e  seg 


33  '  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  97 

studiate.  Lo  scopo  di  quest'ultima  era  fornire  ai  giovani  sagge  norme  per  l'ordine 
e  il  criterio  nello  studio,  dimostrando  loro  gli  eccessi  e  i  difetti  delle  varie  scienze 
ed  arti.  I  Primi  Disegni  ecc.  invece,  ci  danno  il  grande  abbozzo  d'un  piano  sistema- 
tico di  studi  da  praticarsi  dalla  futura  repubblica.  Vi  sono  proposti  dieci  professori  : 
due  per  Lettere,  e  cioè  uno  per  l'Eloquenza  e  la  Poesia,  l'altro  per  la  Storia;  due 
per  la  Filosofia  naturale  e  Medicina;  due  per  l'Astronomia,  Geografia  e  Matematica; 
due  per  la  Teologia  Dogmatica  e  per  la  Storia  ed  Erudizione  Ecclesiastica  ;  due  per 
le  Lingue  Orientali  e  per  l'Erudizione  profana. 

Questo  il  piano  di  studi  ideato  dal  M.  a  sostituire  il  rancido  ed  acefalo  de'  suoi 
giorni.  Dall'ordine  delle  discipline  e  dal  numero  dei  professori  si  può  già  in  qualche 
modo  arguire  l'importanza  che  loro  avesse  assegnata  il  M.,  ma  noi  chiariremo  meglio 
le  sue  idee,  essendo  nostra  intenzione  di  passare  in  rassegna  le  diverse  scienze  e 
discipline  scolastiche  in  quanto  formano  un  sistema  di  studi,  oggetto  della  Pedagogia 
e  Didattica. 

La  Storia. 

Incominciamo  la  nostra  rassegna  dalla  Storia,  cioè  da  quella  scienza  ove  si  rese 
più  benemerito  il  M.,  e  cerchiamo  di  chiarirne  il  concetto  e  le  leggi.  "  Niuna  parte 
della  Letteratura  ci  è,  scrive  egli  (1),  che  sia  tanto  capace  d'esser  sempre  mai  trat- 
tata con  utilità,  e  novità  insieme,  perchè  utili  mai  lasciano  d'essere  le  Cose  dette  e 
ridette  .  .  .  Ora  utilità  e  novità  può  essere  o  per  le  sole  Cose,  o  per  la  Scelta,  e  per 
l'Ordine  delle  Cose,  o  per  le  Riflessioni;  egli  è  da  avvertire  che  l'Istoria  per  se 
stessa  altro  non  porge  che  avvenimenti,  detti  e  fatti  altrui,  e  descrive  cose,  che  già 
furono  o  son  tuttavia.  E  questo  è  il  fine  suo  immediato.  Un  altro  fine  di  lei  anche 
più  nobile  si  è  quello  d'insegnare  alle  genti  a  ben  vivere  e  a  ben  governarsi.  Ella 
è,  dico,  una  scuola  pratica  di  Morale,  una  scuola  di  Religione,  di  Politica,  di  Eco- 
nomia, di  Filosofia,  e  d'altre  simili  Discipline,  conforme  al  soggetto  ch'ella  tratta  „. 
Due  fini  pertanto  scopre  qui  il  M.  nella  storia:  porgere  dei  fatti  e  dedurne  degli 
ammaestramenti,  ma  ad  essi  altri  ancora  vanno  uniti,  e  noi  non  mancheremo  di 
ricercarli. 

Facciamo  nostro  punto  di  partenza  un'importantissima  ed  eruditissima  lettera 
del  M.  (2)  diretta  tutta  a  scopo  didattico,  e  quindi  opportunissima  a  noi.  In  essa  alle 
osservazioni  dottrinali  sono  intrecciate  abbondantemente  le  considerazioni  pratiche, 
e  il  M.  ci  si  rivela  in  tutta  la  forza  del  suo  giudizio,  descrivendo  con  mano  maestra 
tutta  l'efficacia  intellettuale  non  solo,  ma  morale,  etica,  pratica  della  storia. 

"  Tu  leggi  ogni  giorno  la  storia,  dice  al  giovine  Conte  Borromeo,  tu  scruti  con- 
tinuamente i  fatti  degli  antichi  e  fai  bene:  "  optimum  sane  consilium,  si  et  utile; 
neque  enim  lectio  tantum  amanda,  quia  delectat,  sed  quia  prodest  „ .  Ecco  due  grandi 
doti  della  storia:  il  diletto,  e  prima  di  esso  l'utilità.  "  Quid  autem  Historiis  ad  ro- 
bustam  eruditionem  hauriendam  commodius  ?  Quid  ad  vitam  recte  effingendam  acco- 
modatius?  .  . .  „.  Noi  dobbiamo  molto  alle  età  passate,  perchè  l'uomo  dall'esempio  è 
tratto,  con  muto  tirocinio,  alla  prudenza  ..."  alienis  in  erroribus  nostros  emendandos 


(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  li,  pag.  253. 

(2)  Lettera  al  Conte  Giovanni  Benedetto  Borromeo  Arese.  Caesani,  7  Idib.  Novembr.  MDCXCV 
È  una  vera  gemma  del  primo  volume  dell'Epistolario  del  Campori,  pag.  107-110. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  13 


98  STEFANO    GRANDE  34 

deprehendiinus,  alicnis  in  virtutibus  nostras  amamus,  sique  vitiorum  imperium  pa- 
timur,  alienis  expensis  discimus  ea  posse  puniri  „.  E  un  altro  grande  principio  storico. 
Dai  fatti  passati,  dai  loro  nessi  e  rapporti  con  noi,  coi  nostri  interessi,  coi  tempi 
nostri,  dobbiamo  attingere  la  norma  direttrice  della  nostra  vita,  imparando  a  spese 
dei  nostri  maggiori  ad  evitarne  gli  errori,  e  dalle  loro  generose  azioni  a  superarne 
l'esempio.  È  la  più  grande  affermazione  che  la  storia  è  la  maestra  della  vita  e  la 
prima  palestra  di  etica  dignità. 

Ma  la  storia,  continua  egli,  non  offre  solo  un  vantaggio  individuale,  essa  riguarda 
il  tempo,  l'uomo,  la  sua  vita,  il  suo  operare  in  generale,  e  generale  è  perciò  il  suo 
intento,  sociale  il  suo  scopo.  "  Aliquis  saepe  tibi  e  lectione  reponendus  est  fructus, 
tibi  non  modo  profuturus,  sed  in  humani  Consortii  condimentum  transiturus  „.  Ecco 
frattanto  come  dal  fatto  storico,  a  prova  di  quanto  ha  detto,  egli  risale  ad  una 
norma  astratta,  ad  un  principio  etico:  Nerone  dopo  l'incendio  di  Roma,  beneficò 
molto  generosamente  il  popolo,  eppure  non  gli  restò,  nella  sua  rovina,  nemmeno  un 
amico  ;  ognuno  dimenticò  il  principe  liberale,  per  non  ricordarsi  che  del  tiranno  : 
"  Praeter  alia  heic  animadvertas  velim  quam  sapienti  sit  aequalitas  necessaria  „.  E 
un  principio  fondamentale  che  può  servire  di  norma  tanto  all'uomo  privato  che  al 
principe,  tanto  all'individuo  che  alla  società.  Ma  il  M.  procede  :  Si  raddoppiano  i  be- 
nefizi della  storia,  se  a  questo  studio  portiamo  alcune  doti  della  ragione,  informata 
ad  una  retta  disciplina  morale.  Ed  egli  scolpisce  con  mano  maestra  queste  norme, 
esprimendo  con  riuscita  e  potente  efficacia  alcuni  precetti  di  filosofia  morale.  "  Clau- 
dicat  virtus,  quum  suam  in  societatem  vitium  aliquod  adsciscis:  Prima  in  nomine 
virtus  est  vitiis  carere,  proxima  abundare  virtutibus...  „.  Come  la  presenza  d'una 
nube  può  oscurare  il  sole,  così  la  presenza  d'un  vizio  può  oscurare  la  virtù.  Cesare 
fu  grandissimo  principe,  "  eximiae  in  ilio  virtutes,  sed  non  sine  suspicione  superbiae  „ 
tanto  bastò  perchè  ci  rimettesse  l'impero  e  la  vita.  "  Sibi  igitur  in  virtutibus  aequalis 
sit  sapiens,  quum  et  ipsa  aequalitas  in  nomine  virtutum  sit  culmen  „. 

Così  continua  egli,  intrecciando  ai  principi  della  storia  sani  precetti  di  morale, 
ribadendo  sempre  più  il  concetto  che  anzi  tutto  la  storia  deve  essere  la  famosa 
magistra  vitae.  Togliete  questa  fonte  di  dignità,  e  voi  toglierete  ogni  pregio,  distrug- 
gerete anche  la  scienza.  "  Hac  sublata,  sapientis  eximium  perit  ornamentimi,  quin 
immo  et  ipsa  sapientia  „.  Al  contrario  forti  di  essa  nulla  si  ha  da  temere,  e  il  pro- 
fitto è  certo.  "  Hanc  artem  si  tenes,  cur  peiora  sectaris?  Cur  non  poenitendae  rei  te 
poenitebit?  Ad  scopulos  non  deflectit,  neque  per  ludum,  nauta  cogitans  portum  „. 

La  lettera  finisce  con  alcuni  precetti  di  morale  al  giovane  Conte.  "  Quaeris  quid 
nomini  ad  gloriam  sit  opus  :  optimi  mores.  Quid  ad  gloriae  perennitatem  ?  Aequalitas. 
Virtutes,  affectusque  compressi  id  impetrabunt,  ut  plurimum  amorem  tibi  promerearis, 
aequalitas  ut  nullius  odium  „.  Questa  pertanto  è  la  via  della  gloria  e  della  virtù,  da 
seguirsi  dallo  storico  non  solo,  ma  da  ognuno  che  tenda  al  bene.  Coefficiente  della 
gloria  sono  i  buoni  costumi,  coefficiente  della  sua  durata,  la  coerenza  a  noi  stessi,  e 
ai  buoni  principi. 

Tale  è  la  sostanza  di  quell'eruditissima  lettera  che  non  sembra  certo  scritta 
da  un  giovane  di  22  anni,  ma  da  un  provetto  ed  esperto  cultore  delle  scienze  sto- 
riche, tanta  è  la  maturità  d'ingegno,  e  la  sicurezza  nel  giudicare  gli  uomini  e  i  grandi 
periodi  della  storia. 


35  IE    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  99 

Ma  questo  non  è  che  il  preludio  della  grande  concezione  storica  muratoriana, 
il  cui  degno  esame  non  è  fatica  poco  ardua,  e  del  resto  per  lo  scopo  nostro  inop- 
portuna. Ci  limiteremo  pertanto  a  poche  osservazioni  e  conclusioni. 

La  Storia  pel  M.  è  l'incarnazione  della  morale  ai  fatti  umani  in  modo  da  pro- 
curar la  loro  verità,  da  scoprirne  dei  nuovi,  da  presentarne  l'insegnamento  e  dare 
al  tutto  forma  organica.  Sono  quattro  leggi,  o  meglio  quattro  grandi  principi  infor- 
matori della  storia  (1). 

La  prima  legge  pertanto  è  la  verità,  che  è  l'ideale  e  la  vita  della  nostra  mente, 
la  luce  che  ci  rischiara,  la  fonte  da  cui  ritraggono  pregio  tutte  le  scienze  e  ci  por- 
gono utili  insegnamenti.  Non  è  la  storia  una  narrazione  ordinata  a  dilettarci  sem- 
plicemente o  lusingarci,  essa  è  il  santuario  più  fedele  delle  più  solenni  verità.  Ma 
alla  verità,  in  fatto  di  storia,  si  può  venir  meno  in  tre  modi  ;  o  per  deliberato  pro- 
posito, o  con  pie  frodi  mirando  anche  a  fini  buoni,  o  per  colpevole  inettitudine.  Ma 
in  contrapposizione  è  universalmente  saputo  che  la  verità  finisce  sempre  col  venir 
a  galla,  che  essa  non  ha  bisogno  di  puntelli,  e  che  disdegna  i  mezzi  termini  e  le 
accomodature.  Ecco  come  si  esprime  il  M.:  "  Che  si  trovino  letterati,  i  quali  cre- 
dendo di  insegnare  la  verità,  e  facendo  quanto  possono  per  raggiungerla  vendano 
per  inavvertenza  il  falso,  noi  lo  veggiamo  tutto  dì;  ma  questi  abbagli,  siccome  non 
figliuoli  della  loro  volontà,  sono  errori,  non  colpe.  Che  si  siano  poi  trovati  anche  di 
coloro,  che  ad  occhi  aperti,  abbiano  spacciato  in  vece  della  verità,  le  menzogne,  non 
ne  mancano  le  prove,  e  gli  esempi  ;  e  forse  di  costoro  non  sarà  finita  la  razza  mal- 
vagia. (Il  M.  pensa  qui  ai  Giguera  e  ai  Zapati  in  Spagna;  ai  Curzi  Inghirami,  ai 
Ligori  in  Italia,  ecc.).  Ma  fra  queste  due  schiere  ve  ne  ha  un'  altra  di  mezzo,  et  è 
di  coloro,  che  vogliono,  e  non  vogliono  dire  il  falso.  Noi  vogliono,  perchè  se  sapes- 
sero di  dirlo  se  ne  guarderebbero,  e  lo  vogliono  perchè  volontariamente  eleggono 
la  via  per  cui  chi  non  v'ha  ben  l'occhio,  di  leggieri  abbandona  la  verità:  Parlo  di 
chi  troppo  avidamente  pensa  a  crescere  di  fortuna,  a  salire  a  gli  onori,  a  empiere 
la  borsa.  Il  principale  oggetto  di  questi  tali  suol  facilmente  essere  più  che  la  brama 
di  trovare  il  vero  quella  di  piacere.  Perciò  anche  senza  pensarci  eccoli  adulatori,  eccoli 
sostenitori  di  tutto  ciò  che  è  più  in  grado  a  chi  dispensa  la  buona  ventura  e  l'oro. 
Mancano  (chi  noi  vede?)  mancano  a  gente  sifatta  i  primi  principj  de'  veri  letterati. 
Niun  principe,  niun  premio  ha  mai  da  essere  bastante  a  fare  che  uno  scrittore  onorato 
sostenga  se  non  quello,  ch'egli  dopo  sincero  esame  conosce,  o  crede  di  conoscere 
giusto  e  vero  ,,  (2). 

Così  parla,  e  così  continua  egli,  salariato  di  un  principe,  a  dar  prova  di  ammi- 
rabile indipendenza  e  libertà  di  giudizio  in  omaggio  alla  verità. 

Ma  non  basta  non  propalar  menzogne  ed  errori,  occorre  anche  appurare  quelli 
che  ci  tramandarono  i  nostri  avi.  Dobbiamo  studiare  fra  gli  autori  chi  erra  per  ma- 
lizia, per  personalità  o  ignoranza;  dobbiamo  confrontar  le  traduzioni  cogli  originali; 
l'intenzione  dell'autore  e  il  senso  che  ne  venne  fuori;  paragonare  i  luoghi,  i  tempi, 
le  citazioni  ;  conciliare  le  differenze,  ricorrere  ai  manoscritti  più  antichi,  e  non  dispe- 
rare di  trovare  un  buon  soccorso  talora  da  un  semplice  accenno,  da  una  citazione, 
da  una  parola  sola.  Ma  qui  entriamo  nella  critica,  e  di  questa  parleremo  altrove. 

(1)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 

(2)  Cfr.  Scritti  Inediti  di  L.  A.  Muratori,  eco.  Sezione  Storica. 


100  STEFANO    GRANDE  36 

La  seconda  grande  legge  storica  consiste  nel  far  conoscere  cose  nuove,  e  di  essa 
possiamo  senza  timore  asserire  che  si  rese  il  M.  più  benemerito  che  di  tutte  le  altre 
ancora.  Il  ridire  le  cose  dette,  osserva  egli,  non  è  un  gran  merito  per  uno  studioso; 
occorre  cercare  di  allargare  il  campo  degli  studi,  e  spingere  in  avanti  lo  sguardo. 
E  qui  egli  distingue  i  lavori  che  dico  di  schiena,  da  quelli  dell'ingegno;  i  primi 
possono  giovare  per  diffondere  utili  conoscenze  e  risultati  noti,  ma  gli  altri  più  par- 
ticolarmente ed  efficacemente  giovano  al  progresso  delle  scienze,  rinforzandole  ed 
ampliandone  i  confini.  Ne  possa  da  taluno  ritorcersi  a  danno  del  M.  questa  verità. 
perchè  egli  nell'immensa  mole  del  suo  lavoro  storico  dà  campo  a  sagge  osservazioni, 
all'estensione  e  perfezione  di  certe  conoscenze,  di  certi  principi,  notando  negli  avve- 
nimenti umani  le  relazioni,  le  cause,  gli  effetti;  facendo  dappertutto  buona  scelta  di 
autori  e  di  documenti,  scoprendo,  correggendo,  confrontando,  vagliando  .  . . 

Ma  noi  dobbiamo  riconoscere  a  proposito  di  questo  secondo  principio  storico 
dei  meriti  singolarissimi  nel  Muratori.  Infatti  nella  sagacia  del  suo  giudizio,  egli 
intravvide  una  nuova  miniera  di  studi  sommamente  giovevoli  alla  storia,  e  con  co- 
raggioso tentativo  ne  rassodò  la  via:  alludo  ai  suoi  studi  numismatici  e  paleografici. 
I  tempi  moderni  hanno  dimostrato  che  egli  aveva  veramente  ragione,  e  i  benefizi 
che  derivarono  alla  storia  dalla  cultura  di  quegli  studi  sono  davvero  meravigliosi. 
Chi  prende  in  mano  un'opera  di  storia  antica,  od  anche  solo  medievale,  composta 
mezzo  secolo  fa,  e  la  confronta  con  un  trattato  recente,  riconosce  di  leggeri  la  ve- 
rità delle  nostre  osservazioni.  Ora  il  M.  colla  sua  raccolta  di  iscrizioni  "  hi  , 
stantia  et  usu  veterum  Inscriptionam  „  diede  valida  spinta  a  questi  studi,  spinta  che 
fu  in  seguito  sempre  più  aumentata  fino  ai  tempi  moderni,  ai  quali  fu  riservato  di 
abbattere  del  tutto  quell'immensa  mole  di  favole  e  fantastiche  leggende  che  avevano 
inondato  la  storia  di  quei  tempi. 

Ma  rifulse  non  meno  chiaramente  il  sottile  discernimento,  e  il  sicuro  giudizio 
del  M.  nel  conoscere  tutta  l'importanza  della  storia  dell'età  di  mezzo.  Quivi  non  si 
vedeva  che  orridume,  che  rozzezza,  che  barbarie,  e  pochi  pensavano  che  vi  si  potesse 
pure  trovare  il  lato  bello.  Tra  i  pochi  è  il  M.  Anch'egli  dapprincipio,  piena  la  testa 
della  grandiosità,  sontuosità  ed  eleganza  classica,  segue  le  viete  idee  dei  puliti  uma- 
nisti e  dei  signori  della  rinascenza,  ma  tosto  si  ricrede,  e  a  discapito  stesso  dell'età 
classica,  afferma  che  non  in  questi,  ma  nei  tempi  di  mezzo,  si  deve  ricercare  la  più 
abbondante  e  giovevole  messe  di  studio  (1).  Ed  egli  inoltratosi  nella  "  selva  sel- 
vaggia „  di  quei  secoli   di  mezzo,  ne  usciva  colle  sue  più  importanti  opere  storiche. 

A  questo  merito  del  M.  nel  campo  di  questa  seconda  legge  storica,  va  aggiunto 
l'altro  non  meno  insigne,  di  aver  chiaramente  veduto  l'importanza  e  la  necessità 
degli  studi  sacri,  delle  storie  ecclesiastiche.  Vasto  è  pur  questo  campo,  vastissima 
la  messe,  ma  pochi  i  buoni  cultori.  Il  pensiero  comune  essendo  rivolto  all'erudizione 
profana,  si  disconosce  in  generale  l'importanza  di  questi  studi,  anche  da  coloro  cui 
dovrebbero  stare  più  a  cuore,  e  il  M.  se  ne  richiama  vigorosamente  agli  studiosi,  a 
cui  descrive  tutta  la  vastità  delle  materie,  a  cui  suggerisce  persino  gli  argomenti 
da  trattare  (2). 


(1)  Lettera  al  Porcia. 

(2)  /  Primi  Disegni  della  'Repubblica  Letteraria,  ecc. 


37  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  101 

Ma  anche  altrove  il  M.  si  riferisce  a  questi  studi  che  sono  una  delle  più  sen- 
tite necessità  dell'erudizione,  e  formano  uno  dei  più  vivi  desideri  della  sua  Repub- 
blica "  potendosi  ben  francamente  dire,  che  in  sì  ricca  miniera  si  possono  tutto  dì 
scoprire  nuove  gemme,  e  materia  per  acquistar  nuova  gloria  ,,  (1).  Ma  anche  indi- 
pendentemente da  questi  vantaggi,  osserva  egli,  incombe  ad  ogni  buon  cristiano 
di  attendere  seriamente  a  questi  studi,  in  questi  tempi  in  cui  la  storia  è  divenuta 
tanta  parte  della  nostra  vita,  perchè  essa  è  una  terribile  arma  in  mano  de'  nostri 
avversari,  e  al  lume  della  storia 'ormai  si  devono  esclusivamente  provare  le  nostre 
ragioni. 

La  terza  grande  legge  della  concezione  storica  muratoriana  è  l'insegnamento 
che  devono  i  fatti  porgere  alla  vita  e  alla  condotta  degli  uomini.  È  il  principio  etico 
che  guida  al  retto  giudizio,  e  alla  giusta  interpretazione  dei  fatti  e  delle  istituzioni, 
secondo  le  norme  d'una  sana  morale,  e  di  una  saggia  economia  politica.  Già  vedemmo 
la  dotta  lettera  del  M.  al  Conte  Borromeo  Arese,  informata  massimamente  a  questo 
principio,  il  quale  non  consiste  già  nell'inserire  lezioni  morali  nelle  esposizioni,  ma  nel 
guidare  lo  studioso  a  conoscere  ed  apprezzare  la  giustizia,  l'utilità,  la  bellezza  dei 
fatti,  in  modo  che,  pur  cibandosi  da  sé,  non  possa  cadere  nell'errore. 

La  mente  dello  storico  poi  deve  essere  retta  da  grande  amore  alla  giustizia, 
all'onestà,  alla  virtù,  ed  egli  deve  lodare  senza  restrizione  gli  stessi  nemici,  e  ri- 
provare senza  parzialità  anche  gli  amici  ;  così  operando  egli  si  acquista  più  credito 
presso  gli  altri,  e  maggior  soddisfazione  per  se. 

"  La  Storia  è  una  Maestra  della  Pratica,  facendoci  vedere  nelle  azioni  altrui 
ciò,  che  la  Teoria  degli  altri  c'insegna;  cioè  quello,  che  han  saputo  operar  bene  tanti 
saggi  Principi,  ed  Uomini  illustri,  o  di  male  tanti  altri  o  imprudenti  o  cattivi.  La 
storia  dei  tempi  passati  serve  a  regolare  il  mondo  presente.  La  gioventù,  e  princi- 
palmente i  giovani  Principi  debbono  studiarla,  ma  lasciando  da  parte  le  questioni 
cronologiche  e  la  memoria  di  tante  battaglie  e  persone  „  (2).  E  a  proposito  di  Prin- 
cipi, egli  richiama  tutta  la  loro  attenzione  sullo  studio  della  storia,  perchè  per  essi 
principalmente  è  istruttiva  e  significativa  (3).  Nella  storia  poi  hanno  più  efficacia  e 
potenza  sulle  anime  nostre  le  vite  degli  uomini  illustri,  per  il  loro  fascino  più  di- 
retto ed  insegnamento  più  immediato;  e  noi  sappiamo  che  l'illustre  G.  G.  Rousseau 
permetteva  al  suo  Emilio  la  lettura  del  solo  Plutarco,  per  l'efficacia  appunto  delle 
sue  splendide  biografie  (4). 

La  quarta  legge  è  la  forma  organica  e  il  giusto  criterio  che  deve  reggere  e 
vivificare  i  fatti  della  storia.  Questa  in  realtà  è  norma  non  tanto  della  materia  che 
dello  scrittore,  che  deve  saper  dare  alla  sua  esposizione  una  bella  struttura,  e  stabilire 
un  legame  continuo  con  quello  spirito,  con  quel  colorito  che  meglio  risponde  ai  bisogni 
di  chi  legge.  Quivi  pertanto  più  che  altrove  si  distingue  il  valore  dello  storico  che 
vaglia,  pondera,  discerne,  dal  inerito  del  raccoglitore  che  raduna   e  ammassa. 


(1)  /  Primi  Disegni  della  Rep.  Leit. 

(2)  Della  Pubblica  Felicità,  pag.  163. 

(3)  Idem,  pag.  9. 

(4)  Ricordiamo  che  il  Rousseau  non  permetteva  al  suo  Emilio  nemmeno  la  lettura  di  Tucidide, 
che  pur  riconosceva  come  un  modello  di  sobrietà  di  stile  e  di  pensiero,  perchè  egli  s'occupa  esclu- 
siTamente  di  guerra. 


i  |  |2  STEFANO    GRANDE  38 

Questo  per  sommi  capi  l'ideale  storico  del  M.,  questo  il  midollo  della  sua  con- 
cezione storica  efficacemente  ed  essenzialmente  utile  e  pratica.  Qui  pertanto  si  im- 
porrebbe un  confronto  fra  il  M.  e  il  Vico,  fra  lo  storico  che  afferma  e  discerne  i 
fatti,  e  il  filosofo  che  li  indaga  e  li  scruta.  Si  tratta  di  due  forze  disgiunte,  osservò  già 
il  Manzoni,  ma  promettenti  nello  stesso  tempo  un  mirabile  effetto  dalla  loro  possibile 
unione.  Ma  noi  non  possiamo  indugiarci  in  uno  studio  critico  di  tal  fatta,  fatica  punto 
per  le  nostre  spalle,  e  d'altra  parte  troppo  superiore  al  nostro  scopo.  Queste  poche 
cose  abbiamo  voluto  esporre,  perchè  ci  parvero  indispensabili  nel  pensiero  storico 
del  M.,  al  quale  ci  inchiniamo  riverenti,  come  a  colui  che  fu  salutato  il  Padre  della 
Storia  Italiana. 

Le  Lingue. 

L'italiano.  —  Dicemmo  che  fra  le  opere  più  trascurate  del  M.  devonsi  porre  le 
Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto  nelle  Scienze  e  nelle  Arti,  e  /  Primi  Disegni  della  Re- 
pubblica Letteraria  Italiana.  In  tanto  allagare  di  moderno  realismo,  le  concezioni  ideali 
e  filosofiche  sono  ridotte  in  proprietà  di  pochi  eletti  ;  ne  più  si  vede  in  esse  ciò  che 
è  più  pratico  e  positivo  di  tutto  il  positivismo  moderno.  Questi  Disegni  e  quelle  Ri- 
flessioni infatti,  che  sono  spesso  scambiate  per  questioni  formali,  rappresentano  invece 
il  lato  vero  e  reale  delle  cose,  la  critica  dello  stato  delle  lettere  e  delle  scienze  nel 
secolo  XVIII.  Ma  esse,  per  di  più,  non  si  limitano  a  descrivere  la  sola  malattia,  ma  sug- 
geriscono financo  i  rimedi  stessi,  sicché  a  noi  non  pare  andar  errati  osservando  che 
osse,  vedi  mo'  contraddizione  !,  sono  una  delle  più  belle  prove  della  praticità  dell'eru- 
dizione muratoriana,  e  dei  suoi  pratici  intenti  nel  campo  delle  lettere  e  delle  scienze. 
Ai  mali  letterali  d'Italia  il  M.  trova  un  rimedio  nello  studio  delle  lingue,  ma 
studio  pratico,  come  richiedeva  il  suo  intento  di  esser  prima  uomo  utile  che  dotto. 
È  il  rimedio  già  notato  da  G.  B.  Vico  che  col  M.  s'accorda  qui  perfettamente.  Ed 
ancor  qui  si  potrebbe  stabilire  un  bellissimo  parallelo  fra  questi  due  grandi  maestri, 
i  quali  simili  in  molti  casi  della  vita,  negli  studi,  negli  uffici,  dissimili  sotto  altri 
rispetti,  qui  si  integrano  in  un'  unità  di  vedute  (1). 

Le  lingue  rappresentano  un  fatto  civile,  sociale,  perchè  sono  lo  specchio  più  sin- 
cero delle  condizioni  materiali  d'un  popolo  e  riflettono  nello  stesso  tempo  i  suoi  mo- 
menti più  pratici,  le  sue  gloriose  o  dolorose  epopee,  i  prodotti  più  genuini  ed  autentici 
del  suo  spirito.  Esse  sono  il  mezzo  più  potente  per  la  formazione  dell'umana  società, 
e  si  nell'insegnamento,  che  in  una  esposizione  pedagogica,  devesi  incominciare  dallo 
studio  di  esse,  tanto  più  perchè  esse  s'acquistano,  in  generale,  nella  prima  età  e  colla 
memoria  che  nei  fanciulli  vale  moltissimo  (2). 

Prima  fra  tutte  le  lingue,  per  debito  di  riconoscenza,  dobbiamo  studiare  l'italiana, 
che  è  la  lingua  nostra,  già  maestra  di  civiltà,  e  studiata  e  riverita  un  giorno  presso 
tutti  i  popoli.  Ma  noi  non  sembriamo  compresi  di  questa  importanza,  e  le  scuole 
nostre,  scrive  il  M.,  "  è  forza  confessarlo  con  dolore,  perchè  non  si  può,  senza  ver- 
gogna „,  la  trascurano  per  ridursi  ad  un  più  o  meno  felice  insegnamento  della  grain- 


(1)  Per  lo  studio  delle  lingue  secondo  il  Vico,  e  per  le  sue  idee  pedagogiche,  vedi  G.  B.  Gerini, 
Le  idee  educative  di  G.  B.   Vico.  Torino,  1898.  Estr.  dal  period.  "  Il  Nuovo  Risorgimento  „,  pag.  23. 

(2)  Cfr.  G.  B.  Vico,  De  nostri  tempori»  studiorum  ratione,  ed  altra  orazione  del  1707,  ricordate 
pure  dal  Cerini,  monografia  citata. 


39  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  103 

matica  latina  e  della  retorica.  Che  si  insegni,  che  si  insegni  il  Latino,  ma  in  modo 
che  da  tale  studio  si  avvantaggi  pure  l'Italiano,  e  non  si  verifichi  il  doloroso  fatto  che 
si  esca  dalle  scuole  ignoranti  del  nostro  idioma  patrio  (1).  E  rivolto  alle  scuole,  e  prin- 
cipalmente alle  religiose  dove  è  più  trascurata,  ricorda  la  necessità  di  questo  studio, 
principalmente  in  gioventù,  perchè  quando  "  si  son  fatte  l'ossa  „  l'intelletto  sta  tutto 
rivolto  ad  imparar  cose,  né  più  ci  basta  l'animo  di  ritornare  allo  studio  della  Gram- 
matica. Il  M.  parla  per  esperienza,  perchè  figlio  di  tali  scuole,  risente  del  loro  difet- 
toso insegnamento,  e  nelle  sue  opere,  bisogna  pur  confessarlo,  non  sono  soverchia- 
mente rare  le  forme  punto  punto  eleganti  e  le  scorrette,  e  fin  anche  le  mende  gram- 
maticali. D'altro  lato  poi  è  doloroso  veder  lui,  il  diligente,  lo  studioso  Muratori,  rivol- 
gersi nelle  sue  lettere  ai  più  insigni  letterati  toscani  per  informazioni  precise  sull'uso 
di  certi  vocaboli,  di  certi  suffissi,  pronomi,  particelle...  Date  queste  condizioni,  ci  spie- 
ghiamo perchè  egli  insista  così  fortemente  su  questo  studio  "  che  ci  è  raccomandato 
da  natura  „  e  che  noi  non  dobbiamo  per  niuna  ragione  trascurare,  principalmente  in 
gioventù,  quando  l'animo  nostro  docile  e  pieghevole  si  preoccupa  più  particolarmente 
dello  studio  della  parola  e  della  forma.  "  Siamo  nati  in  Italia,  esclama  egli,  e  tuttodì 
parliamo  la  Lingua  Italiana,  adunque  e  la  gratitudine  e  il  bisogno  richiede,  che  noi 
non  solamente  impariamo  questa  Lingua,  ma  che  le  apportiamo  con  tutte  le  forze 
onore  „  (2).  Questa  è  lingua  nobile,  è  lingua  maschia,  ed  egli  si  adira  contro  "  un 
impertinente  scrittore  francese  „  che  aveva  osato  dire  che  Carlo  V  usava  solamente 
la  lingua  italiana  parlando  colle  donne,  e  si  rivolge  tutto  offeso  all'amico  Maglia- 
bechi  (3)  pregandolo  di  appurargli  alcune  indicazioni,  perchè  egli  non  può  sopportare 
l'ingiuria,  e  si  prepaia  a  respingerla. 

La  parte  più  raccomandata  poi  di  questo  studio  è  la  Grammatica  e  la  Eetorica. 
Sì  anche  la  retorica  è  necessaria,  perchè  noi  naturalmente,  o  per  forza  d'educazione, 
tendiamo  al  bello,  all'ingegnoso,  epperò  anche  quelle  dottrine,  quelle  verità  che  ci 
sono  esibite  in  forme  vaghe  e  ingegnose,  ci  dilettano  e  ci  colpiscono  maggiormente  (4). 
Si  impone  pertanto  lo  studio  della  retorica,  ma  non  di  quella  concettosa  e  sdolcinata 
che  insegna  a  infrascare,  a  gonfiare  leziosaggini,  concettini  inzuccherati,  e  sbrigliate 
metafore,  la  quale  così  melensamente  si  impartisce  nelle  scuole,  ma  della  sana  re- 
torica che  ci  fa  padroni  dello  stile,  delle  forme,  delle  parole  più  proprie  ai  diversi 
bisogni,  e  ci  sforza  insensibilmente  allo  studio,  giacché  "  le  materie  più  aspre  e  sot- 
tili addimesticate  e  pulite  piacciono  agli  ignoranti  medesimi  „  (5). 

Questo  studio  poi  è  indispensabile  specialmente  per  la  poesia,  ed  il  M.  ne  è 
così  compenetrato,  che  ci  spende  attorno  gran  parte  del  suo  trattato  Della  perfetta 
poesia  Italiana.  Per  lui  questo  studio  è  utile  e  necessario,  perchè  costituisce  una  so- 
praveste indispensabile  alle  nostre  parole,  e  sopraveste  luminosa  "  di  cui  troppo  vo- 
lentieri si  adorna  la  verità  per  maggiormente  piacere  al  guardo  degli  uomini,  e  senza 
cui  compare  meschina,  o  ruvida,  o  spiacevole  „  (b'). 


(1)  Vedi:    Vita  di  Carlo  Maria  Maggi,  di  Lod.  Art.  Muratori.  Milano,  Malatesta,   1700,  pag.  86. 

(2)  i"  Primi  Disegni  delia  Repubblica  Letteraria. 

(3)  Lettera  ad  Antonio  Magliabechi,  1701,  Campoki,  II,  547. 

(4)  Vedi  in  seguito  il  cap.  dell' Educazione  Estetica,  pag.  59-62. 

(5)  Lettera  ai  Capi,  Maestri,  Lettori,  eco. 

(6)  Ibidem. 


104  STEFANO    GRANDE  40 

Quanto  tin  qui  dicemmo  della  lingua  italiana  si  può  pure  riferire,  come  norma 
astratta,  e  in  generale,  alle  altre  lingue,  avvertendo  però  che  il  M.  non  si  riferisce 
affatto  alle  lingue  vive,  quantunque  di  alcune  di  esse  avesse  perfetta  conoscenza. 

Così  egli  nella  sua  concezione  letteraria  passa  in  rassegna  "  l'Italiano  che  ci  è 
vivamente  raccomandato  dalla  Natura,  il  Latino  dalla  Necessità,  il  Greco  dall'Eru- 
dizione, l'Ebraico  dalla  Santità  „  (1),  a  cui  aggiunge  ancora  in  generale  le  Lingue 
Orientali,  di  utilità  indiscutibile,  e  necessarie  per  una  perfetta  coltura. 

Latino.  —  A  proposito  del  latino  il  M.  non  spende  molte  parole,  essendo  ab- 
bastanza studiato,  e  premendogli  di  più  lo  studio  del  greco  che  ebbe  già  in  Italia 
tanti  e  sì  illustri  cultori.  Ma  il  latino  ha  una  superiorità  incontrastata  sul  greco, 
"  nam  si  conferatur  uterque  sermo,  Latinus  omnibus,  Graecus  quam  plurimis  mea 
sententia  necessarius  videtur  ;  ille  communi  utilitate,  hic  propria  nobilitate  magis 
commendabilis,  ille  amplectendus,  iste  non  negligendus  „  (2). 

Ed  ecco  perchè  il  latino  è  necessario  :  "  Essendo  noi  figliuoli  della  Chiesa  Latina, 
che  con  la  Lingua  sua  ci  fa  udire  i  suoi  misteri,  ed  avendo  altresì  con  essa  tanti 
Santi  Padri,  e  tanti  Autori  Sacri  e  profani  spiegata  la  loro  dottrina  e  i  loro  concetti; 
constando  ancora,  che  non  c'è  Lingua  in  Europa  più  comune,  e  più  praticata  della 
Latina,  sia  nei  Tribunali,  sia  nelle  Scuole,  sia  fra  gli  studiosi,  è  manifesto  che  dob- 
biamo per  necessità  impararla  „  (3). 

Sono  ragioni  addotte  pure  dal  Vico  in  favore  di  questa  lingua,  il  quale  inoltre 
propone  che  in  ogni  studio  letterario  si  incominci  da  essa  appunto  e  dal  greco.  Anche 
il  Montaigne  è  di  questo  parere,  ma  trova  che  queste  lingue  si  acquistano  a  troppo 
grave  prezzo:  "  C'est  un  bel  et  grand  adgencement  sans  doubte  que  le  grec  et  latin, 
"  mais  on  l'achete  trop  cher  „  (4). 

Ma  se  il  M.  approvava  lo  studio  di  questa  sì  importante  lingua,  non  approvava 
certo  il  metodo  in  uso,  che  obbligava  "  le  tenere  teste  dei  fanciulli  a  riflettere,  ad 
argomentare,  e  per  di  più  a  metafìsicare  „.  Egli  invece,  più  pratico  e  più  ragionevole, 
suggerisce  che  si  coltivi  e  si  eserciti  la  loro  memoria,  si  arricchisca  di  nozioni  e  di 
regole  facili,  perchè  i  fanciulli  "  in  quell'età  sogliono  essere,  per  così  dire,  sola  me- 
moria, e  però  questa  fa  d'uopo  coltivarla  allora,  e  arricchirla,  per  quanto  si  può,  di 
cose  facili,  senza  imbrogliarla  in  sottigliezze,  e  nozioni  inutili  e  metafisiche  „  (5).  Di 
qui  appare  il  metodo  essenzialmente  pratico  che  suggeriva  il  M.  doversi  tenere  nel- 
l'insegnamento, sul  quale,  giacché  ci  si  presenta  l'occasione,  giova  fermarci  alquanto. 

Il  M.  è  grandemente  favorevole  a  quelle  teorie  che  vorrebbero  esclusi,  o  quasi, 
i  libri  di  testo;  per  lui  il  profitto  del  giovane  è  perfettamente  correlativo  all'opera 
dell'insegnante;  questi  è  che  dà  la  scienza,  che  erudisce,  poco  monta  l'adoperare 
questa  o  quella  grammatica,  questo  o  quell'autore  (6). 


(1)  1  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 

(2)  Lettera  a  Girberto  Borromeo.  Mutinae,  Idib.  Julii  1693,  Campori,  I,  10-35. 

(3)  /  Primi  Disegni  della  Repubblica   Letteraria. 

(4)  M.  de  Montaigne,  Essate,  cap.  XXV,  pag.  94. 

(5)  Lettera  al  Porcia. 

(6)  A  conforto  di  quest'opinione  del  M.,  mi  piace  riportare  qui  parte  d'una  sua  lettera  al  Padre 
D.  Lodovico  Siena,  Proposto  dell'Oratorio  di  Sinigallia.  30  giugno  1735.  "  Archivio  Murator.,  pa- 
gina 327-28  „  :  "  S'io  debbo  parlare  schiettamente  a  V.  R.  non  credo,  che  nella  scelta  della  Gram- 
matica, consista  il  profitto,  che  si  cerca  da'  fanciulli,  perchè  ogni    Grammatica  (e  ve  n'ha  infinite) 


H  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  105 

È  lecito  qui  essere  di  parere  diverso  dal  M.,  e  ognuno  vede  di  leggeri  la  forza 
delle  obbiezioni  che  gli  si  possono  muovere.  E  press'  a  poco  la  nota  questione  cui 
alludemmo  poco  fa,  della  maggiore  o  minore  utilità  dei  libri  di  testo,  strenuamente 
combattuta  e  difesa  da  valorose  persone.  Ma  che  sia  indifferente  dare  in  mano  al 
giovane  la  più  infelice  grammatica  di  tre  secoli  fa,  purché  contenga  "  il  massiccio 
delle  regole  „,  od  una  delle  moderne  più  elaborate,  non  si  può  davvero  ammettere 
senza  fare  troppo  grave  torto  a  tanti  valentuomini,  che  in  questi  studi  consumarono 
tanto  tempo,  e  senza  disconoscere  i  progressi  grammaticali  apportatici  dall'esperienza 
stessa.  Tuttavia  queste  idee  del  M.  si  possono  chiarire  ed  anche  rinforzare.  Infatti  lo 
scopo  del  primo  insegnamento  del  latino,  non  essendo  la  scienza  della  grammatica,  la 
linguistica  (non  so  se  si  possa  dire  nata  quando  scriveva  il  M.),  ma  bensì  l'intelligenza 
della  lingua,  non  la  legge  del  fatto,  ma  il  fatto  stesso,  si  può  quasi  ritenere  che  a 
questo  possa  bastare,  con  un  po'  più  di  sforzo,  l'opera  solerte  del  maestro,  e  l'aiuto, 
comunque  sia,  di  una  qualunque  grammatica.  Così  la  teoria  muratoriana  acquista 
maggior  tinta  di  verità  e  forza,  ma  non  si  può  negare  che  offra  altri  lati  alla  critica. 
Il  M.  ritorna  pure  altrove,  e  più  accanitamente  ancora,  all'assalto.  I  ragazzi 
fanno  poco  profitto  ?  È  colpa  del  maestro  ignorante,  o  dell'ignoranza  del  buon  me- 
todo. "  Nella  guisa  che  hanno  i  maestri  con  istento  appresa  la  Lingua  Latina,  in 
quella  eziandio  quantunque  imperfettamente  l'insegnano  agli  altri,  e  nulla  di  più  si 
cerca.  E  pure  uomini  eccellenti  han  proposto  e  praticato  varj  Metodi  più  utili  e  spe- 
diti  Io  so  che  il  Cardinale  Sirleto,  Flaminio  de'  Nobili,  e  il  Maffeo  Gesuita,  celebri 

persone,  approvavano  di  molto  il  dar  prima  un  poco  di  tintura  di  Grammatica,  e 
sopra  tutto  delle  Declinazioni,  e  poscia  il  far  rivolgere  tutto  lo  studio  a  conoscere  le 
voci  e  a  metterle  a  memoria,  e  ad  esercitarsi  in  esse  in  guise  varie  e  dilettevoli, 
senza  badar  per  anche  a'  solecismi,  e  barbarismi.  Finalmente  consigliavano,  che  s'in- 
segnassero le  Regole,  mercè  delle  quali  si  emendassero  poi  gli  errori  della  lingua 
appresa In  effetto  la  natura  c'insegna  a  cosi  fare,  perchè  nella  stessa  maniera  im- 
pariamo la  lingua  materna,  che  poi  correggiamo  coll'arte,  e  conciossiachè  le  Lingue 
propriamente  consistono  nell'uso  della  Memoria,  più  che  in  quello  del  Raziocinio,  più 
ancora  ad  arricchire  ed  esercitare  la  memoria  dei  fanciulli  si  deve  attendere,  che  a 
farli  raziocinare  „  (1). 

Non  sappiamo  se  si  possa  pretender  tanto  dal  maestro,  privarlo  del  testo,  e 
fors'anche  obbligarlo  a  foggiarsene  uno  in  testa  propria,  e  crearsi  una  serie  di  eser- 
cizi corrispondenti  alle  inclinazioni  d'ognuno  ;  ma  senza  indagare  la  giustezza  e  l'op- 
portunità delle  idee  del  M.,  sta  il  fatto  che  il  metodo  tenuto  ai  suoi  tempi  non  do- 


contiene  il  massiccio  delle  Regole  Grammaticali,  se  non  che  Fune  sono  più  corte  e  ristrette,  e  ser- 
vono a  dirizzare  e  dare  il  primo  buon  abbozzo  ;  ed  altre  più  diffuse,  perchè  contenenti  anche  il 
minuto  di  molte  osservazioni,  ed  eccezioni,  e  la  Prosodia,  ecc.  Ora  secondo  me  dipende  il  profitto 
dal  sapere,  e  giudizio  de'  maestri,  e  dall'esercizio  degli  scolari.  Mi  dia  queste  due  qualità,  con 
qualunque  Grammatica,  che  abbia  qualche  credito,  si  otterrà  l'intento . . .  Però  torno  a  dire  che 
non  dovrebbero  cotesti  signori  darsi  gran  pensiero  per  l'elezione  di  questa,  o  di  quella  Grammatica, 
perchè  tutte  le  più  usate  possono  servire,  ma  pregare  Iddio  che  i  loro  figliuoli  siano  ricchi  di 
memoria  e  di  intendimento,  e  che  il  maestro  sappia  fondatamente  il  suo  mestiere,  e  faccia  loro 
conoscere  nella  spiegazione  dei  buoni  autori  le  Regole,  e  il  meglio  del  parlar  latino  „. 
(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  260. 

Serie  IL  Tomo  LUI.  14 


1Q6  STEFANO    GRANDE 


42 


veva  essere  il  più  felice,  se  già  egli,  fin  da  quando  giovanetto  sedeva  sui  primi 
banchi  della  scuola,  sentiva  la  necessità  di  modificarlo  (1). 

Il  metodo  poi  di  applicare  allo  studio  delle  lingue  morte  le  norme  colle  quali  si 
impara  la  lingua  materna,  non  è  affatto  un  mezzo  di  ginnastica  intellettuale,  come 
dovrebbe  essere,  e  più  che  metodo  pratico  si  può  dire  meccanico.  Anche  il  Montaigne, 
il  Locke,  il  Vico,  l'Elvezio,  il  Rousseau,  il  Bain,  ecc.  ecc.  propugnano  simile  metodo, 
e  fra  i  moderni  non  si  sente  parlar  d'altro,  ma  questo  non  esclude  che  si  possa  esser 
persuasi  dell'efficacia  della  grammatica,  quale  disciplina  intellettuale  —  scopo  delle 
lingue  classiche  —  e  che  essa  formi  davvero  una  delle  materie  che  meglio  addestrano 
il  ragionamento  e  il  giudizio  de' giovanetti.  La  lingua  materna,  è  vero,  si  impara 
coll'uso  e  colla  pratica;  ma  essa  è  la  lingua  del  paese,  dei  genitori,  degli  amici  ; 
tutto  quanto  ci  sta  attorno  ci  parla  in  quella  lingua,  ogni  suono,  ogni  accenno  è  in 
quella  lingua,  di  quella  lingua  è  il  costume,  le  istituzioni,  la  vita. 

Se  adattandosi  a  tutte  queste  circostanze,  si  vorrà  apprendere  una  lingua,  non 
lo  neghiamo  neppure  noi,  la  si  imparerà  bene,  ma  essa  sostituirà  verisimilmente  la 
materna.  Ne  fece  chiaro  esperimento  il  padre  di  Michele  de  Montaigne,  che  circondò 
rigorosamente  il  figlio  di  persone  che  parlavano  esclusivamente  latino,  dal  maestro 
e  dalla  madre,  al  servo  e  alla  cameriera.  A  sei  anni  M.  Montaigne  dava  lezioni  ai 
suoi  maestri,  a  sette  preferiva  la  lettura  di  Ovidio  a  qualunque  altro  autore  (2). 

Ma  tanto  profitto  fu  effimero,  e  M.  Montaigne  a  tredici  anni  era  forse  ancora 
il  primo  della  sua  scuola  in  latino,  ma  del  latino  incapace  a  valersi  (3). 

Non  so  se  sia  veramente  cosi  che  si  vuole  intendere  lo  studio  d'una  lingua  col 
metodo  della  materna,  ma  so  che  anche  dopo  questo  celebre  esempio,  si  continuò  a 
pensare  a  quella  guisa.  Così  se  voi  chiedete,  ad  esempio,  a  Claudio  Adriano  Elvezio, 
punto  punto  tenero  del  latino,  come  dovete  insegnare  al  vostro  allievo  questa  lingua. 
"  Entourez  l'enfant,  vi  risponde,  d'hommes  qui  ne  parlent  que  latin  „  (4). 

Ma  in  realtà  altro  è  studiar  il  latino  collo  scopo  pratico  di  quei  nostri  buoni 
avi,  altre  studiarlo  come  mezzo  di  ginnastica  intellettuale,  o  per  scopo  linguistico: 
pel  primo  caso  l'esempio  del  Montaigne  ci  pare  molto  significativo,  per  l'altro  ci  pare 
di  poter  asserire  che  a  tredici  anni,  molti,  senza  aver  l'ingegno  del  Montaigne,  riu- 
scirono a  fare  più  di  lui,  sotto  la  guida  della  grammatica,  non  punto  del  metodo 
della  lingua  materna. 


(1)  Cfr.  Lettera  al  Conte  ili  Porcia. 

(2)  M.  Montaigne,  Essais,  cap.  XXV,  pag.  94  :  *  Quant  a  moy,  i'avoy  plus  de  six  ans,  avant  que 
i'entendisse  non  plus  de  francois  ou  de  perigordin  que  d'arebesque  ;  et,  sans  art,  sans  livre,  sans 
grammaire  ou  precepte,  sans  fouet  et  sans  larmes,  i'avois  apprins  du  latin  tout  aussi  pur  que  mon 
maistre  d'eschole  le  scavoit;  car  ie  ne  le  pouvois  avoir  meslé  ny  altere  „.  Ed  altrove  ancora,  pag.  95: 
"  Le  premier  goust  que  j'eus  aux  livres,  il  ine  veint  du  plaisir  des  fables  de  la  Metamorphose 
d'Ovide:  car  environ  l'aage  de  sept  ou  huict  ans,  ie  me  desrobois  de  tout  aultre  plaisir  peur  les 
lire;  d'autant  que  e.ette  langue  estoit  le  plus  aysé  livre  que  ie  cogneusse.  et  le  plus  accomodé  a  la 
t'aiblesse  de  mon  aage,  à  cause  de  la  rnatière  „. 

(3)  Montaigne,  Essais,  luogo  citato:  "  Mon  latin  s'abastardit  incontinent,  duquel  depuis  par 
desaccoustumance  i'ay  perdu  tout  usage;  et  ne  me  servit  cette  mienne  inaccousturnee  institution, 
que  de  me  taire  eniamber  d'arrivee  aux  premieres  classes  ;  car.  à  treize  ans  que  e  sortis  du  college, 
i'avois  achevé  mon  cours  (qu'ils  appellent),  et,  à  la  verité,  sans  aucun  fruict  que  il  peusse  à  present 
mettre  en  compte  ». 

(4)  Elvezio,  De  l'Somnie,  ili-  ses  facultés, 


43  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  107 

Ma  questo  era  il  pensiero  del  M.,  e  noi  lo  riferimmo  nella  sua  integrità,  liberi 
di  non  sottoscriverlo. 

Greco.  —  Ma  dove  il  M.  rivolge  più  fervide  le  sue  esortazioni  si  è  allo  studio 
del  Greco,  del  quale  riconosce  tutta  l'utilità  e  l'importanza.  Il  greco  nel  secolo  XVIII 
si  era  ridotto  in  mano  di  pochi  privilegiati,  ed  il  M.  se  lo  volle  conoscere,  dovette 
studiarselo  da  sé.  Fu  fatica  grave  e  sorprendente,  ma  è  più  sorprendente  ancora  il 
vedere  come  egli  in  poco  tempo  se  ne  rese  padrone. 

Come  già  per  la  Storia,  anche  qui  ci  somministra  ampia  messe  di  studio  una 
sua  eruditissima  lettera,  scritta  a  vent'anni,  nella  quale  egli,  con  rara  facondia  e 
competenza,  discorre  della  bellezza,  importanza,  utilità  di  questa  trascuratissima 
lingua  (1).  È  una  dottissima  dissertazione  la  quale,  si  può  ben  dire  raccolga  tutti 
gli  argomenti  più  importanti  comunemente  citati  in  favore  di  questa  lingua,  e  riesce 
a  noi  in  modo  speciale  di  vera  attualità  pel  poco  buon  vento  che  spira  presentemente 
nelle  scuole  pel  greco. 

La  lettera  s'apre  con  uno  sguardo  all'infelice  condizione  letteraria  d'Italia:  *  Oh 
Italia  jam  non  illa,  quae  dudum  reliquas  orbis  plagas  imperio  non  minus  temperasti, 
quam  scientiis  excellueris;  non  illa,  inquam.  quae  postremo  hoc  aevo,  barbaris  de- 
pulsis,  bellorumque  ingruentium  impetu  fracto,  prior  optimas  artes,  ac  studia  resti- 
tuisti, quumque  sub  Turcis  Graecorum  res  penitus  excidissent,  heres  una  et  illorum 
gloriam  reparasti,  tuamque  ulterius  promovisti!  „.  Per  colpa  del  tempo,  del  poco  amore 
allo  studio,  dell'infelice  metodo,  della  mancanza  di  saggi  protettori,  della  nostra  stessa 
indifferenza,  scadiamo  continuamente  nella  considerazione  dei  popoli  e  disconosciamo 
l'importanza  degli  studi.  "  Mehercle  nostris  adolescentibus  summum  scientiarum  in 
Musis  colendis  constitutum  videtur,  eisque  quod  in  literis  humillimum  omnium  stat 
loco.  Et  utinam  in  hoc  etiam  praecellerent,  saltem  enim  forent  aliquid  in  parvo,  et 
quid  pusillum  in  nihilo  „.  Ma  nemmeno  questo  è  loro  dato,  e  frattanto  urge  a  noi 
alzare  in  alto  lo  sguardo,  e  ricercare  i  rimedi  a  si  triste  condizione  di  cose.  E  rimedio 
primo,  efficacissimo,  è  da  ritenersi  lo  studio  delle  lingue,  e  sopratutto  del  Greco,  che 
quasi  quasi  conosciamo  solo  più  per  fama,  come  una  cosa  che  fu.  Deserte  ne  sono 
le  scuole  "  nemo  publicum  ad  praeceptorem  confluit  et  vidua  sedent  toto  anno  con- 
stituta  ad  hoc  gymnasia  „.  Ma  intanto,  quando  si  studiava  il  greco  non  si  giaceva 
in  si  infelici  condizioni,  il  nome  nostro  risuonava  ben  alto  nelle  scienze,  e  si  produ- 
cevano buone  cose.  "  Erant,  et  heic  prestantissimi  homines  publica  conducti  pecunia, 
ut  Graecis  literis  adolescentes  erudirentur,  quorum  e  disciplina  celeberrimi  saepe  viri 
prodierunt  „ .  Ora  invece  siamo  ridotti  ad  ammirarli  solo,  senza  seguirli,  senza  inten- 
derli quei  benemeriti,  e  siamo  anche  ridotti,  ciò  che  è  più  sconfortante,  ad  ammirare 
le  loro  stesse  donne,  insigni  in  tali  studi,  e  per  giunta  dichiararci  ad  esse  inferiori. 
Il  M.  dice  il  vero,  e  la  Storia  Letteraria  registra  accanto  ai  nomi  celebri  del  Castel- 
vetro,  di  Francesco  Porto,  del  Molza,  del  Sigonio,  quelli  non  meno  insigni  di  Tar- 
quinia Molsa,  di  Lucia  Ploppa,  di  Lodovica  Foliana  "  aliaeque  non  inferiores  erudi- 
tione  mulieres  sub  vulto  foemineo  animum  et  ingenium  virile  complexae  „. 


(1)  Lettera  a  Girberto  Borromeo  Arese,  ecc.  Fu  già  da  poi  più  volte  citata,  ed  è  comunemente 
conosciuta  sotto  il  titolo  di  dissertazione  De  Graecae  Linguae  usa  et  praestantia.  Fu  già  da  pa- 
recchi autori  stampata  e  riprodotta.  Vedi  fra  gli  altri  Giuseppe  Pecci  :  Dei  pregi  della  Lingua  Greca, 
Napoli,  1742,  in  una  prolusione  che  ristampò  più  volte. 


108  STEFANO    GRANDE  4  1 

Noi  pertanto  dobbiamo  scuoterci  e  studiarlo  il  Greco,  che  nell'erudizione  dovrebbe 
occupare  uno  dei  primissimi  posti.  "  Vin  rationem  ?  En  tibi  illam:  Siquidem  in  ipsa 
sermonis  Graii  cognitione,  si  bene  perpendas,  eruditio  simul  taciteque  ebibitur,  quod 
versa  vice  non  accidit,  et  uno  hoc  in  animum  alte  immisso  constantissime  in  alia 
studia  mere  homines  adnimadvertimus,  quasi  sibi  sat  virium  inde  fecerint  ad  ma- 
lora curanda,  aut  sat  cupiditatis.  Veluti  enim  qui  humanioribus  litteris  se  addicunt 
humanitatem  quandam  plerumque,  et  dulcem  morum  facilitatem  inde  hauriunt,  ita 
qui  in  Graecas  incumbunt  Litteras  magnos  plerumque  contrahunt  animos  et  mirandum 

quoddam  eruditionis  robur,  ut  excellere  deinde  mirum  in  modum  cernantur Deinde 

quo  pacto  vere  aliquem  eruditimi  appellas,  si  Graecae  is  est  linguae  imperitus,  quae 
una  et  parens,  et  altrix  eruditionis  merito  venit  nuncupanda?  „. 

Ecco  dunque  perchè  dobbiamo  studiare  il  greco:  da  esso  succhiamo  erudizione, 
riceviamo  robustezza  di  giudizio  e  mirabile  forza  per  poggiar  in  alto  ;  da  esso  è  ap- 
pianata la  via  al  più  grande  progresso,  da  esso  parte  il  più  forte  stimolo  per  la 
cultura  generale. 

E  volete  sapere  perchè  al  di  là  delle  Alpi  si  è  dotti,  si  è  celebri,  e  si  lavora 
utilmente?  Là  si  studia  il  greco,  e  non  dagli  uomini  solo,  ma  financo  dalle  donne, 
che  così  l'apprendono  "  quantum  ad  constituendum  magnum  inter  nos  virum  satis 
foret„.  Nessuna  meraviglia  pertanto  se  se  ne  percepiscono  i  vantaggi,  e  vantaggi 
grandi,  i  quali  derivano  dalla  grande  parentela  del  greco  con  tutte  le  scienze.  Questa 
relazione  in  verità  potrà  forse  a  taluno  sembrar  molto  discutibile  per  alcune  scienze, 
come  per  la  Morale,  per  la  Metafisica,  per  la  Matematica,  che  in  realtà  sono  le  meno 
collegate  col  greco  "  at  in  reliquis  scientiis  uti  in  Theologia  doctrinali  et  exposititia, 
in  Medicina,  Astronomia,  Geographia,  sacra  profanaque  Historia,  et  sexcentis  aliis 
huiusmodi  studiis  adeo  Graeei  eloquii  necessitas  nobis  incumbit,  ut  nulla  ex  iis  per- 
fecte  hauriri,  ac  possideri  sine  hac  ope  queat  „.  E  non  è  punto  difficile  la  prova. 

il  greco  è  necessario  per  gli  studi  Ecclesiastici  perchè  continuamente  si  com- 
batte cogli  eretici  su  canoni,  su  interpretazioni,  su  asserzioni,  e  giova  ricorrere  per 
quanto  si  può  alla  fonte  più  genuina  e  pura  (1).  È  necessario  per  i  Medici  che  di 
greco  infarciscono  le  loro  opere,  con  nomi  greci  indicano  le  malattie  e  i  rimedi,  e  la 
Grecia  fu  la  culla  dei  più  insigni  medici.  È  necessario  per  la  Giurisprudenza,  perchè 
dalla  Grecia  derivarono  non  poche  delle  produzioni  legislative,  là  si  elaborarono  le 
leggi,  si  applicarono  certi  principii,  e  di  là  emana  in  gran  parte  il  diritto  canonico. 
È  necessario  per  la  Poetica,  giacché  i  Latini  stessi  ci  rimandano  ad  Aristotele,  e 
Dante,  Tasso,  Ariosto  non  sanno  far  di  meglio,  e  noi  di  quei  principi  fummo  già 
cosi  schiavi  da  ritenerli  sacri  come  voce  d'oracolo.  Cosi  è  necessario  per  le  altre 
scienze,  né  potrà  alcuno,  che  giudichi  colla  propria  testa,  disconoscere  quali  vantaggi 
arrechi  alla  Storia,  alla  Geografia,  alla  Filosofia,  alla  Cronologia,  ecc.,  scienze  tutte 
che  dal  greco  prendono  le  mosse,  e  nella  Grecia  hanno  toccato  il  massimo  della 
perfezione  del  tempo. 

Ma  la  lingua  greca  ci  si  impone  pure  per  altri  rispetti,  giacche  essa  ci  offre  le 
più  incomparabili  bellezze.  Anche  lasciando  stare  l'antichità,  l'estensione,  l'universalità, 
la  ricchezza,  l'armoniosità,  l'originalità  sua,  dobbiamo   riconoscere    sotto  molti    altri 


(1)  Cf'r.  pag.  37,  e  in  seguito  pag. 


46. 


45  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  109 

aspetti  la  sua  incontrastata  superiorità  sulle  altre  lingue  nelle  produzioni  scienti- 
fiche, artistiche  e  letterarie.  E  noto  infatti  il  valore  degli  uomini  che  essa  vanta,  il 
numero  delle  opere  che  produsse,  la  profondità  delle  teorie  in  essa  svolte  in  tutto  il 
campo  dello  scibile  umano. 

Ammessa  questa  evidente  superiorità,  se  studiamo,  ad  esempio,  il  latino  e  ne 
ammettiamo  la  necessità,  perchè  altrettanto  non  facciamo  ed  ammettiamo  pel  greco?... 
"  Nani  si  Latinis  ideo  operam  impendimus,  quia  per  vetustos  illius  Linguae  auctores 
nobis  eloquentia  insinuatur,  et  quidquid  scientiarum,  et  eruditionis  tum  sacrae  tum 
profanae  in  illa  habetur,  discendi  facultas  nobis  aperitur,  quanto  magis  deferendum 
est  Graecis,  qui  pluribus  in  quacumque  rei  literariae  notitia  laboribus  fulserunt,  et 
adhuc  fulgent?  „  Ma  si  può  dir  di  più,  ed  io  vi  chiedo:  Chi  ha  fatto  i  Latini?  "  Illa, 
illa  Graecia  Latinos  fecit,  et  quum  Latinos  laudas  illorum  parentem  Graeciam  iis 
involvi  laudibus  scias  „. 

Ma  e  le  versioni?  "  Alienis  oculis  videt,  alieno  palato  gustat,  qui  ad  unius  ver- 
sionis  normam  se  regit...  Te  miserum  interpres  fefellit,  et  cum  caeco  caecus  aberras  „. 
Ma  vogliamo  essere  generosi:  A  parte  che  la  versione  non  ci  rivela  il  metodo  di 
scrivere  e  pronunziar  rettamente  molti  vocaboli,  non  ci  rivela  la  loro  etimologia,  la 
struttura  di  certi  metri  storpiati,  o  comunque  mal  interpretati,  a  parte  moltissimi 
altri  inconvenienti,  come  si  possono  gustare  nelle  versioni  certe  bellezze,  siano  pure 
involte  sotto  una  veste  accurata,  studiata  fin  che  si  vuole,  ma  che  non  è  la  propria? 
Chi  non  vede  la  differenza  fra  un'opera  originale  e  la  sua  traduzione,  tra  Virgilio 
latino,  e  la  versione,  quantunque  classica,  del  Caro?  Tra  Omero  e  i  suoi  numerosi 
traduttori?  La  versione  non  può  riferire  la  forma,  la  precisione,  la  scultorietà  d'una 
lingua,  e  riesce  di  necessità  incolora,  indecisa,  incerta.  D'altra  parte  come  tradurre 
tutte  le  opere  greche?  E  scoprendosene  altre,  dobbiamo  rinunziare  a  sì  facile  campo 
di  gloria?  Ma  ancora:  e  i  difetti  intrinseci  del  traduttore?  Ognuno,  lo  si  sa,  ha  un 
metodo  proprio  e  segue  un  punto  di  vista  che  gli  pare  più  opportuno,  ma  data 
l'indole  diversa  delle  lingue,  volendo  esser  fedele,  sciupa  la  forma  dell'  originale, 
volendo  essere  libero  sciupa  la  fedeltà.  Chi  leggendo  Pindaro,  Aristofane,  oserà  af- 
fermare che  quegli  è  il  principe  della  lirica,  questi  della  commedia?  I  Latini  stessi 
lamentavano  già  questi  mali,  e  Quintiliano  esclamava:  "  Quam  male  latine  loquuntur 
"  Demosthenes,  Plato,  Homerus,  Xenophon,  aliique  Graeci  „.  Se  cosi  per.il  latino 
che  col  greco  ha  strettissima  relazione,  che  dovremo  dire  dell'italiano?  Ma  non  ò 
ancora  tutto  qui  :  Ogni  lingua  presenta  delle  frasi,  dei  modi  di  dire  proprii,  intradu- 
cibili, che  obbligano  il  povero  interprete  a  ricorrere  a  lunghe  e  oziose  circonlocu- 
zioni, in  cui  se  il  senso  non  è  sempre  sforzato,  è  sempre  almeno  sciupata  la  forma. 
E  chi  d'altronde  può  dire  d'aver  tanta  pratica,  e  padronanza  di  una  lingua  da  tro- 
vare sempre,  e  in  tutti  i  casi,  la  frase,  l'elocuzione,  la  parola  corrispondente  all'ori- 
ginale? E  se  è  così,  dove  se  ne  va  la  chiarezza,  la  proprietà? 

Né  questi  sono  da  stimarsi  difetti  di  poca  entità,  perchè  essi  intaccano  i  car- 
dini d'una  lingua:  il  contenuto  e  la  forma.  Che  intacchino  la  forma  lo  vedono  fino  i 
ciechi:  che  intacchino  il  contenuto  lo  sappiamo  noi,  che  vediamo  cadere  alle  volte 
dei  grandi  sforzi  d'erudizione,  dei  veri  edilìzi  di  meditazione,  fondati  sulla  cattiva 
interpretazione  d'un  passo  d'un  autore  od  anche  d'un  semplice  verso,  d'una  sola  pa- 
rola, che  vediamo  tuttodì  imbrattar  carta  per  sostenere  o  combattere  questa  o  quella 


HO  STEFANO    GRANDE  46 

lezione,  questo  o  quel  significato Occorre  quindi  conoscere  il  testo  primo,  l'origi- 
nale, e  saggiamente  operano  coloro  che  non  ammettono  a  continuare  negli  studi,  se 
non  chi  si  è  prima  impadronito  di  questa  lingua.  Del  resto  conoscere  le  lingue  è 
conoscere  il  mondo  che  fu,  è  abbracciarne  lo  spirito  e  l'estrinsecazione.  "  Mihi  pro- 
fecto  videtur  iis,  qui  plures  capiunt  linguas,  magna  quaedam  et  vasta  mens  esse, 
quum  orbem  praeteritum  quodammodo,  lapsaque  tempora  animo  complectantur,  neque 
aliter  se  gerant,  quam  si  cum  illius  oevi  doctissimis  viris  corani  loquerentur.  Et 
hinc  Ennius  tria  se  habere  corda  dicebat,  quod  loqui  sciret  Graece,  Osce,  et  Latine  ... 

Ma  il  M.  dalla  cultura  di  questi  studi  si  eleva  anche  ad  arguire  le  condizioni 
politico-sociali  di  una  nazione,  e  stabilisce  dei  veri  e  grandi  principi  etici  e  morali. 
Egli  sa  che  il  tempo  dell'  ignoranza  è  il  tempo  dell'  eresia,  e  lo  studio  delle  buone 
lettere  ed  arti  è  il  mezzo  più  potente  per  far  trionfare  la  verità  e  la  ragione. 

Pertanto  dopo  uno  sguardo  alle  infelici  condizioni  letterarie  del  sec.  XVI,  egli 
termina  la  sua  preziosa  dissertazione,  molto  adatta  ai  nostri  tempi,  e  alla  generale 
diffidenza  pel  greco,  opportunissima  poi  per  il  nostro  scopo  presente,  perchè  ci  lascia 
vedere  la  condizione  degli  studi  dell'età  muratoriana.  Ma  anche  altrove  il  M.  si  rife- 
risce allo  studio  del  greco,  sempre  ed  ovunque  insistendo  sulla  necessità  di  appren- 
dere e  di  conoscere  bene  questa  lingua,  e  là  dove  comanda  egli,  nella  sua  ideale 
Repubblica,  esige  che  essa  sia  diffusa  e  studiatissima  e  che  i  Colleghi  "  ne  predichino 
i  pregi  e  l'utilità,  confortando  i  giovani  ad  apprenderla,  e  risvegliando  per  le  Uni- 
versità e   pei  Collegj,  le  Cattedre  d'essa  „   (1). 

Ebraico.  —  Accanto  al  greco,  devono  pure  esser  coltivate  altre  lingue  antiche, 
di  importanza  non  dubbia,  e  fra  esse  prima  l'Ebraico.  Come  già  il  greco,  il  M.  si 
studiò  da  se  questa  lingua,  con  quella  fatica  che  si  può  ben  immaginare,  e  di  essa 
conservò  sempre  buonissima  opinione,  come  di  una  lingua  importantissima  per  gli 
studi  sacri.  "  L'ossequio  e  lo  studio  che  noi  dobbiamo  alle  sacre  scritture,  la  maggior 
parte  delle  quali  fu  a  noi  tramandata  dalla  lingua  Ebraica,  assai  medesimamente  ci 
dà  a  vedere  quanto  sia  il  pregio  e  la  santità  di  quella  lingua  e  quanto  giovi  la  sua 
cognizione  „  (2).  Ma  essa  è  assai  poco  studiata,  e  quantunque  abbia  dato  e  dia  tut- 
tora dei  buonissimi  frutti,  pure  se  ne  disconosce  l' importanza  e  l'utilità.  "  Molti 
uomini  di  valore  in  essa  ha  vantato  e  vanta  ancora  oggidì  l'Italia,  ma  converrebbe 
accrescere  il  numero  dei  professori  e  degli  amanti  di  essa  „  (3). 

Lingue  Orientali.  —  Ma  il  M.  non  si  ferma  qui,  e  consiglia  pure,  come  molto 
utile,  lo  studio  delle  Lingue  Orientali  in  generale:  "  Uno  dei  nostri  desiderii  si  è  pure, 
che  lo  studio  delle  altre  Lingue  fiorisca  nella  nostra  Repubblica,  e  fra  questa  rac- 
comandiamo l'Arabica,  lingua  anch'essa  di  vasta  erudizione,  e  di  cui  come  di  altre 
lingue  pellegrine,  si  sono  stabilite  in  Italia  ai  giorni  nostri  le  stampe.  Certo  è  che 
sarà  presso  di  noi  una  grande  raccomandazione  l'essere  addottrinati  in  sì  fatte  Lingue, 
ma  molto  più  l'insegnarle  e  l'illustrarle  „   (4). 

Questo  è  quanto  ci  parve  bene  di  dire  a  proposito  dello  studio  delle  Lingue 
secondo  il  M.,  ne  possiamo  più  a  lungo  fermarci  sopra,  essendo  le  cose  dette  di 
estrema  evidenza,  e  d'altra  parte  essendo  appieno  rivelato  il  pensiero  muratoriano. 


1.1)  I  Primi  Disegni  della  Repubblica   Letteraria. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Ibidem. 

(4)  Ibidem. 


47  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  111 


Eloquenza  e  Poesia. 

L'importanza  di  queste  due  arti  non  è  tanto  in  se,  quanto  nel  servizio  che  pos- 
sono rendere  agli  altri  studi  :  sotto  questo  aspetto  pertanto  occupano  il  primo  gradino 
nella  scala  degli  studi,  sotto  l'altro,  l'ultimo.  Ma  sì  l'una  che  l'altra,  sì  nell'uno  che 
nell'altro  caso,  abbisognano  di  fine  sagacia  e  di  grande  erudizione,  perchè  riescano 
bene  e  diano  buoni  frutti. 

La  potenza  dell'eloquenza  è  tale  che  il  suo  studio  si  impone,  e  al  Muratori  stesso 
che  dirigeva  tutto  il  sapere,  e  dico  di  più,  tutta  la  filosofia,  ad  uno  scopo  pratico. 
non  sfugge  questa  importanza,  opperò  stabilendo  un  piano  di  studi,  non  dubita  di 
considerarla  la  prima.  L'animo  nostro  è  tale  che  rifugge  dall'ordinario,  dal  triviale. 
e  tende  al  nuovo,  al  bello  (1);  ne  diversamente  opera  l'ingegno,  ma  si  compiace  di 
più  di  quel  buono  che  gli  vien  esibito  in  forme  vaghe,  in  maniere  ingegnose  ed 
adorne.  È  questo  un  bisogno  di  natura,  e  noi  anche  inconsciamente  cerchiamo  di 
appagarlo.  "  Desideriamo,  scrive  egli  (2),  che  la  verità,  le  notizie,  e  le  ragioni  delle 
cose  si  lascino  vedere  in  abito  non  sordido,  non  deforme,  non  troppo  rustico,  e  spia- 
cevole, ma  con  gli  ornamenti,  che  si  convengono  alla  loro  dignità  e  con  quel  decoro, 
che  in  tutte  le  cose  dee  cercarsi,  che  s'ama,  e  si  cerca  da  gli  animi  veramente  no- 
bili, e  di  gusto  perfetto  „.  Perciò  si  impone  lo  studio  dell'eloquenza  e  della  retorica, 
ma  non  della  verbosa  e  lussureggiante,  ma  della  grave  e  buona  retorica  (3),  per  cui 
distinguiamo  lo  stile  sano  dal  corrotto,  il  proprio  dall'affettato;  si  impone  lo  studio 
dell'efficace  eloquenza,  perchè  di  essa  adorniamo  le  nostre  immagini,  i  nostri  pen- 
sieri sì  bellamente  che  sforzano  e  piacciono.  "  La  vera  eloquenza,  scrive  egli  (4),  non 
consiste  in  frasche  e  sole  parole,  non  in  concetti  o  sterili  amplificazioni,  ma  sì  bene 
in  dir  cose  di  sostanza  con  bella  grazia,  e  in  far  che  l'Ingegno  e  la  Fantasia  s'ac- 
cordino in  saviamente  esporre  la  Verità,  le  Ragioni,  e  gli  Ammaestramenti  intorno 
a  chi  legge  od  ascolta  „.  Ma  noi  parleremo  ancora  in  seguito  di  stile  e  di  retorica, 
di  bellezza  e  di  perfezione,  a  proposito  dell'Educazione  Estetica,  e  là  completeremo 
questi  pochi  accenni. 

Ma  il  M.  nel  tempo  stesso  che  raccomanda  questo  studio,  esige  che  sia  guidato 
da  buon  discernimento  e  fine  sagacia  affinchè  non  degeneri  dal  suo  scopo.  "  L'Elo- 
quenza e  la  Poesia  sono  giardini,  ove  spuntano  erbe  disutili  e  maligne.  L'andarle  di 
mano  in  mano  sbarbicando  è  una  provvidenza  necessaria,  affinchè  non  crescano  di 
soverchio,  e  non  affoghino  le  speranze  migliori  dell'agricoltura  „  (5).  Ma  purtroppo 
l'eloquenza  allo  stato  attuale  è  tutt'altro  che  arte  perfetta,  molto  e  molto  resta  a 
fare,  e  molto  deve  ripromettersi  ancora  da  lei  la  nostra  Repubblica.  Il  M.  poi  non 
dimentica  nulla,  e  coll'eloquenza,  dirò,  profana,  raccomanda  lo  studio  della  sacra, 
per  la  quale  pure  dà  utili  insegnamenti  e  precetti,  e  invita  i  suoi  più  insigni  colleghi 


(1)  Vedi  indietro  pag.  39. 

(2)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  ecc.  parte  I,  pag.  216. 

(3)  Vedi  pag.  39. 

(4)  Della  Pubblica  Felicità,  pag.  170. 

(5)  /  Primi  Disegni  della   Repubblica    Letteraria. 


]12  STEFANO    GRANDE 


48 


della  Repubblica  ad  occuparsene  in  modo  degno  "  sia  col  trattarla  più  ampiamente, 
sia  col  correggerla  „. 

Venendo  alla  Poesia,  molto  e  molto  ci  sarebbe  da  dire  sulle  orme  del  M. 
Come  l'eloquenza  serve  ad  allettare  l'animo  nostro  ad  apprendere  le  cose,  così  la 
poesia  serve  a  ricrearlo.  Forse  non  tutti  saranno  disposti  ad  accettare  come  fine 
della  poesia  il  puro  diletto,  ma,  rigorosamente  parlando,  non  si  può  nemmeno  dire 
che  il  M.  sia  strettamente  di  questa  opinione,  da  quanto  appare  là  dove  parla  delle 
norme  della  perfetta  poesia.  Tuttavia  partendo  dal  lato  pratico,  bisogna  riconoscere 
ch'egli  le  riserva  l'ultimo  posto  nel  suo  piano  di  studi.  *  L'ultimo  luogo  par  che  si 
dovesse  alla  poesia,  il  cui  proprio  fine,  essendo  quello  di  dilettare,  può  perciò  farla 
restare  inferiore  a  tutte  l'altre  Arti  liberali,  nonché  alle  Scienze  „.  Ma  tosto  si  ri- 
piglia e  soggiunge:  "  E  non  è  già  poco  suo  pregio  quel  del  dilettare,  poiché  avendo 
o-li  animi  umani  bisogno  di  qualche  ricreazione,  e  sollievo,  qual  più  onesto,  nobile  e 
spiritoso  diletto  può  trarsi  che  dalla  Musica,  dalle  belle  Immagini,  dalle  bizzarre 
Invenzioni,  e  dalle  Acutezze  degl'Ingegni  poetici?  „   (1). 

Ma  altrove  il  M.  si  dimostra  più  favorevole  ancora  verso  lo  studio  della  poesia, 
ed  egli  stesso  non  disdegna  di  occuparsene  "  ex  professo  „  ;  di  scrivere  un  trattato 
di  poetica  "  Della  Perfetta  Poesia  Italiana  „,  di  raccogliere  e  commentare  le  rime  di 
un  poeta  "  Vita  e  Rime  di  Carlo  Maria  Maggi  „,  e  finalmente  in  una  celebre  lettera, 
di  considerarla  coll'eloquenza  la  prima  fra  le  arti  a  cui  dobbiamo  rivolgere  i  nostri 
studi  (2).  Ma  egli  distingue  fra  verseggiatore  e  poeta,  e  lamenta  nel  citato  trattato  (3), 
la  moltitudine  dei  primi  e  dei  maestri  dell'arte  poetica,  e  la  scarsezza  dei  veri  poeti. 
Bisogna  persuadersene  una  buona  volta:  la  poesia  è  arte  difficile  e  delicatissima,  e 
alla  sua  coltura  occorre  l'opera  continua,  solerte,  indefessa  della  nostra  volontà  non 
solo,  ma  anche  il  contributo  della  natura.  "  Senza  buon  fondo  di  sapere  e  senza  gran 
lettura,  e  massimamente  di  quegli  eccellenti  originali,  che  han  prodotto  le  lingue 
greca,  latina,  et  italiana  sarà  un  mezzo  miracolo,  che  alcuno  ottenga  la  gloria  di 
gran  poeta  „.  ...Ma  non  basta  ancora,  e  il  M.  continua:  "  E  suppongo  sempre  che  a 
sì  fatto  studio  si  porti  vivacità  d'ingegno,  e  inclinazione  naturale;  altrimenti  con 
tutto  quel  fondo  e  lettura  si  saprà  forse  dire  dei  bei  sensi  in  versi,  ma  non  si  potrà 
mai  fare  delle  poesie  leggiadre  e  perfette  „   (4). 

Così  la  pensava,  e  molto  giustamente,  il  M.  su  quest'arte  che  è  pur  tanta  parte 
della  nostra  vita,  e  dei  nostri  studi;  ma  egli  si  dilunga  assai  in  essa,  e  noi  non  pos- 
siamo seguirlo,  trattenuti  dalla  modesta  indole  del  nostro  lavoro. 

Scienze  Fisiche. 

Così  denominiamo  le  scienze  che  il  M.  comprendeva  sotto  il  nome  generico  di 
Filosofia  Naturale.  Qui  dalla  sua  mente  pratica  che  tutto  riduceva  ad  uno  scopo  reale, 
positivo  e  utile,  non  dobbiamo  aspettarci  che  una  concezione  essenzialmente  pratica 


(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  ecc.,  parte  I,  pag.   158.  Cfr.  pure  cap.  IV  della  nostra 
trattazione. 

(2)  Lettera  dell'abate  N.  N.  (leggi  L.  A.   Muratori)    arconte    della   Repubbl.  Letter.   d'Italia    al 
signor  N.  N.  Modena,  12  Agosto  1703,  Campoki,  II,  642-47.  Fa  pure  parte  dei  Primi  Disegni,  ecc. 

(3)  Della  Perfetta  Poesia  Italiana.  Venezia,  Coleti,  1730,  cap.  II. 

(4)  Lettera  al  Conte  di  Porcia 


49  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  113 

e  immediatamente  attinente  alla  vita  reale.  Nessuna  meraviglia  pertanto  se  egli  tuona 
contro  Aristotele  e  gli  Aristotelici,  contro  gli  Scolastici,  i  Metafisici,  ecc.  Tuttavia  egli 
non  eccede,  e  la  condizione  di  tali  studi  a'  suoi  tempi  scusa,  o  meglio,  spiega  le  sue 
acerbe  invettive. 

I  vecchi  Peripatetici  sono  asciutti  e  ostinati ,  i  moderni  seguaci  della  filosofia 
naturale,  audaci  e  sospetti,  noi  inoltriamoci  nella  via  di  mezzo,  senza  darci  pensiero 
che  della  verità,  e  senza  il  preconcetto  di  dover  difendere  o  seguire  una  scuola  o  un 
maestro,  sia  egli  antico,  o  sia  moderno. 

Con  questi  ottimi  pensieri  egli  entra  nell'arringo,  propugnando  con  sommo  vigore 
il  metodo  essenzialmente  pratico,  sperimentale  di  questi  studi.  Tutta  la  Filosofia 
naturale  pertanto  egli  aggira  sopra  due  cardini,  l'esperienza  e  il  raziocinio,  alla  cui 
luce,  egli  osserva,  devono  cadere  le  sofistiche  ed  astruse  teorie  di  cervelli  vaganti 
fra  le  tenebre  d'una  incompresa  filosofia.  Ma  egli  sopratutto  ha  di  mira  la  Sofistica 
alla  quale  propone  la  più  spietata  guerra.  Ma  ci  resta  ben  altro  e  "  ancora  bramiamo 
che  alla  Logica,  e  alla  Metafisica  si  taglino  molte  penne,  acciocché  non  facciano  inutile 
pompa  di  sé  stesse,  vagando  qua  e  là  senza  verun  profitto,  ma  fedelmente  e  con 
pronta  ubbidienza  accompagnino  la  Mente  nostra  allo  scoprimento  della  Verità  „  (1). 

Cosi  alle  sottigliezze  metafisiche,  alle  astruse  sofisticherie  sottentra  una  scienza 
più  pratica  e  più  corrispondente  ai  bisogni  della  vita  e  della  realtà.  Ecco  le  sue 
parole:  "  L'attenta  osservazione  degli  effetti  e  delle  cagioni  delle  cose,  i  Cimenti,  o 
vogliamo  dire  gli  Esperimenti  nuovi,  il  ritrovar  nuove  Macchine,  e  mezzi  per  giun- 
gere più  da  vicino  a  conoscere  la  fabbrica,  le  virtù,  l'origine,  gli  artifizj  occulti,  la 
lega,  o  inimicizia,  ed  altre  infinite  qualità  di  tanti  e  si  varj  corpi  della  natura,  for- 
manti il  Mondo  terreno,  e  celeste,  moventisi,  o  privi  di  moto;  sono  questi  studj  che 
noi  vorremmo  principalmente  coltivati  dai  nostri  Filosofi,  e  che  possono  aiutati  dal 
raziocinio  porgere  gran  soccorso  alla  storia  della  Natura.  Qui  dunque  si  debbono 
esercitare  le  nostre  forze,  qui  procurar  di  far  cammino,  perciocché  le  sole  specula- 
zioni dell'Ingegno  non  sono  sempre  bastevoli  cannocchiali  per  raggiungere  la  verità 
delle  cose  fisiche  „  (2). 

Cosi  si  esprime  il  M.  nel  campo  della  Fisica.  Esacerbato  dall'infelice  condizione 
in  cui  si  eran  ridotti  questi  studi,  non  vuole  più  la  fisica  speculativa,  ma  la  speri- 
mentale, la  pratica,  affinchè  le  menti  di  tanti,  che  spaziano  in  nebulose  ed  insipide 
argomentazioni,  siano  attratte  in  un  campo  più  sodo  e  positivo.  Ed  egli  stesso  ci 
spiana  la  via  e  ce  ne  dà  un  forte  esempio,  giacché  il  M.  si  occupò  sempre,  quan- 
tunque non  "  ex  professo  „,  di  questi  studi,  ed  anzi  appena  ventenne,  componeva  una 
brillante  ed  eruditissima  dissertazione  sul  barometro,  sostenendo  l'abbassamento  della 
colonna  mercuriale  per  effetto  della  tensione  dei  vapori  acquei,  ed  ottantenne  ancora 
scriveva  un'importantissima  e  davvero  fatidica  lettera  sull'elettricità  (3). 

Medicina.  —  Dopo  la  fisica  in  generale,  vediamo  la  Medicina,  a  proposito  della 


(1)  /  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Vedi  Opinioni  e  Scritti  di  L.  A.  Muratori  intorno  a  cose  fisiche,  mediche  e  naturali,  per  opera 
del  Cav.  Prof.  L.  Salimbesi,  in  "  Memorie  della  R.  Accad.  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  in  Modena  „, 
tomo  XIII,  parte  II,  1873.  Cfr.  anche  alcune  sue  lettere,  tra  cui,  a  proposito  di  applicazioni  baro- 
metriche, quella  a  G.  G.  Leibniz.  Campoki,  IV,  pag.  1293-94. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  15 


1  1  |  STEFANO    GRANDE  50 

quale  il  M.  preme  assai  la  mano.  Questa  scienza,  è  giusto  ricordarlo,  ha  ultimamente 
ampliato  le  sue  cognizioni,  riformati  molti  abusi,  ma  pur  dista  sempre  immensamente 
non  solo  dalla  perfezione,  ma  dalla  stessa  mediocrità.  Ben  sa  il  M.  che  alla  più  parte 
dei  suoi  inconvenienti  non  si  può  riparare,  perchè  di  natura  irrimediabili,  ma  sa  pure 
che  si  può  umanamente  pretendere  molto  di  più,  e  che  si  deve  ottenere,  essendo  questo 
uno  studio  molto  utile,  e  di  utilità  non  già  individuale,  ma  sociale.  "  Ma  intanto  i 
mali  non  scemano,  dice  egli  (1),  ne  gli  infermi  sono  più  facilmente  curati  di  prima. 
Troppo  è  frale  la  natura,  e  ha  da  signoreggiare  nel  Mondo  questa  gran  torma  di  mali 
che  vi  intromise  il  primo  Padre,  e  che  noi  vi  conserviamo  a  gara  coll'intemperanza 
dei  Corpi  e  dell'Anime  „. 

Questa  pertanto,  secondo  lui,  la  grande  cagione  dei  mali,  la  nostra  intempe- 
ranza ;  ne  è  poi  tutto  torto  degli  studiosi,  se  questa  scienza  poco  procede,  e  quan- 
tunque sia  così  faconda,  magniloquente  e  dotta  sui  libri  e  sulle  cattedre,  riesca  in 
pratica  così  poco  efficace.  Ma  prescindendo  da  particolari  osservazioni,  il  M.  era  troppo 
dotto  per  essere  ciecamente  ligio  a  questi  studi,  nei  quali  riconosce  un  progresso, 
ben  caratteristico  davvero!  sui  tempi  passati,  il  progresso  "  non  leggiero  di  far  sì 
che  la  medicina  se  non  può  molto  giovarci,  non  ci  possa  neppure  molto  nuocere  „  (2). 

È  un  po'  poco  pei  seguaci  di  Esculapio,  ma  pure  il  M.  la  pensava  proprio  così E 

questa  non  è  opinione  d'uomo  profano,  perchè  il  M.  si  intendeva  pur  parecchio  di 
medicina,  e  ad  essa  attese  assai  utilmente,  come  ci  provano  le  sue  numerose  opere 
mediche,  che  riscossero  le  lodi  e  l'ammirazione  generale  dei  dotti.  E  a  tal  proposito 
ricordiamo  il  suo  trattato  Del  governo  della  peste,  la  dissertazione  De  potu  vini  calidi, 
l'opera  citata  II  Cristianesimo  Felice  nelle  Missioni  de'  Padri  della  Compagnia  di  Gesù 
nel  Paraguay,  propriamente  argomento  di  scienza  naturale,  la  Biografia  del  medico 
Torti,  diversi  capitoli  del  trattato  Della  Pubblica  Felicità,  parte  del  trattato  Delle 
Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  alcuni  capitoli  della  sua  Filosofia  Morale,  e  finalmente 
moltissime  lettere  ai  più  insigni  medici  contemporanei,  a  B.  Ramezzini,  ad  A.  Yal- 
lisnieri,  professori  dell'Università  di  Padova,  a  F.  Torti,  A.  Pacchioni,  D.  Sancassani, 
F.  Bertini,  ecc.  ecc.,  dei  quali  tutti  godeva  la  massima  stima. 

Ma  non  deve  stupire  l'opinione  del  M.  così  pessimista  riguardo  alle  scienze  me- 
diche, perchè  egli  aggraverà  ancora  la  mano,  tanto  da  scrivere  che  può  valere  tanto, 
e  spesso  meglio  che  un  medico,  la  vecchierellà  del  paese  che  scongiura  colle  sue 
magiche  medicine  tutti  i  malanni  umani  (3).  Ma  quello  che  può  stupire  si  è  che  l'esempio 
del  M.  non  è  unico,  è  molti  altri  filosofi  e  pedagogisti,  intendentissimi  di  medicina, 
dimostrarono  lo  stesso  e  maggiore  disprezzo  ancora,  per  quest'arte.  G.  Locke,  ad 
esempio,  suggerisce  egli  i  piccoli  ed  efficaci  rimedi  pei  fanciulli,  e  non  vuole  che  si 
ricorra  al  medico,  ma  si  lasci  agir  spontanea  la  natura.  G.  G.  Rousseau  va  più  avanti, 
e  scrive  (4)  che  la  medicina  "  è  arte  più  perniciosa  agli  uomini  di  tutti  i  mali  che  pre- 
tende di  guarire,  e  funesta  al  genere  umano  „. 

Riguardo  poi  al  M.  bisogna  confessare  che  peggio  de'  medici  ancora  tratta  un'altra 


(1)  /  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Vedi  Della  Pubblica  Felicità,  oap.  XI. 

(4)  Rousseau,  Emilio,  I. 


51  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  115 

specie  di  eruditi,  i  Grammatici,  ma  dopo  questi  chi  hanno,  per  lui,  spacciato  al  mondo 
più  frottole  sono  senza  dubbio  i  medici  (1). 

Matematiche.  —  Ben  diversamente  egli  la  pensa  a  proposito  delle  Matematiche. 
Questo  è  un  campo  vastissimo  e  fecondo  di  bei  trovati,  di  paesi  nuovi,  di  ricchezze 
non  prima  osservate,  e  il  progresso  che  tali  scienze  fecero  ai  nostri  tempi,  è  dav- 
vero meraviglioso.  Ma  anche  qui  il  M.  non  pensa  alla  matematica  puramente  specula- 
tiva, ma  bensì  alla  applicata,  alla  pratica.  "  A  noi  piacerà  maggiormente  chi  facendo 
servire  le  Matematiche  alla  Filosofia,  alla  Medicina,  e  ad  altri  argomenti,  coll'aiuto 
di  esse  penetrerà  in  miniere  finora  incognite  „  (2).  E  acutamente  parla  dell'applica- 
zione loro,  non  solo  alle  scienze  citate,  ma  alla  Meccanica,  alla  Geometria,  alla  Nau- 
tica, all'Ottica,  all'Architettura,  alla  Musica,  ecc.,  citando  i  grandi  vantaggi  e  com- 
modi che  ne  possono  derivare. 

Ma  il  M.  vede  nello  studio  delle  matematiche  un  altro  vantaggio,  quello  cioè  di 
sviluppare  l'intelletto  e  la  penetrazione  giovanile,  e  di  riuscire  di  mirabile  ginnastica 
intellettuale.  Ma  anche  qui  non  bisogna  smodare,  ed  egli  stesso  disapprova  le  ecces- 
sive lodi  di  Cartesio  e  dei  Cartesiani  (3). 

Anche  G.  B.  Vico  partecipa  di  queste  idee.  Egli  in  una  lezione  universitaria,  ripro- 
dotta nella  sua  Autobiografia,  e  in  appendice  al  De  antiquìssima  Italorum  sapientia, 
dichiara  che  s'addice  bene  alle  menti  giovanili  la  Geometria,  ma  moderata,  la  quale 
sviluppa  l'intelligenza,  la  dispone  ad  intendere  le  cose  astratte,  formando  così  la 
logica  della  loro  età  ;  ma  pure  apertamente  biasima  Cartesio  e  i  Cartesiani  che  rim- 
pinzano la  mente  dei  giovani  di  magnifici  vocaboli  di  evidenza,  di  dimostrazione,  di 
assiomi  "  come  se  dovessero  uscire  nel  mondo  degli  uomini,  il  quale  fossesi  com- 
posto di  linee,  di  numeri,  di  specie  algebriche  „. 

Così  è  infatti:  lo  studio  della  matematica,  nei  suoi  giusti  limiti,  ha  certo  un'im- 
portanza pedagogica,  la  quale  da  taluni  è  perfin  creduta  superiore  ad  ogni  altra 
disciplina,  in  base  a  quali  seri  e  provati  argomenti  non  sappiamo,  dimenticando  che 
in  ogni  caso  si  deve  pure  pensare  che  la  nostra  vita  è  formata  di  realtà  ben  più 
vive  e  concrete  delle  cifre  e  dei  numeri  ;  che  essa  non  è  dominata  dalla  rigidità  ed 
inflessibilità  delle  matematiche,  e  che  queste  infine  non  sviluppano  ne  punto,  né  poco 
il  senso  pratico  e  l'esperienza.  Anche  Platone,  Quintiliano  ed  altri  molti  nell'antichità 
ne  sostennero  l'efficacia,  ma  est  modus  iti  rebus,  e  il  considerarle  come  il  più  efficace 
esercizio  del  pensiero,  e  la  ginnastica  intellettuale  più  potente,  è  tirarci  addosso  gli 
strali  di  insigni  pensatori,  Bénard,  Hamilton,  Girard,  Pascal,  Berkeley,  Gravesande, 
D'Alembert,  Ledere,  Basedow,  Weiller,  ecc.  ecc. 

Geografìa.  —  Dei  vantaggi  delle  matematiche  partecipano  pure  la  Geografia, 
l'Astronomia,  ecc.  per  le  loro  reciproche  relazioni.  Il  M.  è  ben  favorevole  a  questi 
studi,  di  cui  conosce  tutta  l'utilità,  e  nel  tempo  stesso  tutta  l'imperfezione  del  mo- 
mento, e  caldamente  invita  i  futuri  socii  della  sua  Repubblica  ad  occuparsene  seria- 
mente, perchè  esse  tuttodì  ci  rivelano  fatti  nuovi,  principi,  computi,  determinazioni 
non  prima  affermate,  e  continuamente  allargano  l'orbita  del  loro  campo  e  delle  loro 


(1)  Della  Pubblica  Felicità,  cap.  XI. 

(2)  I  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 

(3)  Ibidem. 


116  STEFANO    GRANDE  52 

utili  investigazioni.  Che  il  M.  pur  si  mantenesse  al  corrente  di  questi  studi  ne  abbiamo 
ampie  prove,  e  noi  lo  vediamo  in  parecchie  lettere  rivolgersi  agli  amici,  ai  dotti  in 

materia,  per  avere  informazioni  di  pubblicazioni,  di  scritti,  di  carte,  di  atlanti (1). 

Anzi  egli  va  più  in  là,  fino  a  suggerirci  gli  argomenti  più  bisognosi  delle  cure  e  delle 
investigazioni  nostre,  augurandosi  studi  su  una  più  regolata  e  precisa  determinazione 
della  longitudine  e  latitudine,  sull'  ubicazione  delle  città,  sulla  cartografia,  ecc.  ecc. 
Parlato  così  di  queste  discipline,  veniamo  a  quella  che  in  modo  speciale  stava 
a  cuore  al  M.,  alla  Filosofia. 

Filosofia. 

Dopo  quanto  siamo  venuti  fin  qui  esponendo,  e  particolarmente  nel  Cap.  IV, 
appare  chiaro  quale  dovette  essere  il  pensiero  del  M.  sulla  filosofia.  Ogni  scienza  è 
importante,  ogni  scienza  è  buona  per  sé,  ma  su  ogni  altra  importante  e  buona  è  la 
filosofia.  Quelle  sono  scienze,  questa  è  sapienza  :  a  questa  pertanto  devono  essere  indi- 
rizzati i  nostri  sforzi,  a  questa  che  è  di  utilità  prima,  immediata,  infallibile;  a  questa 
che  formò  già  uno  dei  pregi  principali  degli  antichi  popoli  ;  a  questa  infine  che  è  la 
fonte  più  copiosa  di  etica  saggezza,  e  la  maestra  prima  della  vita  e  della  virtù.  Sono 
questi  pensieri  comuni  a  tutti  i  grandi  pensatori  dei  secoli,  ma  nel  caso  presente,  ad 
un  sommo  italiano  più  volte  citato,  a  G.  B.  Vico,  ed  anche,  e  principalmente,  a  Michele 
de  Montaigne,  che  certo  non  fu  ignoto  al  Muratori  (2). 

Intorno  a  questi  pensieri  s'aggira  tutta  la  sua  vita  pratica  e  scientifica,  e  al 
loro  svolgimento  consacra  lettere,  dissertazioni,  opuscoli,  libri,  trattati,  dimostran- 
dosi ovunque  amatore  indefesso  della  prima  utilità  dell'uomo,  della  vera  sapienza,  e 
sopratutto  acuto  e  profondo  indagatore  di  principi  etici  e  morali.  Ma  dopo  tanti 
sforzi,  egli  pure  s'accorge  che  a  questa  vera  scienza  poco  si  bada,  ed  è  forza  confes- 
sare che,  purtroppo,  il  suo  non  è  più  che  un  nome  vano. 

Ma  scendiamo  ai  particolari.  Qua!  sia  il  concetto  generico  della  filosofia  già  lo 
sappiamo  e  lo  sapremo  meglio  (3)  ;  in  larga  sintesi,  essa  ci  rivela  i  primi  principi,  le 
massime,  le  cagioni,  le  ragioni,  le  relazioni  delle  cose,  le  applica  seguendo  le  idee 
della  mente,  mirando  non  ad  arricchir  la  memoria,  ma  a  regolar  l'intelletto;  essa 
è  perciò  scienza  pratica  perchè  prende  le  mosse  dai  fatti  e  si  eleva  ai  principi  delle 
cose;  è  scienza  sovr'ogni  altra  stimabile  perchè  mira  all'intelletto,  sede  della  ragione, 
non  alla  semplice  memoria,  sede  dell'erudizione.  Nel  suo  ampio  circuito  abbraccia 
particolarmente  la  logica,  la  metafisica,  la  morale,  ma  entra  in  tutte  le  scienze  "  e  loro 


(1)  Cfr.  Lett.  ad  Ant.  Magliabechi,  Campoei,  II,  547  ed  altra  a  Giambattista  Bianconi,  1727.  Archiviti 
Muratoriano,  pag.  356  ecc.  ecc.  Prova  degli  studi  geografici  del  M.,  oltre  che  dalle  sue  opere  sto- 
riche, ci  è  pure  data  dalla  sua  corrispondenza  coll'illustre  bibliotecario  di  Oxford,  Giovanni  Hudson, 
il  quale  anzi  gli  dedicava  il  tomo  III  dei  suoi  Geografi  Minori  Greci.  Campoki,  IV,  pag.  1581-82  ecc. 

(2)  M.  uè  Montaigne,  Essais,  cap.  XXV,  pag.  84-85  :  "  Entre  les  artes  liberaux  commenceone  par 
l'art  qui  nous  faict  libres:  elle  servent  toutes  voirement  en  quelque  maniere  à  l'instruction  de 
nostre  vie,  et  à  son  usage,  comme  toutes  aultres  choses  y  servent  en  quelque  maniere  aussi;  mais 
choissisons  celle  qui  y  sert  diréctement  et  prof'essoirement...  Si  nous  s9avions  restreindre  les  appar- 
tenances  de  nostre  vie  à  leurs  iustes  et  naturels  limites,  nous  trouverions  que  la  meilleure  part  dea 
sciences  qui  sont  en  usage  est  hors  de  notre  usage:  et  en  celles  mesmes  qui  le  sont,  qu'il  y  a  des 
estendues  et  enfonceures  que  nous  ferions  mieuls  de  laisser  là,  et  suivant  l'institution  de  Socrates, 
borner  le  cours  de  nostre  estude  en  icelles  où  fault  l'utilité  „. 

(3)  Vedi  avanti  pag.  57-58. 


53  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  117 

contribuisce  il  nerbo  migliore  e  l'interno  buon  sugo,  siccome  la  Rcttorica  suole  con- 
tribuir loro  l'esterna  vaghezza  „  (1).  Senza  di  esse  le  materie  si  trattano  superficial- 
mente, i  libri  riescono  incerti,  imperfetti,  vuoti,  perchè  solo  chi  sa  ben  filosofare  sa 
ben  maneggiare  le  scienze.  È  un  precetto  che  dovrebbe  scriversi  a  caratteri  cubi- 
tali sulle  pareti  delle  scuole. 

Riguardo  alla  Logica  il  M.  scrive:  "  Tale  e  tanta  è,  non  dirò  l'utilità,  ma  la 
necessità,  che  chi  non  è  ben  fondato  in  questa  non  può  mai  ripromettersi  di  discor- 
rere con  lode  in  qualsivoglia  alta  o  bassa  materia,  sia  scienza,  sia  arte  „ (2).  Ma 

della  Logica  il  M.  ha  un  concetto  particolare,  elevatissimo;  egli  l'incorpora  colla  cri- 
tica, essendo  identico,  o  quasi,  il  fine  loro  di  cercare  l'ordine,  la  precisione,  la  per- 
fezione nelle  scienze.  Ma  di  essa  parleremo  a  proposito  dell'arte  critica. 

Per  la  Metafisica  il  M.  è  tutt&ltro  che  tenero  :  ammette  che  sia,  almeno  in  ori- 
gine, scienza  utilissima,  ma  ora,  per  l'abuso  che  ne  fu  fatto,  non  è  più  scienza  consi- 
gliabile. "  Quattro  mesi  bastano  per  insegnarla,  qualora  i  maestri  non  si  perdano  in 
frasche  „  (3).  Purtroppo  di  questa  infelice  condizione  partecipa  pure  la  Fisica,  ma 
non  la  particolare,  pratica,  scienza  importantissima  e  di  grandissime  speranze,  ma  la 
generale,  speculativa,  nella  quale  "  non  si  veggono  se  non  battaglie,  senza  mai  sa- 
pere, chi  abbia  vittoria  „  (4).  Dominarono  già  padroni,  osserva  egli,  Platone  e  Ari- 
stotele, detroneggiati  dai  Gassendisti  e  Cartesiani,  battuti  alla  lor  volta  dai  Newto- 
niani, Leibnitziani,  Wolfiani che  stanno  aspettando  egual  fortuna. 

È  il  regno  dell'oscurità  e  dell'incertezza,  e  il  M.,  niente  pratica  e  positiva  per 
eccellenza,  ne  rifugge  naturalmente.  Ma  per  queste  scienze  in  particolare  vedi  il  Cap.  VI. 
E  veniamo  alla  Morale.  "  Oh  !  qui  sì  che  ci  vuole  Iddio,  e  ci  chiama  tutti,  tanto 
Idioti  che  Letterati;  e  qui  fa  d'uopo  che  ognuno  studj  „  (5).  Il  fine  di  essa  è  di  inse- 
gnare ad  essere  saggi,  cioè  sapienti,  ed  essa  formò  già  il  pensiero  primo  dei  più 
grandi  ingegni  dell'antichità.  "  A  questa  infatti  più  che  ad  altro  badavano,  ed  in 
questa  incanutivano  gli  antichi  Filosofi,  tali  non  già  chiamati  unicamente  per  lo 
studio  della  Logica,  Fisica  e  Metafisica,  né  per  l'Astronomia  e  Matematica,  né  per 
l'Eloquenza,  né  per  altri  studj  scientifici;  ma  sì  bene  per  questa  Filosofia  „  (6). 
E  l' anima  candida  del  M.  sviscera  tutta  la  sua  affettuosa,  cordiale ,  persuasiva 
eloquenza  a  favore  di  questo  studio  che  dovrebbe  star  a  capo  dei  pensieri  di  tutti, 
che  dovrebbe  informare  tutte  le  scienze,  che  dovrebbe  dominare  vivissimo  nelle 
scuole,  nei  libri,  nella  vita.  "  Gran  vergogna  de'  nostri  tempi,  per  altro  sì  studiosi, 
e  liberati  dalla  ruggine  de'  Secoli  barbari  —  scrive  egli  con  toccante  affetto  —  che 
oggidì  si  occupi  in  tanti  studj  o  di  Lingue,  o  di  Belle  Lettere,  o  di  Fisica,  o  di  Metafisica, 
o  di  Giurisprudenza,  o  di  Matematiche  l'età  fiorita  de'  Giovani;  e  che  questi  poi  ter- 
minino il  corso  delle  Scuole,  senza  avere  né  pure  appreso,  che  e'  è  al  mondo  una 
Scienza,  appellata  Filosofia  Morale.  Questa,  questa  più  d'ogni  altra  è  quella,  che  ha 
da  insegnarsi,  e  impararsi.  Questa  spezialmente,  e  non  altra,   questa  è,   che  giusta- 


(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  cap.  I,  pag.  59. 

(2)  Della  Pubblica  Felicità,  ecc.,  cap.  XIII,  pag.  151. 

(3)  Idem,  cap.  XIII,  pag.  155. 

(4)  Idem,  pag.  156. 

(5)  Filosofia  Morale,  cap.  I,  pag.  13. 

(6)  Idem,  pag.  14. 


118  STEFANO    GRANDE  54 

mente  da  Tullio  viene  appellata  Medicina  degli  Animi.  Possono  altri  studj  giovare; 
ma  senza  d'essi  può  anche  passarsela  l'Uomo.  Non  dovrebbe  già  veruno  all'incontro 
compiere  la  carriera  delle  Scuole,  senza    aver    procurato  a   sé  stesso  l'ornamento  e 

sussidio  di  quella  Scienza,  che  insegna  a  ben  regolare  la  Vita  Morale  dell'Uomo 

Mi  si  perdoni,  se  ritocco  un  tasto  già  toccato  altrove  (in  realtà  molto  sovente)  :  per- 
ciocché il  bisogno  richiede,  che  si  scuota  in  questo  la  sonnolenza  de'  nostri  tempi  „  (1). 
Così  altrove^  ritornando  sull'argomento,  fa  pubbliche,  sentite  lodi  al  re  di  Sardegna, 
Carlo  Emanuele  III,  ancor  in  vita,  per  aver  istituito  nell'Università  di  Torino  la 
cattedra  di  Filosofia  Morale  (2). 

Anche  il  Montaigne  riconosce  la  necessità  di  studiar,  prima  d'ogni  altra  scienza, 
la  Morale,  e  perchè  ci  deve  anzitutto  star  a  cuore  di  esser  saggi  e  onesti,  e  perchè 
essa  facilita  mirabilmente  lo  studio  di  tutte  le  altee  scienze,  che  su  di  essa  debbono 
poggiare  (3). 

Posto  non  inferiore  occupa  l'insegnamento  della  Morale  nei  disegni  scolastici  e 
pedagogici  di  altri  insigni  pensatori,  in  Locke,  ad  esempio,  in  G.  G.  Rousseau  stesso, 
che,  come  sappiamo,  si  mostrava  invece  così  rigoroso  verso  la  Storia  e  la  Grammatica. 

Un  ramo  di  questa  sì  importante  scienza  si  può  ricondurre  alla  Pedagogia,  che 
colla  Teologia  forma  una  delle  sue  più  dirette  emanazioni  (4). 

La  Teologia,  scienza  importantissima  nella  concezione  filosofica  e  morale  del  M., 
è  ridotta,  lamenta  egli,  dai  vigenti  sistemi  di  studio  in  uno  stato  lacrimevole.  Essa, 
si  può  dire,  è  tanto  importante  quanto  mal  trattata,  una  selva  di  inutili  questioni, 
di  barbari  sermoni,  di  strane  ed  intemperanti  opinioni,  un  infarcimento  di  filosofia 
profana,  una  continua  e  spinosa  metafisica  ne  ha  invaso  e  sterilizzato  il  campo.  E 
sentita  la  necessità  di  una  riforma  che  tagli  tante  frasche  e  filastrocche,  appiccatele 
da  barbari  commentatori,  che  regga  e  guidi  la  nostra  mente  nei  giusti  limiti,  nelle 
sane  opinioni,  negli  utili  argomenti.  Il  M.  si  fa  apostolo  appunto  di  quest'opera  di 
riforma,  e  alla  Teologia  considerata  nella  sua  divisione  di  Dogmatica,  Scolastica, 
Polemica,  e  Morale,  cerca  di  provvedere  con  uno  studio  più  sodo  e  di  maggior  attua- 
lità della  Dogmatica  e  della  Polemica,  fondendo  in  esse  lo  studio  delle  altre  due, 
fattosi  campo  di  triboli  e  di  spine. 

Questo  il  pensiero  muratoriano  nel  campo  della  Filosofia,  della  Morale,  e  della 
Teologia:  queste  le  linee  generali  della  riforma,  le  quali  noi  cercammo  brevemente 
chiarire,  per  quanto  ci  permetteva  la  ristrettezza  del  nostro  argomento. 

E  qui  sarebbe  il  luogo  di  vedere  dell'ortodossia  del  M.  accusato  di  giansenismo, 
e  di  non  so  quale  illecita  relazione  coi  dotti  protestanti  della  Germania,  se  quanto 
si  disse,  si  scrisse,  si  stampò  su  di  lui,  sacerdote,  proposto  della  Pomposa,  filosofo, 
teologo,  non  fosse  noto  a  tutti,  e  notissimo  che  da  ogni  accusa  riuscì  vittorioso  e 
più  illustre.  Le  sue  contraddizioni  infatti,  i  suoi  sogni,  i  suoi  principi  giansenistici, 
le  sue  idee  libere  ed  antiromane,  non  sono  che  illusioni  di  nemici,  e  per  convincer- 
sene   basta   pensare    alla   difesa   che   di  lui   fece  Cristoforo  Migazzi,  arcivescovo  di 


(1)  Filosofiti  Moro/,-,  cap.  I,  pag.  96-97. 

(2)  Della  Pubblica  Felicità,  ecc..  cap.  Vili. 

(3)  Montaigne,  Essate,  cap.  XXV,  pag.  85. 

(4)  /  Primi  Disegni,  ecc. 


55  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  119 

Vienna,  e  lo  stesso  pontefice  Benedetto  XIV  (1).  Egli  è  riformatore,  innovatore  pur 
anco,  ristucco  delle  rancide  opinioni,  delle  spinose  metafisicherie  che  invadevano  e 
tiranneggiavano  gli  studi,  specie  filosofici  e  morali  dei  suoi  tempi,  ma  egli  è  pur 
sempre  cattolico,  apostolico,  romano  (2). 

Lo   studio   delle  Leggi. 

Il  M.  è  poco  favorevole  allo  studio  della  Giurisprudenza,  pur  riconoscendone 
tutta  l'importanza.  È  questa  una  scienza  utile,  ed  anche  necessaria,  osserva  egli,  e 
che  durerà  quanto  l'uomo,  ma  essa  più  d'ogni  altra  ha  bisogno  di  essere  emendata, 
migliorata,  riformata.  L'infelice  condizione  di  questi  studi,  l'infelice  loro  applicazione 
ai  casi  pratici,  avevano  già  suscitato  lo  sdegno  del  M.  fin  da  quando,  giovanetto,  per 
assecondare  il  desiderio  del  padre,  si  era  dato  per  qualche  tempo  alle  leggi. 

Tuttavia  nella  sua  vita  il  M.  non  trascurò  mai  del  tutto  questi  studi,  ed  intorno  ad 
essi  scrisse  un  trattato  Dei  Difetti  della  Giurisprudenza  ecc.,  e  non  già  per  disprezzo 
di  essa,  ina  per  promuoverne  la  riforma.  È  vero  che  il  M.  vede  quivi  un'infinità  di 
difetti,  di  abusi,  di  mali,  e  a  stento  si  adatta  ad  accettarne  i  rappresentanti  nella 
sua  Repubblica,  ma  tale  condizione  non  è  per  anco  disperata.  Pertanto  egli  scrive 
"  che  sarebbe  molto  grata  la  Repubblica  Letteraria,  e  più  la  Repubblica  civile,  a 
quei  valentuomini  i  quali  tentassero  la  purgazione  di  tanti  abusi,  di  tante  sentenze 
comuni  fra  loro  contrarie,  di  tanti  autori,  che  vagliono  più  ad  avviluppare  che  a 
decidere  le  questioni,  e  insomma  di  tutti  quegli  ostacoli  che  rendono  eterne  le  liti 
e  infiniti  i  processi  „  (3). 

Dei  difetti  della  Giurisprudenza,  secondo  il  suo  trattato,  altri  sono  intrinseci 
alla  materia,  altri  esterni.  Fra  i  primi  ricordiamo:  a)  la  mancanza  di  chiarezza  nelle 
leggi,  per  cui  non  si  vede  netta  la  mente  del  legislatore,  ed  è  necessità  sofisticare 
su  ogni  sillaba,  su  ogni  punto,  su  ogni  virgola;  b)  l'insufficienza  delle  leggi,  non 
potendo  esse  provvedere  a  tutti  i  casi  della  vita,  che  sono  infiniti;  e)  la  difficoltà 
di  interpretare  la  mente  degli  uomini,  per  esempio  nei  contratti,  testamenti,  costi- 
tuzioni di  società,  matrimoni,  dotazioni,  ecc.,  sicché  si  può  veramente  dire  che  il 
notaio  lavora  per  l'avvocato. 

Fra  i  difetti  esterni,  che  sono  numerosissimi,  citiamo  le  debolezze,  i  capricci,  e 
spesso  l'ignoranza  dei  giudici,  i  difetti  di  varia  natura  degli  avvocati,  la  voluta  vizio- 
sità delle  cause,  le  ingerenze  esterne,  le  prerogative  dei  governanti,  ecc.  ecc. 

Ma  il  M.  non  è  uomo  da  lasciarsi  spaventare  da  questo  ammasso  di  difficoltà,  e 
se  non  è  possibile  riparare  ai  difetti  di  natura,  suggerisce  di  rimediare  almeno  ai 
formali.  Si  potrebbe  pertanto  a  ciò  provvedere: 

1°  Col  ridurre  in  un  corpo  solo  tutte  le  sentenze  più  fondate,  sparse  nelle  dif- 
fusissime opere  legali,  le  quali,  quantunque  non  siano  ancora  state  decise  chiara- 
mente dalle  leggi,  sono  però  state  approvate  dal  consenso  dei  più  saggi  legisti,  o 
de'  tribunali  più  famosi. 


(1)  Vedi  Archivio  Muratoriano  :  Scritti  inediti,  ecc.,  pag.  126-30. 

(2,i  Per  l'avversione  del  M.  ai  principii  giansenisti  e  protestanti  vedi  sua  corrispondenza  con 
Celso  Cerri.  Campobi,  IV,  pag.  1459-61  ;  1464  ecc.,  e  sopratutto  la  sua  lettera  a  Paolo  Segneri.  Idem, 
pag.  1471-80. 

(3)  I  Primi  Disegni  della  Repubblica  Letteraria. 


120  STEFANO    GRANDE  56 

J    Coll'insegnare  il  modo  di  applicare  le  sentenze  generali  ai  casi  particolari. 
3°  Col  dimostrare  quanto  si  scosti  l'uso  presente  del  foro  dalle  leggi,  e  dagli 
statuti  composti  per  sbrigar  con  prontezza  le  liti. 

4°  Col  proporre  quei  disinteressati  espedienti  che  ogni  persona  di  senno  crede 
atti  a  liberare  questa  scienza  dalla  sofistica  e  dagli  abusi  da  cui  è  contaminata. 

Questi  i  rimedi  principali  proposti  nei  suoi  Primi  Disegni,  ma  altri  molti  suggerisce 
ancora  nel  suo  trattato  sulla  Giurisprudenza,  e  qua  e  là  nelle  lettere;  ma  purtroppo 
noi  dobbiamo  riconoscere  che  in  gran  parte  sono  essi  ancora  oggi  pii  desiderii,  alla 
effettuazione  dei  quali,  molto  e  molto  volentieri  ci  sottoscriveremmo  ancor  noi  moderni. 

Ma  nella  giurisprudenza  non  si  deve  veder  tutto  difetto ,  e  il  lato  bello  non 
manca,  e  lato  molto  persuasivo  e  solleticante,  il  lucro  e  una  più  appariscente  carriera. 
Siamo  sinceri,  è  così,  "  e  se  tanti  volsero  confessarla  senza  corda,  direbbono  che, 
quando  pure  vi  truovano  gusto,  non  vien  già  questo  dall'essere  saporite  od  amene 
quelle  scienze,  ma  bensì  dal  guadagno,  che  si  spera  un  giorno  o  attualmente  si  ricava 
dalla  professione  di  quelle  „   (1). 

A  tale  è  ridotto  lo  studio  delle  leggi,  o  almeno  così  rigidamente  è  descritto 
dal  M.,  che  di  natura  ne  rifugge  una  mente  libera,  e  un  intelletto  generoso.  "  Cer- 
tamente un  intelletto  libero,  cioè  non  legato  da  comando  di  superiori,  e  un  intelletto 
generoso,  che  voglia  fare  sua  comparsa  nel  mondo,  difficilmente  troverà  sua  delizia 
in  sacrificarsi  tutto  alla  Morale  o  alle  Leggi  „  (2). 

Ma  egli  rincara  ancora  la  dose,  ed  apertamente  asserisce  che  questo  studio  "  è 
più  tosto  fatica,  per  così  dire  di  schiena,  che  industria  di  ingegno  „  (3)  e  cerca  pro- 
vare la  sua  asserzione  coli' esempio  dei  più  grandi  ingegni,  Petrarca,  Ariosto, 
Tasso,  ecc.  ecc.  che  si  ribellarono  sempre  a  esso. 

Questa  così  poco  confortante  descrizione  della  giurisprudenza  fu  al  M.  dettata 
da  una  parte  dalla  giusta  considerazione  delle  esose  prerogative  ed  ingerenze  delle 
persone  più  potenti,  per  cui  la  giustizia  non  era  altro  che  il  loro  volere  (4),  dall'altra 
dalla  sua  indole  dolce  e  mite,  amante  della  quiete  e  della  tranquillità,  epperò  natu- 
ralmente contraria  ai  rumorosi  studi  del  foro.  Infatti  ce  lo  dice  egli  stesso  :  "  Quid 
de  juris  scientia  sperari  liceat  in  compertum  habeo;  hoc  unum  scio,  genio  meo  non 
arridere  prorsus  hujusmodi  studia;  is  enim  sum,  qui  mini  quietem  potius  optem,  ac 
venalem  jurisperitorum  loquacitatem  et  tricas  effugere  dulcissimum  putem  „  (5). 

Non  fa  pertanto  meraviglia  che  chi  scriveva  così  a  ventidue  anni,  nell'età  del- 
l'irrequietezza e  dell'ardore,  premesse  di  più  la  mano  nell'età  matura,  naturalmente 
portata  alla  tranquillità. 

L'arte  critica. 

A  proposito  di  critica  si  pronunziarono  già  sul  M.  i  più  disparati  giudizi,  ed  io 
non  so  che  cosa  non  si  disse  e  si  scrisse  dagli  studiosi  delle  sue  opere.  Il  vero,  il  ra- 
gionevole si  è  che  noi  non  dobbiamo  pretendere  da  quest'arte,  nel  M.  ancora  bam- 


(1)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 

(2)  Ibidem. 

(3)  Vita  di  C.  M.  Maggi.  Milano,  Malatosta,  1700,  pag.  7. 

(4)  Vedi  pag.  78-79  a  proposito  del  contegno  del  Principe   nell'  esercitare   la  giustizia. 

(5)  Lettera  a  Francesco  Caula,  Mutinae,  V  Idib.  feb.  1694,  Campori,  I,  47-48. 


57  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  1-1 

bina,  quanto  essa  darà  poi  fattasi  adulta;  né  sarebbe  giusto,  nell'immensa  mole  delle 
opere  di  lui,  ricercare  quel  sottile  raffinamento  critico  che  caratterizza  i  tempi  moderni. 
Ma  checche  si  sia  detto,  è  un  fatto  certo  che  della  critica  il  M.  sentì  tutta  l'impor- 
tanza e  la  necessità,  e  se  tentennò  alquanto  non  fu  sull'arte  in  se,  ma  piuttosto  sulla 
persona  dei  critici  "  i  quali  facilmente  si  conducono  a  mirar  dall'alto  con  superio- 
rità, anzi  con  dispregio  quasi  tutti  gli  altri,  che  non  sono  cosi  ben  forniti  del  sapere 
medesimo.  Costoro  sono  gl'Iinperadori  delle  Lettere,  e  la  fanno  da  Dittatori  e  da 
Maestri  sopra  qualunque  più  riverito  scrittore  . .  .  ,  e  rara  cosa  è,  che  uno  sia  un 
gran  Critico,  e  insieme  un  gran  Modesto  „  (1).  Di  qui  emerge  quella  diffidenza  che 
il  M.  suggerisce  doversi  avere  per  le  opere  di  cotestoro,  pur  ammettendo  che  per 
essi  procedono  mirabilmente  le  scienze;  si  scoprono  molte  verità,  molti  fatti  nuovi; 
si  distruggono  molte  favole  e  credenze  assurde.  "  Né  perchè  se  ne  abusino  alcuni, 
continua  egli,  s'ha  ella  da  riprendere,  o  levare  dal  Mondo,  siccome  non  hanno  perciò 
a  tagliarsi  tutte  le  viti,  perchè  taluno  s'ubbriaca  „  (2). 

Ma  per  la  critica,  considerata  come  arte,  il  M.  è  molto  meglio  disposto,  e  non 
solo  ne  riconosce  e  ne  predica  l'incondizionata  utilità,  ma  ben  anche  l'assoluta  neces- 
sità nelle  scienze.  "  Egli  è  da  dirsi  che  chi  non  è  fornito  di  Giudizio  Critico,  e  non 
sa  l'arte  critica,  presa  in  tutta  la  sua  maggior  estensione,  costui  farà  sempre  una 
infelice  comparsa  fra  i  veri  Letterati  „  (3). 

Ma  la  critica  pel  M.  è  molto  affine  alla  filosofia,  e  non  andrebbe  forse  errato 
chi  affermasse  che  in  ultima  analisi  esse  si  danno  la  mano,  e  si  integrano  a  vicenda. 
Si  pensi  infatti  al  concetto  che  aveva  il  M.  della  filosofia,  per  la  quale,  dice,  "  noi 
vogliamo  far  intendere  la  virtù  del  raziocinare,  del  ritrovare  colla  speculazione  le 
ragioni,  le  cagioni,  gli  effetti,  e  le  amicizie,  corrispondenze,  e  relazioni  delle  Cose, 
o  pur  le  loro  nemicizie  o  disuguaglianze,  e  la  virtù  del  saperle  ordinare;  e  sopra 
tutto  quella  di  distinguere  il  Vero  dal  Falso,  il  Buono  dal  Cattivo,  il  Bello  dal  Brutto, 
l'Apparenza  dalla  Sostanza,  l'Opinione  dalla  Scienza,  e  l'Incerto  dal  Certo,  senza 
lasciarsi  abbagliare  da'  Sofisti,  dai  Mentitori,  dagl'Ignoranti,  dai  Declamatori,  dai 
pessimi  Gusti  ed  usi  de'  tempi,  e  da  altri  somiglianti  nemici  della  Verità,  e  della 
vera  Bellezza.  Ora  questa  filosofia  si  è  quella,  che  in  ogni  Scienza  ed  Arte  nobile 
entrando,  loro  contribuisce  il  nerbo  migliore,  e  l'interno  buon  Sugo,  siccome  la  Ret- 
torica  suole  contribuir  loro  l'esterna  vaghezza  „  (4). 

È  la  vera  critica  insomma,  l'arte  che  deve  informare  ogni  scienza,  ogni  studio, 
e  che  egli  definisce  altrove  con  presso  che  identiche  espressioni  (5). 

Uno  dei  più  grandi  principi  informatori  di  quest'arte,  si  è  d'apprendere  sulle 
spalle  altrui  "  imparando  a  conoscere  gli  altrui  diffetti  ed  errori  per  nostro  vantaggio 
e  per  disinganno  altrui  „  (6).  Ma  purtroppo  non  tutti  sanno  trarre  partito  da  essa  e 
"  oggidì  fa  pietà,  per  non  dir  peggio,  il  veder  alcuni,  che  dopo  tanti  lumi,  de'  quali 
ci  ha  provveduto  la  diligenza  critica  de'  due  prossimi  passati  secoli,  tuttavia  citano 


(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  293. 

(2)  Idem,  pag.  300. 

(3)  Ibidem. 

(4l  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  cap.  I,  pag.  53. 

(5)  Delle  Forze  dell'Intendimento   Umano,  pag.  333. 

(6)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  300. 
Serie  II.  Tomo  LUI. 


]22  STEFANO    GRANDE 


;.- 


Autori  apocrifi,  e  Libri  già  supposti  per  ignoranza  o  per  malizia  ad  uomini  ragguar- 
devoli, oppure  seguitano  a  prestar  fede   a  tante  imposture,  o  favole  nate  ne'  secoli 
barbari,  fondando    sopra  sì  fatte  menzogne  o  inezie  la  forza  o    l'erudizione  de'  loro 
ragionamenti.  Fa  pietà    il  vedere,  elio   senza   discernimento    di   tempi,  di   luoghi,  di 
persone,  e  d'autori,  osano  alcuni  trattar  materie  erudite,  e  massimamente  le  sacre  „  (1). 
Il  M.,  persuaso  della  grande  utilità  di   questa  scienza,  ne  raccomanda  lo  studio 
anche  ai  giovani,  affinchè  per  tempo  si  addestrino  a  conoscere  le  mende  degli  scrit- 
tori, a  censurare  o  a  difendere  queste  o  quelle  opinioni,  questi  o  quegli  autori.  Ma 
eo-H  ben  conosce  l'arditezza  del  suo  consiglio,  e  tosto  lo  tempera  con  una  buona  con- 
dizione, osservando  che  i  giovani  devono  bensì  attendere  a  questo  studio,  ma  sotto 
la  scorta  di  un  saggio  maestro,  che  guidi  il  loro  giudizio,  che  li  avverta  degli  errori 
in  cui  possono  essi  stessi  cadere,  che   moderi   la   loro  presunzione,  che   loro   indichi 
quanto  distino    dalla   perfezione.   «  Questo  consiglio,  vaglia  il  vero  (2),  il   riconosco 
anch'io,  per  un  poco  pericoloso,  ma  la  condizione  da  me  aggiunta,  gli  toglie  per  av- 
ventura, tutta  la  comodità  di  nuocere  ai  giovani,  e  alle  Lettere  stesse  „.  Lo  studio 
delle  opere  critiche  infatti,  ben  inteso  e  disciplinato,  non  può  a  meno  di  non  eser- 
citare grande  influsso  sulla   mente   del  giovane,  naturalmente    portato  ad   osservare 
ed  a  notare  i  difetti  altrui,  ma  a  parlar  sinceramente,  anche  a  noi  pare  indispensa- 
bile la  condizione  imposta  dal  M.,  checche  egli  altrove  vagamente  accenni  in  essi  a 
sufficiente  maturità  di  giudizio. 

Altro  principio  direttivo  della  critica  è  la  sincerità,  l'imparzialità,  e  perciò  si 
richiede  in  essa  una  mente  calma,  serena,  spassionata,  che  veda  i  difetti  altrui 
non  solo,  ma  anche  i  propri,  che  non  sia  guidata  da  presunzione,  da  secondi  fini,  da 
preconcetti.  "  Io,  scrive  il  M.  (3),  per  superbia  o  rancore  non  criticherò  mai  alcuno. 
ma  stimo  ben  necessario  lo  scoprire  i  difetti  di  chi  ha  stampato,  acciocché  se  ne 
guardino  gli  altri;  e  in  fatti  quando  lo  comporta  il  luogo,  non  lascio  d'accennare 
quelli  ancora  dei  grandi  uomini,  che  noi  veneriamo  come  capi  della  Poesia  „  (4). 

Così  concepisce  il  M.  la  critica,  arte  nobile  ma  difficilissima,  ed  arma  a  doppio 
taglio,  che  solo  i  veri  prudenti  sanno  utilmente  usare. 

Ora  da  quanto  egli  ha  praticato  nelle  sue  opere,  e  da  quanto  abbiamo  noi  fug- 
gevolmente accennato,  si  può,  almeno  all'ingrosso,  giudicare  se  il  M.  non  si  sia  reso 
pur  anche  benemerito  di  quest'arte,  e  se  non  siano  esagerati  i  giudizi  troppo  recisi 
pronunziati  talora  a  suo  riguardo. 

Agraria. 

Ci  piace  terminare  la  nostra  rassegna  delle  discipline  scolastiche  sotto  la  scorta 
del  M.,  coll'accenno  ad  un'arte  troppo  dimenticata  dai  dotti  dei  secoli  passati:  l'Agraria, 
Abbiamo  più  volte  accennato  allo  spirito  pratico  che  informa  tutte  le  vedute  e  i  pen- 
sieri del  M.,  al  suo  grande  e  disinteressato  amore  a  tutto  ciò  che  può  tornar  utile 
alla  società;  l'abbiamo  visto  dar  l'ostracismo  alla  poesia,  all'arti  belle,  alle  matema- 

(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  I,  cap.  VII,  pag.  215. 

(2)  Idem,  pag.  300. 

(3)  Lettera  ad  Apostolo  Zeno,  15  luglio  1701,  Campori,  II,  516-17. 

(4)  Pensa  sopratutto  alla  sua  critica  del  Petrarca  di  cui  pubblicò  le  Rime,  Padova,  1711,  e 
cfr.  lettera  dedicatori;!  ad  Antonio  Bambaldo  di  Collalto.  Campori,  IV,  p.  1346-59. 


59  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  l-;< 

tiche  astratte,  alla  filosofia  mal  intesa,  alla  medicina  teorica,  or  lo  vediamo  con  oppor- 
tuno intendimento  portar  al  grado  di  scienza  di  prima  utilità  l'agricoltura.  "  Più  a 
mio  credere  è  da  stimare  un  Libro  che  insegna  a  un  Mercatante,  ad  un  Marinaio,  a  un 
Giardiniera  o  Agricoltore,  ad  uno  Speziale,  ecc.,  il  suo  mestiere  col  meglio  di  quel- 
l'Arte, che  cento  libri  di  secca  filosofia,  di  smilza  erudizione,  e  di  poesie  poc' altro 
contenenti  che  infilzate  parole  „   (1). 

Ma  questo  in  larga  sintesi,  ed  egli  venendo  al  particolare  dedica  l'intero  Capi- 
tolo XV  del  suo  trattato  "  Della  Pubblica  Felicità  „  alla  Scienza  dei  Campi,  e  rac- 
comanda vivamente  al  suo  Principe  di  averla  a  cuore,  di  farla  coltivare  e  progredire. 
Ogni  grande  questione  relativa  all'agronomia  è  presa  da  lui  in  esame,  ed  egli  tratta 
dei  vari  prodotti  che  danno  o  dovrebbero  dare  le  regioni,  delle  diverse  coltivazioni, 
dei  climi  più  adatti,  dei  vari  metodi  di  coltura,  di  ingrassi,  di  seminagioni,  di  pian- 
tamenti,  ecc.,  ecc.,  dappertutto  trasfondendo  quell'aura  di  affetto  e  di  persuasione 
che  spirava  la  sua  competenza  e  il  suo  gran  buon  cuore. 

Ma  egli  vorrebbe  che  si  istituissero  scuole  particolari  di  agraria,  che  si  tenes- 
sero conferenze,  che  si  insegnasse  ai  contadini,  se  non  di  più,  almeno  nei  giorni 
festivi,  che  si  sistemasse,  che  si  coltivasse  questa  scienza  che  come  le  altre,  e  più 
delle  altre,  ha  ragione  di  vita,  e  si  merita  una  cattedra  speciale...  e  non  dice  di  più 
perchè  teme  di  farsi  un  augurio  ineffettuabile.  I  tempi  moderni  invece  hanno  dimo- 
strato l'effettuabilità  del  suo  progetto,  e  noi  abbiamo  scuole  e  cattedre  di  agraria,  la 
piena  attuazione  cioè  del  voto  del  M.,  e  noi  non  ci  peritiamo  qui  di  asserire  che 
quel  capitolo  muratoriano,  potrebbe  servir  benissimo  di  prolusione  storica  ad  uno  di 
quei  corsi. 

Il  M.  come  altrove,  anche  qui  precede  i  tempi  suoi,  e  giova  metter  in  luce 
questo  suo  merito  guadagnato  in  pieno  secolo  XVIII,  a  dispetto  di  rancide  opinioni, 
e  affermato  con  tal  forza  che  quest'arte,  ritenuta  vile  e  spregevole,  egli  pone  al  di 
sopra  di  molte  altre,  e  sopra  tutto  della  milizia,  proclamandola  onorifica  perfino  ai 

nobili,  il  che  vuol  pur  dire  qualche  cosa  pei  suoi  tempi. 

Qui  terminiamo  l'esposizione  delle  idee  muratoriane  relative  alla  coltura  intellet- 
tuale, senza  indugiarci  più  oltre  a  trarre  nuove  conclusioni  pedagogiche,  contenti  se 
da  quanto  esponemmo  potrà  essere  assodato  il  gran  principio  del  M.,  che  l'intelli- 
genza va  educata  ed  ammaestrata  in  servigio  della  vita.  E  pensatamente  chiudemmo 
la  nostra  rassegna  delle  discipline  scientifiche  coll'agricoltura  e  col  voto  del  M.,  perchè 
cosi  più  che  mai  ci  parve  indicato  che  l'istruzione  non  deve  essere  fine  a  se  stessa, 
ma  mezzo  e  tirocinio  alla  vita. 

VII.  —  Educazione  Estetica. 

Non  da  tutti  è  riconosciuta  come  parte  essenziale  del  magistero  pedagogico 
l'educazione  estetica,  e  pedagogisti  insigni  trascurarono  di  considerarla  "  ex  professo  ... 
Per  vero  dire  questa  lacuna  non  è  del  tutto  involontaria  in  alcune  scuole.  Locke, 
Elvezio,  Rousseau,  Spencer,  Barn,  ecc.,  che  in  essa  non  vedono  che  un  semplice,  ed 
anche  superfluo  ornamento  della  mente,  o  se  meglio  piace,  una  coltura  di  lusso,  ila 


(1)   Della  Pubblica   Felicità,  eap.  V,  pag.  51. 


124  •  NO    GRANDE  60 

in  realtà  anche  questa  parte  dell'educazione  ha  la  sua  ragione  di  essere  nella  natura 
dell'uomo,  ed  il  M.  stesso,  che  non  si  occupa  direttamente  e  particolarmente  di  peda- 
gogia, l'intuisce  e  la  propugna,  senza  però,  ben  si  intende,  poter  darne  esplicite  e  siste- 
matiche regole,  ne  comporle  ad  unità  scientifica. 

L'educazione  estetica  è  la  coltura  delle  potenze  aventi  per  oggetto  il  bello.  Ma 
che  cosa  è  questo  bello?  "  La  grandiosità,  e  maestà,  la  proporzion  delle  parti,  un 
grazioso  e  ben  ordinato  movimento,  un  vivace  e  delicato  colore,  e  massimamente  se 
ben  compartito,  la  soavità  e  il  concerto  delle  voci,  l'essere  lucente,  la  finezza  del 
lavoro  (venga  essa  dall'arte,  ovvero  dalla  Natura),  le  varietà,  le  novità,  ed  altre 
simili  configurazioni  e  qualità  nelle  cose  corporee  cadenti  sotto  il  senso  della  Vista 
e  dell'Udito,  son  quelle,  che  combinate  insieme  ora  più,  ora  meno,  danno  occasione 
a  noi  di  dirle  Belle.  Cosi  tutto  ciò,  che  ha  del  grande,  del  nuovo,  del  delicato,  e 
mostra  acutezza,  possanza,  e  chiarezza  dell'Ingegno  altrui,  con  farci  sentire,  che  ne 
abbiamo  ancora  noi  la  parte  nostra,  o  che  ci  guida  a  scoprire  una  rara  maestria, 
leggiadria  o  Virtù  in  altrui,  e  altre  somiglianti  doti,  concorrenti  negli  oggetti  intel- 
lettuali, impetrerà  ad  essi  il  titolo  di  Bello  „  (1). 

Questa  è  1'  espressione  del  Bello  nell'  arte  e  nella  natura,  nelle  quali  esso  ap- 
pare come  l'incarnazione  d'un  ideale  della  mente,  e  perchè  di  essa  esprime  i  pen- 
sieri, e  perchè  risponde  all'aspirazione  del  cuore. 

Ma  un  vincolo  naturale  unisce  il  Bello,  col  Vero  e  col  Buono,  e  cioè  le  potenze 
estetiche  colle  intellettuali  e  morali.  L'intelligenza  nostra  è  ordinata  alla  visione  del 
vero,  la  volontà  all'effettuazione  del  buono,  l'attività  al  culto  dell'arte.  Ora  queste 
tre  potenze  si  svolgono  insieme  nella  loro  interna  armonia,  e  si  integrano  a  vicenda. 
"  Chi  studia  le  discipline,  cerca  di  sapere  e  di  imparare.  E  che  altro  cerca  egli  di 
imparare  e  di  sapere,  se  non  il  Vero,  e  il  Buono,  affinchè  dal  primo  resti  illuminato 
l'Intelletto,  e  dal  secondo  la  Volontà  sia  fatta  migliore,  quando  al  conoscimento  del 
Buono  si  voglia  far  seguire  ancor  l'elezione?  E  chi  ad  altri  insegna,  che  altro  pre- 
tende di  fare,  se  non  d'insegnare  il  Vero,  ed  il  Buono?  Adunque  il  vero  ed  essen- 
ziale fine  de  gli  studi  ha  da  essere  questo,  apprendere  il  Vero  e  il  Buono  „  (2). 

Dall'armonica  unione  di  queste  tre  potenze  nasco  di  necessità  il  diletto  nelle 
tre  forme  di  arte,  di  scienza  e  di  moralità.  "  Tutto  ciò  che  è  bello,  è  anche  atto  a 
dilettarci,  perchè  a  noi  si  presenta  qual  bene,  o  quale  indizio  e  sopraveste  di  Bene, 
cioè  di  qualche  pregio  naturale  o  morale:  per  la  qual  ragione  parimenti  il  Vero,  e 
il  Buono,  Belli  da  noi  son  chiamati  „   (3). 

Per  effetto  di  natura,  e  per  forza  d'educazione  noi  aspiriamo  a  quest'immenso 
ideale  estetico,  e  lo  sentiamo,  e  lo  appetiamo  nel  campo  naturale  e  nell'  artistico. 
"  0  l'Istinto,  o  la  Ragione  ce  ne  rendono  caro  l'aspetto,  e  sovente  ci  muovono,  inni 
solo  ad  amarlo,  ma  anche  a  desiderarlo  „  (4).  Ma  perchè  si  assolva  nella  sua  inte- 
grità il  magistero  estetico,  non  deve  in  una  produzione  artistica  venir  meno  nem- 
meno una  delle  potenze  estetiche,  perchè  esse  si  suppongono  a  vicenda.  "  All'erudito 
e  Filosofo  di  Buon  gusto,  non  basta  di  trovare  e  pubblicar  cose  vere,  e  cose  moral- 


(1)  Filoso/in  Morali-,  eap.  XVI,  pag.  153. 

(2)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  I.  pag.  134. 

(3)  Filosofia  Morale,  cap.  SVI,  pag.  153. 
(4i  Idem,  cap.  XXXVII,  pag.  349. 


61  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  12.". 

mente  buone,  e  almeno  non  cattive,  e  di  ben  ordinarle  fra  loro,  egli  eziandio  ha  da  osser- 
vare qual'effetto  possa  e  debba  verisimilmente  cagionare  in  altri  quella  sua  fattura  „  (1). 

Così  ci  avviciniamo  alle  arti  amene,  alle  belle  lettere,  alla  musica,  pittura, 
poesia,  ecc.,  diretta  applicazione  pratica  di  quelle  potenze  estetiche  nella  lor  duplice 
funzione  di  conoscenza  delle  bellezze  naturali  e  artistiche,  e  di  diletto.  Ma  delle  arti 
belle  noi  già  toccammo  qua  e  là  nella  nostra  trattazione  e  particolarmente  nel  Cap.  IV. 

Primo  coefficiente  della  bellezza  è  l'ordine,  non  essendo  il  bello  che  la  produ- 
zione dell'ordine  e  della  proporzione,  in  guisa  da  indurre  perfezione  e  beatitudine 
onesta  nell'uomo.  "  Perciò,  o  non  Belle,  o  come  Belle  non  si  presentano  a  i  nostri 
Sensi,  e  all'Intelletto  nostro,  quelle  cose,  le  quali  son  prive  d'ordine,  e  noi  tutti  pro- 
viamo, che  in  quella  parte,  in  cui  le  cose  mostrano  imperfezione,  e  difetto,  elle  in 
essa  non  possono  a  noi  piacere,  se  pur  sanamente  giudichiamo,  non  essendo  elle  con 
ciò  valevoli  a  cagionare  perfezione,  o  dilettazione,  o  beatitudine  onesta,  o  ne  i  sensi, 
o  nell'Intelletto  nostro.  Ora,  quant'è  necessario,  che  la  Natura  ci  provveda  d'un  In- 
gegno penetrante  per  conoscere  il  Vero  dal  Falso,  e  il  Buono  dal  Cattivo,  e  un'in- 
clinazione buona  della  Volontà  per  amare  il  Buono  vero,  e  non  il  Buono  apparente 
e  fallace;  altrettanto  bisogna  ch'ella  ci  doni  un'amore  del  Bello,  un'Abilità  innata  per 
discernere  ciò,  che  ha  Ordine  e  perfezione  o  in  Noi,  o  in  altri,  o  al  meno  conferire 
in-linazione  a  produrcela  „  (2). 

Ma  qui  il  M.  lasciando  da  parte  ogni  altra  produzione  artistica,  si  riferisce  solo 
alle  lettere,  perchè  "  lo  studio  delle  Belle  lettere,  cioè  della  Rettorica  severa,  e  della 
Poetica  non  frascheggiante,  s'è  quello,  che  può  aiutarci  sommamente  a  conseguire 
cotal  Bellezza  „.  Questo  studio  pertanto  deve  essere  universale,  deve  entrare  in  tutte 
le  arti,  e  informare  anche  le  più  severe  produzioni  dello  spirito  umano.  "  Non  mo- 
strino dispregio,  non  dicano  male  di  tale  studio  gli  Uomini  seguaci  dei  soli  studj 
austeri,  perchè  anch'esso  è  in  qualche  maniera  necessario  (utilissimo  è  almeno)  a  que' 
medesimi  studj  austeri,  e  a  tutti  gli  altri,  qualora  si  vogliano  trattare  con  pulizia, 
con  leggiadria,  e  tenere  attenti  i  Lettori,  e  non  tediarli  sì  di  leggieri  „  (3). 

Con  questo  studio  ha  strettissima  relazione,  principalmente  nel  campo  letterario, 
l'eloquenza  che  ha  pure  per  fine  la  beltà,  e  la  leggiadria  dell'esposizione,  ed  è  del- 
l'estetica la  più  grande  fautrice  „   (4). 

Ma  a  noi  preme  di  stabilire  qui  un  principio  pedagogico  dal  M.  chiaramente  in- 
dicato. Il  Bello  non  è  un  fatto  immutabile,  ma  vario  secondo  le  persone,  l'età,  la 
coltura,  il  sesso,  ecc.,  e  per  logico  corollario,  l'educazione  estetica  va  conformata 
alle  condizioni  psicologiche  e  sociali  del  discente  e  dell'ambiente  esteriore.  Così  se 
tu  parli  al  popolo,  nota  egli,  la  bellezza  consisterà  in  saper  ben  spiegare,  sminuzzare 
e  dipingere  le  verità  severe  ed  astruse  perchè  possa  intenderle;  se  parli  a  discepoli, 
la  bellezza  consisterà  nell'esporre  le  cose  con  facile  metodo,  con  chiarezza  e  forza  di 
ragioni  ;  se  con  dotti,  la  novità  delle  notizie,  il  metodo,  le  ragioni,  le  confutazioni,  ecc., 
costituiranno  il  Bello  che  tu  cerchi  nel  tuo  magistero. 


(1)  Delle  Biflessimii  sopra  il  Buon   Gusto,  parte  I.  pag.  310. 
(2    [dem,  pag.  308. 
(3)  Idem,  pag.  312. 
!i   Della  Pubblica  Felicitò,  cap.  XIV  pag.  170.  Vedi    anche    qua  e  là  nella  nostra    trattazione, 
pag.  39,  48,  ecc. 


\2t\  STEFANO    GBANDE 


62 


Si  possono  frattanto  stabilire  da  quanto  esponemmo  fin  qui,  e  dice  altrove  il  M., 
dei  mezzi  vuoi  positivi,  vuoi  negativi,  atti  a  favorire  lo  sviluppo  della  percezione, 
del  sentimento,  e  dell'immaginazione  del  Bello  artistico  e  naturale.  Ai  mezzi  nega- 
tivi il  M.  dedica  tutto  il  Capitolo  XXXVII  della  sua  Filosofia  Morale,  intitolato 
"  Del  Buon  Regolamento  dell'Appetito  del  Vero,  del  Bello,  ecc.  „,  mirando  a  suggerir 
pratiche  per  non  impedir  il  libero  sviluppo  delle  potenze  estetiche,  e  nello  stesso 
tempo  per  ben  regolarle  e  moderarle. 

Pei  mezzi  positivi  è  ovvio  pensare,  sotto  la  guida  stessa  del  M.,  all'osservazione 
delle  bellezze  artistiche  e  naturali,  alle  arti  amene,  agli  spettacoli,  ai  giuochi,  ecc. 
Alle  letture  estetiche  è  abbastanza  propenso  il  M.  (1),  ma  è  inflessibile  pel  romanzo, 
e  quantunque  ne  veda  tutta  l'efficacia,  e  lo  sappia  egli  stesso  per  pratica  (2),  tuttavia 
l'esclude  assolutamente  e  rigorosamente  dalle  mani  dei  giovani  "  perciocché  quando 
anche  potessero  con  essi  qualche  cosa  guadagnare  dalla  parte  dell'ingegno,  potreb- 
bono  perder  molto  da  quella  de'  costumi  „   (3). 

Ma  egli  è  meglio  disposto  pel  teatro;  egli  ben  sa  che  ormai  esso  si  è  ridotto 
a  palestra  di  corruzione,  ma  nel  suo  ammirabile  buon  senso,  sa  pure  bene  che  ormai 
è  impossibile  inibirlo  all'uomo,  epperò  non  si  oppone  punto  che  si  mettano  in  scena 
i  difetti  dei  personaggi,  ma  per  deriderli  e  correggerli,  non  per  imitarli,  in  guisa 
insomma  che  senza  privarci  di  sì  dilettevole  ed  istruttivo  divertimento,  non  si  venga 
meno  alla  morale  ed  al  buon  costume. 

Altri  mezzi  di  educazione  estetica  non  mancano  suggeriti  nelle  molte  opere  mu- 
ratoriane,  ma  il  primo,  il  principale  è  pur  sempre  l'inclinazione  naturale.  "  Ci  vuole 
il  genio,  altrimenti  non  si  fanno  eccellenti  cose.  L'arte,  lo  studio,  e  la  conoscenza  di 
tutti  o  di  moltissimi  principj  del  Bello  può  di  poi  mirabilmente  servire  per  farci 
discernere  il  Bello  nelle  Cose,  ed  Operazioni  altrui,  e  per  dimostrarlo  nelle  nostre. 
Lo  studio  accresce  e  perfeziona  l'abilità  naturale,  e  spezialmente  per  conto  delle 
Lettere  „   (4). 

Così  è  infatti,  e  noi  non  dubitiamo  di  asserire  che  se  è  indubitato  che  le  potenze 
estetiche  hanno  il  loro  principale  fondamento  nell'essenza  dello  spirito  nostro,  non  è 
meno  certo  che  esse   devono  riguardarsi  come  un  dono,  un  portato  della  natura. 

Ma  da  quanto  dicemmo  è  pur  messa  in  evidenza  un'altra  grande  legge  pedago- 
gica, che  cioè  l'educazione  estetica  ha  libera  e  reale  attinenza  coll'intellettuale  non 
solo,  ma  colla  morale,  al  cui  sviluppo  concorre  mirabilmente. 

Così  senza  più  oltre  indugiarci  su  quanto  possa  aver  scritto  altrove  il  M.  sul- 
l'estetica, ci  pare  d'aver  dimostrato  che  egli  non  trascura,  sotto  il  punto  di  vista  del 
suo  scopo,  questa  parte  dell'educazione,  che  forma  una  così  grande  lacuna  nei  sistemi 
educativi  di  pedagogisti  insigni  e  di  professione. 

Vili.  —  Dell'Educazione  Morale  e  Religiosa. 
Basta  ricordare  che  l'educazione  morale  ha  per  scopo  di  render  l'uomo    capace 
di  retto  ed  onesto  operare,  per  richiamarci  alla  mente  quanto  ha  dovuto  scrivere  su 


(1)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Buon  Gusto,  parte  II,  pag.  316. 

idi  indietro  pag.  21,  e  lettera  citata  ad  A.  Rambaldo  di  Collalto.  Campori,  IV,  pag.  1346-59. 

(3)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 

(4)  Delle  Riflessioni  sopra   il  Buon   Gusto,  parte   II.   pag.   309. 


63  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  127 

questo  argomento  il  M.,  che  al  retto  ed  onesto  operare  indirizzò  tutte  le  sue  fatiche, 
i  suoi  studi,  le  sue  opere,  la  sua  vita.  Noi  ci  siamo  con  amore  fermati  qua  e  là  sulla 
morale  muratoriana,  e  ne  vedemmo  il  concetto,  il  fine,  i  mezzi,  ora  notiamo  ch'altro 
è  istruzione  morale,  della  quale  più  di  proposito  ci  siamo  occupati,  altro  è  educazione 
morale,  perchè  il  conoscere  il  giusto  e  l'onesto,  non  è  l'esser  di  fatto  giusti  e  onesti. 
È  la  stessa-  differenza  che  intercede  fra  scienza  e  sapienza,  ed  il  M.  ci  insiste  molto. 
"  Non  bisogna  confondere  la  Scienza  colla  Sapienza:  sarà  la  prima  nei  Dotti  ;  trovasi 
la  seconda  in  quei  solamente,  che  sanno  ben  vivere  con  Dio,  con  gli  altri  Uomini, 
e  in  sé  stessi  ;  ora  Tessere  Dotto  o  Dottore,  appartiene  a  pochi,  ma  il  ben  vivere  sag- 
giamente è,  o  certo  dovrebbe  essere  il  mestiere  d'ognuno  „  (1). 

Ma  questa  scienza  non  ha  solo  colleganza  coll'istruzione  morale,  ma  ancora  con 
un'  altra  necessaria  scienza,  la  Religione,  in  cui'  ha  il  suo  fondamento  e  la  sua  es- 
senza, e  colla  quale  forma  la  scala  per  arrivare  alla  vera  sapienza.  "  Due  sono  i  lumi 
e  gli  aiuti  di  cui  Dio  ha  fornita  l'umana  Natura,  affinchè  essa  possa  pervenire  al 
nobilissimo  godimento  della  Sapienza:  la  Religione  e  la  Filosofia  Morale  „  (2).  Ma  per 
religione  non  si  devono  intendere  le  elucubrazioni,  e  le  lambiccature  dell'  ingegno 
umano;  essa  è  un  qualche  cosa  di  superiore  a  noi,  essa  è  la  figlia  di  Dio.  All'incontro 
invece  è  figlia  dell'Uomo  la  filosofia  morale,  la  quale  perciò  appunto  abbisogna  della 
religione  per  reggersi  da  se.  "  Non  è  già  questa  scienza  d'origine  Celeste,  scrive 
egli  (3),  venendo  essa  di  pianta  dalle  osservazioni  e  riflessioni  de'  Saggi  e  degli  antichi 
Filosofi;  con  tutto  ciò  può  essa  e  suol  divenire  un'utile  serva  alla  Religione  e  Teo- 
logia medesima  ;  ne  a  lei  si  deve  negare  la  preminenza  sopra  tutte  l'altre  Scienze  ed 
Arti,  inventate  o  coltivate  dagli  Uomini,  eccettuatane  la  sola  Teologia  „.  Cosi  l'edu- 
cazione morale  è  subordinata  alla  religiosa,  avendo  la  morale  il  suo  fondamento  na- 
turale in  Dio. 

Le  potenze  su  cui  s'aggira  l'educazione  morale  sono  il  sentimento,  la  coscienza 
e  la  libertà  morale,  il  cui  scopo  si  è  rispettivamente  di  formare  il  cuore  del  discente 
alla  vita  morale  e  religiosa,  stabilire  il  giusto  criterio  del  saggio  ed  onesto  operare, 
costituire  il  carattere  morale  e  religioso.  Ciascuna  di  queste  potenze  poi  abbisogna 
pel  suo  fine  di  mezzi  di  coltura  proprii,  il  cui  ufficio  generale  si  è  trasformare  le 
loro  operazioni  in  virtù,  ciò  che  costituisce  appunto  il  fine  ultimo  dell'educazione 
morale  e  religiosa.  Vediamo  pertanto,  sotto  la  guida  del  M.,  di  queste  virtù  in  ordine 
alle  potenze  morali. 

Sentimento  morale.  —  Virtù  propria  di  questa  potenza  umana  è  l'amor  del  Bene. 
Per  bene  poi  il  M.  intende  "  tutto  ciò,  che  può  recare,  o  essere  mezzo  per  recare  a 
noi  Piacere  e  Contento,  o  pure  accrescerlo:  ovvero  sminuire,  o  togliere  da  noi  il 
Dolore  „  (4).  Esso  si  può  distinguere  in  varie  guise,  ma  sempre  e  in  tutti  i  casi  ha  per 
fondamento  l'amor  proprio.  "  Per  ora  a  noi  basti  di  saper  questo  primo  importante 
assioma  :  che  tanto  i  Buoni,  quanto  i  Cattivi,  tutti  cercano  il  Bene,  e  tutti  a  cercarlo 
son  mossi  dall'Amor  proprio.  Il  bene  dico,  che  essi  credono,  che  abbia  qualche  rela- 


(1)  Fìlnxnfi,,  Morale,  cap.  I,  pag.  15.  Vedi  anche  nostra  trattazione,  pag.  9,  ed  altrove. 

(2)  Idem,  pag.  12. 

(3)  Idem,  pag.  14. 

(4)  Idem,  pag.  133. 


| 2  -  STEFANO    GRANDE  64 

zione  alla  propria  lor  Felicità,  sia  direttamente  o  indirettamente,  sia  mezzo  e  stru- 
mento, o  pur  fine  a  conseguire  un  tale  da  tutti  desideratissimo  stato  „  (1).  Il  M.  non 
teme  obbiezioni,  e  continua  asserendo  che  perfino  nell'amor  del  prossimo,  e  nello 
stesso  amor  di  Dio,  il  movente  è  sempre  l'amor  proprio  (2).  Questo  amore,  nessun  ne 
dubita,  può  essere  fonte  di  molti  errori  e  mali,  ma  è  pur  la  causa  d'ogni  operazione 
morale.  "  Ma  intanto  io  seguito  a  stabilire,  che  questo  Amore  è  il  Principio  d'ogni 
operazione  Morale,  ed  è  principio  innato  di  tutte  le  Creature  Ragionevoli,  e  quel  che  è 
più,  dato  e  impresso  loro  dall'Autore  sapientissimo  della  Natura,  e  perciò  in  sé  stesso 
buono,  utile,  anzi  necessario  e  indispensabile  nell'Uomo  „  (3).  A  questo  naturale  ed 
universale  principio  ubbidisce  la  stessa  volontà,  la  quale  ne  è  così  intrinsecamente 
governata,  che  se  ella  vuole,  quel  solo  vuole  che  le  è  dettato  da  esso  "  a  misura 
però  de  i  lumi  veri  o  falsi  che  vengono  dall'Intelletto  „.  E  qui  egli  è  davvero  elo- 
quente ed  efficace.  "  Miriamo  pure  e  annoveriamo  qualunque  opera  volontaria,  che 
dall'Uomo  si  faccia:  troveremo  che  l'Amor  proprio  è  quello,  che  la  comanda,  e  la 
vuole.  Lavora  egli  colui?  Passeggia,  studia  sui  Libri,  va  alla  guerra?  È  Amor  proprio, 
che  il  guida  a  tali  azioni.  Si  mette  egli  a  tavola,  pensa  ad  ammogliarsi,  tratta  d'af- 
fari, fa  orazioni,  digiuna,  e  che  so  io?  Tutto  vien  dall'Amor  proprio,  tutto  da  quel 
Principio  interno,  che  in  mille  guise  va  movendo,  sollecitando  o  pur  ft-enando  l'Uomo, 
e  gli  fa  produrre  tante  e  sì  differenti  azioni,  ovvero  il  ritiene  da  tant'  altre.  Ruba 
egli  quell'altro,  toglie  la  vita  al  nemico,  sfoga  la  lussuria,  monta  in  collera,  in  su- 
perbia, fa  usure,  monopolj,  congiure,  e  così  discorrendo?  Ancor  qui  l'Amor  proprio  è 
autore  di  tutto,  comandando  la  Volontà,  in  quanto  è  spinta  da  esso,  non  men  queste, 
che  quelle  azioni  „ E  il  movente  dell'amor  proprio  è  la  nostra  felicità.  "  Se  stu- 
diamo, se  fabbrichiamo,  se  componiamo,  è  l'Amor  nostro,  che  ci  spinge  colà.  Quello, 
dice  egli,  è  buono  per  te;  questo  ti  renderà  o  ora,  o  col  tempo,  molto  o  alquanto 
felice.  Se  ci  mettiamo  in  cammino,  se  al  giuoco,  se  a  tavola,  se  battiamo  le  antica- 
mere dei  Grandi,  se  studiamo  su  i  Libri,  o  stiamo  attenti  a  un  Libro  di  conti,  o 
abbiam  per  le  mani  mille  altre  faccende:  Amor  nostro  è  colui,  che  credendo  ciò  atto 
a  farci  di  presente,  o  in  avvenire  in  qualche  guisa  felici,  noi  spinge  e  sollecita  a 
farlo.  In  una  parola  ogni  nostro  pensiero,  desiderio  e  movimento  va  a  finire  in  cer- 
care e  volere  in  tante  diverse  cose  una  sola,  cioè  qualche  Bene,  qualche  Felicità  di 
noi  stessi.  Questo  è  il  viaggio  continuo  dell'Ignorante  e  del  Dotto,  de'  Filosofi  e  de 
gl'Idioti,  essendo  a  ciascuno  maestro  e  consigliere  in  questo  cammino  quell'Amore, 
che  tutti,  senza  che  alcuno  ci  ammaestri,  o  ci  esorti,  polliamo  all'essere  nostro  „  (4). 
Ma  noi  non  vorremmo  che  si  interpretassero  male  queste  espressioni.  È  vero, 
verissimo  che  il  puro,  genuino  amor  di  se,  è  giusto,  razionale,  onesto,  perchè  fondato 
sul  rispetto  proprio  della  nostra  dignità  personale,  fornita  dell'augusto  carattere  mo- 
rale, ma  esso  non  va  confuso  coll'egoismo,  o  con  qualche  altro  pernicioso  eccesso, 
perchè  essenzialmente  immorali,  a  scongiurare  i  quali  il  M.  consacra  un  Capitolo 
intero,  il  XXVIII,  della  sua  Filosofia  Morale,  intitolato  appunto  Del  buon  regola- 
mento dell'Amor  proprio. 


Ili  Filosofia  Morale,  cap.  XIII,  pag.   130. 

(2)  Idem,  cap.  XII,  pag.  123. 

(3)  Idem,  pag.  124. 

(4)  Idem,  pag.  127. 


65  IL   PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  129 

Il  M.  poi  ci  dà  la  nota  divisione  del  bene,  in  quanto  concerne  l'operare  umano, 
in  bene  onesto,  utile,  e  dilettevole;  e  finalmente  la  definizione  di  questo  bene  morale 
"  che  è  quello  che  s'accorda  nelle  Leggi  dell'Ordine,  che  Dio  per  onor  proprio,  pel 
bene,  o  sia  per  la  Felicità  universale  de  gli  Uomini  desidera  e  vuole  da  essi  Uomini ,  (1). 

Ora  il  bene  morale  è  tale  che  riscontrasi  nelle  sole  creature  intellettuali  e  libere, 
cioè  negli  esseri  personali ,  eppcrò  l'amor  del  bene  appartenendo  a  noi  ed  ai  nostri 
simili,  si  trasforma  in  amor  di  sé  e  degli  altri. 

Dell'amor  di  se  già  parlammo,  vediamo  ora  qualche  cosa  dell'amor  degli  altri. 
Il  M.  parla  volentieri  di  questo  dovere,  ma  più  volentieri  ancor  lo  pratica.  Esso  costi- 
tuisce due  grandi  virtù,  la  Giustizia  e  la  Carità,  le  quali  si  imparano  senza  logorar 
i  banchi  delle  scuole,  perchè  stanno  segnate  dalla  mano  di  Dio  nel  cuore  dell'uomo, 
il  quale  senza  di  esse  non  è  più  tale,  ma  un  mostro,  un  nemico  del  genere  umano  (2). 
Qui  il  M.  particolarizzando,  viene  a  parlare  dei  molteplici  doveri  che  incombono  al- 
l'uomo; doveri  di  figlio,  sposo,  padre,  suddito,  padrone,  ecc.,  dei  doveri  insomma  che 
spettano  a  lui,  qualunque  sia  il  suo  stato  e  la  sua  condizione. 

Ma  l'amore  di  se  e  degli  altri  non  comprende  tutto  quanto  l'amor  del  bene,  ed 
è  imperfetto  e  limitato,  come  è  imperfetta  e  limitata  la  persona  umana;  esso  pertanto 
è  altresì  ed  assai  più  amore  di  Dio.  E  verso  Dio  noi  abbiamo  doveri  di  riconoscenza, 
amore,  ubbidienza,  ecc.,  doveri  che  principalmente  costituiscono  il  sentimento  reli- 
gioso su  cui  poggia,  come  su  solido  fondamento,  il  sentimento  morale.  Ma  noi  non 
possiamo  più  oltre  seguire  il  M.  senza  allontanarci  di  troppo  dal  nostro  scopo. 

Coscienza  morale.  —  "  Con  essa,  scrive  il  M.  (3),  vogliam  significare  quella  Cono- 
scenza, che  mercè  della  Ragione  ha  la  mente  nostra  di  poter  nelle  occasioni  fallare, 
e  peccare,  o  pure  d'aver  fallato,  e  peccato,  sia  coll'operare,  sia  col  non  operare  „. 
Questa  pertanto  è  pel  M.  o  dono  di  natura,  o  frutto  della  ragione,  e  si  fa  sentire 
contro  qualunque  altro  suggerimento,  richiamandoci  al  dovere.  "  Non  si  ha  nondi- 
meno per  questo  a  metter  la  Coscienza  per  una  Facoltà  o  Potenza  distinta  dall'In- 
telletto, altro  non  essendo  essa,  se  non  un  atto  d'esso  intelletto,  che  riflette  sulle 
azioni  fatte  o  da  farsi,  per  riconoscerne  la  lor  bontà  o  malizia  mediante  la  Ra- 
gione ,  (4). 

Molte  sono  le  virtù  proprie  di  essa,  e  noi  possiamo  dire  che  quella  parte  dei 
Rudimenti  Morali  al  Duca  di  Modena  —  ne  parleremo  in  seguito  —  che  tratta  del 
Governo  Individuale,  pare  scritta  dal  M.  appunto  per  formare  e  sviluppare  questa 
potenza  morale.  Noi  pertanto,  trascurando  ogni  altro  accenno,  riassumeremo  brevis- 
simamente quanto  colà  è  detto,  il  che  ci  sembra  sufficiente  per  lo  scopo  nostro. 

Premesse  alcune  notizie  di  Antropologia  e  Morale,  il  M.  esamina  le  quattro  virtù 
cardinali,  Prudenza,  Giustizia,  Temperanza,  Fortezza,  di  ognuna  delle  quali  dà  la 
definizione,  la  divisione,  e  cita  gli  opposti  e  gli  eccessi.  Così  si  distinguono  tre  classi 
di  Giustizia,  verso  Dio,  verso  il  prossimo,  verso  noi,  alle  quali  corrispondono  le  tre 
classi  dei  doveri  che  noi  abbiamo  di  già  esaminati.  Anche  la  Prudenza  si  divide  in 
tre  parti:  politica,  economica,  monastica.  La  prima  riguarda  il  governo  pubblico,  la 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  XXIII,  pag.  196. 

(2)  Idem,  cap.  XXV,  pag.  218. 

(3)  Idem,  cap.  IX,  pag.  104. 

(4)  Ibidem. 

Serie  II.  Tom.  LUI. 


130  STEFANO    GRANDE  66 

seconda  la  famiglia,  la  terza  sé  stesso.  Essa  ha  cinque  fonti:  il  lume  naturale:  gli 
insegnamenti  dei  savj  e  gli  aforismi  ;  la  cognizione  delle  cose  naturali  e  lo  studio 
delle  arti  belle  e  meccaniche;  le  scienze,  la  lingua  ed  altri  mezzi  dell'umano  sapere  ; 
la  propria  esperienza. 

A  queste  grandi  virtù  pertanto  deve  l'educatore  informare  la  coscienza  dell'alunno, 
e  tenerlo  lontano  dai  loro  eccessi,  che  rapiscono  l'intuizione  delle  verità  morali  e 
religiose. 

Dopo  queste  virtù,  cardine  di  tutta  la  vita  umana,  vengono  le  virtù  necessarie 
nella  Conversazione  civile,  alla  quale,  come  già  sappiamo,  il  M.  dava  grandissima 
importanza,  sia  come  mezzo  di  educazione  che  d'istruzione  (1).  "  La  conversazione 
civile  è  legame  degli  uomini,  raccomandata  a  noi  dalla  natura  ;  e  chi  non  conversa, 
ed  è  solitario  in  mezzo  alla  Repubblica,  sarà  per  sentimento  d'Aristotele  o  un  Dio 
o  una  bestia  „.  Tre  sono  le  virtù  che  si  richiedono  nella  conversazione,  e  società 
umana,  l'Affabilità,  la  Veracità,  l'Urbanità,  virtù  necessarie  a  tutti,  e  che  rivelano 
la  bontà  dell'educazione  ricevuta,  siamo  noi  principi,  o  siamo  semplici  cittadini. 

Il  M.  passa  in  seguito  in  rassegna  le  seguenti  virtù,  Liberalità,  Magnificenza, 
Magnanimità,  Modestia,  Umiltà,  Mansuetudine,  Verecondia,  e  di  tutte  dà  la  definizione, 
nota  gli  eccessi,  e  con  grandi  esempi  della  storia,  descrive  l'eccellenza  e  l'utilità. 

In  ultimo  il  M.  esamina  che  cosa  sia  l'appetito  sensitivo  dell'uomo,  nelle  sue 
due  facoltà,  concupiscibile  ed  irascibile.  Dalla  prima  siamo  portati  a  desiderare  e 
cercare  ciò  che  è,  o  sembra,  bene  per  la  vita  umana,  e  dall'altra  siamo  forniti  di 
mezzi  per  acquistarlo  e  difenderlo.  Da  queste  due  facoltà  pertanto  nascono  varie  ed 
opposte  passioni  ed  affetti:  amore,  odio,  timore,  speranza,  dolore,  collera,  ecc.,  col- 
l'esame  dei  quali  si  chiude  questa  prima  parte  dell'opuscolo  muratoriano,  intesa  a 
formare  a  virtù  il  cuore  dell'uomo  in  generale,  qualunque  sia  la  sua  condizione  ed 
il  suo  stato. 

Così  ci  par  detto  a  sufficienza  delle  virtù  della  coscienza  morale.  È  vero  che 
nell'opera  del  M.  queste  non  sono  espresse  colla  forma  più  adatta  all'apprendimento 
del  fanciullo,  ma  esse  non  furon  punto  dettate  per  la  sua  età.  Il  M.  quando  parla 
al  fanciullo  usa  un  altro  linguaggio  e  un  ben  diverso  magistero  ;  egli  parla  coi  fatti 
e  cogli  esempi,  ma  qui  era  pur  necessario  stabilire  in  astratto  questi  principi,  i 
quali  del  resto  inculcati  col  discernimento,  colla  larghezza  di  mente,  colla  sincerità  e 
col  convincimento  che  il  M.  richiede  ed  esige  assolutamente  dall'educatore,  possono 
ottenere  egualmente  lo  stesso  ottimo  risultato. 

Libertà  morale.  —  Questa  è  una  potenza  d'indole  essenzialmente  attiva,  ed  è  la 
cagione  prima  ed  efficiente  dell'onesto  e  virtuoso  operare.  "  Di  tal  forza  ha  provve- 
duto Iddio  l'Anima  nostra,  che  essa  può,  se  vuole,  prevenire  e  fermare  il  precipitoso 
corso  degli  sregolati  moti  interni,  tanto  che  la  Mente  disamini  prima,  se  veramente 
sia  un  Bene,  o  pure  un  Male,  l'azione  proposta  dalla  Passione  focosa,  con  antivedere, 
e  raccogliere  le  conseguenze  di  ciò  che  è  per  farsi  „  (2). 

Virtù  proprie  della  libera  volontà  sono  l'ordine  dell'anima  nostra,  cui  si  oppone 
la  dissolutezza;  l'ubbidienza  alla  legge  morale,  cui  s'oppone  la  licenza. 


(1)  Vedi  indietro  pag.  17. 

(2)  Filosofìa  MoroB,  cap.  VII,  pag.  90. 


67  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  131 

Tre  sono  pertanto  gli  ordini  cui  deve  aspirare  la  nostra  ragione:  Ordine  verso 
Dio,  ordine  verso  i  nostri  simili,  ordine  verso  il  nostro  interno.  A  proposito  di  quest'ul- 
timo poi  il  M.  osserva  "  che  esso  è  precisamente  oggetto  della  Filosofia,  per  quello 
che  riguarda  i  Costumi,  e  l'operar  delle  Creature  Ragionevoli.  Dico  pertanto,  che  sic- 
come il  Corpo,  allorché  è  libero  da  ogni  male,  o  sia  da  qualsivoglia  infermità  e  Dolore, 
e  per  conseguenza  Sano,  si  truova  in  quell'Ordine,  e  buon  sistema,  che  ad  esso  con- 
viene :  cosi  l'Anima  è  da  dire  ben'  ordinata  in  se  stessa,  qualora  è  libera  dall'Errore, 
dal  Peccato,  e  dal  Delitto  (veri  Disordini  dell'Anima,  e  perciò  Mali  morali)  o  almeno 
qualora  ella  sente  vero  abbonamento  ad  essi,  e  fa  quanto  può  per  guardarsene,  o 
per  liberarsene  „  (1). 

Ora  liberare  l'anima  nostra  dall'errore,  dal  peccato  e  dal  delitto,  cioè  da  ogni 
azione  contraria  a  virtù  e  sapienza,  è  appunto  il  mezzo  più  efficace  di  educazione 
della  libera  volontà.  Occorre  quindi  imprimere  profondamente  nell'animo  dell'alunno 
il  convincimento  che  la  vita  nostra  deve  essere  una  continua,  costante  latta  contro 
quei  nostri  nemici  interni,  e  che  questo  lavoro  sostenuto  in  omaggio  del  dovere,  è 
la  più  nobile  estrinsecazione  della  nostra  attività.  A  ciò  si  presentano  vari  mezzi 
ovvii  e  sicuri  che  si  possono  riassumere  nel  precetto,  che  non  si  deve  contrastare 
al  regolare  esplicamento  della  libera  volontà,  affinchè  essa  operi  per  virtù  sua  pro- 
pria, non  per  impulso  esteriore;  ma  nemmeno  le  si  deve  lasciar  libera  la  briglia 
affinchè  non  travii  e  cada  nella  licenza,  oppure  intorpidisca  e  si  estingua  nell'indif- 
ferenza ed  apatia. 

Cos'i  ci  pare  d'aver  considerata  l'educazione  nelle  sue  forme  principali  di  edu- 
cazione fisica,  intellettuale,  estetica,  morale  e  religiosa  sotto  la  guida  del  M.  Trascu- 
riamo di  trattare  separatamente  di  altre  forme,  educazione  domestica,  extradomestica, 
tecnica,  classica,  ecc.,  avendone  qua  e  là  detto  a  sufficienza,  tanto  più  che  difficil- 
mente si  potrebbero  raccogliere  in  capitoli  speciali  i  pensieri  del  M.  a  tal  riguardo. 
Riserviamo  tuttavia  un  capitolo  speciale  per  l'educazione  della  donna  e  del  Principe, 
de'  quali  ci  pare  abbia  più  distesamente  e  particolarmente  parlato  il  Muratori. 


(1)  Filosofìa  Morale,  cap.  XXVII,  pag.  243. 


132  STEFANO    GRANDE  68 


PARTE    TERZA 


L'educazione  considerata  nella  sua  sintesi  finale. 

Riconoscimento  e  coltura  del  carattere.  —  Stabiliti  i  principi  generali  educativi,  è 
logico  e  naturale  vedere  della  loro  applicazione,  e  a  noi  resta  appunto  da  trattare 
di  quella  parte  dell'educazione  che  dalla  teoria  scende  alla  pratica,  dall'astratto  al 
concreto,  e  si  occupa  direttamente  della  formazione  del  carattere,  centro  a  cui  devono 
tendere  tutte  le  altre  parti  dell'educazione.  Ma  come  questa  parte  ha  la  sua  ragione 
d'essere  nelle  cose  fin  qui  discorse,  cosi  da  esse  dobbiamo  desumere  la  sua  tratta- 
zione, senza  aspettare  altre  grandi  cose  dal  Muratori.  È  la  conclusione  che  dobbiamo 
tirare  dalle  premesse. 

Tre  sono  i  cardini  su  cui  s'aggira  la  grande  opera  della  formazione  del  carat- 
tere: Riconoscimento  del  carattere  individuale,  coltura  di  esso,  scelta  dello  stato. 
Per  quanto  riguarda  il  riconoscimento  e  la  coltura  del  carattere  il  M.  si  mostra  infor- 
mato dei  principali  criteri  dei  diversi  sistemi  educativi:  egli  li  passa  in  rassegna,  e 
da  ognuno  esporta  quel  tanto  di  vero  e  di  buono  che  gli  pare.  Così  egli  accetta  in 
generale,  e  adopra  come  buon  criterio  per  riconoscere  le  varie  disposizioni  del  carat- 
tere, l'esame  della  massa  cerebrale;  la  struttura,  le  prominenze,  il  volume  cranico: 
il  temperamento;  gli  umori  corporei;  gli  spiriti;  l'eredità  psicologica,  ecc.,  e  al  loro 
studio  e  riconoscimento  dedica  vari  Capitoli,  II,  III,  IV,  V  della  sua  Filosofia  Morali -. 
Sono  pagine  assennate  e  dotte  che  rivelano  una  buona  coltura  filosofica  e  fisiologica 
nel  grande  Modenese,  e  costituiscono  un  altro  grande  suo  merito.  Ma  noi  non  pos- 
siamo qui  seguirlo  più  d'appresso,  e  perchè  i  precetti  e  le  teorie  da  lui  propugnate 
sono  già  state  affermate  ed  accolte  dalle  scienze  fisiologiche  e  anatomiche  moderne, 
e  perchè  ci  allontaniamo  di  troppo  dal  nostro  scopo. 

I  criteri  citati,  temperamento,  massa  cerebrale,  volume  cranico,  ecc.,  sono 
esclusivi  all'organismo  corporeo,  mentre  il  carattere,  riguardando  le  disposizioni  pro- 
prie ingenite  dello  spirito,  abbisogna  per  la  sua  formazione  e  coltura,  di  ben  altri 
criteri.  E  qui,  sotto  la  scorta  del  M.,  ricordiamo  la  continua  e  sagace  osservazione  dei 
genitori  e  degli  educatori  (1),  l'opportunità  dell'ambiente  domestico  e  sociale  che 
avvolge  l'alunno  (2),  l'educazione  autonoma  (3),  l'imitazione  consapevole  e  riflessiva  (4). 
Ben  altri  mezzi  si  trovano  suggeriti  ancora  nel  M.,  mezzi  di  minore  importanza,  ma 
pur  sempre  efficaci;  ma  per  questi  ci  accontentiamo  di  quanto  per  avventura  abbiamo 
potuto  dire  nella  nostra  trattazione,  premendoci  di  fermarci  di  più  su  due  punti 
speciali:  i  Collegi  Convitti  e  la  Scelta  dello  Stato. 


(1)  Cfr.  Filosofia  Morale,  cap.  XXV,  pag.  227-28. 

(2)  Idem,  cap.  Ili,  pag.  47-48;  cap.  XLII,  pag.  393-99;  Lettera  al  Porcia;  Della  Pubblica  Felicità, 
cap.  XIV,  pag.  165-66. 

(3)  Idem,  cap.  X,  pag.  116;  Delle  Rifless.  sopra  il  Buon  Gusto,  cap.  IV,  ecc.  ecc. 

(4)  Vedi  pag.  17-18. 


69  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  133 


Il  Collegio. 

L.  A.  Muratori  è  un  fautore  convinto  dei  collegi  e  li  raccomanda  vivamente  per 
la  buona  educazione  dei  giovani.  Egli  non  vede  in  essi  che  bene;  in  essi  i  giovani 
apprendono,  meglio  che  altrove,  i  principi  d'una  vita  morigerata,  il  rispetto,  l'ubbi- 
dienza ;  in  essi  evitano  molte  probabilità  di  cadute  morali.  Il  collegio  racchiude  tutti 
i  vantaggi  delle  scuole  pubbliche  e  delle  private,  della  vita  domestica  e  dell'extra- 
domestica,  è,  in  una  parola,  il  vero  santuario  dell'educazione  e  dell'istruzione.  "  Per 
questa  cagione,  oltre  a  tant'altre,  saranno  sempre  da  lodare  e  da  giudicare  utilissimi 
i  Collegi  de'  Nobili  e  i  Seminarj  istituiti  in  Italia,  purché  posti  in  man  di  saggi  e  pii 
Direttori.  La  disputa  è  antica,  e  Quintiliano  ne  tratta,  se  sia  meglio  il  mandare  i 
fanciulli  alle  pubbliche  Scuole,  dove  lor  giova  l'emulazione,  o  pure  il  dar  loro  Maestri 
in  casa,  dove  non  è  da  temere  della  compagnia  de'  cattivi.  Or  l'imo  e  l'altro  bene- 
ficio può  nello  stesso  tempo  ottenersi  in  questi  Collegj  „  (1).  Egli  pensa  pur  anche 
alla  scuola  paterna  e,  a  parità  di  meriti,  non  l'escluderebbe,  se  non  ci  occorresse 
qui  un  padre  saggio,  un  maestro  scelto,  un  abile  soprintendente,  una  casa  dovizio- 
sissima   e  poi  e  poi  '  al  tirare  de'  conti  non    si   restringesse  a  pochi  il  potere  e 

sapere  dare  a'  figliuoli  nelle  loro  case  tutto  quell'alimento  di  buoni  costumi  (e  non 
parlo  qui  dell'Educazione  e  delle  Scienze)  il  quale  si  può  sperare  da'  Collegi  e  Semi- 
nari regolati  con  savia  Disciplina  „  (2). 

Io  espongo  e  non  discuto,  persuaso  delle  buone  intenzioni  del  M.,  ma  più  che 
altro  credendole,  almeno  per  conto  mio,  pii  desideri.  Noi  moderni  non  siamo  più 
tanto  ottimisti,  e  alle  due  sole  condizioni  richieste  dal  M.  perchè  il  Collegio  sia  dav- 
vero quello  stupefacente  santuario  di  educazione  e  di  virtù,  ne  aggiungiamo  tant'altre 
da  riempiere  un  lungo  capitolo.  Gran  che  un  pio  direttore  e  una  savia  disciplina;  ma 
devesi  pur  pensare  che  il  livello  comune  che  domina  la  vita  del  Collegio  è  un  guaio 
grandissimo  ;  che  non  si  può  sottoporre  alla  medesima  igiene  fisica  e  morale  ragazzi 
forti  e  deboli,  superbi  ed  umili,  generosi  ed  egoisti,  robusti  e  delicati:  che  il  vizio 
è  in  essi  più  presto  insinuato  in  forza  dell'esempio;  che  l'educazione  del  libero  arbi- 
trio, del  carattere  non  può  farsi  in  massa  e  sopra  una  folla  cotanto  varia;  che  lo 
strettoio  del  regolamento  uniforme  comprime  tutte  le  volontà;  che  quella  necessità 
di  continua  e  fredda  disciplina,  quel  regime  militare,  quell'aspetto,  per  lo  meno,  da 
caserma,  quegli  istitutori,  in  generale  tutt'altro  che  arche  di  scienza  e  di  coscienza..., 
che  tutto  questo  po'  po'  di  cose,  ed  altre  ancora,  non  finiscono  per  rendere  tanto 
accetto  quell'Eden  muratoriano  (3). 

Ma  questi  non  sono  che  gli  inconvenienti,  e  non  tutti,  di  un  lato  solo  della  que- 
stione, la  quale  presenta  tanti  aspetti  quanto  la  testa  d'Argo. 

I  collegi,  chi  non  lo  sa?  dovrebbero  essere  i  continuatori  della  vera  educazione 
domestica,  e  i  preparatori  della  sociale,  invece  ne  sono  quasi  i  distruttori.  Sono  fa- 
miglie artificiate,  dice  Gino  Capponi,  fondate  a  sostegno  d'una  parte,  d'un  ordine,  o 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  XL1I,  pag.  397-98. 

(2)  Ibidem,  pag.  398. 

(3)  Cfr.   G.   Allievo,   La  Riforma    dell'Educazione    moderna,  ecc.,    pag.  30-32,  e    49-50;    e  Studi 
Pedagogici,  pag.  333-35. 


134  STEFANO    GBANDE  70 

di  un  ceto,  e  non  di  rado  intese  a  promuovere  con  la  industria  di  un  metodo  un'am- 
bizione privata  o  un  privato  interesse.  Se  sono  nazionali ,  il  governo  vi  sviluppa  i 
suoi  intendimenti  politici  e  arieggiano  la  caserma  ;  se  privati,  in  mano  del  clero,  lo 
spirito  religioso  prevale  sullo  scientifico  e  civile  e  arieggiano  il  convento;  se  privati, 
in  mano  di  laici,  per  lo  più  predomina  la  speculazione  e  l'interesse  e  arieggiano  la 

bottega 

Ma  noi  dobbiamo  ritornare  sui  nostri  passi,  e  a  me  pare  di  non  fare  nessun  torto 
al  M.,  alle  sue  dottrine  e  alle  sue  idee,  osservando  che  dopo  tanto  progresso  delle 
scienze  e  della  pedagogia,  dopo  quanto  si  vide,  si  ammise,  si  dimostrò  nell'arte  del- 
l'educazione, in  mezzo  a  tanto  allagare  di  collegi,  il  M.  stesso  modificherebbe  forse 
i  suoi  pensieri,  e  si  accorderebbe  colle  vedute  moderne. 

Vocazione  e  Scelta  dello  Stato. 

Il  conseguire  nella  società  quel  posto  cui  la  natura  fin  dall'origine  ci  plasma. 
e  l'occuparlo  degnamente,  è  problema  non  poco  arduo,  che  non  si  estende  solo  alla 
nostra  individualità  personale,  ma  tocca  pur  anche  in  qualche  modo  la  società,  la 
quale  dal  nostro  felice  assetto  riceve  forza  di  compagine  e  vigore.  E  di  somma  neces- 
sità pertanto  che  si  studii  ben  per  tempo  le  nostre  inclinazioni,  e  che  l'educatore  noti 
tutte  le  manifestazioni  e  rivelazioni  della  nostra  vocazione  attraverso  ai  molteplici 
fenomeni  dello  sviluppo  fisico,  intellettuale  e  morale,  osservando  in  quali  ci  com- 
piaciamo,  e  da  quali  abbordarne  La  vera,  la  forte  inclinazione  è  talora  infatti  pre- 
cocissima, epperciò  deve  essere  elemento  primo  di  esame,  perchè  essa  è  indice  sicuro 
di  riuscita.  Il  M.  l'appella  genio,  e  per  esso  intende,  "  una  certa  naturale  inclinazione 
ed  anche  impulso,  che  insensibilmente  porta  chi  alla  pittura,  chi  alla  musica,  e  così 
ad  altre  arti  o  meccaniche  o  liberali,  alle  lettere,   e   nelle  lettere  stesse   più  ad  un 

campo  che  all'altro E  ben  si  dovrebbe   per   tempo   ne'  Fanciulli  e  ne'  Giovanetti 

attentamente  indagare  e  scoprire  questo  genio,  e  scandagliare  le  forze  loro.  Non  è 
poco  abbaglio  il  volerli  mettere  a  volare,  se  dalla  natura  non  hanno  sortito  ali  e 
penne,  e  incamminarli  all'oriente,  quando  il  loro  cuore  è  volto  a  ponente  „  (1). 

Sono  parole  istruttive  ed  assennate,  le  quali  fra  l'altre  cose,  assodano  un  grande 
principio  pedagogico  e  didattico:  che  la  vocazione  sincera  e  sicura  trae  con  sé  da 
natura  forze  ed  aiuti  concomitanti  e  competenti  al  suo  sviluppo,  e  alla  sua  riuscita  ; 
occorre  quindi  esercitare,  sviluppare,  rafforzare  quelle  occulte  potenze,  affinchè  non 
abbiano  più  a  patir  scosse. 

Ma  non  bisogna  cader  nell'estremo  opposto  e  lasciar  troppo  sbrigliata  la  prima 
inclinazione  del  fanciullo,  che  può  essere  effimera  ed  anche  fallace.  Deve  l'educatore, 
e  principalmente  il  saggio  padre  di  famiglia,  illuminare  il  figlio  con  savi  consigli, 
aiutarlo  nello  studio  e  nella  conoscenza  di  se  e  del  mondo  sociale,  e  solo  allora  che  le 
sue  parole,  i  suoi  avvisi  ed  anche  le  sue  preghiere  non  varranno  a  smuoverlo  dal 
suo  proposito,  lasciarlo  libero  e  padrone  delle  sue  intenzioni.  "  Importa  assaissimo 
il  fare  attenta  riflessione  all'Indole  varia,  e  ai  diversi  Temperamenti  e  Ingegni,  spe- 
zialmente de'  Giovani,  per  ischivare  la  mala  destinazione,  che  fanno  d'essi  non  rade 
volte   i   lor    Genitori,  riprovata  da  tutti  i  Saggi.   Questo  alla    Chiesa,  quell'altro  al 


(1)  Lettera  al  Conte  di  Porcia. 


71  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI 


135 


Secolo;  uno  allo  studio  delle  Leggi,  l'altro  alla  Medicina,  o  pure  alle  Matematiche; 
e  chi  ad  un  mestiere  e  chi  ad  un  altro.  Bisogna  in  ciò  adattarsi  al  loro  naturale 
talento,  e  accortamente  esaminar  le  loro  abilità  ed  inclinazioni.  Taluno  riuscirà  va- 
lente Dipintore,  bravo  Sonatore  di  Strumenti  Musicali,  accorto  nella  Mercanzia  ecc., 
applicato  che  sia  a  quella  professione  ;  ma  nelle  Scienze  niun  profitto  farà.  Altri  può 
essere  che  riesca  un  buon  Secolare,  ma  spinto  in  un  Chiostro,  senza  ben  pensare, 
dove  il  suo  naturale  il  porti,  sia  scontento  di  se  medesimo  per  tutta  sua  vita,  e 
faccia  altri  scontento.  E  a  questo  dovrebbero  ben  por  mente  que'  poveri  padri,  che 
mandano  alla  rinfusa  i  loro  figliuoli  alle  Scuole,  per  desiderio  e  speranza  di  farne 
un  di  la  propria  fortuna;  e  se  li  figurano  già  saliti  a  gradi  luminosi,  mutare  i  cenci 
in  toghe,  e  sguazzare  nell'abbondanza  mercè  delle  scienze,  che  han  tuttavia  da  impa- 
rare. Le  querce  non  daranno  mai  ulivi  o  pomi  „  (1). 

Non  meno  chiaramente  e  magistralmente  si  esprime  egli  altrove,  e  principal- 
mente in  quella  importantissima  e  da  noi  più  volte  citata  lettera  al  Conte  di  Porcia. 
Una  classe  sola  deve  in  qualunque  caso  far  studiare  i  figli  suoi,  i  ricchi,  e  perchè 
questo  è  per  loro  salutare  esercizio,  e  perchè  non  perdono  mai  nulla.  "  Che  i  figliuoli 
de'  Nobili  e  de'  benestanti,  volere  o  non  volere,  s'incamminino  per  la  via  delle  let- 
tere è  ben  fatto.  Anco  non  guadagnando,  nulla  si  perde  ;  e  si  guadagna  sempre 
qualche  cosa  „  (2). 

Numerose  altre  cause  intralciano  la  libera  scelta  dello  stato  :  il  metodo  stesso 
e  l'ordinamento  degli  studi;  l'ignoranza  o  l'indifferenza  di  chi  insegna;  l'impiego  ohe 
ci  attende;  il  favore  dell'arte  più  lucrosa:  l'opinione  pubblica;  l'esiguità  dell'asse 
patrimoniale,  ecc.,  ecc. 

Ma  nemmeno  qui  sono  indicati  tutti  gli  inciampi  che  si  oppongono  allo  sviluppo 
della  libera  vocazione,  né  enumerate  tutte  le  cause  che  ostacolano  la  libera  scelta 
dello  stato;  altre  ancora  si  devono  aggiungere,  imputabili  ai  genitori  e  agli  educa- 
tori, o  intrinseche  ai  giovanetti  stessi.  "  0  nella  tenera,  o  nella  soda  età  furono  o 
son  loro  troncate  le  ali;  imperciocché  talora  la  negligenza  de'  genitori  non  sa  per 
tempo  ammaestrarli  diligentemente  nelle  Scienze  e  spesso  le  politiche  ed  economiche 
esigenze,  e  l'Interesse  e  l'Ambizione,  rompono  a'  figliuoli  la  carriera  degli  studi  let- 
terari.  I  giovani  stessi,  o  vilmente  atterriti  dal  primo  volto,  che  in  apparenza  è 
orrido,  della  fatica,  o  rapiti  dagli  indomiti  effetti  del  senso,  o  persuasi  dalle  lusinghe 
dell'Interesse,  e  de'  superficiali  Onori,  o  incantati  dalla  tacita  magìa  dell'ozio,  da  se 
medesimi  volgono  le  spalle  alle  Scienze,  e  all'Arti  migliori,  meglio  amando  gli  indo- 
rati ceppi  delle  Corti,  la  sfrenata  libertà  della  malizia,  ma  più  d'ogni  altra  cosa  la 
miserabil  quiete  de  gli  oziosi  „  (3). 

Frattanto  tre  buoni  rimedi  conosce  il  M.  e  suggerisce  contro  questi  grandi  mali, 
studio,  esercizio,  educazione,  i  quali  "  hanno  da  mettere  in  mostra  tutto  il  buono, 
che  la  Natura  ci  diede  „  (4).  Che  se  poi  fallissero  anche  questi,  si  mandi  pure,  senza 
rimproccio  di  coscienza,  il  povero  all'officina  perchè  si  guadagni  il  pane;  il  ricco  al 
collegio  perchè  eviti  il  vizio  e  il  peccato.  Il  M.,   bisogna  riconoscerlo,  è  pur   sempre 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  V,  pag.  66-67. 

(2)  Delle  Riflessioni  sopra  il  Burnì  Gusto,  parte  II,  cap.  I,  pag.  23. 

(3)  Idem,  pag.  12. 

(4)  Ibidem. 


136  STEFANO    GRANDE  7  li 

in  qualche  modo  un  po'  tenero  del  ricco,  del  privilegiato  della  fortuna,  contro  il  quale 
non  arriva  a  suggerire  esplicitamente  rimedi  radicali  (1).  Altri  invece  è  più  energico, 
e  per  giovane  tale  che  finirà  per  infingardire  anche  nello  studio,  scrive  M.  de  Mon- 
taigne: "  il  n'y  treuve  aultre  remede,  sinon  qu'on  le  mette  pastissier  dans  quelque 
"  bonne  ville,  feust  il  fils  d'un  due  ;  sujvant  le  precepte  de  Platon,  qu'il  faut  colloquer 
"  les  enfants,  non  selon  les  facultez  de  leur  pere,  mais  selon  les  facultez  de  leur  ame  „  (2). 

Ma  ritorniamo  a  noi,  e  concludiamo.  Il  problema  della  scelta  dello  stato  è  vasto 
e  arduo,  e  il  M.  lo  riconosce  e,  si  può  dire,  lo  studia  in  tutta  la  sua  generalità,  e 
riesce  a  darci  buoni  ed  importanti  precetti  ohe  sono  pur  sempre,  nella  loro  univer- 
sale e  continua  efficacia,  di  grande  attualità  e  freschezza. 

Ma  noi  non  seguiamo  più  oltre  il  M.  su  questo  proposito:  nella  scelta  dello 
stato  si  ha  il  centro  di  gravitazione  della  nostra  vita,  ed  il  punto  di  equilibrio  della 
società;  con  esso  si  chiude  un  grande  periodo  dell'educazione  umana,  l'alunno  ha 
compiuto  il  suo  tirocinio,  egli  è  libero  di  se,  e  davanti  ai  suoi  occhi  sta  il  gran 
mondo  di  cui  egli  è  il  padrone. 


APPENDICE 


IX.  —  L'Educazione  della  Donna. 

Due  opposte  correnti  si  dividono  il  campo  dell'educazione  femminile:  secondo  gli 
uni  la  donna  deve  vivere  fuori  d'ogni  movimento  e  d'ogni  coltura  sociale  ed  assolvere 
tutta  la  sua  missione  fra  le  pareti  domestiche;  secondo  gli  altri  essa  deve  essere 
"  emancipata  „  educata  cioè  e  chiamata  ad  adempiere  tutte  le  funzioni  civili,  poli- 
tiche, scientifiche,  religiose,  e  partecipare  a  tutti  i  diritti  civili,  sociali  e  morali 
dell'uomo.  E  da  una  parte  il  richiamo  della  società  antica,  e  dall'altra  il  grido  della 
moderna. 

Il  M.,  non  fa  bisogno  di  dirlo,  non  cade  ne  nell'uno,  ne  nell'altro  eccesso  ;  egli 
sa  che  antropologicamente  l'uomo  e  la  donna  appartengono  alla  medesima,  identica 
specie,  epperò  per  quanto  riguarda  le  loro  potenze  costitutive,  sentire,  intendere, 
volere,  essi  devono  essere  trattati  alla  stessa  stregua,  ed  egli  dettando  precetti  a 
tal  proposito  li  considera  come  un  tutto  solo.  Ma  egli  sa  pure  che  fisiologicamente  e 
psicologicamente  le  loro  potenze  sono  ben  diverse,  e  vanno  quindi  diversamente  trat- 
tate, ed  egli  inclina  leggermente  per  questa  parte  verso  l'antico  sistema.  Il  suo  ideale 
nell'educazione  femminile,  è  il  più  facile,  e  osiamo  dire,  il  più  conforme  a  natura, 
esso  si  può  comprendere  nella  nota  sentenza:  Domi  mansit,  lanam  fecìt. 

La  donna  è  più  debole  d'organismo  e  di  raziocinio  dell'uomo,  ma  essa  è  più 
potente  di  cuore,  più  vivace  di  sentimento,  più  sbrigliata  di  fantasia,  e  la  sua  nota 
particolare  è  la  poca  pratica  del  mondo,  per  cui  deve  essere  guidata  e  governata  da 
saggi  capi. 

"  Convenendo  a  questo  sesso  la  riservatezza  (3),  e  lo  star  lungi  dal  gran  Mondo, 


(1)  Cfr.  Della  Pubblica  Felicità,  cap.  IV,  pag.  35. 

(2)  M.  de  Montaigne,  Essais,  cap.  XXV,  pag.  87. 

(3)  Filosofìa  Morale,  cap.  XXXVI,  pag.  340. 


73  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  137 

e  non  essendo  sempre  le  lor  teste  perfettamente  lavorate  nell'officina  della  prudenza  : 
anzi  essendo  esse  sottoposte  a  delle  stravaganze  della  lor  fantasia,  e  a  varj  deliquj  di 
Giudizio  ;  bene  è,  che  siccome  ne'  Contratti  elle  non  possono  operare  senza  l'assistenza 
de'  Savi,  cos'i  in  molte  altre  azioni  dipendano  dal  consenso  e  consiglio  di  chi  è  loro  Capo. 
L'Uomo  per  troppa  Libertà  sta  in  pericolo  di  scavezzarsi  il  collo:  ma  certo  più 
sovente  per  la  troppa  Libertà  la  Donna  se  lo  scavezza.  Peraltro  le  Donne  oneste  esaggie, 
allorché  sanno  bene  ubbidire  a  i  loro  mariti,  anch'esse  comandano.  L'osservazione  fu 
fatta  da  Publio  Mimo  in  quel  verso  :  Casta  ad  tirimi  matrona  parendo  imperai  „ . 

Si  potrà  non  essere  del  tutto  d'accordo  col  M.,  ma  tolta  la  severità  dell'espres- 
sione, bisogna  pur  riconoscere  che  egli  non  ha  torto.  Lo  slancio  dell'affetto  e  del  cuore 
che  domina  tutta  la  donna  deve  essere  rivolto  alla  sua  speciale  missione  di  figlia, 
di  sposa,  di  madre,  e  la  sua  educazione  deve  essere  essenzialmente  informata  alle 
virtù  domestiche. 

Come  figlia  essa  deve  tendere  a  quello  spirito  di  ubbidienza,  di  ordine,  di  par- 
simonia, di  raccoglimento  che  è  sicura  arra  di  riuscita  nell'avvenire  ;  come  sposa 
essa  deve  attendere  alla  cura  e  felicità  del  suo  compagno  e  capo  ;  come  madre  alla 
assennata  e  coscienziosa  educazione  dei  propri  figli;  in  tutti  i  suoi  stati  poi  al  go- 
verno della  casa  e  alla  cura  delle  faccende  domestiche. 

Questi  pertanto,  in  sintesi  generale,  i  pensieri  del  M.  sull'educazione  della  donna. 
Ma  il  moderno  sistema  d'educazione  femminile  ha  ben  altre  tendenze,  e  la  semplicità 
del  M.  coite  rischio  di  essere  scambiata  per  ingenuità.  Del  resto  il  sistema  di  edu- 
cazione da  lui  propugnato  si  confaceva  poco  anche  con  quello  dei  suoi  tempi,  ed 
egli  se  ne  difendeva  candidamente,  mettendo  a  confronto,  in  due  riuscitissimi  quadri, 
gli  effetti  dei  due  diversi  sistemi.  Ed  ecco  come  egli,  con  mano  maestra  insupera- 
bile, descrive  lo  snervante  spettacolo  della  donna  moderna  "  excelsior  .,. 

"  Ecco  la  Signora  Galantina,  che  ora  la  discorre  col  suo  pappagallo,  ora  col  suo 
cagnolino  ;  eccola  con  inquietudine  continua  negli  occhi  e  nel  sedere,  quasi  non  sappia 
trovar  riposo.  Sentite  che  scappata  di  ridere,  ma  senza  pregiudicare  al  pregio  della 
bocca  studiosamente  impicciolita.  Mirate  come  gira,  come  lancia  occhiate  di  dritto 
e  di  traverso  ;  come  sospira  senza  alcun  motivo  di  tristezza,  e  ride  senza  menoma 
occasion  di  gioja.  Finge  d'esser  in  querela  con  tutti  gli  Uomini  di  sua  conversazione, 
sempre  studiando  nuove  attitudini,  nuovi  vezzi,  e  insegnando  al  suo  ventaglio  bat- 
tute e  positure  sempre  nuove,  sempre  galanti.  Ella  certo  merita  d'essere  chiamata 
la  Dea  delle  conversazioni,  ella  certo  vuol  piacere,  e  piacerà:  ma  a  chi?  Alle  teste 
leggiere,  o  a  chi  forse  ama  in  casa  propria,  e  non  già  nelle  altrui,  l'Onore  e  Giu- 
dizio: Signor  sì;  ma  non  già  alla  gente  Saggia,  che  sa  distinguere  l'oro  dall'orpello. 
Leggono  i  saggi  in  tutti  quei  movimenti  e  atteggiamenti  la  malaccorta  Vanità;  leg- 
gono in  quegli  occhi,  e  in  quei  risi,  qualche  cosa  di  peggio.  Io  lascerò  considerare 
agli  Intendenti  ciò,  che  volesse  dire  a'  tempi  di  Giulio  Cesare  Publio  Mimo,  allorché 
scrisse  :  Multis  piacere  quae  cupit,  culpam  cupit.  Però  non  si  credano  di  sì  facilmente 
nascondere  i  lor  fini  e  desiderj  queste  Deità,  le  quali  in  qualche  Città  d'Italia  altro 
non  fanno  dalla  mattina  alla  sera,  o  per  dir  meglio  dal  mezzo  dì,  in  cui  sorgono 
dal  letto,  fino  al  tornarvi,  se  non  a  guadagnare  Idolatri  al  passeggio,  all'assemblea, 
al  tavogliere,  e  sino  in  Chiesa.  Che  se  per  avventura  simili  arti  vanno  a  procacciarsi 
un  talamo  nuziale,  si  può  ben  predire,  che  in  sì  fatte  reti  non  caderà  alcun  Giudizioso, 
Serie  IL  Tomo  LUI.  18 


138  STEFANO    GRANDE  74 

e  Saggio.  Cacciatoci  tali  son  destinato  per  cervelli  sventati,  che  non  amano  se  non 
la  bizzarria,  o  per  cervelli  da  dozzina,  che  non  si  intendono  di  vera  Amabilità,  cioè 
del  vero  pregio  delle  cose,  e  ne  faranno  la  penitenza  a  suo  tempo.  Ma  forse  anche 
potrebbe  toccare  questa  penitenza  alle  Donne  stesse,  le  quali  alle  mani  di  un  Saggio 
Marito  sono  felici,  infelicissime  bene  spesso  con  chi  è  privo  di  Virtù  e  di  Giu- 
dizio „  (1). 

Ma  ben  diverso  è  l'altro  aspetto  della  medaglia,  lo  spettacolo  molto  più  con- 
fortante della  saggia  madre  di  famiglia,  che  è  stata  allevata  ed  educata  al  sistema  di 
vita  di  gran  lunga  più  semplice  e  nobile,  a  cui  esclusivamente  è  chiamata  da  natura. 

"  E  ben  altro  pregio  sulle  bilance  de'  migliori  quello  di  una  Maritata  la  quale 
si  compiace  più  che  d'altro,  della  conversazione  de'  suoi  Figliuoli,  e  delle  sue  Ser- 
venti, per  ben  educare  i  primi,  e  ben  governare  il  resto  della  famiglia;  e  truova  più 
gustosi  e  convenevoli  i  suoi  lavorieri,  che  lo  spendere  metà  della  giornata  a  prepa- 
rarsi per  perdere  l'altra;  oppure  che  il  trattenersi  l'ore  intere  in  mezzo  ad  una  frotta 
di  adoratori  stranieri  a  riscuotere  incensi,  a  barattar  novelle,  e  a  maneggiar  carte, 
che  fan  perdere  il  danaro,  e  si  tirano  dietro  altre  conseguenze,  con  trascurare  in- 
tanto affatto  la  cura  della  sua  casa,  e  con  logorar  sì  malamente  il  tempo  prezioso, 
la  roba,  e  voglia  Dio  che  non  anche  la  purità  della  coscienza  „  (2). 

Ed  ancora:  "  Quanto  a  me  se  mirassi  una  Nobil  Donna  passarsene  le  veglie 
notturne  nella  camera  sua,  in  mezzo  alla  corona  delle  sue  Figliuole  e  Damigelle, 
intenta  essa,  e  intente  l'altre  a  questo  o  a  quel  lavoriere,  dispensar  gli  ordini  oppor- 
tuni per  la  buona  regola  di  tutta  la  casa,  e  inspirare  de'  retti  sentimenti  in  chi  è 
a  lei  sottoposto,  si  coll'esempio,  come  co'  ragionamenti,  e  colla  lettura  di  qualche 
savio  Libro,  e  insino  col  narrar  loro  delle  Fole  morali:  mi  sentirei  voglia  di  chia- 
marla una  saggia  Piegina  in  quel  suo  picciolo  Regno  „   (3). 

Sono  cose  vecchie,  sapute  e  risapute,  ma  pur  sempre  giuste,  e  sempre  piene  di 
alto  significato  e  di  potente  efficacia,  e  che  potrebbero  star  benissimo  in  un  trattato 
di  educazione  femminile. 

Il  M.  è  risentito  contro  le  donne,  ma  d'altra  parte  riconosce  che  non  sono  esse 
tutta  la  colpa  del  loro  male,  ma  noi  stessi  che  cominciamo  a  fuorviarle,  a  trascinarle 
fuori  della  loro  orbita  naturale  col  pretesto  di  una  nuova,  raffinata  educazione.  Così 
la  donna  si  introduce  nella  vita  politica,  attende  agli  studi,  s'occupa  di  scienza, 
d'arte,  di  religione,  di  diritto  delle  genti,  si  dà  allo  sport,  si  spoglia  delle  sue  mi- 
gliori e  più  soavi  qualità  e  trascura  quel  campo  dove  riuscirebbe  veramente  bene, 
veramente  amabile  ed  insuperabile.  Non  è  allo  studio  che  deve  mirare  la  donna, 
perchè  essa  non  riuscirà  mai,  ne  il  moto  femminista  moderno  che  vuol  emancipare 
la  sua  condizione,  ha  giuste  mire.  La  dottrina  delle  donne  procede  non  dalla  testa, 
ma  dalla  lingua,  e  certe  scienze,  appunto  perchè  trattate  da  loro,  scapitano.  "  Di 
grazia,  scrive  egli  a  Carlo  Borromeo  Arese  (4),  non  oltraggi  la  riputazione  della 
Morale  col  crederne  capaci  le  teste  femminili.  Da  che  son  divenuto  cortigiano,  cioè 
a  dire,  ho  cominciato  a  studiare  la  furberia,  veggo  manifestamente  che  il  saper  delle 


(1)  Filosofia  Morale,  cap.  SXXVI1I,  pag.  361-62. 

(2)  Idem,  pag.  363. 

(3)  Idem,  capo  Vili,  pag.  95-96. 

ili  Lettera  a  Carlo  Borromeo  Arese,  1701,  Campori,  II,  516-17. 


75  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  139 

donne  non  viene  dalla  testa,  ma  dalla  lingua,  che  va  imitando  il  linguaggio  degli 
uomini  „. 

Se  il  M.  si  fosse  proposto  direttamente  di  scrivere  dell'educazione,  forse  nella 
sua  schiettezza,  non  ci  avrebbe  risparmiato  altri  sali,  che  avrebbero  potuto  dar  vita 
a  certe  sfumature  che  noi  troviamo  nelle  sue  opere,  ed  in  parte  traducemmo  qui; 
ma  purtroppo  ciò  non  fa,  contentandosi  di  poche  ma  luminose  pennellate,  e  qua  e 
e  là  di  qualche  terribile  stoccata. 

Tale  è  pertanto  il  risultato  d'una  educazione  errata,  tali  per  sommi  capi  i  mali 
che  si  presentano  all'occhio  sommamente  pratico  del  M.,  come  conseguenza  d'una 
malintesa  raffinatezza.  Frainteso  lo  scopo  della  vita  della  donna,  della  sua  nobile 
missione,  ne  sono  necessariamente  fraintesi  i  mezzi,  e  noi  assistiamo  a  quegli  stoma- 
chevoli spettacoli.  A  questo  male  non  può  riparare  la  moderna  educazione  a  base  di 
emancipazione,  perchè  ad  eccesso  oppone  eccesso,  e  snatura  da  un  altro  Iato  i  più 
gentili,  soavi,  squisiti  sentimenti  femminili.  Secondo  il  M.  e  il  suo  ammirabile  buon 
senso,  vi  si  può  rimediare  con  un  mezzo  solo,  ma  sicuro,  infallibile,  col  ritorno  alla 
antica  semplicità,  al  Domi  mansit,  lanam  fecit. 

XI.  —  Dell'Educazione  del  Principe. 

Abbiamo  riservato  un  capitolo  speciale  all'educazione  del  Principe,  e  perchè  su 
questo  argomento  si  fermò  in  modo  speciale  il  M.,  e  perchè  ci  parve  di  poter  con 
esso  colmare  una  lacuna  nell'opere  e  nella  vita  del  nostro  autore.  E  pensatamente 
diciamo  una  lacuna,  perchè  mentre  tanto  si  parlò  dei  grandi  precettori  reali  dei  tempi 
muratoriani,  mentre  celebri  e  conosciutissimi  sono  i  nomi  del  Gerdil,  precettore  del 
Principe  del  Piemonte,  Carlo  Emanuele  IV;  del  Fénélon,  istitutore  del  Duca  di  Bor- 
gogna; di  Bossuet,  precettore  del  Delfino  di  Francia,  figlio  di  Luigi  XIV;  dell'abate 
di  Condillac,  istitutore  dell'Infante  Ferdinando,  nipote  di  Luigi  XV,  erede  del  Ducato 
di  Parma,  Piacenza  e  Guastalla,  pochi,  pochissimi  accenni  abbiamo  a  L.  A.  Mura- 
tori, precettore  del  primogenito  di  Rinaldo  d'Este,  Duca  di  Modena.  Pochissimi  infatti 
dei  biografi  del  M.  parlano,  con  cognizione  di  causa,  di  questo  suo  eminente  ufficio, 
non  escluso  lo  stesso  nipote  Gian  Francesco  Soli  Muratori,  che  appena  appena  inci- 
dentalmente e  di  volo  l'accenna. 

L.  A.  Muratori ,  come  gli  illustri  educatori  ricordati ,  scrisse  pel  suo  augusto 
discepolo  un'operetta  di  Filosofia  Morale,  la  quale  però  non  vide  la  luce  per  le  stampe 
che  ducente  anni  dopo  la  nascita  del  suo  grande  autore  (1),  e  presentemente  è  somma 
grazia  se  è  conosciuta  appena  dai  dotti  in  materia,  o  se  qualcuno  la  degna  di  una 
occhiata.  Ma  la  fortuna  che  mancò  a  quest'opera,  toccò  intera  alla  Filosofia  Morale  (2), 
la  cui  prima  idea  venne  appunto  suggerita  al  M.  dalle  lezioni  che  impartiva  al  suo 
Signore  (3).  Però,  non  ostante  i  grandi  punti  di  contatto,  i  due  trattati  non  sono 
punto   la  medesima    cosa,  ed    anzi    l'opera   che   si  può    quasi    dire   la    madre    delle 


(1)  Scritti  inediti  di  L.  A.  Mur.  pubblio,  pel  suo  secondo  centenario.  Bologna,  Zanichelli,  1872. 

(2)  Il  Trattato  della  Filosofia  Morale  fu  pubblicato  la  prima  volta  a  Verona  nel  1735,  in-4"; 
quindi  a  Napoli  nel  1737,  e  successivamente  a  Milano,  a  Venezia  nel  1754,  in-8°,  ecc.,  ecc.  L'edi- 
zione da  noi  usata,  come  dicemmo,  è  quella  di  Venezia  del  1763. 

(3)  Ci'r.  Vita  del  proposto  L.  A.  Muratori  di  Gian  Francesco  Soli  Muratori.  Venezia,  Pasquali,  1756. 


140  STEFANO    GRANDE  76 

lezioni  morali  al  duca  di  Modena,  è  piuttosto  il  Trattato  della  pubblica  Felicità, 
oggetto  dei  buoni  principi,  in  cui,  come  appare  fin  dal  titolo,  la  questione  dei  doveri 
e  dei  diritti,  e  in  generale  dell'educazione  morale  del  principe,  si  presentava  di  fronte 
e  spontanea,  essendo  appunto  la  pubblica  felicità  il  vero  fine  dei  regnanti. 

Il  trattatello  muratoriano  in  questione  è  diviso  in  due  parti:  nella  prima  intito- 
lata Del  Governo  Individuale,  l'autore  mira  a  formare  il  cuore  nostro  a  quelle  virtù 
che  ci  saranno  necessarie,  qualunque  abbia  da  essere  la  nostra  condizione,  profes- 
sione, ecc.  ;  nella  seconda,  intitolata  Del  Governo  Politico,  il  M.  si  rivolge  direttamente, 
e  particolarmente  al  Principe,  discorre  dei  suoi  uffici,  dei  suoi  doveri  speciali,  e  delle 
qualità  che  lo  guidano  a  regnare  saviamente  sopra  i  suoi  sudditi. 

E  qui  è  da  notarsi  che  il  M.  non  fu  chiamato  all'eminente  e  delicato  ufficio  di 
precettore  del  futuro  monarca,  per  apprendergli  le  lettere,  le  leggi,  l'arte  della  guerra, 
od  altre  scienze  simili,  ma  ebbe  affidata  una  parte  più  nobile  ancora,  e  per  noi  di 
o-ran  lunga  più  importante,  l'educazione  morale.  I  precetti  pertanto,  o  come  li  intitola 
il  nipote  e  fors'anche  il  M.  stesso,  le  Lezioni  di  Filosofia  Morale  per  l'istruzione  d'un 
Principe,  riguardano  esclusivamente  la  morale,  come  dice  il  titolo  stesso,  epperò  noi 
non  dobbiamo  ricercare  in  esse,  che  le  tracce  di  questa  disciplina,  e  la  testimonianza 
del  metodo  con  cui  la  insegnò.  Ma  nemmeno  dobbiamo  aspettarci  qui  l'ordine  rigo- 
roso e  sistematico  d'un  vero  trattato,  ne  la  scientifica  dimostrazione  delle  verità 
propugnate;  il  M.  intendeva  con  esse  di  additare  .semplicemente  il  cammino  della 
verità  e  della  giustizia ,  il  percorrerlo  poi  era  riservato  allo  spirito  dell'  eminente 
suo  discepolo. 

Della  prima  parte  di  quel  trattato  riferentesi  al  governo  individuale,  parlammo 
già  trattando  delle  virtù  della  coscienza  morale  (1),  ne  altro  dobbiamo  qui  aggiun- 
gere. L'autore  volle  porre  innanzi  ai  nostri  occhi  tutta  la  bellezza  della  virtù,  mi- 
rando a  dare  robusta  tempera  alla  volontà  e  indirizzare  l'intelletto  alla  verità,  per 
arrivare  da  una  parte  alla  spontanea  tendenza  al  bene,  e  dall'altra  al  comando  di 
noi  e  al  dominio  delle  nostre  passioni. 

Ma  dove  il  M.  ci  si  rivela  in  tutta  la  nobiltà  e  generosità  dei  suoi  sentimenti, 
in  tutta  la  soavità  dei  suoi  affetti,  e  nel  tempo  stesso  in  tutta  la  potenza  del  suo 
raziocinio  e  la  forza  del  suo  carattere,  si  è  nella  seconda  parte  di  quell'opera,  dove 
tratta  del  Governo  Politico. 

Non  era  sua  intenzione  fare  del  giovane  Principe  un  filosofo,  un  poeta,  un  guer- 
riero, egli  voleva  farne  un  galantuomo,  e  non  vi  trascura  davvero  mezzo  alcuno. 
Egli  che  seppe  con  tanta  assennatezza  e  perspicacia  dettare,  nella  sua  Filosofia 
Morale,  le  regole  e  le  norme  della  buona  vita  morale,  dovette  pur  anche  sapere, 
con  altrettanto  senno  ed  acume,  dettare  le  regole  e  le  norme  di  chi  è  il  fondamento 
di  quella. 

Ed  esordisce  con  forza  e  vigore  degno  dell'assunto.  "  Il  Principe  è  una  persona 
destinata  da  Dio  a  governare  de  i  popoli,  e  a  procurare  in  tutto  quello  ch'ei  può  la 
lor  felicità  „ .  È  un  ufficio  altissimo  e  sacro,  ma  di  estrema  difficoltà  e  che  si  assolve 
solo  cercando,  promovendo,  amministrando  la  pace,  la  giustizia,  la  prosperità  comune. 

Il  suo  fine  è   la    pubblica  felicità,  i  suoi  mezzi  l'onore  e  la   gloria.  "  Ora,  dice 


(1)  Vedi  pag.  65-66.  Di  questa  prima  parte  la  fonte  più  diretta  è  senza  dubbio  la  Filosofia  Morale. 


77  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  141 

egli  (1),  non  vi  può  già  essere  gloria  più  sicura  e  maggiore  per  un  Principe,  che 
quella  di  ben  governare,  e  di  volere  e  di  saper  rendere  felici  i  Popoli  suoi,  essendo 
questo  il  primo  impiego,  e  il  più  importante  pregio  della  sua  Corona  „.  La  gloria 
delle  conquiste,  della  potenza,  della  magnificenza  è  fallace;  la  vera,  la  buona,  la 
più  duratura  gloria  è  quella  che  poggia  sulle  virtù  e  sulle  azioni  buone. 

A  questi  nobili  intenti  conviene  che  l'educatore  indirizzi  il  suo  Principe,  seguendo 
tali  grandi  e  luminose  linee  nel  suo  sublime  ministerio.  "  Sarebbe  da  desiderare  che 
chiunque  è  scelto  per  l'Educazione  d'un  giovane  Principe,  sovra  ogni  altra  cosa  fosse 
persuaso  di  questa  Massima,  per  piantarla  e  radicarla,  per  quanto  è  mai  possibile, 
nel  cuore  di  chi  è  destinato  al  Regno.  Cioè,  che  la  principale  e  più  luminosa  Virtù 
d'un  Rettor  di  Popoli  ha  da  essere  quella  di  amarli,  e  di  beneficar  ciascuno  secondo 
la  sua  condizione,  per  quanto  si  stende  il  suo  potere.  A  questo  fine  Dio  l'ha  fatto 
nascere,  Dio  gli  ha  destinato  il  Trono  „  (2). 

Un  ottimo  Principe,  è  d'uopo  ricordarlo,  è  un  gran  Santo;  e  la  sua  educazione 
è  una  delle  cose  più  difficili  e  importanti  del  suo  regno.  Occorre  pertanto  che  di 
questa  importanza  e  difficoltà  si  compenetrino  coloro  che  gli  stanno  attorno,  pen- 
sando che  quanto  più  è  elevata  la  persona  che  si  educa,  tanto  maggiore  è  la  respon- 
sabilità. Lo  spirito  d'imitazione,  potente  nelle  buone  azioni,  è  potentissimo  nel  male, 
e  l'esperienza  e  la  storia  stanno  a  dimostrarci  con  quanta  rapidità  si  propaghi  dal 
trono  la  corruzione...  (3). 

L'occhio  del  Principe  pertanto  non  deve  vedere  che  buone  massime;  il  suo 
orecchio  non  deve  ricevere  che  saggi  ammaestramenti  :  il  suo  cuore  non  deve  sentire 
che  nobili  aspirazioni.  "  Se  (4)  nella  Camera  de'  giovanetti  Principi  in  cartelli  appesi 
alle  pareti  fossero  espressi  i  primari  obblighi  e  doveri  di  chi  ha  da  governar  Popoli, 
e  questi  con  giudizio  scelti  ed  inculcati  in  forma  d'assiomi  di  tanto  in  tanto  nelle 
lor  menti,  sarebbe  ben  questa  una  tappezzeria,  che  non  .ispirerebbe  magnificenza,  ma 
che  potrebbe  influire  a  ornare  il  Principe  stesso  di  pregi  sostanziali.  Filippo  Re  di 
Macedonia  stipendiava  un  uomo,  che  ogni  di,  prima  di  dare  udienza,  gli  dicesse: 
Filippo,  ricordati  che  sei  mortale.  Sopratutto  scrivere  a  lettere  d'oro:  che  non  è  stato 
inventato  il  Principato,  per  far  bene  al  solo  Principe,  ma  principalmente  per  far  del 
bene  alla  Repubblica,  cioè  per  procurare  la  Felicità  de'  Popoli  sottoposti  al  Prin- 
cipato „. 

Ma  occorre  pure  mettere  davanti  al  Principe  il  rovescio  della  medaglia.  Colui 
che  antepone  il  proprio  all'altrui  bene,  che  cerca  solo  la  sua  soddisfazione,  non  è  un 
principe,  è  un  tiranno.  La  più  giusta  definizione  del  principe  è  pur  sempre  quella  di 
Aristotele:  "  Il  Principe  è  quegli  che  antepone  il  bene  de'  sudditi  al  proprio  „.  Non 
è  vero  che  i  sudditi  siano  creati  esclusivamente  pei  loro  Principi,  e  debbano  servire 
alla  loro  grandezza,  al  loro  divertimento,  e  colle  sostanze  e  colla  vita.  "  Non  va  così. 
Il  ben  pubblico  è,  et  ha  da  essere  il  fine  proprio,  e  l'oggetto  primario  de'  Regnanti. 
Hanno  i  sudditi  da  ubbidire  e  servire  al  Principe  :  ma  il  Principe  dee  fissarsi  in  capo 
questa  vera  massima,  cioè,  ch'egli  molto  più  ha  da  servire  al  bene  de'  sudditi  suoi, 


(1)  Delia  Pubblica  Felicità,  cap.  II,  pag.  15. 

(2)  Idem,  pag.  18. 

(3)  Idem,  cap.  XIV,  pag.  165-66. 

(4)  Idem,  cap.  II,  pag.  18. 


142  STEFANO    GRANDE 


7s 


perchè  confidati  a   lui  a  questo    fine   dalla  Divina  Provvidenza.   Tua  non  est  Respu- 
blica,  sed  tu  Reipublicae,  diceva  Seneca  „. 

Molto  più  poi  deve  ricordarsi  il  Principe,  che  se  egli  comanda  al  popolo,  anche 
le  leggi  devono  comandare  a  lui;  che  se  egli  è  l'uomo  più  eminente  della  società, 
non  cessa  però  di  essere  un  membro,  un  individuo  di  essa,  e  se  come  tale  gode  di 
diritti  propri  e  può  aspirare  a  quei  beni  che  per  nulla  s'oppongono  al  retto  governo, 
deve  pure  sottostare  a  dei  doveri  e  alla  loro  osservanza. 

Davvero  che  non  pare  sentire  qui  il  modesto  proposto  della  Pomposa,  ma  il  so- 
ciologo —  e  non  del  secolo  XVIII  —  che  parla  in  nome  dei  diritti  d'un  popolo,  il 
ministro  che  parla  in  nome  di  qualche  cosa  di  superiore  ai  troni  e  scettri  umani,  in 
nome  della  sacra  verità.  Se  questo  poi  non  lo  tocca,  pensi  il  Principe  che  nessun 
ordinamento  di  governo,  ne  efficacia  di  leggi  potrà  salvare  dalla  ruina  il  trono  che 
poggia  su  altri  principi.  La  storia  e  l'esperienza,  si  può  ben  dire,  danno  continua- 
mente ragione  al  Muratori  ! 

Il  primo  mezzo  pertanto  di  evitare  tanta  catastrofe,  è  il  procurarsi  l'affetto  dei 
sudditi,  che  si  acquista  con  un  mezzo  sicuro:  "  Si  vis  amari,  ama  „.  Il  Principe  non 
deve  essere  solo  il  signore  dei  suoi  popoli,  ma  anche  il  padre,  egli  non  deve  con- 
tentarsi di  regnare  sulle  loro  persone,  deve  anche  regnare  sui  loro  cuori  ;  deve  trat- 
tarli come  vorrebbe  essere  trattato  egli  da  un  superiore,  e  ricordarsi  sopratutto  che 
dalla  rettitudine  delle  sue  azioni,  dalla  bontà  dei  suoi  costumi,  dipende  principal- 
mente la  lor  felicità. 

Fin  qui  pertanto  il  M.  dà  precetti  generali  ;  in  seguito,  particolarizzando,  tratta 
delle  singole  virtù  che  deve  possedere  il  saggio  Principe,  e  deve  svolgere  in  lui  il 
buon  educatore. 

In  primo  luogo  il  Principe  è  tenuto  ad  amministrare  la  retta  giustizia,  mante- 
nendo la  pace  colla  giustizia  criminale,  e  la  giusta  concordia  colla  civile.  Ma  anche 
contro  chi  giudica  si  deve  esercitare  la  giustizia  "  e  quel  paese  è  ben  misero,  ove 
non  è  giustizia  contro  chi  amministra  od  eseguisce  la  giustizia  „.  Non  è  qui  il  solo 
luogo  dove  il  M.  si  eleva,  apertamente  o  velatamente,  contro  i  giudici  o  i  loro  su- 
periori; egli  è  conscio  che  gravi  abusi  manomettono  la  giustizia  e  se  ne  richiama 
vivamente  e  potentemente  a  tutti  (1). 

I  tempi  moderni  hanno  fatto  sparire  molti  degli  inconvenienti  lamentati  dal  M., 
ma  non  sappiamo  se  l'opera  sia  veramente  compiuta.  Qualcuno  qualificò  già  la  giu- 
stizia per  un  eufemismo. 

Col  principio  della  giustizia  si  connette  "  l'obbligo  preciso  che  ha  il  Principe  di 
dare  udienza  al  popolo,  di  ascoltarlo  con  amorevolezza,  e  pazienza,  e  di  spedir  pron- 
tamente i  lor  memoriali,  ordinando  ciò  che  porta  il  dovere;  facendo  pagare  chi  è 
debitore;  rimediando  agli  aggravi  de'  particolari,  e  compartendo  le  grazie,  che  si 
convengono  a  cadauno  „.  Ma  egli  procede  oltre  ancora,  e  pensa  all'insano  spirito  di 
privilegio  che  informa  i  suoi  tempi,  e  si  chiede  per  qual  ragione  si  gravino  di  poco 
tributo,  e  persino  se  ne  esentino  certi  ordini  della  società,  che  sarebbe  più  logico  fos- 
sero i  primi  ad  essere  colpiti,  e  rivolto  al  suo  allievo,  limpidamente  e    candidamente 


(1)  Vedi  pag.  56  della  nostra  trattazione,  e  la  coraggiosa  lettera  del  M.  del  1713  al  duca  Rinaldo  I. 
Campori,  IV,  pag.  1562-65. 


79  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI  143 

gli  fa  notare  che  "  è  dovere  del  Principe  di  fare  che  tutti  "paghino  a  proporzione  „. 
È  un  suggerimento  che  dice  qualche  cosa  pel  secolo  XVIII,  e  pel  M.,  ma  ne  vedremo 
altri  di  ben  maggiore  gravità...  Ma  egli  particolarizza  ancora,  e  dai  tributi,  dai  privilegi, 
dagli  aggravi  sorge  contro  la  violazione  delle  leggi,  contro  i  castighi,  le  pene  che  col- 
piscono solo  gli  umili,  ed  osserva  che  è  tempo  ormai  che  non  si  dica  più  "  essere  le 

leggi  come  le  tele  de  i  ragni,  che  prendono  le  mosche,  e  sono  rotte  dai  mosconi  „ 

Ma  procediamo:  il  Principe  è  tenuto  all'onore  dei  suoi  sudditi,  non  solo,  ma 
egli  deve  provvedere  e  riparare  ad  esso,  se  richiesto,  facendo  ciò  "  con  tal  destrezza 
che  il  rimedio  maggiormente  non  discuopra  le  piaghe  altrui  „. 

Sopratutto  poi  il  Principe  è  tenuto  alla  vita  dei  suoi  sudditi,  e  al  M.  sanguina 
il  cuore  veder  sollevate  liti  terribili,  disastrose,  sterminatrici,  per  il  puntiglio  del 
Principe,  o  per  la  sua  cieca  ambizione;  e  vero  interprete  della  sapienza  civile  dei 
tempi  più  recenti,  grida  alla  coscienza  del  suo  Principe  che  la  guerra  è  il  flagello 
dei  popoli,  che  i  tanto  vantati  conquistatori  "  può  essere  che  presso  Dio  sieno  i  più 
miseri  ed  abbominevoli  degli  uomini  „. 

Il  M.  è  pur  conscio  dei  più  sacri  diritti  dell'uomo,  ed  intuisce,  e  sente  pur  anco, 
il  gran  principio  della  libertà,  e  ricorda  al  suo  Principe  che  egli  non  può,  non  deve 
opporsi  alla  libertà  dei  suoi  sudditi  nei  contratti,  matrimoni,  testamenti,  vendite, 
compere,  ecc.  Vero  che  egli  pone  qualche  piccola  restrizione  a  questo  grande  prin- 
cipio della  libertà,  ma  solo  Minerva  uscì  armata  di  tutto  punto  dal  cervello  di  Giove. 
Dove  il  M.  si  rivela  davvero  più  efficace  e  potente,  si  è  nel  rispetto  delle  so- 
stanze dei  sudditi,  le  quali  non  si  devono  usurpare  ne  con  prepotenze  private  che 
metton  capo  alla  violenza,  né  colle  pubbliche  che  metton  capo  ai  tributi.  In  due  soli 
casi  questi  sono  giusti:  quando  occorrono  pel  convenevole  mantenimento  del  Prin- 
cipe, o  per  la  difesa  dello  Stato.  E  con  semplice,  felicissima  espressione  osserva  che 
"  ha  il  Principe  da  mettere  per  cosa  certa,  che  egli  non  è  dispotico  padrone,  ma 
solo  amministratore  delle  rendite  dello  Stato  „. 

Oh,  sì!  Il  Principe  è  padrone  di  mettere  altri  tributi,  ne  metta  pure,  ma  allora 
egli  non  è  più  un  principe,  non  è  nemmeno  più  un  tiranno,  è  un  assassino.  Sentite  : 
"  E  che  differenza  c'è  nella  sostanza  tra  uno  che  va  alla  strada  e  colla  violenza  oc- 
cupa i  danari  de'  passeggieri,  e  un  Principe,  che  violentemente  occupa  que'  dei  suoi 
sudditi,  i  quali  non  gli  possono  resistere?  Non  c'è  altra  differenza,  se  non  nel  modo, 
e  se  non  che  l'assassino  si  condanna  alla  morte,  ma  il  Principe  non  si  può  ne  pro- 
cessare, né  condannare  „. 

Chi  crederebbe  che  tali  parole  siano  state  pronunziate  e  scritte  nel  sec.  XVIII,  in 
Italia,  nella  corte  di  un  Principe,  e  dirette  a  lui,  e  da  un  temperatissimo  precettore, 
da  L.  A.  Muratori?  Eppure  è  così!  La  virtù,  non  se  ne  può  dubitare,  è  una  sola  presso 
tutte  le  anime  grandi  e  generose,  e  non  conosce  distinzioni  di  tempo,  di  luogo,  d'età. 
Ma  giacche  ci  viene  a  proposito,  qui  ricordiamo  che  più  oltre  ancora  arriva  il 
nobile  ardire  dell'assennato  maestro,  fino  a  scrivere  al  regnante  Duca  Rinaldo  I,  che 
pareva  dimostrasse  maggior  propensione  verso  il  suo  secondogenito,  che  "  sarebbe 
delitto  il  tacergli  „  che  egli  opera  male,  che  egli  non  deve  portar  più  affetto  a  questo 
che  a  quel  figlio,  che  non  deve,  che  non  può  far  così  (1).  E  quando,  morto  Rinaldo  1, 


(1)  Lett.  al  Duca  di  Modena,  11  maggio  1711,  Arai.  Murai.  Doc,  p.  145;  e  Campori,  IV,  p.  1341-42. 


]44  STEFANO    GBANDE  80 

doveva  -accedere  al  trono  l'allievo  del  M.,  egli  non  si  perita  anche  in  tale,  forse 
non  troppo  opportuna,  occasione  di  scrivergli  tosto  per  dargli  consigli,  per  invitarlo 
a  rappacificarsi  colle  sorelle,  a  non  negar  loro  le  carezze  e  i  buoni  trattamenti   (1). 

Questo  è  l'ardire  della  virtù,  questo  il  linguaggio  dell'anima  retta,  il  cuore  del 
padre  affettuoso  ;  né  si  potrebbero  altrimenti  spiegare  quelle  raccomandazioni. 

Ma,  procedendo,  il  M.  non  vuole  solo  che  il  Principe  non  faccia,  o  non  permetta 
si  faccia  del  male  ai  sudditi,  egli  vuole  anche  che  faccia  loro  del  bene.  E  qui  egli 
suggerisce  utili  consigli  e  sagge  massime,  degne  veramente  di  questo  alto  fine,  e  ne- 
cessarie, indispensabili  al  buon  andamento  dello  Stato. 

Ma  in  questa  rassegna  politica  ed  economica,  per  noi  troppo  minuta  e  partico- 
lare, non  possiamo  più  seguirlo  da  vicino,  senza  perdere  di  vista  il  nostro  tema.  Egli 
parla  di  commercio,  di  industria,  agricoltura,  irrigazione,  viabilità,  arti  meccaniche, 
scienze,  lettere,  governi,  ecc.,  di  ogni  cosa  insomma  riferentesi  ad  economia  politica, 
ovunque  dimostrando  un  invidiabile  buon  senso  e  criterio  pratico.  Perfino  di  usura 
egli  parla,  e  naturalmente  il  suo  discorso  cade  sugli  Ebrei,  a  cui  vorrebbe  si  levasse 
il  banco  feneraticio,  rinforzando  di  danaro  i  banchi  dei  Cristiani,  e  cioè  mediante 
una  benintesa  concorrenza.  A  chi  pensi  che  siamo  nel  secolo  XVIII,  quando  vitali  e 
forti  perdurano  i  secolari  pregiudizi,  le  arbitrarie  leggi,  le  odiose  guerre  contro  gli 
Ebrei,  troverà  che  ancora  qui  il  M.  dà  un  bellissimo  tratto  di  oculata  e  progre- 
dita giustizia.  Non  chiede  una  legge  draconiana,  la  quale  altri  poteva  benissimo  in- 
vocare; egli  sente,  egli  sa  che  tutti  gli  uomini  sono  uguali  davanti  alla  natura,  e 
quindi  devon  esser  tali  anche  davanti  alla  legge,  e  che  non  si  può,  e  non  si  deve 
curare  una  piaga  con  una  piaga  anche  maggiore.  E  questo  davvero  un  tratto  che  pre- 
corre i  tempi,  e  fa  onore  allo  scrittore  e  sopratutto  al  filosofo  e  sacerdote  cattolico. 

Accennato  ai  mezzi  opportuni  per  rendere  fiorente  uno  Stato,  il  M.  trova  occa- 
sione di  ritornare  nel  campo  prediletto  della  Morale,  ed  osserva  che  i  mezzi  e  pre- 
cetti da  lui  suggeriti,  perchè  riescano  veramente  efficaci  e  sicuri,  devono  essere  ispi- 
rati alla  Divina  Carità,  che  è  l'anima  del  buon  Principe.  E  qui  all'uomo  politico,  al 
filosofo  economista  sottentra  il  ministro  di  Dio,  tutto  cuore,  tutto  affetto  per  gli 
infelici  che  soffrono  senza  colpa,  e  pieno  di  evangelica  carità,  rivolgendosi  al  suo 
Principe  gli  ricorda  che  principalmente  di  una  classe  della  società  egli  deve  essere 
padre,  dei  poveri,  per  i  quali,  nel  fervore  della  sua  grand' anima,  il  M.  invoca  la 
più  grande  clemenza,  mitezza  e  pietà. 

Finalmente  l'opera  si  chiude  col  più  grande  augurio  che  si  possa  fare  ad  un 
Principe:  che  egli  abbia  ad  avere  ottima  volontà,  informata  al  timor  di  Dio,  e  retto 
giudizio,  non  sottomesso  ai  traviamenti  delle  passioni;  e  finalmente  col  l'icordo  che 
un  Principe  tale  è  la  più  gran  fortuna  dei  suoi  sudditi  "  e  che  quando  Dio  vuol 
castigare  i  popoli,  permette  che  tocchi  loro  un  Principe  di  genio  cattivo  „   (2). 

Cosi  ci  paiono  ritratte  le  principali  idee  del  M.  sull'educazione  morale  del  Prin- 


(1)  Cfr.  Lettera  XI  a  Monsign.  Giuliano  Sabbatini,  Modena.  20  t'ebbr.  1737,  Archiv.  Murai., 
pag.  380-81.  Sotto  queste  carezze,  veramente,  si  nascondeva  lo  scopo  politico,  e  con  esse  infatti  il 
Duca  Francesco  ottenne  di  farsi  cedere  dalle  sorelle  nubili  i  loro  posse 

(2)  Anche  Plinio  il  Giovane  ha  un  tratto  press'a  poco  simile  nel  suo  famoso  Panegirico  di 
Traiano,  e  considera  il  Principe  come  un  dono  di  Dio:  *  quod  enim  est  praestabiliua  et  pulchriua 
Dei  munus  erga  mortales,  quam  eastus  et  sanctus  et  Deo  simillimus  Princeps?  „ 


81  IL    PENSIERO    PEDAGOGICO    DI    L.    A.    MURATORI 


145 


cipe;  non  formano  un  tutto  organico,  ne  sono  rigorosamente  dimostrate,  l'abbiamo 
già  detto;  ma  per  compenso  esse  ci  paiono  piene  di  alto  significato  civile  e  morale. 
Quando  poi  si  confronti  da  una  parte  il  concetto  che  si  aveva  allora  di  principe, 
di  libertà,  di  legalità,  e  dall'altra  le  idee  propugnate  dal  M.,  la  sua  posizione  di  sti- 
pendiato dalla  Corte,  il  suo  sicuro  linguaggio,  non  si  può  a  meno  di  riconoscere  in 
lui  il  senno  e  la  dottrina  del  filosofo,  la  franchezza  del  galantuomo,  il  cuore  del  padre 
di  famiglia. 

Niccolò  Tommaseo  scrivendo  a  Girolamo  Galassini  che  aveva  pubblicato  l'ope- 
retta in  questione,  osservava  che  "  in  essa  il  gran  Muratori  con  esempi  sì  splendidi 
dimostrò  come  il  senso  del  vero,  del  bene  e  del  bello,  la  meditazione  e  l'affetto,  la 
fede  e  la  ragione  si  possano  e  debbano  non  solamente  conciliare,  ma  esercitandoli 
insieme  aiutarsi  mutuamente  „   (1). 

Gr.  Galassini  poi  chiude  l'elaborata  e  dotta  Introduzione  all'operetta  muratoriana, 
osservando  che  tutti  indistintamente  hanno  qui  occasione  di  apprezzare  la  vastità 
della  mente,  il  carattere  schietto,  la  cristiana  pietà  di  quell'aureo  cuore  che  fu  de- 
coro del  sacerdozio,  modello  del  cittadino,  gloria  della  patria,  luminare  della  scienza... 

E  se  a  noi  fosse  lecito  di  esprimere  pure  la  nostra  modesta  opinione,  osserveremmo 
che  mai  operetta  di  minori  pretese  racchiuse  precetti  di  più  profonda  saggezza,  i 
quali,  dettati  in  un  tempo  che  è  separato  dal  nostro  da  una  delle  più  strepitose  e 
feconde  rivoluzioni  sovvertitrici  del  passato,  conservano  tuttora  la  loro  efficacia  ed 
attualità.  In  essi  moderatori  della  cosa  pubblica,  filosofi,  economisti,  pedagogisti,  let- 
terati possono  trovar  gran  messe  da  raccogliere,  perchè  essi  sono  il  frutto  di  una 
scienza  universale,  enciclopedica,  eterna:  l'amor  del  prossimo. 

CONCLUSIONE. 

Ed  ora  deponiamo  la  penna,  non  colla  persuasione  di  aver  detto  del  grande  M. 
quanto  si  merita  in  questo  campo,  ma  di  aver  compiuto  un  dovere,  di  aver  cer- 
cato, per  quanto  stava  in  noi,  di  richiamar  l'attenzione  degli  studiosi  su  un  nuovo 
aspetto  che  può  presentare  la  sua  gigantesca  figura.  Noi  Italiani  si  è  usi  di  studiare 
i  fatti  altrui  e  trascurare  i  nostri,  quand'anche  ci  si  rinfacci,  e  in  tutti  i  toni,  le  più 
inspiegabili  assurdità,  anche  a  non  trovare  nella  nostra  Storia  altro  pedagogista  che 
Vittorino  da  Feltre,  o  altro  filosofo,  dopo  il  Campanella,  che  il  Vico. 

È  così  ;  e  noi  lasciamo  gemere  nell'oscurità  dei  tempi  persone  insigni  e  maestri 
pur  anco  di  questi  poco  grati  discepoli,  e  la  storia  della  filosofia  italiana  aspetta 
ancora  il  suo  cantore. 

Frattanto  noi  stessi,  nella  nostra  modesta  cerchia,  abbiamo  cercato  di  portar  il 
nostro  granellino  all'immenso  edificio  che  resta  a  fare,  scrivendo  una  pagina  di  più 
nella  grande  storia  pedagogica.  Ma  di  una  cosa  sommamente  ci  duole,  che  non 
sia  toccato  al  Grande  Modenese  uno  spirito  forte  e  severamente  erudito  che  avesse 
potuto  dire  degnamente  e  definitivamente  di  lui,  intorno  al  quale  molto  e  molto  noi 
stessi  lasciammo  scientemente  ;  molto  e  molto  ci  sfuggì  ;  molto  e  molto  resta  ancora 
a  fare. 


(1)  Archivio  Muratoriano,  Introduzione  ai  Rudi  nuoti  i  di  Filosofia  Morale,  pag.   188. 
Serie  II.  Tom.  LUI. 


STUDIO 


INTORNO    ALLA 


VITA    DI    CARLO    BOTTA 

TRACCIATO    CON    LA    GUIDA 

DI  LETTERE  IN  GRAN  PARTE  INEDITE  (*). 


MEMORIA 

DELLA 

Dott.  EMILIA  REGIS 


Approvata  nell'adunanza  del  19  Aprile  1903. 


I. 

La  vita  di  Carlo  Botta  attraverso  il  suo  epistolario. 

"  Molti  amici  ini  stanno  continuamente  coi  pungoli  al  fianco  affinchè  io  scriva 
le  memorie  della  mia  vita,  come  a  dire  le  mie  confessioni  —  scriveva  a  Giorgio  Greene 
Carlo  Botta  pochi  anni  prima  della  sua  morte.  —  Ma  io  vi  ripugno  grandemente, 
né  mi  ci  posso  risolvere.  In  primo  luogo  mi  pare  un  ramo  d' impertinenza  quel  dir 
di  se  stesso  al  pubblico:  Signori  miei,  io  sono  il  tal  dei  tali;  ho  fatto  i  tali  e  tali 
miracoli.  Poi  non  mi  credo  da  tanto  che  la  platea  prenda  piacere  in  vedere  che  viso 
io  mi  abbia;  che  io  non  sono  né  un  Rousseau,  ne  un  Alfieri,  ne  un  S.  Agostino.  Fi- 
nalmente sono  stanco  di  mente  e  di  corpo  e  la  campana  dei  sessantanove  anni  mi 
suona  alle  spalle.  È  meglio  tacere  che  far  ridere  le  brigate  di  me  „  (1). 

Carlo  Botta  non  volle  scrivere  la  sua  vita,  non  volle,  mentre  già  lo  spirito  era 
stanco,  e  le  forze  gli  venivan  meno,  far    scorrere    sotto   le  dita  tremanti  il  rosario 


(*)  Questo  mio  studio  trae  la  sua  origine  dal  copioso  carteggio  inedito  dello  storico  canavesano 
raccolto  (in  parte  vivente  ancora  lo  storico)  da  Stanislao  Marchisio  (1773-1859),  il  noto  commedio- 
grafo, amico  pure  del  Pellico  e  del  Foscolo.  Tale  carteggio,  donato  dal  Marchisio  stesso  fin  dal  1857 
al  compianto  Giovanni  Flechia,  l'insigne  glottologo,  trovasi  ora  in  possesso  del  Dr.  Giuseppe 
Fleehia,  alla  cui  gentilezza  io  dehbo  i  documenti  che  diedero  origine  al  mio  scritto.  Oltreché 
dell'epistolario  inedito  si  è  pur  tenuto  conto  delle  altre  raccolte  di  lettere  Bottiane  e  principal- 
mente di  quella  del  Viani  (Lettere  di  Cario  Botta,  Torino,  1841),  eh'  io  indicai  semplicemente  colla 
lettera  V.,  e  del  Pavesio  (Lettere  inedite  di  Carlo  Botta,  Faenza,  1875),  da  me  indicata  colla  let- 
tera P.  Di  altre  lettere  pure  edite  in  libri  o  giornali  diedi  via  via  le  indicazioni  nel  lavoro. 

(1)  Lettera  a  Giorgio  Greene,  15  ottobre  1834,  edita  da  Milanesi  Carlo,  in  "  Archivio  storico 
italiano  ,,  nuova  serie,  tomo  I,  parte  li,  pag.  71. 


148  EMILIA    REGIS  2 

dei  ricordi.  —  E  fece  bene.  Se  egli  si  fosse  indotto  a  scrivere  la  sua  vita,  pur  senza 
volerlo  avrebbe  detto,  come  altri  dissero,  un'  infinità  di  bugie  ;  avrebbe  dato  di  se 
un'idea  erronea  ed  imperfetta,  ed  a  null'altro  avrebbe  giovato  se  non  cbe  a  rendere 
incerte  quelle  notizie  che  noi  avremmo  potuto  raccogliere  altrimenti.  Carlo  Botta  non 
ha  scritto  le  suo  "  memorie  „,  non  ci  ha  dato  le  sue  "  confessioni  ,,,  ma  ha  abban- 
donato a  noi  il  materiale  per  la  ricostruzione  della  sua  vita.  Le  lettere  sue  nume- 
rosissime, che  dal  1794,  anno  da  cui  data  l'esilio  dello  storico,  si  susseguono  senza 
interruzione  sino  al  1837,  anno  della  sua  morte,  ci  offrono  da  sole  ciò  che  il  Botta 
in  niun  modo  avrebbe  potuto  dare.  Sfogliando  quelle  lettere  pare  a  noi  di  sfogliare 
le  pagine  della  sua  vita.  Giorni  tristi,  giorni  lieti,  ore  vissute,  pensieri  che  anima- 
rono quelle  ore,  passano  e  ripassano  dinanzi  a  noi,  che  in  poco  spazio  di  tempo 
assistiamo  alle  scene  svoltesi  in  più  di  quarant'anni  della  vita  del  Botta  ed  allo  sno- 
darsi lento  degli  avvenimenti. 

Noi  lo  vediamo  vagare  per  la  Svizzera  povero,  esule,  per  un  sogno  troppo  ardito 
già  accarezzato  sui  banchi  della  scuola,  mentre  accompagnavano  i  suoi  studi  le  grida 
di  ribellione  della  Francia,  gl'inni  delle  sue  vittorie,  le  orgie  sfrenate  dei  suoi  trionfi; 
lo  vediamo  medico  dell'armata  francese  vegliare  intelligente  e  pronto  sui  soldati  la- 
sciati nell'abbandono  in  misere  case  sperdute  sulle  Alpi  e  gettare  a  Napoleone,  vin- 
citore, in  nome  di  chi  giaceva  vinto  solo  dal  male,  il  grido  del  fratello  commosso  e 
sdegnato:  "  Sauvez  encore  une  fois  l'arme'e  d'Italie  „;  lo  vediamo  caldo  di  nuovo 
entusiasmo  prender  parte  al  governo  provvisorio  stabilitosi  in  Piemonte  per  il  trionfo 
delle  anni  francesi;  lo  rivediamo  esule  per  il  trionfo  delle  armi  austro-russe.  Pas- 
sano dinanzi  a  noi  i  giorni  febbrili  vissuti  in  Parigi,  ov'egli  pensò  ciò  che  poteva 
parer  follia  allora:  la  libertà  d'Italia,  ed  ebbe  la  visione  —  veduta  forse  nel  sogno 
che  dà  la  stanchezza  tormentosa  ed  il  ritorno  incessante  e  quasi  disperato  di  uno 
stesso  pensiero  —  la  visione  dell'Italia  una  (1).  Passano  i  giorni  laboriosi  del  suo 
regno  in  Piemonte,  che  dovevano  trar  seco  strascichi  dolorosi  di  vendette,  di  calunnie, 
e  passano  infine  gli  anni  molti  della  sua  dimora  in  Parigi,  prima  come  membro  del 
Corpo  legislativo,  più  tardi,  caduto  il  colosso  napoleonico,  senza  meta  fissa,  senza  la 
certezza  del  domani,  se  si  tolgono  i  pochi  anni  del  suo  rettorato  nell'Accademia  di 
Rouen,  col  pensiero  continuamente  assorto  nelle  sue  opere  storiche,  finché,  all'appros- 
simarsi della  morte,  la  vita  dà  a  lui  i  suoi  pochi  giorni  tranquilli. 

E  dal  suo  primo'  esilio,  agli  ultimi  giorni  tranquilli,  quante  mutazioni  nell'anima 
del  Botta!  L'anima  sua  fu  come  la  maggior  parte  delle  anime  umane  e  la  vita  lasciò 
nel  passare  i  suoi  segni.  Noi  riannodando  le  fila  e  ritessendo  la  vita  dello  storico, 
troviamo  qua  e  là  dei  vuoti  che  non  è  possibile  colmare  ;  ci  troviamo  con  delle  fila 
spezzate  tra  le  dita;  fila  che  non  possiamo  riunir  più  o  solo  a  fatica.  Noi  assistiamo 
al  dibattersi  dell'uomo  fra  le  morse  del  bisogno,  nelle  reti  che  gli  stringono  intorno 
gli  avvenimenti,  e  lo  vediamo  ad  ora  ad  ora  cedere  senz'altro,  cadere  combattendo, 
liberarsi  con  uno  sforzo  supremo.  E  mentre  seguiamo  attenti  l'uomo  nelle  lotte  di 
tutti  i  giorni  e  gli  perdoniamo  se  si  spaventa  della  miseria  ed  invoca  aiuti,  ora  che 
ha  la  casa  popolata  di  bimbi,  mentre  da  solo  esclamava:   "  On  est  si  tranquille  quand 


(1)  Vedasi   Un   mino  della   ni,,  Botta,    Giuseppe    Roberti  in   "Nuova  Antologia,,   fasci- 

colo 16  febbraio  1901. 


3  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  149 

on  n'a  pas  d'argent  „  (1),  e  lo  ammiriamo  perchè  la  lotta  non  lo  renda  stanco  ed- 
il  lavoro  mai  rimunerato  non  lo  disgusti,  noi  vediamo  attrarre  sopra  ogni  altra  cosa 
la  nostra  attenzione  due  aspetti  del  Botta,  due  suoi  atteggiamenti  :  l'atteggiamento 
politico  e  l'atteggiamento  letterario;  oscuro,  incerto,  quasi  disgustoso  il  primo,  netto, 
deciso,  bellissimo  il  secondo. 

Xoi  vediamo  il  Botta  slanciarsi  nel  turbine  della  vita  politica  col  berretto  frigio 
in  capo  e  lo  vediamo  ritrarsi  a  poco  a  poco  con  tanto  di  parrucca  e  di  codino.  E 
nulla  certo  vi  sarebbe  in  ciò  di  disgustoso  quando  fosse  dato  a  noi  di  rintracciare  i 
dubbi  che  gli  hanno  allacciata  l'anima,  scalzando  lenti  e  tenaci  i  propositi;  le  lotte 
sórte  nella  sua  mente  fra  idea  e  idea  nel  tentativo  di  soverchiarsi  a  vicenda;  quando 
ci  fosse  dato  di  assistere  allo  sforzo  per  cui  l'uomo  esce  nuovo  da  quei  dubbi,  da 
quelle  lotte,  e  si  afferma  risoluto  in  nome  dei  principi  che  1'  hanno  attratto.  Allora 
senza  stupore  alcuno  noi  seguiremmo  la  sua  lenta  trasformazione,  come  senza  stu- 
pore noi  lo  vediamo  applaudire  prima  a  Napoleone  comparso  come  liberatore  d'Italia, 
più  tardi  ammonirlo  severo  quando  lo  vede  traditore  di  popoli  a  Campoformio  ed  ele- 
varsi infine  a  suo  giudice  implacabile  quando  lo  vede  sterminatore  di  popoli  in  cento 
battaglie,  tiranno  di  popoli  sul  trono.  Dal  giorno  in  cui  il  Botta  scrive  parlando  del 
primo  console:  "  Quand  on  le  voit  de  loin  on  l'admire,  mais  quand  on  le  voit  de  près 
on  l'admire  et  on  l'aime  „  (2),  al  giorno  in  cui  scrive,  parlando  dell'imperatore: 
"  J'ai  signé  un  des  premiere  la  de'chéance  de  Bonaparte  et  je  l'ai  signe'e  de  grand 
cceur...  Cet  homme  là  me  suffoquait  à  force  du  mal  qu'il  faisait  „  (3),  vi  è  tutta 
una  lunga  serie  di  offese  fatte  a  lui  come  uomo  non  solo,  ma  come  italiano;  onde 
se  la  sua  ribellione  ha  potuto  scoppiare  ad  un  tratto,  terribile,  violenta,  si  è  perchè 
era  preparata  da  tempo  nella  sua  anima.  Ma  nel  Botta  lungi  dall'avere  una  lenta  e 
completa  trasformazione,  noi  abbiamo  invece  la  sovrapposizione  di  due  figure,  e  quanto 
diverse  fra  di  loro!  La  bella  voce  vigorosa  e  fidente  che  ammoniva:  "  dite  al  popolo 
che  Dio  quando  volle  punire  il  popolo  d'Israele  minacciò  di  mandargli  un  re  „  (4), 
si  muta  via  via  nella  voce  malfida  e  lamentosa  di  un  affaticato  ricercatore  d'impieghi 
che  dopo  aver  dichiarato  di  null'altro  chiedere  se  non  che  di  poter  servire  1'"  em- 
pereur  „,  poco  di  poi  afferma  che  unico  suo  desiderio  è  di  servire  il  re  di  Sardegna, 
suo  "  roi  naturel  „;  la  bella  voce  che  imprecava  commossa  ai  tiranni  che  colle 
stragi  funestarono  nel  1797  il  Piemonte,  si  muta  nella  voce  umile  del  beneficato  che 
nel  1833  dice  al  re  di  Sardegna:  "  La  fermezza  con  cui  V.  M.  procede,  s'Ella  mi 
permette  di  mescolare  il  mio  debole  testimonio  a  cosi  alte  deliberazioni,  è  degna  di 
Lei,  della  sua  casa,  delle  nazioni  soggette  al  suo  scettro  „  (5),  e  ciò  mentre  si  ele- 
vava terribile  la  voce  di  Mazzini:  "  La  pagina  di  storia  che  si  scrisse  dalla  Mo- 
narchia sabauda  nell'anno  1833,  fu  tale,  che  vorrebbe  la  penna  di  un  Tacito  e  in- 
tinta nel  sangue  ;  ed  è  di  quelle  che  gli  uomini  dovrebbero  rileggere  ogni  qualvolta 


(1)  Lett.  au  citoyen  Aymar.  Grenoble,  28  venderà.  (16  ott.),  1799.  —  P. 

(2)  Lett.  a  Antonietta  Viervil-Botta,  in   Vita  /li  C.  B.,  Dionisotti,  pag.  104. 

(3)  Lett.  a  Luigi  Rigoletti,  23  aprile  1814,  mellita. 

(4)  Lett.  al  fratello  Isidoro,  25  die.  1797.  —  P. 

(5)  Lett.  a  Carlo  Alberto.  24  die.  1833,  edita  in  *  Curiosità  e  ricerche  di  Storia  Subalpina  „  da 
Antonio  Manno,  voi.  V,  pag.  2,  Torino,  Bocca,  1883. 


L50  EMILIA    REGIS  4 

sentono  infiacchirsi  nell'animo  loro  l'aborrimento  della  tirannide  e  le  madri  ripetere 
ai  figli  perchè  v'imparino  quali  possono  essere  le  sorti  di  una  terra  non  libera  „. 

È  vero,  sotto  la  parrucca  s'indovina  bene  spesso  il  berretto  frigio;  sotto  l'ap- 
parente monarchico  vigila  l'animo  del  repubblicano,  che  accoglie  con  un  semplice  e 
commovente:  "  te  voilà,  mon  enfant,  te  voilà  „  (1)  il  figlio  ribelle  a  Torino  nei  moti 
del  ventuno,  e  che  non  permette  allo  storico  di  cancellare  il  "  tribunato  del  popolo  „ 
dalla  proposizione  di  una  forma  di  Governo,  di  cui  lo  ha  richiesto  Carlo  Alberto. 
Sorvive  nel  Botta  il  Repubblicano,  ma  da  ciò  a  voler  fare  di  lui,  come  alcuno  vor- 
rebbe, un  repubblicano  tutto  d'un  pezzo,  ci  corre  assai. 

Ebbe  anch'egli  le  sue  debolezze  ed  il  volerle  nascondere  o  cercar  di  scusarle  con 
debolezze  di  altri  più  grandi  di  lui  è  triste  cosa.  La  sua  figura  non  ha  bisogno  di 
essere  senza  macchie  per  imporsi  a  noi.  Basta  pensare  a  lui  come  letterato  italiano, 
allo  spirito  che  animò  le  sue  opere,  alle  fatiche  che  gli  costarono,  al  silenzio  che 
ora  lo  circonda,  perchè  ci  sorprenda  un  senso  di  profonda  ammirazione  per  l'uomo 
e  per  lo  storico.  Basta  pensarlo  chiuso  nel  suo  povero  studio,  lavoratore  instanca- 
bile, mentre  dà  colpi  gagliardi  e  sicuri  alla  sua  opera  ed  accanto  a  lui  vigila  ine- 
sorabile e  fredda  la  miseria  che  tenta  di  sorprendere  in  un  momento  di  stanchezza 
e  di  disperazione  l'uomo  per  sussurrargli  una  insidiosa  proposta.  E  l'uomo  nella  febbre 
del  lavoro,  nella  fiducia  dell'opera  sua,  appena  appena  fa  colla  mano  un  lieve  cenno 
di  diniego,  e  riprende  la  penna  più  alacre,  più  pronto. 

La  sola  speranza  che  dà  a  lui  la  fortezza  meravigliosa  nel  lavoro  e  che  lo  rende 
impaziente,  scontento  di  se  e  della  vita  quando  gli  avvenimenti  lo  costringono  all'ino- 
perosità, è  la  speranza  di  fare  il  bene  d'Italia;  il  solo  spirito  che  animale  sue  opere 
è  di  dire  tutta  intera  e  sempre  la  verità  senza  guardare  in  viso  ad  alcuno,  senza 
lasciarsi  guidare  da  preconcetti  o  lasciarsi  vincere  dalle  passioni:  "  La  virtù  divi- 
nizzo, il  vizio  fulmino,  e  guai  a  chi  tocca!  „  (2),  esclama  egli.  Né  lo  spaventano  le 
critiche  acerbe  che  si  scatenano  intorno  a  lui,  le  ingiurie  atroci,  le  accuse  violente; 
pare  anzi  che  nel  seguire  attento  le  opere  sue  nel  loro  cammino,  nel  tendere  l'orecchio 
alle  voci  che  le  accolgono,  sì  buone  che  cattive,  egli  provi  una  segreta  compiacenza: 
"  Sapeva  —  nota  egli  —  che  in  un  secolo  di  passioni  avrei  dispiaciuto  a  molti.  La 
sola  verità,  la  sola  giustizia,  dico  le  eterne,  ebbi  in  mira,  né  mi  curo  del  biasimo 
che  mi  danno  e  coloro  a  cui  fui  severo  e  coloro  a  cui  fui  affettuoso;  odio  non  cercai, 
gratitudine  non  cercai,  perciocché  sapeva  che  siccome  mi  era  impossibile  di  evitare 
quello,  cosi  mi  era  ancora  impossibile  di  evitar  questo  „  (3).  Le  lodi  non  lo  insuper- 
biscono, i  biasimi  non  lo  rendono  triste;  ciò  che  solo  ha  il  potere  di  avvilire  quella 
resistente  tempra  di  canavesano,  è  la  ricerca,  ad  opera  finita,  di  qualcuno  che  voglia 
renderla  nota  al  pubblico.  Ha  provato  anche  il  Botta  la  tortura  atroce  dell'operaio 
forte  che  va  di  porta  in  porta  offrendo  il  suo  lavoro,  ed  ha  come  l'operaio  i  momenti 
di  sconforto  che  gli  strappano  le  dolorose  parole:  "  Non  scriverò  più  „,  ma  ha  pure 
le  dignitose  e  violente  proteste  contro  chi  vorrebbe  prenderlo  colla  fame. 


(1)  Vita  privata  dì  Curio  Botta  di  Scipione  Botta,  pag.  -19. 

(2)  Lett.   al  conte   Tommaso    Littardi,  9  giugno   1822.    Genova,   tip.   del    B.    [statuto  dei  Sordo- 
Muti,  1893. 

(3)  Lett.  ad  Ant.  Papadopoli,   15  die.   1828,  edite  da.  Gozzi    Gaspare  in  Lettere  d'illustri  italiani 
ad  Antonio  Papadopoli,  Venezia,  Antonelli,   1- 


5  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  151 

È  la  visione  di  questa  triste  via  da  percorrere  ed  il  timore  che  l'Italia  possa 
rimanere  priva  di  una  sua  opera,  ciò  che  l'induce  ad  accettare  con  animo  riconoscente 
la  proposta  di  scrivere  la  sua  storia  ultima  col  frutto  di  una  sottoscrizione  privata. 
non  già  la  sola  fame,  come  mostra  di  credere  il  Leopardi  (1).  Ed  è  ancora  la  certezza 
di  recare  colle  sue  opere  utile  grandissimo  alla  patria,  quella  che  gli  fa  accettare  ed 
anche  invocare  aiuti.  Ne  egli  s'ingannava  quando  credeva  le  sue  storie  necessarie. 

L'Italia  aveva  allora  bisogno  di  qualcuno  che  le  riedificasse  d'un  colpo  il  pas- 
sato sconfortante,  che  le  ponesse  dinanzi  il  presente  penoso,  che  l'aiutasse,  accele- 
rando il  suo  lavorìo,  a  pensare  al  domani.  L'Italia  trovò  nel  Botta  l'operaio,  non 
trovò  l'artista;  fu  l'opera  dello  storico  come  uno  di  quei  ponti  che  con  celerità  me- 
ravigliosa costruisce  un  esercito  per  passare  dall'una  all'altra  sponda,  ma  che  distrugge 
poi  alle  sue  spalle,  portando  con  se  solo  quel  tanto  che  basti  per  porre  i  sostegni 
ad  un'altra  via  di  passaggio.  Fu  opera  frettolosa  perchè  così  voleva  l'età,  ma  ha 
pure  in  se  un'impronta  speciale;  nessuno  fu  maestro  al  Botta,  benché  egli  prenda 
per  suoi  duci  e  Tacito  e  Machiavelli  e  Guicciardini;  e  neppure  ebbe  scolari.  Egli  fu 
il  primo  storico  che  riunì  in  un  tutto  con  amore  e  con  intendimento  le  varie  regioni 
d'Italia,  che  scrisse  in  una  pagina  comune  le  loro  glorie,  le  loro  lotte,  le  loro  colpe. 
L'anima  vera  e  purissima  dell'italiano  che  nel  1799  scriveva  da  Parigi,  mentre  nel 
Piemonte  i  cittadini  si  dilaniavano  tra  odi  e  rancori  :  "  Volesse  il  cielo  che  il  nome 
italiano  fosse  l'unico  nome  nostro  „  (2),  vibra  nelle  pagine  della  sua  storia,  in  cui 
egli  si  eleva  a  difensore  di  Venezia,  ad  ammiratore  di  Genova,  a  giudice  di  Napoli, 
ov'egli  insomma  si  sofferma  su  tutte  le  città  d'Italia,  e  par  che  sfiorandole  colla  sua 
penna  infonda  in  esse  un  alito  nuovo.  Fu  detto  "  storico  aristocratico  „  e  forse  nes- 
suno pili  di  lui  senti  battere  nel  suo  animo  l'anima  di  tutto  un  popolo,  ma  la  sentì 
fiera,  dignitosa  e  non  seppe  piegarsi  ad  essere  storico  ne  menzognero,  né  adulatore. 
Certo  il  dolore  stesso  che  gli  faceva  pronunciare  le  parole:  "  il  est  si  désagréable 
que  d'ètre  appelé  à  tout  bout  de  champ  par  le  noni  d'étranger  „  (3)  dovettero  det- 
targli le  pagine  più  belle  delle  sue  opere,  e  dare  ad  esse  quel  colorito  speciale,  per 
cui  ogni  nuova  sua  storia  veniva  considerata  dai  contemporanei  come  un  vero  av- 
venimento, colorito  che  purtroppo  sfugge  in  gran  parte  a  noi  tardi  nepoti,  onde  l'unico 
pensiero  che  può  indurci  a  leggere  frettolosi  le  sue  opere  ed  a  frugare  nelle  sue  let- 
tere, si  è  di  poter  meglio  conoscere  una  figura  buona,  forte,  che  ha  sofferto  ed  ha 
lavorato  per  la  patria  nostra  e  che  ora  è  dimenticata. 

Ed  è  la  speranza  appunto  che  altri  con  valente  penna  imprenda  a  tratteggiare 
ed  a  far  rivivere  la  figura  di  Carlo  Botta,  è  tale  speranza,  che  ci  ha  indotti  a  trac- 
ciare questo  breve  studio  intorno  all'uomo  che,  ricca  l'anima  di  nobili  aspirazioni, 
popolata  la  mente  di  vaste  idee,  visse  povero  e  solo;  intorno  allo  storico  che  nelle 
pagine  dei  suoi  libri,  nell' infuriare  degli  avvenimenti,  nell'agitarsi  di  popoli  e  di 
principi,  non  dimenticò  l'umile  ed  il  forte,  ma  primo,  —  e  sia  questa  la  gloria  sua 
maggiore  —  dagli  oscuri  sotterranei  della  Cittadella  di  Torino  seppe  trarre  a  luce 
gloriosa  la  bella  figura  dell'eroe  popolare  Pietro  Micca. 


(1)  Lett.  a  Colletta,    26    aprile    1829,  Epistolario  di  G.  Leopardi,    raccolto    da    Prospero   Viani, 
5"  ristampa.  Firenze,  1892,  voi.  II,  pagg.  366-67. 

(2)  Lett.  all'Amministrazione  Generale  del  Piemonte,  16  luglio   1799.  —  P. 

(3)  Lett.  al  cittadino  Gueyrard.  —  I'.,  pag.  62. 


i;,2  EMILIA    REC.IS  b 

IL 
Giudizi  di  Carlo  Botta  su  alcuni  scrittori  suoi  contemporanei. 

1  _  Attorno  alla  figura  di  Carlo  Botta  rievocata  da  noi  sfogliando  il  suo 
epistolario,  altre  figure  balzano  fuori  rievocate  dalla  penna  del  Botta.  Uomini  poli- 
tici, scienziati,  prosatori,  poeti,  quanto  l'Italia  ebbe  allora  di  nobile,  di  laborioso  in 
quel  fermento  di  idee  e  di  azioni,  quanto  la  Francia  offri  di  grandioso  in  quel  rior- 
dinamento di  spiriti  e  di  forme  s'affollano  intorno  allo  storico  via  via  cb'egli  assegna 
loro  un  posto  ed  esprime  un  giudizio.  Molte  figure  ch'erano  giganti  pel  Botta  s'ac- 
covacciano d'un  colpo  dinanzi  a  noi,  lasciando  scoperto  qualche  lato  imperfetto  nella 
figura  stessa  dello  storico,  altre  invece  si  ergono  improvvisamente,  quasi  soffocando 
il  loro  giudice:  alcune  s'avanzano  dall'ombra,  altre  la  cercano  a  poco  a  poco.  Ma 
non  importa.  La  schiera  rimane  ugualmente  numerosa  ed  imponente  a  testimonio 
dell'attività  straordinaria  dell'uomo,  che  in  mezzo  alle  cure  gravi  della  politica,  in 
mezzo  agli  studi  incessanti,  in  mezzo  alle  tempeste  della  vita  trova  il  modo  ancora 
di  seguire  il  moto  incalzante  degli  ingegni  con  affettuosa  sollecitudine  in  Italia,  con 
curiosità  sospettosa  in  Francia,  in  Germania,  in  Inghilterra.  E  rimane  ugualmente 
numerosa  ed  imponente  per  dimostrare  l'affetto  degli  italiani  per  l'esule,  il  patriotta, 
lo  storico  malgrado  le  calunnie  dei  malvagi  all'uomo  politico,  gl'improperi  degli  av- 
versari allo  scrittore. 

Molti  della  schiera  egli  conobbe  o  nel  breve  suo  soggiorno  in  varie  città  d'Italia, 
o  nella  lunga  sua  dimora  in  Parigi,  come  —  per  non  ricordare  che  italiani,  —  il 
Fantoni,  il  Cesarotti,  il  Denina,  l'Imbonati,  il  Manzoni,  Franco  Salfi,  Camillo  Ugoni, 
Ennio  Quirino  Visconti,  poi  il  figliuol  suo  Sigismondo  Visconti,  Pellegrino  Rossi  :  molti 
ancora  egli  conobbe  per  le  opere  loro,  per  un  giudizio  a  lui  chiesto,  per  una  critica 
a  lui  indirizzata,  come  l'abate  Cesari,  Silvio  Pellico,  il  Niccolini,  Leopoldo  Cicognara, 
il  Foscolo,  il  Monti,  il  Leopardi,  il  Rosini,  il  Colletta,  il  Romani,  Giuseppe  Manno 
ed  altri  ed  altri.  Alcuni  lo  sfiorarono  appena  passando  nella  vita,  come  Brofferio, 
Terenzio  Mamiani,  Tommaseo;  altri  si  strinsero  a  lui,  amici  buoni,  e  non  lo  abban- 
donarono che  colla  morte,  come  il  Marchisio,  il  Maggi,  Giuseppe  Grassi,  Davide 
Bertolotti,  Giovanni  Fabbroni. 

I  nomi  si  succedono  ai  nomi  illuminando  le  vecchie  carte  come  le  figure  hanno 
popolato  un  tempo  la  vita  dello  storico,  e  da  quei  nomi,  dall'atteggiamento  che  il 
Botta  assume  via  via,  si  delinea  e  poi  si  precisa  il  suo  pensiero  come  letterato,  colle 
sue  passioni,  coi  suoi  rancori,  colle  sue  debolezze,  mentre  al  disopra  del  letterato 
sta  pur  sempre,  saldo,  il  patriotta,  come  in  fondo  ad  ogni  sua  invettiva  o  ad  ogni  suo 
elogio  vibra  la  nota  profonda:  Italia.  Egli  segue  il  movimento  letterario  che  si  opera 
nella  sua  patria;  consiglia,  rimbrotta,  applaude,  protesta,  giudice  chiassoso  ed  esi- 
gente come  uno  spettatore  che  occupi  gli  ultimi  posti  :  ma  giudice  che  ama  chi  con- 
danna, e  si  commuove  egli  stesso  sovente  della  sua  sentenza. 

Per  questo  molti  uomini  sommi  pur  condannati  da  lui  senza  remissione,  circon- 
darono non  di  compassionevole  indulgenza,  ma  di  affetto  riverente  l'uomo,  che  come 


7  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CABLO    BOTTA  153 

un  tempo  accoglieva  nella  sua  casa  a  Parigi  i  soldati  italiani  combattenti  nell'esercito 
francese  che  a  lui  si  rivolgevano,  e  con  affanno  ammucchiava  le  armi  di  quelli  che 
non  tornavano  più,  cosi  ammucchiava  con  religiosa  cura  nel  suo  povero  studio  le  opere 
dei  letterati  italiani  gettando  un  grido  di  dolore  agli  amici  quando  alcuno  d'essi 
cadeva  morto  per  via  anche  se  avesse  militato  sotto  bandiera  avversaria. 


2.  —  Dicemmo  il  Botta  giudice  chiassoso  ed  esigente  :  ma  non  basta.  Dobbiamo 
pur  aggiungere  che  egli  si  mostrò  assai  spesso  impari  al  suo  ufficio.  Molti  de'  suoi 
giudizi  mentre  già  si  trovano  in  aperta  contraddizione  coi  giudizi  d'una  gran  parte 
dei  suoi  contemporanei,  suscitano  ora  in  noi  vero  stupore.  €ome  mai  potè  il  Botta 
formularli?  Fu  insufficienza  artistica?  fu  debolezza  d'animo?  L'insufficienza  artistica 
non  è  sempre  buona  scusa  e  non  serve  affatto  quando  si  tratti  di  giudizi  dati  dallo 
storico  nel  campo  appunto  della  storia,  ov'egli  fu  se  non  sommo,  certo  uno  dei  mi- 
gliori ;  mentre  d'altra  parte  faremmo  un  grave  oltraggio  allo  storico  volendo  le  sue 
parole  dettate  da  basse  compiacenze  d'amico  o  da  livori  di  rabbie  personali.  Egli 
non  conobbe  ne  le  une,  né  gli  altri.  Se  lodò,  se  derise,  se  biasimò  e  quindi  se  cadde 
in  errore,  fu  sempre  per  seguire  i  suoi  principi  letterari,  ai  quali  rimase  fedele, 
passato  il  primo  impeto  giovanile,  sino  alla  morte;  potremo  per  questo  incolpar  essi, 
non  disprezzar  l'uomo.  Vi  fu  nei  suoi  principi  letterari,  come  già  nei  politici,  in  un 
dato  momento  della  vita,  una  mutazione  profonda.  Il  Botta  storico  non  si  mantiene 
uguale  al  Botta  medico  dell'esercito  delle  Alpi;  v'è  anzi  un  distacco  cosi  palese,  un'av- 
versione così  sentita  che  lo  scrittore  ossequiente  ai  Borboni,  finisce  per  non  più  rico- 
noscere il  giovane  repubblicano  :  l'avversario  dei  romantici  più  non  ricorda  l'appas- 
sionato lettore  di  J.  J.  Rousseau. 

Eppure  ancor  egli,  il  Botta,  un  tempo,  nel  desiderio  intenso  di  udire  qualche  voce 
vera  e  forte  s'era  immerso  nella  lettura  dei  filosofi  e  pensatori  francesi,  anch'  egli 
si  era  lasciato  trasportare,  nella  foga  giovanile,  dalla  corrente  del  fiume  che  ingros- 
sava, lottando  contro  gli  ostacoli,  nella  felicità  inaudita  di  far  valere  le  proprie  forze, 
di  abbandonar  alla  riva  l'abito  logoro  e  servile,  mentre  alla  foce,  l'uomo  nuovo, 
Napoleone,  enorme,  additava  i  troni  fracidi  che  la  forza  del  fiume  doveva  abbattere. 
Ma  quando  s'avvide  che  la  corrente  nell'ingrossare  s'era  fatta  torbida,  che  abbattuti 
i  troni  s'erano  riedificate  le  reggie,  che  si  procedeva  innanzi  senza  contare  i  caduti, 
Botta  imprecando  ritornò  indietro. 

È  sempre  triste  il  ritorno;  quello  dello  storico  oltre  all'essere  triste  ha  qual- 
cosa in  se  che  ci  disgusta  ed  ha  qualcosa  in  sé  che  ci  commuove.  Nulla  di  più  disgu- 
stoso del  Botta  che  nella  paura  di  aver  errato,  nel  timore  di  mali  peggiori,  chiama 
martiri  chi  un  tempo  chiamò  tiranni;  nulla  di  più  commovente  dell'uomo  che  nella 
consapevolezza  dell'errore,  nell'amore  della  sua  patria,  nell'avversione  per  tutto  ciò 
che  è  straniero,  conta,  dolorando,  le  parole  che  da  altre  nazioni  entrano  baldanzose 
in  Italia  corrompendo  l'unica  cosa  di  cui  potrebbe  vantarsi  ancora  la  sua  patria  e 
che  unica  potrebbe  non  cedere  ai  vincitori  irrisori:  la  lingua.  Ma  anche  questa  spe- 
ranza di  serbare  intatta  la  lingua,  la  sola  speranza  che  ormai  rimanga  a  lui,  stu- 
dioso dei  mali  che  nel  corso  di  più  secoli  travagliarono  l'Italia  e  pei  quali  egli  non 
vede  ne  addita  rimedio,  si  dilegua  innanzi  alle  nuove  tendenze  letterarie. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  20 


154  EMILIA    EEGIS  8 

Intorno  a  lui  il  moto  dei  romantici,  appena  sensibile  dapprima,  si  disciplina  via 
via,  trova  i  suoi  capi,  sventola  le  sue  bandiere:  il  moto  si  muta  in  ribellione.  Au- 
dace ed  insolente  come  tutto  ciò  che  è  giovane  e  che  si  crede  nuovo,  la  schiera  dei 
romantici  si  ribella  contro  ogni  regola,  spezza  ogni  freno;  impaziente  ed  avida,  accoglie 
ogni  voce  anche  lontana  purché  gridi  il  grido  stesso  che  ha  nell'anima:  attende 
chiunque  le  faccia  cenno.  Per  aver  più  potente  l'impeto,  più  lunga  la  lena  a  slan- 
ciarsi in  avanti,  ritorna  indietro,  e  dal  Medioevo  trae  con  se  una  infinita  sorgente 
di  passione  e  di  sentimenti;  per  spingersi  verso  la  luce  e  verso  il  sole,  si  tuffa  nelle 
pesanti  nebbie  nordiche  e  nelle  miti  notti  lunari. 

E  Botta  si  agita,  impreca,  schernisce,  leva  più  potente  di  tutti  il  grido  "  guerra 
ai  romantici!  „  grido  che  pei  tiranni  significa:  "  guerra  ai  ribelli  che  oggi  col  pen- 
siero preparano  i  ribelli  del  domani  coll'armi  „,  e  pel  Botta  vuol  dire:  "  guerra  a 
coloro  che  ci  rendono  servi  delle  idee  altrui,  che  ci  corrompono  la  lingua  con  frasi 
d'oltr'alpi,  che  ci  corrompono  le  anime  con  vaneggiamenti  d'altri  popoli  „. 

Quand'egli  ripeteva  le  stizzose  parole  del  Monti:  "  la  romanticeria  non  è  una 
epidemia,  ma  una  epizoozia  „  non  era  guidato  solo,  come  quel  grande  facitore  di 
versi,  da  risentimenti  artistici,  non  era  neppure  in  lui  l'espressione  di  un  dolore 
personale  del  caposcuola  che  vede  diradarsi  le  file  dei  suoi  discepoli  e  rafforzarsi 
quelle  di  nuovi  maestri;  non  era  egli  insomma,  come  il  Monti,  l'astro  che  prima  di 
impallidire  per  luce  che  vien  meno,  illividiva  di  rabbia;  ma  fremeva,  più  d'ogni  altra 
cosa  in  lui,  la  vergogna  per  la  patria  sua  che  come  piegava  il  capo  al  giogo  stra- 
niero, così  asserviva  l'anima  e  la  mente  alle  idee  ed  alle  forme  d'altri  popoli. 

La  sferzata  terribile  che  colpi  in  pieno  viso  il  giovane  Brofferio  quando  alla 
fiera  dichiarazione  fatta  a  Casimir  Perier:  "  sono  italiano  „  si  sentì  rispondere:  "  non 
comprendo  „  colpiva  pure  lo  storico,  in  mezzo  alla  tempestosa  ma  prepotente  vita 
parigina,  ad  ogni  istante  nell'anima  e  vi  lasciava  solchi. 

Fu  sotto  l'azione  di  quel  suo  affetto  per  l'Italia  non  compreso  da  molti,  deriso 
dai  più,  ingigantito  nella  solitudine,  reso  permaloso  nel  disprezzo,  che  l'ammiratore 
entusiasta  di  J.  J.  Rousseau,  il  prigioniero  che  dà  ali  al  pensiero  seguendo  l'agile  fan- 
tasia dello  Sterne,  il  giovane  melanconico  che  ama  le  scene  orrende  della  natura  più 
che  le  gioconde,  l'amante  della  solitudine,  il  lettore  appassionato  di  romanzi,  l'am- 
miratore di  Cesarotti,  colui  insomma  che  porta  nella  sua  studiosa  gioventù  tutti  i 
sintomi  dell'"  epidemia  romantica  „  potè  subire  una  trasformazione  completa.  Solo 
per  quest'affetto,  reso  geloso  dalle  lotte  combattute,  colui  che  appena  ventenne  aveva 
ideato  un  lavoro  seguendo  le  tracce  della  "  Nouvelle  Éloise  „  (1),  l'esule  che  dalla 
solitudine  della  Svizzera  scriveva  agli  amici  :  che  se  l'esser  uomo  da  romanzi  è  per 
lo  più  cagione  di  fiera  malinconia  e  di  crudeli  angoscie,  d'altro  canto  il  comune  pen- 
sare priva  di  vivissimi  piaceri,  onde  i  primi  sono  sfortunati  perchè  non  possono  go- 
dere, gli  altri  perchè  non  sanno  (2):  l'uomo  che  suggeriva  alla  fidanzata  di  rispon- 
dere alle  domande  delle  sue  amiche:  "  si  elles  te  demandent  qui  je  suis,  dis  leur  que 
j'ai  lu  J.  J.  Rousseau,  que  j'aime  les  romans,  que  j'en  fais  quelquefois  „  (3),  solo  per 


(1)  Cfr.  Dionisotti,   Carlo  Botta  a  Corfu,  1875,  pag.  165,  nota. 

(2)  Lettera  a  Luigi,  28  febbraio  1796,  Knutwiel.  —  P.,  pag.  189. 

(3)  Lettera  di  Botta  ad  Antonietta  Viervil,  3  prairial,  anno  8°  (23  maggio  1800),  edita  da  Dio- 
nisotti in  Vita  di  Carlo  Botta,  pag.  513  e  seg. 


9  STUDI')  INTORNO  ALLA  VITA  DI  CARLO  BOTTA  155 

quest'affetto  poteva  più  tardi  imprecare  ai  romanzi,  maledirne  gli  autori.  "  Nous 
irons  aux  Charmettes  et  rendrons  au  bon  Rousseau  un  hommage  quii  agréera  bien 
plus  que  les  pre'sents  des  Rois  ;  cet  hommage  c'est  l'amour  du  bien,  la  sincérité  de 
nos  promesses  et  le  feu  qui  brulé  dans  les  cceurs  tendres  et  sensibles  „  (1),  scriveva  egli 
un  tempo  alla  gentile  sposa:  ma  più  tardi  il  silenzio  con  cui  lo  storico  avvolse  lo 
scrittore  massimo  iniziatore  del  romanticismo,  dimostra  quant'egli  fosse  pentito  di 
quell'omaggio.  E  ben  si  vede  ancora  come  egli  avesse  dimenticato  queste  altre  parole 
pure  da  lui  scritte:  "  jerendsgràce  a  mon  Rousseau  pour  m'avoir  donne'  cette  pro- 
fonde sensibilità  qui  me  fera  goùter  mon  bonheur:  il  m'a  rendo,  il  est  vrai,  un  peu 
enclin  à  la  mélancolie „  (2),  quando  più  tardi  derideva  argutamente  quella  melan- 
conia che  serpeggiava  tra  i  giovani  d'allora  e  finemente  descriveva  i  melanconici 
per  vezzo.  Repubblicano,  nell'impazienza  giovanile  di  rompere  ogni  indugio  e  di  guar- 
dare in  viso  la  lotta,  egli  incitava  i  giovani  ad  udirlo,  forzandoli  con  dolce  violenza 
ad  interrompere  per  qualche  istante  la  lettura  di  J.  J.  Rousseau  (3),  ben  mostrando  di 
comprendere  che  a  quella  scuola  ed  a  quel  maestro  si  tempravano  le  menti  già  fatte 
accorte  e  che  dalla  meditazione  di  quelle  idee  che  il  filosofo  aveva  fissate,  traendole 
dallo  smisurato  pensiero  dei  popoli,  si  veniva  all'azione.  Solo  più  tardi,  nella  rovina 
di  ogni  cosa,  sorse  in  lui  potente  il  pensiero  che  gli  italiani,  ciechi  seguaci  di  duci 
stranieri  in  campi  di  battaglia  e  traditi,  si  avviassero  a  nuovi  tradimenti,  seguendo 
duci  stranieri  nel  campo  delle  idee.  Da  quel  pensiero,  nell'esilio  e  nella  sventura 
nacque  la  formula  letteraria  del  Botta,  quella  formula  che  egli  non  si  stancò  mai  di 
ripetere  e  che  molti  si  stancarono  di  udire.  Essa  è  semplice  ed  è  grande  :  "  perchè 
gli  italiani  siano  uniti  e  liberi  devono  mostrarsi  uniti  nella  lingua,  liberi  nei  pen- 
sieri :  quindi  una  lingua  unica  e  pura  attingendola  dagli  scrittori  del  trecento  e  del 
cinquecento,  inspirandosi  al  dialetto  toscano,  riconoscendone  la  sua  superiorità  sugli 
altri  dialetti,  cessando  da  qualsiasi  sciocca  e  disgustosa  disputa  contro  i  vocabolarii, 
nella  convinzione  ch'essi  non  sono  fatti  per  insegnare  l'arte  dello  scrivere,  bensì  per 
presentare  gli  elementi  materiali  a  chi  scrive:  accogliendo  quelle  parole  forestiere 
che  sono  riconosciute  indispensabili  dai  dotti  :  quindi  ancora  uno  sforzo  costante  nel 
creare  nuove  forme  staccandosi  da  tutto  ciò  che  è  straniero,  avendo  a  sdegno  ogni 
guida  la  cui  anima  non  sia  schiettamente  italiana  „  (4). 

Profondamente  convinto  che  la  sua  formula  potesse  sciogliere  ogni  più  arduo 
problema  e  guidare  a  forti  e  sane  conquiste,  anch'egli,  come  tutti  coloro  che  non 
vivono  che  per  un'idea,  osò  soggiungere:   "  Fuori  di  qui  non  v'è  salvezza!  „. 


(1)  Lett.  oit. 

(2)  Lett.  cit. 

(3)  Lett.  di  Botta  al  cittadino  Cavalli  :  "  Se  leggete  Machiavelli  o  Rousseau  fermatevi  un  poco 
ed  ascoltate  „,  4  nevoso,  anno  7°,  24  die.  1798.  —  P.,  pag.  123. 

(4)  Botta  espresse  in  moltissime  lettere  le  sue  opinioni  linguistiche  e  letterarie;  notevoli  Ira  le 
altre,  alcune  sue  lettere  aperte  pubblicate  a  più  riprese  nell"  Ape  Subalpina  „  e  nel  "  Giornale 
delle  Scienze  ed  Arti  di  Torino  „  negli  anni  1811  e  1812.  Degna  pure  di  nota,  oltre  la  lettera 
scritta  da  Parigi  il  6  aprile  1813  a  Giov.  Rosini  (pubblicata  in  Lettere  di  rari  illustri  italiani  del 
secolo  XV11I  e  XIX),  la  lettera  a  Lodovico  di  Breme  (19  settembre  1816)  già  stampata  nell"  Anto- 
logia ,  di  Firenze,  1826,  tomo  XXII,  pag.  73  e  segg.,  e  ristampata  nel  "  Paese  „,  giornale  di  Ver- 
celli (anno  II.  N.  33).  Aggiungane  ancora  alcune  lettere  al  Grassi  ed  al  Marchisio,  inedite   queste. 


156  EMILIA    REGIS  11) 

"  Fuori  di  qui  non  v'è  salvezza!  „  Ed  intanto  intorno  a  lui  i  romantici  arditi 
e  pensosi  ricercano  le  origini  della  loro  storia,  scrutano  negli  abissi  profondi  del- 
l'anima, tentano  di  interpretare  tutti  i  bisogni,  tutti  gli  affetti  dell'uomo.  Provocatori 
dei  classici  ed  alla  lor  volta  provocati,  le  due  schiere  scendono  fieramente  in  campo, 
ma  nello  scendere  in  campo,  gli  avversari  nell'impeto  sciolgono  e  mescolano  le  file; 
contro  ogni  volere  avviene  la  fusione  ed  ecco  :  nel  classico  Foscolo  v'ha  del  roman- 
tico: nel   romantico  Manzoni  v'ha  del  classico. 

"  Io  li  chiamo  traditori  della  patria  —  scrive  il  Botta  a  Ferdinando  Malvica 
nella  sua  grande  ira  contro  i  romantici  —  e  veramente  sono.  Ma  ciò  procede  parte 
da  superbia,  parte  da  giudizio  corrotto;  superbia  in  servitù  di  Caledonia  e  d'Er- 
cinia,  giudizio  corrotto  con  impertinenza  e  sfacciataggine.  Spero  che  questa  infame 
contaminazione  sfumerà  e  che  ancora  vedremo  nel  debito  onore  Virgilio,  il  Tasso  e 
l'Alfieri  „  (1). 

La  lettera  per  imprudenza  è  fatta  nota  al  pubblico  e,  voce  onesta  d'un  uomo, 
provoca  la  protesta  meravigliosa  di  un'anima  che  ha  in  se  l'anima  di  mille  onesti. 
"  Traditori  d'Italia  !  —  scrive  fremendo  Mazzini.  —  No  :  traditori  d'Italia  sono  i  ven- 
duti d'ingegno  e  d'anima  alla  forza  che  impone  o  all'opulenza  che  paga  ;  son  quei 
che  colle  pazze  superbie  municipali  e  colle  eterne  contese  di  lingua  perpetuano  tra 
fratelli  le  divisioni;  son  quei  che  immiseriscono  l'Italia  colle  ineziette  grammaticali 
e  le  questioncelle  erudite  o  ne  avvezzano  il  sonno  sugli  allori  degli  antenati;  son  quei 
che  nel  secolo  XIX  s'ostinano  a  voler  costringere  le  fervide  menti  italiane  nei  ceppi 
della  loro  infanzia  e  combattono,  quanto  sanno,  contro  lo  slancio  universale  dell'u- 
mano intelletto,  dannandolo  ad  una  perpetua  immobilità  ed  a  pascersi  di  fole  stra- 
niere alla  nazione,  alle  costumanze,  ai  bisogni  ;  son  quei  che  scrivono  non  per  amore 
del  vero,  ma  per  invidia  o  ambizione,  o  furor  di  parte  ;  finalmente  son  quei  che  pri- 
vano la  patria  del  buon  cittadino  per  darle  in  cambio  il  cattivo  scrittore  o  inutile  „  (2). 

Conobbe  il  Botta  queste  fiere  parole?  Saremmo  indotti  a  crederlo  da  quanto 
scrive  egli  in  una  lettera  al  Gi-assi,  nella  quale  parlando  di  alcune  sue  espressioni 
come  di  "  ragazzacci,  di  uomini  servili  della  patria  „  che  erano  andate  per  certi  gior- 
nali d'Italia,  specialmente  nel  "  Giornale  Arcadico  di  Roma  „  e  nell'"  Indicatore  Ge- 
novese „  egli  si  duole  che  una  lettera  di  confidenza,  com'era  quella  sua,  sia  stata 
resa  nota  al  pubblico.  "  Sebbene  tutti  i  romantici  a  parer  mio  s'ingannino  e  seminino 
una  peste  fatale  alla  letteratura  italiana,  non  tutti  però  sono  ragazzacci,  non  tutti 
vili,  non  tutti  servili  uomini,  non  tutti  traditori  della  patria  —  notava  egli  :  —  Deploro 
l'errore  funesto,  ma  le  persone  rispettabili  rispetto  e  non  ne  mancano  fra  i  roman- 


ci) Nel  marzo  del  1828  il  "  Giornale  Arcadico  „  di  Roma  pubblicava  una  recensione  anonima 
della  2"  edizione  del  libro  Della  elocuzione  di  Paolo  Costa,  ov'era  detto  l'Italia  non  aver  libro  mi- 
gliore di  questo  "  sia  per  la  bontà  di  stile,  sia  per  gravità  di  giudizio  e  per  squisitezza  di  gusto 
veramente  italiano  „.  L'articolista  dopo  aver  raccomandato  di  attentamente  leggerlo  a  coloro  che 
"  oggi  partecipano  con  non  so  quali  mostri  venutici  di  là  dell'Alpe  e  del  mare  „  aggiungeva  parergli 
acconcio'  di  riferire  "  un  brano  di  lettera  scritta  al  Sig.  barone  D.  Ferdinando  di  Malvica  da  uno 
dei  più  solenni  letterati  dell'età  nostra,  da  Carlo  Botta  „  e  riportava  la  lettera  ove  leggonsi  appunto 
le  parole  da  noi  citate. 

(2)  Queste  parole  di  G.  Mazzini  comparvero  nell"  Indicatore  Genovese  „  del  9  agosto  1828; 
trovansi  ora  nelle  Opere,  voi.  II,  pagg.  57-61. 


11  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CABLO    BOTTA  157 

tici  „  (1)-  Ma  d'altra  parte  come  spiegarci  in  un  uomo  che  prendeva  fuoco  per  un 
nonnulla,  questa  sua  calma  dinanzi  a  parole  che  non  costituivano  solo  una  vigorosa 
protesta,  ma  ancora  una  feroce  offesa? 

Che  se  il  Mazzini  non  volle  alludere  al  Botta  parlando  dei  "  venduti  d'ingegno 
e  d'anima  alla  forza  che  impone  o  all'opulenza  che  paga  „  non  v'ha  dubbio  invece 
ch'egli  abbia  voluto  colpire  lo  storico,  che  preferì  vivere,  per  meglio  comporre  le  sue 
opere,  in  terra  straniera,  con  quelle  ultime  parole,  terribili  battute  di  un  periodo 
concitato,  che  dovevano  fissarsi  bene  nella  mente  di  chi  le  udiva  anche  perchè  quel 
"  finalmente  „  messo  lì  rigido  come  un  segnale  non  permetteva  ad  alcuno  di  passar 
oltre  senza  soffermarsi. 

Parrebbe  quindi  più  conforme  a  verità  il  credere  che  il  Botta  pur  avendo  sa- 
puto di  certe  sue  espressioni  corse  per  alcuni  giornali  d'Italia,  non  abbia  poi  cono- 
sciute tutte  le  amare  parole  che  esse  provocarono  ;  tranne  che  non  si  vogliano  con- 
siderare come  dettate  in  lui  dalla  fiera  protesta  del  Mazzini,  le  violente  parole  con 
cui  lo  storico  chiude  la  bella  sua  lettera  scritta  al  Grassi  il  19  agosto  1828,  cioè  pochi 
giorni  dopo  la  pubblicazione  dell'articolo  comparso  nell'"  Indicatore  Genovese  „. 

In  essa  il  Botta  dopo  d'aver  strenuamente  difeso  il  Vocabolario  della  Crusca  dal- 
l'accusa mossagli  da  molti  e  dal  Grassi  stesso,  di  essere  di  gran  lunga  inferiore  ai 
vocabolari  sì  inglese  che  spagnuolo,  pone  termine  a  quel  suo  nobilissimo  sfogo  scri- 
vendo :  "  La  rabbia  che  io  ho  contro  i  corruttori  della  lingua  fra  i  quali  tu  non  sei, 
fa  che  non  mi  possa  tenere.  Io  vorrei  avere  cento  vulcani  in  questa  mano  per  poterli 
fulminare.  Ma  tu  li  perseguita  col  tuo  acre  ingegno,  colle  tue  dotte  fatiche  e  sarà 
la  spada  tua  come  quella  dell'arcangelo  contro  i  sudici  demoni.  Fa  loro  vedere  che 
la  lingua  è  il  più  prezioso  patrimonio  che  abbia  una  nazione  e  che  quando  ella  lo 
sciupa,  perde  quanto  di  grande,  di  generoso  e  di  libero  c'è  in  lei.  I  nemici  dell'I- 
talia sono  gli  schernitori  della  lingua,  tale  quale  l'han  fatta  i  nostri  padri,  i  nemici 
dell'Italia  sono  i  vili  imitatori  delle  cosette  francesi:  i  "  nemici  dell'Italia  „  sono  i 
vili  imitatori  delle  cosacce  di  Goethe  e  di  Walter  Scott  „.  Queste  ultime  battute 
che  parrebbero  stonare  coi  periodi  che  precedono,  verrebbero  quindi  a  ricevere  la 
ragione  della  loro  brusca  apparizione  e  ad  assumere  un  nuovo  colorito,  da  quelle 
altre  battute  del  Mazzini:   "  Traditori  d'Italia,  no  „. 

Strano  però  che  si  avvinghiassero  l'un  l'altro  e  s'assalissero  colle  feroci  parole 
di  "  traditore  „  e  di  "  nemico  ,,  d'Italia,  Mazzini  e  Botta,  l'uno  italiano  grande  come 
nessuno  fu  dopo  di  lui,  l'altro  non  grande  forse,  ma  italiano  innanzi  a  tutti  e  certo 
assai  prima  di  Mazzini. 


(1)  Lettera  a  G.  Grassi,  13  ott.  1828.  —  Notiamo  a  questo  proposito  che  Carlo  Salsotto  nella 
sua  erudita  ed  accuratissima  Nota  Per  l'Epistolario  di  Carlo  Botta,  pubblicata  negli  "  Atti  della 
B.  Accad.  delle  Scienze  di  Torino  „,  Voi.  XXXVI,  adunanza  del  23  giugno  1901,  accennando  a  pag.  7 
alle  parole  dello  storico  esprimenti  il  suo  rammarico  per  la  pubblicità  data  a  certe  sue  espressioni, 
mostra  credere  che  si  alluda  alla  lettera  del  1816  a  L.  di  Breme,  già  da  noi  citata,  comparsa  nel- 
1'"  Antologia  „  di  Firenze  nell'aprile  del  1826.  La  lettera  è  invece,  come  abbiami  visto,  quella  del 
Botta  al  Malvica  del  4  gennaio  1828,  lettera  per  la  quale  l'anonimo  articolista  del  "  Giornale  Arcadico  „ 
aveva  avuto  parole  di  biasimo  prima  ancora  che  dal  Mazzini,  da  un  collaboratore  dell"1  Antologia  ,  di 
Firenze  (1828,  N.  90).  Notisi  pure  che  noi  non  possiamo  pensare  col  Salsotto  che  la  lettera  all'ab.  L.  di 
Breme  sia  stata  edita  contro  la  volontà  del  Botta,  perchè  lo  storico  accennando  alla  pubblicazione 
di  essa  in  una  lettera  al  Grassi  del  6  agosto  1829,  ne  parla  senz'ombra  di  rammarico. 


]  58  EMILIA    BEI  12 

3.  —  Carlo  Botta,  nemico  in  teoria  dei  romantici,  nemico  degli  ammiratori 
di  Napoleone,  si  lascia  guidare  nei  giudizi  da  questi  suoi  due  sentimenti;  ma  cri- 
tico onesto,  com'è  uomo  onesto,  ritorna  spesso  sulle  sue  asserzioni  un  po'  severe,  un 
pò!  avventate  e  temendo  l'ingiustizia  sotto  qualsiasi  forma  si  presenti,  di  soverchia 
asprezza  o  di  soverchia  indulgenza,  è  indotto  sovente  a  stendere  la  mano  ad  un 
avversario  od  a  brontolare  e  volgere  le  spalle  ad  un  amico.  Gli  esempi  abbondano. 
Ama  ed  onora  Cesarotti  nella  sua  gioventù  (1):  è  lieto  che  l'autore  del  "  Patriot- 
tismo illuminato  „  accarezzi  il  modesto  autore  "  Della  Proposizione  di  un  Governo 
libero  ai  Lombardi  „  (2),  ma  più  tardi  quando  s'avvede  del  danno  immenso  che  il 
traduttore  di  Ossian  ha  arrecato  alla  lingua  italiana,  lo  chiama  "  scapestrato  „  metten- 
dolo in  un  fascio  con  alcuni  scrittori  di  Lombardia  che  qualifica  per  "  sucidi  .,  (3), 
mentre  al  contrario  non  ha  parole  che  bastino  per  lodare  l'abate  Cesari  e  mostrargli 
la  sua  gratitudine  per  il  dono  dell'  "  Inno  delle  Grazie  „  nel  quale  il  Botta  dichiara 
di  non  poter  desiderare  "  ne  maggior  eleganza  né  più  sana  critica,  né  più  profonda 
dottrina  ..  (4).  Ama  di  vivissimo  affetto  l'amico  suo  Giuseppe  Grassi,  ma  lo  assale  col- 
l'apostrofe:  "  Tu  quoque  fili  mi  „  (5),  quando  lo  vede  posporre  il  Vocabolario  della 
Crusca  ai  vocabolarii  inglese  e  spagnuolo,  scendendo  ancor  egli,  bella  e  nobile  figura 
di  letterato,  campione  nella  lotta  contro  i  puristi. 

Alle  critiche  aggressive  mosse  dal  Rosini  alla  sua  "  Storia  d'America  „,  e  pub- 
blicate nel  "  Giornale  Enciclopedico  „  di  Firenze,  risponde  per  le  rime  in  vari  gior- 
nali (6),  e  si  duole  cogli  amici  di  questo  "  Sofista  magro  e  scortese  „  (7),  parendo  a 
lui  che  quel  suo  modo  di  scrivere  non  fosse  ne  da  critico,  né  da  letterato,  né  da 
gentiluomo,  perchè  il  fatto  solo  dell'essere  andato  a  concorso  con  lui  lo  doveva  trat- 
tenere dal  por  bocca  nelle  sue  opere  in  bene  od  in  male  (8)  ;  ma  più  tardi  lo  stima 
e  gli  è  amico  pur  serbando  le  sue  opinioni  in  fatto  di  lingua  e  di  letteratura. 


li  Vedasi  lett.  a  .Melchior  Cesarotti,  25  piovoso,  anno  6°  (13  febbraio  1798),  Corfù,  e  lettera  al 
prof.  Bertolli,  17  gerrnile,  anno  6°  (6  aprile  1798).  —  P. 

(2)  Lett.  a  Modesto  Paroletti.  25  messidoro,  anno  5°  (13  luglio  1797).   —  P. 
3)  Lett.  a  Giovanni  Rosini,  6  aprile  1813,  Parigi.   —  V. 

(4)  Lett.  ad  Antonio  Cesari,  26  settembre  1813,  inserita  dal  Manuzzi  nella  prefazione  dell'opera 
esabi,  Antidoto  pei  giovani   studiosi   contro    le    novità  in  opera   di  lingua  italiana,  Forlì,  presso 

Matteo  Casali.  1829,  pagg.  xxvi-37. 

(5)  Lett.  a  G.  Grassi,  Parigi,  19  agosto  1828,  edita  da  Domenico  Berti  in  "  Atti  della  R.  Aec. 
della  Crusca  „,  Adunanza  pubblica  del  16  settembre  1878.  Firenze,  Cellini,  1879,  pagg.  95-113. 

(6)  La  prima  risposta  del  Botta  comparve  nell'  *  Analitico  Subalpino  „,  N.  18,  giornale  che  stani- 
pavasi  allora  in  Torino.  Neil'  "  Ape  Subalpina  „  altro  giornale  che  pubblicavasi  in  Torino,  compar- 
vero poi  quattro  lettere  dello  storico,  dirette  all'Estensore  di  detto  giornale,  successivamente  e  cioè: 
il  4  febbraio,  il  12  aprile,  il  25  maggio,  il  25  luglio  del  1811.  In  ultimo  nel  "  Giornale  delle  Scienze 
ed  Arti  di  Torino  „  comparvero  due  altre  lettere  del  Botta  in  data  18  febbraio  e  15  aprile  1812. 
Queste  lettere,  sette  in  tutto,  che  sfuggirono  alle  ricerche  del  Dr.  Salsotto,  unite  alla  lettera  del 
Botta  stesso  al  Malvica,  di  cui  parlammo  nella  nota  a  pag.  11,  porterebbero  a  diciannove  il  numero 
delle  lettere  edite  vivente  lo  storico.  Giova  inoltre  notare  ch'esse  sono  importantissime  per  la  piena 
conoscenza  del  pensiero  bottiano  e  per  ben  stabilire  il  posto  occupato  dallo  scrittore  nella  intricata 
ed  allora  dibattutissima  questione  della  lingua. 

(7)  Lett.  a  G.  B.  Somis,  16  novembre  1810,  Parigi;  lett.  ined. 

(8)  Lett.  a  Davide  Bertolotti,  7  gennaio  1811,  Parigi;  lett.  ined.  —  Botta  nel  1810  aveva  eon- 

i  eolla  sua  Storia  d'America  al  premio  Napoleonico  della  Crusca;  ma  non  ne  aveva  riportata 
che  la  menzione  onorevole,  mentre  il  premio  di  diecimila  lire  era  stato  diviso  tra  il  Rosini  per  il 
poemetto  in  quattro  canti  in  ottava  rima  intitolato  Le  nozze  di  Giove  e  di  Latona,  il  Niccolini  per 
la  tragedia  Polissena  e  il  Micali  per  la  storia:  L'Italia  avanti  il  dominio  dei  Romani. 


13  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA    '  159 

Si  duole  che  il  Niccolini  nella  sua  tragedia  intitolata  "  Foscarini  ,  abbia  svi- 
sata la  storia  per  accrescere  l'interesse  e  dar  maggior  movenza  agli  affetti,  seguendo 
le  contaminate  massime  di  letterati  servili  (1);  ma  più  tardi  quando  lo  vede  caldo 
d'amore  di  libertà  e  animato  da  sentimenti  schiettamente  italiani,  perdona  le  pecche  e 
con  gioia  confessa:  "  Tutto  mi  piace  in  lui:  ma  più  di  tutto  il  vedere  che  egli  è  uomo 
che  pensa  da  se  e  la  sua  mente  è  sempre  feconda  di  pensieri  nobili  e  profondi  „  (2). 
Insomma  il  Botta  è  critico  onesto;  ma  è  pur  nella  critica  ciò  che  fu  nella  vita: 
un  buon  uomo.  Si  direbbe  che  anch'egli  abbia  stabilito  per  chi  deve  giudicare,  tre 
classificazioni  distinte  ed  immutabili,  come  certi  maestri  che  invariabilmente,  tutti 
gli  anni,  dividono  la  scolaresca  in  tre  parti:  comprendendo  nell'una  i  buoni,  nell'altra 
i  birichini,  nell'ultima  i  ragazzacci.  Anche  il  Botta  ha  i  buoni,  i  birichini,  i  ragaz- 
zacci. Son  buoni  tutti  coloro  che  si  stringono  a  lui,  e  battono,  in  fatto  di  lingua  e  di 
letteratura,  la  stessa  via;  birichini,  coloro  che  fanno  tratto  tratto  delle  piccole  scappate 
nel  campo  avversario,  ma  pei  quali  rimane  pur  sempre  la  speranza  di  una  buona 
riuscita;  ragazzacci  coloro  che  son  fuori  di  ogni  legge  e  pei  quali  ogni  speranza  è 
vana:  sono  insomma  i  discoli.  Un  esempio:  Monti  è  buono,  Foscolo  è  un  birichino, 
Manzoni  un  ragazzaccio. 

In  una  parola,  il  Botta  è  critico  né  profondo,  uè  acuto,  e  se  talvolta  può  in- 
gannarci la  felice  prontezza  con  cui  afferra,  anche  ad  una  semplice  lettura,  il  carat- 
tere generale  di  un  autore  o  l' intendimento  immediato  di  un'  opera,  quasi  sempre 
poi  ci  lascia  delusi  per  quel  che  riguarda  la  ricerca  dell'intimo  pensiero  di  quel- 
l'autore o  dell'ultima  significazione  di  quell'opera.  Per  questo  ammira  cose  appena 
mediocri:  gli  sfuggono  i  capolavori.  Si  direbbe  che  la  mente  sua  non  scopra  chele 
linee  principali  di  un'opera,  nella  guisa  che  un  occhio  non  educato  non  scorge  che 
i  contorni  delle  cose.  Succede  al  Botta  critico  ciò  che  succede  al  Botta  storico.  Lo 
storico  vede  perfettamente  il  contorno  di  tutto  un  popolo,  afferra  il  carattere  di  tutta 
una  età;  ma  quali  siano  le  sfumature  che  danno  risalto  a  quel  contorno  e  quali  siano 
gli  elementi  che  costituiscono  quel  carattere,  egli  ignora.  Sa  che  sia  la  verità,  la 
giustizia,  la  grandezza  ed  a  queste  s'inspira  per  comporre  le  sue  opere  ed  a  queste 
risale  per  condannare  un'azione.  Ma  come  non  sa  scindere  l'edificio  ch'egli  consi- 
dera, nelle  sue  parti,  cos'i  non  lo  sa  ricostrurre;  egli  abbatte  prima  e  poi  accozza. 
Lo  stesso  avviene  per  l'arte.  Il  Botta  sente  l'armonia  di  un  verso  ben  fatto;  conosce 
la  dolcezza  di  un  buon  periodo  italiano:  sa  pure  che  lo  scrittore  nel  comporre  la 
sua  opera  deve  inspirarsi  alle  grandi  idee  di  verità  e  di  giustizia,  onde  quando  egli 
trova  un'idea  buona  ed  una  lingua  schietta,  quando  questa  lingua  gli  accarezza  l'o- 
recchio ed  il  pensiero  buono  gli  commuove  l'anima,  egli  si  abbandona  alla  gioia  ed 
applaude  :  ma  torce  il  viso  dinanzi  ai  periodi  densi  di  pensiero  ed  oscuri,  in  cui  l'in- 
tenzione dell'autore  par  che  si  nasconda  e  sforzi  il  lettore  a  ricercarla  da  sé.  Al 
Botta  i  concetti  "  stillati  dai  lambicchi  „  dan  noia  e  fan  perdere  la  pazienza. 

Si  comprende  quindi  facilmente,  dopo   quanto   s'è  detto,  perdi' egli   assegni   al 


(1)  Lett.  ad  Antonio  Papadopoli,  28  maggio  1828,    pubblicata  da  Gozzi  Gaspare  in  Lettere  d'il- 
lustri >ì<jìi<tii!  itti  Antonio  Papadopoli,  Venezia,  Antonelli,  1886. 

(2)  Lettera  a  Giorgio  Greene,   29  gennaio  1836,  edita  da  Milanesi    Carlo  in  "  Archivio  storico 
italiano  „,  nuova  serie,  tomo  I,  parte  II,  pag.  79. 


160  EMILIA    REGI-  14 

Romani  il  primo  posto  fra  i  lirici  dei  suoi  tempi  paragonandolo  al  Filicaia  ed  al 
Guidi  (1),  mentre  chiama  "  scapestrato  „  il  Foscolo  pur  riconoscendolo  ingegno  gran- 
dissimo (2)  ;  perchè  ancora,  parlando  di  quest'ultimo  come  autore  di  quei  "  Saggi  sul 
Petrarca  „,  nei  quali  si  rivela  tutta  la  squisita  attitudine  del  poeta  alla  critica,  Botta 
noti  che  assai  più  gli  sarebbero  piaciuti,  qualora  l'autore  non  fosse  andato  così  spesso 
di  palo  in  frasca,  dando  ad  ogni  passo  nel  lambiccato. 

•  Certo  —  scriveva  —  vi  sono  delle  cose  belle  e  dei  pensieri  generosi.  Ma  Foscolo 
non  sa  stare  nel  medesimo  proposito  ed  è  piuttosto  vivo,  che  ordinato,  e  capace 
piuttosto  di  scintille  che  di  fuoco  posato  e  perenne,  la  quale  ultima  qualità  costi- 
tuisce, secondo  me,  il  vero  e  buon  scrittore  „  (3). 

Queste  poche  pennellate  non  disdicono  alla  figura  irrequieta  del  Foscolo,  irre- 
quieta nella  vita  e  nell'arte.  Ma  lo  strano  si  è  che  mettendolo  altra  volta  a  confronto  col 
Monti  e  preferendo  di  gran  lunga  quest'ultimo  al  primo,  il  Botta  accompagni  la  scelta 
colla  spiegazione:   "  perchè  a  me  non  piacciono  le  nebbie  caledoniche  ed  erciniche  „  (4). 

Quando  si  pensi  che  il  lamento  che  lo  storico  muove  per  le  nebbie  caledoniche 
ed  erciniche,  corrisponde  al  lamento  del  Monti  per  "  la  scuola  boreale  „,  riusciremo 
a  spiegarci  senza  molta  fatica  come  il  Foscolo,  che  disdegnosamente  nel  "  Gazzettino 
del  Bel  Mondo  „  moveva  guerra  a  quei  giovani  che  "  cavalcando  i  destrieri  nuvolosi 
di  Odino  „  rompevano  lance  in  onore  della  poesia  romantica,  potesse  essere  chiamato 
dal  Lampredi  "  corifeo  del  romanticismo  „. 

Per  Ugo  Foscolo  furono  rivolte  al  Botta  parole  tristemente  severe  dal  Mazzini 
in  un  discorso  pubblicato  nell'  "  Indicatore  Livornese  „.  In  esso,  lamentando  la  morte 
di  Ugo  Foscolo,  che  Mazzini  amò  scrittore  e  uomo,  ed  accennando  alla  sua  Orazione 
pei  Comizi  Lionesi,  egli  notava  : 

"  Ora  mi  si  conceda  l'espressione  libera  di  un  dolore:  chi  perdonerà  allo  storico 
italiano,  all'uomo  che  si  annunziava  vendicatore  degli  oltraggi  profusi  all'Italia,  l'aver 
taciuto  d'Ugo  e  della  sua  Orazione?  In  un  popolo  incivilito,  presso  cui  il  genio  è 
onnipotente,  il  vero,  predicato  da  un'  anima  generosa,  è  un  evento,  —  quell'Orazione 
era  retaggio  inalienabile  dell'Italia:  era  l'unica  protesta  degna  d'una  nazione  infelice 
e  doveva  essere  per  lo  storico  uno  di  quei  fatti  che  consolano  lo  sguardo  stanco  di 
errare  per  un  labirinto  di  astuzie  e  di  codardie.  E  il  Botta  ne  tacque  :  ne  tacque 
mentre  parlò  diffusamente  di  un  Bazzoni,  mentre  registrò  la  resistenza  dell'eunuco 
Marchesi.  Non  so  le  cagioni,  ma  l'Italia  gli  terrà  conto  di  questo  silenzio  ,  (5). 

Ma  se'  Mazzini  avesse  potuto  conoscere  ciò  che  lo  storico  scriveva  in  una  sua 
lettera  al  Marchisio,  avrebbe  certamente  risparmiate  quelle  parole  dolorose  per  chi 
le  pronunciava,  dolorose  per  chi  le  udiva.  Carlo  Botta,  parlando  del  Foscolo,  scriveva  : 
"  I  giornali  di  Francia  e  di  Inghilterra  fanno  un  gran  fracasso  di  un'  orazione  detta 
da  lui  nei  comizi  di  Lione  contro  Bonaparte.  Ma  non  è  vero  niente,  ed  io  lo  so  di 
sicuro,  e  questa  è  un'  impostura  da  mettere  nel  mazzo  con  tante  altre.  Foscolo  non 


(1)  Lett.  a  Giorgio  Greene,  5  agosto  1836,  Parigi,  pag.  88  in  op.  cit. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  16  novembre  1827;  lett.  ined. 

(3)  Lett.  a  St.  Marchisio.  10  febbraio  1825;  lett.  ined. 
i4     Lett.  a  St.  Marchisio,  2  gennaio  1828;  lett.  ined. 

(5)  Queste   parole    pubblicate    prima    nel    N.    32    dell'    "  Indicatore  ^Livornese  ,    trovanti   pure 
nel  voi.  Il  degli  Scritti  editi  ed  mediti  (Roma,  1877),  pag.  128. 


15  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  161 

disse  parola  in  quell'occasione  e  nessuno  parlò  se  non  per  adulare.  Vero  è  però  che 
Foscolo  non  ha  mai  amato  Bonaparte  „  (1).  L'affermazione  così  recisa  dello  storico  era 
pur  giusta.  Foscolo,  come  ognun  sa,  scrisse  bensì  una  orazione  pei  comizi  di  Lione 
nel  1802  :  ma  non  la  recitò  (2).  Unica  colpa  del  Botta  si  fu  l'ignorare  che  il  poeta 
l'avesse  composta. 

4.  —  "A  Ugo  Foscolo  sono  stato  presentato  da  Luigi  —  scriveva  Silvio  Pellico 
al  Marchisio.  —  Ho  fatto  il  dì  dopo  la  conoscenza  di  Vincenzo  Monti;  questi  ha  una 
cera  veramente  oraziana.  Nell'aspetto  d'entrambi  si  legge  la  enorme  disparità  degli 
animi  loro  „  (3).  Queste  parole  balzano  alla  mente  quando  vediamo  pure  il  Botta  in 
una  sua  lettera  porre  di  fronte  i  nomi  e  le  figure  dei  due  poeti  (4).  Ma  mentre  il 
Pellico  preferisce  per  ogni  aspetto  il  Foscolo  e  lo  ama  così  da  considerare  come  sacra 
la  sua  persona,  così  da  esser  pronto  a  votale  per  la  vita  di  quel  cupo  ed  ostinato 
difensore  di  libertà  i  suoi  poveri  giorni  destinati  allo  Spielberg  (5),  lo  storico  prefe- 
risce, specialmente  per  rispetto  all'arte,  il  cavalìer  Monti.  Per  lui  ha  parole  di  pro- 
fonda ammirazione  e  di  sommessione  quasi  cieca  ;  ringrazia  Davide  Bertolotti  che  glie 
ne  ha  offerta  l'amicizia  e  gode  degli  errori  che  il  grande  poeta  ha  trovato  nella  sua 
storia  d'America:  a  Io  ho  in  tanta  stima  il  giudizio  del  Signor  Monti  —  scrive  quel 
poveretto  —  che  non  solo  dubito  di  aver  errato,  ma  ne  son  risoluto  del  tutto  e  della 
sua  sentenza  non  solo  non  mi  tengo  offeso  ma  l'ho  per  vera  e  per  grata  e  ne  lo 
ringrazio  e  cosi  offritegli  da  parte  mia  „  (6).  Più  tardi,  quando  le  sventure,  più  ancora 
che  le  opere,  han  reso  noto  lo  storico  agli  italiani  e  per  lui  gli  uomini  sommi  si 
commuovono  e  Monti  con  una  generosità  che  lo  onora  offre  al  Botta  ogni  suo  profitto 
nella  "  Biblioteca  italiana  »  (7)  e  propone  di  render  omaggio  all'autore  del  "  Camillo  „ 
con  un  articolo  sul  poema  (8),  proposta  mai  mandata  ad  effetto,  forse  perchè  dive- 
nuta troppo  ardua  anche  per  uno  in  cui  l'adulazione  fosse  abito  —  Botta  gioioso 
scrive:  "  Ma  che  ventura  è  mai  questa  mia  che  io  mi  abbia  un  Monti  per  amico? 
oh!  benedette  le  mie  sventure  che  mi  han  fatto  scoprire  l'amore  d'un  tanto  uomo!  „  (9). 


(1)  Lett.  a  St.  Marchisio,  16  novembre  1827;  lett.  ined. 

(2)  Il  Mazzini  stesso  in  una  nota  al  suo  scritto  già  citato  a  pag.  123  osserva:  *  Se  l'Orazione 
sia  stata  pronunciata  nella  solennità  dei  comizi  o  solamente  dettata,  non  ho  potuto  accertarlo. 
Hobbhodse  nel  Saggio  sulla  Letteratura  italiana,  ed  uno  scrittore  della  "  Rivista  Straniera  „  ne  par- 
lano come  se  egli  l'avesse  recitata.  Ma  le  memorie  dei  tempi  ne  tacciono;  e  dalla  dedicatoria  del- 
l'Orazione e  da  una  nota  appostavi  in  calce  appare  che  egli  la  scrivesse,  non  la  parlasse  „.  L'Ora- 
zione del  Foscolo  vide  la  luce  in  Lugano  nel  1829. 

(3)  Lett.  a  St.  Marchisio,-  21  ottobre  1809,  edita  da  N.  Bianchi  in  "  Curiosità  e  ricerche  di  Storia 
Subalpina  „,  I,  pag.  184. 

(4)  Lett.  del  Botta  a  St.  Marchisio,  2  gennaio  1828;  lett.  ined. 

(5)  "  Se  io  conoscessi  quali  dèi  accettano  il  sacrifizio  dei  viventi  —  scriveva  Pellico  al  Foscolo 
il  10  aprile  1816  —  voterei  loro,  te  lo  giuro,  i  miei  giorni  perchè  conservassero  i  tuoi  „  (edita  da 
N.  Bianchi  in  op.  cit.). 

(6)  Lett.  a  Davide  Bertolotti,  13  gennaio  1813,  in  Lettere  inedite  di  C.  Botta  pubbl.  da  Bian- 
chini Domenico  in  "  La  Scuola  Romana  „,  anno  II,  Roma. 

(7)  Le  offerte  del  Monti  si  rilevano  oltreché  da  alcune  lettere  del  Botta  e  da  una  lettera  di 
Pietro  Giordani  a  Gaetano  Dodici,  24  settembre  1816  (Epistolario  edito  dal  Gussalli,  voi.  Ili,  p.  369), 
da  un'altra  lett.  di  P.  Giordani  al  cav.  Maggi,  tuttora  inedita,  del  16  febbr.  1816.  V.  Appendice,  N.  1. 

(8)  Lett.  a  V.  Monti,  17  aprile  1816,  edita  da  Bianchini  Domenico  in  op.  cit. 

(9)  Lett.  cit. 

Sekie  li.  Tom.  LUI.  21 


162  EMILIA    REGIS  16 

Ed  al  poeta  che  si  ricorda  con  affetto  di  lui,  qualche  anno  dopo  ancora,  scrivendogli, 
fa  la  preghiera:  "  Dio  vi  conservi  lungamente  per  onore  d'Italia  e  per  contento  di 
tutti  i  buoni!  „  (1)  e  ciò  mentre  il  Pellico,  parlando  del  Monti,  scriveva  al  fratello 
Luigi,  gravemente:  "  Noi  lo  veneravamo  come  l'ombra  d'un  grande  poeta  „  (2).  Del 
resto  è  fuor  di  dubbio  che  anche  il  Botta,  pur  ammirando  il  poeta,  provava,  quasi 
senza  volerlo,  una  certa  ripugnanza  per  l'uomo  e  l'innocente  esclamazione  che  gli 
sfugge  di  bocca  quando  sente  dire  da  alcuno,  alla  notizia  della  morte  del  Monti, 
ch'egli  fu  un  grande  poeta,  ma  che  fu  anche  una  banderuola:  "  Dio  buono!  adunque 
non  vi  sono  banderuole  in  Parigi?  „,  accompagnata  dall'ammonizione  "  voi  parlate  di 
poesia:  che  diavolo  andate  mescolando  le  banderuole?  „  (3),  dimostra  chiaramente 
come  anch'egli  facesse  un  taglio  netto  fra  l'arte  e  l'anima  di  quell'uomo,  che  cono- 
sceva ogni  sublime  ardimento  nella  poesia  ed  ogni  debolezza  nella  vita.  Tuttavia 
l'ammirazione  e  la  gratitudine  che  egli  serbò  profonda  per  il  poeta,  mentre  gli  strap- 
pano il  grido  doloroso:  "  Il  nostro  Monti  è  morto!  Adunque  sono  morti  quasi  contem- 
poraneamente quei  tre  lumi  della  virtù  italiana  :  dico  Monti,  Cesari  e  Pindemonte  „  (4), 
lo  sforzano  pure  a  muover  lamento  agli  italiani  per  la  debole  memoria  ch'essi  serbano 
di  quel  grande  e  lo  inducono  a  dignitosa  protesta  contro  coloro  che  avevano  potuto 
credere  ch'egli  fosse  collaboratore  in  Parigi  di  un  giornale  che  aveva  scritto  le  pa- 
role: "Monti  cui  il  disprezzo  solo  salva  dall'infamia,,.  Egli  notava:  "Io  non  sono 
uomo  ne  di  rabbie,  né  di  furori  e  credo  neppure  d'inciviltà  .,  (5),  riducendo  pur  senza 
volerlo  ad  una  semplice  questione  d'inciviltà  la  condanna  morale  d'un  uomo.  Triste 
cosa  invero,  se  anche  il  Pellico  parlando  del  Monti  era  indotto  a  fare  all'amico  suo 
Marchisio  la  domanda  terribile:  "  Spiegami  come  mai  in  sì  misero  ente  vi  sia  stata 
una  scintilla  di  divinità  „  (6). 

5.  —  Sin  qui  il  Botta,  benché  si  mostri  severo  col  Foscolo  ed  ammiri  il  Monti, 
non  eccede  però  nei  suoi  giudizi.  Non  tutti  compresero  la  nervosa  parola  dell'autore 
dei  "  Sepolcri  „,  mentre  d'altra  parte  ben  pochi  riuscirono  a  ribellarsi  a  quel  fascino, 
a  quella  vera  superiorità  che  il  Monti  esercitò  sugli  spiriti  coi  suoi  versi  smaglianti. 
Botta  non  eccede  quando  tributa  calde  parole  di  ammirazione  a  Franco  Salfi  (7), 
l'ardito  cantore  di  Basville,  ma  miglior  critico  di  quanto  fosse  poeta,  ed  a  Camillo 
Ugoni  (8),  l'elegante  traduttore  di  "  Cesare  „,  collaboratore  del  "  Conciliatore  „,  tutti 


(1)  Lett.  a  Vincenzo  Monti,  8  aprile  1819,  edita  da  D.  Bianchini  in  op.  cit. 

(2)  Lett.  di  S.  Pellico  a  Luigi  Pellico,  1819,  edita  dal  Riniebi  in  Della  vita  e  delle  opere  di  S.  Pel- 
lico, pag.  311  e  segg. 

(3)  Lett.  ad  Antonio  Papadopoli,  15  dicembre  1828,  in  op.  cit. 

(4)  Lett.  cit. 

(5)  Lett.  a  Giorgio  Greene,  6  febbraio  1837,  in  op.  cit. 

(6)  Lett.  di  Silvio  Pellico  a  St.  Marchisio,  3  gennaio  1820;  ined. 

(7)  Lett.  al  conte  Littardi,  6  novembre  1818.  Botta  scrive:  "  Voi  sapete  quanto  amore  io  porti 
al  nostro  Salfi,  che  veramente  lo  merita.  Perciò  ve  lo  raccomando  con  quella  maggior  istanza  ch'io 
posso  e  fate  che,  poiché  tiraste  me  dal  fondo,  tiriate  anche  lui.  Vi  so  dire  che  farà  onore  all'Italia 
e  la  sua  continuazione  della  storia  letteraria  del  Ginguené  sarà  una  bella  cosa.  E  però  porgendo 
una  mano  a  lui  farete  un'opera  meritoria  e  terrete  acceso  in  Francia  un  bel  lume  italiano  ,.  —  Ined. 

(8)  "  Molto  volentieri  vedrò  il  Conte  Camillo  Ugoni  —  scrive  lo  storico  il  2  dicembre  1822  a 
St.  Marchisio  —  so  ch'ente  egli  sia  e  mi  fia  caro  l'onorarlo  da  vicino  come  già  l'onoro  da  lon- 
tano ,.  —  Lett.  ined. 


17  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  163 

e  due  suoi  buoni  amici  in  Parigi,  mentre  tien  dietro  ai  loro  lavori  letterari,  plau- 
dendo al  Salfi  che  si  occupa  della  "  Storia  Letteraria  „  del  Ginguené,  all'Ugoni  che 
coopera  a  dar  miglior  rilievo  alle  figure  di  scienziati  e  letterati  italiani,  come  il  La- 
grange,  il  Casti,  il  Visconti  (1). 

Né  ci  recan  meraviglia  le  lodi  ch'egli  continuamente  tributa  a  Giuseppe  Grassi, 
l'autore  del  "  Dizionario  militare  „  e  del  libro  sui  "  Sinonimi  ,,,  nò  ci  stupisce  l'af- 
fetto che  legò  per  lunghissimi  anni  quei  due  buoni.  Dal  loro  carteggio,  dai  consigli 
chiesti  dal  Grassi,  non  per  semplice  omaggio  allo  storico,  ma  per  profonda  fede  nella 
sua  dottrina,  dai  consigli  dati  dal  Botta  senza  esitazione,  ma  ancora  senz'alcun'ombra 
di  gravità  cattedratica,  si  rivela  la  grande  modestia  dello  scolaro  già  famoso  e  la 
profonda  dottrina  in  materia  di  lingua  del  maestro. 

Talora  i  consigli  non  vertono  che  sull'uso  buono  o  cattivo  di  qualche  parola  e 
si  risolvono  in  una  condanna  od  in  un'  assoluzione  data  in  nome  di  grandi  maestri 
della  lingua  ;  tal'  altra  invece  riguardano  un'  opera  intiera  od  una  parte  di  essa,  come 
quando  il  Botta  suggerisce  all'amico  di  aggiungere  al  suo  vocabolario  le  voci  riguar- 
danti la  marineria,  indicandone  con  affettuosa  sollecitudine  il  modo  (2).  Sovente  le 
critiche  son  fatte  in  tono  scherzevole,  sebbene  non  manchino  quelle  acerbe,  come 
acerba  è  appunto  la  critica  mossa  al  "  Parallelo  „  dato  dal  Grassi  del  vocabolario 
della  Crusca  con  quello  inglese  del  Johnson  e  con  quello  dell'  "  Accademia  Spa- 
gnuola  „  (3).  Ma  da  tutte  le  espressioni  o  tenere  o  rudi  si  rivela  che  il  Botta  ben 
conosce  il  valore  di  quel  nobile  intelletto  e  ben  comprende  tutta  l'influenza  che  può 
esercitare  sui  giovani  quella  nobile  figura,  severa  nella  sua  dolorosa  cecità. 

Non  è  poi  neppure  fuor  di  luogo  che  il  Botta  abbia  parole  di  grandissima  lode 
per  Pietro  Giordani,  pur  dolendosi  —  e  quanti  con  lui  non  mossero  lo  stesso  ram- 
marico! —  ch'egli  si  sia  fatto  reo  di  lesa  letteratura,  deludendo  il  mondo,  che 
molte  cose  aspettava  dal  suo  sublime  ingegno  (4)  ;  nò  è  soverchio  ch'egli  magnificili 
gli  alti  pregi  di  Leopoldo  Cicognara,  la  cui  Storia  della  scultura  ebbe  a  quei  tempi 
un'  accoglienza  trionfale.  Ma  come  poteva  egli  scrivere  all'amico  suo,  al  Marchisio, 
le  parole  :  "  II  Piemonte  che  ebbe  il  sommo  tragico  deve  pur  dare  i  sommi  comici 
all'Italia:  voi  ed  il  Nota  „?(5). 

Come  poteva,  parlando  dell'  "  Olgiati  „,  tragedia  di  Giovanni  Battista  Testa,  to- 
rinese, esprimersi  in  tal  modo:  "  Mossa  d'affetti,  altezza  di  pensieri,  sublimità  di  stile, 
purezza  di  lingua,  un  dire  breve  e  concettoso  che  più  fa  pensare  di  quanto  dica, 
fanno  di  questa  tragedia  una  composizione  meravigliosa  „  ?  (6).  È  pur  vero  che  in 
essa  ritrova  qualche  lungheria,  qualche  sconnessione  alla  romantica  con  certi  pia- 
gnistei di  donne  in  sulla  catastrofe;  ma  poi  afferma  con  profonda  convinzione,  ritor- 
nando altra  volta  sullo  stesso  argomento,  che  se  anche  l'autore  non  avesse  fatto 
altro  che  i  due  versi  che  terminano  la  tragedia,  versi  belli   e  quasi  divini,  essi  da 


(1)  V.  Appendice,  N.  2. 

(2)  Lett.  a  G.  Grassi,  28  giugno  1817  ;  lett.  ined.  V.  Appendice,  N.  3/ 

(3)  Lett.  a  G.  Grassi,  19  agosto  1828;  lett.  edita  da  Domenico  Bekti  in  op.  cit. 

(4)  Lett.  ad  A.  Papadopoli,  21  gennaio  1831,  in  op.  cit. 

(5)  Lett.  a  St.  Marchisio,  19  febbraio  1828;   ined. 

(6)  Lett.  a  St.  Marchisio,  20  giugno  1827;  ined. 


164  EMILIA    EEGIS  18 

soli  "  lo  avrebbero  qualificato  grande  poeta  „  (1).  E  dire  che  il  tempo,  galantuomo, 
insieme  alle  lungherie,  alla  romantica  ed  ai  piagnistei  di  donne  in  sulla  catastrofe, 
s'è  portato  via  persino  quei  due  versi  ! 

6.  —  Non  è  da  credersi  che  nell'epiteto  di  "  maestrevoli  .,  (2),  col  quale  il 
Botta  designa  le  commedie  del  Marchisio  e  nelle  lodi  di  cui  è  largo  verso  il  com- 
mediografo, entri  in  qualche  misura  l'amicizia  che  per  anni  legò  quelle  due  anime 
schiette  ed  oneste.  Quando  nell'aprile  del  1822,  il  Botta  prende  per  la  prima  volta 
la  penna  in  mano  per  ringraziare  l'autore  stesso  del  dono  delle  commedie  e  salutarlo 
primo  comico  d'Italia,  lo  storico  o  aveva,  nella  sua  lunga  dimora  in  Parigi,  dimen- 
ticato affatto  il  Marchisio,  o  non  lo  ricordava  che  per  due  circostanze  assai  spiace- 
voli, e  cioè:  per  una  poco  gentile  sfuriata  con  cui  l'ardente  nemico  del  regno  dei  tre 
Carli  aveva  assalito  durante  un  ballo  in  maschera  la  giovine  sposa  del  Botta,  la 
quale  tutta  smarrita  nel  suo  costume  di  timorosa  ed  innocente  pastorella,  aveva  do- 
vuto accogliere  le  invettive  dirette  al  presunto  colpevole  marito,  accusato  ferocemente 
di  dilapidare  il  pubblico  erario;  ed  ancora  per  una  critica  maligna  mossa  in  un  gior- 
nale dall'implacato  avversario  alla  "  Storia  d'America  „  al  suo  primo  apparire  (3). 
E  guardate,  grande  bontà  di  quel  caro  uomo  del  Botta!  Parlando  allora  di  questa 
critica  con  un  amico,  egli  lo  pregava  di  non  prendersela  a  cuore.  "  Toute  critique 
est  non  seulement  permise,  mais  utile.  Seulement  on  doit  s'abstenir  de  toute  person- 
nalité   et  Mr.  Marchisio  s'en  est  abstenu  „   (4). 

E  monsieur  Marchisio  non  aveva  neppur  letta  la  storia! 

Quando  per  continuare  la  recensione  ne  cominciò  la  lettura,  fu  preso  da  tale 
ammirazione,  che  non  solo  non  ebbe  più  il  coraggio  di  continuare  la  critica  maligna, 
ma  d'allora  in  poi  sentì  vivo  il  desiderio  di  conoscere  colui  ch'egli  aveva  assalito  e 
come  uomo  di  Stato  e  come  uomo  di  lettere  per  poter  in  qualche  guisa  riparare  le 
ingiuste  parole  e  farsi  perdonar  le  offese. 

Le  commedie  raccolte  in  un  volume  nel  1820-21  gli  diedero  mezzo  di  soddisfare 
a  questo  suo  desiderio  e  gli  offrirono  pure,  frutto  per  lui  più  dolce  e  più  duraturo 
dei  pochi  effimeri  allori  raccolti  in  sulle  scene,  l'amicizia  buona  dello  storico  insigne. 
Da  allora  —  e  ciò  fu  nel  1822  —  come  il  Marchisio  seguì  con  sollecita  ammirazione 
ogni  opera  dello  storico,  così  lo  storico  seguì  passo  passo  il  commediografo  nella  sua 
via.  Botta  aprendo  intero  l'animo  a  queir  amicizia,  nata  da  un  rimorso,  gode  per 
l'amico,  lo  consiglia,  lo  loda,  gli  dà  animo  nelle  cadute,  applaude  pel  primo  ad  ogni 
nuova  manifestazione  di  quella  mente  piena  di  buona  volontà,  e,  richiesto,  fa  anche 
da  critico,  critico  garbato  ma  coscienzioso.  È  curiosa  a  questo  riguardo,  perchè  ci  dà 
modo  di  conoscere  sino  ad  un  certo  segno  le  idee  dello  storico  rispetto  alla  dram- 
matica, la  critica  ch'egli  fa  del  "  Conte  Ugolino  „,  tragedia  che  tutt'ora  medita  tro- 
vasi tra  le  carte  del  Marchisio. 

Richiesto  dapprima  del  suo  giudizio,  si  schermisce:  ma  in  seguito  risolvendosi  a 


(1)  Lett.  a  St.  Marchisio,  29  giugno  1827;  ined. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  18  giugno  1821  ;  ined. 

(3)  Vedasi   Un  amico  oli  Carlo  Botta  di  Giuseppe  Flechia  in  "  (ìazz.  del  Popolo  „,    N.  32,  1902. 

(4)  Lett.  a  Luigi  Rigoletti,  13  maggio  1810;  ined. 


19  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  165 

notare  i  nei  riscontrati  nella  tragedia  (1),  scopre  pur  egli  acutamente  il  difetto  capi- 
tale del  tragico,  come  il  Foscolo  aveva  notato  il  difetto  capitale  del  commediografo  : 
non  vivace  e  poco  rapida  l'azione,  scoloriti  gli  affetti. 

Il  Botta  non  palesa  così  senz'altro  il  difetto,  ma  Io  lascia  indovinare  da  alcuni 
dubbi  ch'egli  si  pone  riguardo  alla  manifestazione  di  un  carattere  o  allo  svolgimento 
di  una  passione. 

Venendo  poi  ad  alcune  osservazioni  d'ordine  generale  si  ferma  ad  una  proces- 
sione che  il  Marchisio  pone  sulla  scena  ed  osserva  come  ciò  sia  assai  pericoloso, 
perchè  gli  spettatori  o  sono  molto  riverenti  della  religione  ed  avranno  a  sdegno  che 
sia  tradotta  sulle  scene,  o  sono  poco  riverenti,  il  che  è  più  verosimile  per  la  natura 
solita  di  chi  frequenta  i  teatri,  ed  in  tal  caso  potrebbe  nascere  scandalo.  Osserva- 
zione non  insulsa  e  che  rivela  tutto  il  senso  pratico  dello  storico.  In  ultimo  lasciando 
da  parte  la  matita  per  dar  di  mano  alle  forbici,  egli  taglia  risolutamente  tutto  il  quinto 
atto  con  cui  la  tragedia  si  chiude.  Altro  che  i  nei  cui  egli  prima  accennava!  "  Questo 
atto  —  nota  il  Botta  accompagnando  con  una  spiegazione  la  sua  forbiciata  —  questo 
atto,  massime  le  ultime  scene  tendono  a  voltare  gli  affetti  degli  spettatori  in  favore 
di  Ugolino,  il  che  mi  pare  un  gran  vizio.  Orrore,  odio,  sdegno  infinito  aver  si  debbe 
per  uno  scellerato  di  tal  sorte.  Il  far  sorgere  pietà  in  suo  favore  è  fuori  del  costume, 
fuori  della  moralità,  fuori  della  politica  ed  un  andare  contro  il  fine  stesso  della  pre- 
sente tragedia  „.  Di  più  pare  a  lui  che  il  presentare  dinanzi  agli  spettatori  la  lunga 
agonia  di  uomini  che  muoiono  di  fame  sia  un  eccedere  alla  tragedia,  mentre  osserva 
che  potrebbe  riuscire  in  teatro  di  effetto  molto  incerto  il  ripetere  i  versi  tanto  cono- 
sciuti di  Dante. 

Buone  parole  queste  ultime,  che  svelano  nel  Botta  un  fine  accorgimento  artistico 
ed  una  profonda  religione  per  il  Poeta,  parole  il  cui  valore  era  accresciuto  dal- 
l'esempio stesso  del  Pellico  che  nella  sua  Francesca  aveva  messo  alla  tortura  alcuni 
versi  di  Dante. 

Si  mostra  invece  il  Botta  critico  assai  mal  destro  col  volere  il  Conte  Ugolino 
costretto  all'odio  formidabile  delle  genti,  col  negare  a  lui  ogni  pietà,  mentre  al  con- 
trario il  Marchisio,  anima  sebbene  imperfetta  d'artista,  ben  comprendendo  tutto  lo 
spaventoso  episodio  dantesco,  aveva  sentito  bensì  l'orrore  che  balza  da  quelle  scene, 
ma  aveva  pur  avvertita  la  pietà  che  si  allaccia  con  quell'orrore.  Tuttavia  resta 
all'autore  tragico  la  colpa  —  colpa  ch'egli  ha  divisa  con  altri  prima  e  dopo  di  lui 
—  di  aver  voluto  trattare  tale  episodio.  Benché  lo  spirito  umano  debba  conoscere 
tutti  gli  ardimenti  e  possa  tentar  tutte  le  vie,  sonvi  però  dei  limiti  ch'egli  non  può 
varcare  senza  che  il  suo  ardire  si  muti  in  una  profanazione  e  senza  che  nella  sua 
via  lo  segua  il  sorriso  compassionevole  delle  folle,  non  già  lo  stupore  religioso  dei 
popoli  ancora  rimiranti  il  flutto  che  coperse  silenziosamente  la  nave  di  Ulisse. 

Del  resto  quel  dabben  uomo  del  Marchisio  non  meritava  certo  questo  piccolo 
strappo  rettorico.  Anima  buona,  egli  nelle  sue  commedie,  per  le  quali  ebbe  allora 
uno  dei  primi  posti  fra  i  commediografi  del  Piemonte,  tentò  sempre  di  fare  il  bene, 
benché  resti  pur  a  lui  il  merito  grande  di  essere  stato  appunto  nel  bene  assai  miglior 
attore  nella  vita  di  quanto  fosse  stato  autore  in  sulle  scene. 


(1)  Lettera  a  St.  Marchisio,  8  aprile  1823;  ined.  V.  Appendice,  N.  4. 


166  EMILIA    EEGIS  20 

7.  —  Ed  eccoci  ora  alla  "  Monaca  di  Monza  „  del  Rosini  ed  ai  "  Promessi 
Sposi  „  del  Manzoni.  L'arguto  ed  immortale  scrittore  ci  perdoni  l'involontario  rav- 
vicinamento. Non  senza  qualche  motivo  abbiami  fatto  precedere  il  suo  nome  da  quello 
del  grafomane  professore:  bisogna  preparare  il  terreno  a  poco  a  poco  e  vincere  la 
riluttanza. 

Carlo  Botta  conobbe  tutti  e  due  gli  autori,  che  prende  poi  di  mira  in  alcune 
sue  lettere.  Conobbe  ed  amò  il  giovinetto  Manzoni,  frequentando  come  amico  la  casa 
dell'Imbonati  e  della  Beccaria-Manzoni,  casa  ospitale,  ritrovo  in  Parigi  di  molti  uo- 
mini illustri  d'ogni  nazione,  e  che  il  Botta  già  vecchio  ricorda  con  affetto,  quando 
narra  come  appunto  in  una  di  quelle  riunioni  gli  fosse  germogliata  l'idea  di  com- 
porre la  "  Storia  d'America  „,  essendosi  colà  conchiuso,  dopo  una  lunga  discussione, 
che  un  solo  dei  casi  moderni  poteva  servire  da  soggetto  ad  un  poema  eroico  e  questo 
era  "  il  fatto  dello  sforzo  americano,  che  aveva  condotto  gli  Stati  Uniti  all'indipen- 
denza „  (1),  mentre  poi  a  questa  casa  stessa  ripensa  con  dolcezza  il  figlio  dello  sto- 
rico, Scipione,  narrando  come  mi  giorno  in  cui  le  sale  rigurgitavano  di  invitati 
grandi  e  piccini,  la  madre  del  Manzoni  avesse  con  gentile  previdenza  rivestiti  tutti 
gli  spigoli  dei  mobili  perchè  i  bambini  nei  loro  giuochi  non  avessero  a  farsi  del 
male  (2).  Strana  cosa  invero  che  padre  e  figlio  s'accordino  nel  ricordare  l'uno  la 
mente  della  figlia  e  della  madre  di  grandi,  l'altro  il  cuore  della  donna  buona.  Colà 
conobbe  adunque  il  Botta  il  futuro  scrittore:  come  invece  conoscesse  il  Rosini  e  si 
comportasse  con  lui,  già  abbiamo  accennato  altrove. 

Il  "  sofista  magro  e  scortese  „  che  fa  stizzire  il  Botta  si  cambia,  poco  alla  volta, 
in  un  signore  dabbene,  quasi  gentile,  che  stima  lo  storico  e  di  cui  lo  storico  accoglie 
con  viso  sereno  le  critiche.  In  fatto  di  lingua,  il  signor  Rosini,  rimane  sempre  il 
signor  "  Ardirebbano  „  (3)  per  il  Botta,  come  il  Botta  rimane  sempre  il  signor 
"  Caliepofilo  ,  per  il  Rosini,  cioè  restano  ai  due  poli  opposti  ;  ma  l'uno  nelle  critiche 
sopprime  certi  vocaboli  un  po'  troppo  allegri,  come  "  buffonate  „  "  arlecchinate  „ 
dovendo  parlare  di  cose  serie,  vale  a  dire  di  locuzioni  o  frasi  o  parole  proprie  di  uno 
scrittore,  e  l'altro  nelle  sue  difese  non  fa  più  sentire  l'accompagnamento  un  po'  im- 
pertinente di  frin-fron-frin-fron. 

Il  Rosini  s'adopera  egli  pure  per  sollevare  dalle  strettezze  lo  scrittore,  va  a 
trovarlo  in  Parigi,  gli  offre  il  suo  aiuto,  ed  il  Botta  gli  perdona  altri  suoi  attacchi 
in  materia  di  lingua,  lo  ricorda,  lo  invita  più  volte  dopo  un  lungo  silenzio  a  farsi 
vivo  ed  afferma  cogli  amici  che  egli  ama  il  Rosini  perchè  ama  le  lettere  italiane, 
benché  abbia  opinioni  diverse  dalle  sue  (-4).  Ed  intanto  —  cocciutaggine  di  letterati  ! 
—  quando  il  Rosini  biasima  parole  ed  espressioni  dello  storico  che  provengono,  a 
suo  giudizio,  dal  non  conoscere  l'uso  della  lingua  toscana,  il  Botta  si  stringe  nelle 
spalle  ed  afferma  che  non  può  mutare  quei  suoi  modi  di  dire  che  prima  di  lui  hanno 


(1)  Lett.  a  Giorgio  Greene,  20  marzo  1835,  in  op.  cit. 

(2)  Vita  privata  di  Carlo  Botta,  Scipione  Botta,  pag.  14. 

(3)  Con  questo  nome  firmava  il  Rosini  le  sue  critiche  acerbe  contro  il  Botta  nel  *  Giornale  enci- 
clopedico „  di  Firenze,  mentre  a  sua  volta  sotto  il  nome  di  Caliepofilo  celavasi  il  Botta  nella  sua 
prima  risposta  al  Rosini  pubblicata  nell"  Analitico  Subalpino  „,  N.  18. 

(4)  Lett.  a  Giovanni  Fabbroni,  24  dicembre  1818;  ined. 


21  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  167 

adoperato  i  grandi  padri  della  lingua  e  che  quindi  il  torto  non  è  suo  (1):  ed  il 
Rosini  a  sua  volta  avvertito  dal  Botta  che  la  "  Monaca  di  Monza  „,  come  ogni  altra 
sua  scrittura,  è  piena  di  gallicismi,  risponde  "  che  lo  stile  è  tutto  l'uomo  e  che  non 
può  fare  altrimenti  „  (2).  Del  resto  ben  altre  ancora  sono  le  pecche  che  lo  storico 
ritrova  in  quel  romanzo,  il  quale  stando  a  quanto  il  Botta  scrive  al  Marchisio,  avrebbe 
avuto  origine  da  una  malaugurata  lettera  ch'egli  avrebbe  scritta  al  Rosini  quando 
questi  lo  aveva  richiesto  del  suo  giudizio  sul  romanzo  del  Manzoni.  Se  le  cose  fos- 
sero realmente  come  il  Botta  narra,  tutto  ciò  di  cui  andava  vantandosi  nel  1850  il 
Rosini,  cioè  del  consiglio  che  Lodovico  di  Breme  gli  avrebbe  dato  di  dedicarsi  alla 
prosa  narrativa,  cosicché  egli  già  fin  dal  1807  avrebbe  ideato  un  ciclo  di  romanzi 
sulle  glorie  della  patria,  ciclo  di  cui  faceva  parte  appunto  la  ■  Monaca  di  Monza  „, 
tutto  ciò  non  sarebbe  che  un  piccolo  esercizio  inventivo  dell'agile  ingegno  del  roman- 
ziere. Ad  ogni  modo  parlando  del  Rosini,  scrive  il  Botta  al  Marchisio  (3):  "  Rispon- 
dendogli gli  dissi,  siccome  a  me  pareva,  che  il  Manzoni  non  avesse  rappresentato 
l'Italia  tal  quale  era  ai  tempi  della  scena  dei  suoi  "  Promessi  Sposi  „,  perchè  in 
quell'Italia  vi  era  allora  altra  cosa  che  preti,  frati  e  briganti,  in  quell'Italia  che  già 
aveva  avuto  il  suo  Tasso,  il  suo  Raffaello,  il  suo  Michelangelo  con  tanti  altri  infiniti 
uomini,  veri  maestri  delle  nazioni,  in  quell'Italia  che  già  mostrava  la  stupenda  mole 
di  San  Pietro  agli  occhi  del  mondo  meravigliato,  in  quell'Italia  che  aveva  in  quel 
momento  stesso  il  suo  Galileo  e  che  da  pochi  anni  aveva  perduto  il  suo  Sarpi.  In- 
somma io  concludeva  che  il  Romanzo  del  Manzoni,  quanto  ai  costumi  del  tempo  era 
una  vera  falsità  e  che  mi  pareva  da  capo  in  fondo  una  pinzoccheria  atta  piuttosto 
ad  impiccolire  che  ad  ingrandire  gli  ingegni  italiani  „. 

Chi  non  pensa  ora  ai  giudizi  di  Franco  Salfi,  del  Berchet  e  del  Mazzini  stesso, 
che  pur  ammira  per  tanti  aspetti  l'opera  del  grande  scrittore? 

"  Deplorava  poscia  —  continua  il  Botta  —  che  un  ingegno  così  grande  qual'è 
veramente  quello  del  Manzoni,  si  consumasse  in  simili  sciocchezze  e  bambinerie.  Se- 
condo me  gl'ingegni  italiani  debbono  adesso,  come  sempre  han  fatto,  poggiare  in  alto 
nell'aperto  cielo,  non  mettere  servilmente  i  piedi  sulle  pedate  degli  uomini  di  tra- 
montana „. 

Spiaceva  poi  oltremodo  al  Botta  che  il  Manzoni  avesse  rimpinzato  tre  volumi 
con  scene  di  piazza,  di  taverna,  di  conventuzzi  ed  infine  aggiungeva:  "  Ora  il  pro- 
fessore Rosini,  sentito  questo  suono  da  me,  volle  scrivere  un  romanzo  su  tal  gusto  e 
n'è  uscito  quello  che  vedete.  Ma  si  vede  che  non  ostante  il  suo  proposito,  è  andato 
assai  per  le  piazze,  le  stalle,  le  osterie  e  le  taverne.  Me  ne  rincresce:  dirò  di  più 
che  avrei  desiderato  qualche  filo  di  passione  di  più,  perchè  quelle  descrizioni  eterne 
e  quelle  conversazioni  e  dialoghi  eterni  senza  passione,  vizio  cos'i  del  Rosini  come 
del  Manzoni,  vizio  nato  dai  romanzi  delle  donne,  massime  della  Staèl  che  aveva  ca- 
priccio in  ciò,  sono  le  cose  più  stucchevoli  del  mondo.  Ma  almeno  questo  si  può  dire, 
che  la  "  Monaca  di  Monza  „  ha  in  se  qualche  cosa  di  più  generoso  dei  "  Promessi 
Sposi  „,  e   che    non    è,  come   il   romanzo    del    Manzoni   è,  una   frateccheria,  né   una 


(1)  Lett.  cit.  V.  Appendice,  N.  5. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  22  maggio  1829;  ined. 

(3)  Lett.  a  St.  Marchisio,  lett.  cit, 


168  EMILIA    BEGIS  S2 

bachettoneria.  E  siccome  credo,  malgrado  dell'anatema  di  Dante,  che  la  virtù  possa 
stare  col  cappuccio  e  col  pastorale,  cosi  credo  che  possa  ugualmente  stare  là  dove 
non  c'è  né  cappuccio  ne  pastorale.  E  se  il  signor  Manzoni  avesse  saputo  o  per  meglio 
dire  non  avesse  voluto  dissimulare  quel  che  era  il  cardinale  Federigo  e  quel  che 
fece  fare  in  Valtellina,  non  lo  avrebbe  dipinto  un  uomo  per  ogni  parte  santo.  Questa 
è  una  falsità  ed  un  far  mentire  la  storia.  Che  il  signor  Manzoni  dica  le  sue  orazioni 
sul  suo  inginocchiatoio,  sta  bene,  ma  che  ci  prosenti  santo  chi  non  fu,  non  si  può 
tollerare  „. 

L'esclamazione  che  vien  dopo:  "  Secondo  lui  preti  e  frati  son  tutti  buoni:  adunque 
non  ce  ne  fu  mai  nessuno  tristo!  „  ci  dice  finalmente  il  peixhè  di  quella  violenta 
requisitoria  e  del  terribile,  anzi  addirittura  sbalorditolo  giudizio  che  la  chiude:  "  i 
"  Promessi  Sposi  „  sono  un  immenso  talento  speso  in  scioccherie  e  falsità  „.  L'av- 
versario del  romanticismo,  si  univa  qui  al  giudice  inflessibile  delle  congregazioni 
religiose,  al  nemico  implacabile  dei  gesuiti. 

^Non  bastava  che  l'autore  del  romanzo,  seguendo  le  orme  di  scrittori  stranieri, 
avesse  falsata  la  storia  mescolando  a  fatti  veri  invenzioni  fantastiche;  egli  tentava 
ancora  di  rialzare  il  prestigio  di  quella  classe  verso  la  quale  lo  storico  aveva  aper- 
tamente, tenacemente  combattuto  tentando  in  ogni  modo  di  scalzarne  la  potestà  di 
lunghi  secoli,  di  abbatterne  l'autorità  divenuta  ormai  opprimente  pei  popoli  ed  in- 
sieme minacciosa  pei  reggitori. 

Scompare  a  questo  punto  nel  Botta  l'imparziale  storico  dei  pontefici  registrante 
le  azioni  generose  di  questi  capi  della  chiesa;  e  balza  fuori,  scoprendosi,  il  partigiano 
che  coi  suoi  scritti  accresce  le  torture  di  Tommaso  Campanella,  attizza  il  rogo  di 
Giordano  Bruno.  Che  se  talvolta  in  lui  sonnecchia  il  classico  per  accogliere  con  gra- 
titudine un  nuovo  lavoro  del  Pellico  (1),  per  mantener  salda  la  sua  ammirazione  pel 
Niccolini  benché  nel  tragico  si  faccia  già  sentire  la  nuova  maniera  che  lo  accosta  ai 
romantici,  veglia  pur  sempre  in  lui  il  sospettoso  inquisitore  degli  uomini  di  chiesa. 

Nel  romanzo,  la  volgare  figura  di  fra  Galdino,  l'umoristica  creazione  di  Don  Ab- 
bondio non  servivano  per  nulla  ad  attenuare  l'impressione  profonda  che  lasciavano 
negli  animi  Fra  Cristoforo  e  Federigo  Borromeo  ;  e  l'abnegazione  illuminata  dell'uno, 
la  fiamma  d'amore  dell'altro,  si  libravano  troppo  al  di  sopra  di  tutte  le  bassezze,  le 
soperchierie,  le  debolezze  che  di  pagina  in  pagina  venivano  discoprendosi  nel  libro, 
perchè  lo  storico  non  ne  avesse  a  temere  qualche  influenza  assai  contraria  a  quanto 
le  sue  storie  predicavano.  In  ultimo  poi  l'avversario  del  romanticismo  ed  il  nemico 
delle  congregazioni  religiose  si  univano  al  purista  severo  ed  allora  il  romanzo  dopo 
di  essere  stato  condannato  e  per  il  genere  e  per  la  sostanza  veniva  pur  condannato 
per  lo  stile  e  per  la  lingua. 

Era  troppo  pedestre  per  il  Botta  la  lingua  che  lo  scrittore  metteva  in  bocca  al 
cardinale  Federigo,  mentre  notava  che  là  dove  aveva  dovuto  trattare  di  uomini  e  di 
fatti  plebei,  avrebbe  dovuto  adoperare  il  dialetto  toscano,  non  il  milanese  e  francese 
malamente  tradotti:  e  dolevasi  il  Botta  di  ciò  mentre  aveva  notato  nei  primi  scritti 
del  Manzoni  tanta  elevatezza  e  tanta  energia.  "  Quello  è  lo  scrivere  degli  idioti  del 


(1)  Scriveva  il  Botta:   *  Favorisca  salutarmi  il   Signor  Pellico  e  di  dirgli   che  ho  ricevuto  il  suo 
Tommaso  Moro  „  del  quale  molto  lo  ringrazio  „.  —  Lett.  a  Ignazio  Giulio,  10  marzo  1834;  ined. 


23  STUDIO    INTOENO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  169 

secolo  decimoquarto  —  sospirava  egli  —  ma  parlarne  o  parlargliene  è  come  un  pestar 
l'acqua  nel  mortaio  perchè  lo  fa  a  posta  „  (1). 

Farlo  a  posta  il  Manzoni!  Qui  c'è  tutto  il  dispetto  di  quel  dabben  uomo  che  si 
vendicava  di  ogni  cosa  sbadigliando  a  tutta  forza  sulle  pagine  del  libro  (2),  egli  con 
pochi  altri,  mentre  i  più  dopo  essere  rimasti  un  momento  sospesi  e  quasi  sconcer- 
tati, come  succede  per  le  cose  grandi,  ma  impreviste,  —  momento  che  le  parole  del 
Leopardi  riferentisi  alle  persone  colte  di  Firenze  "  trovano  il  romanzo  inferiore  alla 
aspettazione  „  (3),  bene  determinano,  —  accoglievano  con  uno  scoppio  d'entusiasmo 
il  nuovo  capolavoro  :  era  il  vero  furore  di  cui  parlava  al  Fauriel  una  figlia  del  Man- 
zoni. Ed  intanto  l'autore  serenamente  si  preparava  a  risciacquare  la  sua  biancheria 
sudicia  in   Arno.  E  dire  che  l'aveva  fatto  a  posta! 


8.  —  Entriamo  ora  nel  campo  della  Storia.  Fa  d'uopo  forse  avvertire  che  anche 
qui  dove  pur  l'occhio  di  chi  ha  frugato  nelle  vicende  di  tanti  secoli  avrebbe  dovuto 
essere  più  acuto  e  più  destro,  ci  ritroviamo  dinanzi  a  giudizi  tutt'altro  che  acuti  e 
destri?  V'è  anzi  in  essi  un  elemento  che  mancava  nella  formazione  degli  altri  giudizi, 
elemento  che  dà  loro  un  certo  sapore  acre  e  punto  gradevole.  Nelle  sue  sfuriate  nel 
campo  della  letteratura  si  sente  tutta  la  stizza  di  un  uomo  il  quale  teme  che  quelle 
date  massime  bandite  da  alcuni  e  poi  professate  da  molti  possano  in  qualche  modo 
recar  danno  alla  sua  patria,  mentre  in  fondo  a  quella  stizza  rimane  solo  e  sempre 
un  dolore  profondo  ;  nelle  sfuriate  contro  gli  storici  si  sente  invece  anche  la  voce  di 
uno  storico  che  ha  delle  opinioni  sue  da  far  valere,  un  sistema  suo  da  far  adottare, 
mentre  in  fondo  chi  ben  guardi,  potrebbe  trovare  come  una  difesa  nascosta  delle 
proprie  dottrine  e  teorie. 

Il  Botta  ben  lungi  dal  comprendere  che  fosse  e  quale  immenso  giovamento  po- 
tesse arrecare  la  filosofia  della  storia,  derise  chi  in  essa  faceva,  incespicando,  i  primi 
passi,  disprezzò,  nella  ferma  convinzione  che  giammai  avrebbero  potuto  mutare  il 
carattere  di  una  data  età,  gli  spillatori  di  archivi  (4),  coloro  che  a  poco  a  poco  dove- 
vano smantellare  l'edificio  storico  sino  allora  costrutto.  Non  intuì  neppure  che  essi 
sono  per  la  storia  ciò  che  i  minatori  per  l'umanità  e  che  anch'essi  scavanti  nell'im- 
menso cumulo  di  depositi  che  le  morte  generazioni  hanno  abbandonato,  dovevano, 
lavoratori  spesso  affaticati  ed  oscuri,  arrecare  alle  nuove  generazioni  luce  e  calore. 
"  La  storia  è  maestra  della  vita  „  avevano  detto  gli  antichi:  e  Botta  ripetè  con  loro. 
Ma  non  compresero  che  l'ammaestramento  della  storia  non  è  intero  finche,  oltre  al 
registrare  gli  errori  e  le   grandezze   dei  popoli,  essa  non   tenta  di  far  conoscere   il 


(1)  Lett.  a  St.  Marchisio,  6  agosto  1829  ;  ined. 

(2)  Lett.  cit.  "  Sento  —  scrive  il  Botta  —  che  alle  lungherie  ed  alla  imbrogliata  tessitura  dei 
Fromessi  Sposi  molti  hanno  sbadigliato,  ed  il  cielo  me  lo  perdoni,  ho  sbadigliato  ancor  io.  Queste 
cose  dico  a  voi,  perchè  mi  siete  amico;  che  io  non  son  uomo  da  gridare  su  pei  tetti.  Ho  un  rispetto 
grandissimo  pel  Sig.  Manzoni,  ma  deploro  che  svisi  la  letteratura  italiana,  perciocché  svisarla  è 
ammazzarla.  Per  altre  e  più  sublimi  cose  Dio  gli  aveva  dato  un  così  bel  ingegno  „. 

(3)  Epistolario  di  G.  Leopardi,  raccolto  da  Prospero  Viani,  quinta  ristampa  e  più  compiuta. 
Firenze,  1892,  voi.  II,  pag.  241. 

(4)  Vedasi,  per  non  citar  altro,  la  lett.  del  19  marzo  1834  ad  Aurelio  Bianchi  Giovini.  —  V. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  22 


170  EMILIA    REGIS  24 

perchè  di  quegli  errori,  la  cagione  di  quelle  grandezze,  finche  lascia  che  ogni  cosa 
morta  sia  ben  morta,  già  soddisfatta  pienamente  se  riesce  a  trarre  dai  fatti  un  apprez- 
zamento immediato,  come  una  buona  nutrice  che  da  leggende  meravigliose  pei  dotti, 
trae  una  facile  morale  per  il  bambino  che  ascolta.  In  tal  modo  poteronsi  avere  quei 
molti  trattati  che  corsero  sì  a  lungo  per  le  scuole;  o v'era  possibile  leggere  fra  l'altro, 
che  la  corruzione  dei  costumi  fu  ciò  che  trasse  alla  rovina  l'impero  romano,  che  la 
rivoluzione  francese  fu  quella  che  permise  ai  popoli  d'Europa  la  libertà. 

Qual  meraviglia  adunque,  se  il  Botta  rimasto  cinquant' anni  indietro  nell'epoca 
alla  quale  appartiene,  come  bene  osservò  il  Mazzini  (1),  accoglie  con  gioia  la  "  Storia 
di  Sardegna  „  del  Manno  (2),  mentre  fa  il  viso  dell'armi  alla  "  Storia  delle  Repub- 
bliche italiane  „  del  Sismondi  ed  alla  "  Storia  di  Napoli  „  del  Colletta?  È  bensì  vero 
che  l'opera  del  Manno  è,  sotto  molti  aspetti,  ancora  eccellente  ai  dì  nostri  ;  ma  il 
giudizio  del  Botta  oltrecchè  dal  valore  proprio  di  essa,  è  anche  determinato  dal  sol- 
lievo di  non  trovare  nella  Storia  nulla  di  quanto  possa  dar  ombra  alle  sue  convin- 
zioni o  ridestare  i  suoi  sospetti.  Nella  lunga  Storia,  non  quintessenze  politiche,  non 
entelechie  letterarie,  non  metafisicherie  linguistiche  (3).  Il  barone  Manno  è  come  il 
Botta  "  une  vieille  perruque  „.  Nulla  di  più  naturale  che  si  riconoscano  tra  di  loro 
e  si  facciano  graziosamente  un  bell'inchino. 

Ma  col  Sismondi  e  col  Colletta  le  cose  non  vanno  tanto  liscie.  Pur  ammettendo 
nel  Sismondi  la  quantità  di  fatti  raccontati  e  l'altezza  d'animo  dello  scrittore,  il 
Botta  si  duole  che  l'autore  collochi  il  bello  ed  il  buono  in  ciò  che  era  stato  sempre 
e  da  tutti  stimato  cattivo  e  brutto,  ed  esclama  con  dispetto: 

"Insomma  questi  encomiatori  del  medioevo  io  non  gì' intendo  „   (4). 

Non  li  intendeva,  no,  e  fu  questa  pur  troppo,  una  grave  lacuna  della  sua  mente. 
Ancor  egli,  come  qualche  altro,  a  furia  di  ripeterselo  credeva  il  medioevo  un'epoca 
di  barbarie,  di  oscurità,  d'ignoranza,  nel  modo  stesso  che  intendeva  per  romanticismo 
una  mostruosa  accozzaglia  di  cose  lugubri  e  macabre,  una  ridda  di  fantasmi  e  di 
cadaveri,  un  bagliore  di  luci  livide  guizzanti  a  mala  pena  tra  le  pesanti  nebbie.  Per 
questo  egli,  come  già  aveva  fatto  per  altri,  metteva  in  sospetto  gl'italiani  contro  le 
opinioni  letterarie  del  Sismondi:  "  Gli  italiani  sono  figli  di  Atene  e  di  Koma,  non 
di  Teutone,  e  di  Odino  o  di  Ossian  o  d'altra  simil    peste  —  scriveva  egli  a  tal  ri- 


Ci)  Opere,  (Roma,  1881),  pag.  320.  Scrive  il  Mazzini  parlando  del  Botta:  *  Diseredato  d'ogni  po- 
tenza filosofica,  vuota  l'anima  di  grandi  idee  e  di  fede  nelle  deduzioni  storiche,  ei  si  rimane  intanto 
cinquant' anni  addietro  nell'epoca  alla  quale  appartiene  „.  Queste  parole  furono  pubblicate  la  prima 
volta  in  inglese  nella  "  Westminster  Review  ,  dell'ottobre  1837,  nell'articolo  del  Mazzini  :  Molo  let- 
terario in  Italia. 

(2)  Lett.  a  Luigi  Cibrario,  11  dicembre  1825,  24  dicembre  1826.  —  V.  —  e  leti,  al  Barone  Gius. 
Manno,  22  agosto  1827.  —  V. 

(3)  Lett.  a  Giuseppe  Manno,  22  agosto  1827  :  "  A  principi  buoni  e  savi  non  è  mancato  uno  sto- 
rico buono,  fedele  e  savio,  e  vadano  pure  a  monte  certi  storici  moderni,  che  coi  sistemi  e  ghiribizzi 
delle  loro  matte  immaginazioni  vogliono  scrivere  la  storia  non  colla  sincerità  dell'animo  e  la  verità 
dei  fatti  „.  Così  il  Botta;  ed  ancora  in  altra  lettera  allo  stesso,  23  aprile  1836:  "  L'andar  dietro  ai 
pensieri  di  moda  come  si  usa  generalmente  oggidì  e  fare,  come  le  pecore  rammentate  da  Dante  e 
da  lei,  fanno,  è  segno  d'animo  servile  e  sterile,  ed  inetto  allo  scrivere.  Da  ciò  ella  può  giudicare 
del  piacere  con  cui  leggo  le  cose  sue,  e  di  quello  che  io  sento  nel  vedermi  rappresentare  con  sì 
graziosi  doni  l'affezione  che  mi  porta  „.  —  V. 

(4)  Lett.  a  Luigi  Cibrario,  17  novembre  1826.  —  V. 


25  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  171 

guardo  al  Cibrario  (1).  —  Chi  vuole  intedescargli  o  incaledonirgli  fa  opera  mortale 
per  essi  :  dico  che  gli  ammazza  „ ,  ed  adottando  qui  pure  quella  massima  "  a  mali 
estremi,  estremi  rimedi  „,  che  già  voleva  adottata  in  fatto  di  lingua,  soggiungeva  con 
molta,  anzi  con  troppa  risolutezza  :  "  Se  in  Italia  non  si  dà  della  mazza  in  sulla  testa 
a  chi  ammira  e  vuol  imitare  Madama  Staèl  e  Goethe  e  Byron  e  Walter  Scott  e  si- 
mili, la  letteratura  italiana  è  morta  „.  Secondo  il  Botta,  adunque,  un  simile  tratta- 
mento sarebbe  stato  necessario  anche  pel  Sismondi:  né  solo  per  lui,  perch'egli  tro- 
vava un  po'  del  veleno  della  nuova  scuola  pure  nella  Storia  del  Delfico  e  del  Cuoco  (2). 
Le  lunghe  e  frequenti  riflessioni  sulla  filosofia  e  sulla  politica  che  trova  nei  loro  libri 
gli  dan  noia  e  la  gran  saccenteria  di  guerra,  che  oltre  alla  filosofia  ed  alla  politica 
riscontra  nella  "  Storia  di  Napoli  „  del  Colletta,  lo  fa  ridere. 

"  Bella  strategia  —  osserva  lo  storico  (3)  —  è  stata  quella  per  mia  fé'  del  Col- 
letta, che  immaginò  e  diresse  sotto  Gioacchino  Murat  la  guerra  del  1815  contro  gli 
Austriaci;  perocché  mentre  i  Napolitani  imprudentemente  si  prolungavano  per  la 
Terra  di  Lavoro  verso  la  campagna  di  Roma,  gli  Austriaci  traversati  gli  Abruzzi 
già  si  calavano  loro  alle  spalle  verso  Napoli.  Poi  viene  il  dottorume  di  chi  perde: 
Oh!  se  si  fosse  fatto  questo,  oh  se  si  fosse  fatto  quello!  E,  signori  miei,  Dio  sa  che 
sarebbe  succeduto  se  si  fosse  fatto  questo  e  si  fosse  fatto  quello.  Bonaparte  non 
scrisse  trattati  di  strategia,  ma  vinse  le  battaglie  e  si  beffava  dei  signori  strate- 
gici „ .  Eppure  assai  più  di  una  volta  anche  il  Botta  nella  sua  Storia  si  sentì  tratto 
a  dar  lezioni  del  senno  di  poi  al  grande  capitano. 

Del  resto  non  questo  solo  spiace  allo  storico  nel  Colletta,  ma  la  forma  pesante, 
lo  stile  plumbeo,  lo  sforzo  e  la  durezza  continui  in  cambio  della  spontaneità,  fanno 
sul  suo  animo  una  ben  cattiva  impressione.  "  E'  bisogna  che  ci  abbia  sudato  orri- 
bilmente „,  nota  lo  scrittore,  che  in  tre  anni  ha  compiuti  dieci  enormi  volumi  (4), 
certo  ignorando  che  qualche  anno  prima  di  lui  e  più  precisamente  1*  11  gennaio  del 
1830,  il  Colletta  scrivendo  al  Leopardi  e  parlando  della  "  Storia  d'Italia  „  del  Botta 
esclamava:  "  Ma  che  Storia!  ma  che  stile!  Quanto  perderebbero  le  lettere  italiane, 
se  egli  avesse  imitatori!  „   (5). 

Venendo  poi  ad  altre  osservazioni,  lo  storico  trova  fastidiose  siccome  non  più 
nuove  le  riflessioni  dell'autore  sulla  malignità  degli  uomini,  sulla  corruzione  delle 
corti,  sulla  malvagità  della  polizia.  Secondo  lui  i  lamenti  e  le  sferzate  del  Colletta 
hanno  piuttosto  la  loro  fonte  nell'acerbezza  dell'esilio,  che  nello  sdegno  della  virtù. 
Giudizio  questo  severo,  come  è  severa  nella  sua  brevità  l'accusa  che  egli  muove  al 
Colletta  di  aver  taciuto  le  asprezze  del  Manhés  nella  Calabria,  essendone  egli  stato 
uno  dei  principali  esecutori.    Nota  le  contraddizioni    in   cui  cade  lo  storico,  quando 


(1)  Lett.  a  Cibrario,  17  novembre  1826.  —  V. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  13  febbraio  1835:  "  Le  lunghe  e  frequenti  riflessioni  sulla  filosofia  e  sulla 
politica  sono  il  difetto  della  scuola  storica  napolitana  moderna  e  perciò  non  si  possono  leggere 
senza  noia  la  Storia  della  repubblica  di  S.  Marino  del  Delfico  e  quella  della  Rivoluzione  di  Napoli 
del  Cuoco  „.  —  Ined. 

(3)  Lett.  cit. 

(4)  Scriveva  il  Botta  al  Grassi  nella  lett.  del  29  ottobre  1830:  *  Che  dirai  di  un  uomo  che  in 
quattro  anni  e  mezzo  ha  fatto  dieci  volumacci,  dai  quali  anni  bisognerà  trarne  uno  almeno  che  fu 
impiegato  a  copiare?  „.  —  Ined. 

(5)  Epistolario  di  G.  Leopardi,  1892,  pagg.  292-93,  voi.  III. 


172  EMILIA    KEGIS  26 

si  burla  della  legittimità  dei  principi  per  diritto  divino,  ed  intanto  riconosce  la  le- 
gittimità del  regno  di  Murat,  non  su  d'altro  fondata  che  su  un  decreto  di  Napoleone, 
quando  loda  la  teoria  delle  assemblee  popolari  pubbliche  e  numerose  ed  intanto  parla 
della  loro  natura  funesta  ed  enumera  i  mali  da  esse  prodotti  in  Francia,  in  Spagna 
ed  in  Napoli.  Ma  ciò  che  oltre  ogni  misura  ripugna  al  severo  giudice  di  Bonaparte 
si  è  che  l'autore  cerchi  di  inorpellare  i  delitti  di  Napoleone  e  si  mostri  parziale  e 
propenso  al  Murat,  il  quale,  come  sembra  al  Botta,  e  nel  fatto  del  duca  di  Enghien 
e  nella  cacciata  degli  esuli  napoletani  dalla  Toscana,  si  mostrò  crudele,  non  già  perchè 
tale  fosse  per  natura,  ma  per  vile  condiscendenza  verso  Napoleone.  Tuttavia  dopo 
l'attenta,  minuziosa  disamina,  egli  finisce  per  riconoscere  il  Colletta,  nel  maggior  nu- 
mero dei  casi,  storico  fedele  ed  imparziale,  specialmente  nel  racconto  che  fa  delle 
tragedie  di  Napoli  dal  1792  al  1800,  mentre  confessa  che  in  tutta  l'opera  è  sparsa 
una  grande  forza  d' ingegno,  la  quale  fa  sì  che  la  sua  Storia  sia  una  delle  più  pre- 
gevoli. Chiudendo  la  sua  critica,  il  Botta  nota  gravemente:  "  Solo  è  da  deplorarsi 
che  il  suo  vacillare  nelle  opinioni  e  nei  fatti  secondo  i  tempi  e  le  circostanze  non 
presenti  una  norma  ed  uno  scopo  certo  alla  gioventù  che  studia  „.  Nota  grave  che 
poteva  ritorcersi  ed  appuntarsi  al  critico  stesso  quando  si  pensi  che  Pietro  Gior- 
dani (1),  parlando  della  Storia  scritta  dal  Botta  in  continuazione  della  Storia  del 
Guicciardini,  consigliava  i  giovani  o  chiunque  non  fosse  informatissimo  delle  cose  e 
delle  persone  di  quei  duecentottant'anni,  di  astenersi  dalla  lettura  di  essa,  poiché 
non  solo  avrebbe  ingombrato  la  mente  di  giudizi  strani  in  materia  politica  e  lette- 
raria, ma  ancora  di  fatti  stravolti  e  monchi;  mentre  poco  più  tardi  il  Tommaseo 
poteva  notare  come  difetto  grave  e  pericoloso  delle  opere  dello  storico  "  i  non  fermi 
od  almeno  non  fermamente  determinati  principi  „   (2). 

Il  Botta  poi  quasi  per  dare  la  vera  cagione  del  dubbio  modo  di  procedere  del 
Colletta,  aggiungeva:  "  Quando  Tacito  lo  tira,  ei  dice  cose  vere  e  profonde:  ma 
quando  l'aura  moderna  il  penetra,  dice  cose  chimeriche,  contradditorie,  false  ed  em- 
piriche „. 

9.  —  Ah!  quell'aura  moderna!  corrompitrice  pel  Botta  di  tutte  le  cose.  Dove 
essa  spira,  la  religione  si  contamina,  la  letteratura  s'intorbida,  la  storia  s'infetta.  I 
suoi  aliti  soffiando  d'oltre  mare  e  d'oltre  monte,  attossicano  gli  spiriti  più  eletti  d'I- 
talia e  rovinano  ogni  cosa.  Ormai  l'Italia  è  perduta  pel  Botta  se  è  bastato  che  un 
uomo  di  raro  ingegno,  nato  ad  Edimburgo,  scrivesse  con  bella  ipotiposi  di  castelli, 
di  stalle,  di  conventi  del  medioevo,  per  far  nascere  dalle  "  Isole  del  Ferro  sino  a 
Keggio  in  Calabria  il  grido  Medioevo!  medioevo,  medioevo  „  (3),  se  è  bastato  che  il 
Goethe  scrivesse  il  suo  "  Faust  „,  perchè  nascesse  nella  letteratura  un  nuovo  indi- 
rizzo e  sorgesse  per  lui  un'adorazione  in  nulla  dissimile  dall'adorazione  per  S.  Gia- 
como di  Compostella.  Il  povero  Botta  non  si  raccapezza  più.  Che  mai  trovano  gli 
Italiani  in  quel  tanto  famoso  tedesco?  Una  gran  fantasia:  questo  sì,  ma  in  tutti  i 
suoi  scritti  non  v"è  un  grano  di  ragione.    Goethe  è    un    ambizioso,    come   tale  volle 


1 1    Scritti  editi  e  postumi,  pubblicati  da  A.  Gussalli,  Milano,  1358,  voi.  VI,  pag.  168. 

(2)  N.  Tommaseo,  Dizionario  estetico,  cap.  Botta,  pag-.  33. 

(3)  Lett.  al  conte  Luigi  Nomis  di  Cossilla.  30  dicembre  1833  —  V. 


27  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  173 

parer  nuovo  e  per  parer  nuovo  cadde  nel  ridicolo  e  nello  stravagante,  dando  origine 
ad  opere  mostruose  come  il  "  Faust  „  (1).  Ah!  quell'aura  moderna! 

Essa  non  fa  crescere  solo,  né  solo  alimenta  per  ogni  dove,  erba  funesta,  gli  spi- 
riti ambiziosi,  in  cui  la  vanità  tocca  i  primi  gradi  del  ridicolo  o  confina  colla  pazzia, 
ma  ecco  che  per  essa  l'erba  funesta  sale  e  si  attorciglia  ancora  intorno  alla  croce 
di  Cristo. 

In  Parigi,  nella  città  sempre  all'erta  come  sentinella  vigile  dell'umanità,  Botta 
assiste,  nella  chiesa  di  Nostra  Donna  di  Parigi  alle  prediche  di  Lacordaire,  il  disce- 
polo del  grande  Lamennais.  Ecco:  sul  pulpito  Lacordaire,  pallido,  magro,  severo 
—  lo  paragonano  a  S.  Giovanni  nel  deserto  — ,  nelle  arcate  la  folla  avida,  attenta  : 
Botta  ascolta  le  ispirate  parole  di  quel  mistico  e  squisito  apologista  del  dolore,  mentre 
il  suo  occhio  acuto  fissa  gli  arcivescovi  ed  i  vescovi  che  ascoltano  impassibili,  le 
donne  che  piangono,  i  giovani  che  atteggiato  il  volto  a  melanconia,  or  che  di  moda, 
colla  barba  sotto  il  mento  per  parer  del  medioevo,  attendono  che  il  predicatore  fi- 
nisca per  portarlo  in  trionfo,  e  seguirlo  poi  alla  Messa  ch'egli  dice  nella  chiesa  del 
Carmine.  Ed  intanto  alla  mente  dello  storico  s'affaccia  una  data:  il  1793,  amio  in 
cui  appunto  nella  chiesa  del  Carmine  avvenne  la  crudele  carneficina  dei  preti;  e 
nell'animo  suo  di  credente  sorge  una  rabbia  sorda  al  pensiero  che  l'ambizione  sola 
spinge  quel  giovane  pallido  e  severo  a  ridurre  la  religione  di  Cristo  "  al  mistico, 
perchè  piace  ciò  che  non  s'intende  ed  al  profano,  perchè  i  piaceri  del  mondo  piac- 
ciono ancor  più  del  mistico  „  (2),  al  pensiero  che  la  religione  da  lui  bandita  non  è 
già  la  religione  di  Cristo,  ma  è  sua  corruzione,  tanto  più  pericolosa  quanto  è  più  lusin- 
ghiera perchè  volge  al  misticismo  ed  alle  passioni  umane.  Ah!  Lacordaire!  Lacordaire! 

Ma  non  è  egli  solo.  Non  forse  è  con  lui  Lamennais?  non  forse  prima  di  lui 
Benjamin  Constant  diede,  in  fatto  di  religione,  con  ridicola  saccenteria,  denominazioni 
nuove  ad  idee  vecchie?  non  forse  Chateaubriand  col  suo  "  Genie  du  Christianisme  „ 
iniziò  un  nuovo  sistema,  poi  continuato  da  altri,  tra  i  quali  il  Lamartine?  Ed  è  l'ispi- 
razione forse  —  chiede  a  sé  stesso  il  Botta  —  che  li  spinge  a  poetizzare  così  il  cristia- 
nesimo e  detta  le  loro  opere?  No,  ma  l'ambizione  smisurata,  il  desiderio  insano  di  lucro. 

Lo  storico  ricorda  le  parole  che  il  Ginguené,  amico  e  confidente  di  Chateaubriand, 
ha  detto  un  giorno  parlando  di  lui.  Voleva  egli  scrivere  qualche  cosa  —  cosi  aveva 
raccontato  il  Ginguené  —  ma  stava  esitando  sulla  scelta,  se  scrivere  da  filosofo  o 
da  uomo  religioso,  "  poi  considerato  che  ad  un'epoca  d'incredulità,  che  a  quel  tempo 
da  molti  anni  durava,  doveva  necessariamente  succedere  anche  con  impeto,  un'epoca 
religiosa,  e  perciò  stimando  che  fosse  maggior  negozio  lo  scrivere  da  religioso  che 
da  filosofo,  elesse  di  scrivere  da  religioso  e  fece  il  suo  "  Genie  du  Christianisme  „  (3). 

Semplice  senza  dubbio  il  racconto  del  Ginguené  e  quasi  infantile  la  fede  che  il 
Botta  vi  presta:  pur  tuttavia  la  mente  nostra  corre  ad  un  tratto,  come  per  involon- 
tario raffronto,  al  Chateaubriand  di  Vittor  Hugo,  che  in  piedi  vicino  alla  finestra, 
in  calzoni  lunghi  e  pantofole,  coi  capelli  grigi  raggruppati  in  un  fazzoletto,  con  una 
intiera  batteria  da  dentista    schierata    dinanzi   e  cogli  occhi  rivolti  allo  specchio  si 


(1)  Lett.  a  Carlo  Ignazio  Giulio,  6  dicembre  1833  ;  ined.  Vedasi  Appendice,  N.  6. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchi, io.  14  marzo  1836;  ined.  Vedasi  Appendice.  N.  7. 

(3)  Lett.  a  St.  Marchisio,  lett.  cit. 


174  EMILIA    REGIS  28 

cura  i  denti  bellissimi,  mentre  detta  al  segretario  Piloge  lo  scritto:  "La  monarchie 
selon  la  Charte  „  (1). 

E  neppure  come  uomo  politico  la  figura  di  Chateaubriand  acquista  miglior  luce 
per  lo  storico.  Ma  l'ambizioso  che  briga  per  far  sbalzare  il  ministro  Villèle  in  oc- 
casione della  legge  sulle  rendite  ond' essere  surrogato  in  sua  vece,  che  servendosi 
dell'aiuto  di  arti  femminili  briga  per  essere  mandato  al  Congresso  di  Verona,  che 
nel  giornale  dei  Débats  scaglia  improperi  ai  ministri,  scalzando  a  poco  a  poco  il  trono 
dei  Borboni,  eccita  lo  sdegno  del  Botta.  Non  sappiamo  quanta  verità  fosse  nelle  se- 
vere parole  che  lo  storico  diceva  al  figlio  nella  terza  giornata  di  luglio  del  1830, 
additando  la  casa  di  Chateaubriand,  mentre  all'intorno  rimbombavano  le  cannonate 
furiosamente  :  "  Quell'uomo  spietato  si  rallegra  in  sé  stesso  delle  cannonate  perchè 
spera  che  gli  balzerà  in  mano  un  ministero  „  (2).  Noi  pensiamo  che  l'autore  del 
"  Genie  du  Christianisme  „,  oratore  di  Francia  al  Congresso  di  Verona,  spendeva  gran 
parte  delle  sue  magiche  parole  per  persuadere  i  cuori  regii  a  ciò  di  cui  essi  già 
erano  ben  convinti  :  ad  abbandonare  l'eroica  Grecia  alla  buona  grazia  della  Turchia, 
a  spingere  la  Francia  contro  la  Spagna  liberale.  Non  è  qui  certo  il  luogo  di  giudi- 
care la  condotta  di  quest'uomo,  che  pur  nelle  sue  opere  grandissime  riguardanti  il 
cattolicismo  lasciò  sempre  intravvedere  pei  suoi  scatti  orgogliosi,  per  le  sue  piccole 
contraddizioni,  per  certi  suoi  atteggiamenti  sensuali,  il  razionalista  dei  primi  anni; 
ma  è  lecito  notare  che  se  allora  i  popoli  avessero  dovuto  dare  un  giudizio  su  Cha- 
teaubriand, oratore  di  Francia,  non  si  sarebbero  accontentati  di  dire  ciò  che  con  fine 
ironia  dicevano  allora  parlando  di  lui  i  re  ed  i  ministri:  "  Oh!  monsieur  de  Chateau- 
briand est  un  homme  de  lettres  très-distingué!  „  (3). 

«  Fate  largo,  fate  largo  all'ospedale  dei  matti!  „  grida  il  Botta,  che  lasciando 
ad  un  tratto  in  disparte  la  figura  di  Chateaubriand,  ci  presenta  il  Lamartine,  altro 
ambizioso,  altro  mistico,  il  quale  s'atteggia  ora  melanconicamente  a  Messia,  perchè, 
come  egli  racconta  nel  suo  "  Viaggio  in  Levante  „,  una  certa  lady  conobbe  "  al  suo 
andare  ch'egli  era  poeta,  dall'avere  il  collo  del  piede  alto  sul  piede  ch'egli  era  un 
uomo  di  genio,  ed  alla  sua  fronte  ch'egli  era  destinato  a  fare  una  rivoluzione  nel 
mondo  „  (4).  "  Fate  largo,  fate  largo!  „  grida  ridendo  il  Botta;  ma  il  suo  riso  si 
spegne  ben  presto  al  pensiero  che  la  peste  dei  melanconici  per  moda,  dei  piagnoloni 
per  vezzo,  della  religione  mistica  e  poetica  penetra  anche  in  Italia,  dove  spegne 
ogni  buona  letteratura,  ogni  buona  poesia,  ogni  buona  religione.  Non  ne  intravvede 
egli  già  qualche  sprazzo  nelle  prediche  di  Giuseppe  Barbieri  e  nella  maggior  parte 
dei  canti  di  Giacomo  Leopardi,  eccelsi  ingegni,  ma  che  l'imitazione  dei  forestieri  trae 
al  male?  "  Oh!  datemi  qui  del  Pascal,  del  Fénélon,  del  Bossuet,  del  Molière,  del  Mas- 
sillon  che  io   venero  ed  adoro  „  (5)  —  grida  il  dabben  uomo  mentre   scaccia  da  se 


fi)  Victor  Hugo,  Les  Miséràbles.  P.  V,  libr.  III. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  14  marzo  1836;  ined. 

(3)  Lett.  cit.  Scrive  il  Botta  accennando  a  Chateaubriand  ed  alla  sua  partecipazione  al  Con- 
gresso di  Verona:  "  Dove  se  i  re  ed  i  ministri  loro  non  risero  di  quel  paone  colla  coda  sempre  spie- 
gata, non  vaglia.  Parlando  di  lui  e' dicevano:  "  Oh!  monsieur  de  Chateaubriand  est  un  homme  de 
lettres  très  distingue  „.  E  certo  non  si  poteva  far  critica  più  fina  d'un  diplomatico. 

(4)  Lett.  cit. 

(5)  Lett.  cit. 


29  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  17."> 

con  vivo  onore  i  Chateaubriand,  i  Lamartine,  i  Vittor  Hugo,  gli  Alessandro  Dumas, 
i  Lacordaire,  rane  gonfie,  ciarlatani,  e  si  sforza  di  metter  in  guardia  i  suoi  amici... 
—  "  Oh,  se  mai  vedete  comparire  sulla  vetta  delle  Alpi  i  piagnistei,  il  sospiro  per 
pratica,  sonate  campana  a  martello,  anzi  schizzate  loro  contro  inchiostro  attossicato... 
Almeno  Young,  ch'essi  vogliono  risuscitare,  piangeva  nelle  sue  "  Notti  „  la  morte  di 
una  figlia  unica  che  molto  amava,  ma  questi  afflitti  per  mestiere  sono  veramente 
ridicoli  „  (1). 

"  Que  la  douleur  est  une  chose  sublime!  „  sospira  accanto  al  Botta  un  melanco- 
nico uditore  del  mistico  Lacordaire.  —  "  Io  lo  guardai  —  dice  lo  storico  —in  viso; 
ei  guardò  me;  io  risi  ed  ei  rise  e  cosi  fini  „. 

Ma  non  finiva  sempre  cos'i:  e  ben  sovente  cogli  amici  lontani  il  Botta  sfoga 
quella  gran  rabbia  che  non  ha  potuto  aver  libero  corso  altrimenti  e  che  pur  lo  di- 
vora, per  tutta  la  finta  malinconia  che  gli  pesa  d'attorno  orribilmente.  Egli  va,  è 
vero,  anche  all'altro  eccesso  di  credere  finta  la  melanconia  vera,  di  chiamar  mania, 
quello  che  era  allora  un  fatale  e  terribile  morbo;  di  creder  frutto  dell'ambizione 
umana  ciò  che  era  fiore  pallido  della  coscienza  novellamente  risorta.  Ma  la  colpa  non 
è  sua. 

Il  Botta  vede  i  giovani  pallidi  e  melanconici  che  ascoltano  sospirando  le  pre- 
diche di  Lacordaire  patito,  severo  come  S.  Giovanni  nel  deserto  e  li  rivede  alla  sera 
che  pranzano  fra  grida  festevoli  con  compagne  belle  e  non  melanconiche  nei  più 
lieti  ritrovi  del  Palazzo  Reale  ;  egli  vede  rigurgitanti  le  arcate,  gremiti  gli  altari  di 
quanto  Parigi  offre  di  grande  per  intelligenza,  di  fastoso  per  ricchezza  —  uditorio 
sospeso  e  commosso  —  mentre  al  di  fuori  il  popolo  scatenato  insulta  alle  immagini 
dell'arcivescovo,  arde  i  simulacri,  assale  con  feroce  impeto  i  conventi  ed  i  seminari. 
La  colpa  non  è  sua. 


IO.  —  E  non  è  sua  la  colpa  s'egli  maledì  il  romanticismo  ed  imprecò  contro 
coloro  che  se  ne  facevano  banditori.  Se  il  romanticismo  fosse  nato  e  cresciuto  in 
Italia,  il  Botta,  pur  non  andando  del  tutto  d'accordo  con  lui,  lo  avrebbe  guardato 
con  viso  sereno  ed  avrebbe  perdonato  anche  se,  irrequieto  ed  audace,  avesse  fatto 
qualche  strappo  alla  realtà  storica  e  si  fosse  mostrato  fantastico  e  strano.  Ma  era 
nato  altrove  e  se  pure  portava  con  se  nomi  illustri,  questi  suonavano  stranieri  al 
Botta,  e  quindi  nemici  d' Italia.  Non  s'avvide  lo  storico  che  gì'  italiani  nell'adottarlo 
gli  avevano  mutati  e  abiti  e  foggie  e  modi  :  esso  rimase  sempre  pel  Botta  un  figlio 
d'altre  terre,  che  aveva  chiamato  intorno  a  se  uomini  sommi,  è  vero,  ma  che  s'era 
pur  trascinato  dietro  una  folla  innumerevole  di  vani  e  di  scioperati,  i  quali  sforzan- 
dosi in  ogni  modo  di  imitarne  le  movenze,  raccoglievano  intanto  e  si  rimandavano 
l'un  l'altro,  via  via,  quanto  quei  pochi  sommi  venivano  componendo.  Botta  imprecò 
ai  pochi  sommi,  perchè  ebbe  paura  degli  scioperati  innumeri,  non  pensando  che  essi 
nulla  contano  nell'indirizzo  letterario  o  politico  di  un  popolo,  come  nulla  contano 
nella  vita,  e  che  se  essi  hanno  una  funzione  da  compiere,   questa  è  appunto  di  pro- 


(1)  Lett.  a  St.  Marchisio,  14  marzo  1836,  ined. 


176  EMILIA    REGIS  30 

durre  negli  spiriti  una  reazione  contro  quelle  tendenze  di  cui  essi  sono  seguaci  inetti 
e  non  convinti. 

Botta  inveì  contro  i  romantici:  eppure  non  meritava  le  parole  del  Mazzini  e  di 
quei  molti  che  si  scagliarono  contro  di  lui.  Egli  ripeteva,  è  vero,  il  grido  dei  "  go- 
verni paterni  „,  ma  mentre  questi  silenziosamente  toglievano  di  mano  la  penna  agli 
audaci  e  rinserravano  nelle  celle  le  voci  potenti,  Botta  infuriava  ed  intanto  li  amava. 

"  Il  nostro  Monti,  secondochè  mi  narra  un  romantico,  ma  uno  dei  buoni  e 
ch'io  amo  e  stimo  molto,  sebbene  predichi  ch'io  sono  "  une  vieille  perruque  „,  il  nostro 
Monti  dice  la  romantìceria  non  epidemia  ma  epizoozia  „  (1),  —  scrive  il  Botta,  senza 
avvedersi  che  queste  sue  poche  parole  colla  distinzione  dei  romantici  in  buoni  ed  in 
cattivi,  lasciano  intravvedere  un  avversario  assai  meno  temibile  di  quel  che  possa 
apparire  dai  molti  rabbuffi  e  dalle  scomuniche  che  corrono  col  suo  nome  su  pei 
giornali  e  ci  fanno  pensare  a  lui  come  ad  amico  del  Manzoni,  di  Silvio  Pellico,  di 
Camillo  Ugoni. 

Il  Botta,  nel  desiderio  ardente  di  richiamare  l' Italia  alla  realtà  delle  cose,  nello 
sforzo  di  eliminare  tutto  ciò  che  non  gli  sembra  atto  a  render  l'Italia  una  e  glo- 
riosa, precorrendo  nella  letteratura  il  pensiero  che  ebbe  Cavour  nella  politica,  vide 
nel  romanticismo  non  già  ciò  che  realmente  era:  una  chiamata  a  raccolta  degli  spi- 
riti ;  ma  sibbene  un  disvio  pericoloso  dalla  vera  via  e  quindi  una  sosta  inutile,  un 
ritardo  imperdonabile.  Natura  schietta  e  forte,  ma  un  po'  brutale  e  grossolana,  non 
accoglie  che  le  idee  che  possono  tradursi  nella  realtà  immediata  dei  fatti;  le  idee 
che  da  ciò  si  scostano,  diventano  per  lui  sottigliezze,  astruserie  e  peggio.  Si  com- 
prende quindi  facilmente  perchè  parlando  al  Marchisio  di  Terenzio  Mamiani,  esule  al- 
lora a  Parigi  per  motivi  politici,  osservi:  "  Certo  egli  è  un  uomo  molto  amabile.  Ma 
dello  Stato  non  so  come  se  ne  intenda  ed  anche  è  tocco  dalle  metafisiche.  Basta 
dire  ch'ei  disse  un  di  questi  giorni  ad  un  mio  amico  "  ch'ei  non  sa  capire  soldati 
che  obbediscono  ,  ;  ciò  disse  con  estrema  innocenza  e  candore...  E  nata  una  genera- 
zione d'uomini  che  vuol  governare  il  mondo  colle  sottigliezze  più  sottili  di  quelle 
del  dottor  Sottile.  Cosi  poi  quando  per  disgrazia  arrivano  al  governare,  la  materiaccia 
dà  loro  dei  gran  buffetti  sul  naso  „  (2).  Queste  parole,  mentre  ci  richiamano  alla 
mente  1'  "  oggi  canta  la  prima  donna  „  sussurrato  da  Cavour  all'orecchio  di  un  amico 
quando  Terenzio  Mamiani  ha  chiesto  di  parlare  alla  Camera,  ci  denotano  pure  quanto 
fosse  rapida  e  pronta  nel  Botta  l'intuizione  di  un  dato  carattere  o  dell'attitudine 
speciale  di  una  mente,  perchè  sembra  che  esse  preannunzino  tutte  le  penose  delu- 
sioni che  nel  campo  della  politica  provò  più  tardi  il  Mamiani,  quel  filosofo  nobilis- 
simo che  sosteneva  "  non  darsi  al  mondo  un  principio  morale  ed  uno  giuridico  e 
politico;  ma  esistere  solo  il  principio  morale  che  domina,  ordina  e  si  compenetra 
in  tutte  le  scienze  civili  „   (3). 

E  come  il  Botta  ha  in  pochi  tratti  delineata  la  figura  morale  di  Terenzio  Ma- 
miani, così  in  poche  parole  ci  pone  dinanzi  la  figura  briosa,  ardita,  un  po'  matta  del 


(1)  Lett.  a  Giuseppe  Grassi,  13  ottobre  1828;  ined. 

(2)  Lett.  a  St.  Marchisio,  18  luglio  1834;  ined. 

(3)  Mamiani  e   Mancini,   Fondamenti  della  filosofia    del    diritto.   Lettere  fra  i  due  illustri  scrittori. 
4"  edizione,  per  cura  del  prof.  Albini.  Torino,  1853. 


31  STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  177 

Brofferio.  "  Che  diavolo  scrisse  quel  vostro  raccomandato  di  me?  —  chiede  egli  al 
Marchisio.  —  Io  lo  vidi  poche  volte,  lo  condussi  dal  Salti,  mi  mostrò  una  sua  ode 
manoscritta  sui  Greci,  che  poi  stampò,  poi  se  ne  parti  poetando  per  Torino.  Diceva  nel- 
l'ode: "  Chi  ha  dichiarato  i  Greci  ribelli?  „  e  ciò  con  indignazione  poetica.  Gli  dissi 
di  badarci  perchè  furono  i  potentati  adunati  in  Verona.  Pure  l'ode  canta  cosi,  Dio 
gliela  mandi  buona  !  Del  resto  mi  è  parso  buon  giovane  e  piuttosto  poeta  che  altro  „  (1). 

Non  sappiamo  che  cosa  scrivesse  del  Botta  il  Brofferio  a  chi  l'aveva  raccoman- 
dato ;  ma  sappiamo  bene  quanto  l'ardito  poeta  lasciò  scritto  più  tardi  nell'opera  sua 
"  I  miei  tempi  „. 

"  Prima  di  lasciarlo  —  scrive  egli,  dopo  d'aver  narrato  il  suo  colloquio  col  Botta 
nello  squallido  studio  dello  storico  —  prima  di  lasciarlo  dovetti  credere  che  le  sven- 
ture, gli  esili  e  le  pene  della  vita  lo  avessero  circondato  di  quella  dura  corteccia  che 
toglieva  qualche  pregio  alle  tante  virtù  dell'animo  suo  „  (2).  Dura  corteccia  infatti  : 
ma  è  questo  il  vanto  di  colui  che  Giovanni  Faldella  addita  come  "  uno  dei  nostri 
grandi  dimenticati  „;  dura  corteccia  che  resistette  all'impeto  di  tutte  le  tempeste, 
custodendo  gelosa  una  schietta  anima  italiana,  che  nella  lontana  Parigi  sussultava 
anche  al  solo  udire  la  lingua  della  sua  patria.  "  Vengono  gli  spazzacamini.  Parlano 
italiano  e  son  d'Arona,  benedetti!  „,  esclamava  lo  storico;  e  forse  solo  chi  ha  sof- 
ferto l'esilio  può  comprendere  tutto  il  significato  di  queste  parole. 


(1)  Lett.  a  St.  Marchisio,  16  giugno  1826;  ined. 

(2)  /  miei  tempi,  voi.  XVIII,  pag.  177. 


Serie  II.  Tom.  LUI.  23 


1  ys  CA    REGIS 


APPENDICE 


32 


1.   —  Scriveva  Pietro  Giordani  al  cav.  Maggi  nella  lettera,  tuttora  inedita,  del  16  febb.  1816: 

"  Il  conte  Luigi  Porro  mi   ha  chiesto  l'indirizzo  di  Botta  (fortunatissimamente  datomi  da 

V.  Ecc.)  e  dissemi  di  volergli  subito    con   qualche    delicato   pretesto  spedire  una  cambiale  per 

cinquecento  franchi.  Poi  mi   soggiunse:  -  Ditegli  che   venga  a   Milano,  ditegli    che  venga;    a 

Milano  non  si  muore. 

"  E  per  verità,  sebbene  non  veda  che  se  gli  possa  prometter  nulla  di  sicuro  e  meno  di 
pronto,  nondimeno  questo  ancora  è  il  luogo  (fra  tante  universali  ed  estreme  miserie)  dove  si 
possa  tentare  qualche  cosa.  Troverebbe  qui  persone  commosse  alla  grandezza  del  suo  merito 
e  alla  indegnità  della  sventura,  che,  se  non  altro,  griderebbero  per  lui,  farebbero  alcun  che  colle 
loro  facoltà  e  cercherebbero  pur  una  via  di  condurlo  a  bene.  E  principale  fra  essi  sarebbe 
Monti  che  è  di  moltissimo  cuore  e  che  già  stimava  Botta  assaissimo  ;  e  se  non  avesse  perduto 
due  terzi  delle  sue  pensioni,  è  uomo  da  far  de'  fatti  oltre  le  parole.  Col  passato  governo  poteva 
Monti  moltissimo;  ed  allora  per  un  Botta  si  sarebbe  creato  subito  un  impiego,  un  titolo;  ora 
le  cose  vanno  con  altro  piede.  Il  nostro  giornale  è  cosa  sul  nascere,  né  può  sapersi  quale  for- 
tuna e  quale  profitto  possa  avere;  ma  se  Botta  volesse  e  potesse  applicarsi,  sarebbe  accettato 
più  come  un  genio  che  come  un  bravo  uomo.  Intanto  s'egli  vuole  scrivere  qualche  articolo, 
tanto  meglio;  qualunque  cosa  a  suo  piacere.  Vero  è  che  l'utile  per  adesso  sarebbe  poco  o  nullo; 
ma  potrebbe  crescerlo  egli  stesso,  che  scrivendo  darebbe  grido  e  spaccio  al  giornale.  Non  m'in- 
duco a  scrivergli  io  di  ciò,  non  conoscendo  se  non  la  sua  penna;  né  essendomi  riuscito  quel 
che  desideravo  di  farmegli  prima  conoscere;  né  oso  famigliarizzarmi  troppo  speditamente  con 
uomo  che  tanto  riverisco.  Però  bramerei  che  prima  V.  Ecc.  gliene  scrivesse.  E  così  a  tanti 
obblighi  che  mi  impongono  la  benignità  e  la  cortesia  usatami  da  V.  Ecc.,  si  aggiungerà  anche 
questo  di  entrare  con  sì  buon  mallevadore  nella  servitù  di  Botta  e  di  aver  cominciato  a  pro- 
vargliene almeno  i  desiderii  d'essergli  servitore  in  effetto  ». 

°  2.  —  Botta  parla  di  Camillo  Ugoni  in  molte    lettere  dirette   a  St.  Marchisio,  dando  pure 
in  alcune  di  esse,  notizie  dei  variti  lavori  ai  quali  attendeva  il  loro  comune  amico. 

Nella  lett.  del  18  nov.  1825,  scrive:  "  Ei  (l'Ugoni)  va  frugando  in  ogni  canto  per  raggra- 
nellar fatti,  fattarelli  e  fatterelluzzi  sul  nostro  celebre  Lagrange;  che  sapete  che  Camillo  si 
occupa  in  letteratura  e  biografia.  Credo  che  il  traditore  ha  posto  la  mira  anche  a  me  ;  ma  io 
il  terrò  sulla  gruccia  tanto  che  potrò,  perchè  per  ora  non  ho  voglia  di  morire  e  dovete  sapere 
che  a  volere  che  Camillo  parli  di  noi,  e'  bisogna  esser  morti.  Sicché  alla  larga  „.  —  Ined. 

Nella  lett.  del  24  luglio  1828  a  St.  Marchisio,  riporta  il  Botta  alcune  frasi  scrittegli  dal- 
l' Ugoni  stesso  e  fra  le  altre  anche  la  seguente:  "  Ho  bensì  l'intenzione  di  scrivere  qualche  cosa 
intorno  a  Foscolo,  ma  non  sono  ancora  provveduto  di  tutti  i  materiali  e  d'altra  parte  mi  trovo 
ora  in  compagnia  di  "  Grazie  ,  un  po'  meno  eteree  e  celestiali  di  quelle  di  Foscolo,  perchè 
sapete  che  scrivo  del  Casti  „. 

Altrove  ancora  il  Botta  avverte  come  l'Ugoni  stia  scrivendo  intorno  al  "  gran  Visconti  ,. 

3.  —  "  Mancano  i  termini  di  marineria  —  scrive  il  Botta.  —  Questi  vorrei  che  tu  aggiugnessi, 
che  sarà  cosa  nuova,  utile  e  dilettevole  ad  un  tempo.  Forse  ti  converrà  sudarvi  più  che  non 
hai  dovuto  sudare  sulle  cose  di  terra  e  certo  c'è  da  vedere  assai  ;  perciocché  quando  nacque 
e  diventò  adulta  la  nostra  lingua,  le  cose  di  mare  erano  ancor  bambine  rispetto  a  ciò  che 
diventarono  dopo  e  sono  a  nostri  tempi.  Perciò  gli  scritti  ti  saran  di  poco  aiuto  in  questa 
bisogna.  Sarà  d'uopo  cercar  norma  nell'uso  ed  a  questo  fine  sarà  necessario  raccorre  dalle  città 
d'Italia  più  rinomate  per  posti  di  mare  e  più  forti  in  sull'armi  navali,  i  vocaboli  e  le  frasi 
concernenti  la  fabbrica  e  le  parti  tutte  delle  navi  sì  piccole  che  grosse,  le  loro  mosse,  le  bat- 
taglie, i  nomi  dei  posti  e  dei  lidi  secondo  la  natura  loro,  dei  venti  ed  altre  simili  cose  rela- 
tive alle  bisogne  di  mare.  I  vocaboli  di  Livorno    sarebbero  i  più  autentici,  ma  non    essendovi 


33  STUDIO    INTORXO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  1.79 

in  quel  porto  arsenale  ad  uso  di  costruì-  navi  grosse  da  guerra,  tu  ti  dovrai  rivolgere  a  Genova 
e  specialmente  poi  a  Napoli  ed  a  Venezia.  Io  opererei  così.  I  Francesi  hanno  un  vocabolario 
compitissimo  di  marineria.  Di  questo  farei  fondamento  all'opera,  notando  tutti  i  vocaboli  con 
le  spiegazioni  loro  ed  anche  tutte  le  frasi.  Poi  li  manderei  a  persone  fidate  e  capaci  a  Livorno, 
a  Genova,  a  Napoli  ed  a  Venezia,  richiedendole  di  scriver  a  lato  di  ciascun  vocabolo  o  frase 
il  vocabolo  o  frase  corrispondente  in  lingua  patria.  Quando  avrai  in  pronto  tutta  questa  mole 
di  modi  e  parlari  toscani,  genovesi,  napoletani  e  veneziani,  tu  li  paragonerai  tra  di  loro  e 
scerrai  quelli  che  ti  sembreranno  più  chiari,  più  pieni,  più  sonori,  insomma  più  belli  e  più 
acconci,  anteponendo  ora  il  toscano  al  genovese,  ora  il  genovese  al  toscano,  or  il  veneziano  a 
tutti  questi  ed  ora  il  napoletano  secondo  che  accadrà  e  ti  parrà  più  conveniente.  Io  ti  so  dire 
che  questo  lavoro  aggiunto  a  quello  che  già  hai  fatto,  sarà  opera  da  far  onore  a  te  ed  all'Italia. 
È  cosa  ancora  di  trinca  e  mi  par  anche  necessaria.  Tu  farai  il  nomenclatore  italiano  per  l'arte 
della  marineria;  sarai  il  Linneo  di  quest'arte.  Sicché  animo,  il  mio  caro  Giuseppe,  contentaci 
anche  in  questo;  che  se  non  la  fai  tu  che  sei  Grassi,  quest'opera  non  so  chi  la  farà  „. 
Lett.  a  Giuseppe  Grassi.  Parigi,  28  giugno  1817.  —  Ined. 

4.  —  "Ho  letto  e  riletto  attentamente  quanto  per  me  si  è  potuto,  il  suo  "  Ugolino  „  e  gli  (?) 
ripeto  che  mi  è  piaciuto  assai.  Pure  per  obbedirgli  ho  notato  qualche  neo  o,  per  meglio  dire, 
ciò  che  neo  mi  pare.  Replico  che  l'ho  fatto  solamente  per  obbedirgli,  perchè  non  son  sicuro 
della  mia  opinione:  anzi  credo  che  più  verisimilmente  mi  sono  ingannato  io  che  egli.  Mi  pare 
gran  presunzione  la  mia  del  giudicare  opere  teatrali  di  un  tanto  maestro  qual  egli  è:  me  ne 
son  venuti  spesso  i  rossori  al  viso  „.  Cosi  il  Botta:  ed  in  ultimo  ponendo  termine  alla  sua 
critica:  "  Del  rimanente  tutta  la  tragedia  è  scritta  con  molta  nobiltà  di  pensieri  e  questa  parte 
è  tutta  degna  di  grandissima  lode.  Lo  stile  anche  mi  pare  conveniente  al  soggetto;  solo  vi 
vorrei  qua  e  là  più  nervo  ed  anche  qua  e  là  qualche  tratto  alfieriano  di  più,  vivo  e  vibrato 
come  quel  sì  bello:  "  vinti  „.  Questi  tratti  partoriscono  grand'effetto  e  molto  meglio  conferi- 
scono all'energia  dell'espressione  degli  affetti  che  lo  stile  molto  figurato  e  sesquipedale  che  è 
vizio,  non  già  del  mio  signor  Marchisio,  il  quale  anzi  ne  è  lontanissimo,  ma  di  molti  scrittori 
dei  nostri  tempi.  Credono  questi  che  aprir  largo  la  bocca  sia  un  aprir  largo  il  cuore;  ma  è 
tutto  il  contrario  „. 

Lett.  a  St.  Marchisio,  8  aprile  1823.  —  Ined. 

5.  —  "  Ella  sia  contenta  di  salutare  in  nome  mio  il  sig.  Rosini  —  scrive  il  Botta  al  Fabbroni 
—  il  quale  venutomi  a  salutare  in  Parigi  da  parte  sua,  io  non  posso  né  dimenticare,  né 
disamare.  So  che  di  nuovo  è  uscito  fuori  con  tassarmi  delle  capestrerie  della  lingua.  Se  abbia 
ragione,  io  non  lo  so  ;  ma  certo  ha  torto  nel  dire  ch'io  abbia  errato  perchè  non  ho  l'uso  della 
lingua  toscana;  imperciocché  le  frasi  tassate  io  non  me  le  sono  già  succiate  dalle  dita,  bensì 
le  ho  tolte  di  peso  non  solo  dal  Davanzati,  come  si  dice,  ma  ancora  e  molto  più  da  Machia- 
velli, dal  Guicciardini,  dal  Varchi,  toscani  tutti,  i  quali,  cred'io,  sapevano  il  vero  andare  del 
favellare  e  dello  scrivere  toscano.  Sicché  se  vi  è  errore,  l'error  non  è  mio,  ma  bensì  tutto  di 
toscani  „. 

Lett.  a  Giovanni  Fabbroni.  24  dicembre  1818.  —  Ined. 

6.  —  "  Del  Goethe  nel  suo  Fausto  non  so  che  dire.  0  io  sono  una  bestia  o  quel  Fausto  è 
una  mostruosa  porcheria.  Bisognerà  aver  compassione  a  quegli  Italiani  che  l'ammirano.  Goethe 
era  un  uomo  dotato  di  gran  fantasia,  ma  in  tutta  la  sua  compagine  non  c'era  un  grano  di 
ragione.  E  sì  che  in  questi  ultimi  tempi  volle  anche  dar  torto  a  Cuvier  in  cose  di  storia  natu- 
rale come  se  di  storia  naturale  sapesse!  A  tutto  ciò  è  abbastanza  risposto  con  una  fischiata. 
Goethe  fu  ambizioso  e  per  esser  ambizioso  volle  parer  nuovo  e  per  parer  nuovo  divenne  stra- 
vagante e  ridicolo.  Gli  Italiani  che  gli  corrono  dietro  han  bisogno  di  essere  avvertiti  che  da 
quella  loro  adorazione  per  quel  famoso  tedesco  a  quella  di  S.  Giacomo  di  Compostella  non  c'è 
differenza.  Sono  superstizioni.  Gridano  contro  l'imitazione  e  sono  servili  scimie  !  Se  diventassero 


180  EMILIA    KEGIS    —    STUDIO    INTORNO    ALLA    VITA    DI    CARLO    BOTTA  34 

padroni  del  inondo,  il  mondo  diventerebbe  il  Caos,  il  brutto  vincerebbe  il  bello,  il  vizio  la 
virtù,  il  delitto  l'innocenza,  il  disordine  l'ordine,  ogni  mala  bestia  ogni  buona  e  profittevole 
creatura.  E' sono  veramente  orrendi  mostri  „. 

Lett.  a   Carlo  Ignazio  Giulio,  6  die.  1833.  —  Ined. 

7.  "  Ila  le  dirò  bene  che  qui  i  preti  buoni,  che  molti  ve  n'ha,  non  hanno  grido  e  nissuno 
a  loro  abbada,  ma  bensì  i  preti  ambiziosi  i  quali  hanno  intorno  ai  loro  pulpiti  una  folta  corona 
di  uditori  così  maschi  come  femmine  e  così  vecchi  come  giovani,  ma  più  giovani  che  vecchi, 
di  quei  giovani  che  portano  la  barba  sotto  il  mento  a  guisa  del  becco  per  parer  del  medioevo. 
Questi  preti  ambiziosi,  per  farsi  scorgere,  vogliono  ridurre  la  religione  di  Cristo  al  mistico 
perchè  piace  ciò  che  non  s'intende,  ed  al  profano,  perchè  i  piaceri  del  mondo,  ai  quali  essi 
tentano  di  dare  spiritualità,  piacciono  ancor  più  del  mistico  e  danno  giaculatorie.  E'  fondano 
la  loro  autorità  sugli  inganni  del  diavolo  sotto  specie  d'angeli;  state  a  vedere  che  fu  l'arcan- 
gello  Gabriello  che  tirò  Rinaldo  nei  giardini  d'Armida.  Dal  dire  che  il  dolore  è  godimento 
(costoro  la  sanno  più  lunga  degli  stoici  i  quali  sostenevano  bensì  che  il  dolore  non  è  male  ma 
non  già  che  fosse  godimento)  al  far  mostra  di  malinconia  il  passo  è  breve.  Evvi  pertanto  qui 
modo  di  malinconia,  come  già  fu  di  gastrite  e  d'enterite  e  chi  porta  il  viso  pallido  e  smunto 
con  barba  di  becco,  è  più  stimato  di  moda.  Il  bello  poi  si  è  che  questi  giovinastri  malinconici 
pranzano  ogni  giorno  fra  le  grida  festevoli  e  con  le  amorose  nei  più  lieti  ritrovi  del  Palazzo 
Reale.  Vostra  paternità  mi  domanderà  forse  che  altro  fanno  in  quei  ritrovi.  Le  dirò  che  bevendo 
allegramente  pieni  peccheri  di  sciampagna  e  di  bordò,  si  ridono  degli  imbecilli  che  credono 
alle  parole  ed  alle  smorfie  loro.  Uno  di  costoro  diceva  un  giorno  a  me:  "oh!  que  la  douleur 
est  une  chose  sublime  !  „  Io  lo  guardai  in  viso,  ei  guardò  me,  io  risi  ed  ei  rise  e  così  finì.  Ora, 
a  questi  giorni  predica  la  quaresima  nella  chiesa  di  Nostra  Donna  di  Parigi  un  prete  per  nom 
Lacordaire,  grande  propagatore,  non  senza  eloquenza  e  mistico  e  squisito  apologista  del  dolore. 
Giovane  di  trent'anni  circa,  di  complessione  debole,  di  viso  pallido  e  magro  (il  paragonano  a 
San  Giovanni  nel  deserto)  alletta  moltissima  gente  a  sentirlo.  Havvi  un  concorso  infinito  ;  le 
donne  in  ascoltarlo  piangono  di  tenerezza,  si  spasimano  e  fanno  giaculatorie  ;  i  giovani  il  por- 
tano in  trionfo  dopo  la  predica  dal  pulpito  in  sagrestia  e  crederebbero  commettere  un  grave 
peccato  se  non  andassero  alla  sua  messa,  cui  dice  nella  chiesa  del  Carmine,  in  quella  chiesa 
appunto  dove  nel  1793  il  popolazzo  fece  quella  crudele  carneficina  di  preti.  Costui  fu  seguace 

un  tempo  di  quel  prete  birbante  di  L ;  poi  si  ritrattò  dal  pulpito  in  pubblico,  il  che  fa  un 

poco  di  Fénelon.  Ma  non  dismise  perciò  l'ambizione  e  col  dare  alla  religione  cattolica  un  colore 
ch'ella  non  ha  mai  avuto  ed  avere  non  può,  cerca  a  far  setta  e  la  fa.  L'arcivescovo  di  Parigi 
e  parecchi  vescovi  assistono  assiduamente  alle  sue  prediche  ;  non  so  che  pensino.  So  bene  ciò 
che  ne  pensa  Monsignor  Dupont,  di  nazione  savoiardo,  già  vescovo  di  Diez  ed  ora  se  non  m'in- 
ganno arcivescovo  di  Avignone,  il  quale  mi  disse  che  la  religione  bandita  da  questa  setta,  non 
è  già  la  religione  di  Cristo,  ma  una  corruzione  tanto  più  pericolosa,  quanto  è  più  lusinghiera, 
perchè  volge  al  misticismo  ed  alle  passioni  mondane.  Essa  è  il  sistema  cominciato,  or  son  più 
di  trent'anni,  dal  Chateaubriand  col  suo  libraccio  intitolato  "  Le  Genie  du  Christianisme  „,  poi 
continuato  da  molti  e  finalmente  proclamato  ('?)  dal  Lamartine.  Cercano  costoro  di  dare  forma 
di  poesia  al  cristianesimo  cioè  poetizzarlo  com'essi  dicono  ». 

Lett.  a  St.  Marchisio,   14  marzo  1836.   —  Ined. 


PER  UN'OPERA  INEDITA  DI  PIETRO  (ilANNONE 


MEMOEIA 

DELLA 

Prof.a  MARIA  BEGEY 


Approvata  nell'adunanza  del  W  Aprili:   1903. 


Verso  la  metà  del  secolo  scorso  Pasquale  Stanislao  Mancini,  venuto  esule  in 
Piemonte,  intraprendeva  la  pubblicazione  di  quelle  opere  del  Giannone  che  giacevano 
inedite  nel  nostro  Archivio  di  Stato,  nell'intento  di  rendere  alla  memoria  dell'infelice 
suo  compatriota  un  tributo  di  ammirazione,  e  farne  conoscere  tutto  il  pensiero. 

La  sua  fatica  rimase  incompiuta;  soltanto  i  Discorsi  sulle  Deche  di  Tito  Livio  e 
la  Storia  del  Pontificato  di  Gregorio  Magno  videro  la  luce.  L' Autobiografia  non  fu  pub- 
blicata che  nel  1890  dal  Pierantoni  che  continuando  le  tradizioni  e  l'opera  dell'illustre 
suo  Maestro,  tanto  contribuì  a  richiamare  l'attenzione  degli  Italiani  su  Pietro  Gian- 
none.  Ma  un'altra  opera  di  cui  non  s'erano  fatte  che  poche  bozze  delle  prime  pagine 
rimase  quasi  ignorata  nell'Archivio. 

Non  un  vano  desiderio  di  erudizione  mi  muove  alla  dura  fatica  di  decifrare  i 
fitti,  sbiaditi  caratteri  che  coprono  le  cinquecento  grandi  pagine  del  manoscritto 
Apologia  dei  Teologi  scolastici;  ma  il  convincimento  che  se  un'opera  ha  tanto  mag- 
giore importanza  quanto  meglio  serve  a  segnare  la  evoluzione  del  pensiero  dell'autore, 
questa,  composta  verso  il  1739,  nel  Castello  di  Ceva,  e  dedicata  a  quel  Padre  Prever 
stesso  che  si  era  occupato  della  sua  conversione,  ha  un  valore  massimo,  perchè  serve 
a  chiarire  il  punto  più  controverso  della  vita  del  Giannone,  quello  della  sua  abiura. 

I. 

La  notte  del  24  marzo  1736  Pietro  Giannone,  insigne  giureconsulto  napoletano, 
che  aveva  dovuto  fuggire  dalla  patria  per  le  persecuzioni  ecclesiastiche  dopo  la  pub- 
blicazione della  Storia  Civile  del  Regno  di  Napoli,  andando  ramingo  a  Vienna,  Venezia 
e  Milano,  veniva  strappato  col  più  nero  tradimento  dalla  bella  Ginevra,  che  gli  aveva 
finalmente  dato,  coi  dovuti  onori,  la  lusinga  di  una  calma,  operosa  vecchiaia. 

Quando  l'arresto  fu  compiuto  a  nome  di  S.  M.  il  Re  di  Sardegna,  Carlo  Ema- 
nuele III,  e  la  notizia  ne  giunse  a  Torino,  non  pure  la  città,  ma  la  Corte  stessa 
ignorava  chi  fosse  il  prigioniero,  e  quale  il  motivo  del  suo  arresto. 


182  MAEIA    BEGEY  2 

Il  Marchese  d'Ormea,  da  cui  partiva  l'ordine,  serbava  il  più  assoluto  silenzio. 
Correva  voce  (e  il  Conte  di  Provana  ne  scriveva  al  Conte  di  Rivera)  che  la  Storia 
Civile  "  détruisoit  la  religion  de  fond  en  comble  „  e  girava  fra  gli  uomini  colti  una 
critica  anonima  della  Storia  Civile,  critica  che  il  Provana  stesso  non  si  peritava  di 
qualificare  per:'  "  le  plus  mauvais  livre  qui  ait  jamais  paru  „  (1).  Del  resto,  nessuno  in 
Piemonte  discuteva  gli  atti  del  Re,  e  l'opinione  prevalente  era  che  i  delitti  di  Stato 
si  puniscono  e  non  si  rivelano. 

Ma  lo  stesso  Marchese  d'Ormea  sapeva  su  Pietro  Giannone  poco  più  di  quanto 
la  Corte  Pontificia  glie  ne  aveva  fatto  conoscere  per  mezzo  del  Cardinale  Albani. 
L'eretico  autore  della  Storia  Civile  non  rappresentava  per  lui  che  il  pegno  perchè  il 
concordato  convenuto  con  Papa  Benedetto  XIII  fosse  accettato  anche  dal  suo  suc- 
cessore, con  vantaggio  del  Piemonte.  Già  fin  dall'ottobre  dell'anno  precedente  il  Car- 
dinale Albani,  protettore  dei  Regii  Stati,  aveva  ottenuto  dal  D'Ormea  la  promessa 
che  il  Giannone,  sfrattato  da  Venezia,  non  avrebbe  potuto  soggiornare  in  Piemonte. 
Ora  si  trattava  di  concedere  favori  e  di  venire  a  patti;  e  l'Albani  poteva  preten- 
dere di  più.  Insinuò  dapprima  velatamente,  e  poi  in  modo  aperto,  la  necessità  del- 
l'arresto del  Giannone,  e  l'Ormea  ne  impartiva  l'ordine  al  Governatore  della  Savoia 
Conte  Picon,  che  lo  faceva  compiere  dallo  sgherro  Gastaldi.  E  sarebbe  stato  pronto 
a  dare  il  prigioniero  "  legato  al  Papa,  fin  dentro  Roma  „  (2)  se  il  Re  di  Sardegna  non 
vi  si  fosse  risolutamente  opposto. 

La  Corte  di  Roma,  informata  privatamente  delle  intenzioni  del  Re,  manifestò  il 
desiderio,  che,  almeno,  il  Giannone  fosse  tenuto  perpetuamente  in  carcere,  e  che  la 
Inquisizione  lo  processasse.  Ma  il  Re  aveva  già  provveduto  (scrisse  il  d'Ormea  al- 
l'Albani) "  a  spedire  appresso  a  esso  un  religioso  di  probità  e  dottrina  esemplare  da 
cui  s'impiegherà  ogni  diligenza  possibile  per  ottenere  il  suo  ravvedimento,  e.  se  saia 
possibile,  una  ritrattazione  dei  suoi  scritti  „   (3). 

Cosi  accadde  che  il  Giannone,  dopo  un  soggiorno  a  Chambéry  e  al  forte  di 
Miolans,  fu  nel  settembre  del  1737  tradotto  nelle  carceri  di  Porta  Po  a  Torino. 
Quivi  conobbe  il  Padre  Prever  ed  ebbe  con  lui  alcuni  colloquii  importantissimi  nella 
storia  della  sua  vita.  Il  religioso  lo  persuase  ad  abiurare,  il  che  egli  fece  dinnanzi 
al  Vicario  Generale  del  Sant'Uffizio  di  Torino,  il  4  aprile  1738. 

Passato  nel  giugno  al  forte  di  Ceva,  Pietro  Giannone  vi  rimase  sei  anni,  dopo 
i  quali  fu  ricondotto  a  Torino  nella  Cittadella;  ove  morì  il  17  febbraio  1748. 

Questi  i  fatti,  nella  loro  cruda  verità.  I  documenti  raccolti  nei  nostri  Archivi, 
l'Autobiografia,  le  lettere  ed  alcune  memorie  scritte  dal  Giannone,  ci  permettono  di 
seguire  passo  a  passo  la  storia  dei  suoi  dodici  anni  di  prigionia,  ma  non  bastano  a 
conoscere  la  storia  intima  dell'anima  sua.  Vista  attraverso  le  scritture  ufficiali  la 
vita  del  Giannone  ci  appare  divisa  in  due  periodi  distinti  :  nell'uno  egli  è  il  ribelle 
che  lotta  contro  la  supremazia  ecclesiastica  scuotendone  dapprima  la  base  politica, 
e  poi  persino  la  base  religiosa.  Nell'altro  è  il  pentito  che  si  umilia  dinnanzi  all'hi- 


fi)  Manoscritti  del  Giannone,  mazzo  UT.  Lettera    del    Conte    di    Provana    al    Conte   di    Rivera, 
9  maggio  1736. 

(2)  Lettere  del  D'Ormea,  1°  maggio  1736. 

(3)  Lettere  del  D'Ormea. 


3  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  18ù 

quisizione,  chiede  perdono,  ringrazia  di  essere  stato  tolto  ai  pericoli  in  cui  prima 
versava,  abiura  le  sue  credenze,  e  scrive  un  libro  dedicato  a  quel  Padre  Prever  che 
lo  aveva  convertito.  In  mezzo  a  questo,  una  serie  di  contraddizioni  che  i  biografi 
spiegano  in  modo  diverso,  appoggiandosi  all'affinità  o  alla  divergenza  delle  proprie 
idee  con  quelle  del  Giannone;  e  una  questione  dibattuta,  ardente:  la  sincerità  della 
sua  abiura. 

Io  credo  che  per  risolvere  una  tale  questione,  non  basti  servirsi  di  documenti 
o  di  deduzioni  logiche  come  si  è  fatto  dal  più  al  meno  finora;  che,  se  le  lettere  e 
le  suppliche,  come  l'abiura  stessa,  possono,  perchè  voluti  dalle  circostanze,  non  essere 
la  espressione  sincera  dell'animo  dello  storico  napoletano,  le  deduzioni  logiche  hanno 
bisogno  di  essere  avvalorate  dallo  studio  di  quanto  fu  nel  carcere  la  manifestazione 
spontanea  del  pensiero  suo:  dalle  opere  cioè,  e  particolarmente  da  quella  che  egli 
scrisse  a  prova  della  sua  conversione: 

Apologia  dei  Teologi  scolastici,  ovvero  avvertenza  che  dee  aversi  nel  leggere  i  Padri 
antichi.  Dedicata  al  Molto  Reverendo  Padre  Gio.  Battista  Prever,  Sacerdote  della  Con- 
gregazione dell'Oratorio  di  San  Filippo  Neri  in  Torino. 

Che  cosa  rappresenta  quest'opera  nella  storia  del  pensiero  del  suo  Autore? 


Anzitutto:  quali  i  sentimenti  e  le  idee  del  Giannone    prima    della  sua  abiura? 

Pietro  Giannone,  venuto  a  diciotto  anni  a  Napoli,  solo  e  povero,  munito  di  poche 
raccomandazioni  e  di  una  cultura  filosofica  scolastica,  si  era  trovato  presso  un  dot- 
tore ignorante  che  doveva  insegnargli  la  legge.  Ma  il  suo  ingegno  mal  si  appagava 
di  una  vita  intellettuale  così  ristretta  ;  la  conoscenza  col  dotto  sacerdote  Spinelli  fu 
il  mezzo  per  cui  egli  venne  a  frequentare  gli  uomini  più  illustri  per  scienza  e  dot- 
trina che  si  trovassero  allora  in  Napoli.  Da  questi  egli  fu  indirizzato  agli  studi. 

Napoli  era  allora  di  tutte  le  città  d'Italia  quella  in  cui  ferveva  una  maggior 
vita  di  pensiero.  Soggetta  alla  sovranità  pontificia,  ne  scuoteva  ribelle  il  giogo,  e  le 
questioni  di  diritto  nelle  relazioni  fra  il  Regno  e  la  Chiesa,  erano  dibattute  con  ac- 
canimento. Il  popolo  stava  ancora  totalmente  sottomesso;  ma  come  sempre  avviene, 
i  grandi  ingegni  precorrendo  i  tempi  aspiravano  all'indipendenza,  e  si  valevano  con 
tutta  la  loro  tenacia  dei  pochi  mezzi  di  cui  potevano  disporre.  Gli  studi  di  diritto 
canonico  erano  fiorenti  ;  frequentissime  le  liti  fra  le  congregazioni  religiose  e  le  au- 
torità civili  o  le  corporazioni  di  cittadini,  e  ogni  vittoria,  come  ogni  sconfitta,  pren- 
deva un'importanza  massima  perchè  pareva  vittoria  o  sconfitta  di  quel  potere  regio 
la  cui  indipendenza  dall'ecclesiastico  i  napoletani  difendevano  strenuamente. 

"  Oh  noi  sappiamo  intendere  come  nella  muta  servitù  palpitassero  i  cuori  dei 
nostri  padri  a  queste  contese,  a  queste  vittorie  „  (1).  Così  Luigi  Settembrini  che  cre- 
sciuto nella  servitù  di  quel  potere  regio  dai  suoi  padri  difeso,  intuiva  l'odio  profondo 
delle  anime  napoletane  contro  gli  oppressori  e  il  dolore,  l'onta  della  sottomissione. 


(1)  Settembrini,  Lezioni  di  Letteratura  Italiana.  Napoli,  Morano,  1884,  voi.  Ili,  pag.  13. 


184  MARIA    BEM.Y  4 

Erano  a  Napoli  sulla  fine  del  seicento  i  più  insigni  giureconsulti  di  quei  tempi  : 
Francesco  d'Andrea,  l'Aulisio,  l'Argento,  il  Capasso,  il  Biscardi,  il  Gravina,  il  Con- 
forti ;  tutti  uniti  nel  sostenere  gli  stessi  principii.  Il  Metastasio  che  visse  alcun  tempo 
fra  loro  li  chiamò:   "  ardente  falange  antivaticana  „  (1). 

E  in  mezzo  a  questa  falange  si  formò  la  mente  di  Pietro  Giannone.  Egli  stesso 
ci  fa  seguire  tutta  la  strada  percorsa  dal  suo  pensiero.  Coll'avida  sete  di  apprendere 
si  pose  agli  studi  senza  un  piano  determinato.  La  giurisprudenza  lo  portò  alla  storia; 
la  storia  alla  filosofia;  il  campo  del  sapere  si  allargò  dinanzi  a  lui  coi  suoi  vasti 
orizzonti.  Ma  l'animo  suo  ardeva  di  quella  passione  civile  onde  avvampavano  tutti 
gli  insigni  suoi  contemporanei;  sì  che  nella  filosofia  non  approfondì  molto  le  idee 
del  Gassendi  ne  quelle  del  Cartesio,  che  prese  a  studiare  di  poi  ;  e  nella  storia,  come 
nella  giurisprudenza,  una  questione  lo  appassionò  sopra  ogni  altra:  le  origini  del 
diritto  civile  e  canonico  della  sua  Napoli. 

Seguendo  le  norme  del  suo  maestro  Aulisio,  egli  non  indugiò  negli  studi  delle 
origini  del  diritto  romano,  ma  cercò  attraverso  la  storia  civile  ed  ecclesiastica  dei 
tempi  del  Basso  Impero  e  del  Medio  Evo,  come  grado  grado  il  potere  ecclesiastico 
si  fosse  formato.  Studio  noioso  ed  arduo,  come  il  Giannone  stesso  confessa;  ma  a 
cui  egli  si  accinse  volenteroso,  stimandolo  necessario  "  non  solo  per  lo  rapporto  che 
avevano  coi  nostri  ultimi  tempi,  per  ben  intendere  la  costituzione  delle  cose,  ma 
perchè  il  corso  di  tanti  secoli,  quanti  sono  da  Costantino  Magno  fino  a  noi,  aveva 
recato  mutazioni  così  stupende,  introdotto  costumi  così  strani,  ed  altre  cose  porten- 
tose; che  parea  che  il  genere  umano  stesso  si  fosse  tutto  cambiato;  e  gli  uomini  fino 
nel  pensare,  nei  loro  discorsi  e  raziocinii  e  giudizii  non  pur  nei  costumi  fossero  tut- 
t'altro  da  quello  che  prima  furono  ,,  (2). 

Non  lo  distrassero  dal  suo  studio  le  cause  che  andava  trattando  per  la  sua  pro- 
fessione d'avvocato  (una  di  queste  particolarmente  ricordata  dal  Giannone  fu  la  difesa 
dei  cittadini  di  San  Pietro  in  Lama  contro  le  pretese  accampate  dal  Vescovo  di 
Lecce)  ;  e  accadde  anzi,  che  egli  venisse  spinto  ad  approfondire  i  suoi  studi  predi- 
letti da  un  nuovo  fatto. 

Nelle  riunioni  di  giureconsulti  a  cui  conveniva  sì  spesso  Pietro  Giannone,  era 
costume  che  si  trattassero  questioni  di  diritto  ora  dall'uno,  ora  dall'altro  dei  dottori. 
Toccò  al  Giannone  l'argomento  della  Storia  legale  dei  tempi  bassi;  ed  egli  imprese  a 
svolgerlo  ;  ma  nel  progresso  del  suo  lavoro  venne  a  conoscere  che  non  poteva  esat- 
tamente capirsi  l'istoria  delle  leggi  se  non  accoppiandola  allo  studio  della  storia  civile 
"  per  sapere  gli  autori,  le  occasioni,  il  fine,  l'uso  e  l'intelligenza  che  si  era  lor  data. 
e  per  conoscere  i  varii  stati  e  cangiamenti  e  costituzioni  delle  cose  che  diedero  causa 
a  tanti  varii  e  molteplici  cangiamenti  „  (3).  Intimorito  dapprima  dalla  vastità  del 
campo,  lo  incuorò  il  conforto  degli  amici,  e,  egli  aggiunge,  "  la  mia  ardente 
brama  „   (4). 

Così  si  accinse  a  scrivere  la  Storia  Cirile,  che  gli  costò  venti  anni  di  lavoro. 


(1)  Metastasio,  Lettere. 

(2)  Autobiografia,  pag.  21. 

(3)  Ivi,  pag.  42. 

(4)  Ivi,  pag.  45. 


5  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  185 

Sperava  il  Giannone  che  le  ragioni  laiche  da  lui  dimostrate  sì  chiaramente 
avrebbero  trionfato  delle  ecclesiastiche.  L'aver  aiutato  l'Argento  in  uno  studio  sulla 
materia  beneficiaria  per  una  lite  contro  la  Corte  di  Roma,  l'aveva  spronato  sempre 
più  nella  sua  via  "  perchè  riputava,  trattando  di  quelle  contese,  di  poter  porre  in 
più  chiara  luce  i  confini  che  si  era  procurato  di  confondere  tra  l'imperio  ed  il  sa- 
cerdozio .,  (1). 

I  primi  quattro  volumi  dell'opera  furono  stampati  quasi  segretamente  da  Nic- 
colò Naso,  col  solo  permesso  dell'autorità  civile;  e  il  Giannone  fece  sì  che  a  revisore 
fosse  chiamato  il  Capasso. 

La  Storia  Civile  del  Regno  di  Napoli  uscì  nel  1723.  Altamente  lodata  dagli  amici 
dell'Autore,  avvilita  dai  nemici  che  lo  calunniavano,  essa  apparve  ai  ribelli  come  alla 
Corte  di  Roma  nel  suo  vero  aspetto:  non  storia,  ma  rivendicazione  dell'indipendenza 
napoletana  dal  Pontefice.  Gaetano  Argento  disse  al  Giannone:  "  Voi  vi  siete  messo 
in  capo  una  corona,  ma  di  spine!  „.  La  Curia  intuì  subito  il  pericolo  dell'opera,  e 
la  condannò,  spargendo  in  pari  tempo  la  voce  che  egli  avesse  negato  in  essa  il  mi- 
racolo di  San  Gennaro.  Questo  fatto  suscitò  contro  di  lui  il  furore  popolare,  sì  che 
dopo  esserne  scampato  più  volte  e  quasi  per  miracolo,  Pietro  Giannone  dovette  in- 
dursi alla  fuga;  e  il  20  Aprile  1723  partì  da  Napoli  per  Vienna. 

Fu  al  suo  giungere  colà  ai  primi  di  giugno  che  egli  seppe  la  Storia  Civile  proi- 
bita dal  Sant'Ufficio  di  Roma  :  "  ut  haeresim  et  minimum  sapientes  „ .  Si  tentò  con 
ogni  mezzo  dai  suoi  amici  di  avere  la  lista  delle  proposizioni  erronee  in  essa  con- 
dannate, ma  invano.  Esse  non  furono  ritrovate  che  un  secolo  dopo  dal  Mancini,  e 
pubblicate  dal  Pierantoni. 

Basterebbe  la  sola  lettura  di  queste  proposizioni,  se  già  non  lo  avesse  dimostrato 
il  Giannone  stesso  in  tutta  la  prima  parte  della  sua  Autobiografia,  per  convincere 
del  valore  della  Storia  Civile.  I  passi  condannati  riguardano,  nella  massima  parte, 
l'ingerenza  di  Roma  nella  politica  del  Regno,  e  l'invalidità  delle  scomuniche  e  dei 
tribunali  della  Inquisizione.  Pochissimi  sono  quelli  che  trattano  di  materia  religiosa. 

L'opera  sua  è  essenzialmente  storico-legale,  come  lo  dimostra  anche  il  carattere 
delle  sue  difese.  Proibiscono  il  suo  libro?  ed  egli  stende  il  Trattato  dei  rimedi  contro 
le  proibizioni  dei  libri  che  si  decretano  in  Roma,  e  della  podestà  dei  principi  in  non  farle 
valere  nei  loro  Stati.  La  validità  del  "  cedolone  „  è  annullata  non  .pel  fatto  che 
lo  si  accusa  di  cose  false,  ma  perchè  Roma  non  ha  il  diritto  di  lanciarne  alle  opere 
permesse  dal  Viceré.  Si  contesta  la  verità  di  alcune  sue  asserzioni?  Risponde  con 
una  memoria  d'indole  assolutamente  storica  per  sostenerle.  Il  solo  sfogo  dell'animo 
suo  è  la  "  professione  di  fede  „  in  risposta  al  gesuita  P.  Sanfelice,  mordace  ironia 
che  distrugge  le  contumelie  e  le  falsità  di  cui  era  pieno  il  libro  dell'avversario,  ma 
che  egli  non  voleva  stampata  per  opporre  ai  libelli  di  Roma  solo  "  una  modesta  ri- 
serva anche  nelle  difese  „. 

In  Vienna,  sì  per  effetto  delle  persecuzioni,  sì  perchè  per  natura  sua  il  Giannone 
era  alieno  da  qualsiasi  intrigo,  campò  con  poco  soccorso,  conducendo  vita  ritirata. 
L'influsso  della  città  cosmopolita  su    di   lui   fu  notata  da  tutti  i  critici  moderni;  il 


(1)  Autobiografìa,  pag.  53. 

Seuik  II.  Tom.  LUI.  24 


186  MARIA    BEGEY  0 

Ferrari  specialmente  ne  parla  a  lungo  (1),  e  dice  come  trovandosi  nella  città  che  era 
allora  il  centro  dell'Europa  (perchè  a  capo  di  una  confederazione  di  popoli  diversi 
per  forma  di  governo  e  per  religione),  amico  degli  uomini  più  illustri,  Pietro  Gian- 
none  fosse  portato  agli  studi  filosofici. 

Ma  io  credo  di  poter  affermare  sulla  scorta  di  quanto  egli  stesso  scrisse  nella 
sua  Autobiografia,  e  per  lo  studio  delle  Opere  sue,  che  se  molto  poterono  su  di  lui 
e  il  luogo,  e  le  conversazioni,  e  le  letture,  egli  dovette  l'opera  sua  maggiore,  il  Tri- 
regno, alla  naturale  evoluzione  del  suo  pensiero,  tratto  alla  meditazione,  quando  la 
vita  attiva  non  gli  fu  più  possibile. 

Difatti  nei  primi  tempi  egli  si  occupò  di  questioni  storiche,  legali,  e  letterarie 
financo,  e  le  scritture  da  lui  composte  fra  il  1723  e  il  1731,  nel  periodo  cioè  in  cui 
egli  fu  maggiormente  a  contatto  colla  società  di  Vienna,  sono  le  sue  difese,  la  Me- 
moria sul  Tribunale  della  Monarchia  in  Sicilia,  quella  Sui  consigli  e  dicasterii  della 
città  di  Vienna,  e  una  illustrazione  di  una  celebre  moneta  d'oro  di  Re  Luigi  XII; 
tutte,  e  pel  soggetto  e  pel  modo  con  cui  sono  svolte,  si  rannodano  strettamente  alla 
Storia  Civile.  Delle  difese  ho  parlato  più  innanzi;  le  due  memorie  sui  due  Tribunali 
di  Sicilia  e  di  Vienna  sostengono  per  l'appunto  la  causa  regia  contro  l'ingerenza  ec- 
clesiastica, e  il  lavoro  storico  prova  che  il  Re  francese  aveva  fatto  coniare  la  me- 
daglia col  motto  :  "  Perdam  Babilonis  nomen  „  —  per  "  minacciar  Roma  e  per  rin- 
tuzzare l'ardire  e  l'orgoglio  di  Papa  Giulio  II  „  (2). 

Finora  dunque  tutte  le  sue  opere  hanno  un  ugual  valore  psicologico,  e  caratte- 
rizzano la  prima  fase  di  sviluppo  del  suo  pensiero:  la  ribellione  alla  potestà  della 
Chiesa,  essenzialmente  nel  campo  politico. 

Ma  più  tardi,  nell'estate  del  1731  deluso  nella  speranza  di  ottenere  un  posto 
negli  uffici  viennesi,  sdegnato  per  tutti  gli  intrighi  che  dominavano  nella  città,  per 
opera  specialmente  degli  Spagnuoli,  scoraggiato  e  stanco  della  forzata  inazione,  ri- 
solve di  tornare  agli  studi  aspettando  giorni  migliori.  La  questione  a  cui  ha  dedicato 
tanta  parte  della  sua  vita  è  oramai  chiaramente  risolta;  egli  lascia  dunque  gli  studi 
storici  del  basso  impero,  del  medio-evo  e  dell'evo  moderno;  e  naturalmente  il  suo 
pensiero  si  riporta  a  tempi  anteriori.  Volendo  conoscere  sé  medesimo  e  la  condizione 
umana,  riprende  gli  studi  filosofici;  ma  li  accoppia  con  quelli  storici. 

Egli  stesso  ci  dà  il  suo  piano:  "  investigare  più  dappresso  la  fabbrica  di  questo 
mondo  e  degli  antichi  abitatori:  dell'uomo,  della  sua  condizione  e  fine;  e  quanto  sopra 
la  terra  fossesi  col  suo  discorso  e  riflessione  avanzato  sopra  tutto  il  mortai  genere 
e  avesse  dato  principio  alla  società  civile  onde  sorsero  le  città  e  i  Regni,  il  culto  e 
le  Repubbliche  lasciando  la  vita  silvestre  e  ferale  agli  altri  animali,  ai  quali  non  fu 
concesso  tanto  acume,  industria  e  intelletto  da  potersene  spogliare  „  (3). 

Cosi  si  inizia  una  seconda  fase  della  sua  vita  intellettuale,  e  frutto  delle  sue 
fatiche  è  il  Triregno.  Il  Giannone  giunge  con  quest'opera  alla  piena  maturità,  al  com- 
piuto sviluppo  del  suo  ingegno  ;  e  benché  non  finita,  e  quindi  anche  imperfetta  nella 
forma,  essa  serve  a  rivelarci  tutto  il  suo  credo  politico,  filosofico  e  religioso: 


(1)  Giuseppe  Ferrari,  La  mente  di   'Pietro  Giannone. 

(2)  Autobiografia. 

(3)  Autobiografia,  pag.   149. 


7  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  187 

Meditato  e  scritto  dopo  la  lettura  dei  libri  sacri  e  di  opere  storiche  di  tempi  e 
di  popoli  diversi,  appoggiato  alle  opinioni  filosofiche  che  il  Giannone  si  era  formate 
leggendo  il  Gassendi,  il  Triregno  ha  per  concetto  fondamentale  lo  svolgersi  attra- 
verso ai  secoli  della  finalità  umana:  dell'ideale  cioè  della  vita  e  della  felicità. 

Presso  i  popoli  antichi,  come  attestano  tutti  gli  scrittori  da  Mosè  a  Tacito,  se 
fu  diversa  l'opinione  circa  l'origine  del  mondo  e  dell'uomo,  si  riscontra  però  che  il 
"  regno  terreno  „,  la  felicità  mondana  era  per  tutti  il  fine  della  vita;  sì  che  le  be- 
nedizioni e  le  miserie  della  terra  apparivano  come  il  bene  ed  il  male;  e  male  su- 
premo era  la  morte  riguardata  come  un  perpetuo  profondo  sonno.  Col  progresso  dei 
secoli  però,  questo  primo  periodo  (che  il  Giannone,  accordandosi  coi  padri  della  Chiesa, 
e  particolarmente  con  S.  Agostino,  chiama:  "  epoca  di  natura  „)  una  seconda  epoca 
giunge.  Disceso  Cristo  sulla  terra  per  redimervi  gli  uomini,  col  soffio  divino  della 
più  pura  morale,  portò  l'idealità  nuova  :  la  promessa  del  regno  celeste,  della  vita 
d'oltre  tomba,  dove  trovano  felicità  i  buoni,  castigo  i  malvagi. 

Ma  la  semplice  religione  ispirata  all'amore,  alla  eguaglianza,  e  con  pochi  riti, 
si  va  trasformando.  Con  Costantino  Magno  s'inizia  la  potenza  temporale  ecclesiastica, 
che  va  sempre  crescendo,  sinché  un  terzo  regno,  ignoto  agli  antichi,  il  "  regno  papale  „ 
si  stabilisce  ravvicinando  la  religione  cristiana  alla  pagana  nella  molteplicità  di 
riti  grandiosi,  ed  estendendo  il  suo  dominio  non  pur  sulle  coscienze,  ma  sulle  nazioni 
e  sui  regni. 

Il  Triregno,  variamente  studiato,  fu  detto  opera  di  filosofìa,  di  storia,  di  filosofia 
storica.  Ma  io  credo  che  il  darne  un  giudizio  sia  cosa  molto  difficile  e  se  non  è  giusta 
l'opinione  di  Giuseppe  Ferrari,  come  dimostrò  il  Mariano  (1),  che  esso  preluda  i  Prin- 
cipi di  scienza  nuova,  non  lo  è  totalmente,  parmi,  neppure  quella  del  Pierantoni  (2) 
che  lo  dice  opera  di  storia  ecclesiastica.  Il  Giannone  appartenne  al  secolo  che  fondò 
la  filosofia  della  storia,  appartenne  a  quel  periodo  che  Edgard  Quinet  (3)  caratterizza 
così  bene,  in  cui  le  monti  umane,  non  più  appagate  dal  pittoresco  racconto  delle  vi- 
cissitudini dei  popoli,  cercano  di  collegarle  fra  loro,  e  di  scoprire  le  leggi  che  le 
governano.  Pietro  Giannone  tenta  pel  primo  di  riunire  la  storia  di  popoli  diversi 
subordinandola  allo  svolgimento  di  un  concetto;  fu  dunque  il  primo  passo  verso  la 
filosofia  della  storia,  ma  senza  giungervi. 

Egli  non  sa  assorgere  come  il  Vico,  scoprendo  nella  storia,  con  un  volo  potente 
dell'intelletto,  le  leggi  che  regolano  l'ascensione  dei  popoli  verso  la  civiltà;  che  il 
suo  spirito  di  giureconsulto  e  di  storico  paziente  non  ha  le  larghe  vedute  del  filosofo. 
E  troppo  egli  è  preso  dalle  idee  materialistiche  del  Gassendi,  troppo  gli  arde  nel- 
l'anima l'antica  ribellione,  per  riconoscere,  in  tutti  i  fatti  che  ha  radunati,  una  legge 
benefica  che  scoprirà  invece  Giovanni  Federico  Herder. 

L'opera  del  Giannone  prelude  piuttosto,  parmi,  quella  dell'Herder  che  quella  del 
Vico;  se  non  nel  pensiero  filosofico  essi  si  avvicinano  in  una  certa  maniera  di  con- 


(1)  Mariano,  Giannone  e  Vico,  *  Rivista  Contemporanea  „,  maggio  1869  (recensione  del  libro  del 
Ferrari:  La  mente  di  Pietro  Giannone). 

(2)  Pikrantoni,  Prefazione  al   Triregno.  Roma,  1895. 

(3)  Edgard  Quinet,  Prefazione  alla  traduzione  francese  del  libro  di  G.  P.  Herder  :  Idées  pour  une 
philosophie  de  l'histoire  de  l'humanité. 


188  MARIA    BEGEY  8 

siderare  e  l'aggruppare  i  fatti  storici.  Anche  l'Herder  (che  il  Triregno  non  potè  cono- 
scere) seguì  il  cammino  delle  idealità  umane,  e  notò  nello  svolgersi  del  Cristianesimo 
le  caratteristiche  già  segnate  da  Pietro  Giannone. 

Tutti  i  Libri  XVI1-XIX  delle  Idee  per  una  filosofia  della  storia  dell'umanità  rac- 
chiudono in  breve  ciò  che  il  Giannone  ba  dimostrato  nei  due  grandi  volumi  del 
Regno  Celeste  e  del  Regno  Papale;  l'origine  elevatissima  del  Cristianesimo,  i  pochi  sem- 
plici riti,  lo  scopo  del  Cristianesimo  di  fondare  il  Regno  dei  cieli;  e  poi  l'ingrandirsi 
della  potenza  ecclesiastica  e  il  formarsi  della  gerarchia.  Se  non  che  il  teologo  tedesco 
scrivendo  serenamente  in  un  libero  paese  protestante,  tenne  conto  di  ogni  fatto  come 
di  ogni  progresso.  Filosofo  profondamente  religioso,  egli,  attraverso  alla  corruzione 
dei  costumi,  nel  dispotismo  della  Chiesa  "  che  aveva  spento  la  libertà  del  pensiero 
immolandolo  sotto  le  folgori  della  gerarchia,  che  aveva  incatenato  e  spento  l'entu- 
siasmo, che  aveva  fatto  persin  mettere  all'incanto  il  regno  di  Dio  „  (1),  riconobbe 
un  impedimento  all'imbarbarirsi  dell'Europa,  e  poi  un  germe  di  lotta  largamente  fe- 
condo di  bene,  perchè  portò  un  risultato  inatteso  per  la  Chiesa  come  per  i  ribelli: 
l'attività  rinascente  dell'umanità. 

Pietro  Giannone  non  poteva  giungere  a  questo.  Egli  apparteneva  al  periodo  di 
lotta,  vi  prendeva  parte  attiva  e  il  suo  libro  stesso  era  un  combattimento.  La  ribel- 
lione incominciata  colla  Storia  Civile  si  compiè  col  Triregno,  in  cui  l'autorità  tempo- 
rale della  Chiesa  non  solo,  ma  tanta  parte  della  spirituale  viene  scossa,   abbattuta. 

L'animo  tutto  occupato  dalla  passione  politica,  strettamente  attaccato  ai  suoi 
principi  filosofici,  Pietro  Giannone  non  sentì  che  in  quell'affinità  di  credenze  di  tutti 
i  popoli,  vi  era  la  rivelazione  dell'anima  umana  che  si  manifesta  eguale  attraverso 
ai  secoli  ;  non  riconobbe  che  in  mezzo  ai  cambiamenti  e  anche  agli  errori  si  compieva 
il  cammino  dell'umanità  verso  un  ideale  religioso  più  perfetto;  non  comprese  che 
anche  dopo  "  l'epoca  di  natura  „  gli  uomini  erano  ancora  rozzi,  che  la  parola  divina 
doveva  penetrare  poco  a  poco  le  coscienze,  ed  elevarvi  ogni  sentimento,  e  che  ai 
tempi  di  barbarie  la  forza  stessa  può  essere  legge  di  progresso,  come  lo  è,  delle 
epoche  più  civili,  l'amore. 

Noi,  pur  notandolo,  non  glie  ne  faremo  una  colpa  troppo  grave.  L'opera,  oggetto 
di  tante  discussioni,  e  per  le  verità  e  per  gli  errori  che  contiene,  è  quale  ce  la  po- 
tevano dare  egli  ed  i  suoi  tempi. 

La  sua  convinzione  politica  della  indipendenza  del  potere  regio  dall'ecclesiastico 
si  ribadisce  nel  Triregno;  fra  i  tanti  fatti  che  lo  studio  di  cento  volumi  gli  ha  of- 
ferto, quelli  che  egli  sceglie  e  raggruppa  sono  tali  da  provare  il  suo  principio  pre- 
diletto. In  filosofia  è  fedele  al  Gassendi:  del  Cartesio  egli  non  ha  ammirato,  e  forse 
compreso,  che  il  Trattato  delle  Passioni.  E  lo  si  spiega  :  il  Gassendi  doveva  appagare 
il  Giannone  che  certo  ritrovava  in  lui  delle  affinità  di  pensiero,  d'anima.  —  Il  filo- 
sofo che  iniziò  la  sua  carriera  con  la  lotta  contro  l'aristotelismo  doveva  affascinare 
chi  tanto  detestava  la  filosofia  scolastica  appresa  nell'adolescenza;  quel  metodo  di 
ricerca  fondato  unicamente  sull'esperienza  rispondeva  alle  sue  idee  meglio  di  ogni 
altro.  Perchè  il  Giannone  fu  assai  più  avvocato  che  pensatore;  i  fatti  lo  convinsero 


(1)  Cfr.  Herdeh,  Ideen  zur  Philosophie  der  Gezchichte  der  Menschheit. 


9  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  189 

sempre  assai  meglio  delle  speculazioni.  Eppoi  il  Gassendi,  spesso,  nella  veemenza  delle 
discussioni,  nei  suoi  scritti  giovanili,  trapassava  il  segno  ;  e  il  Giannone  aveva  per 
comprenderlo  un'ardente,  appassionata  natura  di  meridionale. 

La  sua  fede  religiosa  sgorga  essenzialmente  dalle  idee  filosofiche  e  politiche. 
Il  Giannone  crede  in  Cristo  e  nella  sua  parola,  e  accetta  tutto  ciò  che  il  Cristo  ha  fon- 
dato. Così  egli  si  inchina  alla  morale  cristiana,  ritiene  come  dogma  il  Battesimo  e  la 
Cena;  ritiene  vera  l'idea  della  Risurrezione  dei  morti  all'ultimo  giorno.  Tutto  il  resto 

10  dà  per  affare  di  disciplina  ecclesiastica;  e  se  accetta  la  Confessione  in  cui  vede 
rivivere  l'antico  uso  ebraico  di  andare  dai  sacerdoti  quando  si  era  mondati  dalla 
lebbra,  si  ribella  però  categoricamente  a  tutto  ciò  che  tende  a  legare  le  coscienze  o 
a  frapporsi  fra  la  coscienza  e  Dio. 

Non  solo  nel  Triregno,  ma  anche  nell'Autobiografia  egli  ribatte  più  volt*  su  questo 
concetto.  Delineando  quella  soave  figura  di  donna  che  gli  addolcì  colla  sua  bontà  gli 
anni  di  Vienna,  Ernestina  di  Leichshoffen,  egli  pone  fra  i  suoi  maggiori  elogi  il  se- 
guente :  "  Riponeva  in  Dio  ogni  sua  fiducia,  ed  in  Gesù  Cristo  come  unico  e  solo  me- 
diatore fra  Dio  e  gli  uomini  „  (1).  Si  ribella  pure  all'idea  che  i  morti  raggiungano 
tosto  il  premio  o  la  pena  eterna,  poiché  nell'anticipazione  del  regno  celeste,  fatta, 
egli  dice,  d'arbitrio  della  Chiesa,  vede  il  germe  del  regno  papale  che  tanto  detesta. 
Segue  invece  il  concetto  che  dopo  la  morte,  quando  il  corpo  si  dissolve,  l'anima  si 
confonda  nella  gran  massa  dello  spirito  onde  s'animano  tutte  le  cose;  e  che  nel  giorno 
finale  Dio  la  richiami  dalla  gran  massa  dandole  un  corpo  che  avrà  forma  e  figura 
di  quello  che  un  tempo  ebbe. 

Il  Triregno,  si  vede  dunque,  è,  anche  incompiuto,  l'opera  più  importante  nella 
vita  di  Pietro  Giannone.  Gli  studi  e  le  opere  precedenti  lo  hanno  preparato;  e  ve- 
dremo come  ad  esso  strettamente  si  rannodino  tutto  le  opere  che  scriverà  dal  carcere. 

Che  già  si  avvicinavano  gli  anni  più  dolorosi.  Nel  1734,  cresciuti  in  Vienna  gli 
intrighi,  per  opera  degli  Spagnuoli,  il  Giannone  perdette  anche  il  suo  modesto  sus- 
sidio, e  dovette  partirsene.  Andò  a  Venezia  e  vi  dimorò  qualche  tempo,  dapprima 
veduto  un  po'  come  sospetto  per  le  calunnie  sparse  ad  arte  dai  suoi  nemici;  poi, 
quando  per  la  bontà  del  Senatore  Pisani  già  incominciava  a  fare  vita  tranquilla,  fu, 
per  le  mene  dei  Gesuiti,  sfrattato  con  violenza,  nel  cuore  della  notte. 

Andò  a  Milano,  da  cui  scrisse,  offrendo  i  suoi  servigi,  alla  Corte  di  Torino,  ma 
ebbe,  invece  della  risposta,  l'ordine  del  Capitano  Generale  di  partire  immantinenti 
dalla  città.  Egli  traversò  allora  i  Regii  Stati,  pernottò  a  Torino  sotto  finto  nome, 
e  andò  finalmente  a  Ginevra. 

Là  fu  accolto  colla  larghezza  e  colla  cortesia  proprie  di  un  paese  libero  ;  conobbe 
i  principali  uomini  della  città,  per  mezzo  del  libraio  Bousquet,  l'editore  che  doveva 
stampargli  gli  ultimi  volumi  della  Storia  Civile.  Là  egli  credeva  di  poter  finire  la  vita 
lavorando  serenamente.  Ma  per  sventura  le  sue  previsioni  non  dovevano   avverarsi. 

La  Pasqua  si  avvicinava.  Il  Giannone,  che  manifestava  la  sua  fede  religiosa  (qua- 
lunque essa  fosse  non  importa)  anche  nella  sua  vita,  pensava  di  soddisfare  al  precetto 
cristiano.  Ne  è  a  meravigliarsene:  poiché,  se  molto  in  lui  poteva  il  desiderio  di  non 
singolarizzarsi  mai,  è  pur  anche  vero  che  egli  stesso  scriveva  di   aver  indirizzato  i 


(1)  Autobiografìa,  pag.  186. 


190  MARIA    BEGEY  LO 

suoi  studi  di  Vienna  "  unicamente  pei-  essere  di  norma  nella  credenza  come  nei  costumi 
nel  suo  essere  d'uomo  interiore  „  (1),  né  trascurò  mai  le  pratiche  religiose. 

Egli  aveva  protestato  contro  i  riti  della  Chiesa  per  ragioni  politiche;  ma  in 
fondo  il  culto  esterno  esercitava  un  certo  fascino  sulla  sua  natura  di  meridionale  e 
se  detestava  le  questioni  teologiche  sentiva  però  lo  spirito  del  Vangelo.  Egli  stesso 
narra  che  avendo  avuto  curiosità  di  visitare  i  templi  dei  Protestanti  e  di  udire 
qualche  loro  sermone,  li  vide  "  vacui,  nudi,  che  ispiravano  malinconia  e  si  stupì  che 
le  lor  prediche  non  fossero  che  invettive  contro  la  Corte  di  Roma  „.  E  disse  allora 
(sono  parole  sue)  "  al  savio  e  discreto  Turrettino,  che  entrato  era  nei  loro  templi  e 
trovati  li  aveva  peggiori  delle  moschee  dei  Maomettani,  poiché  nelle  loro  mura,  se 
non  son  figure  umane,  almanco  son  dipinture  d'alberi  ed  animali.  Onde  tanta  avver- 
sione per  le  immagini  le  quali  per  se  stesse  sono  innocenti  e  tali  da  potersene  trarre 
buon  uso,  o  almanco  son  cose  indifferenti?  ,, 

•  Xè  potei  contenermi  benanco  dal  manifestar  loro  il    desiderio  che   le  lor 

prediche  e  sermoni  si  fosser  rimaste  a  sole  invettive,  ma  avesser  inculcato  ciò  di  cui 

il  paese  ha  bisogno;  la  dilezione  del  prossimo,  la  pace  fra  i   cittadini l'astenersi 

infine  da  altri  vizi  e  rilassamenti,  imperocché  il  fondamento  della  religione  cristiana, 
sono  la  mondezza  e  la  integrità  di  vita  e  la  sincerità  degli  atti  „  (2). 

I  suoi  nemici  si  valsero  della  sua  obbedienza  al  precetto  della  Chiesa  per  impa- 
dronirsi di  lui,  e  il  modo  con  cui  si  tradì  Pietro  Giannone  sarà  ricordato  con  per- 
petua infamia. 

Un  doganiere  piemontese  del  villaggio  di  Vesnà,  Giuseppe  Gastaldi,  introdottosi 
nella  famiglia  Chéne'vé  presso  cui  abitava  il  Giannone,  lo  colmò  di  cortesie,  di  affet- 
tuose proteste  di  amicizia.  Stupì  il  Giannone  di  sì  improvviso  affetto  in  una  persona 
illetterata;  ma  nell'anima  sua  leale  dileguò  tosto  ogni  sospetto  che  potè  nascervi. 

II  Gastaldi  con  frequenti  istanze  aveva  più  volte  pregato  lo  storico  di  recarsi 
alla  sua  casa,  ma  non  avendo  questi  ancor  potuto  accettare  l'invito,  il  Gastaldi  lo 
pregò  di  recarsi  da  lui  a  passare  la  Pasqua,  sì  che  il  Giannone,  che  aveva  manife- 
stato il  desiderio  di  adempiere  il  precetto,  avrebbe  potuto  soddisfarvi  più  comoda- 
mente che  nell'unica  chiesetta  cattolica  di  Ginevra.  Le  feste  si  sarebbero  passate  poi 
lietamente  insieme. 

Andò  difatti  a  prenderlo  in  una  barca  la  vigilia  della  Domenica  delle  palme  e 
lo  condusse  sul  territorio  piemontese,  a  casa  propria.  Era  col  Giannone  anche  suo 
figlio,  che  l'aveva  raggiunto  fin  da  quando  egli  era  a  Venezia:  entrambi  pranzarono 
tranquillamente  col  Chénévé  e  col  proprio  ospite,  mentre  questi  protestava  la  sua  gioia 
per  avere  nella  sua  casa  un  sì  illustre  scrittore.  Ma  quando  giunse  la  notte  e  il 
Giannone  e  suo  figlio  furono  ritirati  nella  propria  camera,  un  gruppo  d'uomini  armati 
di  forche,  di  lancie  e  di  lunghi  spiedi,  irruppe  nella  stanza  guidati  dal  Gastaldi  stesso, 
urlando  che  il  Giannone  doveva  essere  arrestato,  perchè  tale  era  l'ordine  del  Re  e 
del  Papa. 

L'infelicissimo  storico  napoletano  era  alfine  preso  col  tradimento. 

Questo  fatto  accadeva  la  notte  del  24  marzo  1736. 


(1)  Autobiografia,  pag.  176. 

a  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno,  p.  117. 


11  PER    UN'oPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  191 


III. 

L'arresto  di  Pietro  Giannone  non  segna  soltanto  il  principio  degli  anni  più  do- 
lorosi ;  divide  pur  anche  lo  svolgersi  del  suo  pensiero  per  cui  comincia  nel  carcere 
una  nuova  vita.  Finora,  leggendo  e  studiando  libero  in  mezzo  alla  società  lo  spirito 
suo  ha  progredito  per  quella  via  che  meglio  era  conforme  alla  sua  natura  ed  ai  suoi 
tempi.  Ma  ora  Pietro  Giannone  è  segregato  dagli  uomini,  i  suoi  libri  e  le  sue  carte 
cadono  nelle  mani  dei  suoi  nemici,  ottenute  anch'esse  coll'astuzia  e  col  tradimento; 
solo  dopo  tante  angosciose  suppliche  egli  riuscirà  ad  avere  qualche  volume  suo,  e 
qualcuno  prestatogli  dalla  Biblioteca  di  Torino  per  la  pietà  del  Marchese  d'  Ormea. 
Costretto  all'ozio,  che  dopo  una  vita  di  sì  intenso  lavoro  intellettuale  doveva  riuscirgli 
insopportabile,  egli  si  rivolge  meditando  al  suo  passato;  non  produce  più  nulla  di 
nuovo,  le  opere  che  va  componendo  parlano  della  sua  vita  e  portano  l'impronta  degli 
studi  anteriori. 

Nel  forte  di  Miolans  in  cui  era  stato  tradotto  dopo  undici  giorni  di  dimora  a 
Chambéry,  e  dove,  dalla  bontà  del  Comandante,  il  Cavaliere  Leblanc,  ebbe  non  solo 
cure  materiali,  ma  conforto  morale,  il  Giannone  scrisse  la  sua  Autobiografia  :  "  Prendo 
a  scrivere  la  mia  vita  e  quanto  siami  accaduto  nella  medesima  (dice  egli  stesso)  non 
già  perchè  io  presuma  di  proporre  ai  lettori  per  esempio  da  imitare,  le  virtù  forse 
da  me  esercitate,  e  per  sfuggire  i  vizi  dai  quali  fui  contaminato,  ovvero  perchè  con- 
tenesse fatti  egregi  e  memorandi,  e  fuor  del  corso  ordinario  delle  umane  cose  ado- 
perate  Prendo  a  scriverla ritrovandomi  fra  le  angustie  di  un  castello  dove,  privo 

di  ogni  umano  commercio  traggo  miseramente  i  miei  giorni,  e  dubitando  per  la  mia 
età  cadente  che  non  dovessi  quivi  finirla,  per  alleggerire  in  parte  la  noia  e  il  tedio 
e  perchè  sento  avvicinarmi  al  fine,  rivolgendo  nella  mente  tutte  le  mie  passate  gesta, 

posso  ritrarre  conforto  dalle  buone  e  pentimento  dalle  ree Ma  sopratutto  prendo 

a  scriverla  perchè  sia  agli  altri  di  documento  e  spezialmente  agli  uomini  probi,  ed 
onesti  ed  amanti  del  vero,  quanto  sia  per  essi  dura  e  malagevole  la  strada  che  avran 
da  calcare  per  passare  la  loro  vita  in  questo  mondo  liberi  e  sicuri  fra  la  turba  di 
gente  improba  ed  infedele  e  tra  l'infinito  numero  di  sciocchi  e  di  malvagi,  massima- 
mente a  chi  avrà  sortito  la  disgrazia  di  nascere  sotto  grave  e  pesante  cielo,  in  un 
terreno  servo  e  soggetto  e  ferace  di  pungenti  spine  e  d'inestricabili  pruni  e  triboli  ; 
e  molto  più  in  questi  tempi  nei  quali,  spento  ogni  raggio  di  virtù,  sembra  che  l'invida 
maldicenza,  l'ambizione,  l'avidità  delle  ricchezze  e  degli  onori,  l'avarizia  e  tutte  le 
umane  scelleratezze  abbiano  date  le  ultime  prove „  (1). 

E  il  racconto  si  estende  dalla  nascita  dell'Autore  sino  alla  sua  prigionia  nel  forte 
di  Miolans.  L'Autobiografia  ha  una  forma  molte  volte  trasandata,  ripete  più  volte  i 
concetti  preferiti,  s'indugia  in  lunghe,  minuziose  e  spesso  anche  noiose  narrazioni  di 
fatti  e  di  pettegolezzi  storici,  si  che  non  potrà  dirsi  mai  vera  opera  letteraria  ;  ma 
essa  ha  però  un''  importanza  psicologica  grandissima  per  il  carattere  di  assoluta  sin- 
cerità che  vibra  in  ogni  sua  pagina.  Pare  che  il  Giannone    riviva,    nel  narrarli,  gli 


(1)  Autobiografia,  pag.  3-4. 


192  MARIA    BEGEY  12 

anni  trascorsi.  Nei  capitoli  in  cui  parla  dei  suoi  studi,  dei  primi  anni  del  suo  sog- 
giorno in  Napoli,  di  quelli  in  cui  scrisse  la  Stoi  .  vi  è  persino  nella  forma 
più  spigliata,  nel  tono  più  sereno,  l'ardore  della  sua  forte  gioventù,  della  sua  maturità 
pensosa  ;  poco  a  poco  però  questa  forza  scema  e  al  racconto  delle  prime  grandi  sven- 
ture l'accento  si  fa  mesto,  si  sente  che  il  dubbio,  la  sfiducia,  lo  sconforto  .cominciano 
ad  insinuarsi  nell'animo  dell'Autore,  cui  pesano  forse  anche  gli  anni.  Ma  se  egli  piega 
dinanzi  alla  sventura,  si  eleva  nobilissimo  dinanzi  alla  viltà  ed  al  tradimento. 

Chiuso  in  carcere  inganna  le  ore  disperate  di  tedio  col  lavoro,  coll'osservare  i 
fenomeni  naturali  a  lui  sconosciuti  delle  nostre  Alpi,  col  ripensare  al  passato.  Ma 
l'ultima  pagina  scritta  a  Miolans  rivela  infine  tutta  la  tristezza  desolata  dell'anima 
sua.  Egli  non  sa  che  sia  avvenuto  nel  mondo,  dacché  ne  fu  segregato:  °  sicché  - 
brami  il  mio  vivere  imagine  di  morte  „  (1);  non  sa  che  avverrà  di  lui  e  del  figlio,  e 
teme  che  la  Corte  di  Roma,  non  volendo  aspettare  la  sua  morte,  l'affretti  coi  disagi 
e  coi  patimenti,  e  poi  faccia  credere  al  mondo  le  calunnie  che  già  da  tanti  anni  va 
spargendo  contro  di  lui.  Ma  egli  ha  scritto  la  sua  vita:  "  affinchè  tutti  siano  infor- 
mati dei  suoi  avvenimenti  e  sappiano  discernere  il  vero  dai  falsi  rapporti  ,.  (2).  Forse 
avverrà  che  qualcuno  si  muova  a  compassione  e  lo  ricordi;  forse  dal  suo  esempio  si 
accorgeranno  gli  uomini  che  la  Corte  di  Roma  perseguita  quelli  che  non  può  confu- 
tare; e  meraviglieranno  che  essa  abbia  potuto  giungere  a  tanta  potenza. 

"  A  me,  egli  conchiude,  che  non  per  odio  altrui  o  per  disprezzo,  ma  unicamente 
per  amore  della  verità  e  per  investigarla  fra  l'oscurità  dei  più  incolti  e  tenebrosi 
secoli  ho  sofferto  tante  fatiche  e  travagli,  se  accadrà  fra  queste  alpestri  rupi  lasciare 
il  corpo  esanime,  pregherò  Iddio  che  è  la  Verità  stessa,  che  accolga  il  mio  spirto  in 
pace,  siccome  per  lei  ho  sofferto  tanti  strazii  e  martori,  giusto  è  che  finalmente  diale 
tranquillità  e  riposo. 

"  Pregherò  pure  i  paesani  e  i  viandanti  che  traversando  per  questi  monti,  e  do- 
vendo passare  per  la  Savoia  in  Francia,  calcan  la  strada  donde  non  molto  lontano 
vedesi  il  Castello  di  Miolans,  che,  volti  i  loro  pietosi  occhi  al  gran  sasso  sotto  il 
quale  giaceranno  sepolte  le  mie  fredde  ossa,  mossi  da  spirito  di  pietà  lor  dicano: 
Ossa  aride  e  asciutte,  abbiate  quella  pace  e  riposo  che  vive  non  poteste  ottenere 
giammai  „  (3). 

E  queste  ultime  parole  dopo  il  racconto  della  sua  vita  colle  sue  virtù  e  coi  suoi 
errori  rivelano  il  fondo  dell'anima  del  Giannone.  Le  poche  pagine  che  seguono  ag- 
giunte di  poi  non  sono  che  date  di  giorni  dolorosi  commentate  con  poche  parole.  Nel 
manoscritto,  in  fondo  alla  pagina  che  citavo  dianzi,  in  carattere  minutissimo  si  legge: 

"  Di  nuove  pene  mi  convien  far  versi  ... 

E  nella  seguente: 

"  1737.  15  settembre.  Da  Miolans  giunsi  alle  carceri  della  Porta  del  Po. 

"  20  settembre  1737,  a  Torino. 

"  1738.  27  gennaio  1738,  il  P.  Prever  „. 


(1)  Autobiografia,  pag.  253. 

(2)  Ivi,  pag.  254. 

(3)  Ivi,  pag.  255. 


13  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNOLE  193 

La  nota  di  poi  si  riferisce  ad  avvenimenti  posteriori,  si  che  se  vogliamo  sapere 
il  racconto  della  visita  del  Padre  Prever  dobbiamo  ricorrere  alla  relazione  che  questi 
ne  fece  e  ad  altri  documenti  del  nostro  Archivio. 

I  biografi  del  Giannone  hanno  accennato,  e  il  Pierantoni  e  l'Occella  diffusamente 
narrato  su  tali  documenti  la  conversione  dello  storico  napoletano  e  ciò  che  la 
precedette.  Fin  da  quando  il  Giannone  era  a  Miolans  s'erano  fatte  delle  pratiche  per 
indurlo  all'abiura;  pratiche  a  cui  egli  non  accenna  nell'Autobiografìa,  ne,  ch'io  mi 
sappia,  nelle  lettere,  e  che  dovettero  andar  a  vuoto,  perchè  l'Ormea  così  scriveva  il 
16  marzo  all'Albani  :  "  Già  s'è  dato  principio  a  tentare  la  conversione  del  suddetto 
Giannone,  ma  finora  con  poco  frutto  „  (1),  e  assicurava  che  i  tentativi  verrebbero  ripresi. 

Ormai  l'Ormea  pensava  alla  conversione  del  prigioniero  non  più  soltanto  perchè 
l'Albani  la  desiderava,  ma  perchè  una  lettura  del  sommario  del  Triregno  lo  aveva, 
egli  dice,  fatto  inorridire,  tanto  che  stimava  "  un  colpo  del  cielo  l'arresto  di  un  uomo 
sì  pernicioso  „.  Di  più,  l'abate  Pallazzi  di  Selve  aveva  esaminato  i  manoscritti  da 
mandarsi  a  Roma,  e  le  osservazioni  sue  sul  V  tomo  della  Storia  Civile  (ancora  ine- 
dite nel  nostro  Archivio)  s'intonavano  mirabilmente,  sebbene  fatte  con  uno  spirito  un 
po'  meno  gretto,  con  quelle  sui  quattro  primi,  della  Congregazione  dell'Indice  in  Roma, 

Pietro  Giannone  fu  dunque  condotto  nelle  carceri  di  Torino,  giacche  era  (spie- 
gava il  D'Ormea  all'Albani)  "  il  primario  oggetto  del  suo  arresto,  la  salvazione  di 
quell'anima.  Cosa  che  riusciva  incomoda  e  difficile  in  un  castello  come  Miolans,  lon- 
tano dall'abitato,  ove  non  sono  altri  ecclesiastici  se  non  il  Cappellano  del  forte  „  (2). 

II  P.  Prever  a  cui  fu  dato  incarico  della  conversione,  era  sacerdote  conosciuto 
in  tutta  Torino  e  per  la  sua  pietà  e  per  l'amore  che  portava  ai  carcerati  di  cui  aveva 
una  particolare  affettuosa  cura,  sì  che  ne  veniva  riverito  ed  amato.  Quando  il  Mar- 
chese d'Ormea  gli  mandò  l'ordine  di  occuparsi  di  Pietro  Giannone  accordandogli  sei 
mesi  di  tempo,  il  Prever  non  lo  conosceva  e  sapeva  di  lui  solo  "  quanto  con  rincre- 
scimento cristiano  ne  sentivano  le  anime  dabbene  „  (3).  Tuttavia  si  accinse  fiducioso 
all'opera:  "  Grazie  al  Cielo  a  cui  tutto  si  deve  unicamente  attribuire  (egli  narra) 
poche  visite  e  conferenze  bastarono  per  toccarli  il  cuore  e  farli  conoscere,  confessare 
e  detestare  i  suoi  mancamenti,  essendomi  singolarmente  valso  per  illuminarlo  d'alcuni 
testi  delle  epistole  di  San  Pietro  e  di  San  Paolo  ;  ond'egli  poi  convinto,  commosso  e 
intenerito,  mi  abbracciò  nell'atto  che  io  ne  partiva,  e  mi  disse:  "  Fuit  homo  missus 
a  Deo  „  ed  io  risposi  che  avevo  appunto  la  sorte  di  portare  il  nome  di  San  Giovanni 
Battista  soggiungendoli  che  ringraziasse  il  Signore  di  una  così  grande  misericordia. 

"  Mi  ricordo  che  nella  mia  visita  gli  dissi  che  non  pensasse  più  ad  uscir  di  car- 
cere o  a  mutar  stato,  mentre  qualunque  esito  avesse  avuto  la  mia  ingerenza,  sarebbe 
stato,  se  buono,  utile  a  lui  per  l'anima  solamente  e  non  per  altro,  come  poi  vera- 
mente così  fu,  e  potei  conoscere  che  ne  era  persuaso. 

"  Desiderò  poi  di  leggere  buoni  libri  e  me  ne  domandò;  onde  io  gli  portai  quelli 
di  Sant'  Agostino  De  civitate  Dei,  come  paruto  a  me  il  più  addatto  a  maggiormente 


(1)  Tali  osservazioni  si  trovano  nel  mazzo  V°,  n.  10  dei  manoscritti  del  Giannone. 

(2)  Lettere  dell'Ormea. 

(3)  Relazione  del  Padre  Prever  pubblicata  dall'Occella  a  pagina  82  del  suo  libro:  Pietro  Gian- 
none  negli  ultimi  anni  di  sua  vita. 

Sebib  II.  Tom.  LUI.  25 


194  MARIA    BEGEY  14 

istruirlo  e  confirmarlo  nel  suo  ravvedimento.  Me  ne  ringraziò  e  ringraziava  conti- 
nuamente il  Signore  padre  di  tutti  i  lumi  e  delle  misericordie,  e  siccome  ancora  mi 
diceva  che  Iddio  benedisse  sua  Maestà  per  averli  usata  questa  carità  e  cercato  il  suo 
salvamento,  conoscendo,  come  pure  diceva,  ogni  di  più  che  al  suo  arresto  doveva  la 
sua  liberazione,  e  soggiungeva  che  il  Cielo  lo  aveva  condotto  a  Geneva,  luogo  degli 
errori,  per  di  là  condurlo  pietosamente  a  conoscerli,  a  piangerli,  in  una  prigionia  per 
lui  salutare  „  (1). 

Continuava  intanto  fra  l'Albani  e  l'Ormea  un  frequente  carteggio.  L'Albani  ve- 
niva informato  di  ogni  cosa,  e  quando  seppe  da  un  biglietto  del  P.  Prever  al  Ministro 
piemontese  che  la  ritrattazione  poteva  essere  prossima,  scrisse  che  il  Segretario  di 
Stato  di  Sua  Santità  pregava  a  nome  del  Pontefice  stesso  che  "  quanto  allo   stesso 

Giannone,  qualunque  sono  per  essere  le  sue  disposizioni mai  non  basteranno  perchè 

si  pensi  a  restituirgli  la  libertà,  dovendosi  sempre  temere  di  un  uomo  pernicioso  che 
ha  tentato  di  sovvertire  la  religione  cattolica  con  massime  e  principi  che  affatto  la 
distruggono  „  (2). 

L'abiura  ebbe  luogo  il  Venerdì  santo,  4  aprile  1738.  Il  Vicario  dell'Inquisizione 
a  Torino  aveva  ricevute  le  debite  istruzioni  da  Roma  per:  "  la  spontanea  abiura- 
zione  „  (3).  Anche  esse  giacciono  inedite  nel  nostro  Archivio  né  sono  di  grande  im- 
portanza per  se  stesse:  ma  tutte  le  notizie  che  danno  intorno  al  Giannone,  alla  sua 
vita,  ai  suoi  scritti,  mostrano  come  la  Curia  Romana  l'avesse  seguito  sempre,  anche 
negli  anni  del  suo  esilio.  (Il  che  è  confermato  dai  recenti  studi  del  Senatore  Pieran- 
toni,  il  quale  dimostrò  che  si  era  tentato  anche  con  altre  Corti  per  ottenere  la  con- 
segna dello  Storico  napoletano  !).  Terminano  con  l'ordine  di  far  vedere  tali  memorie 
al  confessore  che,  così  istruito  "  potrà  disporre  ed  animare  il  penitente  a  fare  una 
pubblica  ritrattazione  anche  a  stampa,  che  vada  pel  mondo  a  risarcire  li  danni  por- 
tati alla  sua  fama  e  riputazione  nell'essersi  acquistato  il  concetto  appresso  li  scrittori 
li  più  dotti  e  savi  di  scrittore  empio,  sacrilego  e  miscredente  „  (4). 

Il  P.  Prever  aveva  fatto  tesoro  dei  consigli:  il  prigioniero  cedette,  ed  ecco  quanto 
il  P.  Prever  racconta: 

"  Venne  intanto  il  Venerdì  Santo  di  quell'anno,  giorno  in  cui  il  Padre  Vicario 
del  Sant'Uffizio  stimò  di  sentirne  se  riceveva  la  ritrattazione  ed  abiura  ed  io  ebbi 
il  contento  di  servirgli  da  segretario. 

"  Questo  egli  fece  colle  lagrime  agli  occhi  e  colle  più  affettuose  dimostrazioni 
di  un  cuore  pentito.  Onde  c'intenerì  e  prima  dell'atto  medesimo  s'esibì  di  scriverlo, 
come  fece,  di  proprio  pugno,  e  si  dichiarò  pronto  a  spiegarvi  tutto  quello  dippiù  che 
vi  fosse  suggerito,  essendo  intenzione  sua  che  la  ritrattazione  sua  fosse  non  solamente 
vera,  ma  anche  intiera,  e  come  per  ogni  riguardo  doveva  essere.  Fece  poi  nelle  mie 
mani  una  confessione  generale  che  mi  consolò  e  ricevette  la  Santa  Comunione  Pasquale. 
Fu  indi  trasferito  al  Castello  di  Ceva  e  vi  stette  sino  all'anno  1745  „  (5). 


(1)  Occella,  luogo  citato. 

(2)  Lettere  del  Cardinale  Albani. 

(3)  Manoscritti  del  Giannone,  mazzo  V",  Memoria,  ossia  istruzione  mandata  da  Roma  al  P.  Vicario 
del  S.  Uffizio  di  Torino  "  per  la  suddetta  spontanea  abiurazione  ,. 

(4)  Idem,  idem. 

(5)  Idem,  idem. 


15  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  195 

Riguardo  all'abiura,  ecco  invece  quanto  scrive  Pietro  Giannone  nella  nota  del- 
Y Autobiografia  che  segue  l'accenno  alla  conoscenza  col  Padre  Prever: 

"  Ai  dì  15  marzo,  su  precedente  informazione  del  medesimo  Padre  e  lettera  del 
Re  a  Roma  fu  spedita  dalla  Santa  Congregazione  del  Sant'  Uffizio  commissione  al 
P.  M.  Fra  Giovanni  Alberto  Aferio,  Vice-governatore  del  Sant'  Uffizio  di  Torino  di 
ricevere  la  mia  ritrattazione  con  precedenti  istruzioni  per  se  e  il  padre  Prever  mio 
confessore  e  direttore  della  mia  coscienza,  il  quale  portatosi  in  dette  carceri  col  detto 
Padre  ricevè  la  mia  deposizione  e  in  conseguenza  la  mia  ritrattazione  secondo  l'istru- 
zione mandata  sopra  i  punti  in  essa  prescritti. 

"  In  esecuzione  di  detta  commissione  fu  data  assoluzione  di  tutte  le  censure, 
interdetti,  ecc.  e  data  licenza  al  padre  Prever  di  ricevere  la  mia  confessione  e  di  as- 
solvermi di  tutti  i  peccati  e  casi  riserbati  in  Roma  al  Sant'Uffizio  „   (1). 

Null'altro;  ma  troppo  sono  differenti  l'intonazione  di  questa  nota  e  il  semplice 
accenno  alla  visita  del  padre  Prever,  dal  racconto  che  questi  ne  fece  ;  troppo  dice  il 
verso  dantesco  che  precede  le  poche  parole  aggiunte  dal  Giannone  in  questi  ultimi 
fogli  della  sua  Autobiografia,  perchè  anche  dopo  una  semplice  lettura  il  dubbio  sulla 
sincerità  della  sua  conversione  non  si  imponga  alla  mente  nostra. 

È  vero  che  il  Soria  la  chiamava  "  un  benefizio  della  Provvidenza  „  ;  è  vero  che 
il  Cantù  scriveva  aver  il  Giannone  domandato  "  spontaneamente  di  essere  sottoposto 
al  Sant'Uffizio  e  stesa  egli  stesso  la  disapprovazione  delle  singole  sue  opere,  rifiutando 
ed  abiurando  gli  errori  che  contenessero  e  supplicando  perdono  dalla  Santa  Madre 
Chiesa  e  da  tutti  i  fedeli  dello  scandalo  dato  „.  E  vero,  infine,  che  un  anonimo  biografo 
del  padre  Prever,  facendosi  interprete  di  tutta  una  corrente  di  opinioni,  ascriveva 
al  padre  filippino  il  merito  della  "  sincerissima  conversione  „  e  stampava  che  "  Nobile 
e  oltremodo  gloriosa  fu  la  vittoria  che  il  padre  Prever  riportò  sopra  l'avvocato  Pietro 
Giannone,  così  rinomato  e  temuto  ai  suoi  dì,  per  rei  principii  e  per  le  eretiche  mas- 
sime che  iva  disseminando  dappertutto  colle  parole  e  colle  opere  a  stampa  „  (2). 

Ma  altri  scrittori  studiando  questo  stesso  momento  psicologico  della  vita  dello 
Storico  napoletano,  furono  tratti  a  conclusioni  ben  diverse.  I  documenti  pongono  fuor 
di  causa  le  opinioni  del  La  Farina,  di  Pier  Silvestro  Leopardi  e  del  Settembrini  che 
il  Giannone  fosse  costretto  all'abiura,  e  il  Senatore  Pierantoni  ben  giustamente  com- 
batte anche  l' idea  del  Biamonti,  che  la  spiega  colla  debolezza  dell'età  senile,  meglio 
disposta,  come  la  prima  età,  ad  essere  atterrita  e  commossa  dalle  forze  arcane  della 
religione.  Già  antecedentemente  però  l'abate  Lionardo  Panzini,  scrivendo  la  vita  del 
Giannone,  aveva  dubitato  della  sincerità  dell'abiura,  supponendo  che  lo  Storico  vi 
fosse  indotto  dai  suggerimenti  del  suo  direttore  di  coscienza,  "  o  forse  ancor  più  da 
sé  stesso,  affin  di  rendere  per  questo  mezzo  più  piana  ed  agevole  la  via  al  suo  de- 
siderato scampo  „  (3)  ;  e  il  Pierantoni,  che  tutte  le  idee  dei  vari  scrittori  circa  il 
fatto  dell'abiura  raccolse  e  pubblicò,  si  attiene  a  questa  (4). 


(1)  Autobiografia,  pag.  256. 

(2)  Vita  del  Padre  Giambattista  Prever  dell'Oratorio  di  San  Filippo  Neri  di  Torino.    Torino,  per 
Giacinto  Marietti,  1844,  pag.  115-16. 

(3)  Lionardo  Panzini,   Vita  di  Pietro  Giannone  preposta  alla  "  Seconda  parte  delle  opere  postume 
di  Pietro  Giannone  „.  In  Londra,  1  766. 

(4)  Pierantoni,  Autobiografia  di  Pietro  Giannone.  Appendice,  cap.  V,  pag.  328. 


196  MARIA    BEGEY  16 

Ma  tali  affermazioni  o  dubbi  o  negazioni  non  valgono  a  spiegarla,  o  pare  a  me 
che  la  causa  vera  di  essa  e  il  suo  valore  non  siano  state  ancora  spassionatamente 
studiate. 

Pietro  Giannone  rappresenta  per  le  sue  opere,  per  tutta  la  vita  sua,  il  principio 
di  lotta  contro  la  potestà  ecclesiastica,  e  come  tale  è  fatto  segno  all'amore  e  all'odio 
di  due  partiti.  Per  comprendere  quale  fosse  l'animo  suo  è  mestieri,  io  sono  convinta, 
levarsi  ben  più  in  alto,  e,  dimentichi  delle  proprie  opinioni,  indagare  serenamente  la 
verità. 

Noi  abbiamo  seguito  lo  svolgersi  del  pensiero  di  Pietro  Giannone  :  abbiamo  ve- 
duto che  all'opporsi  politicamente  al  dominio  della  Chiesa  sul  Regno  di  Napoli,  è 
seguita  in  lui  una  ribellione,  parziale,  è  vero,  nel  campo  religioso;  ribellione  che 
muove  ancora  dallo  stesso  principio  politico,  perchè  non  ha  radice  in  un  dubbio  su- 
scitato dal  razionalismo  filosofico,  bensì  dal  crollo  che  gli  studi  storici  hanno  dato 
alla  legalità  del  potere  ecclesiastico,  sì  che  egli  nell'avversione  sua  per  quanto  da 
questo  potere  nacque  o  servì  ad  ingrandire,  nega  tutto  ciò  che  dalla  Chiesa  si  è  fatto 
nel  corso  dei  secoli. 

Ma  accanto  a  questa  opposizione  perdurava  in  lui,  sia  pur  anco  errata,  una  fede 
religiosa.  Pietro  Giannone  credeva  in  Dio,  tutte  le  sue  opere  lo  attestano  ;  già  fin 
dal  tempo  in  cui  scriveva  la  Storia  Civile,  egli  faceva  la  distinzione  fra  l'idea  reli- 
giosa e  la  Corte  di  Roma,  e  nelle  proposizioni  "  scandalose,  eretiche  e  prossime  al- 
l'eresia „  la  Congregazione  dell'Indice  aveva  posto  quel  passo  del  tomo  IV,  a  pa- 
gina 444,  in  cui  il  Giannone  dice  che  "  il  suo  libro  sarà  da  Roma  maledetto,  ma  che 
egli  rivolto  al  Signore  che  scorge  i  cuori  di  tutti  ed  a  cui  niente  è  nascosto,  lo  pre- 
gherà vivamente  che  lo  benedica  Egli,  ed  instilli  negli  altrui  petti  sensi  di  veracità 
e  di  amore  „.  Nel  Triregno,  in  cui  sono  in  sì  gran  numero  le  frasi  violente  e  mordaci 
non  pure  contro  abusi,  ma  contro  istituzioni  degne  di  ogni  rispetto,  la  parola  di  Cristo, 
la  verità  della  sua  religione  di  pace  e  d'amore  sono  affermate  con  reverenza. 

Neil' Autobiografia  questi  sentimenti  si  manifestano  più  chiaramente  che  mai.  a 
confutazione  di  quanti  vollero  fare  dello  storico  napoletano  un  miscredente;  l'ultima 
pagina  che  io  citavo  più  su  non  è  forse  anch'essa  una  prova? 

Pietro  Giannone  era  convinto  di  essere  nella  verità.  L'aveva  cercata  con  un  lungo, 
paziente  lavoro;  gli  errori  suoi  provenivano  da  un  accecamento  per  la  passione  politica 
che  gli  vibrava  nell'anima;  ma  era  sincero  con  se  stesso,  egli  che  meditando  (nel  Tri- 
regno) una  parola  di  S.  Paolo,  scriveva:  "  Se  mille  Chiese  avessero  costantemente  cre- 
duto ed  insegnato,  anzi  pei  suoi  canoni  deciso  che  io  abbia  a  credere  per  articolo  di  fede 
ciò  che  nelle  Sacre  Scritture  non  è  ne  fu  mai  riputato  per  tale,  anzi  devia  e  si  allontana 
dagli  stabiliti,  e  se  pur  non  devia  sarà  una  cosa  nuova  che  vi  si  vorrà  aggiungere,  che 
non  conduce  alla  nostra  salute,  io  vi  darò  l'assenso  se  lo  giudicherò  conforme  alla  ra- 
gione, ma  lo  rifiuterò  se  si  allontana  da  quello  che  in  ciò  diceva  S.  Paolo:  Niuno  mi  ili  ve 
giudicare,  anzi  io  posso  giudicare  tutti.  Perchè  in  ciò  la  Chiesa  non  mi  deve  fare  niuna 
autorità,  perchè  non  è  questa  la  sua  autorità  ed  incombenza  ;  né  si  appartiene  a  lei  di 
rifoggiare  di  pianta  nuovi  articoli,  né  impacciarsi  oltre  „.  (Sì  che  se  si  vorranno  stabi- 
lire nuovi  dogmi  egli  risponderà:)  "  Ciò  non  ha  niente  a  che  fare  colla  mia  salute,  né 
si  appartiene  punto  a  quella  religione  che  Cristo  mi  lasciò.  So  quali  fossero  gli  articoli 
di  fede  della  Chiesa  nel  simbolo  chiamato  apostolico,  che  come  provenienti  da  Cristo  e 


17  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  197 

dai  suoi  Apostoli  sono  fondamenti  della  mia  credenza.  Fuor  di  quello  io  non  intendo 
altro,  seguiterò  in  quello  il  savii.ssimo  ammaestramento  di  Tertulliano:  "  Nihil  ultra 
scire,  omnia  scire  est  „  (1). 

Alle  pratiche  di  pietà  adempieva  dunque  non  solo,  come  vorrebbero  alcuni,  per 
opportunità,  o  perchè,  come  opina  il  Pierantoni,  non  volesse  essere  confuso  fra  la  turba 
dei  novatori,  onde  potere  liberamente  attendere  alla  sua  missione  "  di  rinnovare  la  co- 
scienza della  società  civile  contro  la  usurpazione  del  sacerdozio  „,  bensì  perchè  esse  si 
accordavano,  e  lo  vedemmo,  colla  sua  fede.  Ne  è  prova  il  fatto  che  le  continuò  a  Gi- 
nevra, dove  non  aveva  ragioni  di  prudenza  che  lo  spingessero.  Ma  gli  studi  fatti  lo  con- 
vincevano che  la  religione  di  Cristo  si  era  stranamente  mutata  attraverso  ai  secoli  ;  le 
persecuzioni  sofferte  tutta  la  sua  vita,  il  carcere  stesso  in  cui  languiva,  ribadivano 
nell'anima  sua  il  concetto  che  questa  potenza  papale  era  ben  diversa  dalla  soave  reli- 
gione del  Salvatore. 

Con  questi  sentimenti,  come  era  possibile  una  conversione?  Il  padre  Prever  narra 
che  il  prigioniero  piegò  ben  presto,  e  narra  certamente  la  verità.  Ma  una  conversione 
improvvisa,  che  sarebbe  psicologicamente  spiegabile  in  chi  avesse  errato  nei  principi  e 
fosse  raggiunto  a  un  tratto  dallo  sconforto  che  prende  sì  spesso  chi  non  ha  alcuna 
idealità  che  sorregga  la  vita,  non  poteva  darsi  in  lui.  Pietro  Giannone  piegò  non  ad  una 
forza  materiale,  ma  ad  una  forza  morale:  piegò  alle  circostanze  ed  ai  tempi. 

Egli  temette  d'essere  consegnato  a  Roma; sapeva  di  essere  perseguitato  dalla  Corte 
Pontificia,  e  lo  disse  chiaramente  più  volte  e  nell'Autobiografia  e  nelle  lettere  e  nelle 
Memorie  scritte  in  occasione  dello  sfratto  da  Venezia  e  del  suo  arresto.  La  riconoscenza 
che  professa  sì  spesso  nelle  lettere  a  Carlo  Emanuele  III  è  interpretata  da  tutti  gli  sto- 
rici come  la  riconoscenza  per  non  essere  stato  consegnato  nelle  mani  dell'  Inquisizione. 
"  La  ricordanza  del  pugnale  che  colpì  fra  Paolo  Sarpi  e  del  laccio  che  strozzò  fra  Ful- 
genzio non  doveva  essere  uscita  dalla  mente  di  Pietro  Giannone;  egli  sapeva  che  i  roghi 
di  Arnaldo  da  Brescia,  di  Cecco  d'Ascoli,  di  Nicola  Franco  e  di  fra  Girolamo  Savona- 
rola non  erano  estinti;  egli  non  poteva  avere  obliato  che  dieci  anni  la  Curia  Romana 
insistè  perchè  le  fosse  consegnato  Giordano  Bruno  e  che  da  ultimo  l'ottenne  promettendo 
che  sarebbe  punito  "  clementissime  et  citra  sanguinis  effusionem  „  e  che  mantenne  la 
sua  promessa  facendolo  ardere  vivo  e  gittando  nel  Tevere  le  sue  ceneri  come  già  fece 
con  quelle  d'Arnaldo  „  (2).  Cosi  Pasquale  Stanislao  Mancini. 

Sperò  il  Giannone  (e  ne  fa  fede  il  Panzini  appoggiandosi  alle  lettere  ed  alle  sup- 
pliche che  il  Giannone  scrisse  negli  anni  di  carcere)  di  riacquistare  la  libertà,  sperò 
certamente  di  rivedere  la  moglie,  i  figli,  di  riaverne  almeno  notizie.  Dov'erano  essi? 
A  Vienna  aveva  saputo  che  il  fratello  si  appropriava  i  suoi  beni  ;  e  a  Venezia  il 
figlio  gli  aveva  dato  notizia  della  madre  e  della  sorella  chiuse  in  convento  ;  e  il  figlio 
stesso,  compagno  di  prigionia  a  Miolans,  era  stato  restituito  improvvisamente  in  li- 
bertà e  messo  una  notte,  solo,  senza  denari  e  senza  appoggi,  sulla  via  d'Italia.  Pietro 
Giannone  nulla  più  sapeva  del  mondo,  dei  suoi  cari;  e  anche  questa  desolazione  im- 
mensa della  solitudine  morale  dovette  spingerlo  all'abiura. 


(1)  Il  Triregno. 

(2)  Parole  citate  dal  Pierantoni  nell'Appendice  dell'Autobiografia,  pag.  325. 


198  MAEIA    BEGEY  18 

Il  padre  Prever  narra  bensì  di  avergli  accertato  che  la  conversione  gli  avrebbe 
giovato  all'anima  sua  soltanto;  ma  gli  promise  d'interessarsi  per  fargli  avere  le  nuove 
della  famiglia. 

Così  dopo  le  trattative  inutili  fatte  a  Miolans,  lo  storico  acconsenti  ad  abiurare 
a  Torino.  D'altronde  ancora  una  scusa  egli  poteva  trovare  con  se  stesso:  dice  Giu- 
seppe Ferrari  :  "  Il  Diritto  Romano,  che  era  il  suo  vangelo,  gli  insegnava  che  ogni 
deliberazione  fatta  sotto  l'impero  della  forza  maggiore  è  nulla,  ed  egli  rientrò  nel 
seno  della  Chiesa  che  non  poteva  desiderare  una  più  categorica  disdetta  „. 

Fu  una  debolezza,  è  vero,  ma  Pietro  Giannone,  sebbene  se  ne  sia  da  molti  vo- 
luto fare  un  uomo  senza  pecca,  non  era  un  eroe.  Egli  stesso  ci  ha  detto  sincera- 
mente nella  prima  pagina  della  sua  vita,  che  come  in  lui  non  furono  estreme  virtù 
da  imitare,  così  neppure  estremi  vizi  o  estrema  ignoranza  da  fuggire.  Ebbe  un  in- 
telletto potente,  con  cui  sorpassò  i  tempi  suoi,  si  che  i  contemporanei  non  lo  com- 
presero ;  ma  l'animo  suo  piegò  affranto  dinanzi  alla  sventura,  perchè  non  lo  sosteneva 
nella  lotta  nessuna  forza  d'amore.  Nel  cozzo  fra  l'odio  del  potere  ecclesiastico  e 
quello  di  chi  si  ribellava,  era  naturale  che  piegasse  chi  possedeva  minori  mezzi  ma- 
teriali; poiché  l'odio  non  dà  che  una  forza  fittizia  che  può  distruggere,  ma  che  nulla 
edifica  e  che  non  basta  da  sola  a  sorreggere  tutta  una  vita  di  dolori. 

E  umanamente,  Pietro  Giannone  doveva  cedere.  Fu  fortuna  per  lui  ;  che  le  pa- 
role del  padre  Prever:  "  il  Marchese  d'Ormea  mi  accordò  sei  mesi  di  tempo  „  sug- 
geriscono assai  facilmente  l' idea  che  se  il  prigioniero  non  avesse  ceduto,  il  Marchese 
avrebbe  insistito  presso  il  Re,  e  forse  risolto  per  consegnarlo  a  Roma. 

Certo  è  che  l'abiura  fatta  rigidamente  colle  forme  prescritte  dall'Inquisizione, 
senza  un  accento  di  sincerità  che  ci  persuada,  viene  ad  appoggiare  la  verità  delle 
induzioni  psicologiche  che  siamo  venuti  facendo.  L'abiura,  pubblicata  dal  Pierantoni  (1) 
e  dall'Occella  (2),  fu  esaminata  nelle  sue  varie  parti  dal  Panzini,  in  prima,  da  Giuseppe 
Ferrari  poi,  ed  entrambi  s'accordano  nel  negarne  il  valore  e  per  ciò  che  il  Giannone 
ritratta  e  per  la  forma  in  cui  la  ritrattazione  si  compie.  Il  significato  del  "  se  po- 
tessi, vorrei  che  fossero  annullate  tali  stampe  „  è  quello  stesso  di  "  ibis  redibis  non  „ . 
Ciò  che  egli  aggiunge  circa  i  manoscritti  mandati  in  Roma,  è  in  gran  parte  inven- 
tato. La  scusa  che  il  Triregno  non  fosse  che  l'insieme  "  di  cartuccie  e  di  picciole 
memorie,  che  secondo  che  andava  leggendo  alcuni  autori  notava,  ed  ancorché  aves- 
sero relazione  fra  loro,  e  portassero  seco  un  groppo  di  diversi  errori,  non  furono  da 
lui  abbracciatj,  ma  unicamente  per  notare  gli  altrui  sentimenti  „  è  scusa  che  non 
regge  per  chi,  come  noi,  ha  veduto  nel  Triregno,  benché  incompiuto,  un'opera  orga- 
nicamente ben  costituita,  a  difesa  del  suo  principio  prediletto.  Che  dire  poi  vedendo 
che  egli  condanna  come  scandalosa  la  memoria  storica  Sul  concubinato  presso  i  Bo- 
mani  e  abiura  le  proposizioni  "  scandalose,  temerarie,  false,  contumeliose,  erronee  e 
prossime  all'  eresia  „  che  possono  trovarsi  nella  memoria  giuridica  De  Conciliis  ac 
Dicasteriis  Urbis  Vindobonae?  E  si  noti  che  non  parla  dell'opera  originale  italiana, 
ma  della  traduzione  latina,  di  cui  può  dichiararsi  irresponsabile.  Insomma,  come  no- 
tano tutti,  non  vi  ha  neppure  un'opinione  che  chiaramente  sia  ritrattata. 


ili   Autobiografia  di  ritiro  Giannone.  Note  e  documenti,  pag.  531. 
(2)  Pio  Occella,  Opera  citata,  pag.  52. 


19  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  199 

Forse  l'Inquisitore  e  il  padre  Prever  se  ne  accorsero;  ma  si  appagarono,  e  l'a- 
biura scritta  e  firmata  da  Pietro  Giannone  fu  pubblicata  come  il  trionfo  lungamente 
atteso,  e  citata  sempre  quale  testimonianza  irrefragabile  ogni  qual  volta  la  sincerità 
della  conversione  fu  posta  in  dubbio. 

Così  si  accentuò  la  controversia  fra  i  nemici  ed  i  sostenitori  del  Giannone  ;  il 
documento,  quantunque  confutato  non  nella  sua  verità  storica,  ma  nel  suo  valore, 
servi  ad  oppugnare  le  ragioni  di  chi  argomentava  avere  il  Giannone  piegato  solo 
per  forma.  Ma  havvi  una  prova,  anch'essa  irrefragabile,  anch'essa  appoggiata  su  do- 
cumenti di  quel  tempo,  che  avvalora  quanto  si  disse,  prova,  che  per  quanto  a  me 
consta,  non  fu  portata  mai.  Ed  è  la  continuità  del  pensiero  del  Giannone,  che  dopo 
aver  salito  negli  anni  di  libertà  una  linea  ascendente,  acquistando  sempre  nuovo  vi- 
gore dagli  studi  fatti,  s'allarga  ora  a  dimostrare  diffusamente  quanto  negli  studi  e 
nelle  precedenti  meditazioni  ha  appreso;  il  che  appare  da  tutto  ciò  che  egli  scrisse 
durante  la  prigionia,  ma  particolarmente,  e  lo  vedremo,  dall'opera  inedita  che  ci  siamo 
proposti  di  esaminare. 

IV. 

Ottenuta  la  ritrattazione,  il  compito  del  padre  Prever  era  finito,  raggiunto  lo  scopo 
per  cui  si  era  condotto  il  prigioniero  a  Torino:  e  d'altra  parte  le  vicende  della 
guerra  consigliavano  d'allontanarlo  dalla  Capitale  ;  il  povero  Giannone  fu  dunque  fatto 
partire  pel  Castello  di  Ceva.  Ricominciò  allora  la  dolorosa  segregazione  dagli  uomini, 
ma  una  tal  vita  dovette  pesargli  ben  più  che  a  Miolans,  dopo  il  balenare  della  spe- 
ranza della  libertà,  dopo  l'umiliazione  dell'abiura,  pesante  ricordo  che  aumentava  la  tri- 
stezza dell'animo  suo.  E  neppure  le  notizie  della  famiglia  giungevano;  il  padre  Prever 
aveva  scordato  le  sue  promesse;  sì  che  il  Giannone,  dopo  tre  settimane  di  soggiorno 
a  Ceva,  gli  scriveva  la  prima  lettera: 

u  Molto  Rev.  P.  Signor  mio, 
"  Ormai  è  scorsa  la  terza  settimana  da  che  giunsi  in  questo  Castello,  e  non  ricevo 
alcuna  desideratissima  sua  lettera,  la  quale  finora  con  impazienza  ho  aspettato,  sen- 
tendo le  promesse  quali  partii  per  avere  opportunità  di  rispondergli,  e  con  ciò  dargli 
ragguaglio  di  me  e  del  mio  stato.  Ho  finalmente  pregato  questo  R.  Comandante  che 
mi  permettesse  di  scrivere  al  signor  Marchese  d'Ormea  e  nella  lettera  per  S.  E.  ac- 
cludeva questa  pregandola  che  la  facesse  pervenire  in  sue  mani,  siccome  benigna- 
mente si  è  compiaciuto:  onde  ho  dovuto  essere  io  per  il  primo  a  rompere  il  ghiaccio 
a  darle  con  questa  avviso  del  mio  arrivo  qui  dove,  sebbene  i  primi  giorni  non  avessi 
incontrata  quella  salubrità  che  io  speravo,  nulla  di  meno  andando  ora  assuefacendomi 
al  novello  clima  vado  acquistando  ora  maggiori  forze  e  spero  rifarmi  dalle  prece- 
denti angoscie  che  ho  sofferto  nelle  penose  carceri  di  Porta  del  Po,  dove  io,  se  più 
vi  fossi  dimorato,  avrei  sicuramente  perduto  la  vita „. 

E  continua  dando  notizie  sue,  e  dei  suoi  sentimenti  di  convertito,  per  pregarlo 
più  giù,  un  po'  avvocatescamente,  di  ciò  che  tanto  gli  sta  a  cuore:  "  Siccome  con- 
fesso Iddio  avermi  fatto  per  suo  mezzo  un  nuovo  uomo  per  ciò  che  riguarda  il  mio 


200 


MARIA    BEGEY  20 


maggior  bene  ch'è  la  salute  della  mia  anima;  così  credendo  essere  anche  suo  divin 
volere  mentre  siamo  in  vita  di  procurare  il  sollievo  degli  afflitti  e  di  raccomandarci 
la  carità  verso  il  prossimo  e  molto  più  di  quei  che  sono  a  noi  più  stretti  e  congiunti, 
così  io  sono  a  pregarlo  con  tutto  lo  spirito  di  stradare  per  Napoli  quelle  lettere  che 
io  confidai  alla  vostra  carità  sapendo  il  sollievo  che  da  quelle  medesime  può  recarsi 
alla  afflitta  mia  casa  ed  alle  persone  che  sa  che  ne  han  bisogno  per  toglierle  da 
quella  costernazione  nella  quale  saranno  non  avendo  da  me  riscontro  alcuno.  Quanto 
ciò  ridondi  anche  in  mio  sollievo,  ben  può  immaginarselo  e  molto  più  se  avrà  la  bontà 
le  risposte  che  drizzeranno  a  Torino  a  V.  R.  mandarmele  qui  per  mio  ristoro  anche 
bisognando  dar  quelle  provvidenze  che  io,  povero  prigioniero,  comunque  possa  dare  „. 

La  lettera  continua  su  questo  tono:  e  al  fondo,  dopo  una  preghiera  perchè  gli 
vengano  resi  i  suoi  libri,  onde  ingannare  un  poco  la  noia  e  il  tedio  che  l'assalgono 
e  confortarsi,  finisce  con  alcune  parole  che  appoggiano  saldamente  una  delle  ragioni 
con  cui  noi  abbiamo  spiegata  l'abiura  del  Giannone  ;  dopo  aver  pregato  il  padre  Prever 
che  gli  ottenesse  dal  Marchese  d'Ormea  il  permesso  di  passeggiare  pel  Castello,  dice: 
"  Sapendo  che  io  non  sono  in  stato  di  fuggitivo,  essendomi  pienamente  abbandonato 
nelle  pietose  braccia  di  S.  Maestà,  dalla  cui  clemenza  spero  la  mia  liberazione,  mi 
faccia  perciò  esperimentare  gli  effetti  della  sua  cordialità  ed  efficacia  e  non  mi  ab- 
bandoni ,   (1). 

Ma  questa,  la  prima  di  un  fascio  di  lettere  e  di  suppliche  che  si  trova  nell'Archivio 
nostro,  e  di  cui  una  parte  fu  pubblicata  dal  Pierantoni  e  dall'Occella,  dovea  restare 
come  quasi  tutte  le  altre  senza  risposta. 

Il  povero  Giannone  non  ebbe  le  notizie  della  famiglia  che  più  tardi,  dalle  lettere 
del  fratello,  del  figlio,  e  dell'amico  Canonico  Mela.  Il  P.  Prever  non  si  occupò  del 
prigioniero,  e  per  due  anni  non  giunse  a  ricordarsene  se  non,  egli  dice,  "  nelle  sue 
orazioni  „. 

Il  che  mi  conferma  nell'idea  che  la  Curia  si  fosse  accontentata  di  una  ritratta- 
zione pur  che  sia,  ma  avesse  assai  bene  veduto  l'inganno.  Com'è  possibile  difatti  che 
i  fini  critici  a  cui  non  sfuggì  neppure  una  parola  della  Storia  Civile  e  delle  opere 
seguenti,  non  s'accorgessero  che  le  forinole  dell'abiura  non  avevano  alcun  senso? 

L'ordine  di  Roma  era  di  avere  questa  abiura;  l'Aferio  e  il  P.  Prever  la  presero 
quale  la  poterono  ottenere,  riserbandosi  ad  ottenere  di  più  in  una  migliore  occasione. 

Narra  il  Giannone  in  una  lettera  scritta  al  D'Ormea,  il  G  luglio  1738,  che  il 
giorno  innanzi  della  partenza  per  Ceva  il  P.  Prever  gli  comunicò  che  i  Cardinali  del 
S.  Uffizio  di  Roma  avevano  scritto  all'Aferio  perchè  la  ritrattazione  "  distesa  con 
molta  fretta  „  fosse  rifatta  dal  penitente  a  prova  maggiore  della  sua  lealtà.  Al  che 
acconsentì  il  Giannone,  a  patto  però  che  prima  passasse  per  le  mani  di  S.  M.  e 
pregò  il  Prever  stesso  d'informarne  il  D'Ormea.  L'esito  di  queste  trattative  noi  non 
sappiamo,  che  non  ce  ne  danno  notizia  altri  documenti;  ma  il  P.  Prever  comprese 
certo  che  era  inutile  insistere;  e  d'altronde  egli,  che  tante  volte  aveva  discorso  a 
lungo  col  Giannone,  non  aveva  certo  potuto  illudersi  sullo  stato  dell'animo  suo;  prova 
ne  sia  che  per  convertirlo  fece  appello,  non   tanto  alle  convinzioni  di  lui,  quanto  ai 


(1)  Mss.  del  Giannone.  Questa  lettera  trovasi  in  appendice  all'Autobiografia,  pag.  333. 


21  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  20* 

suoi  sentimenti.  E  io  non  sono  neppure  lontana  dal  credere  che,  non  ostante  la  sua 
affermazione  che  l'abiura  doveva  giovargli  solo  moralmente,  il  P.  Prever  non  avesse 
tolto  al  prigioniero  l'illusione  di  una  futura  libertà. 

Ma  ottenuto  l'intento,  egli  non  ci  pensò  più  :  alle  tante  lettere  che  il  Giannone 
gli  scrisse  nei  suoi  anni  di  Ceva,  rispose  due  volte  sole!  E  nel  triste  racconto  della 
prigionia  del  Giannone,  la  figura  del  P.  Prever  che  spese  tanto  amore  per  i  più  vol- 
gari delinquenti  e  fu  sì  duro  coll'infelice  storico  nostro,  lascia  un  ricordo  doloroso, 
e  suggerisce  riflessioni  molto  amare. 

Comunque  sia,  ai  primi  freddi  il  Giannone  si  ammalò.  Dice  l'Autobiografia: 

"  In  novembre  caddi  infermo  e  durò  la  mia  grave  infermità  per  tutto  il  febbraio 
del  1739. 

"  1739.  Fui  con  carità  assistito  dal  Sig.  Cav.  De  Magistris. 

"  Liberato  che  fui  dalla  malattia  cominciai  a  stendere  dai  miei  cartoni  i  Discorsi 
di  Tito  Livio  nel  principio  di  marzo  e  gli  terminai  ai  dì  15  di  maggio  e  furono 
mandati  a  Torino  con  lettera  al  Signor  Marchese  d'Ormea,  pregandolo  di  presentarli 
al  Re,  a  cui  erano  dedicati,  li  8  giugno  „. 

Il  Cav.  De  Magistris  fu,  come  già  il  Leblanc,  pietoso  verso  l'infelice.  Le  condi- 
zioni materiali  del  Giannone  non  erano  così  penose  come  a  Torino,  salvo  il  clima 
che  non  gli  si  confaceva,  e  per  la  natura  sua  di  meridionale,  e  per  l'avanzata  età. 
Ma  le  condizioni  morali  !  Oh  l'agonia  della  solitudine  che  aumentava  mano  mano  che 
gli  anni  passavano  e  s'affievoliva  la  speranza  di  tornare  in  libertà!  Le  lettere  e  le 
suppliche  del  Giannone  ci  rendono  tutta  la  tortura  dell'anima  sua.  Vi  era  in  lui  una 
vitalità  possente  che  lo  riconduceva  a  sperare  giorni  migliori  non  ostante  che  l'espe- 
rienza dovesse  apprendergli  quanto  ciò  fosse  vano.  Ad  ogni  occasione  egli  scrive, 
supplica,  parla  del  suo  pentimento,  della  sua  vecchiaia,  del  suo  dolore,  offre  i  suoi 
servigi:  inutilmente!  La  visione  del  paese  lontano,  della  casa  dove  ha  vissuto  <*li 
anni  migliori  della  sua  vita,  pensando  e  lavorando  sereno,  allietato  dall'amore  e  dalla 
natura  ridente,  ritorna  con  insistenza.  Egli  chiede  sempre  che  lo  si  restituisca  alla 
famiglia  sua,  alla  villa  delle  Due  Porte.  Ma  gli  anni  passano  uguali;  l'alternativa 
della  speranza  e  dell'abbattimento  comincia  ad  affievolire  la  sua  fibra.  L'angoscia  lo 
afferra  più  desolatamente,  la  noia,  il  tedio  diventano  sempre  maggiori.  Egli  cerca  di 
vincerli  lavorando  continuamente.  Dapprima  lo  sorregge  la  speranza  che  il  suo  ingegno 
lo  libererà  e  scrive  un  libro  dedicato  al  Re,  e  protesta  il  suo  ravvedimento  dedi- 
candone un  altro  al  P.  Prever  ;  svanito  il  sogno,  scrive  ancora,  e  compie  l'opera  sua 
facendo  lavori  d'erudizione,  notando  pensieri  suoi,  osservazioni.  Così  occupa  le  lunghe 
ore  della  sua  prigionia. 

Quanto  egli  lavorasse  ce  lo  dimostra  il  fatto  che  in  tre  mesi  fu  compiuto  il 
libro  dedicato  al  Duca  di  Savoia,  il  figlio  giovinetto  di  Carlo  Emanuele  III.  Il  vo- 
luminoso manoscritto  dei  Discorsi  storici  e  politici  sopra  gli  Annali  di  Tito  Livio 
(pubblicati  solo  cento  e  venti  anni  dopo  da  Pasquale  Stanislao  Mancini,  cui  le  mol- 
teplici occupazioni  di  una  vita  operosissima,  e  la  morte  prematura,  vietarono  il  com- 
mento e  lo  studio  della  vita  di  Pietro  Giannone),  costituiscono  l'opera  più  importante 
compiuta  durante  la  prigionia  di  Pietro  Giannone.  Egli  era  senza  libri:  ma  lo  soc- 
corse il  materiale  vastissimo  accumulato  nei  suoi  studi  di  Napoli  e  di  Vienna.  Certo 
lo  animò  anche  la  speranza  di  far  rivivere  in  opere  permesse  dalla  Chiesa  il  pensiero 

Seme  II.  Tom.  LUI.  9R 


202  maria  beci:y  22 

suo,  l'opera  sua  dalla  Chiesa  distrutta;  perchè  egli  non  osava  davvero  sperare  che  il 
Triregno  sarebbe  uscito  incolume  dalle  mani  della  Curia,  e  pubblicato  integralmente 
un  secolo  e  mezzo  dopo  la  sua  morte! 

Pensati  e  scritti  "  fra  le  tenebre  e  angustie  di  una  misera  prigione,  fra  le  soli- 
tudini di  alpestri  monti,  fra  quegli  incomodi  e  disagi  che  ciascuno  può  promettersi 
dalla  vecchiaia  e  dalla  tristezza  dell'animo  ,,,  i  Discorsi  sono  offerti  al  Re  Carlo  Ema- 
nuele III  "  per  la  riconoscenza  d'avergli  impetrato  il  perdono  della  Chiesa,  e  per 
rimediare  se  nei  suoi  libri  precedenti  avesse  errato  o  dato  occasione  di  errare;  sì 
che  alcuni  i  quali  prima  avessero  per  avventura  seguite  le  vestigia  di  un  Pietro 
negante,  seguitino  ora  le  pedate  dello  stesso  Pietro  penitente  „  (1). 

Ma  sono  scritti  però  pel  giovane  Vittorio  Amedeo,  perchè  egli  apprenda  come 
da  piccoli  principii  sorgano  gl'imperi,  e  si  facciano  grandi  e  potenti.  Meglio  di  ogni 
altro  storico  Tito  Livio  si  conviene  all'educazione  di  un  giovane  principe  di  Casa 
Savoia,  che  deve  seguire  le  orme  degli  illustri  suoi  avi  ;  meditando  le  antiche  storie 
egli  si  accorgerà  in  breve:  "  di  molte  verità  le  quali  dal  giovanile  animo  sgombere- 
ranno i  tanti  comunali  (sic)  pregiudizi  ed  i  molti  errori  ed  inganni  nei  quali  la  più 
parte  degli  uomini  vive,  sicché,  resosi  animoso  e  forte  con  maggior  franchezza  ed  ardi- 
mento opererà  cose  grandi  e  sublimi  e  si  disporrà  ad  imprese  nobili  e  magnanime  „  (2). 

Ma  sopratutto,  vedendo  quanto:  "  i  savi  e  prudenti  romani,  ancorché  fossero 
persuasi  della  vanità  della  gentile  religione,  con  tutto  ciò  procurassero  di  mantenerla 
salda  ed  incontaminata  presso  i  popoli  soggetti,  e  ne  prendessero  sempre  la  difesa, 
capirà  quale  cura,  a  più  forte  ragione,  egli  debba  avere  della  religione  cristiana  „ . 

"  Si  convincerà  infine  a  quanti  pregiudizi  ed  inganni  stessero  sottoposte  le  menti 
umane,  a  quanti  fascini,  a  quanti  comuni  errori  dai  quali  liberato  il  Rea!  animo  di 
V.  A.  R.  potrà  con  maggior  franchezza  e  coraggio  accingersi  ad  opere  grandi  e 
magnanime  non  meno  conformi  all'aspettazione  che  tutti  dalla  nobil  anima  e  dal- 
l'alto e  sublime  ingegno  dell' A.  V.  R.  si  promettono  degne  di  una  progenie  cotanto 
rinomata  ed  illustre „  (3). 

Oh  come  già  sin  d'ora  scorgiamo  la  sottile  insinuazione  che  celano  queste  pa- 
role! Umilmente  il  Giannone  aveva  assicurato  a  Carlo  Emanuele  III  di  dimostrare 
le  verità  cristiane  e  la  stabilità  della  Chiesa  di  Roma  sopra  tutte  le  altre  del  mondo 
cattolico.  Umilmente  aveva  chiesto  che  l'opera  sua  fosse  messa  nelle  mani  di  un 
revisore  prima  di  venir  data  al  Principe  reale.  E  il  revisore  lesse,  attraverso  le  righe. 
il  senso  recondito  dell'opera,  e  la  condannò  a  cominciare  da  questa  stessa  prefazione. 

Pietro  Giannone  seguì  passo  passo  la  storia  di  Roma.  Ma  il  fine  suo  fu  assai 
meno  d'indagare  le  vicende  antiche  che  di  svegliare  nell'anima  del  futuro  re  la  cono- 
scenza degli  errori  e  dei  fascini  che  avevano  soggiogato  le  menti  umane  e  diminuita 
l'autorità  imperiale:  il  libro  lo  dimostra  chiaramente.  Non  è  storia  la  sua,  è  ancora 
la  difesa  dei  suoi  principii  prediletti. 

I  tredici  discorsi  che  costituiscono  la  prima  parte  dicono  come  fu  scritta  la 
Storia   da  Tito  Livio;  parlano   della  favolosa  origine  di   Roma,  e  poi,  ampiamente, 


(1)  Discorsi  sugli  Annali  ili  Tito  Livio.  Dedica  a  Carlo  Emanuele  III. 

(2)  Discorsi  sugli  Annali  di  Tito  Livio.  Prefazione  al  Real  Principe  Vittorio  Amedeo  di  Savoia. 

(3)  Ivi. 


23  PER   UN'OPKEA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  203 

del  sorgere  della  religione  romana  e  del  suo  alterarsi  attraverso  i  tempi.  Loda  il 
Giannone  la  franchezza  di  Tito  Livio  nel  censurare  la  religione  dei  suoi  tempi,  come 
la  larghezza  di  pensiero  di  Augusto  che  lo  permise.  Tutta  questa  parte  ha  dunque 
un  carattere  particolare:  e  la  conclusione  che  l'autore  stesso  ne  ritrae  è  questa:  I 
romani,  pur  avendo  una  religione  ristretta  nei  suoi  fini  alla  felicità  terrena  e  senza 
il  concetto  della  vita  oltremondana,  furono  grandi,  sì  che  le  loro  azioni  oggi  ancora 
ci  servono  d'esempio.  I  cristiani  che  hanno  una  religione  più  perfetta  non  sono  dunque 
maggiormente  responsabili  se  malvagi?  Ebbene,  i  maggiori  scellerati  sono  appunto, 
al  tempo  del  Giannone,  quelli  "  che  più  ci  credono  „,  e  nascondono  sotto  un'ipocrita 
umiltà  ogni  sorta  di  vizi.  Ah  come  tutti  questi  pensieri  dovrebbero  farci  arrossire! 
"  Se  daddovero  (egli  finisce)  e  seriamente  gli  uomini  a  ciò  riguardassero,  forse  il 
clero  amerebbe  ritornare  alla  antica  disciplina  ecclesiastica,  i  monaci  ai  loro  primi 
austeri  istituti,  e  i  secolari  stessi,  se  non  popolare  i  boschi  e  le  solitudini  di  romiti, 
di  anacoreti,  porgere  esempio  di  abnegazione  e  di  civile  onestà  conformi  alla  civiltà 
dei  tempi  e  alla  sublimità  delle  cristiane  credenze  „  (1). 

La  seconda  parte  segue  la  storia  delle  conquiste  romane,  notando  le  leggi  ed  il 
modo  di  governare  le  provincie  soggette  e  il  crescere  della  potenza  della  Repubblica. 
È  la  storia,  egli  dice,  dei  romani  guerrieri  coraggiosi  e  forti,  dei  romani  sapienti  e 
giusti,  legislatori  prudenti.  Ma  come  già  nella  prima  parte,  ben  presto  le  considera- 
zioni politiche-religiose  si  fanno  innanzi.  Dopo  aver  parlato  a  lungo  del  censimento 
della  Giudea,  del  formarsi  della  religione  cristiana  e  del  suo  diffondersi  in  Roma  a 
causa  principalmente,  egli  opina,  delle  persecuzioni  giudaiche,  passa  a  mostrare  come 
il  Cristianesimo  s'allarghi  per  tutto  l'orbe. 

L'ultimo  Discorso,  il  XVIII,  serve  di  conclusione  a  questa  parte,  ha  per  titolo: 
"  Come  Roma  quantunque  per  la  decadenza  dell'Impero  avesse  perduto  il  pregio,  con 
più  felici  auspici  ne  acquistasse  un  altro  maggiore  nell'essere  divenuta  capo  di  tutto 
il  mondo  cattolico  „ .  Ma  qui  pure  egli  trova  modo  di  abbattere  la  potenza  temporale  ! 
"  Il  capo  che  trovossi  nello  scavare  del  Monte  Tarpeio  per  aprire  le  fondamenta  al 
tempio  di  Giove,  non  al  mondano  imperio  ma  allo  spirituale  avrebbe  dovuto  riferirsi, 
pregio  tanto  maggiore  quanto  sono  più  degne  l'anima  del  corpo,  le  cose  spirituali  delle 
terrene  „. 

Il  libro  si  chiude  con  una  pagina  vibrante  d'amore  per  l'Italia,  calda  pagina  di 
entusiasmo,  in  cui  esorta  gli  Italiani,  pur  conservando  illesa  l'autorità  spirituale  del 
cattolicismo,  a  riacquistare  l'antica  disciplina,  "  e  preposti  a  loro  guida  i  Principi  in 
nazionali  intraprese  „  si  mostrino  non  degeneri  dei  loro  antenati;  sì  che  gli  stranieri 
apprendano  e  confessino  : 

In  questa  bella  Italia  esser  la  sede 
Del  valor  vero  e  della  vera  fede. 

Un  secolo  doveva  passare  prima  che  il  grido  del  povero  prigioniero  trovasse  eco 
nel  cuore  degli  Italiani!  E  il  censore  intanto,  leggendo  minutamente  i  Discorsi  notava 
ogni  parola  che  potesse  essere  sospetta. 

Forse  fu   l'abate  Pallazzi  di  Selve  che   esaminò  questa  opera;  lo   fa   credere  il 


(1)  Discorsi  sugli  Annali  di  Tito  Livio,  pag.  247. 


204  MAIÌIA    BEGEY  24 

fatto  che  egli  è  l'autore  pure  delle  osservazioni  fatte  al  V  Tomo  della  Storia  CiviU . 
e  che  a  lui  furono  consegnati  per  esaminarli  anche  tutti  gli  altri  manoscritti  del 
Giannone  riavuti  da  Ginevra. 

.Sono  osservazioni  critiche  fatte  con  mente  fredda  ed  attentissima  ;  il  vero  motivo 
per  cui  il  Giannone  aveva  scelto  Tito  Livio  per  ammaestrare  Vittorio  Amedeo  ap- 
pare tosto  all'occhio  suo;  cosi  lo  accusa  di  lodare  troppo  la  franchezza  di  Livio  nelle 
sue  censure  politiche  e  religiose  e  la  tolleranza  di  Augusto,  segno  certo  che  egli 
vuole  criticare  la  censura  della  Chiesa  dei  suoi  tempi  e  propugnare  la  libertà  di 
stampa,  tanto  dannosa  alla  religione.  Nota  poi  qualche  eccessiva  libertà  di  frase, 
ritrova  il  pensiero  (già  condannato  nella  Storia.  Civile)  che  le  profezie  e  i  libri  sacri 
non  siano  divini.  Anche  la  conclusione  della  prima  parte  è  biasimata  :  "  Forse,  dice 
il  Censore,  non  fu  fatta  che  per  aver  agio  di   criticare  i  monaci  e  il  clero  ,..  Forse! 

Meno  importanti  le  osservazioni  fatte  alla  seconda  parte.  Ciò  che  al  Censore  più 
spiace  qui  è  la  frequenza  dei  paralleli  fra  la  religione  pagana  e  la  religione  cristiana; 
già  precedentemente  egli  aveva  notato  che  queste  comparazioni  "  suonano  male  negli 
scritti  di  un  uomo  sospetto  „. 

L'abate  Pallazzi  di  Selve  non  poteva  certamente  ne  comprendere  ne  approvare 
che  studiasse  nelle  manifestazioni  religiose  diverse,  lo  spirito  umano,  e  contrad- 
disse vivacemente  il  Giannone  in  un  punto  in  cui  egli  chiamò:  più  divino  il  cristia- 
nesimo delle  altre  religioni;  che  nota,  censurando,  anche  la  giudaica  ha  le  stesse 
origini  divine,  e  la  pagana  è  poggiata  tutta  su  un  falso  fondamento. 

Del  resto,  non  sono  queste  che  osservazioni  parziali  :  il  critico  ha  veduto  più  in 
là  e  noi  dobbiamo  dargli  ragione  nel  fatto  d'aver  trovato  quanta  parte  degli  orribili 
manoscritti  a  lui  affidati  prima  d'essere  mandati  a  Roma,  riviveva  nella  nuova  opera 
di  Pietro  Giannone:  "  Sembra  che  possa  congetturarsi  che  l'autore  ritenga  per  altro 

le  idee  che  aveva  espresso  nei  suoi  manoscritti:  Del  Regno  terreno  e  celeste „   (1). 

Dal  che  egli  concludeva  "  che  una  tal'opera  non  era  adatta  alla  lettura  di  alcuno, 
ma  principalmente  degli  animi  teneri  ed  imbecilli  „. 

L'opera  andò  dunque  a  coprirsi  di  polvere  negli  archivi.  E  intanto  Pietro  Gian- 
none,  sempre  sperando,  scriveva  e  lavorava  assiduamente  nella  sua  prigione. 


Le  ultime  note  dell'  Autobiografia  dicono  a  questo  punto: 

"  1739.  A  4  di  Novembre  di  nuovo  mi  infermai  dell'istessa  malattia,  non  così 
forte  come  l'anno  scorso,  e  mi  durò  due  mesi  con  tre  altri  mesi  di  convalescenza. 

•  1740.  Quest'anno  per  gli  eccessivi  freddi  e  per  la  morte  di  Papa  Clemente  XII 
seguita  a'  6  Febbraio  fu  memorabile  siccome  per  l'elezione  del  nuovo  Papa  Lambertini 
seguita  li  19  Agosto.  Ma  assai  più  memorabile  per  la  morte  dell'Imperatore  da  me 
saputa  la  Domenica  30  Ottobre,  seguita  in  Vienna  li  20  dello  stesso  mese.  Pure  ai 


(1)  Queste  osservazioni  furono  pubblicate  dal  Mancini,  in  appendice  al    volume:  Discorsi  sugli 
Annuii  di   Tito  Livio. 


25  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  205 

principii  di  Novembre  mi  infermai,  e  durò  la  mia  grave  malattia  fino  ad  Aprile  del 
seguente  anno  „  (1). 

Null'altro  si  legge  più.  Ma  sappiamo  dal  carteggio  del  Giannone  che  quasi  ogni 
anno  egli  si  riammalò  ai  primi  freddi.  Né  egli  se  ne  lagna,  ne  invoca  la  morte.  La 
forza  del  suo  spirito  vince  quella  del  suo  debole  organismo;  egli  non  si  rammarica 
delle  sofferenze  fisiche,  non  si  cruccia  che  per  la  noia  della  solitudine  e  dell'inazione. 

Appartengono  a  questo  periodo  della  sua  vita  due  consultazioni  legali  che  egli 
diede  essendo  detenuto  a  Ceva,  l'una  intorno  al  testamento  di  un  avvocato  Bombini, 
l'altra  intorno  alla  natura  dei  feudi  posseduti  dal  Marchese  di  Ceva,  ma  sono  poca 
cosa.  In  quel  castello,  dopo  i  Discorsi  sugli  Annali  di  Tito  Livio,  Pietro  Giannone 
scrisse  tre  altre  grandi  opere:  l'Apologia  dei  Teologi  scolastici,  la  Storia  della  Chiesa 
sotto  il  Pontificato  dì  Papa   Gregorio  Magno  e  L'Ape  ingegnosa. 

Diverse  nella  forma,  poiché  la  prima  è  critica  di  libri  e  di  opinioni  dei  Padri 
della  Chiesa,  la  seconda  è  storia  ecclesiastica,  la  terza  un  insieme  di  riflessioni  filo- 
sofiche, tutte  e  tre  rivelano,  e  lo  vedremo,  le  stesse  caratteristiche  delle  opere  ante- 
cedenti già  esaminate. 

Io  pongo  l' Apologia  dei  Teologi  scolastici  prima  della  Storia  della  Chiesa  --otto  il 
Pontificato  dì  Gregorio  Magno,  quantunque  non  abbia  trovato  alcun  documento  che 
dia  la  data  della  sua  composizione,  e  anzi  il  Mancini  pubblicando  le  opere  scritte  in 
carcere  dal  Giannone  la  ponesse  al  terzo  posto,  e  il  Pierantoni  nelle  pagine  che  ag- 
giunse alla  Vita  del  Giannone,  segua  quest'ordine.  E  ciò  per  alcune  ragioni  che  mi 
paiono  degne  di  nota.  Noi  sappiamo  soltanto,  è  vero,  che  il  Marchese  d'Ormea,  cal- 
damente supplicato  dal  prigioniero,  di  mandargli  qualche  libro,  gli  fece  tenere  sui 
primi  del  1740  le  opere  di  Lattanzio  Firmiano,  di  Sant'  Agostino,  e  più  tardi  quelle  di 
Gregorio  Magno.  L'Apologia  non  ha  data,  laddove  la  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pon- 
tificato di  Gregorio  Magno  porta  all'ultima  sua  pagina:  "  12  Settembre  1742  „  e  l'Ape 
ingegnosa:  "  16  Agosto  1744  „.  Ma  panni  logico  il  pensare  che  l'Apologia  fosse  scritta 
subito  dopo  i  Discorsi,  perchè  era  naturale  che  dopo  essersi  rivolto  al  Re,  il  Gian- 
none  provasse  a  rivolgersi  al  Padre  Prever.  E  una  lettera  che  il  12  aprile  1739 
scrisse  il  Padre  Prever  al  Giannone  allude  appunto  ad  un'  opera  promessagli ,  che 
doveva  essere  per  certo  l'Apologia. 

'•  ill°  Signore  e  Padrone  Colendissimo, 

"  Molto  mi  ha  consolato  la  sua  lettera,  la  quale  già  da  tanto  tempo  desideravo; 
mi  ha  consolato  si  per  li  sentimenti  savi  e  pii,  e  da  buon  catolico  che  ha  conservato 
nel  suo  cuore,  come  mi  ha  dimostrato  in  essa  ;  si  ancora  per  l'opera  intrapresa  con 
animo  di  perfezionarla  per  estinguere  affatto  quanto  di  scandalo  habbia  arrecato  per 
lo  passato  alli  huomini  e  per  leuar  via  ogni  ombra  di  timore  di  tornare  a  ricadere 
nelli  errori  scorsi.  Iddio  che  li  ha  guarito  dalla  longa  infermità  di  quattro  mesi  lo 
ristabilirà  per  poter  occuparsi  saviamente  nella  sudita  „  (2). 

Inoltre  all'Apologia,  finita  coll'esposizione  critica  delle  opere  di  Sant'Agostino,  fu 
aggiunto  posteriormente  un  VII  libro,  che  tratta  delle  epistole  di    Gregorio  Magno. 


(1)  Autobiografia,  pag.  257. 

(2)  Lettera  del  Padre  Prever.  Manoscritti  del  Giannone,  mazzo  III. 


206  MARTA    BEGEY 


26 


Tutto  induce  a  credere  che  quest'aggiunta  fosse  fatta,  dopo  che  profondamente  il  pri- 
gioniero le  aveva  studiate  per  la  terza  opera  sua. 

D'altra  parte  io  credo  che  V  Apologia  debba  studiarsi  a  questo  punto  della  vita 
di  Pietro  Giannone,  per  lo  svolgersi  del  suo  pensiero.  Nei  Discorsi  sulle  Deche  di 
Tito  Litio  egli  aveva  riaffermato  il  concetto  della  indipendenza  del  potere  civile  da 
quello  ecclesiastico;  e  pur  accennando  a  molte  idee  filosofiche  del  Triregno,  l'opera 
sua  aveva  un  carattere  essenzialmente  politico,  e  si  rannodava  strettamente  colla 
Storia  Civile;  ebbene  l'Apologia  ci  porta  invece  nel  campo  filosofico  e  religioso.  L'esame 
paziente  che  ne  faremo  ci  rivelerà  che  in  essa  rivivono,  modificate  nella  loro  forma, 
le  due  prime  parti  del  Triregno;  laddove  la  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di 
Gregorio  Magno  continua  il  Triregno,  nella  parte  del  Regno  Papale  di  cui  il  Giannone 
non  aveva  potuto  abbozzare  che  l'indice. 

L'Apologia  dei  Teologi  scolastici  si  apre  con  una  lunga  ossequiosa  lettera  che 
serve  di  dedica  al  Padre  Prever,  e  di  prefazione,  poiché  svolge  il  concetto  generale 
di  tutta  l'opera. 

"  Al  molto  Reverendo  P.  Gio.  Battista  Prever, 
Sacerdote  dell'Oratorio  della  Congregazione  di  San  Filippo  Neri  in  Torino. 

"In  questa  mia  solitudine,  fra' deserti  monti  delle  Langhe,  per  alleviarne  in 
parte  la  noia  e  il  tedio,  e  perchè  vieppiù  si  avanzasse  il  mio  cammino  per  quella 
strada  nella  quale  V.  R.  mi  pose  dello  studio  delle  cose  sacre  e  religiose,  ben  proprio 

e  conveniente  alla  mia  vecchiaia,  richiesi  alla  S.  V.  di  alquanti  libri Ma  fuor 

d'ogni  mia  aspettazione non  mi  furono  resi  che  quelli   di   Lattanzio  Firmiano   e 

Sant'  Agostino „. 

Segue  la  lettera  narrando  che  pur  tuttavia  ne  rese  vive  grazie  al  P.  Prever  e 
che  a  sollievo  dell'afflitto  suo  cuore  e  dell'infelice  prigionia  si  diede  allo  studio  di 
tali  opere.  Così  :  "  dopo  profonde  considerazioni  maggiormente  mi  confermai  nel  con- 
cetto ch'io  teneva  dei  Padri  antichi,  e  conobbi  che  in  questi  felicissimi  tempi  nei 
quali  i  sacri  studi  si  sono  cotanto  avanzati  e  quasi  posti  nell'ultimo  punto  di  perfe- 
zione dai  nostri  ultimi  scrittori  ecclesiastici,  i  vecchi  Padri  devono  sì  bene  vene- 
rarsi ed  aversi  in  somma  stima  ed  altresì  adoperarsi  per  ciò  che  riguarda  l'istoria 
e  la  disciplina  ecclesiastica  dei  loro  tempi,  ma  non  già  proporsi  agli  studiosi  per 
principal  materia,  anzi  tale  occupazione  dei  loro  ingegni  intorno  alla  quale  dovessero 
unicamente  aggirarsi,  sicché  non  curando  i  nuovi  scrittori  e  forse  disprezzandoli,  do- 
vesse abbondarsi  nei  sentimenti  dei  vecchi,  adottando  la  lor  dottrina  così  per  ciò  che 
riguarda  il  dogma  come  la  morale  e  la  disciplina,  facendone  rapporto  con  quel  che 
presentemente  tiene  ed  insegna  la  nostra  comune  Madre  Cattolica  Chiesa  Romana. 
Cadrebbesi  ciò  facendo  in  molti  gravissimi  errori,  in  manifeste  eresie,  in  portentosi  e 
strani  delirj  ed  in  isconci  paralogismi.  Si  piomberebbe  in  tante  contraddizioni,  confu- 
sioni e  scompigli  da  metter  sossopra  e  come  in  un  caos  tutta  la  morale,  la  dottrina 
e  la  presente  disciplina  della  Chiesa. 

"  A  questo  fine  io  reputai  esser  sempre  più  utile  e  sicuro  rivolgere  ed  aver  nelle 
mani  non  già  i  vecchi,  ma  i  nuovi  ed  accurati  scrittori,  i  quali  con  sommo  studio  e 
molta  critica,  non  discompagnata  da  profonda  dottrina  ed  erudizione,  non  solamente 


27  PER    UX'oPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANXONE  207 

han  saputo  meglio  illustrare  i  nostri  libri  sacri,  esporli  più  nettamente  senza  enimmi, 
inviluppi  e  mistiche  intelligenze,  ma  eziandio  accomodarli  al  sistema  presente  secondo 
i  nuovi  lumi  e  le  nuove  determinazioni  della  Chiesa;  e  nel  tempo  stesso  avvertire 
anche  i  lettori  dei  tanti  errori  dei  Padri  antichi,  acciò  quelli  dovessero  attentamente 
usare  e  con  molta  cautela  leggere,  né  ciecamente  abbandonarsi  alla  loro  autorità, 
senza  prima  farne  esatto  scrutinio  e  diligente  esame.  Conoscerà  V.  E.  da  questa  opera, 
che  a  torto  sono  incolpati  i  teologi  scolastici  de'  secoli  a  noi  più  prossimi  di  aver 
conturbata  la  divina  parola,  trattandola  come  una  scienza  mondana  e  quasi  essi  fos- 
sero stati  i  primi  ad  aprirsi  un  più  largo  campo  e  ad  aggiungere  alla  teologia  umana 
ragioni  tratte  dalla  filosofia  e  dalle  altre  scienze  terrene,  e  di  aver  corrotta  la  mo- 
rale, e  con  ciò  posto  il  tutto  in  disordine  e  confusione.  Al  paragone  di  quel  che  i 
primi  teologi  fin  dal  primo  secolo  della  nascente  Chiesa,  e  de'  seguenti,  fecero  me- 
scolando le  cose  divine  colle  umane,  spariscono  gli  errori  ed  i  vaniloqui  di  questi 
secondi,  i  quali  ne  divengono  tanto  più  scusabili,  quanto  che  da'  vecchi  Padri  li 
appresero,  e  in  questi  si  trovano  le  prime  origini  e  le  prime  cagioni  di  tanto  male. 
Conoscerà  ancora  V.  R.  che  quantunque  le  opere  di  Sant'Agostino,  le  quali  si  è  avuto 
studio  di  mandarmi,  in  ciaschedun  volume  portino  in  fronte  questa  sicurtà  e  malle- 
veria: "  Curavimus  removeri  ea  omnia,  quae  fidelium  mentes  haeretica  pravitate 
possent  inficere,  aut  a  catholica  et  orthodoxa  fide  deviare  „,  nulla  dimanco  troppo 
neghitosi  e  melensi  furono  questi  espurgatori,  i  quali  invece  di  darci  un  Sant'Agostino 
a  lor  credere  purgato  e  limpido,  il  resero  guasto  ed  inutile.  Non  è  questa  la  via 
di  darci  corretti  con  nuove  stampe  i  Padri  antichi,  ma  quella  a'  nostri  tempi  tenuta 
dai  più  dotti  e  prudenti  editori,  spezialmente  da'  Benedittini  della  Congregazione  di 
San  Mauro,  i  quali  quelle  opere  tutte  intere,  non  tronche,  non  mutilate,  ci  han  date 
cos'i  come  furono  scritte,  e  con  dotti  e  savii  avvisi  hanno  avvertito  i  lettori  della 
presente  disciplina  e  delle  nuove  determinazioni  della  Chiesa,  affinchè  non  si  inciam- 
passe negli  antichi  errori  e  si  sapesse  che  quel  che  prima  era  variamente  tra'  Padri 
antichi  disputato,  oggi  da'  Concilii  della  Sede  Apostolica  trovasi  deciso  ne  può  più 
cadere  in  controversia,  sicché  quella  credenza  dovesse  tenersi  che  dalla  Chiesa  ora 
s'insegna  e  professa,  senza  invilupparsi  fra  le  antiche  dispute,  e  i  discordanti  pareri. 

"  Male  de  me  aduni  foret .  se  dovessi  oggi  conformarmi  a  quelle  antiche  cre- 
denze; io  mostrerei  così  a  nulla  essermi  riuscite  le  affettuose  Sue  esortazioni  da  Dio 
ispiratele,  e  per  le  quali  fui  ridotto  a  cercar  perdono  delle  mie  follie  ed  a  ritrarmi 
de'  miei  passati  errori. 

■  Tutte  le  quali  cose  Ella  conoscerà  chiaramente  da  quest'opera,  la  quale  ho  vo- 
luto indirizzare  alla  sua  carità  e  piacevolezza  in  dimostrazione  delle  tante  obbliga- 
zioni che  le  profésso,  e  porla  unicamente  sotto  i  purgatissimi  Suoi  occhi  e  ne'  secreti 
recessi  del  Suo  cuore,  pregandola  a  non  confidarla  ad  alcuno,  affinchè  non  potendo 
per  le  sue  pietose  occupazioni  aver  tempo  di  leggere  tanti  volumi,  abbia  un  saggio 
della  dottrina  di  quei  primi  Padri  ed  avverta  i  suoi  allievi  nello  spirito  di  essere 
cauti  ed  attenti  nella  lezione  dei  medesimi  „ . 

La  lettera  finisce  chiedendo  venia  se  si  citeranno  anche  opinioni  di  teologi  pro- 
testanti per  spiegare  e  combattere  le  teorie  degli  antichi  Padri;  adducendo  che 
Sant'Agostino  stesso  citò  i  Donatisti,  Tertulliano,  ed  altri  scrittori  ancora,  già 
sospetti  di  eresia. 


208  MARIA    BEGEY  28 

L'opera  si  compone  di  due  parti:  la  prima  di  esame  critico  in  generale  delle 
dottrine  degli  antichi  Padri  della  Chiesa;  la  seconda  di  esposizione  critica  speciale 
dei  libri  di  alcuni  Padri. 

La  prima  parte  comincia  con  un  capitolo  che  tratta  delle  origini  onde  nei  primi 
della  Chiesa  derivarono  tanti  disordini  ed  irrori.  Queste  sono  per  lui  le  discussioni 
degli  antichi  teologi,  che  mescolando  la  filosofia  pagana  colla  rivelazione  cristiana 
cominciarono  a  disputare  circa  l'origine  del  mondo,  la  durata  e  il  fine;  sopra  l'uomo, 
la  natura  delle  anime  umane,  sulla  loro  immortalità,  sul  loro  stato  dopo  la  morte 
dei  corpi  e  sulla  resurrezione  dei  medesimi  ;  e  in  fine  sullo  stato  delle  anime  separate 
dai  corpi  prima  della  loro  resurrezione  e  del  giudizio  universale.  Un'  altra  cagione 
fortissima  di  confusione  e  disordini,  trova  l'Autore  nelle  predicazioni  dei  visionari  che 
tanto  abbondavano  nei  primi  secoli  del  Cristianesimo. 

Nuovi  instituti  e  nuove  massime  si  introdussero  così  poco  a  poco  dalla  Chiesa 
circa  al  governo  civile  ed  alla  potestà  dei  principi,  "  onde  segue  tanto  cangiamento 
nelle  leggi  e  nei  costumi  „  (1).  Cosi  si  intromisero  i  Padri  non  solo  circa  i  matrimoni, 
i  divorzi,  le  seconde  nozze,  ma  anche  nel  reggimento  dell'orbe  romano,  nella  milizia 
e  nella  professione  delle  armi,  nei  giuochi,  nelle  feste  e  negli  spettacoli  ;  s'intromisero 
—  audacia  anche  maggiore  — ■  nelle  leggi  contro  l'usura  e  nella  punizione  degli  eretici. 

La  fine  di  questa  prima  parte  verte  sull'austera  morale  dei  primi  Padri,  sull'abuso 
di  interpretazione  da  essi  data  ai  libri  sacri  ;  motivo  per  cui  riempirono  le  loro  scrit- 
ture ed  il  mondo  di  questioni  vane  e  ridicole,  tanto  sopra  il  nuovo  quanto  sopra  il 
Vecchio  Testamento,  e  caddero  in  tanti  errori  storici  e  cronologici,  ormai  emendati 
dai  moderni  savi  scrittori. 

La  seconda  parte  comprende  gli  ultimi  sei  libri.  Dapprima  analizza  le  opere  che 
Lattanzio  Firmiano,  professore  di  eloquenza  romana  in  Nicomedia  di  Bitinia,  "  ad 
esempio  dei  giureconsulti  i  quali  per  bene  istruire  la  gioventù  nella  giurisprudenza 
romana  aveano  composte  legali  instituzioni,  aveano  dettate  le  divine,  materia  più  alta, 
nobile  e  necessaria  „,  avea  scritte,  dedicandole  a  Costantino  Magno.  Una  breve  notizia 
su  Lattanzio,  e  un  paragone  fra  Lattanzio  e  Sant'Agostino  precedono  l'esposizione  dei 
libri  Delle  Divine  I/istituzioni.  L'autore  trova  in  Lattanzio  maggior  bellezza  di  forma 
che  in  Sant'Agostino,  ed  anche  maggior  sobrietà  nelle  idee;  ma  in  quest'ultimo,  in 
cui  vede,  è  vero,  "  il  fervido  cervello  africano  „,  apprezza  altamente  la  profondità 
dell'acume,  la  penetrazione,  l'ingegno  filosofico,  la  coltura  assai  più  larga  e  più  solida, 
dovuta  agli  studi  in  cui  Lattanzio  non  era  invece  "  cos'i  perfettamente  inteso  „  (2). 

Delle  Divine  Instituzioni  che  esamina  minutamente,  come  dei  due  libri:  De  ira  Dei 
e  De  opificio  Dei,  di  cui  dà  solo  brevi  cenni,  il  Giannone  dà  ogni  dottrina,  combat- 
tendola ed  avvalorandola  con  citazioni  di  autori  a  lui  più  vicini,  secondo  che  essa 
collima  o  no  colle  sue  idee. 

Ugualmente  procede  nei  libri  III,  IV,  V  e  VI  in  cui  tratta  degli  scritti  di 
Sant'Agostino.  Seguendo  passo  a  passo  le  Confessioni,  il  Giannone  ne  narra  la  storia, 
non  tralasciando  di  notare  quale  abuso  dell'interpretazione  di  tale  libro  facessero  i 
quietisti,  i  mistici  e  i  rigoristi.  Pure  da  Sant'Agostino  e   dalle   sue    dispute   ardenti 


(1)  Apologia  dei  Teologi  Scolastici. 

(2)  Ivi. 


29  PEE    UN'OPEB  V    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  209 

contro  i  Pelagiani  e  dai  libri  Sulla  Grazia  fa  egli  derivare  le  idee  dei  Gomorristi, 
Arminiani  e  Giansenisti.  Analizza  infine  La  Città  di  Dio,  i  libri  didascalici  scritti  a 
diverse  persone  seconde  le  richieste  che  gli  erano  fatte  (De  mendacio  contro  men- 
dacium;  De  fide  et  operibus;  De  cura  prò  mortibus  gerendo);  i  libri  polemici,  composti 
a  confutazione  degli  eretici  dei  suoi  tempi,  concludendo  col  parlare  dei  libri  scritti 
da  Sant'Agostino  per  esposizione  dell'antico  e  nuovo  Testamento. 

Il  settimo  libro  aggiunto  di  poi,  parla  in  generale  della  vita  di  San  Gregorio 
Magno  e  delle  occasioni  che  lo  spinsero  a  scrivere  le  sue  epistole,  che  espone  som- 
mariamente. È  una  parte  che  ha  poco  legame  con  quanto  la  precede. 

L'Apologia  ha  lo  stesso  carattere  d'erudizione  un  po'  affastellata  che  hanno  dal 
più  al  meno  tutti  i  libri  di  Pietro  Giannone.  I  fatti,  le  opinioni,  le  critiche  si  suc- 
cedono non  armonicamente  fusi,  ma  collegati  soltanto  dalle  idee  generali  che  infor- 
mano tutta  quanta  l'opera  sua.  Il  che  dà  un'  impronta  caratteristica  alla  forma  dei 
suoi  lavori;  forma  trasandata,  pesante,  in  certi  punti  in  cui  indugia  con  minuzie 
d'avvocato  su  piccole  questioni  ;  ma  che  si  solleva  d'un  tratto  robusta  e  nobilissima 
là  dove  egli  esprime  ciò  che  gli  arde  nell'anima.  Chi  accusò  Pietro  Giannone  di  plagi, 
come  di  una  vigliaccheria?  Molti,  ma  nessuno  di  questi,  neppure  il  Manzoni,  ne  com- 
prese il  pensiero.  Luigi  Settembrini  leva  alta  la  sua  difesa,  e  le  parole  che  egli  dice 
per  la  Storia  Civile,  possiamo  ripeterle  anche  per  gli  altri  scritti  del  Giannone:  "  La 
parte  essenziale  dell'opera,  la  parte  bella,  nuova  ed  importante  è  il  ragionamento 
sui  fatti,  non  l'esposizione  dei  fatti  „. 

Raccogliendo  il  vastissimo  materiale  dei  suoi  lavori  Pietro  Giannone  è  dominato 
da  un  pensiero  che  lo  guida,  che  lo  urge  ;  che  gli  fa  riunire  pagine  altrui  e  scrivere 
altre  di  getto  ;  e  ogni  suo  lavoro  s'informa  cosi  agli  ideali  a  cui  aspira,  e  che  egli 
propugna  con  tanto  ardore. 

Cosi  il  Summonte,  il  Parrino  ed  altri  ancora  l'hanno  aiutato  per  la  Storia  Civile; 
qualche  pedante  topo  di  biblioteca  potrebbe  anche  far  la  fatica  di  ricercare  fra  la 
polvere  dei  volumi  dimenticati  quanto  egli  abbia  tratto  da  altri  pel  Triregno,  e 
quanto  dei  libri  letti  nei  tempi  in  cui  era  libero  egli  ricordasse  in  carcere,  per  scri- 
vere le  ultime  opere  sue. 

Ma  chi  leggendo  osserva  qualche  cosa  più  della  materialità  delle  parole  stam- 
pate, può  scorgere  che  le  pagine  più  belle  di  tutti  i  suoi  libri,  dalla  Storia  Civile 
sdì' Ape  ingegnosa,  sono  quelle  in  cui  egli  difende  la  libertà  del  suo  paese  e  della  sua 
coscienza.  Per  questo  appunto  l'opera  migliore  per  la  forma  letteraria  è  quella  da 
lui  scritta  per  insegnare  al  Principe  sabaudo  il  suo  nuovo  concetto  politico  ;  per  questo 
appunto  l'Apologia,  in  cui  ha  riunito  tanta  erudizione  di  cose  ecclesiastiche,  riesce  una 
lettura  pesante,  e  solo  quando  un  concetto  qualsiasi  dei  Santi  Padri  che  egli  com- 
batte od  appoggia  gli  fa  esprimere  l'animo  suo,  o  apertamente  o  sotto  il  velo  del- 
l'ironia, egli  si  ravviva  e  ci  fa  meditare. 

Questo  circa  il  valore  letterario,  ed  ora  qualcuno  potrebbe  esaminare  quale  sia 
il  valore  dell'opera  considerata  come  critica  di  libri  sacri.  Quanta  parte  di  vero  v'ha 
nelle  osservazioni  mosse  dal  Giannone  ai  Santi  Padri?  —  L'esame  lungo,  paziente, 
minuto,  da  noi  fattone,  ci  porta  ad  una  conclusione  assai  semplice. 

L'Apologia  dei  Teologi  scolastici  ha,  rispetto  alle  dottrine  insegnate  dalla  Chiesa 
ai  suoi  tempi  ed  adesso,  lo  stesso  carattere  che  vedemmo  già  nel  Triregno. 

Sebik  II.  Tom.  LUI.  27 


210  MARIA    BEGEY  30 

Io,  clie  detesto  le  questioni  teologiche  quanto  le  detestò  Pietro  Giannone,  credo 
sarebbero  qui  perfettamente  inutili  ;  l'importanza  dell'Apologia  va  considerata  dal  lato 
psicologico.  La  prima  domanda  che  ci  siamo  fatta  incominciando  il  nostro  studio  si 
riaffaccia  : 

Quale  è  il  valore  di  quest'opera  nel  pensiero  di  P.  Giannone  ? 


VI. 

Un  esame  anche  sommario  dell' Ajyologia  ci  ha  fatto  accorti  delle  profonde  so- 
miglianze che  ha  col  Triregno.  Qual  parte  dell'anima  antica  di  Pietro  Giannone  rivive 
in  quest'opera  scritta  dopo  la  sua  conversione? 

Vediamolo.  Il  Libro  Primo  dell'  Apologia  è  il  più  importante,  per  le  considera- 
zioni generali  che  vi  si  trovano,  e  noi  potremo  dividerlo  cosi:  una  parte  d'introdu- 
zione, due  capitoli  che  riassumono  il  Regno  Terreno,  il  capitolo  quarto  che  si  riferisce 
al  Regno  Celeste;  e  infine  gli  altri  capitoli  che  rifanno  in  breve,  una  parte  del  Regno 
Papale. 

In  tutto  il  Triregno  il  Giannone  dimostra  un'antipatia  dichiarata  per  le  vane 
discussioni  teologiche  dei  Santi  Padri.  Egli  inchina  talora  dinnanzi  alle  cose  che  non 
comprende;  giunge  a  dire  in  un  punto:  che  possiamo  noi  sapere  delle  vie  di  Dio 
per  rivelare  agli  uomini  la  sua  potenza?  Ma  non  ama  le  dispute  fatte  con  sottili 
argomentazioni  cavillose.  E  lo  si  comprende  facilmente,  dato  il  carattere  del  Giannone 
e  i  suoi  convincimenti.  Una  tale  antipatia  s'accordava  in  lui  con  tante  ragioni. 

Il  suo  metodo,  il  metodo  del  Gassendi,  che  si  rannoda  così  strettamente  a  quello 
d'Epicuro,  non  può  appagarsi  di  voli  della  fantasia  intorno  a  cose  troppo  alte  o 
troppo  discordi  dalla  realtà  del  mondo  e  della  vita,  per  essere  comprese  coll'espe- 
rienza  sola.  Ciò  che  v'è  di  mistico  in  queste  dispute  gli  ripugna  come  gli  ha  ripu- 
gnato sempre  tutto  ciò  che  è  trascendentale. 

Anche  religiosamente,  non  amava  le  dispute.  Nel  Regno  Celeste,  citando  le  parole 
di  Cristo  a  Marta,  di  non  occuparsi  di  cose  terrene,  nota:  "  Assai  più  in  acconcio 
potrebbe  dire  a  costoro  (che  si  perdono  disputando)  che  sono  purtroppo  solleciti  in 
molte  cose  vane,  e  che  trascurano  quel  che  è  necessario  ch'è  un  solo,  cioè  l'osser- 
vanza dei  precetti  del  Decalogo,  la  dilezione  di  Dio  e  del  suo  prossimo  da  cui  Cristo 
disse  che  pendevano  tutta  la  legge  e  tutti  i  profeti  „   (1). 

Ma  v'è,  a  spalleggiare  questi  motivi  filosofici  e  religiosi,  una  forte  ragione  poli- 
tica; il  Giannone  vedeva  nelle  dispute  fatte  dagli  antichi  Padri  della  Chiesa  uno  dei 
mezzi  per  cui  s'era  trasformata  la  religione,  accresciuta  la  sua  potenza  politica,  e 
fatta  quindi  la  base  del  Regno  Papale.  Uno  dei  capitoli  della  parte  incompiuta  del 
Regno  Papale  doveva  avere  appunto  per  titolo:  "  Danni  gravissimi  cagionati  all'Im- 
•  pero  dall'  avere  gli  Imperatori  permesso  ai  vescovi  di  vagar  troppo  per  inutili  e 
vane  questioni  dogmatiche,  contro  il  consiglio  di  S.  Paolo  „  (2). 


(1)  Regno  celeste. 

(2)  Segno  celeste,  pag.  395. 


31  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  211 

Nelle  prime  pagine  dell'Apologia  si  scorge  nuovamente  quest'antipatia  per  le 
discussioni  teologiche;  antipatia  che  non  si  manifesta  con  aperti  giudizi  come  nel 
Triregno;  in  questo  le  dispute  erano  deliri,  qui  sono  questioni  astratte,  inutili.  Anche 
il  connubio  della  filosofia  pagana  colla  religione  cristiana  è  riprovato  meno  acer- 
bamente nella  forma;  ma  nella  sostanza  la  disapprovazione  è  la  medesima,  poiché 
nuovamente  si  riparla  delle  stesse  cose  e  delle  stesse  persone;  nuovamente  si  citano, 
ad  esempio,  Museo  e  gli  Alessandrini,  come   pure  vescovi  delle  provincie  d'Affrica. 

Da  questo  inizio  si  apre  il  libro  coi  due  capitoli  sulle  "  Dispute  intorno  alla 
creazione  del  mondo,  sua  durazione  e  fine  „  e  "  Delle  ricerche  fatte  sopra  l'uomo, 
sopra  la  natura  delle  anime  umane,  sulla  loro  immortalità,  sullo  stato  loro  dopo  la 
morte  dei  corpi,  e  sulla  resurrezione  dei  medesimi  ,, . 

Siamo  entrati  in  pieno  Triregno;  la  materia  che  informava  gli  eretici  volumi  è 
la  stessa,  subordinata  ad  un'idea  qualunque;  di  modo  che  cambia  l'apparenza  este- 
riore, ma  non  lo  spirito  di  essa.  Pensò  il  Giannone  che  sì  saggiamente  consigliava 
il  Prever  nella  dedica  a  non  mostrare  ad  alcuno  questa  sua  opera  —  che  il  Prever 
non  avrebbe  riconosciuto  gli  errori  abboniti  ;  fors'anche  questo  libro  serviva  a  spie- 
gare e  ad  avvalorare  un  punto  dell'abiura:  "  Per  ciò  che  riguarda  gli  altri  mano- 
scritti e  note  che  teneva  meco,  e  ritrovati,  non  sono  che  cartole  e  piccole  memorie, 
che  secondo  che  andava  leggendo  alcuni  Autori  io  notava,  e  sebbene  portassero  seco 
un  groppo  di  diversi  errori  non  furono  da  me  abbracciati,  ma  unicamente  per  no- 
tare gli  altrui  sentimenti  „   (1). 

Nel  Regno  Terreno,  egli,  dopo  aver  ampiamente  dimostrato  che  presso  tutti  gli 
antichi  popoli  non  vi  fu  il  concetto  di  una  felicità  oltremondana,  ed  aver  stabilito, 
appoggiandosi  ai  libri  sacri,  che  l'anima  altro  non  fosse  "  che  lo  spirito  di  Dio  che 
si  svolge  e  mescola,  e  di  sé  tutto  il  mondo  empie  e  feconda  „,  sì  che  per  questo 
spirito  "  hanno  vita,  senso,  moto  ed  efficacia  tutte  le  cose  sensibili  ed  animali  „  (2), 
ne  è  necessario  fingere  "  un  anima  „  nel  concetto  che  diedero  di  essa  il  Cartesio 
ed  il  Malebranche,  viene  a  discorrere  nella  seconda  parte  dell'origine,  durata  e  fine 
del  mondo.  Le  sue  idee  si  svolgono  così.  Cercato  dapprima  in  che  discordasse  la 
dottrina  di  Mosè  da  quella  professata  dai  filosofi  delle  altre  Nazioni  intorno  all'ori- 
gine del  mondo  e  dell'uomo,  esamina  le  opinioni  dei  fenici,  dei  greci  e  degli  egizi. 
Attraverso  a  differenze  secondarie  viene  così  a  scoprire  in  tutti  i  popoli  l'idea  mo- 
saica  che  uno  spirito  vitale  animasse  l'universa  carne.  Oppugna  perciò  validamente 
la  filosofia  del  Cartesio,  confutandone  l'opinione  delle  due  sostanze,  "  cogitante  „  ed 
"  estensa  „.  "  Non  era  meglio,  domanda,  che  fingere  nuove  sostanze  ed  idee,  dire  che 
sebbene  alla  materia  non  possiamo  attribuire  senso,  cogitazione  alcuna,  nulla  di  manco 
Iddio  sin  da  che  la  creò  comunicolle  una  tal  virtù  ed  efficacia  che  tuttavia  ce  la 
conserva,  che  disposta  e  meccanicamente  ordinata  in  una  tal  forma  e  maniera  possa 
essere  capace  di  senso  e  di  pensiero,  come  la  fece  capace  di  moto?  „  (3). 

L'ultimo  capitolo  tratta  del  modo  in  cui  la  seria  dottrina  degli  ebrei  si  conta- 
minasse dai  fantastici  ed  arditi  poeti.  E  abbozza  la  trattazione,  che  farà  poi  diffusa- 
mente nel  volume  seguente  delle  idee  circa  la  resurrezione  dei  morti. 


(1)  Abiuratìo  de  vehementi,  ecc.  Punto  III  (Vedi  documenti  pubblicati  coli' Autobiografia,  pag.  544). 

(2)  Regno  terreno. 

(3)  Ivi. 


212  MARIA    BEGEY  32 

Nel  Triregno  le  dottrine  suesposte  sono  largamente  avvalorate  dalla  discussione 
di  tutte  le  dottrine  avverse  a  quelle  del  Giannone;  nell'Apologia  queste  opinioni  av- 
verse sono  enumerate  l'una  dopo  dell'altra  senza  commento. 

L'Autore  si  è  proposto  di  pai-lare  delle  dispute  dei  Padri  Antichi,  ma  non  è  dif- 
ficile a  chi  conosca  un  poco  il  suo  pensiero  di  ritrovarvi  l'idea  sua,  talora  espressa 
semplicemente  frammezzo  ad  una  fila  d'errori,  tal  altra  con  alcune  parole  che  fin- 
gono di  contraddirla,  e  che  servono  invece  a  meglio  affermarla,  tal  altra  ancora 
sostenuta  chiaramente  coll'appoggio  di  qualche  Padre  antico  o  di  qualche  moderno 
teologo. 

Sfilano  l'una  dopo  l'altra  le  opinioni  che  intorno  alla  creazione  del  mondo  espres- 
sero i  simoniaci,  i  manichei,  saturniani,  gnostici,  euchiti,  seleuciani,  ecc.,  che  vollero 
trarre  dalla  Sacra  Scrittura  cognizioni  filosofiche  e  scientifiche,  laddove  i  libri  saeri  : 
"  non  furono  scritti  se  non  per  quanto  si  appartiene  alla  nostra  salute,  perchè  noi 

conseguir    potessimo    la    vita  eterna,  immortale  e  beata La    narrazione    di   Mosè 

della  creazione  del  mondo  non  fu  fatta  che  per  dare  una  adeguata  idea  al  suo  popolo 
di  un  solo  Iddio  onnipotente,  giusto  e  sapiente,  descrivendo  la  fabbrica  del  mondo, 
dell'uomo  e  degli  animali  e  di  quanto    è  sopra  il  cielo,  e  sopra  la  terra   si  muove, 

nutre  e  cresce,  perchè   comprendesse  il  facitore   dell'universo  essere   questo  Dio 

affinchè  maggiormente  fosse  spinto  ad  amarlo,  adorarlo,  ubbidirlo  debitamente,  ed  a 
rendergli  sacrifici  con  quella  religione  ch'egli  prescrisse.  Non  pretese  certamente 
Mosè  di  spiegare  da  filosofo  la  natura  dell'universo  e  di  quanto  in  sé  racchiude,  della 
qual  cosa  forse  quel  rude  popolo  era  incapace,  ma  volle  descrivergli  grossolanamente 
e  secondo  la  comune  capacità  e  le  comuni  idee  quanto  faceva  bisogno  al  suo  fine  „  (1). 

Chi  non  ritrova  l'opinione  espressa  apertamente  nella  Storia  Civile  e  nel  Tri- 
regno, ribadita  nei  Discorsi  sulle  Deche  dì  Tito  Livio,  che  cioè  i  libri  sacri  non  sono 
d'origine  divina?  Comunque  sia,  le  idee  filosofiche,  per  così  esprimerci,  di  Mosè,  sono 
enunciate  ed  interpretate  nel  modo  più  conforme  alle  idee  del  Triregno. 

Ne  perchè  furono  male  comprese,  ne  perchè  parecchi  santi  affermarono  idee 
false  circa  la  natura,  dovremo  noi  ad  esse  attenerci.  La  natura  va  studiata  per  sé 
stessa,  e  non  fantasticando  vanamente.  Né,  fantasticando,  si  deve  voler  dimostrare 
il  modo  con  cui  avverrà  la  fine  del  mondo. 

Ma  venendo  poi  alle  opinioni  sull'anima  nuovamente  egli  enumera  quelle  dei 
Luciferiani,  di  Tertulliano,  Lattanzio,  Agostino,  di  Tommaso  Hobbes,  degli  Ermiani, 
dei  Manichei.  Ciascuna  di  queste  opinioni  ha  qualche  commento  particolare  ;  ma  prima 
di  citare  i  Manichei  ecco  un  periodo  semplice  semplice,  che  dice:  "  Sostengono  alcuni 
che  Dio  infondesse  le  anime  nei  corpi  umani  non  già  creandole  dal  nulla  ma  deri- 
vandole dal  suo  spirito.  Del  qual  parere  sembra  fosse  stato  Teodoreto...  e  San  Gi- 
rolamo „  (2). 

Dalle  idee  sull'anima  e  la  loro  immortalità,  alla  resurrezione  dei  morti  non  v'ha 
che  un  passo.  Nell'ultima  parte  del  Regno  Terreno  egli  aveva  seguito  il  lento  tra- 
sformarsi delle  opinioni  degli  ebrei  sulla  natura  delle  anime  cui  si  diede  una  vita 
disgiunta  da  quella  dei    corpi  e  il  sorgere  della  idea    della  felicità  non    più  terrena 


(1N  Apologia  dei  Teologi  Scolastici. 
(2)  Ivi. 


33  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  213 

ma  oltremondana  promessa  ai  buoni.  Il  Regno  Celeste  entra  nell'  argomento  della 
resurrezione.  Essa,  afferma  l'Autore,  fu  promessa  fisica  e  reale  non  già  alle  nude 
anime  ma  ai  corpi.  Il  non  credere  all'anima,  come  sostanza  disgiunta  dal  corpo,  in 
nulla  oppugna  a  quest'idea  che  già  più  innanzi  esponemmo  (Vedi  Cap.  II):  alla  morte 
lo  spirito  umano  ritorna  alla  gran  massa  dello  spirito  vitale,  e  il  corpo,  composto 
di  atomi,  che  continuamente  si  mutano,  si  dissolve.  Nel  novissimo  die,  le  anime  ri- 
tolte allo  spirito  di  vita,  riprenderanno  non  il  corpo  avuto  prima,  ma  uno  che  avrà 
forma  e  figura  di  quello  di  un  tempo.  E  fra  la  morte  e  questo  novissimo  die  gli 
uomini  rimarranno  tuffati  in  un  profondissimo  sonno. 

Ebbene,  apriamo  V Apologia,  e  vi  ritroveremo  espressa  questa  dottrina  ;  vi  trove- 
remo pure  come  nelle  parti  susseguenti  del  Regno  Celeste,  che  al  modo  stesso  che  gli 
israeliti  avevano  mutato  l'idea  del  "  Regno  Terreno  „  in  "  Regno  Celeste  „  i  cristiani 
mutarono  il  tempo  dell'avvento  di  questo  regno  celeste.  Si  cominciò  gradatamente 
col  credere  che  queste  anime  conseguissero  il  premio  o  la  pena  delle  loro  azioni 
subito  dopo  la  morte,  senza  aspettare  la  resurrezione  della  carne;  il  culto  dei  santi. 
le  preghiere  pei  morti,  le  feste  in  onore  dei  martiri  aiutarono  il  formarsi  di  quella 
credenza.  Sin  che  il  Concilio  di  Firenze  sanzionò  l'opera  compiutasi  attraverso  ai 
secoli,  stabilendo  come  canone  la  visione  beatifica  dei  santi,  prima  della  resurrezione 
eterna. 

La  fine  di  questo  capitolo,  mordace  e  poco  rispettoso  nel  Regno  Celeste,  si  rad- 
dolcisce nell'Apologia,  ma  nell'uno  e  nell'altra  vediamo  l'ira  del  Giannone,  che  già 
scorge  in  questo  anticiparsi  della  vita  eterna  la  base  della  potenza  papale. 

Del  resto,  come  notiamo  nel  Triregno  man  mano  che  c'inoltriamo  verso  il  Regno 
Papale  un'aperta  ribellione,  così  nell'Apologia  i  capitoli  seguenti  sono  quelli  in  cui  il 
Giannone  maggiormente  biasima  costumanze  ed  idee.  Siamo  sempre  nel  campo  delle 
discussioni  inutili  e  vane  dei  Santi  Padri,  ma  chi  non  riconosce  nell'esposizione  di 
tutti  gli  errori  dei  Padri,  nella  nuova  massima  dei  Teologi  "  intorno  al  governo 
civile,  ed  alla  podestà  dei  Principi,  onde  seguì  tanto  cangiamento  nei  costumi  degli 
uomini  e  delle  leggi  „,  tutta  la  materia  che  si  trova  nella  prima  parte  del  Regno 
Papale? 

Poco  a  poco  i  Padri  vengono  a  pretendere  di  stabilire  dei  canoni  circa  cose  che 
non  appartengono  alla  loro  giurisdizione.  Sono  prima  delle  esagerazioni  circa  i  pre- 
cetti del  Decalogo,  poi  le  questioni  sulle  bestemmie,  spergiuri  ;  questioni  intorno  alla 
morale,  alla  proprietà,  ecc.  Essendo  questa  esplicazione  pratica  della  legge  divina 
ignota  ai  magistrati  romani  che  erano  gentili,  la  Chiesa  si  prese  la  libertà  di  dettare 
leggi,  di  dare  penitenze  spirituali  che  poco  a  poco  si  cambiarono  in  veri  giudizi 
forensi  e  pene  temporali.  Intanto  le  oblazioni  e  le  decime,  dapprima  omaggio  spon- 
taneo, divennero  obbligatorie  al  III  secolo,  e  mentre  prima  servivano  alle  cose  sacre 
ed  alla  elemosina,  si  tramutarono  poi  in  ricchezza  pel  pontefice. 

Gli  ultimi  capitoli  della  prima  parte  dell'Apologia  trattano  di  quistioni  varie,  di 
cui  pure  si  tratta  qua  e  là  nel  Triregno.  Si  noti  che  la  corrispondenza  di  testi  che 
già  esaminammo,  non  è  soltanto  nel  pensiero,  ma  talora  nell'espressione  di  esso; 
vi  sono  periodi,  pagine  intere,  quasi  identiche  nell'Apologia  e  nel  Triregno,  poiché 
non  c'è  che  la  correzione  di  qualche  frase  vivace,  gli  stessi  esempi  servono  a  dimo- 
strare che  gli  stessi  principi,  le   stesse   idee   si  riaffermano  tenacemente.  Veduta  la 


•  >[  |  MARIA    BEGEY 


o4 


corrispondenza  delle  idee  generali,  noi  non  ricercheremo  quella  delle  piccole  questioni, 
davvero  vane  ed  inutili  poiché  ci  ridurremmo  ad  un  materiale  confronto  di  pagine 
nelle  due  opere.  Anche  risparmieremo  questa  fatica  nell'esame  dei  sei  libri  che  espon- 
gono le  dottrine  di  Lattanzio,  Agostino  e  Gregorio. 

Lattanzio  Firmiano  e  Sant'  Agostino  sono  fra  gli  Autori  più  spesso  citati  nel 
Triregno,  perciò  moltissime  loro  idee  che  già  erano  state  Hi  esposte,  si  ritrovano, 
sistematicamente  ordinate,  nell'Apologia. 

Furono  i  due  Autori  mandatigli  in  lettura  nel  Castello  di  Ceva,  ed  egli  li  studiò 
a  fondo.  Di  Lattanzio  già  aveva  parlato  a  pag.  114  del  Segno  Papale,  narrando 
come,  fiorito  ai  tempi  di  Costantino,  proibisse  di  trattare  duramente  i  servi  e  ne 
facilitasse  perciò  la  manomissione;  volle  anzi  che  si  considerassero  come  fratelli. 
Così  pure  ebbe  un'austera,  sana  morale,  e  si  conformò  ai  riti  della  novella  Chiesa. 
Di  Sant'Agostino  si  parla  pure  nel  Regno  Papale,  a  più  riprese.  Pietro  Gian- 
none,  pur  biasimandone  le  ardenti  dispute,  doveva  amare  nel  vescovo  africano  l'op- 
posizione fatta  alla  supremazia  del  vescovo  di  Roma;  e  la  spiegazione  —  analoga  a 
quella  di  San  Giovanni  Crisostomo  —  che  la  potestà  data  a  San  Pietro  da  Cristo, 
non  distruggeva  quella  "  egualmente  „  data  agli  altri  apostoli. 

La  parte  che  si  riferisce  a  San  Gregorio  Magno,  e  aggiunta  poi,  è  l'eco  del 
libro  che  egli  scriverà  più  tardi:  e  l'esamineremo  implicitamente  vedendo  l'opera: 
Storia  d,_ìla  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno. 

Ma  in  questa,  come  in  tutte  le  parti  antecedenti,  quante  proposizioni  "  eretiche, 
scandalose,  o  prossime  all'eresia  „  avrebbe  potuto  trovare  un  attento  revisore! 

Se  l'opera  fosse  stata  conosciuta,  noi  avremmo  senza  dubbio  un  elenco  di  tali 
proposizioni,  somigliante  a  quello  fatto  per  la  Storia  Civile  e  ai  Discorsi  sugli  Annali 
oli  Tito  Livio.  Però  Pietro  Giannone,  scoraggiato  forse  dall'esito  del  primo  suo  libro 
dedicato  al  Re,  non  mandò  l'Apologia  al  Padre  Prever.  Nella  relazione  da  questo 
fatta  dopo  la  morte  del  Giannone  è  infatti  detto  che  l'opera  promessagli  da  Ceva, 
mai  non  gli  pervenne. 

Riunita  alle  altre  carte  dopo  la  di  lui  morte,  fu  sepolta  negli  Archivi  di  Stato  ; 
pochi  la  conobbero;  il  Mancini  ne  incominciò  la  pubblicazione  che  lasciò  incompiuta, 
il  Pierantoni  vi  accenna  appena,  come  fecero  dal  più  al  meno  tutti  quelli  che  del 
Giannone  si  occuparono;  il  Ferrari  la  giudicò  il  mezzo  con  cui  lo  storico-filosofo  si 
burlava  di  tutti  i  più  venerati  fondatori  del  culto  (1),  e  l'ingenuo  archivista  che 
elencava  i  manoscritti  del  Giannone,  dando  di  ciascuno  un'idea  sommaria,  disse  del- 
l'Apologia:  "  fu  scritta  dopo  la  sua  conversione:  laonde  sentimenti  religiosi  „. 

Né  l'uno  né  l'altro  di  questi  due  giudizi,  che  hanno  radici  in  due  opposte  pre- 
venzioni, ha  valore,  di  fronte  all'analisi  dell'opera  del  Giannone.  L'Autore  ha  esposto 
i  pensieri  suoi  come  meglio  ha  potuto:  colla  sincerità  e  coll'ironia,  talora  persino 
col  sarcasmo.  Ma  l'animo  suo  era  troppo  altero,  troppo  nobile,  perchè  possiamo  attri- 
buirgli l'idea  di  aver  voluto  burlarsi  dei  suoi  persecutori.  Egli  aveva  combattuto  e 
sofferto  tutta  la  sua  vita;  scrivendo  tornava  a  gridarle  le  sue  idee.  La  sua  anima 
vibra,  nell'Apologia,  dello  sdegno,  del  dolore,  del  desiderio  di  libertà  che  vi  è  in  tutte 


(li  Giuseppe  Ferra™,  La   mente  di  Pietro  Giannone.  Lezione   IX. 


35  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  2  1  '■> 

le  opere  scritte  da  lui  prima  della  sua  prigionia,  che  vi  è  nei  Discorsi,  che  ritrove- 
remo in  quelle  ch'egli  scriverà  di  poi. 

Ed  è  in  questa  ininterrotta  continuità  del  pensiero  del  Giannone,  in  questa 
tenacia  nei  propri  principi  come  nei  propri  eri-ori,  che  sta  il  valore  della  Apologia 
dei  Teologi  Scolastici.  Essa  non  è  una  produzione  isolata,  ma  si  collega  intimamente 
con  tutto  le  manifestazioni  del  pensiero  di  Pietro  Giannone.  Perciò  se  l'avere  il 
Pierantoni  pubblicato  il  Triregno  toglie  alla  Apologia  la  sua  importanza  come  opera 
di  erudizione  e  di  storia  ecclesiastica,  essa  rimane  documento  importantissimo  della 
vita  psicologica  del  suo  autore.  L'Apologia  è  la  logica  prosecuzione  dei  Discorsi  sulle 
Deche  di  Tito  Livio,  e  prepara  alla  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio 
Magno. 

Per  questo  valore  psicologico  dell'opera,  io  credo  sia  meglio  conservarle  il  titolo 
datole  dal  Giannone  dopo  tante  e  tante  cancellature  di:  Apologia  dei  Teologi  Scola- 
stici, piuttosto  che  adottare  quello  che  il  Mancini  si  proponeva  di  porre  in  fronte  del 
volume  :  Delle  Dottrine  morali,  teologiche  e  sociali  dei  Santi  Padri.  Che  se  quest'ultimo 
meglio  vale  a  caratterizzare  il  libro  quale  opera  d'erudizione  storica,  il  primo  meglio 
ci  dà  il  pensiero  con  cui  l'Autore  ha  collegato  le  antiche  sue  idee,  e  ci  fa  compren- 
dere come  egli  intendesse  presentarle  al  Padre  Giovanni  Battista  Prever,  convin- 
cendolo che  la  sua  conversione  lo  portava  a  sostenere  opinioni  e  Autori  dalla  Chiesa 
approvati. 

Vediamo  ora  la  relazione  che  ha  l'Apologia  colle  opere  susseguenti. 


VII. 


Gli  anni  1741  e  42  furono  dal  Giannone  impiegati  a  comporre  la  Storia  della 
Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno. 

Anche  quest'opera  ha  radice  nel  Triregno,  di  cui  anzi,  si  può  dire  che  formi 
una  parte  integrante. 

Nell'abbozzare  le  grandi  linee  generali  della  sua  opera  e  parlando  del  "  Regno 
Papale  „,  Pietro  Giannone  aveva  scritto:  "  Dovendo  noi  dunque  particolarmente  addi- 
mostrarne l'origine  e  le  vere  cagioni,  i  progressi  e  le  varie  vicende  per  poter  poi 
più  ordinatamente  procedere  in  una  materia  cotanto  intricata  ed  ampia,  è  di  mestieri, 
che  si  distingua  l'epoca  di  questo  regno  in  più  periodi  „   (1). 

Il  primo  periodo  egli  pone  fra  il  sorgere  del  Cristianesimo  e  la  conversione  di 
Costantino  Magno;  il  secondo  fra  la  conversione  di  Costantino  ed  il  Pontificato  di 
Gregorio  Magno;  il  terzo  va  dalla  morte  di  Giustiniano  e  dal  Pontificato  di  Gregorio 
Magno  insino  al  risorgimento  dell'Impero  d'Occidente  „  (2).  L'opera  è  interrotta  al 
secondo  periodo;  ma  dei  seguenti  rimane  l'abbozzo,  già  diviso,  per  i  primi  periodi, 
in  capitoli. 


(1)  Regno  papale,  pag.  16. 

(2)  Segno  papale. 


216  MARIA    BEGEY  36 

Or  bene  :  noi  troviamo  al  terzo  periodo  il  seguente  indice  : 

Capitolo  I.  —  Del  pontificato  di  Gregorio   Magno,  nel  quale  il   nuovo  Regno 
Papale  fece  notabili  progressi  non  meno  in  occidente  che  in  oriente: 

§  1.  Nelle  provincie  suburbiearie  del  Vescovado  di  Roma. 

§  2.  Nella  Liguria,  Venezia,  Istria,  Norico,  Rezia. 

§  3.  Nelle  provincie  sottoposte  al  prefetto  d'Italia. 

§  i.  Nella  Pannonia,  Dalmazia,  Macedonia,  Bulgaria. 

§  5.  Nell'Illirio  occidentale. 

§  6.  Nella  Francia. 

§  7.  Nella  Spagna. 

§  8.  Nelle  isole  Britanniche,  Anglia,  Scozia,  Ibernia. 

§  9.  Nella  Germania. 
Capitolo  II.  —  Papa  Gregorio  Magno  si  mantenne  nella  grazia  dell'Imperador 
Maurizio  fin  che  questi  visse.  S'intrigò  nelle  guerre  coi  Longobardi,  nelle  paci  e  negli 
altri  affari  politici;  ubbidiva  alla  legge  degli  Imperadori  d'Oriente;  e  la  stessa  ve- 
nerazione, fede  ed  obbedienza  continuò  coll'Imperador  Foca,  successore  di  Maurizio. 
Il  Capitolo  III  parla  dei  successori  di  Gregorio  né  c'interessa  quindi  diretta- 
mente. Bastano  i  due  primi  per  farci  comprendere  ciò  che  il  Giannone  avrebbe  scritto 
di  questo  Pontefice.  E  poiché  in  carcere  gli  si  mandano  i  libri  di  S.  Gregorio  Magno 
egli  fa  quello  stesso  lavoro  che  aveva  sperato  di  compiere  serenamente  in  libertà  a 
Ginevra. 

L'ha  dedicata,  quest'opera,  "  Ai  Lettori  „.  Il  Re  non  aveva  risposto  alla  offerta 
sua;  e  del  Padre  Prever  conosceva  l'indifferenza  e  la  diffidenza.  Egli  si  rivolge  agli 
uomini  liberi  che  leggeranno  ciò  che  liberamente  egli  scrive,  senza  più  usare  pru- 
denze di  sorta.  Il  suo  linguaggio  è  ardito  come  lo  spirito  che  informa  l'opera;  sa  che 
essa  rimarrà  sepolta  ;  ma  forse  spera  che  un  tempo  lontano  le  sue  idee  saranno  com- 
prese, e  germoglieranno  nella  coscienza  del  popolo  italiano. 

Le  epistole  di  Gregorio  sono  importantissime  per  la  conoscenza  della  disciplina 
ecclesiastica  (annunzia  egli  nella  prefazione),  perchè  danno  altresì  lumi  per  la  cono- 
scenza della  storia  civile.  Si  vedrà  per  mezzo  di  esse  "  con  quali  mezzi  questo  grande 
Pontefice  innalzasse  il  vescovado  di  Roma  a  tanta  eminenza  quanta  prima  di  lui  non 
erasi  veduta  giammai  „. 

Ed  è  nella  dimostrazione  di  questo  fatto,  che  ritroviamo  l'uomo  antico.  Nei 
quattro  libri  nei  quali  si  divide  l'opera  egli  tratta  delle  relazioni  della  Sede  Romana 
colle  Chiese  d'Oriente  e  d'Affrica;  colle  Chiese  d'Europa;  con  quelle  d'Italia  e  delle 
sue  Isole;  e  conclude  parlando  della  disciplina  ecclesiastica  lasciataci  nella  Chiesa 
dagli  ordinamenti  di  Gregorio  Magno,  e  dimostrando  come  :  "  ancor  oggi  fra  le  cose 
desiderate  debba  riporsi  un'esatta,  generale  e  compiuta  Istoria  ecclesiastica  „  (1). 

Non  ci  lasciano  un  ricordo  edificante  le  brighe  di  Gregorio  colla  Corte  di  Costan- 
tinopoli pel  titolo  di  "  episcopus  „,  né  le  lotte  per  la  supremazia  del  vescovo  di  Roma 
sui  vescovi  di  tutto  l'orbe.  Le  Chiese  d'Affrica,  che  un  tempo  avevano  fatto  un 
Concilio  (a  cui  aveva    partecipato  Sant'  Agostino    stesso)  per  invitare  il  vescovo  di 


ino  /ntpaìe,  pag.  198. 


37  PER   UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  217 

Roma  a  non  intromettersi  negli  affari  degli  altri  vescovadi,  si  staccano;  e  si  stac- 
cano pure  le  Chiese  d'Oriente.  Ne  Roma  si  dà  per  vinta,  che  per  mantenere  i  suoi 
diritti,  introduce  l'uso  di  nominare  i  vescovi  ■  in  partibus  infidelium  „,  vani  titoli,  dice 
il  Giannone,  che  somigliano  a  quelli  di  re  su  regni  perduti. 

Nello  stesso  spirito  vengono  esaminate  le  relazioni  colle  Chiese  d' Europa  e 
d'Italia. 

Dalle  Epistole  che  egli  ha  ordinate  non  cronologicamente,  ma  razionalmente, 
mostra  come  s'accrescesse  ognor  più  la  potenza  di  Gregorio.  Chi  avrebbe  mai  cre- 
duto che  il  dominio  di  Papa  Gregorio  si  sarebbe  tanto  allargato,  esercitando  egli  su 
tante  provincie  l'autorità  imperiale?  — domanda  il  Giannone  al  lettore:  ma  è  certo 
della  risposta,  perchè  il  modo  con  £iri  avvenne  questo  fatto,  egli  lo  ha  già  ampia- 
mente dimostrato. 

Del  resto  noi  ritroviamo  in  quest'opera  piccole  questioni  antiche  su  cui  il  Gian- 
none  ritorna,  direi,  con  accanimento.  La  storia  della  vera  origine  e  dei  veri  titoli 
che  esercitavano  i  re  di  Sicilia  nel  Tribunale  che  essi  chiamavano  Della  Monarchia, 
da  lui  studiata  quand'era  a  Vienna,  forma  ad  esempio  il  soggetto  del  XVII  e  XVIII 
Capitolo  del  terzo  Libro;  e  cosi  di  altre. 

Ma  ciò  che  maggiormente  ci  interessa  si  è  la  conclusione,  perchè  dimostra  come 
si  formò  la  gerarchia  ecclesiastica;  e  detto  poi  della  necessità  che  v'ha  di  una  com- 
piuta Storia  ecclesiastica,  egli  dà  precisamente  il  disegno  di  quello  che  avrebbe  voluto 
poter  fare  col  Triregno;  un  disegno  largo  che  abbracciasse  la  storia  della  religione 
gentile,  giudaica,  cristiana  e  maomettana;  poiché,  come  giustamente  nota:  "  chi  dice 
istoria  ecclesiastica  dice  istoria  di  tutti  i  collegi  ed  assemblee  di  uomini  insieme 
convenuti  per  causa  di  religione  „   (1). 

E  finisce  dicendo  :  "  Né  era  mancato  in  me  l'animo  e  l'ardire  di  intraprendere 
l'ardua  fatica,  e  ne  delineai  anche  alcune  parti  per  adattarle  insieme  e  comporre  un 
proporzionato  sistema;  ma  le  incessanti  mie  persecuzioni,  le  tante  e  varie  mie  sven- 
ture hanno  interrotto  ogni  mio  bel  disegno,  e  prolungato  questo  mio  si  misero  stato, 
sicché  oppresso  dagli  anni  e  giunto  in  sì  estrema  vecchiaia  sento  scemarmi  le  forze, 

la  memoria  svanire Che  se  la  Reale    benignità  e  clemenza  non   si    compiacerà  a 

disporre  altrimenti  di  me,  forte  temendo  che  non  abbia  a  lasciar  qui  questa  misera 
vita,  ho  voluto  a  quel  che  non  ho  potuto  io  eseguire,  altri  incoraggiare,  i  quali  forse 
con  maggior  lena  e  maggior  elevatezza  d'ingegno  potranno  adempierlo  e  lasciare  al 
mondo  un'istoria  altrettanto  per  essi  gloriosa  ed  immortale,  mentre  io  stanco  dagli 
anni,  logorato  per  lunghe  fatiche  e  da  tanti  angosciosi  infortuni  oppresso,  forza  è 
che  soccomba  e  che  qui  deponga  la  mia  stanca  e  rozza  penna. 

12  Settembre  1742  „   (2). 

La  stanchezza  che  qui  si  rivela  è  la  stanchezza  che  gli  impedisce  oramai  di 
compiere  lavori  forti  e  grandiosi. 

L'Ape  ingegnosa  lo  prova;  non  troviamo  più  in  questo  lavoro  il  vigore  delle 
opere  antecedenti  in  cui  l'intelletto  potente  del  Giannone  collegava  i  fatti  più  diversi 
ad  una  idea  madre,  e  combatteva  con  ogni  suo  libro  una  battaglia. 


(1)  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno,  pag.  1. 

(2)  Ivi,  pag.  471. 

Serie  II.  Tomo   LUI.  28 


218  MARIA    BEGEY  38 

La  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno,  che  il  Mancini  di- 
ceva "  opera  non  di  erudizione  soltanto,  ma  di  severa  critica  e  di  vigorosa  pole- 
mica „  (1),  che  il  Pierantoni  e  tutti  i  critici  di  valore  altamente  lodarono,  è  come 
l'ultimo  vivo  sprazzo  di  luce  che  manda  il  lume  morente. 

Con  forza  quasi  giovanile,  il  Giannone  ha  proclamato  alto  un'ultima  volta  il  suo 
pensiero;  oramai  scriverà  per  suo  svago,  per  sollievo  dell'animo  suo  travagliato. 
Anche  l'Ape  ingegnosa  è  schietta  rivelazione  dell'animo  suo;  e  mostra,  parmi,  nella 
disgregazione  delle  varie  riflessioni  filosofiche  che  la  compongono  e  nella  forma  tutta, 
lo  stato  psicologico  del  suo  autore. 

L'ultima  parola  della  Storia  della  Chiesa  e  la  prima  dell'Ape  ingegnosa  dicono 
lo  stesso  pensiero: 

"  L'animo  stanco  e  le  scemate  forze  non  potendo  più  sostenere  in  questa  estrema 
vecchiezza  lunghi  travagli  d'opere  lunghe  e  laboriose,  per  non  marcire  nell'ozio  e 
nella  desidia,  la  quale  anche  nei  vecchi  è  biasimata  da  Cicerone,  ho  riputato  nei 
pochi  anni  di  vita  che  mi  restano  rivolgergli  a  studi  meno  severi  e  per  la  vaghezza 
giocondi  e  per  la  varietà  meno  noiosi,  imitando  le  ingegnose  api  le  quali  nei  fioriti 
campi  di  qua  e  di  là  succhiando  dai  fiori  soavi  liquori  ne  formano  i  dolci  favi  „  (2). 

In  quest'ultima  opera,  che  il  chiaro  ingegno  di  Vittorio  Cian  ha  recentemente 
illustrato  (3),  ritornano  antichi  pensieri  espressi  qua  e  là  in  libri ,  in  lettere,  ma 
anche  qui,  non  ostante  la  vecchiaia  e  la  debolezza,  Pietro  Giannone  si  mantiene 
nobile  e  sereno  dinnanzi  alla  sventura,  come  al  pensiero  della  morte,  che  egli  dimostra 
che  non  si  deve  ne  desiderare  né  temere.  Nobiltà  e  serenità  di  cui  darà  prova 
negli  ultimi  dolorosi  anni  di  sua  vita. 

Vili. 

Le  vicende  della  guerra  per  la  successione  Austriaca  obbligavano  il  Giannone 
ad  un  nuovo  trasferimento.  La  campagna  dei  Franco-Spagnuoli  si  svolgeva  appunto 
verso  le  Langhe,  sì  che  per  allontanarne  il  prigioniero,  il  Ministro  ordinava  che  lo 
si  facesse  partire  da  Ceva  per  Torino;  ove  fu  condotto  non  più  alle  carceri  della 
Porta  del  Po,  bensì  nella  Cittadella  che  serviva  allora  come  prigione  di  Stato. 

Furono  questi  ultimi  anni  della  vita  di  Pietro  Giannone,  che  già  tanti  dolori 
aveva  sopportati,  i  più  penosi.  Un  feroce  aguzzino,  il  luogotenente  Caramelli,  aiu- 
tante del  Governatore  della  Cittadella,  Marchese  di  Cortanze,  gli  fece  patire  le  più 
atroci  iniquità,  fin  dalla  prima  sera  del  suo  arrivo.  Rubava  sulla  cibaria  che  il  Re 
passava  al  prigioniero,  1'  obbligava  a  dormire  su  un  letto  di  munizione,  gli  faceva 
soffrire  il  freddo,  la  fame,  ogni  sorta  di  torture  fisiche  e  morali.  Pietro  Giannone  fu 
trattato  peggio  di  un  volgare  delinquente,  e  la  prepotenza  del  Caramelli  si  spingeva 
persino  a  intimargli  di  confessarsi  nella  di  lui  casa  quando  faceva  comodo  alla  moglie! 

Soffrì  il  prigioniero  in  silenzio,  per  due  anni,  sempre  sperando  di  vincere  colla 
generosità  l'animo  perverso  del  Caramelli,  ma  dal  silenzio  invece  questi  prendeva 
ardire  per  aggravare  vigliaccamente  la  mano. 


(1)  Prefazione  alla  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno. 

(2)  L'Ape  ingegnosa,  pag.  1. 

(3)  Vittorio  Ciak,  L'agonia  di  un  grande  italiano  stpolto  viro,  "  Nuova  Antologia  „,  15  febbr.  1903. 


39  PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  219 

Infine  nel  maggio  del  1746  il  Giannone  indirizzava  al  Marchese  di  Cortanze  un 
memoriale  che  è  uno  dei  documenti  più  dolorosi  di  questa  storia  infelicissima,  nar- 
rando tutti  i  patimenti  sofferti,  e  ciò  con  tale  nobiltà  d'animo  che  attraverso  ai 
secoli  quelle  pagine  ci  fanno  fremere  di  pietà  e  di  sdegno. 

Il  Marchese  di  Cortanze  accolse  il  memoriale,  e  le  condizioni  del  prigioniero  si 
raddolcirono  un  poco.  Potè  ottenere  ogni  giorno  due  ore  di  passeggio  per  la  Citta- 
della, gli  fu  permesso  di  andare  in  chiesa,  di  indirizzare  una  supplica  alla  Maestà 
del  Re.  Ma  sebbene  gli  fosse  risposto  che  si  sarebbero  tenute  in  considerazione  le 
sue  domande,  anche  questa  supplica  rimase  senza  effetto.  Ne  giustizia,  né  pietà  po- 
tevano di  fronte  all'interesse  politico  per  cui  la  prigionia  del  Giannone  era  stata 
promessa  ;  e,  ciò  ch'è  peggio,  in  quei  tristi  tempi  nessun  sospetto  più  grave  poteva 
colpire  un  uomo  che  quello  d'eresia. 

Così  visse  Pietro  Giannone  gli  ultimi  suoi  anni.  La  speranza  che  a  Miolans,  a 
Torino,  a  Ceva  aveva  avuto  di  riacquistare  la  libertà  s'andava  spegnendo.  Le  tristi 
condizioni  dell'animo  suo  e  la  stanchezza  della  vita  non  gli  permisero  più  di  occu- 
parsi; eppure,  segno  della  sua  vitalità,  egli  meditava  un'opera  nuova  di  cui  disse 
il  disegno  al  Padre  Prever,  sulle  massime  del  Vangelo  e  quelle  del  mondo. 

S'egli  avesse  potuto  compierla,  una  tal  opera,  io  credo  che  non  sarebbe  stato 
come  vorrebbe  Giuseppe  Ferrari  "  l'ultimo  scherzo  dell'agonizzante  „  (1)  fatto  al 
Padre  Prever  e  a  quelli  che  lo  tenevano  prigione;  no.  Sarebbe  stato  il  coronamento 
dell'opera  sua;  egli  avrebbe  riaffermato  al  Padre  Prever  stesso,  che  tratto  tratto  lo 
visitava,  ma  che  non  fece  mai  nulla  per  addolcire  le  sue  pene  e  per  impetrargli  la 
clemenza  del  Re,  che  la  religione  di  Cristo  insegna  l'amore,  la  misericordia  e  il 
perdono. 

Ma  una  malattia  che  durò  pochi  giorni  lo  coglieva  nel  febbraio  del  1748. 

Pietro  Giannone  che  aveva  aspettato  serenamente  la  morte,  dando  prova,  come 
attesta  il  Prever,  della  tranquillità  d'animo  dei  forti,  lasciava  la  vita  il  17  febbraio, 
in  pace  con  Dio. 

Dove  il  suo  corpo  travagliato  riposi  il  sonno  eterno  noi  non  sappiamo.  Le  vi- 
cende varie  che  il  Piemonte  attraversò  impedirono  di  ricordare  il  solitario  pensatore 
morto  povero  e  oscuro  nelle  prigioni  della  Cittadella  di  Torino  ;  ma  visse  l'idea  sua 
che  germogliò  nella  coscienza  del  popolo  italiano.  Un  secolo  dopo  la  morte  di  Pietro 
Giannone,  tutta  Italia  —  dal  Piemonte  dove  aveva  finito  i  suoi  giorni,  alla  sua 
Napoli,  dove  aveva  incominciato  l'opera  di  riscossa  —  insorgeva  nel  nome  santo 
della  libertà. 

E  per  questo  suo  sogno  di  libertà,  per  tutto  ciò  che  per  essa  sofferse,  oggi  a 
distanza  di  tanto  spazio  di  tempo,  la  figura  di  Pietro  Giannone  ci  appare  purificata 
dagli  errori  a  cui  lo  portò  nel  fervore  della  lotta  la  sua  ardente  natura,  dai  travia- 
menti e  dalle  debolezze  a  cui  lo  portò  la  fragilità  umana.  Noi  c'inchiniamo  riverenti 
al  suo  nome,  cui  resero  sacro  l'amore  per  l'Italia  e  tanta  sventura. 


(1)  Giuseppe  Fereari,  La  mente  di  Pietro  Giannone.  Lezione  IX. 


220  MARIA    BEGEY    —    PER    UN'OPERA    INEDITA    DI    PIETRO    GIANNONE  40 


BIBLIOGRAFIA 


Manoscritti  del  Giannone  -  Mazzi  I-II-III-IV-V  (Archivio  di  Stato  di  Torino). 

Giannone  P.,  Storia  Civile  del  Regno  di  Napoli.  Napoli,  Naso,  1723. 

Id.  Opere  inedite,  pubblicate  per  cura  di  Pasquale  Stanislao  Mancini:  Voi.  I.  Discorsi  sugli  annali  di 

Tito  Livio.  —  Voi.  II.  Storia  della  Chiesa  sotto  il  Pontificato  di  Gregorio  Magno.  Torino,  Società 

Tipografico-Editrice,  1859. 
Id.  Seconda  parte  delle  Opere  postume  di  Pietro  Giannone,  giureconsulto  ed  avvocato  napoletano,  con- 
tenente  alcune   sue  opere  inedite   e    precedute  dalla  vita  del  medesimo  autore,  per   l'abate 

Lionardo  Panzini.  In  Londra,  1766. 
Id.  //  Triregno,  con  prefazione  di  Augusto  Pierantoni.  Roma,  Tipografia  Elzeviriana,  1895. 
Id.  Il  Tribunale    della  Monarchia  in   Sicilia.   Opera    postuma    pubblicata   da   A.  Pierantoni.   Roma, 

Loescher,  1892. 
Id.  Risposta  alle  annotazioni  critiche  sopra  il  IX'  Libro  della  Storia  Civile. 
Id.  Opere  postume,    in   difesa    della   sua  "  Storia  Civile  „  con    la   di   lui    professione    di   fede.   Napoli, 

All'insegna  della  verità,  1760. 
Id.  Lo  sfratto  da  Venezia.  Auto-narrazione  con  prefazione  di  Augusto  Pierantoni  e  documenti  inediti. 

Roma,  Loescher,  1892. 
Id.  Autobiografia.  I  suoi  tempi,  la  sua  prigionia,  di  Augusto  Pierantoni.  Roma,  Perino,  1890. 
Ferrari  Giuseppe,  La  mente  di  Pietro  Giannone.  Milano,  1868. 
Manzoni,  Storia  della  colonna  infame. 

Nuova  Antologia,  16  febbraio  1903.  Prof.  Gian  Vittorio,  L'agonia  di  un  grande  italiano  sepolto  rivo. 
Occella  Pio,  Pietro  Giannone  negli  ultimi  anni  di  sua  vita  (1736-1748).  Torino,  Bocca,  1878. 
Rivista  Contemporanea,  maggio  1869,  Giannone  e  Vico  (La  mente  di  Pietro  Giannone  -   Lezioni   di 

Giuseppe  Ferrari),  per  Raffaele  Mariano. 
Settembrini  Luigi,  Lezioni  sulla  letteratura  italiana.  Napoli,  Morano,  1886. 
Soria  Francesco  Antonio,  Memorie  storico-critiche  degli  storici  napoletani.  Napoli,  1781 
Zalla  Angelo,  Studii  storici.  Firenze,   1890. 


VITA 

DI 

CARLANTONIO    DAL    POZZO 

Arcivescovo    di     Pisa 

FONDATORE  DEL 

COLLEGIO  PUTEANO 


MEMORIA 

DI 

DOMENICO  VALLA 


Appr.  nell'Adunanza  del  3  Maggio  1903. 


PREFAZIONE 

Nel  dicembre  del  prossimo  anno  ricorrerà  il  3°  centenario  della  fondazione  del 
Collegio  Puteano,  sorto  in  Pisa  per  opera  dell'Arcivescovo  CaiTAntonio  dal  Pozzo.  La 
vita  di  questo  insigne  Prelato  fu  scritta,  verso  la  fine  del  sec.  XVIII,  da  quel  Carlo 
Tenivelli  che  fu  maestro  del  Botta  (1).  Ma  pel  rinnovato  sistema  negli  studi  storici, 
e  dopo  tanta  esumazione  di  documenti,  il  lavoro  del  Tenivelli  viene  ad  essere  alquanto 
insufficiente.  Le  fonti,  a  cui  egli  attinse  sono  tre:  la  storia  del  Galluzzi,  e  le  due 
orazioni  funebri  di  A.  Corsi  e  di  F.  Bocchi.  In  queste  ultime  abbonda  la  retorica, 
talora  a  detrimento  della  verità.  Vi  si  dice,  per  esempio,  che  il  Dal  Pozzo  non  si 
raccomandò  a  nessuno  per  ottenere  PArcivescovado  di  Pisa,  e  che  anzi  lo  accettò  a 
malincuore,  quando  finalmente  il  Papa  glie  lo  conferì.  Risulta  invece  da  una  lettera, 
sinora  inedita  (v.  pag.  5),  che  lui  pel  primo  domandò  quella  cattedra  arcivescovile, 
appena  seppe  che  era  rimasta  vacante.  Il  Galluzzi  in  quelle  poche  pagine,  dove  parla 
del  Nostro,  racconta,  al  solito,  i  fatti  senza  confermarli  coll'autorità  dei  documenti. 
Io  pertanto  mi  proposi  di  risalire  immediatamente  alle  fonti,  al  materiale  d'archivio 
sopratutto,  e  di  ricavarne  una  biografia  tutta  nuova,  in  cui  i  fatti,  vagliati  e  discussi, 
siano  altresì  corredati  dei  rispettivi  documenti. 


(1)  Il  Botta  ne  raccontò  {Storia  d'Italia  1789-1814,  Lib.  XI)  la  miseranda  morte  con   afietto    di 
discepolo  riverente. 


_»-J2  DOMENICO    VALLA 


Cenni  biografici. 

Cari' Antonio  dal  Pozzo  (1)  nacque  l'ultimo  giorno  di  novembre  dell'a.  1547  a 
Biella,  che  era  allora  una  piccola  città  con  quattro  miglia  di  circuito  soltanto  (2). 
Era  ancora  in  tenera  età  quando  perdette  la  madre,  Amedea  Scaglia,  perchè  il  padre 
suo,  Francesco,  Conte  di  Ponderano  e  dei  Marchesi  di  Romagnano,  gli  morì  nel  '64, 
allorché  già  aveva  sposato  in  seconde  nozze  Caterina  Vassallo  di  Favria.  Giovanis- 
simo, si  recò  a  Mondovì,  dove  era  stata  trasferita  l'Università  Piemontese  (3),  e  qui 
si  applicò  allo  studio  della  legge  ed  ebbe  per  Professori  i  celebri  giureconsulti  Gia- 
como Menochio  e  Aimone  Cravetta,  i  cui  scritti  sono  spesso  citati  nell'  opera  sul 
Principe  che  comporrà  più  tardi.  Da  Mondovì  passò  a  Pavia,  dove  sappiamo  che  te- 
neva una  condotta  esemplarissima  (4).  Fu  anche  a  Pisa,  Padova,  Bologna.  In  questa 
ultima  città  si  addottorò  nel  '66  a'  dì  1°  ottobre,  in  età  di  19  anni.  Il  Corsi  (5),  e, 
sulle  sue  orme,  il  Tenivelli  asseriscono  che  il  Montarenzi  si  stimò  fortunatissimo  di 
conferire  le  insegne  dottorali  a  un  giovane  così  distinto  per  nobiltà  di  natali  e  per 
copia  di  erudizione. 

Il  neo-dottore,  ritornato  a  Torino,  pare  che  si  mettesse  al  servizio  del  Card.  Bobba 
in  qualità  di  segretario,  e  che  in  quello  stesso  anno  lo  accompagnasse  a  Roma  (6). 
Probabilmente  fu  allora  per  la  prima  volta  presentato  al  Card.  Ferdinando  De'  Me- 
dici; ma  nell'eterna  città  vi  si  trattenne  per  poco;  ritornò  ben  presto  a  Torino, 
dove  attese  ad  esercitare  l'avvocatura.  Intanto  per  mezzo  del  Bobba  e  del  Card.  Fer- 
dinando facevasi  raccomandare  al  Gran  Duca  Cosimo  I  e  al  figlio  Francesco  che  a 
nome  del  padre  reggeva  lo  Stato  (7). 

Giulio  Del  Caccia,  il  quale  andava  e  veniva  da  Torino  per  sentire  i  responsi  di 
Perin  Bello  sulla  quistione  sorta  tra  Lucchesi  e  Ferraresi  (8),  è  incaricato  anche  di 
prendere  le  debite  informazioni  sul  conto  del  nostro  Carl'Antonio:  e  infatti  osserva 
e  riferisce;  alla  corte  Medicea  parla  di  lui  con  lode  e  ne  mette  in  rilievo  la  speciale 
perizia  nel  discutere  le  cause. 

Il  Gran  Duca  allora  lo  chiama  a  Firenze  ;  ed  egli  subito  si  dispone  a  partire  con 
una  lettera  rilasciatagli  da  Perin  Bello,  Consigliere  di  Stato  e  Presidente  del  Senato 


(1)  Così  egli  firmavàsi  prima  che  fosse  Arcivescovo.  In  seguito  sottoscrivevasi  Carolus  Antonius 
Puteus  Archiepiscopi^  Pisanus. 

(2)  E.  Alberi,  Relazioni  degli  Ambasciatori   Veneti.  Firenze,  1839-63,  voi.  2°  (2a  serie),   pag.  248. 

(3)  C.  Bonardi,  Lo  studio  generale  a  Mondovì,  ed.  Torino,  1885. 

(4)  Barelli,  Memorie  dell'origine,  fondazione  ecc.  dei  Chierici  Regolari  di  S.  Paolo.  Bologna,  1707, 
voi.  2°,  pag.  76. 

(5)  Corsi,  Orazione    in    lode  dell'Ili.""'  e  R.m°  Mons."  Carl'Antonio    Dal    Pozzo    Arcir.    di    Pisa. 
Firenze,  Giunti,  1808. 

(6)  Tenivelli,  Biografìe  Piemontesi  (ed.  1785).  Decade  2a,  pag.  243  e  285. 

(7)  Arch.  Mediceo,  filza  5105,  lettera  del  Gr.  Duca  al  Cardinale,  10  dicembre  1571,  f>  3737,  lettera 
del  Card.  Bobba.  Roma,  2  giugno  1572,  f»  3738,  Roma,  11  luglio  1572. 

(8)  F.  Rondolino,  op.   cit.   in    "  Misceli,  di  st.  it.  „  edita   per  cura  della   R.  D.  di  st.  patria  di 
Torino,  T.  XII  (2a  serie).  —  Adriani  G.  B.,  Istorie,  ed.  1587,  voi.  2°,  lib.  19,  pag.  1368. 


a         VITA  DI  CAKLANTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PUTEANO      223 

di  Piemonte,  e  indirizzata  a  Bartolomeo  Concini  1°  Segretario  di  Corte.  In  questa 
lettera  si  scrive:  "  ...non  ho  voluto,  perle  buone  qualità  sue,  mancare  di  far  fede  a 
V.  S.  ch'io  per  le  attioni  sue,  manifeste  non  solo  a  me,  ma  a  tutto  questo  paese,  lo 
reputo  di  tale  sufficienza  et  valore,  che  ardirò  dire  che  de  l'età  sua  trovarla  pochi  pari  in 
tutta  Italia  „  (1).  Il  Dal  Pozzo  fu  nominato  Giudice  o  Auditore  di  Ruota  (2),  ossia 
Giudice  di  Tribunale,  come  ora  si  direbbe  ;  il  qual  ufficio  non  conferivasi  se  non  ai 
forestieri.  A'  dì  2  settembre  del  1572  è  già  ricordato  come  Giudice  di  1°  Appello  del 
Quartiere  di  S.  Maria  Novella  e  S.  Giovanni  (3).  Ma  per  breve  tempo  tenne  que- 
st'ufficio: nel  luglio  del  '74  (4),  non  soltanto  nel  '75,  come  asserisce  il  Tenivelli,  è 
rivestito  della  carica  di  Auditor  Fiscale. 

D'ora  in  avanti  deve  attendere  alla  difesa  di  tutte  le  cause,  dove  il  Fisco  ha 
interesse;  deve  procurare  che  tutti  i  magistrati  della  città  osservino  le  loro  leggi; 
deve  andar  fuori  per  il  dominio  a  ricercare  se  i  popoli  si  dolgono  dei  Rettori  (5); 
deve  visitare  le  carceri  una  volta  al  mese,  e  più  o  meno  secondo  il  beneplacito  del 
Gran  Duca;  deve  farsi  mandare  dai  Rettori  una  nota  di  tutti  i  carcerati  che  hanno 
da  pagare  le  condanne  o  altri  debiti  allo  Stato  ;  deve  soprintendere  a  tutti  i  Depo- 
sitari, Camarlinghi,  Provveditori  dei  Magistrati  e  dei  Rettori  e  vigilare  per  la  riscos- 
sione dei  erediti  del  Fisco  (6). 

Il  Galluzzi  osserva  che  il  nostro  Dal  Pozzo  può  dirsi  il  primo  che  facesse  emer- 
gere fuori  dei  limiti  del  Fisco  la  sua  autorità  (7)  ;  in  altre  parole ,  fu  qualcosa  di 
più  che  Avvocato  Fiscale.  Cominciava  in  certo  qual  modo  a  far  da  Consigliere  del 
Gran  Duca  in  cose  giurisdizionali.  Trascriveremo  qui  per  disteso  una  breve  lettera 
che  conferma  quanto  noi  diciamo: 

Serenissimo  Patron  mio, 
Ho  visto,  con  quella  diligenza  et  secretezza  qual  per  ordine  di  V.  A.  mi  fu  comandatto,  li 
processi  agitatti  in  Siena  fra  Gio.  Batta  de'  Sancti  et  li  fratelli  Pontani  ;  et  tutto  considerato, 
referisco  a  V.  A.  che  per  mio  parere  la  causa  è  degna  di  revisione  :  non  mi  estenderò  in  far 
narrativa  del  fatto  et  delle  ragioni  quali  mi  moveno  per  non  infastidir  V.  A.,  al  che  però  sarò 
pronto  sempre  che  V.  A.  resti  servita  accennarlo.  Et  intanto  con  '1  cuore  a  V.  A.  faccio  humil- 
mente  riverenza. 

Di  casa  alli  20  di  febraro  1580. 

Di  V.  Altezza  Humil.mo  Servitor 
Carl 'Antonio  dal  Pozzo  (8). 

Antonino  Tessauro,  1°  Presidente  del  Senato,  e  padre  di  quell'Alessandro  che  fu 
poeta  didascalico  e  amicissimo  del  Nostro  (9),  essendo  stato  invitato  a  venire  in  To- 
scana per  discutere  una  lite  di  confini,  tiene  di  tutto  informato  il  Fiscale,  perchè  a 


(1)  Carte  Strozziane,  filza  22,  e.   161. 

(2)  Id.,  filza  39,  e.  95. 

(3)  Arch.  della  Ruota,  filza  3099,  e.  11. 

(4)  Archivio  della  Camera  Fiscale,  filza  1635,  e.  1. 

(5)  "  Rettori  del  Dominio  „  erano  i  giudici  del  contado,  i  giudici  della  città  erano  detti  Magistrati. 
1,6)  Cantini,  Legislazione  Toscana,  voi.  5°,  pag.  75-92. 

(7)  Galluzzi,  Storia  del  Granducato  di  Toscana  (ediz.  1841),  voi.  4°,  pag.  9. 

(8)  Arch.  Med.,  filza  744,  e.  180. 

(9)  Vedi  un  mio  articoletto  in  "  Arch.  stor.  it.  „,  serie  V,  tomo  XXIII,  disp.  2a,  pag.  336. 


224  DOMENICO    VALLA  4 

sua  volta  trasmetta  le  notizie  al  Gran  Duca  (1).  Dalla  congiura  de'  Pucci  (1575)  le 
confische  fatte  sui  beni  dei  congiurati  portarono  all'  erario  il  guadagno  di  30.000 
scudi.  Segno  che  il  N.  faceva  ben  bene  il  suo  dovere. 

Ed  ora  ci  si  presenta  un  fatto  curioso:  Nel  '78  il  N.  facevasi  ordinar  prete: 
tutti  i  biografi  credettero  sinora  che  quando,  più  tardi,  fu  fatto  Arciv.  di  Pisa,  fosse 
ancora  laico;  ma  nuovi  documenti,  che  ora  per  la  prima  volta  vedono  la  luce,  dicono 
chiaramente  che  nel  1582  il  N.  eragià  Protonotario  Apostolico  e  in  sacris  da  quattro 
anni  (2).  Intanto  osserviamo  il  fatto  singolarissimo  di  un  Avvocato  Fiscale  che  d'ora 
in  avanti  è  anche  prete. 

Agli  ultimi  di  maggio  di  questo  stesso  anno  (1578),  Mons.  Pacino,  Vescovo  di 
Chiusi,  trovavasi  in  pericolo  di  vita.  Il  nostro  neo-sacerdote  pregava  ben  tosto  il 
Ministro  Serguidi  e  il  Gran  Duca,  perchè  lo  raccomandassero  al  Papa  nel  caso  che 
vacasse  quel  Vescovado  (3).  0  che  il  Pacino  non  morisse,  o  che  le  preghiere  del  N. 
non  fossero  esaudite,  certo  è  che  lui,  il  Dal  Pozzo,  Vescovo  di  Chiusi  non  fu.  A'  dì 
7  aprile  dell'anno  seguente  esprimeva  al  Gran  Duca  il  desiderio  di  essere  nominato 
Coadiutore  dell'Arciv.  di  Siena:  ma  neppure  ciò  potè  ottenere  (4).  Nel  luglio  trova- 
vasi a  Bologna,  non  si  sa  se  per  ragion  d'ufficio  o  se  per  mero  caso  ;  gli  capitò  nelle 
mani  un  importantissimo  deposito  giuridico,  dove  si  diceva  che  Don  Antonio  non  era 
figlio  di  Bianca  Cappello,  come  lo  stesso  Gran  Duca  credeva,  ma  bensì  figlio  di  una 
donna  del  popolo  chiamata  Lucia  (5).  Il  Dal  Pozzo  si  affrettò  a  trascrivere  una  copia  di 
simile  documento  e  a  mandarla  al  cardinal  Ferdinando,  che  cercava  sempre  di  tenere 

informato  degli  intrighi  di  corte:  e  ciò  faceva  per   debito  di  gratitudine  verso  colui 

che  gli  aveva  procurato  il  posto  di  Auditor   di    Ruota. 

Nel  1582  morirono  a  breve  intervallo  l'uno  dall'altro  due  fratelli  del  N.  In  questa 

luttuosa  circostanza  egli  dovette  recarsi  a  Torino  per  assestare  cose  di  famiglia  (6). 

Si  recò  anche  dal  Duca  di  Savoia  e  gli  lasciò  capire  che  il  Gran  Duca  Francesco  si 

sarebbe  ritenuto  fortunato  di  dargli  in  sposa  una  delle  sue  figliuole  (7).  Fu  di  ritorno 

a  Firenze  il  19  maggio.  Carlo  Emanuele  avevagli  anche  consegnato  una  lettera  da 

rimettere  al  Gran  Duca  (8). 

La    ferita    prodottagli    dalla    recente  disgrazia   accadutagli  in  famiglia  doveva 

essere  rimarginata  da  un  caso  lieto.  A'  dì  8  giugno  rendevasi  vacante  l'Arcivescovado 

di  Pisa  per  la  morte  di  Mons.  Matteo  Rinuccini.  Subito  il  N.  dà  di  piglio  alla  penna, 

e  scrive: 


(1)  Arch.  Med.,  f»  674,  e.  297;  f  696,  e.  13;  f  701,  e.  146;  f  703,  e.  207-206;   f   306,   e.  241. 

(2)  "  Il  signor  Cari' Antonio  ha  qualità  si  bonorate  et  si  proporzionate  a  quel  carico  che  io  non  so 
dove  S.  Santità  potesse  collocarlo  meglio.  L'  età  sua  è  di  35  anni.  Già  quattro  anni  si  fece  prete, 
poiché  così  ordinò  S.  Santità...  „.  Lettera  di  Pier  UsimbarJi  al  Card.  Ferdinando  scritta  da  Firenze 
li  9  giugno  1582.  Arch.  Med  ,  filza  5109,  e.  94  e  103. 

(3)  Arch.  Med.,  filza  711,  e.  58. 

(4)  Ibid.,  filza  722,  e.  244. 

(5)  "  Rassegna  Nazionale  „,  fase.  1°  marzo  1899. 

(6)  Arch.  Med.,  Blza  754,  e.  545. 
(7.  [Lia.,  filzi  755,  e.  108-140. 

(b)  Ibid.,  filza  755,  e.  436:  "  Arrivai  due  giorni  suono,  et  poiché  spero  che  V.  A.  deva  esser  di 
felice  et  presto  ritorno,  non  havendo  a  riferirli  cosa  che  non  possa  aspettar  tempo,  mi  tratterrò  sin 
al  riturno  di  V.  A.  Et  intanto  li  mando  l'alligata  del  Signor  Duca  di  Savoia  ecc.  Di  Fiorenza  alli 
21  maggio  1582. 


5  VITA    DI    CARLANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PUTEANO  225 

Serenissimo  Signor  Patron  mio, 

Sentendo  in  questo  punto  la  morte  dell' Arciv.°  di  Pisa,  non  ho  volsuto  mancare  di  ricor- 
rere all' A.  V.  suplicandola  a  favorirmi  della  nominatone  particulare  con  S.  Santità,  come  si  è 
degnata  in  altre  occasioni,  assicurandola  che  in  qualsivoglia  fortuna  che  la  mi  porrà,  habia  da 
servirla  fedelmente,  et  ricognoscere  ogni  mio  bene  da  Lei,  alla  qual  facio  humilmente  riverenza: 
alli  10  di  giugno  1582. 
Di  V.  A. 

Burnii.""'  et  ^delissimo  Servito)- 
Carl'Antonio  dal  Pozzo  (li. 

Sbaglia  pertanto  il  Bocchi  a  scrivere:  *  Carolus  Antonius  Puteus  nemini,  ut 
sacram  dignitatem  assequeretur,  supplicava  „  (2).  Erra  similmente  il  Corsi  ad  affer- 
mare che  il  Dal  Pozzo  "  fece  grandissima  resistenza  di  non  voler  pigliare  a  portare 
sopra  le  sue  forze  di  cosi  gran  carico  „  (3).  Invano  si  arrabattano  i  due  panegiristi 
a  difendere  il  postulante  dall'accusa  da  cui  si  difende  da  per  se  dinanzi  al  tribunale 
della  storia  vera,  che  giudica  l'uomo  con  speciale  riguardo  all'ambiente  in  cui  visse. 
È  bensì  certo  che  un  pastore  di  anime,  compenetrato  dello  spirito  evangelico,  invece 
di  domandare  una  cattedra  Vescovile,  la  rifiuta  se  gli  viene  offerta;  ma  dobbiamo 
considerare  che  quelli  erano  tempi  in  cui  piscabantur  Episcopatus  (4),  e  che  allora 
sarebbe  stato  insulsamente  modesto  un  gentiluomo  che,  occupando  una  delle  prime 
cariche  civili,  non  avesse  anche  espresso  il  desiderio  di  essere  insignito  di  qualche 
dignità  ecclesiastica.  Ma  il  Dal  Pozzo,  per  sua  disgrazia,  aveva  ben  sette  competitori 
Alcuni  Fiorentini,  arguti  e  maligni  nello  stesso  tempo,  andavano  dicendo  clie,  fra 
tanti  concorrenti,  il  Papa,  per  non  far  torto  a  nessuno,  avrebbe  finito  con  dare  quel- 
l'Arcivescovado al  sagrista  di  Fivizzano  (5).  Gregorio  XIII  in  realtà  propendeva  per 
Giovanni  Alberti,  fiorentino,  Vescovo  di  Cortona  e  Ambasciatore  residente  alla  Corte 
Cesarea  (6).  Senonchè  costui  era  incolpato  di  aver  venduto  una  prebenda  per  700  sacchi 
di  grano;  e  ciò  bastava  perchè  su  di  lui  non  cadesse  la  nomina.  Il  N.  poi,  per  sua 
disgrazia,  non  era  troppo  accetto  al  Pontefice,  e  non  si  sa  per  qual  ragione;  ma 
alla  Curia  Romana  aveva  un  forte  appoggio  nel  Card.  Ferdinando,  con  cui  già  sin 
d'allora  era  carne  et  ongia  (7),  per  esprimermi  con  una  frase  sua  propria  e  comu- 
nissima  anche  oggi  nel  dialetto  piemontese. 

Questo  suo  amico  e  protettore,  la  mattina  del  7  agosto,  mentre  cavalcava  per 
Roma  insieme  col  Papa,  gli  si  accostò  tanto  da  toccargli  l'argentea  barba  per  doman- 
dargli che  risoluzione  aveva  preso  circa  l'Arcivescovado  di  Pisa.  Il  vecchio  lesse,  per 
dir  cosi,  nella  mente  del  Cardinale,  indovinò  il  suo  pensiero,  e  gli  disse  che  avrebbe 
dato  più  volentieri  quella  Chiesa  all'Alberti,  ma  che,  a  causa  della  simonia,  non  po- 
tendo risolversi  in  lui,  si  contentava  della  persona  del  signor  Cari' Antonio  (8). 


(1)  Arch.  Med.,  filza  755,  e.  616. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  9. 

(3)  Op.  cit,  pag.  20. 

(4)  Vedi  l'opera  giuridica  del  Dal  Pozzo,  voi.  4°,  e.  356  (mss.  alla  Laurenziana). 

(5)  Arch.  Med.,  filza  5117,  lettera  del  card.  Ferdinando,  29  giugno  1582  e  filza  5109,  e.  125. 

(6)  Ibid.,  filza  5109,  e.  103  e  filza  3747,  lettera  del  card,  di  Como  l'ultimo  di  giugno  1582. 

(7)  Ibid.,  filza  757,  e.  259. 

(8)  Ibid.,  filza  5117,  Roma,  7  agosto  1582. 

Sekie  II.  Tom.  LUI.  29 


DOMENICO    VALLA  b 

Strappato  così  il  consenso  Pontificio,  il  Card.  Ferdinando  scrive  al  nostro  Fiscale, 
notificandogli  il  fatto  (1),  e  contemporaneamente  scrive  al  Nunzio  di  Firenze  incari- 
candolo di  dargli  "  l'esamine  che  si  richiede  per  il  sacro  Conc.  Tridentino  „  (2). 

Ubbidì  il  Nunzio;  e,  terminato  l'esperimento,  ne  mandava  a  Roma  il  relativo 
processo  per  la  revisione  del  Pontefice  ;  il  quale  tutto  approvava,  e  a'  dì  7  settembre 
"  preconizzava  ,  il  Dal  Pozzo  Arcivescovo  di  Pisa  (3).  Il  nuovo  eletto  non  aveva  diritto 
ai  frutti  della  Chiesa,  se  entro  tre  mesi  dal  giorno  della  preconizzazione  non  rice- 
veva la  consacrazione  (4).  Il  Nostro  veniva  consacrato  verso  la  fine  di  novembre  o 
ai  primi  di  dicembre  (5).  Sin  dal  30  settembre  lo  stesso  Gran  Duca  aveva  esortato 
Mons.  Calefato  ad  accettare  l'ufficio  di  Vicario  che  il  neo-Arcivescovo  voleva  confe- 
rirgli  (6);  e  a'  dì  23  ottobre  incaricavalo  di  pigliar  possesso  della  Chiesa  (7). 

Il  Nostro,  fatto  così  Arcivescovo,  passò  alla  corte  Medicea;  ivi  si  tratteneva  per 
tutto  il  tempo  che  non  era  tenuto  alla  residenza  in  Pisa,  servendo  il  Gran  Duca  in 
qualità  di  Consigliera  Segreto.  Ciò  rilevasi  dalle  sue  lettere  scritte  da  Firenze  negli 
anni  1582-87,  ossia  dal  principio  della  sua  carriera  Episcopale  sino  alla  morte  del 
Gran  Duca  Francesco.  Suo  compito  era  di  dare  consigli,  pareri,  opinioni,  specialmente 
in  cose  giudiziarie  (8);  ma  in  realtà  entrava  un  pochino  nell'amministrazione  gene- 
rale, tanto  che  qualcuno  tentò  di  riferire  al  Papa  che  l'Arcivescovo  di  Pisa  faceva  il 
ministro,  e  che  il  Gran  Duca  mandava  la  iurisditione  spirituale  sottosopra.  A  questo 
proposito  sarà  bene  riportare  una  lettera  scritta  dall'Arcivescovo  stesso  e  diretta  al 
Serguidi,  1°  Segretario  di  Stato: 


...Huora  saprà  che  il  diavolo  ha  trovato  modo  di  tentarmi,  se  io  sapevo  far  dar  quattro 
pugnalatte  al  Nicolo  Calefatti,  alias  monsignore.  Pure  Dio  mi  aiuta,  et  non  mi  abandona  della 
gratta  sua,  et  così  in  Sua  Divina  Maestà  ho  rimesso  tutto,  et  in  S.  A.  che  è  più  tocca  di  me, 
et  so  che  difenderà  il  suo  et  mio  honore,  anzi  quello  di  Dio.  Et  adesso  è  tempo  che  V.  S.  aiuti 
et  favorisca  l'inocentia  mia,  che  mai  da  Juda  in  qua  fu  inteso  il  maggior  assassinamento.  Ho 
processato  qua  un  frate....  Questa  bestia  del  Calefatto  è  andato  a  persuader  il  frate  (ch'aveva 
promesso  di  farlo)  ch'andasse  a  Eoma   et  proponesse  di   voce    che  il   Gran  Duca  mandava   la 

iurisditione  spirituale  sottosopra  et  usurpava,  et  che  io  facevo  '1  ministro.  Et  à ordinato  un 

memoriale  di  sua  mano,  che  se  ne  facesse  due  copie,  una  per  il  Papa,  et  l'altra  per  la  Con- 
gregatione,  ma  senza  nome,  per  metter  alle  mani  il  Papa  con  S.  A.  et  nocer  a  me,  et  indriz- 
zando il  frate  al  card.  Santa  Severina.  Dio  che  vole  aiutar  l' inocenza  mia ,  et  che  costui  sia 
castigato,  ha  fatto  che  tutto  è  capitato  in  mia  mano.  Et  il  frate  m'ha  dato  ogni  cosa ,  et  ho 
tutto  in  scritto  di  mano  propria  sua.  Est  crìmen  laesae  maiestatis  et  per  conto  di  S.  A.  et  anco 


(1)  Arch.  Med.,  filza  5117,  lettera  del  Card.  Ferdinando  al  Dal  Pozzo,  Roma,  7  agosto  1582. 

(2)  Ibid.,  filza  5117,  lettera  del  Card,  al  Nunzio. 

(3)  Ibid. 

(4)  Pallavicino,  Istoria  del  Conc.  di  Trento.  Roma,  1657,  voi.  2",  pag.  816. 

(5)  Le  sue  lettere  sino  al  22  novembre  sono  firmate  VArciv."  eletto  iti  Pisa.  Dal  3  dicembre  in 
poi  sono  firmate  VArciv."  di  Pisa  senz'altro. 

(6)  Arch.  dell'Arcivescovado  di  Pisa,  Acta  Extraordinaria,  filza  15,  e.  1. 

(7)  Bibl.  Riccardiana,  mas.  2205,  e.  1. 

(8)  Arch.  Med.,  filza  1188,  3»  ultima  carta.  Parere  autografo.  Altri  pareri  v.  in  Arch.  Med., 
filza  763,  e.  644;  f»  779,  e.  82;  f*  769,  e.  508;  f*  1189,  lettera  2a  dell'inserto:  L'Arciv.  manda  al 
Serguidi  la  risposta  da  farsi  per  la  causa  dell'Avogadro;  filza  1193,  lettera  2a  dell'inserto. 


7  VITA    DI    CAELANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PUTEAXO  UliT 

contro,  proprium,  Episcopum.  Però  costui  è  laico  et  non  ha  ordini  (1)  né  benefitio ,  et  l'offitio 
non  lo  fa  nulla  (2).  Et  così  è  cognitione  delti  otto  (3).  Et  spero  che  S.  A.  lo  deva  metter  in  un 
fondo  di  torre  a  vita,  che  il  maggior  contento  non  può  fare  a  suo  padre.  Se  fosse  non  laico, 
lo  castigarei  io.  Mando  Lorenzo  a  posta,  et  mando  tutte  le  cose  iustificatissime:  lui  portare  in 
qua  l'ordine  al  Bargello  che.  lo  conduca  costì  come  V.  S.  li  ordinarà.  Et  S.  A.  si  contenti  liaver 
patienza  di  sentir  legger  tutto  questo:  è  il  demonio  et  lo  cognosco.  Non  lo  facio  per  vendetta, 
ma  perchè  anco  Dio  si  risente  per  esser  tocco  nello  honore,  et  V.  S.  sa  quanto  premano  queste 
materie.  Finisco  et  me  li  raccomando.  Di  Pisa  alli  18  di  maggio  1583. 

Solito  Servitor 
L'Arcivescovo  di  Pisa  (4). 
(Poscritto).  Bisogna  star  segretto  sino  che  il  colpo  è  fatto. 

Dire  che  l'Arcivescovo  facesse  il  ministro,  sarebbe  forse  un'esagerazione,  ma  che 
egli  avesse  molta  ingerenza  in  cose  di  capitale  importanza,  non  è  da  mettersi  in 
dubbio.  "  Nel  trattato  di  Francia  S.  A.  mi  comandò  che  se  l'accordo  di  Madama  era 
excluso,  io  andassi  udendo  et  avisando  „  (5).  Così  lui  stesso  scriveva  al  Serguidi.  Il 
Gran  Duca  gli  comandò  di  distendere  la  riforma  dello  offitio  de'  Fossi  (6),  di  pubbli- 
care una  dichiarazione,  dove  sono  annoverati  gli  obblighi  de'  mallevadori  (7).  La  let- 
tera scritta  a  Madama  (ossia  alla  Regina  di  .Spagna)  non  è  se  non  una  copia  di  quella 
scritta  dall'Arcivescovo  (8).  Il  Gran  Duca  lo  incarica  di  comprare  case  in  Pisa  del 
valore  di  450  scudi  (9). 

Nel  novembre  dell'82,  nell'occasione  che  si  recò  a  Roma  per  essere  consacrato 
Arcivescovo,  a  nome  del  suo  Patrone  dovette  supplicare  il  Papa  a  concedere  un'Ab- 
bazia al  Card.  Ferdinando  (10).  Nell'aprile  dell'84  fa  parte  della  comitiva  che  accom- 
pagna la  figlia  del  Gran  Duca,  che  va  sposa  al  figlio  del  Marchese  di  Mantova  (11). 
Circa  la  compra  del  Ducato  di  Popoli  dà  al  Gran  Duca  alcuni  avvertimenti,  facen- 
dogli conoscere  per  qual  motivo  bisognava  aprire  ben  bene  gli  occhi  (12).  Nel  maggio 
dell'85  è  mandato  a  Roma  per  presentare,  a  nome  della  famiglia  Medicea,  le  con- 
gratulazioni a  Sisto  V  della  sua  assunzione  al  Pontificato  (13).  In  ogni  circostanza  il 
Dal  Pozzo  procedeva  sempre  colla  massima  rettitudine  (14):  questa,  anzi,  era  tale 
che  se  si  fosse  regolato  così  verso  Dio,  si  sarebbe  assicurato  un  luogo  fra  i  S,udi, 
come  soleva  esprimersi  lui  stesso  (15). 


(1)  Siccome  fu  Vicario  dall'ottobre  1582  all'aprile  1583,  bisogna  supporre    che   per  tale   ufficio 
non  si  richiedessero  gli  ordini  sacri. 

(2)  non  lo  fa  nulla  =  non  gli  conferisce  alcun  carattere  sacro. 

(3)  Il  tribunale  degli  Otto  di  Guardia  e  Balia. 

(4)  Ardi.  Mediceo,  filza  1189,  lettera  8"  dell'inserto.  Per  "  inserto  „  intendiamo  sempre  l'insieme 
di  alcune  carte  riunite  e  ordinate  dentro  un  sol  foglio,  su  cui  sta  scritto:  "  L'Arcivescovo  di  l'imi  ... 

(5)  Arch.  Med.,  lettera  11»  dell'inserto  in  filza  1193. 

(6)  Ibid.,  filza  760,  e.  305. 

(7)  Areh.  Agostini,  filza  444-92,  lettera  355.  Serravezza,  4  ottobre  1606. 

(8)  Arch.  Med.,  filza  763,  e.  644. 

(9)  Ibid.,  filza  1189,  lettera  2»  dell'inserto. 

(10)  Ibid.,  filza  757,  e  246,  252  e  segg.  e  filza  1187,  lettera  7a  dell'inserto. 

(11)  Ibid.,  filza  1189,  lettera  9»  dell'inserto.  Di  Mantova,  l'ultimo  di  aprile  1584.  Ibid.,  lettera  4". 

(12)  Ibid.,  filza  764,  e.  491. 

(13)  Ibid.,  filza  1193,  lettera  3»  dell'inserto.  Pisa,  7  maggio  1585. 

(14)  Lo  stesso  Gran  Duca  scriveva:  "  L'arciv."  è  stimato  di  tale  intelligenza  et  bontà    che   non 
sia  per  permettere  che  ricevano  torto  „,  17  luglio  1583.  C.  Strozz.,  filza  142,  e.  4. 

(15)  Areh.  Med,  filza  769,  e.  488-90. 


228  DOMENICO    VALLA  8 

Xon  minore  era  la  sua  deferenza  verso  il  Patrone:  quando  si  assentava  da  Pisa 
per  recarsi  a  Roma,  a  Torino  o  altrove,  domandava  prima  licenza  (1).  Nell'ammini- 
strazione dei  monasteri,  Dell'assegnare  prebende  e  cappellanie,  spesso  non  faceva  altro 
che  eseguire  la  volontà  del  Gran  Duca  (2).  Permetteva  che  fosse  demolita  la  Chiesa 
di  S.  Donato,  perchè  il  Gran  Duca  si  servisse  del  sito  et  della  materia  per  erigervi 
una  fabbrica  (3).  Pregava  Dio  per  il  buon  accasamento  della  Principessa  (4)  e  per  il 
felice  parto  della  signora  Bianca  (5).  Insomma  si  mostrava  in  tutto  e  per  tutto  fidele 
servitor  del  Gran  Duca  e  della  sua  famiglia.  Nel  1587  Francesco  moriva:  succedevagli 
il  fratello  Ferdinando.  Esamineremo  in  un  capitolo  a  parte  gli  ulteriori  rapporti  del- 
l'Arcivescovo con  lui.  e  l'opera  prestatagli  come  Consigliere  segreto. 

Qui  vediamo  brevemente  in  qual  modo  egli  resse  la  sua  Diocesi:  Anzitutto  si 
mostrò  assai  rigido  verso  il  clero  secolare  e  regolare,  dove  serpeggiava  la  corruzione. 
Non  erano  pochi  i  preti  e  i  frati  concubinari  (6)  o  dediti  all'ubbriachezza  e  ai  ba- 
gordi (7).  L'Arcivescovo  li  faceva  talvolta  catturare  dal  Bargello  (8).  Per  punire  i 
trasgressori  di  qualunque  specie  aveva  a  sua  disposizione  le  seguenti  pene:  la  tor- 
tura (9),  i  tratti  di  corda  (10),  i  colpi  di  frusta  (11),  la  pena  vergognosa  dell'asino  e 
della  scopa  (12),  gravi  multe  (13),  e  anche  la  galera  (14).  Condannava  alla  più  stretta 
clausura  quelle  monache  che  si  mostravano  capricciosette  e  ostinate  (15). 


(1)  Arch.  Med.,  filza  1193,  lettera  3a  dell'inserto  "  L'Arcivescovo  di  Pisa  „. 

(2)  Ibid.,  filza  1189,  lettera  4"  dell'inserto.  Arch.  Agost.,  filza  citata,  lettera  107. 

(3)  Arch.  Med.,  filza  1189,  lettera  3a  dell'inserto.  6.  Sainati,  op.  cit..  ed.  1898,  pag.  154. 

(4)  Arch.  Med.,  filza  760,  e.  242. 

(5)  Ibid.,  filza  1195,  lettera  7"  dell'inserto.  Pisa,  15  novembre  1586. 

(6)  Arch.  Agost.,  filza  444-92,  lettera  183:  Firenze,  13  ottobre  1590.  Lettera  203:  Firenze, 
25  aprile  1582.  Lettera  134:  Roma,  26  agosto  1585.  Prete  Giobbe  pensa  a  mantenere  in  casa  la 
concubina,  ma  non  a  soccorrere  i  parenti  bisognosi.  Un  frate  era  stato  mandato  a  Pisa  per  fare  libri 
di  canto  ;  e  per  poter  convivere  con  due  vezzose  ragazze,  andava  dicendo  che  erano  sue  cugine. 
Un  altro  frate,  avendo  sposato  una  giovinetta,  per  non  essere  punito  voleva  far  credere  che  non  aveva 
ancora  ricevuto  i  sacri  ordini. 

(7)  Ibid.,  lettera  300  scritta  da  Firenze,  26  luglio  1599.  '  Quanto  al  prete  Ventura  V.  S.  li  faccia 
un  precetto  con  rogito  che  per  l'avenire  s'astenga  dalle  sudette  ebrietà,  bagoi-di,..  con  Preti,  et  con 
seculari  sotto  pena  della  privatione  de'  Benefizi  ipso  iure  et  facto.  Quanto  a  quel  Chierico  di  Nicosia, 
V.  S.  lo  condanni,  per  la  delatione  dell'arme,  admenatione  et  insorentie  fatte,  alla  Galera  a  bene- 
placito ;  et  se  bene  è  contumace,  se  si  saprà  dove  egli  sia,  si  procurerà  che  la  pena  non  resti  illu- 
soria ».  È  una  lettera  indirizzata  dall' Arciv.  al  suo  Vicario,  che  era  anche  Presidente  del  Tribunale 
Ecclesiastico  Diocesano. 

(8)  Ibid.,  lettera  294:  "  Quel  Don  Costanzo  non  è  in  habito  di  Prete,  et  io  ne  ho  benissimo 
notitia,  ma  in  habito  di  frate  bianco  ;  V.  S.  dia  ordine  al  Bargello  che  vadi  a  Livorno  a  farne  cat- 
tura con  manco  strepito  che  sia  possibile  „.  Firenze,  3  novembre  1598.  Lettera  203:  "  Li  mando... 
un'altra  lettera  del  sig.  Card,  di  Fiorenza  per  conto  delle  monache  convertite  fuggite  da  Perugia; 
delle  quali  potrà  avvertire  il  Bargello.  Li  mando  un'altra  lettera  di  quel  che  desidera  saper  dame 
il  sig.  Card.  Cusano  per  conto  de'  frati  di  S.  Francesco  :  V.  S.  procuri  di  darmi  tutta  quella  distinta 
relatione  che  potrà,  et  particolarmente  di  quel  frate,  che  altro  volte  io  ho  scacciato,  quale  ha  la  con- 
cubina et  figliuoli  „.  Firenze,  25  aprile  1592. 

(9)  Ibid.,  lettera  325.  Firenze,  21  settembre  1602. 

(10)  Ibid.,  filza  445-93,  lettera  scritta  da  Roma,  20  febbraio  1602. 

(11)  Ibid.,  filza  444-92,  lettera  134.  Roma,  26  agosto  1585. 

(12)  Ibid.,  lettera  citata  325. 

(13)  Ibid.,  lettere  112,  325,  346. 

(14)  Ibid.,  lettere  citate  134,  325. 

(15)  Ibid.,  lettere  119,  146,  175,  207,  266,  304. 


9  VITA    DI    CABLANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PCTEAXO  229 

Uniformandosi  ai  decreti  del  Conc.  Trid.  fondò  in  Pisa  un  piccolo  Seminario, 
ponendovi  per  maestri  preti  lodati  per  lettere ,  per  costumi  et  per  devotione  (1).  Il 
piccolo  edifizio  fu  terminato  soltanto  nel  1627  dall' Arciv.  Giuliano  De'  Medici  (2); 
l'iscrizione,  diesi  legge  al  sommo  della  porta,  mostra  l'inconsideratezza  di  colui 
che  ve  l'appose;  ivi  si  ricorda  il  religiosissimo  Giuliano  e  non  si  fa  il  minimo 
accenno  al  nostro  Dal  Pozzo  che  fu  veramente  il  fondatore  del  piccolo  Seminario,  e 
tanto  si  adoprò  per  la  prosperità  del  medesimo  (3).  Promuoveva  con  molta  facilità 
al  sacerdozio;  esultava  di  gioia,  quando  molti  seminaristi  presentavansi  per  essere 
ordinati:  "  Vi  sarà  da  far  per  tutti  in  linea  Domini  „  andava  esclamando,  tutto  con- 
tento. Si  mostrava  duro  e  inflessibile  coi  candidati  ignoranti,  e  soleva  dire:  a  Ecclesia 
non  .  gei  asinis  ferratis  sed  viris  litteratis  „  (4).  Fece  ristaurare  il  palazzo  Arcivescovile, 
spendendovi  una  gran  quantità  di  danari,  come  dice  nel  suo  testamento;  al  principio 
del  sec.  XIX  il  Da-Morrona  nell'ornato  delle  finestre  vi  leggeva  ancora  le  parole 
Carolus  Antonina  Puteus  Àrdi.  (5).  Nel  1595,  la  notte  del  24-25  ottobre,  l'antichis- 
simo Duomo  di  Pisa  veniva  miseramente  distrutto  da  un  incendio:  le  centinaia  di 
colonnine  eleganti,  le  bellissime  porte  di  bronzo,  decorate  di  fini  scolture  che  stavano 
a  rappresentare  gli  inizi  dell'arte,  furono  inesorabilmente  consunte,  come  se  fossero 
state  di  cera  (6).  Di  cosi  mirabil  machina  non  restarono  che  le  pareti,  due  cupole  e 
alcune  preziose  reliquie.  Grande,  immenso  fu  il  dolore  dell'Arcivescovo  per  sì  grave 
disgrazia,  siccome  ci  attesta  una  sua  lettera  scritta  da  Firenze  a  Giuseppe  Bocca, 
Vicario  Generale  (7).  Ma  il  suo  animo  profondamente  addolorato  doveva  trovare  un 
conforto  nella  religiosità  del  Gran  Duca.  Questi  donò  subito,  per  la  ricostruzione, 
12.000  scudi,  pubblicò  un  bando  per  il  rincaro  del  sale  (8),  nominò  una  commissione 
di  quattro  Deputati,  i  quali  dovevano  procurare  che  ogni  cosa  si  facesse  con 
discorso  e  giudizio  (9).  Ed  intanto  dava  gli  ordini  opportuni,  che  venivano  trasmessi 
ai  Deputati  per  mezzo  dell'Arcivescovo. 

Questi  poi  impartiva  altri  ordini  per  volere  proprio.  Ordinava  che  Gian  Bologna, 
il  celebre  scultore,  mettesse  subito  mano  agli  angioli,  perchè  essendo  vecchio  poteva 
mancare  da  un  momento  all'altro  (10).  Voleva  che  il  Portigiani  non  si  assumesse  altri 
impegni  fino  a  che  non  avesse  finito  di  lavorare  attorno  alle  porte  (11);  sollecitava 
i  Deputati,  perchè  i  lavori  fossero  terminati  quanto  prima  (12);  li  avvertiva  del  tempo 
opportuno  per  porgere  suppliche  al  Gran  Duca  (13).  E  questa  fu  collaborazione  morale, 
diciamo  così;  ma  fu  largo  anche  di  soccorsi  materiali  e  positivi.  Donò  500  scudi  (14) 


(1)  Arch.  Agost.,  lettera  254.  Dall' Ambrogiana,  30  novembre  1596. 

(2)  Sainati,  op.  cit,  pag.  9. 

(3)  Arch.  Agost.,  filza  444-92,  lettere  127,  129,  130,  166,  191. 

(4)  V.  l'opera  sul  Principe,  voi.  2°,  cod.  47,  e.  36  tergo. 

(5)  Da  Morkona,  op.  cit.,  voi.  3",  pag.  338. 

(6)  Settimanni,  Diario,  voi.  5",  pag.  423-24.  —  Navarbette,  Memorie  Pisane,  voi.  2°. 

(7)  Arch.  Agost,  filza  444-92,  lettera  244.  Fiorenza,  25  ottobre  1595. 

(8)  Cantini,  op.  cit.,  voi.  XIV,  pag.  130. 

(9)  "  Arch.  stor.  it.  ,  (1844),  tomo  VI,  parte  1%  pag.  118. 

(10)  Arch.  Agost.,  filza  444-92,  lettere  330  e  340. 

(11)  Arch.  dell'Opera.  Filza  cit.,  lettera  500.  Firenze,  14  luglio  1601. 

(12)  Ibid.,  lettera  116.  Siena,  16  giugno  1596;  lettera  134.  Firenze,  3  agosto  1596. 

(13)  Ibid.,  lettera  101.  Firenze,  18  maggio  1596. 

(14)  Archivio  dell'Opera  (Arch.  di  Stato  -  Pisa),  Registro  1256,  e.  1. 


230  DOMENICO    VALLA  10 

pagati  in  tre  rato  dal  suo  amministratore,  cioè  dal  canonico  Sabini.  Donò  ricchissime 
paramenta  di  broccato  d'oro,  le  quali  furono  riposte  nella  sagrestia  che  ora  chiamasi 
dei  canonici,  dove  si  conservano  tuttora  (1).  La  relativa  iscrizione  (2),  posta  sulla  guar- 
daroba che  le  racchiude,  dice  che  non  si  possono  adoperare  se  non  dall'Arcivescovo 
celebrante.  Lo  stupendo  Crocifisso  di  bronzo  che  si  vede  ancora  sull" Aitar  Maggiore 
e  i  due  bellissimi  candelieri  sorretti  da  due  angioli  parimenti  di  bronzo,  che  ora 
sono  alle  due  estremità  della  grande  balaustra  del  Presbiterio  (mentre  prima  sta- 
vano accanto  all'altare),  sono  doni  fatti  dall' Arciv.  Dal  Pozzo.  Sia  il  crocifisso  che  i 
due  angioli  sono  opera  di  Gian  Bologna.  Il  crocifisso  poggiava  prima  sur  un  piedi- 
stallo in  forma  di  Monte-Calvario,  sul  quale,  dalla  parte  verso  il.  Coro,  l'Arcivescovo 
aveva  fatto  porre  un'iscrizione,  dettata  da  lui  stesso  (3).  Non  solamente  il  Duomo,  ma 
anche  la  Chiesa  detta  dei  Cavalieri,  quella  di  San  Francesco,  e  molte  altre  furono 
ristaurate  mentre  vivevano  il  Gran  Duca  e  l' Arciv.  Dal  Pozzo.  Quegli  nelle  cose  di 
Chiesa  mostravasi  molto  benigno  verso  il  suo  Consigliere:  accresceva  le  entrate  di 
alcune  Parrocchie  meno  ricche  delle  altre  (4),  concedeva  grazie  a  piene  mani;  buono 
come  egli  era  (5),  annuiva  quasi  sempre  alle  suppliche  che  i  preti  Pisani  gli  porge- 
vano, dietro  suggerimento  dell'Arcivescovo. 

Questi,  per  mezzo  del  Vicario,  esortava  il  Capitolo  (6),  i  Rettori  delle  chiese  (7), 
degli  ospedali  (8),  dei  monasteri  (9)  a  chieder  favori,  li  avvertiva  del  tempo  oppor- 
tuno, e  intanto  li  assicurava  della  sua  protezione,  dicendo:  "  et  io  vedrò  quello  si 
possa  fare  „  (10).  Cosi,  per  es.,  scriveva  al  Vicario:  "  Dica  al  Curato  di  S.  Jacopo 
che  io  l'aiuterò,  acciò  che  ottenga  da  S.  A.  la  grafia  ,  (11).  Un'altra  volta:  "  V.  S.  dica 
(al  Pancucci)  che  facia  una  suplica  a  S.  A.  et  mi  si  mandi,  che  io  non  mancarò  di 
aiutarlo  „   (12). 


(1)  Donò  anche  60  legni  di  abete  che  gli  erano  stati  offerti  dai  monaci  del  Sacro  Eremo  di 
Camaldoli.  —  Qui  possiamo  ancora  ricordare  che  il  nostro  Arcivescovo  fece  porre  sul  famoso  cam- 
panile, che  è  conosciuto  col  nome  di  torre  pendente,  una  campana  nuova,  la  quale  ancora  adesso  è 
chiamata  il  Pozzetto.  Così  mi  disse  il  Sainati,  dotto  canonico  Pisano,  autore  del  Diario  scerò  tante 
volte  citato. 

(2)  Tenivelli,  op.  cit.,  pag.  290. 

(3)  "  Bisogna  anche  pensare  a  far  un  pie'  di  stallo  in  forma  di  monte  Calvario  al  Crocefisso 
sopra  l'Aitar  Grande  et  una  inscritiione  di  marmo  al  rovescio  dell'Aitar,  dove  si  facci  memoria  del 
Crocefisso  che  io  dono,  et  manderò  Ir  parole  che  s'hanno  »  scriver  „.  Firenze,  17  agosto  1602.  Ardi.  del- 
l'Opera. Filza  di  lettere  sulla  ristaurazione  del  Duomo.  L'iscrizione,  di  cui  qui  si  parla,  è  riportata 
dal  Martini  Theatrum  Basilicae  Pisanae,  pag.  36,  e  dal  Mattei,  op.  cit.,  pag.  212. 

(4)  Arch.  Agoat.,  lettera  285.  Dall'Ambrogiana,  13  luglio  1598. 

(5)  Al  principio  del  suo  governo  fece  coniare  una  medaglia,  dove  si  vedeva  uno  sciame  d'api 
col  re  in  mezzo,  che,  siccome  osservano  i  naturalisti,  mancava  dell'aculeo.  Con  ciò  il  nuovo  Gran 
Duca  voleva  significare  che  l'imperio  saria  senza  rigore.  G.  E.  Saltini,  Storia  del  G.  D.  Ferdinando. 
Firenze,  1880,  pag.  30. 

(6)  Arch.  Agost.,  lettera  216.  Maggia,  12  dicembre  1592. 

(7)  Ibid.,  lettere  170,  181-183. 

(8)  Ibid.,  259.  Firenze,  29  maggio  1597.  Manda  al  Vicario  un  modulo  di  una  deliberazione  da 
farsi  in  favore  dell'Ospedale  "  Del  Grasso  „  di  Pisa. 

(9)  Ibid.,  223,  227,  313,  314. 

(10)  Ibid.,  lettera  148.  Firenze,  8  novembre  1587;  lettera  317.  Firenze,  14  luglio  1601. 

(11)  Ibid.,  170.  Livorno,  27  marzo  1589. 

(12)  Ibid.,  181.  Firenze,  Il  agosto  1590. 


11  VITA    DI    CARLANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PUTEANO  231 

In  conclusione  l'affetto  e  la  riverenza  del  Gran  Duca  verso  l'Arcivescovo  ridon- 
davano anche  a  vantaggio  della  Diocesi  Pisana. 

Bisognerebbe  ora  accennare  ad  altre  opere  lodevolissime  compiute  dal  Nostro, 
come  sarebbe  la  fondazione  del  Collegio,  della  Commenda  Putea,  della  Cappella 
Puteana:  ma  di  tutte  queste  cose  parleremo  altrove  in  modo  particolare.  Qui  basterà 
osservare  come  nella  Cappella  Puteana,  la  quale  trovasi  nel  Camposanto  Urbano,  il 
nostro  Arcivescovo  nell'a.  1600  si  fece  preparare  il  suo  sepolcro.  Indi  sopravvisse 
ancora  sette  anni.  In  questo  scorcio  di  vita  soleva,  durante  l'estate,  recarsi  in  vil- 
leggiatura a  Serravezza,  paesetto  poco  distante  da  Massa-Carrara,  rinchiuso  in  angusta 
valle,  tra  alte  colline  terminanti  in  vette  aguzze  e  dentellate.  Aveva  a  sua  disposi- 
zione la  villa  Medicea:  Quivi  tra  i  laghetti  e  i  mirteti,  al  rumorio  dei  giuochi  d'acqua 
zampillante  egli  sfogliava  i  suoi  cari  libri  di  diritto.  In  questa  beata  solitudine  egli 
ebbe,  diciamo  cosi,  la  fortuna  di  morire.  Era  il  13  luglio  del  1607.  Il  nostro  Prelato 
giaceva  in  letto  da  sette  giorni  assalito  da  grave  malattia,  e  non  voleva  esser  per- 
suaso del  suo  male.  Volendo  esser  medico  da  pei-  sé,  diceva  di  non  aver  febbre,  o 
tutto  al  più  diceva  di  non  aver  altro  che  un  poco  di  catarro  nella  testa.  Il  canonico 
Sabini,  che  lo  assisteva,  avrebbe  voluto  scrivere  al  Gran  Duca,  al  medico  Fonseca  e 
ad  altri;  ma  l'Arcivescovo  avevagli  minacciato  un  aggravio  penale  per  dissuadernelo. 
Ciò  non  di  meno  il  buon  Canonico  che  sfavagli  sempre  al  fianco,  e  che  nutriva  vera- 
mente affezione  per  lui,  a  sua  insaputa  aveva  scritto  a  Marcello  Accolti,  uno  dei 
segretari  del  Gran  Duca,  e  al  Fonseca.  Quando  poi  vide  che  le  cose  peggioravano 
sempre  più,  non  esitò  a  chiamare  immediatamente  vari  medici  anche  contro  il  divieto 
dell'ammalato.  Ve  ne  accorsero  tre  (1);  ma  furono  la  causa  della  sua  morte:  Poiché 
non  si  peritarono  di  estrargli  ben  50  Jionce  di  sangue  per  la  vena  del  braccio  destro. 
Naturalmente  con  una  tal  diminuzione  di  sangue  sarebbe  stato  oppresso  anche  un 
uomo  robustissimo  nel  pieno  vigor  delle  sue  forze,  non  che  un  povero  vecchio  di 
sessant'anni:  il  quale  subito  dopo  l'operazione  cadde  in  estrema  sonnolentia:  non  parlava 
più,  non  moveva  più,  non  dava  più  nessun  segno  di  vita:  Erano  le  24  hore  sonate. 
Il  Sabini  lo  credeva  già  morto,  e  non  lo  era  ancora.  Ma  quando  il  Gran  Duca  rice- 
veva la  triste  notizia  della  grave  malattia,  il  povero  Arcivescovo  già  da  alcune  ore 
aveva  esalato  l'ultimo  respiro  (2).  "  E  morto  un  huomo  di  vita  innocente  et  di  gran- 
dissima integrità  et  valore,  et  a  noi  ha  fatto  in  tutti  i  conti  sempre  grandissimo 
aiuto  et  servitio  con  la  sua  singolare  prudenza  et  dottrina,  et  ce  ne  dispiace  infini- 
tamente „  (3).  Così  esprimevasi  Ferdinando,  scrivendo  ad  un  suo  Ambasciatore. 

Fu  fatta  l'autossia  del  cadavere,  e  se  "  li  trovò  cuor  crudo  e  vizo,  milza  gran- 
dissima e  piena  e  guasta,  borsa  di  fiele  grande  e  piena  di  humore  detto  bile,  fegato 
nella  punta  assai  puntato,  e  lo  stomaco  ripieno  d'un  poco  humor  bilioso,  ecc.  „.  In- 
somma si  constatarono  tutti  gli  effetti  che  poterono  produrre  l'itterizia  malcurata  e 
non  per  tempo,  e  l'enorme  quantità  di  sangue  sottratta  dall'indiscreto  cerusico.  Il 
cadavere  fu  trasportato  a  Pisa  per  essere  seppellito  nel  sepolcro,  da  sette  anni   pre- 


Ci)  Il  medico  locale,  quello  di  Pietrasanta,  e  un  terzo,  di  cui  non  si  dice  donde  venisse. 

(2)  "  Morse  (=  morì)  venerdì  notte  alle  7  hore  „  ossia  alla  mattina  del  sabato,  14  luglio.   Non 
so  come  mai  l'Ughelli  abbia  potuto  scrivere  che  la  morte  avvenne  il  giorno  18. 

(3)  Ardi.  Med.,  filza  3502,  lettera  14  luglio  1607,  indirizzata  a  Giov.  Niccolini  Ambasciatore  a  Roma, 


232  DOMENICO    VALLA  12 

parato;  i  precordi  però,  ciò  che  non  fu  mai  osservato  da  nessuno,  furono  racchiusi 
in  un'urna  a  parte  e  tumulati  nella  Chiesa  Parrocchiale  di  Serravezza,  precisamente 
nella  Cappelletta  della  Concezione  accanto  all'altare  in  eornu  Evangelii.  Così  almeno 
dice  la  tradizione,  ma  bisogna  ben  guardarsi  dal  credere  che  la  pietra  quadrangolare, 
che  ivi  si  trova,  ricordi  questo  fatto:  ne  lo  stemma,  ne  l'iscrizione,  che  ivi  si  vedono, 
riguardano  l'Arcivescovo  Dal  Pozzo. 


II. 
Carattere  e  coltura  dell'Arcivescovo. 

Un  certo  Tommaso  del  Rosso,  quando  seppe  della  malattia  del  Nostro,  faceva 
voti  per  la  sua  guarigione  a  ciò  che  la  verità  si  mantenesse  (1).  Per  comprendere  il 
significato  di  queste  parole,  bisognerà  osservare  che  il  Dal  Pozzo,  anche  dopo  che  fu 
fatto  Arcivescovo,  discuteva  non  di  rado  liti  fra  privati  (2).  In  ogni  caso  si  proponeva 
di  difendere  sempre  la  verità  e  nient'  altro  che  la  verità. 

"  Ne  preghi  di  amici,  né  raccomandazioni  di  parenti,  ne  favori  di  potentissimi 
Signori,  ne  offerte  d'argento  e  d'oro  ebbero  già  mai  potere  di  farlo  torcere  dal  dritto 
sentiero  della  giustizia  „  (3).  Niccolò  del  Troncia  lo  supplicava  a  raccomandarlo  in 
una  quistione  consistente  in  puncto  iuris;  ma  lui  gli  faceva  sapere  che  sembravagli 
soverchia,  per  non  dire  inutile,  la  raccomandazione  (4).  II  nostro  Arcivescovo  era 
dunque  giusto,  equanime,  imparziale:  viceversa  poi  era  sottile,  minuzioso,  inesorabile 
indagatore  della  colpa.  Assaliva  il  reo  con  tante  domande,  con  una  requisitoria  cosi 
stringente  da  intimorirlo,  confonderlo,  annientarlo.  Ecco  un  saggio  di  queste  sue  ter- 
ribili investigazioni.  È  il  brano  di  una  lettera  indirizzata  al  suo  Vicario:  "  V.  S.  chiami 
quel  Puntorno  (5)  et  li  faci  un  constituto  et  li  dia  il  giuramento  come  principale  in 
facto  suo  et  come  in  facto  alieno,  rimostrandoli  le  pene  et  preiuditii  delli  testimoni 
falsi  tanto  in  dire  il  falso  quanto  in  occultare  il  vero:  et  lo  interroghi  quanti  anni 
ha  riscosso  queste  entrate,  et  per  chi,  che  conto  n'ha  tenuto,  et  che  ne  dia  copia 
sopra  che  gli  ha  riscosso:  et  che  campioni  liaveva,  et  che  sorte  di  scritture  haveva 
del  Hospitale  et  quali  et  quante,  et  a  chi  l'ha  date,  et  se  l'ha  havute  sotto  inven- 
tario, et  se  erano  altre  che  quelle  che  a  V.  S.  sono  state  consegnate  et  che  tenore 
et  qualità  et  similia  „  (6). 

Merita  di  essere  esaminato  il  suo  testamento  (7),  che  comprende  ben  ottantasei 
pagine  scritte  in  carattere  fitto  e  minuto.  È  addirittura  un  ginepraio,  un  miscuglio 


(1)  Ardi.  Med.,  filza  942,  e.  182  tergo. 

(2)  "  La  lite  del  Lucchese  vedrò  d'espedirla  „.  Arch.  Agost,  lettera  112.  Vedi  anche  Arci.  Med., 
filza  759,  e.  508. 

(3)  Corsi,  op.  cit.,  pag.  25-26. 

(4)  Arch.  Agost.,  lettera  123.  Firenze,  10  dicembre  1583. 

(5)  Era  Camarlingo  dell'Ospedale  detto  del  Grasso.  Sembra  che  avesse  pochi  scrupoli  di  coscienza, 
e  si  arricchisse  a  danno  dell'Ospedale. 

(6)  Arch.  Agost.,  lettera  266.  Firenze,  5  luglio   1597. 

(7)  Archivio  Generale  dei  Contratti  Testamenti,  filza  593,  15,  n°  22. 


13  VITA    DI    CARLAXTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PTJTEANO 

di  bolle  e  di  brevi  Pontifici,  rescritti  Granducali,  citazioni  di  strumenti  e  di  altri 
testamenti  fatti  prima:  clausole,  prescrizioni  capricciose,  accompagnate  da  un  formu- 
lario tutto  giuridico,  arido,  prolisso  :  notizie  dettagliatissime  di  tutti  i  suoi  beni, 
alcuni  dei  quali  sono  da  lasciarsi  agli  uni,  altri  ad  altri,  con  oneri  e  privilegi  per 
questi  e  non  per  quelli.  Il  testatore  ha  l'occhio  a  tutto,  sia  alle  piccole  che  alle 
grandi  cose.  Pensa  a  tutte  le  conseguenze  possibili,  a  tutte  le  circostanze  di  tempo, 
di  luogo,  di  causa  e  via  dicendo.  Fa  delle  ipotesi  studiate,  lambiccate,  arzigogolate 
con  una  logica  sottilissima ,  involuta  come  i  ricami  della  sua  cotta  arcivescovile. 
Siffatto  modo  di  scrivere  e  di  pensare  era  frutto  dei  suoi  studi  giuridici.  Il  Nostro 
adunque  era  un  valente  giureconsulto:  lo  vedremo  anche  meglio  quando  daremo  uno 
sguardo  all'opera  sua  principale. 

Ma  non  era  un  buon  letterato.  La  menzione  della  frase  virgiliana  tu  nihil  invita 
dicas  faciasve  Minerva  (1),  e  l'uso  di  questo  verso  del  Petrarca  l'idolo  mio  scolj>;l<i  in 
verde  lauro  (2),  per  designare  un  suo  amico  che  si  chiamava  Lauro  (3),  ecco  le  uniche 
tracce  della  scarsa  coltura  letteraria,  che  potè  avere  il  N.  Le  sue  lettere  sono  scritte 
in  uno  stile  negletto,  stentato,  e,  direi  quasi,  matematico.  Se  fosse  non  laico,  lo  casti- 
garci io  (4):  ecco  un  esempio.  Molte  idee  gli  frullavano  per  il  capo;  e  le  buttava  giù, 
alla  rinfusa,  senza  badare  alla  forma:  gli  bastava  farsi  intendere  alla  meglio.  Vi  si 
trovavano  reminiscenze  del  suo  dialetto:  trattar  fra  carne  et  ongia  (5).  A  due  ragazze 
non  era  stato  concesso  di  entrare  in  un  monastero  di  Firenze:  il  priore  di  S.  Caterina, 
scrive  l'Arcivescovo,  non  pensi  di  sbalarle  a  Pisa  (6)  (=  non  pensi  di  rinchiuderle  in 
un  monastero  di  Pisa).  Chiama  speciali  i  farmacisti  (7);  altrove  scrive:  Quesfanno  che 
viene  (8)  (=  st'an  ch'ven).  In  tanti  anni  che  visse  nella  patria  di  Dante,  non  seppe 
appropriarsi  la  purezza  del  parlar  toscano,  e  non  ne  ritrasse  che  qualche  frase  troppo 
volgare,  come,  per  esempio,  esser  tutto  fiori  e  baccelli  (9)  (=  essere  indulgente,  benigno, 
lieto);  l'aspetto  con  martello  (10)  (=  lo  aspetto  con  ansia).  La  cosa  si  spiega  pensando 
che  il  suo  lungo  (11)  studio  e  il  grande  amore  erano  rivolti  esclusivamente  ai  trattati 
di  giurisprudenza,  scritti  in  latino  da  chiodi.  S'aggiunga  che  lui  stesso  scriveva,  per 
ordinario,  in  latino:  in  latino  sono  persino  alcuni  de'  suoi  responsi  giuridici  (12)  ;  in 
latino  sono  scritte  le  sue  opere,  siccome  appare  dal  titolo  stesso.  Non  è  a  far  mera- 
viglia pertanto,  se  anche  nelle  sue  lettere  s'incontrano,  ad  ogni  pie  sospinto,  locuzioni 
latine.  Per  dire  meglio  tardi  die  mai,  dare  il  colpo  di  grazia,  adoperava  le  frasi  :  sai 


(1)  Arch.  Meri.,  filza  5102,  e.  67. 

(2)  Lettera  15"  dell'inserto  in  filza  1193,  10  dicembre  1585. 

(3)  È  il  card.  Vincenzo  Lauro,  Vescovo  di  Mondovì. 

(4)  Arch.  Med.,  filza  1189,  lettera  9a  dell'inserto. 

(5)  Arch.  Med.,  filza  757,  e.  259. 

(6)  Arch.  Agost.,  lettera  246.  Firenze,  3  giugno  1596. 

(7)  Ibicl.,  lettera  326.  Serravezza,  li  14  luglio  1603. 

(8)  Ibid.,  lettera  232.  Firenze,  16  luglio  1594. 

(9)  Lettera  ultima  dell'inserto  in  filza  1187.  —  S'intende  sempre  l'inserto  intitolato  "  L'arcive- 
scovo di  Pisa  „. 

(10)  Lettera  terza  dell'inserto  in  filza  1191. 

(11)  II  Consi,  op.  cit.,  pag.  30,  asserisce  che  il  Nostro  studiava  dieci  o  dodici  ore  al  giorno.  Sotto 
questa  esagerazione  si  nasconde  nondimeno  la  verità  che  egli  fosse  amantissimo  dello  studio. 

(12)  Arch.  Med.,  filza  60,  e.  600. 

Sekie  II.  Tom.  LUI.  30 


2:'.  !  DOMENICO    VALLA  14 

bene,  si  sat  cito;  mittere  falcetti  ad  radicem  (1).  Alcune  delle  sue  lettere  non  sono  prive 
di  grazia,  ma  in  complesso  sono  più  importanti  per  il  contenuto  che  per  la  forma: 
esse  ci  servono  di  scorta  per  tratteggiare  i  lineamenti  psichici  di  colui  che  le  scrisse, 
e,  direi,  per  penetrare  nell'interno  della  sua  coscienza,  e  vedere  quali  moti  animassero 
il  suo  cuore.  Uomo  alla  buona  (2),  schietto,  sincero,  non  sapeva  adulare  (3).  Faceva 
grandi  limosine  all'ospedale  dei  trovatelli  e  all'istituto  della  Carità,  ma  sotto  nome 
d'incerto  benefattore,  come  scrive  il  Tronci  ;  e  questa  si  chiama  carità  fiorita. 

Amorevolissimo  con  tutti  (4),  e  di  animo  gentile:  nell'occasione  che  il  Serguidi 
aveva  la  moglie  malata,  esortavalo  a  mandare  a  Pisa  una  sua  bambina;  lui  avrebbe 
pensato  a  metterla  in  monastero  provvisoriamente  (5).  In  ogni  caso,  accorto  e  prudente: 
In  un  castello  posto  a  qualche  distanza  da  Avignone  custodivasi  una  vistosa  somma, 
che  doveva  essere  adoperata  nella  compra  del  grano.  Il  N.  insisteva  presso  il  Gran 
Duca  e  presso  il  suo  Segretario,  perchè  codesti  danari  fossero  tolti  dal  castello  e 
portati  con  scorta  in  Avignone:  "  Io  non  suono  informato  della  sicurezza  della  torre, 
tanto  da  Turchi,  come  da  Franzesi:  ma  questa  somma  può  far  diventar  il  castellano 
et  ladro  et  turco  ancora  „  (6). 

Non  di  rado  aveva  anche  delle  espressioni  condite  di  un  certo  umorismo,  sati- 
riche, pungenti:  "  quella  parte  di  legname  che  è  guasta,  ne  anco  i  Lucchesi  non 
la  compraranno  per  buona  „  (7).  Comprenderà  l' arguzia  di  queste  parole  chi  non 
ignora  che  i  Lucchesi  sono  considerati  come  i  Beoti  della  Toscana.  Siccome  aveva 
saputo  che  si  aprivano  le  sue  lettere,  scrivendo  al  Serguidi,  e  scusandosi  del  suo 
lungo  silenzio,  ebbe  a  dirgli:  "  Non  Le  scrissi  per  non  afaticar  qua  questi  che  aprono 
le  mie  lettere  „  (8).  "  Circa  i  frati  non  ho  dato  licentia  particolare,  massime  a  cotesto 
degli  occhiali  „  (9).  "  Desidero  vedere  quel  prete,  in  viso,  et  però  potrà  venire  sin  qua  „  (10). 
"  Il  Proposto  di  Pontadera,  se  vuole  rinuntiare,  rinuntii,  et  vadiasene  in  malhora, 
che  lascierò  il  tempo  a  lui  a  far  penitenza,  e  a  un  altro  a  castigarlo  „  (11).  Queste 
ultime  frasi  dimostrano  come  il  N.  fosse  rigido  e  anche  un  pochino  burbero  e  rude. 
Talora  era  anche  irascibilissimo  sino  al  punto  di  non  poter  tenere  la  penna  in  mano 
per  la  gran  rabbia  che  aveva  in  corpo  (12).  Talora  tenace,  irremovibile  tanto  da  pre- 
tendere, quando  fosse  calunniato,  una  giustificazione  anche  a  costo  della  vita  (13). 
Quando  veniva  offeso  apertamente,  allora  era  terribile  davvero.  Più  sopra  (a  pag.  6-7) 
riportammo  una  lettera,  dove  si  dice  che  Nicolò  Calefato  aveva  steso  un  memoriale 


(1)  Arch.  Agost.,  filza  oit.,  lettera  152.  Firenze,   5   dicembre  1587;   lettera  121.  Firenze,  26  no- 
vembre 1583. 

(2)  Ibid.,  lettera  106  "  si  valga  di  me  alla  libera,  come  sa  di  poter  fare  „. 

(3)  C.  Strozz.,  filza  21  e.  244. 

(4)  Corsi,  pag.  30-31. 

(5)  Lettera  ultima  dell'inserto  in  filza  1189. 

(6)  Arch.  Med.,  filza  63,  e.  428. 

(7)  Arch.  dell'Opera,  filza  citata,  lettera  580.  Firenze,  li  4  ottobre  1602. 

(8)  Lettera  5°  dell'inserto  in  filza  1195. 

(9)  Arch.  Agost.,  lettera  143.  Firenze,  2  gennaio  1587. 

(10)  Arch.  Agost,,  lettera  112.  Firenze,  4  agosto  1583. 

(11)  Arch.  Med.,  lett.  18  dell'inserto  in  filza  1193. 

(12)  Ibid.,  lettera  4"  dell'inserto  in  filza  1187. 

(13)  Arch.  Med.,  filza  769,  e.  488-90:  "  mi  bisogna  giustificar  et  lo  voglio  far  con  la  vita  „. 


15        VITA  DI  CARLANTONM  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PUTEANO       235 

contenente  la  rivelazione  di  certi  segreti  di  Corte.  Vi  si  dice  che  un  frate,  invece  di 
trasmettere  a  Roma  quella  scrittura,  la  consegnò  all'Arcivescovo.  Questi  li  per  lì  ebbe 
la  tentazione  di  far  dare  quattro  pugnalate  a  quella  bestia  del  Calefato;  e  poi  se  ne 
astenne,  ma  scrisse  al  Serguidi  ragguagliandolo  del  fatto  e  pregandolo  a  rinchiudere 
lo  scellerato  in  un  fondo  di  torre  a  cita.  Il  nostro  Arcivescovo  era  l'uomo  più  buono  di 
questo  mondo.  Non  molestato,  non  sarebbe  stato  capace  di  far  male  a  una  mosca  ; 
ma  serio,  grave,  di  un  aspetto  imponente  (1),  sembrava  che  portasse  scritto  in  fronte 
il  motto  "  non  mi  toccare  „.  Se  qualcuno  ardiva  di  arrecargli  la  minima  offesa,  allora 
egli  sapeva  mostrare  i  denti  e  farsi  portar  rispetto. 

Questo  che  abbiam  fatto  sarebbe  come  il  ritratto  interno.  E  il  ritratto  esterno  ? 
Nel  convento  di  S.  Frediano  esisteva  ancora  alla  fine  del  sec.  XVIII  un  busto  con 
relativa  iscrizione,  riportata  dal  Mattei  (2).  Presentemente  un  unico  quadro,  forse  opera 
del  Lomi  (3),  resta  a  rappresentarci  l'insigne  Arcivescovo  (4).  Vi  si  vede  una  nobile 
figura  d'uomo:  statura  mediocre,  volto  bruno-pallido:  occhi  castaneo-grigi  riflettenti 
una  vivacità  volpina;  labbra  atteggiate  a  un  sorrisetto  malizioso,  arguto;  naso  rego- 
lare, fronte  ampia,  spaziosa;  testa  piuttosto  angolosa  che  rotonda;  acconciatura  di 
capelli  e  barba  alla  moda  spagnuola;  cioè  l'occipitale  ciuffo  che  scappa  fuori  della 
berretta  ritirata  un  tantino  all'indietro,  due  baffi  arricciati  in  punta  e  il  caratteristico 
pizzo.  Attorno  al  collo  la  veste,  ripiegata  all'infuori  e  aperta  sul  davanti,  forma  una 
larga  striscia  bianca,  che  dà  grazia  e  rilievo  alla  sua  persona.  Siede  sur  una  grande 
seggiola  a  bracciuoli  dalla  spalliera  guarnita  di  raso  rosso.  Indossa  una  cotta  sem- 
plicissima, mozzetta  paonazza,  e  veste  talare  con  bottoni  rossi.  Nella  parte  superiore 
del  quadro  una  tendina,  orlata  di  penero,  forma  un  padiglioncino;  il  che  dà  argo- 
mento a  credere  che  siasi  fatto  ritrarre  seduto  sul  trono  arcivescovile. 


III. 

Il  Consigliere  Segreto  del  Gran  Duca  Ferdinando  I. 

Nell'ottobre  del  1587  Francesco  e  Bianca  morivano,  a  undici  ore  d'intervallo, 
di  morte  che  parve  allora  misteriosa.  Ferdinando,  che  ancora  non  era  in  sacris,  seb- 
bene fosse  Cardinale  da  24  anni,  succedevagli  sul  trono,  nonostante  che  il  Papa  lo 
avesse  consigliato  a  prendere  le  sacre  Ordinazioni,  e  a  lasciare  la  corona  al  fratello 


(1)  "  Chi  non  ammirò  la  sua  presenza  quando  era  incontrato  „,  Corsi,  op.  cit.,  pag.  38. 

(2)  Mattei,  op.  cit.,  pag.  '211. 

(3)  Ciò  si  arguisce  dalla  rassomiglianza  di  stile  tra  questa  tela  ed  altre  che  sono  indubbiamente 
del  Lomi,  e  furono  da  lui  dipinte  per  ordine  dell'Arcivescovo.  Ricorderemo  altrove  il  San  Gerolamo 
che  trovasi  nella  Cappella  Puteana  :  qui  facciamo  osservare  che  esiste  un  altro  quadro,  assai  più 
piccolo,  rappresentante  parimenti  San  Girolamo  nel  deserto;  trovasi  nella  cappelletta  del  Collegio 
Puteano. 

(4)  Nella  mano  destra  tiene  una  lettera  a  lui  indirizzata:  questa  è,  per  così  dire,  il  simbolo 
della  moltiplicità  degli  affari  che  lui  doveva  sbrigare.  In  alto,  a  destra,  sta  scritto  in  latino  il  suo 
nome  coll'aggiunta:  "  Francisci  Comitis  Ponderani  filius  Collegii  Fundator  „.  Sullo  stesso  quadro  vi 
è  anche  disegnato  un  tavolino,  su  cui  stanno  tre  grossi  volumi  (forse  quelli  che  costituiscono  l'opera 
sua  sul  Principe),  collocati  uno  sull'altro. 


236  DOMENICO    VALLA 


16 


Don  Pietro  (1).  Il  nuovo  Gran  Duca  attende  ben  tosto  al  riordinamento  della  Corte. 
Nomina  Segretario  in  capite  Pier  Usimbardi  che  aveva  condotto  seco  da  Roma:  An- 
tonio Serguidi  e  Belisario  Vinta  furono  posti  sotto  la  sua  dipendenza  (2).  Il  nuovo 
Gran  Duca  trovando  che  mancava  un  Consiglio  di  Stato,  di  guerra,  delle  entrate  (a), 
si  trova  nella  necessità  di  nominare  una  persona  fidata  e  intelligente,  con  cui  possa 
comunicare  le  cose  più  importanti. 

Nella  scelta  non  poteva  molto  esitare:  il  suo  confidente  doveva  essere  l'Arci- 
vescovo Dal  Pozzo,  l'amico  suo  di  antica  data,  il  quale,  essendo  già  stato  Consigliere 
di  suo  fratello,  conosceva  tutti  i  segreti  della  più  alta  importanza.  Il  Nostro  fu  dunque 
nominato  Consigliere  Intimo,  Consiliarius  ab  intimis  opp.  a  segretis:  gli  si  mandava  a 
Pisa  carrozza  et  lettiga  coll'invito  di  recarsi  a  Firenze  a  palazzo  Pitti  o  in  quello  de' 
Medici,  "  secondo  che  più  gli  gustava  „  (4);  e  per  i  mesi  estivi  aveva  a  sua  dispo- 
sizione una  delle  ville  granducali. 

Del  Gran  Duca  Ferdinando  fu  scritta  un'ampia  biografia  per  cura  di  un  certo 
Domizio  Peroni  (non  già  Pieroni  (5)  come  scrisse  il  Milanesi) ,  il  quale  era  stato  al 
suo  servizio  per  tanto  tempo,  ed  ebbe  quindi  agio  di  conoscere  le  buone  qualità,  e 
potè  farsi  un'  idea  adeguata  delle  condizioni  politiche  della  Toscana.  Questo  lavoro 
del  Peroni  costituisce  adunque  una  fonte  preziosa  per  noi:  orbene  alla  e.  11  si  legge: 
"  Il  Gran  Duca  Ferdinando  per  haver  una  persona,  con  la  qual  hor  per  via  di  con- 
siglio et  hor  per  via  di  discorso  havesse  potuto  esaminare  et  maturare  gli  affari  più 
importanti,  elesse  Carlo  Antonio  dal  Pozzo  Arciv0  di  Pisa,  il  quale  avendo  dimorato 
lungo  tempo  nella  città  di  Fiorenza  et  stato  impiegato  come  Insigne  Iurisconsulto 
nel  governo  et  directione  della  giustizia,  conosceva  la  natura  de'  sudditi,  et  haveva 
tanta  prudenza  da  saper  deliberare  et  promulgare  le  leggi  convenienti  al  reggimento 
et  governo  dello  Stato  in  tempo  di  pace,  et  nelle  negotiationi  delli  affari  fuor  dello 
Stato  era  atto  a  discorrer  con  la  scienza,  a  risponder  con  l'intelligenza,  a  confermare 
o  reprovare  con  l'esperienza,  a  replicare  con  l'autorità,  et  a  consigliare  per  l'età  „  (6). 

Il  Dal  Pozzo  esplicò  l'opera  sua  di  Consigliere  Segreto  a)  negli  affari  privati 
della  famiglia  Granducale  (testamenti,  matrimoni,  ecc.),  b)  nel  reggimento  interno  ed 
esterno  dello  Stato,  nelle  relazioni  del  Gran  Duca  cogli  altri  Principi  italiani  e  stra- 
nieri (trattati  di  pace,  compra  di  città  e  castelli,  agricoltura,  commercio,  provviste  di 
grano,  ecc.),  e)  nelle  cose  giudiziarie. 

Testamenti.  —  Nel  1592  (settembre)  il  Gran  Duca  si  decise  a  far  testamento, 
per  escludere  ogni  intervento  del  fratello  Don  Pietro  nell'  amministrazione  dello 
Stato,  per  assicurare  la  successione  al  trono  al  suo  primogenito  nato  due  anni  prima  ; 
e  lo  dettò  parola  per  parola  non  già  ad  un  notaio,  ma  al  nostro  Arcivescovo.  Il  no- 
taio, che  fu  messer  Matteo  di  Michele  Carlino,  vi  appose  appena  la  firma  necessaria 
per  la  legalizzazione  dell'atto.  Del  testamento  se  ne  fecero  tre  copie,  e  tutte  per  mano 


(1)  F.  Mctinelli,  op.  cit.,  voi.  I,  pag.  183. 

(2)  C.  Strozz.,  filza  13,  e.  105.  Inventario  Milanesi,  voi.  I,  pag.  81. 

(3)  E.  Albeki,  op.  cit.  Appendice,  pag.  272. 

(4)  Arch.  Med.,  filza  70,  e.  339  e  segg. 

(5)  li.  Milanesi,  Inventario  (a  stampa)  delle  Carte  Strozzane,  voi.  I. 

(6)  Carte  Strozziane,  filza  53,  e.  11. 


17        VITA  DI  CARLANTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PUTEANO      237 

dell'Arcivescovo,  il  quale  dovette  assoggettarsi  a  questa  fatica  materiale  unicamente 
perchè  il  gran  Duca  non  voleva  che  nessun  altro  conoscesse  la  sua  ultima  volontà.  "  Io 
Cari' Antonio  Puteo,  Arciv0  di  Pisa,  comandato  dal  Sermo  Gran  Duca  Ferdinando  sopra- 
scritto, mio  Signor,  ho  di  mia  mano  propria  scritto  il  sudetto  testamento  dettatomi 
dalla  propria  bocca  di  S.  A.  di  parola  in  parola,  et  poi  da  essa  riletto  et  revisto  et 
qual  in  presenza  mia  et  de'  testimoni  et  notario  infrascritti  ha  rogato  detto  notario, 
et  l'ha  di  sua  mano  sottoscritto;  et  per  questo  et  come  testimonio  testamentario  l'ho 
sottoscritto  et  sopra  la  coperta  vi  metterò  il  mio  sigillo,  l'anno,  luogo  et  giorno  in- 
frascritti f  Carolus  Ant.s  Puteus  Archiepiscopus  Pisanus  „  (1).  Questo  testamento 
insieme  con  altre  carte  segrete  fu  rinchiuso  in  una  cassetta  di  ferro,  che  fu  data  a 
custodire  al  P.  Priore  della  Certosa  di  Firenze.  Questa  cassetta  *  in  vita  di  S.  A. 
non  si  deve  mai  restituire  salvo  a  S.  A.  medesima  che  la  chiedesse,  et  in  caso  di 
sua  morte  si  ha  da  consegnare  al  Sermo  Principe  suo  successore  che  la  faria  aprire 
presente  il  P.  Priore  et  tre  testimoni  „.  Così  diceva  un  biglietto  scritto  dall'Arcive- 
scovo e  rilasciato  dentro  a  quelle  carte. 

a)  Matrimoni.  —  Le  ultime  pagine  autografe  del  documento  a  e.  463  della 
filza  62  (scritto  a  nome  del  Gran  Duca)  dimostrano  che  il  Nostro  ebbe  parte  nelle 
trattative  di  matrimonio  tra  Ferdinando  e  Cristina  di  Lorena.  L'inserto  che  porta  la 
data  19  maggio  1599  in  Arch.  M,  filza  67,  e.  122-24,  ci  attesta  che  il  Nostro  non 
fu  estraneo  neppure  alla  conclusione  del  matrimonio  tra  Maria  de'  Medici  ed  Enrico  IV 
re  di  Francia.  È  un  documento  incominciato  da  un  segretario,  probabilmente  dall'  Ac- 
colti, ma  è  continuato  e  terminato  dall'Arcivescovo. 

b)  Reggimento  intemo  ed  esterno.  —  Primo  si  presenta  il  trattato  di  Pomégues, 
diviso  in  9  articoli  preceduti  da  un  preambolo  concepito  e  minutato  dall'Arcivescovo. 
Il  Gran  Duca  si  obbliga  a  restituire  le  isole  Pomégues  (Marsiglia)  e  il  castello  d'If  ; 
ed  Enrico  IV  si  obblfga  a  restituire  una  forte  somma  che  eragli  stata  imprestata. 
Rappresenta  la  Francia,  nella  stipulazione  di  questo  trattato,  il  Card.  D'Ossat;  rap- 
presenta la  Toscana  il  nostro  Dal  Pozzo  (2). 

Dopo  che  Pier  Usimbardi,  fatto  Vescovo  di  Arezzo,  si  ritirò  nella  sua  Diocesi 
per  attendere  unicamente  alle  cose  di  Chiesa  (3),  il  personaggio  più  influente  alla 
Corte,  dopo  il  Dal  Pozzo,  fu  Belisario  Vinta.  Essi  due  costituivano  un  polente  duum- 
virato, a  cui  mettevano  capo  tutti  i  più  alti  affari  di  Stato;  erano  gli  arbitri  del 
Governo,  uno  ufficialmente,  l'altro  segretamente.  Rimangono  lettere  sottoscritte  e 
postillate  da  ambedue,  ma  la  firma  dell'Arcivescovo  precede  sempre  (4).  Ordinaria- 
mente il  Vinta  gli  manda  lettere,  inserti,  rescritti  venuti  di  Roma,  di  Francia,  Spagna, 
perchè  siano  eliminati  alcuni  dubbi,  chiarite  alcune  difficoltà.  Quando  si  tratta  di  più 


(1)  Tutti  gli  altri  firmatari,  ad  eccezione  del  Nostro,  dicono:  "Io...  ho  visto  sottoscrivere  di 
propria  mano  di  S.  A.  il  soprascritto  suo  testamento  ,.  Ciò  fa  supporre  che  essi  non  conoscessero 
le  disposizioni  nel  testamento  contenute.  Oltre  i  nomi,  sulla  copertina  esterna,  vedonsi  i  relativi 
sigilli. 

(2)  Amelot  de  la  Houssate,  op.  cit.,  ed.  Amsterdam,  1708,  voi.  3°,  pag.  217  e  segg.  Vedi  anche 
Diario-Settimanni  (mss.  Arch.  di  Stato  Firenze),  voi.  VI,  pag.  85. 

(3)  6.  E.  Saltini,  Storia  del  G.  D.  Ferdinando  scritta  da  Pier  Usimbardi.  Firenze  1880,  pag.  5. 

(4)  Arch.  Med.,  filza  793    e.  414. 


238  DOMENICO    VALLA  18 

quistioni,  si  lascia  tra  l'una  e  l'altra  uno  spazio  in  bianco  sullo  stesso  foglio,  perchè 
l'Arcivescovo  vi  scriva  la  sua  replica  et  dichiaratione  (1). 

In  quei  pochi  mesi  che,  per  obbedire  ai  decreti  del  Concilio,  doveva  risiedere  a 
Pisa,  dal  Vinta  veniva  informato  per  filo  e  per  segno  di  quanto  succedeva  alla  Corte. 
Da  questa  corrispondenza  noi  possiamo,  in  modo  particolareggiato,  conoscere  quanta 
influenza  l'Arcivescovo  abbia  esercitato  nei  pubblici  affari,  quale  fiducia  il  Gran  Duca 
avesse  in  lui,  e  in  quale  considerazione  tenesse  i  suoi  responsi.  Dovendo  scrivere  o 
mandare  ambasciate  al  Papa,  al  Re  di  Francia,  o  a  quello  di  Spagna,  o  ad  altri,  era 
il  Dal  Pozzo  che  doveva  additare  la  politica  da  seguirsi,  il  partito  da  abbracciarsi.  Cosi, 
per  addurre  uno  dei  mille  esempi,  a'  dì  21  aprile  1605  il  Gran  Duca  domandava  al- 
l'Arcivescovo come  doveva  comportarsi  nella  lotta  scoppiata  tra  il  Papa  e  i  Veneziani, 
ossia  in  quella  celebre  lotta  in  cui  sorse  il  Sarpi  a  patrocinare  la  causa  del  Senato 
Veneto,  di  contro  alle  pretensioni  della  Curia  Piomana  (2).  Un'altra  volta  si  domanda 
all'Arcivescovo  se  sia  bene  inviare  un  solo  Ambasciatore  che  vada  a  Madrid  dopo 
essere  passato  a  Parigi,  oppure  se  sia  meglio  spedire  due  Ambasciatori  distinti,  uno 
alla  Corte  di  Francia,  l'altro  a  quella  di  Spagna  (3).  L'Arcivescovo  rivede  e  cor- 
regge le  lettere  prima  che  siano  spedite  alla  loro  destinazione  (4j  ;  invia  alla  Corte  la 
formula  di  un  "  mandato  per  Spagna,  il  quale  ha  soddisfatto  a  Lor  Altezze  et  si 
metterà  al  netto  „  (5).  La  lettera  scritta  al  Card,  di  Firenze,  della  quale  si  fa  cenno 
nella  filza  72,  e.  358,  "  fu  tutta  scritta  su  lettere  e  ricordi  dell' Arciv0  „.  Nella 
compra  di  città  e  castelli  (6),  nel  battere  monete  (7),  nel  riformare  la  Corte  (8),  nel- 
l'assegnare  le  Letture  dello  Studio  Pisano  (9),  in  ogni  sorta  di  contratti  (10),  nelle 
relazioni  commerciali  (11),  nella  sorveglianza  sui  carcerati  (12),  nelle  confische  (13), 
nella  revisione  dei  conti  dell'azienda  domestica  (14)  e  persino  nell'agricoltura  e  nei 
lavori  pubblici  (15)  doveva  intromettersi  il  Nostro  e  portarvi  i  lumi  della  sua  mente 
quadrata,  calcolatrice. 

e)  Consigli  giuridici.  —  Dove  specialmente  il  Gran  Duca  domandava  parere  all'Ar- 
civescovo,  era  nell'amministrazione  giudiziaria.   Tommaso  Contarmi,   Ambasciatore 


(1)  Arch.  Med.,  filza  72,  e.  374. 

(2)  Ibid.,  filza  75,  lettera  del  Gran  Duca.  Firenze,  21  aprile  1605. 

(3)  Ibid.,  filza  1232,  lettera  10  luglio  1607. 

(4)  Ibid.,  filza  1232,  lettera  5  aprile  1607. 

(5)  Ibid.,  lettera  cit. 

(6)  Ibid.,  lettera  1"  giugno  1607;  e  lettera  26  ottobre  1603;  e  filza  72,  e.  417,  382-85. 

(7)  200  mila  talleri,  filza  75,  e.  205. 

(8)  Lettera  del  Sodertni  in  "  Arch.  stor.  it.  „,  (2a  serie),  XVIII,  pag.  71. 

(9)  Filza  75,  e.  247. 

(10)  Filza  63,  e.  123,  abdicazione  di  feudi. 

(11)  Assicurazione  di  danari,  ibid.,  e.  428;  filza  67,  e.  120,  esportaz.  di  drappi  e  seterie;  filza  64, 
e.  159,  provvisione,  compra  e  vendita  di  grano,  di  armi  e  armature;  Arch.  Med.,  filza  73,  e.  377  e 
filza  75,  e.  149,  due  pareri  autografi. 

(12)  Filza  72.  e.   143-44. 

(13)  Filza  5961,  e.  663:  "  i  sequestri  che  son  stati  fatti  costì  et  l'altre  diligentie  ci  son  parse 
molto  strane  et...  per  questo  desideriamo  che  con  destrezza  ne  parliate  all'Arci v°  et  intendiate  da 
lui  quello  che  gli  pare  di  questa  cosa  „.  Lettera  del  Gr.   Duca  al  Vinta.  Di  Cafaggiolo,  6  ott.  1602. 

(14)  C.  Strozz.,  filza  51,  e.  1;   Milanesi,  Inventario,  voi.  I,  275. 

(15)  Cantini,  op.  cit.,  voi.  XII,  pag.  321. 


19        VITA  DI  CARLANTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PDTEANO       239 

Veneto  alla  Corte  di  Firenze,  scriveva:  "  L'Arciv0  di  Pisa  ha  nelle  sue  mani  tutto  il 
governo  delle  cose  giuditiali  ;  ha  carico  di  riveder  le  suppliche,  et  in  quelle  materie 
che  ricercano  decisione  di  legge  ha  autorità  di  spedire  come  gli  piace  „  (1).  Somma- 
mente utile  al  Gran  Duca,  che  si  trovava  impigliato  in  una  lunga  lite  col  fratello 
Don  Pietro,  riusci  la  scienza  giuridica  del  Nostro.  Don  Pietro  nel  1576  (luglio)  aveva 
ammazzato  la  propria  moglie  Eleonora,  sanzionando  il  misfatto  col  voto  a  Dio  di  non 
più  sposare  altra  donna.  Ferdinando  allora  lo  consigliò  ad  accettare  un  cappello  car- 
dinalizio, e  a  fissare  la  sua  dimora  a  Roma  per  sostenervi  la  vacillante  autorità 
della  sua  casa.  Gli  accordò  una  pensione  di  2  mila  scudi  al  mese,  a  patto  che  non 
contraesse  più  un  secondo  matrimonio.  Ma  il  tristo  fratello,  per  dispetto,  chiese  ed 
ottenne  in  sposa  una  gentildonna  portoghese,  Beatrice  di  Meneses.  Subito  Ferdinando 
lo  privò  della  pensione,  e  rifiutò  di  pagargli  i  debiti  che  aveva  contratti  con  privati  fio- 
rentini. Don  Pietro  strepitava,  e  andava  dicendo  di  aver  diritto  alla  metà  del  patrimonio 
avito.  Queste  sue  pretensioni  erano  appoggiate  dal  Re  di  Spagna,  dai  suoi  ministri  e 
dai  giureconsulti  di  Salamanca.  Il  Gran  Duca  aveva  dalla  sua  molti  illustri  avvocati 
italiani,  e.  primo  tra  essi,  il  Dal  Pozzo.  Questi  parteggiava  a  spada  tratta  per  lui,  mano- 
vrando abilmente  l'arma  tagliente  della  sua  giurisprudenza.  Dimostrava  che  Don  Pietro, 
quantunque  fratello  del  Gran  Duca,  era  nondimeno  suo  suddito:  nell'opera  sua  sul  Prin- 
cipe pose  un  capitolo  intitolato  Frater  Principis,  subditus  Principi.  Dimostrava  che  a 
Don  Pietro  era  già  stato  assegnato  più  di  quanto  gli  spettava.  Alla  fine  la  lite  fu  rimessa 
al  giudizio  del  Papa,  ma  dejure  tantum,  non  già  ad  arlitrandum.  Ma  Don  Pietro  ebbe 
tempo  di  morire  (aprile  1604)  prima  che  uscisse  la  sentenza  Pontificia  (2). 

Molti  documenti  rimangono  ad  attestarci  che  fu  l'Arcivescovo  Dal  Pozzo  il  princi- 
pale avvocato  del  Gran  Duca  nella  trattazione  di  questa  lite.  Additiamo  specialmente  il 
documento  31  (voi.  I,  pag.  114  dell' 'Inventario  citato  di  Gaetano  Milanesi).  Il  Milanesi 

mostra  di  non  conoscerne  l'autore,  poiché   scrive:   "Lettera  di „   Questi   puntini 

devono  essere  tolti,  e  la  lacuna  deve  essere  colmata  colle  parole:  dell'Arcivescovo  di 
Pisa.  Le  ragioni  sono  queste:  1*  il  frammento  della  firma  L'Ar  =  L'Ar(civescovo  di 
Pisa)  che  si  legge  ancora  nonostante  che  la  carta  sia  stata,  a  bella  posta,  strappata  ; 
2°  il  poscritto  autografo  e  una  postilla  parimenti  autografa  in  fondo  alla  e.  216. 
Inoltre  la  postilla  che  il  Milanesi  (pag.  114,  n°  30)  dice  di  altra  mano,  è  dell'Arci- 
vescovo Dal  Pozzo.  A  pag.  117,  n°  52  e  a  pag.  116,  n°  47,  sono  registrati  due  altri 
documenti,  di  cui  il  Milanesi  non  dice  chi  sia  l'autore. 

Ora  la  scrittura  ci  manifesta  chiaramente  che  essi  sono  opera  del  Dal  Pozzo. 
Tali  documenti  riguardano  appunto  la  quistione  di  Don  Pietro.  Inoltre  nell'Arch.  Med., 
filza  72  e.  363,  trovasi  un'  importantissima  lettera,  dove  il  Gran  Duoa  prega  l'Arci- 
vescovo a  suggerirgli  quale  somma  dovrà  dare  al  fratello,  quale  condotta  dovrà  te- 
nere verso  i  creditori  di  lui  e  verso  il  Pontefice,  chiamato  a  far  da  paciere  in  tal 
dissidio  (3). 

Dai  documenti  che  siamo  venuti  fin  qui  citando  risulta  che  i  pareri  dati  dal- 
l'Arcivescovo dovevano  essere  molti  anzi  che  no.  Ma  quando  l'Arcivescovo  andava  a 


(1)  Alberi,  op.  cit.,  Appendice,  pag.  283-84. 

(2)  Galldzzi,  op.  cit.,  voi.  IV,  pag.  73,  95,  145,  157,  181,  191,  224,  225,  269,  329,  342. 

(3)  Altri  documenti  vedansi  Arch.  Med.,  filza  72,  e.  359,  360,  366,  378. 


240  DOMENICO    VALLA  20 

Firenze  o  il  Gran  Duca  a  Pisa,  non  c'era  bisogno  clic  il  Vinta  ricapitasse  le  lettere 
che  arrivavano  alla  Corte,  né  che  l'Arcivescovo  ponesse  in  carta  il  suo  parere,  poiché 
in  tal  caso  per  via  di  discorso  (1)  il  Gran  Duca  poteva  con  lui  esaminar!  gli  affari  pia 
i  mportanti.  Aggiungasi  che  dei  suoi  pareri  molti  venivano  bruciati  (2),  molti  non  erano 
scritti  da  lui,  ma  dai  segretari  suoi  o  del  Granduca;  nessuno  era  firmato.  Si  com- 
prende quindi  che  tutti  quei  documenti,  i  quali  potrebbero  gettare  maggior  luce  in 
queste  pratiche  di  governo,  invano  si  desiderano  :  si  può  nondimeno  arguire  quanti  mai 
dovevano  essere  i  pareri  dati,  e  quale  aiuto  abbia  prestato  il  Nostro  a  Ferdinando. 

Rimane  a  vedere  in  qual  modo  sia  stato  rimunerato.  Se  pensiamo  alle  opere  di 
beneficenza  compiute,  alla  fondazione  del  Collegio,  e  della  Commenda,  dobbiamo  rite- 
nere che  la  ricompensa  sia  stata  larga  e  generosa.  Lo  stesso  c'inducono  a  credere 
alcune  notizie  desunte  dai  documenti.  Nel  suo  ultimo  testamento  si  legge  che  dal 
Gran  Duca  eragli  stato  regalato  un  anello,  in  cui  eravi  incastonato  un  diamante  del 
valore  di  200  scudi  (3).  Ferdinando  inoltre,  mentre  era  ancora  Cardinale,  ebbe  da 
Pio  IV  un'  annua  pensione  di  2000  ducati  d'oro  sui  redditi  della  Chiesa  Pisana.  Quando 
il  Nostro  fu  fatto  Arcivescovo,  ricevette  da  lui  metà  di  questa  pensione  (4).  L'altra 
metà  gli  fu  ceduta  più  tardi,  nell'occasione  in  cui  il  Depositario  Generale  gli  conse- 
gnava, per  ordine  espresso  del  Gran  Duca,  la  bella  somma  di  12  mila  scudi  d'oro  (5). 
Non  di  rado  Ferdinando  facevagli  qualche  altro  regaluccio:  ora  erano  casse  di  vino 
di  Carmignano  (6);  ora,  e  immancabilmente  nella  ricorrenza  del  berlingaccio,  erano 
polli  e  fiaschi  di  vino  parimenti  generoso  (7),  ora  trote  e  fraole  (8).  Inezie,  se  si  vuole, 
ma  che  dimostrano  come  il  Gran  Duca  Ferdinando  cercava  di  stare  con  lui  in  stretta 
unione,  pari  a  quella  che  è  simboleggiata  cosi  bene  dall'anello  adamantino  che  avevagli 
regalato. 


(1)  Peroni,  mss.  cit.,  e.   11. 

(2)  "  eseguito  che  harete,  abbruciate  tutte  le  lettere  in  modo  che  non  ve  ne  resti  più  memoria  P, 
filza  67,  e.  122. 

(3)  Testamento  e.  68.  —  Il  testatore  prescriveva  che  alla  sua  morte  l'anello  fosse  venduto  e  il 
danaro  equivalente  fosse  distribuito  ai  poveri  della  Carità  di  Pisa. 

(4)  Testamento  cit.,  e.  45  tergo. 

(5)  d  Vi  commettiamo  che  in  avvenire  non  riscotiate  più  la  pensione  delli  scudi  mille  annui 
l'Arcivescovado  di  Pisa,  ma  gli  lasciate  a  libera  disposizione  di  Carlo  Antonio  Puteo  Arcive- 
scovo di  Pisa,  che  così  è  nostra  volontà;  et  di  più  vi  commettiamo  che  facciate  creditore  il  sudetto 
Arciv.  di  Pisa  di  scudi  12  mila  d'oro,  dandone  debito  a  Noi  et  credito  a  lui  per  donativo  che  gli 
faciamo,  et  pagandogliene  a  ogni  suo  piacere:  et  alli  offitiali  di  Monte  et  soprasindachi  commet- 
tiamo che  ve  li  faccino  buoni  ne' nostri  conti  subito  che  haverete  fatto  lo  sborso  ,.  'l'ale  ordine  e 
diretto  dal  Gran  Duca  al  suo  Depositario  Generale:  non  porta  data,  ma  prima  e  dopo  sonvi  altre 
carte  dell'a.  1601.  Vedi  Ardi.  Med.,  filza  70,  e.  450. 

(6)  Carte  Strozziane,  filza  30,  e.  128  tergo. 

(7)  Ibid.,  filza  30,  e.  37  tergo  e  filza  29,  e.  48  tergo. 

(8)  Ibid.,  filza  57,  e.  4.  Non  è  a  far  maraviglia,  se  sii  si  facessero  anche  regali  di  questo  genere, 
perchè  non  dissimili  erano  quelli  che  il  Gran  Duca  faceva  ad  altri  Principi  e  ai  Cardinali  stessi. 
Al  card,  di  Gioiosa,  per  es.,  si  mandavano  6  galline  d'India,  12  marzolini,  200  uova,  una  discreta 
quantità  di  salsiccia  e  salami,  un  cestone  d'ortaggio,  ecc.:  ibid.,  filza  30,  e.  127. 


21        VITA  DI  CARLANTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PUTEANO       241 

IV. 
Il  Dal  Pozzo  giureconsulto. 

Nella  biblioteca  Laurenziana  di  Firenze  si  conservano  due  codici  cartacei  con 
copertina  di  pergamena  (Med.  Palat.  47-48)  contenenti  un'opera  giuridica  che  ha  per 
autore  il  nostro  Cari'  Antonio  dal  Pozzo.  Il  cod.  48  (cm.  25  X  cm.  36)  è  scritto  per 
mano  dell'Autore  e  comprende  862  carte  distribuite  in  4  volumi:  il  1°  voi.  da  e.  1 
a  271;  il  2°  da  e.  272  a  e.  463  (questo  volume  mancava  già  al  tempo  del  Bandini); 
il  3°  voi.  da  e.  464  a  e.  755;  il  4°  voi.  da  e.  756  a  e.  862.  Al  principio  del  1°  voi.  vi 
sono  due  indici  autografi:  il  1°  è  alquanto  disordinato,  e  comprende  5  fogli:  il  2°  è 
ordinato  alfabeticamente  con  interpolazioni  marginali,  e  comprende  altri  5  fogli.  L'Au- 
tore incaricò  il  suo  amanuense  che  da  questi  due  indici,  fatti  da  lui,  ne  ricavasse  un 
terzo,  e  lo  trascrivesse  con  ordine  e  chiarezza.  Questo  terzo  indice  fu  messo  davanti 
agli  altri  due:  e  lo  stesso  Dal  Pozzo  se  ne  servi  ancora,  perchè  vi  troviamo  qualche 
aggiunta  fatta  da  lui  ;  come,  per  esempio,  alla  lettera  C  prima  della  parola  contractus. 
Sur  una  schedina  incollata  sul  frontispizio  esterno  e  trasversale  di  questo  codice  si 
legge  il  titolo  dell'opera:  "  Silva  collectaneorum  Caroli  Antonii  a  Puteo  „.  Chi  scrisse 
queste  parole  non  è  già  l'Autore,  ma  lo  stesso  scrivano  che  compilò  il  1°  dei  tre 
indici  su  ricordati.  Intitolazione  autografa  non  c'è;  per  modo  che  quest'opera  potrebbe 
dirsi  quasi  acefala. 

Il  cod.  47  (cm.  23  X  cm.  83,50)  non  è  altro  che  la  stessa  opera  trascritta  da 
un  copista  qualunque,  il  quale  probabilmente  ricevette  questo  incarico  non  dall'Au- 
tore, ma  dal  Gran  Duca.  La  materia  vi  è  distribuita  in  7  volumi:  il  1°  voi.  è  di 
e.  430;  il  2°  voi.  di  e.  412;  il  3"  di  e.  410;  il  4»  di  e.  403;  il  5°  di  e.  438;  il  6°  di 
e.  440;  il  7°  di  e.  525.  Quest'ultimo  comprende  inoltre  l'Indice  generale  di  20  carte. 
Ciascuno  di  questi  volumi  porta  nella  la  pagina  un  disegno  ornamentale  che  ha  la 
forma  di  uno  stemma  Mediceo,  su  cui  sono  scritti  in  bei  caratteri  rossi  e  neri  il 
nome  dell'Autore,  il  titolo  dell'opera,  il  numero  del  volume.  Sei  putti  alati  sorreg- 
gono all'intorno  altrettante  piccole  sfere,  le  palle  medicee:  argomento  sicuro  per  cre- 
dere che  l'opera  fu  trascritta  per  ordine  del  Gran  Duca,  siccome  dissi  più  sopra. 
Segue  un  indice  dei  capitoli  contenuti  in  ciascun  volume.  Il  titolo  postovi  dall'ama- 
nuense è:  De  vis  quae  ad  Principem  attirimi;  titolo  alquanto  prolisso,  ma  molto  appro- 
priato: poiché  in  quest'opera  sono  trattate,  o  meglio  accennate,  le  più  svariate 
quistioni  che  riguardano  appunto  il  Principe.  La  figura  del  Principe,  di  questo 
personaggio  nuovo,  attirò  nel  sec.  XVI  l'attenzione  di  letterati,  di  giureconsulti  e 
di  uomini  politici.  Del  Principe  scrissero  non  soltanto  il  Machiavelli,  il  Bodin  (1), 
G.  L.  Balzac  (2),  ma  anche  P.  Rossello,  G.  B.  Pigna,  P.  Bizzarri,  G.  Frachetta, 
G.  C.  Capaccio,  T.  Roccabella  e  tanti  altri  (3).  Tutti  costoi'0  però  studiano  il  Principe 


(1)  G.  Bodin  (1530-89).  Nel  suo  libro  intitolato  De  la  république  tratta  anche  del  Principe. 

(2)  Balzai;  (1594-1655),  Le  Prince:  è  un  commento  alla  politica  del  suo  tempo. 

(3)  U.  Gobbi,  Economìa  politica  nei/ìi  scrittóri  Untimi)  del  sec.  XVI-XVII,  pag.  59-67. 
Serie   II.  Tom.   LUI.  31 


242  DOMENICO    VALLA 


22 


sotto  il  punto  di  vista  economico-politico;  il  Dal  Pozzo  invece,  staccandosi  da  qui 
schiera,  lo  esamina  sotto  l'aspetto  giuridico  esclusivamente,  alla  luce  della  sua  scienza 
legale.  Passa  in  rassegna  tutte  le  persone  con  cui  il  Principe,  questo  gioviti  signore 
del  '500,  ha  che  fare:  la  madre,  i  figli,  il  fratello,  lo  zio,  il  tutore,  il  consigliere,  il 
segretario,  i  ministri,  i  sudditi  in  generale,  gli  Ebrei,  i  Vescovi,  i  Cardinali,  il  Papa, 
e  infine  gli  altri  Principi,  il  Re,  l'Imperatore.  In  questa  sua  opera  vi  sono  trattate. 
o  meglio,  sfiorate  quistioni  di  diritto  pubblico  interno  ed  esterno  (regalie,  strade. 
caccia,  pesca,  miniere,  acque,  mare,  fiumi,  lidi,  ponti,  pedaggi,  boschi,  pascoli,  saline, 
tesori,  usura,  cambio,  annona,  ecc.).  L'Autore  tutto  osserva,  ma  sempre  con  la  lente 
del  giureconsulto,  e  tutto  coordina  in  relazione  col  Principe.  L'augusta  persona  vi  è 
studiata,  possiamo  dire,  dalla  punta  dei  capelli  alla  punta  dei  piedi,  con  quella  dili- 
genza con  cui  il  botanico  studia  un  fiore,  e  il  paleografo  un  codice  antico.  Vi  si 
parla  persino  del  barbiere  e  del  cuoco  del  Principe.  Vi  si  dice,  per  esempio,  "  quo- 
modo  Princeps  scribens  salutare  debeat  „.  Ciascun  argomento  poi  è  basato  sur  un 
numero  infinito  di  citazioni  racimolate  dai  SS.  Padri,  dalla  Bibbia,  dagli  antichi  filo- 
sofi, storici,  giureconsulti,  i  quali  ultimi  però  sono  contemporanei  o  tutt'al  più  appar- 
tengono al  secolo  antecedente.  Ne  il  "  Digesto  „,  ne  i  codici  di  Teodosio  e  di 
Giustiniano  vi  sono  mai  citati;  parimenti  non  ricorre  mai  la  citazione  del  "  De  Mo- 
narchia „  di  Dante  o  del  "  Principe  „  di  Niccolò  Machiavelli. 

Certo  è  che  quest'  opera,  qualunque  sia  il  suo  valore  oggettivo,  acquista  per  noi 
una  grande  importanza,  messa  in  rapporto  colla  vita  pratica  dell'Autore.  Dicemmo 
che  il  1°  volume  (cod.  48)  è  preceduto  da  tre  indici:  soggiungiamo  che  essi  sono 
lisci  e  consunti,  specialmente  là  dove  tocca  la  mano  per  girare  il  foglio.  La  qual  cosa 
indica  che  l'opera  fu  molto  adoperata  dall'Autore,  il  quale  doveva  dare  specialmente 
consigli  giuridici  al  Principe.  Dicono  i  biografi  che  due  altri  lavori  componesse  il 
Nostro:  "  De  Feudis  „  in  13  libri  (1),  e  "  De  communibus  Jurisconsulti  opinionibus  „  (2). 
Se  ancora  esistano  presentemente,  non  mi  riuscì  di  sapere.  Ciò  non  di  meno  si  può 
affermare  che  il  "  De  Feudis  „  fu  composto  prima  dell'opera  riguardante  il  Principe, 
poiché  vi  è  più  volte  citato.  Quanto  al  "  De  com.  J.  op.  „,  è  facile  congetturare  che 
non  sia  se  non  una  delle  tante  raccolte,  su  questo  argomento,  molto  comuni  a  quel 
tempo  (3). 

Attilio  Corsi  asserisce  che  se  si  perdessero  tutti  i  volumi  dei  giureconsulti  ante- 
riori, ad  eccezione  di  quelli  che  furono  scritti  dal  Nostro,  non  parria  perduto  niente  (4). 
Ognuno  vede  quale  esagerazione  sia  contenuta  in  questo  giudizio.  Il  biografo  succitato 
merita  però  fede  là  dove  dice  :  "  L'Arciv0  nell'Imre  di  conversazione  non  di  altro  vo- 
leva mai  ragionare  che  di  legge  Pontificia  o  Cesarea,  e  mentre  (altri  Dottori  in  legge) 
seco  discorrevano  delle  più  alte  e  profonde  materie,  sempre  sentivano  che  niuno  po- 
teva a  pena  cominciare  di  profferire  un  concetto,  che  esso  incontanente  con  dolci 
maniere  e  soave  parlare  non  dicesse:  ci  è  in  punto  la  tal  legge,  il  tal  canone,  o  vero: 
è  opinione  comunemente  ricevuta  :  allegando  improvvisamente  gli  autori,  i  luoghi  et 


(1)  Tenivelli,  op.  cit.,  pag.  299.  —  Corsi,  op.  cit,  pag.  27. 

(2)  A.  Bossotti,  Syllabus  scriptorum  Pedemontii.  Monteregali,  1667,  pag.  142. 

(3)  Salvioli,  Manuale  di  storia  del  diritto  italiano,  ediz.  1890,  pag.  119. 

(4)  Corsi,  op.  cit.,  loc.  eit. 


23        VITA  DI  CABLAXTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PUTEANO      243 

i  numeri,  come  se  gli  havesse  veduti  allhora  „  (1).  L'unica  deduzione  che  si  può  trarre 
di  qui  è  la  seguente:  L'Arcivescovo  Dal  Pozzo  era  dotato  di  ferrea  memoria,  ed 
anche,  se  vogliamo,  era  uno  dei  migliori  giureconsulti  che  vi  fossero  allora  in  Italia, 
e  come  tale  lo  riputò  lo  stesso  Innocenzo  IX  (2);  ma  non  diremo  mai  che  "  se  si  per- 
dessero tutti  i  legali  volumi,  conservati  salvi  i  suoi,  non  parria  perduto  niente  „.  La 
verità  prima  di  tutto. 


Cappella  Puteana.  —  Nel  Camposanto  di  Pisa  esisteva  già  in  antico  una  Cap- 
pella dedicata  a  S.  Girolamo  (3).  Nel  sec.  XVI  doveva  essere  ridotta  in  pessimo  stato 
o  interamente  distrutta.  Il  nostro  Arcivescovo  la  fece  ricostruire,  a  fundamenlis  erexit, 
dedicandola  nuovamente  a  S.  Gerolamo.  Così  dice  l'iscrizione  posta  al  sommo  della 
porta.  Sopra  l'Aitar  Maggiore  si  ammira  tuttora  un  bel  quadro  rappresentante  S.  Ge- 
rolamo nel  deserto.  Sul  sasso,  dove  il  Santo  posa  il  ginocchio,  sta  scritto:  "  Aurelius 
Lomius  P(inxit)  anno  Domini  MDLXXXXV  „  {sic).  Nell'a.  1600  (5  luglio),  previa  la  con- 
cessione Pontificia  ottenuta  l'anno  precedente,  il  Dal  Pozzo  vi  fondò  e  dotò  una  Cappel- 
lania  perpetua  coll'obbligo  al  Cappellano  di  celebrarvi,  dopo  la  sua  morte,  ogni  giorno 
della  settimana,  eccettuato  il  giovedì,  la  Messa  in  suffragio  dell'anima  sua  (4).  Stabilì 
che  la  sua  retribuzione  fosse  di  50  scudi  (di  giulii  10  per  scudo)  all'anno,  da  con- 
ferirglisi  da  colui  che  gode  della  Commenda  Putea.  Questi  dovrà  inoltre  pagare,  per 
una  volta  sola,  altri  20  -scudi  per  i  restauri,  per  gli  abbellimenti  della  Cappella,  e 
per  l'acquisto  degli  arredi  sacri. 

'ommenda  Putea.  —  A'  dì  19  marzo  1599  l'Arcivescovo  Dal  Pozzo  fondò  una 
Commenda,  detta  Putea  dal  suo  nome  latinizzato,  con  diritto  di  Patronato  spettante 
alla  sua  famiglia  e  precisamente  ai  figli  e  discendenti  di  Antonio  dal  Pozzo,  suo  cu- 
gino (5).  Il  fondo  della  Commenda  fu  costituito  da  352  Luoghi  del  Monte  di  Pace 
non  vacabile  di  Roma,  i  quali  a'  dì  21  agosto  dello  stesso  anno  furono  sostituiti  da 
Luoghi  e  crediti  del  Monte  del  Comune  di  Firenze  (6).  Nello  strumento  di  fondazione 
si  stabiliva:  Il  1°  commendatore  sarà  Cassiano  Dal  Pozzo;  e  poiché  è  minorenne,  i 
frutti  della  Commenda  s'aggiungeranno  al  capitale  sino  a  che  lui  sia  uscito  di  mino- 
rità. Quegli  che  possiede  la  Commenda  sarà  libero  da  ogni  imposta  (art.  6);  la  ('uni- 
menda  può  anche  essere  posseduta  da  uno  che  sia  in  sacris,  purché  non  sia  un  frate, 
né  un  gesuita.   I    discendenti    del    conte  Amedeo  Dal  Pozzo,  Marchese  di  Voghera, 


(1)  Corsi,  ibid.,  pag.  29. 

(2)  Arch.  Med.,  filza  73,  o.  220  tergo. 
&)  Sainati,  op.  cit.,  pag.  172. 

4)  strumento  rog.  G.  B.  Catauti,  1600  (st.  fior."").  13a  Indiz.,  5  luglio. 

5  >  Antonio  Dal  Pozzo  fu  figlio  illegittimo  di  quel  Cassiano  che  fu  1°  Presidente  del  Senato,  e 
zio  dell'Arcivescovo.  Codesto  Antonio  venne  anche  a  Firenze,  vi  ottenne  cariche  ed  onori,  fu  audi- 
tore delle  Bande,  e  mori  nel  1619  (15  marzo).  Fu  sepolto  in  S.  Croce,  presso  la  prima  colonna  a 
sinistra  di  chi  entra  per  la  Porta  Maggiore. 

16)  Arch.  di  Stato  di  Pisa,  libro  segnato  O,  Leggi  degli  Ufficiali  del  comune  di  Firenze,  e.  255, 
256,  257,  258.  Lo  strumento  fu  fatto  nel  palazzo  Granducale  "  secus  arnum  in  cappella  S.  Niccolae  „. 


244  DOMENICO    VALLA  24 

nipote  dell'Arciv0  fondatore,  qualora  siano  al  servizio  del  Gran  Duca  e  abbiano  com- 
piuto 25  anni,  possono  pretendere  dal  Commendatore  la  pensione  di  1000  scudi  (di 
10  giulii  per  scudo)  (art.  11).  Estinguendosi  tutte  le  linee  chiamate  a  succedere  in 
detta  Commenda,  questa  passerà  al  Gran  Duca  di  Toscana,  Gran  Maestro  della  Reli- 
gione di  S.  Stefano  (art.  13).  Estinguendosi  la  discendenza  mascolina  del  Gran  Duca, 
il  fondo  della  Commenda  si  trasferirà  dalla  Religione  di  S.  Stefano  ai  12  Governatori 
della  Pia  Casa  di  Misericordia,  con  l'obbligo  di  impiegarne  i  frutti  nella  redenzione 
degli  schiavi  dalle  mani  degl'infedeli,  nel  dotare  le  fanciulle  povere  Pisane  (ciascuna 
dote  però  non  deve  oltrepassare  i  100  scudi),  nel  soccorrere  gli  orfani,  nel  pagare 
medicine  e  alimenti  ai  carcerati  che  siano  poveri  (art.  14).  La  Commenda  fu  fondata  nel- 
l'Ordine dei  Cavalieri  di  S.  Stefano,  e  ogni  Commendatore,  per  conseguenza,  doveva 
vestire  l'abito  di  Cavaliere  Stefaniano.  Per  mezzo  di  ricerche  fatte  appunto  nell'Ar- 
chivio di  S.  Stefano,  possiamo  dare  i  nomi  dei  vari  commendatori  sino  a  tutto  il 
secolo  XVII: 

1599,  8  giugno.  Cassiano  Dal  Pozzo,  figlio  di  Antonio  cugino  dell'Arcivescovo 
fondatore. 

1657,  21  febbraio.  Cari' Antonio  Dal  Pozzo,  fratello  del  precedente. 

1661,  3  ottobre.  Ferdinando  Dal  Pozzo,  figlio  „ 

1672,  29  marzo.  Gabriello  Dal  Pozzo,  fratello  „ 

1697,  25  luglio.  Cosimo  Dal  Pozzo,  figlio 


V. 
Il  Collegio  Puteano(*). 

Sembra  che  nel  sec.  XVI  cominciasse  a  manifestarsi  la  tendenza  a  fondar  col- 
legi. Due  ne  sorgevano,  quasi  contemporaneamente,  nella  sola  Pavia  :  uno  per  opera 
di  Pio  V  Ghislieri,  l'altro  per  opera  di  S.  Carlo  Borromeo,  che  ne  erigeva  altri  a 
Milano,  in  Ascona  e  altrove  (1).  Due  altri  erano  fondati  in  Pisa  stessa  ;  uno,  nel  1568, 
dal  Card.  Giov.  Ricci  (2);  l'altro,  nel  1595,  dal  Gran  Duca  Ferdinando  (3).  Il  Card.  Bo- 
nifacio Ferrerò,  biellese  come  il  Nostro,  aveva  eretto  in  Bologna  nel  1545  un  collegio 
pel  mantenimento  di  dodici  scuolari  piemontesi  (4).  Non  dobbiamo  pertanto  meravi- 
gliarci, se  l'Arcivescovo  Dal  Pozzo,  o  per  non  comparir  da  meno  degli  altri,  o  per 
seguire  l'andazzo  dei  tempi,  e  certamente  per  amor  della  sua  patria,  si  decise  di 
fondare  anche  lui  un  collegio  ;  tanto  più  che  il  Gran  Duca  lo  avrebbe  a  ciò  esor- 
tato (5);  opperò,  questa  volta  almeno,  avrebbe  dato  consiglio  al  Consigliere.  Ma  ancora 
un  altro  fatto  merita  di  essere  considerato  :  Per  il  fermo  intendimento  dei  Duchi  di 


(*)  L'aggettivo  "  Puteano  „  deriva,  ognun  lo  vede,  dal  cognome  latinizzato  del  fondatore. 

(1)  A.  Sala,   Vita  di  S.   Carlo,  voi.  I,  pag.  54,  140,  265. 

(2)  Grassi,  op.  cit.,  voi.  3°,  pag.  62. 

(3)  Grassi,  ibid.,  pag.  12. 

(4)  Tenivelli,  op.  cit.,  voi.  5°,  pag.  84. 

(5)  Inghikami,  Storia  della  Toscana,  ed.  1841,  voi.  10,  pag.  350. 


25        VITA  DI  CARLANTONIO  DAL  POZZO  FONDATORE  DEL  COLLEGIO  PDTEANO      245 

Savoia  di  voler  riacquistare  il  Marchesato  di  Saluzzo,  il  Piemonte  fu  devastato  da 
continue  guerre,  e  lo  Studio  di  Torino  trovavasi,  per  conseguenza,  in  condizioni  de- 
plorevolissime (1).  I  professori  furono  ridotti  a  dover  insegnare  senza  stipendio;  per 
modo  che  quando  davano  le  dimissioni  o  venivano  a  morire,  non  si  trovava  chi  vo- 
lesse sostituirli.  Questa  è  la  ragione  precipua,  per  cui  il  Nostro  deliberò  di  fondare 
a  Pisa  un  Collegio  per  gli  studenti  del  suo  paese,  che,  pur  essendo  dotati  di  una  certa 
intelligenza,  per  mancanza  di  mezzi,  non  potevano  recarsi  a  Pavia,  Padova,  Bologna, 
per  frequentarvi  il  corso  Universitario. 

Citiamo  qui,  ordinandoli  cronologicamente,  tutti  i  documenti  che  possono  darci 
notizie  precise  e  minute  sull'origine  del  Collegio. 

1603,  11  gennaio.  Strumento,  rogato  Nicolò  Troncia,  dove  (art.  10)  si  dice  che 
l'Arcivescovo  aveva  già  prima  depositato  danari  pel  mantenimento  di  due  studenti 
poveri  nel  collegio  eretto  dal  Gran  Duca  Ferdinando.  Vi  si  dice  che  qualora  egli 
stesso  volesse  in  seguito  mantenere  più  di  due  scuolari,  dovessero  avere  tutti  e  sempre 
medici  e  medicine  gratis. 

Bolla  del  Papa  Clemente  Vili  in  data  26  aprile  1604  e  Breve  dello  stesso  Papa 
in  data  10  settembre  1604.  È  concessa.  all'Arcivescovo  la  facoltà  di  fondare  e  dotare 
il  Collegio,  senza  che  gli  sia  ritolta  l'altra  facoltà,  anteriormente  concessagli,  di  far 
testamento.  Vi  si  dice  che  il  Collegio  dovrà  essere  pio  ma  laicale,  e  che  il  diritto  di 
Patronato  e  quello  di  nominare  gli  scuolari  e  il  Prefetto,  dopo  la  morte  del  fonda- 
tore, spetterà  ai  suoi  eredi  per  sempre. 

30  ottobre  1604.  Strumento  per  l'affitto  perpetuo  della  casa  del  Collegio,  situata 
nella  Piazza  dei  Cavalieri  e  sotto  la  Prioria  di  S.  Sisto.  La  Religione  di  S.  Stefano 
si  obbliga  per  sempre  alle  spese  di  l'istauro. 

8  dicembre  1604.  Atto  solenne  di  fondazione  e  dotazione  alla  presenza  di  cinque 
Padri  Barnabiti  nel  convento  di  S.  Frediano.  Il  fondo  o  patrimonio  fu  costituito  da 
tanti  Luoghi  di  Monte  che  davano  l'annua  rendita  di  scudi  698.  2.  14.  8  (=lire  4106.45). 
Comunemente  si  crede  che  il  Collegio  sia  stato  fondato  nell'a.  1605.  Da  questo  do- 
cumento risulta  invece  che  la  fondazione  deve  riportarsi  all'anno  antecedente. 

18  dicembre  1604.  Strumento  dei  Governatori  della  Pia  Casa  di  Misericordia:  Essi 
promettono  perpetua  ed  inviolabile  osservanza  delle  costituzioni  del  Collegio. 

30  dicembre  1604.  Strumento  dei  Lettori  in  Diritto. 

1°  gennaio  1605.  Entrano  in  collegio  i  primi  quattro  alunni. 

11  gennaio  1605.  Atto  d'obbligo  et  sicurtà  del  Camarlingo  del  Collegio. 

12  gennaio  1605.  Strumento  con  cui  i  Governatori  della  Pia  Casa  rilasciano 
Camarlingo  la  patente  di  poter  riscuotere  i  frutti  dei  Luoghi  di  Monte. 

22  gennaio  1605.  Entra  in  collegio  il  5°  alunno. 

23  gennaio  1605.  Strumento  dei  Lettori  in  Filosofia  e  Medicina. 

24  gennaio  1605.  Strumento  dei  Lettori  in  Teologia. 

I  vari  Lettori  dello  Studio  Pisano  dichiarano  esenti  da  ogni  tassa  scolastica  i 
Collegiali  Puteanisti,  e  si  obbligano  a  conferir  loro  gratuitamente  il  Dottorato. 


(1)  Alberi,  op.  cit,  tomo  5°  (2a  serie),  pag.  172  e  274. 


246  DOMENICO    VALLA  26 

18  febbraio  1605.  Carlo  Emanuele,  Duca  di  Savoia,  gradendo  la  fondatione  et 
dotaHone  del  Collegio,  concede  ai  giovani,  cui  spetta  occuparne  i  posti,  di  poter  libe- 
ramente recarsi  a  Pisa,  "  et  ivi  dottorarsi  senza  che  perciò  venghino  ad  incorrer  in 
pena  alcuna  „. 

5  aprile  1605.  Il  Gran  Duca  di  Toscana  riconosce  ed  approva  la  fondazione  del 
Collegio. 

28  aprile  1605.  Entra  in  Collegio  il  6°  alunno. 

23  dicembre  1605.  I  Priori  di  Pisa  fanno  fede  della  rettitudine  del  notaio  Andrea 
Felloni  che  rogò  tutti  i  succitati  strumenti. 

22  giugno  1606.  Strumento,  in  cui  si  fanno  aggiunte  e  variazioni  relative  alla 
patria  dei  Puteanisti  e  all'  Oratorio  del  Collegio. 

17  novembre  1606.  Entra  in  Collegio  il  7°  ed  ultimo  alunno. 

1°  dicembre  1606.  Nomina  del  Prefetto. 

Bisognerebbe  ora  accennare  all'ingerenza  avuta  sul  Collegio  dal  Gran  Duca  di 
Toscana  e  dall'Arcivescovo  di  Pisa:  bisognerebbe  dire  qualcosa  della  patria  e  della 
qualità  degli  alunni,  delle  formalità  da  osservarsi  nella  loro  elezione,  dei  loro  obblighi, 
della  loro  provvisione  mensile.  Non  sarebbe  inutile  sapere  chi  era  incaricato  della 
contabilità,  quale  era  lo  stipendio  del  Camarlingo  e  del  Cancelliere.  Ma  chi  avesse 
vaghezza  di  conoscere  tutte  queste  cosucce,  può  ricorrere  alle  costituzioni  (1)  del  1822 
o  allo  Statuto  organico  del  1866.  Avvertiamo  soltanto  che  i  Gran  Duchi  furono  di- 
chiarati Protettori  del  Collegio,  che  l'Arcivescovo  di  Pisa  ebbe  ed  ha  gran  parte  nel- 
l'ordinamento disciplinare,  vigila  sulla  condotta  dei  collegiali  specialmente  per  quanto 
riguarda  l'adempimento  dei  doveri  religiosi.  Aggiungiamo  inoltre  che  l'amministra- 
zione del  Collegio  ancora  presentemente,  come  in  antico,  è  annessa  all'Istituto  della 
Pia  Casa  di  Misericordia,  colla  differenza  che  il  Camarlingo  e  il  Cancelliere  sono  so- 
stituiti da  un  Segretario. 

Le  nostro  ricerche  sono  rivolte  ad  una  quistione  che  ha  un'  importanza  speciale. 
Nel  Collegio  ora  vi  è  un  Rettore,  ma  nelle  antiche  costituzioni  non  vi  è  punto  no- 
minato: ricercheremo  quando,  come  e  perchè  vi  fu  posto  questo  ufficio,  ed  esporremo 
sommariamente  le  vicende,  a  cui  andò  soggetto,  raggruppando  intorno  a  questo  argo- 
mento principale  altri  fatti  di  secondaria  importanza. 

Nel  sec.  XVI  un  Rettore  di  Collegio,  come  lo  concepiamo  noi,  non  era  possibile. 
Vigevano  ancora  le  costumanze  medievali:  il  superiore  di  una  comunità  qualsiasi 
veniva  scelto  dalla  comunità  stessa.  Nelle  antiche  Università  il  rector  scholarium  do- 
veva essere  uno  degli  studenti  (2).  Nel  Collegio  fondato  dal  Gran  Duca  Ferdinando 
nel  1595,  siccome  dicemmo,  il  Rettore  doveva  essere  uno  degli  scuulari  e  dipendeva 
dal  Provveditore  dello  Studio  ossia  dal  Rettore  dell'Università.  Per  le  vie  di  Pisa 
doveva  essere  accompagnato  da  un  servo:  indossava  una  toga  di  panno  nero  con  un 
cappuccio  di  velluto  paonazzo:  nella  sua  camera,  d'inverno,  vi  poteva  fare  accendere 


(1)  Le  "  constitutiones  „  furono  dettate  dallo  stesso  Arcivescovo  fondatore.  Se  ne  fecero  varie 
ediz.:  la  la  nel  1606  in  80  esemplari  (Tip.  di  Giov.  Fontana):  la  spesa  di  stampa  fu  di  soli  scudi  8 
(V.  Libro  del  cancelliere,  e.  8  tergo).  La  2a  ediz.  fu  fatta  nel  1822  (Tip.  Arciv.0  di  Raineri  Prosperi). 
La  3'  ediz.  fu  curata  nel  1886  (Tip.  Pieraccmi  Salvioni).  All'antico  titolo  di  constitutiones  vi  è  sosti- 
tuito quest'altro:  Statuì')  organico  e  Regolamento  interno. 

(2)  Salvioli,  op.  cit.,  pag.  106. 


27  VITA    DI    CARLASTOHIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PTJTEANO  247 

il  fuoco  e  gli  altri  studenti  potevano  andarvi  a  scaldarsi.  Siffatto  Rettore  era  nulla 
più  che  uno  studente,  e  durava  in  carica  soltanto  un  anno.  Cosi  press'  a  poco  sta- 
vano le  cose  anche  nel  Collegio  Puteano,  colla  differenza  che  lo  scolare-capo  si  chiamò 
non  già  Rettore,  ina  Prefetto  e  durava  in  carica  per  sei  anni  consecutivi,  ossia  per 
tutto  il  corso  Universitario. 

Finché  visse  il  Dal  Pozzo,  tutto  procedeva  col  massimo  ordine  e  colla  massima 
regolarità:  morto  lui,  le  cose  cambiarono.  I  Collegiali  mal  sopportavano  il  giogo  di 
un  loro  compagno;  sempre  cercavano  di  dargli  noia.  Il  primo  che  dovette  addossarsi 
il  gravosissimo  ufficio  fu  il  Sac.  Pietro  Caligaris  da  Mongrande,  il  quale  era  entrato 
in  collegio  a'  dì  28  aprile  1605.  Fu  ben  tosto  accusato  di  aver  avuto  relazione  con 
una  certa  Caterina  da  Lucca;  ma  si  trattava  di  una  calunnia  vera  e  propria,  a  quanto 
sembra,  perche  si  portò  la  questione  dinanzi  al  Tribunale  Ecclesiastico  e  il  Caligaris 
fu  assolto  { 1  |.  A'  di  20  febbraio  1609  fu  nominato  Prefetto  un  altro  studente,  Giovanni 
Stefano  Lessona,  il  quale  era  entrato  in  collegio  a'  dì  17  novembre  1606.  Chi  veniva 
eletto,  per  amore  o  per  forza,  doveva  accettare,  perchè  così  prescriveva  il  cap.  12° 
delle  Costituzioni.  E  facile  comprendere  che,  stando  cosi  le  cose,  vera  disciplina  non 
vi  poteva  essere.  Infatti  vediamo  che  i  Patroni  si  lamentavano  continuamente  col- 
l'Arcivescovo  Pisano  e  con  lo  stesso  Gran  Duca,  e  li  supplicavano  a  prestar  loro 
aiuto  per  mettere  fine  all'indisciplinatezza  dei  collegiali  (2). 

Per  far  cessare  ogni  disordine  sarebbe  bastato  togliere  via  il  Prefetto  e  sosti- 
tuirvi una  persona  più  autorevole,  superiore  per  scienza  e  per  costumi  a  giovani  così 
ostinati  ;  ma  per  quanto  si  sentisse  forte  questo  bisogno,  pur  tuttavia  dovette  trascor- 
rere più  di  un  secolo,  prima  che  si  venisse  alla  modificazione  di  un  capitolo  delle 
Costituzioni.  Solamente  nel  1718  il  Principe  Don  Alfonso  Enrico  Dal  Pozzo  Della 
Cisterna,  Patrono  del  Collegio,  messo  da  parte  lo  scrupolo  di  violare  il  regolamentò 
del  Collegio,  decide  di  mandare  ad  effetto  una  riforma  riconosciuta  tanto  neces- 
saria; e  ne  affida  l'incarico  al  Conte  Ludovico  Gioachino  Garagni,  suo  Procuratore 
Generale.  Questi  abolisce  (1719,  aprile)  l'ufficio  di  Prefetto,  e  nomina  per  un  decennio 
Rettore  del  Collegio  il  Sac.  Giov.  Batt.  Bedotti,  uno  degli  alunni  e  laureando  in 
Legge  (3).  L'anno  dopo  (1720)  il  Patrono,  soddisfatto  dell'opera  sua,  lo  nomina  Ret- 
tore a  vita.  Ma  alla  morte  del  Bedotti,  avvenuta  nel  marzo  del  1752,  l'Arcivescovo 
Francesco  Guidi,  d'accordo  coi  Dodici  Governatori  della  Pia  Casa,  si  rifiuta  di  no- 
minare un  altro  Rettore,  ed  elegge  per  modum  provisionìs ,  siccome  prescrivevano  le 
Costituzioni,  l'abate  Rondi  a  Prefetto  del  Collegio.  Questi  dura  in  carica  cinque 
anni,  trascorsi  i  quali,  un  altro  Gio.  Batt.  Bedotti,  nipote  di  quello  stesso  che  era 
già  stato  Rettore,  è  riconosciuto  definitivamente  Prefetto. 

Così  stanno  le  cose  sino  al  novembre  del  1781.  In  quest'anno  il  Principe 
Don  Alfonso  Giuseppe  Felice  tenta  di  far  accettare  nel  Collegio,  come  Rettore,  il 
Sac.  Biancelli,  che  era  già  stato  alunno  e  Prefetto  ed  aveva  ottenuto  la  laurea  recen- 
temente. Ma  l'Arcivescovo  Franceschi  si  oppone,  al  Principe  fa  osservare  1°  che  il 
Rettore  era  già  stato  abolito  nel  1752;  2°  che  l'emolumento  del  Rettore  "  ridondava 


(1)  Arch.  dell'Arcivescovato,  Ada  crìminalia,  filza  16. 

(2)  Ardi.  Med.,  filza  2961. 

(3)  Si  addottorò  nel  giugno  di  questo  stesso  anno  (1719). 


248  DOMENICO    VALLA  28 

in  pregiudizio  degli  altri  alunni,  occupando  egli  il  posto  di  uno  dei  voluti  dal  Fon- 
datore „.  In  virtù  del  cap.  16°  delle  Costituzioni  i  Gran  Duchi  "  devono  proteggere  il 
Collegio  e  soprintendere  e  prestare  il  braccio  sempre  che  occorra  „.  L'Arcivescovo 
perciò  consiglia  il  Principe  a  ricorrere  al  Gran  Duca:  ma  pel  momento  il  Biancelli, 
poiché  ha  conseguito  la  sua  laurea,  deve  uscire  di  collegio. 

Si  pose  termine  al  dissidio  con  prendere  una  via  di  mezzo:  l'Arcivescovo  voleva 
il  Prefetto,  il  Principe  voleva  il  Rettore.  E  bene  si  fini  con  scegliere  un  Prefetto- 
Rettore,  ossia  uno  che  in  certo  modo  era  nello  stesso  tempo  e  Prefetto  e  Rettore: 
si  nominò  un  buon  sacerdote  piemontese,  coll'obbligo  di  prendere  una  laurea  qualsiasi, 
unicamente  perchè  così  volevano  le  costituzioni.  La  scelta  cadde  sul  sacerdote  Pietro 
Vinea  (1). 

Con  tale  ordinamento  arriviamo  sino  al  1795,  senza  incontrare  irregolarità  alcuna. 
Negli  anni  1795-1802  gli  alunni  del  Collegio  da  sette  vengono  ridotti  a  due,  a  mo- 
tivo degli  scompigli  cagionati  dall'invasione  dei  Francesi.  Nel  febbraio  1802  gli  ultimi 
due  Collegiali,  addottorati,  se  ne  ritornano  in  patria. 

Il  Collegio  rimane  chiuso  sino  al  gennaio  1805,  cioè  per  tutto  il  tempo  che  non 
fu  possibile  riscuotere  i  frutti  dei  Luoghi  di  Monte:  indi  è  riaperto  per  un  anno 
circa;  dal  dicembre  1805  al  1°  novembre  1808  resta  nuovamente  chiuso.  Tale  giorno 
era  fissato  per  la  riapertura  da  uno  speciale  arrèté  del  Comte  de  Menou,  Governatore 
Generale  della  Toscana  (2)  ;  però  gli  alunni  rientrarono  in  Collegio  soltanto  a'  dì 
21  gennaio  1809.  In  questo  torno  di  tempo  si  fanno  alcuni  cambiamenti  relativi 
all'amministrazione:  1°  ai  Luoghi  di  Monte  sono  sostituiti  censi  e  livelli.  2°  È  aumen- 
tata la  retta  mensile  di  ciascun  alunno,  a  motivo  del  rincaro  dei  viveri.  3°  E  au- 
mentato il  salario  del  Camarlingo  (da  scudi  14  a  18)  e  del  Cancelliere  (da  scudi  6 
a  8).  4°  Si  paga  anticipatamente  la  provvisione  a  ciascun  alunno:  prima  gli  si  pa- 
gava a  mese  scaduto.  5°  Si  fa  l'acquisto  di  alcuni  mobili  che  devono  rimanere  sta- 
bilmente nel  Collegio:  prima  gli  alunni,  appena  giunti  a  Pisa,  con  la  tenue  retta 
mensile  dovevano  provvedersi  di  letto  e  degli  altri  mobili  necessari  prendendoli  a 
nolo.  6°  Si  nomina  un  nuovo  Impiegato  come  Computista,  con  l'annuo  stipendio  di 
lire  20.  7°  In  virtù  dei  nuovi  Regolamenti  dell'Imperiale  Accademia  Pisana,  i  Putea- 
nisti  devono  d'ora  in  avanti  pagare  tutte  quante  le  tasse  accademiche  come  qualunque 
altro  studente:  i  loro  diritti  all'esenzione  non  furono  riconosciuti  rispettabili  per  il 
solo  motivo  della  loro  antichità  (Lettera  di  Anton  Brignole-Sale  all'Arcivescovo  in  data 
14  settembre  1816);  però  si  stabilisce  che  codeste  tasse  siano  pagate  con  danari  presi 
dalla  Cassa  del  Collegio.  8°  Sino  al  1810  le  spese  di  manutenzione  e  di  ristauro  della 
casa  del  Collegio  spettavano  alla  Religione  di  S.  Stefano,  siccome  risulta  dall'istru- 
mento  fatto  a'  dì  30  ottobre  1604  e  rogato  Andrea  Felloni  e  Sebastiano  Niccoli 
(V.  sopra  pag.  25).  Dal  1810  in  poi  questo  onere  passa  al  Demanio,  che  della  Reli- 
gione di  S.  Stefano  aveva  incamerato  i  beni. 

In  tutto  questo  tempo  compare  nuovamente  il  Prefetto  voluto  dalle  antiche  costi- 
tuzioni. Nell'agosto  del  1817  l'Arcivescovo  Ranieri  Alliata  vorrebbe  eleggere  a  Pre- 


Ci)  Vedi  la  lettera  dell'Arcivescovo  al  Principe  in  data  24  dicembre  1783. 
(2)  Nell'aerea,  che  porta  la  data  del  10  ottobre,  si  dice:  "  Le  college  sera  ouvert  au   premier 
novembre  procliain  „. 


29  VITA    DI    CARLANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGI!      PUTEAKO 

fetto  del  Collegio  un  ecclesiastico  della  Diocesi  di  Pisa,  riducendo  il  numero  degli 
alunni.  Questa  proposta  è  respinta  dal  Principe  Don  Giuseppe  Alfonso,  il  quale  vuole 
invece  nominare  un  Prefetto  che  sia  piemontese,  ma  che  non  sia  nativo  di  quelle 
città  o  paesi  nominati  nelle  Costituzioni. 

A'  dì  31  marzo  1819  egli  muore,  e,  naturalmente,  non  può  mandare  ad  effetto 
questo  suo  disegno.  Fu  il  figlio  Don  Emanuele  quegli  che,  uniformandosi  alla  volontà 
dell'Arcivescovo,  nomina  Rettore  un  Prete  Toscano,  concedendogli  tutte  le  facoltà  e 
preminenze  già  attribuite  al  Prefetto  (lettera  del  Principe  all'Arcivescovo  in  data 
24  novembre  1819).  Prima  però  aveva  pòrto  supplica  al  Governo  Toscano  per  otte- 
nere l'assenso  a  derogare,  su  questo  punto,  alle  Costituzioni.  L'assenso  infatti  era 
venuto  ed  era  stato  comunicato  sia  al  Principe  che  all'Arcivescovo  dal  Corsini.  Se- 
gretario di  Stato,  per  mezzo  di  Pietro  Paoli,  Sopraintendente  agli  Studi,  in  data 
14  novembre  1819.  Fu  designato  ad  occupare  tale  carica  il  Canonico  Claudio  Sa- 
muelli,  che  fu  dunque  il  primo  Prete  Toscano  che  sia  stato  Rettore  del  Collegio.  Ma 
per  un  anro  intiero  noi  potè  esarcitare  l'ufficio  conferitogli  per  la  fiera  e  ostinata 
opposizione  degli  alunni,  i  quali  comprendevano  troppo  bene  che  la  nuova  nomina 
importava  la  soppressione  di  un  posto.  A  nulla  valsero  le  rimostranze,  perchè  nel 
novembre  dell'anno  successivo  il  Samuelli  entrò  in  collegio:  e  quattro  alunni,  che 
avrebbero  avuto  diritto  a  rimanervi  ancora  per  un  biennio,  se  ne  andarono  via  di 
loro  spontanea  volontà,  domandando  200  lire  d'indennità  per  ciascuno. 

Nel  maggio  del  1821  il  Principe  Don  Carlo  Emanuele  fu.  per  motivi  politici, 
esicfliato  (1):  e  tutti  i  suoi  beni  furono  confiscati  (Vedansi  le  lettere  scritte  in  data 
19  maggio  e  22  settembre  1821  da  Vittorio  Gastaldi,  suo  ex- Procuratore  Generale, 
all'Arcivescovo  ;  e  vedasi  inoltre  la  lettera  del  cav.  Collez  in  data  Torino  22  ott.  1851). 
In  tali  luttuose  circostanze  il  Patronato  del  Collegio  e  il  diritto  di  nominare  gli  alunni 
passano  al  Re  di  Sardegna,  che  in  questa  parte  è  rappresentato  dal  Cav.  Montiglio 
sino  al  1822  (agosto),  indi  dal  Conte  Giuseppe  Petitti. 

In  questo  tempo  s'interessa  del  buon  andamento  del  Collegio  anche  il  Conte  Carlo 
Luigi  di  Castell'Alfero,  Inviato  Straordinario  presso  le  Corti  di  Toscana  e  di  Lucca. 
Nel  1827  (marzo)  il  Samuelli  dà  le  dimissioni;  qualche  anno  dopo,  e  precisa- 
mente nel  1832,  troviamo  che  occupa  l'ufficio  di  Rettore  il  Canonico  Angelo  Gabrielli. 
Nel  1832  Don  Emanuele  rientra  nei  suoi  diritti  civili,  e  riacquista  tutti  i 
suoi  beni;  risiede  ancora  a  Parigi,  e  la  marchesa  Luigia  di  Breme,  sua  sorella,  è 
costituita  sua  Procuratrice  Generale.  Mentre  essa  è  assente  da  Torino,  Amedeo 
Peyron  è  incaricato  degli  affari  della  famiglia  Dal  Pozzo  in  Toscana.  Si  fa  trasmet- 
tere i  bilanci  del  Collegio,  e  li  recapita  al  Principe,  che  abita  in  Bue  Poitiers,  8, 
Parigi. 

Dal  1833  (novembre)  al  1840  (marzo)  è  Rettore  del  Collegio  il  Canonico  Ranieri 
Serafino  Menichelli.  Alla  sua  morte,  avvenuta  nel   marzo   del    1840,    risorge  nuova- 


(1)  Fu  esigliato  per  aver  preso  parte  alla  rivoluzione  del  '21.  Ognuno  sa  che  molti  altri  illustri 
italiani  furono  in  questo  tempo  esigliati.  Basti  ricordare  quel  magnanimo  eroe  che  si  chiama  San- 
tone di  Santa  Rosa.  11  nostro  Don  Emanuele  s' incontrò  con  lui  in  Svizzera.  Curiosità  e  >  icerche 
<Ji  storia  subalpina,  voi.  Ili,  pag.  132. 

Serie  II.  Tosi.  LUI.  32 


250  DOMENICO    VALLA  30 

mente  il  solito  dissidio  tra  il  Principe  che  vuole  il  Prefetto  secondo  le  antiche  Costi- 
tuzioni e  l'Arcivescovo  che  preferisce  nominare  il  Rettore. 

1841  (29  luglio).  Il  Principe  ha  nominato  Prefetto  l'alunno  Sac.  Felice  Zocchi. 
L'Arcivescovo,  non  solo  non  vuol  riconoscere  questa  elezione,  ma  insiste  anche  perchè 
sia  nominato  Rettore  il  Canonico  Angelo  Ribeccai,  e  adduce  le  seguenti  ragioni  : 
1°  Il  fondatore  del  Collegio  pose  per  Prefetto  uno  degli  alunni,  perchè  allora  poteva 
stare:  ora  tale  ufficio  non  ha  più  ragion  d'essere  per  la  mutata  condizione  dei  tempi; 
2°  Gli  alunni  nominati  dal  Fondatore  erano  sette:  ora  essi  sono  otto,  e,  col  Rettore, 
nove  ;  3°  La  nomina  del  Rettore  fu  approvata  dal  Gran  Duca  di  Toscana  con  Re- 
scritto del  14  novembre  1819. 

1842  (1°  febbraio).  Il  Giorgini,  Soprintendente  agli  Studi,  concede  facoltà  all'Ar- 
civescovo di  nominare,  in  modo  provvisorio,  Rettore  del  Collegio  il  Canonico  Ribeccai. 
Questi  rimane  in  carica  solamente  per  un  mese  circa,  dovendo  cedere  il  posto  al 
Prefetto  ed  alunno,  Sac.  Felice  Zocchi.  E  così  momentaneamente  la  vinse  il  Principe. 
Ma  a'  dì  23  giugno  1843  fu  emanato  un  Rescritto  di  S.  A.  I.  e  R.  in  cui  si  dichiara: 

1°  Che  la  deroga  alle  Costituzioni  del  Collegio  indotta  dalla  Sovrana  Risolu- 
zione del  14  novembre  1819  in  quella  parte,  in  cui  si  stabilì  doversi  scegliere  il 
Prefetto  o  Rettore  dal  seno  degli  alunni,  è  obbligatoria,  e  porta  il  recesso  da  questo 
sistema  in  qualunque  circostanza  ed  in  perpetuo. 

2°  Che  per  conseguenza  i  Patroni  dovranno  sempre  eleggere  alla  carica  di 
Rettore  un  estraneo. 

3°  Che  potrà  essere  eletto,  purché  estraneo  al  Collegio,  un  probo  ecclesiastico, 
di  qualunque  paese  egli  sia. 

4°  Che  l'esercizio  del  Patronato,  quanto  alla  nomina  del  Rettore,  è  libero  da 
qualunque  influenza  dell'Ordinario  Pisano. 

Così  fu  abolito  per  sempre  l'ufficio  di  Prefetto. 

Un  unico  vestigio  ne  rimane  nel  cap.  2°  dell'attuale  Regolamento  Interno  (arti- 
coli 9  e  10),  dove  si  dice  che  ogni  mese  gli  alunni  nominano  con  votazione  segreta 
un  loro  compagno  che  deva,  d'accordo  col  Rettore,  fare  la  scelta  dei  generi  alimen- 
tari, e  coadiuvare  il  Rettore  nella  tenuta  dei  conti  per  la  spesa  giornaliera. 


31  VITA    DI    CARL ANTONIO    DAL    POZZO    FONDATORE    DEL    COLLEGIO    PUTEANO  -51 


CONCLUSIONE 

I  Patroni  ebbero  sempre  a  cuore  gl'interessi  del  Collegio  :  tutti  furono  favorevoli 
alla  nomina  del  Prefetto,  due  soli  eccettuati  che  trovarono  due  Arcivescovi  dello 
stesso  parere.  Don  Alfonso  Enrico  (1719),  d'accordo  coli' Arcivescovo  Frósini,  nominò 
per  Rettore  un  prete  piemontese;  Don  Emanuele  (1819),  d'accordo  coli' Arcivescovo 
Alliata,  conferì  lo  stesso  ufficio  ad  un  prete  toscano.  Questo  stato  di  cose  veniva  rico- 
nosciuto e  ratificato  dal  Rescritto  Sovrano  del  14  novembre  1819,  che  è  forse  il  do- 
cumento più  importante  nella  storia  del  Collegio;  l'altro  Rescritto  del  1843  non  è 
se  non  una  ripetizione  di  questo. 

Don  Emanuele  mori  nel  1864 -(26  marzo)  senza  lasciar  prole  maschile:  quindi 
il  Patronato  del  Collegio  passò  alla  figlia  Maria  Vittoria,  che  andò  sposa  a  S.  A.  R. 
il  Principe  Amedeo  Duca  d'Aosta  ;  ora  appartiene  esclusivamente  alle  LL.  AA.  RR, 
i  Principi  Emanuel  Filiberto,  Vittorio  Emanuele,  e  Luigi  Amedeo  di  Savoia. 

L'Arcivescovo  Dal  Pozzo,  il  figlio  del  Conte  di  Ponderano,  dei  Marchesi  di  Ro- 
magnano,  Consigliere  di  due  Gran  Duchi,  fu  uomo  di  forti  propositi  e  cupidissimo 
di  gloria.  Sia  nelle  azioni  che  negli  scritti  era  memore  sempre  della  nobiltà  dei  suoi 
natali.  Vediamo,  per  es.,  come  incomincia  il  1°  capitolo  delle  Costituzioni  del  Collegio: 
*  Io  Carl'Antonio  Puteo,  figlio  dell'illustre  signor  Francesco  Puteo,  Conte  di  Ponde- 
rano et  dei  Marchesi  di  Romagnano,  Jurisconsulto,  Arcivescovo  di  Pisa,  Alumno  dei 
Gran  Duchi  di  Toscana,  ecc.  „. 

Quel  periodo  che  incomincia  con  tanto  di  io,  tutti  quei  titoli  speciosi  schierati 
l'i  uno  dopo  l'altro  ci  rivelano  un  uomo,  in  cui  l'altezza  di  sentimento  si  accoppia 
alla  nobiltà  di  azione.  Quale  gioia  non  proverebbe  egli,  se  potesse  per  un  istante 
rialzare  il  capo  dal  suo  mausoleo  del  Camposanto  pisano,  se  in  quel  gelido  involucro 
craniale  potesse  nuovamente  agitarsi  il  pensiero  ed  esservi  percepita  la  bella  notizia 
che  ora  il  suo  Collegio  trovasi  sotto  l'alto  Patronato  della  Casa  di  Savoia!  La  lieta 
novella  sarebbe  come  un  raggio  di  sole  penetrato  nella  sacra  oscurità  del  sepolcro, 
o  come  un  fiore  incorruttibile  deposto  sulla  sua  tomba  da  mano  amica. 


252  DOMENICO    VALLA  32 


F  O  IV  T  I 

impi . 

Attilio  Corsi,  Orazione  in  lode  dell' IU.™*  <■  II.      Mons.  Cari' Antonio  dal  Pozza  Ann.    di  Pisa.  Ediz. 
Giunti,  1608.  Firenze,  1608. 

F.  Bocchi,  De  laudibus  Caroli  Antimi'   l'atri.  Florentiae,  apud  I.  Sermartellium,  1608. 

I.  Mazzonii  Caesenatis  (non  Cesari'.  Mazzoni  come  intese  il  Tenivelliì,  In  universum  Plutonis  et  Ari- 
stoteli.-: Praeludia,  etc. 

G.  Viviani,  Praxis  iuris  patronatus,  lib.  Ili,  o.  2,  pag.  53  e  segg.  (ediz.  1620). 

F.  L.   Barelli,  Memorii    dell'origine,  fondazione,  ecc.  dei  Chierici  Bagolari  di  S.  Paolo.  Bologna,   1707, 
voi.  2°,  pag.  75  e  segg. 

F.  Ughelli,  Italia  .Sacra.  Tomo  III,  489-90. 

R.  Galluzzi,  Storia  del  Gran  Vacato  di  Toscana,  ed.  1841,  voi.  Ili,  327-328,  voi.  IV,  9,  151,  voi.  V,  26,27. 
\.   !'.   Mattei,   Ecclesia,    Pisanae  Historia  (ed.  1772).  Tomo  II,  207,  216. 

C.  Tenivelt.i,  Biografie  Piemontesi  (ed.  1785).  Decade  2»,    pag.  281-308.  N.  B    II   Tenivelli  mostra   di 
non  conoscere  l'opera  del  Mattei,  che  fu  pubblicata  13  anni  prima. 

G.  Fasulli,  Istoria  del  monastero  degli  Ani/ioli  ili  Firenze.  Lucca,   1710,  pag.   129. 
F.  Inchinami,  Storia  della   Toscana,  voi.  10,  15,  16  (ediz.  1841). 

A.  Da  Morrona,  Pisa  iti  usi  rata  nelle  arti  del  disegno.  Livorno,  1812. 
R.  Grassi,  Descrizione  storica  e  artistica  ili  Pisa  (ediz.   1836). 

F.  Mutinelli,  Storia  arcana  ed  anedottica.  Venezia,  1855. 

E.  Alberi,  Relazioni  degli  Ambascia/un    Veneti.  Firenze,  1839-63. 

G.  Sainati,    Diario  Sacro   Pisano.  Torino,   Tip.  Sales.,   1898  (3*  ediz.). 

A.  Rei'mont,  Geschichte  Toscana's  seit  dem  Ende  des  florentinischen  Freistaates.  Gotha,  Perthes,  1876-77. 
G.  Masserano,  Biella  e  i  Dal  Pozzo.  Biella.   1867. 

B.  Trompeo,    Cenno  storico-statistico  del   Collegio  i'uteano.  in  Pisa.   Torino,    ItiTO. 

b)  Manoscritti. 
Pisa   -   I.   Archivio   di   Stato. 

Arch.  dell'Opera  della  Primazia! e.  Lettere  sulla  ristauraz.  del  Duomo,  filze  1253  e  1039. 

Contratti  della  Pia  Casa  di  Misericordia. 

Arch.  di  Santo  Stefano.  Provanze  di  nobiltà.  Apprensioni  d'abito. 

Navarrette.  Memorie  Pisani 

II.  Archivio  dell'Arcivescovado. 

Archivio  così  detto  Sei/reto.  Potei  consultare  le  carte  preziosissime  ivi  contenute  mediante  la 
raccomandazione  del  canonico  Ratiaelli,  a  cui  porgo  pubblici  ringraziamenti. 

Archivio  della  Mensa.  Quivi  trovasi  un  ms.  di  Paolo  Tronci.  Vedasi  in  proposito  un  mio  arti- 
colo in   "  Arch.  stor.  it.  „,  serie   V,  tomo  XXVII,   1901. 

Archivio  della  Curia.  Acta  Extraordinaria,  filza  15;  Acta  criminalia,  filza  16. 

III.  Arch.  della  Pia  Casa  di  Misericordia.  Quivi  trovasi  la  maggior  parte  dei  documenti  che  riguar- 
dano il  Collegio. 

IV.  Arch.  del  sig.  Conte  Agostini-Venerosi-Della  Seta.  Carteggi  della  famiglia  Bocca.  L'Arcip.  Giu- 
seppe Bocca  era  il  Vicario  dell'Arciv.  Dal  Pozzo. 

Firenze  -  I.  Arch.  di  Stato.  Carteggi  del  Principato  Mediceo.  Carte  Strozziane. 
Archivio  della  Rota.  Diario  del  Settimanni. 

Vita  di  Ferdinando  I  Gran  Duca,  scritta  da  Domizio  Peroni  in  C.  Strozz.,  filza  53. 
IL  Biblioteca  Magliabechiana,  ci.  Vili,  cod.  81. 
Passerini,  202;  Capponi,  cod.  XC,  CCL,  CXXIV. 

III.  Bibl.  Riccardiana,  ms.  2205. 

IV.  Bibl.  Laurenziana,  Catal.  Med.  Palat.,  cod.  47-48. 

V.  Archivio  Generale  dei  Contratti,  Testamenti,  filza  593,  15,  n°  22. 


ESAME     STORICO     CRITICO 


DELL  OPERA    DEL 


signoe   JULES  DE  GAULTIER 


INTITOLATA 


"DA   KANT   A   NIETZSCHE 


55 


MEMORIA 

DEL 

Prof.  ROMUALDO  BOBBA 

Approvata  nell'adunanza  del  21  Giugno  1903. 


Il  signor  Jules  de  Gaultier  pubblicava  nel  1900  un  libro  col  titolo  Da  Kant  a 
Nietzsche  (Paris,  "  Société  du  Mercure  de  Franco  „),  die  comprende  tre  parti, 
cioè  una  breve  prefazione,  una  introduzione  la  quale  nel  libro  riempie  250  pagine  e 
una  esposizione  della  Filosofia  di  Nietzsche.  Non  intendiamo  qui  di  prendere  in  esame 
se  non  le  due  prime  parti,  la  quale  vorrebbe  essere  una  specie  di  compendio  della  Storia 
della  Filosofia  sotto  un  aspetto  speciale,  cioè  "  la  pbilosophie  sera  considérée  cornine 
"  description  des  modalités  et  des  limites  de  la  faculté  de  connaitre.  Ainsi  circon- 
"  scripte,  elle  bénétìciera  du  caractère  de  certitude  dévolu  à  toutes  les  sciences,  qui 
"  cornine  les  mathématiques,  la  geometrie  et  la  logique  traitent  de  la  forme  seule- 
"  meiit  de  l'esprit  et  ne  s'aventurent  pas  à  la  suite  des  sciences  naturelles  et  histo- 
"  riques  à  explorer  son  contenu.  C'est  cette  science  de  la  forme  et  des  limites  de 
"  notre  faculté  de  connaitre  dont  on  se  propose  ici  de  pre'ciser  les  conclusions,  de  dé- 
"  finir  le  ròle  et  la  portée,  de  mettre  en  scène,  en  quelque  sorte,  l'epopee.  Or  il  nous 
"  faudra  parvenu-,  à  traverà  les  détours  de  la  pensée  philosopbique  jusqu'  à  la  cri- 
"  tique  de  la  Raison  pure „  e  poi  continuare  da  questa  fino  a  Nietzsche. 

Adunque,  se  abbiamo  ben  compreso,  il  compito  che  si  propone  l'autore  nella  sua 
introduzione  è  di  mettere  in  scena  l'epopea  della  forma  e  dei  limiti  della  nostra 
facoltà  di  conoscere,  precisarne  le  conclusioni  e  definire  l'ufficio  del  pensiero  senza 
esplorarne  il  contenuto.  Vediamo  come  egli  abbia  svolto  il  suo  assunto. 


L'autore  pone  la  questione  in  questi  termini  :  "  Comment  la  vie  laisse-t-elle 
"  place  à  la  manifestation  de  son  contraire,  l'état  de  connaissance  qui,  dissipant  l'il- 
"  lusion  nécessaire  à  la  vie,  met  la  vie  en  perii?  „   (pag.   16j.  Ora  concesso    che   la 


254  ROMUALDO    BOBBA  li 

verità  presa  come  fine  della  conoscenza  favorisca  uno  stato  contrario  alla  vita  se- 
condo l'autore,  si  comprende  che  l'appetito  di  conoscere  non  possa  manifestarsi  che 
in  quelli  in  cui  la  vita  è  sul  declino.  Se  non  che,  continua  egli,  la  vita  è  posseduta 
da  un  bisogno  di  dissimulazione,  nasconda  essa  il  suo  nulla  o  il  suo  mistero,  si  mostra 
provveduta  di  un  corredo  inesauribile  di  maschere  di  ogni  sorta,  e  quando  una  di 
queste  incomincia  a  staccarsi,  tanto  vale  che  sia  subito  strappata.  L'istinto  di  cono- 
scenza è  appunto  quello  che  adempie  a  tale  ufficio;  esso  è  nichilista,  ne  può  mostrarsi 
senza  distruggere;  tuttavia  nel  compiere  tale  impresa,  che  lo  soddisfa,  non  lascia  di 
fornire  un  mezzo,  che  viene  adoperato  da  un  istinto  più  forte,  perchè  mentre  quello 
rovescia  i  vecchi  idoli,  la  vita  multiforme  e  onnipotente  eleva  nuovi  idoli.  Laonde 
l'intervento  della  conoscenza  ha  per  effetto  di  facilitare  l'avvenimento  di  un  nuovo 
culto,  meglio  in  rapporto  colle  modificate  condizioni  dello  spettacolo,  colla  oscurità 
variabile  in  gradi  ma  sempre  necessaria  alla  vita  finche  assiste  alle  proiezioni  ma- 
giche sulla  tela  fenomenale  delle  ombre  ove  essa  si  rappresenta  e  cerca  di  cogliersi. 
Supponendo  quindi  che  l'illusione  attuale  della  vita  sia  per  dileguarsi  a  cagione 
degli  attacchi  dell'istinto  di  conoscenza,  l'autore  vuole  studiare  i  modi  possibili  di 
una  nuova  illusione  più  solida,  che  protegga  la  vita  e  mantenga  più  sicuramente 
l'ombra  in  cui  prospera.  Ora  l'istinto  di  conoscenza  e  l'istinto  vitale  dissimulati  sotto 
apparenze  metafisiche  sono  in  lotta  necessaria  ;  e  sebbene  l'istinto  vitale  sia  sempre 
il  trionfatore  eletto  dalla  sorte,  tra  gli  spettatori  della  lotta  se  ne  possono  trovare 
alcuni,  e  l'autore  è  indubbiamente  tra  questi,  i  quali  per  intime  analogie  inclinano 
a  schierarsi  dalla  parte  del  vinto  ed  a  sorridere  della  dabbenaggine  del  vincitore, 
attesoché,  dice  l'autore,  nel  corso  della  sua  esposizione  "  ils  trouveront  piture  pour 
"  leur  sympathie  secréto  ;  car  jamais  l'instinct  vital  ne  fut  plus  dangereusement  me- 
"  nacé  et  n'apparut  en  posture  moins  noble  que  durant  cette  période,  où,  ferrasse 
"  par  la  Critique  de  la  Raison  pure,  il  emploie  pour  se  défendre  les  procédés  de  la 
"  lutte  la  plus  discourtoise,  les  attitudes  les  plus  burlesques,  les  arguments  de  la 
"  dialectique  la  plus  creuse  „  (pag.  19).  Compiangeremo  a  suo  tempo  questo  disgra- 
ziato istinto  vitale,  intanto  assistiamo  a'  suoi  trionfi. 


IL 

All'origine  di  ogni  popolo  che  va  costituendosi  sorge  un  uomo  in  cui  l'istinto 
vitale  della  razza  prende  coscienza  di  sé,  de'  suoi  bisogni,  delle  sue  necessità  vitali, 
ne  è  il  legislatore,  il  sacerdote  in  nome  dell'istinto  vitale,  cioè  diciamo  noi,  dell'istinto 
naturale  di  conservazione  e  di  perfezionamento  della  associazione,  forinola  un'igiene 
fisica  e  morale,  codifica  tutte  le  misure  proprie  a  regolare  le  attitudini,  a  determinare 
gli  atti  in  vista  di  assicurare  la  forza,  la  durata,  la  felicità,  la  potenza  della  razza. 
Né  basta;  per  l'osservanza  di  quei  precetti,  dà  loro  il  carattere  di  leggi  esterne,  con 
premii  e  pene  immediate,  a  cui  aggiunge  ancora  finzioni  ricche  di  promesse  o  di  mi- 
nacce per  agire  mediante  immagini  al  di  là  delle  coercizioni  esecutorie  immediate 
sopra  lo  spirito  degli  uomini.  Tali  finzioni  sono  presentate  come  leggi,  ma  senza  giu- 
stificarne la  realtà.  Vero  è  che  più  tardi  sorgono  taluni,  che  in  appoggio  della  fede 


3  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    ..  255 

reclamano  argomenti,  perchè  a  loro  non  basta  più  che  le  finzioni  siano  utili,  ma  vo- 
gliono che  siano  vere,  cioè  vogliono  che  ciò  che  per  la  loro  associazione  era  di  una 
utilità  particolare  per  conservare  la  loro  autorità  siano  mascherate  colla  apparenza 
di  utilità  universale.  Con  tale  pretesto  l'istinto  di  conoscenza  entra  in  scena;  esso 
sarebbe  già  armato  per  distruggere,  ma  essendo  ancora  sotto  l'assoluta  dipendenza 
dell'istinto  vitale,  viene  costretto  a  formare  a  lato  della  finzione  dogmatica  una  nuova 
finzione,  a  lato  del  dogma  religioso  un  -dogma  filosofico,  cioè  a  stabilire  l'identità  del- 
l'utile col  vero  nel  senso  sopra  indicato,  il  che  si  chiama  una  filosofia.  L'istinto  vi- 
tale poi  colle  conclusioni  della  filosofia  sanziona  ciò  che  si  ha  il  costume  di  nominare 
la  verità.  Quindi,  secondo  l'autore,  una  menzogna  religiosa  e  una  menzogna  razio- 
nalistica, un  dogma  e  una  filosofia  sono  il  doppio  riparo  dietro  il  quale  ogni  istinto 
vitale  previdente  assicura  le  sue  petizioni  e  i  suoi  bisogni,  la  sua  durata  oltre  il  pe- 
riodo della  sua  forza  e  primitiva  spontaneità,  e  questi  sono  appunto  i  due  fantasmi 
che  la  crescente  luce  della  conoscenza  deve  dissipare  quando  sarà  venuto  il  tempo 
di  dissipare  l'intrigo  fenomenale  secondo  una  nuova  affabulazione .  cioè  una  nuova 
menzogna. 


III. 

Per  farci  meglio  comprendere  le  cose  sopra  esposte  l'autore  con  due  parole  ci 
spiega  il  loro  senso  arcano,  scrivendo:  la  finzione,  la  menzogna  istituita  da  circa 
19  secoli  dall'istinto  vitale,  che  come  abbiamo  veduto  è  necessariamente  nemico 
della  conoscenza,  irrazionale,  cieco,  ma  che  doveva  essere  da  spinta  della  sua  evo- 
luzione fra  le  razze  occidentali,  è  il  monoteismo.  Quindi,  secondo  l'autore,  la  finzione, 
la  menzogna  è  semplicemente  questa:  un  Dio  fuori  del  mondo,  creatore  dello  stesso; 
una  legge  rivelata  sia  miracolosamente,  sia  naturalmente  alla  coscienza  umana,  signi- 
ficantele  un  bene  da  praticare,  un  male  da  evitare,  l'uomo  fornito  di  un  libero  arbi- 
trio, che  gli  permette  di  osservare  o  non  osservare  i  precetti  impostigli,  la  respon- 
sabilità de'  suoi  atti,  la  capacità  di  meritare  o  demeritare,  di  ricompense  o  di  pene, 
concepite  ora  sotto  forme  grossolane  ora  sotto  forme  più  pure:  tale  è,  aggiunge 
l'autore,  il  sistema  di  menzogne  e  di  finzioni  che  abbraccia  la  concezione  monoteistica 
cristiana  dopo  che  se  ne  è  eliminato  il  monoteismo  musulmano  (pag.  24).  Questo 
latino  ha  almeno  il  vantaggio  di  essere  perfettamente  chiaro  e  facilmente  compreso 
anche  dai  non  superuomini. 

Questa  menzogna,  secondo  l'autore,  fu  la  più  adatta  a  favorire  lo  sviluppo  delle 
razze  che  la  formularono,  come  fu  per  esse  l'attitudine  di  utilità  più  favorevole.  Im- 
perocché per  l'essere  che  si  crede  libero  e  responsabile,  e  nel  caso  delle  razze  occi- 
dentali, la  finzione  monoteistica  col  corteggio  delle  altre  finzioni,  che  l'accompagnano, 
rappresenterà  il  fenomeno  esteriore  che  farà  produrre  al  fenomeno  esteriore  uomo  tutto 
il  suo  contenuto.  La  fede  con  cui  si  attaccherà  a  tale  finzione  e  l'autorità  che  le 
accorderà,  rappresenteranno  il  grado  preciso  della  sua  capacità  ed  energia  al  contatto 
di  circostanze  favorevoli  (pagg.  24-25). 

Niuno  ignora  che  il  Cristianesimo  abbia  avuto,  specialmente  in  questi  ultimi 
tempi,  avversarli  più  o  meno  dichiarati,  i  quali  sembrano  aver  una  volta  per  tutte 


256  ALDO    BOBBA  4 

chiuso  il  loro  conto  rispetto  all'infinito.  Ma  vi  furono,  come  vi  sono  varii  modi  di 
procedere  contro  il  Cristianesimo.  Alcuni  prendono  a  modello  Voltaire,  altri  Strauss, 
altri  procedono  in  modi  diversi  più  moderni;  tuttavia,  checché  si  dica,  Voltaire  non 
ha  ancora  perduta  tutta  la  sua  influenza.  Quantunque  si  affermi  che  da  tempo  è 
stato  sorpassato,  che  non  corrisponde  più  al  nostro  grado  di  coltura  filosofica,  che 
non  ha  un  sistema  di  critica,  eccetto  l'epigramma  perpetuo,  la  frivolezza  del  com- 
mentario, l'avventatezza  della  citazione,  l'abbondanza  dei  controsensi,  che  non  eccelle 
se  non  nella  polemica,  e  che  tutto  ciò  non  costituisce  che  un  genere  di  critica  infe- 
riore, pure  questa  polemica  si  adatta  così  bene  a  certi  spiriti  da  esercitare  ancora  una 
influenza  deleteria  sopra  di  loro. 

Ma  vi  sono  anche  spirili  di  altra  tempra,  i  quali  hanno  bisogno  di  altri  argomenti 
senza  aver  letto  ne  Paulus,  ne  Strauss,  ne  Baur,  ne  Evale!  ;  senza  sapere  se  esista 
una  scuola  di  Tubinga  o  una  di  Gottinga,  ne  in  che  differiscano;  senza  aver  conse- 
guito una  laurea  in  qualche  università  tedesca,  non  respirano  meno  le  idee  che  una 
previdente  erudizione  spande  in  libri  più  o  meno  serii.  Ciascuno  prende  da  questi  ciò 
che  conviene  al  suo  temperamento,  alle  sue  tendenze.  Cosi  gli  uni  ammettono  la  realtà 
dei  fatti  evangelici,  ma  seguaci  senza  saperlo  dell'arido  razionalismo  di  Paulus,  ne- 
gano che  contengano  checchessia  di  meraviglioso,  ed  a  ciascun  miracolo  del  vecchio 
o  del  nuovo  Testamento  con  tutta  sicurezza  assegnano  una  causa  naturale.  Ad  esempio 
il  passaggio  del  mar  Rosso  avvenne  durante  una  marea,  le  piaghe  d'Egitto  non  fu- 
rono che  un  fenomeno  del  clima,  la  moltiplicazione  dei  pani,  puro  fenomeno  di  fru- 
galità. Altri  hanno  tendenze  di  spirito  più  mistiche  per  non  contentarsi  di  spiegazioni 
così  triviali.  Le  forze  nascoste  della  spontaneità  umana  seducono  la  loro  fantasia. 
Traducendo  Strauss  a  loro  modo,  ammettono  il  meraviglioso,  ma  negano  che  esso  si 
trovi  nelle  cose,  nei  fatti,  per  essi  il  meraviglioso  è  solo  nello  spirito  umano,  nei 
grandi  istinti  della  umanità  incosciente,  impersonale,  che  spande  a  piene  mani  il 
miracolo  nel  mondo  reale  e  trasforma  tutti  i  fatti  in  simboli.  Per  altri,  i  racconti 
evangelici  non  sono  miti,  ma  leggende;  e  sebbene  la  differenza  che  passa  fra  il  mito 
e  la  leggenda  sia  sottile,  esiste,  poiché  sopra  di  essa  si  pretese  fondare  una  teoria. 
Pei  leggendisti  Cristo  non  è  una  semplice  figura  metafisica,  ma  una  persona,  e  la  sua 
realtà  storica,  come  quella  de'  suoi  testimoni  rimane  intatta,  ma  i  testimoni  non  vid- 
dero  bene,  essi  viddero  colla  loro  immaginazione  intorbidata.  L'allucinazione,  una 
specie  di  vertigine,  la  percezione  indecisa,  più  tardi  i  racconti  grossolani,  il  desiderio 
di  glorificare  il  loro  eroe,  forse  anche  una  innocente  e  segreta  complicità  dell'eroe, 
ecco  gli  elementi  della  leggenda  (Caro,  L'idée  de  Dicu  et  ses  nouveaux  critiques). 

Tutti  questi  avversarli  però  conservano  un  certo  rispetto  più  o  meno  esplicito 
pel  fondo  della  dottrina;  ma  il  De  Gaultier,  ultimo  venuto,  per  mostrarsi  più  ardito 
non  si  arresta  a  queste  guerricciuole,  a  queste  spiegazioni  più  o  meno  lambiccate  e 
proclama  crudamente  che  un  bel  giorno,  da  circa  19  secoli  l'istinto  vitale,  nemico 
irreconciliabile  della  conoscenza,  concepì  e  formulò  il  monoteismo  cristiano  con  tutte 
le  sue  menzognere  appendici,  concezione  tanto  più  straordinaria,  in  quanto  esso  istinto 
vitale  nemico  della  conoscenza  opera  ciecamente. 

Ma  l'autore  accorgendosi  che  il  datare  la  concezione  monoteistica  dal  principio 
dell'era  volgare  era  un  burlarsi  troppo  del  lettore,  cerca  di  ripararvi  scrivendo:  si 
dice  che  ogni  istinto  vitale  che  si  oggettivizza,  trae  la  finzione  da  una   doppia   ori- 


5  :  storico  craTico  dell'opera  "  da  kaht  a  Nietzsche  „  257 

gine,  e  la  menzogna  monoteistica  non  sfuggi  a  questa  legge,  giacche  per  una  parte 
si  riattacca  alla  Bibbia  e  per  l'altra  alla  filosofia  greca.  Colla  prima  alimenta  l'al- 
bero menzognero  del  dogmatismo  e  colla  dialettica  platonica  formula  il  razionalismo. 
Ed  è  questa  seconda  fonte  che  l'autore  prende  anzitutto  in  esame.  Egli  afferma  con 
sicumera  che  le  conclusioni  della  filosofia  platonica  lo  fanno  sorridere,  sebbene  la 
loro  inverosimiglianza,  rilevata  oggi,  non  offenda  che  pochi  spiriti  chiaroveggenti  ; 
mentre  il  valore  di  esse  non  ebbe  altra  causa  all'infuori  della  influenza  dispotica 
esercitata  all'epoca  di  Platone  dall'istinto  vitale  sulle  razze  che  aspiravano  a  vivere. 
Laonde  l'autore  avrebbe  dovuto  logicamente  aggiungere  che  all'epoca  di  Platone  vi 
erano  razze  che  aspiravano  a  morire,  ed  egli  avrebbe  fatto  cosa  molto  istruttiva  se 
avesse  indicato  le  fonti  storiche  da  cui  aveva  attinto  notizie  tanto  peregrine  sfuggite 
finora  ai  più  sagaci  e  accurati  storici  della  Grecia. 

In  attesa  di  queste  indicazioni,  secondo  l'autore,  noi  sappiamo  che  Platone  ap- 
parteneva alla  razza  che  aspirava  a  vivere,  come  pure  che  come  filosofo  essendo  sog- 
getto al  dominio  dispotico  dell'istinto  vitale  nemico  della  conoscenza,  doveva  dare  un 
corpo  alla  finzione  o  menzogna  monoteistica.  Se  non  che,  aggiunge  l'autore,  venuto 
dopo  gli  Eleati,  Platone  doveva  anche  proporsi  il  problema  della  conoscenza  ed  in 
parte  risolverlo. 

Nel  secolo  XVTTT  era  di  moda  ridersi  delle  astruserie  platoniche,  ma  niuno  era 
mai  giunto  a  negare  a  Platone  un  ingegno  sagacissimo,  una  conoscenza  profonda 
delle  leggi  del  pensiero  umano;  toccava  proprio  al  De  Gaultier  di  fare  a  giorni  nostri 
la  preziosa  scoperta  che  Platone  non  fu  che  un  cieco  istrumento  al  servizio  dell'istinto 
vitale  nemico  della  conoscenza! 

Il  Monoteismo  si  presenta  a  Platone,  il  quale  fortunatamente  per  noi  apparte- 
neva alla  razza  che  aspirava  a  vivere,  secondo  l'autore,  sotto  un  triplice  aspetto. 
Posarsi  il  problema  della  conoscenza  è  meravigliarsi,  è  inquietarsi  per  la  prima  volta 
dei  rapporti  che  possono  esistere  tra  gli  oggetti  tali  quali  li  pensiamo,  e  gli  oggetti 
quali  possono  essere,  è  sospettare  per  la  prima  volta  che  gli  oggetti  possano  essere 
differenti  dalla  loro  rappresentazione.  Questa  inquietudine  segna  la  nascita  della  filo- 
sofia, perchè  necessita  una  critica  dei  nostri  mezzi  di  conoscere.  Posto  da  Socrate  il 
problema  col  suo  dubbio,  Platone,  secondo  l'autore,  si  compiace  del  problema  della 
conoscenza,  ma  bentosto  lo  abbandona  e  quel  che  è  peggio  lo  snatura;  eppure  egli 
non  solo  si  è  preoccupato  di  tale  problema,  ma  se  lo  pone,  lo  discute  in  cento  luoghi 
delle  sue  opere  e  specialmente  nel  Protagora,  nel  Filebo,  nel  Teeteto,  nel  Parmenide, 
ma  siccome  non  arriva  alle  conclusioni  della  Critica  della  Ragion  pura,  così  per  l'autore 
Platone  ha  bensì  toccato  il  problema,  ma  insieme  lo  ha  snaturato. 

Ciò  premesso,  secondo  l'autore,  il  problema  della  conoscenza  si  sarebbe  presen- 
tato a  Platone  sotto  tre  aspetti  :  1°  scientificamente  rispetto  agli  oggetti  del  mondo 
esterno;  2°  ma  a  lato  degli  oggetti  l'istinto  vitale,  nemico  della  conoscenza,  ha  già 
creato  rudimentalmente  altre  categorie  di  oggetti,  cioè  quelli  del  mondo  morale  e  del 
mondo  metafisico  ;  3°  ora  questi  oggetti  essendo  pure  creazioni  'dello  spirito  sono  per 
esso  facilmente  trattabili,  essendo  concezioni  che  non  apparendo  ne  nel  tempo,  ne  nello 
spazio,  sono  facilmente  creduti  della  stessa  natura  dell'intelligenza  che  li  concepisce. 
Quando  si  abbia  l'ardire  di  loro  conferire  la  vita  e  l'audacia  di  proclamare,  una  volta 
per  tutte,  ad  occhi  chiusi  per  non  ritornarci  più  sopra,  che   tali    oggetti    fabbricati 

Serie  II.  Tomo  LUI.  33 


258  ROMUALDO    BOBBA  0 

dalla  intelligenza  hanno  una  esistenza  reale  fuori  della  medesima,  il  problema  della 
conoscenza  sotto  questa  forma  sarà  presso  alla  risoluzione.  Nello  stesso  tempo  l'es- 
senza dell'essere  sarà  definita  secondo  il  voto  dell'istinto  vitale.  Tutto  il  giuoco,  se- 
condo l'autore,  consiste  adunque  in  questo  artifizio  dello  spirito,  che  non  potendo 
spiegare  il  fatto  della  conoscenza  pel  fatto  della  esistenza,  rovescia  i  termini  del  pro- 
blema conferendo  alla  conoscenza  il  potere  di  creare  l'essere.  L'autore  aggiunge  che 
tale  procedimento  venne  praticato  da  una  intelligenza  superiore,  costruendo  colle 
proprie  mani  idoli  e  persuadendosi  che  essa  doveva  a  loro  la  propria  esistenza.  Pro- 
cedimento che  costituisce  il  meccanismo  stesso  dell'istinto  vitale,  e  Platone  un'avatara 
dell'istinto  vitale  nemico  della  conoscenza,  subendone  il  giogo,  non  esita  ad  affermare 
ciò,  pur  usando  del  perfetto  metodo  dialettico  messogli  nelle  mani  astutamente  dal- 
l'istinto della  conoscenza,  e  che  distruggerà  con  Kant  le  sue  conclusioni. 

In  fatto,  Platone  sulle  orme  di  Socrate  osserva  che  la  conoscenza  di  un  oggetto 
implica  che  può  essere  data  una  definizione  dello  stesso  ;  che  definire  è  classificare  e 
limitare  sotto  la  categoria  di  una  idea  generale.  Ora  questa  idea  che  rende  possibile 
la  conoscenza  dell'oggetto  che  gli  conferisce  l'esistenza  conoscibile,  non  potrebbe  ap- 
partenere all'oggetto.  Ma  essa  non  proviene  neppure  dai  sensi ,  che  sotto  la  forma  di 
sensazione  non  ci  forniscono  degli  oggetti  che  dati  incompleti,  mostrandoceli  in  uno 
stato  di  continuo  cambiamento,  non  lasciandocene  in  qualche  modo  vedere  che  le 
ombre  effimere  ed  incostanti.  Ora  Platone  dopo  aver  considerato  tutto  ciò,  essendo 
disgraziatamente  sotto  il  giogo  dell'istinto  vitale,  volendo  chiarire  dove  debbano  col- 
locarsi queste  idee  mediante  le  quali  noi  conosciamo,  non  le  colloca  nella  ragione 
umana,  perchè  esse  ne  sono  gli  oggetti.  E  come  gli  oggetti  esterni  sono  indipendenti 
dai  nostri  sensi,  cosi  le  idee  lo  sono  dalla  nostra  ragione.  Dove  adunque  si  colloche- 
ranno esse?  Nella  ragione  divina  debbono  essere  poste,  della  quale  sono  gli  attributi. 
tipi  esterni  degli  individui  particolari  percepiti  dai  sensi,  viventi  di  esistenza  reale 
e  sostanziale. 

Cosi,  secondo  l'autore,  sotto  il  pretesto  di  spiegare  il  meccanismo  della  cono- 
scenza è  introdotto  il  procedimento  sopra  cui  si  fonderà  nell'avvenire  ogni  teologia  ; 
procedimento  che  si  riduce  ad  una  realizzazione  di  astrazioni.  Le  forme  della  cono- 
scenza sono  fornite  di  una  esistenza  oggettiva,  la  cui  suprema  realtà  è  in  Dio, 
mentre  l'esistenza  è  eliminata  dagli  oggetti  particolari  da  noi  percepiti,  vane  ap- 
parenze. 

Questa  teoria,  secondo  l'autore,  è  per  lui  certa  in  quanto  nella  sua  parte  su- 
scettibile di  una  applicazione  legittima,  cioè  in  quanto  si  riferisce  agli  oggetti  esterni, 
consacra  la  nozione  del  fenomeno,  cioè  la  nozione  di  uno  scarto  possibile  e  probabile 
tra  le  nostre  percezioni  e  gli  oggetti  che  percipiamo.  Inoltre  l'idea  platonica  presa 
come  mezzo  per  conoscere  gli  oggetti  esterni  corrisponderebbe  abbastanza  esattamente 
ai  concetti  dell'intendimento  dei  quali  Kant  farà  la  deduzione.  Questa  teoria,  sempre 
secondo  l'autore,  fornisce  il  senso  preciso  del  vocabolo  idealismo,  che  non  implica  se 
non  la  nozione  di  una  diformazione  necessaria  subita  dall'oggetto  appreso  attraverso 
l'apparecchio  della  conoscenza,  cioè  l'apparecchio  ideologico.  Intanto,  aggiunge  l'au- 
tore, il  metodo  dialettico  bene  applicato  da  un  servitore  quale  Platone  sottomesso 
all'istinto  vitale,  porta  già  i  suoi  frutti  incamminandosi  alla  divulgazione  della  men- 
zogna implicata  in  ogni  stato  di  esistenza  conoscibile. 


7  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   ,  259 

Per  prosciogliere  e  differenziare  le  idee  dai  fenomeni  del  mondo  esterno  e  dalle 
concezioni  dello  spirito  in  cui  si  riflettono.  Platone  usa  il  procedimento  che  adoperò 
poi  Kant,  cioè  l'astrazione.  Cioè  dalle  rappresentazioni  cui  danno  origine  le  nostre 
percezioni,  eliminasi  ciò  che  è  particolare,  non  conservando  che  ciò  che  è  generale, 
ossia  ciò  che  si  estende  ad  un  numero  di  più  in  più  grande  di  oggetti  particolari  ;  e 
tale  procedimento  è  il  più  sicuro  per  determinare  le  forme  della  conoscenza,  per 
smontare,  secondo  l'autore,  tutte  le  parti  dell'apparecchio  di  ottica  mentale,  attra- 
verso il  quale  il  contenuto  della  conoscenza  viene  appreso  dallo  spirito;  mentre  per 
Platone  non  è  che  un  mezzo  per  giungere  agli  oggetti  metafisici,  cui  egli  ebbe  dal- 
l'istinto vitale  la  missione  di  definire  e  prepararne  e  annunziarne  il  regno.  Ora  coi 
materiali  raccolti  per  una  scienza  della  conoscenza  Platone  costituisce  una  Ontologia  :  e 
il  suo  lavorio  di  propaganda  si  ridurrà  ad  applicare  in  ogni  occasione  la  sostituzione 
a  cui  abbiamo  di  sopra  accennato,  cioè  a  prendere  la  forma  della  conoscenza  pel  suo 
contenuto,  a  dare  ai  concetti  formati  dal  suo  spirito  una  esistenza  tanto  più  sostan- 
ziale, quanto  mediante  una  serie  di  astrazioni  più  completamente  vuote  di  ogni  so- 
stanza. TI  giuochetto  è  troppo  palese,  secondo  l'autore,  e  il  procedimento  sarebbe 
impudente  se  non  fosse  troppo  ingenuo;  intanto  l'errore  che  implica  è  la  sorgente 
feconda  da  cui  sgorga  ogni  teologia  senza  distinzione  di  chiese,  ogni  filosofia  razio- 
nalistica, ogni  dottrina  enciclopedica,  ogni  filosofia  di  Stato,  ogni  legislazione.  Per 
giustificare  il  trionfo  costante  del  non  vero  sulla  logica  si  è  fatto  appello  alla  onni- 
potenza dell'istinto  vitale,  che  essendo  quello  che  è,  ha  per  destino  di  trionfare  su 
tatto  che  vive  dell'istinto  della  conoscenza.  Egli,  l'istinto  vitale,  sa  che  i  suoi  più 
frivoli  propositi  sono  sempre  accolti  senza  ragione  e  replica  da'  suoi  cortigiani. 

La  menzogna,  ripete  l'autore,  si  riduce  ad  un  uso  arbitrario  del  procedimento 
astrattivo;  ma  questo  è  un  istrumento  fedele  della  conoscenza,  e  quando  si  spinge 
fino  all'estremo  il  suo  uso,  conferisce  alle  sue  creazioni  ciò  che  esse  sono  effettiva- 
mente, minacciando  così  di  far  cessare  l'equivoco,  cioè  astraendo  dall'idea  di  esistenza, 
il  fatto  stesso  dell'esistenza,  non  rimane  più  che  il  puro  concetto  dell'idea,  ossia  una 
forma  vuota,  un  mezzo  per  conoscere,  non  già  il  contenuto  stesso  della  conoscenza. 
Intanto  è  appunto  sopra  questo  vuoto  che  si  fonda  tutta  la  filosofia  platonica,  e  al 
suo  seguito  tutta  la  teologia.  Laonde,  secondo  l'autore,  Platone  è  il  vero  creatore 
della  illusione  teologica  e  tale  illusione  si  riassume  perfettamente  in  una  sola  idea, 
l'idea  di  Dio,  di  Dio  fornito  de'  suoi  attributi,  il  bene,  il  bello,  il  vero  assoluto,  la 
triade  dei  filosofi  spiritualisti.  Con  Platone  tutte  le  idee  di  perfezione  morali  e  intel- 
lettuali, astratte  secondo  il  De  Gaultier,  dai  fenomeni  del  mondo  visibile  e  morale, 
completate  dall'idea  di  potenza  presa  dai  fenomeni  della  natura,  tutte  queste  idee 
diventano  il  patrimonio  di  Dio,  del  riovq,  da  cui  ricevono  l'esistenza  colla  stessa  lo- 
gica con  cui  si  darebbe  l'esistenza  al  concetto  del  nulla,  legittimo  prodotto  dello  stesso 
procedimento  astrattivo.  Essere  ed  essere  conosciuto  sono  lo  stesso,  dirà  Aristotele 
erigendo  in  dottrina  il  principio  medesimo  della  illusione,  da  cui  uscirà  YE-ns  realis- 
simum  della  Scolastica,  l'essere  supremo  degli  Enciclopedisti,  venerato  da  Robespierre 
e  legato  ai  posteri  dal  Vicaire  Savoyard.  (Conf.  da  pag.  28  a  42). 

Confutare  parte  a  parte  l'esposizione  che  il  De  Gaultier  fece  della  filosofia  di 
Platone  sarebbe  un  perditempo  dopo  le  esposizioni  fatte  da  tanti  illustri  storici  della 
filosofia  ;  ma  non  possiamo  tacere  di  alcune  affermazioni  dell'autore  che  sono  troppo 


260  ROMUALDO    BOBBA  O 

discordi  dalia  filosofia  di  Platone.  Anzitutto  neghiamo  recisamente  che  il  vocabolo  ; 
meno  possa  prendersi  nel  senso  in  cui  è  preso  dall'autore,  cioè  come  una  nozione  di  uno 
scarto  possibile  e  probabile  tra  la  percezione  e'  l'oggetto  percepito,  come  una  prima 
deformazione.  Platone  chiama  gli  oggetti  che  cadono  sotto  la  percezione  il  \xx\-òv. 
ma  questo  non  è  un  puro  fenomeno,  una  mera  apparenza,  poiché  ha  una  esistenza 
propria  in  quanto  è  formato  secondo  l'archetipo  e  vi  partecipa;  quindi  esiste  indi- 
pendentemente dalle  nostre  percezioni.  In  secondo  luogo  neghiamo  pure  che  l'idea 
platonica,  anche  considerata  come  mezzo  di  conoscere,  corrisponda  abbastanza  esat- 
tamente ai  concetti  kanziani  dell'intendimento,  perchè  se  pei  due  filosofi  sono  mezzi 
di  conoscere,  differiscono  essenzialmente  in  ciò  che  le  idee  platoniche  hanno  una 
esistenza  oggettiva  indipendentemente  dal  nostro  spirito,  mentre  i  concetti  o  cate- 
gorie kanziane  hanno  una  esistenza  meramente  soggettiva,  a  cui  non  corrisponde 
alcun  oggetto.  Neghiamo  in  terzo  luogo  che  il  procedimento  dialettico  usato  da  Pla- 
tone per  elevarsi  all'idea  sovrana  del  Bene,  proceda  per  astrazione,  cioè  che  egli 
astragga  dai  fenomeni  del  mondo  visibile  e  morale  le  idee  di  perfezioni  morali  e  in- 
tellettuali e  le  trasporti  in  Dio,  come  pure  le  completi  coll'idea  di  potenza  astratta 
dai  fenomeni  della  natura.  Chi  ha  letto  il  sesto  e  settimo  libro  della  Repubblica,  il 
Filebo,  il  Timeo,  scorge  facilmente  che  il  De  Gaultier  volendo  ad  ogni  costo  fare  di 
Platone  il  padre  della  illusione  e  menzogna  monoteistica,  affibbia  allo  stesso  una  teoria 
che  è  in  perfetta  opposizione  colla  vera  dottrina  platonica.  In  questo  luogo  lasciamo 
al  De  Gaultier  la  inaudita  scoperta,  assolutamente  ignorata  da  tutti  gli  storici  della 
Filosofia,  secondo  la  quale  Platone,  come  pensatore  e  come  filosofo,  non  fu  che  un 
cieco  mancipio  dell'istinto  vitale,  nemico  irreconciliabile  della  conoscenza. 


IV. 

Non  sappiamo  se  per  ignoranza  voluta  o  reale,  il  De  Gaultier,  tanto  audace 
nelle  sue  affermazioni  tanto  spesso  gratuite  ed  erronee,  ci  presenti  Platone  come  il 
primo  espositore  del  monoteismo  filosofico  nella  Grecia,  ma  sappiamo  però  con  piena 
certezza  che  ciò  non  è  vero,  pur  ammettendo  che  Platone  ne  abbia  ampliato  e  per- 
fezionato la  teoria.  Ora  quando  un  autore  dichiara  positivamente  di  voler  studiare 
gli  antecedenti  storici  di  una  dottrina  filosofica  intorno  ad  una  questione  così  grave 
come  quella  dell'origine  del  monoteismo  filosofico,  non  gli  è  scientificamente  permesso 
di  ingannare  il  lettore  troncando  la  storia  a  suo  capriccio,  e  sopratutto  quando  si 
imputa  ad  un  Platone  la  prima  divulgazione  della  menzogna  monoteistica. 

Ora,  senza  parlare  della  dottrina  pitagorica  che  è  sostanzialmente  monoteistica, 
niuno  ignora  che  nella  Grecia  fiorì  un  filosofo  anteriore  di  molti  lustri  a  Platone, 
Senofane,  che  non  solo  ha  professato  il  monoteismo,  ma  ne  ha  pure  dato  una  dimo- 
strazione. Ignoriamo  se  il  fondatore  della  Scuola  di  Elea  sia  anche  egli  stato  un  ser- 
vitore sottoposto  al  giogo  dell'istinto  vitale,  che  nella  dottrina  del  De  Gaultier 
Destruit,  aedificat,  rnutat  quadrata  rotundis 

come  il  Deus  ex  machina  dell'antica  tragedia,  ma  sappiamo  positivamente  che  professò 
il  monoteimo.  Ora  di  Senofane,  nato  in  Colofone  nell'Asia  minore  nella  quarantesima 
Olimpiade,  secondo  Sozione,  Apollodoro  e  Sesto  Empirico,  sono  pervenuti  fino  a  noi 


9  RICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    „  261 

preziosi  frammenti,  dai  quali  si  possono  conoscere,  almeno  rispetto  al  monoteismo,  i 
suoi  pensamenti.  Incominciamo  dalla  sua  polemica  contro  l'antropomorfismo.  Aristotele 
nella  Bettorica  scrive:  "  Senofane  dice  essere  eguale  empietà  il  pretendere  che  gli  Dei 
nascano  e  muoiano,  perchè  l'una  e  l'altra  opinione  distrugge  l'esistenza  degli  Dei  „ 
(n.  23).  E  poco  dopo:  "  quando  gli  Eleati  chiesero  a  Senofane  se  dovevano  sagrificare 
a  Leucotoe  e  piangerla,  loro  rispose:  se  la  riguardate  come  Dea  non  bisogna  pian- 
gerla, se  invece  la  riguardate  come  mortale  non  bisogna  farle  sagrifici  „  (ibid.).  Plu- 
tarco racconta  che  Senofane  si  burlava  degli  Egiziani  che  piangono  Osiride;  presso 
Eusebio  lo  stesso  dice  che  secondo  Senofane  era  cosa  assurda  supporre  gradi  tra  gli 
Dei,  perchè  allora  tutti  avrebbero  bisogno  gli  uni  degli  altri  (Prepar.  Evang.,  p.  23). 

Era  poi  naturale  che  l'avversario  dell'antropomorfismo,  come  appare  dal  fram- 
mento così  spesso  citato:  "  se  i  buoi  ed  i  leoni  avessero  mani,  sapessero  dipingere 
e  fare  opere  come  gli  uomini,  i  cavalli  si  servirebbero  di  cavalli  e  i  buoi  di  buoi 
per  rappresentare  le  loro  idee  intorno  agli  Dei  e  loro  darebbero  corpi  quali  hanno, 
essi  stessi  „  (Eus.,  Prepar.  Evang.,  XIII),  come  della  Mitologia,  dovesse  esserlo  di  Esiodo 
e  di  Omero  dai  quali,  diceva  Senofane,  vengono  riferite  agli  Dei  cose  che  sarebbero 

disonorevoli  pell'uomo,  come  furti,  adulterii,  tradimenti ed  ancora  riportano  agli 

Dei  non  quasi  altro  che  azioni  criminose  (Sesto  Emp.  Contro  ì  Mai.,  IX,  191,  285). 
Plutarco  con  Cicerone  afferma  ancora  che  Senofane  non  solo  negava  la  divinazione, 
ma  anche  il  giuramento,  non  per  empietà,  ma  per  un  motivo  del  tutto  morale,  poiché, 
diceva  egli,  quando  un  uomo  empio  provoca  un  uomo  pio  a  prestare  giuramento,  la 
cosa  non  è  eguale,  come  non  è  eguale  quando  un  uomo  forte  provoca  un  debole  (De 
Divin.,  1,  3). 

Ciò  premesso,  vediamo  più  particolarmente  che  insegni  egli  intorno  alla  Divinità. 
Anzitutto  afferma  esservi  un  solo  Dio  superiore  agli  Dei  e  agli  uomini,  il  quale  non 
rassomiglia  ai  mortali  né  per  la  figura,  né  per  lo  spirito.  Clemente  Alessandrino,  che 
ci  conservò  questo  frammento,  lo  qualifica  dicendo  che  in  esso  Senofane  insegna 
l'unità  e  la  spiritualità  di  Dio  (Strommati,  V).  E  senza  conoscere  la  fatica  Dio  tutto 
dirige  per  la  potenza  della  sua  intelligenza  (Prepar.  Evang.,  XIII,  31). 

Ecco  ora  come  Senofane  argomenta  per  dimostrare  l'esistenza  e  gli  attributi 
di  Dio. 

Nell'opera  pervenuta  a  noi  col  titolo  di  Senofane,  Gorgia  e  Zenone,  attribuita  ad 
Aristotele,  Simplicio  nel  suo  Commentario  sulla  Fisica  di  Aristotele  (capo  3),  Teofrasto 
presso  Bessarione  (in  Calumniatorem  Platonis,  II,  11,  p.  42)  ci  conservarono  il  corpo 
della  argomentazione  colla  quale  Senofane  dimostrava  che  Dio  non  ebbe  comincia- 
mento,  né  può  morire.  E  impossibile  di  applicare  a  Dio  l'idea  di  nascita,  perchè  tutto 
che  nasce  dee  necessariamente  nascere  o  da  qualche  cosa  di  simile  o  di  dissimile; 
ora  l'una  e  l'altra  cosa  è  impossibile,  perchè  il  simile  non  ha  azione  sul  simile  e 
non  può  meglio  produrlo  che  esser  prodotto;  d'altra  parte  il  dissimile  non  può  na- 
scere dal  dissimile,  perchè  se  il  più  forte  nascesse  dal  più  debole,  il  più  grande  dal 
più  piccolo  o  il  migliore  dal  peggiore,  oppure  il  peggiore  dal  migliore,  l'essere  usci- 
rebbe dal  non  essere  e  il  non  essere  dall'essere,  ciò  che  è  impossibile;  è  dunque 
necessario  che  Dio  sia  eterno.  Plutarco  presso  Eusebio  (Prepar.  Evang.,  I,  8)  rico- 
nosce positivamente  che  Senofane  segue  una  via  che  gli  è  propria,  e  Laerzio  aggiunge 
aver  egli  pel  primo  dimostrato  che  quanto  nasce  perisce,  di  guisa  che  in  tale  argo- 


262  ROMUALDO   BOBBA  10 

mentazione  si  intravede  un  principio  che  in  seguito  sarà  largamente  applicato,  e  cioè 
che  l'essere  non  può  derivare  dal  non  essere,  che  il  non  essere  nulla  può  produrre  ; 
in  altri  termini,  la  prima  applicazione  del  principio  di  causalità,  sebbene  Senofane 
non  ne  formulasse  esplicitamente  il  principio. 

La  conclusione  dell'argomentazione  è  dunque  :  dal  momento  che  Dio  non  può 
nascere  non  può  neppm^e  perire,  giacche  tutto  che  nasce  perisce  necessariamente, 
mentre  ciò  che  non  è  nato,  ossia  che  non  diviene  un  essere  mediante  un  altro  essere, 
ma  è  un  essere  per  se  stesso,  è  eterno.  Qui  non  solo  si  manifesta  il  principio  di 
causalità,  ma  ancora  la  concezione  esplicita  di  sostanza  e  di  accidente,  di  essere 
fenomenale  e  di  essere  in  se,  come  appare  l'attribuzione  di  corruttibilità  al  primo  e 
di  eternità  al  secondo. 

Con  altra  argomentazione  Senofane  deduce  l'unità  di  Dio  dalla  sua  onnipotenza 
e  onnibontà.  Se  Dio  è  ciò  che  vi  ha  di  più  potente  debbe  essere  uno;  poiché  se 
fossero  due  o  più  Dio  non  sarebbe  ciò  che  vi  ha  di  più  potente  e  di  migliore. 
Questi  varii  Dei  essendo  eguali  tra  loro,  sarebbe  ciascuno  ciò  che  vi  ha  di  più  potente 
e  migliore;  poiché  ciò  che  costituisce  un  Dio  è  appunto  l'essere  il  più  potente,  di 
non  essere  superato  da  nessuno  in  potenza,  di  governare  tutte  le  cose,  di  guisa  che 
se  Dio  non  è  ciò  che  avvi  di  più  potente,  perciò  stesso  non  è  Dio.  Ora  se  si  suppone 
che  ve  ne  siano  più  o  che  tra  essi  vi  siano  Dei  inferiori  e  superiori,  allora  niuno  è 
Dio,  perchè  la  natura  sua  è  di  nulla  ammettere  più  potente  di  se;  se  poi  fossero 
uguali  tra  loro,  allora  Dio  perderebbe  la  sua  natura,  che  è  di  essere  ciò  che  vi  è  di 
più  potente,  poiché  l'eguale  non  è  ne  migliore  né  peggiore  del  suo  eguale;  quindi  se 
avvi  un  Dio  e  se  è  tale  quale  deve  essere,  è  necessario  che  sia  uno,  senza  di  che  egli 
non  potrebbe  tutto  ciò  che  vorrebbe,  e  se  si  ammettono  più  Dei,  ciascuno  preso  a 
parte  è  senza  potenza. 

In  Senofane  abbiamo  adunque  il  primo  tentativo  di  applicazione  della  dialettica 
agli  attributi  essenziali  di  Dio,  di  subordinarli  ad  una  dipendenza  reciproca  e  di  for- 
marne una  teoria,  la  quale  nella  filosofia  è  rimasta  come  un  esempio  notevole  degli 
sforzi  della  ragione  umana  per  risolvere  la  grande  questione  della  esistenza  e  degli 
attributi  di  Dio,  esempio  che  fu  in  seguito  imitato  e  perfezionato.  Intanto  è  chiaro 
che  fino  dai  primordii  della  filosofia  greca,  Dio  è  concepito  e  dimostrato  come  sovra- 
namente potente,  buono,  e  per  ciò  stesso  come  essenzialmente  uno,  come  causa  e 
sostanza,  e  sotto  un  punto  di  veduta  intellettuale,  come  saggezza  e  bontà  sovrana, 
in  una  parola  come  un  Dio  morale. 

Ora,  come  l'autore  ignora  il  monoteismo  di  Senofane,  così  non  conosce  meglio 
quello  di  Anassagora;  eppure  tutti  sanno  ciò  che  scrive  Aristotele  del  N0O5  di  Anas- 
sagora :  al  cominciamento  tutto  era  confuso,  e  l'intelligenza  mise  in  ordine  tutte  le  cose. 
Inoltre  Anassagora  insegnava  positivamente  che  il  NòOq  è  infinito,  cioè  presente  a  tutta 
intiera  l'immensità,  assolutamente  indipendente  come  conviene  a  ciò  che  non  è  solo 
un  attributo,  ma  un  principio  ;  non  mischiato  con  nulla  di  corporeo,  esistente  por  sé. 
Imperocché  se  il  NoOq  fosse  soggetto  a  mescolamento  con  checchessia,  parteciperebbe 
necessariamente  a  tutte  le  cose,  essendovi  di  tutto  in  tutte,  0  nella  confusione  di  lui 
cogli  elementi  perderebbe  il  potere  che  ha  sopra  gli  stessi,  potere  dovuto  alla  sem- 
plicità della  sua  essenza  (Aristotele,  De  Anima,  II,  9).  Il  N0O5  è  ciò  che  vi  ha  di 
più  puro;  ha  la  conoscenza  piena  del  mondo  intiero;  nulla  gli   sfugge;    conosce    ciò 


11  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE 


263 


che  è  mischiato,  ciò  che  è  distinto  e  ciò  che  è  separato;  muove  e  ordina  tutte  le 
cose,  ciò  che  deve  essere,  ciò  che  è  stato,  ciò  che  è,  ciò  che  sarà  (Simplicio,  Comm. 
alla  Fisica  di  Aristotele,  312). 

L'autore  infine  dimentica  il  monoteismo  di  Empedocle,  quale  viene  espresso  in 
un  frammento  del  libro  III  della  Natura,  con  queste  parole  : 

Ne  questo  o  quello  né  quell'altro  è  Dio; 
A  noi  cogli  occhi  non  è  mai  concesso 
Di  poterlo  vedere,  ne  colle  mani 
Di  poterlo  trattare;  che  della  mente 
Suole  essere  la  via  grande  e  comune 
Per  cui  persuasion  entra  nell'uomo. 
Iddio  non  è  di  mortai  corpo  ornato; 
Che  su  membra  s'estuile.  A  lui  sul  dorso 
Non  spiegansi  i  due  rami.  Egli  non  avve 
Ginnocehio  che  al  camminar  ci  fan  veloci. 
Egli  piede  non  ha,  ne  quelle  parti 
Che  vergogna  e  lanugine  ricopre. 
È  mente  sol,  è  sacra  mente  Iddio, 
Ch'esprimer  non  .si  può  da  nostra  lingua. 
In  un  istante  tutta  la  natura 
Col  veloce  pensier  ricerca  e  scorre. 

Laonde,  secondo  Empedocle,  Dio  non  è  una  combinazione  a  guisa  dei  corpi,  né 
unità  materiale  come  sono  i  quattro  elementi,  radici  del  mondo  corporeo,  Dio  non 
ha  forma,  ne  membra  umane,  non  si  può  vedere  cogli  occhi,  né  toccare  colle  mani. 
Iddio  è  Sacra  Mente,  ne  possiamo  esprimerlo  colle  parole;  Iddio  muove  e  scorre 
l'universo  col  pensiero.  In  sostanza,  per  Empedocle,  Dio  è  pura  mente  e  la  sua  vita 
è  il  pensiero,  come  in  esso  è  la  sua  potenza. 

L'istinto  vitale,  il  nemico  della  conoscenza  probabilmente  sonnecchiava  ed  era 
occupato  in  altra  bisogna  all'epoca  in  cui  filosofavano  Senofane,  Anassagora,  Empe- 
docle, oppure  teneva  in  pronto  tutte  le  sue  forze  per  rendersi  schiavo  Platone,  il 
quale  però,  senza  saperlo,  col  supposto  procedimento  astrattivo  che  l'autore  gli  attri- 
buisce, forniva  all'istinto  un'  arma  terribile  contro  il  monoteismo.  In  fatto  l'autore  ci 
avverte  che  tra  i  filosofi  della  Scuola  Alessandrina,  Plotino  "  poussant  à  bout  l'emploi 
"  logique  de  l'abstraction  en  use  jusqu'à  dépouiller  l'idée  divine  composée  par  Platon 
"  des  idées  adventices  d'Intelligence,  de  Bien,  de  Puissance,  pour  n'y  laisser  subsister 
"  que  le  concept  suprème  de  l'Unite,  terme  logique  d'une  description  de  la  faculté 
'•  de  connaitre,  concept  négatif,  comme  l'idée  mème  de  néant,  et  où  l'abstraction  fait 
"  voir  avec  sincérité  la  nature  de  ses  créations.  Bien  que  Plotin  conserve  dans  son 
"  système  une  frinite  nominale,  c'est  en  réalité  dans  l'unite  absolue  qu'il  situe  l'idée 
"  de  Dieu,  en  une  unite  qu'aucun  accident  ne  détermine,  et  qui  ne  laisse  point  place 
'•  au  Dieu  de  Platon  (pagg.  44-45). 

Certamente  se  l'istinto  di  conoscenza  del  De  Gaultier  trova  che  un  Dio  di  tal 
fatta  è  una  mera  astrazione  ha  pienamente  ragione;  ma  dimandiamo  noi,  che  cosa 
ha  di  comune  l'unità  indeterminata  di  Plotino  col  Dio  di  Senofane,  col  NoO?  di  Anas- 
sagora, colla  Sacra  Mente  di  Empedocle,  col  Bene  di  Platone?  Dirassi  che  Plotino 
giunge  a  tale  unità  col  procedimento  astrattivo?  Lo  concediamo  pienamente,  anzi  ag- 
giungiamo che  ci  doveva  giuugere   logicamente;  poiché  il    processo   emanativo  che 


264  ROMUALDO    BOBBA  12 

Plotino  impronta  dalla  filosofia  indiana  per  la  formazione  dell'Universo,  muove  da  un 
quid  indeterminato.  E  poiché  l'autore  pretende  che  Platone  giunge  all'idea  di  Dio  col 
procedimento  astrattivo,  è  necessario  che  esaminiamo  in  modo  particolare  la  questione. 
Che  è  l'idea  secondo  Platone?  In  generale  per  Platone  l'idea  è  tutto  ciò  che  è 
oggetto  della  ragione,  ciò  che  esiste  insieme  e  nello  spirito  e  nella  realtà,  estranea 
ai  sensi  e  al  ragionamento,  rappresentando  ciò  che  vi  ha  di  costante,  invariabile  o 
immutabile  nelle  cose,  pur  comportando  la  varietà  che  vi  è  riunita.  L'idea  è  ciò  che 
sotto  il  duplice  aspetto  oggettivo  e  soggettivo  riunisce  i  due  lati  dell'essere  e  del 
pensiero,  distinti  ma  inseparabili.  Quindi  l'idea  sarà  il  principio  della  conoscenza  e 
della  esistenza,  il  lato  intelligibile  di  ciascun  essere  e  di  ciascun  oggetto,  e  ciò  ap- 
punto rende  possibile  la  scienza. 

Ma  l'idea,  il  cui  concetto  qui  espresso  è  comune  a  tutte  le  idee,  riveste  diverse 
forme  e  prende  nomi  differenti  corrispondenti,  secondo  che  viene  riguardata  non  più 
nella  sua  unità,  ma  nella  diversità  delle  sue  forme,  le  quali  sono  pure  idee,  e  ciò  nei 
gradi  differenti  dell'esistenza  e  del  pensiero,  ed  ancora  secondo  l'ufficio  che  ciascuna 
di  esse  adempie  nel  suo  svolgimento,  sia  nel  mondo  metafisico,  sia  nel  fisico  e  nel 
morale,  il  che  costituisce  l'ontologia  platonica,  di  cui  ecco  i  punti  principali  : 

1°  Sotto  il  punto  di  veduta  scientifico  o  logico,  l'idea  considerata  in  generale, 
è  il  carattere  comune  a  tutti  gli  oggetti  di  una  stessa  classe  e  di  una  stessa  specie 
(Teeteto,  185;  Parmenide,  131).  In  altri  termini  è  l'elemento  della  generalità  di  cui 
abbisogna  la  scienza  per  costituirsi,  e  senza  di  cui  sarebbe  impossibile.  Certo  è  il 
genere  (Parmenide,  135)  cui  già  Socrate  aveva  creduto  di  determinare. 

2°  Ma  per  Platone  è  qualche  cosa  di  più,  giacche  l'idea,  il  genere,  è  anche 
considerata  come  essenza  (Fedro,  247-6  ;  Protagora,  349  ;  Fed„  78).  Questa  è  opposta 
alla  realtà  sensibile,  la  quale  sotto  questo  aspetto  non  è  la  realtà  vera.  In  fatto  negli 
oggetti  si  distinguono  le  loro  proprietà  esterne,  mutevoli  e  accidentali,  e  le  loro  qua- 
lità essenziali  e  costitutive,  le  quali  costituiscono  la  vera  natura  degli  esseri.  Le  idee 
dunque  sono  pure  le  vere  essenze,  la  base  dei  generi  (Fedro,  247);  e  ciò  permette  di 
classificarle,  coordinarle,  assegnare  a  ciascun  genere  e  specie,  come  a  ciascun  essere, 
il  suo  posto,  e  ufficio  nella  natura,  di  distinguerli  e  accordarli  (Timeo,  30  F).  Già 
Socrate  aveva  tentato  ciò,  e  Platone  continua  e  compie  l'opera  sua. 

3°  La  teoria  delle  idee  di  Platone  ci  offre  altri  aspetti,  i  quali  ci  mostrano 
il  rapporto  della  stessa  coi  sistemi  precedenti,  e  sopratutto  il  carattere  oggettivo 
delle  idee  che  costituisce  il  platonismo.  In  fatto  l'idea  è  anche  l'unità  opposta  alla 
pluralità  (Fedro,  249);  la  vera  unità  (Fedro,  105),  la  quale  tuttavia  comporta  la  divi- 
sibilità, la  pluralità,  la  diversità.  Ciò  che  gli  Eleati  e  i  .Ionici  avevano  separato,  Pla- 
tone riunisce.  L'idea  è  l'uno,  l'unità  che  serve  di  legame  alla  pluralità,  ma  essa  è 
pure  pluralità,  cioè  una  e  multipla.  Qui  dunque  non  è  più  l'unità  immobile  di  Par- 
menide che  esclude  ogni  cambiamento,  còme  ogni  diversità,  che  nulla  soffre  che  ne 
alteri  l'invariabile  unità,  che  nega  il  movimento  e  con  questo  sopprime  la  vita  e  lo 
svolgimento. 

4°  L'idea,  elemento  scientifico  opposto  al  reale  apparente,  impedisce  la  realtà 
multipla  di  perdersi  nella  infinita  varietà  dei  fenomeni,  ciò  che  è  l'in  determinato. 
Essa  rende  percettibili  gli  oggetti  assoggettandoli  alla  misura,  e  sotto  tale  aspetto 
serve  d'intermediario  tra  l'essere  unico  di  Parmenide  e  la  mera  varietà  di  Eraclito 


13  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA     "   DA    KANT    A    NIETZSCHE    „  265 

e  Democrito  ;  essa  tiene  il  mezzo  tra  questi  contrarii   e   li   riconcilia   (conf.  il   Par- 
menide e  il  Sofista)  ;  la  stessa  dottrina  è  contenuta  nel  Filebo. 

5°  L'idea  è  ancora  il  principio  d'identità  o  di  permanenza  (Timeo,  48)  opposta 
alla  diversità  e  al  movimento,  che  si  nota  nella  successione  delle  cose  sensibili,  sog- 
gette alla  nascita,  alla  generazione,  alla  corruzione,  ciò  che  costituisce  il  di 
L'idea  pure  essendo  immobile  non  esclude  un  certo  cambiamento,  essendo  la  mobilità 
necessaria  ad  ogni  svolgimento,  giacché  il  movimento  e  la  vita  sono  inseparabili  nella 
esistenza  concreta  e  reale. 

6°  L'idea  è  la  misura  per  cui  l'indeterminato  viene  determinato,  lo  regolarizza 
e  gli  dà  la  sua  forma.  Per  essa  quindi  l'ordine  viene  introdotto  nel  disordine,  e  lo 
sottomette.  Così  la  materia,  elemento  indeterminato,  sregolato,  riceve  dalla  idea  la 
sua  forma,  ed  il  mondo  risultante  da  questi  due  elementi  esce  dal  caos,  e  diviene 
un  tutto  ordinato,  misurato,  armonico,  offrendo  l'immagine  dell'ordine  nel  suo  insieme 
e  nelle  sue  parti.  E  poiché  i  veri  rapporti  delle  cose  sono  i  rapporti  delle  idee,  il 
mondo  ne  è  la  rappresentazione  o  imitazione;  per  esso  la  natura  si  conserva  e  si 
rinnova  e  le  sue  leggi  non  sono  che  il  riflesso  di  quelle. 

7°  L'idea,  abbiamo  detto,  è  il  generale  che  apparisce  nei  particolari,  il  gene- 
rale a  cui  la  scienza  deve  la  sua  possibilità  e  consistenza.  Ora  tale  dottrina  nulla 
ha  di  comune  colle  idee  immagini  di  Democrito  da  cui  mediante  il  paragone  e  l'astra- 
zione si  traggono  idee  generali,  teoria  accettata  poi  da  Epicuro  come  quella  di  tutte 
le  scuole  materialistiche.  Secondo  tale  teoria  l'idea  è  l'immagine  che  si  stacca  dai 
corpi,  s'imprime  nello  spirito,  per  quindi,  paragonata  e  generalizzata,  servire  di  base 
ai  giudizi  e  ragionamenti;  per  Platone  invece  l'idea,  ben  lungi  dall'essere  la  copia, 
è  il  tipo  o  il  paradigma  delle  cose  sensibili,  le  quali  sono  semplicemente  immagini, 
ombre,  fantasmi  delle  idee. 

8°  Ancora  l'idea  non  è  neppure  la  nozione  generale  quale  la  concepisce  il  puro 
razionalismo,  tale  quale  Aristotele  stesso  la  definisce  talvolta,  cioè  una  mera  astra- 
zione generalizzata  come  pretende  il  De  Gaultier,  che  non  ha  altra  realtà  se  non 
nello  spirito  che  la  concepisce,  e  che  presa  in  se  non  ha  esistenza  propria  distinta 
da  quella  degli  oggetti,  cui  serve  a  raggruppare  e  classare;  in  una  parola  tale  idea 
non  essendo  che  la  collezione  delle  qualità  riunite  in  una  nozione  comune,  essendo 
il  risultato  del  paragone  e  della  astrazione,  essa  non  è  che  l'atto  dello  spirito  il 
quale  raccogliendo  le  qualità  paragonate  in  un  insieme  ne  forma  un  suo  prodotto, 
cioè  puramente  soggettivo. 

9°  All'opposto  l'idea  platonica  è  insieme  oggettiva  e  soggettiva.  L'idea  è  nelle 
cose  ma  è  anche  nello  spirito,  essendo  l'oggetto  del  pensiero.  Ciò  che  Parmenide 
aveva  affermato  senza  poterlo  dimostrare,  cioè  l'identità  del  pensiero  e  dell'essere, 
Platone  lo  afferma  dello  spirito;  giacché  per  lui  non  e  l'essere  puro  e  senza  coscienza, 
che  è  il  vero  essere,  ma  l'essere  che  si  sa,  il  vero  spirito.  Inoltre  se  consideriamo 
l'idea  nell'uomo,  pel  suo  lato  soggettivo  che  è  appunto  quello  della  conoscenza  umana, 
l'idea  è  il  principio  à' intelligibilità  che  rende  ogni  cosa  percepibile  o  comprensibile 
allo  spirito,  come  è  la  base  dei  giudizi  e  ragionamenti.  Per  esempio,  secondo  Pla- 
tone, non  si  comprende  la  bellezza  nelle  cose  belle  se  non  per  l'idea  del  bello  che 
rappresentano  gli  oggetti;  lo  stesso  deve  dirsi  per  le  cose  buone,  giuste,  vere.  L'idea 
certo  è  nelle  cose  ma  appare  allo  spirito  come  la  sua  propria  essenza,  giacché  è 
Serie  II.  Tomo  LUI.  34 


266  ALDO  BOBBA  14 

l'idea  che  fa  che  una  cosa  sia  vera,  anzi  allo  spirito  appare  come  la  verità  delle  cose 
stesse  {Rep.,  V,  508  D).  E  siccome  essa  è  lo  stesso  pensiero  nella  sua  essenza,  cosi 
è  per  lo  spirito  la  sua  luce,  che  gli  fa  discernere  la  verità  dall'errore;  è  il  Xóroq 
insieme  divino  e  umano,  la  ragione,  il  verbo  che  rischiara  interiormente  le  intelli- 
genze (Rep..   VII). 

10°  Se  l'idea  considerata  dal  punto  di  veduta  della  conoscenza  ha  già  qualche 
cosa  di  assoluto  in  quanto  non  dipende  non  è  fattura  dello  spirito  che  la  concepisce, 
almeno  per  lo  spirito  finito  ed  umano,  di  cui  è  la  regola  e  la  misura  ne'  suoi  giu- 
dizi, come  preesiste  alle  qualità  degli  esseri  e  presiede  a  tutti  gli  atti  dello  spirito. 
In  fatto,  la  sensazione,  il  giudizio,  il  ragionamento,  la  volontà  si  appoggiano  sopra 
l'idea,  e  non  hanno  valore  se  non  per  essa,  come  è  mediante  essa  che  si  pensa,  si 
ragiona,  si  vuole.  E  già  Socrate  l'intendeva  così  facendo  della  nozione  definita  e  del- 
l'universale, ultimo  termine  del  suo  metodo,  sebbene  per  lui  l'idea  conservasse  ancora 
qualche  cosa  di  soggettivo.  Ma  in  Platone  l'idea  è  assolutamente  oggettiva,  è  l'essere 
in  sé,  il  pensiero  in  se,  come  è  il  vero  in  se,  il  bello,  il  buono,  il  giusto.  E  qui 
giova  ripetere  al  De  Gaultier  che  per  Platone  il  particolare  non  fonda  il  generale,  ma 
è  invece  il  generale  che  fonda  il  particolare,  perchè  senza  del  generale  l'individuo 
e  il  particolare  sarebbero  un  bel  nulla.  E  ciò  è  vero  del  pensiero  come  del  suo 
oggetto.  Per  Platone  l'oggetto  pensato,  il  particolare  non  esiste  che  pel  suo  rapporto 
al  generale,  cui  manifesta.  L'universale  tò  koOóXov  è  l'unità  nella  mottiplicUà  ;  il  mul- 
tiplo è  nulla  senza  il  principio  di  cui  è  per  cosi  dire  l'irradiamento,  niente  senza 
l'idea  da  cui  emana  e  lo  genera. 

E  per  confermare  ciò  con  esempi  tra  quelli  che  presso  Platone  si  incontrano 
spessissimo:  una  cosa  non  è  bella,  buona,  giusta,  grande  o  piccola  se  non  in  quanto 
appare  o  è  a  lei  presente  l'idea  che  la  fa  tale,  cioè  l'idea  del  bello,  del  bene,  del 
giusto,  della  grandezza,  della  piccolezza,  ecc.  [Rep. ,  Vili,  598,  A;  Fedone.  655; 
Fedro,  247). 

Lo  spirito  umano  sotto  la  diversità  degli  oggetti  belli  o  brutti,  buoni  o  catti  ri. 
giusti  o  ingiusti,  grandi  o  piccoli  secondo  Platone  percepisce  l'idea  che  li  rende  tali 
e  loro  conferisce  quelle  qualità.  Così  un'azione  non  è  bella,  buona  o  giusta  se  non 
in  quanto  realizza  l'idea  del  bello,  del  buono  o  della  giustizia  che  è  in  essa  e  che 
il  nostro  spirito  percepisce.  Se  la  cosa  non  fosse  così,  un  uomo  messo  in  faccia  ad 
un  oggetto  bello  o  ad  ima  azione  buona  o  giusta,  anche  se  fosse  il  più  intelligente, 
nulla  comprenderebbe  se  non  avesse  presente  l'idea,  poiché  l'immagine  che  si  arresta 
ai  sensi,  nulla  esprime. 

I  caratteri  poi  delle  idee  dal  fin  qui  detto  sono  la  stabilità,  la  semplicità,  la 
purezza,  l'immutabilità,  l'eternità,  l'indipendenza  assoluta,  caratteri  che  sono  di  con- 
tinuo notati  da  Platone:  nel  Fedone  sono  così  riassunti  (li.):  uovóeiòeq,  tò  dei,  tò 
àuTÒ  Ka6*  carro,  le  idee  sono  Tà  coito:  Ka6'  aÓTà  (Rep..  VITI),  cioè  assolute.  Esse  hanno 
ancora  di  proprio  in  quanto  in  esse  l'unità  non  esclude  la  pluralità,  l'identità,  il 
cambiamento,  pur  conservando  la  loro  permanenza  e  immutabilità  quale  loro  carat- 
tere essenziale.  Le  idee  invisibili  ai  sensi  contemplate  soltanto  dallo  spirito  (Timeo,  52) 
appariscono  negli  oggetti  che  come  abbiamo  già  detto  sono  la  loro  immagine  ma 
affievolita  e  non  le  rappresentano  che  imperfettamente.  Quindi  considerate  rispetto 
al  mondo  questo  è  la  loro  imitazione  uiunai<;  o  rappresentazione.  Per  Platone  ciascun 


15  STORICO    CRITICO    DELl/OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   .,  267 

genere,  ciascun  individuo  ha  il  suo  tipo  nell'idea  cui  rappresenta  ed  esprime  ;  è  l'idea 
che  loro  conferisce  il  valore,  l'importanza  e  la  stessa  esistenza;  così  che  sotto  questo 
aspetto  ogni  oggetto,  sia  reale,  sia  artificiale,  può  essere  concepito  come  realizzante 
quella  idea. 

Le  idee  sono  tipi  o  modelli,  ma  riunite  esse  stesse  a  tipi  superiori  e  più  generali, 
che  sono  ancora  copie  o  fantasmi  divini  (Rep.,  VI).  Imperocché  se  si  riportano 
all'idea  da  cui  emanano,  all'idea  delle  idee,  al  bene  (ibid.)  esse  sussistono  bensì  per 
sé  ma  dipendono  da  quella  unità  suprema  che  è  la  vera  unità.  Immutabili  e  eterne 
le  idee  appariscono  nel  tempo  che  è  mobile  e  imita  l'eternità  immobile.  Oggetti 
della  ragione  le  idee  sono  pure  la  ragione,  il  Xóroq  divino,  la  ragione  divina,  insieme 
pensiero  e  oggetto  del  pensiero.  Distinte  e  separate  le  idee  rientrano  le  une  nelle 
altre  e  tutte  in  quella  unità  superiore  che  ne  è  il  loro  principio.  Come  la  luce  del 
sole  i  cui  raggi  traversano  lo  spazio  e  rischiarano  gli  oggetti  senza  staccarsi  dal- 
l'astro che  è  il  loro  foco  e  centro  comune  (Rep.,  VI,  VE). 

Secondo  Platone  vi  sono  dunque  due  mondi  dei  quali  l'uno  è  la  copia  dell'altro, 
il.  mondo  sensibile  e  l'intelligibile  KÓffuo?  aìo-enTÒi;,  KÓCuoq  vonTÒc,  come  vi  sono  due 
sorta  di  oggetti  cioè  sensibili  e  razionali,  l'uno  partecipante  dell'altro  (Rep.,  VII). 

Tale  è  la  teoria  delle  idee  di  Platone,  teoria  che  differisce  toto  coelo  da  quella 
che  gli  affibbia  il  De  Gaultier  per  conchiudere  che  Platone  non  fa  altro  che  realiz- 
zare astrazioni  vuote  di  ogni  contenuto  reale. 

Le  idee,  secondo  Platone,  avendo  la  stessa  natura  e  lo  stesso  principio,  non  sono 
isolate,  epperciò  nella  loro  unità  e  diversità  formano  un  sistema.  Certamente  non  tro- 
viamo negli  scritti  platonici  formulati  esattamente  questi  rapporti.  Tuttavia  non  pos- 
siamo disconoscere  che  Platone  stabilisce  certe  classi  di  idee  tra  cui  avvi  una  certa 
gerarchia.  Così,  ad  esempio,  egli  pone  le  qualità  al  disopra  delle  quantità,  le  idee  al 
disopra  di  queste  e  di  quelle  come  pure  delle  relazioni.  I  numeri  poi  sono  al  di  sotto 
delle  idee.  Le  idee  metafisiche  dell'essere  e  del  non  essere,  del  pari  e  dell'impari,  della 
monade  e  della  diade  occupano  un  posto  inferiore  e  sono  al  basso  della  scala.  Le  idee 
superiori  del  vero,  del  bello,  del  bene,  sebbene  talvolta  identificate,  non  sono  del  tutto 
simili  e  ciascuna  ha  il  suo  posto  e  lo  conserva.  Le  categorie  superiori  costituiscono 
le  idee  morali  del  Bene,  del  Bello,  della  Giustizia,  della  Santità,  ecc.  Al  sommo  della 
scala  o  gerarchia  è  l'idea  del  Bene,  che  tutte  le  domina  ed  è  il  loro  principio  co- 
mune. Anche  tra  le  idee  morali,  del  vero,  del  bello,  del  bene,  avvi  subordinazione, 
poiché  il  bello  non  è  che  un  aspetto  del  bene;  il  vero  identico  al  bene  ed  al  bello 
è  alla  radice  e  logicamente  le  precede,  ma  non  ontologicamente,  perchè  nell'ordine 
gerarchico  è  inferiore  al  bene.  Quindi  l'idea  per  eccellenza,  l'idea  delle  idee  è  l'idea 
del  bene,  e  il  Bene,  tò  òycxGóv. 

Ora,  intorno  a  questo  punto,  il  più  elevato  del  sistema  platonico,  non  ignoriamo 
che  si  sono  sollevate  molte  dispute.  Tuttavia  ciò  che  non  ammette  alcun  dubbio  è 
il  posto  che  Platone  assegna  all'idea  del  Bene  (Rep.,  VII).  Essa  è  il  soggetto  della 
più  sublime  delle  scienze  (ibid.,  505).  Tutte  le  idee  hanno  in  essa  il  loro  principio, 
la  giustizia,  la  bontà,  la  bellezza.  Giunto  a  questa  altezza.  Platone  sente  l'insufficienza 
della  ragione  per  penetrare  il  mistero,  come  del  linguaggio  umano  per  esprimerlo  e 
dal  suo  entusiasmo  il  suo  stile  assume  un  tono  ispirato;  dal  mondo  visibile  coglie 
le  immagini  che  gli  sembrano  più  adatte  per  darne  un'  idea  per  analogia.  Così  il  Bene 


268  ROMUALDO    BOBBA  1(3 

è  il  sole  degli  spiriti,  sorgente  insieme  di  luce  e  di  vita,  il  sole  che  rischiara  le  in- 
telligenze, il  cui  calore  spande  da  per  tutto  la  vita  negli  esseri.  Il  Bene  nel  mondo 
intelligibile  è  ciò  che  è  il  sole  astro  nel  mondo  visibile.  Il  mondo  è  il  figlio  generato 
dal  Bene  (Bep.,  VII). 

Nel  Bene  quindi  scorgiamo:  1°  la  causa  della  scienza  e  della  verità  ama  Tfjq 
èmo-rriunq  xai  d\n9€Tag,  superiore  alla  bellezza,  alla  scienza  e  alla  virtù.  Gli  esseri 
intelligibili  ripetono  da  esso  la  loro  intelligibilità,  simili  al  bene  senza  essere  il  bene 
stesso  (Bep.,  VII)  ;  2°  la  fecondità,  la  causa  produttrice,  e  la  produzione  degli  esseri. 
Imperocché  gli  esseri  intelligibili  non  ricevono  da  esso  soltanto  la  loro  intelligibilità, 
ma  ancora  il  loro  essere,  la  loro  essenza  :  tò  etvai  xai  rf)V  oùaiav  ;  di  guisa  che  il  Bene 
non  solo  rende  visibili  gli  oggetti,  ma  dà  pure  a  loro  la  nascita,  il  nutrimento,  l'ac- 
crescimento (ibid.).  E  tuttavia,  aggiunge  Platone,  il  Bene  non  è  questa  essenza,  ma 
alcunché  di  molto  al  disopra  della  essenza,  à\\'  èn  ércéKeiva  Tfj<;  oùaia?  in  antichità 
e  in  potenza  (ibid.). 

Ma  che  cosa  è  infine  questo  alcunché  superiore  alla  essenza?  Non  disconosciamo 
che  questo  ènÉKeivai  ha  pure  aperto  il  campo  a  controversie  che  non  sono  ancora 
finite.  Per  rispondere  a  questa  dimanda  notiamo  che  l'ultima  parola  della  Dialettica 
di  Platone,  l'idea  del  Bene,  o  meglio  il  Bene  è  pure  la  prima  della  sua  Fisica  e  della 
sua  Teologia,  poiché  il  mondo  ha  la  sua  ragione  di  essere  nella  bontà  divina,  poiché 
la  bontà  è  l'attributo  essenziale  dell'essere  perfetto.  Il  testo  del  Timeo  in  cui  viene 
espresso  questo  pensiero  è  celebre  e  spesso  riferito. 

Diciamo  per  quale  motivo  l'autore  dell'universo  lo  ha  così  formato:  egli  era 
buono  ;  ora  quegli  che  è  buono  non  concepisce  giammai  invidia,  ÓYaOóq  i^v  àvaGiI)  òè 
oùòeìc;  rcépi  oùbévo?  oùòéTTOTe  èTYiYveTai  qpGóvoq  (29,  E).  Ora,  il  commento  che  tutti  ne 
fanno  è  questo:  Dio,  il  Bene  assoluto,  non  rimane  rinchiuso  in  sé;  egli  esce  dalla 
profondità  del  suo  essere  per  manifestarsi.  Essere  e  causa  insieme  diviene  causa 
feconda;  ma  come?  Dando  l'esistenza  ad  altri  esseri  ai  quali  comunica  alcunché  delle 
sue  perfezioni  e  de'  suoi  attributi  in  gradi  diversi,  senza  con  ciò  cessare  di  essere 
egli  stesso  l'essere  perfetto.  E  ciò  fa  in  grazia  della  sua  bontà.  Ora  qui  la  bontà  non 
è  l'amore,  quale  è  dato  nel  Banchetto,  cioè  l'amore  nascente  da  una  mancanza  o 
difetto:  da  una  privazione,  ciò  che  è  il  sentimento  della  imperfezione  negli  esseri 
contingenti.  L'amore  qui  non  è  nemmeno  quell'intermediario  tra  l'essere  e  il  non 
essere  come  era  definito  nel  Banchetto.  Al  contrario,  nell'essere  perfetto  l'amore  è 
l'abbondanza  o  la  plenitudine  dell'essere,  che  si  spande  al  di  fuori  e  diviene  fecondo, 
e  della  sua  fecondità  esso  genera  altri  esseri  simili  a  lui  e  che  da  lui  ripetono  la 
loro  esistenza,  ai  quali  non  porta  invidia,  anzi  che  ama,  poiché  sono  sue  produzioni, 
che  gli  rassomigliano,  ma  solo  nella  misura  secondo  cui  il  finito  e  l'imperfetto  può 
rassomigliare  all'infinito,  al  perfetto. 

Tale  è  il  senso  di  quelle  parole,  come  pure  è  indicato  l'ottimismo  platonico  da 
quelle  che  seguono:  "  Imperocché  Dio  volendo  che  tutto  fosse  buono  e  che  nulla  vi 
fosse  di  cattivo  per  quanto  era  possibile,  trovando  il  visibile  non  in  riposo  ma  in  un 
movimento  disordinato,  lo  fece  passare  dalla  confusione  all'ordine,  giudicando  che  ciò 
era  preferibile.  Ora  non  è  permesso  ad  un  essere  eccellente  di  fare  alcunché  che  non 
sia  bello  „  (ibid.,  30,  A). 

Grande  e  nobile  pensiero,  scrive  Hegel  ;  Dio  qui  non  rassomiglia  al  fatum  antico, 


17  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE   -  269 

alla  Nemesis,  alla  Dirce,  il  Dio  supremo  che  lungi  dal  creare,  distrugge  {Gesch.  der 
Philosopliii). 

L'essere  sovranamente  buono  e  bello  concepisce  un  modello  di  bontà  che  è  il 
mondo  intelligibile  simile  a  sé  e  produce  nella  bellezza  un'opera  bella  e  buona  imma- 
gine mobile  nella  sua  immobile  perfezione.  La  Dialettica,  come  la  intende  Platone, 
lo  eleva  alla  contemplazione  non  per  via  di  astrazioni  ad  un  Dio  sovranamente  buono, 
intelligente  plasmatore  della  materia  conforme  agli  archetipi  divini,  mentre  Plotino 
procedendo  senza  fine  di  astrazione  in  astrazione,  giunto  all'uno  privo  di  ogni  deter- 
minazione, unità  perfettamente  vuota,  non  trova  altra  via  per  farne  uscire  il  mondo 
che  l'emanatismo,  dottrina  completamente  straniera  a  tutta  la  Filosofia  greca;  e  qui, 
giova  ripeterlo,  l'istinto  della  conoscenza  ha  ragione  di  beffarsi  dell'uno  di  Plotino, 
come  noi  crediamo  di  aver  ragione  affermando,  dopo  le  cose  dette  intorno  alla  Dia- 
lettica platonica,  che  il  De  Gaultier  ha  attribuito  a  Platone  per  elevarsi  al  concetto 
del  Bene  di  Dio  un  procedimento  che  è  in  perfetta  contraddizione  con  quello  che 
caratterizza  essenzialmente  la  Dialettica  di  Platone. 

Ma  se  l'istinto  della  conoscenza,  secondo  l'autore,  incominciò  la  sua  opera  di 
demolizione  del  Monoteismo  platonico  con  Plotino,  la  proseguì  assai  più  energicamente 
col  can.  Roscellino  nel  secolo  XI;  il  quale  sarebbe  stato  uno  spirito  ingenuo,  ma  chia- 
roveggente, come  se  ne  incontravano  nei  chiostri  medioevali.  La  Scolastica,  continua 
l'autore,  gli  apparve  una  scienza  onesta,  positiva,  cui  era  permesso  di  trattare  libe- 
ramente, come  le  matematiche,  senza  mettersi  in  guardia  per  le  conseguenze  de'  suoi 
teoremi,  e  sarebbe  in  ciò  che  si  mostrò  ingenuo.  Ora  lo  studio  della  filosofia  da  lui 
intrapreso  con  simili  disposizioni  lo  condusse  a  scoprire  che  i  generi  sono  categorie 
formate  dallo  spirito,  astrazioni  senza  esistenza  reale,  flatus  vocis.  Egli  subito  pubbli- 
cava la  sua  scoperta,  che  attirò  sul  suo  capo  conseguenze  quasi  tragiche.  Ora  nel 
Nominalismo  e  nel  Realismo  si  conteneva  la  lotta  di  una  gravità  eccezionale,  cioè 
la  lotta  tra  l'istinto  della  conoscenza  e  l'istinto  vitale.  Imperocché,  secondo  l'autore, 
la  scoperta  di  Roscellino  metteva  in  piena  luce  il  vizio  essenziale  sopra  cui  si  era 
elevato  tntto  l'edifizio  teologico.  Egli  faceva  vedere  esservi  un  abisso  insormon- 
tabile tra  esistenza  e  conoscenza,  come  non  essere  legittimo  dar  vita  ad  astrazioni 
(pagg.  41-42). 

Roscellino  negando  ai  generi  ed  alle  specie  una  esistenza  oggettiva  usava  del 
suo  diritto  speculatore,  né  con  ciò  incorreva  nella  censura;  ma  quando,  dal  campo 
filosofico  passando  al  teologico,  volle  applicare  la  sua  teoria  ai  dogmi  rivelati,  che 
sono  la  base  del  Cristianesimo,  doveva  necessariamente  sollevare  contro  di  sé  l'au- 
torità non  dei  filosofanti,  ma  della  Chiesa  che  la  condannava  e  Roscellino  nel  Con- 
cilio di  Soissons  ritrattava  la  sua  dottrina  applicata  ai  dogmi  cristiani. 

Come  al  solito,  l'autore  ignora  che  la  questione  filosofica  intorno  alla  natura  dei 
generi  e  delle  specie,  se  esistano  realmente,  o  siano  mere  concezioni  dello  spirito, 
era  stata  posta  parecchi  secoli  prima  da  Porfirio  nella  sua  Isagoge  al  libro  delle  ca- 
tegorie di  Aristotele,  e  da  lui  non  risolta.  Che  tale  questione  era  stata  ripresa  da 
Boezio  e  discussa  lungamente,  che  era  stata  egualmente  esaminata  sotto  tutti  i  suoi 
aspetti  da  Ammonico  nel  suo  Commentario  sulle  Categorie  Aristoteliche,  e  che  mai  nessun 
teologo,  e  tanto  meno  la  Chiesa  era  intervenuta  nella  questione,  perchè  considerata 
in  sé  come  pura  speculazione  non  offendeva   alcun  dogma.  Roscellino  applicando  la 


270  ROMUALDO    BOBBA  18 

sua  teoria  ai  dogmi  della  Unità  e  Trinità  cristiana,  attaccava  non  solo  la  specula- 
zione teologica,  ma  l'insegnamento  degli  Apostoli,  dei  Padri  e  di  Cristo  medesimo, 
ed  è  sotto  questo  solo  aspetto  che  fu  censurato. 

L'autore  che  ci  presenta  il  Roscellino  come  quello  per  cui  l'istinto  della  cono- 
scenza cioè  della  negazione  fa  le  sue  prime  prove  ed  abbiamo  veduto  in  che  modo, 
se  avesse  approfondito  la  storia  della  Filosofia  avrebbe  facilmente  scoperto  un  altro 
di  quei  monaci,  i  quali  trattando  di  questioni  filosofiche,  usavano  della  massima  libertà 
nel  discuterle,  senza  incorrere  nelle  censure  della  Chiesa.  Tutti  comprendono  facil- 
mente che  noi  parliamo  di  Gaunilone,  monaco  di  Marmontier,  il  quale  contro  la 
dimostrazione  a  priori  dell'esistenza  di  Dio,  elaborata  da  S.  Anselmo,  mosse  una  serie 
di  obbiezioni,  ponendole  in  bocca  ad  un  insipiente  in  un  opuscolo  col  titolo  Pro  insi- 
piente. E  ciò  che  qui  più  importa  di  rilevare  è  che  le  obiezioni  di  Gaunilone  sono 
sostanzialmente  quelle  che  Kant  riprodusse  nella  Dialettica  trascendentale  contro  la 
prova  ontologica,  eppure  il  monaco  Gaunilone  non  fu  punto  molestato  per  le  sue 
obbiezioni,  precisamente  perchè  egli  non  era  uscito  dal  campo  delle  disquisizioni 
filosofiche. 


Secondo  l'autore,  il  concetto  di  Dio  a  cui  si  era  elevato  Platone  non  ebbe  alcuna 
influenza  né  in  Grecia,  né  in  Roma,  cosi  che  per  lui  lo  Stoicismo,  per  esempio,  in  Grecia 
e  in  Roma  non  conta  per  nulla,  perchè  il  concetto  platonico  non  potè  allora  pene- 
trare che  in  qualche  cervello  paradossale  di  qualche  erudito  e  di  qualche  filosofo 
professionista  interessato  a  confondere  il  sapere  e  la  nozione  col  gioco  libero  del  pen- 
siero formato  e  deformato  nella  atmosfera  astratta  delle  scuole  e  ritraente  vanità  da 
un  pregiudizio  ancora  esoterico,  per  cui  quei  poveri  cervelli  paradossali  credevano  di 
elevarsi  al  di  sopra  dei  pregiudizii  volgari  (pag.  49).  Quindi  è  da  dire  che  Zenone 
di  Cizio,  Cicerone,  Seneca,  Epitetto,  Marco  Aurelio,  per  nominarne  alcuni,  non  furono 
che  cervelli  paradossali,  filosofi  professionisti,  interessati  a  confondere  il  sapere  e  la 
nozione  col  libero  gioco  del  pensiero.  Ma  senza  insistere  sopra  il  cervello  veramente 
paradossale  dell'autore,  vediamo  che  cosa  egli  scrive  rispetto  all'altra  fonte  da  cui 
deriva  il  Monoteismo. 

Perchè  l'idea  di  un  Dio  unico  s'imponesse  e  diventasse  il  sostrato  di  una  nuova 
civiltà,  come  il  politeismo  era  stato  il  sostegno  sufficiente  della  coltura  antica,  era 
necessario  l'appoggio  del  dogma  ebraico,  ed  è  nell'uscire  dall'esame  dell'idea  mono- 
teistica concepita  dalla  filosofia  una  liberazione  per  lo  spirito  di  vedere  questa  stessa 
idea  darsi  nel  dogma  per  ciò  che  è,  imporsi  in  un  comando  puro  e  semplice  dell'istinto 
vitale,  come  un'  attitudine  di  utilità.  In  fatto,  colla  Bibbia  l'idea  monoteistica  si  pro- 
mulga, si  ordina,  prendendo  la  precauzione  di  non  richiamarsi  alla  ragione.  L'istinto 
vitale,   "  doué  ici  de  toute  sa  clairvoyance,  tient  la  raison  pour  un  danger  „  (pag.  50). 

Osserviamo  anzitutto  che  l'ordine  cronologico  e  logico  della  trattazione  imponeva 
all'autore  di  incominciarla  dallo  studio  del  Monoteismo  in  questa  fonte,  anzi  nelle 
tradizioni  più  antiche  del  genere  umano,  ne  mancano  libri  e  gravi  che  studiarono  la 
questione  sotto  questo  aspetto.  Ma  passiamo  oltre.  Nemmeno  ci  sorprende  che  l'au- 
tore dica:  "  c'est  une  délivrance  pour  l'esprit  de   voir   cette   mème   idée   se    donnei- 


19  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE    ..  271 

"  dans  le  dogme  pour  ce  qu'elle  est,  s'imposer  en  un  commanderaent  pure  et  simple 
*  de  l'instinct  vital  „,  conoscendo  già  per  ripetuti  esempi  la  fecondità  di  questo  fa- 
migerato istinto,  non  dico  inventato  del  tutto  dall'autore,  ma  certo  da  lui  arricchito 
di  una  potenza  meravigliosa.  Ma  ciò  che  ci  sorprende  è  che  gli  esegeti,  gli  interpreti 
e  i  critici  dei  libri  sacri  dell'antico  Testamento  studino  e  lavorino  da  anni  per  isco- 
prirne  gli  autori,  ben  inteso  che  qui  ci  riferiamo  ai  protestanti,  mentre  l'autore  ex 
cathedra  risolve  la  questione  con  due  parole:  che  cosa,  dice  egli  a  tutti  costoro, 
andate  cercando  e  annebbiando  la  questione  dell'origine  di  quei  libri  con  disquisizioni 
inutili;  ecco  qua,  la  sua  origine:  la  Bibbia,  poveri  gonzi,  è  un  prodotto  dell'istinto 
vitale,  il  quale,  fornito  di  somma  previggenza,  tiene  la  ragione  per  suo  nemico. 

Se  poi  qualche  curioso,  pur  accogliendo  tale  spiegazione,  ma  sotto  riserva,  insi- 
stesse chiedendo  quando  e  dove  l'istinto  vitale  proclamò  e  divulgò  questo  dogma, 
l'autore  probabilmente  gli  risponderebbe  che  dopo  aver  egli  pel  primo  fatto  la  grande 
scoperta,  non  credette  opportuno  di  occuparsi  ulteriormente  di  sapere  ne  il  dove  ne 
il  quando  era  avvenuto  il  grande  prodigio.  L'autore  in  certo  luogo  parla  °  de  ce  grand 
"  rire,  ce  rire  abstrait  qui  est  le  propre  de  l'instinct  de  connaissance  quand  il  a  pris 
"  conscience  de  lui-mème  „  (p.  43);  or  bene,  crediamo  che  questo  riso  sarà  condi- 
viso da  parecchi  dei  lettori  che  mediteranno  le  sue  gratuite  affermazioni.  Ma  con- 
tinuiamo. 

In  contrasto  coH'antropomorfismo  greco,  l'autore  avrebbe  dovuto  necessariamente 
aggiungere  della  religione  popolare,  il  dogma  formulato  dall'istinto  vitale  nella  Bibbia 
tende  a  sceverare  da  Dio  ogni  carattere  umano,  precisamente  come  avevano,  guidati 
dal  semplice  lume  della  ragione,  fatto  Senofane,  Anassagora,  Empedocle,  Socrate. 
Platone  e  dopo  Aristotele.  L'autore  continua:  non  gli  basta  di  proibire  la  riprodu- 
zione della  sua  immagine,  anche  dandole  l'apparenza  più  nobile,  ma  tende  ancora  ad 
eliminare  dallo  spirito  umano  ogni  presunzione  di  analogie  tra  le  concezioni  umane 
e  i  decreti  della  divinità.  Se  non  che  all'epoca  (quale?)  in  cui  l'istinto  vitale  creava 
Dio,  il  popolo  Ebreo  fu  anzitutto,  come  ben  notava  Nietzche,  il  rappresentante  della 

sua  volontà  e  potenza In  tutte  le  circostanze  esso  fa    approvare  e  suggerire    per 

Jeova  stesso  le  misure  che  gli  sono  utili.  Più  tardi,  quando  è  condotto  in  cattività. 
immagina  di  espiare  colpe  commesse  contro  il  suo  Dio;  idea  nobile  e  per  avventura 
ingegnosa,  certo  per  non  offendere  il  proprio  orgoglio.  A  noi  invece  sembra  l'idea 
più  ridicola  che  possa  cadere  in  un  uomo  che  non  abbia  perduto  il  senno.  Come? 
l'istinto  vitale  del  popolo  Ebreo  si  crea  un  Dio,  che  è  in  suo  potere  di  annientare, 
e  quando  cade  in  ischiavitù  immagina  che  ciò  gli  sia  avvenuto  perchè  espii  colpe 
commesse  contro  di  lui,  mentre  il  semplice  buon  senso  gli  suggerirebbe  un  mezzo 
infinitamente  più  semplice  e  alla  mano,  quale  è  quello  di  negare  questa  sua  creazione, 
che  senza  nulla  giovargli  lo  incommoda  tanto  gravemente? 

Attribuendo,  continua  l'autore,  ogni  potenza  ad  un  essere  che  è  al  di  fuori  di 
ogni  paragone  cogli  uomini,  nega  l'Ebreo  a'  suoi  nemici  il  beneficio  e  l'onore  delle 
loro  vittorie,  perchè  essi  non  sono  stati  che  gli  istrumenti  della  vendetta  di  Dio  sul 
suo  popolo,  cioè  gli  strumenti,  diciamo  noi,  della  vendetta  del  Dio  che  esso  popolo 
ebbe  l'incredibile  sciocchezza  di  crearsi.  In  breve:  questo  popolo  perchè  fatto  schiavo 
ed  oppresso  si  giudica  colpevole  verso  un  Dio,  che  è  sua  fattura,  riconosce  la  neces- 
sità di  una  espiazione  che  gli  impone  un  Dio  da  lui  creato  e  che  può  con  una  sem- 


272  ROMUALDO    BOBBA  2' l 

plico  negazione  annientare,  accetta  il  castigo  perchè  gli  sarà  perdonato  sempre  da 
quel  Dio  da  lui  inventato,  e  sarà  ristabilito  nella  sua  gloria  antica,  avendo  confidenza 
nella  giustizia  divina,  cioè  nella  giustizia  di  una  divinità  da  lui  fabbricata,  giustizia 
che  esso  popolo  apprezza  ancora  nella  misura  del  proprio  sentimento  di  giustizia. 

Ora  domandiamo  se  l'istinto  vitale  e  per  lui  il  popolo  Ebreo  creatore  del  suo  Dio 
poteva  trarre  le  conseguenze  di  cui  l'autore  gli  fa  gravame  e  se  queste  conseguenze 
non  siano  un  controsenso  tale  da  eccitare  non  già  un  riso  astratto  ma  molto  concreto 
contro  l'inventore  di  tali  balordaggini? 

Vero  è  che  l'autore,  accorgendosi  che  il  Dio  fattura  dell'istinto  vitale  del  popolo 
Ebreo  era  un  Dio  buffonescamente  ridicolo  e  risibile,  aggiunge  che  il  libro  di  Giobbe 
ci  fa  assistere  alla  costituzione  perfetta  della  personalità  divina,  tale  quale  sarà  legata 
alla  dogmatica  cristiana  e  quale  debbe  concepirsi  per  essere  sottratta  all'analisi  dello 
spinto  (pag.  41). 

Non  sappiamo  perchè  l'autore  non  faccia  creare  il  Dio  di  Giobbe  dal  fecondo 
istinto  vitale;  ci  pare  che  dopo  aver  prodotto  Jeova  del  Pentateuco,  poteva  pure, 
anzi  con  maggior  facilità  creare  il  Dio  di  Giobbe.  Probabilmente  l'autore  nella  sua 
prudenza  pensò  che  sarebbe  stato  un  abusare  della  sua  fecondità,  tanto  più  che  dopo 
parecchi  secoli  durante  l'impero  d'Augusto  doveva  creare  il  Monoteismo  cristiano  con 
tutte  le  sue  appendici.  Mentre  attendiamo  che  l'autore  ci  riveli  il  vero  perchè  della 
presente  infecondità  dell'istinto  vitale,  notiamo  che  Giobbe,  il  quale  non  pensò  prima 
di  scrivere  il  suo  libro  di  crearsi  un  Dio,  sparge  oppresso  da  mali  i  suoi  lamenti  alla 
presenza  di  tre  amici  venuti  di  lontano  per  consolarlo.  Attraverso  i  discorsi  di  Giobbe 
e  de'  suoi  amici,  ed  oltre  alle  concezioni  indicate  precedentemente  intorno  alla  giustizia 
del  Dio  creato  dall'istinto  vitale  del  popolo  Ebreo,  si  lascia  intravedere  una  potenza 
fuori  di  tutte  le  proporzioni  della  intelligenza  umana,  una  giustizia  incomprensibile 
alla  nostra  ragione. 

Notiamo  bene  che  i  tre  amici  di  Giobbe  non  si  sono  essi  fabbricati  il  Dio  di  cui 
parlano,  né  l'autore  pensa  di  informarci  donde  essi  avessero  appreso  l'esistenza  di 
un  Dio  non  creato  dagli  uomini.  Eppure  tale  notizia  era  della  massima  importanza' 
dal  momento  che  quel  taumaturgo  d'istinto  vitale  non  aveva  pensato  di  provvedere 
a  questa  bisogna. 

Intanto  gli  amici  di  Giobbe  dalle  sue  miserie  conchiudono  alla  sua  colpa;  e  di- 
cono: beato  l'uomo  che  Dio  stesso  corregge:  non  rigettare  i  castighi  del  Signore. 
Giobbe  seguita  a  protestare  che  è  innocente,  ma  i  suoi  amici  non  gli  credono.  Essi 
lo  scongiurano  perchè  si  penta.  Alla  fine  Giobbe  invoca  sopra  di  sé  il  giudizio  del 
Signore,  ma  i  tre  amici  non  rispondono  più  a  Giobbe  perchè  persiste  nel  dichiararsi 
innocente.  Secondo  l'autore,  dagli  argomenti  di  Giobbe  e  de'  suoi  amici,  apparirebbe 
la  credenza  antica  della  ideutità  della  giustizia  umana  colla  divina,  mentre  dalla 
discussione  e  dal  contrasto  delle  idee  che  si  manifesta  nel  poema  si  svilupperebbe  un 
tema  nuovo,  cioè  che  Dio  colpisce  egualmente  il  giusto  e  l'ingiusto,  del  che  Giobbe 
non  si  meraviglia,  né  di  ciò  accusa  Dio,  perchè  questi  non  è  un  uomo  a  cui  si  possa, 
rispondere,  né  entrare  in  giudizio  contro  di  lui.  Ed  Eliu  che  entra  in  iscena  come 
quarto  interlocutore,  apostrofa  Giobbe  dicendo:  '  Dio  prenderà  te  come  regola  per  la 
sua  giustizia?  Dovrà  egli  odiare  ciò  che  tu  odii,  scegliere  quello  che  tu  scegli?  „.  Dal 
che  deduce  l'autore  non  esservi  alcuna  misura  comune  tra  l'uomo  e  Dio.  Giobbe  può 


21  ESAME    STORICO    CRITICO    DELI/OPERA     "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   „  273 

ignorare  la  sua  colpa,  ma  questa  non  esiste  meno  al  cospetto  di  Dio  :  ma  quando 
Dio  stesso  interviene  e  si  mostra  a  Giobbe,  le  sue  parole  dimostrano  che  nemmeno 
tale  apprezzamento  è  da  lui  approvato.  Chi  è  quegli  che  oscura  la  saggezza  con 
discorsi  insensati?  Dio  nulla  dice  della  sua  giustizia,  non  manifesta  che  la  sua  po- 
tenza e  non  si  calma  se  non  quando  Giobbe  dice:  "  Sì,  volli  spiegare  meraviglie  che 
non  comprendeva,  prodigi  che  superano  la  mia  intelligenza;  Sì,  io  accuso  me  stesso 
e  farò  penitenza  nella  polvere  e  nella  cenere  „.  Quindi,  secondo  l'autore,  l'idea  divina 
qui  è  prosciolta,  sotto  l'aspetto  morale,  da  ogni  antropomofismo  ;  tra  l'uomo  e  Dio 
la  sproporzione  è  assoluta,  epperciò  l'uomo  non  può  elevarsi  a  Dio  neppure  colle  idee 
più  alte,  nemmeno  coll'idea  della  giustizia.  Così  pure  il  male  fisico  e  morale  nulla 
provano  contro  Dio,  il  quale  resta  così  al  coperto  dai  tentativi  della  conoscenza,  e 
la  concezione  di  Dio  fuori  del  mondo  qui  diventa  logicamente  la  concezione  di  un 
Dio  fuori  della  ragione  (pagg.  51-52-53). 

Di  qui  l'autore  deduce  che  il  popolo  Ebreo  gli  pare  il  campione  dell'istinto  vi- 
tale, de'  suoi  bisogni,  dei  pericoli  che  lo  minacciano,  pericolo  concentrato  nell'istinto 
della  conoscenza,  il  quale  deve  adempiere  il  suo  ufficio  di  distruttore,  essere  lo  spi- 
rito che  sempre  nega  (pag.  17).  In  fatto,  l'idea  di  Dio  mostratasi  nella  Filosofia  greca, 
dice  egli,  l'idea  più  antinomica,  più  falsa,  più  distruttrice  di  tutte  le  facoltà  di  co- 
noscere, che  poteva  essere  escogitata,  questa  idea  la  Bibbia  impone  in  nome  della 
rivelazione  ed  in  opposizione  ad  ogni  razionalismo  produce  uno  stato  di  ostilità  ne- 
cessaria tra  il  dogma  e  la  ragione  ;  tuttavia,  sempre  secondo  l'autore,  questa  idea  che 
è  la  più  falsa,  si  mostra  la  più  forte  per  organizzare  la  vita  sociale.  Anzi,  da  oltre 
due  mila  anni  l'accordo  dell'istinto  vitale  e  del  Monoteismo  si  riconosce  agevolmente 
nel  fatto  della  potenza  devoluta  esclusivamente  alle  nazioni  che  sono  immerse  in  tale 
illusione,  e  quel  che  è  peggio,  a  detrimento  dei  popoli,  la  cui  filosofia,  come  quella 
degli  Indiani,  negando  l'idea  di  un  Dio  fuori  del  mondo  e  creatore  dello  stesso,  si 
mostra  dominata  dall'istinto  di  conoscenza.  Il  sintomo  quindi  è  flagrante,  perchè  niun 
popolo  conquistatore  uscì  dalle  razze  di  religione  Buddistica,  dopo  che  vennero  in 
concorrenza  coi  popoli  monoteistici,  perchè  l'istinto  di  conoscenza  che  è  la  base  della 
loro  mentalità  è  causa  della  loro  debolezza  (pag.  54).  Ed  è  questa  mentalità,  la  quale 
deve  dissipare  i  fantasmi  della  Teodicea  e  creare,  riguardo  alla  metafisica  antica,  un 
nichilismo  assoluto  che  l'autore  vagheggia  ed  a  cui  ci  invita  di  partecipare  con  tanto 
ardore  !  E  proprio  il  caso  di  ripetere  :   Timeo  Danaos  et  dona  ferentes. 

Ma  le  conclusioni  che  l'autore  deduce  dal  libro  di  Giobbe  sono  troppo  gravi  per 
non  richiamarvi  la  nostra  attenzione,  né  crediamo  fuori  di  proposito  di  compendiare 
anche  noi  il  celebre  libro.  La  scena  è  duplice  perchè  abbraccia  il  Cielo  e  la  Terra; 
nel  Cielo  si  agisce,  sulla  Terra  si  parla,  e  qui  ignorandosi  i  decreti  del  Cielo,  si  por- 
tano giudizii  infondati.  Ciò  rappresenta  assai  bene  l'immagine  dei  sistemi  filosofici, 
dice  l'Herder,  e  le  loro  teorie.  L'eroe  del  libro  è  un  uomo  che  soffre  anche  fisicamente 
e  che  non  ha  meritato  le  disgrazie  che  lo  affliggono.  Si  perdonano  i  suoi  pianti  e  i 
gemiti,  perchè  anche  il  più  grande  eroe  non  potrebbe  rattenersi  dal  gemere  quando 
è  oppresso  da  sofferenze  corporee.  Giobbe  vede  la  morte  vicina  ed  è  ridotto  a  desi- 
derarla; la  sua  esistenza  è  avvelenata  e  si  comprende  che  se  ne  lamenta.  Giobbe 
soffre  per  la  gloria  di  Dio,  i  suoi  lamenti  gli  sono  predestinati,  giacche  Dio  ha  per- 
messo a  Satana  di  tormentarlo.  Sarebbe  egli  possibile  di  dare  alla  sofferenza  umana 
Sekie  II.  Tom.  LUI.  35 


271  ROMUALDO    BOBBA  22 

uno  scopo  più  elevato?  Ed  è  questo  scopo  che  fa  del  libro  di  Giobbe  la  Teodicea  del 
Signore  dell'universo  e  non  i  discorsi  dei  sapienti  della  terra,  i  quali,  pur  essendo 
elevati,  non  trattano  mai  che  un  aspetto  della  questione. 

Questi  discorsi,  ben  lungi  dal  consolare  Giobbe,  lo  irritano;  le  descrizioni  che 
fa  della  potenza  e  della  sapienza  divina  sorpassano  di  molto  quelle  de'  suoi  amici, 
ma  non  rimane  meno  infelice,  risultato  ordinario  delle  vane  consolazioni  degli  uomini. 
La  terra  è  così  angusta  e  tenebrosa  da  non  potersi  cercare  che  nella  polvere  la  causa 
degli  avvenimenti  di  cui  si  dovrebbero  chiedere  spiegazioni  soltanto  al  di  là  delle 
stelle.  Ma  chi  potrebbe  innalzarsi  tanto  alto!  Niuno  quindi  degli  amici  di  Giobbe 
indovina  che  la  causa  delle  sue  miserie  è  quella  esposta  nella  introduzione  storica 
del  poema. 

Quanto  è  glorificata  l'immondizia  sopra  cui  è  assiso  Giobbe!  Il  quale  rimanendo 
fedele  alla  virtù  difende  i  Decreti  del  Creatore,  mentre  questi  tiene  sospesa  sul  capo 
del  paziente  la  corona  che  gli  destina.  Questa  doppia  azione,  dice  giustamente  l'Herder, 
e  gli  spettatori  invisibili,  gli  angeli,  posti  là  per  essere  testimoni  del  modo  secondo 
cui  Giobbe  sopporta  le  sue  miserie,  fanno  di  questo  libro  un'  opera  unica  al  mondo. 
L'uomo  che  nel  Cielo  debbe  essere  il  modello  della  forza  e  della  integrità,  si  trova 
sulla  terra  impegnato  in  una  lotta  di  saggezza  e  si  comporta  come  può  un  mortale. 
L'autore  diede  a  Giobbe  un  carattere  ardente  e  vivacissimo,  ed  è  perciò  che  si  sdegna 
alla  prima  osservazione  di  Eliphas,  il  quale  non  manca  tuttavia  di  dolcezza.  L'im- 
petuosità di  Giobbe  è  il  fermento  della  sua  virtù,  come  di  tutti  i  dialoghi  che  se- 
guono, i  quali  sarebbero  altrettanto  noiosi,  quanto  poco  istruttivi  se  egli  si  limitasse 
a  gemere  e  i  suoi  amici  a  consolarlo. 

Un  filo  sottile  riunisce  tutti  i  dialoghi  gli  uni  agli  altri,  nei  quali  ciascuno  degli 
amici  interloquisce  secondo  il  suo  carattere;  ma  Giobbe  loro  sovrasta  come  saggio  e 
poeta.  Eliphas  è  il  più  modesto  dei  tre;  se  parla  pel  primo  non  dà  le  sue  parole 
come  cosa  propria,  ma  le  attribuisce  ad  un  oracolo.  L'attacco  di  Bildad  è  più  vigo- 
roso e  Tsophar  non  fa  altro  che  rinfocolare  sul  discorso  di  Bildad  e  sparisce  il  primo 
dalla  scena.  La  lotta  quindi  è  divisa  in  tre  attacchi;  alla  fine  del  primo  Giobbe  si 
sente  già  abbastanza  vittorioso  per  appellarsene  a  Dio  contro  i  suoi  accusatori.  Nel 
secondo  i  nodi  del  dialogo  si  stringono  e  Giobbe  finisce  per  rispondere  a  Tsophar 
che  in  questo  mondo  la  felicità  è  riservata  ai  cattivi,  sentenza  che  gli  sfugge  nel- 
l'ardore della  disputa. 

Eliphas  allora  destramente  cerca  di  dare  un  altro  indirizzo  alla  discussione,  ma 
gli  interlocutori  si  sono  inaspriti  e  Giobbe  persiste  nel  suo  sentimento.  Bildad  discute 
debolmente,  e  Tsophar  non  trova  più  replica,  così  che  Giobbe  rimane  vincitore,  ed 
allora  ritratta  ciò  che  gli  era  sfuggito  nella  collera  e  pronuncia  sentenze  che  possono 
dirsi  la  corona  del  poema. 

Queste  discussioni  quanto  paiono  monotone  in  apparenza,  altrettanto  sono  ricche 
in  ombre  e  luce.  La  confusione,  il  disordine  aumentano  di  dialogo  in  dialogo  fino  al 
momento  in  cui  Giobbe  ritornato  in  se  modifica  le  sue  asserzioni.  Il  lettore  che  non 
scorga  questo  intreccio  delle  argomentazioni  non  può  avvertire  che  Giobbe  fa  costan- 
temente cadere  la  freccia,  che  dovrebbe  colpirlo  dalla  mano  de'  suoi  avversari ,  ne 
rileva  che  egli  ragiona  sempre  meglio  di  loro,  facendo  in  modo  che  i  loro  stessi  ar- 
gomenti tornino  in  suo  favore,  e  quindi  non  giungerà  mai  a  formarsi  una  giusta  idea 


ESAME    STORICO    CRITICO    DELl/OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    ..  275 

della  vitalità  e  grandezza  dello  spirito  di  questo  libro  (Confr.  Herder,  Storia  della 
poesia  ebraica). 

Giobbe  incomincia  con  una  bella  elegia  come  termina  quasi  tutti  i  suoi  discorsi 
con  una  commovente  lamentanza  che  rassomiglia  al  coro  della  tragedia  greca-,  il  quale 
generalizza  i  sentimenti  dell'eroe  e  lo  mette  alla  portata  di  tutti.  Ma  quando  egli 
ha  vinto  i  tre  amici,  un  giovane  profeta  si  presenta  improvvisamente  e  come  tutti 
gli  entusiasti  è  presuntuoso,  (emerario  al  punto  di  credersi  egli  solo  saggio  ;  e  per 
darne  un  esempio,  descrive  quadri  grandiosi  ma  indeterminati  e  senza  scopo;  ed  è 
perciò  che  niuno  gli  risponde.  Egli  è  là  tra  Giobbe  e  Dio  come  un'ombra  parlante, 
e  Dio  non  gli  risponde  che  colla  sua  subita  apparizione,  mentre  Eliu  che  aveva  inter- 
loquito per  difendere  Dio  stesso,  si  dilegua  come  un'  ombra. 

Ora  appare  manifesto  quanto  doveva  essere  istruttiva  l'introduzione  di  costui 
cosi  abilmente  associata.  In  fatto  Dio  appare  in  modo  altrettanto  grandioso  quanto 
inatteso,  cioè  al  momento  in  cui  il  giovane  profeta  Eliu  descrive  senza  saperlo  tutte 
le  circostanze  di  una  apparizione  di  tal  fatta,  cui  però  aveva  dichiarato  impossibile. 
Senza  accordare  la  menoma  attenzione  agli  interlocutori  che  avevano  creduto  di  soste- 
nerne le  ragioni,  Dio  non  parla  che  a  Giobbe,  non  come  giudice,  ma  come  un  sa- 
piente, ponendo  a  chi  aveva  vinto  i  suoi  avversarii  ed  esaurita  la  sapienza  della 
terra,  questioni  riguardanti  l'origine  del  mondo,  la  sua  creazione,  il  suo  governo,  e 
Giobbe  resta  muto.  Dio  ritrae  sette  specie  di  animali  selvaggi  e  termina  colla  descri- 
zione di  due  mostri  marini  di  cui  egli,  padre  del  mondo  da  lui  creato,  prende  cura 
ogni  giorno  come  se  fossero  i  suoi  favoriti.  Dio  chiede  a  Giobbe  perchè  essi  animali 
esistano,  giacché  non  certo  per  utilità  dell'uomo,  essendo  essi  quasi  tutti  a  lui  infesti, 
e  il  saggio  della  terra  umiliato  continua  a  serbare  il  silenzio. 

Sottomettersi  alla  ragione  infinita,  ai  decreti  impenetrabili  ed  alla  bontà  visibile 
del  padre  celeste  che  nutre  il  coccodrillo  e  i  piccoli  nati  dal  corvo,  ecco  la  sola  risposta 
possibile  alle  questioni  che  il  sovrano  del  mondo,  che  ha  per  parola  l'uragano  e  per 
testimonii  le  opere  della  creazione  stessa,  indirizza  egli  stesso  a  Giobbe  sul  governo 
e  i  destini  del  mondo.  Sì,  esclama  l'Herder,  la  vera  Teodicea  dell'uomo  è  nello  studio 
della  potenza,  della  saggezza,  della  bontà  di  Dio,  che  si  manifesta  nella  natura  e 
nell'umile  e  sincera  convinzione  che  la  ragione  e  le  vedute  di  Dio  sono  al  disopra 
della  nostra  intelligenza  (ibid.).  Dopo  ciò,  lasciamo  al  lettore  di  giudicare  del  valore 
delle  due  analisi  sommarie  del  libro  di  Giobbe  e  sopra  tutto  delle  conclusioni  che 
ne  derivano. 

VI. 

Xell'interno  della  Chiesa  definitivamente  costituita  si  manifesta,  secondo  l'autore, 
per  l'unione  del  dogma  colla  filosofia,  una  doppia  attitudine:  da  una  parte  il  dogma- 
tismo ebraico,  la  cui  missione  è  di  proteggere  l'istinto  vitale  contro  il  pericolo  della 
conoscenza,  dall'altra  la  Teologia  razionale,  che  si  propone  di  unire  le  due  forze,  che 
si  escludono,  e  di  costringere  l'istinto  di  conoscenza  a  prestare  mano  forte  alla  vita. 
Ed  è  in  grazia  di  questa  falsificazione  operata  dallo  spirito  filosofico  sopra  lo  stesso 
spirito  che  la  menzogna  teistica  colle  sue  conseguenze  favorevoli  alla  vita,  cioè  colle 
idee  di  giustizia,  di  bene,  di  male,  di  libertà,  di  responsabilità,  potè  e  potrà  ancora 


276  UUDO   BOBBA  24 

prolungarsi  nella  umanità  oltre  la  durata  del  dogma.  Ed  è  in  questo  modo  che  con 
S.  Agostino  e  i  Padri  con  S.  Anselmo,  Alberto  Magno,  S.  Tommaso,  S.  Bernardo, 
poi  col  soccorso  di  teologi ;  come  Bossuet  e  Fénelon,  di  filosofi  come  Cartesio  e 
Leibnitz,  col  sussidio  potente,  ad  onta  di  un  antagonismo  superficiale  di  volgarizza- 
tori come  Voltaire,  di  Enciclopedisti,  chi  mai  l'avrebbe  immaginato,  di  D'Holbach  e 
Diderot,  la  filosofia  platonica  e  deista  è  pervenuta  a  vivere  e  a  crescere. 

Ma  tutti  questi  puntelli,  continua  l'autore,  del  Teismo  tratti  dal  dogma  e  dalla 
Teologia  razionale  non  impedirono  che  i  frammenti  autentici  dell'istinto  della  cono- 
scenza si  manifestassero  qua  e  là  nel  corso  dei  secoli,  prima  col  Nominalismo  distrug- 
gitore di  ogni  Teismo,  poi  con  Lutero,  considerato  solo  come  dialettico  e  indipen- 
dentemente dalle  conseguenze  pratiche  della  sua  dottrina,  con  Giansenio  e  seguaci 
neganti  il  libero  arbitrio  in  nomo  della  grazia  e  focolari  di  un  ascetismo  fecondo  di 
frutti  anche  migliori.  Ne  debbono  tacersi  i  successi  resi  all'istinto  della  conoscenza 
da  Bruno,  Ramo,  Vanini  e  da  Galileo  (secondo  l'autore  anche  Galileo  è  uno  dei 
distruttori  del  Teismo).  Sebbene  costoro  perfezionarono  piuttosto  l'indirizzo  ascetico 
anziché  acuire  l'istinto  della  conoscenza  (pagg.  56-57-58). 

Ora  "  avec  les  concours  coalisés  par  la  défense  de  l'instinct  vitale,  elle,  la  phi- 
"  losophie  platonicienne  a  dressé  sa  facade  monumentale,  bariolée,  en  guise  d'ornemens, 
"  des  motifs  divers  de  ses  prétentions  métaphysiques  toutes  décorées  d'apparences 
0  fausses,  fausses  fenètres  et  fausses  portes  destinées  à  de'rober  l'entrée  de  la  né- 
"  cropole  dangereuse,  léthargique  et  silencieuse  de  la  connaissance,  qu'elle  a  pour 
"  mission  de  casser  „   (pag.  58). 

Con  questa  conclusione  l'autore  termina  la  prima  parte  della  sua  pretesa  deter- 
minazione "  de  la  forme  et  des  limites  de  notre  faculté  de  connaitre  „,  come  di  averne 
definito  l'ufficio  e  la  portata  e  di  averne  messo  in  iseena  l'epopea,  ed  essere  pervenuto 
attraverso  le  tergiversazioni  del  pensiero  fino  alla  Critica  della  Ragion  pura  (ibid.). 
Dalla  nostra  esposizione  il  lettore  potrà  facilmente  giudicare  quale  credito  debba 
attribuirsi  alla  sua  fantastica  diatriba. 


VII. 

Nietzsche,  dice  l'autore,  ha  accettato  l'ipotesi  secondo  cui  la  vita  ha  per  base 
una  illusione,  una  menzogna;  a  questa  ipotesi,  si  deve  aggiungere  come  corollario, 
che  lo  stato  di  conoscenza  deve  distruggere  la  vita.  Ora  non  è  un  dogmatico,  un  cre- 
dente, ma  un  filosofo  indipendente  che  ha  dimostrato  l'illusione  e  la  menzogna  della 
vita  mediante  la  critica  della  conoscenza.  Kant  però  non  fu  un  dogmatico  come  i 
precedenti.  Egli  è  protestante  e  il  Protestantesimo  implica  già  una  alterazione  della 
moneta  dogmatica,  contenendo  virtualmente  il  Razionalismo,  il  quale,  dice  l'autore, 
riposa  sopra  questa  petizione  di  principio:  di  un  accordo  necessario  tra  la  religione 
rivelata  e  la  ragione.  "  Aussi  est-i!  permis  de  supposer  que  Kant  catholique  n'eut 
"  pas  déshonoré  la  Ch-itique  de  la  Eaison  pure  par  la  Critique  de  la  Baison  pratique, 
"  ni  par  les  réticences,  qui  dans  celle-là  ménage  déjà  la  possibilité  d'un  retour  „ 
(pag.  61). 


25  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE    ..  277 

Ora  noi,  senza  pretendere  di  sapere,  come  fa  l'autore,  ciò  che  Kant  avrebbe  fatto 
come  cattolico,  e  tanto  meno  se  sia  in  forza  della  sua  fede  robusta  nella  necessaria 
conciliazione  della  rivelazione  colla  ragione,  che  lo  indusse  a  scrivere  la  Critica  dello 
Ragion  punì,  mentre  Kant  dice  positivamente  che  ciò  che  lo  indusse  a  scriverla  fu 
il  problema  come  siano  possibili  i  giudizii  sintetici  a  priori,  il  fatto  è  che  il  De  Gaultier 
nota  che  in  essa  Critica  non  si  incontra  la  divinità  ne  sotto  forma  di  causa  prima 
o  finale,  ne  sotto  forma  di  assoluto;  il  vuoto  tiene  luogo  dell'infinito  e  del  perfetto; 
la  libertà,  il  bene  ed  il  male  come  imputabili,  come  pure  la  giustizia,  sono  invisibili. 
Al  contrario,  la  causalità,  il  tempo,  lo  spazio  si  allargano  in  proporzioni  illusorie, 
s'intrecciano  senza  fine  propagando  miraggi  in  cui  si  scorge  la  fuga  continua  nel 
fenomenismo.  Descrive  assai  fedelmente  gli  artifizi  che  osserva,  tutte  le  forme  vuote 
che  incontra;  sa  che  ciò  costituisce  l'apparecchio  della  conoscenza,  ne  indica  accu- 
ratamente la  portata  e  confessa  che  lo  studio  di  questo  meccanismo  non  potrebbe 
fornirgli  alcuna  nozione  sopra  l'essere  in  se.  Ma  dopo  essere  andato  cos'i  lontano,  sulla 
fede  dell'accordo  finale  tra  il  dogma  e  la  ragione,  incomincia  nondimeno  a  spaven- 
tarsi. In  fatto,  diciamo  noi,  se  procedendo  in  quel  modo  nelle  sue  deduzioni*  cercava 
la  conciliazione  del  dogma,  come  vuole  l'autore,  colla  ragione,  non  poteva  non  accor- 
gersi che  ben  lungi  dal  conseguire  la  conciliazione,  scavava  tra  essi  un  abisso  insor- 
montabile. Di  già  sotto  l'impero  della  paura,  continua  l'autore,  la  sua  vista  s'intorbida 
e  incomincia  a  mentire,  cioè  concede  che  le  forme  della  conoscenza  non  raggiungono 
l'essere  in  se,  ma  che  per  loro  natura  significhino  l'impossibilità  di  farci  conoscere 
l'essere  in  se  noi  dice;  ed  ecco  la  menzogna.  Eppure  ciò  è  implicato  nelle  disquisi- 
zioni antecedenti,  ma  in  grazia  della  sua  fede  che  gli  impedisce  di  sospettare  un  pe- 
ricolo, egli  proscioglie  l'istinto,  della  conoscenza  dalla  sua  severità,  cioè  l'istinto  della 
negazione.  Laonde  dopo  aver  compiuta  quella  distruzione  decisiva,  mettendo  a  pro- 
fitto le  reticenze  volontarie  già  indicate  da  Kant,  ritorna  a  collocarsi  in  faccia  all'edi- 
fizio  platonico,  ristabilisce  sopra  un  punto,  da  cui  deduce  tutti  gli  altri,  l'illusione  e 
la  menzogna  filosofica,  e  ne  rialza  gli  idoli. 

Kant  perciò,  dopo  aver  descritto  l'illusione  formata  dall'istinto  vitale,  mostran- 
done la  sua  doppia  origine  nella  filosofia  e  nel  dogma  costretti  a  servire  la  vita  col- 
l'arma  della  conoscenza,  la  quale  lungi  dall'essere  fautrice  della  vita,  fa  rientrare 
nel  pretto  nulla  quanto  apparisce,  si  accorse  che  bisognava  prima  far  trionfare  l'istinto 
vitale  per  poi  fornire  all'istinto  della  conoscenza  il  campo  della  distruzione.  Egli, 
Kant,  quindi  ha  fatta  sua  la  parola  che  Goethe  mette  in  bocca  a  Mefistofele,  intesa 
dallo  istinto  della  conoscenza;  cioè:  io  sono  lo  spirito  che  sempre  nega,  e  quanto 
esiste  non  è  buono  che  per  andare  in  ruma  e  sarebbe  meglio  se  non  esistesse  (pag.  65). 

Lasciamo  ai  seguaci  di  Kant  di  apprezzare  questa  nuovissima  interpretazione 
della  Critica  della  Ragion  pura,  ciò  che  a  noi  ripugna  assolutamente  è  di  concedere 
all'autore  la  mala  fede  di  cui  gratifica  Kant,  dal  quale  si  può  dissentire  speculati- 
vamente, ma  la  di  cui  integrità  e  sincerità  è  al  di  sopra  di  ogni  sospetto.  Ripetiamo 
ancora  che  il  De  Gaultier  o  non  ha  letto,  o  movendo  da  un  preconcetto,  suppone  che 
Kant  nella  Critica  della  Ragion  pura  si  sia  proposto  di  conciliare  il  dogma  rivelato 
colla  ragione  umana,  mentre  egli  afferma  positivamente  che  il  problema  generale 
della  Ragion  pura  è  appunto  come  siano  possibili  i  giudizi  sintetici  a  priori  (Intro- 
duzione, §  6). 


278  ROMUALDO    BOBBA  26 

Senza  entrare  nell'analisi  che  l'autore  fa  della  Critica  della  Ragion  pura,  notiamo 
solo  che,  secondo  lui,  se  Kant  avesse  lasciato  alle  antinomie  tutta  la  loro  forza  avrebbe 
dovuto  rinunciare  per  sempre  alla  conciliazione  del  dogma  colla  ragione  (supposizione, 
come  abbiamo  rilevato,  del  tutto  cervellotica  dell'autore),  e  la  menzogna  vitale  sma- 
scherata dalla  conoscenza  perdeva  tutto  il  suo  potere  d'illusione.  E  nel  cuore  stesso 
della  Critica  nel  momento  in  cui  dà  l'assalto  decisivo  alla  vecchia  finzione  che  Kant 
smozza  le  armi  di  cui  si  serve,  e  storna  i  colpi  che  porta  dalle  regioni  ove  produr- 
rebbe la  morte.  Come  nei  romanzi  popolari,  il  traditore  che  altri  credeva  sgozzato, 
può  risorgere  di  nuovo  e  co'  suoi  intrighi  aggiungere  un'  ultima  peripezia  alla  Ap- 
pendice che  sembrava  finita,  così,  secondo  l'autore,  Kant,  sotto  il  manto  dell'Impe- 
rativo  categorico,  ripresenta  il  traditore,  la  menzogna,  l'illusione  munita  di  tanaglie  e 
grimaldelli  nella  Critica  della  Ragion  pratica  (pag.  82). 

Lasciando  al  lettore  il  far  giustizia  del  cinismo  di  questo  linguaggio,  l'autore  si 
dimanda:  l'esistenza  fenomenica  che  sola  ci  è  data,  assorbe  dessa  tutta  la  totalità 
della  esistenza?  lascia  dessa  ancora  luogo  alla  possibilità  della  cosa  in  sé?  Dobbiamo 
noi  immaginare  un  ritorno  eterno  delle  cose,  oppure  un  inconoscibile,  un  Nirvana  si 
oppone  alla  fantasmagoria  dell'universo  conoscibile?  (pag.  83). 

Ecco  finalmente  questioni  nette  e  precise,  e  non  ingarbugliate  coi  giuochi  di  pa- 
role, colle  espressioni  cervellotiche  di  istinto  vitale,  il  taumaturgo,  o  di  istinto  della 
conoscenza,  il  distruttore  e  perpetuo  negatore.  Secondo  l'autore,  questo  spostamento 
della  inquietudine  è  la  sostituzione  dell'ottica  indiana  all'ottica  ebraica,  di  un  punto 

di  veduta  della  conoscenza  ad  un  punto  di  veduta  della  vita E  certo,  secondo  lui, 

che  le  razze  ariane,  che  durante  due  mila  anni,  presero  per  vivere  il  loro  punto  di 
appoggio  in  una  menzogna  improntata  dal  dogma  di  un'altra  razza,  hanno  veduto 
da  un  secolo  la  concezione,  che  loro  è  propria,  risorgere  nella  filosofia  alemanna  con 
Kant,  Schopenhauer  e  Nietzsche  che  l'arricchì  di  una  singolare  energia  e  di  una  nuova 
angoscia  (pag.  84). 

Le  razze  ariane,  cioè  quelle  che  comunemente  si  chiamano  indoeuropee,  per  vi- 
vere si  appoggiarono  ad  una  menzogna,  presa  dai  dogmi  di  un'  altra  razza,  cioè  dalla 
razza  semitica,  ed  esse  da  un  secolo  risuscitarono  la  concezione  indiana.  Ma  dunque 
Platone  ed  Aristotele,  che  indubbiamente  appartengono  alle  razze  indoeuropee,  e  che 
certo  sono  anteriori  ai  due  mila  anni  tassativamente  segnati  dall'autore,  a  quale  men- 
zogna presa  da  un'altra  razza  si  appoggiarono  per  vivere?  E  Cicerone  che  si  trova 
nella  stessa  condizione  rispetto  a!  tempo  ed  alla  razza,  dove  andò  a  copiare  il  suo 
trattato  Degli  Ufficii?  Decisamente  il  De  Gaultier  debbe  presumere  che  i  suoi  lettoli 
abbiano  cieca  fede  nella  sua  parola,  altrimenti  la  prudenza  più  elementare  gli  con- 
siglierebbe di  computare  meglio  le  date  (pag.  84). 

L'autore  dopo  lunghe  digressioni  intorno  al  principio  di  deformazione  dell'appa- 
recchio razionale  per  produrre  ciò  che  Kant  chiama  concetto,  deformazione  usata  in 
modo  diverso  da  diversi  filosofi,  incominciando  da  Locke,  continuando  con  Kant, 
Schopenhauer,  fino  a  Nietzsche,  deformazione  consistente  nell'astrazione  per  formare 
le  idee  generali,  da  pag.  91  a  110,  si  chiede  di  nuovo  se  il  concetto  di  una  esistenza 
in  sé  ha  egli  una  realtà.  La  cosa  in  sé  di  Kant,  il  mondo  come  volontà  di  Scho- 
penhauer, il  Brama  o  Nirvana  degli  Indiani  esiste  egli? 

Che  l'essere  in  sé  il  noumeno  sia  inconoscibile  per  sé,  è  ciò  che  la  Critica  della 


27  STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    .. 

Ragion  pura  si  sforzò  di  provare,  e  questo  pronunziato,  secondo  l'autore,  è  la  sola 
certezza  che  abbiamo  fin  qui  potuto  acquistare.  Ed  è  pure  la  conclusione  dell'Indo- 
nismo  che  ci  precede  di  tanti  secoli  in  questo  cammino  metafisico  e  che  formulò  la 
scienza  della  conoscenza  quale  il  genio  alemanno  l'ha  ritrovata. 

Molto  tempo  prima  delle  speculazioni  a  cui  dopo  tanti  sforzi  siamo  giunti  noi 
per  scuotere  il  giogo  teologico,  la  stessa  posizione  di  spirito  a  cui  siamo  appena  per- 
venuti ora,  si  era  stabilita  nella  filosofia  bramanica.  Ne  qui  si  tratta  di  una  coinci- 
denza fortuita  di  conclusioni,  ma  bensì  delle  stesse  conclusioni  che  indussero  quei 
pensatori  a  constatarle.  Cioè  l'istinto  della  conoscenza  liberato  dal  giogo  dell'istinto 
vitale,  si  mostra  più  preoccupato  di  sapere  che  di  vivere  e  termina  allo  stesso  distacco 
come  alla  stessa  perspicuità  (pagg.   110-111). 

I  filosofi  indiani  non  furono  ingannati  dall'astuto  ufficio  della  causalità  avendo 
in  esso  subito  veduto  la  molla  di  un'  illusione,  quindi  presso  di  loro  nessuna  traccia 
di  una  causa  prima,  sebbene  credano  che  la  vita  abbia  un  fautore;  cioè  l'ignoranza 
qui  sinonima  d'illusione,  dello  stato  di  ebbrezza  sotto  il  cui  impero  noi  attribuiamo 
alle  cose  la  durata,  l'estensione,  la  permanenza  e  la  realtà  e  creamo  il  mondo  delle 
apparenze.  Ma  questa  ignoranza  che  genera  il  desiderio  nasce  pure  dal  desiderio  ; 
perchè  nello  stato  di  ebbrezza,  da  cui  sorge  la  vita  fenomenale  le  dodici  cause  indi- 
cate dalla  Metafisica  (si  desidererebbe  sapere  da  quale  metafisica)  s'intrecciano  in  un 
mutuo  allacciamento,  ora  come  cause,  ora  come  effetti.  Dal  concorso  poi  del  desiderio 
motivato  dalla  sensazione  nata  dal  contatto,  che  è  la  sede  delle  qualità  sensibili, 
ecco  sorgere  colla  percezione  il  nome  e  la  forma  per  cui  le  cose  si  distinguono,  di- 
vengono oggetti  di  conoscenza.  Ma  questa  conoscenza  figlia  della  ignoranza  è  accom- 
pagnata dal  dolore  che  determina  l'aspirazione  al  Nirvana,  dove  deve  dissiparsi  l'eb- 
brezza vitale,  dove  svanisce  l'allucinazione  di  Maia. 

Quindi  che  si  tratti  di  un  ritorno  in  Brama  dei  primi  maestri  della  Metafisica 
indiana,  o  dell'annientamento  predicato  sotto  il  nome  di  Nirvana  dagli  ultimi  seguaci 
della  dottrina  di  Sankhia,  bisogna  vedere  nei  due  termini  una  identità,  come  nella  cosa 
in  sé  di  Kant,  nel  Wille  di  Schopenhauer. 

Tutti  questi  termini,  aggiunge  l'autore,  non  hanno  valore  metafisico  e  non  si 
accordano  coll'insieme  del  sistema  che  esprimono,  se  non  a  condizione  di  essere  spo- 
gliati di  tutte  le  vestigie  del  loro  senso  ordinario,  per  non  rendere  altro  se  non  l'idea 
di  ciò  che  è  inconoscibile  in  sé  e  per  noi.  Con  l'uno  e  l'altro  termine  gli  Indiani  non 
vollero  significare  altra  cosa  se  non  uno  stato  negativo,  ciò  che  è  opposto  al  relativo, 
al  composto,  ciò  che  è  sottratto  alle  condizioni  della  vita  fenomenale  e  alla  cono- 
scenza. Tuttavia  tutti  convengono  essere  possibile  uno  stato  diverso  ed  in  opposizione 
al  mondo  fenomenico,  anzi  l'esistenza  di  un  tale  stato  loro  pare  necessaria,  cioè  a 
loro  pare  che  un  mondo  in  sé  debba  opporsi  necessariamente  al  mondo  come  rappre- 
sentazione, al  mondo  generato  dalla  Maia.  Insomma  la  vita  fenomenale  fu  da  loro 
considerata  come  un  accidente,  una  malattia  della  vera  vita,  malattia  da  guarirsi  col 
ritorno  in  Brama  e  coll'annientamento  nel  Nirvana.  Quindi  la  trasmigrazione  delle 
anime  attraverso  la  durata  poter  un  giorno  finire,  e  cessare  con  essa  l'incubo,  l'in- 
catenamento  delle  cause  non  ostante  la  sua  fragile  vanità,  ed  il  risveglio  verificarsi 
al  coperto  del  miraggio  della  conoscenza  (pagg.  110-111-112-113). 

L'autore  con  tale  esposizione  della  Metafisica  indiana  ha  preteso  di  provare  che 


280  ROMUALDO    BOBBA  28 

i  filosofi  indiani  molti  secoli  prima  di  noi  si  trovarono  nelle  stesse  condizioni  di  spi- 
rito in  cui  si  trovò  la  Filosofia  dopo  le  deduzioni  della  Critica  della  Ragion  pura,  e 
cioè  che  l'intelligenza  liberata  dal  giogo  dell'istinto  vitale,  si  mostra  più  preoccupata 
di  sapere  che  di  vivere  e  perviene  allo  stesso  distacco  ed  alla  stessa  perspicuità. 


Vili. 

Per  dimostrare  quale  valore  abbia  questa  pretesa  identità  di  condizioni,  do- 
vremmo esporre  le  principali  forme  sotto  cui  si  manifesta  presso  i  Brainani  e  le  altre 
Scuole  indiane  la  loro  dottrina  Teologica,  Cosmologica  e  Psicologica,  ciò  che  ci  obbli- 
gherebbe ad  uscire  dai  limiti  che  ci  siamo  imposti  ;  tuttavia,  pur  restringendoci,  spe- 
riamo di  poterne  dare  un'idea  sufficiente  al  nostro  scopo. 

Nella  dottrina  secondo  cui  la  divinità  è  tutto  e  tutto  è  Dio,  l'universo  non  po- 
trebbe essere  considerato  che  come  una  deplorabile  degradazione  della  perfetta  felicità 
dell'essere  eterno  ;  tutto  che  ricevette  l'esistenza  è  infelice,  il  mondo  stesso  è  cattivo, 
corrotto  nella  sua  radice  pel  solo  fatto  della  sua  distrazione  dalla  sua  causa.  Ed  è 
ciò  appunto  che  gli  Indiani  chiamano  il  sagrificio  eterno  della  creazione,  l'abbassa- 
mento volontario  della  maestà  divina  alle  proporzioni  delle  miserabili  creature,  l'im- 
molazione e  la  consumazione  mediante  il  fuoco  divino  della  vittima  infinita  ed  eterna. 
Ciò  è  insegnato  tassativamente  sotto  il  triplice  emblema  di  un  sagrificio  umano,  del 
sagrificio  del  cavallo  e  del  sagrificio  vuoi  mistico,  vuoi  reale  di  ogni  sorta  di  esseri 
animati  e  inanimati  (Oupnék'hat,  III;  Brah.,  71,  pp.  335-36,  t.  1°;  Manavà-Dharum 
Sàstra,  1.  1,  st.  49-50). 

In  questi  passi  è  facile  riconoscere  che  si  solleva  la  grande  questione  dell'origine 
del  male  e  si  risolve  in  un  modo  vago,  come  il  Panteismo  con  cui  vi  si  risponde. 
In  fatto  il  Panteismo  nell'India  si  è  manifestato  in  termini  ora  più  mitigati  ora  più 
rigorosi. 

1°  Abbiamo  il  Panteismo  idealistico,  secondo  cui  il  mondo  non  è,  come  pure 
noi  che  ne  facciamo  parte,  che  una  pura  illusione,  un  giuoco  della  nostra  immagi- 
nazione, un  sogno  dell'essere  infinito,  quindi  non  vi  ha  che  una  sola  individualità, 
un  solo  me,  come  una  sola  sostanza,  un  solo  essere  senza  divisione  e  distinzione.  In 
tale  sistema  la  questione  della  natura  e  dell'origine  del  male  sia  fisico,  sia  metafisico, 
sia  morale,  si  risolve  colla  negazione.  Dio  solo  esiste,  egli  è  l'essere  intimamente 
perfetto,  tutto  è  pel  meglio,  perciò  il  male  non  è;  qualunque  manifestazione  di  ciò 
che  chiamiamo  male,  vizio,  peccato,  impei'fezione ,  disordine,  non  è  che  apparenza, 
vana  illusione,  pura  fenomenalità. 

2°  Il  Panteismo  cosmogonico,  secondo  cui  il  mondo  come  tutti  gli  esseri  sono 
stati  prodotti  dalla  sostanza  unica  universale  mediante  emanazione,  irradiamento,  er- 
rompente  dal  seno  dell'essere  infinito  in  una  progressione  decrescente,  distinguentesi 
di  più  in  più  e  dalla  loro  sorgente  e  tra  loro  stessi  per  una  divergenza  sempre  più 
grande.  In  tale  dottrina,  tutto  ciò  che  ha  ricevuto  l'esistenza  emanando  dall'infinito, 
perfetto,  felice,  è  infelice,  imperfetto,  sottoposto  ad  ogni  sorta  di  vicissitudini  morali 
e  fisiche,  e  il  mondo  intiero  è  perciò  stesso  cattivo,  corrotto  nelle  sue  sorgenti  ;  la 
creazione  è  una  catastrofe  dell'essere  infinito,  unico,  necessario,  caduto   nelle  forme 


29  ESAME    STORICO    CRITICO    DELl/oPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    ..  281 

finite,  multiple,  variabili,  contingenti,  di  una  esistenza  criminosa  e  infelice.  Ecco  la 
natura  e  l'origine  del  male,  che  affetta  la  stessa  sostanza  divina.  Il  male  quindi  ha 
la  sua  sorgente  nell'essere  divino,  nella  volontà  produttrice,  nell'imperfezione  del  suo 
essere  se  la  creazione  non  è  volontaria  e  libera. 

3°  Il  Panteismo  che  intermedia  tra  i  due  primi.  Secondo  esso,  la  sostanza 
divina,  una,  universale,  indivisibile  esisterebbe  in  due  stati  diversi,  cioè  come  infinita 
e  finita  e  sotto  forme  infinitamente  varie,  e  specificantesi  in  ciascuna  di  esse,  senza 
cessare  di  essere  il  centro  supremo,  l'essere  unico  ed  universale,  ad  un  dipresso  come 
noi  concepiamo  lo  spazio  infinito  occupato  da  esseri  o  figure  che  lo  riempiono,  in  cui 
si  muovono,  s'incrociano  in  tutti  i  sensi,  senza  che  lo  spazio,  che  si  specifica  in  tanti 
luoghi  diversi  determinati  da  quelle  figure  geometriche  e  dai  differenti  oggetti  cessi 
perciò  di  essere  uno,  universale,  identico  a  se,  esistente  insieme  allo  spazio  infinito 
e  finito  sotto  forme  differenti.  Questo  sistema  panteistico  ammette  la  realtà  del  mondo 
e  di  tutti  i  fenomeni  che  lo  costituiscono,  ma  non  risolve  meglio  la  questione  del- 
l'origine naturale  del  male,  perchè  il  limite,  il  male  come  il  bene,  i  fenomeni  del 
mondo  morale,  come  quelli  del  mondo  fisico,  affettano  egualmente  la  sostanza  divina. 
Oltre  questi  sistemi  generalmente  adottati  dai  Bramani  ve  ne  sono  altri  intorno 
al  principio  e  all'origine  delle  cose,  i  quali  ebbero  un  gran  numero  di  seguaci,  e 
tra  gli  altri  tali  furono  i  due  Sankhia,  la  Nyaya  e  il  suo  complemento  la  Vaisessika. 
Questi  sono  riguardati  dai  Bramani  come  in  parte  ortodossi  e  in  parte  eterodossi, 
cioè  in  parte  contrarii  alla  dottrina  dei  Vedi  e  in  parte  conformi.  Quindi  i  Bramani 
non  li  ripudiano  assolutamente,  riguardandoli  come  includenti  cose  utili  alla  logica 
e  alle  scienze  fisiche  e  naturali,  ma  ripudiano  ciò  che  in  essi  loro  sembra  opposto 
all'insegnamento  teologico.  Tali  sono  ad  esempio  i  modi  con  cui  spiegano  l'origine  e 
il  principio  delle  cose  implicanti  un  dualismo,  in  quanto  suppongono  due  principii 
eterni,  infiniti,  necessarii,  l'uno  attivo,  intelligente,  e  che  per  abbreviare  noi  chiame- 
remo Spirito,  saggezza,  volontà  motrice  ;  l'altro  passivo,  tenebroso,  inerte,  che  diremo 
materia,  elementi,  atomi  sottili,  la  Natura  Materia  Moula-Prakuti.  Il  primo  produce 
tutti  i  fenomeni,  ossia  tutti  gli  esseri,  il  secondo  è  la  sostanza  di  cui  sono  fatti  o 
prodotti  (conf.  Manavà-Dharma-Sàstrd). 

Ora  uno  degli  studi  più  perseveranti  dei  pensatori  indiani  fu  precisamente  quello 
di  conciliare  le  esigenze  morali  della  vita  presente  colle  loro  Cosmogonie.  Ritenendo 
quindi  che  l'uomo  pio  e  saggio  non  possa  ottenere  la  liberazione,  la  felicità  eterna, 
l'unione  assoluta  con  Brahm  se  non  unendosi  all'obbligazione  del  sagrificio  universale, 
in  cui  la  divinità  è  insieme  vittima  e  sacrificatore,  oblazione  e  preghiera  mediante 
le  opere  prescritte  dai  Vedi  e  sopratutto  acquistando  la  Grande  Scienza  egualmente 
prescritta  come  fine  ultimo  di  ogni  attività.  Scienza  suprema,  mediante  cui  il  cono- 
scente e  il  conosciuto,  l'universo  e  Brahm,  l'uomo  e  Dio  si  confondono  in  una  unità 
sublime  ed  assoluta. 

Imperocché  il  gran  sagrifizio  è  il  compimento  delle  opere  prescritte  dai  Vedi,  e 
la  sua  perfezione  è  il  sapere  che  la  nostra  anima  è  l'anima  universale,  Dio  in  un 
corpo  umano.  "  Io  sono  tutto  ciò  che  è,  dice  Brahm  ;  Io  sono  lo  spirito,  la  materia, 
il  tutto  e  l'individuale:  Io  sono  unico:  chi  conosce  me,  conosce  tutto;  conosce  tutto 
che  si  trova  nei  libri  (sacri),  e  tutto  ciò  che  essi  ordinano;  egli  conosce  la  scienza 
e  le  opere,  la  verità  del  sagrifizio  e  di  ciò  che  è  nel  sagrifizio:  chi  fa  ciò  ha  la  vera 

Serie  II.  Tom.   LUI.  36 


282  'lldo  bobba  30 

vita,  la  vera  giustizia;  egli  è  Brahni  „  (Oupnék'hat,  pp.  24,  20.  II,  pp.  13  e  14  e 
alias  passim). 

Di  qui  la  preghiera  cioè  la  tendenza  e  l'unione  dell'anima  con  Dio  pei  suoi  pen- 
sieri e  le  sue  affezioni  ;  la  mortificazione  e  le  austerità  della  penitenza,  per  cui  l'anima 
si  distacca  dalla  vita  dei  sensi,  dai  legami  della  vita  individuale  e  temporale;  le 
buone  opere  e  certe  pratiche  di  divozione  che  purificano  l'anima  e  la  preparano  alla 
sua  unione  completa  con  Brahm.  Quindi  un  sistema  di  morale  i'  cui  molteplici  pre- 
cetti sono  indicati  nei  libri  sacri.  Infine  l'obbligo  della  offerta  e  del  sagrificio  che  nel 
suo  senso  religioso  e  morale  è  il  dovere  più  importante  e  più  grande  di  tutti  i  do- 
veri prescritti  dai   Vedi. 

Aggiungi  che  le  preghiere,  le  pie  meditazioni ,  !e  austerità  della  penitenza,  la 
virtù,  la  morale,  tutte  le  pratiche  di  carità  e  di  religione  non  sono  che  una  esten- 
sione dell'offerta  del  gran  sagrificio  della  creazione  —  Pouroucha-Med'ha  —  o  mezzi 
diversi  istituiti  per  agevolare  ad  ogni  uomo  il  compimento  di  quel  gran  dovere  nella 
propria  persona.  Quegli  perciò  che  non  avrà  compiuto  in  sé  il  gran  sagrifizio  colla 
esatta  osservanza  delle  pratiche  prescritte  dalla  legge  divina  (i  Vedi),  sarà  soggetto 
a  trasmigrazioni  più  o  meno  numerose,  finché  adempiendo  a  quel  dovere,  siasi  reso 
degno  della  liberazione  e  della  suprema  felicità  (Oupnék'hat,  II;  Brahmen ,  24,  I; 
Brahmen,  6,  e  molti  altri  passi  esprimenti  lo  stesso  pensiero). 

Questa  tuttavia  non  era  ancora  che  una  morale  incompleta,  incapace  di  santi- 
ficare perfettamente  l'uomo  e  di  metterlo  in  possesso  della  liberazione  e  del  riposo 
assoluto,  della  felicità  suprema.  La  via  che  vi  conduce  definitivamente  è  quella  della 
Grande  Scienza,  cioè  la  Scienza  della  unificazione  dell'anima  colla  divinità.  Le  piccole 
Scienze,  la   Grammatica,  la   Logica,   l'Agricoltura,  le    Arti,  l'Industria,  la   Teologia 

stessa  e  la  Storia la  preghiera  e  le  buone  opere  e  le  altre  pratiche   di  religione 

sono,  a  dir  vero,  necessarie  all'uomo  vivente  in  società  con  altri  uomini  ed  hanno 
per  oggetto  di  preparare  l'anima  alla  Grande  Scienza,  ma  solo  questa  può  condurre 
a  Dio.  La  Grande  Scienza  è  quella  del  Creatore,  chi  la  possiede  e  si  astiene  dal  pec- 
cato perviene  a  lui  che  è  il  Grande  per  eccellenza.  Quegli  che  sa  che  tutte  le  cose 
sono  la  figura  di  lui,  che  se  stesso  e  tutte  le  cose  che  sembrano  esistere  sono  lui, 
quegli  perviene  al  mondo  superiore  e  quando  tutto  perisce  e  dissolvesi,  egli  è  uno  con 
Quello  che  riempie  tutto  colla  sua  immensità,  è  uno  con  Lui,  è  Brahm,  egli  stesso 
che  insegna  la  dottrina  dell'unificazione.  Questa  è  la  massima  delle  scienze  e  tutte 
le  contiene.  Finché  non  la  si  è  acquistata  l'anima  è  soggetta  a  trasmigrazioni  senza 
fine,  esigliata  da  mondo  in  mondo,  da  un  corpo  ad  un  altro,  infelice,  afflitta,  o  fruente 
di  una  certa  felicità  parziale,  secondo  che  è  stata  virtuosa  o  criminosa;  ma  solo 
quelli  andranno  a  riunirsi  definitivamente  al  grand' Essere,  che  l'avranno  conosciuto 
quaggiù  mediante  la  vera  scienza  (Oupnék'hat,  XVIII;  Brahmen,  121,  III;  Brahmen, 
66,  V;  Brahmen,  80). 

Un'altra  dottrina  insegnata  dall'  Oupnék'hat  e  dai  Vedi  è  che  l'uomo  è  composto 
di  un  corpo  e  di  un'  anima,  sebbene  poco  conforme  al  principio  ontologico  della  asso- 
luta unità  dell'essere  e  della  sostanza.  I  saggi,  si  dice  nelT 'Oupnék'hat,  non  credono 
che  il  corpo  che  perisce  sia  l'anima;  niuno  può  uccidere  l'anima;  uccidere  e  perire 
sono  parole  che  non  possono  dirsi  che  del  corpo,  giammai  dell'anima.  Il  corpo  può 
perire,  disciogliersi,  ma  l'anima  è  immortale  e  perviene  dopo  la  morte  del  corpo  ad 


31  ESAMI  CRITICO    DELL'OPERA     "   DA    KANT    A    .NIETZSCHE    „  283 

altri  mondi  più  o  meno  perfetti,  felici,  secondo  i  suoi  meriti,  rivestita  di  un  corpo 
più  o  meno  sottile  o  del  tutto  senza  coi-po,  fino  a  che  avendo  conosciuto  la  vera 
scienza,  vada  a  riunirsi  all'anima  universale,  a  Dio.  La  perfezione  delle  facoltà  del- 
l'anima dipende  da  quella  degli  organi  corporei  a  cui  è  unita  quaggiù  e  nelle  diverse 
trasmigrazioni;  ma  la  perfezione  dell'anima  stessa  e  la  perfezione  del  corpo  dipen- 
dono dall'esercizio  e  dal  buon  uso  delle  nostre  facoltà,  tanto  morali   quanto   fisiche. 

Nella  dottrina  che  stiamo  esponendo  non  potrebbe  ammettersi  differenza  essen- 
ziale tra  il  corpo  e  l'anima  a  cagione  della  sostanza;  poiché  il  corpo  e  la  materia 
non  esprimono  che  l'idea  puramente  negativa  di  forma  determinata,  di  limite.  Nel 
sistema  poi  secondo  cui  il  mondo  è  una  illusione,  l'anima  e  il  corpo  sono  nulla.  Se 
non  che  sopra  questo  punto  come  sopra  molti  altri  il  buon  senso  e  la  natura  sono 
stati  più  forti  della  pura  speculazione;  sì  il  buon  senso  e  la  natura  costrinsero  i 
filosofi  indiani  a  parlare  il  linguaggio  del  senso  comune,  cioè  un  linguaggio  che  non 
potrebbe  essere  vero  e  intelligibile  se  non  nel  senso  di  una  divinità  distinta  dal- 
l'universo, e  nella  supposizione  della  distinzione  dell'anima  dal  corpo  come  dalla  di- 
vinità. Spettava  ad  essi  di  conciliare  il  linguaggio  della  natura,  del  buon  senso,  delle 
credenze  e  della  morale  comune  coi  loro  sistemi  filosofici  (Oupnék'hat,  II;  Brahmm, 
37,  44,  60). 

L'anima  in  quanto  è  unita  al  corpo  è  detta  Djia-Atma,  cioè  anima  legata  per 
opposizione  alla  grande  anima  del  mondo,  l'anima  suprema,  Param-Atma.  Il  corpo 
per  sé  nulla  sente,  l'anima  sola  percepisce  mediante  i  sensi,  prova  dolore  o  piacere, 
pensa,  opera  e  deve  compiere  doveri.  Ma  quando  mediante  la  vera  scienza  l'uomo 
giunge  a  riconoscere  che  la  sua  Djia-Atma  è  Param-Atma,  cioè  Dio  stesso,  allora 
diviene  esente  da  ogni  pena,  timore,  da  ogni  obbligazione,  da  ogni  peccato,  dalla 
stessa  morte,  da  ogni  trasmigrazione  ulteriore.  In  una  parola  essa  è'  liberata,  nel 
riposo,  investita  della  suprema  felicità.  Quegli  invece  che  distingue  queste  due  anime 
non  otterrà  alcuno  di  quei  vantaggi.  L'uomo  quindi  deve  sempre  dirsi  nel  suo  pen- 
siero: io  sono  Brahm,  sono  Dio  (Oupnék'hat,  XXXVII;  Brahmen,  152). 

Il  corpo  poi  è  per  l'anima  non  solo  l'organo  delle  sensazioni,  del  dolore,  del  pia- 
cere, ma  ancora  il  limite  e  la  prigione  dell'anima;  è  la  forma  nella  quale  la  grande 
anima  emanata  e  particolarizzata,  s'individualizza.  Altre  volte  il  corpo  è  paragonato 
ad  un  carro  o  ad  un  corsiero  diretto  dall'anima  e  destinato  a  condurlo  al  termine 
desiderato  dalla  Mokàha  o  liberazione,  al  riposo  assoluto  nella  divinità.  Per  giungere 
ad  essa  il  corpo  è  il  carro,  i  sensi  sono  i  corsieri  che  lo  tirano,  la  volontà  o  meglio 
i  suoi  atti  sono  le  redini  che  guidano  i  corsieri,  l'intelligenza  è  il  postiglione,  l'anima 
in  fine  è  il  signore  del  carro,  quegli  che  vi  sta  sopra  ;  gli  oggetti  sensibili,  il  cam- 
mino da  percorrere.  Il  postiglione,  abile  a  maneggiare  le  redini,  a  condurre  il  carro, 
trova  i  corsieri  docili  e  fa  giungere  il  padrone  ad  un  grado  di  elevazione  che  non 
finirà  mai,  cioè  a  quella  del  grande  Conservatore,  Wisnù,  che  è  il  grado  supremo 
(Manavà-Dharma-Sàstra,  I,  IV,  st.  260;  Oupnék'hat,  ITT  :  Brahmm,  72).  Ma  se  è  inabile 
i  corsieri  sono  restii,  non  fanno  pervenire  il  padrone  al  supremo  grado,  al  contrario 
lo  rovesciano  in  luoghi  cattivi  e  lo  precipitano  negli  abissi  inferiori  (ibid.,  XXXVILI; 
Brahmen,   151). 

I  filosofi  indiani  in  conseguenza  della  teoria  della  metempsicosi  ritengono  che 
tutti  sii  esseri  della  natura  sono  animati,  ed  insegnano  che  il  segno  della  presenza 


284  ROMUALDO    BOBBA  32 

dell'anima  — atma  — nei  vegetali  ò  la  linfa;  negli  animali  il  sentimento,  nell'uomo 
l'intelligenza.  Il  pensiero,  la  previsione  dell'avvenire,  la  parola,  la  scienza,  distinguono 
l'uomo  dall'animale  (ibid.,  Brahmen,  99).  Essi  inoltre  ammettono  ancora  differenze  tra 
le  anime  che  vivificano  gli  esseri  della  stessa  classe,  differenze  che  costituiscono  la 
loro  distinzione  numerica  e  individuale,  delle  quali  differenze  porgono  esempi  notevoli 
le  anime  che  animano  i  corpi  umani.  Imperocché  è  a  queste  differenze  che  riferi- 
scono la  divisione  del  genere  umano  in  molte  razze,  la  divisione  della  società  in  caste, 
le  une  superiori,  le  altre  inferiori;  i  caratteri  fisici,  religiosi,  morali  e  spirituali,  che 
distinguono  gli  uomini  tra  loro,  e  la  differenza  dei  loro  meriti  personali  e  della  sorte 
che  ottengono  dopo  la  morte. 

Di  qui  un  sistema  di  morale  assai  puro,  consistente  specialmente  nella  coerci- 
zione dei  sensi,  in  una  penitenza  austera,  nel  distacco  dalle  cose  di  questo  mondo, 
nella  repressione  delle  passioni,  nelle  opere  di  misericordia,  nelle  pratiche  religiose, 
nella  dolcezza  e  sincerità,  nello  studio  dei  Vedi,  nella  purità  del  cuore  e  dei  costumi 
(Manavà-Dharma-Sàstra,  I,  II,  IV,  VI,  XI). 

Questa  dottrina  si  connette  intimamente  colla  Cosmologia  e  Ontologia  come  si 
basa  sopra  un  insegnamento  religioso  ritenuto  divino.  Tuttavia  la  morale  che  ne  de- 
riva non  riguarderebbe  che  il  comune  degli  uomini.  In  fatto  il  conoscitore  della  vera 
scienza,  il  saggio,  quegli  che  conosce  Dio  e  -sa  che  egli  è  Dio,  secondo  gli  stessi  libri 
sacri  ne  sarebbe  del  tutto  affrancato.  La  sua  scienza,  volontà,  attività,  confondendosi 
con  quella  di  Dio,  la  sua  ragione  lo  rende  santo  e  perfetto  epperciò  degno  di  rien- 
trare anche  in  questa  vita  nella  Grande  Anima,  in  Brahm.  Quindi:  1°  la  fine  dell'uomo 
anche  quaggiù  è  la  contemplazione  e  la  visione  di  Dio  a  faccia  a  faccia,  e  per  tal 
mezzo  il  riposo  della  intelligenza  e  della  volontà  nella  intelligenza  e  volontà  divina, 
nella  unione  e  identificazione  con  Dio;  2°  In  tale  stato,  le  buone  opere,  anche  le 
prescritte  dai  Vedi,  sono  inutili,  anche  nocive  quando  non  vi  si  è  definitivamente 
uniti  a  Dio  perchè  impediscono  di  compiere  tale  unione;  3°  Le  opere  siano  buone  o 
cattive,  cosi  pure  le  affezioni  virtuose  o  viziose  non  possono  affettare  l'anima  costi- 
tuita in  quello  stato,  ne  farla  decadere,  comunque  si  supponga  criminosa.  Ciò  signi- 
fica che  in  quello  stato  l'uomo  perde  ogni  sentimento,  ogni  attività,  ogni  volontà 
propria,  perciò  è  impeccabile,  essendo  perfettamente  unito  a  Dio.  In  tale  stato  nulla 
si  desidera  perchè  tutti  i  desiderii  sono  compiuti,  essendo  il  saggio  pieno  dell'essere 
che  è  tutto  e  che  nella  verità  si  possiede  tutto.  Il  desiderio  di  fare  un'opera  pura, 
il  timore  di  farne  una  cattiva,  non  fanno  pena  al  saggio,  perchè  sa  che  l'una  e  l'altra 

sono  Dio  stesso  che  agisce È  Dio  che  agisce  pei  nostri  sensi,  è   desso  che  fa  la 

volontà  e  il  peccato,  che  risente  i  piaceri  della  voluttà  e  cagiona  i  desiderii....  Chi 
conosce  così  ciò  che  è  l'opera  pura  e  l'opera  malvagia  diventa  Dio....  Le  opere  buone, 
non  gli  servono,  le  cattive  non  gli  fanno  alcun  torto  ;  egli  è  esente  da  qualsiasi  male 

che  possano  provare  gli  esseri  creati L'impeccabilità,  l'impassibilità,  la  salute  eterna, 

la  deificazione  gli  sono  assicurati   egualmente   in   modo   assoluto Chi  mi   conosce, 

dice  Brahm,  qualunque  peccato  commetta,  qualunque  delitto,  la  luce  che  è  in  lui  non 
sarà  punto  diminuita;  egli  non  sarà  peccatore,  perchè  io  sono  l'anima  universale,  che 
sola  esiste,  pensa,  vuole,  opera.  Conoscendo  il  Creatore,  sapendo  che  tutto  è  lui,  il 
saggio  diviene  lui  stesso,  e  questa  scienza  dura  sempre.  La  verità  è  che  in  realtà 
non  avvi  ne  produzione,  né  distruzione,  ne  risurrezione,  nò  contemplazione,  né  salute. 


33  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   „  285 

ne  salvato,  ne  giusto,  né  peccatore,  ne  bene,  ne   male L'universo  non  è  che  una 

apparenza  ;  la  sola  realtà  è  l'anima  universale,  Dio  si  manifesta  diversamente  sotto 
le  apparenze  del  mondo.  Chi  sa  ciò  è  egli  stesso  Dio,  è  fornito  di  ogni  specie  di  po- 
teri divini  e  soprannaturali,  è  degno  di  ogni  culto,  bisogna  adorarlo.—  Così  con- 
chiude ì'Oupnék'hat,  sapere  che  si  è  il  Creatore,  che  tutto  è  il  Creatore,  ecco  il  segreto 
della  sostanza  dei   Vedi  (conf.  L'analisi  dell'"  Oupnék'haf  „   del  conte  Lanjuinais). 

Non  avvi  sorgente  di  pace  e  di  salute  che  nella  conoscenza  del  Creatore,  nella 
vera  scienza,  nella  scienza  che  identifica  l'anima  coll'Essere  universale  nelle  regioni 
celesti.  Ecco  l'idea  che  costantemente  ritorna  alla  mente  degli  autori  dell' Oupnék'hat, 
dei  Vedi  e  del  Manavà-Dharma-Sastra. 

Tale  adunque  è  la  natura  e  l'origine  dell'uomo  quanto  al  corpo  e  quanto  all'anima, 
tale  è  la  teoria  delle  due  morali  che  sono  in  perfetta  opposizione.  La  morale  pre- 
scritta pel  comune  degli  uomini,  che  il  buon  senso  e  il  senso  comune  dettava  ai  Bra- 
mani  è  abbastanza  pura  e  sotto  molti  riguardi  degna  di  essere  meditata  ed  ammirata; 
e  notiamo  che  questa  appunto  era  la  dottrina  generalmente  osservata  dagli  Indiani. 
Al  contrario,  la  morale  del  possessore  della  pretesa  vera  scienza  non  è  altro,  per 
dirlo  con  parole  moderne,  se  non  l'illuminismo,  il  quietismo,  la  teoria  della  impossi- 
bilità della  giustizia,  della  indifferenza  delle  opere  per  la  santità  e  la  salute.  Né  ci 
sarebbe  difficile  di  trovare  la  riproduzione  di  gran  parte  di  queste  teorie  in  autori 
moderni  ed  anche  più  vicini  a  noi. 

Ciò  che  qui  dobbiamo  ancora  notare  e  sopra  cui  insistiamo  è  che  per  gli  Indiani, 
la  loro  legislazione,  la  loro  civiltà,  come  le  loro  teorie  teologiche  e  filosofiche  si  ba- 
sano dalla  antichità  più  remota  sopra  una  rivelazione  divina.  Tale  credenza  essendo 
rimasta  costante  presso  di  loro,  ci  spiega  almeno  in  parte  la  stabilità  delle  loro  isti- 
tuzioni sociali,  delle  loro  credenze  religiose,  della  loro  costituzione  politica,  come  dei 
loro  usi  e  costumi. 


IX. 

Dopo  l'antecedente  esposizione  non  sappiamo  dove  l'autore  abbia  scoperto  che 
"  depuis  deux  mille  ans  les  philosophes  Indiens  n'ont  pas  été  dupes  du  ròle  astucieux 
"  de  la  causalité,  ils  ont  vu  de  suite  en  elle  le  ressort  d'une  illusion  ;  point  de  traces, 
"  chez  eux,  de  l'imagination  d'une  cause  première  „  (pag.  Ili);  e  tante  altre  affer- 
mazioni che  sono  in  perfetta  contraddizione  colle  principali  dottrine  filosofiche,  teo- 
logiche, cosmologiche  e  morali  dell'India.  Se  vi  ha  una  proposizione  che  sia  ripetuta- 
mente affermata  è  appunto  che  Brahm  è  la  vera  e  unica  causa  del  mondo  fenomenico, 
come  è  l'unica  e  vera  causa  finale  distinguendolo  dalla  Maia  e  ripetendo  che  solo 
Brahm  è  reale  e  l'universo  solo  un'  apparenza  in  cui  si  manifesta  diversamente,  come 
pure  il  sapere  che  tutto  è  Brahm  costituisce  la  Grande  Scienza,  come  costituisce  il 
segreto  e  la  sostanza  dei  Vedi. 

E  ancora  dove  mai  ha  scoperto  che  i  filosofi  Indiani  molti  secoli  prima  si  tro- 
varono nella  posizione  in  cui  "  les  déductions  kantiennes  nous  ont  contraints  de 
"  contesser  „,  cioè  "  que  l'Ètre  en  soi  de  quelque  nom  qu'on  le  designo,  soit  incon- 
"  naissable  pour  lui-méme  „  (pag.  110)? 


286  ROMUALDO    BOBB.A  34 

Il  punto  di  veduta  culminante  è  pei  filosofi  Indiani  la  produzione  del  mondo  con- 
siderata come  un  gran  sagrinolo  dell'Essere  infinito.  L'universo,  i  mondi,  le  loro  ri- 
voluzioni, catastrofi;  l'anima  del  mondo,  le  anime  particolari,  gli  elementi,  la  nascita, 
l'accrescimento,  il  deperimento,  le  vicissitudini  infinitamente  varie  degli  esseri,  i  fe- 
nomeni del  mondo  fisico  e  morale,  per  essi  non  costituisce  che  l'insieme  delle  forme 
diverse  sotto  cui  Brahm  ha  manifestato  e  manifesta  se  stesso.  Prima  della  produzione 
Brahm  è  tutto  e  mediante  la  produzione  egli  è  ancora  tutte  le  cose  e  tutte  le  cose 
sono  lui.  Brahm  e    l'universo   sono  lo  stesso,  ma   considerato   diversamente.  È  Dio, 

dice  l' Oupnék'hat,  che  fa  apparire  il  mondo,  questo  fantasma  senza  realtà Tutto 

è  uno  e  lo  stesso,  agente  e  paziente,  produttore  e  prodotto,  creatore  e  creatura  : 
qualunque  distinzione  tra  queste  due  cose  è  mera  apparenza,  un'astrazione  dello  spi- 
rito, un  effetto  della  immaginazione Dio  è  una  persona  universale Egli  è  tutto 

ciò  che  fu,  è,  e  sarà.  Di  qui  i  varii  nomi  di  Brahm  riprodotti  in  molti  luoghi  del- 
l'Oupnék'hat  (XXIII,  XXXVIII,  XLVI  et  alias  passim). 

Eccone  alcuni.  Il  tempo  è  Brahm Il  Sole  è  il  suo  nome,  la  sua  figura.  È  da 

lui  che  sono  state  formate  la  Luna,  le  stelle,  i  pianeti  e  tutto  il  resto.  Ogni  produ- 
zione buona  o  cattiva  proviene  da  lui  e  chiunque  sa  che  il  Sole-,  che  è  la  forma  del 
tempo,  è  Brahm  e  riflette  che  il  fuoco  del  sagrifizio  è  pure  Brahm,  quello  che  si 
getta  nel  fuoco  è  Brahm,  quegli  che  lo  getta  è  ancora  Brahm,  quegli  che  compie  il 
sagrifizio  è  sempre  Brahm,  il  voto  che  si  pronuncia  gettando  alimenti  sul  fuoco  è 
Brahm,  la  riunione  di  tutte  le  opere  è  Brahm,  che  Wisnù  è  Brahm,  che  Prajapati 
è  Brahm,  che  la  parte  e  il  tutto  è  Brahm,  che  il  Signore  (Dio)  e  i  testimoni  della 
sua  esistenza  —  il  Tempo  e  il  Sole  —  sono  Brahm,  chi  sa  ciò  è  egli  stesso  Brahm 
{Oupnék'hat,  III;  Brahmen,  71,  pp.  335-36).  Ecco  lo  stato  mentale  dei  Bramani  dalla 
antichità  più  remota  e  non  quello  cervellotico  fantasticato  dall'autore. 

Ma  vi  ha  di  più.  Brahma  formando  il  mondo,  identificandosi  con  esso,  si  limita 
nel  tempo  e  nello  spazio,  nasce,  cresce,  soffre,  perisce  cogli  esseri  che  ha  prodotti 
dalla  sua  sostanza.  Quindi  la  dottrina  che  troviamo  nei  libri  sacri ,  secondo  cui  la 
produzione  dell'universo  è  considerata  come  un  gran  sagrifizio  dell'essere  caduto  nella 
forma,  come  un  abbassamento  della  maestà  divina  determinantesi,  limitantesi  e  indi- 
vidualizzandosi nelle  creature,  è  considerato  come  un  eterno  sagrifizio  che  l'Essere 
supremo  si  offre  a  se  stesso,  e  del  quale,  come  abbiamo  detto,  egli  è  insieme  il  sagri- 
ficatore  e  la  vittima,  il  fuoco  che  la  consuma  e  la  preghiera  che  la  accompagna  e 
la  consacra.  Ed  è  questo,  che  i  Bramani  chiamano  l'eterno  sagrifizio  della  creazione, 
ed  aggiungono  che  l'uomo  saggio  e  pio  unendosi  all'obbligo  del  sagrifizio  universale 
ottiene  la  liberazione,  la  felicità  eterna  e  l'unione  assoluta  e  definitiva  con  Brahm, 
e  l'uomo  si  unisce  a  questo  sagrifizio  della  creazione  coli' adempimento  delle  opere 
prescritte  dai  Vedi  e  sopratutto  acquistando  la  vera,  la  grande  scienza  prescritta 
pure  dai  libri  sacri.  Ecco  ciò  che  l'autore  avrebbe  veduto  rispetto  allo  stato  mentale 
o  meglio  alle  speculazioni  dei  pensatori  Indiani  e  alle  conseguenze  che  ne  dedussero, 
le  quali  si  differenziano  foto  coelo  da  quelle  fantasticate  da  lui  che,  non  attingendo 
alle  fonti,  si  limitò  a  formulare  vuote  generalità  che  non  confortate  da  testi  dicono  nulla. 

Ma  ciò  che  ci  ha  sempre  grandemente  sorpreso  e  richiamato  la  nostra  atten- 
zione è  un  luogo  di  Anassimandro  in  cui  ci  parve  scorgere  un  pensiero  quasi  identico 
rispetto  a  ciò  che  i  Bramani  chiamarono  l'eterno   sagrifizio   della   creazione.  Quello, 


35  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   ,.  2V7 

dice  Anassimandro,  onde  le  cose  esistenti  hanno  origine,  in  quelle  stesse  debbono 
trovare  la  loro  fine,  secondo  che  è  debito;  poiché  questo  è  un  fio,  una  pena  che  si 
scontano  a  vicenda  della  loro  ingiustizia  secondo  l'ordine  del  tempo  (Anassimandro 
presso  Simplicio,  Comm.  alla   Fisica  di  Aristotele,  foglio  6.4). 

Anassimandro  considera  dunque  il  principio,  l'assoluto  come  avente  egli  solo  il 
diritto  di  esistere,  cioè  la  ragione  ontologica  di  esistere,  la  quale,  in  linguaggio  poe- 
tico viene  da  lui  presentata  come  un  diritto  morale  del  quale  i  nascimenti  delle  cose 
individue  sono  violazioni  vendicate  ben  tosto  dal  loro  sfacimento.  E  sarebbe  per  la 
violazione  di  quella  ragione  ontologica  che  sembra  ammettere  una  futura  fine  del 
m lo. 

Il  Ritter,  commentando  lo  stesso  frammento,  scrive:  secondo  Anassimandro  il 
principio  di  ogni  nascita  è  pure  il  principio  di  ogni  morte,  due  cose  che  accadono 
per  l'eterno  movimento  che  fa  uscire  i  diversi  elementi  dall'infinito,  dal  loro  stato 
di  miscuglio  e  che  li  fa  rientrare,  e  questo  ci  fa  intendere  egli  quando  facendo  allu- 
sione alla  morale  diceva:  quello  onde  le  cose  esistenti  hanno  origine  in  quello  stesso 
debbono  ritornare  secondo  che  è  debito,  poiché  questo  è  un  fio,  una  pena  che  si  scon- 
tano a  vicenda  della  loro  ingiustizia  secondo  l'ordine  del  tempo.  Tuttavia  aggiunge 
il  Ritter,  il  lato  morale  in  questo  modo  di  vedere  non  è  che  una  condizione  acces- 
soria  e  l'ingiustizia  che  havvi  per  gli  elementi  individuali  ad  uscire  dall'infinito 
potrebbe  forse  non  essere  altro  che  l'ineguale  distribuzione  delle  differenti  sorta  di 
elementi  che  ha  luogo  nella  loro  separazione  pel  movimento  {Storia  della  Filosofia, 
t.   1,  pag.  244). 

Lo  Zeller  alla  sua  volta  dice:  A  quel  modo  che  tutto  è  uscito  da  una  materia 
unica  —  aireipov  —  così  tutto  debbe  rientrarvi  ;  perchè  tutti  gli  esseri,  dice  Anas- 
simandro, secondo  l'ordine  del  tempo  debbono  portare  la  pena  della  loro  iniquità. 
L'esistenza  separata  delle  cose  individuali  è  una  ingiustizia,  una  temerità  che  esse 
debbono  espiare  col  loro  annientamento  (La  Filosofia  (/reca  nel  suo  svolgimento  storico, 
t.  I,  pagg.  235-36). 

Le  spiegazioni  date  dai  due  illustri  storici  sono  quali  potevano  prevedersi  rima- 
nendo nei  limiti  della  speculazione  greca  all'epoca  di  Anassimandro.  Ma  se  si  riflette 
che  niun  altro  pensatore  greco  né  prima  ne  poi  considerò  dover  le  cose  tutte  tro- 
vare il  loro  fine  nel  principio  da  cui  ebbero  origine  essendo  questo  un  fio,  una  pena 
che  debbono  scontare  a  vicenda  della  loro  ingiustizia,  quasi  che  Anassimandro  giu- 
dicasse il  solo  infinito  aver  diritto  di  esistere  e  i  nascimenti  delle  cose  essere  una 
violazione  di  tale  diritto,  violazione  che  scontano  ben  tosto  col  loro  sfacimento,  non 
sembrerà  temerità  se  noi  crediamo  di  scorgere  una  analogia  tra  la  cosmogonia  di 
Anassimandro  e  le  cosmogonie  bramaniche,  giacché  se  le  cose  che  escono  dall'infinito 
debbono  presto  rientrarvi  è  manifesto  che  esse  non  hanno  che  una  esistenza  effimera 
la  quale  è  molto  vicina  alla  Maia,  di  guisachè  ciò  che  solo  esiste  veramente  per 
Anassimandro  è  l'infinito  come  pei  Bramani  è  Brahm. 


288  ROMUALDO    BOBBA  36 


Si  è  mostrato,  dice  l'autore  in  un  primo  capitolo,  la  menzogna  monoteistica  nel 
suo  ufficio  vitale  (pag.  115)  e  noi  abbiamo  veduto  che  valore  avevano  le  ragioni  che 
ne  addusse  per  appoggiare  le  sue  asserzioni:  ora  ci  resta  a  far  vedere  quali  siano 
gli  idoli,  cioè  le  menzogne  logiche;  questi  idoli  sono  le  idee  di  verità  e  di  libertà.  La 
scienza  della  conoscenza  che  non  ha  per  iscopo  di  organizzare  la  vita,  ma  che  cerca 
come  essa  è  fatta  e  si  organizza  ritiene  quelle  due  idee  come  quella  di  Dio  per  fin- 
zioni, mostrandone  la  loro  inutilità.  Giacché  essendo  il  non  vero  preso  come  condi- 
zione della  vita  niuno  deve  stupirsi  di  vedere  tale  condizione  produrre  qui  le  sue 
conseguenze.  Sì,  le  idee  di  verità  e  libertà  sono  finzioni,  menzogne  naturali  generate 
dalla  vita.  L'uomo  crede  che  una  verità  fissa  è  assegnata  come  uno  scopo  allo  sforzo 
intellettuale,  crede  di  disporre  di  un  libero  arbitrio,  cioè  di  poter  mo'dificare  se  stesso, 
determinarsi  nel  senso  della  verità  che  avrà  trovata;  con  ciò  è  messo  in  movimento 
il  diorama  infinitamente  complesso  del  mondo  morale  fra  il  corteggio  delle  civiltà, 
del  clamore,  delle  preghiere,  della  frenesia  degli  atti  e  della  meditazione  dei  filosofi. 
Quindi  la  mitologia  razionalistica  dove  prende  posto  l'idolo  verità,  e  procede  dalla 
confusione  della  forma  col  contenuto  della  conoscenza.  Imperocché  il  dominio  della 
scienza  è  circoscritto  in  limiti  ben  determinati,  i  quali  sono  le  leggi  formali  dello 
spirito,  e  tutto  l'insegnamento  si  assomma  nell'apprenderci  che  il  meccanismo  della 
conoscenza  appena  entra  in  attività  fa  sorgere  l'Essere  avanti  a  sé,  lo  snatura  in 
sistemi  di  prospettive  senza  fine  ed  ha  per  necessario  effetto  di  renderlo  inafferrabile 
e  refrattario  ad  ogni  costruzione  sicché,  dal  momento  che  il  nostro  spirito  cessa  di 
descrivere  l'apparecchio  per  considerare  ciò  che  gli  appare  attraverso  l'apparecchio, 
l'opera  sua  cessa  di  essere  la  scienza  della  conoscenza  per  diventare  la  scienza  del 
fenomeno,  e  con  ciò  stesso  cessa  di  aver  per  oggetto  la  verità.  E  che?  Non  sarebbe 
egli  singolare  di  chiedere  la  verità  ad  un  apparecchio  istituito  per  generare  l'illu- 
sione? I  saggi  che  intraprendessero  la  ricerca  della  verità  andrebbero  a  violare  le 
leggi  dell'intelletto,  e  tale  ricerca  sarebbe  la  stessa  empietà  se  non  fosse  già  per  se 
stessa  una  sciocchezza.  La  parola  verità  divenuta  sospetta  non  s'incontra  più  se  non 
sulle  labbra  di  quelli  che  attendono  dalla  scienza  ciò  che  non  può  dare,  sulle  labbra 
dei  credenti  ultimi  venuti,  di  dogmatici  appartenenti  alla  specie  più  recente  e  cieca, 
posti  nel  mondo  intellettuale  o  agli  antipodi  degli  spiriti  scientifici. 

In  riassunto:  le  nozioni  di  .scienza  e  di  verità  si  escludono;  la  scienza  non  si 
propone  mai  per  oggetto  la  verità;  essa  è  una  veduta,  una  nostra  veduta  naturale 
prolungata  che  può  prolungarsi  indefinitamente  al  di  là  degli  orizzonti  che  la  limi- 
tano. La  scienza  non  fa  mai  altro  che  intrecciare  catene  di  fenomeni  legati  tra  loro 
dal  rapporto  di  causalità  ;  talvolta  annoda  queste  catene  all'ipotesi  di  finalità  per 
riposare  la  nostra  curiosità,  e  con  tale  artificio  farci  afferrare  la  bellezza  armonica 
di  un  frammento  dell'indefinito  ma  non  ignora  che  non  v'è  alcuna  finalità  ultima. 
poiché  al  di  là  del  fine  più  lontano  ve  ne  sono  altri  indefinitamente,  i  quali  scoperti 
faranno  apparire  la  relatività,  i  vizi  e  gli  errori  di  quella  teoria  la  cui  armonia  sembra 
attualmente  completa. 


37  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA     CAM     A    NIETZSCHE   . 

Ora  se  la  ricerca  della  verità  per  parte  dei  cultori  delle  scienze  andrebbe  a 
violare  le  leggi  dell'intelletto,  anzi  tale  ricerca  sarebbe  una  empietà  se  non  fosse 
anzitutto  una  sciocchezza,  e  se  le  nozioni  di  scienza  e  di  verità  si  escludono,  si  com- 
prende come  egli  dichiai'i  la  bancarotta  delle  scienze  fisiche,  poiché  le  scienze,  la 
meccanica,  l'astronomia,  la  fisica,  la  chimica,  la  fisiologia  non  essendo  giunte  a  tro- 
vare le  gomene  che  le  fissi  all'anello  di  uno  stesso  principio,  le  riunisca  tra  esse  e 
le  unifichi  in  un  solo  fascio,  esse  tutte  mancando  di  continuità  lasciano  scorgere 
abissi  che  non  sono  ancora  stati  superati  e  che  mai  lo  saranno  (da  pag.  117 
a  174). 

Ma  che  è  dunque  la  verità?  E  una  macchina  di  guerra,  dice  l'autore.  "  Trónant 
"  au  sanctuaire  de  toutes  les  religions,  des  religions  laiques  aussi  bien  que  des  religions 
"  révélées,  elle  est  le  principe  du  fanatisme  et  du  combat...  car  la  vie  phénoménale 
"  étant  diversité,  est  dans  son  orgaue  différenciation,  et  différenciation,  dans  le  monde 
"  inorai,  est  antagonisme  et  hostilité  „.  Quindi  alle  distinzioni  di  bene  e  male  formulate 
dall'antica  morale  teologica,  sarà  sostituita  una  morale  scientifica,  la  quale  distinguerà 
nella  vita  le  attitudini  per  vivere  e  le  attitudini  per  morire,  un  flusso  e  un  riflusso. 
Le  attitudini  per  vivere  appariranno  quelle  che  tendono  a  differenziare  gli  individui 
gli  uni  dagli  altri,  attitudini  di  combattimento  lottanti  pel  potere,  l'egoismo,  l'orgoglio 
di  se,  il  disprezzo  per  gli  altri.  Le  attitudini  per  morire  appariranno  quelle  che  riten- 
gono per  illusorie  le  differenze  individuali ,  che  assimilano  gli  uomini  gli  uni  agli 
altri,  li  riducono  ad  una  parità  di  elementi  omogenei,  tutte  quelle  che  tendono  a 
ricostituire  l'unità,  a  sopprimere  i  fenomeni,  come  la  fraternità,  la  rinuncia  di  sé, 
la  giustizia.  E  le  cose  dureranno  così  finché  non  si  sarà  trovato  il  sistema  ramificato 
di  cause  e  di  effetti  in  forza  del  quale  tutti  i  fenomeni  particolari,  tutti  i  tempera- 
menti individuali,  sole  cause  legittime  attuali  di  una  morale,  cioè  della  morale  di 
quelli  che  vogliono  vivere  e  della  morale  di  quelli  che  vogliono  morire,  si  mostre- 
ranno necessitati  <ì<i  una  causa  piò  lontana,  da  qualche  causa  cosmica  inerente  al  corso 
degli  astri  o  alla  composizione  della  materia  (pagg.  138,  139). 

Chi  mai  avrebbe  potuto  immaginare  che  ai  giorni  nostri  si  sarebbe  potuto  ripe- 
tere la  distinzione  del  bene  e  del  male,  la  differenza  dei  cai-atteri  individuali  degli 
uomini,  le  loro  attitudini  morali  da  una  causa  cosmica  inerente  al  corso  degli  astri, 
cioè  dalla  rancida  e  mille  volte  distrutta  astrologia. giudiziaria!  Ma  possiamo  conso- 
larci perchè  gli  uomini  come  tutti  i  corpi  naturali  fanno  sempre  ciò  che  debbono 
fare,  solo  essi  uomini,  certo  non  gli  altri  corpi  naturali,  alle  cause  che  li  fanno  agire 
necessariamente  ne  sostituiscono  altre  fittizie  ed  è  così  che  si  credono  liberi  ;  —  la 
libertà,  in  fatto  costituisce,  secondo  l'autore,  il  secondo  idolo  logico.  La  libertà,  con- 
tinua egli,  presa  nel  senso  in  cui  l'adopera  la  filosofia,  non  s'intende,  nulla  rappre- 
senta che  sia  concepibile  da  qualsiasi  intelletto  (pagg.  143-145).  In  fatto  se  tutti  gli 
atti  dell'uomo  sono  necessitati  da  una  causa  cosmica  inerente  al  corso  degli  astri  e 
dalla  composizione  della  materia,  non  comprendiamo  perchè  l'autore  spenda  parecchie 
pagine  per  combattere  la  libertà  morale.  E  dopo  lunghe  disquisizioni  sulla  definizione 
della  libertà  e  necessità  date  da  Spinoza,  e  sopra  un'opera  di  Emilio  Boutkocx,  La 
contingence  des  lois  de  la  nature,  l'autore  crede  di  aver  per  sempre  fulminata  la 
libertà  morale  scrivendo  :  La  credenza  nel  libero  arbitrio  ha  la  sua  sorgente  nel  fatto 
della  coscienza  e  nella  illusione  della  personalità  che  è   costituita    da   questo   fatto. 

Serie  II.  Tom.  LUI.  37 


290  >l-DO    BOBBA  38 

Questa  illusione  ha  per  effetto  di  dare  l'apparenza  dell'unità  al  multiplo,  l'apparenza 
di  agire  a  ciò  che  solo  registra.  Sotto  l'impero  di  questa  illusione  questo  me  cosciente, 
che  assorbe  in  se  solo  l'individualità  di  tutti  i  combattenti  che  si  riflettono  in  lui, 
assume  la  responsabilità  degli  atti  ordinati  dal  più  forte.  Il  me  non  giunge  mai,  cioè 
il  me  dell'autore,  che  dopo  gli  atti  commessi,  ma  egli  rimane  sempre  là  per  riven- 
dicarne la  paternità.  Tutta  la  serie  dei  sentimenti  morali  ha  per  origine  una  sosti- 
tuzione di  persone.  Si  vedono  uscire,  mascherati  dall'inganno  della  personalità  formata 
dalla  macchina  per  istituire  il  fenomeno  preparato  dalla  distinzione  di  soggetto  e 
oggetto,  dall'inganno  in  cui  incappa  la  vanità  della  coscienza  sempre  pronta  ad  attri- 
buirsi a  se  sola  ciò  che  ha  luogo  sotto  i  suoi  sguardi.  Almeno  qui  l'autore  confessa 
che  la  coscienza  ci  attribuisce  personalmente  gli  atti  che  avvengono  in  noi;  è  vero 
che  ciò  chiama  un  inganno,  ma  rimane  a  vedere  se  l'ingannato  sia  lui  o  il  genere 
umano  che  nella  sua  generalità  riconosce  una  legge  che  comanda  agli  uomini  di  far 
certe  cose  e  loro  vieta  di  farne  certe  altre,  ciò  che  sarebbe  il  colmo  dell'assurdità 
se  non  ritenesse  l'uomo  fornito  di  libero  arbitrio. 

L'autore  continua.  Libera,  la  persona  umana,  è  responsabile;  responsabile  potrà 
essere  ricompensata  o  punita;  sarà  giusto  che  sia  ricompensata  o  punita:  proverà 
rimorsi  o  soddisfazioni  secondo  che  gli  atti  compiuti  saranno  in  disaccordo  o  in 
accordo,  non  cogli  atti  voluti  dalle  entità  impulsive,  che  approva  e  favorisce  l'entità 
che  apprezza,  come  cerca  di  far  credere  l'autore,  ma  colla  legge  morale.  L'autore 
aggiunge:  l'entità  che  apprezza  il  più  delle  volte  sarà  la  convenzione  di  bene  o  di 
male  stabilita  dall'interesse  sociale.  No,  la  legge  morale  non  si  limita  al  solo  inte- 
resse sociale,  a  cui  provvedono  più  o  meno  le  leggi  positive:  la  legge  morale,  la 
legge  del  dovere  è  universale,  abbraccia  la  società  e  l'individuo  e  ciò  che  è  bene  o 
male  morale  per  l'individuo  lo  è  assolutamente  pure  per  la  società.  "  C'est  ainsi  „, 
conchiude  l'autore,  "  quo  l'illusion  de  la  liberto  fait  germer  dans  les  esprits  pris  au 
"  traquenard  de  la  conscience  toute  la  mythologie  monstrueuse  de  la  morale  „.Non 
sappiamo  da  quale  traquenard  sia  stato  preso  l'autore  scrivendo  il  suo  libro,  ma  sic- 
come secondo  lui  vi  ha  sostituzione  di  persone,  il  traquenard  in  parola  potrebbe  benis- 
simo essere  una  sostituzione  di  persona,  e  quindi  saremo  indotti  a  credere  che  il 
libro  che  egli  presenta  come  da  lui  scritto  abbia  per  autore  tutt'altro  individuo,  pro- 
babilmente lo  spirito  che  sempre  nega  (pagg.  178-179).  All'ombra  degli  idoli  di  verità 
e  libertà,  continua  l'autore  o  il  suo  sostituito,  si  esaltano  le  idee  del  bene  e  del  male, 
e  tra  esse  la  concezione  ironica  della  giustizia,  che  applicando  ad  ineguali  misure  eguali 
consacra  con  solennità,  sanziona  e  moltiplica  l'ineguaglianza  e  l'ingiustizia,  cioè  a 
quelli  che  hanno  tutte  le  attitudini  per  vivere  ed  a  quelli  che  hanno  tutte  le  atti- 
tudini per  morire,  come  abbiamo  veduto. 

Se  abbiamo  ben  compreso;  secondo  l'autore,  vi  dovrebbero  essere  due  giustizie, 
cioè  una  per  quelli  che  hanno  le  attitudini  per  vivere  ed  un'  altra  per  quelli  che 
hanno  tutte  le  attitudini  per  morire,  per  non  moltiplicare  l'ineguaglianza  e  l'ingiustizia, 
che  sono  le  condizioni  della  vita  fenomenale;  ma  egli  dimentica  di  aver  a  pag.  143 
scritto  che  gli  uomini,  come  tutti  i  corpi  naturali ,  fanno  sempre  ciò  che  debbono 
fare,  sebbene  essi  non  lo  credano.  E  ciò  proviene  da  che  alle  vere  cause  che  gli  fanno 
agire,  necessariamente  sostituiscono  altri  principii  di  atti  "  dont  ils  se  mantiennent 
"  dupes  „.  Quindi  se  gli  uomini  tutti  fanno  quel   che  fanno  perchè  non  possono  fare 


39  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE    .,  291 

altrimenti,  costretti  da  necessità  inesorabile,  debbe  sopprimersi  ogni  idea  di  giustizia 
o    di  ingiustizia  applicata  ai  loro  atti. 

Schopenhauer  era  rigorosamente  logico  scrivendo  :  "  nel  regno  dell'uomo  come 
"  nel  regno  animale,  ciò  che  regna  è  la  forza  e  non  il  diritto  ;  questo  non  è  che  la 
"  misura  della  potenza  „.  E  Max  Stiener:  "  che  importa  a  me  il  diritto?  non  ne  ho 
"  bisogno  ;  ciò  che  posso  conquistare  colla  forza  io  lo  posseggo  e  ne  godo,  e  rinuncio 
"  a  ciò  di  cui  non  posso  impadronirmi  „.  Ciò,  tradotto  nel  linguaggio  dell'autore,  si- 
gnifica :  voi  che  avete  tutte  le  attitudini  di  vivere ,  è  giusto  che  opprimiate  quelli 
che  hanno  tutte  le  attitudini  di  morire,  e  non  datevi  pensiero  di  un  loro  supposto 
diritto,  poiché  il  diritto  è  la  forza,  e  se  in  un  dato  momento  non  potete  opprimerli, 
aspettate  l'occasione  propizia. 

Ma  l'autore  ci  prepara  nuove  sorprese  che  meritano  di  essere  esaminate. 


XI. 

Che  vi  sia  Dio  o  non  vi  sia,  secondo  l'autore  è  cosa  che  costituisce  un  interesse 
mediocre  per  l'umanità.  Già  se  il  De  Gaultier  si  limitasse  a  dire  che  per  lui  l'esi- 
stenza o  la  non  esistenza  di  Dio  abbia  un  interesse  mediocre,  come  non  sarebbe  il 
primo  e  probabilmente  nemmeno  l'ultimo  a  dire  ciò,  non  avremmo  nulla  a  rispondere  ; 
ma  chi  potrà  tollerare  che  egli  si  arroghi  il  diritto  di  parlare  in  nome  della  uma- 
nità? Egli  continua:  ma  che  le  idee  di  verità,  di  finalità,  creatrici  della  idea  di  Dio, 
direttrici  dello  sforzo,  siano  vane,  che  la  libertà  per  cui  l'uomo  si  crede  capace  di 
giungere  al  suo  destino  non  sia  che  una  illusione,  un  errore  di  prospettiva,  ecco  ciò 
che  è  un  grave  disastro  (pag.  174).  Ora  -come  provvedere  un  riparo  a  tale  disastro  ? 
La  scienza  della  conoscenza  dimostrando  l'impossibilità  pell'uomo  di  dirigere  la  sua 
attività  gli  svela  l'illusione  della  sua  libertà.  In  fatto  l'uomo  o  agisce  in  forza  di  un 
determinismo  universale  ed  egli  non  è  libero,  o  in  forza  di  una  spontaneità,  che  svi- 
luppandosi gli  impone  i  suoi  modi  di  essere  e  gli  atti  la  cui  necessità  gli  sfugge 
inesorabilmente,  ma  da  cui  dipende  assolutamente,  ed  anche  in  questo  caso  non  è 
libero.  Quindi  la  scienza  della  conoscenza  conchiude  rigorosamente  al  vuoto  assoluto 
del  concetto  di  libertà  morale.  Una  simile  teoria  comporta  essa  la  possibilità  di  una 
morale  ? 

Certamente,  dice  l'autoi'e,  se  per  morale  s'intende  un  insieme  di  modi  di  essere, 
che  determinati  mediante  una  concezione  particolare  della  esistenza,  accompagnano 
logicamente  tale  concezione.  In  questo  senso  la  morale  sarà  un  intellettualismo  puro 
e  semplice.  Per  spiriti  coscienti  della  impossibilità  di  concepire  il  mondo  in  verità  o 
di  esercitare  qualsiasi  influenza  sul  suo  svolgimento,  il  significato  dell'universo  non 
è  che  uno  spettacolo  di  cui  gli  intellettualisti  sono  spettatori  e  che  considerano  dal- 
l'unico punto  di  veduta  della  sua  visibilità.  Essi  quindi  ai  asterranno  dal  portare 
giudizio  sia  in  bene,  sia  in  male,  sopra  cose  e  atti  che  non  possono  essere  altrimenti 
di  quello  che  sono  ;  non  si  domanderanno  mai  che  debbano  fare  e  ciò  che  debbe  fare 
la  società.  Tutto  al  più  potranno  distrarsi  dalla  contemplazione  pura  e  semplice;  ma 
come  ciò  sarebbe  possibile  se  poco  prima  l'autore  attorniava  che  tutte  le  cose  come 
tutti  gli  atti  sono  quel  che  sono  e  non  possono  essere  altrimenti:  gli  spettatori  pò- 


292  AIDO    BOBBA  40 

trebberò  distrarsi  quasi  fosse  in  loro  balìa  di  fare  altrimenti  di  quello  che  fanno  ? 
Che  logica  è  questa? 

Secondo  l'autore,  adunque,  gli  intellettualisti  supponendo  che  siano  stati  spetta- 
tori delle  mostruose  atrocità  di  Nerone  e  della  abnegazione  e  carità  di  un  Vincenzo 
de  Paoli,  dovranno  astenersi  dal  dire  che  quegli  era  un  mostro  di  ferocia  e  questi 
un  prodigio  di  carità,  perchè  e  questo  e  quello  non  potevano  fare  altrimenti  di  ciò 
che  fecero.  Intanto  gli  intellettualisti  distraendosi  dalla  contemplazione  pura  e  sem- 
plice, continua  l'autore,  potranno  cercare  con  curiosità  ciò  che  una  società  di  uomini 
posti  in  tali  condizioni  sarà  costretta  di  fare.  L'autore  continua  a  beffarsi  del  suo 
lettore,  giacché  cercare  ciò  che  potrà  essere  una  società,  posto  l'assoluto  determinismo, 
è  il  colmo  dell'assurdo,  poiché  la  ricerca  presupporrebbe  la  possibilità  che  gli  spet- 
tatori potessero  in  qualche  modo  modificare  l'andamento  dello  spettacolo,  e  questo 
alla  sua  volta  potesse  modificarsi,  il  che  sarebbe  in  piena  contraddizione  col  deter- 
minismo assoluto  professato  dall'autore. 

Se  poi  si  ammette,  continua  l'autore,  che  le  cose  si  lascino  vedere  sotto  il  punto 
di  veduta  della  loro  bellezza,  cessando  di  considerarle  dal  punto  di  veduta  della  loro 
utilità,  del  loro  valore  morale,  perchè  le  due  cose  :  l'utilità  e  il  valore  morale,  sono 
identici,  il  solo  sentimento  accessibile  agli  intellettualisti,  che  determinerà  ancora  in 
essi  il  soggetto  necessario  ad  ogni  spettacolo,  sarà  un  sentimento  estetico.  Anzitutto 
si  può  domandare  che  cosa  l'autore  intenda  per  bellezza,  utilità  o  valore  morale  nel 
determinismo  assoluto.  Se  in  questo  sistema  non  si  può  parlare  di  bene  e  di  male, 
così  non  si  può  parlare  né  di  bello,  né  di  brutto,  né  di  utile,  né  di  disutile  o  dan- 
noso; giacché  tali  concetti  nel  determinismo  assoluto  implicano  contraddizione.  Quindi 
il  sentimento,  come  tutti  gli  atti  degli  intellettualisti  sono  quello  che  sono,  e  chia- 
mare uno  di  questi  atti  sentimento  estetico  è  burlarsi  di  chi  legge. 

L'autore  è  tanto  persuaso  della  assurdità  di  questa  morale  estetica,  da  aggiun- 
gere che  essa  non  potrebbe  prevalere,  né  essere  l'appannaggio  se  non  di  piccolo  nu- 
mero, per  la  ragione  che  se  si  generalizzasse  gli  attori  verrebbero  a  mancare  e  ces- 
serebbe lo  spettacolo,  ciò  che  sarebbe  contrario  al  voto  che  si  presta  alla  vita.  Ma 
fortunatamente  questo  appetito  di  pura  conoscenza  non  si  manifesta  che  in  alcuni 
uomini  e  solo  nell'ultimo  stadio  della  loro  evoluzione  fenomenale,  e  in  razze,  in  fa- 
miglie, in  individui  prossimi  ad  estinguersi.  Al  contrario,  gli  individui  destinati  vivendo 
a  perpetuarsi  per  prolungare  lo  spettacolo,  per  quelli  che  sono  presso  ad  estinguersi, 
cioè  gli  intellettualisti,  sono  incapaci  di  ammettere  le  conclusioni  della  scienza  della 
conoscenza,  cioè  le  conclusioni  dell'autore,  e  noi  confessiamo  modestamente  di  essere 
nel  bel  numero  degli  incapaci. 

La  confessione  dell'autore  che  la  sua  morale  estetica  conviene  solo  a  quelle  razze, 
famiglie,  a  quegli  individui  che  sono  presso  ad  estinguersi,  ma  non  alla  generalità 
degli  uomini,  è  veramente  preziosa;  imperocché  l'assurdo  può  ben  essere  l'appan- 
naggio di  qualche  mente  squilibrata,  ma  non  sarà  mai  l'appannaggio  del  genere  umano 
(pag.  174  a  177). 


41  ESAMB    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KAXT    A    NIETZSCHE   „ 


XII. 

Appoggiato  alla  morale  estetica  conveniente  solo  agli  spiriti  dominati  dall'ap- 
petito della  conoscenza  pura,  spiriti  che  sono  presso  ad  estinguersi,  l'autore  intra- 
prende l'esame  delle  dottrine  morali  venute  dopo  la  Critica  della  Ragion  intra,  ben 
inteso  che  questo  esame  è  fatto  da  quegli  spiriti  che  nella  vita  adempiono  l'ufficio 
del  genio  della  conoscenza  e  che  sono  presso  ad  estinguersi.  Tra  questi  sistemi,  gli 
uni,  come  il  kantismo  e  il  criticismo  francese,  senza  contare  i  superstiti  dell'antico 
spiritualismo,  indicano  un  ritorno  puro  e  semplice  alla  petizione  di  principio  della 
Metafisica  e  Teologia.  Gli  altri,  come  il  Positivismo  in  Francia  e  in  Inghilterra,  si 
sforzano  di  trarre  un  principio  di  obbligazione  dai  soli  dati  sperimentali,  sebbene  pei 
positivisti  il  vocabolo  obbligazione  abbia  un  senso  meno  rigoroso  di  quello  che  gli  si 
attribuisce  nei  sistemi  metafisici. 

Il  genio  della  conoscenza,  qui  rappresentato  dal  De  Gaultier,  ha  per  ufficio  di 
criticarli  tutti  in  quanto  si  danno  per  veri,  perchè  sono  tutti  egualmente  falsi.  Tra 
i  sistemi  morali  regressivi  tiene  il  primo  posto  quello  esposto  da  Kant  nella  Critica 
della  Ragion  pratica  e  nei  Fondamenti  della  Metafisica  dei  Costumi,  nei  Principii  Me- 
tafisici della  Morale.  A  Kant,  dice  l'autore,  bisogna  opporre  Kant  stesso  e  bisogna 
immolare  il  Kant  della  seconda  critica  al  Kant  della  prima,  e  lo  si  deve  immolare 
senza  riguardi  in  ragione  della  considerevole  influenza  esercitata  sopra  una  numerosa 
classe  di  spiriti,  cioè  di  quelli  che  vogliono  vivere,  pel  falso  razionalismo  da  lui 
restaurato,  poiché  nulla  vi  ha  di  più  pernicioso  di  esso.  Imperocché  il  kantismo  in 
morale  è  una  religione  e  una  religione  in  piena  crisi  di  fermentazione.  Esso  attrae 
a  sé  tutti  quelli  che  continua  ad  angosciare  l'inquietudine  religiosa,  ed  è  perciò  che 
Kant,  solo  tra  i  grandi  uomini  che  novera  l'epoca  moderna,  trovò  grazia  al  tribunale 
spirituale  del  Tolstoi. 

L'autore  loda  Maurizio  Barrès,  il  quale  in  un  suo  libro  col  titolo  Les  Déracinés 
ha  indicato  la  morale  kanziana  come  un  pericolo  nazionale.  Imperocché  questa  è  un 
pericolo  per  lo  spirito,  per  lo  stato  generale  d'intellettualismo  fatto  dalla  Critica  della 
Ragion  pura,  fatta  per  fondarlo  teoricamente  e  che  ha  raggiunto  spontaneamente  in 
Francia,  in  virtù  di  un  dono  di  chiarezza  proprio  della  razza,  la  sua  espressione  pratica 
più  perfetta.  Questo  intellettualismo  è  anzitutto  uno  stato  di  disinteresse  della  credenza, 
escludente  ogni  dottrina  assoluta  indicante  una  ripugnanza  delicata  verso  tutto  che 
si  richiama  ad  un  principio,  ad  una  presunzione  di  verità  universale.  Ora  un  fatto 
simile  suppone  una  razza  pervenuta  alla  maturità  dello  spirito;  e  questo  è  il  caso 
della  razza  francese  che,  avendo  compiuto,  sotto  la  forma  cattolica,  la  sua  crisi  di 
pubertà  religiosa  verso  i  primi  secoli  della  nostra  èra,  si  mostrò  in  seguito  refrat- 
taria nella  sua  maggioranza  ad  appassionarsi  di  nuovo  per  interessi  di  tal  fatta,  e 
non  prova  più  il  sentimento  religioso  che  come  un'  attitudine  di  utilità  trasmessa 
dagli  antenati. 

Il  Cattolicismo  in  Francia,  sotto  il  suo  aspetto  autoritario,  non  esercita  più  sulle 
coscienze  che  un'  azione  ristretta  alle  pratiche  usuali,  all'utilità  sociale,  all'attitudine 
sentimentale  e  tradizionale  propria  alla  razza.  Quanto  alla  parte  più  numerosa  della 


294  -LDO    BOBBA  42 

nazione,  del  tutto  liberata  dalla  credenza,  non  ritrae  dalla  decorazione  religiosa  in 
mezzo  alla  quale  si  è  svolta  se  non  una  etichetta  e  principii  di  condotta  immediati, 
da  cui  ciascuno  è  inclinato  alle  modalità  più  compatibili  cogli  interessi  comuni. 
Questo  è  uno  dei  tratti  che  gettano  sullo  spirito  francese  la  luce  più  viva  e  ne  indica 
meglio  la  qualità,  cioè  il  fatto  di  una  religione  che  passò  il  tempo  della  sua  fer- 
mentazione. Per  la  rarità  di  questo  privilegio,  la  razza  francese  è  attualmente  meglio 
preparata  a  veder  sorgere  le  modalità  più  intellettuali  della  vita,  cioè  gli  stati  sociali 
in  cui  l'istinto  della  vita  mostra  rispetto  alla  conoscenza  la  tolleranza  più  larga  e 
sombra  quasi  conciliarsi  con  essa,  esigendo  per  conservarsi  un  numero  minore  di 
menzogne  (pag.  179  a   181). 

Lasciamo  ai  pensatori  di  Francia  a  giudicare  se  veramente  la  parte  più  nume- 
rosa di  essa  si  sia  del  tutto  prosciolta  dalla  credenza  e  dalla  decorazione  religiosa 
e  ritenga  etichetta  e  principii  di  condotta  immediati,  pei  quali  ciascuno  è  inclinato 
alle  modalità  più  compatibili  cogli  interessi  comuni  ;  il  che  in  altri  termini  signifi- 
cherebbe che  la  maggioranza  della  nazione  francese  maschererebbe  la  sua  incredulità 
col  manto  della  ipocrisia;  solo  osserviamo  che  prima  l'autore  affermava  cha  l'appe- 
tito della  conoscenza,  cioè  l'intellettualismo,  che  qui  attribuisce  alla  maggioranza 
della  nazione  francese  "  ne  se  manifeste  chez  quelques  étres  que  vers  les  derniers 
"  stades  de  leur  évolution  phénoménale,  chez  des  races,  ou  des  familles,  chez  des 
"  individus  proches  de  leur  extinction  .,  (pag.  177);  quindi  l'elogio  che  egli  fa  dello 
stato  intellettuale  di  quella  maggioranza  dovrebbe  considerarsi  come  il  canto  pre- 
ventivo funebre  di  una  razza  che  è  "  aux  derniers  stades  de  son  évolution  phéno- 
"  menale  „,  quindi  "  proche  à  son  extinction  „:  e  se  questi  sono  i  desiderii  o  i  pro- 
nostici dell'autore,  non  saranno  certo  i  nostri,  e  possiamo  affermare  con  sicurezz; 
quelli  della  generosa  e  nobile  nazione  francese. 

Se  la  maggioranza  della  Francia  è  nelle  condizioni  mentali  descritte  dall'autore, 
comprendiamo  che  egli  ritenga  l'introduzione  della  morale  di  Kant  in  Francia  un 
grave  pericolo,  poiché,  secondo  lui,  il  kantismo  si  confonde  col  Cristianesimo,  seb'  ■ 
differiscano  in  quanto  questo  si  appoggia  alla  rivelazione,  quello  sopra  principii  ra- 
zionali, od  almeno  vi  pretende;  ma  il  vero  è  che  l'imperativo  categorico  si  confonde 
perfettamente  colla  credenza  ad  una  rivelazione  naturale  che  è  il  dogma  del  prote- 
stantesimo più  libero.  Del  resto  è  ciò  che  hanno  benissimo  compreso  i  partigiani 
della  morale  di  Kant  in  Francia  ed  è  così  che  il  Renouvier  concluse  testé,  per  assi- 
curare il  trionfo  delle  sue  idee,  alla  necessità  di  protestantizzare  la  Francia,  e  un 
tale  trionfo,  aggiunge  l'autore,  segnerebbe  presso  di  noi  la  decadenza  della  razza 
autoctona  a  benefizio  di  una  razza  straniera,  e  quel  che  è  peggio,  sempre  secondo 
l'autore,  farebbe  perdere  alla  razza  francese  i  vantaggi  intellettuali  descritti  di  sopra, 
e  sotto  questo  aspetto  non  solo  un  pericolo  nazionale,  ma  in  generale  un  pericolo 
per  lo  spirito  (cioè  dello  spirito  dell'autore),  giacché  impedirebbe  o  ritarderebbe  il 
regno  degli  intellettualisti,  la  cui  riuscita  esige  condizioni  particolari  e  lunghi  secoli 
di  preparazione.  Quindi  perchè  non  sia  ritardato  il  trionfo  della  morale  estetica  del- 
l'autore, egli  vuol  considerare  senza  indulgenza  i  dogmi  kanziani  della  Ragion  pratica. 

In  fatto  Kant  fonda  la  realtà  delle  sue  idee  metafisiche  e  teologiche  sopra  un'at- 
tività mentale  che  denomina  ragion  pratica,  la  quale  a  priori  significa  alla  volontà 
umana  un  imperativo:  tu  devi.  Da  questo  fatto  Kant  deduce  tutte  le  idee  metafisiche 


-[-)  RITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE   „  295 

ripudiate  dalla  Ragion  pura.  Imperocché  un  comando  suppone  in  chi  lo  riceve  la 
libertà  di  obbedire  o  non  obbedire.  L'esistenza  della  libertà  postulata  dalla  legge 
morale  è  così  assicurata.  La  libertà,  scrive  Kant,  nei  Fondamenti  della  Metafisica  dei 
costumi,  debbe  essere  supposta  come  proprietà  inerente  alla  volontà  di  ogni  essere 
ragionevole. 

Ma  la  volontà  dell'uomo,  avvertita  dall'imperativo  della  esistenza  della  legge  mo- 
rale, è  d'altra  parte  sollecitata  da  motivi  sensibili,  il  cui  impero  non  le  permettono 
di  adempiere  intieramente  e  immediatamente  gli  ordini  trasmessi  dalla  legge,  di  per- 
venire al  bene  supremo.  La  santità,  cioè  la  perfetta  conformità  alla  legge  morale, 
non  può  essere  raggiunta  dall'uomo  immerso  nel  mondo  sensibile,  che  in  un  pro- 
gresso all'infinito,  il  quale  suppone  l'esistenza  e  la  personalità  dello  stesso  essere 
ragionevole  prolungata  pure  all'infinito,  cioè  l'immortalità  dell'anima. 

L'esistenza  poi  di  Dio  è  postulata  dal  fatto  che  una  causa  fornita  d'intelligenza 
e  di  volontà  può  essa  sola  associare  nell'idea  del  bene  supremo  la  felicità  e  la  mo- 
ralità. Kant  per  togliere  ogni  idea  di  Eudemonismo  alla  sua  morale  esige  che  l'uomo 
compia  la  legge  morale  per  se  stessa  indipendentemente  da  ogni  desiderio  di  felicita. 
Ma  il  bene  supremo  non  sarebbe  tale  se  non  implicasse  in  un  ideale  di  virtù,  un 
ideale  di  felicità;  imperocché  il  fatto  di  un  essere  meritevole  della  felicità,  se  non 
la  conseguisse  presenterebbe  lo  spettacolo  di  un  difetto  d'armonia  incompatibile  col- 
l'idea  stessa  del  bene  supremo.  Quindi  è  che  la  sintesi  della  moralità  e  della  felicità, 
pur  non  essendo  in  rapporto  di  causa  ad  effetto,  esige  l'intervento  di  un  essere  per- 
fetto, di  Dio.  Kant,  giunto  a  questo  punto  dello  svolgimento  del  suo  pensiero,  riat- 
tacca al  Cristianesimo  l'insieme  delle  idee  metafisiche,  e  ricostituisce  un  sistema  mo- 
rale e  teologico  pari  a  quello  che  esisteva  prima  della  Critica  della  Ragion  pura. 

Per  l'autore  della  morale  estetica,  cioè  della  morale  di  quelli  che  stanno  per 
estinguersi,  la  morale  di  Kant  "  est  le  défi  le  plus  méprisant  qui  ait  jamais  été  porte 
"  par  l'instinct  vital  (era  tempo  che  tornasse  a  comparire  questo  taumaturgo,  lasciato 
"  un  po'  in  disparte  dall'autore)  à  l'instinct  de  la  connaissance  :  contraindre  un  esprit 
"  philosophique  tei  que  celui  de  Kant  à  un  si  complet  aveuglement,  c'est  du  fait  de 
"  l'instinct  vital  la  marque  de  toute  puissance  la  plus  evidente  et  la  plus  dédaigneuse 
"  pour  l'esprit.  On  voit  là  une  sorte  de  chàtiment  deshonorant  infligé  par  le  très-haut 
"  dispensatemi  de  l'illusion  et  de  la  vie  au  héros  de  la  connaissance  qui  jusqu-là 
0  avait  divulgué  par  dessus  tous  les  autres  le  moyen  de  l'illusion  et  de  la  vie.  Kant 
"  se  voit  ici  produit  en  exemple  comme  quelque  Nabucodònosor,  non  de  la  puis- 
"  sance,  mais  de  l'esprit,  métamorphosé  en  l'antithèse  la  plus  complète  de  l'esprit  et 
"  expiant  par  l'humilité  de  son  nouveau  langage  une  lucidité  dangereuse  „  (pag.  188). 

Dopo  questo  cappello  galeato  l'autore  afferma  che  tutto  il  sistema  teologico  di 
Kant  riposa  su  questo  unico  fatto,  l'esistenza  di  una  legge  morale  unversale  di  un 
imperativo  categorico:  egli  considera  l'esistenza  di  questa  legge  come  un  fatto  dato 
dalla  ragion  pratica  a  priori,  un  fatto  a  cui  bisogna  credere  senza  esame.  L'autore 
avrebbe  dovuto  notare  che  Cicerone  molti  secoli  prima  di  Kant  aveva  non  solo  affer- 
mato, ma  anche  dimostrato  l'esistenza  universale  della  legge  morale  che  impone  di 
fare  certe  cose  e  vieta  di  farne  certe  altre:  "  Lex  est  ratio  summa  insita  in  natura. 
"  quae  jubet  ea,  quae  facienda  sunt  prohibetque  contraria.  Eadem  ratio  qua  e  est  in 
"  hominis    mente    confirmata   eonfecta,   lex  est  ,   (De  Legibus,  1°,  C.  VI,  18).  "  Est 


296  LD0  bobba  44 

"  enim  haec  non  scripta  sed  nata  lex  :  quam  non  didicimus,  accepimus,  legimus,  veruni 
"  ex  natura  ipsa  arripuimus,  hausimus,  expressimus.  ad  quam  non  docti,  sed  facti; 
"  non  instituti,  sed  imbuti  sumus  „  {Pro  Milone,  cap.  IV,  10).  Adunque  Cicerone  in- 
segna esplicitamente,  come  Kant,  che  l'imperativo  categorico  è  nella  mente  umana 
a  priori.  Vediamo  se  prova  puro  che  è  universale  :  "  Est  quidem  vera  lex  recta  ratio 
"  naturae  congruens,  diffusa  in  omnes,  constans,  sempiterna,  quae  vocet  ad  officium 

"  jubendo,  vetando  a  f rande  deterreat huic  legi  nec  abrogari  fas  est,  neque  dero- 

*  gari  ex  hac  aliquid  licet,  neque  tota  abrogari  potest;  ne   vero   aut    per   Senatum 

"  aut  per  populum  solvi  hac  lege  possumus nec  erit  alia  lex  Romae,  alia  Athenis, 

"  alia  nunc,  alia  posthac,  sed  et  omnes  gentes,  et  omni  tempore  una  lex  sempi- 
"  terna  et  im'mortalis  continebit,  unusque  erit  communis  quasi  magister  et  imperator 
"  omnium  Deus  legis  hujus  inventor,  disceptator,  lator  cui  qui  non  parebit  ipse  se 
"  fugiet,  et  naturae  humanae  aspernabitur  „  (Cicerone  presso  Lattanzio,  Divinis 
Institutionibus,  Iib.  VI,  capo  8.  Conf.  De  Bepub.). 

Secondo  l'autore,  la  legge  morale  sarebbe  una  forma  la  quale  non  sarebbe  rive- 
lata come  reale  da  niuna  esperienza  ed  alla  cui  oggettività  Kant  esigerebbe  che  si 
credesse.  Ma  se  avvi  fatto  più  accertato  dalla  esperienza  è  appunto  l'esistenza  di 
leggi  più  o  meno  imperfette  che  impongono  certi  offici,  vietano  certi  altri,  presso 
tutti  i  popoli,  dai  più  colti  ai  più  barbari.  Avvi  egli  un  legislatore  che  non  abbia 
posto  per  fondamento  della  sua  legislazione  la  distinzione  del  bene  e  del  male?  "  Hanc 
"  video  sapientissimorum  fuisse  sententiam,  legem  neque  hominum  ingeniis  excogi- 
"  tatam  nec  scituin  aliquod  populorum,  sed  aeternum  quiddam  quod  universum  mundum 
"  regeret  imperandi  prohibendique  sapientia  „  (Cicerone,  De  Legibus).  L'autore  con- 
tinua: "  l'artifice  consiste  donc  à  comprendre  la  croyance  sous  une  des  catégories 
"  de  la  raison,  à  prononcer  le  mot  foi  comme  s'il  devait  s'épeler  raison  pratique  „ 
(pag.  189).  No,  non  abbiamo  bisogno  di  ricorrere  ad  alcun  artifizio  e  tanto  meno 
computare  il  vocabolo  fede  per  ragione  pratica;  ci  basta  di  appellarci  al  fatto  spe- 
rimentale della  esistenza  di  leggi  presso  tutti  i  popoli,  per  dimostrare  che  la  legge 
morale  ha  un  valore  obiettivo. 

Non  insisteremo  nell'esame  delle  altre  obbiezioni  che  l'autore  muove  contro  la 
Ragion  pratica  di  Kant  e  lasciamo  volentieri  tale  compito  ai  seguaci  di  lui. 

Abbiamo  già  veduto  come  l'autore  incolpi  il  Renouvier  di  proporre  una  teoria 
morale,  che  se  attecchisse  in  Francia,  sarebbe  una  disgrazia  nazionale;  ma  qui  dob- 
biamo aggiungere  che,  secondo  l'autore,  il  Renouvier  ha  formulato  un  sistema  che 
non  ammette  neppure  la  discussione  e  che  da  se  si  pone  pei  suoi  richiami  alla  cre- 
denza fuori  della  scienza  della  conoscenza,  ben  inteso  della  scienza  la  quale  proclama 
che  "  les  notions  de  Science  et  de  Vérité  s'excluent  „,  imperocché  "  la  Science  ne  se 
"  propose  jamais  la  Vérité  pour  objet  „  (pag.  117).  Esso,  il  Renouvier,  a  proposito 
della  Morale  di  Kant,  coll'accento  di  Poliuto  confessante  il  vero  Dio,  cosa  così  ingrata 
all'orecchio  filosofico,  nota  l'autore,  dice:  e  ciò  che  vi  ha  di  straordinario  è  che  il 
dogma  metafisico  si  ricostituisce  persino  nella  Crìtica  della  Ragion  pura,  opera  di  de- 
molizione, e  chela  grande  novità,  il  Criticismo  affermatore,  fa  sì  che  in  morale  prenant 
le  pas  sur  la  doctrine,  la  vraie  critique  appartieni  à  d'awtres  ouvrages.  Ed  in  nota: 
"  le  conclusioni  del  Secrétan  non  sono  in  tutto  differenti  dalle  nostre,  perchè  egli 
"  ammette  almeno  la  preminenza  della  morale,  e  questo  è  il  punto  essenziale  „. 


45  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   „  297 

Ma  vi  ha  di  peggio:  il  Renouvier  concludendo  la  sua  teoria  intorno  ai  futuri 
contingenti,  cita  queste  parole  di  Aristotele:  l'avvenire  è  realmente  incerto  in  qualche 
caso.  Certamente  non  vi  sarebbe  più  libertà,  tutto  sarebbe  necessario,  le  delibera- 
zioni degli  uomini  sarebbero  vane,  ciò  che  non  è  tollerabile.  L'autore,  il  cui  orecchio 
non  può  sopportare  che  si  pronunci  il  nome  di  Dio,  pretende,  senza  addurre  una  sola 
ragione,  che  Aristotele  filosofava  cosi  ab  irato  da  circa  ventitre  secoli.  Ho  detto  male  : 
senza  addurre  una  ragione;  la  ragione  è  l'intolleranza  tipica  dell'autore  contro  chi 
formula  una  morale  imperativa,  cioè  una  morale  che  implichi  obbligatorietà,  invece 
di  adottare  la  morale  estetica  di  quelli  che  stanno  per  morire  (pagg,  205-206). 

Con  lievi  differenze  il  Pillon,  continua  l'autore,  conviene  col  Renouvier  nel  rite- 
nere la  supremazia  della  morale,  nell 'accettare  integralmente  la  Critica  della  Ragion 
pratica,  come  si  raggruppano  al  Renouvier  ed  al  seguito  del  Tissot,  il  Lachelier,  il 
Dauriac,  il  Boutroux.  pei  quali  la  legge  morale  è  rimasta  vestigio  teologico  "  le  clo- 
"  cher  choisi,  en  vertu  de  quelque  pacte  secrète  de  l'instinct  (ecco  il  deus  ex  machina), 
"  comme  but  de  toute  course  à  travers  les  idées  „.  Sotto  questa  ultima  categoria  si 
schierano  al  seguito  di  Cousin,  Jouffroi,  e  del  gruppo  eclettico,  Ravisson,  Secrétan, 
Janet,  Frank,  Caro,  Giulio  Simon,  ed  anche  Vacherot,  sebbene  pretenda  di  proscio- 
gliere la  morale  dalla  dipendenza  della  religione  e  dalla  metafisica  ed  appoggiarla 
sulla  sola  psicologia. 

Evidentemente  i  sistemi  di  tutti  questi  pensatori  suppongono  una  legge  morale 
primitiva  e  la  libertà,  quindi  "  ils  relèvent  par  là  des  critiques  précédentes  et  témoi- 
"  gnent  de  cette  régression  philosophique  dont  Kant  a  donne  l'exemple  après  la 
Critique  de  la  Raison  pure  (pag.  209  a  211).  Secondo  la  teoria  dell'autore  questi  pen- 
satori appartengono  alla  categoria  di  quelli  che  vogliono  vivere,  quindi  sono  regres- 
sivi; invece  egli,  che  ha  inventato  la  morale  estetica,  appartiene  a  quella  delle  razze, 
degli  individui  che  sono  giunti  allo  stato  d'intellettualismo  proprio  di  quelli  che  sono 
presso  ad  estinguersi,  epperciò  sono  i  progressisti. 

XIII. 

Condannati  i  filosofi  regressisti  francesi,  l'autore  passa  ai  filosofi  che  in  Alle- 
magna  specularono  sulle  traccie  di  Kant,  i  quali  però,  come  Hegel,  Fichte  e  Schelling, 
incarnarono  il  fenomeno  nel  noumeno.  L'uno  e  l'altro  si  mescolano,  si  intrecciano, 
mentre  dal  soggetto  confuso  coll'oggetto  emerge  l'assoluto.  Con  Hegel  il  fenomeno 
non  è  più  l'apparenza  soggettiva  determinata  da  Kant;  esso  è  fornito  di  una  esistenza 
immediata  necessariamente  generata  dallo  sviluppo  logico  dell'idea.  Fichte  e  Schelling 
usano  rispetto  alle  leggi  critiche  della  stessa  libertà  e  questi  diversi  sistemi  non  sono 
che  disegni  prestati  all'assoluto.  Ma  questi  sistemi  escludono  dai  loro  elementi  il 
concetto  di  libertà,  concetto  che  fu  in  ogni  tempo  il  cemento  delle  ipotesi  metafisiche, 
non  perchè  tale  concetto  non  sia  rappresentato,  ma  perchè  vi  figura  senza  utilità  e 
in  realtà  non  fa  parte  del  sistema.  In  un  sistema  poi  come  quello  di  Hegel,  in  cui 
si  assegna  al  mondo  uno  sviluppo  spontaneo,  meccanico,  si  cercherebbe  invano  un 
posto  per  la  libertà,  sebbene  Hegel  l'abbia  introdotta  perchè  essa  si  trova  in  tutti 
gli  antichi  edifizi  teologici  e  lo  spirito  degli  uomini  vi  si  tiene  attaccato  ed  anche 
perchè  implica    la   responsabilità    e   che   il    sentimento  moderno  come  l'antico  esigo 

Serie  II.   Tomo   LUI. 


298  ROMUALDO    BOBBA  46 

cosifatta  condizione  per  legittimare  la  morale.  Ne  può  negarsi  che  Hegel  non  abbia 
prodotto  colla  sua  forma  dialettica  un  procedimento  propriissimo  a  sistematizzare  nel 
senso  che  una  volta  messo  in  gioco  dall'intelligenza,  opera  da  sé  senza  che  l'autore 
abbia  bisogno  di  un  nuovo  sforzo  originale  del  pensiero,  sulla  materia  che  gli  fu 
confidata.  Cioè  parallelismo  del  razionale  e  del  reale,  confusione  dell'essere  e  del 
pensiero  nella  idea  che  a  volta  a  volta  svolge  i  suoi  modi  per  riassorbirli,  movimento 
dialettico  della  idea  —  tesi  —  antitesi  —  sintesi  —  per  cui  questo  ingenera  essa 
stessa  le  sue  forme  successive,  opponendosi,  dividendosi  per  conciliarsi  e  unirsi  in 
una  unità  superiore,  ecco  secondo  l'autore  ìes  rouages  de  eette  dialectique. 

Sotto  la  direzione  di  Hegel,  secondo  l'autore  questo  macchinismo  ideologico  pro- 
dusse ne'  suoi  sviluppameli  applicabili  alla  pratica  il  sistema  politico  di  governo 
assoluto,  che  fu  l'ideale  prussiano  verso  il  1828,  epoca  in  cui  Hegel  distribuiva  con 
autorità  sovrana  il  suo  insegnamento  a  Berlino.  L'Hegelianismo  demoralizzato  con 
Carlo  Marx  e  in  modo  generale  con  tutti  i  costruttori  di  futuri  sistemi  generò  nume- 
rose teorie  sociali  in  cui  fa  mostra  il  più  basso  ottimismo  ;  imperocché,  in  grazia 
della  sintesi,  se  la  vita  lascia  scoprire  antagonismi,  l'autore  se  ne  gode  e  l'umanità 
non  ha  che  a  rallegrarsi  con  lui  dei  conflitti  da  cui  è  travagliata,  perchè  l'antago- 
nismo, mostrandoci  che  l' idea  si  svolge,  che  la  vita  guadagna  in  complessità,  ci 
annunzia  soluzioni  prossime  e  un  ordinamento  più  perfetto.  Se  non  che  col  Kantismo 
della  Ragion  pratica,  col  criticismo  di  Renouvier,  coi  sistemi  metafisici  di  Hegel, 
Fichte,  Schelling,  colle  diverse  scuole  spiritualistiche  o  teologiche  già  prima  indicate 
è  esaurita  la  nomenclatura  dei  sistemi  che  dopo  la  Critica  della  Ragion  pura  conti- 
nuarono a  speculare  fuori  dei  limiti  e  contro  le  leggi  dello  spirito;  quindi  l'autore, 
che  è  il  solo  che  le  conosce  e  le  osserva  e  soprattutto  che  dichiara  le  nozioni  di 
scienza  e  di  verità  escludersi,  e  che  essa  la  scienza  non  si  propone  mai  per  oggetto 
la  verità  (pag.  127)  condanna  e  fulmina  tutte  queste  dottrine  (pag.  212  a  218). 

Ma  non  dobbiamo  dimenticare  che  in  questo  frattempo  è  nata  la  filosofia  posi- 
tiva; che  Augusto  Comte  ha  introdotta  una  nuova  classificazione  delle  scienze,  che 
ha  definito  e  limitato  l'ufficio  della  scienza  critica  destinata  a  distruggere  l'impero 
della  teologia  e  delle  idee  metafisiche,  ma  impotente  a  creare  nuove  forinole  di  vita; 
che  ha  richiamato  fortemente  l'attenzione  dei  Francesi  sul  pericolo  da  cui  è  minac- 
ciato lo  spirito  positivo  del  ristabilimento,  contro  le  soluzioni  della  ragione  e  per  un 
interesse  morale  e  politico,  l'autorità  delle  antiche  credenze.  Non  ostante  tutti  questi 
meriti  l'autore  gli  rimprovera  il  carattere  religioso  di  cui  rivestì  le  idee  scientifiche, 
la  pretensione  di  risolvere  con  un  nuovo  dogmatismo  fondato  sulla  presunzione  di 
finalità,  il  problema  morale. 

Però  il  positivismo  in  Francia,  Inghilterra,  Germania  è  la  consacrazione  pratica 
immediata  e  logica  delle  deduzioni  della  Critica  della  Ragion  pura.  Ora  la  scienza 
filosofica  non  comprendo  più  che  due  sezioni,  l'una  la  critica  della  conoscenza;  se  non 
che  questa,  essendo  già  stata  fatta  una  volta  per  sempre,  non  presenta  più  materia 
a  filosofare,  cioè  all'infuori  della  scienza  del  fenomeno,  quindi  le  due  sezioni  si  riducono 
ad  una  sola,  cioè  alla  scienza  del  fenomeno. 

Quindi  le  questioni  di  causa  prima  d'origine,  di  anima,  di  libertà  sono  categorie 
relegate  nel  mondo  dell'inconoscibile  o  del  puro  impossibile,  ed  ogni  sforzo  applicato 
a  tali  questioni  è  oramai,  sentenzia  l'autore,  condannato. 


47  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KANT    A    NIETZSCHE   .,  299 

I  sistemi  positivisti  propriamente  detti  tuttavia  non  seppero  sempre  preservarsi 
dalle  avventure  metafisiche,  e  queste  penetrarono  nella  parte  più  vitale  della  specu- 
lazione, cioè  nella  morale.  La  quale  secondo  Nietzsche  non  deve  essere  che  un  capi- 
tolo della  storia  naturale.  Ma  parlandosi  dell'uomo  la  maniera  di  studiarlo  è  più 
complessa.  Imperocché  mentre  le  altre  specie  di  animali  sembrano  ormai  almeno  per 
la  maggior  parte  fissate,  la  specie  umana,  dice  l'autore,  sembra  ancora  pe'  suoi  organi 
più  elevati,  cervello  e  centri  nervosi,  in  via  di  evoluzione,  per  esempio,  diciamo  noi, 
la  nuova  specie  dei  superuomini.  Ora  mentre  per  questo  fatto  l'osservazione  è  resa 
più  difficile  aumenta  la  tentazione  di  cercare  quale  sarà  la  direzione  di  questo  movi- 
mento progressivo,  di  determinare  come  si  compierà;  di  qui  a  decidere  ciò  che  gli 
uomini  debbono  fare  e  a  ristabilire  l'idea  del  dovere,  vi  ha  una  connessione  logica 
a  cui  non  resisterono  le  varie  gradazioni  dei  positivisti.  Essi  vennero  quindi  a  sosti- 
tuire all'antica  concezione  d'un  tipo  morale  propriamente  detto  sottoposto  ad  un 
imperativo,  la  concezione  di  un  tipo  normale  in  armonia  col  senso  della  evoluzione. 
Ma  questa  induzione  implica  non  solo  che  il  principio  di  finalità  ha  una  virtù  ogget- 
tiva e  si  applica  ad  un  universo  in  se  ma  ancora  che  il  fine  di  esso  è  determinato 
e  conosciuto.  La  conoscenza  di  questo  fine  implica  la  nozione  d'un  Dio  universale  e 
positivo,  la  selezione  naturale  alla  sua  volta  assicura  in  un  modo  fatale  il  compi- 
mento di  esso  fine,  di  guisa  che  la  selezione  perciò  ha  un  carattere  imperativo.  D'altra 
parte  l'uomo  avendo  presa  coscienza  del  fine  dell'universo  nell'umanità  e  della  via 
che  conduce  a  tale  scopo  ha  il  dovere  di  assecondare  la  selezione  naturale  con  un 
intervento  volontario  o  parallelo.  La  parte  poi  della  umanità  che  apporta  tale  con- 
corso pel  fatto  che  si  mostra  in  armonia  colla  tendenza  dell'universo  deve  però  se 
non  altro  dirsi  buona  e  virtuosa. 

Ecco  le  conclusioni  a  cui  giungono  la  maggior  parte  dei  sistemi  positivisti 
secondo  l'autore  ;  ma  il  male  si  è  che  col  concetto  di  finalità  si  richiama  l'idea  di 
un  bene  sommo,  e  la  selezione  artificiale  fa  l'ufficio  di  dovere.  In  altri  termini,  la 
filosofìa  positivista  assegnando  a  tutta  l'umanità  e  alla  vita  una  finalità  ultima  e 
determinata  dogmatizza  come  la  filosofia  antica,  usa  del  vecchio  procedimento  teo- 
logico, consistente  a  trasformare  in  idea  del  vero  per  agire  sulla  immaginazione  atti- 
tudini di  utilità  particolari,  di  petizioni  di  temperamento  individuale  o  etnico,  rista- 
bilendo cosi  la  nozione  di  un  bene  supremo  e  di  una  morale  universale  e  crea  una 
menzogna.  Essa  consiste  nel  porre  l'esistenza  di  una  legge  naturale,  che  dopo  aver 
determinato  l'individuo  alla  realizzazione  del  suo  bene  proprio  lo  costringe  in  seguito 
a  realizzare  il  bene  comune,  di  guisa  che  nel  corso  della  evoluzione  l'egoismo  si 
muta  fatalmente  in  altruismo  e  l'armonia  finale  di  tutte  le  felicità  diviene  lo  scopo 
della  evoluzione.  Quindi  Augusto  Comte  non  solo  dice  :  ama  il  tuo  prossimo  come  te 
stesso,  ma  aggiunge:  ama  l'umanità  più  che  te  stesso;  e  il  Littré  non  solo  aderisce 
a  questa  formola  ma  pronostica  pure  la  necessità  del  regno  finale  della  eguaglianza 
e  della  giustizia,  e  lo  stesso  spirito  pure  tanto  scientifico  dello  Spencer  sottoscrive 
a  questi  principii. 

Ora,  dice  l'autore,  se  è  permesso  di  esprimersi  con  mansuetudine  rispetto  alle 
antiche  idee  metafisiche  e  forme  religiose  perchè  esse  sono  ben  morte  (certo  è  da  un 
pezzo  che  sentiamo  ripetere  ciò),  sebbene  non  siano  che  verbo  praetereaque  nihil  e  che 
bisogna  lasciare  ai    filosofi    politicanti,  speculanti  sopra  la  lunga  buaggine  popolare 


;-',n(l  LDO    BOBBA  4S 

l'incarico  facile  e  lucrativo  di  attaccare  quelle  rovine  inoffensive  (oh  poveri  filosofi 
che  non  credendo  ancora  ben  morte  quelle  forme  religiose,  cercate  di  distruggerle, 
vedete  come  vi.  tratta  un  vostro  confratello,  voi  siete  filosofi  lucrativi!),  non  si  po- 
trebbe senza  pusillanimità  mantenere  la  stessa  attitudine  verso  una  idolatria  nuova, 
cioè  la  religione  del  progresso  realizzante  l'eguaglianza,  la  giustizia,  la  felicità  uni- 
versale, errore  scientifico  dei  filosofi,  che  serve  di  testo  nelle  sue  realizzazioni  pra- 
tiche alle  più  vili  adulazioni  prodigate  al  numero  pel  timore  o  l'astuzia  di  una 
aristocrazia  formata  dal  caso,  inferiore  alla  sua  fortuna.  Una  religione  simile  rappre- 
senta l'ideale  più  umiliante  che  possa  essere  offerto  all'umanità  e  a  una  sana  demo- 
crazia riche  d'avenir  et  grosse  d'une  élite  (pag.  218  a  227);  e  rispetto  a  questo  ultimo 
punto  crediamo  che  l'autore  abbia  ragione. 

Senza  entrare  in  altri  particolari  della  critica  speciale  che  l'autore  fa  del  Littré 
e  dello  Spencer,  sappiamo  che  egli  loro  attribuisce  non  meno  che  agli  spiritualisti  la 
menzogna  di  porre  l'esistenza  di  una  legge  naturale,  che  dopo  aver  determinato  l'in- 
dividuo a  realizzare  il  suo  bene  proprio  lo  costringe  in  seguito  con  necessità  a  rea- 
lizzare il  bene  comune,  delitto  capitale,  secondo  l'autore,  poiché  ponendo  per  fine 
della  vita  la  realizzazione  d'una  armonia  di  felicità,  il  regno  della  fraternità  e  giu- 
stizia universale,  essi  poveri  illusi,  che  non  si  sono  ancora  innalzati  alla  morale 
estetica,  non  fanno  altro  se  non  che  obbedire  al  loro  atavismo  cristiano  (pag.  227). 

Ora,  dice  l'autore,  importa  di  far  vedere  per  quale  artificio  l'antico  malinteso 
abbia  avuto  nascimento  e  in  qual  modo  si  sia  formato  il  qui  prò  quo  della  morale 
(pag.  233).  Nessuno  avendo  fin  qui  data  una  vera  spiegazione  del  qui  prò  quo  della 
morale,  l'autore  per  sua  bontà  ci  vuol  fornire  i  lumi  necessarii  a  tale  spiegazione, 
ed  ecco  come.  La  morale  sociale  è  la  forinola  di  un  temperamento  che -fu  prevalente: 
il  principio  di  questa  morale  ed  il  suo  titolo  legittimo  deve  cercarsi  in  individui,  i 
quali  generalmente,  in  un'epoca  preistorica,  realizzarono  spontaneamente  le  attitudini 
più  proprie  per  assicurare  all'organismo  che  si  cerca  e  si  inventa  (già  ad  un  orga- 
nismo che  sta  cercandosi  e  inventandosi)  la  potenza  maggiore.  Mediante  l'adatta- 
mento di  un  mezzo  ad  un  fine  secondo  la  linea  più  corta,  proveniente  da  una  legge 
dell'incosciente  o  dal  caso,  essi  individui  riuscirono  a  realizzare  un  tipo  etnico,  a 
creare  ad  una  razza  il  suo  destino.  La  codificazione  della  morale  e  la  sua  promul- 
gazione non  caratterizzano  adunque  il  periodo  della  forza  e  della  più  alta  sanità  di 
un  gruppo  d'uomini,  poiché  gli  uomini  di  questo  periodo  perfetto  non  abbisognavano 
ne  di  metodo,  ne  di  morale,  come  quelli  che  compievano  naturalmente  le  gesta  che 
loro  meglio  convenivano,  che  loro  procuravano  la  potenza  maggiore.  L'autore  qui 
finge  di  dimenticare  che  nel  suo  sistema  tutti  gli  atti  dell'uomo  sono  fatalmente 
necessitati,  quindi  parlare  di  gesta  che  meglio  convenivano  a  quegli  individui  per 
procurarsi  la  maggior  potenza  è  supporre  che  essi  fossero  liberi  nella  scelta,  il  che 
è  assurdo  nel  suo  sistema.  E  l'equivoco  continua:  poiché  gli  uomini  del  periodo 
seguente  cominciano  ad  imitare  le  loro  maniere  di  essere  perchè  queste  loro  procu- 
rano la  potenza,  perchè  sono  le  più  proprie  per  coordinare  le  loro  attività,  e  riunirle 
in  un  fascio. 

A  quest'epoca  appare  il  legislatore:  è  utile  notare  che  altrove  il  legislatore  ci 
era  dall'autore  presentato  come  una  produzione  istantanea  del  famigerato  istinto 
vitale,  nemico  irreconciliabile  dell'istinto  di  conoscenza,  mentre  qui  è  tutt'altra  cosa 


49  ESAME    STOKICO    CRITICO    DELL'OPERA    "    DA    KAKI    A    NIEU'ZSI  301 

In  fatto,  secondo  l'autore:  "  C'est  à  cotte  epoque  qu'apparait  le  législateur  ou  sacer- 
"  dote,  c'est  ici  et  à  la  suite  de  son  intervention  qu'il  faut  situer  cette  substitution 
"  de  conséquence  à  principe  qui  aveugle  par  la  suite  les  hommes  et  marque  la  genèse 
"  historique  de  toute  morale  „.  Perocché  il  legislatore,  che  è  un  prodotto  dell'istinto 
vitale  nemico  della  conoscenza,  raccoglie  nei  modelli  che  ha  ancora  presenti  allo 
spirito  ciò  che  in  essi  era  attitudine  di  utilità,  cioè  era  mezzo  per  la  potenza.  Egli 
il  nemico  della  conoscenza,  non  dà  queste  attitudini  di  utilità  semplicemente  per  quel 
che  sono,  ma  per  accrescere  la  loro  forza  e  consacrarne  il  prestigio,  perchè  ritengano, 
la  razza  sul  pendìo  della  decadenza,  quando  questa  avrà  perduto  i  suoi  istinti  (ad 
esempio  quando  i  lupi  sul  pendìo  della  decadenza  perdendo  i  loro  istinti  stanno  per 
diventare  agnelli),  egli  il  legislatore  ne  fa  dei  comandamenti,  loro  assegna  un'origine 
divina  e  li  impone  alla  credulità  mediante  timori  e  promesse,  castighi  e  ricompense 
immediate  e  future.  Così  queste  regole  che  non  traggono  il  loro  valore  se  non  perchè 
stereotipate  sulle  modalità  di  una  attività,  come  le  classificazioni  di  bene  e  di  male, 
non  rappresentano  altro  se  non  gli  scopi  particolari  ricercati  o  evitati  da  quella 
attività,  cioè  da  una  attività  che  realizza  le  attitudini  più  proprie  ad  assicurare 
all'organismo  che  si  cerca  e  si  inventa  la  maggior  potenza,  queste  regole  e  il  loro 
apprezzamento  dalle  attività  susseguenti  a  cui  vengono  proposte,  sono  collocate  in 
una  regione  anteriore  ad  ogni  attività,  in  una  regione  sopra  terrestre,  che  viene 
inventata  dal  legislatore  nemico  della  conoscenza,  regione  che  a  volta  a  volta  era 
la  divinità  o  la  ragione.  Ed  ecco  come  il  bene  ed  il  male  ritirato  dall'incatenamento 
fenomenale  sono  convertiti  in  quegli  idoli  razionali  che  hanno  preso  il  posto  delle 
antiche  idee  teologiche.  Le  sorti  delle  morali  sono  dunque  legate  alla  fortuna  delle 
attività  che  loro  servirono  di  modello,  e  tra  queste  le  più  forti  che  riuscirono  a 
vivere,  a  durare,  a  imporre  le  loro  modalità  divennero  in  seguito  il  bene,  epperciò 
esso  è  una  forma  antica  della  forza;  essa  sola  decide  del  bene.  Laonde  il  concetto 
del  bene  è  interiore  a  quello  di  forza,  la  quale  come  anteriore  trasmette  al  bene 
l'eredità  della  sua  nobiltà,  il  titolo  che  seppe  acquistare.  Tali  sono  le  conclusioni  che 
pronuncia  dogmaticamente  l'autore;  bisogna  accettarle,  quando,  come  fece  egli,  si 
seppe  innalzare  gli  sguardi  sopra  la  nebbia  metafisica,  sebbene  esse  siano  contrarie 
alla  sentimentalità  razionalistica  attualmente  in  onore  (pag.  239  a  241). 

Adunque  gli  uomini  del  periodo  preistorico  non  avendo  bisogno  di  morale  né  di 
metodo  compivano  naturalmente  le  gesta  che  loro  procuravano  la  maggior  potenza. 
Invece  gli  uomini  del  periodo  seguente  cominciano  ad  imitare  quelle  gesta  perchè 
loro  procurano  la  maggior  potenza,  perchè  più  proprii  a  coordinare  le  loro  attività 
in  un  fascio.  A  questo  punto  appare  il  legislatore  o  il  sacerdote  il  quale  sostituisce 
la  conseguenza  al  principio.  Sostituzione  che  in  seguito  accieca  gli  uomini  e  indica 
la  genesi  storica  di  ogni  morale,  cioè  converte  le  attitudini  che  erano  mezzi  per  con- 
seguire la  potenza  in  comandamenti,  a  cui  assegna  un'origine  divina  e  li  impone  alla 
credulità  degli  altri  uomini  col  timore  e  le  promesse,  coi  castighi  e  le  ricompense, 
e  così  il  bene  ed  il  male  prosciolti  dall'incatenamento  fenomenale  si  convertono  in 
idoli  razionali  che  prendono  il  posto  degli  antichi  idoli  teologici. 

Ma  altrove  l'autore  pensava  altrimenti  scrivendo:  all'origine  di  ogni  popolo  che 
si  fonda  appare  un  grand'uomo  ed  è  in  lui  che  l'istinto  della  razza  prende  migliore 
coscienza  rispetto  ai  suoi  bisogni  e  necessità  vitali  :  esso  in  nome  dell'istinto  vitale 


102  ROMUALDO    BOBBA  50 

e  di  felicità  forinola  un'igiene  fisica  e  morale,  codifica  le  misure  proprie  a  regolare 
le  attitudini,  a  determinare  gli  atti  in  vista  di  assicurare  la  forza,  la  durata,  la 
potenza  del  gruppo.  Per  assicurare  poi  l'osservanza  di  tali  precetti  loro  dà  il  carat- 
tere di  leggi  esteriori,  sanzionandole  con  un  sistema  di  pene  e  ricompense  immediate, 
inoltre  istituisce  finzioni  ricche  di  promesse  e  minacce  per  agire  mediante  immagini 
sullo  spirito  dell'uomo,  ed  è  cosi  che  l'istinto  vitale  nella  pienezza  della  sua  forza, 
ma  prevedendo  il  suo  indebolimento,  investisce  la  menzogna  conservatrice  di  autorità 
sovrana  (pag.  21).  Né  basta:  questo  taumaturgo  istinto  vitale  nemico  irreconciliabile 
della  conoscenza  ordina  colle  morali  l'insieme  delle  maniere  di  essere  che  gli  sono 
favorevoli,  e  per  fortificare  l'impero  delle  morali  inventa  paradisi,  fonda  teogonie, 
religioni,  una  filosofia  elementare  implicante  una  concezione  più  o  meno  netta  della 
persona  umana,  della  sua  destinazione,  del  mondo  e  del  suo  principio  (Ibid.,  22). 

Ora  è  lecito  domandare  quale  delle  due  origini  della  morale  o  delle  morali  dob- 
biamo secondo  l'autore  ritenere,  essendo  contraddittorie,  poiché  nel  primo  caso  l'au- 
tore ci  avverte  che  il  legislatore  o  sacerdote  colla  impudenza  di  un  sofista,  sostituisce 
la  conseguenza  al  principio,  la  quale  in  seguito  acceca  gli  uomini  e  segna  la  genesi 
storica  di  ogni  morale  (pag.  240),  mentre  nel  secondo  il  legislatore  o  sacerdote  in 
nome  dell'istinto  vitale  forinola  un'igiene  fisica  e  morale...  Ordina  colle  morali  l'in- 
sieme delle  maniere  di  essere  che  gli  sono  favorevoli  e  per  fortificare  l'impero  delle 
morali  inventa  paradisi  e  tante  altre  belle  cose  ex  poni  suo  senza  sostituire  conse- 
guenze di  sorta  al  principio.  Oltre  la  flagrante  contraddizione  vi  ha  ancora  qualche 
cosa  di  più  straordinario.  Nelle  due  supposizioni  si  dice  che  il  legislatore  o  il  sacer- 
dote impone  comandamenti  che  debbono  essere  osservati  dalla  razza  o  dal  gruppo 
di  uomini  a  cui  sono  diretti  ;  un  comando  suppone  necessariamente  che  sia  in  potere 
del  comandato  di  eseguirlo,  e  se  il  legislatore  li  accompagna  con  promesse  di  premi 
e  ricompense  per  chi  li  osserva,  e  con  minacce  di  pene  e  castighi  per  chi  non  li 
adempie,  suppone  necessariamente  che  sia  in  potere  dell'uomo  di  eseguirli  o  non  ese- 
guirli a  suo  grado,  cioè  che  l'uomo  sia  veramente  libero  da  ogni  necessità  estrinseca 
ed  intrinseca,  altrimenti  ogni  comando  come  ogni  proibizione  sarebbe  assurda. 

Ora  ecco  ciò  che  insegna  non  dubitativamente  ma  dogmaticamente  l'autore  al 
riguardo:  "  Les  hoinmes  comme  tous  les  autres  corps  naturels  font  toujours  ce  qu'il 
"  doivent  faire.  Mais  ils  ne  le  croient  pas.  Aux  causes  véritables  qui  les  font  agir  avec 
"  necessitò  ils  substituent  d'autres  principes  dont  ils  se  montreut  dupes.  C'est  de  la 
"  sorte  qu'ils  se  disent  libres  „  (pag.  144).  Adunque  se  tutti  gli  atti  dell'uomo  sono 
necessarii,  fatalmente  determinati,  come  può  l'autore  parlare  di  attitudini  che  pro- 
curano la  maggior  potenza  e  di  attitudini  che  non  la  procurano,  di  attitudini  che  i 
legislatori  trasformano  in  comandi  o  proibizioni,  e  di  tante  altre  cose  che  nel  fata- 
lismo assoluto  quale  è  professato  da  lui  non  hanno  senso.  In  tale  dottrina  parlare 
di  bene  e  di  male,  di  moralità  o  di  immoralità  è  beffarsi  del  lettore,  giacché  se 
l'uomo  fa  ciò  che  fa  perchè  è  quello  che  è,  cioè  opera  necessariamente,  non  si  può 
né  comandargli  né  vietargli  cosa  alcuna,  e  pretendere  che  l' istinto  vitale  mediante 
un  legislatore  comandi  o  proibisca  alcunché  è  una  assurdità  la  più  assurda. 


51  ESAME    STORICO    CBITICO    DELL'OPERA     "   DA    KANT    A    NIETZSCHE   _ 


XIV. 

L'autore,  come  se  ciò  che  disse  rispetto  all'origine  della  morale  fosse  oro  di  cop- 
pella, continua:  non  possiamo  tuttavia  passare  sotto  silenzio  il  contributo  portato  da 
Carlyle  alla  nuova  soluzione  del  problema  e  il  suo  ufficio  di  precursore.  Egli,  il  Carlyle, 
va  a  cercare  il  fatto  morale  là  ove  è  rinchiuso,  come  il  minerale  nella  rocca  della 
montagna,  e  questo  è  un  fatto  considerevole  all'uscita  dalla  metafisica.  Egli,  alla 
questione  chi  ha  creato  la  morale?  risponde:  l'istinto  dell'uomo.  Ecco  la  grande  sco- 
perta, ecco  trovato  il  minerale  nella  rocca  della  montagna  e  sopratutto  senza  fare 
escavazioni.  In  fatto  con  due  parole  egli,  il  Carlyle,  secondo  l'autore,  ristabilisce  il 
vero  rapporto  intervertito  dalla  teologia,  dissipa  il  qui  prò  quo:  poiché  ha  nettamente 
coscienza  che  il  fatto  morale  consiste  in  un  principio  di  coordinazione  distribuente 
secondo  una  gerarchia  gli  elementi  della  attività  in  modo  da  fare  ad  un  uomo  o  ad 
un  gruppo  d'uomini  il  loro  destino.  Ecco  cosa  a  cui  io  non  ho  mai  pensato,  cioè  che 
il  Carlyle  abbia  fatto  il  mio  destino,  e  dubitiamo  fortemente  che  altri  creda  ciò 
eccetto  l'autore.  Il  quale  picchiando  nella  rocca  scopre  che  il  principio  direttore 
non  è  più  il  Carlyle  che  lo  trova,  ma  appare  all' infuori  dell'intervento  dell'uomo, 
ed  è  un  primo  movimento  dell'incosciente,  esce  dalla  natura  dell'incognito.  Laonde, 
secondo  l'autore,  dell'incosciente  dell'inconoscibile  noi  sappiamo  appunto  perchè 
inconoscibile  molte  cose,  ad  esempio  che  egli  ha  una  natura,  in  secondo  luogo 
che  da  questa  natura  erompe  un  primo  movimento,  in  terzo  luogo  sappiamo  che 
prima  che  l'inconoscibile  producesse  il  primo  movimento  doveva  essere  necessaria- 
mente immobile.  Ciascun  vede  quindi  che  quando  l'autore  parla  dell'inconoscibile, 
si  deve  intendere  che  esso  è  inconoscibile  per  noi  che  non  ci  siamo  elevati  allo  stato 
d'intellettualismo  a  cui  sono  giunti  quelli  che  sono  presso  ad  estinguersi,  ma  per 
questi  l'inconoscibile  è  conosciutismo. 

Questo  principio  direttore  erompente  come  primo  movimento  dall'inconoscibile 
secondo  l'autore  si  converte  in  un  istinto,  esercita  una  coercizione  sopra  di  se  e  cosi 
manifesta  il  primo  atto  della  sua  autorità,  impone  il  silenzio  a  chi,  l'autore  non  lo 
dice,  probabilmente  a  sé  stesso,  e  ciò  che  è  più  notevole  impone  il  silenzio  prima 
di  proferire  comandi,  cioè,  siccome  imporre  il  silenzio  è  comandare  così  egli  l'istinto 
comanda  ossia  non  comanda.  Ed  è  perciò  che  all'origine  della  morale  individuale, 
come  della  morale  sociale,  si  trova  un  fatto  di  dominazione,  ossia  nei  due  casi  vi  ha 
il  trionfo  di  una  forza  che  impone  i  suoi  modi  di  essere  vuoi  ad  un  gruppo  di  centri 
nervosi  vuoi  ad  un  gruppo  d'uomini.  Adunque  primamente  dall'inconoscibile  erompe 
un  primo  movimento  il  quale  è  un  principio  direttore,  che  si  converte  in  un  istinto 
il  quale  comandando  cioè  non  comandando  esercita  una  coercizione  sopra  di  sé  eser- 
citando il  suo  primo  atto  di  autorità,  e  poi  questo  istinto  diventa  un  fatto  di  domi- 
nazione che  si  trova  all'origine  di  ogni  morale,  in  fine  il  fatto  di  dominazione  si 
converte  in  una  forza  che  impone  i  suoi  modi  di  essere  ad  un  gruppo  di  centri  ner- 
vosi o  ad  un  gruppo  d'uomini.  L'autore  dice  che  questa  concezione  dell'origine  della 
morale  scoppia  in  Carlyle  da  molti  luoghi:  così  egli  ammira  "  chez  les  anciens  Norses 
"  cette  sauvage  course  et  bataille  de  mer  durant  tant  de  géne'rations  „;  perchè  era 


304  ROMUALDO    BOBBA  52 

d'uopo  di  accertare  quale  fosse  la  più  forte  specie  di  uomini  che  doveva  comandare 
e  a  chi?  Io  dico,  è  Carlyle  che  parla,  talvolta  che  tutto  procede  per  sfida  di  guerra 
in  questo  mondo,  che  la  forza  ben  compresa  è  la  misura  di  ogni  merito.  Date  al 
tempo  una  cosa,  se  essa  prospera  è  una  buona  cosa  (Gli  Eroi). 

Tuttavia  a  lato  di  questa  attitudine  puramente  intellettuale  Carlyle,  secondo 
l'autore,  non  seppe  sottrarsi  intieramente  all'influenza  dell'ambiente,  e  perciò  non 
nasse  tutte  le  conseguenze  contenute  nel  suo  principio.  Laonde  Edmondo  Barthelmy 
(Thomas  Carlyle,  pag.  197)  scrive  che  il  tratto  caratteristico  della  concezione  di  Carlyle 
•  —  sentimento  della  identità  della  Forza  col  Diritto,  del  Valore  morale  colla  Intel- 
ligenza. —  Ma  il  De  Gaultier  trova  che  identità  non  è  abbastanza.  Imperocché  alla 
teologia  metafisica,  che  formola  con  Kant  il  primato  della  morale,  bisogna  opporre 
senza  ambagi  la  forza,  attesoché  avvi  apparente  identità  tra  la  forza  e  il  bene  finche 
4t1.Ha  rimane  stazionaria,  non  più  quando  essa  si  svolge.  Quindi  l'identità  ammessa 
da  Carlyle  tra  l'idea  di  bene  e  di  forza,  invece  di  proclamare  l'anteriorità  e  la  supre- 
mazia della  forza,  è  una  prima  concessione  all'antica  morale.  Inoltre  l'idea  del  dovere 
sembra  implicata  nella  massima  da  cui  erompe  una  presunzione  di  finalità:  l'uomo 
primieramente  si  mette  in  relazione  colla  natura  e  le  sue  potenze,  le  ammira  e  le 
adora;  in  seguito  discerne  che  ogni  potenza  è  morale,  che  per  lui  il  gran  punto  è 
la  distinzione  del  bene  e  del  male,  del  tu  devi  e  del  tu  non  devi.  Tutto  che  è  retto 
è  implicato  nel  fatto  di  cooperare  colla  reale  tendenza  del  mondo,  e  per  questo  fatto 
tu  riuscirai  (la  tendenza  del  mondo  riuscirà),  tu  sei  buono  e  nel  retto  cammino  (Gli 
Eroi,  p.  49).  Secondo  l'autore  la  difficoltà  sta  nel  decidere  in  quali  limiti  devono 
essere  trasportate  le  parole  adoperate  da  Carlyle  per  essere  ridotte  ad  esprimere  il 
suo  vero  pensiero,  per  sapere  se  egli  fu  o  non  fu  ingannato  dal  miraggio  della  sua 
coscienza:  ben  inteso  si  tratta  della  distinzione  per  Carlyle  del  bene  e  del  male,  del 
tu  devi  e  del  tu  non  devi.  Ma  l'autore  nota  che  alcuni  apprezzamenti  emessi  da 
Carlyle  negli  Eroi  e  nel  Sartoreswrtus  dimostrano  che  egli  mira  ad  un  mondo  di 
fatalità  pura  in  cui  la  morale  non  ha  accesso:  sarebbe  più  saggio,  pronuncia  Teu- 
felsdroeckh,  sottomettersi  all'inevitabile,  all'inesorabile,  e  riguardare  anzi  questo  come 
il  migliore  (Sartoressartus,  pag.  277).  Quindi  se  si  tiene  conto  di  questa  concezione 
di  un  fato  inesorabile,  sembra  che  debbansi  interpretare  come  immagini  e  apparenze 
le  parole  dovere,  bene,  male,  le  quali  all'infuori  di  una  teologia  sono  inconciliabili 
col  fatalismo:  è  verosimile,  aggiunge  l'autore,  che  Carlyle  riponesse  la  libertà  là 
dove  la  fatalità  della  sua  natura  lo  dominava  colla  più  inflessibile  violenza,  in  quel 
potere  di  sforzarsi,  sviluppato  in  lui  con  intensità,  potere  dato  come  tutto  il  resto, 
di  cui  non  era  responsabile,  ina  del  quale  potè  dimenticare  l'ufficio  puramente  rap- 
presentativo, di  guisa  che  l'illusione  della  libertà  colle  sue  conseguenze  morali  che 
ne  derivano  per  lui  rimase  attaccata  a  quel  potere.  L'autore  conchiude  che  pur  ren- 
dendo la  giustizia  che  è  dovuta  a  Carlyle,  cioè  che  fu  un  precursore  del  Nietzsche, 
non  seppe  tuttavia  dedurre  dalla  sua  concezione  tutte  le  conseguenze,  poiché  invece 
di  proclamare  l'identità  dell'idea  del  Bene  e  della  Forza,  doveva  invece  affermare 
assolutamente  l'anteriorità  e  la  supremazia  della  Forza.  Così  anche  il  Carlyle  non  ha 
saputo  elevarsi  allo  stato  d'intellettualismo  voluto  dalla  morale  estetica  dell'autore. 


53  ESAME    STORICO    CRITICO    DELL'OPERA    "   DA    KANT    A    NIETZSCHE   „  505 


XV. 

Nello  scrivere  questa  recensione  ci  siamo  più  volte  chiesto  se  veramente  meri- 
tava la  pena  di  consacrare  al  libro  del  De  Gaultier  un  così  lungo  e  faticoso  studio, 
e  ci  parve  di  poter  rispondere  che  il  far  conoscere  le  teorie  di  un  autore  il  quale 
ci  si  presenta  come  il  paraninfo  della  filosofia  di  Nietzsche,  la  filosofia  dei  superuo- 
mini,  e  che,  come  abbiamo  veduto,  si  dimostra  così  versato  nella  storia  della  filosofia, 
specialmente  anteriore  alla  Critica  della  Ragion  pura,  potesse  ottenere  il  suffragio  dei 
cultori  di  quella. 

Noi  per  principio  ammettiamo  la  più  grande  libertà  nel  filosofare  ;  ma  crediamo 
che  la  critica  delle  opinioni  di  coloro  che  dissentono  dalle  nostre  teorie  debba  essere 
condotta  con  quella  urbanità  che  non  si  scompagna  mai  da  chi  cerca  spassionata- 
mente il  vero.  Ora  leggendo  il  De  Gaultier  e  tenendo  conto  della  acerbità  con  cui 
giudica  le  opinioni  filosofiche  e  i  filosofanti  che  non  condividono  le  sue  teorie  ci 
siamo  troppo  spesso  trovati  nel  caso  difficile  "  d'éviter  l'apparence  de  quelque  gros- 
"  sièreté  en  acceptant  la  tàche  trop  aise'e  de  montrer  l'incohe'rence  d'un  tei  système 
"  de  chimères  (cioè  di  quello  dell'autore),  et  le  bon  sens  paraìt  ici  défaut  de  tact  „ 
(pag.  39),  parole  che  esprimono  pienamente  l'impressione  che  riceve  chi  legge  seria- 
mente il  suo  libro.  In  fatto  che  cosa  si  può  pensare  di  uno  scrittore  che  dopo  aver 
condannato  tutti  i  sistemi  che  pongono  a  base  della  morale  il  dovere  si  propone 
seriamente  una  morale  che  è  un  intellettualismo  puro  e  semplice,  consistente  in  uno 
spettacolo  di  cui  gli  intellettualisti  sono  gli  spettatori,  che  si  astengono  dal  portare 
giudizi  di  bene  o  di  male  delle  cose  e  degli  atti  che  non  possono  essere  altrimenti 
di  quel  che  sono,  che  non  si  domandano  mai  ciò  che  devono  fare  e  ciò  che  la  società 
deve  fare...  Che  questa  morale  estetica  veramente  non  potrebbe  prevalere,  non  essere 
che  l'appannaggio  di  un  piccolo  numero,  perchè  se  si  generalizzasse  verrebbero  a  man- 
care gli  attori  e  lo  spettacolo  cesserebbe.  Se  non  che  sappiamo  che  l'autore  ha  pre- 
mura di  aggiungere  che  un  tale  appetito  di  conoscenza  pura  non  si  manifesta  in  alcuni 
esseri  se  non  "  vers  les  derniers  stades  de  leur  évolution  phénoménale,  chez  des 
8  races,  et  des  familles,  chez  des  individus  proches  de  leur  extinction  ,  (pag.  176-177). 
Il  che  ci  assicura  che  la  morale  estetica  degli  intellettualisti,  tra  cui  certo  primeggia 
l'autore,  non  sarà  mai  la  morale  degli  uomini  assennati. 


Serie  II.  Tom.  LUI.  39 


V°  Si  stampi: 
Enrico  D'Ovidio,  Presidente. 

Lorenzo  Camerano 
Segretario  della  Gasse  di  Scienze  fisiche,  matematiche  e  naturali. 

Rodolfo  Renier 
Segretario  della  Classe  di  Scienze  morali,  storiche  e  filologiche. 


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