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IN 3IEM0RIA
NAPOLEONE CAIX e UGO ANGELO CANELLO.
MISCELLANEA
FILOLOGIA E LINGUISTICA
G. I. Ascoli — C. Avolio — L. Biadene — J. Cornu — V. Crescini
A. D'Ancona — F. D'Ovidio — G. Fi.echia — F. Ct. Fumi — G. B. Gandino
A. Gaspary — M. Gaster — G. Gròber — J. Leite Dk Vasconceli.os — P. Merlo — G. Meyek
P. Meyer — 0. MicuAELis De Vasconcellos — F. Miklosioh— M. Miti — A. Miola — E. Monaci
G. Morosi — A. Mussapia — F. Neumann — F. No vati — M. Obédénake — C. Paoli— G. Paris
S. Pieri — P. Eajna — R. Renier — C. Salvioni — E.Stenqel — H. Suchier
A. ToBLER— P. VlLLARI^B. WlESE — ÌST. ZlNUARELLI.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1886.
Proprietà degli Editori.
PREFAZION^E.
Nel maggio del 1883 s' inviava a molti cultori degli studi neola-
tini il manifesto seguente:
« È sorto in Firenze, tra colleghi e amici del compianto profes-
» sore Napoleone Caix, il pensiero di consacrare alla memoria di lui
>■■ un volume, a comporre il quale concorrano dotti romanisti italiani
» e stranieri.
» Si è perciò costituito un Comitato, composto dei sottoscritti,
» il quale con questo manifesto fa appello ai più valenti cultori degli
» studi romanzi, perchè vogliano con qualche loro scritto prender
> parte a questo volume.
» L' onoranza che si vuol fare al Caix non pretende punto di pa-
» reggiarsi, nell' intento e nel significato, a quelle che in simil maniera
» si rendono, come per filiale rimpianto, alla memoria di grandi mae-
» stri, mancati dopo aver tutta percorsa una splendida via di fatiche e
» di glorie; bensì essa vorrebbe esprimere solo il compianto per la fine
» immatiira di uno studioso valentissimo, acuto, ingegnoso, laborioso,
» per una operosità nobilissima tronca sul più bello dalla moi'te, per
» una speranza dolorosamente mancata. — Graziamo Ascoli, U. A. Ca-
» NELLO, Giovanni Flechia, Ernesto Monaci, Giuseppe Morosi, Fran-
» CESCO d' Ovidio , P. Rajna.
Un mese appena era scorso, e dei sette colleghi che s'erano qui
uniti per procacciare onore al nome dell' amico defunto, uno, e dei più
giovani, era ancor egli, e in modo tragico, strappato alla vita. Troppo
naturale che i due lutti, ugualmente amari e inaspettati, apparissero
inseparabili ai superstiti, e che U. A. Canello si volesse associato al-
l' opera pietosa nel solo modo che rimaneva possibile, in quanto cioè
il volume fosse intitolato a lui nella maniera stessa che al Caix.
Comunicata anche questa idea ai compagni di studio, essa trovò
la medesima accoglienza simpatica che aveva ricevuto il primo invito.
E non tardarono a giungere scritti; e più numerose degli scritti s' eb-
bero care promesse.
Per una parte, il desiderio che queste promesse avessero adempi-
mento senza troppo scomodo dei gentili da cui s' erano avute, per un' al-
tra, non pochi inciampi d'ordine materiale, hanno mandato la stampa
molto più in lungo di quel che si sarebbe voluto e dovuto. Di ciò si
chiede scusa ai benevoli collaboratori; e pur troppo non si può più
chiedere a tutti. Non si può chiedere a quel valentissimo che fu Ema-
nuele ^lila y Fontanals, dal quale s' arrivò appena in tempo a ricevere
vma piccola, eppur cara offerta; non si può chiedere a Michele Obé-
dénare, uomo quanto mai stimabile, come per altre doti, così per
l'amore intenso che in mezzo alle cure diplomatiche portava agli studi.
Questa nostra Miscellanea, potuta pubblicarsi grazie al disinteresse
della Società Editrice « Successori Le Mounier », è riuscita ricca e sva-
riata, tanto da potersi ben dire efficacissimo testimonio della comu-
nanza di sentimenti che la scienza produce. E ancor più ricca e svariata
sarebbe riuscita se ostacoli di varia natura non avessero congiurato a
toglierle vari contributi.
Carlo Joret, Wendelin Foerster, Enrico Morf, Paolo Gellrich, Fe-
lice Bariola, ed altri ancora, non appajono nel volume per cause indi-
pendenti dalla loro volontà.
A tutti quanti — cosi a coloro che hanno contribuito come a quelli
che avrebl)er voluto e non poterono — siano rese grazie di cuore. E
grazie particolarmente agii stranieri, anche a nome, se non è troppo
arrogarsi, dell' Italia nostra, cui questo largo rimpianto è cagione di
conforto, d'orgoglio, e di fiducia per l'avvenire.
NAPOLEONE CAIX
UGO ANGELO CANELLO.
NAPOLEONE CAIX/
La morte immatura di questo giovane filologo fu una grave perdita per la
scienza italiana, una sventura irreparabile per gli amici che conobbero le nobili
qualità dell' animo suo.
Nato a Bozzolo, provincia di Mantova, il 17 agosto 1845, fece i suoi studii secon-
darli a Cremona, dove insegnava fra gli altri il professore Trezza, e dimostrò subito
un ardore indomabile nel lavoro, una singolare attitudine alla conoscenza delle
lingue. Nel 1859 abbandonò la casa paterna, per arruolarsi volontario nell' esercito
italiano; ma per la giovane età e la troppo gracile salute, dopo una visita medica,
non fu accolto. Dovè quindi tornarsene a casa assai sconfortato , non solo perchè
gli veniva cosi vietato di dar, come voleva, il suo sangue alla patria; ma perchè
questo rifiuto era un triste presagio a lui, che aveva già visto parecchi della sua fa-
miglia morire di tisi. Una vita sempre temperata e metodica, costumi sempre in-
tegerrimi e purissimi lo fecero per molti anni vivere sano, senza quasi mai amma-
larsi. La freschezza del suo colorito lo avrebbe anzi fatto credere di florida salute,
se gli occhi infossati e mutabili, ora luminosi e vivaci, ora quasi vitrei e spenti,
non avessero destato qualche dubbio in chi lo avvicinava. Era eccessivamente nervo-
so: spesso un velo di mestizia copriva il suo volto giovanile; ma non pareva del re-
sto che alcun male lo travagliasse.
' Queste poche parole, salvo alcune modificazioni qiii necessarie, furono scritte appena che giunse in Firenze
l' annunzio della morte immatura del prof. Caix. Con animo grato accettai 1' onore ohe mi fu fatto , quando dal
Comitato che presiede alla compilazione di questo volume, venne proposto di ripubblicarle. Ma esso non preten-
dono d' essere né una biografia del prof. Caix, né molto meno un esame critico delle sue opere, che sarà qui fatto
da un professore di lingue e letterature neo-latine. Sono la espressione del dolore che colpì allora gli amici, una
brevissima commemorazione scritta da chi si sentiva allora e si sente adesso, ijer la grave perdita, come moral-
mente mutilato. Col Caix rimaneva sepolta una parte di me stesso. La sua immagine mi ricorda solo una lunga
serie Cd fidati colloqui! e d' ore felici, che non torneranno mai iiiù. Non potrei quindi esser né un biografo né
un critico.
Tornò a scuola con raddoppiato ardore, e dopo aver compiuto gli sludii liceali
con grandissima lode, venne in Pisa per concorrere ad un posto di studio nella
Scuola Normale Superiore, 1' anno 1862. Fu primo tra molli valorosi concorrenti.
Fece assai buona prova nel greco e nel latino; già leggeva libri inglesi e tedeschi.
Nella Università, dove io lo ebbi discepolo, dimostrò singolare attitudine ad ogni
disciplina letteraria o filosofica; ma la sua passione era per le lingue, che appren-
deva con una facilità maravigliosa. Continuò lo studio del greco, del latino, del-
l'italiano; cominciò ad imparare il sanscrito, l'arabo, l'ebraico, a studiare i
monumenti delle antiche lingue italiche: la sera si esercitava a parlare il greco
moderno con alcuni studenti delle Isole Ionie, che erano colà. Pareva singolare
che in cosi giovane età non avesse altra passione che lo studio, e nella vita non
conoscesse altra gioia che il lavoro. Di questo i suoi compagni spesso lo canzona-
vano, ed egli ne rideva ingenuamente.
Ciò che dette nel giovane Caix la prova di un ingegno assai fuori del comune,
fu la sua tèsi di abilitazione all'insegnamento, presentata nel luglio 4865. Educato
alla scuola del D' Ancona, del Comparetti, del Lasinio, egli scelse a tèma del suo la-
voro r origine della lingua italiana, e subito dichiarò che a questo studio avrebbe
consacrato la sua vita intera. Nominato più tardi professore di greco e latino nel Liceo
di Parma, la tèsi divenne un libro sulla Storia della Lingua e dei Dialetti d' Italia. Il
libro non fu senza difetti, come il Caix stesso riconosceva per primo. Pure fu notevole
assai che sin d' allora egli vedesse la necessità d' uno studio metodico sulla storia
della lingua e dei dialetti italiani, per rintracciare le origini vere della nostra poesia,
e fare una storia nuova della nostra letteratura. Cosi egli fu dei primissimi a far
parte della nuova scuola di filologia romanza e di critica letteraria, come fu certo il
primo che ricercasse con metodo scientifico la diversità dei varii idiomi toscani. I
pregi del suo libro, non ostante i difetti, riuscirono perciò tali, che i professori
deli' Istituto di Studii Superiori in Firenze proposero che il giovane autore venisse
incaricato dell' insegnamento della dialettologia italiana, cattedra che venne poi
mutata in quella di lingue romanze. Fu pel Caix un grande ed inaspettato incorag-
giamento, ed allora incominciò davvero la sua operosità scientifica.
Di questi incoraggiamenti, che gli dettero e gli continuarono sempre i col-
leghi dell' Istituto, egh aveva proprio bisogno. Al suo cammino nella vita c'era in-
fatti un ostacolo continuo, piccolo in apparenza, ma in realtà grandissimo. La pas-
sione dello studio lo faceva vivere come fuori del mondo, quasi in una continua
astrazione; ed aveva contratto un abito singolare di esprimere il suo giudizio sugli
uomini e sulle cose in un modo assoluto, come se si trattasse solo e sempre di
problemi scientifici, senza tener conto alcuno dell'effetto che le sue parole pro-
ducevano su chi le ascollava. Spesso anche, per ridurre a formolo scientifiche il
suo pensiero , esagerava nel conversare al di là della sua intenzione. A chi poco
lo conosceva, sombrava perciò superbo, anche velenoso. Ma chi poi lo avvicinava,
doveva subilo accorgersi che in lui non entrò mai goccia di fiele; che egli poteva
ingannarsi o esagerare nell' esprimersi; ma non conosceva nò rancori, né gelosie,
né orgoglio. Era un animo nobilmente devoto al culto del vero, incapace d' alcuna
bassezza, d'alcuna finzione. La stessa sincera onestà che poneva nelle sue ricerche
scientifiche, guidava la sua condotta nella vita. E la prova di ciò si ha nel fatto, che
alcuni di coloro che più s' erano irritati contro di lui alle prime apparenze, furono
poi tra quelli che più lo amarono, quando lo conobbero davvero. Avvertilo qualche
volta da' suoi amici della durezza delle sue parole, egli prima rispondeva improv-
viso: — Ma è vero o non è vero? — Poi s' affliggeva d' aver recalo dolore a qual-
cuno, e se ne affliggeva tanto e cosi lungamente, che faceva passare la voglia di
ripetere r avvertimento. Ma tutto questo, massime in un paese cosi pieno di ran-
cori come il nostro, gli fece grandissimo danno. E continuamente dovè vedere in-
coraggiati, promossi giovani che valevano assai meno di lui. Non fu mai geloso di
chi aveva un vero merito; ma spesso ripeteva: — Non so perchè anche a me
non si possa rendere giustizia. — A chi gli suggeriva di ricorrere a raccomandazioni
d' uomini poUiici, rispondeva: — Meglio restar come sono. — Assolutamente inca-
pace di farsi strada per vie traverse, seppelliva i suoi tristi pensieri sotto uno
studio raddoppiato, che gli recava poi danno alla salute.
La sua venuta in Firenze, sebbene come semphce incaricato della cattedra,
lo aveva tuttavia messo in condizione da poter lavorare più tranquillamente, ed in
diversi anni die fuori una serie non interrotta di Memorie letterarie o filologiche
sulla storia della lingua e della letteratura italiana. Sostenne per le stampe dispute
vivaci, nelle quali si lasciò qualche volta trascinare ad esagerare un po' troppo
le sue idee. Ma il prof. F. d' Ovidio, che fu uno dei suoi più acuti edotti contrad-
dittori, con vera nobillà d'animo scriveva, che anche allora le idee del Caix
erano « come un lievito per le idee altrui, o come un reagente, che corrodeva la
parte viziala di queste. La discordia di lui era feconda. L' opera di lui era utilis-
sima anche quando pel momento ci frastornava. Negli studii della filologia italiana
resterà per molli anni fra noi l'eco del suo lavoro. »
Tutte queste ricerche dimostravano la vastità delle sue cognizioni filologiche,
l'acume delle sue indagini, e gU guadagnarono ben presto la stima dei dotti ita-
liani e stranieri, specialmente dei tedeschi, che parlavano e scrivevano di lui con
gran lode. Esse erano però solo apparecchio ad opere di maggior mole, che da lungo
tempo il Caix meditava. Un primo saggio se ne vide ne' suoi Studi di etimologia
italiana e romanza, in aggiunta al vocabolario del Diez (Firenze, 4878), che
ebbero molte lodi, non però senza critiche. Ma il prof, d' Ovidio, pure insistendo
su queste critiche, diceva che il nuovo lavoro del Caix era un complemento neces-
sario al gran lessico del Diez , e che quasi in ogni pagina vi si trovava qualche
ingegnoso trovato o qualche nuova notizia. Il Caix, sempre studiando, sempre mi-
gliorando, proseguiva instancabile queste sue ricerche, con l'intendimento di com-
pilare un dizionario etimologico della lingua italiana. Ma 1' opera di magggior mole
che potè dare alla luce, fu quella che ha per titolo: Delle origini della lingua poe-
tica italiana (1880). Alla vasta raccolta di materiale linguistico in essa raccolto e
metodicamente esaminalo, doveva essere aggiunta una dissertazione generale, che
non potè essere scritta, perchè stringeva il tempo prefisso ad un concorso, cui
r autore voleva presentarsi. Con un lungo studio dei dialetti, con un esame ac-
curato dei manoscritti antichi, egli cercava determinare le origini e l'indole del nostro
linguaggio poetico, spiegare le ragioni della sua diversità dal linguaggio adoperato
nella prosa. Io mi asterrò dal dare qualunque giudizio sopra uno scritto, del quale,
come di lutti gli altri, sarà nelle pagine che seguono determinalo il valore scien-
tifico. Dirò solo che, se la novità e l'audacia qualche volta eccessiva delle ricerche,
qui come in altri lavori, spinse il Caix ad affrontar difficoltà non lutle felice-
mente superale, egli fece concapire di sé speranze sempre maggiori. L'illu-
stre prof. Ascoli, nell'Accademia dei Lincei, non tralasciando di .notare i di-
fetti, fece pure amplissime lodi al nuovo scritto, che dichiarò di gran lunga il
migliore di quanti ne aveva fino allora pubblicali il giovane e già chiaro filologo. Il
premio fondato da S. M. il Re Umberto fu vinto dal prof. Rajna; ma il Caix ot-
tenne r Accessit e potè esser lieto d' avere già preso un posto eminente fra i
filologi italiani. Spronato sempre dallo stesso ardore, si pose subilo con maggior
zelo ad altri lavori.
Dopo un viaggio nella Rumenia, egli intraprese a Firenze una nuova opera
sulle lingue dei popoli balcanici e sulle relazioni che esse hanno con l' italiano.
Quest' opera, almeno in parte compiuta, avrebbe dovuto trovarsi fra i suoi mano-
scritti, insieme col materiale raccolto pel Dizionario etimologico; ma tutte le ri-
cerche fatte per rinvenirla riuscirono vane. Ad essa egli aveva di certo lavorato la
state del 1881, senza posa, con uno zelo cosi febbrile, che gli amici cominciarono
a temere della sua salute.
L' ultimo lavoro che ci resti di lui è una conferenza letta nel Circolo filolo-
gico di Firenze, e pubblicata nella Nuova Antologia (Aprile 1882). Fece allora la
storia e la critica del Tartufo del Molière, esaminando i precursori del grande
comico francese e le fonti del suo capolavoro. Conchiudeva con un paragone fra
Y Ipocrita dell'Aretino ed il Tartufo, dicendo: « Qui meglio che altrove si ri-
vela la distanza tra il poeta cinico, a cui è indifferente la qualità morale del suo
eroe, pur che esso serva al suo scopo di for divertire, ed il poeta che ha in vista
il tempo e la società in cui vive, che si appassiona per il vero e per la giustizia,
e prende viva parte alla lotta dei pochi onesti e ben pensanti contro le arti della
menzogna. » Queste si può dir che siano le ultime parole scritte dal Caix, quasi il
suo leslamento; ed esse ritraggono al vivo il suo nobile animo. La ricerca del vero
era per lui come una lotta pel trionfo della virtù. Nò alcuno potrà mai descri-
vere tutta la squisita delicatezza del suo sentire.
Allora il Caix era stato dai suoi colleglli proposto professore ordinario. Una
serie di ritardi imprevisti, nei quali egli vedeva la solita avversità della sua sorte,
lo afflissero amaramente, ed al solito cercava unico sollievo nel lavoro raddop-
piato. Finalmente la Commissione che esaminò i suoi titoli, lo propose con parole
lusinghiere, e venne il decreto di nomina.
Ma il suo aspetto intanto diveniva ogni giorno più triste. Assai spesso nell'inverno
del 1882, io lo vidi verso le 4 pom. entrare nel mio studio, come umiliato per non
avere potuto protrarre il lavoro fino a sera. — Vogliamo fare una passeggiala? — egli
diceva, — non ho più la forza d' una volta. — E si andava. Finalmente lo indussi a
consultare un medico, che gli consigliò una cura idropatica. La fece nella state,
alla Vena d' Oro presso Belluno, e gli pareva di star meglio. Parti poi per Vienna,
l'Ungheria e la Russia, al solito con uno scopo scientifico; ma giunto a Buda-
Pesi, non si semi voglia di continuare: gli pareva di non star bene, e tornò im-
provvisamente a casa. Il viaggio fu lungo e faticoso, perchè dovette traversare i
paesi inondati del Veneto; arrivò stanco ed abbattuto a Bozzolo; ma nulla accen-
nava ad una vicina catastrofe. Parve anzi riaversi e star bene, quando cominciò
inaspettatamente a sputar sangue, e poi lo assali una febbre violenta, che in una
settimana lo condusse alla tomba, il giorno 22 ottobre 1882, in età di 37 anni.
Non aveva ancora dato una sola lezione come professore ordinario.
Quando per la prima volta la sorte sempre avversa gli sorrideva, quando il
suo nome era già divenuto chiarissimo, e i nuovi lavori che aveva apparecchiati
gli facevano sperare una gloria maggiore, fu immaturamente rapito ai parenti,
agli amici ed alla scienza. Egli combattè tutta la vita 1' onesta battaglia perla con-
quista del vero, e cadde come un prode soldato della scienza. I suoi costumi fu-
rono purissimi, nobile il suo animo, elevalo il suo carattere. Il suo sguardo era
sempre rivolto alla contemplazione del vero. Pareva che le cose di questo basso e
torbido mondo assai poco 1' occupassero. Perchè le parole sono impotenti ad espri-
mere quello che si sente, tanto più impotenti quanto più profondo è il dolore che
ci opprime?
P. VlLLARI.
— XIV —
GLI SCRITTI.
La prima volta il nome del Caix si mostrò al pubblico letterato nella neonata
Rivista Bolognese (febbraio 1867), appiè di uno scritto SuW origine della lingua
italiana e sopra la dissertazione di Cesare Canta premiata dall' Accademia Pon-
taniana (pag. 157-173). Far sentire una voce meritamente severa intorno a
questa dissertazione, è manifestamente lo scopo dell' articolo. L' autore tuttavia
non ci viene che all'ultimo, dopo essersi trattenuto lungamente a discorrere
dello stato della questione, dando prova di sodo intelletto, e mostrando di aver
familiare, cosi la letteratura speciale dell'argomento, come la letteratura linguistica
in genere. C'è, se si vuole, un certo sfoggio in quelle pagine: sfoggio peraltro non
vano, e promettente assai.
Alcuni mesi dopo il Caix discorreva nel Politecnico (giugno 1867, Parte letter.-
scientif., Serie IV, tora. Ili, pag. 661-67) del Cohelet, a proposito della traduzione,
con introduzione e note, pubblicala 1' anno innanzi da David Castelli. Appariva
anche in questo scritterello elevatezza di pensiero ed ampiezza di coltura. Se il
Caix parlava di un libro ebraico, quel libro egli sapeva leggerlo nel testo, non già
nella versione soltanto. Che egli non conosceva la ciarlataneria che permette di
scriver di materie in cui non si sia addottrinati.
L' articolo sul Cohelet era un portato di quella fase nello svolgimento del-
l'ingegno del Caix, che potrebbe dirsi la sua « Sturmperiode »: la fase in cui
dentro all' immenso edificio della Filologia e della Linguistica egli s' andava af-
facciando con curiosità insaziabile a molte e molte porte, mai non contentandosi
di rimaner sul limitare. Né paga ancora, la sua mente, assetata di idee non meno
che di fatti, correva spesso ad abbeverarsi di sludi filosofici.
Queste simpatie speculative associale alla svariatezza del sapere si sarebbe
pensato che dovessero portare il Caix a rivolgere la sua attività ad argomenti
quanto mai vasti. Ma in lui, insieme col desiderio di saper molte cose, era vivis-
simo il bisogno del saper bene e dell'approfondire; bastò pertanto l'essergli ac-
caduto di buon'ora di rivolgere l'attenzione ad un soggcllo speciale di ricerca,
perchè il viaggiatore instancabile si convertisse nel più pertinace dei minatori.
Il sog,"etlo, come già s'è udito da altra bocca, consisteva nella storia della
lingua italiana; ed è per ciò che nella questione delle origini dì questa nostra lin-
gua il Caix aveva osato parlar alto contro un uomo della fama e dell'ingegno di
Cesare Cantù. Chi scriveva a quel modo slava allora appunto tormentando la sua
lesi di abilitazione per ridurla nella forma in cui vide in parte la luce più anni dopo.
S' ebbe cosi nel 1872 il Saggio sulla Storia della Lingua e dei Dialetti d' Italia,
con un Introduzione so-pra l' origine delle Lingue neolatine (Parma, a spese del-
l' autore).
La giudiziosa e lucida Introduzione fu poi lodata dall' Ascoli {Arch. GlottoL,
II, 412). Quanto al Saggio vero e proprio, era una prova luminosa d'ingegno, di
attitudini, di sludi; conteneva pagine veramente belle di considerazioni compren-
sive e un numero non piccolo di verità spicciole acutamente trovate e osservale;
per il primo poi il Caix concepiva il soggetto con tanta larghezza, abbracciando in-
sieme e la lingua lelteraria, e i dialetti della Toscana, e quelli dell' Italia intera,
col proposilo di studiarne e chiarirne i rapporti. In pari tempo tuttavia il Saggio
rivelava un fallo deplorevole, del quale il Caix sopportava le conseguenze senza che
in gran parte fosse sua la colpa. Si rammentino le condizioni poco felici in cui si
trovavano veni' anni fa gli studi romanologici, qui da noi soprattutto. Mancavano
pressoché dovunque i maestri , e i metodi rigorosamente scientifici non s' erano
ancora divulgati. L'esempio e l'impulso potente dell'Ascoli non avevano ancor co-
minciato ad agire sui lontani. Il Caix s' era pertanto messo al lavoro senza criteri
ben sicuri, e senza neppure la coscienza che questi criteri gli mancassero. Non so-
spettava nemmeno che a chi aveva tra le mani le opere del Diez, del Bopp, del Poti,
di Leone Meyer, e su quelle aveva vegliato e sudalo, discepolo devoto e singolar-
mente perspicace, potesse nondimeno accadere, non propriamente di sbagliar di-
rezione, ma di procedere alquanto a sghimbescio, per altra via che per la diritta.
Sicché accadde un poco al Caix quel che suole accadere a coloro, che, avendo pur
sortito da natura disposizioni mirabih per la musica, imparano a sonare da se me-
desimi. Ben difficile che non contraggan difetti, da cui non si libereranno forse
mai più. Nel Caix il vizio principale consistette nell' attribuire una funzione ecces-
siva all' etimologia, e nell' abbandonarsi alla soluzione dei problemi etimologici
senza il freno di una rigorosa disciplina fonetica. Non s'accorse che a questo modo
dallo sladio del Diez e dei continuatori suoi si lasciava in certo modo risospingere
verso quello del Muratori. Cosi per una parte gli riuscì poi difficile di coglier nel
loro insieme i caratteri distintivi di un linguaggio e delle sue varietà; per un'altra
gU avvenne di convincersi — e in lui le convinzioni mettevan subito radici pro-
fonde — di molte derivazioni fallaci, le quali, oltre al costituire altrettanti errori
isolali, diventavano esempio e prova di trapassi di suoni tutt' altro che dimostrati
e legittimi, servendo così di punto di partenza a nuovi traviamenti.
Ed anche un' altra pecca non può esser taciuta. Allorché il Gaix componeva
il Saggio, ancora non s' era reso ben familiare il metodo storico in genere. Da
ciò, se non erro, l'aver adottato una disposizione, di cui non si capisce bene il
congegno, e non conforme di certo alle esigenze dell' argomento. Da una disposi-
zione non buona si origina sempre una proporzione viziosa ancor essa; e quel
eh' è peggio, ne soffre assai il rigore logico, sicché, o non si conchiude, o si con-
chiude in modo non vero, o dicendo pur cose vere ci si trova non le aver di-
mostrate.
Difettosa quanto si vuole, 1' opera del giovane linguista conteneva nondimeno
tanto di buono, che la continuazione non poteva non essere assai desiderata. Ma se
la desideravano gli altri, il Gaix, sempre meno contento del lavoro suo, non si deci-
deva a darla fuori; e cosi, condusse bensì innanzi la stampa per un buon tratto
ancora, ' ma poi finì per lasciarla in tronco. Si fosse deciso a compiere il lavoro,
non se lo sarebbe più lasciato uscir di mano altro che in forma ben rimutata; e
allora ne sarebbe andata di mezzo 1' armonia colla parte pubblicata di già. Prima
ancora che 1' Ascoli le pronunziasse, egli aveva sentito la verità di quelle sue pa-
role, che « le esigenze di codesta armonia » gli si dovevano poi rendere « per sua
fortuna addirittura moleste » nel « dettare il compimento del volume » {Arch.
Glottol, loc. cit.).
Nel periodo fiorentino, il primo fatto che sia a notare del Gaix è la feconda
discussione impegnatasi tra lui e lo Storm a proposito della memoria del filologo
norvego « Sur les Voyelles atones du latin, des dialecles italiques et de l'italien »
[Mémoires de la Società de Linguistique , tom. II, Parigi, 1873). Il Gaix pubblicò
neir effimero Ateneo (tom. I, pag. 358-65, 15 maggio 1874) una recensione, dove
rimproverava all' autore di aver trascurato « le due cause che in italiano determi-
nano molto spesso di per sé sole le modificazioni della vocale «: le consonanti in
contatto, e il posto occupato nel corpo della parola. Ne nacque una polemica, al-
quanto aspra sulle prime, ma che prese poi subito il tuono di una pura e serena
discussione scientifica. ' Si venne a precisare in che propriamente consistesse il
dissenso: lo Storm voleva che l'attuale vocalismo toscano rappresentasse un ri-
torno al vocalismo del latino classico, seguilo ad un periodo in cui il vocalismo
' Furono tirati perlomeno sei fogli (pag. 161-25G), tli cui bo davanti lan esemplare trovato tra le carte del
Caix. Contengono il termino del capitolo 5»; un capitolo 0' (pag. 190), che è come una seconda parte del 5» e che
tratta delle < Relazioni fonetiche > tra il dialetto . toscano e gli altri dialetti d' Italia », e per ultimo un capitolo T"
(pag. 212), mancante della fine, intitolato < I dialetti toscani e la favella letteraria ».
'• Nella Mivista Europea: Storm, anno 5', t. Ili, pag. 592-596 (agosto, 1871); Caix, ib., pag. 598-599 ; — Storm,
anno 6», 1. 1, pag. 178-1S2 (dicembre, 1S74); Cai.x, t. cit., pag. 535-593 (febbraio, 1675).
fosse invece quello del Ialino arcaico e volgare, che gli pareva essersi perpetualo
senza vicende nei dialetti dell' Alta Italia; il Caix invece contesta il ritorno, e ri-
pete immediatamente dal vocalismo classico il vocalismo toscano, e segnatamente
il fiorentino. Una Seconda risposta al fdologo scandinavo, dopo aver visto la luce nella
Rivista Europea, fu, con molti ritocchi, tirata anche à parte in forma di opuscolo,
ricevendo il titolo di Osservazioni sul Vocalismo italiano (Firenze, 1875): osserva-
zioni appoggiale in questo caso a uno studio fonetico assai accurato, e atte anche
da sole a mostrare come gli errori di metodo ripetessero proprio nel Caix la loro
origine principalissima da abili viziosi e da difetto di istituzione, non dalla natura
dell' ingegno suo. Bensì è da ammettere che contribuisse mollo a perpetuarli la
tenacia del carattere.
Non si veniva smentendo frattanto la predilezione del Caix per l'indagine eti-
mologica; Studi Etimologici egli cominciò a stampare nel già ricordato Ateneo
(tom. II, pag. 14-20 e 264-268: 15 luglio e 15 ottobre 1874), continuandoli piti
tardi, prima nella Rivista, e poi nel Giornale di Filologia Romanza {Riv., II,
112-113, 173-176, 228-231; Giorn., I, 48-50; II, pag. 71). A questa medesima
classe di lavori appartengono vari altri articoH: una recensione del Beitrag fiìr
Kundc der Norditalienischen Mundartenim XV. Jahrhunderte del Mussafia [Rivi-
sta, II, 54-59);' uno scritto intitolato assai impropriamente SuW Etimologia
spagnuola [Giornale, II, 66-70), che è una serie di osservazioni agli Studien zur
Tornanischen Wortscliopfung della Michaelis;le 'pagine Sul pronome italiano (ib., I,
43-47); inoltre. Voci nate dalla fusione di due temi [Zeitschrift fiir romanische
Philologie, I, 421-28), dove si tratta per disteso di uno dei procedimenti studiali
in una dissertazioncina che ancor essa appartiene qui più che non farebbe sup-
porre r intitolazione, Le alterazioni generali nella lingua italiana [Riv. di FU.
rom., II, 71-81).
Tutti questi scritti, a quel modo che essi medesimi eran come sgorgati dal
Saggio — sia da quel tanto che se n'era pubblicato, sia dalla porzione rimasta
inedita — rimaneggiati, andarono a confluire nel volumetto degli Studi di Etimo-
logia italiana e romanza (Firenze, Sansoni, 1878; pag. xxxv e 213), che riesce
davvero allo scopo propostosi dall'autore, di correggere in certe parti, di accre-
scere in altre il Dizionario Etimologico del Diez;" e lo accresce e corregge in mi-
' Noterò a questo iiroposito ohe è manifestamente del Caix anche vina breve rassegna firmata C intorno al
Zur Eatliarinenlcgende del Mussafia medesimo nel Gazzettino bibliografico della Rivista Europea, anno 5", t. IV,
pag. 178-179 (settembre , 1474). E la Rivista Europea ebbe da hxi altri artiooletti consimili, non difficili a riconoscere.
Così ne ho dinanzi imo {anno 6', 1. 1, pag. 183-184 — dicembre, 1871), in cui si rende conto dei Precursori di Dante
del D'Ancona.
■ Questo doppio intendimento avevano già avuto gli Studi cominciati a stampare nell'Ateneo. V. le parole
d'introduzione che stanno loro in fronte. Ed io rammento bene come fino dal 1866, ossia fin dall' anno successivo
alla laurea, il Caix rivolgesse in Pisa una parte della sua alacrità a tempestar di postille xm esemplare del-
l' opera dieziana.
sura maggiore forse che ancora non sia seguilo d'un iratlo per opera di nessun altro
singolo lavoratore. Certo le spiegazioni inaccettabili, e quelle mollo problematiche
eppur messe innanzi con sicurezza, vi son sempre troppo numerose; riesce strano
che anche attraverso a ripetute stacciature sia potuta rimanere nella farina del Caix
della crusca parecchia; ' e giustamente fu osservato da un critico (perchè non no-
minerò io il d'Ovidio se anche il nome non si legge appiè dell'articolo?)'' che questi
Stndi peccano pur sempre, e per il poco rispetto alla fonetica, e per non esser
fondati sopra comparazioni abbastanza estese; ma il critico notava altresì nel Caix
degli Studi un progresso considerevole di fronte a quello d' altri tempi ; e un pro-
gresso ulteriore non sarebbe nemmeno stato da desiderare, se l'autore avesse
applicato sempre i principii sanissimi esposti e propugnati nella bella Introduzione.
Li avrebbe applicati con maggior rigore se la sua operosità etimologica avesse
potuto avere quell'ultima esplicazione che era ne' suoi propositi: se cioè gli fosse
stato consentito di darci quel Vocabolario Etimologico italiano, cui stava lavo-
rando [Introd., pag. xxxi). Invece, pur troppo, poc' altro in questo genere si ebbe
più da lui; poco, ma di natura da accrescere ancora il rammarico per il lavoro
interrotto; che sono articoli eccellenti quelli su Trippa ed altri vocaboli che il Caix
giudica di origine araba {Rassegna Settimanale, tom. IV, pag. 108, 2° sem., 4879),
e Sul nome del Caciocavallo (ib., VII, 30, 1" sem., 1881). ''
Delle scritture enumerale fin qui, alcune, o in lutto o in parte, riguardano la
grammatica storica nei vari suoi rami; tali sono le Osservazioni sul Vocalismo,
il Pronome, le Alterazioni generali nella lingua italiana. Altri contributi prege-
volissimi per la medesima disciplina sono le pagine sull' Articolo italiano {Giorn.
di FU. rom., II, 1-9), che volevano essere prima parte di uno studio non prose-
guito Sulla declinazione romanza, e che mirano a confutare l'idea del Groeber, che
?7 non sia forma primitiva, bensì prodotto secondario di lo; poi, la nota Sul per-
fetto debole romanzo (ib., I, 229-232), o più esattamente suU' origine di certe forme
di quel perfetto e particolarmente dell'uscita -ò; infine, quella più ampia Sull' in-
fluenza deir accento nella conjugazione (ib., II, 10-18), e segnatamente sulle ano-
malie dei continuatori di Manducare e Adjutare: specie di complemento per la
parte italiana alle cose esposte dal Foerster, dal Cornu, dal Meyer, nella ZeifscJ/rift
far romanische Philologie e nella lìomania.
' Singolare, per esempio, che per la terza volta 1' antere si ostini a stampare che nella frase angarc a' cani,
cani siano i capelli canuti: idea messa fuori la prima volta nella parte inedita del Sai/ifio, pag. 186;' una seconda
nella Biv. di FU. rom., II, 112: e finalmente ripetuta negli Sludi apag. 95. Nella Eivista le tien compagnia l'altra
anche più strana che in riveder le hncce , bucce sia pulci; ma questa almeno , emanata dal Satjgio essa pui"e (pag. 235),
non è arrivata, ch'io veda, fino agli Sludi; d'onde s'argomenta che l'autore si fosse indotto ad abbandonarla, o
almeno a dubitarne fortemente.
' lìasser/na Settimanale, III, 158, (1° semestre 1S79).
' Per amor di compiutezza registrerò anche una noticina intorno n Malato e Malattia (ib., 111,307; 1' sen].lS79).
Ma il Caix non apparteneva alla schiera numerosa di coloro, che, tutli intenti
all'osservazione minuta, non sanno o non vogliono levarsi a nulla di comprensivo.
Mentre scrutava i fatti spiccioli, continuava a meditare sul problema generale della
storia della lingua; e la Nuova Antologia del settembre e ottobre 1874 (1-^ serie,
lem. XXVII, pag. 35-60 e 288-309) ebbe un' ampia esposizione delle convin-
zioni sue intorno alla Formazione degli idiomi letlerarii, in ispscie dell' italiano.
Intendimento del Caix era di combattere la teorica manzoniana. Mirava a provare
come r italiano, non altrimenti che le altre lingue colte, di cui si faceva a riassu-
mer le vicende, non si fosse identificato in antico, non potesse identificarsi attual-
mente, con uno speciale dialetto. Gli è, in altri termini, dei principii sostenuti da
Dante nel De Vulgari Eloquentia, e più tardi dagli oppositori della Crusca, che
il Caix si presenta ardente e vigoroso propugnatore. Anche la storia secolare della
questione, indispensabile a conoscersi da chi voglia penetrare bene addentro il
problema, ebbe in lui un narratore diligente e sagace; e ciò nel terzo volume
deW Italia dell' Ilillebrand, dove si legge di suo, tradotta in tedesco, « La
questione della lingua italiana », Die Streit froge uber die italienische Sprache
(pag. 121-154).
Le opinioni del Caix avevano specialmente radice negli studi eh' egli veniva
facendo intorno alla lingua dei nostri antichi scrittori, e dei rimatori soprattutto. Un
primo saggio, o meglio una prima applicazione di siffatti suoi studi, si vide nella
Rivista Europea (anno VI, toni. I, pag. 72-80: dicembre 1874), dove, in un
articolo intitolato Di un antico monumento di poesia italiana, egli si adoperò a
dimostrare che certi sonetti pubblicati pur allora dal Mussafia, erano da attri-
buirsi ad un poeta aretino, e probabilmente ad un contemporaneo di fra
Guittone.
Alle peculiarità degli scrittori aretini, e di Guittone in particolar modo, il
Caix tenne poi sempre 1' occhio ben fisso; il soggetto tuttavia che maggiormente lo
preoccupò in questo dominio fu il linguaggio della scuola sicula, e dentro l'isola,
e fuori dell' isola. Troppo ovvio pertanto che egli fosse tratto a considerare con
specialissima attenzione quello che allora si soleva chiamare il Contrasto di Giulio
d' Alcamo. Il Caix ne studiò accuratamente la lingua; e le osservazioni sue espose
in una recensione, pubblicata nella Rivista di Filologia romanza{ll, 177-191), del
poderoso lavoro che intorno a quel documento ci dette il D' Ancona. Vivacemente
\i si contesta la sicilianità dell'autore, e quella più ancora della sua favella, che,
nonostante certe mescolanze, di cui s'ammette la provenienza sicula, si sostiene
esser pugliese con un tal quale ripulimento letterario. Si nega in pari tempo che
nel testo pervenuto a noi la forma abbia subito un rimaneggiamento che 1' abbia
ravvicinata al toscano: essa, secondo il Caix, fu su per giù fin dall' origine quale
« si presenta nel codice che solo ce 1' ha conservata. »
Nella raenle del nostro filologo all' indagine intorno al linguaggio del Contrasto
s' era accoppiala la considerazione del carattere di questa composizione. Essa non
gli parve essere un prodotto popolare, come generalmente si giudicava, bensì l'opera
di un poeta d'arte; e in lui colai persuasione prese un aspetto pariicolare affatto.
Gli entrò nell' animo il convincimento che il Contrasto di Ciullo fosse imitazione
e riflesso di un genere letterario straniero, cioè della Pastorella. A propugnar
questa tesi intende lo scritto Chdlo iT Alcamo e (jli imitatori delle Romanze
e Pastorelle provenzali e francesi [Nuova Antologia, \^ serie, lom. XXX,
pag. 477-52'2: novembre 1875). Manifestatasi subito una viva opposizione, il
Caix non lardò a ridiscendere in campo, scrivendo Ancora del Contrasto di
Ciullo d' Alcamo [Rivista Europea, anno VII, lom. II, pag. 547-558: maggio 4876).
Qualche anno dopo, in un breve ma notevole articolo sulla Scuola poetica sici-
liana [Rass. Sellim., 1878, 2° sem., pag. 357-59) occasionato dalla Sicilianiscke
Dichterschide del Gaspav)', mentre si professava concorde in molle cose col valente
critico tedesco, mosse obbiezione all' idea che la Rosa fresca sia un prodotto giul-
laresco e però qualcosa di mezzo tra l'aulico e il popolare, e tornò a ribattere il
chiodo della derivazione dalla Pastorella. Finalmente, nel 1879, credette di essere
ari'ivato a scoprire Chi fosse il preteso Ciullo d' Alcamo [Riv. Europ., nuova se-
rie, lom. XII, pag. 231-251: 10 maggio); e con argomenti ingegnosi, ma poco
0 punto validi, si affannò a sostenere che il Contrasto, nonché d' un Ciullo d' Al-
camo, non era opera nemmeno d' un Cielo dal Canio, bensì aveva avuto per au-
tore Giacomino Pugliese.
Ciullo e il Contrasto erano siali un semplice episodio. Mentre attendeva ad
essi il Cai.\ continuava a maturare le idee sue intorno alle vicende della nostra lin-
gua letteraria. S' era persuaso da tempo che 1' unità si fosse operala per mezzo
della poesia, e che di li si fosse propagala agli altri usi, cosi del paria-re, come
dello scrivere prosaico, ' non senza conservare le tracce dell' origine e delle fasi
per cui la lingua era passala. E la lingua poetica egh la concepiva fin dal princi-
pio come cosa distinta, non solo nel lessico, ma nella fonetica stessa, dalle par-
late locali: come a Firenze dal volgare fiorentino, cosi nella Sicilia dal volgare
siculo. Il suo pensiero a questo proposito egli non lo manifestò forse mai cosi net-
tamente come neir articolelio citato dianzi sulla Scuola poetica siciliana, dove,
contro ciò che egli stesso, entro certi limiti, aveva creduto fino a pochi anni pri-
ma," contestò, non per il Contrasto solo di Ciullo, ma in generale per tulle le
rime della nostra prima scuola poetica, l'ipotesi di una trasformazione subita per
opera di trascrittori, e mise avanti quattro ragioni per impugnare, o almeno per
' V. La Formazione degl'idiomi letterari, Nuova Antol., t. cit., pag. 239, 300, 305.
• V. ib., pag. 294. Cfr. tuttavia la pagina seguente.
mellere gravemente in dubbio, 1' autenlicità del Libro Siciliano del Barbieri e del
famoso frammento di Stefano Protonotaro o del nolaro Stefano di Pronto. Ciò non
toglieva peraltro che elementi siculi, e meridionali in genere, la lingua poetica non
dovesse anche a parer suo averne contenuti moltissimi; e non contenuti semplice-
mente, credeva egli, nel principio, ma ritenuti altresì nelle fasi successive.
A tutte queste cose è da aver bene la mente se si vuol rendersi conto di quel
che venisse a importare per il Caix lo studio della prima lingua poetica, e se si
vuole intendere come cotale studio gli paresse dovere in sostanza avere per oggetto la
lingua che ci è data dai codici più autorevoli, fatta la debita parte alle tendenze
peculiari di ciascuno, non giù qualcosa di ben distinto da essa , cui si risalga per via
di semplici ricostruzioni ipotetiche. Eccolo dunque a sudare sui nostri più antichi
canzonieri, e ad analizzarne le forme con un' accuratezza mirabile. Fruito di que-
ste fatiche lungamente durate con gran pertinacia, fu il lavoro più cospicuo del
Caix: Le Origini cioè della Lingua poetica italiana: principii di grammatica sto-
rica italiana ricavati dallo stìidio dei manoscritti: con una introduzione sulla for-
mazione degli antichi cantonieri italiani (Firenze, coi tipi dei Succ. Le Mou-
nier, 4880; pag. 284 in 8° massimo).
All'opera si rimproverò l' intitolazione; ed a ragione di certo, se essa almeno
s' intende com'è naturale che sia intesa. E qui non si può a meno di notare che il
Caix fu abbastanza spesso poco preciso nella scella dei titoli suoi; ciò che leggiamo
addentrandoci là dove si legge scritto in fronte Sul pronome italiano, Sul perfetto
debole romanzo, Sali' etimologia spagnuola, è meno assai di sicuro, e talora an-
che qualcosa di diverso, di quel che ci si aspetterebbe d' incontrare. Nel caso no-
stro peraltro la ragione dell' aver rappresentato sul frontespizio come Le Origini
della Lingua poetica ciò che realmente non sarebbe se non La Lingua poetica
del periodo delle Origini, ha la sua ragion d' essere nella credenza da cui il Caix
era mosso, che la lingua poetica delle età successive fosse molto più conforme a
quella dei primi tempi di quanto non gli apparisse poi dietro un esame ben attento.
La perpetuazione di alcune forme non dittongate, come core, mele e simili, e di
alcuni pochi vocaboli, aveva prodotto nella sua mente una vera illusione; si di-
rebbe che quelle voci egh le vedesse moltiplicate e ordinate in disegno armonico
dentro ad un caleidoscopio. Ma si può facilmente perdonare questo strascico della
concezione primitiva una volta che essa non ha per nulla affatto indotto il Caix a
ritrarre nella sua analisi le cose diversamente da quel che fossero. Le forme pecu-
liari del primo periodo son da lui stesso, ad una ad una, rimesse dopo una breve
dimora fuor della soglia, poche sole eccettuate. Tenacissimo delle proprie idee il
Caix era di sicuro; ma appunto per ciò riesce tanto più nobile in lui quel pieno
ossequio alla verità, gli riuscisse grata od ingrata, non appena fosse giunto a co-
noscerla. Nessun pericolo eh' egli volesse fare la ben che minima forza alla co-
scienza. E diciamolo pure colla certezza di non c'ingannare: se al bel libro manca
una sintesi, di cui certo non basta a tener luogo qualche pagina di Prefazione,
scritta per soprappiù incominciando, non già licenziando la stampa, non è dav-
vero che al Caix sapesse agro di tirar delle somme le quali vedeva bene dover dar
risultali differenti dalle sue previsioni. La colpa fu di quelle particolari circostanze
che lo spinsero ad affrettare la pubblicazione del libro.
Io non so se la fretta sia entrata per nulla anche neh' avere il Caix curato
poco la parte lessicale, che in uno studio sulla lingua poetica del primo pe-
riodo avrebbe dovuto avere, s' io non m' inganno, un' importanza somma. Egli vor-
rebbe come persuaderci che siffatta trattazione non fosse a posto nel lavoro suo
(pag. 247, nota); ma riesce semplicemente a mostrare che il compito era arduo e
richiedeva lunghe ricerche. Qualcosa egli ci dà bensì anche per questa parie: in-
cidentalmente, in parecchi luoghi dell'opera, e poi all'ultimo, sotto l'aspetto im-
proprio di un capitolo sulla Formazione delle parole. Improprio, dico: poiché in
generale non si traila già di parole che si vengan fabbricando coli' appUcuzione di
questo 0 quel suffisso, bensì di vocàboli che si prendon belli e fatti o di qua o di
là. Direi tuttavia che sotto un altro riguardo non ci si rammarica troppo di vedere
il Caix trascurare i vocaboli, tutto intento a lettere e suoni: in lui il peccato è se-
gno di un ravvedimento.
Astrazion fatta dalle omissioni, una certa qual fretta si manifesta anche nelle
parli che 1' autore ebbe propriamente ad elaborare. 0 per dir meglio, 1' esecuzione
non fu tanto maturata quanto era stata maturata la preparazione. Cosi son con-
vinto che se il Caix avesse tardalo qualche allro poco a scrivere, si sarebbe accorto
della necessità di mantener sempre una spiccata distinzione tra la materialità della
grafia e la fonetica che ci s' ha da vedere attraverso; e noi non troveremmo più,
per esempio, schierato a pari coi paragrafi che ci rappresentano suoni veri e pro-
pri, un paragrafo sulla lettera H.
Nonostante queste ed altre mende, il libro del Caix ha importanza capitale.
Un' analisi così diligente della hngua dei nostri amichi poeti quale ci è data dai
codici, nessuno, nonché tentata, non l'aveva immaginata neppure. E il Caix ha
illustrato li dentro, sia con falli ed osservazioni messe fuori qui per la prima volta,
sia ritornando su cose già da lui dette altrove, parecchi problemi comuni così alla'
lingua della poesia come a quella della prosa. Anche la conoscenza delle condi-
zioni dialettali, nella Toscana soprattutto, al secolo XIII, s'avvantaggia non poco
dell' opera sua. Né è solo a chi vuol indagare la storia della lingua italiana, non è
solo al linguista e al grammatico, che il libro è necessario: chiunque s'ingegni di
addentrarsi nelle nostre origini letterarie mal può esimersi dallo studio, per quanto
faticoso, di questo volume. E cotale studio vorrà poi essere raccomandato calda-
mente anche agli editori di antichi testi. Chi in particolare prenda a darci una
nuova edizione, di fra Guiltone si troverà appianala la via dal Caix, risparmiala da
lui non poca parie della falica.
Al lavoro sulla lingua dei rimatori del primo periodo il Caix si proponeva di
farne tener dietro un altro intorno alla « lingua dei grandi poeti fiorentini « {Pref.,
pag. 4); quindi un altro ancora « sulla formazione della prosa « e insieme sulla
lingua poetica dopo Dante, che gli appariva cosi connessa col linguaggio pro-
saico, da non potersi studiare separatamente [ibid.). Disegni bellissimi, l'esecu-
zione dei quali avrebbe, credo, finito per persuadere 1' autore, che, se la lingua
letteraria non era tutta fiorentina di certo, era peraltro fiorentina in grado mag-
giore assai eh' egli non continuasse a supporre. Ma con un soffio la morte dissipò
ogni cosa!
L' esecuzione tuttavia sarebbe l'orse slata ad ogni modo ritardata più o meno
dall'avere il Caix negli ultimi anni aperto nuovi sbocchi alla sua alacrità. S'era
volto al dominio rumeno e a tutto ciò che vi si connetteva; e aveva preso a colti-
varlo con intenso amore. Così già noìV Antolocjia del 4° aprile 1878 (2^ serie,
lom. Vili, pag. 509-521) egli poteva discorrere da uomo che ha approfondito le
questioni e che si è già reso familiare e la lingua e la letteratura scientifica del sog-
getto, intorno alla nazionalità rumena (7 Rumeni e le stirpi latine), determinando
con retto discernimento, sulle tracce dei migliori e fondandosi specialmente sulla
favella, fin dove sia latino e fino a qual grado sia frammisto di elementi eterogenei
quell'estremo anello orientale della grande catena delle popolazioni latine e latiniz-
zate. Anche 1' articolo già citato sull' etimologia di caciocavallo, scritto dopo che il
Caix aveva visitalo la Rumenia a scopo di scienza, è un prodotto dell' allenzione
da lui portata sulla penisola dei Balcani. E questi non erano se non come i primi
segnali di quei lavori maggiori cui veniva attendendo.
Ma questi nuovi sfoghi alla singolare sua attività, tutta vòlta agli studi, non
bastarono al Caix, che parve verso la fine della vita aver raddoppiato quella sua
flessibilità primitiva, di cui per un certo periodo non s' eran più visti i segni al di
fuori. Nel 1879, a proposito della nuova edizione curala dal Deecke degli Etnischi
di C. 0. Mùller, stampò nella Rassegna Settimanale un articolo (III, 31-34), eco
di antichi e caldi amori. E l'articolo dovette avere una coda, per rispondere alle
obbiezioni di un naturalista (ib., pag. 117-118). Più tardi, nella stessa Rasse-
gna (VIII, 221-222: 2° sem., 1881) il Caix narrò la Storia di un verso di Dante
— « Poi eh' ei posato un poco il corpo lasso » — che gli editori si ostinano a leg-
gere diversamenle da quel che voglia l'autorità dei codici e la critica. Ma una
vera e propria sorpresa dovettero provare anche gli amici più inlimi, allorché, nel-
r inverno che precedette la morte, essendo egli messo alle strette perchè tenesse
al Circolo Filologico fiorentino una conferenza, videro il Caix scegliere un sog-
getto affatto lontano, a quanto pareva, dai suoi territori: Molière e il suo Tur-
tufe. ' Che avendolo scello, lo trattasse da pari suo, con mollo acume, con molta
giustezza, con vero garbo, di ciò nessuno poteva dubitare. E come ancora non
bastasse, tra le carte del defunto s'è trovato imperfetto uno scritto sui Goliardi,
appartenente esso pure agli ultimi tempi.
Per un giovane morto a trentasett' anni, cagionevole sempre, che aveva
dovuto in molta parte cercarsi la sua via da se stesso, è ammirabile davvero
l'aver potuto dar tanti frutti. E nessuno di essi fu prodotto senza una lunga
preparazione; che il Caix era del numero eletto di coloro che studiano, cer-
cano, pensano, piìi assai che non scrivano. Cosi colla sua morte egli si portò
seco la più faticata, la sola completa tra le sue opere: sé stesso. Tra i lavori suoi
non ve n'ha alcuno di certo che basti a dar la misura di quel che il Caix propria-
mente valesse. Solo abbracciandoli tutti insieme, si riesce a scorgere, attraverso ai
difetti, quali doli molteplici egli possedesse, e in che grado elevato: acutezza rara
di mente e sodo criterio; svariatezza di coltura e profondità di dottrina; pazienza
inesauribile nell'analisi e attitudine alla sintesi; e come coronamento d' ogni altra
cosa, una disposizione naturale, affinata dallo studio, a vestire le idee di una
forma dignitosamente corretta, specchio dell'essere suo.
Pio Rajna.
' Il lavoro fa pubblicato poi nella Nuova Antologia, 2" serie, t. XXXII, pag. 393-4U (1 aprile 1882).
UGO ANGELO CANELLO.
« Quante mai volte 1' Edipo umano, menlre si crede e si dice
ó Ttàat /iXsivò? Olòizon<;
Sta suir orlo dell'abisso che lo deve inghiottire! «
. Povero Canello! cosi scrisse, °' e cosi avvenne di lui, che sparve, come il suo
compagno di studi e di sventura, Napoleone Caix, quando appena era suonata
r ora attesa della fortuna.
Morir giovine! Era il presagio, che gli tornava sulle labbra; presagio, ch'egli,
conscio degli effetti ineluttabili d' un' aspra malattia di petto, esprimeva senza sgo-
mento, come chi è abituato a interrogare impavido la realtà assoggettando il senti-
mento al rigido e forte impero della ragione. Pur talora lo confortava la speranza
di campare tanto da condurre a fine le opere ideate: vivrò ancora, io credo, quin-
dici anni, ricordo eh' egli mi disse quando ne aveva trenta. Sfortunatissimo! anche
questa povera speranza gli andò delusa: chiedeva quindici anni ancora di vita, e solo
per consacrarli a nobili fatiche: non ne visse invece che cinque, e si spense nel ri-
goglio della sua poderosa vita scientifica, quando ormai s' avviava sicuro ad occu-
pare uno de' luoghi più eminenti fra i romanisti d'Europa. Esistenza fuggevole fu
la sua, ma tale egli la visse, che il solo ridirla con la schiettezza da lui candida-
mente amata riesce, per quanto imperito sia il narratore, il miglior segno d' ono-
ranza, che possa venire offerto alla sua lacrimata memoria.
Il Canello nacque il 21 giugno 1848 a Guia, antichissima stanza de' suoi, sul
confine occidentale del Trevisano col Bellunese, da Alvise e da Regina Pinazza,
' Del Canello scrissero fra gli altri Giuseppe Gueezoni {Ugo Angelo Canello, commemorazione funebre Ietta
nell'Aula Magna della B. Università di Padova il 3 febbraio 1884); Pio Bajna, nella Perseveranza, 13 giugno 18S3;
Fkascesco d' Ovidio, nel Giornale di Filologia Romanaa n. 9; Fbancesoo Lobeszo Pullé nell' Aleardo Aleardi , 26 giu-
gno 1883.
' Storia della Lett, italiana nel secolo XVI, pag. 102.
UiLtora viventi. Modesta, non povera, come troppo si stampò, era la famiglia di
Alvise Canello, il quale tuttavia, vedendosi crescere intorno numerosa figliuolanza,
a' redditi del patrimonio avito dovette curare di aggiungere altri proventi, che trovò
nel commercio. Cosi provvide alle necessità domestiche, educò i figli, e fu volta
che ben tre ne mantenne insieme alla scuola. Non dirò miracoli del fanciulletto
Angelo, che anzi dapprincipio, pur mostrando precoce intelletto e sorprendente
memoria, non parve troppo amico de' libri; e solo pose amore allo studio su' quat-
tordici anni, consacrandocisi allora tutto, senza smettere più. Compi i corsi ginna-
siali e liceali nel Seminario, in quel tempo fiorentissimo, di Ceneda. Verso il ter-
mine del Liceo, ossequendo al padre, vesti 1' abito del prete; ma fu per poco. Già
allora fiero, libero, tale quale fu sempre , repugnandogli il sacerdozio, preferì ob-
bedire alla voce della coscienza, anzi che al comando paterno: e giltò la tonaca,
alienandosi il padre, e avventurandosi incontro all'ignoto avvenire con non
altro conforto che la fede in se stesso. Né si poteva attendere diverso partito da
lui e per 1' animo eh' egli aveva, e perchè già a forti ideali di libertà lo avea tem-
prato lo studio amoroso del Foscolo, che tanto gli piacque e lo accese fin dalle
scuole d'umanità da indurlo a premettere al nome proprio quello del suo poeta;
onde d'allora in poi fu Ugo Angelo. Nella Università patavina, incerto sulle prime
della via da eleggere, s'inscrisse alla facoltà medica, ma, « fiutala appena la ta-
vola anatomica se ne dichiarò soddisfatto», scrisse briosamente il Guerzoni,-e
dopo un mese, docile alla sua vera vocazione, passò alla scuola di filosofia e let-
tere, onde uscì laureato il 29 luglio '69.
Aspri furono questi anni passati negli studi universitari, durante i quali il Ca-
nello ebbe maestri insigni, come lo Zanella, il Canal, il De Leva, il Ferraj; ma
efficacissimo de' maestri gli riusci il dolore; il dolore, che fa pensare, e a lui affinò
r intelletto e fortificò il volere. Irritato il padre volle che pensasse a sé stesso il
figlio ribelle: pietosi frattanto, ma, senza colpa, non sempre sufficienti giungevano
i soccorsi della madre e del fratello Don Pietro, sì che il povero Ugo sofferse le
strette del bisogno. Quanto abbia patito in quel tempo ricordo che confidava egli
stesso più tardi a' suoi intimi. E avvenne per giunta che gli si guastasse anche la
salute, perchè, certa volta che da Padova, in un periodo di ferie, tornava alla sua
Guia, costretto a sostare sulla riva del Piave ad attendervi il battelliere, che lo
tragittasse alla sponda opposta, intanto che soffiava lungo il fiume procelloso, con
r usata violenza, il vento delle Alpi, fu investito dalle raffiche gelate, mentre era
sudato, e accolse i germi di un male, che non lo abbandonò più. Alto, diritto, po-
deroso, pareva un uomo formidabile; ma in quel povero suo petto covava perenne
una minaccia di morte. Di qui una lotta senza riposo tra lui, il disgraziato Canello,
pieno di fervido desiderio della vita, e questo occulto nemico, che della vita gli
avvelenava le fonti: ond'egli, già inclinato alla fiera solitudine pensosa, divenne an-
che più chiuso, anche più roinilo. Nullameno e l'abitudine al dolore, e la natura
sua, schietta troppo e forte per amare la falsità degli atteggiamenti eroici o roman-
zeschi, produssero in lui un concetto obiettivo della vita, che gli concesse una ras-
segnazione nobilmente serena alle leggi immutabili, verso cui son vani del pari
l'inno e la bestemmia. Nelle ore più cupe Sofocle Io innalzava dalla realtà misera
a sfere sublimi, e ricomponeva il suo animo in una calma superiore. Cosi in queste
strette egli non si fiacca, ma s' eleva, e s' afforza, e s' abitua a trovare la sola vera
gioia negli sludi e nella meditazione.
Ottenuto, dopo la laurea, all'Università di Padova il premio Dante inslituito
dall'Austria e mantenuto dal governo nazionale affine di promuovere gli studi dan-
teschi, profittò dello stipendio che gliene venne, e di un sussidio ministeriale, onde
quello stipendio fu ingrossato, per recarsi a Bonn alla scuola gloriosa di Federico
Diez. « Quest'uomo (disse egli più tardi accennando al grande suo maestro) io ho
avuto il bene di conoscerlo dappresso, di sentirne le piane ed amene lezioni per
lutto un anno; e le opere sue io le ho studiale con lungo amore, le ho lette, ri-
lette, irasunte. »' Prova immediata di questo studio alacre e severo fu l'opuscolo
« Il prof. Fed. Diez e la filologia romanza nel nostro secolo » " che il Ganello pub-
blicò poco dopo essere tornato di Germania. In esso non è ritessula la storia
intera della disciplina,^ ma si espone largo, limpido e sicuro il quadro delle opere
del Diez nel triplice dominio storico-letterario, esegetico, glottologico, quadro in-
cornicialo da sommarie indicazioni de' lavori anteriori e posleriori, sì da rendere
manifeste le condizioni degli sludi romanzi prima del Diez, la virtù potente del-
l'opera sua, l'attività meravigliosa da lui promossa. L'autore ci apparisce un
discepolo intensamente e acutamente studioso, inleso a profittare quanto sa e può
della scienza de' maestri, disposto ad assimilarsela facilmente, e insieme già ca-
pace e desideroso di discuterla, di correggerla, di fecondarla. ' Questo libretto è
' Casello , Saggi di Critica Letteraria , pag. 247.
' Fu pubblicato nella Rivista Europea, 1 novembre 1371 — 1 febbraio 1S72. — Non può Jirsi questa veramente
la prima pubblicazione del Canello, poiché la precedette un breve volume di versi. Il futuro romanista cominciò
anch'agli, da buon italiano, col suo fascetto di rime: Ricordi d'autunno, Padova Salmin, 1870. Nulla di straordinario
in questi versi; ma già rivelano nettamente l'animo forte, sano e gentile del povero Canello. V è delicato il sen-
timento; sciolta e sobria la forma: e sulla varietà de' tòni domina l'equilibrio virile del suo spirito che lo
tenne quasi sempre lontano dagli eccessi della passione.
^ ^ Naturalmente, scrisse il Canello, non può essere mio intendimento di dare una storia intera della filo-
logia e della glottologia romanza in questo secolo, e meno ancora della critica storico-letteraria. » pag. 4. Il Mo-
naci espresse la speranza che nella II'^ ediz. del suo libretto il Canello colmasse le lacune della I* {Riv, di FU.
Romanza, I, pag. 62); ma questa desiderata ristampa non comparve.
' L'autore avvertiva che alle molte reminiscenze della scuola e delle fatto letture avrebbe aggiunto qualche
nota propria; pag. 3. Sulla formazione del decasillabo, a pag. 16, egli e-spono una teoria nuova, che mantenne
sempre come può vedersi da posteriori pubblicazioni: Saggi, pag. 239-40; Nuova Antologia, XXIX, 18S1, pag. 529.
Vedi osservazioni, non sempre corrette, ad illustrazione del Boezio provenzale a pag. 32; etimologie diverse da ta-
lune del Diez a pag. 80-82.
uno de' segni del rinnovamento scientifico dell'Italia' seguilo al rinnovamento
civile: più direttamente attesta la rigenerazione degli studi romanzi anche fra
noi avviati dall'indagine fantastica, che aveva suscitata il Raynouard, all'indagine
metodica promossa da'seguaci del Diez, rigenerazione avvenuta per l'influsso della
scienza straniera, e per 1' opera di solenni, per quanto pochi ancora e solitari,
maestri nazionali. Il Canello ha egli pure il suo luogo onorevole in questo momento
della storia della filologia e della critica italiana. Malgrado 1' opera larga del Diez
e de' suoi scolari, diceva egli chiudendo il suo libretto, resta ancora molto a
fare; e invitava gì' italiani alla nuova palestra, nella quale tosto entrava egli stesso
fra i primi. La Rivista di Filologia Romanza, comparsa nel '72, s'apre con uno
studio del Canello già annunciato nell'opuscolo sul Diez,^ preparato quindi, in-
sieme ad un saggio sul Trevigiano rustico,' quando egli era poco più che uno
scolare: il che ho voluto notare, perchè prova che il Canello sagacemente aveva
scorto fin dal principio de' suoi studi di filologia romanza ove fossero lacune da
riempiere nell' opera del Diez e de' discepoli, e terreni vergini da dissodare.
Il Canello così ci si presenta dapprima come glottologo: e come tale lo ve-
diamo rivolgere le cure sue principali alla parie della nuova disciplina, che più
importava in Italia, allo studio scientifico della lingua nazionale. Già dal '72 trovo
ch'egli annuncia e promette la sua Polimorfologia italiana,'' che, più tardi,
si muterà nell'eccellente lavoro degli Allòtropi, e resterà^ degna Aq\C Archivio
ascoliano, il miglior segno de' suoi studi glottologici, e, nel complesso delle sue
opere, una delle più preziose testimonianze del suo forte e acuto intelletto, e di
quanto, se cosi presto non fosse stato rubato alla scienza, egli avrebbe ancora sa-
puto fare. E 1' anno successivo nella scuola di Padova, ove, dopo essere stato il pre-
cedente'72 professore del Ginnasio Comunale di Ravenna, l'antico discepolo rien-
trò quale docente privato di filologia romanza,'" matura il suo Vocalismo tonico
italiano, che comincerà a comparire agli studiosi nel seguente '74. " A questo punto
debbo notare che il Canello, sia pure nell'ufficio modestissimo di privato docente,
' G. Pakis lo ha definito « un des symptòmes ile l'introductiou eu Italie des bonnes métliodes scientiflques »:
lìomania, I, 237.
■■ « Storia di alcuni participii nell'italiano e in altre lingue romanze» pagg. 9-19 del I voi. della ifà-. del
Monaci. Vedi a questo articolo le osservazioni del JIussafia a pagg. 91-97, e V Appendice del Canello stesso a
pagg. 188-191 dello stesso volume. A tali suoi studi il Canello accennava già a pag. 57, n. della dissertazione
sul Diez.
' Questo saggio è annunciato nell'opera sul Diez a pag. 48, n. 2 e citato indi passim; ma non fu, cli'io
sappia, stampato. Utile, insieme al fratello Don Piero, riuscì il Canello all'Ascoli nello studio del Trevigiano
rustico: vedi Ardi. Glolt. I, pag. 416.
' Vedi nella Mivista di Filologia Romansa, I, pag. 58, 1' articolo del Canello sulla Grammatica storica del Foe-
KACiARi. A pag. 70 dello stesso volume la Polimorfoloyia canelliana è annunciata fra le prossime pubblicazioni.
' Ebbe tale nomina il Canello con Decreto 5 dicembre 1872.
" Vedi inviata di Filologia Romania, I. pagg. 207-225, in cui apparvero i primi 8 paragrafi del Vocalismo. Si sa
chela pubblicazione fu continuata, ma non compiuta nella 2c!(sc?»'yi del Groeber.
fu dei primi ad insegnare la nuova disciplina fra noi ; de' giovani romanisti fu anzi
il primo, perchè il Rajna non cominciò il suo insegnamento all'Accademia di Mi-
lano che nell'anno scolastico 1873-74. Ai contributi scientifici già accennati s'ac-
compagnavano pubblicazioni fatte, come il libretto sul Diez , per volgarizzare gli
studi romanzi fra i colti italiani, per ispiegarne ad essi, con la snella chiarezza e
la geniale vivacità che gli erano proprie, 1' essenza ed il metodo:' opera questa alla
quale il Canello presentava attitudini singolari. Ma e' era sempre per lui un pro-
blema punto glottologico da risolvere, quello del pane quotidiano, ch'egli potò as-
sicurarsi non già co' poveri compensi della docenza, ma co' frutti più sicuri del-
l'insegnamento nel collegio padovano Camerini, ove dal direttore prof. Don Domenico
Barbaran ebbe sempre ogni maniera di gentili soccorsi. Conio stesso amore s'ado-
perava per la scuola universitaria e per la scuola Camerini, per uso della quale
pensò e mise insieme il Commento a' Sepolcri del suo Foscolo, pubblicato nello
stesso anno '73. La glottologia dunque non escludeva la critica letteraria: nella
mente del Canello esse trovavano un' armonia, che più non si ruppe. Di questo
Commento dirò solo eh' esso fu il primo analitico e compiuto, che fu condotto con
criteri originali, che non poco giovò a' commentatori successivi, e che incontrò
sorti liete cosi da arrivare alla terza edizione.
Ne' due anni seguenti, '74 e '75, il Canello ci dà prova anche più lumi-
nosa della larghezza della sua coltura, e della elasticità giovenilmente pronta del
suo vivido ingegno presentandocisi professore di lingua e di letteratura tedesca alla
Accademia scientifico-letteraria di Milano, ove lo propose a tale insegnamento un
maestro e giudice solenne, l' AscoH, che lo credette degno di esso, perchè parlava
e scriveva il tedesco con una facilità ed eleganza, che un italiano di rado consegue. '
E cosi piacquero le sue lezioni, che il pubblico, dapprincipio poco numeroso, fini
per addensarsi e riempiere la vasta sala terrena dell' Accademia milanese. Ma solo
nel '76 il Canello, che aveva resistito all' offerta seducente d' una cattedra stra-
niera, ^ potè ottenere un ufficio conforme a' suoi desiderii, quando ebbe Y incarico
dell' insegnamento allora instituito della Storia comparata delle letterature neola-
tine presso r Università di Padova, incarico che al principio del successivo anno
scolastico si mutò nello straordinariato. Le riforme bonghiane de' regolamenti uni-
versitarii introducendo nelle nostre scuole di lettere l'invocata filologia neolatina
rappresentata fino allora, e da poco, solo ne' due principali istituti di Milano e di
Firenze, resero giustizia a' meriti ed alla aspettazione legittima di uomini, quali il
Monaci, il Canello, il d' Ovidio, che trovavano il compenso debito al loro amoroso
' Vedi neir elenco bibliografico sotto l' anno 1873.
Vedi GoEEZONi, oit. discorso pag. 10.
' Vedi ibid., pag. 11. Il Mcssafia offerse al Cauello la cattedra di Lingue Romanze all'Università di Gratz.
apostolato in (livore della nuova disciplina, accolta qui nel cuore della romanità fra
gli insegnamenti ufficiali dopo quasi tutti i paesi più civili d'Europa, ma finalmente
accolta. Il Canello null'allro chiedeva che un asilo quieto, ove, cessate le angosciose e
dannose incertezze del presente e dell'avvenire, gli fosse concesso di darsi intero agli
studi: 0 questo asilo lo trovò nella sua Padova, della quale poteva considerarsi cit-
tadino, e in cui tra le compiacenze della scuola, le voluttà sole a lui care dellavoro
assiduo, le gioie della famiglia, ch'egli, austero in sembianti, ma intimamente af-
fettuoso, senti il bisogno di formarsi, scorse il miglior tempo della sua breve esi-
stenza.
Fino al '76 egli, pur dimostrando intelletto robusto, sottile, ardito, co-
stanza e intensità di studi, per la sua giovinezza non aveva potuto mettere insieme
opera tale, che gli costituisse un nome: non era che una sicura e lieta speranza
della filologia italiana: ma incomincia tosto il periodo importante e fecondo della
sua operosità scientifica. Nel '77 pubblica i Saggi di critica letteraria: poi so-
spende altro lavoro, di cui discorreremo più innanzi, per compire, secondando la
giusta insistenza dell'Ascoli, il Polimorfismo già annunziato da parecchi anni: lo
troviamo ancora qualche tempo appresso tutto inteso all' opera stessa ed alla -S?or(«
della letteratura italiana nel sec. XVI, che ayewa assunto l' impegno di scrivere
per r Italia del Vallardi. Ma 1' Ascoli vuole un lavoro degno del suo Archivio e
delle speranze suscitate dall'autore, e manda a rifare più volte il Polimorfi-
smo : e il Canello rifa, e scrive ad un amico 1' 11 gennaio '79: « da due mesi in
qua ho lavoralo e rilavoralo sotto la ferula terribile ma utilissima dell' Ascoh. « Come
fu contento, lo ricordo, quando il grande maestro si dichiarò soddisfatto! Urgeva
mandare bene innanzi il Cinquecento, che ormai lo ebbe tutto: « quanta fatica,
egli scrive a proposito, per far cosa che sarà appena tollerabile! » Insieme però si
occupa anche de' Sepolcri del Foscolo, e ne rifonde il conmiento. Viene l'ago-
sto '80: il Cinquecento è ormai compito e pubblicato: ma il Canello non riposa:
l'energia intellettuale cosi esercitata gli si afforza, ed egli si caccia, per usare la
sua espressione, in un laberinto provenzale, nientemeno che nell'impresa dell'edi-
zione critica del più sibillino de' trovatori, di Arnaldo Daniello. L'anno seguente è
lutto accanitamente inteso a interpretare 1' oscurissimo poeta « spendendovi intorno
moltissimo tempo e non poco denaro, per darlo gratis (il lavoro suo) a un editore
tedesco. » Ma non gli basta: egli pensa di provvedere le nostre scuole universitarie
di una crestomazia provenzale diversa da quella del Bartsch, e lavora intanto su
' Per queste notizìu mi valgo, oltre che della memoria mia, di lettere del Canello ad uno de' pochi dilettis-
simi amici suoi, il prof. Luii;i Sailor, morto or è poco. Mi è assai doloroso dover volgere in un mesto rimpianto le
attestai oni di riconoscenza che avrei inteso dirigergli por 1' aiuto eh' egli, sempre cortese e buono, aveva voluto
prostarmi.
Peire de la Cavarana: ' insieme vuole dilTondere la conoscenza e il gusto della li-
rica irobadorica fra il nostro pubblico, e bianda fuori la Fiorita di Liriche pro-
venzali tradotte, a cui aggiunge, collo scopo di volgarizzare anche 1' epopea fran-
cese, saggi di versione della Chanson de Roland. È febbrile il lavoro di questi anni:
assedia Daniello, e inniiagina e prepara opere nuove, come una storia della lettera-
tura provenzale, una raccolta di classici italiani per le scuole. Finalmente in
principio del 1883 esce il testo critico di Arnaldo. Nell'anno stesso pubblicansi
altre cose sue minori: e tosto egli ripensa un suo vecchio disegno, una Storia della
lingua italiana, messo da parte nell'urgenza di altri lavori, e adesso ripreso pacata-
mente. Di quest' opera aveva già dato saggio nella stampa e nella scuola; '' ma ora
egli intendeva compirla.
Tanta attività ogni giorno crescente concesse al Canello di mettere insieme
nel breve giro di poco più che un decennio una cospicua serie di scritti, i piìi im-
portanti de' quali furono: i Saggi di critica letteraria; gli Allòtropi italiani; la
Storia della letteratura italiana nel secolo XVI; La vita e le opere del trovatore
Arnaldo Daniello. Discepolo e amico del Canello, io non assorgo qui all'ufficio
severo del critico; ma restringo anche questa parte dell' opera mia ne' limiti mode-
sti della affettuosa commemorazione.
Fino al '77, in cui uscirono i Saggi, il Canello parve in ispecie un promet-
tente indagatore della storia della parola; la pubblicazione di essi rese manifesto
che il giovine glottologo indagava e meditava anche la storia delle letterature; che
presso il linguista e' era il critico. « Intelletto acuto di critico, dottrina multiforme
di filologo, e maturità di pensatore che risale dai fatti alle leggi » come a ragione
fu notato, ■ dimostransi in questo primo volume, nel quale 1' autore espone il con-
cetto della vita e dell'arte, eh' ei s'era formato, e sotto di esso ordina e armonizza le
tre parti del libro: Letteratura generale; Letterature neolatine; Letteratura tedesca.
Qual è questo concetto? Importa rilevarlo perchè non so che il Canello l'abbia poi mu-
tato. Cresciuto all'amore dell'ellenismo nella scuola del Ferraj, studioso del Lessing e
del Goethe, egli vagheggiava, come supremo ideale, 1' armonia intima del pensiero e
del fatto, e trovava che questo ideale fu realtà nel periodo classico ionico-ateniese,
' Il Canello voleva scegliere le liriche trobadoriche migliori in ordine all'importanza storica del contenuto
ed ai meriti della composizione, e sarebbero state le stesse che formarono la Fiorita tradotta. Di queste avrebbe
offerto nella sua Crestomazia i testi critici.
■' Son saggio di quest' opera i Diporti Filologici, per i quali vedi l'Elenco bibliograiioo agli anni 1S76, 1877,
1878; e l'articolo Lingua e Dialetto pubbl. nel Qiorn. di FU. Romanza, I, pagg. 2-12. Nella scuola rammento un corso
sugli inglesismi e su' francesismi nell' italiano, che doveva entrare nell'opera, fatto il 1877-78, e ripetuto nell'ul-
timo anno dell'insegnamento del C.inello, 1882-83. Il Guekzoni pubblicò a pagg. 32-33 del suo Discorso F Indica
dell' opera, che corrisponde a quello comunicatomi dal prof. Sailer, a cui fu inviato dal Canello già nel '77. Se lo
spazio me lo consentisse trarrei dai doei^menti del Sailer anche la prefazione nello stosso '77 preparata.
" G. Teezza, Sttidi Critici, 1S78, pag. 271.
— XSXII —
ed animò 1' arte in esso prodotta, la più bella, che abbia rallegrato il mondo. Que-
sl' armonia rappresenta l'età virile dell' umanità, la quale, come ciascuno de' suoi
componenti, corse i tre stadi della vita, ed ebbe la sua giovanile acerbità, la maturità
e la vecchiezza: fu giovine nell'oriente indiano ed ebraico, ove la civiltà s'arrestò ad
una eterna infanzia, fu matura, lo vedemmo, nella Grecia, bamboleggiò decrepila
nell'alessandrinismo; si ravvivò nell' età migliore di Roma e della sua letteratura per
ricadere spossata nella senilità bizantina, mentre ringiovanì nel medioevo occiden-
tale, e, ritemprala, riascese 1' erta faticosa raccostandosi, col rinascimento italiano,
alla somma vetta raggiunta nell'Eliade; fu risospinta da influenze avverse, ma potè
mano mano riguadagnare le cime perdute ne' rinnovamenti spagnuolo, inglese,
francese e, infine, meglio ancora che altrove, nella Germania luminosa del Goethe,
col quale rifiori l'ideale ellenico, che, vinte le estreme resistenze opposte dal ro-
manticismo moderno, ormai, nella rinnovazione scientifica e morale della società
europea, ci domina e e' inspira. La virile armonia del pensiero e del fatto, del-
l' ideale e della realtà, s' estrinseca nell' arte classica; la disarmonia infantile o se-
nile del volere e del potere s' esprime nell' arte romantica.
Ora questo classicista, com'egli con l'usata franchezza si protestava,' anzi
che volgersi tutto allo studio della letteratura ellenica e latina, od a quello della ri-
nascenza, consacrava il meglio delle sue forze e del suo tempo alla investigazione
della civiltà medievale in cui, secondo il suo pensiero, il romanticismo era sotten-
tralo liberamente e vastamente al classicismo. Come si spiega questa contraddizione?
Perchè egli innamorato di Omero e di Sofocle, di Virgilio e di Orazio, dell' Ariosto
e di Cervantes, di Shakespeare e di Goethe si staccava dalle divinità olimpiche del
suo pensiero, lasciava le raggianti sfere della loro poesia, e scendeva nel buio del-
l' età di mezzo? Il Canello non era solo un critico dell' arte; era anche un critico
della storia; e se l'arte giudicava dietro la guida del Lessing, meditava la storia
dietro la guida del Gervinus. Ora, la storia non s' intende se si rompe in fram-
menti, ma se si prosegue nella sua maravigliosa continuità, nel suo svolgimento
fatale. Questa necessità d' ordine scientifico conciliantesi col naturale allettamento
degli studi nuovi e con ragioni di opportunità materiale trasse il Canello dallo
studio de' periodi virilmente classici a quello de' periodi giovanilmente romantici ;
dall'età matura della storia o dell'arte all'età delle origini. Per lui, che agli studi
romanzi non fu condotto, come altri, dalla corrente romantica, il medioevo presenta
un interesse essenzialmente storico. « Bisogna che gli uomini e le nazioni, scrisse
egli, arrivali a certi punti del loro svolgimento, ripieghino indietro lo sguardo, e
notino le vittorie riportale, e le soffcrle sconfitte; ricordino onde sono parlili, per
Velli Saggi di Crii, Leti,, pag. 119.
sapere ove debbono arrivare. » ' La bontà estetica poi dell' arte medievale per lui
era assai relativa: « questa poesia medievale si studia, non per l' interesse artistico,
ma per r interesse storico, perchè a noi piace vedere la continuità nella storia della
cultura, perchè ci piace scoprire, s'è possibile, le origini delle cose tutte, e in
ispecie della poesia. » -
Dalla considerazione del pensiero dominante ne' 5a/7^i del Canello non pos-
siamo ora scendere allo studio minuto di essi. Vedemmo quale giudizio ne abbia
dato un critico eminente; aggiungeremo che la- parte migliore di questi scritti è
senza dubbio 1' ultima sulla letteratura tedesca, che il Canello trasse dalle belle le-
zioni fatte all' Accademia scientifico-letteraria di Milano. « Lo studio su Goethe,
scrisse già il Trezza, è uno de' più compili e si legge fruttuosamente anche dopo
la monografìa stupenda del Lewes. « ' Ma 1' opera di lunga lena, in cui meglio si
spiegarono le attitudini del Canello alla forte concezione ed al largo studio della
storia letteraria, fu la Storia della letteratura italiana nel secolo XVI. Come
ne" Saggi, e come, più tardi, nel tentativo di Storia letteraria della Provenza pre-
messo alla Fiorita di liriche trobadoriche, il Canello considera e studia anche qui
la letteratura quale una vera e propria funzione della vita evolutiva della società.
« Lo studio delle forme c'importa, egli avverte: senza conveniente rappresentazione,
nessun contenuto ha valore; e la forma è poi generata in questo o in quel modo
dalla qualità del contenuto, cosi che per questa intima loro connessione non si
può giudicare dell' uno senza tenere stretto conto dell' altra. Ma l' obbietto primo
della nostra ricerca dovrà pur sempre rimanere il contenuto, vale a dire gl'ideali
e le idee che si mostrano nelle forme letterarie del cinquecento. » " Questi ideali
e queste idee sono la rifrazione della realtà nella fantasia del poeta e nel pensiero
dello scienziato; e poiché, vivendo nella fantasia e nella mente degli uomini, tendono
necessariamente ad attuarsi, riescono fattori potenti della vita reale presente e fu-
tura: gì' ideali dunque e le idee fluiscono dalla realtà, e sovr'essa influiscono. Quale
fu la vita reale pubblica e privata del cinquecento in Italia? Data quella premessa,
spunta necessario questo quesito. E il Canello risponde ad esso nei due primi ca-
pitoli della sua Storia, a' quali servono di complemento e d'illustrazione nel capitolo
successivo le biografie di sei fra i più insigni scrittori del tempo, del Machiavelli,
del Guicciardini, dell'Ariosto, del Bembo, del Tasso, del Bruno. Nella vita pub-
blica, uscendo dalla disgregazione barbarica medievale, si eran venuti costituendo e
si rassodavano gli Stati; nella vita privata si formava un'altra unità, la famiglia.
Queste tendenze e questi fatti diventano ideali ed idee nella testa del poeta e del
' Tedi Saggi di Crii. Lett, pag. 154.
■ Vedi ibid., pag. -243.
^ Vedi Trezza, oj). e ?. cit.
' Vedi pag. v-vi.
pensatore: e nel corso dell'opera l'autore esamina come si riflettano nelle forme
letterarie, nella poesia narrativa, nella lirica, nella drammatica, nella storiografia,
ne' discorsi, ne' dialoghi e ne' trattati scientifici. Allo studio del contenuto della
nostra letteratura del cinquecento segue 1' esame delle teoriche letterarie e delle
questioni linguistiche allora escogitate e dibattute. Questo il quadro offerto dal Ca-
nello. É buono? È cattivo? Censure non poche possono farsi e furono fatte a que-
st'opera; ' ma certo è, e da tutti fu riconosciuto, che, senza contare la bontà di
talune parli, 1' ordinamento simmetrico e vigoroso dell' insieme svela qualità supe-
riori neir ingegno dell'autore, e che d'uno studio comprensivo della letteratura del
nostro cinquecento fu questo il primo tentativo, e fu tentativo geniale e originale.
Alcune accuse, del resto, prevenne lo stesso autore confessando che difetto di tempo
e di mezzi gli tolse di condurre l'opera sua come avrebbe voluto e potuto: ' al che
aggiungo, che il Canello, con la tenacia a lui propria, rivedeva il suo libro, e va-
gheggiava, secondo una volta mi disse, di svolgere largamente coli' aiuto, se gli
fosse riuscito, di suoi allievi, gli studi avviali sopra un soggetto tanto importante e
a lui cosi caro.
Egli considerava « il dugento provenzale, il cinquecento italiano e il settecento
tedesco, i tre più floridi momenti dell' arte moderna, come una graduale riprisli-
nazione della vera arte antica. » ' Dell' amor suo alla letteratura delle ultime due
di queste epoche conosciamo ormai le prove; resta che accenniamo al massimo dei
suoi lavori intorno la letteratura provenzale, tiW Arnaldo Daniello. Il linguista,
che della sua virtù aveva ormai offerto splendido saggio neg\ì Allólropi, e il critico
qui si riunirono per superare una difficoltà cercata con l' ardimento de' forti. Il
Canello, sdegnoso delle vie comuni, amava affrontare i problemi più oscuri: « le
cose difficili 0 anzi difficilissime, scrisse egli slesso, hanno sempre avuto per me
una particolare attrattiva. » ' Cosi, confidando giustamente nel suo acume affinalo
da quotidiano esercizio, egli si pose a spiegare un poeta arduo a' contemporanei ed
a' migliori provenzalisti moderni. Tornerebbe superfluo che io lungamente insistessi
a discorrere ùeW Arnaldo ; esso è troppo recente e troppo conosciuto da' romanisti.
Questa sudala opera non solo ha il merito di essere il primo testo critico di un
trovatore elaboralo fra noi, ma onora in genere gli sludi romanzi, poiché, secondo
disse anche il Bartsch, ^ tanto studio e tanta sollecitudine non erano ancora stati
consacrati a nessuno degli antichi poeti ocitanici. So che 1' enigma forte non fu
' Vedi D. Gkoli, Nuova Antologia, XXIV, 18S0, pagg. 332-356; G. Koertixg, Litcraturblati fiir germ. und rom.
Pini. 1882, nuiQ. 1, col. 22-26; F. Tokbaca, Giorn. di FU. Romanza, IV, pagg. 117-122. Non mi occupo di altre recen-
sioni meno importanti.
' Vedi pag. vii nella Prefaz. all' opera.
' Vedi Saggi di Orit. Leti., pag. 119, UT.
' Vedi Arnaldo Daniello , pag. ni.
'■ Vedi la sua recensione dell'opera del C.inello nella Zcitschri/t del Groeber, VII. pag. 582.
interamente chiarito; e lo presemi il Caneilo stesso nel porsi al cimento: « fallirò
anclie nell'impresa, egli pensò; ma è pur sempre sperabile che per via io venga
rimovendo questo e quel!' ostacolo, cosicché meno disagevole essa abbia a riuscire
a chi volesse ritentarla dipoi.» ' Nell'impresa egli non è fallito, ed ha fatto ben più
che rimuovere questo e quell'ostacolo: è certo che se per ogni parte non furono
rese diafane le caras rhnas d' Arnaldo, la sua poesia nel complesso non è più cosi
densamente problematica, e certo è del pari che il Caneilo ha dimostrala una cosi
geniale penetrazione, e diede saggio di un metodo cosi lucido e giusto specialmente
neir ordinamento del materiale usalo per l'edizione e nella costituzione del testo da
recare il miglior servigio alla scienza ed al suo nome.
Tale r opera scientifica del Caneilo. Egli fu dunque glottologo e critico; ma e
come glottologo e come critico, poiché in lui dominava la tendenza speculativa,
causa di suoi pregi e di suoi difetti, ci apparisce anzi tutto un pensatore. Cercare
e ordinare i fatti non gli bastava: egli voleva scoprire la legge, che li ha prodotti e
li governa. A questo miriamo tutti; ma è necessario possedere la serena facoltà di
attendere dal numero crescente delle prove la possibilità di stabilire sicure dottri-
ne; altrimenti la legge de' fatti non riesce la sintesi positiva o più probabile delle
indagini particolari obbiettive e minute, ma una nostra frettolosa creazione fanta-
stica. Di qui la coscienza negli studiosi della necessità di rendere sempre meglio
perfetta 1' analisi de' fatti , di affinare il metodo della ricerca per poter avere così
abbondanti, così certe, così ordinate le prove da ottenere un procedimento critico
preciso e conclusivo. Il Caneilo invece dalla investigazione dei fatti trascorreva
talora troppo presto, coli' amore del poeta che persegue una imagine bella, a fer-
mare la teoria; nò sempre sapeva resistere al desiderio di supplire colle gagliarde
sue forze ideative al difetto di materiale, ricavandone cosi costruzioni geniali, in
cui il filosofo e r artista si confondevano, ma non effettivamente solide. La brama
impaziente del nuovo qualche volta lo trasse ad abusare delle qualità preziose delia
sua intelligenza, e lo illusero le parvenze del paradosso. Ma 1' armonia dell' ardi-
mento e della prudenza è di pochi privilegiati: forse nella maturità piena degli
anni e degli studi il Caneilo, che ad essa mirava, sarebbe riuscito a comporla in
sé stesso attenendo per tal modo le splendide promesse del suo ingegno.
E quale fu egli come uomo? Candido operaio della scienza, lungi dalla realtà
volgare, in una sfera alta cercava le gioie pure del pensiero; onde la sua vita fu
tutta raccolta in una meditabonda solitudine. Figlio de' campi serbò intatte la
schiettezza e fierezza native; ebbe sola religione la verità. Si temprò saldamente nella
lotta ostinata per la esistenza : fu quindi severo e pensoso. Aborri da vanitosi at-
teggiamenti, sdegnò facili plausi; ambi solo, intellettualmente e moralmente aristo-
' Vedi Prefazione aW Arnaldo, pag. in.
— XXXVI —
cralico, l'ardua lode de' sommi. Come tulli i forti fu semplice e buono: non
isprecò tuttavia i tesori del suo cuore squisito, ma li serbò a pochi degni, co' quali,
e nella intimila confidente della famiglia, l'uomo rigido scioglievasi a festività se-
rena. Dopo durissime prove, colle sole sue forze, era giunto a procurarsi lieto e
sicuro l'avvenire. Tutto oramai gli arrideva: gli era rinata la fede nella ribelle sa-
lute: r ordinariato e il premio di Montpellier' meritamente avevano compensato le
sue lunghe fatiche. Fuori sonava onorato il suo nome : nella casa lo beava la grazia
ineffabile del crescente figliuolo: egh potè dirsi finalmente contento.' Ma questa
frase gli parve fatale; non doveva, povero Canello, essere felice. Il 29 maggio 4883
uscito a diporto, inesperto auriga d' una rozza bizzarra, dalla sua casa di campa-
<Tna, fu travolto in una corsa perigliosa, balzò di carrozza per salvarsi, ma, ca-
dendo, appuntellò il grave corpo sul gomito sinistro, che si frantumò. Vano riuscì
ogni soccorso: perchè avesse più efficace e sollecita assistenza fu tradotto dalla villa
neir ospitale di Padova; ma l' infezione si diffuse irresistibile nel suo organismo, e
sull'alba de' 12 giugno si spense.
Nur der verdicnt sich Freiheit wie das Leben
Der taglici! sie erobern muss.
Con l'opera assidua egli s'era conquistali e si conquistava ogni giorno questi
due beni supremi: la libertà e lavila; egli dunque se li meritava. Invece sparve giù
nell' eterno buio a irentacinque anni, e non vive più, povero maestro, povero ami-
co, se non nella fama delle sue opere, nel pianto e nel desiderio della sua vedova
e del suo orfano, nella memoria degli amici devoli e de' suoi allievi.
Vincenzo Crescini.
' ottenne la promozione ad ordinano con E. Decreto 9 novembre 1SS2. — È noto che la Società per lo
sti'.dio delle lini/ue roramizc residente a Montpellier gli assegnò per VAniaìdo Daniello il premio 'che aveva desti-
nato ne'snoi concorsi del 1S83 « au meilleur travail de pliilologie romane > sia nel dominio dell'oc che dell' 0(7.
Vedi Revue. des langues romanes, t. XXIV, pagg. 15-16.
- . Ah! Fanny, • esclamava egli la mattina del 20 maggio, volgendosi con insolita gaiezza alla mesta com-
pagna della sua vita, « Ah Fanny, ora sono contento ! »• Gceezoxi, Disc. pag. 4. Poche ore appresso avs-eniva il
funesto accidente, qui sopra accennato, che trasse il Canello a morire.
XXXVII —
ELENCO DELLE OPERE E DEGLI SCRITTI VARI
DI UGO ANGELO CANELLO.
1870. — Ricordi ci' Autunno. Versi. Padova, Fratelli Salmin.
1871-72. — Il prof. Feci. Diez e la filologia romanza nel nostro secolo. Rivista Europea, 1 novembre
1871 — 1 febbraio 1872.
1872. — Storia di alcuni participi nelV italiano e in altre lingue romanze. Rivista di Filologia Ro-
manza, Voi. I. p. 9-19.
— A proposito ci' un luogo della Vita Nuova; nota filologica. Ibid. p. 46-51.
— FoRNAciARi. Grammatica Storica della lingua italiana estratta e compendicda dalla Gramm.
romana di Fed. Diez. P. I. Morfologia. — De-Mattio. Sintassi della lingua italiana,
con riguardo alle pirincipali attinenze della Sintassi latina e greca. Ibid. p. 67-60.
[L'estratto di questi ultimi tre articoli comparve sotto il titolo: « Tre studi neola-
tini » Imola, Galeati].
1873. — Del Metodo nello Studio delle Lingue Romanze. Prelezione tenuta nella R. Università di
Padova. Rivista Europea, 1 febbraio 1873.
— Sidla Storia della Lingua Italiana. Lezione tenuta nella R. Università di Padova. Estratto
dal Corriere Veneto giornale padovano.
— Dei Sepolcri, carme di Ugo Foscolo commentato per uso delle scuole. Padova, tip. del
Seminario, M. Bruniera.
— Recensione del I Voi. àeil' Archivio Glottologico Italiano, neW Archivio Veneto. Tomo YL.
parte I. p. 139-49.
1S14:. — Suir origine dell'unica forma flessionale del nome itcdiano, studio di Fr. d'Ovidio, Pisa
1872. Recensione nella Riv. di Filologia Romanza , Voi. I. p. 129-33.
— Della « Positio Dehilis » nel latino. Rivista di filologia e d'istruzione classica, Anno li.
p. 226-35.
— Appendice alla « Storia di alcuni paìiicipii. » Riv. di FU. Romanza, Voi. I. p. 188-91.
— TI Vocalismo tonico italiano : §§ 1-8. Ibid. p. 207-225.
— Recensione del II Voi. dell' Archivio Glott. Italiano Ibid. p. 273-75.
1875. — Etimologie. Ibid. Voi. H. p. 111-12.
— Il GidnicelU è bolognese? Ibid. p. 116.
1876. — La Domenica mattina, daU' alemannico di P. Hebel. Nel Le Prime Letture del prof. Luigi
Sailer (Milano), Voi. dell'anno VII. p. 31-32.
— Lingue Sintetiche Lingue Analitiche. Ibid. p. 171-76.
— Le Corti cV Amore: I. La favola. Ibid. p. 286-88.
— » » II. Origine e morale della favola. Ibid. p. 300-4.
— Diporti filologici. I. A tavola. Ibid. p. 345.
— Federico Diez e le lingue neolatine. Illustrazione Italiana,, 20 agosto 1876, p. 183.
1S77. — P. Rajna, Fonti dell' Orlando Furioso. Recensione nella Zeitschrift filr Romanische Phi-
lologie. T. L p. 125-30.
— Il Vocalismo tonico italiano. §§ 9-11. Ibid. p. 610-22.
— Perder V erre. Ibid. p. 667.
— Saggi di Critica Letteraria. Bologna, ZanicbeUi.
— Diporti filologici. II. Abiti esterni ed Abiti inferni. Nel Le Prime Letture. VIII. p. 71-79.
— XXXVIIl —
lS~tl. — Diporti fiìoloffici. III. Divertimenti. Nel Le Prime Letture. Vili. p. 119-25.
_ . » IV. Vita Pubblica. Ibid. p. 23440.
_ :, » V. Monete. Ibid. p. 286-88.
— !> » VI. Industria e Commercio. Ibid. p. 326-33.
1878. — Lingua e Dialetto. Giornale di FU. Romanza. Voi. I. p. 2-12.
— Sopra una canzone di Gino da Pistoja. Lettura di P. Canal. Recensione. Ibid. p. 57-58.
— a Arrivare. » Le Prime Letture. IX. p. 26-28.
— « Strada e Boute. » Ibid. p. 44-48.
— « Cieco, Orbo e Aveugle » Ibid. p. 58-60.
— « Beccajo e Macéllajo. » Ibid. p. 136-,S8.
— « Olio ed Oglio. > Ibid. p. 168-70.
1879. — Die Biographie des Trobadors Guillem de Capestaing und ihr historischer Werth von
Emil Beschnidt. Recensione. Giorn. di FU. Romanza. Voi. II. p. 75-79.
— Gli Allòtropi italiani. Archivio Glott. italiano. Voi. III. p. 285-419.
1880. — Storia della Letteratura italiana nel secolo XVI. Milano, Vallardi.
— Dei Sepolcri, carme di Ugo Foscolo comm. per le scuole. II ediz. interamente rifusa. Pa-
dova, Draghi.
1880-81. — Peire de la Cavarana e il suo serventese. Giornale di FU. Romanza. Voi. III. p. 1-11.
1881. — Fiorita di Liriche Provenzali tradotte. Bologna, Zanichelli.
— Versioni dalla Chanson de Roland. Per nozze Turazza-Ferraj.
— » i> » » Nuova Antologia. XXIX. p. 529 sgg.
1882. — Letteratura e Darwinismo. Lezioni Due. Padova , Draghi.
— Dante imitatore dei Provenzali. Domenica Letteraria. Anno I. n. 34.
1883. — La Vita e le Opere del Trovatore Arnaldo Daniello. Edizione critica, corredata delle va-
rianti di tutti i manoscritti, d' un' introduzione storico-letteraria e di versione, note,
rimario e glossario. Halle , Max Niemeyer.
— Due versi greci nella Divina Commedia, Convivio (Siracusa) Anno I. n. 1.
— <j Ad inveggiar cotanto paladino. » Ibid. I. 3.
— Rapporto sulla « Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli della lingua. » Li-
teraturblatt fiir germanische und romanische Philologie. IV. 1.
— Rapporto sugli ultimi volumi della Scelta di Curiosità Letterarie. Ibid. IV. 6.
— Dei Sepolcri ecc. Ediz. Ili interamente rifusa e aumentata d'una introduzione. Padova,
Draghi.
— Della obbiettività nella critica. Lettura fatta alla B. Accademia di Scienze , lettere ed arti
in Padova, e pubblicata nella Rivista Periodica de' lavori di essa. Trimestre III e
IV del 1883, voi. XXXIIL
A questo Elenco è da aggiungere una serie di articoli bibliografici pubblicati nel mi-
lanese Corriere della Sera e firmati Sylvanus.
Il Canello lasciò anche scritti inediti. A me sgraziatamente non fu concesso, per
quanto abbia tentato, di vederli; dal Guerzoni, che a p. 31 del suo Discorso ac-
cenna a « tutta la congerie del materiale inedito, » rilevo unicamente che sono
numerosi. Lo stesso Guerzoni mi assicurò che l' opera migliore delle postume
è il Disegno d' una Storia della Lingua Italiana. Oltre alle Lezioni sulla Lettera-
tura Provenzale già notate, indico qui, sempre valendomi del citato Discorso del
Guerzoni, p. 31. n. 2, una traduzione compiuta delle Affinità Elettive del Goethe,
una versione in prosa della Chanson de Roland, una novella originale di Sylva-
nus. Aggiungo per mia parte che , secondo quanto ebbe a dirmi certa volta il
Canello stesso, devono trovarsi fra le sue carte i capitoli inediti del Vocalismo
tonico italiano.
V. C.
MISCELLANEA
FILOLOGIA E LINGUISTICA.
UEBER DIE NATIONALITAT DER BULGAREN.
In der zweiten Halfte des siebenten Jahrhunderts unserer Zeitrechnung —
einige setzen die Begebeiiheit in die Zeit zwischen 660 und 668 — eroberten die seit
4^5 geschichtlich bekannten Biilgaren das von dem slavischen Stamme der Slovenen
bewohnte Mòsien. Schou im zehnten Jahrhunderte waren die Eroberer in der Masse
der Slovenen untergegangen : tò twv XdXojBsvòJv -jévoi; eiV oóv BouXYàfiwv. Das so
entstandene Volk redete die slovenische S^irache, die schon friili auch die bulga-
rische liiess (Vita Clementis e. 2). Dass das Volk bald ausscliliesslicli das biilgarische
genannt wtirde, hat in dem politischen Uebergewichte des nichtslavischen Bestand-
theiles des Volkes seinen Grund. Nicbt die Zahl, sondern die staatliche Bedeutung
ist bei der Namengebung entscheidend , wie die Namén Frauken, Russen u. s. w.
deutlich zeigen.
Was fur eiA Volk waren nuu die Bidgaren? Dass sie keine Slaven waren, darf
als unbestreitbar angesehen werden; allein in der Beantwortung der Frage, welcher
Vòlkergruppe sie zuzuweisen seien, gehen die Forscher auseinander. Zeuss 722
meint, dass sie, mit den Huunen verwandt, zum grossen Nomadengeschlechte der
Tlirken gehòrten. Safafik, Sebrané spisy 2. 176, hàlt sie fur eineu Zweig des iin-
nischen Volkes. Derselben Ansicht ist Peschel 409. Nach Eòsler, Romànische
Studien 251 , 259 , waren die Bulgaren ein Stamm der von ihm fiir Ugrier gehaltenen
Samojeden oder diesen zunàchst verwandt, wobei namentlich an die Juraken nnd
Ostjak-Samojeden gedacht wird. P. Hunfalvy, der Vàmbéry's Behauptung von dem
tiirkisclien Ursprunge der Bulgaren bekampft, meint, die Bulgarensprache sei
keine ausschliesslich tiirkisclie, sondern vielmehr eine ugrische, d. i. finnische,
gewesen (Vàmbéry's Ursprung der Magyaren 15). Die Gelehrten rechnen demnach die
Bulgaren theils zu den Turken, theils zu den Finuen, theils endlich zu den Sa-
mojeden. Der unbestimmte Ausdruck « Altaier » ist mit Eecht aufgegeben worden.
Indem ich nun die Streitfrage priife, mòchte ich vor allem die Samojeden
beseitigen : Ròsler's Griinde scheinen mir niclit beweisend. Was jedoch die Turken
und die Finnen betrifft, so mochte'icb beide Volker an der Bildung der bulgarischen
Nationalitàt Theil nehmen lassen, die ersteren als die fuhrenden, die letzteren als
1
ilie folgendeu , folgsameu. Mir scheint dies mit deu in der Gescliiclite hervortretenden
Naturanlagen beider Vòlker im Einklange zu stehen. In welchem Zahlenverhiiltnisse
sie an der Bildung der Nationalitàt der Bulgaren Antheil haben, isfc ein Geh.eimniss
und wird es filr alle Zeiten bleiben, da wir hier nicht wie bei den Magyaren eine
lebende Sprache befragen kònnen. Die Sprachen der Drànger und derjenigen, die
ilmen Heeresfolge leisteten, sind verklungen. Dass in alter Zeit eine Ideine Anzahl
kraftvoUer Fiihrer ein zahlreiches Volk wie eine Heerde vor sich ber nnd in
Schlachten treiben konnte , zeigfc die Geschickte der Wenden , wie sie uns Fredegar
aus dem siebenten Jahrhundert erzàhlt: « Winidi Befulci (Praefulci) Chunis fuerant
jam ab antiquitus, nfc cum Chuui in exercitu centra gentem quamlibet adgre-
diebant, Ckuni prò castris adunato illorum exercitu stabant, Winidi vero pugna-
bant. Si vero ad vincendum praevalebant , tuno Ckuni praedas capiendum adgre-
diebant; sin auteni Winidi superabautur, Ckunorum auxilio fulti vires resumebant.
Ideo Befulci (Praefulci) vocabantur a Ckunis, eo quod duplici in congressione
certaminis vestita praelia facieutes ante Ckunos praecederent ». Nack Zeuss 736
entkalt der Scklusssatz eine misslungene Etymologie: bei he sckeint an his gedackt
worden zu sein. AVer praefurci statt praefulci liest, erhàlt eine Form, dio niclit
nur einen altsloveniscken préduborici [Vorkampfer, ;tpó[xay_o?] so genau als mòglick
entsprickt, sondern auck in die KStelle vollkonimen kineinpasst. Nackweisbar sind
altslov. borici àYcavtarfji; und prédùborinikù 7Cfjó|j,ay_oc. Daker ist die Stelle zu
iibersetzen: « Die Wenden dienten den Hunnen von altersker als Vorkampfer »
u.s.w. Bei den Ziigen der Magyaren mogen die Tiirken die Eolle der ikneu
stammverwandten Hunnen , ^ie weit zablreickeren Finnen kingegen die der Wen-
den gespielt kaben. Das Magyariscke ist eine finnisoke Spracke.
Das kier dargestellte Verkàltniss ist geeignet das Ràtksel zu lòsen, wie
es kam, dass so viele gewaltige Vòlker, die ganze Liinder mit Sckrecken erfullten,
in kurzer Zeit spurlos aus der Gresckickte versckwinden , wie die Avaren, von
denen Nestor sagt: pogybosa aky Obre, ikiize néstì plemeni ni naslèdinika. So
gingen auck macktige deutscke Vòlker unter, wie die Gotken, Gepiden, Sueven,
Burgunden.
Nodi eine Bemerkuug sei mir gostattet kier anzuscklicssen. Hinter den Slaven
im Osten woknen nicktariscke Vòlker, die die keutige Etknograpkie in drei Gruppeu
zerfallt und zwar, wenn man vom Norden gegen Sùden fortsckreitot, Samojeden,
Finnen (UraUer) und Tiirken (Altaier). Von diesen Vòlkern kaben die Tiirken
zaklreicke Eroberungsziige gegen Westen unternommen, bei denen ikneu wohl
mekr als einmal Finnen Heeresfolge leisteten. Sckon der tinilbertroflEene Zeuss kat
die Hunnen, die Bulgaren, die Avaren, die Ckazaren, die Petsckenegen und die
Kumanen, sowie einige miiider bedeutende Vòlkersckaften als Tiirken erkannt.
Damit stimmen neuere Forsokungcn iiborein : man vergleicke Golubovskij's gelekrte
Abliandlung: Pecenégi, Torki i Polovcy,iii den liiewer Universitàtsberickteu, 1883,
Màrz. Die Finnen kaben allein wokl nie einen Eroberungszug unternommen.
Dass der Name Bulgaren ein tiirkisckes Volk bezeicknet, ergiebt sick daraus,
tlass bis ziim lieutigen Tag die turkisclieii Bewohuer des Gouvernemeiits Kazan
sicli eutweder nach dem Glauben Muselmauner, oder nach der Abstamniung
Biilgaren nenueu (Ostroumov 10).
Dass die Bezeichuungen der Aemter uud Wiirden bei deu Bulgaren aixs der
Sprache des herrscheudeii Volkes entlehnt wiirden, ist natiirlich. Von diesen Be-
zeiolmuugen %vill ioli hier zwei vorfiiliren, von denen die eine, sanù, nach meiner
Ansickt unzweifelhaft, die andare, boljarinu, wahrscheinlich tiirkisclien Ursprungs ist.
Die Sprache der pannonischen Slovenen war in der zweiten Hàlfte des neunten
Jahrhunderts Sprache der Kirche geworden. Sie wurde am Ende des neunten oder
zu Anfang des folgeuden Jahrhunderts mit den Kirchenbiichern zu den Bulgaren
gebracht. Hier wurde eine gròssere Anzahl von Bùchern verfasst, theils von
unmittelbaren Schùlern Method's, pannonischen, theils von bulgarischen Slovenen.
Es ist natiirlich, dass in diese Biicher aneli Wcirter Eingang fanden, die den panno-
nischen Slovenen unbekannt waren. Zu diesen Wortern gehort sanù iind wohl
aneli boljariiiii.
I. Tiirk. san, Ansehen; sanie, beriihmt; sanmak, dafiir halten, scliatzen. Zenker
493. 2; 563. 2. Hindoglu 262. 269. Nach Pavet 342 ist osttiirk. sanamak, compter,
estimer; nach Ostroumov iij. bedeutet san Ehre. Aus dem tiirk. stammt auch das
kurd. san, compte. Fick's Zusammenstellung des altslov. sanii mit altind. san
1. 789. ist unrichtig. -- Altslov. sanii, honor, dignitas, potestas: sup. 50. 10. contu-
bernium ist wohl falsch. Von sanii stammen sanovitìi, sanovinilm, sanoljubici
u. s. w. Das Wort liat mit den Kirchenbuchern Eingang in das russ. gefunden :
dasselbe gilt vom kleinruss. Die heutige Volkssprache der Serben, wie die ubrigen
lebenden slavischen Sprachen, kennen das Wort niclit. In die iilteren serbischen
Denkmaler ist santi aus der Kirchensprache eingedrungen : man vergleiche Danicic
rjecnik. Sanovnik in den von Petranovic lieransgegebenen Volksliedern 3. 67. zeugt
fast gegen die Echtheit des Liedes. Mit sanù glaube idi samùcija, samùcij oly.ovófj-o?
in Verbindung bringen zu sollen, indem idi es fùr aus sanùcija eiitstanden ansehe:
san mit dem tiirk. Suffix ce, dze. Mit samùcija hàngt zusammen aa[n[jfji; Vita Cle-
mentis e. 23: oO-ev xai ite BouX-i'àpoiv, 'E-/àTC'']C trjv xX'ijatv , aaiJ.(jj-i]<; tò à^iwjJ-a. Unter
den Namen der Gesandten des Bulgarenherrschers, welche auf dem Concil von
Constantinopel erschienen, Mansi 16. 158, findet sich das Wort scamphis, das Ròsler
252 fùr die Bezeichnung einer Wiirde lialt und sampsis lesen mochte. Sanù und
die damit verwandten Wòrter siud im Codex Suprasliensis hàufig: da das Wort
nicht pannonisch, sondern speciiisch bulgarisch ist, so glaube ich annehmen zu
diirfen, dass die Schrift in Bulgarien uud zwar von einem Schiller des Metliod'.s
verfasst wurde.
II. Schwieriger ist die Deutuiig vou boljarinu, boljari ap/ow, uzaioi;, aoYitXrjnxóc;
u. s. w. Wenn man die Ableitung von bolij als kaum wahrscheinlich aufgibt, so
bietet sich das im mittelgriechisclieu vorkommende , wahrscheinlich tùrkische
PoXia?, plur. [joXtaSs?, etwa in der Form bolija, als Thema dar, das sich zu boljari
— 4 —
■wie gospodi zìi gospodari verhalt. Das Wort ist nicht allgemein slavisch: altslov.
boljarinù, wolil nicht panuonisch; bulg. bolérin; serb. boljar aus dem bulg., avis
welcher Sprache das Wort auch das alb. und das rumun. entlehnt haben: bujar,
bojer. Wie ist jedoch das Wort in das russ. gerathen? (bojarin) Kaum durcli
Vennittelimg der Kirchensprache , da es ein der Volkssprache allgemein bekannter
Ausdruck ist. Aus dem russ. haben das Wort die Litauer und Letten geborgt: ba-
joras, bajàrs.
Ich beabsichtige den G-egenstand welter zu verfolgen und hoffo darzuthuu,
dass der Anspruch der Tiirken auf die Bildung der bulgarischen Nationalitàt auf
festeren Stutzen ruht als der der Finuen: die fiir diese angefùhrten Grùnde sind
nochmaliger Priifung bediirftig.
Franz Miklosich.
UEBER DEN LATEINISCHEN URSPRUNG
1»KR UOMANISCIIEN F LT XFZEIiNSILBN ER UND DAMIT VERWANDTEK
WEITERER VERSARTEN.
Im Jahrbuch fùr rom. und engl. Literatur Bd XII und in der Zeitschrift
fùr romanische Philologie Bd II, III, IV, 476 hat Bariseli den keltischen Ui'sprung
einiger romanischen Versarteu verfochten und seine Ansicht trotz der dagegen von
Arhois de JulainviUe und G. Paris erhobenen Einwendungen aufrechterlialten. Der
Schwerpunkt von Bartsch's Argumentation beruht uun was die Herleitung des
provenzalischen Vierzehn- (Fiinfzehn-) Silbners aus dem Keltischen statt aus dem
Lateinischen anlangt, darin, dass ihm die mànnliche Càsur dieses Verses nach der
siebenten Silbe als die ursprungliche erscheint, und zwar weil eine Langzeile von
14 Silben mit einer màmilichen Càsur nach der siebenten Silbe in der irisclien
Poesie eine gauz gelàufige Form sei. Die weibliche Casur dùrfe daher im Proven-
zalischen nur vertretungsweise fur die mànnliche eintreten. Schon das scheide
den Vers streng vom ròmischen Tetrameter, dem die weibliche Càsur nach der
achten Silbe unentbehrlich ist (Zeitschr. II, 218). Dieser Auffassung von Bartsch
kann ich ebeuso wenig wie Gr. Paris (Romania IX) zustimmen. Sie basirt meiner
Ansicht nach insbesondere sowohl auf einer irrigen Auffassung von der romanischen
Càsur iiberhaupt, wie auf einer Verkennung der principiellen Verwendung der
weiblichen Càsur in zweien der drei in Frage kommenden Gedichte Wilhelm's IX.
Unter Càsur haben wir nach den fur mieli iiberzeugenden Ausfiihrungen Westphals
(in der Einleitung zur der von ihm gemeinschaftlich mit Rossbaeh verfassten
griechischen Metrik 2" Aufl. Leipzig 1868) nicht einen willkiirlich eingefiìhrten
Verseinschnitt, sondern eine mehr und mehr verschwindende Versnaht zu verstehen,
d. h. alle mit einer Càsur versehenen Verse sind als Perioden oder Langzeilen
anzusehen, welche durch Zusammenfiigung zweier metrisclier Reihen oder Kurzzeilen
entstanden. ' Der trochàische oder jambische Rhythmus der betreffenden Verse ^vird
nur scheinbar unterbroehen, wenn die Càsur eine mànnliche ist, da die ihr folgende
' Nur don Aoht-SUbner mit Caesur moohte ich als oinfaclie Reiho aiizohen. Dio Hiinfizlteit der lyrisoben und
der schwaclion (d. li. n.aoh der fiinften unbetonten Silbe eintretenden) Caesur und die Abneignng vor der opisobon
scheinen mir anzudeuten, d.iss die Ciisur hier nur durch den Ictus der vierten Silbe entstanden ist. Die weniBon
epischen Gaesuren diirfton doni Zohn-Silbner ihr Dasein verdanken.
Pause iu der fur recitirenden Vortrag bestimmteu Poesie sicherlich deutlicli in die
Ohren fiel und somit lange geiiug wàhrte imi den Zeitintervall der unterdriickteu
ictenlosen Silben auszufitllen. Der trochàische Tonfali specieU des Fiinfzelm-Silbners
wnrde also niclit verletzt, wenn nacli der sLebenten betonten Silbe die Casur eintrat
iind damifc der Fiinfzehn-Silbner zu einem Vierzehn-Silbuer verkiirzt wurde. Will
man sich aber iiber die Entstehiing dieses Verses Klarheifc verschalfen , so wird man
zweifelsohue von der volleren Form desselben ausgehen miissen, und ebenso ■ndrd
man bei der Erklàrung der so volkstbumlichen und beliebten romanisclien Versart
des Zelmsilbners (des itaHenischen endecasillabo) zu verfaliren haben, zumai der
geschiclitliclie Verlauf der weiblichen Càsur hier ergiebt, dass sie anfangs auch
niamerisch iiberwog aber dann scimeli mehr und mehr von der mànnlichen verdràugt
■wiu'de. (Man vgl. nur Boethius, Alexis, Roland und Brun de la Montagne.) Wie
solite man sicli auch die voliere Form dieser Verse aus der kiirzeren entstanden
denken?
Bartsch hat aber auch ferner bei seiuer Beweisfuhrung unberiicksichtigt
gelassen, dass nur in einem der drei Lieder "VVilhelm's IX, welche den Vierzehn-
respective Fiinfzehn-Silbner aufweisen, die màunliche Càsur verwandt wird und,
dass auch in diesem neben sieben mànnlichen zwei weibliche (B. G. 183, 3 Z. 15.
24) vorkommeu, wàhrend -wir in den beiden anderen Liedern nur weiblichen Càsuren
begegnen. (183, 4 Z. 18 ist verderbt uberliefert; ich lese: si non pot aver cavai, donc
ella compra falafrei.) Auch Marcabrun verwendet in dem vom Bartsch angezogenen
Gredichte die mannUche und weibliche Càsiir nach der siebenten Silbe. Somit musste
jedenfalls die Melodie auf die fiinfzehnsilbige Form der Zeilen eingerichtet sein.
Diese Ausfiihrungen dùrften geuiigen um den Aiisgangspunkt der Barfcschschen
Ai'giimentation zuriickzuweisen und damit jeden Anlass zu beseitigen den Ursprung
unseres Verses statt in dem accentuirenden Tetrameter der ròmischeu Volkspoesie
in dem vierzehn- (aber auch oft genug fiinfzehn-) silbigen Vers der Kelten zu
suchen. Dass sie siimmtlich aus der sechzehnsilbigen Langzeile der Indoeitropaer
hervorgegangen sind, wie ja auch Bartsch annimmt (Zeitschr. Ili, 363), spricht
sicher nicht gegen den rijmischen Ursprung des romanisclien Verses. IJbrigens
erstreckt sich die Verwandtschaft unseres Fiinfzehn-Silbners mit dem accentuirenden
Tetrameter nicht nur auf die gleiche Silbenzahl und • die gleiche Casur nach der
acliteu (siebenten betonten) Silbe, sondern auch ausserdem uoch darauf, dass die
dritte und elfte Silbe einen durch den AVortton deutlich markirten Ictus erhalten,
so dass wir hier also einen romauischen Vers mit vier festeii Accenten (3, 7, 11,
15) voruns haben, wàhrend die bekannteren anderen romanischen Laugzeilen, der
Zehn-und Zwolfsilbuer, nur zwei solcher Accente aufzuweisen haben. _ Freilich hat
die schlechte ÙberUeferung der drei in Frage kommendeu Gedichte Wilhelm's IX
in dieser Hinsicht Aielfach den wahreu Sachverhalt verdunkelt, doch làsst sich
derselbe nodi durchweg leicht wieder herstellen. [183, 4, Z. 6: iant l'us {noill) larga
[noill] l'estaca que [plus] V altres (plus) no laill ■pleJ. Man beachte die so zu Tage tre-
tende deutliche dreifache Binnenassonauz und vgl. Z. 3 cìainaJa : ganlaiflors) —
Z. it: lì \froji\ meno (troj/) major ìuiaza qua (In) maiiiada \fa\ (lei rei — F. b): n'om In,
loigiia de [jroeza qu'aò mal\eza\ ìioii plaidei — 183, 5 Z. 15: [en\ i liaison, wie Bartsch
Zoitsclir. II, 196vorschlug— 183, 3 Z. 12: Que miels for' encavalguatz de nuill home
\el ìnon\ viveii — Z. 15: qne de bail[e] si defen — Z. 18: ni per aur ni per argon — Z. 21:
qu'ieu (lo) tengites [lo] mais de cen] Eine eigentliche Càsur wie nach der achteii unbe-
tonten, ist uatiirlich nacli der vierten iind zwolften Silbe niclit anzimelimen, wohl
aber stellte sich wie von selbst bei der oxytonirenden Accentuation der meisten
provenzalisclien Worte meisfc nach der dritten und elften Silbe eine scheinbare
Càsur eiu, die aber nie weiblioh sein kann imd schon dadurch von der eigentlichen
Càsur uacli der ackten unbetonten Silbe deutlicli unterschieden ist. Man vgl. z. B.
die Zeile in Marcabrun's Clediclit :
hclamcn ah solai:: ijen ah conort de fin amor
daneben finden sich aber ini uàmlicheu Gredichte die Zeilen :
c'amors vairc~àl meu vejaire a l'uzalgéHl trahidor
seus serta, sim volta, ses hau~ia è ses errar.
Ebenso wie der Vierzehn-(Fiinlzehu-) Silbner ist auch der Elf-Silbner zu erklàren,
welchen G. Paris gegenùber Bartsch mit Itecht als eine Verkllrzung aus dem
ersteren ansieht. Aneli der Elfsilbner hat drei feste Icten nàmlich auf der dritten,
siebenten und elften Silbe. [In Zeile 2 von Marcabruns Lied wird sicher wie schon
von Bartsch selbst vorgeschlagen worden, zu àndern sein: e (per lo) \23el] hroiìl
naisso [U\ foill. Die Ueberliefernng von Wilhelm's IX Licderii làsst auch hier viel zu
wiinschen ubrig. Ich bessere 183, 3, Z. 2: et aura (i) mais [de] foudatz no Uj) a de sen —
Z. 13, [Car] l'uns fo dels montanhiers lo plus correa — Z. 20: Pero eu retine de lei tant de
coven — 183, 4 Z. 4: diz que ges, wie P. Meyer in seinem Eecueil liest — Z. 8: l'us
es gens compìains a for mandacarrei — Z. 16: e sii ten{ez) [om] acarcat lo bon conrei —
Z. 17: [non] adoba(s d'aquel) co que troba viron sei — Z. 20: s'om (li) vedava [li] v in fori
per malauei]. Die Casur fiillt bisweilen nach der achten Silbe, ist also weiblich, dodi
tritt sie meisfc nach der siebenten betonten Silbe ein, und Marcabrun hebt daher
die dritte und siebente Silbe durcli Binnenreim hervor; allerdings verwendet er
auch hier wie bei dem Fùnfzehnsilbner einige weibliche Reime, sodass sich Einschnitte
nach der vierten und achten unbetonten Silbe einstellen. Eine Verkùi'zung des
Elfsilbners zu einem Zehnsilbner analog der des Fiinfzehusilbners zu einem Vier-
zehnsilbner làsst sich aber uicht beobachteii, demi 183, 3 Z. 1 leso idi: companhs
farai un vers [molt] covinen und Z. 5 o dins son cor roluntiers [o] no[n[ [l') apren. ' Es
liegt hiernach ziemlich nahe den Elfsilbner aus dem Fiinfzehnsilbner durch Unter-
druckung eines der drei viersilbigen Glieder entstanden zu denken und in der That
hat G. Paris sich zu dieser AufFassung bekannt. Doch hat ihm Bartsch hierin mit
' Dor volksthtìmliche Zehnsilbner mit Caesur nacli betonter fiinfter Silbe diirfte direkt aus dem fùnfzehnsilb-
ner mit Unterdriiclinng der Senkiingen naoli den drei ersten Hanptioten, Sohwachung der zweiton und vierten
Nebeuictus zur Senljung, sowie Vereinfaehimg der so entstandenen zwei zweisilbigen Senkungen abzuleiten sein.
Eecht widersprochen. Demi es bleibt dodi vollig dunkel, was die Unterdriickung
des einen viersilbigen Gliedes veranlassfc haben solite. An eine willkùrliche Verstùm-
mlung, wie sie wohl ein Knnstdichter vornelimen kann, darf bei einer volkstliitm-
lichen Versarfc, als welclie der Elfsilbner unzweifelhaft anzusehen ist, nicht gedacht
werden. Ich stelle mir daher die Verkiirzung lieber folgendermassen vor: Hinter
zwei der vier Haupticteii des Fùnfzehusilbners wurde, ahnlicli wie in der deutsclien
und altitalischen Laugzeile, der syllabisclie Ausdruck der Senkung unterdrùckt
uud die Zeile dadurch zu einem Dreizehnsilbner verkùrzt. Derartige Verse, die
anfangs nur facultativ, also neben voUstàndigen Fiinfzehnsilbnern verwandt wiirden,
mehrten sich jedoch bei gewissen Diclituiigen derart, dass sie als die regelrecht
gebauten galteu imd deshalb als von den Fiiiifzehnsilbnern verschieden betrachtet
wurden. Sobald man danacli die die Senkung ersetzenden Pausen (und die Debnung
der voraufgehenden Ictussilbe) aufgab, musste, um den sonsfc unverineidlichen
doppelten Zusammenstoss zweier Icten und die damit Hand in Hand geliende
Verletzung des trochaiscKen E,hytmus zu vermeiden, je einer der beiden Icten zur
Senkung herabsinken. Die Meraus sich ergebende nothwendige weitere Consequenz
war die Verkiirzung der Zeile um je einen Tact an beiden Stellen. Die Verkiirzung
gab sich zuerst uoch dadurch zu erkenuen, dass in den zusammengezogeuen
Tacten die Senkung durch zwei Sii- ben ausgedriickt war, aber die Vereiiifacliung
konnte hier nicht lange ausbleiben. Ich gebe zur Verdeutlichung des Vorganges
folgendes Schema:
il I '-^ i il ' ^ ! " 1 ZA \ '1\ W L 1 \ ^J.
i- A I ^ 1 II Z 1 I ^ 'ZÌI 1 \\ L\ \ -
Zll^l'IZlI Z ] -- - ' - \ 'i
L\ \ 'i\. '' L)l \ '1 \ \ L 11 -
Die von Wilhelm IX verwandte Strophe begegnet man auch noch — und das
beweist ihre Volksthiimlichkeit — in neufranzosischen Volksliedern. Man vergleiche
nur das von Bartsch Zeitschr. Ili, 3(i8 angefiibrte Volkslied
Margoton prend son pauier, s'on va-t-aux meures,
M'sieur l'curé s'en va après , lisant ses hcuros
Margoton attends ino , atteuds mo Margoton , attends mo dono.
Die Verwandtschaft zu der Strophe, welche die von Joh. Schmidt eiitdeckte
und in Zacher's Zeitschrift fiir deutsche Philologie XII, 333 veròffentlichte lateinisch-
provenzaUsche Alba aufweist, ist bereits von dem Herausgeber selbst angedentet,
doch nur mit Bezug auf die drei darin zu einer Strophe verbundenen lateinischen
Elfsilbner mit regelrechter Càsur nach dem zweiten Trochaus, aber nicht auch mit
Bezug auf den besonders interessanten provenzalischen Refrain. Ich habe naich
hieriiber schonkurz in meinem Bericht iiber die romanische Philologie von 1875-
1883 ausgesprochen. [Vgl. Transactions of the phUological Society 1882-4 S. 138
oder Pàdagogisches Arcliiv vou Krumiue 1883 S. 40. Waruni solite ùbrigeus poif
nicht = poi i sein kònneu?] Der Refrain besteht aus 21 Silbon , die ich iu eiueu
Neun-und einen Zwòlfsilbner zerlege :
L' alba par umct mar atra sol
Poy pass' a bigil mira dar tGncbras.
Da der Neiinsilbner in drei gleiche dreisilbige Abschnitte mit betonter letzter Silbe
zerfallt , so konnten wir es in ihm mit einem derarfc verkiirzten Elfsilbner zn thun
haben, dass die der dritfcen wie sechsfcen Silbe nrsprunglich fblgende iktenlose Silbe
nnterdriickt wàre, und ebenso liesse sich der ZwolfsUbner , der in vier gleiche
Abschnitte zerfallt als eine ganz analoge Verkiirzung des Fiinfzehnsilbners auffas-
sen. In strophischer Hinsicht steht unserer Alba zuniichst die anonyme, welche
Bartsch ini Grundviss nuter 461, 113 auffuhrt, der in ihr begegnende Neun-Silbner
aber entspricht genan dem von Bartsch (Zeitschr. Ili, 377) ebenfalls aus einem kel-
tischen Vers abgeleiteten der spàteren provenzalischen iind altfranzosischen Poesie.
Anch der Zwùlfsilbner der ^^ba konnte znr Noth dem spatereu Alexandriner
entsprechen, dodi uiochte ich diesen lieber als eine secundiire Erweiterung des
volksthiimlichen Zehnsilbners betrachten, wie ich diesen seinerseits fur eine den
eben besprochenen analoge volksthiimliche Verkiirzung der alten indoeuropaischen
Langzeile und speciell des jambischen accentuirenden Tetrameters balte. Auf diesen
selben Vers wird ja auch der lateinische Saturnier zuriickzufùhren sein (vgl. dazu
die umfangreiche Arbeit Havet's De Saturnio, Latinorum versu, Parisiis 1880).
Abzusondern von dem Zwòlfsilbner der Alba und dem gewòhnliclien Alexandriner
ist endlich der Zwòlfsilbner mit drei festen Icten auf der vierten, achten und
zwolften Silbe, auf welchen wir kiirzlich von Thomas und Boucherie aufmerksam
gemacht worden sind [vgl. Rom. XII, 131] und welcher gleichfalls sowohl schon
bei Wilhelm IX begegnet, wie noch in dem lieutigen franzosischen Volkslied
verwandt wird und von hieraus sogar dem alten Alexandriner in der heutigen
Kunstpoesie Gefahr zu bringen droht. Ihn leite ich iu folgeuder AVeise aus dem
alten jambischen Seclizehn-Silbner ab:
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E. Stengel.
PROBLEMI FONOLOGICI
SULL'ARTICOLAZIONE E SULL'ACCENTO.
. . . es babou ilocli alle cliese spraeli-
liohen Dinge nioht viol melir Wni'th als
andere Cxiriositaten, so lauge es nicht ver-
sucht wird sie alti die Ergcbnisse wirkender
Krafte, darzulsgen , in iìirer unendlichen
Viclheit die Einhcit zu entdecken.
SCHUCHARDT.
L' accento, che bene fu detto l'anima della parola, inquantochè con esso si do-
vette in origine dare ad una sillaba maggior rilievo su certe altre, creando 1' unità
nuova di un vocabolo composto, facilmente produsse nella vocale della sillaba fa-
vorita notevoli incrementi , che s' accompagnavano con 1' affievolirsi ' e col perdersi
di altre vocali, poste nelle sillabe che più ne erano abbandonate. Quegli effetti
Jìsici continuarono naturalmente, anche quando la predilezione ideologica che ne era
stato il primo motivo venne a mancare. E con essi si complicavano di necessità al-
tre alterazioni molteplici dovute agK impulsi de' suoni vicini ; le quali si potreb-
bero chiamare vicende di adattamento, per contrapporle alle prime essenzialmente
ereditarie. Cotali vicende di adattamento sono fatti fisiologici, dipendenti da quella
legge universale del massimo risparmio di forza, per cui gli organi della favella
tentano di agevolare il loro lavoro e di ottenere combinazioni sempre più facili
degli elementi primi delle parole, meglio conciliando o meglio equilibrando le suc-
cessive articolazioni della laringe e della bocca.
Ma alla eredità ed allo adattamento si aggiunge sempre la legge della lotta per la
esistenza, o, se meglio si vuole, della maggiore o minore vitalità, che vale come per
tutte le altre cose anche per le parole. E ben può accadere che 1' affinità acustica di
suoni tra loro geneticamente diversi trasporti gii uni nell' orbita degli altri più
numerosi o potenti ; come nella mente parole e gruppi di forme possono la-
sciarsi vincere e distruggere da altre parole o forme più fortunate. Così i corpi ce-
lesti non obbediscono solo alle forze centrifuga e centripeta del loro sistema parti-
colare, ma da corpi stranieri ad esso e lontani hanno turbate le leggi del loro
cammino.
' AVVERTENZA. — 1,' KxAove, che aveva prima inviato ano studio alquanto largo sulle articolazioni orali e
sui contatti che haii luogo tra le vocali e le consonanti, invitato ad abbreviarlo, ha creduto bene di tor via ogni mi-
nuta discussione di esempi e tutte le note e eli presentare più nudamente, ma insieme più compiutamente le sue
idee, aggiungendo alcune osservazioni anche sugli oftVtti dell'«rc(ì«Yo orale: per modo che questo scritto si jmtesse
considerare quasi come una introduzione a certi natmi fonolOHici, a' quali egli attende con molto amore, sebbene
con poca speranza che altri li abbia ad attendere con qualche desiderio.
— 12 —
Né basta ancora. Dopo avere notato tntte queste cause di alterazioni , non
bisogna dimenticare eh' esse non operano mai in un solo individuo, ma anzi in
tutti qiielli che parlano una lingua: che ogni linguaggio insomma è sempre iin
fatto sociale. Perciò anche nello studio del più isolato e modesto dialetto bisogna
essere disposti a riconoscere qualche mischianza di voci e forme esotiche e lettera-
rie. Come il pensiero ond' è strumento, si dilarga necessariamente la lingua nella
società e nella storia; di questo suo dilatarsi serbando le traccie in ogni sua parte,
ed anche nei suoni.
Ma lasciando stare per ora le mischianze dialettali e storiche, e tornando a quelle
tre prime cause trasfiguratrici delle parole, le discordie dei glottologi sono ben so-
vente assai gravi. Nello adoperarle, per ispiegare gli identici fatti, chi mette in
prima linea l'efficacia àeW articolazione, chi quella dell' occeHto, chi invece quella
dell' analogia. Si direbbe che vi sieno sètte diverse e che ognuna si proponga di far
prevalere un solo de' numi della Triade a scapito degli altri due.
A me giova a questo proposito e in questo luogo ricordare di preferenza le
belle Osservazioni sul vocalismo italiano del Caix (Firenze, 1876). Pensava egli che ta-
lora fosse determinata dalla vocale la consonante: p. es. in muggine , jwrfido , anemolo;
talora invece dalla consonante la vocale, come in rovaio, dattero, modano (pag. 24).
Lo Storm, che aveva dato occasione al nostro Caix di scrivere quelle osservazioni,
credeva invece di dover esaminare le tendenze delle vocali atone , quanto fosse pos-
sibile , nella loro purezza. Non aveva osato negare in generale gli effetti dovuti alle
consonanti vicine; ma pare che dell'azione di queste non abbia voluto toccare,
mancandogli la fiducia di poter ben domare siffatta materia, troppo ribelle tutta-
via ad una trattazione scientifica. E qui appunto stava il divario fra i due valorosi
campioni. Secondo il Caix erano indubitabili particolari affinità e particolari ripu-
gnanze fra talune consonanti e talune vocali; ma, se non esprimo male con la mia
formola il pensiero di lui, gli effetti àeW atonismo gli parevano assai men fidi di
quelli dell' articolazione.
Questi divari di opinioni, tra gli studiosi di glottologia, si estendono oltre i
confini del vocalismo italiano, nel largo campo delle lingue ariane. Né deve parere
strano ch'essi vi sieno, perchè nello studio di fenomeni complessi, a produrre i
quali concorrono più forze diverse, è sempre molto difficile di non concedere alla
virtù di ciascuna niente di più e niente di meno di quanto le sia dovuto.
Il Curtius ed altri glottologi valorosi, ebbero già ad esprimere più volte il
desiderio che la natura e le leggi fondamentali dell' acce/ìfo , àelV articolazione e del-
l' analogia si indagassero con ricerche larghe e metodiche ; ed anch' io credo che la
giusta determinazione del valore di ognuna di queste cause, possa promuovere l' ar-
monia e la forza del lavoro comune. Ma poiché della causa psicologica si è molto
ragionato in qiiesti ultimi anni, ed oserei anzi dire che non abbia per avventura
avuto mai tanti e tanto ardenti sacerdoti, quanti e quali oggi ne conta; mi pro-
pongo di studiare con qualche diligenza le altre due, persuaso che neppur esse
meritino plinto men fervido culto.
— 13
TENTATIVO DI CLASSIFICARE IN UN SISTEMA UNICO DI ARTICOLAZIONI
LE VOCALI E LE CONSONANTI.
ÈCTTt, xaì TfviToy TOÙTOV SióXektos
rn Y>.uTT7i Sióp^podic.
Presuppongo, come già accennai, che sieuo valide anche per gli organi vocali
le leggi fisiologiche onde sono retti tutti gli altri movimenti: che sia dunque su-
prema quella del minimo dispendio di forza, cioè della sostituzione de' muscoli più
vicini ai più lontani, de' meno stanchi ai più stanchi e via via. Ed escludendo per
ora le perturbazioni acustiche, ne deduco subito che le mutazioni delle vocali e
delle consonanti devano essere mstmilazimii per ottenere agevolezza di articolazione
o dissimilazioni per evitare la stanchezza soverchia; sicché per gli incontri de' suoni
devano prevalere le prime e per i ritorni men prossimi debbano aversi di regola le
seconde. Ma è chiaro che non si potranno determinare uè le une né le altre, senza
ordinare prima tutte le voci elementari in un sistema unico. Come può infatti il
glottologo trattare compiutamente delle affinità e delle ripugnanze possibili in una
o in più sillabe fra le consonanti e le vocali, s'egli non abbia esatta notizia delle
varie articolazioni di lingua e di labbra che occorrono per queste e per quelle?
E intanto uno schema ben determinato e universalmente riconosciuto delle so-
miglianze di articolazione, che stringono insieme le vocali con le diverse consonanti,
si cerca invano ne' migliori trattati di fisiologia delle voci. Di siffatte relazioni non
tutti parlano o ne parlano brevemente e con le contraddizioni più gravi.
Il Brùcke, ancora nella seconda edizione del suo classico libro, non dubitava
di muovere rimprovero agli antichi grammatici indiani, perchè essi vollero congiun-
gere le consonanti e le vocali in uno stesso schema. « Non è ben fatto, egli dice , di
distribuire, come le consonanti, anche le vocali secondo luoghi diversi di articola-
zione, perchè la formazione loro dipende da principi del tutto diversi; ma commesso
una volta questo errore , non se ne commette più altri , ove si assegni , come fecero
gli Indiani, a alla gola, i al palato, u alle labbra. » (C. IX, pag. 100). Ben fu costretto
— 14 —
dal facile e freqiieute passaggio dell' u e dell' i nelle spii'anti v, J a scrivere un ca-
pitolo , affine di determinare que' punti di sistema delle voci dove le consonanti e le
vocali si toccano ; ma lasciando stare che quel passaggio non è descritto da lui con la
solita perspicuità, esso gli fece inciampo e non l'aiutò punto a salire alla considera-
zione di una serie continua e intera de' contatti di articolazione tra le consonanti e
le vocali; serie che mi pare, con rapido cenno, affermata meglio che da ogni al-
tro dall' Ascoli, nelle Lezioni di Fonologia (a pag. 43), dove parla di sviluppi intermedj
tra vocali e consonanti « che domandano speciale indagine per ogni singola con-
giuntura. » Secondo il Briicke invece , solo perchè u ed i sono le due vocali più im-
perfette ed estreme segnano i punti di confine; e que' punti sono i due soli possi-
bili, sicché dimostrano, meglio che gli inizi di una linea continua di contatti con le
consonanti, la separazione delle vocali da esse (C. Vili, pag. 90).
Il Sievers, in quella sua opera accuratissima che è nelle mani di tutti gli stu-
diosi delle lingue ariane, non segue una teoria molto diversa da quella del Briicke.
Egli unisce bensì le liquide e le nasali con le vocali propriamente dette; ma solo
perchè quelle possono anche assumere natura veramente vocalica e sostenere l' ac-
cento sillabico, avendo nella loro formazione fisiologica lo stesso carattere di sono-
rità (reine Stimmtonlaute). Del resto tien distinte, anche più recisamente che non
avesse fatto il Briicke, le serie delle vocali dalle altre voci, da tutte le consonanti
propriamente dette , le quali non sono altro che romori {Gerauscldaide).
E lo stesso fa ancora il Techmer, nel suo recentissimo lavoro pubblicato nel
Periodico Internazionale per la Scienza del Linguaggio. Si contenta di notare la liquida e
la nasale sonanti, e di porre a parte le due semivocali j , w. Ma scinde, anch' egli,
la trattazione delle voci in due sezioni: di quelle che richiedono apertura della
bocca, e di quelle a cui occorre una forte stretta o la chiusura. Questa contrapposi-
zione di articolazioni egli pone a fondamento del suo sistema fisiologico genetico
delle voci; onde appare che la determinazione dei trapassi fra le consonanti e le vo-
cali avrebbe dovuto riuscirgli ben facile. Ma egli evita anzi le denominazioni di vo-
cali e di consonanti; avvertendo che si usano dai fonologi in significati troppo
diversi, ora in senso fisico-acustico, per indicare suoni o romori; ora in senso fisio-
logico-genetico per le articolazioni a bocca aperta e le articolazioni a bocca chiusa;
{Mimdoffner-und Schliesser); ora, -per le voci principali e per le voci secondarie nelle sil-
labe. Quasi gli sfuggisse l'armonia che v' ha fra tutti questi caratteri, i quali sono pure
stretti insieme da legami di causa e di effetto, non sente l'opportunità di integrare
la trattazione delle voci elementari con quelle de' loro contatti e dei complessi sil-
labici, sempre seguendo gli stessi criteri direttivi. E cosi la classificazione delle voci
riesce anche per lui propiziamente acustica. Anche il Techmer insomma, come il
Briicke e il Sievers, bada anzitutto a ciò che avvenga o non avvenga nel torace e
nella trachea. Io non intendo sicuramente di oppugnare siffatte considerazioni. Sta
bene che si cominci con esse, perchè non si riuscirebbe altrimenti ad avere una
giusta idea della diversa origlile delle voci. E senza dubbio l' ignoranza del diverso
accento espiratorio, il trascurare la diversa qualità dei rumori o de' suoni della glot-
tido, il coutouderli con i romori che dall'aria espulsa, si producono uella bocca o
con le varie modificazioni che ivi assumono le voci laringee, possono essere cause
di gravi errori anche allo storico della parola. La classificazione acustica è necessaria
non solo per lo studio primo degli elementi fonetici, ma si deve farne gran conto
anche per quello degli spiriti che iniziano o tei-minano le vocali, per quello delle
sillabe, per quello dell'accento musicale, della declamazione e del canto; per tutte
lo (piali cose la tensione dei muscoli d§l torace, delle corde vocali, e della trachea
ha importanza suprema. Ma dovrebb' essere anche evidentissimo che per bene inten-
dere la ragione delle reciproche influenze delle voci elementari, molto più che ai
fenomeni della stessa glottide, o jier dirla cogli antichi indiani al baliìjajjrai/atua, l'at-
tenzione debba rivolgersi al karana ed allo sthCiua, all' atto cioè ed al luogo di arti-
colazione delle voci nella cavità orale. Bisogna badare attentamente alla varia ener-
gia della mascella inferiore e de' suoi muscoli , a' movimenti propri delle labbra e
della lingua, studiando principalmente gli atteggiamenti molteplici di quest' ultimo
organo mobilissimo, chi voglia ben ordinare la serie graduale di conformità e di
difformità ck'e favoriscano o contrastino l' unione delle vocali e delle consonanti
nelle sillabe e nelle parole. E poiché le mutazioni fonetiche dovute al diverso ac-
cento orale ed alle affinità o ai contrasti delle voci elementari, per complessità di
fenomeni, per intensità di effetti, per frequenza di casi, non sono certo inferiori alle
alterazioni prodotte dal variare della forza espiratoria e dalla diversa musicalità,
per cosi chiamarla, dell'umano linguaggio; non si dovranno punto condannare,
come fece il Briicke, i grammatici indiani per avere volato classificare anche le
vocali insieme con le consonanti secondo lo sthdiia ed il kai-aaa. Piuttosto saranno da
biasimare i fisiologi moderni , i quali nelle loro esposizioni mostrarono di non aver
saputo apprezzare abbastanza l' efficacia capitalissima che hanno per le vicende
delle parole 1' articolazione e 1' accento orale. E agli antichi indiani si dovrà dar
lode tanto più viva, inquantochè dall' indole della loro lingua, dove non meno del-
l' accento orale erano efficaci 1' accento espiratorio e 1' accento musicale , erano per
avventura assai più di noi indotti a raccogliere intorno a questi ultimi i loro studi.
Qualche accenno alla desiderata classificazione delle vocali e delle consonanti se-
condo un unico sistema, fondato sulle attinenze delle articolazioni orali, non manca,
a dire il vero, nelF opera voluminosa e diligentissima pubblicata da C. L. Merkel,
fin dall'anno 1852, col titolo Antropofonica ; ma sono cenni troppo fuggevoli ed incerti.
« Noi possiamo (scriveva il Merkel, a pag. 772) limitare lo spazio fisiologico
per entro al quale si muovono le vocali, o per parlare più esattamente gli organi che
le formano, fissando tre punti estremi ne' quali il vocalismo comincia e finisce. Sono
essi H, G molle e W. Presso H comincia il vocalismo per via di A, presso G
qessa con I, presso W si chiude con U. Fra questi tre suoni giace tutto quanto il
vocalismo fisiologico possibile. » E più innanzi (a pag. 832) tornava su questo ar-
gomento e dichiarava, un po' più compiutamente , il suo pensiero con le parole se-
guenti: « Il consonantismo comincia dove il vocalismo finisce.... e termina poi esso-
stesso coUe voci esplosive, ossia coli' ammutire , coli' interrompersi della corrente
— IR —
dell'aria. Con H comincia la serie delle voci posteriori o palatali, che finisce con K;
con G molle la serie delle voci mediane o lingnali, che si chiude con T; con W
quelle delle voci anteriori o labiali, che ammutiscono in P. La prima serie trova la
sua vocale affine in A, la seconda in I, la terza in U. »
Il secondo passo è forse tanto più infelice, quanto è meglio determinato ; ma
anche nel primo si nasconde .un peccato capitale.
Mentre il Brucke, pur consentendo che l'A si potesse dire, senza grave danno,
affine alle consonanti gutturali, ammetteva due soli punti di contatto tra le conso-
nanti e le vocali e li segnava con le vocali più sottili U ed I, vorrebbe il Merkel
trovare un terzo passaggio nell' A; forse perchè mal si poteva rassegnare a staccare
una delle tre serie consonantiche da tutto il sistema delle voci, lasciandola senza
principio vocalico di fronte alle compagne. Il suo scrupolo era ragionevolissimo e
il difetto di una classificazione incompiuta, come quella del Briicke, non si può certo
negare; ma il rimedio trovato dal Merkel è anche peggiore del male. Si ricordi
come sia necessario per la formazione di tutte le consonanti, toltene solo le lab-
biali, le interdentali e le gutturali posteriori, che la lingua si sollevi in qualche
punto e faccia nella parte superiore della bocca una chiusura che dev' essere vinta
dalla corrente dell' aria esplodendo (e sj^esso anche implodendo) , od almeno una
stretta cosi angusta che possa generarvisi dalla corrente d'aria mentre la trapassa un
rumore fricativo. Per le vocali occorre invece che il romore nella bocca non sorga o
sia minimo e sopraffatto dal suono laringeo; che vi sia, come ben dicono il Merkel,
il Techmer e ogni fisiologo , anziché una stretta, un allargamento della cavità orale.
Se questo è vero, chi potrà consentire al Merkel che si ponga a pari grado con V u
e con l' i sui confini tra il vocalismo ed il consonantismo, e peggio che si collochi a
principio di tutte le palatali, quella vocale appunto a cui occorre la più grande
apertura della bocca, maggiore di regola che non sia quella richiesta dall' e e dall' o,
cui non verrebbe certo in mente a nessuno di situare sui confini del consonantismo?
Questa difficoltà dev'essere stata palese al Brucke, il quale non ha punto parlato di
contiguità tra 1' a e 1' /;. Essa è veramente una difficoltà insuperabile; e forse la in-
travvide lo stesso Merkel, che non tentò per la sua classificazione delle consonanti
una rappresentazione grafica, dopo averla data per le vocali. E infatti difficile im-
maginare com' egli avrebbe potuto mostrarvi le relazioni da lui ammesse tra
le vocali e le consonanti, senza rinunziare alla rappresentazione piramidale che
adottò per le prime. Posto V a al vertice, non v' era più modo di potergli avvicinare
nessuna serie di consonanti, le quali non possono certo cominciare entro la pira-
mide vocalica, ma devono apparire sotto la base di essa. Avrebbe dovuto proporre
prima di tutto anche per le vocali un sistema lineare, quale fu veramente adottato
di recente, ma forse con iscapito anziché con vantaggio della fisiologia delle voci.
Poste infatti sovra una stessa linea le tre vocali principali «, i, u, ben avrebbe po-
tuto il Merkel descrivere con tre altre Knee parallele, perpendicolari a quella pri-
ma, tre serie di consonanti che dilungandosi dalle vocali si muovessero sempre
nello stesso senso, per modo da finire con le tre sorde esplosive, che cosi rimarreb-
— 17 -
bero vicine tra loro. Ma qiial posto toccherebbe all' e ed all' o i quale resterebbe alle
vocali miste? E perchè solo «, m, t, dovrebbero essere iuizì di consonanti? La im-
possibilità di una rappresentazione grafica conveniente è per me una riprova delle
imperfezioni di tutta la teoria.
Ma i difetti della teoria Merk eliana, come dicevo, appariscono più manifesti
nel secondo passo citato; dove si ripete che H gutturale sia principio di tutte le
palatali (ohe sarebbero le gutturali piìi anteriori). Poi si aggiunge che in G molle
(ossia con la spirante j-, la qiiale richiede il sollevamento dorsale della lingua) co-
mincia una serie di consonanti finita da quel T che si produce per la chiusura
fatta dalla punta della lingua agii alveoli o anzi ai denti. La spirante imlatale in-
somma è presentata come inizio della serie dentale!
Eppure in qiiesto sixo punto di veduta si mantiene ancora il Merkel uell' altra
sua opera posteriore di circa un decennio, che in molti luoghi è tanto perfezionata:
« Se noi ci proviamo, egli dice, a sviluppare dalle vocali qualcosa di consonantico
troviamo che il tentativo è possibile per tre sole vocali.... Anche a passa in una
consonante e propriamente nel eh sonoro, quando nella sua articolazione la stretta
si impiccolisca ancora di più. Abbiamo dunque tre punti di confine nei quali il vo-
calismo tocca il consonantismo» (pag. 80).
Gli si può facilmente opporre che è per lo meno molto improprio il parlare di
una articolazione della lingua per Va teorico, il quale non può essere puro appena
un' articolazione di essa cominci, e deve subito turbarsi o piegare verso l' una o
verso 1' altra delle due vocali estreme. Nondimeno in quelle parole « quando la
stretta si impicciolisca ancora di più » abbiamo ben formulato il principio gene-
rale, semplicissimo, ma non per questo men giusto, di ogni distinzione 'orale tra le
vocali e le consonanti; dal quale avrebbe dovuto il Merkel essere condotto a con-
chiudere che le une sieno prossime alle altre non in due né in tre punti soli, ma
lungo una linea intera, determinata dalle vocali più sottili o dalle spiranti più tenui.
Il merito d' aver prima d' ogni altro tentato di tracciare quella linea e affer-
mata risolutamente la necessità di non fondare suU' azione della glottide tutta
la classificazione delle voci elementari, deve attribuirsi, se non m'inganno, a
M. Thausing; al quale si dovrebbero lodi ben maggiori, se non avesse dimenticato
quasi del tutto l' accento ed esagerato il suo nuovo indirizzo , occupandosi veramente
troppo poco della glottide , a differenza di tutti gh altri trattatisti moderni. Nel
suo volume, uscito nel 1863, conosciuto, citato e combattuto spesso dal Merkel, di-
chiara egli subito, come avea fatto Aristotele, ohe « la lingua insieme con l'astuc-
cio per entro al quale ella si muove è lo strumento proprio della formazione delle
voci, l'organo vero dell'umano linguaggio (pag. 7) « e nel suono laringeo non do-
versi a ogni modo vedere altra cosa che la materia o il sostrato onde si formano
le voci, per 1' articolazione delle quali è apparecchio essenziale unicamente la ca-
vità della bocca » (pag. 12). Ogni suono o rumore prodotto più addietro di questa,
deve, secondo lui, rimaner fuori del sistema naturale delle voci.
Ciò fatto, tra le vocali e le consonanti il Thausing riconosce solo una diffe-
— 18 —
renza quantitativa: epperò vuole estesa pure alle consonanti la nota rappresenta-
zione piramidale che anch' egli adotta per le vocali, ponendo al vertice 1' a, che è
« la voce più vocale, la voce delle voci {der lauteste Laid, der Laut der Laute), quan-
tunque non soglia apparire nelle lingue senza piccole alterazioni o turbamenti »
(pag. 36). Movendo poscia dall' a e cercando come, per varie disposizioni della
bocca e della lingua, possa quella voce tramutarsi in tutte le altre voci elementari,
trova che le tre categorie delle articolazioni secondo le quab gli antichi ritmici
greci distribuirono le nude « non producono queste soltanto, ma tutte veramente le
voci semplici, in una serie continua e progressiva di oscuramenti » (pag. 31), ohe
avvengono « secondo tre divisioni e sono sempre di sette gradi, » sicché risultano
contando nel novero anche 1' a « 22 voci semplici originarie » (pag. 38).
A questi numeri non si dia troppa importanza, come fece il Merkel, che se uè
valso a screditare tutto il sistema dell'avversario, chiamando con immeritata iro-
nia magica quella divisione e il tre ed il sette numeri sacri (pag. 253-254). Lo stesso
Thausing avvertiva che ogni categoria di articolazione si muove in una certa esten-
sione, sicché, ogni grado di oscuramento dando luogo a possibili distinzioni ulte-
riori , « teoreticamente si possono ammettere quanti gradi si vogliono , anzi infiniti ;
perchè non v' ha nulla nell' uomo che sia più individuale della lingua e si può af-
fermare con sicurezza che nessuno articoli le sue voci perfettamente come un' altra
persona » (pag. 39). Queste parole, a dirlo di passata, mi paiono piene di senno e
di temperanza e molto più giuste di quelle troppo ardite del Bruche, il qiiale non
dubitò di scrivere in un luogo dell' opera citata che « se domani si scoprisse una
nuova lingua, che come le indoeuropee e le semitiche si valesse esclusivamente
della fonazione espiratoria, tutte le sue voci elementari dovrebbero poter essere
classificate secondo il suo sistema naturale, senza bisogno non pure di alterare le gra-
dazioni fissate, ma nemmeno di introdurvene delle altre » (pag. 41). E aggiungeva molto
finamente il Thausing, dover scemare la possibilità delle gradazioni intermedie
quanto più forti siano gli oscuramenti dell' a; onde le differenze sono molto maggiori
per le vocali che per le consonanti. Ma vediamo quali sieno le sue proposte più generali.
Poiché il triangolo simbolico delle vocali deve continuare col consonantismo,
ei fa seguire alle vocali più sottili le consonanti fricative e poi le mute; ultime, e
dunque alla base, vuole che si trovino e chiudano tutto il sistema le nasali, come
quelle che nella loro origine si allontanano già alquanto dalla pura formazione
delle voci » (pag. 60). Ed ecco intero lo schema semplicissimo:
mbpfwuoAeijchkgf
— 19 —
Esso è tanto chiaro per se medesimo , da uon richiedere nessun' altra dichiara-
zione. Basti avvertire che il y rappresenta la nasale gutturale e le altre lettere il
suono tedesco.
Anzi tutto ferma 1' attenzione la posizione delle liquide ^, r, che per la prima
volta in un trattato moderno di fisiologia delle voci, son poste al paro con le vocali.
Queste liquide , riconosciute insieme con le nasali come capaci di sostenere 1' ac-
cento sillabico e di divenire perfettamente sonanti, dovevano poi aver molta fortuna
ed essere fatte risalire fino al periodo proetnico delle lingue ariane. Anche per que-
sto perfezionamento va dunque lodato il Thausing.
Ma notati i pregi, devo mettere in luce i difetti che mi par di scorgere nel-
l'ingegnoso sistema.
L' incongnienza di procedere prima dalle consonanti deboli alle forti (w, f; j ,
eh; s, /s) e di tenere poi il contrario cammino (p, b; k, g; t, d), sarebbe cosa ben
lieve. E se ne scopre subito il motivo. Il Thausing volle certamente porre accanto
alle vocali ed alle nasali , perchè più affini alle une ed alle altrq , le consonanti de-
boli, che sono di regola sonore, anziché le consonanti forti che sono sempre sorde.
Questa affinità maggiore delle consonanti deboli con le vocali e con le nasali è in-
negabile ; ma la sua ragione non dipende da articolazione orale e non occorreva perciò
di turbare in nulla l' ordinamento delle serie. Bisognava notare solo le consonanti de-
boli 0 solo le forti che per articolazioni orali non differiscono tra loro, sibbene per
forza orale e laringea, avvertendo il trapasso alla risonanza nasale.
Anche mòno giustificabile è la precedenza data alla l sulla r nella serie delle
dentali. Come infatti si può dire più vicina la prima della seconda all' a centrale?
Nella formazione della l, oltreché la punta della lingua si spinge innanzi fino a toc-
care i denti o gii alveoli o il palato, si ha sempre xva. rialzo laterale dei lembi di
essa, che si staccano dai denti mascellari. Si potrebbe piuttosto dire meno lontana
dall' a la r, per la qtiale non v' ha nessuno di que' contatti e nessuna articolazione la-
terale della lingua; e ci conforterebbe ad affermarlo anche il facile passaggio dell'i-
cacuminale in un a, che avviene p. es. in inglese. Ma il vero è che per la r e per
la l gli atteggiamenti della lingua sono troppo diversi : 1' articolazione é estrema nel
primo caso (non parlo qua della r uvulare), ed é doppia, estrema cioè e laterale, nel
secondo. Il porle nella serie stessa, anzi che in due serie parallele, è dunque un'in-
frazione manifesta della legge stabilita di ordinare le voci in ogni serie secondo il
grado diverso di una medesima articolazione. Anche qui siamo costretti ad ammirare
l' acume dei grammatici indiani , dai quaU le vocali ;■ , l furono congiunte con due
ordini distinti di dentali, con il cacuminale e con l'alveolare: quantunque qualche
riserva s'avrebbe pure a fare, specialmente per laZ, che per la sua doppia articola-
zione si mostra non solo affine alle dentali (e più che mai, tra queste, all'ordine
delle interdentali) , ma spesso anche meglio alle labbiali, ciò che appare manifesto
nello slavo.
Ma cerchiamo più da vicino le ragioni della successione delle tre serie di vo-
cali e di consonanti, quale fu ammessa dal Thausing. •
— 20 —
Egli non ripete gli errori del Merkel. Questi avrebbe segnato, secondo che si
vide, assai male gl'inizi vocaKci per due serie; cogKendo il vero solo a proposito
della serie più facile labbiale, clie muove indubitatamente dall' «.
Il Thansing non dice che la spirante j palatale sia principio delle consonanti
dentali, ma ci insegna che queste confinano con r, l. Basta, come osservai dianzi,
determinare meglio l' articolazione delle due liquide , quella sovra tutto della l, per-
chè la proposta si possa accettare. La parentela di articolazione tra alcune ma-
niere di r ed l e le molteplici dentali, ed anche la esistenza di un r e di un l so-
nanti è benissimo assodata. Ed è questo, ripeto, un bel progresso, anzi il più
difficile per avventura che si potesse fare nel nostro argomento ; sicché il buono
compensa qui ad usura il piccolo sbaglio notato.
Ma rimangono altre obbiezioni da fare alle altre parti della teoria. E scegliendo
quelle che mi paiono più poderose, domando subito se il Thausin* abbia corretto
ugualmente bene 1' altro errore commesso dal Merkel nell' ordinamento delle voci
gutturali.
Anche qui i diie fisiologi si contraddicono fieramente, perchè il primo vuole
che l'inizio sia in / e il secondo voleva che fosse invece in a. Ma questa volta lo
sbaglio del Thaiising mi par molto più grave di quello del Merkel e veramente ine-
scusabile.
Come mai potè egli immaginare che dall' articolazione dell' i, per formare il
quale si solleva fortemente la 2Mrte anteriore della lingua verso il palato anteriore e
verso gli alveoli, si debba svolgere via via, per semplice differenza di grado, cioè per
articolazione sempre più stretta e dunque per avvicinamento sempre maggiore a
quegli alveoli, la serie delle guttiirali _;, eh, g, k per le quali occorre invece 1' innal-
zamento della j^arte jjosteriore della lingua verso la parte mediana del palato ? La
vocale i non vuol essere disgiunta dalle palatali, con cui la vollero già unita i
grammatici indiani: e ciò fu riconosciuto, come vedemmo, sebbene un po' a ma-
lincuore, dallo stesso Briicke.
Degli studi indiani non faceva probabilmente la dovuta stima il Thausing, che
volle lanciare contro di essi una frecciata inconsulta, quando per meglio magnifi-
care le miniere, certo ricchissime, dei dialetti viventi, volle deprimere, a quel pa-
ragone, i tesori favolosi dell' Oriente {die Fahelsclidtze des Orientu, pag. ix). Egli, che
era acceso di così vivo entusiasmo per quella scienza del linguaggio che giudicava
essere « la più bella e la più alta parte dello studio della natura » (pag. 2) non av-
vertiva che essa si compie veramente solo come scienza storica. Sicuramente non
doveva a lui fare punto scrupolo lo allontanarsi dalle teorie antichissime de' Pràti-
r/ikhyas. E poiché si contentò di tracciare tre serie sole di consonanti e di esaminarne
in modo molto superficiale le articolazioni orali, possiamo comprendere come dovesse
facilmente cadere nell' errore notato. Non credendo di dover sempre tenere d' occhio
anche la posizione della lingua, ma badando per le labbiali a quella sola delle labbra,
ragionò di sicuro al modo seguente: Al varco e al contatto che si ottengono con le
due labbra, succedono prima quelli della punta della lingiiaepoi quelli del dorso di
— 21 —
essa colla volta superiore della bocca. Si devono dunque fissare necessariamente tre
articolazioni principali: del^j esterno, del t mediano e del k interno. Non rifletteva che
mentre l'articolazione labbiale ha assai poca varietà (accompagnandosi con essa al
più al. più la labiodentale), il dorso della lingua per la sua superficie cosi lunga si
presta ad articolazioni diversissime, che vogliono necessariamente essere suddi-
stinte : che devono pure essere suddistinte le articolazioni della punta della lingua ,
la quale si può recare in luoghi assai diversi sulla volta della cavità orale.
Fatte queste riserve, per le quali apparisce che la classificazione del Thausing
è da dii'6 imperfettissima, si può in certo modo giustificarla alquanto, e dire che
non abbia altro difetto se non questo di poca distinzione, ponendo essa insieme da
una parte le dentali alveolari con le cacuminali; dall' altra anche più grossolanamente
le palatali con tutte le gutturali. Così u, r, i rappresenterebbero convenientemente tre
modiche aperture di bocca e p, t, e tre diverse chiusure compiute, segnando un
procedimento continuo e sempre regressivo dall' esterno all' interno : dalle labbiaU
alle dentali e alle palatali.
Molto meno spiegabile è che la riuuuzia a tutte le squisitezze della classifica-
zione indiana sia stata fatta anche dal Whitney : cioè da uno dei più celebri vedi-
sti , da uno de' pochi dotti a' quali le sottili dottrine della fonetica sanscrita devono
essere molto famigliari, avendo egli non solo curato 1' edizione di uno de' Veda, ma
anche quella del suo Pràtiqàhliya.
Volendo pur trovarla una ragione, io non so pensare ad altro che a qualche
punto debole della teoria indiana, per togliere il quale non deve aver dubitato il
Whitney di abbatterla tutta e di edificare in suo luogo un altro sistema, che con-
corda quasi pienamente con quello testé esaminato del Thausing e che però
merita, a mio avviso, più gravi censure di quello indiano che volle abbandonare.
Il punto più debole, il lettore m'ha già capito, era la posizione dell' « in capo
all'ordine delle gutturali, della quale dovetti, toccare più addietro. Credo allora
d' aver messo in chiaro come quella collocazione sia del tutto oppugnabile ove si in-
tenda di parlare delle gutturali anteriori e meno profonde; potendosi ammettere
una certa affinità dell' a (non mai una contiguità vera) soltanto colle gutturali più
interne, per le quali la lingua si ritrae veramente alla sua radice verso il palato
molle, senza sollevare punto la sua parte mobile per fare nessuna articolazione.
E se le gutturali indiane erano appunto le gutturali più profonde del Bruche?
In questo caso la classificazione dei grammatici indiani, fatta qualche lieve riserva
intorno all' oscuramento gutturale dell' a, che non pare accennato (il sanwrta ed il
nivrta dell' a breve e dell' a lunga, dovendo essere stato ben altra cosa), si dovrebbe
approvare interamente. Ed essi avrebbero poi anche, con la teoria del guna^ impli-
citamente riconosciuta la maggioranza dell' a sulle vocali estreme.
Ma prima di tutto non pare che si possa consentire, sebbene qui non sia il
luogo di provarlo, che le gutturali indiane sieno state veramente le gutturali più
profonde. Senza negare che a principio le lingue ariane abbiano avuto anche que-
ste, che anzi m' ingegnerò altrove di portar qualche ragione a conforto di siffatta
- 22 —
tesi, pare assai verosimile che le gutturali indiane fossero le mediane del Briicke
{h\ non U'). E ad ogni modo, quando pure per la lingua indiana potesse valere per-
fettamente la teoria indigena , rimarrebbe sempre a cercare l' inizio vocalico delle
gutti;rali più avanzate; non potendo il fatto indiano valere per le altre lingue man-
canti di gutturali profonde.
Questa necessità non poteva sfuggire all' acutissimo "Wliitney; il quale conside-
rando che le gutturali men vere, ma più comuni per noi, che sono le più anteriori
(fc' del Brucke) hanno stretta aiSnità con le palatali, pone anch' egli a principio
delle nostre gutturali, eh' ei chiama anzi un po' leggermente palatali senz'altro, la
vocale i. A questa contrappone poi la vocale u onde si comincia la serie labbiale. E
finalmente tra palatali e labbiali inserisce una terza serie linguale o dentale, avver-
tendo che essa piglia le mosse dall'i- o dall'? vocalici. Fa insomma quello che ve-
demmo fare al Thausing.
Ma io ripeto contro il "Whitney, come contro il Thausing, che questa succes-
sione di u, r, i rappresenta solo la situazione delle articolazioni, trascurando del
tutto per la vocale ?t la posizione della lingua e che perciò è incompiuta ed erronea.
Si viene per essa allo strano risultato, che le vocali u ed i siano meno vicine tra
loro, di qiianto ciascuna di esse sia vicina all' r vocale (ed alla l)\
Basta, credo io, enunziare questa conseguenza, per dimostrare la necessità di
modificare le premesse e di modificarle badando principalmente alle articolazioni
della lingiia. Non e' è bisogno di addurre le troppo facili prove del passaggio di u
in t, manifesto per tanti fatti, e di porle in bilancia cogli sviluppi vari di a, di u,
di / dalle liquide.
Ognuno consentirà senza sforzo che la natura fisiologica e acustica delle vocali
propriamente dette le contrappone tutte insieme alle liquide, come a vocali meno
perfette.
Non posso sapere se il "Wliitney abbia avuto notizia del Sistema naturale del
Thausing, perchè il glottologo americano, avendo, solo due anni dopo la pubblica-
zione di quel libro, scritto sulle relazioni delle vocali con le consonanti, non ricorda in nes-
sun luogo il suo predecessore; almeno nella seconda edizione del suo lavoro, uscito
1' anno 1874 nel 2" volume degli Studi orientali e linguistici, che soli ebbi sott' occhio.
Certo la concordanza delle due teorie è grandissima, come apparirebbe subito dalla
tabella di classificazione dataci dal Whitney. Ma per risparmio di spazio non voglio
nemmeno riportarla. Potrò bensì chiamare l' attenzione del lettore suUe poche e lievi
differenze dei due sistemi, e se ne vantaggerà tutta la mia trattazione.
Un miglioramento è innegabile, sebbene incompleto, rispetto alle liquide, le
quali sono presentate dal "Whitney senza differenza di grado, ma non ancora, come
pur si dovrebbe, in diverse serie: sicché date ivi come una coppia di voci gemelle,
in compagnia di tutte le altre voci semplici, sono una stonatura. Un'altra differenza
poteva pur riuscire ad un vero miglioramento; ma cosi com' è bisogna dirla in-
vece un regresso. Ed è insieme tale da scoprirci un' altra imperfezione dell' in-
tero sistema del Whitney e insieme di quello del Thausing. Questi aveva, come
— 23 —
notai, commesso un piccolo sbaglio di iucoerenza nell'ordinamento delle esplosive,
volendo mettere in luce la sonorità delle nasali. Il Wliitney, perchè questa qualità
sia anche più evidente, non colloca le nasali in fine della piramide, dove si poteva
pur concedere che fossero poste le vere nasali, per la chiusura della bocca che ad
esse è veramente necessaria; ma le trasporta più in sii tra le semioocali e le fricative,
sicché nonostante la loro affinità manifesta, separa crudamente questi due ordini.
Ma del luogo che spetta alle nasali nella classificazione unica delle vocali e delle
consonanti dovrò trattare più innanzi. Qui, come dicevo, m' importa solo di notare
che il Thausing, oltre ad essere più esatto nel modo suo di considerare le nasali, ve-
niva a nascondere meglio un altro grave difetto del suo schema, il quale in quello
del Wliitney diventa troppo palese, ed è il seguente:
Entrambi vengono a porre tutto il vocalismo come un gruppo centrale in mezzo
a tre correnti di consonanti, le quali muovono in direzioni diverse e si separano al-
lontanandosi via via r una dall' altra sempre più, di mano in mano che per cia-
scuna si fa maggiore lo stringimento della cavità orale. Si avrebbe dunque questo
strano risultamento, che tra nessun' altra voce la differenza sia più forte che tra le
consonanti esplosive e p. es. tra j^, t, ek; mentre la stòria della lingua prova che per
virtù di una parassita facilmente possa essere sostituito un k dal j^ e dal t. Nello
schema del Thausing 1' opposizione rimane più coperta dalla vicinanza delle nasali,
che forse indicava, anche nel suo pensiero, una certa loro parentela latente con le
consonanti implosive (esplosive) e per così dire un ritorno, per via della risonanza
nasale, alla perfetta sonorità vocalica; benché egli non l'abbia punto accennato! Ma
nello schema del Whitney quelle tre voci appaiono remotissime 1' una dall' altra e
rappresentano i tre punti di massima divergenza dal suono fondamentale e naturale
dell' a.
Se non erro, la principale cagione per cui furono tanto imperfetti i pochi ten-
tativi di classificazione unica delle voci , fu 1' aver badato troppo poco alle articola-
zioni della lingua, prescindendo del tutto dalla posizione normale di essa per la forma-
zione delle labbiali. E si aggiunse, come conseguenza ed occasione di nuovi errori,
la poco felice rappresentazione grafica delle diverse voci , che si raffigurarono quasi
si trovassero in rapporti semplicissimi di linee rette su di una superficie piana;
mentre, a mio credere, sarebbe stata molto più opportuna una rappresentazione
di linee curve, che • significassero non ricisi e duri ma dolci e continui trapassi dal-
l' una all' altra voce.
Ed ora la parte positiva del mio studio potrà essere molto breve; avendo io
mirato sempre ad essa in tutta la parte precedente storica e critica. Ecco dunque
senz'altro le mie considerazioni più generali. Sopprimo anche quella rappresentazione
grafica che vorrei proporre, perchè mi richiederebbe troppo lunghe dichiarazioni.
Per prima cosa le nasali, a cui occorre sempre un maggiore o minore abbassa-
mento del velo palatino e la vibrazione dell' aria nella cavità del naso, dovranno essere
contrapposte a tutte le altre voci orali jìure per le quali il velo palatino sollevatosi
impedisce ogni comunicazione colle narici, sicché la risonanza avviene unicamente
— 24 —
nella cavità della bocca. E a mio giudizio un grave errore lo inserirle tra queste
ultime, in questo o in quel punto, teuend.o conto solamente delle articolazioni
della lingua e delle labbra.
La diversità del tubo di risonanza è qui certamente il carattere supremo : opperò
articolazione essenziale dev' esser detta per le nasali quella del velo pendolo. Secondo
le sole articolazioni della lingua e delle labbra la designazione del grado che esse
devono tenere nella serie delle voci riuscirà sempre impossibile o sarà sempre ar-
bitraria. E vero che, per la chiusura della bocca , con le nasali confinano le consonanti
implosive (esplosive) che sono fra tutte le più opposte alle vocali. Ma non è men vero
che le nasali anche a queste danno la mano, essendo tutte le vocali, quanto più si
allontanano dai punti estremi della serie , ossia quanto meno sono sottili e lontane dal-
l' rt, facilmente nasalizzaòili. Vi ha dunque come un circolo continuo e compiuto.
Per le nasali perfette il velo pendolo lascia del tutto libera la via normale della re-
spirazione ,. che è quella del naso. Esse non allontanano , a questo riguardo , dallo
stato d' inerzia l' apparato vocale, che veramente produce con facilità de' suoni na-
sali, anche nel sonno; e sta dunque bene che sieno poste a principio. Ad esse si
dovranno far seguire primieramente le vocali nasalizzate, per cui il velo pendolo già
si rialza alqiiauto e la voce laringea risuona propriamente nella bocca. La via del
naso si chiude del tutto per le vocali pure ; trovando per queste la corrente sonora
dell' aria la bocca aperta e non incontrandovi ostacoli veri , sebbene vi sia varia-
mente guidata. Ma gli ostacoli ricominciano per la formazione delle consonanti e cre-
scono più e più fino alla chiusura compiuta, che dà luogo ai romori implosivi ed
esplosivi. Ove questa chiusura continui non è possibile alla voce altra uscita, se non
mediante il riaprirsi del varco del naso: ed ecco che così si ritorna alle voci nasali,
da cui si partiva.
Questo sistema naturale delle voci mi pare che sia bene i-appresentato dalla sil-
laba sacra degli indiani arem, che ci dà i due punti estremi della bocca interamente
aperta e della bocca interamente chiusa e il punto intermedio della serie labiale.
Volendo significare anche la situazione propria delle consonanti esplosive (implo-
sive) in cui si riesce ad un vero interrompimento della fonazione, basterebbe na-
turalmente frapporre tra la vocale labbiale o la nasale labbiale l' esplosiva debole o forte
dello stesso ordine, scrivendo auhn, anpm. Ma nulla vieterebbe di fare analoghe rap-
presentazioni per le altre serie: per la dentalo alveolare p. es. ardn od artn, per la
dentale cacuminale nrrZw, artn, per la palatale aig'ri, aic'n; notando naturalmente che
per la doppia articolazione propria dell' l occorrano diverse formole.
E per le altre serie? Per trovare le formole convenienti alle diverse gutturali,
che sono le principali voci non ancora classificate, mi è necessario di ripigliai'c il
filo delle mie considerazioni, esaminando più accuratamente le varie articolazioni
della lingua.
Questa ha assai minore agio e spazio di muoversi abbassando la punta, che pro-
tendendosi o ritraendosi o sollevandosi verso il palato. Un'inclinazione ad abbassare
senz' altro la punta appare specialmente per le voci labbiali , quasi la lingua debba
cedere il luogo all' azione delle labbra cui spetta la vera articolazione. Rispetto alle
labbiali la lingua avrà dunque ben poca varietà di movimenti, e le altre serie si po-
tranno contrapporre ad esse come più propriamente Unrjuali nel più largo senso
della parola; saranno naturalmente molteplici e tanto -^m. bisognose di accurata
distinzione, quanto più diverse possono essere le loro alterazioni.
• Ma si avverta subito come le articolazioni anteriori della lingua, rispetto al
punto ove avviene il contatto, sieno bensì da riconoscere quali mediane tra l'artico-
lazione delle labbra e le articolazioni posteriori della lingua; ma quanto alla natura
stessa dell' articolazione non si possa punto concedere che le voci dentali serbino lo
stesso rapporto di fronte alle labbiali ed alle gutturaK. V ha come un cerchio conti-
nuo cU articolazioni della lingua, sicché la situazione mediana è di tutte le serie e
•non è di nessuna. Piuttosto che alle dentali si potrebbe dire che il posto mediano
sia da dare alle gutturali od anche alle labbiali, che meno rimuovono la lingua dallo
stato normale. Le dentali sono invece le articolazioni più energiche ed estreme. In-
fatti le gutturali hanno comune con le dentali un innalzamento della lingua verso
la parte superiore della bocca, con le labbiali l'abbassamento della punta. Le dentali
e le labbiali, sebbene vicine di luogo, non concordano per nulla nell'articolazione
della lingua che è protesa per le prime e sollevata , abbassata e invece ritratta per le
seconde; sicché, a questo riguardo, sono opposte recisamente le une alle altre e piut-
tosto per via delle gutturali si avvicinano e in esse s' incontrano. Anziché essere
giusta la successione apparente u, r, i delle vocali ovvero quella p, t, e delle con-
sonanti, riescono dunque legittime e naturali le successioni u, i, r; p, e, t; meglio
ancora : u, i, r, «. Epperò si deve conchiudere che male sieno messe le dentali come
voci intermedie e più affini di tutte all'a puro nei sistemi del Thausing e del Whitney.
Ma non s' è detto, peranco, con queste formole, qual posto tocchi alle gutturali
propriamente dette: si è segnato piuttosto quello richiesto dalle palatali, che si dissero
già gutturali o anche dentali imperfette, come quelle che sorgono di solito dal lo-
goramento di quelle o di queste anziché essere voci native. Queste formole triplici
non possono dunque bastare; occorre che diventino almeno quadruplici e accolgano
anche le gutturali , che sono più semplici e schiette delle palatali.
Sebbene il luogo che tocca alle gutturali perfette non possa rimanere più dubbio
per i ragionamenti fatti dianzi, che misero in chiaro l' affinità di esse con le labbiali,
riconosco di buon grado 1' opportunità di ristudiare la cosa sotto un altro aspetto.
Esaminando le leggi di articolazione delle diverse vocali si giungerà anche più
facilmente allo stesso risultamento.
E noto come alla vocale fondamentale , ossia all' a teorico puro , non occorra
la Ungua sia tolta da quella posizione di assoluta inerzia che essa ha naturalmente
quando , a bocca chiusa , riempie quasi del tutto la cavità orale. Basta a quell' «
r apertura della bocca ; e il suo suono si fa tanto più cliiaro e compiuto quanto
più la mascella inferiore si scosti dalla superiore.
Ma la lingua si muove e, coi suoi diversi atteggiamenti variando la forma della
cavità orale, altera più o meno il timbro di quel suono fondamentale. L' u si pro-
i
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duce, come i fisiologi affermano concordemente, quando la lingua si solleva alquanto
nella parte posteriore verso il mezzo del palato; onde avviene che la punta della
lingua si abbassi e si ritragga ben discosto dai denti inferiori. Per contro si pro-
duce l' i , quando la lingua si avanza e si solleva con la siia parte anteriore verso il
palato e gli alveoli. Cosi questi suoni estremi della serie vocalica, che si oppongono
l' uno all' altro anche per valore acustico (perchè per il primo il suono primitivo la-
ringeo viene rinforzato ne' suoi toni complementari più bassi , laddove per il secondo
si debbono questi ultimi ammorzare pigliando invece incremento i più acuti), sono
in reciso contrasto. Perciò appunto son possibili parecchie vocali intermedie, che si
generano per altri sollevamenti della lingua fatti colla parte centrale. Io mi contento di
fissarne una sola, l' il (greco, francese, ec), e domando: quale serie di consonanti sarà
affine per articolazione a siffatta vocale frapposta fra l' te e Vi, che è certo sottilis-
sima anch' essa, ossia posta nello stesso grado di lontananza dalla vocale a e in-
somma allo stesso punto di cammino verso il consonantismo? Poiché la punta della
lingua per tutta la serie vocalica dall' ì« all' i rimane sempre bassa, l'ordine delle
consonanti cercato non potrà trovarsi tra quelle dentali che vogliono un avvicina-
mento o un contatto coi denti superiori o cogli alveoli. Ma quella serie richiede
pure un sollevamento dorsale della lingua; il quale essendo più che mai posteriore
per 1' « , pili che mai anteriore per l' i , per la vocale ii frapposta sarà naturalmente
mediano. Non potrà dunque corrispondere a questo il la serie labiale ond' è proprio
il massimo abbassamento della punta; e neppure la serie 2>alatale , perchè questa ri-
chiede mi forte sollevamento del dorso anteriore. Or dopo le dentali, le labbiali e
le palatali si giunge finalmente, per esclusione delle altre serie, alla quarta, guttu-
rale. Queste gutturali, che congiungendo veramente con un certo abbassamento della
punta della lingua un sollevamento posteriore, si devono collocare necessariamente
tra le labbiali e le palatali , troveranno il loro giusto inizio in quella vocale m.
Aggiungiamo dunque subito alle formole date più sopra anche la formola delle
gutturali più comuni, che sarà aìig-f ovvero ailk-i. E inutile avvertire che oltre le quat-
tro serie principali che furono discusse, rimarrà sempre possibile, o anzi sarà ne-
cessaria, secondo i diversi casi, la determinazione di altre ed altre ancora, che si
interpongano fra quelle; e che per farla a dovere converrà sempre osservare dili-
gentemente le articolazioni della lingua. Le dentali cacuminali si verranno a porre, per
esempio, accanto alle jialatali; e di esse si potrà dire che la punta vi si sostituisca
alla parte anteriore della lingua e ne faccia le veci. Tra le labbiali e le dentali pro-
priamente dette staranno le interdentali, per cui la lingua non avrà né abbassamento
né innalzamento della punta, ma semplice protensione. E a questa articolazione se-
nile (a cui giunge p. es. nello spagnolo, per massimo abbandono della lingua, la si-
bilante succeduta ad una gutturale antica), si opporrà più d'ogni altra quella jji«.
giovenile di tutte delle gutturali del tutto interne, che soi'gono per ritiramento della
lingua alle sue radici e non trovano veramente il loro luogo in nessun punto del
cerchio, ma son centrali rispetto a tutte le altre serie.
Ed ora, fissate anche siffatte distinzioni ulteriori, che potrebbero essere più
minute, troppo mi importa di avvertire come, secondo le migliori descrizioni dei
fisiologi, il carattere essenziale delle gutturali più comuni o anteriori sia vera-
mente il sollevamento più o meno centrale della lingua verso il palato; di che
oo-nuno può del resto persuadersi con facile osservazione sopra so medesimo mediante
un semplice specchio. Or si può anche da quel carattere derivare immediatamente
la loro situazione mediana tra le palatali e le labbiali. Per poco che il sollevamento
si avanzi dovrà tramutarsi infatti in palatale; per poco che retroceda dovrà far
luogo al forte abbassamento anteriore. E poiché alle labbiali succedono per via delle
intordeutali le dentali e dall' altro lato alle palatali son prossime le dentali cammi-
nali e dorsali, ecco riapparire la catena che ritorna sovra se medesima, a cui m' av-
venne di paragonare la successione dei gradi in ciascuna serie.
Ma, a conforto delle considerazioni fisiologiche fatte fin qui, credo opportuno
d' aggiungere qualche riprova tolta alla glottologia storica. La scelta è facile perchè
esse abbondano.
Prima di tutto , poiché il caposaldo secondo U quale ho riordinato tutto il sistema
delle voci articolate , è la grande affinità delle gutturali comuni con le labbiali , le
quali secondo il Thausing e il Wliituey avrebbero invece dovuto giudicarsi lonta-
nissime da quelle e separate perla serie dentale o linguale, voglio ricordare la esistenza
di consonanti labiogutturali , che darà certo uno dei più forti rincalzi alla mia teoria.
Io lo farò citando un luogo delle Ricerche Etimologiche del Pott: « Nel linguaggio
dei Yorubi si trovano, perfino inizialmente, unite volentieri ^& ytjj, due strane combi-
nazioni , perchè per esse si deve varcare tutta intera la distanza che è dalla gola alle
labbra. » A noi non devono parere strane, ma legittime e naturalissime, per la grande
affinità di articolazione della lingua onde sono stretti insieme i due elementi; U
Pott le giudicava, anche lui, badando solamente al luogo del contatto. « Eppure, egli
prosegue, il Crowther {Yoruha Gramm.) descrive queste combinazioni con le seguenti
parole: Gh e Kp danno ciascuno un suono che è tra Z» e </, tra 2^ e k; perchè tutti
e due gli elementi /«jmio insieme una sola consonante. P non comincia nessuna parola
per sé solo (e v' hanno lingue ove manca affatto). Esso vi si trova sempre unito col
h: cosi lo si sente in kpakijork unire, mescolare. Anche la lingua Ève conosce 1
suoni labiogutturali fcp, gh ed i suoni labiolinguali e gutturali insieme fcjs^, ghl »
(Schlegel, pag. 14). Dopo quello che s'è detto sull'articolazione dell' Z e della sua
articolazione laterale essen^almente posteriore , anche questi complessi devono parere
appieno giustificati. Potrei continuare a tradurre il Pott che ritrova le labioguttu-
rali in altre lingvie, degli Haussa, ào' Bullom, ecc. {Etym. Forscli. "11, pag. 71); ma ba-
sti aver rimandato ad esso il lettore, il quale nella stessa opera troverà un altro
passo molto importante (pag. 63) , .ove si nota che anche nel massimo numero delle
lingue americane (Kechua eco.) ha prevalenza il gutturalismo.
Onde non gli parrà forse improbabile che abbia predominato il gutturalismo
nelle lingue più antiche e che si serbino queste traccie dello stato primitivo nelle
lingue meno perfezionate de' selvaggi. Eecando in aiuto delle considerazioni filoge-
niche, ossia della specie, quelle degli individui, che chiamano ontogeniche, non
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lascerò di notare che nello sviluppo primo della facoltà del linguaggio i bambini
cominciano ad emettere dei gridi gutturali. A poco a poco acquistano le varie ar-
ticolazioni della lingua e imparano a muovere senza incertezza quest' organo mobi-
lissimo : e per lungo tempo nelle loro voci senti spesso commescersi veramente l'ele-
mento guttiirale. Senonchè per quanta attrattiva possano avere per il glottologo
anche siffatti riscontri, temo che ognuno li trovi qua troppo fuori di luogo.
Più facilmente mi si consentirà di addurre un argomento tolto alle lingue ro
manze e più propriamente al francese, che anche dimostra la parentela delle guttu-
rali con la serie labbiale.
Il francese avanti alle vocali labbiali {u ed o) serba di regola intatta la guttu-
rale antica, forte o debole che sia ; ma davanti alle vocali palatali (/, e) ed anche da-
vanti air a la tramuta variamente in sibilante. Di questo vario assibilantismo si
può anche trovar le ragioni, come tento di dimostrare in altro lavoro. Ma intanto
si noti subito che il testimonio del francese è più che mai valido in questo caso;
perchè esso avvicina 1' m labiale all' i palatale, assottigliandolo appunto in quell' il
che dimostrai essere naturale inizio delle gutturali anteriori.
Ed ora da questi fatti seriori , forniti da uno degli idiomi viventi della famiglia
ariana , senza uscire da questa si risalga a fenomeni che appartengono a' periodi più
antichi. E si considerino alcuni fenomeni di fonologia sanscrita che sono per sé
semplicissimi, ma che invano si vorrebbero spiegare senz' ammettere uno stretto
accordo delle labiali con le gutturali. Esse si oppongono subito alle altre consonanti
palatali, cacuminali o dentali per la mancanza della corrispondente sibilante che
queste tre serie posseggono. E noi vediamo che tra un n finale ed un i, un |, un e
iniziale la sibilante analoga si introduce o serba [s, sh, §) occupando l' intervallo che
è necessario tra il contatto voluto dalla nasale e quello che occorre alla esplosiva.
Basta infatti a produrre le sibilanti iin movimento anteriore della lingua, che,
ne' luoghi appunto ove si articolano il t, il t, ed il e, formi, ritraendosi alquanto, una
piccola stretta, dove 1' aria passi, gettandosi contro i denti e fischiando.
Le gutturali e le labbiali non possono, come queste tre consonanti, favorire quella
stretta, perchè richieggono invece un sollevamento della parte posteriore della lin-
gua e nella parte anteriore della bocca piuttosto un gran vuoto.
Come mancano sole di propria sibilante, cosi si accompagnano poi ancora nel
consentire, contrariamente a ciò che avviene per le altre consonanti, la tramuta-
zione dell' ?t dentale in n cacuminale, quando esse si trovino frapposte tra quell'»
ed f-, r, s, tutte cacuminali, precedenti. Le consonanti che richiedono per sé il
lavoro della parte anteriore della lingua impediscono dunque il lingualizzamento :
facilmente lo permettono invece le gutturali e le labbiali che lasciano così largo
spazio nella parte anteriore della bocca e liberissima la punta della lingua. Al qual'
proposito si può pur ricordare come per Vs invece non provochi quella mutazione 1' a
che non richiedo sollevamento della lingua: ma sì lo determinano le vocali sottili
u, i a cui occorre una stretta della bocca e che sono estreme nella serie vocalica.
Un altro fatto analogo è la persistenza di e', y palatine nel più antico loro stato
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di gvitturali quando sieno in fine di temi , se precedono a gutturali od a labbiali. Così
occorre spesso nel Eig Veda di notare che avanti ad u , v del suffisso si abbia la gut-
turale invece della palatale {reìcu- da rie, vankii- da vane). E lo stesso fatto fu notato
per 1' antico battriano {liikil- rispetto ad hàecaya).
Non è meno chiara un' altra legge del samdhi indiano; che fa pure all'uopo no-
stro: quella cioè per cui si converte in visarga (in jilivamùliya ed in upadlimàniya)
una sibilante finale , incontrandosi in una sorda gutturale o labbiale che cominci la
parola seguente. Qiiel concorde ammutire della sibilante (e dell' r) innanzi a k, kh,
^>< , jj/i riconferma mirabilmente la speciale natura della costoro articolazione, che
meglio appare nella energica formazione delle sorde.
A questo punto ricorderò ancora, che no' sidri di Civa, cioè in quell' artificioso
ordinamento delle lettere dell' alfabeto sanscrito in 14 gruppi (pratyaharfis) che si
trova in principio della grammatica di Panini (ordinamento che non fu certamente
fabbricato a priori, ma conquistato con pazientissima induzione) , il & ed il p sieno
posti insieme e vi formino da soli il duodecimo gruppo. Anche questa mi pare una
bella conferma della tesi da me sostenuta.
Ed oramai , sopprimendo ogni altro argomento che potrei arrecare in sostegno di
essa, oserò bene di soggiungere che da siffatta determinazione delle gutturali comu-
ni, le quali vengono poste quali voci molto affini alle labbiali ed intermedie tra que-
ste e le dentali, debbano derivare corollari di molta importanza per la dichiarazione
fisiologica delle alterazioni prodotte nelle vocali dalle consonanti vicine o in queste
da quelle: come p. es. se ne spieghi con la più bella evidenza il noto palatalismo (o
dentalismo) delle gutturali seguite da vocali chiare ed il labialismo cui vanno sog-
gette innanzi alle più cupe. Questi fatti importantissimi riconfermano pienamente
la mia classificazione. E chiaro infatti che se fossero per articolazione assolutamente
intermedie le voci dentali, queste piuttosto dovrebbero farsi facilmente e labbiali e
gutturali; od almeno dovremmo trovare che le gutturali si tramutassero in lab-
biali soltanto per via delle dentali frapposte.
Si potrà dunque , correggendo l' ordinamento delle vocali e delle consonanti che
fu proposto dal Thausing e dal Whitney, considerare le formole trovate per gli
oscuramenti consonantici delle diverse vocali come i più siciiri criteri generali che
possano guidarci nelle spiegazioni particolari di tutte quelle alterazioni fonetiche,
che mi piacque in principio di contrassegnare col nome di adattamenti delle artico-
lazioni orali.
— so-
li.
DIVERSE GRADAZIONI DELLE VOCALI TONICHE
E PERDITA O NATURALE ROTAZIONE DELLE ATONE.
La mascella inferiore è il primo , la
mascella superiore è il secomlo , la voce ò
1' unione , la lingua il mezzo dell' imioue.
Prcitit^akhya del Riti Veda.
Al compianto Canello si deve gran lode anche per avere tentato di scoprire le ca-
gioni fisiologiche dei fenomeni che si osservano nella storia delle vocali toniche. Ubbi-
diva il valentuomo, in quella sua fatica, all'incomparabile ardore che sempre lo ani-
mava nella ricerca del vero, al bisogno prepotente del suo acuto ingegno che si chie-
deva con insistenza le ragioni più remote di ogni cosa. Ma il tentativo falli del
tutto, perchè egli aveva troppo frantesogli insegnamenti dei fisiologi sulla formazione
delle vocali e non era riuscito a farsi un chiaro concetto della natura degli accenti.
Quella trattazione vuol essere ripresa con uguale amore e posta su basi più salde.
E a me pare, per voler dire sùbito il mio pensiero, che anche per 1' accento ac-
cada in generale, come per la classificazione delle vocali e delle consonanti, che si
badi troppo esclusivamente ai fenomeni della trachea e dei polmoni e si dimentichino
(juelli deUa cavità orale. Ce lo mostra quella stessa divisione degli accenti in esj)/'-
ratorlo e vitisicale della quale oggi si fa tanto clamore. Quasi tutti 1' accettano, ma
in generale con troppa indeterminatezza di definizioni, che non accenna a sicura
precisione di concetti.
Anzi tutto è ovvio notare che senza maggiore impulso espirntorio non si debba
avere incremento di nessuna maniera di accenti : che perciò contrapponendo l' espira-
zione alla musicalità si viene a porre malamente accanto al genere una sua specie par-
ticolare. Meglio sarebbe distinguere forza , altezza e durata dell' accento come si fa
solitamente in acustica , e come già facevano gli Indiani e i Glreci.
Non si dica che la censura sia futile, volendosi con accento espiratorio indicare
appunto la forza maggiore e con accento musicale la maggior altezza delle voci, sic-
ché nel secondo caso si segnerebbe un incremento di tensione nelle corde vocali, che
mancherebbe nel primo.
Questa giustificazione non basta. L' organo vocale umano non può considerarsi
— 31 —
come uuo strumento semplicissimo a linguetta, ma lia un tubo di risonanza continua-
mente variabile. Questa variabilità, che è di suprema importanza per 1' articolazione
delle voci, importa pure per la teoria degU accenti. Bisogna a ogni modo tenerne
conto, cred'io, ed ammettere anche un accento orale determinato dalla maggiore o
minore apertura della bocca. Né è difficile provare che sia necessario distinguerlo
dall' accento musicale.
Gli studi felicissimi dell' Helmholtz , e quelli di parecchi altri fisici e fisiologi che lo
precedettero e lo seguirono, hanno posto in sodo le leggi da-cui sono governate nella
loro gradazione musicale le diverse vocali : dimostrando che la varietà di esse altro
in fondo non sia se non vma differenza di timbro, cui va soggetto il suono fondamentale
laringeo. Il tubo di risonanza si accorcia via via nella serie «.... i; nella serie a.... u
si allunga invece più e più; sicché per la prima si ha un oscuramento dei sopra ttoni
più bassi e un rinforzamento dei soprattoni più alti, per la seconda invece tutto il
contrario, avendo incremento i toni complementari bassi e gli alti ammorzandosi. Ora
l'accorciamento e l'allungamento della bocca non si possono solamente ottenere per-
chè le labbra si ritraggano o si protendano, ovvero perchè la lingua con moto con-
trario, ritraendosi o protendendosi, venga in certo modo a sostituirsi alle labbra.
Oltreché per siffatte articolazioni delle labbra e della lingua , deve prodursi un ac-
corciamento od un allungamento, che può essere molto sensibile, anche dalla tensione
■maggiore o minore delle corde vocali, quando noi alziamo il tono della voce; perchè
ad essa si accompagna naturalmente anche una tensione analoga della trachea; né
questa avviene senza un divario nell' innalzamento della epiglottide verso la radice
della lingua, che viene ad essere più o meno spinta avanti. Quella tensione dimi-
nuirà quanto più il tono si abbassi; ed allora anche quell' avanzamento della lingua
dovrà mancare. Tutto questo si dimostra del resto anche sperimentalmente, peri' im-
possibilità di pronunziare l' u nei toni più alti e 1' i nei toni più bassi. E se ne
deve deduri'e che l'accento musicale, per sé solo, non possa crescere senza tendere
a portare le vocali sempre più in alto nella serie u.. a... i e deva, mancando, la-
sciarle ricadere. E questa è infine la legge del Veruer.
Ben diversi sono gli effetti prodotti dal vario accento orale. La mascella inferiore
deve, rimanendo uguale l'altezza del tono, per secondare l'incremento della forza
espiratoria cresciuta, allontanarsi con maggiore energia dalla mascella superiore.
A questo fatto non si suol porre attenzione. Eppm-e è un fatto palese all'osserva-
zione più volgare. Io non mi meraviglio che nei canti omerici sia notato come atto
caratteristico dell' umano parlare appunto lo schiudersi della chiostra de' denti
(spxo? oScvtwv) : né che da un luogo del Praticàkhya per il Eig Veda appaia essere
state le mascelle anche dagli antichi indiani giudicate fattori principalissimi della
favella. Certamente il solo movimento della mascella inferiore lascia, aprendo la
bocca, libero il varco alle voci. Essa sola, scostandosi dalla superiore e riavvicinan-
dosi tosto, distingue di regola la successione delle parole nelle varie battute che
si potrebbero quasi dire costituite dall' andata e da' ritorni di quella. Ed è pure un
fatto innegabile il forte spalancare della bocca, che si fa da chiunque voglia gri-
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dare è farsi sentire da lungi o cantare o spiccar meglio le sillabe: dovechè abbas-
sando la voce e bisbigliando il movimento mascellare diventa minimo.
Or bene non è egli manifesto che qiianto agli effetti di siffatto spalancare della
bocca, o com'io dico, dell'accento orale, le vocali u ed * non possono più essere
situate, così com' erano per 1' accento musicale, una sotto e l' altra sopra la vocale a,
ma che, richiedendo un'apertura orale minore, entrambe si trovano inferiori di
grado rispetto ad essa?
Tralascio qua, com'è naturale, la maggiore o minore energia di articolazione
della lingua e delle labbra, che può certo unirsi all' accento orale, aiutando anch' essa
o contrastando , secondo il diverso atteggiamento fonetico di questo o di quel po-
polo, le tendenze dell'accento musicale che porta le vocali verso le tonalità più
alte o più basse.
Riconosco ben volentieri la possibilità di siffatte alterazioni; ma stimo di po-
tere per ora prescindere da esse, come da condizioni d' ordine subordinato e ulte-
riore rispetto al movimento mascellare da cui sono presupposte. Basti avvertire che
esse potranno turbare gli effetti di quest'ultimo o esagerandoli, o diminuendoli se-
condo i diversi casi.
E sempre si dovrà affermare che l' accento orale per uè solo non possa punto cre-
scere senza portare sempre più in alto, verso l'a, o insomma verso il vertice della
piramide simbolica, ogni altra vocale.
Appunto pensando a siffatta necessità di far conto anche dell' accento orale, di-
cevo pili addietro che la sostituzione della linea alla piramide nella rappresenta-
zione grafica delle vocali non mi pareva un utile progresso. La rappresentazione li-
neare, che si deve giudicare anche per altre ragioni poco felice, fu proposta infatti
da chi imaginò falsamente che per ciascvma delle vocali 1' apertura orale fosse di
necessità determinata, e sempre costante, epperò volle che cogli accenti essa non
avesse punto che fare.
Lo Scherer a cui accenno , fu indotto in errore dalla teoria delle vocaK da lui
studiata nel Briicke: il quale ebbe forse il torto di esporla senza le dovute riserve,
cioè senza tener conto dell' accento orale : che è del resto difetto comune di lui e
di parecchi altri trattatisti, intesi quasi unicamente a studiare la genesi delle voci
elementari e troppo dimentichi delle sillabe e degli accenti.
La teoria del Briicke era stata accettata dallo Scherer con piena fiducia, non
solo come vera sostanzialmente, ma come non modificabile da nessuna forza pertur-
batrice e veramente come assoluta; onde abbattutosi un giorno ad un libretto nel
quale s' affermava il fatto cosi comune ed ovvio del maggiore allargamento di bocca
nelle sillabe accentate, non dubitò di rimproverarne con amare parole 1' autore e
di rimandarlo a leggere pazientemente almeno quelle poche pagine del Briicke prima
di voler dare nessuna spiegazione fisiologica di fatti fonetici. {Ziir -Gesch. d. d.
Sprache, pag. 40).
Mi par questo uno dei più singolari esempì degli errori che si possono commet-
tere in causa d' un dotto pregiudizio.
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Avrebbe ben potuto lo Scherei- da sé, molto facilmeute, persuadersi della verità
di una osservazione cosi semplice, anziché perfidiare nel negarla, cedendo alla
inerzia d'un preconcetto scientifico. E avrebbe anche potuto vincerlo, se oltre la
teoria del Brtìcke avesse ben ricordato gli insegnamenti dati dal Merkel nella sua
opera maggiore.
Non si trova a dir vero neppure in questa nessuna dichiarazione esplicita degli
effetti deli' accento orale ; ma avrebbe almeno dovuto lo Scherer riconoscerne la pos-
sibilità, leggendovi a pag. 817 le seguenti paróle: « si può, sebbene non benissimo
pur distintamente, pronunziare tutte e cinque le vocali mantenendo la stessa aper-
tura di bocca; purché la lingua sola entro la cavità orale eseguisca i movimenti
necessari: così come j^uò 1' azione della lingua scemare alquanto se in vece di essa
lavorino le labbra, sempre ottenendosi lo stesso effetto. »
Io credo che molti tralignamenti fonetici delle vocali si devano introdurre a
poco a poco e furtivamente, appunto per il diverso intreccio dei loro massimi fat-
tori, per lo squilibrio cioè dell'articolazione e dell' accento.
Questo squilibrio dev' essere frequente , e solo per la molta elasticità e per gli
agevoli accomodamenti a cui si prestano le articolazioni orali, nonne risultano alte-
razioni repentine e pertui'batrici. L' accento orale può essere assunto da tutte le vocali
indistintamente , anche dalle più sottili , da quelle che come 1' u e V i richiedereb-
bero per sé poca apertura di bocca ; ma devono per via dell' accento essere proffe-
rite con apertura anche maggiore di quella che nella stessa parola sia conceduta
alle sillabe non accentate , sebbene si ritrovino in queste delle vocali naturalmente
più larghe, come Va, Ve, V o. Pronunziando Attilio, acidulo, furano e altre parole
siffatte ognuno può certificarsi della verità di quanto asserisco. In queste parole
l'apertura della bocca è maggiore per le tre vocaili accentate, sebbene siano per sé
le men larghe di tutte {i, u).
Ma una forza latente deve pur operare di continuo contro lo squilibrio notato
6 favorire uno stato più normale di corrispondenza dell' accento orale più forte con
le più larghe articolazioni.
E dopo aver constatata questa forza, non dovrà parere strano che, succeduto a
poco a poco nel latino volgare e nelle lingue romanze l' accento orale in luogo del-
l'accento musicale più antico, un i siasi avvicinato all' a allargandosi in é; ed un e
già molto vicino all' a abbia potuto allargarsi ed allungarsi dittongandosi anche
per aggiunta di ixna vocale più aperta, di un è o di un « a dirittiira. Così si ebbe éè
(i'e) nelle lingue romanze; così V ea dall' e nel rumeno.
In modo analogo si spiegheranno, nelle stesse lingue romanze, la mutazione di
a accentato in o e di o in o'ò {uo); così quella di oa da o nel rumeno. /
De' quali fatti si hanno anche fuori del campo romanzo bellissime analogie nelle
lingue germaniche, nel celtico e meglio che mai nel lituano.
Mi basti per quest'ultimo riferire poche notizie tolte alla grammatica del
Kiirschat (pag. 19-20). Egli spiega le vocali miste re ed u come una continuazione
di due vocali diverse {ein solcìier Mischlaut ist eine Lautbewegung) e avverte: « Non
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sono vocali originarie, ma sono nate per incremento od allungamento organico. E
veramente sorge lo ié per incremento od allungamento di ì per aggiunta di un e
(ovvero anche di un a) e 1' é dall' ?« per aggiunta di un o (o di a) ; lo iè è dunque un
è con lieve preposizione di ?, ed u un o con analoga preposizione di u ».
Si badi che Vi, come insegna lo stesso Kurschat, è aperto e si avvicina alla
vocale e (p. es. in 'wìrti cuocere) a differenza dell' * lungo che è sempre chiuso (come
p. es. in sakyti, dire).
La brevità impostami non mi concede di riferire dallo stesso autore altri fatti
preziosi, e specialmente i vari riflessi dialettali de' due dittonghi. E per le analogie
accennate delle altre lingue, dovrò contentarmi qui di ricordare lo studio diligente
e acuto di H. Moller (Zeitschrift di Kuhn, XXIV. pag. 510). Ma il cenno dato mi
pare che basti a giustificare la mia dichiarazione fisiologica.
Il fenomeno seguirà sempre a questo modo : la mascella inferiore per accentuare
fortemente una vocale essendo costretta a valicare d' alquanto i limiti che sono
normali per essa e ad invadere quelli della, più larga vocale che le sia prossima, o
la trasporterà insensibilmente a questo grado superiore, cessando ogni compenso di
articolazione orale, ovvero, insistendo la voce, svilupperà U. dittongo.
Questo infatti sarà 1' effetto necessario dell' accento orale sulle vocali , eh' esso
le allarghi crescendo e diminuendo le ristringa. Ma si accompagnerà naturalmente
all' allargamento e al restringimento un altro fatto. Poiché la maggiore o minore
apertura di bocca richiede più o men tempo, dovranno di leggieri le vocali allun-
garsi anche od abbreviarsi; e cosi la contrapposizione delle vocali complesse alle vo-
cali sempKci (intendendo per complesse non meno le vocali lunghe che i dittonghi)
mal si potrà dispaiare da quello delle vocali toniche ed atone. Indicando con 0 1' ac-
cento orale, con A 1' apertura od allargamento della vocale e con L la lunghezza o
durata si potrà ben stabilire la formola O^AL.
E qui mi pare opportuno di trarre una conseguenza, che dovrebbe avere per
sé qualche importanza e riconfermare insieme le cose dette.
I nostri versi sono governati appunto dall' accento orale; e in essi meglio che
mai si notano le sue leggi. Vi si osserva, anche più agevolmente che nella prosa,
come per 1' allargamento maggiore della bocca si dia maggiore forza e maggiore
lunghezza alle sillabe accentate rispetto alle altre, le quali si pronunziano breve-
mente e spesso quasi fognate e nascoste fra 1' uno e 1' altro dei massimi allontana-
menti della mascella inferiore, facendosi quasi sillabe incompiute e talora veramente
trascurabili a piacere; che è poi il fondamento della nuova metrica barbara..., la quale
è diinque invece uno squisito raffinamento dei poeti colti.
Or se questo è vero, si avrebbe a modificare una sentenza comune, che, male
intesa, può farsi facile eausa di errori. Si suol dire che le lingue romanze hanno
perduta la quantità e serbato 1' accento. E in certo, senso si può dire benissimo.
Ma sarebbe forse più giusto, in altro senso, il dichiarare che hanno piuttosto per-
duto V accento e .'serbato la quantità.
Mi spiego.
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Esse hanno perduto nella parola, serbandolo solo nella frase, 1' accento musi-
cale, che è l' accento vero (sTpoceoSw.), 1' accento per eccellenza. Noi non abbiamo in-
fatti altro accento che 1' accento orale, il quale ha natura diversa ed effetti quasi
del tutto opposti: perchè laddove l'accento musicale più alto abbreviava le vocali
che lo sostenevano , aUungaudo piuttosto la sillaba vicina, mal può crescere 1' accento
orale senza che il valore quantitativo della sillaba aumenti. Le lingue romanze in-
somma non hanno vero accento musicale, perchè in generale le parole come parole
non vi si cantano più; ma hanno certamente ancora sillabe diverse di quantità, ed
è assurdo pensare che non ne abbiano.
Ond' io direi che siano in fondo identiche le leggi della ritmica e della me-
trica presso gli antichi e presso i moderni. Né per noi né per loro riposarono esse
mai su diversità di accento musicale delle varie sillabe, cioè sulla tensione mag-
giore o minore della trachea e delle corde vocali. Le loro leggi furono e sono sem-
pre quelle dell' ictus o, com' io dico, dell'accento orale; nella poesia dei greci e
dei romani come nella nostra, le battute furono sempre quelle della mascella infe-
rìore; e sempre le misuriamo con l'orecchio e le valutiamo con le dita: legitùnumque
soHum digitis callemus et aure.
Né è forse difficile, almeno in complesso, di determinare la ragione prima per
cui 1' accento passando dalle lingue antiche alle moderne dovette mutar natura.
L' accento orale è mnemonico e niente più. L' accento musicale è invece -patetico
essenzialmente : e noi lo serbiamo bene nella proposizione e nel periodo. Si può dire
che sia come il colorito che si aggiunge al disegno di una frase intera, e presup-
pone di necessità un pensiero compiuto.
Non è dunque sti'ano che esso appaia vigoroso e variatissimo nelle lingue
monosillabiche ed agglutinanti. Finché non v' ha altro che radici e proposizioni e
non vi sono vere parole, 1' accento musicale deve rimanere padrone assoluto; per-
ché tutto vi è attuale e vivo e non vi sono ancora, per cosi dire, notizie tesoreggiate
dal pensiero ed antiquate.
Quando sorsero le vere parole, che si staccarono a poco a poco dalle serie ag-
glutinate e si irrigidirono in forme flessive, è naturale che non perdessero d'un
tratto tutta la nativa freschezza, che serbassero a lungo le leggi di quelle proposi-
zioni dalle quali si erano divulse. Ma oscuratasi col tempo sempre più ogni consa-
pevolezza etimologica dei vocaboli, e sulla fantasia e sul sentimento prevalendo via
via la memoria e l'intelletto, di necessità la gamma musicale cedette al bisogno
di spiccare fortemente le sillabe. La trachea fu vinta dalla bocca: il canto dalla
parola vera.
Gli effetti che si avevano per 1' accento musicale si hanno ora in gran parte
per 1' atonismo.
E chiaro che crescendo 1' accento musicale dovesse, per sempre maggiore di-
spendio di forza, assottigliare le vocali e portarle dall' a verso l' i e cagionarne anche
la perdita compiuta. Ma ora questo digradamento avviene invece per mancanza di
accento orale, e insomma per risparmio di forza sempre maggiore.
— 36 —
Indicando sempre con 0 1' accento orale , con M 1' accento musicale , con F la
forza espiratoria, avremo infatti la formula: F:=MO, dalla quale scaturisce l'altra
F , . F
M=-TT e, sostituiti ad 0 i suoi fattori dell' allargamento e della durata: M = ^T) •
Stanno dunque 1' allargamento e la durata vocalica in ragione inversa rispetto al-
l' accento musicale. Ma poiché stanno in ragione diretta con 1' accento orale , con 1' ato-
nismo orale que' fattori staranno anche in ragione inversa. Dovrà 1' atonismo necessa-
riamente assottigliare ed abbreviare le vocali.
Senonckè 1' atonismo nella sua opera deleteria trova pure degli impedimenti; o
per dir meglio trovano contro di esso le vocali qualche riparo e sostegno.
Anzitutto la favella non vive tutta in un individuo, né solo nella sua bocca.
Essa è fatta per il sociale commercio e per 1' orecchio che la raccoglie e la dirige.
Anche le illusioni acustiche possono perciò cagionare alterazioni nelle parole. E,
come dice benissimo lo Scherer {Zur Gescli. d. d. Sprache, pag. 73): « La lingua si
propaga per riproduzione di pronunzia delle voci udite: epperò le apparenze diven-
tano spesso cosa reale ». Quando 1' orecchio non riesce a distinguere bene il valore
di una vocale troppo indebolita, che pur non giovi sopprimere del tutto per la spe-
ciale condizione in cui si trovi, permetterà facilmente agli organi orali la sostituzione
di una vocale più normale, e spessissimo p. es. quella dell' a che è la più natiu-ale
di tutte. Non altrimenti io stimo che si possa rendere ragione di quella rotazione
vocalica, che è un fatto innegabile e frequentissimo e forse merita il nome di rota-
zione assai meglio del tralignamento germanico delle consonanti mute, per le quali
non avviene punto un vero corso e ricorso come per le vocali.
Ma anche si incrociano con gli scadimenti dell' atonismo e coi rinnovamenti
acustici le spinte delle consonanti e delle vocali vicine, di cui si cercavano le norme più
generali nella prima parte di questo studio. Potranno esse trovarsi con quelli ora in
armonia ora in contrasto. E si vorrà bene ammettere, anche a priori, senza bisogno di
prova, che siffatte azioni dell'ambiente debbano avere maggior presa suUe vocali
atone che sulle toniche troppo più vigorose. A designare le complicazioni di tutti que-
sti effetti può valere un paragone che rappresenti la tonicità come una forza d' im-
pulso e r atonismo come la forza contraria di gravità. Si potrebbe cioè dire che que-
st' ultima faccia precipitare le vocali verso la linea di confine con le consonanti;
ma che toccata questa linea rimbalzino quasi palla elastica, volendosi mantenere
vocali. Lo stesso oscuramento acustico pei'metterebbe quel i-isorgere, quel rinvigo-
rirsi dell' articolazione nelle vocali. Ma per costruire il parallelogramma delle forze
e determinare esattamente la linea della discesa e quella della salita, dicevo che
s' avrebbe sempre a tener conto delle influenze vicine; perchè nell' una e nell' al-
tra, sebbene mosse da forza propria, aderiscono le vocali alle consonanti prossime
e ad altre vocali. Sostenute o contrastate da queste non potranno far sempre le
atone né tutta la caduta né tutta la salita. Prima di raggiungere il massimo assot-
tigliamento o la perfetta rintegrazione esse saranno ben sovente arrestate: così come
i corpi lanciati in alto o cadenti verso terra possono capitare sui tetti o sui muri
— 37 —
0 restare impigliati fra i rami di qualche pianta. Le nasali , prescindendo dall' ar-
ticolazione della lingua, dovranno, per il solo abbassamento del velo palatino, fer-
marle ben alto: ad una altezza discreta le labbiali ed anche alcune varietà di Z e
di r; ma le lasceranno abbassare più che mai le consonanti dentali t, d, s che vo-
gliono esse stesse, come vedemmo, stringei-e la lingua al palato.
Io non presumo di dar qua le prove sufScienti di tutte le fatte considerazioni.
Solo per mostrare, un po' più determinatamente, quale sia il mio pensiero soggiungo
pochi esempì: e devo, sebbene a malincuore, restringermi al vocalismo italiano. Per
indicare il digradamento, la, perdita, la rotazione e l'adattamento della vocale voglio
che mi valgano le lettere iniziali di queste parole appunto: D, P, R, A.
E avrò dunque, 1" per la vocale a:
D. imbasciata, an/tra;
P. 'bottega, 'guglia;
R. anatra ;
A. margherita, comperai'e; coyone, do»iasco; scandoto, bufolo.
2° per la vocale e:
D. signore, pigione; empito, soccida; lungi, tardi;
P. 'pitaffio, 'sciame; ver'gogna, s'cure; asp'ro, tor're;
R. avorio, malinconia, albergo, asciugai'e, asciolvere, celabro, tartufo;
donare?
A. domandare, dovere, rovistare, rojnito; angioto, risipola; giovane?
3° per la vocale /;
P. 'nimico, 'zotico; nobiltà, vantare, sentiero; lindo, so'do, sozzo.
R. annaffiare, salva tico, zampogna, marmocchio, marmaglia; Gerolamo,
sindaco, calonaco.
A. laberinto, dattero; gradevole.
4° per la vocale o:
D. (orale) («bbidire, uffizio, fucile, ntgiada; dimestico; attimo.
P. 'cagione, 'spedale;
R. prolago, filosafo, cravatta, cavelle, gracidare, carola, smaniglia;
A. albej'O, valeroso.
b° per la vocale «.-
D. (labbiale): cotenna, corsiere, coltello;
P. 'bubbola, 'bellico; occhio, specchio;
R. allocco, gargozza, drappello, modano;
A. popolo, capito/o, donnola; albera.
In questi -ultimi esempì, per la vocale ti, il digradamento notato può parere
strano. Si aspetterebbe altro , dopo che s' è visto l' o indebolirsi per atonismo
in u; e rispetto a questo 1' o può anzi giudicarsi un rinforzamento. Ma non è altro
che una contraddizione apparente, e mi dà occasione di ripetere che resta pur
— 38 —
sempre un'altra causa di divergenze, per le vicende delle vocali •atone, che nello
studio de' singoli fatti non può essere dimenticata. L' w è men forte di o per arti-
colazione della mascella; ma o è men forte di u per articolazione labbiale. E nel-
r accento orale si combinano le due articolazioni; e si possono secondo il diverso at-
teggiamento normale dei parlatori combinare in varia proporzione. Quantunque la
fisiologia delle voci cerchi di porre in sodo le leggi universali delle articolazioni
orali , supponendo che tutti gli uomini abbiano organi vocali fatti allo stesso modo,
non si deve per questo dire che gli atteggiamenti delle corde vocali e del velo pala-
tino, della lingua e delle labbra non siano facilmente diverse per lunga abitudine
de' diversi popoli. Queste abitudini etnologiche bisognerà indagarle con molta dili-
genza; e vi si troveranno le cagioni di fenomeni, che le leggi più generali del-
l' articolazione e dell' accento lascerebbero inesplicate.
E evidente, p. es., che un popolo il quale parlando abbia normalmente una forte
protensione di labbra od una retrazione di lingua , deva spingere , rimanendo uguale
ogni altra condizione, fino all' u un suono che altrove raggiungerebbe appena l' o; e
da un a per modico ristringimento di bocca ricavi un o invece di un e che ne sa-
rebbe altrimenti risultato. Così nel provenzale moderno, ne' dialetti mesolcini, ecc.
abbiamo un o di fronte all'è francese per a fuori d'accento {campagno^ oumbro,
ounglo; migo; Ardi. Glott. II. i. 272).
Queste diversità di atteggiamenti orali, che perle lingue neolatine vorrei ricercare
ne' miei saggi fonologici, non rendono impossibile la determinazione eh' è stata fatta
delle leggi più generali; anzi le presuppongono. Ma esse sole spiegano appieno le
evoluzioni fonetiche tanto dissomiglianti tra lingua e lingua, tra dialetto e dialetto;
mostrandoci come gli uomini degU stessi organi vocali abbiano fatto diverso uso,
moltiplicando in varietà infinite il sistema fonetico teorico e fondamentale :
Opera naturale è eh' uom favella ;
Ma, cosi o cosi, natura lascia
Poi fare a voi secondo che v' abietta. ,
Lo diceva già 1' Alighieri, intrawedendo in qualche modo la selezion naturale
nella vita degli umani linguaggi.
P. Merlo.
ETYMOLOGIEK
1. frz. AlGUILLE
{aig"iUe), aiguiUqìi {aig"illon) behandelteu ziiletzt W. Foerster und H. Suchier
Zeitschr. f. R. Ph. HI 515. 626. Foerster hielt fiir wahrscheinlich, dass die singulare
A^erwandlung des altren iV in H in beiden Wòrtern in einem aquilens statt aculeus
iliren Grund hàtte, wàhrend sie nach Suchier, wie bei Bourguignon^ ihre Erklàrung
darin findet, dass j, « sonantischer » sei als il; s. dazu Gr. Paris, Romania IX 391 £
lek mòchte die Ursache diesar Lautanderung darin gegeben glauben, dass 1) aiguille,
als das einzige Wort der Sj)rache mit dem Ausgang -inle{vioille = Ye\ii,fuile^folia,
sind òrtlicli beschrànkte Formen : Benoit, Anglonormannisch), und danach aigiiillon,
Einwirkung des in begrifEiclier Bezieliung zu aiguille, aiguMon stehenden aiginse etc.
von aigtdsier erfuliren, worin ein Wortstamni aigui- vorzuliegen schien, der, in
aigié-le substituirt, aiguille als eine Weiterbildung von aigui- aigu-, wie die Wort-
stàmme in point-ille, éjpont-ille, coMr<-i7fe auffassen liess. Dieselbe Lautfolge "«' war
ausserdem 2) in dem formverwandten anguille noch vorhanden, dessen II die Mouil-
lirung durch Einwirkung der Suffixwòrter auf -ille erst im 16. Jahrhundert
erhielt, und 3) musste das stammgleicke Adj. aigu (acutus) das Subst. (aigil'lle) erst
recht in die Reihe der Derivata a,nf->.lle hineindrangen. Picard, agotdlle, berry.
aguéille sind wohl, wie wallon. aw-é-ie, rouchi eiv-i-le als ag'^ille, ag"'éille zu fassen;
vgl. anguilla auf picard. auioille, aingidlle, wallon. anvé-ie, (wallon. allgemein -ille zu
-e-ie). Der Uebertritt von aiguille in die Reihe der "Wòrter auf -ille fiihrte nicht zur
Viersilbigkeit des scheinbaren Derivata von aigid- (aigu-), weil -ui auch altfrz. eine
ausschliesslich einsilbige Vokalfolge ist. Die Belege fiir aig"ille seheinen nicht
ùber das 13. Jahrh. zuriickzugehen.
Bourg"ignon ist nach Bourg"i.n(g) zu beurtheilen, von dem es ja abgeleitet ist
(lat. Burgundius, vgl. Burgundii ueben Burgundio-nem).
2. it. Ammiccake,
(nur florentinisch?), zu sich wiuken, aus admicare (Castelvetro) erscheint Diaz, 11%
niil Recht zu pretios. Ueberdies làsst dieses Etymon das geminirte e (vgl. replicare
— 40 —
implicm-e) uncl i gegenuber lat. i unerklart, wofur in einem volksublichen Worte
doch e (^/ie^9are=plicare) zu erwarten steht; das Fehleii eiues Primitivs im Ital. làsst
sogar auch die Betonung ammicca fiir admicat anomai erscheinem. Winken heisst:
zu sich, zu mir winken, /are venire a mi etc. (wegen mi = miì s. Blanc, Gr. S. 244).
Ein Wink oder Ruf « ammi » mit unausgesprochenem , weil durch den Gestus
sich verstehenden Imperativ, konnte ein Verbum ammiccare, « zu m,ir winken,
winken », zur Entwicklung bringen, wie das Franz, z. B. in tu-toyer, das Deutsche
in du-tzen besitzt. « Quando tu vuoi che porti le -paste, ammiccami. » Das ableitende
Element -(i)care tritt hier mit ce auf, weil hinter betontem Vokal {ammi-cco,
ammi-cchi, ammi-cca, ammi-ccano etc.) wenigstens nach der in der Wortcomposition
giltigen Regel (là-DDove , già-MMai , dà-Mui), der Suffixanlaut sich verdoppeln musste.
Eine stricktere Analogie fiir den zu erlàuternden Fall existirt nicht, da das Ital.
keine weitren von Oxytonis gebildeten Verba besitzt. Logisch betrachtet, sollten
f'reilich neben ammiccare auch Bildungen aus den librigen Personalpronominibus
{ti, si etc.) bestehen. Aber ein Ausdruck wie der vorliegende geht naturgemass von
der ersten Person aus und wird auch ohne Vergessen der etymologischen Grundlage
auf andre Personen libertragbar in Verbinduug mit dem Gestus.
3. it. And.'Uie,
span. port. andar, cat. anar, prov. anar, ohne Riicksicht auf frz. aller, und auf eiu
latein. Wort zurùckzufiihren, legt der letzte missgluckte Versuch mit ambulare
wiederum nahe; auf ein latein. deshalb, weil das Wort keinen Culturbegrilf dar-
stellt, der aus der Fremde zu entlehnen war, sondern zu den uuentbehrliohen
Benennungen allgemein menschlicher Thàtigkeiten gehòrt, die in den romanischen
Sprachen lateinischen Ursprungs sind, und weil andare sich in den drei Hauptgebie-
ten derselben wiederfìndet, italisch, iberisch und gallisch zugleich ist. Eine Re-
construction des Etymons von den roman. Formen des Verbums andare aus fiihrt
zunàchst auf andare selbst, fur das aber im lat. Sprachschatz jeder Anhalt fehlt. Diez'
hypothetisches anditare fiir aditare ist formell in doppelter Hinsicht unannehmbar.
1) bleibt zu beweisen ubrig, dass nd't ital. zu nd wird und 2) ist fur die angenommene
Einschaltung des n: re-n-dere keine treifende Analogie. Denn re-n-dere erhielt sein n
durch Einwirkung der zahlreichen Verba aiif -n-dere (it. prendere, rispondere etc), mit
denen reddere gleiches Perfect (it. resi wie presi, risposi; frz. rendi wie cendi,
respondi), gleiches Particip (it. reso -wì& preso, risposo ; ùz. rendu 'wì&vendu, respondu)
und andere Formen ùbereinstimmend bildete ; it. andito = lat. aditus aber ist Anbil-
dung an andare. Nach welcher Analogie n in aditare eingedrungen ware, ist nicht
abzusehen ^^nd einer solchen bedarf es, um anditare glaublich zu finden. Derselbe
Einwurf ist gegen ad-dare caddero zu richten. Zu leicht dagegen hat man sich mit
*ambitare abgefuuden. Der einzige dagegen vorgebrachte Gruud, m'f ginge nur span.
in nd tìber, ist nicht stichhaltig; dami 1) handelt es sich bei ambitare gar nicht um
m't, sondern uni mh't und 2) wird auch ràtor. mb't wie m't zu nd (vgl. amita=anrfa onda;
sambata aus sabata durch samb'ta zu somda , sonda). Auch im Prov. und Frz. ergibt
— 41 —
h't: d (cubitus wird prov. code frz coitela; *subifcamis frz. soudain); und so wird aucli hier
mb't: nd,z. B. bombitare, (s. Georges' Lat. Wòrterbuch: bombire bombita-tor) , zu
picard. òondìV, nprov. èoMNDw, nfrz. òoNDtr; (vgl. Diez. "W. II"^ bandir), t assimilirt sich
also an b, um so eher an zwe i vorausgehende tò nende Laute (mb). Dass diesa Assimi-
lirung auch im Ital. stattgefunden , wo bt b't zu tt, subtus zu sotto, debita zu detta
wird, ist freilich nicht auf eine Lautregel zu griinden; aber nur darum nicht, weU
der ital. Wortschatz kein weitres Wort mit ìnb't oder einer analogen Gruppe {rb't) auf-
weist. Das Substrat *ambitare fùr andare etc. liat vor den andern vorgeschlagenen.
Etymologien jedenfalls deu Vorzug voraus, dass diesa feststehende Lautregelu
verletzen, wàhrend fiir das allerdings nicht belegte *ambitare nur keine vielgesttìtzte
Hegel der ital. Lautlehre geltend gemacht werden kann. Die Substantiva frz. and-ain,
Schritt, Gang; nprov. and-ano, span. and-ana (daher port. andaina?), Schritt des
Màhers, Eeihe; it. and-ana, Seilerbahn, sind niclit aus andare herleitbar; denn das
Suffix -anus verbindet sich nur mit der Nominalform. Sia setzen daher das Substantiv
ambitus (romanisch: andò, ande, vgl. conto, conte := co mputus) voraus, das im altfz.
onde (Rich. le bici) vielleicht noch vorliegt (s. Zeitsch. f. E.. Phil. Il 313; cfr. aber Ro-
mania 1878 S. 630) ; wegen o fiir a vgl. rouchi ondarne = frz. andain. Das prov. anar
hat festes n, also hinter a eiuen Consonanten eingebusst, und zwar einen Dentai,
da Labiale und Gutturale hinter Nasal im Prov. erhalten bleiben, die .Gruppo Na-
sal + liq. nicht auf n reducirt wird und n'm zu in , nicht zu n wird. AVer also nicht
*annar{e) ansetzen, sondern prov. anar mit cat. anar ital. andare u. s. w. vereinigen
will, wird auf andare selbst hingewiesen. Das Rathsel der Umbildung von nd zu n{nn)
bleibt freilich hierbei bestehen, und die Muthmaassung , die endungsbetonten For-
men des prov. anar seien aus den stammbetonten Formen des Conj. Pras. (an ans
an) entstanden ist eine ebenso wohlfeile Ausflucht (der Conjunctiv man = mandet
hat kein manar neben mandar aufkommen lassen) wie die Annahme der Entlehnung
des "Wortes aus dem Catalanischen , dàs man als einflussiibend auf das alte Proven-
zalisch bisher nicht kennen gelernt hat. Das Rathsel lasse man vorlaufig nur bestehen;
wenigstens solange man duroh Anomalie in der Entwickelung gieichartiger Laut-
folgen (vgl. z. B. frz. as n ont = lat. habes habet habent mit ses set sevent = lat. sapis
sapit sapiunt u. dgl.) sich nicht bestimmen lasst an den sicher stehenden Etymis zu
zweifeln. Da kein Thema existiren kann, das nach ital. Lautregel nd, nach prov.
n ergabe, so- muss die Anomalie, die zwischen ital. andare iiud prov. anar, gegeniiber
*ambitare besteht , eben aus der die Anomalie darbietenden Sprache , hier der prov.,
zu erklàren versucht werden, wie frz. set set sevent und daneben frz. as a ont nur in
der franzòsischen Sprachentwicklung ihre befriedigende Erlàuterung findeu. Die
Kiinste, die nòthig sind um die mannigfaltigen Gestalten des Verbums des
Gehens im Ratoromanischen unter den Hut von ambulare zu bringen ware es ein
Leichtes mit gleichem Erfolge mit ambitare nachzumachen. Sie miissen viel bes-
ser noch analysirt werden, ehe ihnen bei Bestimmung des Etymons von andare
nàchst den Formen so durchsichtiger Spraohen wie das Italienische iind Spanische
ein entscheidendes Wort zu sprechen gestattet werden kann.
— 42 —
4. frz. Akroseb,
prov. arrosar leitet Diez I ì-os, wie spau. rodar aus dem Adj. roscidus , Littré s. v.
aus einem fictiven Verbum roser ab. Die Gruppo -scid- kann sich im Frz. und Prov.
jedocli nicht auf s reduciren und Littrés Annahme ist uberfliissig. Frz. arroser,
prov. arrosar sind verba denominativa vom Subst. ros (prov.), wie al-lmn-er aus lum
(lumen), wie a-cah-ar aus cab (caput) u. dgl.
5. it. Astore, Habicht,
aspan. aztor, span. port. azor, cat. astor, prov.' austor, afrz. ostor, frz. aidovr, aus
gutbezeugtem acceptorem^accipiter ist nocli vor Kurzem, Zeitsch. f. Rom. Phil. II
166, von W. Foerster vertheidigt worden, der auck die Regelmàssigkeit des Ueber-
gangs von ak- zu au im Prov. (au-stor) zu beweisen sich anheischig maclite.
Unbegreiflicii ist, wie man bei dem oft citirtem Etymon die Unmòglichkeit einer
Reduction von -ccept- auf -s«- tibersehen konnte, und dass man, ehe Horning, Zeitschr.
f. Rom. Phn.. VI 440, die altfr. ImparisyRaba genauer beleuchtet batte, nicht
an dem Fehlem eines altfr. prov. Nominativ. Sglr. *ostre, *austre neben ostor, aitstor
Anstoss genommen. Das Etymon ist lateinisches astur, von Georges 1. e. s. v. belegt
aus dem 5. Jahrh. bei dem Astrologen Firmiciis Maternus, der V, 7 unter andern.
Raubvògelu und neben den accipitres auch die astures nennt. Georges setzt astùr,
astùres an, offenbar nach Analogie von vultùr, turtùr. Nach turtùr: it. tórtore,
tórtora, prov. tortre, frz. tourtre erwartet man aus astùr: it. astore, prov. austre, frz.
ostre; aber bei der Entwicklung von sichrem vultùr zu it. avoltóre, prov. voltór, frz.
vautour, ist auch an der von Georges angesetzten Quantitàt nicht Anstoss zu nehmen.
Direkte Grundlage von avoltore, voltar, vautour kann gleichwohl schriftlateinisches
vultùr neben it. tórtore etc. aus turtùr, so.wenig sein, wie astùr fur it. astóre u. s. w.
Da vulturius it. avoltojo ergibt, so ist auch nicht an ein *asturius mehr zu denken.
Einzige Grundlage des roman. -óre, -ór, -óur ist lat. Órem. Daher sind *ast-órem und
*vult-órem als vulgàrlateinische Analogisiruugen wie acceptórem neben accipiter
anzusehen, und als die direkten Grundlagen der romanischen Wòrter anzusetzen. Da
aber -orem im frz. zu eur wird, so sind frz. aitTOUR wie vawsauR aus dem Prov.
entlehnt. Der Geier ist ein Vogel der Siidens. Die hosturs gehòren im Rolandslied zu
den Thieren, die der spanisclie Sarrazene dem frànkischeu Karl als werth volle
Gesehenke anbieten kann ; die Namen éperoier, hoube u. a. mogen fùr den im nòrd-
lichen Frankreich einheimischeu falco palumbaris die ublichen Benennuugen und
vor dem Bekanntwerden des austor daselbst die allein volksublichen gewesen sein.
Prov. azt = a in austor fasse ich als Anbildung au sinnverwandte Wòrter wie ausel,
auzelar u. dgl. Hehns Versuch (Kulturpflanzen S. 526) astore aus asterius herzuleiten
verbieten Bedeutungs- und Formverschiedenheit.
6. afrz. Blkbon, Wasserhuhn,
neben bluire (G. de la Bignè) , blarie (G. de Coiucy), pikard., Seine-Iuf. blarie, blairie,
bléry (s. Godefroy, s. v. bleroii) vom- niederlànd. blaar, weisser Fleck auf der Stime,
— 43 —
« Stirnblàsse », die clas ina Deutschen danach benannte Blàsshuhn oder Wasserhuhn
(lat. fulica) tragt. Vgl. lothring. blèse (Grloss. dn patois Messiti, Nancy 1876) == dtsch.
Blàsse, d. i. Pferd mit -weissem Stirnfleck. Auch das frz. hellèque, Wasserliiihn, isfc
eine deutsche Benennting; es ist=ahd. belihha die Belche, oder Wasserhuhn, womit
die fiilica atra, deutsch auch Bellhenne oder Schwarztaucher, bezeichnet wird. Ob
ein drittes frz. Wort fiir Wasserhuhn: macroule, macrole, das auch die macreuse =
Trauerente (anas nigra) bezeichnet , die , wie die fulica atra als Fastensj^eise
empfohlen war, mit macreuse auf dem hollandischen nieyrkoet,=rMeerhuhn
basirt , soli nicht entschieden werden, — das Verhaltniss der Laute ist nicht hinlàn-
glich klar. Der Name des Seevogels wird aber -w-ohl ebenfalls den germanischen
Kustenbewohnern entnommen sein.
7. span. BoREAJA, Boretsch,
prov. barrage, frz. bourrache, it. borrace neben borrana, rum. boranfze, (it. borraggine
port. borragem aus dem gelehrten lat. Terminus borrago) mòchte Diez aus dem
Sglr. von burrae, Possen, der im Romanischen als borra u. dgl. = Scheerwolle,
fortlebt, ableiten, unter Hin-weis auf die haarichten Blatter der Pflanze. Littró
dagegen, das frz. Wort, s. v. bourraclie allein betrachtend, legt ein arab. aboukach=
pére de la sueur, zu Grrunde, von dem auch das mlat. borrago herstammen soli. Die
romanischen Worter sind jedoch deutliche Adjectivbilduugen mit -aticum , -aceum
-acem, -anum und lassen pianta als hinzugedachten Gattungsnamen erganzen. Diez',
dem augenfalligsten Merkmal der Pflanze gerecht werdende Herleitung hàlt auch
Stand vor einer andern, scheinbar sich empfehlenden Ableitung aiis dem Lateini-
schen. Da der Boretsch ausser der Stengel-, und Blattbehaarung auch die Eigenschaft
besitzt, in seinem Safte eine blaue Lackfarbe zu gewahren und den Essig blau
zu fàrben, was, da Boretsch namentlich in Italien Gemuse-, und Salatpflanze ist,
(cfr. Scelta di Curios. lett. N'^ 40. S. 4. 84) allgemein beobachtet werden konnte, so
kònnte Zusammenhang mit lat. burrus, dunkelroth, woher it. buio, dunkel, prov.
biir-el, braunroth, frz. bur-el, Purpurschnecke, vorhanden zu sein scheinen, um so
mehr, als burr-ancia (scil. potio) schon in ròmischer Zeit ein mit Mostsaft gefarbtes
Getrànke von offenbar dunkler Farbung bezeichnete und in der romischen Volkspra-
che Worter fiir die blaue und braune Farbe und deren Nuancen nicht bestanden
zu haben scheinen. Demnach wiirde der Boretsch von seinem Farbegehalt als Pflanze
mit dunklem Safte benannt sein. Allein das allgemein romanische u in den roma-
nischen Produkten aus burrus setzt ein latein. bùrrus voraus, wàhrend burrae mit
seinem Tonvokal dem allgemein romanischen o (ou) in borraja etc. wiederum gerecht
wird. Auch aus diesem Grunde ist von Diez' Etymologie nicht abzugehen.
8. frz. Encre,
altfrz. enque und encre von s-cx7.05tov , woher it. inchiostro (a. Diez. W. I inchiostro) ,
ist eine merkiirdiger Weise noch immer unbeanstandete Ableitung, die aber Diez
selbst durch den Beisatz « die starkste Abkiirzung, die in dieser (der frz.) Sprache
- 44 —
vorkommt » als unhaltbar characterisirt. Die bei dieser Ableitung bestehendeu laut-
licken Schwierigkeiten erregen jedenfalls gròsseres Bedenken als , bei unserer man-
gelhaften Kenntaiss spàtgriechiseher Wortbedeutung, die Annahme einer nicht
nacligwiesenen Verwendung des enque und eìicre durchaiis entsprecliendeii sYy.c.o[j.a zu
erwecken vermag; s-,'xau[j.a und sYxauatov begegnea sich in der Bedeutung des
'Eingebrannten , nicht aber, don Lexicis zu Folge, auch in der der 'eingebraunter
Fllissigkeit'. Aus eYZ,ao[i,a entwickelt sich durch *eìic'me regulàr encre, vgl. dia-
cortus und diacRe oder pampiwus und pampRe; der Schwund des m hat seine Paral-
lele in marcje, vierge a. dergl. Wòrfcern.
9. frz. Jadis,
'erklàrt sich aus jamdiu' (so noch W. Foerster, Aiol s. v.), « wie tandis aus tamdiu »
(Diez II e.) Aber in einem latein. Compositum jamdiu bàtte m nicht spurlos ver-
scliwiuden kònnep; jadis muss daher ein franzòsisches Compositum sein. Da aber
das Franz, diu nicht besitzt {(juandiu, nur Leodegar und Boethius, gehòrt der
gelehrten Sprache an), kann in jadis, wie schon Littré dachte, nur lat. dies enthal-
ten sein, wie in tozdis, totdis; tandis, {taiiz dis). Aber damit ist die morphologische
Seite der Frage noch nicht erledigt. Denn wie ist ja-^dis syntaktisch zu fassen?
In tozdis , tandis liegen regulàre Casus obliq. in adverbialer Verwendung, von der Art
des lat. Ablat. absol. vor, mit dem, hierbei das Substantiv nothwendig begleitenden
und congruirenden Adiectiv. Fine solche Verbindung stellt aber die in gleichem
Sinne funktionirende Vereinigung von ja und dis nicht dar; sie ist unfranzòsisch ,
da im Frz. sich Adverbium und Substantiv nicht verbinden, und dis nicht selbst
Adverbium geworden ist. Daher muss jadis cine Verbindung wie j)ieq'a,, d. h. aus
ja a (habet) dis zusammengeschmolzen sein. — Ein wirkliches Compositum von
ja, mit einem Adverbium, wie sich versteht, ist dagegen altfrz. jelmi, gehui; jìdmi,
iewi, ju{,^h.eute, fiir das W. Foerster, Chev. as deus esp. S. XLVI Stellen beibriugt
(weitre Besant de Dieu 3136; so statt 3156), ohne es jedoch zu deuten. Ich fasse es
als Ja hd, ein verstàrktes Imi; jE-ui a,xis ja-ùi erklàrt sich, wie ge-usse aus ja-cuis-
sem, se-US aus sa-puisti, e-us aus ha-buisti u. dgl. Die Umbildung von a zu e wixrde
naturlich erst moglich , dadurch dass ja Compositiousglied und vortonige Silbe wurde.
In y[«]MÌ ist e an ui assimUirt (vgl. Tristan bei Bartsch, Chrest. S. 106 jjUMSse3:=potuis-
setis); die stets 2sLlbig geltende Schreibuug jui besonders anglonorm. Hss. findet
ihr Seitenstiick in «ts^ii/is^habuissemus, rec/iwsse =recepissem der Q. L. d. E., etc.
Bei dieser Gelegenheit sei auch einmal auf den oft wiederholten fehlerhaften
Ansatz von frz. déjaz=zde jam (trotz ital. di già) hingewiesen; altfz. desja, wie
nfrz. dÉja, zeigen hinreichend deutlich die Entstehung aus dès (=-de ex) und Ja an
(so schon Littré).
10. prov. Jassè, ancsé, desse,
bespricht Diez II*^ unter se; er beschrànkt sich dort jedoch darauf semper als
Etymon zuruckzuweisen. Man hat auszugehen von cZessc=: alsobald, desse ^Me=sobald
— 45 —
als d. h. zu jener Zeit, von der Zeit an, da; also von lat. exin, verkiirzfcem exinde,
das mit quiim verbunden spatlateinisch genau im Sinne von desse que verwendefc
wird. Durch de erweiterfces exin {^desin; vgl. DEHirfe oder roman. fZes=de4-ex u. dgl.)
wurde regelrecht prov. elesse; j^(i^)-r- exin verschmolz ebenso zu /asse (vgl. des aiis
dE EX, oder (Zesai=dE Eccehac) und erhielt die Bedeutung « bereits von da an » d. i.
immer (in Zukunft). Da in a»cse, =immer,nichtder Begriff ununterbrochener Dauer
in der Vergangenheit liegt, so ist nicht ante exin (*antexiu durch antosin zu
ancse ist uberdies eine nicht beweisbare Entwickehing) bei ancse zu Grunde zu legen,
sondern eine Uebertragung des se von ja-sse auf das synonyme anc=je anzu-
uehmen, also eine Erweiterung von anc durch se nach Analogie von jasse.
11. it. Malvagio,-a,
prov. malvatz, iem.. maluaiza (s'p'àt), afrz. malvais, fem.-se fùhrte Storm , Rom. IV
362, unter Zuriickweisung von Diez' Etymon balvavesi, auf ein supponirtes *malva-
tius zuriick, das von einem ebenfalls vermutheten *malvatus, der angeblichen Grund-
lage von span. malvado, prov. malvat^ afrz. malve, gebildet sein soli. Diese letztren
drei Wòrter darf man getrosfc von den erstren trennen, auf male levatus. wie
bisher, zuriickfiihren , und so der mangelhaft begriindeten Hypothese entsagen, wo-
nach aus Adj. oder Partic. AdjectivbUdungen auf -ius lateinisch oder romanisch
mòglich gewesen wàren. Das fùr malvagio etc. von Storm vorausgesetzte Etymon
wird dadurch nicht unsichrer. Denn es ist, was Storm ubersehn, vorhanden. iliaZ-
ya^io ist^lat. male-- vatius; vatius heisst krumm, eine offenbar volksiibliche Benen-
nung (schon den Autoren nach , die sie brauchten) von den Gliedmassen insbesondre
gesagt, z. B. crura vatia, krumme Beine, (bei Varrò; desgl. homo vatius u. dgl.);
vatius ist synonym mit vatax. Die Correctheit der lautlichen Entwicklung von
vatius zu it. -vagio, prov. -vatz, frz., -vals zeigt die Vergleichung mit palatium : it. pa-
lagio, '^xoY. palatz, frz. palais, und mit *adsatiat: afrz. cessa ise (vgl. auch Horning,
Geschichte des lat. e. vor e, i, S. 25), Die Bedeutungsentwicklung vergleicht sich
mit der von tortum : frz. tori. eto. , dem Gegensatz zu directum = frz. droit etc. Das
gesetzlich iind moralisoh Ungerade, Krumme, ist das gesetzKch und moralisch
Verwerfliche, Bòse; mnl verstàrkt und verdeutlicht den bildlichen Begriff, àhnlich
wie in frz. male peste, male peur, male rage, male mori oder wie in mal-ingre , krankUch,
wenn male + aeger zu Grunde liegt.
— Bei der Correctur dieser Stelle kommt mir WoliSins Archiv 1 , 4 zu
Handen, worin K. Hofmann, S. 592, mauvais auf ein *malvax aus malva. Malve,
zuriickfuhrt: das tertium comparationis zwischen « Malve » und « schlecht » sei das
« Weiche ». Aus dem angesetzteu malvax, und sebst aus dem vorhandenen Adj. mal-
vaceus =. malvenartig ist lautlich jedoch weder frzos. manvais, -e, noch ital. malva-
gio, -a zu gewinnen und die Bedeutung zwingt so wenig zur Anerkennung der neuen
Etymologie, dass sie doppelt unannehmbar ist.
— 46
12. frz. MORCEAD,
altfrz. morcel , morsel, nicht aus *morsellus (it. morsello etc.) iiuter Vertauschung von s
mit e. wie Diez. II<= s. v. meint, sondern aiis *morscellus , wie vaisseau, altfz. «ameZ
aus vascellum, arbrisseau, altfz. arhrissel aus arboriseellus (s. WòMflin, Archiv fiir
Lat. Lexikographie I. S. 242; Horning, Gesch. des lat. e. S. 4). Dafiir spricht pikard.
morclid (vgl. pikard. vacìié vascellum). Auch frz. vincer und percer sind keine Belege
fiir Vertauschung von s mit e; denn vincer kommt nicht vom dtsch. hreinsa, da die
altfrz. Form va-incier lautet und percev -wird Niemand mehr &v£ pertusier grunden;
frz. sauce, altfrz. salse und salce, sausse una salice, ist allerdings schon Schreibart des
13. Jahrh.; das "Wort reimt aber immer nur mit s, z. B. mit false fausse (vgl. Cre-
stien de Tr. Chev. au lyon 4193 etc), nicht mit chance calceat u. dgl., solange c+e noch
nicht .s war.
13. frz. NiÈCE,
prov. netsa, it nesza (Valentini), bezeichnet Diez, II'',als cine auf *neptia beruhende
Form, « die sich der Franzose mil Hilfe des ableitenden ì in uepti-s verschaift bàtte. »
Diese Auffassung ist nicht Mar , denn der ' Franzose ' bewahrte das ' ableitende i '
nicht. Vielmehr ist neptia eine lateinische, den latein. Lexicis, auch Georges, aller-
dings fehlende Bildung. Das Wort steht aber z. B. auf einer Inschrifb von Aquileja,
C. I. L. V. N" 2208. Zur Bildung vergleicht sich lat. acia, Einfàdelfaden, von acus,
Nadel; suppetiae, Hilfe, zu suppetere. Zu Grunde liegt nept-is, das auf spanischem
Boden zu *nepta analogisirt, span. nieta (dazu Msc. nieto), catal. neta (Msc. net), prov.
nepta (neben netsa), picard. en-nette ergab; auch sardisch nepta, netta. Der Diphthong
ie im frz. Wort erklart sich durch Einfluss des Msc. 7t('es = lat. nepos (nicht durch
Einwirkung des Hiat-t, wie Horning, Gesch. der lat. e. S. 22 meint); s. auch u. pièce.
14. frz. Patois,
kann , wie in andern Sprachen die Bezeichnungen fiir ungebildete Rede , nur ein Wort
der franzosischen Sprache, und, wie die Endung zeigt, nur ein abgeleitetes Wort
sein. Es bedeutet zwar altfrz. noch, wie latin, die fremde, die Individualsprache ,
die nicht allgemein verstandene , im Gegensatz zur allgemein anerkannteu Sprache ,
ohne Betonung des Begriffs der ungebildeten Rede, ist aber auf keine Weise, mit
Diez und Littré, aus dem gelehrten iind nicht-altfranzòsischem jjatrte, patria, lautlich
zu entwickeln. Es ist vielmehr Ableitung aus patte, Pfote, das die Akademie friiher
noch paté schrieb. Daraus zog die Sprache auch pat-aud im Sinne von plump, platt-
fussig, ungeschlachter Mensch, Bauernliimmel. Einem solchen ist, wie plumpes
Wesen (Gegensatz: courtois), so eine, 'plumpe" Sprache eigen, die mit jjat-ois figiirUch
bezeichnet wird, auf dieselbe Art, wie mit narqu-ois, Rothwelsch, die Sprache und
das abgefeimte Wesen des Gauners, wie mit altfrz. clerqu-ois das gelehrte Wesen
und Sprechen; vgl. noch mat-ois, verschmitzt, von mate, griv-ois, zotig, von grive.
— 47 —
Die Bedeutung 'landschaftliche Sprache uugebildeter Leu te" entwickelte sioh aus der
Bedeubuug ' robe Sprache' mit der Herausbildung der frzòs. Schriftsprache. Vgl. aucli
deutsches platt = frz. patois, plattdeutsch u. dgl.
15. frz. Pièce,
YiTov.^eza, j}essa; c&t. pessa; port. 2>eca; span. pieza, it. pezza, pezzo. Diez, I s. v.
2jezza, weist ein petia, petium in lat. Urkunden seit dem 8. Jahrh. uach und erwàgt
Zusammeiiliang mit span. ped-azo, Stiick, mit kymr. peth, Stùck, oder daraus
gewonnenem *petìiia und, da hierbei bedeutende lautliche (und morphologische)
Schwierigkeiten bestehen, mit Tié'Qy., Fusssohle, Fuss, Unterstes. BucHstàblicK
entspricht den romanischen Wortern der zweite Theil des von Sulpicius Severus ,
Dialogi II 1 4 (ed. Halm) gebrauchten tri-peccia, Dreibein(stuhl) : « in sellula
rusticana, ut suut istae in usibus seruuolorum quas nos eustici Galli tripeccias,
nos scholastici aut certe tu, qui de Graecia venis, tripodas nuncupatis. » Fiir tripec-
cias (cod. Veron. 7. Jahrh.) schreibt der cod. Frising., X. s., tripecias, der cod Monac,
XI. s., tripetias. Das Originai mag immerhin tripeccias oder tripecias geschrieben
haben; der bei Sulpicius Severus das rustike Wort gebrauchende gemeine Gallo-
ròmer mag es in der Weise seiner Zeit ausgesprochen haben und der Sulpicius-Text
es in dieser Form haben wiedergeben soUen. Dann ist es nur ein Zeugniss mehr
fiir vulgàris (c)ci aus tiVoc. aus dem Ende des 4. Jahrh.! Die Form tripetias,
obwohl in einer jùngeren Hs. ùberliefert, darf auf keinen Fall verworfen werden;
denn in <»-ipeccias liegt nothwendig der Begriff des Fusses; tri-pedas aber zeigt
sich stammverwandt mit lat pet-iolus , Fiisschen, Obstiel, fiir welches Wort Ausgaben
des Apicius (cf. ed. Schuch I 20) andrerseits peciolus bieten, und auch bei diesem
Wort bestàtigt Nouius, p. 109, petiolus a jjetZe diminutive. Auch lat. pet-ilus,
spàrlich, scheint zu diesem p6t = Fuss zu gehòren. Nicht minder verlangt span.
ped-azo, Stiick, ein ^ei- als Grundlage. Der abstracte Begriff des ^^ec^-azo als Stiick
kann aber nur ein aus eoncreter Raumanschauung abgeleiteter sein, und ist aus
naheUegenden Bedeutungen von pes=: Fuss, 1) = der vom Fusse bedeokte Raum 2)
kleine Maasseinheit, die in den romanischen Sprachen sich mit pedem
thatsachlich verbinden, sehr wohl zu entwickeln. Auch das span. pieza, das
catal. pjessa = spatium, intervaUum, bezeichnet ja neben Stiick, d. i. ein der
geringeten Maasseinheit entsprechendes Ganze, den kleinen Zeitraum und eiue
geringe òrtliche Erstreckung. In jenem bei Sulpicius Severus erhaltenen -petia
mòchte daher das Etymon fiir frz. pièce und die oben angefiihrten Wòrter ebenso zu
suchen sein , wie in pet + aceus span. pted-azo scine Grundlage findet. Die Endung
ia in tri-petia zeigt ein Adjectiv, also pet -|- ius = ' fiissig " an, wie es x[À-tzooq,
lat. tripus und alle àhnlichen Composita mit tri etc. der Bedeutung oder Bildung
nach urspriinglich sind. Zu tri-pet-ia ergànzt man leicht ' sedes. " Daher erklàrt
sich dann auch mlat. pet-iww und it. pezzo. Der Diphthong te im span. pieza làsst
sich nicht als lautgesetzlich begrùndet erweisen, da analog gebaute Worter dem
volksthtimlichen Sprachschatze der Spani er abgehen; jsrecio = prètium ist gelehrt.
— 48 —
Die Wahrscheinlichkeit der Einwirkung des sinnverwandten pie = pedem aber auf
spaniseli moglicherweise regulàres *2^eza, die bei der Sinnverwandtscliaft von jjje und
j)ieza Niemand beanstanden wird, ùberhebt der Mute, auf Umwegen festzustellen ,
wie in volksmassiger span. Sprache lat. -ètj- sich darstellte. Analogiscb ist siclier
das ie im frz. ixièce (das weder peccia noch pecia erklaren); denn prétium ergab liier
2}r>'s, prètiat: 2jrise. Aber wie obeu «lÈce durch «ies, so wird pmce durch jjieiì =:
pedem verstàndlich. Die von Horning, 1. e. S. 22, aufgestellte Vermutliung, das
Hiat-t in *peccia oder *petia habe e bei ie erhalten, kann sich demnach vorlaufìg
nur noch auf das dunkle tiers = tertius berufen, worin aber ie fiir gedecktes è gegen
die Lautregel ist. Da pièce vind Sippe aus latein. Sprachgut ableitbar sind, ist es
nicht nòthig , das Etymon anderwàrts zu suchen. Kymr. Herkunft lehnt die Ver-
breitung des Wortes auch in Spanien ab ; die keltischen Wòrter des spanischen
Sprachschatzes stammen aus dem Vulgàrlafcein ròmischer Zeit. An KéC,% zu denken
verbietet die mlat. Schreibung: peJtum pe^ja, da C mlat. wenn auch durch ce, nicht
doch durch ti (oder ce?) vertreten zu werden pflegt.
16. nfrz. RcissEAD,
afrz. ruicel, russel und roissel, roisseaus, rossel, (s. W. Foerster, Ztsch. f. R. Ph. V
96 f), it. ruscello, mòchte W. Foerster von einem Stamme ni-, in altfrz. rn, ruz, rus
a.bleiten , den er in lat. Rù-mo (Tiber) etc. zu erkennen meint. Das altfrz. oi neben .
ni, in roissel neben ì-uissel, verlangt aber 6 -f- i als Grundlage und weist auf mlat. ro-
gium = Bach, das, wie exagium: essai, so *rot ergiebt, und, wie hodie neben hoi ein
Imi stellt , so auch rivi werden musste. Aus demselben rogium leitete schon Diez II''
s. V. arroyo, span. a-rroy-ar, iiberfliesseu, iiberfluthen (cfr. span. ejisat/e?' = *exagiare,
und span. a-rroyo, Bach, mlat. arrogium (Urkunde vom Jahre 775), port. arroio,
Bach, ab. Altfrz. roissel, ruissel ist ebenso gesetzmassig aus einem Deminuti vum
*rogi-scellum zu ziehen, wie frz. arbri-sseau aus arbori-scellum (s. o. morceau .
Schwierigkeiten wiirden nur bereiten 1) afrz. ru, wenn daneben nicht die von Diez
1. e. angegebene Nebenform rui existirte, die "W. Foerster 1. e. beanstandet, und 2) it.
ruscello, das von Diez 1. e. als franzòs. Fremdwort aufgefasst wird und nach ital.
Lautregel allerdings nicht aus *rogiscellum zxi entwickeln ist (vgl. it vascello = vas-
cellum; ramoscello zu ramo; arhuscello stammt nicht von arborisceUum , sondern ist
Deminutiv zu arbusculum). Die altfz. Form rui gibt Foerster mit Raynaud im Aiol ,
V. 4931, selbst zu. Ebenso steht wie dort mit Bezug auf fontaine, Huou de Bord.
5541: ruis und in dem Parallelverse 5549 wechselt mit ruis: ruisiaus. Dann diirfte es
aber auch an andern Stellen, wo vom rui de la fmiiaine die Rede ist, z. B. Munch.
Brut. 3911, Beuve de Com. 2360. 2952 (Scheler: rin), Durmarfc 2625 {rìu) Mousket
2420 {riu) gelesen werden, wàhrend ib. 7088: del sane ki partout ceurt a uro: (Griit),
und Adelleicht auch Mon. de Namur II 2, 604 deleis un rin (1. riu), da wallonisch:
riu, riew, besteht, das bekamite r4M=rìvum. vorliegen mag. Ein, ì-iii oder rui sichernder
Reim steht mir nicht zur Verfiigung. Das von Contejean im Gloss. du pat. de
Montbóliard prwahnte Deminiitiv ruij-of (so etwa zu schreiben Bastart d. B. 320
— 49 —
statt ì-uissoit im Reim mit -ot, wo Scheler willkiirliche Entstellung von ruisseau
erblickt) bietefc keinen sichern Halt fiir rui, weil dieselbe Mundart daneben das
Wort rti besitzt, das im ganzen Osten bis ins Elsass hinein (hiei" auch Ru])t^ aber
ru gesprochen) verbreitet ist. Wie ridt (Champagne, nach Lorrain Gloss. ; bei Joinville :
rie) aufznfassen sei , ist nicht klar ; ist t stumm , so liegt die gesuclite Form aber auch
hier vor. Die Entscheidung hàngt von einem Reime rui mit ui ab. Die Form ru aber
fiir jiinger als rui auzusehen, berechtigen die ostfranzòsischeu u fiir ui, z. B. cestu, celu=
cestiti celiti, 3. Burguy I 154, Apfelstedt, Lothr. Psalt. S. XLIX u. XXXVI, Poulet,
Vocabulaire du Patois de Plancher-les-Mines (Haute-Saòne) , S. 36: fi-u :^ fruii,
jjechu = jjertuis u. dgl. Das it. ruscello , schon von Dante gebrancht und der
Umgangssprache angehòrig, wird man trotz alledem ungern als franzos. Fremdwort
betrachten. Alletn es fàllt hierbei ins Gewicht 1) dass ruscello ohne Primitivum im
Ital. dasteht, wahrend ein solches bei den iibrigen Deminutiven auf -scello vorhan-
den ist; 2) wird man das Etymon von ruscello vom frz. ruisseau nicht trennen
diirfen, und 3) ist ein latein. Primitiv zu it. ruscello nicht denkbar. Nach vascello
(zu vasculum) arhuscello (zu arbusculum) hatte es nur rusculum, oder nach (jungem)
ramo-scello etwa *rù-um lauten miissen. Letztres Wort aber ware unlateinisch ,
und rusculum fiele mit dem Deminutiv zu rùs', Land(-gut), zusammen, und setzte
denselben Stamm rus- voraus, der sich aber weder mit Foersters Wurzel »•?< vertragt,
noch in der erforder lichen Bedeutung iliessen u. dgl. im Latein existirt.
G. Geòbee.
088EMAZI0NI
SOPRA UN VERSO DEL POEMA PROVENZALE SU BOEZIO.
Il verso 26 del Boezio non fu ancora , eh' io sappia , interpretato in modo sod-
disfacente. La frase Non i mas foiso è tradotta dal Eaynouard {Choix, II, p. 9): N'y
mit foisoìi; il Diez {Altr. Spraclid. p. 50) pensa, non però senza mostrar qualche
esitanza, che il senso possa essere: Er setzte es niclit dtirch, cioè non ne venne
a capo, non ottenne il suo intento; il Bartsch {Clirest. Prov.) segue la stessa inter-
pretazione del Diez, poiché nel suo Glossario fa di mes un perfetto di metre (lat.
mitteve) e attribuisce a, foiso il valore di effet, Wlrkung. In sostanza, tutti e tre i sul-
lodati interpreti spiegano mes per misit. E quanto a foiso , il Raynouard con la sua
traduzione letterale non lascia intravvedere ' il senso preciso che abbia voluto
dare a quel vocabolo; il Diez, osservando che nell'antico francese avoir foison
vale aver potenza, aver resistenza {Macht, Widerstand haben), suppone che metre foiso
possa voler dire ' venir a capo del suo intento {etwas durchsetzen) ,' ossia che foiso valga
quanto effetto; il Bartsch, senza darci, come il Diez, la traduzione completa della
frase, assegna esplicitamente, come s' è detto, a, foiso il valore di effetto.
Ma, in primo luogo, anche volendo ammettere che avoiV /oi'soji significasse effet-
tivamente nell'antico francese, secondo che opina il Diez, aver potenza, aver effi-
cacia, non basta una semplice congettura, senza la prova dei testi, a stabilire che
foison abbia ricevuto lo stesso significato nel costrutto provenzale metre foison; poi-
ché, a parte la disparità delle lingue, noi vediamo che un vocabolo, unendosi con
altri vocaboli per formare ima frase, muta bene spesso per effetto di tale unione la
sua accezione primitiva ; né si può stabilire a priori , che lo stesso vocabolo , tra-
sportato in altra frase, debba neUa nuova unione conservare quel particolar signi-
ficato che aveva assunto nella prima. Secondariamente, il costrutto metre foiso, pre-
supposto dal Diez e dal Bartsch, non ha, se bene ci si guarda, un saldo fondamento
nell' analogia romanza , poiché l' italiano non dice propriamente ' metter effetto ad
una cosa, ' ma ' mettere ad effetto una cosa (un disegno, un affare); ' né il francese
mettre effet, ma mettre à effet; né lo spagnuolo poner efecto, majjower en efecto. Di più,
quand' anche si voglia menar buono il costrutto grammaticale e concedere che ' met-
ter effetto ad una cosa ' sia lo stesso che ' metterla ad effetto , ' ossia ' metter effetto '
— 52 —
equivalga a ' dare effetto , ' il senso che uè risulta non è ancor quello eh' è voluto
dal Diez e dal Bartsch, e che del resto chiaramente apparisce dal contesto, cioè che
Boezio col predicar la fede cristiana non venne a fine del suo intento , non ne cavò
costrutto. Poiché altro è mettere ad effetto un proponimento, un disegno, ed altro
ottenerne l' effetto che si desidera.
Bisogna dunque cercare una interpretazione diversa da quella che è stata data
sinora della frase sopra riferita ; un' interpretazione che meglio risponda al concetto
e alla parola dell' originale.
Ora a me pare, che per giungere a tale resultato bisogna rinunziare innanzi
tutto al vedere in mes un perfetto di metre (;mittere), e prenderlo invece per un per-
fetto di jntv^re, meire, lat. métere, it. viietere; ài -poi, che si debba lasciare a /bi'so il suo
significato primitivo e naturale di abbondanza, quantità grande; per modo che Non
i mes foiso venga a dire nel latino del tempo Non ibi messuit fusionem ; in latino
schietto Non messuit uberem messem , non ci mietè gran cosa , non ci mietè una messe
abbondante, non fece gran frutto.
Discorriamo brevemente dei due termini che costituiscono la frase in questione,
incominciando dal verbo.
Il latino metere, it. mietere, proV. medre, meire (Rayn. Lex. IV, p. 214), ha un
perfetto messivi, di cui fanno menzione Carisio (3, 1 p. 217), Diomede (1 p. 364),
Servio {Virg. Georg. 4, 54 ed Aen. 11, 68) e Prisciano (10, 8, 47 p. 903). Quest'ul-
timo cita demessuit di Catone, demessuerunt di Cassio Emina; il Kiihner (Ausf.
Gramm. I p. 566) v'aggiunge messuissent di Paulo (Fest. 319, 2); il Neue {Formenl. der
lat. S2jr. H, p. 498) demessuerint di Amobio (5, 11), messuit e me.ssuerunt di Ma-
mertino {Grat. ad. Jid. 22 , 1 , 2). Son questi tutti gli esempi a noi noti del perfetto
messui , che è del resto una formazione irregolare , composta molto probabilmente di
-si ed -ui; vedi Schleicher Conip. § 301; cf. Kùhner 1. e. Se non che Diomede, pur
registrando nel luogo sopra citato questa forma di perfetto , ne avverte che alcuni
grammatici la. mettevano in bando: quod quidam exterminant ; altrove (1, p. 375) an-
novera meto tra i verbi dei quali non è facile trovare un perfetto. Carisio, mentre,
come s' è detto, in una parte della sua opera riconosce messui, in un' altra parte
(3, 2 p. 222) coniuga il/e<o, metebam, metam, messem feci, messem feceram, cioè a messui
sostituisce messem feci , a. messueram messem feceram. Prisciano (8, 11, 59 p. 817) : Bleto
quidam messui, quidam messem feci, sed usus vetustissimorum. messui comprohat. Final-
mente Foca (9, 3 p. 1718) esclude ricisamente messui: Meto messem feci, nam al iter
■proferri non potest (v. Neue 1. e). Dall' insieme delle quali dichiarazioni apparisce in
modo non dubbio, che messui, già contestato dai grammatici anteriori o contempo-
ranei a Carisio e Diomede, cioè alla seconda metà del IV secolo , non era più in
uso nel latino popolare dei secoH V e VI, cioè ai tempi di Foca e di Prisciano , poiché
il primo nega del tutto l'esistenza di tale forma, l'altro ricorre, per legittimarla,
all'uso arcaico {usus vetustissimorum). Or questo fatto può già renderci ragione,
come il provenzale non abbia dato un mese che potrebbe sembrare a prima giunta il
corrispondente normale del latino messiw. Laddove , per ispiegarci la forma wes, basta
— 53 -
considerare che il perfetto con s ha avuto una grande espansione in romanzo, tanto
da cacciar di seggio in non pochi verbi le altre maniere di flessione; cfr. in particolare,
per lo scambio di -ui, -vi con -si, prov. somos {siibmonui) , tevis, tens (tinmi), sols (solvi),
vols (volvi); ùa,nc. ant. semons {suhmonui) , creins (trermii), sols (solvi), vols (vaivi; anche
volui da véll^; ital. apersi, copersi (aperta, cooperui), colse (caluit), discersi, scersi (discrevi),
dolsi (dolui), mossi (movi) , parsi (parui), assolsi, risolsi ecc. (absolvi, resolvi etc), valsi
(valui), volsi (volvi), e tose, volsi (volui). Ma c'è di più. Anche data la sopravvivenza
nel latino volgare del perfetto messui, si può tuttavia affermare con sicurezza, che
il suo continuatore provenzale non sarebbe stato mese ma mes, poiché si vede che
tutti indistintamente i perfetti latini con s davanti a -ui si risolvono in romanzo in
un semplice perfetto sigmatico, come se il. tipo latino non fosse -sui, ma si; cfr. it.
connessi (lat. connexui); it. posi, sp. puse, sp. ant. ^ose, prov. jpos (ìat. positi, nelle iscrizioni
anche post ;cf. Corp. Inscr. Lat. 3, 4415; 5. 1685; e vedi Neue II p. 491); frane, ant. re-
puns (lat. reposui). Lo stesso avviene delle forme in -s-i-vi; cf. it. chiesi, sp. quise, prov.
quis, ques, fr. ant. quis (lat. quaesivi, anche quaesi secondo Prisciano 10, 8], 46 p. 902);
it. co Hg Misi (lat. conquisivi); fr. mod. acquis, requis ecc. (lat. acquisivi, requisivi etc. •
vedi Diez, Gramm. der Bom. Sjir. II p. 128 sg.). Prove più dirette per stabilire in
modo inconcusso la forma genuina in questione non ne posso addurre; poiché del
perfetto di medre, meire non m' é riuscito di trovar alcun esempio da questo infuori
del Boezio; e fra le altre lingue romanze, l' italiana, eh' é la sola, oltre alla proven-
zale, che ci fornisca iin rappresentante diretto del latino metere (il moissonner francese
è un derivato di moisson, lat. messionem; lo spagnuolo dice segar, recoger las mieses)
forma il proprio perfetto alla maniera dei verbi deboli (mietei). Con tutto ciò mi par
dimostrato a sufficienza, che mes può stare per messuit , né v' è necessità alcuna di
riportarlo a misit.
Quanto a foiso, non può esser dubbia la sua provenienza da, fusionem. Da. fusio-
nem così il provenzale ed il francese come l' italiano han dedotte due forme paral-
lele, 1' una strettamente conforme al tipo latino, l'altra con attrazione o con caduta
dell' ^.• ■proY. fusio e foiso, fr. fusion e foison, it. fusione e fusone, quest'ultima usata
soltanto nel modo avverbiale antiquato a fusone: Leggeri d' arme, con balestri e dardi
e giavellotti a fusone (Gr. Vili. 8, 78, 4); JE oltre a questo, pece, olio e sapone Sopra lo
stuol gittavano a fusone (Bocc. Tes. 1, 52). E notevole questo fatto comune al pro-
venzale, al francese e all' italiano dell' aver riprodotto lo stesso vocabolo latino in
due diverse maniere, e tanto più notevole in quanto che non solo le due forme si
sono svolte nelle tre lingue con procedimento analogo , ma vi hanno preso ciascuna
rispettivamente il medesimo significato; poiché fusio, fusion e fusione denotano
tutte e tre l'atto e l'effetto del fondere, mentre foiso, foison e fusone valgono
abbondanza, quantità grande. ' E poi chiaro, che il significato di abbondanza, che
s' è fissato nelle voci della seconda maniera , non è che un' estensione del valore
' Noto qui una svista nel Dizionario del Littrè, ohe sotto foison assegna per corrispondente a foison fr.
il prov. fusion, mentre avrebbe dovuto contrapporgli /oi50, /oì50h.
— 54 —
originario del latino /wsio, spandimento, versamento; in quanto che all'idea dello
spandere, del versare, si è associata quella dello spandere, del versare con profu-
sione. Se non ohe nella frase dell' antico francese, allegata dal Diez, avoir foison,
la voce foison riceve un' ulteriore modificazione del proprio significato, cioè in
vece di abbondanza, di quantità o misura più che sufficiente, denota semplice-
mente « sufficienza, » e auoir foison vale propriamente aver in sé quanto basta,
esser sufficiente, come avoir besoin, avoir fante ecc., esser bisognoso, mancare. Che
tale sia il preciso significato di avoir foison apparisce chiaramente da tutti gli
esempi a noi noti della detta frase, sia da quelli citati dal Diez, sia da quelli re-
gistrati dal Lacurne e dal Littré; per es. Cantre lor cop n'ait nule arme foison (Gerard
de Viano v. 2813, sec. XIII), contro il lor colpo niun' arme è sufficiente (basta
a resistere, può reggere; cf. Virg. Aen. 9, 810: Nec sufficit umbo ictibus); Quanque
lor toil ne m'a foison (Roman de Partonopeus de Blois, sec. XIII), qualunque
cosa tolgo loro non mi basta (non mi sodisfa, non mi fa prò), ecc. Lo stesso dop-
pio significato di abbondanza e di sufficienza si riscontra, del resto, nel derivato
foisonìier; cf. frane, mod. Cette province foisonne (abbonda) en blés , foisonne en vins
(Dict. de l'Académie) ; frane, ant. A^e poreient pas foisonìier les vis jjour les mors en-
ferrer (Roman de Brut, sec. XII), non potrebbero bastare i vivi per seppellire i
morti. E insomma avvenuto, rispetto al frane. /ofso?i , lo stesso scambio d'accezione
che s'è verificato, sebbene in ordine inverso, nel frane, assez, prov. assatz, it. assai,
che in origine valsero a bastanza, a sufficienza {ad satis), e passarono di poi a signifi-
care anche molto. ' Così che l' idea fondamentale espressa da foison, anche nell' an-
tico francese, è sempre quella di quantità, di misura più o meno grande, non quella
di effetto; e manca quindi il precipuo fondamento alla supposta locuzione proven-
zale metre foiso in senso di conseguir 1' effetto che si desidera.
Rimane ad esaminare il concetto racchiuso nell' intera frase Kon i mes foiso,
così come la intendo io , cioè Non ci mietè una messe abbondante, non fece gran frutto
(col suo sermonare). A me pai'e, che tale interpretazione sia avvalorata non poco
dall'uso frequente nel latino popolare, assai più frequente che nel latino classico, di
metere, messis in senso figu.rato; come si può scorgere dal modo proverbiale riferito
da Cicerone: Ut sementem feceris ita vietes (De Or. 2, 64, 261), al quale fa riscontro
Quae seminaverit homo, liaec et metet di S. Paolo {ad Gal. 6,7) e Di mia semenza cotal
paglia mieto di Dante {Purg. 14, 85); e non meno dai seguenti esempi di Plauto : Eoruvi
(cioè morum malorum) licei iam messem metere maximam {Trin. 1,1, 11), dove messem.
metere maximam equivale perfettamente al prov. medre foiso; Uberem messem mali {Rud.
3, 2, 23); Pro benefactis cummali messem metas {Epid. 5, 2, 53). Più aiuto ancora si
ha dal linguaggio delle scritture che assomigliano spesso la parola di Dio alla buona
Lo stesso rapporto ideologico è quello clie ha servito di baso alla balzaua etimologia del latino oppido,
per valde , multavi , dataci da Paulo (Fest. 184 , 6): Ortum est autem hoc verbum ex sermone inter se co^fabulantium ,
quantum quiaque frugum faceret, utque multitudo signiflcaretur , saepe respondebatur « Qaantnm ve! oppido satis
esset. » //ine in consuetudinem venit, ut diceretur oppido pi-o valde , multum.
— 55 —
sementa, e paragonano il frutto che se ne raccoglie ai prodotti della terra; cf. Matt.,
Gap. XIII; Marc, Gap. IV; Lue, Gap. Vili; Giov., Gap. Ili, 36. Per ultimo, non
è da pretermettere l' uso che Dante fa della stessa similitudine laddove {Farad. XI ,
100) tratteggiando la vita di S. Francesco, dopo aver detto che Nella presenza
del Soldan superba Predicò Cristo e gli altri che il seguirò , seguita : E per trovare a
conversione acerba Troppo la gente , per non stare indarno, Eeddissi al frutto dell' italica
erba; cioè vedendo di non poter fare più frutto in quelle parti, si dispose di ri-
tornare tra i fedeli d' Italia per adempiere ivi con miglior successo la sua missione
(cf. Fioretti, 4).
G-. B. Gandino.
MOLIERE'S DON JUAN.
Die spanische Sage von dem Verfuhrer Don Juan und seinem schrecklichen
Ende, welche in dem grossartigen Drama Tirso's de Molina ihre poètische Gestal-
tung erhalten batte, wtirde in Frankreich zwischen 1658 und 1669 nicht -weniger
als vier Mal fiir die BtOine bearbeitet. Die italienischen Schauspieler stellten einen
Convitato di Pietra in der Form der Commedia dell'arte auf ilirem Tbeater im Petit-
Boiirbon dar, und das Publikum fand daran so viel Gefallen, dass nun jede der
franzòsischen Truppen ihren Don Juan haben wollte (s. Rosimonds Vorrede). Den
Anfang machten die Schauspieler von Mademoiselle , welche 1658 in Lyon das
Stiick Dorimonds auffiihrten: Le Festin de Pierre ou le Fils Crìminel, tragi-comédie,
gedruckt zuerst in Lyon bei Offray, 1659; in Paris gaben sie es seit 1661, und 1665
ward es daselbst neu gedruckt unter dem Titel: Le Festin de Pierre ou l'Athée
Foudroyé, dami noch ofter, auch irrthiimlich an Stelle von Molière's Don Juan, in
den Ausgaben seiner "Werke von Amsterdam, 1675, 1684, 1691; die erste derselben
(voi. n) habe ich benutzt ; ein kiirzlicher Neudruck in Schweitzers Molière-Museum,
Heft 2, war mir nicht zugànglich. Der Titel Festin de Pierre, welcher fiir- alle
franzòsischen Bearbeitungen ilblich wurde, benihte auf einem Missverstandnisse,
nach Mesnard (Oeuvi'es de Molière, V, 10) keinem so schlimmen, da man nach
seiner Ansicht « steinernes Grastmahl » zu verstehen hàtte, nicht « Gastmahl
Peters » ; freilich miisste dann ein ueues Missverstàndniss in den ersten der franzò-
sischen Stiicke dem Comthur gerade diesen Namen verschafft haben, den er bei
Tirso (Gonzalo) und den Italienern nicht fiihrt; bei Molière ist sein Name nirgend
genannt, wie er ja hier uberhaupt eine ganz untergeorduete Rolle spielt. Es folgte
De Villiers' Tragicomòdie, 1659 im Hotel de Bourgogne gegeben, gedruckt 1660 unter
dem Titel: Le Festin de Pierre ou le Fils Criminel, tragi-comédie, traduit de Vltalien
en Francois, neu herausgeg. von W. Knorich, Heilbronn, 1881. Molière's Dom Juan
ou le Festin de Pierre kam am 15. Febr. 1665 auf die Biihne; den Schluss bildete
das Nouveau Festin de Pierre eu l'Athée Foudroyé, tragi-com. von Rosimond, im Marais-
Theater Nov. 1669 aufgefllhrt, gedr. 1670, new bei Fournel, Contemporains de Mo-
lière, ni (Paris, 1875), p. 225 ff.
— 58 —
Die Franzosen haben wenigstens m der Hauptsache deu Stoff uicht aus dem
spanischeu Originai direkt eutlehut, sonderu sie Jialimen ihn von den Italienern
heriiber; darin stimmen alle Zeugiiisse iibei'ein; De Villiers nemit sein Stiick auf
dem Titel aus dem Italienischen iibersetzt; Rosimond sagt in seiner Vorrede: Les
comédiens italiens l'ont ajjporté (le siijet) en France, et il a fait tant de hridt chez etix,
que toutes les troujjes en ont voulu régaler le jjidilic. Sliadwell in der Vorrede seiues
Libertine (1676, s. Mesnard, p. 13) bemerkt, von den Spaniern hatten den StoiF die
italienischen Schauspieler erhalten, und von diesen wiederum die Franzosen.
Molière selbst muss sich beztiglich des italienischen Ursprungs seiues Stoffes
geàussert haben; denn das Pamphlet Rochemonts "wirf't ihm vor (bei Mesnard,
p. 224) : Molière a très mauvaise raison de dire quii n'a fait que traduire tette pièce de
l'italien en francois; car je lui jìourrois repartir que ce nest point là notre coutume ni
celle de VEglise. L'Italie a des vices et des libertés que la France ignare.
Das Natllrlichste wàre hiernach anzunehmen, dass das Originai der franzòsischeu
Stilcke eben jene Commedia dell'arte gewesen sei, welche die Italiener naoh Paris
gebracht hatten, und welche tiberhaupt ja die Anregung zu ali diesen Produktionen
gab. Zu voller Gewàssheit kann man freilich hier uicht gelangen, weil eine durch-
gehende Vergleichung uumòglich ist. Das scenario des italienischen improvisirten
Stilckes ist uns nur zum Theil tìberliefert, und zwar ausfiihrKcher nur ftlr die Par-
thieu, in denen Arlecchino eine Rolle spielte; ja auch diese Fragmente stammen
nicht aus der ersten Zeit der Auffiihrungen , sondern aus einer weit spàteren
Aufzeiclmung, haben also mòglicherweise Ziige aus den franzòsischeu Stiicken selbst
aufgeuommeu (vgl. Moland, Oeuvres de Molière, III, 344. Jenes unvollstandige
scenario ist abgedruckt, ib. p. 345 fF. und bei Moland, Molière et la Comédie Ita-
liemie, p. 192 fF.). Ladessen empfiehlt sich eine solche Annahme betreffs der Quelle
der franzòsischeu Drameu auch dadurch, dass sie uns am einfachsten ihre gròssere
und geriugere Uebereiustiinmung mit dem Werke Tirso's de Molina erklàrt. Mesnard
hat (p. 27 ff.) gezeigt, dass die Commedia deU' arte aus einer literariseheu italieni-
schen Comòdie geschòpft ist, nàmlich dem Convitato di Pietra von Cicognini; die
Uebereinstimmungen sind so augenscheinlich , dass man nicht daran zweifeln kann.
Leider sind Mesnards Angaben llber die mir uicht zugàugliche Comòdie Cicoguini's
(p. 22 ff.) recht mager; doch gelit aus ilmen hervor, dass dieselbe Tirso de Molina am
Aufange und am Ende sehr uahe blieb ; auch die Namen der Personen werden wohl
die nàmlicheu' gewesen sein; wenigstens hiess der Comthnr noch Oliola (span. UUoa).
So hat denn auch die Commedia dell' arte noch vielerlei mit Tirso gemein, was die
spàteren Bearbeitungen uicht mehr bieten. Die Toohter des Comthurs heisst hier
noch Donna Anna; ihr Brautigam tràgt wenigstens deu Namen der einen von
Tirso's Personen, Ottavio; Donna Anna sucht beim Kòuige Gerechtigkeit , wie die
betrogenen Màdcheu im Burlador de Sevilla. Die Fischerin Rosalba halt wie Tirso's
Tisbea den vom Schiffbruche besinnungslosen Don Juan in ihren Armeu, wird von
ihm durch ein Heirathsversprechen verfiihrt, stilrzt sich betrogeu in das Meer, wie
Tisbea es zu thuu beabsiohtigt. Don Juan sagt zu Rosalba: Si je ne vous donne pas
— 59 —
la maiìi d'un époux, je ueux ètre tue par un homme.... un liomme qui soit de pierre,, n'est-ce
pas, Arlequinì tind der Don Juan Tirso's zu Aminta (III, 7): Me de imierte un
hombre.... (Muerto, Que vivo, Dios no permita). Arlecchino, in das Grabgewolbe
tretend, bemerkt: Il faut que la blanchisseuse de la maison soit morte; car tout est hien
noir ici, wie Catalinon (III, 21): Mesa de Guinea es està. Pues f^ no hay por alici quien
lave'? Der Don Juan der Commedia: Je mangerais, quand tu me servirais tous les ser-
pents d'enfer^ und derjenige Tirso's (III, 21): Comeré, Si me dieres dspid, dspides
Cuantos el infierno tiene. Wie bei Tirso so in der Comòdie erschallen in dem Grabge-
wolbe traurige Gesànge. Es fragt si eh, ob alle diese Einzelheiten auch bei Cicognini
vorhanden sind, oder ob der Verfasser des scenario hie und da ax\i das spanische
Originai zuruckgegriffen hat. Von Dorimond und De Villiers steht der erstere dem
scenario, «oweit es iiberliefert ist, und im iibrigen Tirso de Molina bedeutend
nàher. Vor allem ist, wie Mahrenholtz mit Recht bemerkt (Archiv £ das Stud. d.
neueren Sprachen, 63, 183), ' Dorimonds Don Juan nicht, wie der De Villiers',
Athe'ist, sondern bei aller Simdhaftigkeit glaubig wie der Tirso's; es felilen die
Bravaden gegen die Gòtter in der Scene mit Alvaros (I, 5), und dem Geiste gegen-
iiber erkennt Don Juan ausdriicklich die AUmacht Gottes an; der Titel l'Athée
Foudroyé passt daher gar nicht und hat sich erst nachtràglich eingefunden. Bei De
Villiers trifft Don Juan nach dem Schiffbruche zwei Schaferinnen und bemàchtigt
sich der einen mit brutaler Gewalt, worauf Philipin der anderen die Liste der von
seinem Herrn Betrogenen zeigt. Bei Dorimond findet Don Juan Amarante allein
und gewinnt sie durch Versprechen der Ehe, wie in der Commedia und bei Tirso,
und ihr sebst zeigt Briguelle spater die Liste, wie Arlecchino der betrogenen Ro-
salba. Die Entflihrung bei der Bauernhochzeit folgt in der Commedia und bei Do-
rimond alsbald auf jene Verfiihrung der Rosalba- Amarante (nur bei Dorimond vor
der Klage des Madchens, in der Commedia verstandiger nach dieser) und die Scene
vor dem Grabmal, wàhrend De Villiers die Bauernhochzeit in den 5. Akt vor den
Besuch im Grabmale des Comthurs setzt. Dorimonds Briguelle weiss von Don Juan
die Erlaubniss zum Beginnen der Mahlzeit vor Erscheinen des Gastes zu erhalten,
indem er ihm von eiuer Liebsehaft redet, und wird dann von ihm bestandig mit
Fragen unterbrochen , wie Arlecchino; auch bei De Villiers hat eiu solches Fragen
des Herrn statt, aber es handelt sich dabei nicht um Liebesangelegenheiten. De
Villiers endet damit, dass die Bauern Philipin nach Don Juans Untergang am
Boden liegend finden; dagegen bildet bei Dorimond, nachdem der Himmel den
Gouverneur geràcht hat, den Schluss die Heirath Amarille's mit Dom Philippe,
entsprechend den vier Heirathen am Ende des Burlador. Auch hier ist wieder zu
fragen, ob Dorimond Uebereinstimmuugen mit Tirso bietet, welche die Commedia
dell'arte nicht ebenfalls batte, woriiber, da diese nur theilweise bekannt ist, Cico-
' Dieser Ruhm bleibe Malu-enholtz, cler wicli im iibrieren iiin den Don Juan nicht so vie! Verdienste erworben
hat, wie er selber glaubt; die meisten anderen Unterschiede, welche er zwisclien Dorimond und Do Villiers ent-
deckte. ergeben sich aus einer ganz fehlerhaften Analyse von dem Stiicke des letzteren.
— 60 —
gnini's Stilck wenigstens vermutkungsweise belehreu kònute ; hat Dorimoud etwas
von Tirso, was man bei Cicognini vermisst, so mixsste man direkte Beuutzung
des spauischen Originals annehmen ; im andern Falle konnte er AUes , worin er von
dem italieuisclieu Stlicke abweioht, selbst dazu erfunden liaben. De Villiers
seùierseits kat kauptsachlich aus Dorimonds Werke geschòpft; von da ist fast der
ganze Gang der Handlung und sind auch die wichtigsten Namen (ausser dem des
Pliilipin) entlehnt. Von seinen Hauptànderungen war schon die Rede. Weniges
fìndet sich, was er direkt aus der Commedia dell'arte haben muss. Es ist dies der
Fall mit dem Gesange Philipins ver dem Schatten bei Don Juans Gastmabl. Bei
Tirso de Molina (IH, 13) wird gesungen, aber hinter der Scene, iind ein Lied von
der Leichtfertigkeit in der Liebe, ohne bestimmten Bezug. Catalinon erinnert hier
an die betrogenen Madchen, und als er auf Doiìa Ana kommt, gebietetiitm Don
Juan zu schweigen , weiL es den Gast verletze. In der Commedia dell' arte singt
Arlecchino und bringt eine Gesundheit auf Donna Anna aus, auf seines Herren
Befekl; der Geist verneigt sich. Bei Dorimond weigert sich Briguelle zu singen.
Bei De Villiers nun tragt Philipin ein Lied allgemeinen Inhalts vor; Don Juan
fordert ihn auf von Amarille zu singen, indem er sich (wider die Wahrheit) des
combat ^«^«e rtìhmt, was den Schatten verletzt. Auch mit Tirso stimmt De Villiers
in einer Meinigkeit gegen Dorimond iiberein; Catalinon, der sich weigert, beim
Esseu mit dem Geist Platz zu nehmen, sagt (HI, 13): Seììoì-, vive Dios, que ìmelo
mal, und Philipin (V, 2): Jiistes Di.eux! que ferai-je? L' Ombre ou moi sentons mal. Steht
das bei Cicognini? Einen solchen Zug liess sich Arlecchino wohl kaum entgehen;
die Farce wird ihn gehabt haben.
Danach scheint also die Genealogie der Stiicke diese zu sein: aus Cicognini's
Comodie stammt di Harlekinade, aus dieser Dorimonds Festin, und aus Dorimond
und Harlekinade die Tragicomodie De Villiers'. AUein gegen eine solche Auffassung
macht man die Angabe auf dem Titel von De Villiers' Stùck geltend, dass es aus
dem Italienischen iibersetzt sei. Das Originai meint man somit nicht in Dorimonds
Stiicke suchen zu dùrfen, auch nicht in der Commedia deU' arte, da von ihr De
Villiers viel zu sehr abweioht, um sie iibersetzt haben zu kònnen. Aus demselben
Grande ist nicht an Cicognini's Convitato di Pietra .zu denken. Nun hat man die
Erwàhnung eines anderen Convitato di Pietra aufgefunden von einem Onofrio Gili-
berti aus Solofra; ' das Stùck ist heut' trotz aller Bemtihungen nicht mehr aufzutrei-
ben; wie es beschaffen gewesen, weiss man nicht; aber um nicht noch einen dritten
italienischen Don Juan annehmen zu miissen, von dem sich gar keine Spur fande,
glaubt man jetzt allgemein , dieses Stiick Giliberti's sei es, welches De Villiers liber-
setzte; und da Dorimonds Werk ihm so nahe steht, so mtìsste auch er jene verschwun-
dene Comodie als seine Hauptquelle benutzt haben. Freilich ware es auflPaUend,
' In Allacci'? Drammaturgia und noch bei Goldoni in dei- Vorrode zu seinem Don Oiovanni Tr.norio (1736) wo
es heisst:/a in italiano tradotta da Giacinto Andrea Cicognini, Fiorentino, ed anche da Onofrio Oiliberto Napoletano,
pochiaaima differenza essendovi fra queste due traduzioni. Darf man ihm also glauben, so untersohied sich Giliberti's
Stiick selli' wenig von dem Cicognini's, und dann kSunto das De Villiers' gar nicht desseu Uebersetzung sein.
— 61 —
dass, nachdem die Italiener den G-egenstaud nach Frankreich gebracht hatten, man
in den Prodnktionen , welclie sie damit hervorriefen , uicht ihre eigene Anffiihrung
nachahmte, aucL nicht das Stiick, welches ihnen als Originai diente, und allgemei-
ner bekannt war, soudern ein auderes, das wahlgeringe Verbreitung gehabt haben
mnss , wenn es so spurlos verloren gehen konnte. Ferner wird damit das Verhaltniss
zu den anderen Quellen ein verwickeltes. Dorimond batte ausser Giliberti auch die
Commedia dell'arte und Tirso de Molina benutzt; den Charakter des Don Juan
bàtte er mit einem Geschicke umgebUdet, wie man es bei seiner sonstigen Plattlieit
schwer begreift, und bei dieser Umbildung wàre er, wunderbarer Weise, gerade wie-
der auf den Staudpunkt Tirso's zurilckgekehrt. De Vniiers batte, indem er llbersetzte,
doeb wieder Dorimonds Stiick mitbenutzt. Die Sammlung von iibereinstimmenden
Reimwor-ten, welche Kuoricb (p. XIII f.) giebt, und zu der sich noch Ausdriicke in-
nerhalb des Verses fiigen lassen, ist durcbaus iiberzeugend und làsst sich nicht
durch blossen Zufall erklaren. Auch den Namen Amarille fiir die Tochter des Com-
thurs kann, wie ich glaube, De ViUiers nur von Dorimond haben ; ein Italiener koimte
Amarilli bòchsteiis eine der Schaferinnen nennen (bei Rosimond heisst Amarille die
Bauembraut im 5. Akte). Und andererseits , ist demi jenes Raisonnemeut, welches
sich einzig und allein auf das traduit de l'ìtalien des Titelblattes griindet, ein so
unanfechtbares ? Man hat den Ausdruck traduit ehedem ofters in einer Weise
verwendet, welche uns irre fiihren wiirde, wemi wir es damit so genau nàhmen,
theilweise geradezu um zu ttìuschen, theilweise in weitem Sinne von blosser
Heriibernahme des Lihaltes oder Gegenstandes. Die Comédie des Comédìes (1639) , in
welcher Balzac verspottet ward, nannte sich traduit de Vitalien und war es dodi
bestimmt nicht. Rochemont wirft Molière vor, sich mit Unrecht der Entschul-
digung zu bedienen , qu'il n'a fait que traduire cette pièce de Vitalien et la mettre,
en francois (bei Mesnard p. 224). Scarrons Nouvelles tragicomiques nennen sich tra-
duites de Vespagnol und sind es wenigstens sicherlich nicht alle. Auch Goldoni be-
zeichuet di Stiicke Cicoguini's und Giliberti's als Uebersetzungen von Tirso's Dra-
ma; aber wàre De ViUiers' Stiick wirklich die Uebersetzuug einer Uebersetzung des
letzteren in unserem Sinne , wie ganz anders miisste es aussehen ! De Villiers ,•
in seiner Widmung an Corneille, redet von dem peii, d'invention, welches er
aitf den Gegenstand verwendet habe; mag seine Erfindung gering sein, so ist sie
doch nicht Nuli, und danacli hat er nicht bloss tibersetzt in unserem Sinne. AUein,
was mehr ist, De Villiers hat ebeudaselbst ausdriicklich Dorimonds Stiick und das
der italienischen Comòdianten in Paris als seine Originale bezeichnet, in der so oft
citirtèu und stets so schlecht erklàrten Stelle: Les Frangois à la campagne (d. h. die
Truppe von Mademoiselle in Lyon), et les Italiens à Paris, qui en ont fait tant de bruit,
n'en ont jamais fait voir qu'un iniparfait originai, que notre copie surpasse infiniment.
Mesnard sagt dazu (p. 17): «Gomme il s'exprime d'ailleurs modestement sur le mo-
rite de son ouvrage (die gewohnliche falsche Bescheidenheit der Widmungen) , il est
clair qu'U ne se iiatte que d'une fidélité de traduction plus parfaite que celle de
Dorimond et des Italiens du Petit-Bourbon. » Aber wie wunderlich bàtte sich da
De Villiers ausgedrilckt! Er batte cloch sageu mlisseu: ih n'ont jamait fait voir
(ju'invparfaitement l'originai oder une cojiie iviparfaite de l'originai; denn das Originai
ist ja nicht voUkommen oder unvollkommen , je nachdein man es gut oder schlecht
iibersetzt. Vielmehr sagt De Villiers klar iiud deutlich, dass die Stticke Dorimonds
imd der italieuischen Schauspieler das Originai seien, welclies er vervollkommene,
indem er es nachahme, gerade wie z. B. Corneille seinen Menteur die Copie des spa-
nischen Stiickes nannte, aus dem er schòpfte. Man wendet ein, dass ein solches
Plagiat batte Larm macben milsseu. Aber in den Dingen des Tbeaters war man
damals nicbt so empfindlicb; man denke, wie Gilbert mit der Rodogune Corneille's
verfubr, obne dass dieser die Sacbe beacbtete; Rosimond bat Molière's Don Jnan
ftlr den seinen sehr stark benutzt, und De ViUiers gestebt dodi eben selbst, dass
er copire. '
Molière mussten natlirlicb die Stticke seiner Vorganger , welcbe in Paris gege-
ben wurden, bekannt sein. Ob er Cicognini's Comòdie benutzt bat, lasst sicb nicbt
sagen; denn wir wissen nicht, wie viel aus jener in die Commedia dell'arte iiberge-
gangen war , wie sicb denn iii beiden der Ausruf des Dieners am Ende Ah, mes gages!
findet, den Molière seinem Sganarelle in den Mund legt. Aucb ob er von Tirso de
Molina direkt etwas entlebnt bat, vermag icb nicbt zu entscbeiden. Bei jenem sagt
Don Juan (III, 13) zum Geiste : Aguarda, irete alumbrando, und Don Gonzalo: Ao nlmn-
hres , qii£. en grada estoy, wozu MoHère's Ende des 4. Aktes stimmt : Don Juan zu Sga-
narelle: Prends ce flambeau. Die Statue: On n'a pas besoin de lumière, quand on est
conduit -par le ciel; aber abnlicbes stebt aucb bei Cicognini (s. Mesnard, p. 24), und
vielleicbt stand es in der Harlekinade, wo wir die Stelle nicbt baben. Bei Tirso
(III, 21) sagt Don Gonzalo: Dame esa mano. No temas la mano danne. Don Juan: ^; Eso
dices? yo temor. {le da la mano.) Que me abraso, no me abrases con tu f nego. Molière, V, 6,
die Statue: Donnez-moi la main. Don Juan: La voilà.... Don Juan: OCiel! que sens-je?
Un feti, irrésistible me brille, je n'en puis plus, et tout mon corps devient un brasier ardent.
Bei Dorimond fasst der Geist, oline zu sprecben. Don Juan bei der Hand, und aucb
dieser redet nicbt; De Villiers bat nicbts von alledem. Wie ist es bei Cicognini?
Die Aebnbcbkeiten, welcbe Mabrenboltz (Franz. Studien, II, 176 f.) auffubrt, sind
sehr gering und beweisen nicbts. Bei Tirso scbwort Don Juan der Aminta , bei Mo-
Hèi-e will er der Charlotte schwòren, die es hindert; aber, wie wir salien, bat aucb
die Commedia dell' arte den Scbwur und sogar mit denselben "Worteu Tirso's. Die
Uebereinstimmung in dem, was Don Juan vor dem Grabmal redet, ist ganz ima-
ginàr. Aucb dass Don Juan das Schwert gegen das Gespenst erbebt, welches vor
der Statue erscheiut, wie Tirso's Don Juan gegen Don Gonzalo selbst, ist von
keiner Bedeutung; dazu zeigt aucb Dorimonds Don Juan dem Geiste das Schwert
(V, 8) und sagt: Guy, cefer armeroit ma main cantre un tonnerre.
' Malrrenholtz, Nfrz. Ztschrt't., IV, Helt 8, p. 275 IT. meint .jetzt, De Villiers werde das verlorene Stiick frei
behandelt und vielleicht auch aus Dorimond und der Commedia dell'arte geschopft haben. Weshalb brauoht man
da aber iiberhaupt nocb Giliberti's Comodie als sein Vorbild anzusehen ?
— 63 —
Indessen gerade flir Molière ist hier die Erforschung seiner unmittelbaren Quellen
voli geriugerem Werthe ; denii jedenfalls hafc er deii vorgef'undeuen Stoff init der
grossten Freiheit behandelt iind zuerst seit Tirso de Molina aus ihm ein originales
Werk geschalFen. Tirso de Moliiia's Burlador de Sevilla y Convidado de piedra ist ein
Gemalde von diisterer Grossartigkeit, der Grundgedanke ein streng religioser. Den
Siinder , den alle Mahnungen iind Verwunschungen nicht von seinem verworfenen
Treiben haben abbringeii kòniien, ereilt plòtzlicli die furchtbare tìtrafe des Himmels.
Die Erscheinniig des Todteu, der verspottet von dem Verwegenen die Raclie voll-
streckt, ist von dem Dichter mit voller Grlanbigkeit dargestellt, sie ist feierlich,
grandios und scliauerlicli. In seiner Art ist Tirso von keinem seiner Naclialimer er-
reicht worden ; er alleili giebt uns den wahrsten , tiefsten Sinn der Sage, und dabei
welche Fiille romantischen Lebens bietet uns sein Drama in dem bunten Wechsel
der Scenen, in dieser bestrickeuden , hochpoètisclien Gestalt des Don Juan mit
seiner uuerschopilicheii Leichtlebigkeit, seiner einsclimeichelnden Verfilhrungskunst,
mit seiner Unersclirockenlieit bis zum letzteii Momente , da er sich verloren
sieht! '
Eine solclie poétische Gestaltung der Tradition war damals nur in Spanien
mòglich, inmitten einer Gesellschaft von starker Glaubigkeit und erregbarer
Phautasie. Uudenkbar war dieser tiefe Ernst in der Auffassung des Gegenstandes
auf der italienischeu Biihne. Hier fehlte der aufrichtige Glaube an die gòttliche
Strafe durch. die Riickkehr eiues Todten, untj es wurde umgekehrt das comische Ele-
ment immer starker ausgebildet, welches ja iu dem spanischen Drama nicht mangeln
durfte, auch im Burlador nicht ganz fehlte, aber doch sehr zuriickgedràngt war. Don
Juaus Diener Catalinon ist ein gracioso von seltener Gesetztheit, nicht eigentlich
possenhaft; er stellt in verniinftiger Weise seinem Herru sein Unrecht vor, warnt
ihn vor Gefahreii und Strafe, thut aber stets willig, was er verlangt. Er ist nicht
eben furchtsam, nur vor dem Geiste hàlt natlirlich sein Muth nicht Stand, und hier
wird auch sein Benehmen ein comisches; es scheint, dass er sich mit seineu
scherzhaften Reden und Fragen iiber den innerlichen Schauder hinweghelfen will.
Diese Figur trat iu den spàteren Bearbeitungen weit mehr iu den Vordergruud,
ward ganz zu dem Bedieuteu der italienischen Comodie mit seiner Dummheit,
seinen bestàndigen Possenreissereien, seiner Feigheit, seiner Gefràssigkeit. In der
italienischen Commedia dell'arte iibten neben Maschinen und Decorationen , welche
die Schaulust befriedigten, nuumehr die Hauptanziehungskraft die Spasse Arlecchi-
no's, seine comische Widerspenstigkeit, sein drolliges Gebahren, wenn er, von sei-
nem Herru gezwuugen , alle seine tollen Streiche initmachen, und wider Willen
Gefahren und Schrecken bestehen muss, seine Moralisationen und die Fusstritte,
' Auch in der Charakteristik des Verfiìhrers ist Tirso de Molina alien seinen Nachalimern iiberlegen. Bewun-
dervmgswiii-dig ist z. B. der von keinem anfgenommene Zug in I, 12, wo Don Juan, eben von seinem Diener aus
dem Meere gezogen, besinnungslos im Soliosse der Fischerin Tisbea liegend, kaum die Angen aufschlagt, und als-
bald mit einer Liebeserklarung beginnt.
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die er dafiir vou seinem Herrn erhalt; die ehedein so furchtbai'e Erscheinung des
Todteu verlor ihre Bedeutung; sie ward nur die Gelegenlieit zu neuen Possen fiir
Arleccliino, dar alle Aiifmerksamkeit von ihr aiif sich lenkte. Dennoch haben die
ersten franzosisohen Bearbeiter des Stoffes Dorimond und De VtlLiers an dem reli-
giòseu Grundgedanken, der Bestrafung des Silnders, mit ziemlicbem Ernste festge-
halten, wie sie ibre Stiicke auch nicht Comòdien, sondern Tragicomòdien nannten.
Dadurch aber entstand eine Zwiespaltigkeit des Eindruckes, welohe sich noch
vermehrte, indem sie die Gestalt des Slinders in immer schwàrzeren Farbeu malten.
Die Impietat Don Juans gegen seinen Vater findet sich bei Tirso de Molina noch
nicht, und nicht bei Cicognini, wo nach Mesnard (p. 23) die Eolie des Vaters ganz
fehlt; anch die Commedia dell'arte kann nicht wohl heftige Sceuen zwischen
Vater und Sohn gehabt haben; denn in ihnen war Arlecchino am Platze, und sie
wàren iiberliefert. Diesen Zug hat also Dorimond hineingebracht, wie denn auch
bei ihm der zweite Titel le fils cnminel zuerst erscheint. Hier geht der Sohn so weit
den Vater zu schlagen,-' und der Alte stirbt aus Kummer, so dass Don Juan zum
Vatermòrder wird. De Villiers hat das noch mehr ilbertrieben; und er macht ihn
immer abscheuUcher; er lasst ihn auf der Biihne einen zweiten Todtschlag begehen,
an Don Philippe. Er ist auch nicht mehr bloss Verfilhrer ; er nimmt sich nicht die
Miihe, die Màdchen mit Worten zu bethòren, sondern fàllt iiber sie her und thut
ihnen Gewalt an. Endlich, um das Mass voli zu machen, verwandelt ihn De Vil-
liers, wie wir sahen, in einen Athe'isten.
Anf diesem Wege, den Dorimond und De Villiers einschlugen, war, abgesehen
von der kunstlerischen Unfàhigkeit der Verfasser, dem Stoffe nichts abzugewinnen,
nachdem ihn die Italiener schon zu sehr in das Comische gezogen hatten. Molière
machte ihn wirklich zur Comòdie. Er konute daher den Heldeu nicht in gemeinen
und verbrecherischen Handlungen darstellen. Er befreit Don Juan nicht von seinen
Missethaten, aber er verlegt sie in die Vergangenheit. Den Comthur hat er bereits
vor sechs Monaten getòdtet; zu dieser Anordnung nòthigte den Dichter freilich
schon die Hegel der Zeiteinheit, wenn Don Juan das Grabmal des Getòdteten
errichtet finden solite; aber der andere Zweck wird zugleich erreicht, und er
behandelt das ganze Ereigniss in einer solchen Weise, dass man erkennt, er woUe
es nicht recht vor unserem Geiste lebendig werden lassen. Es wird nur ganz
flllchtig angedevitet: I, 2, Sganarelle: Et n'ij craignez-vous rien, Monsieur (in dieser
Stadt), de la mort de ce commandeur que vous tudtes il y a six mois'ì Don Juan:
Et pourquoi craindre? Ne l'ai-je pas bien tuéf Sganarelle: Fort bien, le mieux du
monde ^ et il aurait tori de se plaindre. Don Juan: J'ai eu ma grdce de cette affaire.
Sganarelle: Oiii, m,ais cette grdce néteint pan peut-ètre le ressentiment des parents et des
' Nicht, erst bei De Villiers, wie Mahrenholtz ^Arcll. 63, p. 183) behanptet; die Angabe der Olu-feige fehlt
nur im Druoko bei Dorimond an der rechten Stelle; aber Don Jnan giebt sie dooh ; denn Briguelle sagt, lì, 5:
(}ue ne me /croit-iì , s^ìl a hattu aon pere?
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amis, et.... Don Juan: Ah! nallons point songer au mal qui nons petit arrìver.... Und
das ist Alles. Es ist eiue abgethane Greschichte, und Don Juan ist begnadigt; wer
dieser Comthur war, dass er der Vater einer Dame gewesen, welche Don Juan
betriigen -woUte, weshalb und unter welcben Umstanden er ihn todtete, davon
erfàhrt man nichts. Ebenso liegt sein Vergehen gegen Done Elvire schon in der
Vergangenheit; er hat sie bewogen, das Kloster zu verlassen, hat sie geheirathet ,
■wie viale andere, und will nun nichts melir von ihr "wissen; wir sehen also docii
liier weuigsteus nicht, wie er sie betrog. Andererseits, so vielen Mfidchen er nun
nackstellt, mit keiner kommt er an das gewuusclite Ziel, und der raffinirte
Verfiibrer, dem seine Kiinste so schlecbt glùcken, erscheint damit sogar in etwas
seltsamem Lichte. Er will eine Braut bei einer "Wasserfabrt entfiihren und fallt
selbst in das Wasser; er sucht zwei Landmadchen zugleicb zu bethoren; aber die
beiden gerathen an einander, -wollen jede ihre Eechte an ilim geltend macben,
und inzwischen nòthigt ilm eine drohende Gefahr, die Parthie aufzugeben. Liess
3Iolière seinen Helden nie weiter kommen, so that er es freilich schon der
Wohlanstàndigkeit wegen, die er auf der Buhne sorgfàlfciger beobachtete als
Dorimond und De Villiers (auch Eosimond hat wieder eine voUfuhrfce Gewaltthat);
aber immerhin wird dadurch zugleich der Zuschauer von dem Gefiihle des Mitleides
mit den Opfern befreit, da es solche nicht giebt.
Molière zeichnet also die Corruption mehr in dem Charakter als in ihrer un-
mittelbar verderbenbringenden "Wirkung auf die Mitmenschen, welche tragisch
ware. Und sein Don Juan ist nicht die alte- halbphantastische Gestalt der Sage, son-
deni ein Typus der Eealitàt, der Geséllschaft, welche den Dichter umgab. Er ist
ein junger Cavalier des franzòsischen Hofes, ein aristocratischer Wlistling. Den Spa-
nier reisst seine Sinnlichkeit mit sich fort, lasst die Stimme der Vemunft und des
Gewissens nicht laut werden, bis es zu spat ist. Bei Molièx-e's Don Juan ist eine
solche Stimme gar nicht vorhanden; er sucht das Vergnligeu mit kalter Ueberlegtheit,
als den einzigen Inhalt des Lebens, es ist dieses seine Weltanschauuug. Er ist
ohne Glaiibe und Moral; mit geistreichem Spotte geht er llber die ernsten Dingo
hinweg, blickt verachtlich auf die ihn umgebende "Welt, welche er seinen "VViinschen
rùcksichtslos dienstbar macht; die Verfiìhrung ist ihra eine lustige Zerstreuung,
ein Herz bethòrt zu haben, ein Triumph, mit dem er sich briìstet. Dabei besitzt er
die eleganten, gewinnenden Manieren des grossen Herrn, die ritterlichen Eigen-
schaften des Hofmannes; er folgt den Geboten der Ehre, halt sein gegebenes Wort,
soweit er es nicht einer Schonen gegeben hat. Er ist tapfer und unerschrocken ,
ergreift im Kampfe scimeli die Parthei des Unterliegenden , rettet seinem Feinde
das Leben und steht unbewegt, wo sein eigenes bedroht ist. Auch macht Don Carlos'
edies Benehmeu auf ihn Eiudruck , er bedauert mit ihm Streit zu haben. Aber sein
Vergntlgen und seine Freilieit will er nicht opfern ; wo dieso in's Spiel kommen ,
bleibt er hart und kalt; Done Elvire's Vorwilrfe und Bitten erregen nur seinen Spott.
Diese riihrende Gestalt der Betrogenen, welche foi-tfàhrt, ihren Verfùhrer zu
lieben, hat Molière geschaffen. Sie erscheint vor dem Besuche des Geistes, ilm zu
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wameii; sie bereut i;ud will der Welt von neuem Lebewohl sagen; sie zurnt ihm
nicht mehr, mit ihrem letzten Schritte will sie suchen , den Uudankbaren zti retten,
vor der Rache des Himmels zu bewahren. Sganarelle weint, Don Juan bleibt
stumm, hòrt ihre Reden an und bittet sie dann, die Nacbt zu bleiben. Diese ergrei-
fende Scene, ihr Schmerz, ihre Thrànen liaben iu ihm uur eine neiie Eegung der
Sinnlichkeit hervorgebracht; es scheintihm pikant, sie, die er dem Kloster enti;issen
hat, bei ihrer Eùckkehr in dasselbe noch einmal zu gewinnen.
Diese Frivolitàt ist die hervortreteude Seite von Don Juans Charakter ; sie zeigt
sich auch in dem Benehmen gegeu seinen Vater. Eine solclie Rohheit wie der
Don Juan Dorimonds und De Villiers' wird sich derjenige Molière's nicht zu
Schuiden kommen lassen. Er ist hoflich, beleidigt Don Louis nicht mit Worten oder
gar mit Schlagen, aber er verletzt ilin durch seine kiihle Gleichgiiltigkeit und
Ironie. Auf seine lange, ernste und mirdevoUe Mahnrede erwidert er mit dem Er-
suchen, dock einen Stuhl zu nehmen, damit er bequemer sprechen kònne. Ein mo-
ralisches Band existirt eben fiìr Don Juan nicht, der Alte ist ihm iinbequem, und
er wiinscht, dass er ikm Platz niachen mochte.
Auf dieser Frivolitiit bei'uht auch Don Juans Atheismus; er ist kein Philosoph,
kein rasonnirender Freigeist; es ist die Skepsis des vornehmen Herrn, der sich
ùber die Meinungen der Menge erhaben fùhlt ; er glaubt nicht , was er nicht sieht :
Je crois que deux et deux soni quatre, Sganarelle, et que quatre et quatre soni liuit, sagt
er (III, 1), als ihn SganareEe iiber seine religiosen Ansichten befragt. So unverhiillt
war der Athe'ismtis noch nicht auf der Btìline erschienen; De Villiers und spàter
wieder Eosimond, welche Don Juan gleiclifalls blasphemieren liessen, gebrauchten
die Vorsicht, an Stelle Gottes stets von den Gottern und Jupiter reden zu lassen,
und woUten so das Anstossige durch einen albernen Anachronismus beseitigen. Mo-
lière, der die lebendige Realitàt in ihrer Wahrheit darstellt, kann das natiirlich
nicht; immerhin sagt auch sein Don Juan, weun er spottet, nie Dieic, sondern
stets le del; aber das war ein geringes Zugestàndniss fur die Àngstlichen. Die
Scene mit dem Bettler, den Don Juan durch Versprechen eines Goldstnckes vergeb-
lich zum Fluchen veranlassen will (IH, 2), schien so ktihu, dass sie schon nach
der ersten Vorstellung gestrichen wurde, und doch enthielt gerade sie, wie man be-
merkt hat (Augier) , ein erbauliches Beispiel der Tugend , welche gegen den gottlosen
Versucher standhaft bleibt und seine Logik besser zu nichte macht als alle Moral-
predigt. Die ausserste Verhohnung des Glaubens ist die Heuchelei, welche die Re-
ligion nicht bloss mit Geringschàtzung behandelt , sondern sich ihrer selbst als einer
leeren Form, als eines bequemen Deckmantels bedient, um Andere zu tàuscheu.
Molière lasst seinen Don Juan im letzten Akte zum Heitchler werden. Allerdings ver-
stellt er sich momentan auch sonst, bei ihm und in den anderen Bearbeitungen des
Stoifes , zum Spotte oder zu irgend einem bestimmten Zwecke, so namentlich in der
Scene bei Dorimond und De Villiers, wo Don Juan als Eremit verkleidet seinen Gegner
Dom Philippe betriigt, indem er die Miene eines heiligen Manues annimmt. Von hier
mochte, wie Mesnard (p. 19 f.) bemerkt, Molière die Idee gekommen sein, seinen
Dou Juan schliesslich zum Heucliler -werden zu lassen. ' Aber nun iibt er die Kunst
mit Berechnung, als System, und damit greift dar Dichter auf den Gegenstand zu-
riick, -welchen er in seinem vorhergehenden Sttìcke, dem Tartuffe behandelt batte,
und den man ibn verbinderte, auf die Biibne zubringen; er nimmt Raobe an seinen
Feinden und zeigt den Macbtigen , welcbe ibn bekàmpfen , weil sie sich von seiner
Satire getroffen fiiblen, ibr Bild von- neuem in einer anderen Gestalt; Don Juan
■\vird zum Tartuffe im Gewande des galanten Cavaliers. Und es ist ein Tartuffe , der
vor den Augen der Zuscbaner selbst die Maske anlegt und seine Grundsatze
entwickelt. Der Athe'ist, der es bisber offen war, fast mit seinem Unglauben prablte,
fròmmelt nini, verdreht die Augen, stellt sicb im Gespracbe mit seinem Yater reuig
und bekebrt, so dass dieser Gott mit Tbrànen fitr die Umwandlung dankt. Er
tbut jetzt seine Scblecbtigkeiten im Namen des Himmels, den er bestàndig im Munde
fiibrt; im Namen des Himmels verweigert er es Don Carlos, ilim Genugtbuung zu
geben und Done Elvire zu beiratben. Der gute Sganarelle ist ganz erstaunt und
giiicklicb , als er die beilsame Verauderung an seinem Herrn wabrnimmt, aber dieser
klàrt ibn auf; es ist nur Scbein; er bat sicb der berrscbenden Mode anbequemt:
l'hypocrisie est un vice à la mode, et tous les vices à la mode jjassent pour vertus.... l'iiypo-
crisie est un vice privile'gié, qui, de sa main, ferme la boucJie à tout le monde, et jouit en
repos d'une impunite souveraine.... Diesen letzten Zug zur Vollendung seiner Figur
bat Molière mit ganz besonderem Nacbdrucke ausgefiibrt, weil er hier das grosste
sociale Uebel seiner Zeit berùhrte.
Indessen, so wenig wie die Kunst seiner Verfiibrung bat die von Don Juans
Heucbelei verderblicbe Folgen vor den Augen der Zuscbaner; so kommt es, dass
die Gestalt keinen Abscbeu liervorruft. Die Scene mit Done Elvire im 4. Akte
erweckt -wobl voriibergebend ludignation; aber dieser eine ti'agiscbe Moment ver-
mag niclit die Stimmung des Ganzen zu verandern. Don Juan ist sittenlos, las-
terbaft, aber nicbt rob nodi gemein. Und andererseits erregt diese Personlicbkeit
Bewunderung, diese Gewandtbeit, die intellektuelle Kraft und Ueberlegenbeit , wel-
cbe die Menscben in seinen Kreis bannt, die stolze Sicberbeit seiner selbst. Er ver-
einigt die Gorruption und die glanzenden Eigenscbaften des damaligen franzòsi-
scben Edelmannes in seiner Person. Daber war aucb die Farcbtbarkeit der Strafe
bier nicbt mebr am Platze. Molière konnte die Sage vom steinernen Gaste nicbt
andern; aber er bat der Erscbeinung ibre grandiose Ernstbaftigkeit genom-
men. Bei Tirso de Mobna ist der Geist feierlicb und grauenvoll ; wabrend
Don Juans Gastmabl spricbt er fast gar nicbt, bewegt nur das Haupt ; mit ibm al-
lein geblieben redet er wenige "Worte; bei Don Juans Besucbe im Gral^mal ist
Alles, was er siebt und bort, voli von Scbrecknissen. Bei Dorimond und De Vil-
' Dass bei Molière Don Juan von Anfang an Heuchlsr sei, wie Mahvenholtz beweisen will (Molière in Frz.
Stud. n, p. 179 f.), ist nicht wahr. Es geht ja gerade gegen die Absicht Molière's, der hier eine Wandiung, eine wei-
tere Steigerung der Corraption zeigen will. Wie kònnten sonst Dom Louis und Sganarelle iiber die Veranderung
staunen? Mahrenboltz liat eben nur Ironie imd Heucbelei verwecbselt ; die erstere baben wir in I, 3. Mit M. Di-
mancbe heuebelt Don Juan nicbt, sondern bat ibn zum Besten.
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liers wircl der Todte in beiden Begeguungeu zum seichten Scliwàtzer und Moral-
prediger. Bei Molière kommt und verschwindet er schnell; kaum eingetreten,
geht er wieder, inderà er Don Juan zu sicli einladet; in seineni Grabmal liaben
wir nichts von den Schauern des infernalisclien Banketts; er fasst Don Juan
bei der Hand, und der Blitz vernichtet denselben. Und diese rapide Erscheinung
wird wirkungslos, weil sie nicht vorbereitet und mangelkaft motivirt ist, mit dem
Charakter des Stilckes in keiner Beziekuug stelit; der Tod des Comthurs liegt ja
ver der Handlung desselben, und von ikm ist kaum die Eede gewesen; so endet
denn auck das Ganze mit den Possen Sgaiiarelle's , wie bei den Italienern , und der
Eest von Ernst, wenn er vorhanden sein solite, wird noch zerstòrt. Eockemout, in
seinem Pampklete gegen das Stiìck, klagte daker Molière au, er kabe den Siiuder
okne Strafe gelassen , weil diesen Blitz niemand ernst nekme. Aber \àelen Anderen
sckien gerade die Strafe nock viel zu kart: Il devoit du moins, sagt die « Lettre sur
les observations d'une comédie du sieur de Molière » (bei Mesnard, p. 246), attirer
le foiidre par ce peu de jj^roles^ c'ctoit une nécessité absolue. Et la moitié de Paris a douté
quii le méritdt: ce ììest jjoint un conte, e est une vérité manifeste et connue de bien des
gens. Das Bòse war eben bei Don Juan mekr in der Gesinnung; etwas eigentlick-
Verbreckerisckes katte er im Laufe des Stiickes kaum getkan; Skepsis, Liebelei,
moraliscke Kàlte und Gleickgiiltigkeit sckienen dem damaligen Publikum nickt
ein tragisckes Ende zu verdienen. War aus Don Juan eiu Comòdienckarakter
geworden, wie es liier gesckak, so musste dieser aus der Tradition beibekaltene
Sckluss moglickst fliicktig bekandelt werdeu.
Sowie die Gestalt Don Juans so ist auck seine Umgebung bei Mokère dem
wirklickeu Leben entnommen. Sganarelle ist ein gutmiitkiger, furcktsamer, gegen
seinen despotiscken Herrn unterwiirfiger Burscke, wenlger possenkaft als bei den
Italienern und wieder dem Catalinon naker stekend. Er kat einen besckrankten ,
ekrlicken Verstand, die einfàltige Glaubigkeit des Volkes, welcke zum Aberglauben
neigt; immer von neuem suckt er Don Juan zu warnen, kàlt ikm erbaulicke Reden,
kat aber mit seinen sckwerfalligen Eàsonnements bei dem Spòtter wenig Gliick,
weskalb er einlenkt, sobald er merkt, dass es jenem zu viel wird, und ikm zu Munde
redet. Sein aufricktiger Eifer fiir das Gute liegt in einem bestàndigen comiscken
Coniìikte mit seiner Furclit und Gewinnsuckt. Die Sacke des Glaubens und der
Tugend kat kier keinen Cleante zum Vertkeidiger, sondern ist gerade durck die
comisckè Person vertreten. Molière's Gegner mackten ikm das zum Vorwurfe, und
sie wllrden freilick Eeckt kaben, wenn die Comodie immer nur moralisiren solite,
und es ikr nickt, auck fiir unsere Belekrung, geniigte, die "Wirklickkeit widerzu-
spiegeln, die Dinge zu sckildern, wie sie sind.
Dio Landleute waren in dem Stiìcke stets in idealer Verkleidiing aufgetreten.
Tirso's Tisbea und Aminta , mogen sie mit ikren rkotoriscken Umsckweifen weuig
ikrem Stando gemass sprecken, sind dock bei alle dem voli Zartkeit i^nd Innigkeit.
Tisbea's Worte : Piega a Dios que no mintais , mit denen sie aknungsvoU jede ikrer
Reden zu Don Juan sckliesst, Aminta's Striiuben und Zaudern, bis Don Juan
— 69 —
schwijrt, ^\-irken wJihrhaft ergreifend, da man ihr Scliicksal vorhersieht. Es sind
keiue Landmadcheu, aber dock poetische Figuren. Dorimond und DeVilliers habeii
aus ihnen triviale Eclogengestalten gemacht. Molière dagegen zeigt iiiis wirkKche
Bauern und Bauerinnen, in ihrem tappischen Gebahren, mit der Na'ivetat ikrer
Empfindungsweise, und er lasst sie ikre eigene Spracke reden, das Patois der Land-
lente in der Gegend von Paris. Es war das erste Mal, dasis er den Dialekt auf die
Biikne brackte, nackdem ikni kierin Cyrano de Bergerac mit seinem Gareau im Féclant
joué vorangegangeu war.
Eine der alltaglicken Wirklickkeit entleknte Gestalt kaben wir endlich auck
in M. Dimancke, dem Gliiubiger Don Juans. Es ist der Pariser Kaufmann, der
dem vornekmen Herrn Geld gelieken kat, und vergeblick sick bemiikt, es wieder-
zuerlangeu. Der vornekme Herr, anstatt ikn zu bezaklen, liebkost und kàtsckelt ikn,
versickert ikn leutselig seiner Preundsckaft , erkundigt sick nack seiner Frau , sei-
nen Kindern und seinem Hunde, ladet ikn zum Essen ein, und lasst ikn zuletzt
kinausbegleiten, okne dass er sein Anliegen vorbringen konnte, eine Scene voli
Humor und frisckem Leben, in welcker wirkungsvoll die Figur des uberlegenen
Aristocraten dem verlegenen und unbekolfenen Biirger gegeniiber gestellt ist.
Der Eealismus dieses Stiicks wird auck vermekrt durck die Form; es ist, was
damals fiir eine so umfangreicke Comòdie nock eine Seltenkeit war, in Prosa
gesckrieben. Molière bediente sick der letzteren zunackst vielleickt aus File, um
den beliebten Stoif scknell auf die Bùline zu bringen; aber scine Darstellung kat
dadurck nur gewonnen, erkàlt einen freieren, ungezwungeneren Gang.
So finden wir am Anfangs- und Endpunkte dieser rapiden Entwickelung zwei
Meisterwerke , welcke geradezu einen Gegensatz mit einander bilden. Das spaniscke
Stiick zeigt den Stoff in seiner sagenkaften , pkantastiscken Grosse , Molière ver-
wandelte ikn in ein realistisckes Gemalde, zu welckem er die Farben aus der gleick-
zeitigen franzosiscken Gesellsckaft nakm, und driìngte daker das dort so bedeutende
pkantastiscke Element ganz in den Hintergrund. Scliou deskalb war aber das Stiick
geeignet, in seiner Zeit mekr zu verletzen; bei Dorimond und De Villiers feklte
alle Beziekung zum Leben; bei Molière fiìklte man sick, wie gewoknlick, gleick
zur Nutzanwenduug getriebeu.
A. Gaspaey.
ETYMOLOGISCHES.
BCTOB
hat schon altfranzosisch aicht anders gelautet als beute; sein o war immer ein
offenes, was nicht allein aus dem Umstande sicli ergiebt, dass kein eu oder ou dafur
eingetreten ist, sondern durcli haiifige Reime erwiesen werden kann, die keinem
Zweifel Eaum lassen: butor und das flektierfce butors mit escu d'or, Cleom. 11306,
mit l'eure de lors, Barb. u. M. IV 429, 80, mit plus reluisans que ors, Venus 211 d.
Aucli das d des spat abgeleiteten butorderie darf beziiglich der G-estalt des
Stammwortes nicht irre machen; es ist dem Stamm angefiigt untar der Einwir-
kung des Bestehens von border, abordev, accorder, nordique u. dgl. neben bord,
abord, accord , nord mit beute unter alien Umstàuden verstummendem d, ein
Vorgang, auf den uacb A. Darmesteter, création de mots nouv. 73 und E. "Weber
im Anliang seiner Dissertation iiber den Gebraucb von devoir, laissier 35 bier ein-
zutreten nicbt uot tbut. Aus alterer Zeit ist eine Nebenform zu verzeicbnen; wir
kennen sie aus dem Bon Berger des Jeban de Brie (gegen das Ende des 14.
Jabrbunderts) , woselbst S. 52 des Neudrucks von 1879 man liest: ung aidtre oyseau
y a, quq Von nomine hutor; aidcuns Vappellent bbuitob. Namensformen aus beutigeii
Mundarten stellt Eugène EoUand, Faune populaire de la Franco, II 376 zusam-
men; von diesen mag siidfranzosiscb bitor mit butor nocb geradezu eins sein,
wS brand von buor, bior, buard, bitar nicbt mebr dasselbe geltan kann, aucb nprov.
bruitier bocbstens nocb als verwandt in Betracbt kommen darf.
Ist bruitor die urspriinglicbe Form, wemi sie gleicb aus etwas spaterer Zeit
zum ersten Male nacbweislicb ist als butor, so wird man das Wort als ein Compo-
situm mit der Badeutung « Larmstier » zu batracbten das Eecbt babau. Es mirde
zu dar klainen Grruppe franzosiscber Zusammensetzungen gebòren, von der
A. Darmesteters Bucb libar dia franzòsiscban Composita S. 162 und 198 bandelt,
in welcber das erste Elemant Imperativ, das zwaite Vokativ ist, oder, um es vor-
sicbtiger auszudriicken, das an zw eiter Stelle befindlicbe Nomen durcb den vorge-
setzten Stamm eines (cbaraktaristiscbes Tbun bezeicbnanden) Verbums eine nàbere
Bestimmung erfàbrt (z. B. caucliemar, grlppe-minaud, bSche-Lisette). Es kònnta das r
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der ersten Silbe iufolge Dissimilation geschwuuden sein, wie bei freilich uicbfc
gleicben Verbaltnissen in afz. penre neben jprenre^ querrai neben crerrai, gaindres
Joìifroi 537 nehen fjrahuh'es (und graindes) , faindre Joufroi 3045, Aliscans 8 und 243
neben fraindre, in ufz. titre neben afz. fristm, in Pipriac aus Prisperiaca (Quicberat,
Noms de lieu 36). xd ware in der tonlosen Silbe zu u geworden, wie in charcutier,
lutter, lutin, citrée ; es batte auch i wei'den konnen, wie in lamhrisser aus lamhruissier ,
hignet aus huignet (s. axicb A. Fucbs, unregelm. Zeitworter S. 325 iiber ì fvir xd in
der Pariser Mundart). Die Benennung des Vogels als « Larmstiers » endlich kann
bei der grossen Zahl gleickbedeutender Namen, die er aixsserbalb Frankreicks erbal-
ten bat, nickt befremden (zu den bei EoUand gesammelten filgt mir Sckott un-
griscb bolonibika, d. h. « Briillocbse » biuzu).
Immerkin wiirde sick auck eine andere Deutung fiir den ersten Teil des Compo-
situms denken lassen; man konnte das sonst im Altfranzosiscken nickt nackweisbare
bruì oder èrit, das Stammwort zu bmyère, darin erkennen woUen, namentlick mit
Riicksickt darauf, dass andere Benennungen des Vogels ilm als einen das Ried, den
Sumpf, das Rokr bewoknenden Stier bezeicknen (boeuf d'emi, de marais, taureau
d'étang bei Rolland, deutsok Moskuk, Mosstier, Lorind bei L. Tobler in der Zts.
f. Volkerpsyckologie XIV 75); indessen sind dock Haidekraut und Rokr zweierlei,
und Zusammensetzungen substantiviscker Elemente in dem syntaktiscken Verkalt-
nisse das kier anzunekmen ware, sind im Franzòsiscken, wenn nickt ganz uuerkort,
dock selten ; s. A. Darmesteter, Mots comp. S. 137. Beiden Erklarungen stekt
entgegen, dass die Art der Dissimilation, die man anznnekmen kàtte, nickt vorzukom-
men sckeint, und dass viel leickter ein Ubergang von einem teilweise dunkeln
butor zu einem verstandlickeren bridtor denkbar ist als der umgekekrte. Erinnern
vnx uns denn, dass die Stimmen des bMlo, wie der lateiniscke Name des butor
lautet, batìre (oder bubiré) genannt wird in der Elegie de Pìdlomela: Liqiie pcdiuUferls
bidio buUt aquis, s. Wackernagel, Voces varise anim. S. 57. Eker als eins der zuvor in
Betrackt gezogenen wird dieses Wort seineu Stamm als ersten Teil der Zusam-
mensetzuug in Anspruck zu nekmen kabeu.
Einen Entsckeid wage ick gleickwokl nickt; ein sizilianisckes buturnu, das Rol-
land anfilkrt , kommt kinzu um die Sckwierigkeit zu mekren ; aber ^vi6 ware es mit
dem altfranzosiscken butov zu vereinigen ?
PlAPFER
sckeint mir filr "pleffer zu steken, nud dieses kalte ick ftlr eine Ableitung von "pief^
einer Nebenform von pied oder besser pné, zu der es sick verkalt wie fieffer zu fief,
fié, oder wenn Grober, Zts. f. rom. Pkil. II 459 im Reckte sein solite, was ick mit
Varnkagen, Anzeiger f. deutsckes Alter tum IX 179 bezweifle, fiir gewonnen aus
pie seit der Zeit, da fié ein fi(\ffer neben sick katte. Die volkstumlicke Ausspracke
des e in gescklossener Silbe als a ist bekannt ; da es sick kier nm ein erst ziemlick
spilt auftretendes Wort kandelt, mag es genilgeu auf Tkurot, Pronouc. frano. I 22
— 73 —
zu verweisen. Littré's Bedenken gegen eine Herleittinfv von pieci sind mir nicht
recht verstàndlich. Ist sie richtig, so hat man freilich piaffe al.s aus l'i'iffcr gewon-
nen zu befcracliten, nicht umgekehrt.
Forra it.
(mit gesclilossenem o) « enge Schlucht, Spalto zwisclieu Bero-liohen « scheint eins
mit « Furre » f., einer nicht bloss schweizerischen Nebenform von « Furche, » von
welcher das Grimm'sche Worterbuch IV la 788 handelt.
Recrue ,
im Franzosischen, wie es nach den Worterbitchern scheint, noch immer, wenn
gleich nicht einzig, abstrakt (Bezeichnung des Ergebnisses einer Handlung), so-
dann auch konkret (das dadurch Herbeigesehafffce) , aber kollektiv, im Spanischen
{recluta aus recrue mit Dissimilation der beiden r und mit t im Anschluss an das
franzòsische Verbum) ausserdem (und dann mannlich) und im Italienischen (hier
immer weiblich) Bezeichnung des Individitums , das neu ausgehoben ist, kann man
nicht anders denn als Partizipialbildung von recroistre erklàren wollen. Dieses ist
in Verwendungen , die dem Sinue des Substautivs (Nachwuchg, Nachschub) entspre-
chen, leicht nachzuweisen, intransitivi Vendemain recrurent d'ime rote de serjanz a
cheval, Villehard. 351, transitivi Nostre sires, qui tout donna, Li (dem Freigebigen)
recroìst les biens eii ses mains, Baudouin de Condé 239, 197; un hon espreveteur, en la
saison, recroìst d'espreveterie neiif chiens et trois clievaidx, se il veidt hien continuer et faire
san devoir au viestier, Ménagier II 280. Das Substantivum recr'èue ist mir in entspre-
chendem Sinne im Altfranzòsischen nicht begegnet. Oder solite es in dem nicht
selten anftretenden Ausdruck corner la recr'èue « zum Riickzug blasen » (Rom. de
Troie 15622; eb. 18317, wo come statt tome stehen mtiss; eb. 18347; Gaydon 74:
Rom. d'Alix. 103, 25; Jean de Journi 2395; Rutebeuf II 59; Jubinal, Nouv.
Ree. II 26) doch vorliegen, der ursprungliche Sinn « um Zuzug, Nachschub bla-
sen » gewesen sein una nur infolge des Umstandes eine Verdunkelung und Wan-
delung erfahren haben, dass, wer den Kampf oline Hilfe fortzufahren sioh aus-
ser Stando erklàrt, ein recriiu (von recroire) ist? Dies ist mir deswegen nicht
unwahrscheinlich, weil mir eine Bildung recreue mit dem Sinne « Waffenstrecken »
von- recroire mit dem sonstigen Verfahren der Sprache nicht iibereinstimmend
vorkommt, welche in diesem Sinne eher eine Ableitung vom Participium des
Priisens wird eintreten lassen (vgi. Ce li samhleroit ijrant vitance , 'S'on li fait faire
recreance, Lyon. Ysop. 236).
Von dem Substantivum recrue hat man, in spaterer Zeit, wie sich aus den bei
Littró beigebrachten SteUen ergiebt, das Verbum recruter abgeleitet, welches be-
deutet « durch Nachschub vollzàlilig erhalten » oder « zu einem Nachschub anwer-
ben ». Das hinzugekommene t ist keinesfalls das ursprungliche partizipiale, das
10
— li —
ini Siibstantiv regelrecht geschwmiden ist, sonderà das namliclie imorganische,
das in glulkr Vogelleinabaum, tissutier Bandweber, nach E. Weber a. a. 0. 36 in
tutoìjer imd nacli Darmesteter a. a. 0. 73 in zalilreiohen andern Wortern zwischen
vokalischen Aiislavit des Stammwortes und vokalischen Anlaut des Suffixes ge-
treten ist, nicht einfach hiatustilgeud, sondern infolge des Umstandes, dass Worter
niit etymologiscli gereclitferfcigtem , aber im Auslant verstummtem t Derivata oder
sonst nachstverwandte Worter mit lautem t neben sich haben, wie déhid deluder,
fiìtf'utaille, inst'dut iìistìtuteur , rehid rehider, scdut xahdaire, tribid tribidaire.
Daraiif ziiriickztikommen war vielleiclit niobt notwendig, nachdem altere Ety-
mologen das Richtige in der Haiiptsaclie bereits gesagt hatten; jedoch auch nicht
ganz iiberfliissig, seit G. Paris im Jahrbixch fiir romanische und englische Litera-
tur XI 157, einen Gredanken Carpentiers (bei Du Gange unter reclutare) aufneb-
mend, recnder mit dem alten , durch Mussafia Zts. f. rom. Pliil. Ili 604 aneli bei
Chardri hergestellten rechder « flioken » fiir eins erklart und einer kleinen Familie
zugewiesen hat, mit der es dodi sohwerlich etwas zu tliun liat. Dass spaniseli re-
didar und italienisoli reclutare Freradworter (dieses wolil aus dem Spanisclien, jenes
aus dem Franzosiscben geborgt) sind, wie ibre Vereiuzelung in den beiden Spra-
chen, ilir spates Auftreten und ihr Lautbestand zeigen; dass der Ùbertritfc vou
recr... in recl... im Spanisclien weit leiehter zu begreifen ist, als der von recl... in
recr... es im Franzosiscben sein wiirde; dass recnder von recrue zu trenneu bei der
Bescbaffenlieit der Bedeutungen niclit angelit , sclieiut mir der Gelelirte , dem wir
so manche vortreffliche und sofort einleuchtende Etyniologie verdanken, vor drei-
zelin Jahren nicht liinlauglicli erwogen zu liaben.
AVERTIN
« Tauniol; Drehkranklieit der Schafe » sebo icli nirgends anders, denn als Ablei-
tung von avertere gedeutet. Aber dieses Verbum kennt das Franzòsische nicht; sein
avertir ist advertere, dessen Bedeutung widerstrebt; und von lat. avertere giebt
es keine Ableitung, die nach Form und Sinn Grundlage von avertin sein kònnte.
— Vertiginem gab vertin wie ccdiginem chal'm (s. dieses bei Godefroy, dessen letzte
Belegstelle aber nicht hieher gehort); das a von avertin balte icli fiir das des wei-
bUchen Artikels, welches falschlich zum Nomen zu ziehn um so naher lag, als
der Ausgang desselben zu mannlichem Gebrauch veiieiten musste (wie denn auch
fiir chalin sich nur maunliclies Geschleclit nacbweisen làsst); also l' avertin fiir la
vertin. Die Form oline a gewàhrt ubrigens der Vocab. duac. 184b vertigo: vier-
tins, ferner Beaumanoir 61,6, und im Codex Digby 86 Blatt 21r. hat Stengel o
le vert'UH del chef gelesen. Andererseits fiiidet sicli esvertin, Auc. u. Nicol. 11, 18
und Suchier dazu, Percev. VI S. 197, mit der haufigen Vertauschung des anlau-
tenden a mit es. Der hier angenommene Irrtum des sprechenden Volkes ist die
genaue Umkehr desjenigen, durch den it. l'avversiere zu la versiera geworden ist,
oder dessen, der dem Dichter des Gaufrey moglich gemacht hat S. 73 zu sagen
— 75 —
Vous m cretis en li ne en s'avenement (odor sa uenementf) ' von anderen Anomalien
gai- nicht zu reden, die der enge Zusammenhang zwischen Artikel und Nomen
herbeigefiihrt liat. ' Schliesslick sei bemerkt, dass ich geneigt bin das prov. hatùje^
das Eaynouard zu kiilm unter batre gestellt und mit battenient iibersetzt hat,
worin ilim Diez, Bartscli uud Honnorat gefolgt sind (Grammatik II 317 und Chrest.
prov. seit der ersten Ausgabe) fllr oins mit vertige zu lialteu oder es mit diesem
zu vertausclien, bis batige sicli an einer zweiten Stelle findet.
GrERLA it.
liat Diez oline Zweifel richtig auf gerida zuriickgefuhrt und mit altfranzosiscli jarle
(bei Barbazan und Méon III 16, 81 oder Montaiglon I 196) als eins betraclitet,
obschon die Bedeutungen ziemlich stark auseinander gehn, das itali enische Wort
den auf dem Riicken zu tragenden Korb aus Stàben, das altfranzosisohe aller
"Wahrsckeinliclikeit nacli einen Zuber bezeiclmet. (gema, das Canello im Arch.
glott. Ili 349 als allotrop zu jenem anflilirt, weist eine dritte Bedeutung auf.)
Neufranzòsiscb. gerlon, Zuber des Papiermlillers , war als drittes Glied der G-ruppe
einzuverleiben. Aber gehòrt nicht aucli jale Mulde, afz. jalle, das Diez davon
sclieidet, hieher? Das doppelte l sichern die Eeime, mit Challes d. h. Charles
bei Guill. Guiart II 5487, mit palle d. h. parie im Girart de Eossillon 234, mit
espalle und Charles bei Etienne de Foug. 861, iind die Bedeutung stimmt durch-
aus. Die Form jaille, welche Diez nacli Du Gange anfiihrt, ist zwar bei Guiart,
dem dieser sie entnimmt, nicht zu finden (die Stelle ist die eben zitierte), da-
gegeu trifft man sie in dem durch K. Hofmann auszugsweise fcekannten Pa-
riser Glossar 7692 Zeile 473 als eine der Ùbersetzungen von lagena. Ist sie
fehlerlos, so muss sie von jalle getrennt werden, wie Diez schon gesagt h.a,t. jalon
hat zu oft galon neben sich, als dass ich mir getraute es zu einem Etymon mit gè
im Anlaut zu-stellen, und jaloi , jaloie (zu denen es Nebeuformen mit g gleichfalls
giebt) sind nm ihres Ausgangs willen, der das bekaunte franzosische Suffix doch
nicht sein kann, zu trennen (s. ùber sie Hildebrand im Deutschen Wòrterbuch
unter « Gelte, » Sp. 3065). Nooh weniger darf afz. geurle mit it. gerla verkniipft
werden. Die einzige von Diez angefiihrte Stelle sichert die Bedeutung « Geldbeutel, »
und viele andre (s. das Glossar zum Auberi unter gourlel und P. Meyer zu Guil-
laume le Marechal 6792) zeigen, dass dem "Worte im Stamm geschlossenes o
Dagegen ist mvoir im Théatre fr?. au. m. à. 70 nicht in a'avoir zu zerlegen, sondern heisst « Wissen. <•
' Beilaufig sei hier erwiihnt, dass afz. ningremance (aus necromdntia mit der bekannten Einsohaltung von
M vor Gutturalis) durch Dissimilation zunachst linr/remance geworden ist, xind dieses seinen Anlaut deswegen
verloren hat. weil er als Artikel .lufgefasst werdeu konnte. Dio neben den haufig begegnenden Formen ningve.-
mance und ingremance seltener aufretende Ihigremance trifft man z. B. in dem Dit de Luqne, Romania Xn 225
Z. 51, WG Raynaud besser gethan haben wiirde za schreiben Qui savoicnt de, lingromauce (statt de l'ingr.), da in
der Redensart savoir d'aucune rien der Name der Kunst ohne Artilcel zu stehen pflegt: mvoir de clergie, de
mecìne, de latin, d'eschts u. dgl.
— 76 —
zukommt; Meyer sielit darin das dentsclie « Gùrtel » (Romania XI 60), was durcli
die Angabe li (jourliers: der gurdelmaker des romauisch-ilàmischen Grespràchbiicli-
leins nalie gelegt wird. Auch hier haben wir uebeu den Foruien mit ri solche
uiit II; Carpentier belegt gidle aus einer Urkunde des 14. Jalu-liunderts und giebt
damit das Mittel die Glosse gubles zu marsupia des Joliannes de Garlandia im
Jahrbuch f. rom. ii.engl. Litt. VI '294 zu berichtigen. Was aber ist von gueille zu
halteu, das sidier in gleiclier Bedeiitung im Cliaroi de Nymes zweimal steht, Z. 1025
und 1222?
Adolf Tobler.
LES SERMENT8 DE STRASBOURG.
(INTRODUCTION A UN COMMENTAIRE GRAMMATICAL.)
Les célèbres formules d'engagement réciproque, prononcées en roman et en
allemand, le 14 février 842, à Strasbourg, par Charles de France, Louis d'AUe-
magne et leurs principaux fidèles, sont, dans leiir partie romane, les plus anciens
textes fraucais qui nous aient été conservés. Les glossaires du VIP et du VIIP
siècle où des mots grecs, allemands et latins sont interprétés par des termes d'une
latinité souvent très vulgaire ne présentent encore le cachet marquó d'aucun
dialecte; les mots romans du giossaire de Cassel n'appartiennent probablement pas
au domaine francais. Rien ne prouve sans doute que les formules de 842 soient le
premier texte francais qu'on ait écrit; il est au contraire très vraisemblable qu'à
la suite des prescriptions qui ordonnaient, depuis 813, de traduire « en langue
romane rustique » les homélies du dimanche, plus d'un prétre a aidé sa mémoire
par l'écriture ; il est à croire aussi que la fantaisie de noter quelqne chanson, quelqiie
récit, quelque souvenir dans la langue des laiques sera venne à plus d'un clero;
mais aucun de ces essais n'est arrivé jusqu'à nous, et cela se comprend facilement:
tracés sur des pages volantes, sur des bouts de ce parchemin précieux qu'on
ménageait trop pom- en employer de bonnes feuilles à desfutilités, le plus souvent
sur ces tablettes ciróes qui servirent pendant tout le moyen àge à écrire ce qu'on
ne tenait pas à conserver longtemps, ils ont dù étre dótruits de bonne heure, et
n'avaient aucune chance de traverser les àges. Le fragment d'homélie sur Jonas,
du X<^ siècle, conserve à Valenciennes n'a subsisté que parce qu'on a très ancienne-
ment applique sur le plat d'une reliure la page où il était note ; les deux poèmes
de Clermont au XI«, le fragment d'imitation du Canti que des Cantiques au com-
mencement du XII'', ont été transcrits sur les blancs de manuscrits plus importants
Ce fragment, écrit il y a plusieurs amiées, fait partie du commentaire , non aohevé, qui doit accompagner
l'album héliograpliique des plus anciens monumentsde la langue fran^aise, pnblié par la Société des anciens textes
frangais. Depuia qu'il a été redige ont paru les éditions des Serments de MM. Kosohwitz {1879, 1880, 1884) et Stengel
(ISSI); je m'y suis rèfèré dans les notes paléographiques sui- le texte, après avoir ajtentivement collationné le
— 78 —
aux yeux des contemporains, et noiis sont parvenus gràce à cette iucorporation. Dès
le X^ cependaut ou toiit au moins dès le XP siècle, on a sans doute cousacré à des
ouvrages franeais des manuscrits entiers, mais ils ont disparu parca quo la langue,
rapidement vieillie, en est devenue inintelligible aux àges siiivants; on en a alors
renouvelé la forme eu les copiant ou ou a cesse de s'y intéresser, et dans les deux
cas on les a laissés se perdre. Si l'auteur de l'oeuvi'e historique où sont insérées les
formules de Strasbourg avait en l'idée, d'ailleurs à peu près inconcevable à son
epoque, d'écrire tout son livre en franeais, ce livre ne serait bien probablement pas
venu jusqu'à nous. Il s'en est peu fallu d'ailleurs que, me me écrit en latin, ce pré-
cieux ouvrage se perdìt; un seul manuscrit l'a conserve, manuscrit malheureusement
bien postérieur à la rédaction de l'oeuvre. C'est de ce manuscrit que nous devons
parler avant d'aborder l'étude du texte en lui-mème.
Les formules de Strasbourg ont été insérées par Nithard au livre III de l'ou^T:age
en quatre livres qu'il a consacré à l'histoire de son temps; le manuscrit unique qui
contieni cet ouvrage appartenait anciennement aux religieux de Saint-Magloire , '
transférés depuis 1572 dans un couvent situé près de Saint- Jacques du Haut Pas.
Ce fut sans doute alors qu'ils vendirent leurs livres; le uotre paraìt avoir appartenu
quelque temps ensuite à Claude Fauchet, à en juger par ce qu'en dit Bodin." Il passa
dans la bibliothèque de Paul Petau , et les livres des Petau ayant été acquis en
grande partie, en 1650, par Is. Voss, pour Christine de Suède, il fut transféré à
Rome en 1658 et acheté aux hóritiers de la Reine en 1690 par Alexandre Vili,
avec tonte sa coUection de manuscrits. Il resta au Vatican jusqu'au temps de
Napoléon, qui le fit transporter à Paris; mais quand, en 1815, on voulut le re-
prendre à la Bibliothèque Royale, il ne se retrouva pas. La tradition de la Bi-
bliothèque est que le manuscrit était alors prète au dehors, et il est eu effet
très probable qu'il se tronvait entre les mains de Mourcin. En effet ce savant,
dans l'édition des Serments de Strasbourg qu'il donna en cette méme année, de-
signo le manuscrit, d'après lequel il fit soigneusement revoir le fac-similé emprunté
par lui à Roquefort, comme se trouvant à la Bibliothèque du Eoi sous le n" 1964
(en réalité il avait gardé le chiffre 1964 de la BibUothèque du Vatican), et d'au-
tre part il remercie (p. Ili) les conservateurs de la Bibliothèque du Eoi, qui ont
bien voulu lui coniier les ouvrages dont il avait besoin pour son travail. Le ma-
nuscrit reviùt bientot sur les rayons de la Bibliothèque, mais on jugea sans
doute dangereux d'y signaler sa préscnce: en 1828, quand Pertz voulut publier
' Voy. L. Delisle , Le Cabinet des Manmcrits, t. HI, p. 266.
' « Loilys jur.a le premier en langue Romande les parolles qui 8'en.suiuent, quo M. le presidont Fiiuchct,
homme bien ontendu et mesmement en nos antiquitez, m'a monstree (sic) en Guytard (sjc) historion et Prinee du
.sang. > Lo cliapitre VI du livre V de la Rlpuhliqnc do Bodin, où se trouve ce passago^n'est pas dans la première
édition (1577); jo n'ai pas vn la secondo, qui est do 157S; notro passage se lit à la i>. 605 de la troisicme, également
de 1578, et à la p. 8:21 do la quatrième (1580). Il est k romarquor quo Fauchet, qui résumé tout lo livre de Nitliard et
imprime les Sermonts {(Eiwrea, od. 1610, fol. :JTO ìj), no dit rien du manuscrit; mais son toste ne proviont ni de Bodin
ni de Pitliou; il présente les fautes les plus étrangos: citous seulomont scìwvnrt:: pour salvament.
— 79 —
Nithard dans les Monumenta Germaniae, Guérard lui communiqua ime collation
faite, assurait-il, sous l'Empire, par un paléographe dont il garantissait l'exactitude,
mais dout il ignorait le nom; Pertz ajoute qua le manuscrit, rendu au Vatican, u'a
pu y étre retrouvó. Encore en 1853 Clievallet avait recours à de semblables pré-
cautions: « J'ai fait l'aire, dit-il, il y a plusieurs annés, avec grand soin, un /ac-smt7e
des Serments , d'après un manuscrit de Nithard provenant de la Bibliotlièque
du Vatican , apportò de Eome pendant nos guerres de l'Empire et depose à la Bi-
bliotlièque Nationale Depids lors ce manuscrit est retourné à Rome et doit
avoir éte reintegre dans la Bibliothèque du Vatican. ' » Cependant dès 1838 Gué-
rard avait montré le manuscrit à Pertz. En 18G3 M. L. Delisle l'enregistra publi-
quement sous le n. 9768 du fonds latin, qu'il porte encore, dans le premier des In-
ventaires des manuscrits latins non compris dans l'ancien catalogne qu'il a succes-
sivement publiés dans la Bibliothèque de l'Ecole des Chartes. Depuis lors divers sa- ,
vants l'ont étudié, et la Société des anciens textes francais a été autorisée a faire
faire de la page où se trouvent les Sermenti la reproduction liéliograpliiqiie qu'elle
a publiée en 1875. '
L'àge du manuscrit qui contieut l'Histoire de Nitliard a été autrefois beaucoup
trop reculé. On l'attribuait communément au IX® siècle,, les plus prudents, comme
Diez et Chevallet, à la fin de ce siècle ou au commencement du suivant. Un jeune
savant allemand, vouó à l'étude de notre ancienne littérature, et qui tronva la mort
à vingt-six ans sur le champ de bataille de Gravelotte, Jules Brakelmann, fut le pre-
mier à montrer la fausseté de cette opinion dans un article qui est date d'octobre
1869, mais qui ne pàrut qu'après la mort de l'auteur. " En 1870, dans un appendice
à la préface de la seconde édition séparée de Nithard, Pertz fit à peu près les mémes
remar ques que Brakelmann. Le manuscrit en question contient en elFet, à la suite
de Nithard , et de la mème main , non seulement les Annales de Flodoard, qiii vont
jusqu'eu 966, mais une continuation anonyme, qui concerne les années 976-978,
et qui ne se trouve que là. C'est d'après ce manuscrit que Pitliou publia en 1588,
en memo temps que Nithard, les Annales de Flodoard et la continuation susdite. '
Le manuscrit n'a dono pas été écrit avant cette dernière date; mais si l'on
considère, comme Brakelmann le fait remarquer avec raison, que la continuation
dont il s'agit est loin d'étre l'originai, que la transcription contient des fautes as-
sez nombreuses, on conclura que le ms. ne peut étre antérieur aux dernières années
du X« siècle, et peut fort bien n'étre que du commencement du XP. C'est là un
point qui a son importauce pour la critique des textes qui nous ocoupent. Ces
' Origine ctfonnationde la languc fmnqaise , 1. 1, p. 83.
' Voir pour ces faits la préface de Pertz à la 2» édition de Nithard in iisuin scholamm (1870), et l'artiole de
J. Brakelmann dont il sera parlò plus loin.
' Zeitschriftfiir deutsche Philologie, t. Ili (1871), p. 85-95.
' Annalium et Bistoriae Franeormn.... scriptores coodanei XII, Pai-is, 158S. Déjà Bodin avait imprimé dans plu-
sieni-s editions suooessives de sa BSpuMique le texte roman des Serments. Je ne sais par quelle confusion M. Stengel
attnbue la première impression à Vulcanius, dont le De literis et limjna Getamvi ne parut qu'en 1597 (à Leide).
— 80 —
textes, les plus- ancieus qiie nons possécTions comme rédaction, ne sonfc douc pas
les plus anciens comme transci-iptiou : ils vieunent à cet égard après la Séquence
de salute Eulalie et le Fragmenfc de Valencienues , peut-étre méme après les
poèmes de Clermoufc; mais ils doivent à leur nature particulière de uè pas avoir
été l'objet, de la parfc du copiste qm les a transcrits; d'un remaniement au moins
volontaire.
Avant de les étudier, il nons faut voir dans quelles circonstances ils se sont
produits et nous ont été transmis. Je n'ai pas à raconter ici en détail la triste et
fastidieuse histoire des premières disseusions entre les fìls de Louis le Pieux;
mais il faut donner un résumé des événements qui précédèrent immédiatement l'en-
trevue de Strasbourg. En 839, le vieil empereur, avec le consentement de son fils
aìné Lothaire, avait de termine ce qiii reviendrait après sa mori à chacun de ses
enfants. Lothaire devait avoir, avec le titre d'empereur, l'Italie, et tovite la région
située à l'est de la Mouse et au nord de la Bavière, laissée à son frère Louis; à
Charles était assigné tout le pays compris à l'ouest de la Mouse, sauf l'Aquitaine
qui restait à Pépiu. Pépin étant mort, l'empereur voulut accroìtre de son royaume
les possessions de Charles , le plus jeune et le plus aimé de ses fils , né de son second
mariage avec Judith. Les Aquitains au contraire voulaient pour roi le jeiiue Pépin,
fils de celui qui venait de mourir. Louis marcha contro eux, mais sans grand siic-
cès, revint ensuite en Aiistrasie, d'où il alla repousser une invasion de son fils Louis
de Bavière, et mourut, au retour, près de Mayence, le 20 juin 840; Charles se trou-
vait alors à Bourges. Lothaire, qui était en Italie, chercha aussitòt, au mépris de
tous ses engagements, à s'emparer de l'empire entier. Il envoya partout des émis-
saires chargés de gagner les évéques et les comtes , passa lui-méme les Alpes à la tète
d'une armée, conclut près de Francfort une tròve avec Louis, et se prepara à atta-
quer Charles. Celui-ci, accouru d'abord à Quierci-sur-Oise pour y recevoir l'hom-
mage de ses sujets, avait été brusquement rappelé enAquitaine, où son neveu Pé-
pin menacait de près Judith, qiii y était restée. Lothaire frauchit la Mense, gagna
à son parti les grands du pays entre Mense et Seine, et, pratiquant les mémes
mancEuvres au delà de la Seine, s'avanca jusqu'à la Loire. A Orléans, il rencontra
Charles, revenu de son expédition meridionale: au lieii de combattre, les deiix frères
conclurent une convention provisoire qui devait se changer en un traité défìnitif à
une entrevue qu'ils aitraient au mois de mai de l'année suivante à Attigni; par
cette convention, Charles gardait l'Aquitaine, la Septimanie, la Provence, la Bour-
gogne ' et les dix comtés entre Seine et Loire; Lothaire lui jurait amitié et s'en-
gageait aussi à ne pas attaquer Louis. A peine conclu, ce pacte fut viole par les
deux frères. Quand Lothaire so fut éloigné, Charles franchit la Seine à Rouen,
malgré la résistance des partisans de Lothaire, et parcourut le pays entre Seine et
Mouse, le revendiquant comme sien d'après le partage fait par son pére. Lothaire
' Nithard ne la nomme pas; mais le fait. qu'ello étaifc còdée à Charles parait blen résulter de ce qui suit.
— si-
de son coté avait attaquó Louis et l'avait contraint à la fuite; ayant appris la mar-
che de Charles, il lui fit faire des re presenta tions, que celui-ci recut avec hauteur.
Au mois de mai 841, Charles se rendit à Attigni, suivant la convention de l'année
précédente; il n'y fut pas rejoiut par Lothaire, qui se tenait à Aix, mais il y recut
des envoyés de Louis, qui lui offrait de venir s'unir à lui contre leur frère, ce que
Charles accepta avec joie. Il se retira eusuite sur Chàlons, ori sa mère arrivait de
son coté avec les Aquitains dévoués à leur parti. Lothaire, apprenaut la retraite de
Charles, marcha sur lui, et l'atteignit près d'Auxerre, mais après que Loitis, qui
venait de battre au delà du Ehin le lieutenant de Lothaire, avait opere sa jonctiou
avec son frère. Lothaire différa la bataille de quelques jours, parco qu'U attendait de
son coté les renforts que son neveu Pépin lui amenait d'Aquitaine: ils arrivèrent,
et le 25 juin 841 eut lieu à Fontenoi en Puisaye (Yonne) ' la sauglante bataille qui se
termina au désavantage de Lothaire, mais sans amener de résultats décisifs. Louis
retourna en Allemagne, Charles sur la Loire. -Il revint de là dans la Franco du
Nord, où il trouva, malgré son succès, un accueil assez froid. Il apprit à Eeims, à
la fin d'aoùt 841, que Louis était de nouveau attaquó par Lothaire, et se dirigea
par Saint-Quentin vers Maestricht pour entrer en Austrasie et faire une diversion.
n réussit: Lothaire, laissant Louis, marcha sur Charles. Celui-ci se retira vers
Paris; Lothaire y vint avec son armée, mais, n' ayant pu parvenir à passer la Seine,
il alla à Sens retrouver Pépin, qui venait encoro d'Aquitaine avec nue armée.
Charles, apprenant que Louis, qu'il attendait de son coté, était empèché de passer le
Ehin, se decida à marcher à sa rencontre. La nouveUe de son arrivée en Alsace sufflt
à disperser les partisans de Lothaire qui gardaient le passage du ileuve. « Le IG des
kalendes de mars (14 février 842) , Louis et Charles se réunirent dans la viUe qui
s'appelait autrefois Argentana et dont le nom vulgaire est aujourd'hui Strazburg. Ils
y jurèrent, Louis en langue romane, Charles en langue tioise, les serments qui sont
rapportés ci-dessous. Et avant le serment ils haranguèrent ainsi, l'un en lanfue
tioise, l'autro en langue romane, le peuple assemblé autour d'eux. Louis parla le
premier, parco qu'U était l'aìné, et dit: Vous savez comòien de fois, dejmis la mori de
notre ]}ère^ Lothaire irUa attaqué, mol et mon frère que voici, essayant de noits ruiner et de
nous détruire. Ni la fraternité, ni les sentiments chrétiens, ni aucun moyen n'a pti faire
que la paix s'établìt entre nous jjar la justice. A la fin, contraints, nous aoons remis la
décision au jugement de Dieu fout-jnnssant , afin qu'il indiqudt ce qui nous revenait à
cliacun et ce qui devait nous suffire. Votis savez que dans cette épreìtve, par la grdce de
Dieu, nous avons été vainqueurs; lui, vaincu, il s'est retiré oh il a voulu ' avec les siens;
touchés d'affection fraternellc, et aussi de pitie pour le peuple chrétien, notes n avons pas
votdu jioursidvre et extenniner les fugitifs; nous avons recommencé, camme aupar avant, à
dtmander simplement que justice fat f aite à cliacun. Mais lui, par la suite, ne s'est pas
soumis au jugement divin; il ne cesse pa^ d'attaquer à main armée moi et mon frère; il
' Et non à Fontenailles, cornine le veut Tabbé Lebeut'.
■ Le ms. a valuit, mais soliùl est préfórable.
. — 82 —
(lèsole mon j)euj)le p^av V'uicemlie, le inllage et le nimrtre. C'est pour cela que, coidraints
par la nucessité, nous nous sommes réunis, et cornine notis craignons que vous ne cloutlez
de notre fidélité staile et de notre solide fraternité, nous avons résolu de jurer entre
nous, à votre vue, le sennent que vous allez entendre. A'^ous n'agissons pa^s sous l'empire
d'une injuste convoitise, mais pour assurer, avec la grdce de Dieu et votre aide, la paix
et le profit commun. Si, ce qua Dieu ne plaise, je venais à violo- le sermenf que je vais
jurer à mon frère , je delie cliacun de vous de ma sujétion et du serment que vous m'avez
prète. Charles prononca ces mémes paroles en langue romane; puis Louis, le pre-
mier, en sa qualité d'aìné, affirma aiusi qix'il garderait par la suite ce qui était
convenu (suit le serment roman de Louis). Quand il eut termine, Charles répéta
la mème affirmation en langue tioise (suit le serment de Charles). Quant au ser-
ment que les deux peuples prètèrent, chacun daus sa propre langue, il est ainsi
concu en langue romane (suit le serment des hommes de Charles) et en langue tioise
(suit le serment des hommes de Louis).... Ce jour-là il tomba beaucoup de neige,
suivie de gelée. » Par ces deux « peuples » qui prononcèrent les formules du serment,
il faut óvidemment entendre les principaux personnages de chaque coté. La for-
mule mème attesto qti'il s'agit ici des comtes, des conseUlers des deux rois: Si,
disent-ils, notre seigneur viole son serment et que nous ne puissions pas Tea détourner....
Chacun de ces fidèles, comme on disait, répéta-t-il la formule, ou deux représen-
tants furent-ils choisis? C'est ce que Nithard ne dit pas; la première hypothèse
semble appuyée par l'emploi dans la formule du pronom siugulier de la première
personne.
L'historien qui nous a conserve ces précieux textes n'était pas le premier venu.
Nithard était le propre petit-fils de Chaiiemagne, étant né, comme il nous l'apprend
lui-méjne (IV, 5), de sa fìUe Berte et d'Angilbert, r«Homère» de l'Ecole palatine,
l'auteur sinon des Annales longtemps attribuées à Eginhard, ' au moins de poèmes
historiques bien connus. A la fois savant et guerrier, comme la plupart des mem-
bres de la famille du grand empereur, Nithard prit une part personnelle aux événe-
ments dont il a écrit l'histoire. Il rappelle à Charles le Chauve, son cousiu germain,
sous l'inspiration duquel U écrit, qu'il a été emporté à ses còtés dans le tourbillon
où le roi a vécu pendant les deux ans qui ont suivi la mort de son pére. Eacontant la
bataille de Fontenoi, il dit qu'avec l'aide de Dieu il n'a pas été d'un petit secours
à Adhelard, qui commandait une des divisions de l'armée (II, 10). Investi de tonte
la confiance de Charles, il fut employé par lui à d'importantes missions: il fut l'un
des messagers députés à Lothaire en 841 (II, 2) et l'un des douze plénipotentiaires
chargés au nom de Charles, en 843, derégler entre lui et son frère Louis le partage
du royaume enlevé à Lothaire (IV, 1). Les dernières lignes de son livre ont été
écrites au mois de mars oit d'avril 843, et on pourrait croire qu'à partir de ce mo-
ment il renonca à la fois et à l'histoii'e et à la vie politique , mettaut en pratique
Voy. G. Monod, dans la Rev. Crii., 1873, t. II, p. 261.
— 83 —
les aspirations à la retraite qu'il exprime dans le pi-ologue découragé de soii
livre IV, si une notice digue de foi ne nous faisait plutòt croire qu'il périt dans un
des combats de cette mème auuée, peut-étre dans ces guerres meurfcrières qua
Charles livra en Aquitaine, où fut tue entre autres l'abbé Hug, fils de Charlemagne,
et, Gomme Nithard, dévoué à Charles le Chauve. Son pére Angilbert avait été le
restaurateur du monastère de Centule ou Saint-Ri quier en Pontieu; Nithard en était
abbé. Il y fut enterré, et on y retrouva au XI" siècle son corps, conserve dans le
sei, et enfermé dans un cercueil de bois. Le moine Hariulf, qui assistait à cette dé-
couverte, l'a rapportée dans sa chronique, et il ajoute qu'on voyait encore au cràne
la blessure qui avait cause sa mort: in cnjus capite videbatur ilici jjercussìira qua
eveiitu prelii full occisus.
La situation de Nithard auprès de Charles, qui donne un grand poids à son
témoignage comme liistorien, iuspire aussi une confiance absolue dans l'authen-
ticité des précieux documents qu'il nous a transmis à l'occasion de l'entrevue
de 842. Ce sont de véritables Instruments diplomatiques dans toute l'acception du
mot, et ils ouvrent dignement la serie des monuments d'une langue qui devait
étre la langue diplomatique par excellence. Dans bien d'autres circonstances , sans
doute, des actes qui ne nous ont été conservés qu'en latin ont été prononcés en
langue vulgaire. En 860, à May enee, Louis et Charles conclurent un pacte fort
semblable à celui de Strasbourg, et le chroniqueur qui nous en a transmis la for-
mule latine remarque expressément que Louis parla en allemand et Charles en
langue romane (à l'inverse de ce qui eut lieu a Strasbourg). Pour que Nithard n'ait
pas fait comme ce chroniqueur, comme il a fait lui méme, a la méme page de son
livre en traduisant en latin le discours que les deux frères prononcèrent l'un après
l'autre en allemand et en francais, il faut qu'il ait eu une raison particulière. Cette
raison paraìt facile à deviner. Les formules des serments des deux rois et de leurs
fidèles ont certainement été écrites avant d'étre prononcées: Louis, Charles, et les
représentants de leurs deux armées les ont lues à haute voix d'après les feuilles de
parchemin où elles avaient été transcrites, sans doute à la suite d'une délibéra-
tion et après que la rédaction en avait été approuvée. Nithard dut avoir les origi-
naux mèmes entre les mains, et cette circonstance triompha de la répugnance com-
mune a tous les clercs à écrire le patois des illettrés : il les inséra tels quels dans
son texte latin. On pourrait aller plus loin, et se demander s'il ne fut pas lui-mème
chargé de la rédaction des formules, et si l'intérét qu'il leur a trouvé ne vient pas
en partie de ce qu'il eu était l'auteur. La supposition n'a rien d'invraisemblable.
D'une part nous avons vu qu'il avait recu à plusieurs reprises des missions fort ana-
logues; d'autre part, élévé par un pére fort instriiit à l'école du Palais et à Saint-
Riquier, il devait posseder également, sans parler du latin, le fran9ais, langue des
sujets de Charles, langue des habitants du voisinage de Centule, et l' allemand,
langue de toute la famille imperiale et royale; certaines particularités orthographi-
ques des Serments viendraient mème appuyer cette supposition: pour les noms
propres, soit allemands, soit fran9ais, qui sont cités dans le courant du texte
— 84 —
latin , Nithard emploie les mème procédés de notation qiie ceux dii texte des Ser-
ments. D'autres traits, à la vérité, distingueut la graphie des Serments de celle du
texte latin de l'Histoire; mais cette différence peut fort bien tenir à la différence
de la langue, et je n'y verrais pas une raison pour refnser à Nithard la composition,
en roman et en tiois, des formtdes qu'il a inserées dans son livi'e.
Il resulto clairement de la rédaction en deus langues vulgaires des engage-
ment pris par les rois et leurs fidèles que la majorité de ceux-ci, tout au moins, ne
comprenait pas le "latin. Les sujets de Louis ótaient des Bavarois, des Alemans, des
Saxons, des Austrasiens: il est tout naturel qu'ils n'entendissent que le tiois. Quant
aux grands du royaume de Charles le Chauve, ils devaient appartenir aux parties
les plus diverses de son royaume. Il y avait dans son armée des Basques, des Bre-
tons (III, 6); il devait y avoir des Provencaux, des Aquitains, des Bourguignons ;
un noyau considérable provenait des comtés entre Seine et Loire; un autre, peut-
étre le plus important, de la région entre Seine et Mense. Quand Lothaire, devant
Paris, quatre ou cinq mois avant la réunion de Strasbourg, invitait Charles à ac-
cepter la Seine comme limite de son royaume, Charles répondait « qu'il ne lui
semblait nuUement conveuable de renoncer au pays entre Meuse et Seine, que son
pére lui avait donne, surtout à cause de la noblesse de ce pays, qui l' avait suivi en
si grand nombre, et qui ne devait pas étre décue dans la confiance qu'eUe avait
mise en lui » (Nith., Ili, 3). Sauf les contingents bretons et basques, tout ce monde
parlait «roman»; déjà sans doute bien des difFéi-ences locales se faisaient sentir,
surtout dans la prononciation; mais elles n'empéchaient pas qu'on ne s'entendit, et
qii'un texte court et simple, redige d'après une des manières de parler usitées en
Gaule , ne f ut parfaitement iutelligible pour tous. Aucun indice externe ne ■ nous
apprend quel fut le dialecte qu'on choisit pour la rédaction des formu.les. Si cepen-
dant on admet que Nithard en fut l'atiteiir, on doit croire qu'il écrivit dans la
forme de langage qui lui était habituelle, et il semble que cette forme doit étre
celle du Pontieu , c'est à dire du voisinage de l'abbaye où son pére avait fini ses
jours, où il avait dù étre élevé, et à la té te de laquelle il était lui-méme; c'était
au moins une forme orientale et septentrionale. Nous verrons si l'étude interne des
textes confirme cette supposition.
Il est intéressant de constatar l'usage exclusif du roman, c'est à dire du fran-
9ais , dès la première moitió du IX® siècle , dans les plus hautes classes de la société
fran9aise. Je ne sais si Charles le Chauve le parlait lui-méme hab^tuellement; Louis,
en tout cas, Louis l'AUemand, ne devait pas le parler: il dut lire avec une exactitude
mécanique la formule francaise qu'on lui donnait à réciter. Mais les grands du
royaume de Charles ne comprenaient pas d'autre langue: malgré leurs noms ger-
maniques, il leur fallait entendre le roi d'Allemagne parler francais pour savoir ce
qu'il avait à leur dire. Ce fait paraìt d'ailleurs tout naturel à l'historien; il ne lui
inspire aucune marque d'étonnement: il était dono habituel et déjà ancien. Si Fon
songe (jne les Serments furent prétés vingt-huit ans après la mort de Charlemagne ,
ou se dit que plus d'un , parmi ceux qui les répétèrent ou les enteudirent, avait
— 85 —
combatta sous le grand empereur, avait fait parti© de sa cour ou do son adminis-
tration. Aiusi la « noblesse » de ce pays qui , un an après , par le traité de Verdun ,
devait commencer à s'appeler la France, ' cotte noblosse de sang, d'esprit et de
noms germaniques, était depuis longtemps devenue romane de langage, comme les
populations sur lesquelles elle domiuait, et elle était tonte prète, rompant ses der-
niers liens avec le pays de son origine, à fonder avec ces populatioias , sous la
direction d'iine royauté sortie de son sein, la nationalité francaise.
Les Serments de 842 se composent de quatre textes , deux en roman , deux en
allemand. Il y a lieu de se demander quel est le rapport de ces deux rédactions.
Diez s'est déjà pose cette question. Voici ce qu'il en dit (p. 3): « Les deux rédactions
ne concordent pas exactement. La formule romane est plus précise et détaillée:
Louis nomme ici cliaque fois son frère par son nom , tandis que, dans la formule
allemande, Charles ne prononce pas le nom de son frère; il y manque aussi les
mots qui en roman précisent salvar, « in adiudha et in cadJmna cosa; » on ne trouve
pas non plus de mot allemand qui réponde à nunquam. Je ne voudrais pas en conclure
que Louis, en sa qualité de frère aìné, a fourni l'originai, d'après lequel aurait été
établie une rédaction allemande quelque peu imparfaite; car celle-ci aussi, au
moins à un endroit, est grammaticalement plus exacte (voy. la remarque sur los
taidt). Ce qu'il y avait de phis naturel, c'était d'écrire d'abord les serments en
latin, puis de les traduire dans les deiix langues vulgaires. C'est ainsi qu'on s'expli-
que aussi le mieux comment le texte roman se rapproche tant de l'usage latin,
comment surtout il omet l'articie , qua la langue devait posseder depuis longtemps. »
Pour critiquer cette hypothèse , il n'est pas mauvais de remettre les deux formnles
en latin, naturellement dans le latin usité à cette epoque pour des actes et dans
des circonstances semblables. Je mets en italique les mots qui ne sont représentés
qiie dans le texte francais, entre pareuthèses les passages des deux textes qui di-
vergent de celui que j'ai adopté pour base du latin.
Pro Dei amoro et prò christiani populi et nostro communi (aìì. amborum) salvamento, de
ista die in antea, in quantum Deus nosse et posse milii donaverit (fr. et ali. donat), sic sal-
vabo ego istnin meum. fratrom Karlum et in adjumento et in unaquaqiie re, sicut homo per
rectum suum ixaXxexa. salvare deb et, in eo quod ille mihi (a?/, me) sic faciat, et cum Lodha-
rio nullum placitum nunquam capiam {ali. in nullum placitum ibo) quod mea voluntate isti meo
fratri Karlo [ali. illi") in damno sit.
Francia dans Nithard vont diro • Austrasie :
— 86 —
II.
Si Lodlìuìvim.t {ali. Karlus) saci-amentum qnod suo frati-i Kavolo juravit conservat, et
Karlun {aìl. Lodliuwicus) ineus senior de sua parte {aìl. quod illi juravit rumpit), si
ego illuni inde avertere non possiim (fr. si ego avertere non illnm inde possum), nec ego nec
nullus (aìl. eorum nullus) quem ego inde avertere possum in niilìn ftdjumento contra Lodlmim-
Clini non illi ibi ero {ali. contra Karlum illi in adjumento non erit).
Il ne mo semble pas résulter de cette restaiai'ation la conclusion que le texte
roman soit uue traduction du latin. On ne voit pas qne l'expression romane soit en
rien génée par le latin. La construction est toiite romane , et à un endroit il a été
impossible de la reproduire exactement en latin. Il est vrai que des formules lati-
nes, par exemple celles des serments échangés de nonveau entre Louis et Charles
en 860, présentent des traits fort semblables à ceux du texte qu'on vient de
lire; mais ces formules sout calquées sur le roman, précisément comme ce texte.
L'emploi de l'adverbe sic en téte de la proposition principale du premier serment,
après les propositions motivantes ou conditionnelles du début, sic salvaho, est
tont à faifc roman, et ne se présente pas dans les actes latins semblables. Si d'atitre
part on trouve quelque vraisemblance à regarder Nitbard comme l'auteur des for-
mules, il les aura rédigées au point de vue de Charles; il aura dono fait d'abord
celle du serment que devait prononcer Louis, et il l'aura faite aussi précise que
possible; le texte aUemand, destine à étre prononcé par Charles, n'aura été qu'une
traduction, exéeutée peut-étre par un autre que Nithard. L'objection de Diez est que
dans un passage le texte allemand est supérieur au francais; cela est vrai, mais ne
proiive rien, le texte francais, comme nous le verrons, étant gravement altère à
cet endroit. Je regarde aussi comme due au copiste l'omission de l'article , lequel
n'avait d'ailleurs lieu d'ètre exprimé qu'une fois. Enfin je ne trouve pas que le texte
francais se rapproche du latin de manière à se faire reconnaìtre comme en étant
traduit. Je crois donc que le texte allemand est une traduction de l'originai francais,
et comme tei il pourra étre d'un certain secours à l'iuterprètation. Je le donne ici,
d'après les dernières resti tutions de la oriti que.
In Godes niinna ind in thes christianes Iblches ind unser bedhero.gchaUnissi, l'ou thosemo
dage irammordes , so fram so iiiir Got gewizci indi mahd furgibit, so lialdih thesan minan
))ruodher, soso man mit relito sinau bruodher scal, in tliiu thaz or mig so sama duo, indi mit
Ludhcren in nohlieinin tliing ne gegango, the minan willon imo co scadlìon werdhen.
— 87 -
II.
Oba Karl tlien eid, tlien er siuemo bruodher Ludhuwige gesitor, geleistit, indi Ludhuwig
min herro then er imo gesuor fbrbrihliit , ob ib. inan es irwenden ne mag , noli ib nob tlioro
nohhein, then ih es irwenden mag, widhar Karle imo ce foUnsti ne wirdhit.
Le ms. présente quelqnes lecons fautives qu'il n'est pas inutile de relever:
I. 1 gealtnissi, 2 niadh, tesan^ 3 s. hrulier, so soma, 4 hiÀeren, uuerhen; II. 2 forbrihcliit.
En ontre les mots sont conpés de facon à prouver que le copiste n'entendait absolu-
ment rien à ce qu'il transcrivait. Dans ce.s conditious, il aurait au moins dù copier
avec line fidélité servile, et huit fautes en quiuze lignes ne témoignent pas en
faveur de son attention. Il ne faut donc pas nous étonuer s'il se rencontre égale-
ment des fautes dans le texte roman. Toutefois les conditions sont ici dififérentes.
Le copiste était sùrement Fraucais, car d'une part il n'entendait pas l'allemand,
d'autre part il a transcrit Nitliard, partisan du roi de France, et Flodoard, liisto-
rien d'un intérét exclusivement national. Aussi paraìt-il avoir généralement bien
compris le texte roman des Serments. Ce texte, en roman aussi bien qu'en allemand,
devait ètra écrit sans séparationde mots; or l'espace entro deux motsromans est sou-
vent omis, comme il arriva d'ailleurs dans la latin, mais les syllabes d'un méme
mot ne sont pas séparées à tort, comme dans le texte allemand, sauf pour ad iudha
cad Imna, et on trouve quelques exemples du méme genra dans le texte latin. Il y a
cependant des fautes, comme lodhuuigs pour ìodlnamigs, probablement suo pour sua,
et certainement lostanit. Enfin l'écrivain s'est corrige: d'abord las daux fois où il a
écrit le mot aiudlia; la première fois il avait mis, sous l'inflixence du latin, un d da
trop (adiudha), qu'il a ensuite exponctué, c'est à dire supprimé en placant un point
au dessous; ' la seconde fois il avait oublié le d qui appartieni réeUamant au mot
(aiuha), et il l'a rétabli; enfin, à la 2" ligne du premier texte, il avait d'abord écrit
en, dont il a fait in. Cotte troisième correction est fort intéressante: elle montra que
ce copista, malgré des distractions, s'efforcait de copier exactement ce qu'il avait
sous les yeux. Elle nous fait voir en outre combien les ckances d'une trauscriptiou
infidèle étaiant plus grandes ici que pour le texte allemand : en copiant ce dernier,
qu'il ne comprenait pas, le scriba ne risquait que d'omettre ou da mal lire des lettres;
mais pour le francais il était sujet à deux influences perturbatrices. D'une part, le
francais de Nithard est si voisin du latin, seule langue habituellement écrite, qu'il
etait tout naturai de l'en rapprocher encore; c'est ce qu'avait déjà fait sans doute
le premier rédacteur des formules et ce que devait faire le copiste: c'est à catte in-
' Voy. SUI- les procédés divers employés à cet effet par le copis*-^ les observations de Brakelmarm.
fluence qu'il faut attribuer les formes nunquam, 1,7; Karlus, II, 2; non, II, 3, sans
parler des abréviations, employées en latin avec une valetir autre que celle qu'elles
doivent avoir en francais. D'autre part, en centcinquante aus, le francais s'était
développé, et en méme temps la traditiou orthograpliique remontant à l'epoque mé-
rovingienne, que représentait le texte originai des Serments, avait tout à fait
disparu. De là certaines hésitations et contradictions : la plus sùre porte sur le mot
in, que le scribe, coniprenant bien le seus, avait note en, comme on prouoncait
et écrivait de son temps, et qu'il a ensuite corrige en in, pour se conformer à l'ori-
ginai, qui le donne six autres fois; on peut peut-étre ranger dans la méme classe io
à coté de eo, Karle à coté de Karlo , fradre à còte de fradra, et méme non à còte de
min. D'aiUem-s, s'il a généralement compris son texte, le copiste ne s'est pas piqué
de l'enteudre partout: de suo part II, 2, en est un indice, et nous poiivons afiirmer
que «0)1 lostanit II, 2, lui était aussi iuintelligible qu'à nous. Enfin, à ces diverses
oauses d'erreurs, il faut peut-étre ajouter les intermédiaires possibles entro l'originai
et la copie, postérieure d'au moins un siede et demi ; cependant la fidélité generale
est si grande, notamment dans le texte allemand, que je suis porte à croii'e notre
texte directement transcrit sur l'autographe de Nitbard ou l'exemplaire exécuté
sous ses yeux.
Je donne d'abord la reproductiou absolument diplomatique, ligue pour Hgne,
mot pour mot, du texte tei qu'il est dans le manuscrit. En la comparant au fac-simiié,
le lecteiu: pourra lire ce deruier sans aucuue peine.
1. Pro dò amur & pxpiau poblo & uròcòinun
2. saluameut. dist di (fn auaut: inquantds
3. sauir & podir medunat. sisaluaraieo
4. cist meon fradre karlo. & in ad iudba
5. & in cad huna cosa, sioù om p dreit son
6. fradra saluar dift. Ino quid il mialtre
7. si faz&. Et abludher nul plaid nùquà
8. prindrai qui meon uol cist meon fradre
9. karle in damno sit.
II.
1. Silodlm
2. uigs sagramcnt. que son fradre karlo
.S. iurat conseruat. Et karlus meossendra
4. desuo partn lostanit. si ioreturnar non
5. lint pois, neio neneuls cui eo returuar
6. iiit pois, in nulla a iuha centra lodhu
7. uiiis nunli iuer.'
- 8y —
En voici maintenant une transcriptiou où j'ai introduit la juste sóparation des
mots, la distinction de «., * et «, j, la ponctuation et les capitales, mais sans rien
chau^er au texte méme là où il est fautif :
Pro Deo amur et prò Christian poblo et nostro commini
salvament, d'ist di in avant, in quant Deus
savir et podir me dunat, si salvarai eo
cist meon fradre Karlo, et in aiudha
et in cadhuna cosa, si com om per dreit son
fradra salvar dift, in o quid il mi altre
si fazet, et ab Ludher mal plaid nunquam
prindrai qui, meon voi, cist meon fradre
Karle in damno sit.
II.
Si Lodhu-
vigs sagrament que son fradre Karlo
jurat conservat , et Karlus meos sendra
de suo part non lo stanit, si io returnar non
l'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar
int pois in nulla aiudlia contra Lodhu-
wig nun li iu er.
Il faudrait avoir exposé l'étude grammaticale des deux textes pour en présen-
ter une forme rectifiée, rópondaut, autant que possible, à la forme qu'ils ont du
avoir dans la bouche de ceux qui les ont prononcés. C'est une tentativo qui trou-
vera sa place ailleiirs.
G. Paeis.
NOTES PALÉOGEAPHIQUES.
I, 1. LeMtulus plaoé sur uro se trouve rm peu en arrière de l'o , ce qn'on n'a pu reproduire typograpliiquement.
> 2. Aucune édition ne reproduit le point qui se Ut après saluament. — JX. Koschwitz (IS&l) voit un point sous l'è
de eti et un i au dessus; mais sur le procède employé par le soribe, voy. Brakelmann, L e, p. 91. — Le
doublé accent dont M. Koschwitz munit Va d'auant n'est pas dans le mauuscrit.
. 6. Koschivitz et Stengel lisent dùt, mais en comparant ce mot à dist de la 1. 2 et à cist des 1. 4 et 8, il me semble
bien voir derrière la baste de 1'/ le petit trait droit qui distingue cette lettre de Vs ; of. P. Meyer, Roma-
nia, rv, 455.
n, 4. M. Stengel voit sous Vs de lostanit \m. point qui l'annulerait. L'ex imen attenti!' du ms., que j'ai fait aveo
M. Omont , ne confirme pas cette lectitre.
NOTIZIA
DI UN CODICETTO FIORENTINO DI RICORDI
SCRITTO IN VOLGARE NEL SECOLO XIII.
(R. Archivio di Stato di Firenze. Diplomatico, prov. Biyallo, quail. membran. an. 1255-1290.)
Questo codicetto, che può annoverarsi tra i più antichi e preziosi monumenti
della nostra lingua , non è affatto ignoto agli studiosi : l' esaminò anni fa il compianto
prof. Napoleone Caix; poi l'hanno veduto anche altri; ma non so se ne sia stato mai
pubblicato nulla. Mi pare ora opportuno darne un'esatta notizia descrittiva per co-
modità degli studiosi futuri; avvertendo intanto che questo codicetto, finora mal
cucito e mal designato colla data del l'273, è stato oggi ricomposto e rilegato, e as-
segnategli le date degli anni 1255-1290, che sono le due estreme dei documenti che
vi si contengono.
È un bastardelle membranaceo, lungo 0,30, largo 0,11, di venti carte, divise in
due quaderni (I, carte 1-12; II, carte 13-20). La carta 13, che finora per isbaglio di
cucitura era la prima del libretto, è mutilata da capo e assai macchiata nel resto; da
questa, che contiene ricordi dell'anno 1273, erasi finora desunta la data indicativa
del codice.
La scrittura è di tre mani:
A, che incomincia a scrivere nel 1255.
B, che incomincia nel 1257 e seguita interpolatamente ad A fino in fondo.
C, di cui è un solo ricordo del 1290, inserito in uno spazio lasciato bianco
in fine della carta 8.
Si contengono in questo codicetto Ricordi di compre di terre nella corte di Pe-
troio nel Valdarno inferiore, e conteggi di dare e avere relativi alle dette compre
degli anni 1255-69, 1269-82, 1290. Il luogo più spesso nominato in questi Ricordi
è « Aliana de la Korte di Petroio in Grreti » ; quivi si fanno il maggior numero degli
acquisti ; e da più luoghi apparisce che li fosse l' abitazione dei compratori. Si no-
minano'pure Sovigliana, CoUegonzi, S. Donato in Greti, ed altri luoghi della valle
che si stende tra Cerreto Guidi e Empoli: ciò basterà per intendere che l' Agliana,
— 92 —
luogo principale di questo codicetto, non è già l' Agliaua del Montale Pistoiese, men-
zionata dal Eepetti, ma altro luogo omonimo del Valdarno fiorentino inferiore, non
registrato in quel classico Dizionario topografico della Toscana.
Tutti i Ricordi sono in volgare. Non appariscono mai in tutto il libretto i nomi
degli scriventi, che sono i compratori delle terre: ma molto precisamente è notato
in ciascun Ricordo il nome del venditore , la topografia del luogo comprato , la carta
notarile dell'acquisto, e il giorno in cui questa s' imbreviò. Le date sono espresse
generalmente a mese entrante e uscente; cioè in ordine diretto dal primo del mese
fino al 15, e in ordine inverso dall'ultimo del mese nella seconda quindicina; qual-
che volta sono nominate le calende, come dies tre anzi kaleiide magio (1255) ; dies qua-
tro anzi kalende agosto (1256) ec. ; e il Ricordo del 1290 ka la data del giorno del
mese al modo moderno.
Ecco ora com' è diviso il codicetto pagina per pagina :
a e. 1 « Quesste le chonpere del podere da Cliasalino ». Senza data: mano B.
E verosimile che questa pagina come guardia esterna del libretto fosse dapprima
lasciata in bianco , e che i Ricordi che ora vi si leggono vi siano stati scritti dopo.
Dico questo, perchè il principio della carta 1', come si, vedrà, ha tiitti i caratteri
d'un principio di libro; e perchè dai Ricordi contenuti a e. 14-14' si ricava che il
detto podere di Casalino fu comprato, nel 1273.
a e. 1' « Al nome di dio ame, ed aci'escimento di bene. MCCLv ». Mano A,
con Ricordi di questa mano per tutta la pagina. Ma nel margine superiore la mano B
ha aggiunto più tardi: « di quatro intrante aprile. »
a e. 2-8. Ricordi degli anni 1255-57: mano A.
a e. 8' Ricordi dell'anno 1257: mano A, aggiuntovi in basso dalla mano C il
Ricordo d'una compra fatta il 23 ottobi'e 1290, che è il più recente del libro.
a e. 9. Due Ricordi degli anni 1257 e 1258: mano A, con un'aggiunta interli-
neare di B nel primo Ricordo.
a e. 9'-10. Ricordi dell'anno 1259: mani A e B intercalate:
a e. lO'-ll. Ricordi degli anni 1269 e 1270: mano A.
a e. ll'-20'. Ricordi degli anni 1271-1282, scritti da B; se non che a e. 17'-18'
sono Ricordi dell'anno 1277, della mano A, con annotazioni intercalate di B.
A pie di quasi tutte le pagine del libretto sono le somme, scritte da B.
Ecco in fine un saggio delle partite;
a e. 5', au. 1255. (mano A):
Venturello e Guido f. Bonaiuti d'Agliana. Auén konperato da loro le due parti d'u pezo di
tera posta ne la kosta di Petroio a rinpetto a la kasa nostra e l'atro terzo si è di Kortinuova.
Fece la karta ser Rolenzo, ke s'inbi-euò dies dieoe osante novenbre. Dienne avere s. xx questo
die. § Demo a TureUo e a Guido s. xx i loro mano.
a e. 12', an. 1273. (mano B):
Auén chonperato da Manno Paghanelli un pezzo di terra possta ne la valle d'Aglana, kes-
siamo noi da le tre latora per la tera ke konperamo da Guido Konsigli, ke kosta s. xl, dies sette
- 93 —
usscente aghosto al settantatrè. Fece la karta sei- Tommaso : inbreuossi di settenbre al set-
tantati'è.
a e. 8', an. 1290 (mano C).
Nel MCCLxxxx a di xxilij d' ottobre abbiamo conperato da messer Aldobi-andino da Pistoia
l'ottavo del boscbo per non diviso, che da l'uno lato Vannello f. Boncristiaui da Suvigliana, e
dalle due latora le rede di messer CLavalcha e noi e dal terzo dal quarto.
Chostò Ib. vij. Avenne oharta per mano di ser Pelegrino di Boncristiano da Cliasalina, ohe
s'imbreuò di xxiiij ottobre nouanta.
Cesare Paoli.
POSTILLE ROMANZE.
Ad onorare l& memoria degli insigni cultori della scienza, quali furono i pro-
fessori Caix e Canello, rapiti nella promettente vigoria degli anni e degli studj,
vale di certo, più che lo sterile rimpianto, il mostrare d'aver tratto profitto dal-
l'opera loro e il confermare, attingendo in essa motivi e stimoli a niiove ricerclie,
che non omnes perierimt. In me , amico ed estimatore d' entrambi , svegliarono più
viva e tenace attenzione , com' era naturale, quelli fra i loro scritti svariati che sono
essenzialmente d'indole glottologica, del primo, cioè, il bel libro sulle 'Origini della
lingua poetica italiana, Firenze 1880', e del secondo il diligente studio sugli 'Allo-
tropi italiani' edito nel 3'^ tomo (285-419) àoìS! Archivio glottologico dell' Ascoli. Di
parecchie postille, che l'esame riflessivo di quelli scritti e le occasioni della scuola
mi suggerirono, comunico ora, come affrettato e modesto contributo a questo pio
volume, le due che, trascrivendo, si lascian racconciare men peggio nei limiti as-
segnati. Gli Dei Mani dei cari estinti gradiscano almeno l'intenzione!
A.U romanzo per o atono latino.
Il Caix nei §§ 51 e 67-71 dell' o. e. accoglie l'opinione tradizionale, che l'o lat.
protonico, specie al principio di parola, siasi talvolta espanso in cm nella zona pro-
venzale, nella gallo-italica e più nella veneta , nella meridionale italiana e soprat-
tutto nella sicula. Gli esempj addotti da lui tornano alle basi latine ole re olor
odor, occidere, cognoscere, lionor honestus, oliva, oriens. Orlon; e
r accennata divariazione appare, verbi gr citici, in aulens prov., ciuUre aulente delle
antiche poesie italiane, di fronte ad olire olente delle stesse poesie. Per legge fone-
tica, nel senso rigoroso della parola, non è giustificata cosiffatta espansione spo-
radica in nessuno degli idiomi neolatini: e quando l'Autore nel § 45, detto che
anche l' o atono di prima sillaba partecipa della generale tendenza all' a , soggiunge
ma in alcuni luoghi passa , con ciltercizione affatto speciale , nel dittongo au ', egli
— 96 —
constata e non spiega plinto la speciale alterazione; ne la spiegano gii autori cli'ei
cita. Infatti il Diez, Grammaire, I 366, all'espansione prov. riavvicina quella del-
l'ant. it. auccisa aulente e del lat. ausculari. L'Ascoli, Arch. glott. I {Saggi ladini),
a p. 505 testo e n. 2, parla di questa espansione in qualche ss. ladino, aulive aulif
allato a oliv uliv ecc.; e vede in aiiriane un ravvicinamento ad aur oro. Lo Schu-
CHABDT, Vokalismus d. vidgàrlateins , Il 303-4, riporta ess. latini in cui au sarebbe
per o e neW addenda del III voi., p. 263, ha ess. con au del prov. moderno.
Badando al ravvicinamento del Diez e agli ess., comecché non tutti sicuri,
riferiti dallo Schuchaedt, potrebbe ammettersi una continuità storica fra quel fe-
nomeno neolatino e il latino, parte arcaico, parte volgare, e allora se ne avrebbe
una specie di giustificazione. Infatti fra le fasi notissime, che il dittongo originario
au ebbe nella vita del latino (cfr. raudus roudus rodus rùdus), quella in cui
si restrinse ad ó, coesistente o prevalente alla fase intatta, fu la più stabile e la più
espansiva, specialmente nella lingua parlata. Dalla legittima successione dei suoni
au 0 (m), e più ancora dalla convivenza di essi in parecchie voci, potè ben prodursi
qualche scambio fallace , individuale o popolare, di o etimologico con au. L' esempio
solenne di questo equivoco fonetico è ausculum ausculari di Festo, Prisciano e
Placido di contro alla forma classica osculum ósculari: vi si riattaccano per
l'identica base radicale aureax auriga, aureae ==oreae, austia = ostia. La
base radicale è 5s oris, che viene eguagliata generalmente al neutro scr. às bocca
(«sa strumentale vedico col senso 'in cospetto, c-ora-m'), sostituito in qualche caso
dal tema ds-dn- (p. e. àsn-é dat) e nel linguaggio classico dal t. ds-jà- ; e la radice
sarà la stessa, onde venne il verbo sostantivo, sia che vi si legga il 'respirare', o
lo ' stare ', sia che vi si voglia fantasticare una storia ideologica più riposta. Non
si può mettere in dubbio che l'equazione indo-latina, a cui dà sostegno anche il
paleo-nordico ós, è appunto di quelle fatte per convincere gli increduli. Ciò non
toglie però che nel lat. aus- per ós- si possa vedere, più che uno scambio fonetico,
una confusione (jjars ijro parte o pars prò tota) coll'aus- di aus-culto aur-i-s
au-d-io, in quanto ós venne a dire tutta la faccia (e Prometeo ós homini sublime
dedit, Ovidio, Metani., I 85). Ed è anche possibile che nel prisco latino sia esistito
un altro aus- ragguagliabile all'Esichiano ao?' /tvsùaa (cfr. avjjj-t aco, scr. vanii
forse per *{a)v-d-mi soffio spiro respiro, e i greco-lat. aura aér): questo neutro
*av-es- 'soffio, spiracelo labiale' ci spiegherebbe per la facile coincidenza con
5s le suddette figure divariate ed anche, coli' intermezzo del basso-lat. ustiariis,
tutte le forme romanze del tipo ital. uscio (cfr. tutto e le figure italiche tonto- tòto-
tuto- dalla base tau-to-). Checché si giudichi di questo tentativo di etimologia
scientifica , nessuno negherà che in altri ess., in cui si tratta persino di o breve ,
abbiamo dei tentativi o raccostamenti di etimologia popolare, come in aurichal-
cum (aericalco) = òp£t-/_aXvto<;, dove risonò aurum (aér), in Bellausus = Bel-
losa, Castaurina =Oastorina, ove influì au sus e taurus, in raustra =
rostra, dove giocò l'analogia di plaustra plostra, claustrum clostrum etc,
e come in austrum per ostrum, dove si pensò ad auster: e in altri del volgar
— 97 —
latino Vau. pare, o tal quale V an neolatino (aucire DC), o una falsa grafia per
0 dovuta all'ingenua pretesa dei semidotti, che sapevano risanare in aurum au-
ricula ecc. i popolani orum orici a ecc. Insomma non è punto solido il ter-
reno, siU. quale potremmo cercare i fondamenti storici dell'eccezionale espansione
romanza, di cui ci occupiamo.
Tornando pertanto al fenomeno specificamente neolatino, non ci è dato nem-
meno ricorrere ad una analogia esercitata dai riflessi dell' o tonico latino. È su-
perfluo ricordare le risposte all' 6; né alcuno vorrà pensare, per ciò che concerne le
continuazioni di Ó, a forme manifestamente analogiche come, p. e., dao stao del-
l' antico italiano , dau estau(c) del prov. , dau stau del rumeno (sul tipo vno vau{c)
= vado ecc.). L'unica cosa che giova rilevare è la facilità, con cui l'o, special-
mente lungo o in posizione, tonico od atono, può oscurarsi in io non solo in Pro-
venza , in Normandia e altrove , ma anche in più regioni d' Italia. Così per l' S atono
di prima sillaba la risposta normale e generale degli idiomi romanzi secondo le
leggi fonetiche è o u, eccezionalmente a per la nota tendenza a tal suono delle
vocali protoniche; la qual tendenza, benché siasi estesa ove più, ove meno, e,
p. e., abbia avuto scarso sviluppo in Grallia, ci spiega per l' atonia indotta dalla
proclisi le forme prov. vas^vers ves versus, damnideus accanto a domnideus e il frc.
dame (passato anche in prov. ital. ecc.) domina.
Ora, se applichiamo queste risultanze al caso nostro e appunto agli ess. addotti
dal Caix, vediamo che le risposte italiane rigorosamente legittime delle citate basi
latine sono le segg. : olire odore, occidere senese, uccidere comun toscano, conoscere,
onore onesto, oliva sen., uliva com. tose, oriente, Orione; e sparsamente nei volgari
toscani e nei meridionali, quindi anche nelle antiche poesie, alente alore {udore e
udore chianino-siculo) , accidere merid., canoscere canoscenza s-canoscente id., anore anesto
chiauino-siculo (ove pur si sente unore unestó), aliva, ariente siculo (cfr. offendo
argoglio ecc. anch' essi comuni al chianino e al siciliano). Insieme a queste forme
quasi tutte esemplate nei vecchi rimatori occorrono , e per regola non si riscontrano
più nei viventi dialetti, anche quelle, di cui discorriamo, con au ao, giudicate in
gran parte di fondo meridionale, cioè: ardire aidente aidore audore aolimento ecc.,
aucidere ucciso ecc., caiinoscere cuonoscente, aunore uunesto aonore uonesto, auliva aoliva,^
auriente aoriente. Nel territorio gallico basta ricordare il v. frc. occire =: prov. aucir
e le forme con o u del frc. e delle varieté lectiones dei canzonieri occitanici, di fronte
alV aulens ricordato, ad Anrion che alterna con Orion, ai limosini haunoiir audoar
contro al comune (ìi)onor onrar dei trovatori ecc. (prov. mod. auhrur aucusion aiqn-
nion aidiv a eoe), per giudicare non molto dissimili da quelle italiane le condizioni
provenzali della divariazione in esame. La piccola divergenza da un canto si fonda
' Auliva f accanto ad aliva oliva uliva, è ancora vivo nel siculo (v. Trajna), e però cade il dubbio dell' Ascoli
1. e. in n. suU' esattezza del citato di Schuchardt ; il sostegno di aggliinstru '^aulja^tru olivastro luaò essere illusorio ,
percliè, come si dice alivaru olivarii V olivo, cosi potè dirsi ^aljastrti oleaster.
13
— 98 —
sul fatto accennato della minore tenacità che ebbe in Provenza l' inclinazione ad a
delle atone iniziali, sicché le varianti in « dei nostri ess. sembrano mancare; dal-
l' altro si spiega un certo predominio di au , ove le forme in o u furon divariate,
colla nota simpatia del prov. per quel dittongo au, raramente ao, non mai contratto
in 0, come sempre in frc, e che sostituì talora anche eo io atoni (Jaupart leopardus,
Daunis Dionysius ecc.).
La conclusione a cui voglio arrivare si è che, non potendosi spiegare le forme
divariate con au ao, né colla fedele trasmissione d'un fenomeno latino mal sicuro,
né colle normali leggi fonetiche degli idiomi neolatini, né con alterazioni analoghe
di particolari dialetti o di lingue estranee, come le germaniche, convien pensare a
un mero processo meccanico, ad una associazione, diciam così, mnemo -fonica, per
cui, ad es., dalle forme vive in più volgari italiani occiclo uccido accido venisse dalla
penna d'un poeta o sul labbro del popolo, fugacemente o permanentemente, una
forma contaminata aocido aucido (qui l' incremento vocalico dovea indurre dapprima
lo scempiamento del ce originario). La jjrefissione dell' a nel terreno italiano fu age-
volata, tacendo della solita tendenza all' a iniziale atono, per l'analogia delle tante
forme, quali aocchiare aoprare ecc., auggiare ausare ecc. = adoccJiiave aduggiare ecc.
(e invero il Mussafia riferiva ad adolens il prov. it. aidens aidente ecc.). Cosiffatti
compromessi, o immistioni, o concrezioni di due forme in una terza si possono
ammettere anche senza essere analogisti di proposito (cfr. Caix, Studj di etimologia
romanza; Firenze 1878, passim), e tanto più nell' arte bambina ed eclettica dei primi
rimatori, ondeggianti tra la lingita viva del loro paese e le reminiscenze latine e le
imitazioni d'altri capiscuola, o provenzali, o toscani. E nemmeno può far meraviglia
che qualcuno di questi prodotti si sia popolarizzato e generalizzato, incontrando in
tal caso le sòrti fonetiche dei tipi analoghi nei differenti territorj. Così aoliva auliva
da oliva uliva (diva, divenuto forma popolare nel mezzogiorno, incontrò anche lo
sviluppo fonico di ao au in avo avu, qual si ebbe in dvotro cdvudu (per autro caudo
= altro- cal'do-) napol.-sicil., e nei toscani cavolo cauli,- navolo naulo- Pav-
{Pag-)olo Paulo-; e così fu scritto e s'ode tuttora avoliva avidiva. Parimenti la forma
mista aucidere, fattasi più comune rielle antiche poesie con qualche influenza del
pfov. aucir, riuscì anche ad alcidere nei dialetti gallo-italici {alcidere alcir) e nel
fiorentino (cfr. aldace laide ecc. accanto ad audace laude lode ecc.); e con nuova
immistione, la quale suffraga a capello quella da me supposta, potè venirne, sul
tipo dei fior, aidtore gaioldere ecc. nati da aidore altare, gaud-{godere) galdere ecc., un
'''aulcidere, che spiega le varianti settentrionali olcidere olcir idcir. Nella zona veneta
poi la formola al ol {aid) si risolveva altresì in an on (cfr. colsa consa causa, polsar
poìisar pausare ecc.), onde le forme ancider ancir onqir; ed è quindi ragionevole
]' idea del Caix, che ancidere sia venuto al toscano dai poemi e romanzi cavallereschi
veneti. Osservo tuttavia, che l'importato ancidere non sarebbe riuscito a supplantar
quasi l'indigeno alcidere, se fosse stato repugnante al fonetismo toscano qualche
mutamento in n di l implicato; ma le antiche poesie e croniche toscane hanno
A»cide e Alcide (cfr. nel chianino Anceste amare inzare ecc. per Alcesfe alzare ecc.), e
99
mungere è da mulgere, pantano si riattacca probabilmente a palta (pieni, pauta),
montone è dal b. lat. niulton-(mutilus), benché v' abbia infinito montare, ecc.
II. — Grreggio, G-rezzo.
Il Canello in nna lettera compitissima sulle mie 'Note giottologiclie, I; Pa-
lermo 1882" notava, fra le altre cose, ette la congettura sull' allotropia f/revio greggio
grezzo da me accennata nell' annotazione della pag. 13, benché da più lati sedu-
cente, incappava in tre difficoltà: 1.'' che il senso speciale di greggio grezzo, oltre
d' essere estraneo alle altre lingue neolatine , non s' accordava punto con quello del
lat. gravis; 2.'' che 1' armonia delle continuazioni e derivazioni romanze delle basi
*Ievius *gra- grevius mostra nei significati e nelle varianti fonetiche certi di-
stacchi, i quali, per lo meno, dovrebbero essere spiegati; 3.''' che proponendo una
nuova etimologia sarebbe stato opportuno dir le ragioni, per cui rifiutavo quella
del Caix e la sua. Non intendo ora difendere quella che diedi come una ^probabilità
e non altro. Mi sia lecito tuttavia ricordare, quanto al primo appunto, che, p. e., il
nome fem. fra. grège 'seta greggia" può, a riscontro di rengréger 'aggravare' (v. frc.
aggréver), non essere un italianismo, e che certi usi latini di gravis non disdicono
alla significazione speciale, a cui giunse greggio grezzo. Infatti aes, argentum
grave significano rame, argento grezzo, non lavorato, non coniato"; e Forcellini
dice: qui aes rude intelligunt aeream laminavi.... impolitam ac rudem..., idque ajunt aes
grave aijpellari, nobiscum faciunt; e Servio ad Aen. VI 862 interpreta: aes grave,
idest in massis. Riguardo al secondo appunto, mi pare che 1' armonia tra le famiglie
di *levius (b. lat. leviare, prov. leujar) e di *gravius (b. lat. graviare), atte-
nuato per imitazione del precedente o per causa di composizione in *grevius
(prov. greujar) , risulti bastevolmente guardando all' insieme di questi ess. :
levio- : alleviare it., aliviar sp., lebiu sardo.
lego- : leggio -iero alleggiare ecc. it., leujer aleujar prov., léger alléger frc. ecc.
grevio- : grevio volg. tose, aggreviare it., greviu grevianza sic.
grego- '.greggio it. , agreujar prov., rengréger frc. (le forme prov. leujer aleujar
agreujar mantengono il vocalismo dei semplici leu gì-eu (anche rumeno)
levìs gravis; ma nel composto engres, onde l'antico it. ingresso, Vu
par fognato).
Dallo schema qui abbozzato non appajono dunque i distacchi oppostimi dal
Canello; e se leggio, ad es., non si sostenne o non ebbe la variante lezzo in Toscana,
si capisce senza stento, riflettendo alla concorrenza del più sviluppato leggiero
(alleggerire) e di lezzo, che venne a dir 1' opposto di olezzo. Così grevio non riiiscì a
— 100 —
soverchiare in Toscana il primitivo grave ;jreve, ne agr/reviare divariò sull'esem-
pio di alh(j(]iare = alleoiare, perchè aggreggiare significò 'attruppare , imbrancare",
e aggrezzare diceva 'agghiadare, intirizzire"; ma fu tosto vitale l'allotropo greggio
grezzo, quando vi si fissò una particolare significazione. Del resto correr dietro ad
un' armonia assoluta in simili divariazioni è proprio un perder di vista le condi-
zioni saltuarie e spesso capricciose del lessico di qualsiasi lingua.
Il terzo appunto è più giusto; e, non avendo creduto conveniente in una breve
annotazione dilungarmi a dire perchè non mi fossi acquetato ai tentativi etimolo-
gici dei miei chiarissimi colleglli , lo farò qui colla massima concisione. Il Canello
adunque nella bella rassegna citata degli 'Allotropi italiani", a p. 348, sotto la
formola GJ in gg zz ha: 'Grregio (cfr. e-grègius): grezzo grossolano, e si dice an-
' che degli uomini ; e greggio non lavorato , solo delle cose materiali. Ad una base
' materialmente identica risale anche il sost. greggia are. greggio armento. L' e per e
' da un é lat. sarà dovuto al suono palatile che segue, in grezzo all' analogia di greg-
' gio.' Anzitutto giova rilevare alcune inesattezze, che in parte son di certo meri sbagli
tipografici. La formola vuole zz e non zz, e infatti è stampato grezzo (leggi grezzo)
in nota a pag. 388; del pari ciò che è detto dell' e indotto dal suono palatile mostra
che greggio, inaudito in Toscana, è per errore in luogo di greggio. Non direi nem-
meno che greggia greggio sostantivi risalgano alla base che è in *gregio e-grègius,
cioè ad un derivato con -io-, dacché le specificazioni popolari di nomi di 3" con «
fem., 0 masch., son cosi ovvie da capirsi benissimo un gregge m. e anche f. ^gregj-
fattosi altresì il greggi-o e la greggi-a. Quanto ai significati, senza negare che greggio
si dica di preferenza parlando di còse materiali, debbo notare che, tutto sommato,
non e' è fra greggio e grezzo negli usi letterari ^ nel toscano (cfr. Fanfani s. v.) una
intima differenza, ma piuttosto una libera scelta, o individuale od occasionale. Ve-
nendo alla sostanza dell' etimo, si chiede imprima, se il Canello alluda ad un
*grég-iu-s indipendente, o ad una estrazione seriore popolana dal composto
é-grèg-iu-s. Ammettere il primo caso sarà difficile, non tanto perchè manca quel-
1' aggettivo nel lessico latino, quanto perchè 1' ampliazione per -io- è affatto estranea
a tutti i derivati (cfr. grèg-à-re ad- sé- con- ecc., gregàlis gregàrius grega-
tim ecc.), salvo appunto §-grég-iu-s, che non si può citare a pruova senza cadere
in un circolo vizioso. Né è più facile supporre il secondo caso, poiché, a tacer dello
stento d' una significazione antitetica ottenuta col sopprimere la prep. è-, vi si op-
pone il fatto, garentito anche dall'atteggiamento fonetico, che egregio non fu mai
voce popolare negli idiomi neolatini su su fino al latino volgare. Dal lato concet-
tuale è pur notevole, che e-gregius (Exgregiae in Festo, che spiega 'e grege
lectus, ' s^aipsTo?) sia tosto passato e per sempre al senso metaforico ' insigne per
virtù, per meriti, per grado", talché venne più tardi adoprato come titolo, mentre
greggio non dice mai nel senso proprio ' spettante al gregge, comune ai più ecc., "
e non si contrappone nel senso traslato all' aggettivo generatore od affine.
L'anteriore etimologia del Caix è al N.° 39 dei citati ' Studj d' etim. rom., " dove
è data per primitiva la forma grezzo e vien riferita ad agrestis. Non insisterò suUa
— 101 —
convenienza dei trapassi significativi, né sulla giustezza di dar greggio in Toscana
come succedaneo di grezzo: ammetterò, con un po' di buona volontà, che la crasi del-
l'articolo femminile abbia prodotto l'aferesi dell' « iniziale, e che l'alterazione av-
veniita in *grest'„- sia passata nella solita variante aggettiva di 1* e 2*. Ma
il mutamento di st in z, e per di più sonoro (tacendo del z spagn. affatto particolare),
è uno scoglio, clie non ha potuto girare nemmeno il Caix coi due o tre ess., a cui
ricorre. Intanto ognuno conosce che il nesso lat. st, specie mediano avanti le atone
e i, o resiste nel toscano, o per assibilamento di j (i palatale) giunge talora a sé:
angoscia Itosela tiscio ecc. angustia postea ostium (ustiarius) ecc. Della .supposta
alterazione eccezionale sarebbero ess. tipici inzigare, che il Diez, Gramm., I 214,
eguaglia a instigare, e zambecco, che il Càix eguaglia a stambecco. Noto imprima,
circa quest'ultima equazione, che lo st è iniziale avanti vocal forte: in secondo
luogo, che non è sempre prudente cercar ripruove di fatti fonetici d'una data lin-
gua in voci esotiche , ove si frammette spesso l' arbitrio dell' etimologia popolare o
dell'erronea associazione; e per ultimo, che, in armonia per vero della qualità del
nesso voluto originario, è z sordo (mentre in grezzo è z) quello che s'ode nell'are-
tino 'nzigare e tal poteva essere in zambecco (cosi in Fanfani, che ha però zambecch'ino)
'navicella, filuca,' se è la voce che ho sentito a Piombino pronunziare sam6ecco. Nel
significato suo proprio dicono anche i colti Toscani stambecco (e Fanfani-Eigutini
registrano la voce, come di lingua parlata); ma sarà parola venuta dall'Alta Italia,
ove soltanto è conosciuta la capra selvaggia (Ibice, Capra ibex, Steinbock ecc., delle
Alpi, dei Pirenei e del Tauro in Asia); e se in Toscana fu detto in passato anche
zambecco, forse vi si volle sentire la zuììijju, lo zampetto, per la fama dell' agilità a
zebellare (saltellare) della rupicapra alpina. Nulla osta però che si riportino alle due
varianti così pareggiate, per la somiglianza delle qualità, stambecchino 'arciere, fan-
taccino nel 300 ' {stamhecchini anche le armi e arnesi di esso), e stambecco zambecco
nel senso di nave leggiera; ma sciabecco (jabeque spg., cliébec frc, schebecke ted., xebec
ingl. ecc.), forma toscana ancor viva in tal senso , permette di pensare a un radicale
diverso (arabo? o il sab.... di sabulum saburra ecc.? allora starebbe sa{m)becco
[sciabecco] a £a(TO)iecco come sabbia a zaoorrd); e stambecco, che si risente qua e là, può
esser ringiovanito per allusione a steam-boat, steamer ecc. Quanto a inzigare, mi soccorre
la conoscenza dei volgari della mia bassa Toscana per ricordare che in Valdichiana
si dice 2c\ic[xe izzigare azzigare, che questi verbi significano non solo 'mettere al punto,
spingere alla zuffa, ' ma talora riflessivamente ' venire alle mani, azzuffarsi ' (« Come
la lucilia [scintilla, favilla] /a' wyam^jare 'l forno, Accosì li 'zzigò, che s' azzigòrno » da
un Bruscello del contado poHziano), e che in certi modi di dire quasi si confondono
con inizzare adizzare aizzare. Il che, se non erro , ci conduce a dubitare dell' equazione
del Diez inzigare = insti g3iV e, sia che torniamo con lui ad izza ecc. di stirpe ger-
manica {Etym. Vórterb., IV 40), sia che nei nostri verbi supponiam commisti alcuni
avanzi di inicere (manus) od *ict-i-are. In ogni modo, anche se si volesse
concedere la eccezionale mutazione voluta dal Caix in (a)grestis, *(a)grestius,
non potremmo non sorprenderci, che in tutto il tesoro della lingua e dei dialetti
— 102 —
italiani, omettendo gK altri idiomi romanzi, non resti veruna traccia della muta-
zione normale, qual'è, p. e., in crosciare = got. krustian o nel tose, bescio besso *bé-
stius {biscia, biscio àcaro, se sono da béstia, accennano coU't a origine meridio-
nale o sicula), e che l'unica forma veramente popolana, poiché agreste è letteraria,
cioè l'agg. tose, agresto -a, sost. V agresto 'uva immatiira,' si ampli, ma con altra
specifica alterazione, nel chianino agrèskjo = ^agrestio (v. le citate mie ' Note, " p. 14).
F. G. Fumi.
DEE EINFLUSS DES LA TEINISCHEN
AUF DIE ALBANESrSCHE FORMENLEHRE.
Dass ich in einer Sammlung von Arbeiten, welche bestimmt ist das Andenken
zweier hervorragender , der Wissenscliaft viel zu frtìh eutrissener Verfcreter der ro-
manischen Philologie zu ehren, mir erlaube Fragen der albanesischen Grammatik
zur Spraohe zu bringen, wird keinen in Erstaunen setzen, der mit dem eigentiim-
lichen Zustande der albanesischen Spraohe einigermassen bekannt ist. Die Bezie-
hungen des Albanesischen zu den neulateinischen Sprachen sind derartige dass
Schuchardt bereits 1868 den Satz niederschreiben konnte: 'Die Bewohner Illyriens
sind dem Schicksal ihrer nordlichen Stammesverwandten romanisiert zu werden
nur mit knapper Mtìhe entronnen ' (Vocalismus III 47). Freilich batte kurz vorher
Herr Miklosich noch gemeint, dass die Aufnahme zaklreicher uud auch durcb ihre
Qualitàt besonders merkwiirdiger lateinischer Worte in den Sprachschatz der Schki-
petaren die einzige Wirkung der romischen Colonisation in diesen Gegenden gewesen
sei: ' die romischen Niederlassungen an der Ostkliste des adriatischen Meeres schei-
nen nicht so zahlreich gewesen zu sein, um den Autochthonen ròmische Sprache
aufzudringen: das sprachiiche Eesultat jener Niederlassungen besclirànkte sich viel-
mehr auf die Bereicherung des Sprachschatzes der Eingeborenen mit einer aller-
dings nicht unbedeutenden Anzahl ròmischer Worte, wobei die grammatische
Form ihrer Sprache unberlihrt blieb' (Die slavischen Elemente im Rumunischen
S. 4). Ein genaueres Studium der albanesischen Grammatik lasst es nothwendig
erscheinen diese Anschauung von der Ausdelinung des romischen Einflusses
wesentlich zu modificieren. Und in diesem Sinne habe ich mich 1883 uber das
Verhaltniss des Albanesischen zum Lateinischen in dieser Weise ausgesprochen:
' Es ist nicht zweifelhaft, dass die albanesische Sprache um ein Haar der Eoma-
nisirung ganzlic^^rlegen wàre, nicht anders wie das Keltische in Frankreich.
Nur mit schwerer Schadigung seines Laut-, "Wort- und Formenbestandes ist
es aus dieser Periode hervorgegangen. Nicht nur, dass eine grosse Meuge la-
— lOi —
teiuischer Lehnworter alte albauesische Bezeiclinungen ftìr immer vercTrtingt hat,
selbst flir Begriffe, wo sonst fremder Einfluss gewohnlicla machtlos ist. Aucli
romanische Lautneigungen haben zahlreich den alten Formvorrat alteriert, imd
selbst die Beugung der Wòrter ist nicht ganz unberiihrt geblieben von romischer
GewohnlLeit. ' (Ùber Sprache imd Literatur der Albanesen, in der Zeitsclirift ' Nord
iind Sud ' XXIV 225).
Die folgenden ZeUen versuchen einen knrzen Ueberblick tiber dasjenige zìi
geben, was, wie mir scheint, in der albanesischeu Grammatik atif romanischen
Einfluss zuriickgefulirt werden muss. Vom albanesischen Lexikon sehe ich hiebei
im Grossen und Ganzen ab: Herr Miklosich hat bekanntlich eine reichhaltige
Zusammenstellung romanischer Lehnworter im Albanesischen gegeben, und wenn
seine Liste auoh weit davon entfernt ist vollsfcandig zu sein (Schuchardt und ich
haben gelegentlich schon manchen Nachtrag dazu geliefert' , so geniigt sie dodi
um die Ausdehnung des lateinischen Einflusses auf diesem Gebiete vor Augen zu
ftihren.
In der Flexion des Nomens habe ich im ersteu Hefte meiner 'Albanesischen
Studien' ("Wien 1883) eine'lateiuische Form nachgewiesen , namlich die Pluralbil-
dung der M'asculina auf -*. Es scheint, dass die echt albanesische Endung der manii-
lichen Themen -e gewesen sei, was dem -O'. des Griechischeu , dem -ai des Nordeuro-
paischen entspricht: -l dagegen ist aus dem Lateinischen eingedrungen. Man hat
sich diesen Vorgang natiirlich so zu denken, dass zunachst nur lateinische "Worter
von den Albanesen mit dieser Pluralendung gesprochen wurden : JìUi ' die Fei-
gen' == lat. fid^ von^A;= lat. ficus. Danach bildete man z. B. auch idki 'die "Wolfe'
von dem eiuheimischen Worte vXh 'der Wolf. ' Es gereicht mir zur Freude, dass
diese Erklàrung die Zustimmuug von Schuchardt gefunden hat (Slawo-Deiatsches
und Slawo-Italienisches , S. 8).
Der Declination des Nomens im iilbanesischen gibt bekanntlich, ebenso wie
im iiumanischen, der Artikel ein sehr eigentiìmliches Geprage. Man hat die
Gebrauchsweisen des albanesischen und des rumànischen Artikels schon mehrfach
einer Vergleichung unterzogen: ich nenne ausser den bekannten Abhandlun-
gen der Herren Hasdeu (im Archivio glottologico III 420-441 und in den Càrtile
poporane ale Romànilor S. 609-687) und Cihac (in Boehmer's Eomanischen
Studien IV 431 ff.) die Abhandlung des Herrn Michael Schuster 'Der bestitnmte
Artikel im Rumànischen und im Albanesischen ' im Programme des Gymna-
siiims in Hermannstadt 1883. Dagegen hat man noch niemals die Frage aufge-
worfen, ob der albanesische Artikel mit dem rumànischen nicht auch f or meli
identisch sein kònne, d. h. auf lateinisches 'die zurilckgefiihrt werden dùrfe. Der
Parallelismus der Nominative mit dem bestiramten Artikel im Rumànischen und
im Albanesischen ist allerdings ein ganz ùberraschender , besonders wenn man
in Erwagung zieht, dass das -l der mit dem Artikel versehenen Nominative auf
-ul nur historische Orthographie ist, in der gesprochenen Volkssprache dagegen
vollig verstumnit ist: vgl. Schuster a. a. 0. S. 3 und Obédénare, ' L'article
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dans la langue ronmaine ' iu der Revue des langues romanes 1884 S. 139. Man
vergleiche :
rumanisch
aniik
' Freund ',
amiku
(geschrieben amikuT) ' der Freund
albanesisch
mìk
' Freund \
miku
' der Freund '
rum.
òiize
' Lijjpe ',
huza
' die Lippe '
alb.
Imze
' Lippe ',
hu.za
' die Lippe '
rum.
muiere
' Frau ',
muierea
' die Frau '
alb.
mise
'junge Frau\
nuseja
' die junge Frau '
folje ' Nest', folj^n ' das Nest' Rada Grammat. p. 26.
In rum. amikìi ist von dem Artikel lat. iUe keine Spur mehr iibrig, denn -/(.
ist der Auslaiit des Stammes , der vor dem -l sich erhalteu batte und nun seltsamer-
weise dazu gekommen ist gegeniiber dem eigentlicb damit identisehen amik als
Artikel zìi fungieren. Dasselbe ware der Fall, wenn wir auf alb. miku dieselbe
Erklarung anwendeten. Indessen darf nicht verscbwiegen werden, dass die Ueber-
einstimmung bei naberer Betrachtung aufhort eine so frappante zu sein. Im Alba-
nesiscben fuugiert -?« als Artikel nur bei den Stàmmen auf-fc, ferner bei den nicht
sehr zablreichen auf -a, -e und -i: ka 'Ochs' kau 'der Oobs', Se 'Erde ' 3eu 'die
Erde ', si ' Eegen ' sìic ' der Regen '. Die iibrigen haben -i als Artikel. Man kònnte
versucbt sein diesen Unterschied zwisclien -u und -i als Artikel mit der verschie-
d.enen Behandlung des lat. iUe im Rumanischen zu vergleichen , die dasselbe erfàbrt,
je nachdem es an unbestimmte Nominative auf -ii oder an solehe auf -e tritt: ui-sit
(aus ursul) ' der Bar ', aber cdnele , gesprochen canile ' der Hund ', von cane ' Hund '.
Dann ware alb. -i auch zunacbst an Stammen aitf ursprlinglicli -i oder -e erwach-
sen, z. B. ken aus lat. canem, und keni ' der Hund' ware unmittelbar =rum. canile,
nur dass im Albanesischen das -le aiuoli hier geschwiinden ware. Dieser so entstan-
dene Unterscliied ware dann in der historisch berechtigten Weise nicbt festgebalten
worden, sondern in einer Weise verwendet worden, die liauptsaolilich durch lautphy-
siologische Rlicksicliten bestimmt wurde. Indessen lasst die Rllcksiclitnahme auf
eine andere Ersobeinung der albanesischen Flexionslehre noch eine andere Erkla-
rung als moglich erscheinen. In der dritten Person Singular des erzahlenden
Praeteritums begegnet uns derselbe "Wechsel zwischen -i und -u und zwar ganz
unter den nàmlichen Bedingungen. Wir fìnden dort l'ioi 'ev band' von l'if} 'icli
binde', aber lagu er benetzte' von l'ak ich benetze'; und ebenso unter den vocaHscli
auslautenden Stammen kenclol 'er sang' gegeniiber von Ucou'qy weinte', /sjw 'er
wischte ab', geJieu'ex betrog'. Wie welter unten zur Sprache kommen wird, ist es
wahrscheinlich, dass Formen wie Jcendoi ' ev sang' aus lateinischem cantavit gera-
dezu entlehnt sind. Demnach hatten wir in der Lautfolge -vi nach vorhergehendem
-0- = lat -a- das -v- geschwunden; in ureti 'er schauderte' = lat. *1iorrevit fiir hor-
ridt, in dremiu, 'er nickte ein' = lat. donnivit wie nach -a- (z. B. in kau 'er weinte")
ist dagegen die Lautfolge -vi in -u tibergegangen, wol auf dem Wege -«t -m, wofiir
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man vielleiclit die von Lecce ilberlieferte Form serhea aufiiliren darf. ' Mit Bezug
anf die verschiedene Behandlung des perfectischen -vit kann m.an an ital. amau
amò atis lat. amav it nehen vendè aus * v end :vit, partì a,u.s par t tv It erinnern. Erwàgt
man min, dass bei mehreren Nominalstammen auf -a sicli dar ursprùngliche
Ausgang -nv walarsclieinlicli maolien lasst {tra 'Balken' aus lat. trabem ital. trave; sica
skla 'Grieclie" aus sclavus; ka 'Ochs' vgl. venetisch ceva 'Kuh') und dass die auf -e
und -i etymologisch meist dunkel sind (fiir idiii kann man an lat. oliva erinnern) ,
so erscheint es nicht uumoglich, dass auch das « des Ai-tikels aus -ni -vi eutstauden
ist. Danach. batte ein trahem illam (so!) ein * travi = trau ergeben, ein amicumi ilhim
ein *mihui = miku; die Walilverwandtscbaft des k zum u gab liier allerdings auch.
scbliesslich den Ausschlag, denn ein statum illum wurde zu stati.
Die lautlicbe Herleitung von -i aus Uh oder illi, das zunachst zu ile ije oder
ili iji werden musste, macht keine Schwierigkeiten ; ebeuso geht ja auf {i)lla la
zuriick und hat als einsilbiges Wort dem Uebergang von auslautendem a in e
ebenso widerstanden wie im Eumanischen. Trotzdem bin ich weit davon entfernt
den Ursprung des Artikels i {ic) a aus ille illa fiir sicher bewiesen auszugeben. Die
Annabme verdankt einem Gresprache mit Schuchardt ibre Anregung. Fiir die mit
s- nnd t- beginnenden Formen des Artikels wird man an der Erklarung aus altem
albanesiscbem Spracbgut festbalten mùssen. Hiebei bietet sicli fiir den neutralen
und pluralisclien Artikel te zunachst der bulgariscbe Artikel zum Vergleicb dar.
Und icli -will niclit ver soli weigen, dass man bei i {j)a leicbt versucbt sein kònnte
an den Pronominalstamm ja- zu denken, der in den baltiscb-slawisclien Spracben
bekanntlicb zur Bildung des bestimmten Adjectivums verwendet wird, ein Ge-
brauch, den man auch in den eranischen Sprachen, ja vereinzelt im vedischen
Sanskrit wiedererkannt hat.
Das Gebiet der Pronomina, in welches ja auch der Artikel gehòrt, zahlt in
alien indogermanischen Sprachen zu den am meisten dunklen und verwickelten
und stellt liberali diejenigen, welche es mit einer rigorosen Behandlung der Laut-
gesetze Ernst nehmen, auf eine harte Probe. Ich bin weit davon entfernt alle Rat-
sei, welche die albanesischen Pronomina aufgeben, borei ts gelost zu haben, kann
mich aber doch der Ansicht nicht verschliessen, dass auch hier der lateinische Eiu-
fluss nicht ganz machtlos gewesen ist. So liegt es nahe in dem anlautenden a- von
ai ari 'er', Acc. até 'ihn', Plur. atd 'sie', atip-e 'ihrer", 'ihnen', Femin. ajó 'sie",
Plural ató 'sia' dasselbe Element zu er'kennen, das im rumànischen atàél 'ille',
aisést 'hic', spanischem aquese aquel 'jener", aqueste 'dieser', portugiesischem aquelle
'jener', aqueste 'dieser', provenzalischem aquel aquest vorliegt iind, soweit ich sehe,
eine befriedigende Erklarung noch nicht gefunden hat. Dtìrfen wir auch hier das
-i -n von, «e au als lateinisches ille auffassen, so werden wir in dem 6 der weiblichen
Formen ajó ató einen deiktischen Zusatz (aus lat. hàc'ì) erkenneu diirfen, wie er
' In den geginclien Mundarten sohcint in der e- Conjugatiou -i das gewohnliche zu sein: Rossi Sci, Javnik
lùejt Juugg kzei; doch fiigt der letztre bei ' alcuni aggiungono k' p. 57.
— 107 —
dem Romauisclieu ebeufalls uiclit fremei ist. Fiir kit kuj ' dieser\ weiblich kejó kjó
'diese' u. s. w. wird dann auf die mit dem Guttural gebildeten romamsclien Pro-
nomina hingewiesen werden dilrfen, der auf lat. ecce oder eccum zuriick geht: kuj
ware eccum illiiìn, kejó etwa ecce illam lidc. Kiihner erscheint es in tìj 'seiner' lat.
istius erkennen zu wollen, obwol der Abfall der Anlautsilbe is- ein Analogon in
dem ZaUwort tete 'aclit' hat, das fiir '^aste-te steht, wie ich in meiner Abhandlung
iiber die albanesisclien Zahlwòrter (Albanesische Skidieu, II 66) nacligewiesen
habe. Zweifellos scheint es mir, dass das lateinische Fragepronomen im Albanesi-
sclien Aufnahme gefunden hat: der Grenitiv kuj 'wessen?' (so bei Hahn und im
sicilischen Albanesisch Camarda I 212) ist lat. cujtts); ' aueh die adjectivische Ver-
wendung voa ciijus cuja cujimi ist dem Albanesisclien nicht fremd: i kuji este mi
kal'e 'wessen ist dies Pferd?', e kuja este ajó sfe^Ji ' wessen ist dies Hans?' kiis 'wer?'
kann unmittelbar gleich lat. quis gesetzt werden, wobei -u- fiir -i- nach dem k- hier
um so "weniger befremden dtìrfte, als es mit durch Einwirkung des Gen. Dat. kuj
iiervorgerufen sein kònute. Eine solche Einwirkung wird man notwendig im Accu-
sativ Zce, gegisch ke aus lat. quem fiir zu erwartendes ke ke annehmen miissen :
das aus dem Declinationsparadigma losgelòste, unflectirbare tse 'was?';=lat. quid
setzt ein ^ke voraus, und ebenso ist in ke ' dass' = lat. quod, ital. che, franz. que,
rum. ke die regelmassige Erweichung des k- eingetreten.
Was die Flexion des Veeeums betrifffc, so hat man schon fruher behauptet
(Schuchardt, Vocalismus III 47. 51. Miklosich, Albanische Forschungen II 23),
dass die 3. Singularperson des Hilfsverbums jam 'ich bin' aus dem Lateinischen
entlehnt sei. Dieselb^ lautet im Toskischen nacli Kristoforidhis und Dozon este
oder e, im Gregischen nach alien Qiiellen mit Nasalieruiig àst oder a, nur Lecce
hat ast; aste bei Blanchus stellt sich schon durch s fiir s als ungenau heraus; welclie
sonstige Gewahr iste bei von Hahn hat , weiss ich nicht. Rada gibt aiis Unteritalien
est oder è, Reinhold aus Griechenland iste, ich habe auch dort nur est oder este
gehort. Schon der Umstand, dass sonst die Conjugation des Indicativ Praesentis
von jam 'ich bin' mit der von kam 'ich habe" so genau iibereinstimmt , dass man
eine gegenseitige Angleichung anzunehmen genòtigt ist (man vergleiche jam je
este jemi jini jane mit kam ke ka kemi kini kane) , làsst die aus dem Parallelismus
aUein herausfallende 3. Pers. Siug. als hòchst auffallend erscheiuen. AUerdings ist
bei sogenannten TTnregelmàssigkeiteii das Praejudiz meist fiir eine Alter tiimlichkeit,
die sich aus irgend einem Grande der Uniformierung entzogen hat. Dieser Grund
ist mòglicher "Weise das Zusammentreffen mit der lateinischen Form gewesen:
denn das indogermanische esti 'ev ist' konnte im Albanesischen nicht anders lauten
als est, wozu auch ein lateinisches est werden musste. Dass keine Diphthongierung
des betonten e zu ie je statt gefunden hat (vgl. jam 'ich bin' aus *jem fiir em = esmi,
jcàte fiir "^jeste vgl. eks u. s. w.) , ist in dem einen Falle so auifallend wie in dem andern;
In der Form kvjt (bei Dozon und Kristoforidhis) ist genitivisclies -t (tf «i( ' des Hundes ') angetreten wie in
krjit neben ieti ' tqùtou' (Kristoforidhis).
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eiue friiliere Nasalierung wiirde das é in der Tonsilbe am besten erklàren , vgl. geg.
«si, wo freilich die Nasalierung e ine liysterogene sein konnte. Die kiirzere Ne-
benform e (à) geht wol siclier auf romanischen Einfluss zuriick: vgl. ruman.
je neben jeste.
War hier sin Zweifel mogKch und berechtigt, so scheint es mir dagegen ganz
siclier zu sein, dass zwei lateiniscke Verbalformen ins Albauesische Eiugang ge-
funden haben, das Imperfect Indicativ und das Plusquamperfect Conjunctiv. "Was
zunàokst das erstere betrifFt, so war die Aehnlickkeit zmschen alb. Uendova 'ich
sang' und ital. cantava schon Bopp aufgefallen, der sich àusserte, 'dass das Albane-
sische in dem vorliegenden Falle uns ganz im Lickte einer romanisclien Sprache
erscheint' (Ueber das Albanesiscke S. 74). Trotzdem war er mehr geneigt dies Prae-
teritum auf -va als urverwandt mit dem lateiniscken Perfectum auf -vi zu identifi-
cieren. Ich kann an dieserà Orte die Griinde nicht ausfilhrlick darlegen, welche mich
bestimmen in den betreffenden Formen entlehnte zu sehen, die allerdings in ikren
Endungen (besonders der 1. u. 2. Person Singular) durck die des alteinheiniisclien
Perfects beeinflusst zu sein scheinen; fur die 3. Pers. Sing. kann man, was oben
angedeutet wurde, vielleicht auch Einmischung von cantavit neben cantahat annehmen.
Am klarsten spiegeln die Pluralformen Uendilame lienduate Uenduane lateinisches
cantdbamuiì cantdbatis cantdhant wieder. lek werde die Grunde filr meine Annakme,
ebenso wie verschiedene hier in Betrackt kommende phonetische Fragen (z. B. das
Verhiiltuiss von o und e im Singular zu uà und uè im Plural, die verschiedene
Behaudlung des iulautenden -b- oder -«-) im dritten Hefte meiner 'Albanesischen
Studien' eròrtern, das sich mit den abgeleiteten Verben des Albanesischen
beschaftigen soli. Von denjeuigen abgeleiteten Verben namlich, die aus der latei-
nischen a- und e- (2. u. 3.) Conjugation eingedrungen sind, hat dies Praeteritum
auf -va seinen Ausgang genommen und sich von dort auch auf einige andrò ver-
breitet. Aus der lat. a- Conjugation stammt der Grundstock der alb. o- Verba
(Praesens -óiì oder -ój); Verba der dritten Conjugation haben sich ihnen angeschlos-
sen, dazu hat man aus einheimischen Mitteln zahlreiche gebildet. Die Zahl der
Verba auf -ón ist so gross , dass ich mich mit wenigen Beispielen begnligen muss.
Aus der a- Conjugation stammen z. B. deserova = desiderabam, durava = durabam,
kuitova = cogitabam, kastigova = castigabam, Uerkova = it. cercava usw. Aus der
dritten Conjugation z. B. dergova ich schickte' = dirigebam^ gemova = gemebam,
digova 'ich hòrte' = intellig ebani, skrova = scribebam, rova 'ich rasierte' = radebam
(r = rd) u. s. w. Aus einheimischen Mitteln sind gebildet z. B. hesoj 'ich glaube'
von hese 'Glauben', emnoj 'ich nenne' von geg. emen Name' usw. Die e- Verba
(Praesens -éii oder -éj) an Zahl viel geringer, tragen zum Teil den Ursprung aus der
lat. e- Conjugation, die in dem Imperfect auf -ébam mit der dritten zusammen
fìel, noch sehr deutlich zur Schau. Man vergleiche pel'Ueva 'ich gefiel' = lat. placèbam,
ndejeva 'ich verzieh^ =:indulgebaìn, skandeva 'ich schimmerte' (Lecce) =z ex-candebam,
vejeva 'ich half = valebam, ureva 'ich hasste' = horrebam; aus der dritten Conju-
gation/ejey a 'ich slindigte' =fallebam, ngeva 'ich bestrich' = ungebam. Hier haben
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sich. Verba der a- Conjugation eingedràngt : kembén 'ich wechsele', vgl. ital. cambiare;
gemii = ich tausche', vgl. it. in-gannare, mlat. gannat; vie mcetn Blanchus = nodare;
l'eri leva 'ich salbe, salbte' ist aus dein Perfect levi zu lino gebildet. Aus dem Slavi-
schen stammen z. B. ìcetséu ich springe, vgl. serb. skociti 'springen'; nderséj 'ich
hetze Hunde', vgl. serb. drskati 'Hunde hetzeii\ Andre siud etymologisch dunkel.
Von Verben der i- Coniugation habe ich nur eines im Albanesischen als i- Verbum
gefunden: dremin sommeiller' Dozon, dremiva = dormi{e)bam; servire ist zu serbén
Das Plusquamperfectum Conjunctiv erkenne ich in dem albanesischen Optativ
auf -fsa wieder. Alb. kendofsa Jieiidófs kendófse Uendófsime kendofsi ìcendófsim ent-
sprechen der Reihe nach genau — bis auf die von andrer Seite her beeinflussten En-
duugen der 1. Sing. und der. 2. Plural. — lat. cantdvissem cantdvisses cantdvisset can-
tdv(i)ssemus cantdv{i)ssetis cantdvissent. Ueber phonetische Einzelheiten werde ich eben-
faUs an jenem andern Orte Grelegenheit haben mich naher auszulassen. Derselbe
Ursprung des Lautcomplexes -fs- liegt in kafse aus lat. causa vor, wàhrend es sonst
auf -cs- zuriick geht (kofse 'Hlifte' lat. cocca, menddfs 'Seide' lat. metaxa; l'afse 'Vor-
haut, Hahnenkamm" lat. laxa (cutis)?) oder in etymologisch dunklen Wòrtern steht
{grifse 'Elster' zu friaid. grip ' spechtartiger VogeF Pirona? kafsój neben kapsój
'beisse'; kofste neben kojjst 'Garten'; ofs 'Zugwind'; anlautendes /s- in fsat 'Dorf"
nebem rum. sai "Dorf';/se7t 'ich verberge'; fsin ich kehre', fsese 'Besen', neben
psiìi mesiìi). Die Form auf -fsa hat im Albanesischen eine viel grossere Ausbrei-
tung gefunden als das Praeteritum auf -va (z. B. auch kofsa 'ich mòchte sein').
Was die Bedeutung betrifft, so braucht wol kaum daran erinaert zu werden, dass
der Conjunctiv des Plusquamperfects im Eomanischen iiberhaupt aus seiner Zeit-
sphare in die des Imperfects iibergetreten ist; doch muss hervorgehoben werden,
dass das dem Albanesischen sonst vielfach so nahe stehende Eumanisch diesen
Uebergang nicht mitgemacht hat, sondern den betreffenden Formen die Bedeutung
des Indicativ Plusqiiamperfecti gegeben hat.
Aus den ùbrigen Wortclassen hebe ich an dieser Stelle auch noch einige her-
vor, obwol diese Entlehnungeu eigentlich in das Grebiet des Lexikons gehòren.
Indessen schneiden sie doch tiefer in den Organismus der Sprache ein, als sonst
"Wortentlehnungen zu tun pflegen. Von den Zahlwortern fiir 'hundert' kint und
'tausend' mije war es làngst bekannt, dass sie dem Lateinischen entnommen sind;
auffaUiger, wenn auch durchaus nicht ohne Analogie in andern Sprachen, sind
Entlehnungen bei kleineren Zahlen, und ich habe es im zweiten Hefte meiner 'Al-
banesischen Studien' wahrscheinlich zu machen gesucht, dass die Bezeichnuugen
fiir 'drei' tre, weiblich tri, und fiir 'vier' kater entweder aus dem Lateinischen
stammen oder doch wenigstens unter dem Einfluss der entsprechenden lateinischen
Zahlworter lautlich modificiert worden sind.
• Aus der Reihe der Praepositionen dùrfen die folgenden mit mehr oder weni-
ger Sicherheit als romanisch in Anspruch genommen werden: per= lat. pe?- und^wo
(wie ini Italienischen und Rumilnischen), nde 'in' =lat. intus, nder 'zwischen" = lat.
— 110 —
iiiter, siiìer sipre anf = lat. super, himdre 'gegen'^lat. contra, poste 'imter' z=lat.
post. Auch zusammengesetzte Praepositionen verwendet das Albanesische in aus-
gedelinter Weise wie die romamschen Sprachen: vgl. ndepér , permhi , perpós m. a.
brenda mhrencla perhrenda in, innerhalb' scheint \&i. lìer-intus mit einem angetre-
tenen Element -a zu sein; afer 'nahe bei' ist vielleiclit ad-foras (dodi vgl. rum.
afdre 'draussen'); das Praefix sfer- tei--, von dem bei Kristoforidhis S. 164 reichliche
Beispiele stehen , ist = ital. stra- , riiman. stre-; die rumanische Gebrauchsweise z. B.
in strebun ' Urgrossvater ', strenepot 'Urenkel' stinimt durchaus zu der albanesisclien
in stergus '5rpó/:a:i7to?', sternip 'Urenkel'.
Von den Conjunctionen ist e 'ixnd'=:lat. et, ital. e; das gleichbedeutende eSe
'und' ist damit componiert, der zweite Bestandteil, der in der Bedeutung 'aussi,
meme' auch selbstandig vorkommt, wird griecMsches òs sein, wie ja auch die
iieugriechische Praeposition [j,é 'mit' als me ins Albanesische Eingang gefunden
hat, und wie as vor dem Imperativ ngr. a? =afBz ist. a 'oder' ist lat. aut; es ver-
hàlt sich zu ruman. au, ital. o ebenso wie alb. ar 'Grold' zu rumàn. au?-, ital. oro.
In as 'nicht', as-as 'weder-noch' ist dies a mit der Negation s zusammengesetzt
(wie in mos aus mo, urverwandt mit griech. [iij, und s), die nach Mildosich's Nacli-
weis (Alb. Forsch. II 22) aus lat. dis- entstanden ist. Auch die Negation nuke, in
Italien nenke, ist, wie Schuchardt erkannt hat, lateinischen Ursprungs: nunquam;
er vergleicht indoport. nuca^nm. Italienisches ma 'aber' ist, wie ins Neugriechische,
so auch ins Albanesische eingedrungen; frllher hat lat. -magis als me, gegisch ma
beim Oomparativ (der auch im Kumanischen mit mal umschrieben wird) Aufnahme
gefunden, wie ja auch die Gradadverbia sume und fort 'sehr', pak ' wenig' lateini-
schen Ursprungs sind. In der gewohnlichen Adversativpartikel pò 'aber', wofilr
Rossi und Kristoforidhis die Nebenform por bieten, erkenne ich lat. porro, das 'zur
Angabe des Fortschreitens von einem Gedanken zu einem andern, selbst zu einem
entgegengesetzten ' gebraucht wird; identisch damit ist das pò, das dem Praesens
und Imperfectum in der Bedeutung 'bestandig, immerfort' vorgesetzt wird. Dass
Ice 'dass' lat. qiwd oder quidisi, wie im Romanischen, wurde schon oben beruhrt;
se 'dass' ist, wie ruman. se 'dass', = lat. si. Kur'waxai ist zunachst mit provenz.
quora quor aus qtia liora zusammen zu stellen.
Zum Schluss werfe ich noch eiuen ililchtigen Blick in die Woetbildungslehke.
Suffixe, welche nur an lateinischen Lehnwòrtern vorkommen und sich nicht leben-
dig genug erwiesen haben die einheimische Wortbildung zu befruchten, konnen na-
tiirlich hier nicht berlicksichtigt werden. So ist -fe( = lat. -iàtem nur an lateinischen
"VVorten Qiutét, pustét, sendét, vulndét, vertét) nachweisbar. -ture aus lat. -tura hat
wenigstens einige Neubildungen, wenn auch nur aus romanischen Elementen,
aufzuweisen {(jumture.i^juHctura, undure = unctura, feture-=factura, neben deture =
^debitura, sembelture semtur ^* simìlatura); mendure aus ital. maniera ist solchen Wòr-
tern angeglichen. In den Kreis der vorliegenden Studie faUeu aber eigeutlich nur
solche lateinische Suffixe, welche auch aus albanesischen Wortern neue BUdungen
geschaffen haben. Von ihnen habe ich bereits im ersten Hefte meiner ' Albanesischen
— Ili —
Studien " einigo nachgewiesen. So -im aus lat. -imen, wie rumali, -ime, Abstracta
bildeiid (S. 49), -dr aus lat. -àrius (S. 58), -titar -tor aus lat -tór (S. 59), -i aus ro-
man. -ia (S. 71), das Femiiiiiia bildende -ese^rom. -issa (S. 82). Ich fiige hinzu,
dass mir die Abstracta auf -fise, von denen ebenda (S. 81) Beispiele verzeichnet
sind, aus deii lat. auf -enfia (Diez II 384) entstaudeii zu sein sclieinen; den Beweis
far diese Behauptung eutliiilt das zweite Heft der ' Alb. Studien '. Auf die Ueber-
einstimmung der ruinaiiischen Adverbia auf -easte mit den albanesischen auf -ist
hat bereits Diez, Grammatik II 461 hingewiesen.
Gustav Meyeh.
STUDIEN
ZUR HLSPANISCHEN WORTDEUTUNG.
1. A(;amo.
AgAMO AgAiMO, Port.: Lederriemenzeug , welclies ah Maulkorh dient (fiir Hunde,
Frettchen, junge W'ólfe etc). Domingos Vieira erklàrt: Cabrestilìio ou focmheira que
jorende as maxillas fechadas por melo de urna liga de correla ou camòa afivelada por de-
traz das orellias do animai que se quer impedir que morda. Der « Maulkorb » wird auf
der Halbinsel eutweder als ein Theil des Riemen- und Sattelzeuges aufgefasst iind
« Ziigel » oder « Zilgelchen » benannt, (port. freio und cahrestiUw ; cast, frenillo)
oder aber als « Mundstiick » bezeiclmet (cast, bozal port. focinheira; cfr. frz. museau;-
ital. museruola, musoliera). Welche Anschauung liegt nun dem nooh nicht gedeiite-
ten'' A(?AMO zu Grunde? loh glaube die erstere. Doch sehen wir zunachst den
Lautb estand des "Wortes an.
Neben dem Substantiv steht das Verbiim acamar acaimar = den Maulkorb
anlegen, im realen Sinne, so wie in bildlicher Verwendung als zugeln, zdumen und
zàltmen. ' Das Zeitwort, welches heiitzutage kèine andere Bedeutung als die ange-
gebene bat, j^ònnte selbstverstandlich sehr wohl veni Hauptworte abgeleitet sein;
doch ist auch. das Umgekehrte inòglicb, in acamo acaimo ein aus aqamar agaiviar
gezogenes Verbalsubstantiv zu erkennen. Ob letzeres der Fall, ist die zweite Frage
die beantwortet werden muss ; und in engem Zusammenhange damit steht die dritte :
ob eine, und welche, von den Parallellformen mit ai und a die ursjjì-ungliche , frilhere,
und welche die spdtere, abgeleitetc ist; oder ob wir es etwa mit Doppelungen zu
thun haben, die in keinem genetischen Verhaltnisse zu einander stehen, mit Dou-
bletten, welche sich auf verschiedenem Wege aus ein und derselben Urforni ent-
wickelt haben.
Die Formen mit a sind seit dem 16ten Jahrhundert die in der Sclìnftspvaclie
' Die hebràìsch-arabische Herleitung port. Lexikographen welche auf ein Verbiun kammalcainam=^biìiden
be/esiigen hinweisen, diirfen unberiioksichtigt bleiben.
' A9AMAR, A{iisiAK erklSren die port. Worterbiiclier dni'ch « jju)- agamo, calresto, fiscella para evitar que um
animai morda.... ou coma os gommos das plantas.... ou manie. Fig. contcr, pOr mordacia , fazer calar, ter mao na
lin;/ua, refreiar , domar (a ira, a iiiveja, os ventos,"
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ausscldiesslicli ilbliclien, welche selbst vou den volkstumlichen Dichtern Gii Vi-
cente , ' Jorge Ferreira de Vasooncellos und von Meudes Finto etc. benutzt wiirden.
Die Formeu mit ai siiid heute in der Volkssprache iiblich, und wiivden bereits von
den ersten port. Lexikographen gesammelt, von den Puristen aber als fehlerliaft
verdammt. ' Dass sie gute alte Worte sind , làsst sicli auf historiscliem Wege nicht
beweisen, ist jedocli ohne weiteres auzunohmeu, falls ikr ai sich lautgesetzlich
entwickeln lasst.
Directer Ubergang von a zìi «t, oder nmgekelurt von ai zu «, ist auf port. Bo-
den nicht moglich: a an Stelle von urspriiuglicliem ai kommt iiberhaiipt nicht vor;
WG wir aber ai an Stelle von urspriinglichem a finden, eutstand es ausnahmslos
durch Attraction. Ich erwahne nur einige bis heute gar liicht, oder schlecht, gè-'
deutete Beispiele. Aplainar ist plan-iare; e.sfaimado ist ««-/(««-««cZo; j^airar, j^ctc-ifarc;
saibro ist sabrio fùr sabro , lat. sab(;ìf)lìiìn; caibro ist cabrio flir und neben cabro,
lat. capulum; aidro geht auf atrium zurllck, wàhrend adro sein i eingebiisst hat; ''*
aibro neben abro ist àj){e)rio wie caibo, capio; saibo sapio j pairo, pano (von paj-ere).
Taimbo neben tambo; caimbo neben cambo und gelehrtem cambio; caimbra caimba
neben cambra, camba; caiso, neben caso (Gr. V. I 137 ; Miranda ; Damiào de
Goes etc), das sich zum volksiiblichen cajo (G. V. Ili 134, 161) welter entwickelt
hat, und viele andere archaische und populare Wortformen lassen sich auf die-
selbe Weise erklai'en, ' — durch Einschub eines i in die Endung, das hernach vom
Stammvokal attrahirt ward. — Falls also von agamo auszugehen , so ware acaimar
wie aplainar, esfaimar , ijairar zu beurteilen; acaimo aber ware cine postverbaU Ami-
logiebilduiuj.
Es bleibt jedoch eine andere Moglichkeit zu erwagen: acaimar und a(;amar
kònnen, an verschiedenen Punkten des port. Sprachgebietes , aus ein und demselben
àlteren acalmar entstanden sein; nachher aber diirften sie weitere Verbreitung ge-
funden haben. In Lat. AL + iaò {v oder m) ware einerseits das l dem niichstfolgenden
Labial assimiliert worden, wie z. B. in caveira aus ccdoeira (calvaria, cast, calaoera)
in cavilha aus calvilha filr clavilha (lat. clavicida) und in safo filr savo aus salvo (?); "*
' G. V. Ili 11. 361 iu fig. Torwendiuig:
Af^amac qualquer ci-iado
que nSo seja (diz a grosa)
mais que vós, à custa vossa,
adoiado.
Die sonstigen Stollen suclie man im Worterbuche der Akademie, Dom. Vieira etc.
' Francisco José Freiie, Reflesòos II p. 3G, Cand. Lus. , und andere.
' Saimùo neben samào in sino samUo = Zeicheìi Saìoìiiouìs , rentaiìmmma geh'órcn nicbt hierher. Sainuw ist
So.{l)imSo ; Samào hingegen Sa{ì)amào.
' Dnter dasselbe Gosetz faUen c/iKjwa neben cìmva, aus altem cliimia =pluviit ; wntuim; Estiiii-as Astidraa;
cuìrar neben curar; murmuiro; coima=-comial fiir comc{d)al ; /eira —/(.rial, und vi eie andere altport.und dialektisclie
Formen in denen ai (e;) und ui Coi) sclioinbar einfaohem a (e) und ti (o) entsprechon. Das port. Volk begiinstigt mit
grosser, sichtUcher, VorUebe die Endungen -io -ia und vermeidet einfaches -o -a, wie ioli bereits des ofteron
gesagt [z. B. Zeitsclirift , voi. VII p. H5|. Zu FMsia, landria, ìesmia, ondia fugo ich nun vulgares adubio, acasio, blusia,
ìieria invernio , irla, mdmia, (taigilia; gali, cirrio, dmvia, oslria, quixilia, midia, urnia, und astur. almia, guardia,
mttrio, nervio, sebia, lujulia.
' Man vorgleiohe auoh cast, sax caz aus salcc calce (neben sauce cavee), lat. salice calice.
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andererseits aber wàre l in i aufgelòst worden, Avie z. B. in aivado neben alvado (Ab-
leitungen von alvo filr alvio , lat. alveum) ; aivào neben aloào otc. '
Acamar und acabnar kònnen also auf verscliiedenen, dialektisch abgegrenztenj
Gebieten erstandene Vulgairformen von acalmar sein , welches fviiher neben beiden ,
jedocli mit abweichender , ursprilnglicherer Bedeutung bestand.
Dies aqalmar nanilic}i ist ein im Altportugiesischen (in Documenten, Gesetzbii-
cliern und Chronikeu) viel gebrauclites Wort, welches Fernào Lopes, Euy de Pina
und Azurara verwenden. Acalmar — aieben dem die Hauptwòrfcer aqalmo und ac^al-
mamento vorkommen — bedeutet ausrusten, Provicvnt lierheischaffen ; verproviantiren;
mit Munitioìi, Kriec]smaterial, Bpehe und Tranlc versorgen. Die Belegstellen sind ùber-
aus zaMreich. Einige wenige seien angefiilirt:
E nào tinlia o castello de Villarinho agua nenhua, nem almazera nom acalmamento
nenlium. (Doc. vou 1370 boi S. Rosa de Viterbo).
E pois a cerca da villa estava bem afortelezada e acalmada e percebuda d'aquellas cou-
sas qua Ihis comprem. (ib.).
Mas nào he de crer..., qua a nom leixassem acalmada pera muyto mais tempo. (lued.
I 472).
E vendo D. Duarte comò uom tinba hi acalmo pera ter assi aquella fortaleza (ib. Ili 79).
Agalmou muy bem suas fortalezas (ib. Ili 86).
Fortalezas agalmadas de qnantos mantimentos o mostre em ellas qnis meter (ib. Ili 88).
Por elles Ihe darào acalmo com que se possa manter (ib. II 481).
E vendo comò nom tinham acalmo pera ter alH aquella fortaleza (ib. II 623).
Certo seede que ella està agallmada do que ha master pera dez annos (Port. Mon Script.
127).
Repairou todas as fortellezas da villa e acalmou a o milhor que pode (ib. 29).
Vejam os nossos castellos corno estào acalmados (Ord. AfF. I, .5, 12).
Als Nebenform von acalmar, das bisweilen, durch leicht erkliirliclie Schreib-
und Druckfehler zu acalmar entstellt ward, ' verzeiclinen die Worterbtìclier (Moraes,
Constancio etc.) ein hocliwichtiges snhnar, das mir, weun die Erinnerung uicht
tausclit, in den « Livros de Linliagem » begegnefc isfc. Leider kann icli die Stelle
nicbt finden. Indirect wird die Existenz der Form durch ein provinzielles , in der
Umgegend von Lissabon tìbliches salmejar bestàtigt, welches den Sinn Lasten in
Kriegszeiten an helagerfe Pldtzn schaffen zu dem besohriinkten Spezialsinn Getreide
zur Tenne scldeppen verandert hat. '
Angesichts der Formen salmar und salmejar darf man acalmar, das also fiir
asalmar stando, und ferner das Zwillingspaar acalmar (warnar aus lat. salmare fiir
Man vergleiche aueh andai, und knbanisches caicalar aus calcular; vaiga fiir valga; saiga fiir salga; iatcon
fiir liidrmi ; aigo fiir alga; und ferner port. ni aus ul in multo, Imitre, cuitello, escuitar. Altport. eigo fiir efgo, und eibi-
tnir aus aihitrar filr arbitrar gingen durch die Zwischenformen elgo und alhitrar.
Està terra estava muito acalmada de muitos toueinhos e lenBa (F. Lopes, D. .loào I cap. 18).
E acalmousc de lenhas e carnes e outras cousas que pera defensào pertenciam (ib. cap. 101).
E pera repairo e acalmamento das dìctas artelharias na comarqua da Beira mandou novamente fazer a
tarecena da Villa do Pinhel (Ined. II 80).
' Im Cast, bedeutet salma eine Schiffslast (von 20 Centnern).
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sa(/niare* von sagma (Isid.), griech. aàviia = Saiimsattel , deuten (woher sagmavius =
Saumtier, Lasttier).'' Die Prosthese von a bedarf keiuer Erklaruug; 5 au Stelle von
ani. s, besonders nach Vorsatz des a, liat gleiclifalls niclits nngewòhnliches. Man
vergleiche acarUhado neben ensarilhado; qafara acafra neben safra; celga acelga, arabi-
sirtes sicula; acetre accter arabisirtes situla; acemite neben semite etc. In acalmar
konnte das Bediirfniss nach einem ausserlichen Unterscheidnugszeichen von salmo
ensahnar etc, d. h. von den volkstiimliclien Vertretern uud Derivaten von jjsahmts,
das ganzlicbe Verschwinden der Form asahnar veranlassen.
Was die Bedeutung betriiìffc, so wàre man bei aqalmar von dem Begriffe ehi
Saumtier zum Ahmarsch hereit machen; Sattelzeug anlegen; satteln^ r'ùsten und beladcn,
zu dem speeialisirteren gekommen; die vom Saumtiere in Kriegszeiten gescìdeppten
Lasten, d. li. Mimition und Proviant, im tueitesten Sinne gefasst, an iliren Bestimmimgsort
hringen; verproviantiren. '" Bei acaimar acamar bàtte man den Begriff des Sattelns
daliin bescbrankt dass er nur das Anlegen eines Teiles des gesannuten Saumsattelzeuges,
nilmlicb des Maulriemenzeuges, bezeicbnete.
Sagma lebt im Neuport. als Simplex nicht welter. Altport. xalma (gali, xalma,
aspan. jalma"^ enjahna) ist bekannt. In-sagmare" ward enxalmar, woher das seltene
Masculinum exalmo, " neu enxalmo =1 Deche ivelche uher den Tragsattel, die sogenannfe
« alharda » , gebreitet wird.
Die Form sauma, welclie im Kast. soma somern etc. ergab, liat in Portugal keine
Spuren binterlassen. Someiro (arcliit.) ist daselbst ein dem Spauiscben entlelmtes
Wort.
Agaìiiar auf saumare , statt auf salmare zuriickzufiibren (wie man angesiclits
von agosto agouro ascuitar versncht sein konnte zu tun) geht daher nicht wohl an. '
Zur vollstilndigen Sicherung diesar Herleitung von aqamar agaimar aus acal-
mar, und von agaimar aus salmare fiir sagmare, miissten im Altport. die Formen
asalmar asahnar asamar gefunden werden.
' Port. Lexikographeu lelten ai,'Almo von einem lat. salmagum ab.
' A941.MÌK: prone?', abastecer, fortaìecer coni muni^òes de bocca e petreclios de guerra; guarnecer, fortificar urna
praga, reparal-a, e i>rovel-a de lodo o preciso para o tempo da guerra. — A^almo ai;almamekto: defenaào, guarda,
provimento , reparo.
' Jalma nocli in Gruzman de Alf. I p. 81.
' S. Rosasagt exalmos=-cnxergaa. — Cfr. Boav. n 51. E eia tomoti os ydolos, escondeu-os so os ex almo a do ca-
mi'.lo etc.
^ Ein seltener, so viel ich weiss . noch nicht beachteter Fall von aclieinbar toniragendem a fìir au {ao) liegt im
.^It- nnd vulgairport. md fiir mau vor, um so beachtenawerter als daroli die Heruuterdriickung von au zu o der
geschleolitUohe Untorschied zwischeu malus (mau) und mala (ma) ganz verwischt wird. Ich denke an G. V. m 18, wo
ma doairo, ma irentairo, ma vizinho, ma dado , mafado, ma prado; TU 99 ma pesar (I 2G7 dieselbe Formel) in schein-
bar ganz willkiirlichem Wecbsel mit stets einsylbigem mao stebt, z. B. in mao criado, mao mandado, vtao vigairo,
mao amigo, vmo abrigo. Im Volksmiinde sind beute noch Formein wie md-tipo md-mez etc. gebriiachlich. Ein
Kinderrefm beginnt : Oh nii;o de md pello, de md casta e de md cabello. Der Fall erklart sicb wohl in folgender
Weise: hiiufiger gebrauchte Wendungen fallen unter cinen Wortaccent; Adjeotiv und Substantiv.verwaohsen zu
einem Begriife und mau wird tonlos ; wiihrend in neugebildoten, wenig ùblichen Formein das Adjectiv seinen
aelbstandigen Accent bewahrt and unveriindert bloibt. Wie aber ist crasta—clnuslra z« beurteilen ? Hat craslo —
caalrum darauf eingcwirkt, tontragendes au zu a absohwiichond?
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2. Al^apào.
Port.: Klaj)j)e, FaUtlìr, ubertragen Vogelfalle mit Klapi>tni: Porta ou lampa sabre
urna ahertura feita nwn pavimento para o communicar com o qiie Ihe fica por haixo; porta
cm plano liorizontal que aire de haixo para cima. Coelho sagt tìber die Herkunft des
"Wortes in seinem noch unvoUstandigen etymologischen "Wòrterbuche : de al^ab; o
elemento PÀo e assa2 escuro. Anderweitige Deutungsversuclie kenne ich nicKt.
Alqapao ist in meinen Augeu niclits anderes als ein dem port. Volksmunde
zngehòriges alcn-jjòe, d. li. es bestelit aus den Imperati ven von algar und jjòer (heiite
por), bedeutet: heh auf und lege nieder, und làsst sich neben àhnliche Bildimgen wie
vai-vem=Schaukelbeioegung und alqa-prema = Hehel (kast. aucli aha-prim(ì) stellen. Man
vergi eiche atich ganlia-perde, kast. ganaplerde= Art Kartenspiel in dem geioinntioer ei-
gentlich verlieren m'dsste; passe-passe una p>assa-passa^= Taschen.spielerkunststilck,' luze-
liize = Leuchtkdfer ; mulhe-midke = feiner Sprilhregen; aport. murde-fuge, kast. muerde-
hiige; tanje-tanje; kast. quita-pon neben quita-i-pon; hulle-bidle; tolle-tolle; coj-coj; gana-
gana etc. etc, denn die Reihe der volksiiblichen Zusammensetzungen diesar Art ist
noch lange nickt erscliopft. Nebensachlich ist, fur meinen Zweck, ob in alien diesen
Formen tatsachlich, oder uur im nmdeutenden Volksbewusstsein , ein doppelter Im-
perativ steckt, wie letzeres z. B. in chantepleure , port. cantimplora der Fall ist (das
nebenbei gesagt zìim ersten Male in den « Peregrinacoes » des Portngiesen Fernam
Mendes Pinto erwàlint wird), und in dem port. Ortsnamen Brite-ande.
tjberraschend bleibt freilick die Verundeiitlichung des Begriffes in der Ver-
wandlung von alca-pòe — in welchem eine characteristiche , vorziiglich klare
Bezeielinung der liier zu Lande noch beute selir liblichen Art von Thiiren steckt —
zu dem unverstàndlichen alcapào. Wie haben wir uns den Vorgang zu denken?
Zwei Moglichkeiten sind vorhanden. 1") Der Plural des Wortes hiess friilier, als
alqa-pòe noch lebte, und heisst auch beute noch, alcapòes. Die ungeheure Schaar
der port. Substantive , deren Plural die Endiing òes hat, lautet nun bekanutlich
im Singular auf ào aus, gleichviel ob es sich um lateinische Urbilder in one han-
delt, oder um germauische Stàmnie, oder um arabische anklingende Formen {razào
razòes; halcào balcSes; limào limòes). Im Gedanken an diese Singulare konnte man
aus dem Plural alcapòes, in welchem das darin ruhende Bild bereits verdunkelt
ist , einen falschen Singular alcapào abstrahiren. 2") Oder alqapòe ward zuerst alcapoè,
dann algapovi; von alcapom zu alcapam, alc^apào aber war nur ein Schritt und
zwar derselbe Schritt zu tun, welchen die Sprache bei jeglichem Vertròter von
one getan. Fragt man nach Beweisen, nach anderen Fàllen, in. denen 5e zu oè, ào
ward , durch die nachzuweisende Zwischenstufe om , so verweise ich auf die lange
Reihe der portugiesischen Reprasentanten von (und Analogiebildungen nach) la-
teinischen Substantiven mit dem SufSxe -fudine -tu{di)ne -dune, welchen im kasti-
lianischen das lautlich so weit abUegende -dumbre entspricht. Aus urspriiiiglichem
didc'dòe limpidòe mansidòe midtklde escuridòe ward dulcidoè, dann dulcidom und
schliesslich didcidào, wie Coruu es bereits klargestellt hat (Rom. IX, 97).
118 —
3. Alinhavào.
Alinhavo alinhavào, Porfc.: Heftnaht. — Alinhavar : hef'ten, mit grossen Sticlien jillchtig
niihen. — Angesichts cles span. hilvan Mlvanar, des frz. fcmfiler (vgl. auch morfil =
mori fil) kann man in der port. Bezeichnung der Heftnaht und des Heftens nur
die Worte a liiiha va finden d. h. falscher uwudzer e.itUr ungiilfiger Fachìi, und falsch
d. i. unn'dtz eitel ungilltig fadeln oder nciìien. Das Garn mit dem man nàht, sowie der
einzelne Faden in der Nadel heisst im port. linha d. i. linea = der leinene , und wird
stets da verwendet avo der Kastilianer hìlo gebraucht. ' Das anlautende a dùrfte ohne
Bedenken als prostlietisches aufgefasst werden, doch kònnte es auch in einer Re-
densart wie coser oder costura a linha va seinen Ursprung haben. Die alte eìnzig
richtige Schreib- und Sprechweise alinliavam bietet noch Blutean. ' Die Entstellung
zu alinhavào trat also spàt ein, und zwar weil man in alinhavào ein Augmentativ
von alinhavo zu erkennen glaubte, wahrend die letzere Form die jiingere, erst aus
'alinhavam abstrahierte ist. Von alinhavo leitete man das Verbum ab. — Cozer em ««ò,
dar pontos em vào sind beute noch llbliche Schneiderausdriicke und entsprechen dem
deutschen hohl nahen, eine verlorene Naht nàhen.
Fine blosse Ableitung von linha vermittelst der Suffixanfiigung ist alinhavo
alinhavào also nicht. Ein Suffix avo ist nicht nur unubUch im Port., wie Coelho
sagt, ■' sondern existirt iiberhaupt. nicht. Wie in alqajjùo haben wir es also auch
hier mit einem Missverstehen verdunkelter Flemente zu ti^u, das sicherlich in man-
chem schwer zu deutenden, noch unaufgeklàrtem Worte aller romanischen Spra-
chen eingetreten ist.
4. Bagoa.
Gali.: Thràne z. B. in deu « Cautares Gallegos » p. 96. 97. 151. Kil. Trotz des
im Port. Gali, ungemein haufigen Wechsels von b und m ' hat bagoa vagoa nichts
mit port. magoa (lat. macula) zu tun. Es ist vielmehr ein Diminutiv 'Von bacca,
lateinisches bac{c)ida = Ideine Beer e, Perlehen. Einen dicken Thranentropfen benennt
auch der Portugiese mit einem Derivate von bacca, Beere, namlich mit bagada, der
Gallizier mit einem anderen: bagnila das sich zu bacctda verhiìlt wie betulla (kast.
abedid) zu betula (port. vidoìleiro). Ein Beispiel stelit in den « FoUas Novas » p. 145.
' Ob der in alten Zeiten hocliberillunto spricliwcirtliclio hilo portugucz ein Leinen- oder ein Seiilenfadon war,
ist noch niclit ermittelt.
■ Ai-isiiAVAM. Termo de Alfayate : Uolnr um alinhavào vai o mcmio quo alinliavar.
^ A prcflxo e LiNiiA ; dcrivat^ao insolita.
' Einige weniger bekannte Formon sind; solivào fiir solimào G. V. II 521; abem fiir amem II 502, woriu das
Bediirfniss das Worfc verstandlioher zu machen, unverkeunbar ist; vulgport.: borno= marno; husaraHhat= musa-
ranfia; viorimundo ^ moribundo (vgl. voAjammido = vagabnndo); rcmcnencia = reverenda; comenencìa = coveneneia
fiir cOHvenenela; Maloina neben Balvina Balbino ; maganno fiir altport. t^aganao; monvedro nobon nnd fiir Somvedro
(d. i. bonus-veluìus); melharuco neben und aus abelliarùco eto.
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5. BlBLA.
Kast. arag. Urla, alfcsp. bùio: Kiì<jd; port. bilro (gali, vilrn): Kagd. und Kloppd.
Beiden Holz-Drechslerarbeifcen ward der Name gegeben in Anbetracht ihrer
birnenformigen Gestalt, d. li. die betrefFenden Worfce sind nicbts anderes als
\a.i. pyrulum, dimin. von pijrumz^zBirne. — Cfr. -^oxi. pelra una perla iiiv parola; bulra
neben burla; bolra fiir boria; Calros fiir Carlos; galrar fiir garlar (lat. garrulare); palrar ,
von frz. parler oder aus altem parolar, das seinerseits frz. Urspruugs ist; gali.
belriìia fiir berlina berliiida; melruza fiir merluza (lat. inaris lucia); escalrata fiir escar-
lata; cholrito fiir chorlito ; altporfc. alrotar von arlote etc.
Fiir die Schwàcbung des anlautenden jj zu b (imd im Volksmunde bis zu v)
Beweise beizubringen, ist eigentlioli miissig. Man erinnere sicb au bostela aus
pustella, fiir j)j(fs^«?« ; an belliscar neben pelliscav von pelle; an begoaria abegoaria
von pecus; an bispo aus {e)piscopus, an bodega aus {a)potlieca; an Beja aus Prtas
/«Zia; an Badajoz aus Pcèìc Augusta und vergieiohe &?«> (N° 10) und bolor (N° 8).
Die Tennis hat sicli iibrigens in einer anderen port. Ableitung von pyridum
erhalten: in p)ilriteiro [pirllteiro pielriteiro perliteiro), dem Nameu eines dem wilden
Birnbaum nalie verwaudten Laubbolzbaumes port. Wàlder (Bussaco), desseu kleine
làugliche Friichtclieu man pirlito{s) und pilrito{s) = Birnchen nannte. Das aucb in
spau. Wòrterbiichern umgebende, daselbst mit Weissdom iibersetzfce Wort felilt in
Colmeiro , Dice. Bot. — Die port. Lexika erldaren : pianta da familia das poma-
ceas Grafcoegus oxyacantha, tambem chamada estrepeiro ^ espiinlia branca
e espinheiro alvar de casca verde.
Pilrete — wie ijilrito Diminutivform eines in diesar Gestalt niclit melir vorhan-
denen pilro — bezeiclinet einen seltr kleincn Menscìten (Ideiner Kegel, kleine Birne).
G. BlELOCHA.
Kast.: Papierner Kinderdrache; mail, und arag. milocha; kat. m.ilnca; valenc. mi-
loja. Ich kniipfe meine Deutung an die nicht-kast. Formen; ist sie richtig, so
stelit birlocha fiir bilocha mit seltner Epeutliese von r vor l, die kaum anders als
durch Umdeutung, durch Anlelinung an Urlo birla zu erklaren ware, falls nicht die
Eeihenfolge bilocha bilochra bil-r-ocha birlocha auzusetzen ist. Bilocha milocha miloca
miloja sind, was den Stamm ■mil- betriift, eins und identisch mit viil-ano Hiihner-
geier (lat. miluanus von miluus), den der Spauier wegen seiner oft ausdriicklich
als vilz=iiiedrig gebrandmarkten Eigenschaften auch zu vilano umgedeutet hat.'
Das characterlose Suffix amis ist in den Volksmundarten der Halbinsel durch
andere, kràftiger kliugende vertrieben worden; in den oben genannten Formen
durch odia oca ' oja; im port. wo milhano provinziell noch iiblich ist, durch
Siehe z. B. Cai. e Dym. p. 22: Et otrosi el mil ano, maguer que C3 cerca de la corte del rey, non le rohdician
nin le quercn, mites le eclian lucTie, i>orque es o il et non mliefacer cosasiiion mala e enojosa. — CCr. Ib. p. 30 etc.
■ Im Port. ist. JSIilocas eine Koseform des Namens Emilia,
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oto in mioto und minhoto ' und durch afre in mllhafre , hiìhafre , hilhafrào bidhafre; '
im Gali, durch ato und oto in minato minoto. — Dass der Papierdrache oft Vogel-
namen tràgt, ist bekannt: port. papagaio; afrz écoufie; kat. fjrua; span. (gali.) cer-
nicalo (Cfr. Cerniglo N° 13). Sonst fùhrt er auf der Halbiusel auch die Bezeiclmung
Steni {eatrella port.) und Komet {cometa kast.).
7. Bis[s]alho.
Port.: Sàckchen Taschchen; im aport. iiblich (z. B. Cane, da Vaticana 932),
dock auch heute noch vorhanden. Ist hissac{c)ulum. Cfr. malha =^ maciila; grallia =
gracula. — Dies zu Diez I 70 bisaccia.
8. Bolge.
Port.: Schiinmel, Moder. Ableitungen davou siud das Verlìom bolorecer , und
das Adjectiv, òo/oroito; dialektisch (gali.) balor valor barol varol; abarolecer borolecer
horelecer bolorecer bolerecer; balorento barolento valorento varolento. Port. Nebenform ist
boror bei Jorge Ferreira de Vasconcellos, Eufrosina p. 118. Idi balte das Wort
fiir ideutiscli mit lat. ^jaZ/or, palloris., das bekanntlick bei Vitruv, Vergd, Lucilius
und Columella bereits Moder und Sdiimmel bedeutet. '
B an Stelle von pj wie in bilro und buir (5 u. 10). Protonisclies o au Stelle
von a- besonders unter Einwirkung des Labials wde hier, ist uicbt auifiillig, um
so weniger als in unserem Beispiel auch Assimilation an den folgenden toutra-
gendeu Vokal eingetreten ist. (V. Soturno N'^ 40).
9. Bugio.
Port.: Affé, Meerkatze. Von Bugia in Nordafrika, dem Handelsplatze , welcher
ehemals Europa mit Kerzen, und mit afrikanischen Affensorten und Zibethkatzen
versorgte. Man vgl. Are. de Fita 311-361, die Geschichte des Don Gimio , alcalde
de Biixia; sowie Cane. Gen. II 229 monos de Bugia. Die Kerzen, frz. bougies,
' Cfr. G. V. 1 101, 1«; m 120 und die Kinderreime : Minhoto minhoto, quc Uvas no nolo? und Minhoto, miDhoto
faze urna rodinlta que m te darci umapitinha, — Minh{oto) konnte avis mìlh-(olo) entetandon sein (vid. milhafre_ etc.) da
Eintritt von m/j fiir Ih, wie umgekehrt von Ih fiir nk, im vulgport niclit zu den unmogliohen LautontOTckelungen
gehort [enxidha-iuT enxunha d. i. enxundia (axungia) ; calhama^o fiir canhamugo , cub. niiillar und gmyar fiir gtiinar etc.
da im Cub. Il und K hiiufig verwoohselt werden]. Doch ist es eben so gut denlsbar dass miìthoto sioh aus mioto
(fiir miloto) entwiclselt hat, gloiohwie ninho aus nio {nidus) minha aus viia (mea) minhoca aus mioca (von mina) louvor
minhar aus altera hmvamiur liervorgingen , woruber spater ausfiihrliches. Dass minhoto jedooli im Volksmunde
vorwiegondo, ja fast aussohliessUclie Geltung gewonnen bat, mocbte sioh daraus erldiiren dass minhoto auch
einen Einwohner dor Provinz Miiilio bczeiohnet und der Vogel somit scherzend von den Proviuzialen als ibi-
Landsmann anerkannt wird, ein boser Landsmann dem sie manches Ilvihnchen als Tribut zahlen miisseu!
■ Die Endung a/re ist mir sonst nur aus cs2»nafre — Spinai (auch spinascos pinascos) und aus cast, golafre.
bekannt. Das r konnte epenthetisoh sein wie in chefre tabe/re eto. Afe aber, und afo afa gehoren auch zu den
soltnen, wenig iìblicbon Suffixen. Bitafc = Spottname ist epitaphium; mrrafo mogUoherweise eine selbstiindige
Bildung, von sarrctr fiir serrar.
' Coelho verzeiohnot bolor ohne etwelclien Doulungs\ersucli.
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nanuto dor Poitugiese urspriinglich lumes de bofjla, Cane, da Vat. 807, dami, wohl
um sie vou deu bugios uud òur/las zu unfcerscheiden , hufjeiya(s) sp. hugem{s). Gr. V.
I 65 ; III 123.
10. BuiB.
DiEZ II'' oline Erlilarung. — Span. port.: glnften , polirm srhurfen; .sp. = acicalar
aguzar; T^ort. ^= pulir , allsar. ' Im Span. veralfcet; jedoch. noch von Cervantes beniitzt
iva D. Qcix. II cap. 23: un punnl buiclo, mas agudo que una lezna. Im Port. lieuto
noch iiblicli in der an die Spitze c;estellten Form. Vordem stauden neben buir
als gleichwertige Doppelformen boir^poir und p>wir. Der j) laut ist also der ursprting-
liclie, und jwir puir^ dessen Heimat Portugal ist, aus lat polire dnrcli Aiisfall
von l entstanden wie sair aus salire, soer aus solere etc. Buir und polir siiid dem-
nacli Scheideformen , die erste volkstumlichen , die zweite gelehrten Ursprungs.
Der Kastilianer(?) kennt buidador, der Aragonese huidador und buirador fiir
Gelbgiesser , Schwertfeger. ~ Selbst dio kleineren span. "Wòrterbiicher verzeichnen das
Wort, dock mifc dem Vermerk, es sei eigentlich ein Provincialismus. Vom Partizi-
pium buido=:2)olirtj gescldiffen, gesclidrft bildete man vermutlich ein neues Partizi-
pialverbum buidm-*, davon aber buidador, welches durch Dissimilation zu buirador
ward, àhnlick -wie mentida mentirà; polvarera polvareda; muradar muladar ergab.
Der Gallizier liat die altport. Form pidr aufbewahrt, dock uur im Special-
sinne des Fadengldttens beivi Abhaspeln. Ouveiro Pifiol sagt: fvir = alisar , pulir ,
siiaoizar el Mio cuando se devana por medio del podoiro. Podoiro (d. i. poudoiro) aber
stekt fiir poidoiro pulidoiro u. pulideiro, -von. pulir; gleicksam also pulitorium. Es
beneunt ein Stuckchen Tuch oder weichen Leders, dardi ivelcJies man den gesponneìien
Faden beim Haspeln oder Spuhlen gleiten Idsst.
11. Caramunha.
Coelko erklart: Termo popular. Cara das creancas que clioram. Clioro das creanqas.
Lamuria affedada. Agastamento. Por cara mona. — Das ware also Affengesidit. Scbeint
mir unricktig. Der eckte urspriingliche Sinn des Wortes kat sick in der sprickwòrt-
licken Pkrase erkalten : fazer o mal e a caramunha = das Base heimlidi thun, offentlidi
aber ein Kkigelied daraber anstimmen. Caramunha fiir queramunha (wie sarrar fiir ser-
rar, libardade fiir liberdade etc.) und dies fiir altport. querhminha aus lat. quwrimonia;
-munha aus lat. -mania wie in testemunha lat. testimonia; pop. ceramunha carmunha
' Im Port. wird huido aucli benutzt lun clas Abgebrauchte Abgetragene eines Stoffes zìi bezeichnen, der schon
zu glanzen anfangt. Zuerst mag biiido von abgenutzten , iibersoharf und zweisohneidig gewordenen Messern
und Schwertklingen gesagt worden sein.
■- Der Wohnungsanzeiger von Madrid kennt das Gewerbe der huidadorcs nicht. wolil aber der von Barcelona.
16
- 122 —
iind cirmonha (Cane, de Res.) aus lat. a'.rlmonia. ' Caranmnhan wurden dann, mit
humoristischer Ernstliaftigheit, die penetranten Klagelieder der kleinen Kinder,
hernacli aneli das nur zum Weinen verzogene Gesicht derselben genannt. Cara-
munha im letzeren Falle also fiir cara de caraimmlia. Wohl mòglich dass auch die
Eedensart qiie cara tao mona! (toelcìi hdssliches, unfreundliches , loeinerUches Gesicht!)
zn diesar Begi'iffserweiterung beigetragen hat. Die von Coelho aufgestellte Reilien-
folge der Bedentiingen isfc nichts als Resnltat seimìr Dentnng; die hier befiirwor-
tete von Klayelled zu Klagecjesicht naturgemass Resultai der meinigen.
12. Ceibo.
Gali.: Hagestoh, JiinggeseUe , unuerheirateter Slami. Diese Bedeutung sichert, z. B.
folgende Stelle aus den « FoUas Novas » p. 200 :
Poche! meu Santo San Fedro,
que ben deixas conocer
qu'andiveclies sempre ceiba,
que nunca foche» casado,
nin na terra nin no ceo!
Ceibo durfte vom lat. cadibe d. h. von ccelebs kommen, dessen l zwischen Vokalen
im westlichen Sprachgebiet der Halbinsel ansfallen musste , und dessen geschleclits-
lose Einfòrmigkeit recht wohl nacli dem Typus der das Genus sondernden
Adjectivklasse us, a umgeiindert werden konnte. Man vergieiche aspau. und aport.
tristo neben triste; rado neben rude.
Ceibo bedeutet nnn aber aneli ganz allgeniein los, lose, frei, ungebunden, ledig '
und liatini Gallizisclien wie ini nòrdlicheu Portugiesiscli (Minho) ein Verbuni ceibar^
lóseii loslassen^ erzeugt, eine Begriffsentwickelung vom Engen, Beschrankten zum
Allgemeinen, die etwas Uberrascliendes liat, und derjenigen, welche im gleiclibe-
deutenden span. pori, solteiro salterò, also iin Junggcsellen der Scliriftsprache steckt,
diametral gegenuber stelit. In solteiro soltero liat man, wie im deutsehen ledig, den
Begriff' des Einsamen , Freien , Ungehemmten zu dem BegriiFe ehelos specialisirt.
Diesar Deutungsversueh ist daher selir hj'pothetiscli und wird liotfentlich bald
Begriindeterem weichen miissen.
' Das Siiffìx -monia utouìit anch in cachi monin^ Sdì ad ni, Kop/, Vcratoiìd, Ge/iin?, (einerjonor Jerbon Mctajihern
welche Korporteilo im Eomanischon bonennen; denn es ist eine l'reie Bildung von cacho = Scherhe) , imd forner im
katal. greximonia = tinto de. rana, ungUmto de Mexico (vulg- e joc), von '/i-cr, kast. tjrasa, port. grnixa (lat. crassia).
' Follas Novas, p. 201 Qu'ora anda ceiba e ben ceiba x^ara meternos no inferno.
' Poi't. Ceivab = soltar oa boia do jugo ; Gali. (Cuv. Piii.) Ceibaiì = aoìlar, deaatar, dar Ubertad , tanto a las perao-
naa corno al ijanado. — Ceibado: suelto, deaatado, libre.— Der gallizische Lexikograph verzeiohnet das interessante
ceibo nicht einmal, und giebt somit die, moines Eraohtens, falsche Auffassung an dio Haud, als sei ceibo ein soge-
oanntes, abgokiirztes Partioip, das erst von urspriinglioliercm Ceibado hergoleitot sei.
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13. Ceeniglo.*
Das Wort cemigìo wird deu Leseru unbekauut seiu , deun es ist uichts als eine
Conjectur von mir; eine Verbesserung des altspanischen aita.i XsYÓ|i.£voy genniglo,
welches der ErziDriester in folgender Stelle aufweist :
estr. 98'2 Niinoa ilos que nasci pasé tan grand periglo
do trio : al pie del puerto falle me con vestigio
la mas grande fantasma que vi en este siglo:
yeguarisa trefuda, talla de mal cenniglo.
Das AVort kann nui- so viel wie Sclireckgespenst bezeiehneu. Die Deutung von San-
chez aus ceno mit der Erklilrung (josto asjiecto ist falscli. — Ceviiiglo* ist in meinen
Augeu der in altspauischen Texten oft geuanute Name des Ranbvogels cemicaJo,
saniìcfdo. Dass dieser Vogelname noch beute, provincieli (bercianisch) und im
familiaren Verkehr , ein Scheltwort ist, genaii so wie das begrifflich ualie verwandte
tartarana tantarana (fiir tatarana (port.) aus catarana vom griecb. lat. catarades,
wolier auch prov. tartarassa), ein Scheltwort, mit dem die abstossend hdssUche dussere
Erscheinung einer Person gekennzeichnet werden soli, habe ich bereits friiher ander-
warts gezeigt. ' Doch. konnte ich mir damals nicbt erkliiren wie und warum der
Name der beiden Rauh- und Jagdvogel diese Bedeutung angeuommen habe. Jetzt
weiss ich es. Sie galten fiir, oder sind tatsachlich, Aasrduher und wurden also
in eine Linie mit dem Geier gestellt, der ja auch ein Sinubild alles Hasslichen
geworden ist und dessen gefiirchtete , unschone Grewohnheiten immer mit Abscheu
hervorgehoben werden.
Man sehe « Castigos » p. 172'': muclina moscas siguen à la miei é muclios cernicalos
sigiien à los cuerpos muertos; ferner D. Juan Manuel, Obras p. 250; und Cai. e Dym.
p. 30, so wie die iinter birlocha erwiihnte Stelle iiber den Hiihnergeier. — So ward
denn « Aasgeier, Leichenvogd! » ein in der uiederen Komijdieusprache vielbeuutzter
Scheltname. '
Der Formwandel bietet noch weniger Schwierigkeiten als die BegrifFsentwic-
kelung. Cernic{a)lum durfte cerniglo werden wie peric{it)l'uin , periglo (heute jjeligró)]
mirac{ti)lum. miraglo (heute milagro). Man vergleiche wèlter unten vestigio (No 47).
' Pratica de tres pastores, Glossar s. v. InUimnliào faHnranliì>n. TaHaranha ^ Leichcnvogel Schreckges-
penst wies ioli nach in G. V. HI 109, in :1SS u. in dei- Posse < A madrasta inaturavel • Ceniicalo mit gleicher Be-
deutung in Poes. Bere. p. 56. Daza l'iige man folgende Stelle aus Aut. Prestes. Autos p. .B98 està tartaranha ma
que arida aqiii. — Der Portagiese nennt den cermcalo auch peneireiro (von penetra = Sieh) im Hinbliok atif seinen
kreisenden Flug. — Bei Feststellnng der Species^ welcher die fartnranha augehort, mus.s bcachtet werden Jorge
Perreii-a de Vasconcellos, Aulegraphia p. 163 por isto snfro mal polhastros desta outonada que scndo filhos de sacres
ba/arls, salicm ogeus oii tartaranhas. Herr Baist, der so vorzuglich mit allem Bescheid weiss, was .Tagd und .Tager-
sprache betrifft, wird iiber die Eigenart der beiden Raubvogel gewii!slicl] weiteren Aufsohluss geben kiinnen.
' Cnveiro Pinol verzeiohnet ausser cernTcalo sarnìcaìo noch ein familiares sarmaila mit der Erklarung: la
persona pesada y targante; tacaTio y avaro. Vermutlioh dasselbe Wort.
— 124 —
Unti stiinde im Mauuscripte des Erzpriesters cermijìo, so wàre alles gut und schou.
Ob dies der Fall ist, das aber bleibt noch dabinsestellt. '
14. Derbeter.
Zu DiEZ II". — Tatsachlich derreter fiir de-reter aus de-terer{é). Die Versetzung
der Buclistabeii t und ;• hat auch das mit deterere den Sinn schnelzen teilende
Simplex terere im Altspanisclien betrolFen. Im Caue. Gen. I 302'', 10 (ed. 1883) sagfc
Rodrigo Gota:
Yo mostre 7'efir en piata,
wofiir eine andere Ausgabe die Tiesskvi fiindir bietet. — Eeterer, also re-terere, fìnde
icb im Cane, de Baeua I 157 (ed. Leipzig): si ci sol retiere el plomo, la razon es
desatada. Derreter {derrite. 3 ps. s.) bereits bei Jvian Manuel, Obras p. 262.
15. DOBAR.
Port. : ahliaspdn aufs^nden; dobadoura: IIas2)el Garnìoinde; TiOBXTiKinA: Hasjjhrin,
Frau welclie Garn windet. — Alt dehar (Ined. V 588), das nodi im 16'" Jahrhuudert
Sa de Miranda anwendet, « Estrangeiros » II 1 : Sào obras de Amor que ja fez a Her-
cules, conquistador do mundo Jtar <& dehar. — Dehar fiir debaar dehàar span. devanar
prov. dehanar, ìi. dipanare , vom lat. pamis = B'ùschel WoUe zum Spinnen. — Zu Diez I
154 hinzuziifiigen.
16. EiDo.
Eido port. gali. Substantiv (auch heido cito und heito). Es bedeutet Vorraum vor
einem Bauernhause der oft als Knchenrjarten , oft als Stali fiir das Kleinoich benutzt
wird. Das Volk sagt beute nocli aido. Gedruckt stelit diese Form in Coelho, Con-
tos p. 154, Leite de Vasconcellos , Trad. p. 175 (/iaicZo geschrieben) , Braga, Contos I
p. 38; eidico ebenda p. 199; heido Leite de Vaso. 175. — Es liegt nalie aido als aditum
aufzufassen. " Begrifflicb und lautlich steht dieser Deutung niclits entgegen. Pedi-
<«s ward im port. gali. bere. ^>eWo; iur credito sagt das port. Volk cìxito und creta; und
neben greta (vou crepitare) steht vulg. greita.
' Cerkicai.o kommt auch vor: Libro de Cetreria, p. i&ì (als ce.rrcnicalo); Zsclir. T 235 u. 239 (Sprieliwort:
Nunca btien gavilan de amicalo que viene a la mano); Lopo do Ruoda, Caratula; Torres NaliaiTo, Camila, als sorro-
mUalo; Picara Justina, p. IS; Baona II p. 31 etc. — Dass ccrnicalo aucli Papierdrarhe bedeutet hat, bevvoist folgende
Phraae aus Evangelista: los mucliachoa se pagan mucho de/aselloa (Zschr. I 2S6, i).
' Ein Gegenstiick zu eido ist exido {eia:ido enxido eìixidro inxidro; cast, ejido; cat. exida), welcbes ur-
spriinglioli den liaum hintcr dem House bezeichnote, der moisthin al.s Weidcpìatz, aber auch als VieìistaìL uud
als Qarten benutzt wurde. — Eido und Eìixidro sind in Portugal und Uallizien auch Ortsnamen gevvordeu.
— 125
17. EivA.
DiEZ EAV II'' ohne Erklàrung. — Port. gali eiòa eioa hedeutei je(/licìie>i h'òrperU-
cheii odo- (jdstigen Makel oder Fehler; beim Menschen das FeUeu eines Gliedes oder
Unhvauchharkeit desselben, Krììjjpelhaft'Kjkeit so wie Geistessckwàche tind moralische
Uìizidanglichkeiten; auf Glas oder Porzellan angewandt eineii Bprung^ Riss oder Fh-
ckea; beim Obste das Fkckigseiii, der Ansatz zur Fciulniss etc. ' Ableitung davon
ist eioar-se, besonders iiblich elucido, im Sinne von felherhuft, ncliadhaft , defect uach
irgeud einer Kichtiing bin. An Stelle von eivado liabe ich alcado im Volksmunde
gehòrt (von eiiiem (/liedeìiakmeii Mensdien gesagt) und kann diese Form aus einem
Drucke nachweisen, aus der Romanze Os dois amantes bei Estacio da Veiga, Rom.
do Algarve p. 128, wo es heisst:
pelo aivado da colméa
logo eu quiz desconfiar;
pensei que eresiava os favos,
nenhum era por crestar !
o corfci<;o ja nào tinha
do mei que eu ia provar. "
Elba eiva^ stiinden demnacli tur aiòa* aiva^', Formen, welche aus einem. àltereu
laiba* durch Abwerfen des anlautenden l entstanden sein kònuten, in Folge irrtùmli-
cher Auffassung dieses l, das man fiir den Artikel la ' liielt. In alter Zeit, solauge
der port. Artikel noch lo la lautete, konnte dieses Verkennen wohl eintreten; ein
Gegenstiick zur Agglutination des Artikels in laira leira aus la area (S. N" 22). '
Dies hypothetische laiba laiva nun diirfte lat. labia* fiir labies* statt labes = Flecken
Schandfleck sein. Und gleichen Ursprungs ist aller Wahrscheinlichkeit nacb port.
laivo laibo," volkstiimlich laibio, welches in Bedeutung und Verwendung genau das-
selbe ist wie labes, und zu eiva wenigstens in verwandscliaftlicliem Verhiiltuiss steht.
' Defeilo plìysico,falia ou macula maral, fallia no vidro ou vaso, nodoasinlia ou toqtie de podridao na fmcta eie.
' Die Stelle lasst freilich auch eine andare, minder ansprecheude Deutunsf zu. Aivado ware Nebenform voti
aivado welches beliaiintlioh den Einyang zum Bienenkorbe, bedeutet und mit lat. alveua alveolus in Zusammenhang
gebracht wird. Entwedor also: Die Beschddigung , die Scliadìmftigkeit maclite stutzig. Wegen des Verletstseins ward
ich misstrauisch! Oder: Gleich das Bienenloch machie mieli stulzig?
' Altport. cyba z. B. Ord. Alfons. IV p. 107 por nenliTia màlicia nem bvba nem doen^a que depois em ella aeja achada
(im verkanften Stiiok Viali). — Gali, eiba: falla de un miembro. eibado: tullido; eibak tidlir (Cnv. Piiiol).
' Agglutination und Apbaresis von missverstandenem l sind auf der iberisclien Halbinsel im Grossen und
Ganzen seltene Ersolieinungen, besonders im Westen. ies(e ist gemeinromaniscb. Sonst wiisste ich, ausser eiba
und laira, nur anzufiihren: gali, loyo fiir el hoyo = Grube; lajielde fiir apelde; port. oliecl von libellum; licoriiio nicor-
nio tiiv olicoruio &US unicornio; lameda fiir alameda; betarda iixv abetarda^ ave-Iarda. Interessant ist spanisch £t
Otero fiir Lutero. Eine Strasse in Salamanca, die friiher calle del Otero liiess, wairde durch Studeutenwitz in calìe
del Otero d. i. Lutero umgetauft. Dber lumbral siehe unten N° 45.
'• Moglicherweise um laiva (leiva) Flecken von aitem laiva {leivci) Lippe zu tvennen. Bies letzere Wort hat
sich, meiner Uberzeugung nach, mit dem Begriffe Parche aiifgewor/ener Ei-de zwischen Feld und Feld, oder swi-
scìien Saatstrich und Saatstrich auf ein und demselben Acker im modemen Port. erbalten. Denn mit gleba = Scholle kann
leiva nichts zu tun haben wie die altere Form laiva ergiobt. (Sie konnte die juugere sein, da im Port. Eintritt von
ai fiir ei nicht selten ist, doch beweisen die Documento das Qegenteil).
'■ Enlaiar = beschmutzen konnte fiir enlaivar stehen, d. h. Derirat von laioo sein. Oder ist es aus enlaidar =
hdsslich raachen zu ziehen?
— 126 —
Lahies fiir lahes, iva. Gedanken an rciLies fahies snnks. Lahia nebeii luhies wohl
bereits im Vulgairlatein in Uebereinstimmung mit luxuria materia neben luxuries
materies etc; oder erst im Eomauischen , imd speziell aiif porfc. Gebiete, wo wir
sana aus sanies; especia aus species; facia hacia 3,ns facies; reqvia ai;s requies kennen.
(Vgl. aragon. quera d. i caria aus caries. N° 33). Lahia ward laiòa laiva, wie raiva
aXL3 rahia fiir rahies; Paiva aus Pavia; gaiva, woher gaivota, aus gavia. Aus laiha laica
ging leitm hervor, wie das neuport. seiva aus altera saiba salva (kast. sabia savia von
lat. sapia'^ far sapa = Saft), ' wie eira aus aira d. i area etc.
18. Encinta.
Es ist weder iiicÌHcta^=:^umgurtet nodi in-cincta = ungeg'àrtet ^ sondern das im La-
teinischen unedle indente von inciens , das im Romanischen salir wohl wieder edlere ,
griecliisclie Verwendung gefunden liaben kann. Findet sicli eiii altspan. enciente — und
es findet sioh vielleiclit, icli glaube es gelesen zu haben — so ist die bis jetzt noch
hypotlietische Frage entscbieden. Aus dem in Spanien unverstàndliclien , zusam-
menhangslosen enciente (das noch dazu lautlich mit insciente ^ unMmdig , niclit wisseud
und mit dem alten enciente fiir antecedente zusammengefallen ware), entstand wohl
durch Volksetymologie en cinta (asp.) ' und spater encinta (neusjD.) Mit demselben
guten Rechte, mit dem Baist ceFio aus griech. o/tóviov ableitet, darf ich auf griech.
x,u£(o als die Quelle von encinta hinweisen.
19. ESTRECE.
Das spali, port. Wort esfrece (dritte Persoli sing. eines praes. iud. 2*"'' oder B****'
Conjugatiou) , ist mir uur in den sprachlich recht interessanteu Werken des Dichters
Sa de Miranda begegnet, und zwar kommt es daselbst ausschliesslich in der Wen-
dungwo .se estrece, nào se estrece vor. Die beziigliclien Falle, je 2 in den beiden
Schwestersprachen , lauten :
103, 33G a suiclade nào se estrece,
103, 33 que (isto) ha de vir o nTin se estrece.
im Versausgang und E.eim mit acontece parece empecn conlwce; nnd
111, .382 no se estrece que no viese visiones.
1.51, 5 i HO se estrece que alguna escura sombra te asombró.
Alle bisherigen Uebersetzungs u. Erklarungsversuclie dioser Siitze sind, mei-
nes Erachtens, als mislungen zu bezeichnen. Andere Belegstellen aber als die
obigen, die man etwa zur bessereu Deutung der fragliclien Fomieln lierbeizieheu
' Im altport. o.xistirt eia anderes saiva (Vatio. 1017) mit tontrngendem i, also Veifcreter von lat. saliva, nnd
nicht von 9<ipì(i. Der Gallizler kennt heute uoch 6atba = Speickel Schlcim, wiilirend der scbriftgelehrtero Portagiesft
das Wort wieder zu saliva zuriicltbildete.
• Z. B. Conq. de Ultr. p. 533.
— 127 ^
konnte, scheinen zu fcli'.eu. Die port. Worterbiiclier wpiiigstens liielon enUveder
nur die zvvei, oder eiued der zwei port. Citate ans Mii-auda, oder sia bescliràuken
sich darauf das Worfc oline Weiteres mitzuteileii luid zu denten, beides aber stets
unter dera liypothetisclieu , als Stichwort ausgegebenen Infinitive estrecer, welchen
sie nacli estrece gebildet habeu — wie man niclit leugnen hann, mit dem Schei ne
vollsteu Recktes. Ioli habe S. Rosa, Blutean, Moraes, Constancio, Caldas Aulete,
Domingos Vieira, Bòsclie, nacligesclilagen; und auch die span. Lexikographen nm
Rat befi'agt, diese aber ganz fruchtlos. Sie scheinen die Werke span. schreibender
Porfcugiesen grundsatzlich nicht zn beachten.
S. Rosa de Viterljo sagt: Estrecer: estreitar diminuir rebater apoucar reduzir a
menos, ohne ein Etymon aixfzustellen. — Blutean, dessen Angaben ich durchweg als
genaue iind sorgsame befunden habe, erwahnt estrecer gar nicht: das einschlàgige
Gedicht von Miranda war ihni unbekannt geblieben, wie ich anderwilrts zu erlau-
tei'u Gelegenheit gehabt habe. Das Worterbnch der Akademie reicht wie bekannt,
nur bis azurrar, schweigt also gleichfalls iiber das fragliclie Wort. Moraes erklàrt
(3*" Ausg. von 1825) wie folgt :
Estrecer v. a. refi. Usado passivamente. — Sa Mir. : « a scinde ou saudade nno
se estrece » i. é. nào dimimie.; ant.; talvez o mesmo que aterecer-se.
Die jiingeren Ùberarbeiter des Moraes (ich nehme Bezug auf die neueste 7*®
Auflage) haben saude zu saudade verbessert, eine genauere Stellenangabe aus Mi-
randa hinzugesetzt, nm\ den als Moglichkeit hingeworfenen Deutungsversuch aus
aterecer zu eiuer tatsachlichen Gewissheit umgemiinzt. Sie erklaren den obigen Pas-
sus durch nào se resfria, und behaupten kurzweg estrecer sei aterecer-se und synonym
vaìi agnar ^ perder a forca, fcar transido, gelado de f rio. — Constancio verwirft diese
Ansicht und schlàgt eine neue, gleicli willkiirliche Etymologie ver: das kast. estre-
char-se, oder frz. e'tre'cir und iibersetzt unser Verbum durch estreitar , encolher ! Seinen
Spuren folgen Caldas- Aulete , (der iiberdies genaueres iiber die Flexion des Zeitwor-
tes weiss, da er als Paradigma ahastecer angiebt), und Bòsche der sich zwar des
Etymologisirens enthalt, estrecer-se aber, nach freier Benutzung des Constancio, mit
enger, sckmdler werdeii, eiidaufeii, eingehen(\) wiedergiebt und auf diminuir und min-
guar als auf gleichbedeutende Verben lùnweist.
Bei Moraes haben sich die Herausgeber des «Parnaso Lusitano» Rats geholt;
sie schreiben II 275 seine Ei-klaruug, sein « nào dimiime » ab und legen demgemass
die erste der Miranda-stellen so aus als wolle sie sageu: die Selinsuclit Idsst nicht
nach, hort nicht auf. Selbstandiger geht Antonio das Neves Pereira zu Werke.
In seinen Aufsàtzen iiber port. Philologie (Mem. de Litt. Porfc. voi. V) , ' in denen
"Wahres und Falsches sich misòhen, kommt er drei Mal auf estrecer zu sprechen.
Zuersfc p. Ili erklàrt er " estrecer mit extinguir und rechnet es zu den gutenalten,
£nsaio sobre a filologia portugueza por mcio do c.vinnc e compavncao dn. locncào e esiilo dos nossos mais
insignes poettts que florecerào no sec. XVI und Eiisaio critico sobre quid seja o uso prudente das palaoras de que se
servirrw os nossos hoiìs cscritores do sec. XV e XVI e deixarào esquecer os que depois se seguirSo.
'- Daselbst stelit das bekannte estruir (destmir) (Z. B. bei G. V. HI 331) sm Stelle von estrecer. ein Verseben
welclies in dei- 1"" Auflage des Moraes s. v. estrecer bereits bericbtigt worden ist.
— 128 —
echi natioualen Worteu. Dami, p. 155, preist er abermals das treffliche uud cha-
racteristische Wort, iind zuletzt p. 170 meiut er, das barbarische im Volksmunde
iibliche Verbnm estrocer (z. B. in der Phrase estrocer a dòr) sei aus dem feineren
estrecer verderbt worden.
So weit die portugiesisclien Stimmen nnd Urteile iiber das "Wort! Das letzte
Urfceil, die Gleichstellung des populairen estrocer und des veralteten estrecer enthàlt,
wie mir scheint ilirem Urlieber unbewusst, in sich den Keim zu einer neuen,
vielleicht der richtigen Etymologie. Estrece sfceht fiir estrncce d. h. es kommfc von
eiuem Infinitiv estrocer, fiir estorcer lat. extorquere. In diesem Falle wàre Kastilien
seine Heimat.
Nun, diesen Infinitiv kennen die altsp. Denkmaler sehr wohl iind verwenden
ihn iiberaus oft. Er bedeutet buchstablicli : sich herausininden cms etwas, es vermei-
den, entkonimen, davonkommeii und wird durchaus korrekt von den Herausgeberu
der altspan. Texte, Sanchez, Grayangos, Janer eto. uiit evitar evadir escapar librar
nmschrieben (port. escusar). Man fasse die folgenden dicliterischen Stellen ins Auge :
Are. de Hita 12G Segund naturai curso non se 2)uede estorcer.
767 pensando los peligros podedes estorcer.
1646 De aqueste dolor que siento tu me denna estorcer.
Alex. 716 per qual guisa que fiie muclios estorcioron.
1255 veyen que de la muerte non podien estorcer.
Danza 16 querria sy pudiese la muerte estorcer.
Apoll. 70. Si estorcer pudieres seràs bien aventurado.
Ili de los omnes uenguno non pudo estorcer.
152 ca bien entendieu todos donde era estor^ido.
223 que con el cuerpo solo estorció de la mar.
279 seremos todos muertos, estorcer non podemos.
335 dixoles de qual guisa estorció tan lazdrado.
417 si vos daquesta manya pudierdes estorcer.
492 por amor de furtar-me de muerte me estorcìeron.
640 Gommo omnes qne pudieron de car^ell estorcer.
und vergleiclie die Prosa, z. B. von « Calila e Dymna », die sicli fortwàhrend des
Ausdrucks bedieut:
p. 17 estuerce del daiio (= entflielit der Weltlnst).
26 estuerce por arte (•= kommt mit heiler Haut davon).
» salir et estorcer de aquello , cu que es caldo.
27 guisarà corno estuerza de ti.
29 guisa comò estuerzas.
80 estorceremos todos.
» non se debe home meter a peligro podiendo estorcer.
» estorcerà.
!> de guisa que e.'itorciese.
33 logar donde non puede estorcer.
» estorceràs asi tan quito del leon.
34 non estorcerla del leon.
— 129 —
36 non cstoreeràs.
» has esperanzas de estorcer de tan grande pecado.
37 non estorcer.
» tu non estorceràs.
40 por estorcer.
41 non estorcerà de la mala andanza.
> punnaban por estorcer.
46 fuyendo en tal manera que esforzamos de este peligro.
47 estorcieron los uuos por los otros.
» estorcer de muy grandes tribulaciones.
48 estorcer de grant dano.
» el que feciere mal feoho non estuerza la pena.
Cane, de Ees. I 205 E.itorcendo toda ora
Sem conto penar sobejo,
bradando vou : oh senhora !
Die alten braucliten also estorcer als Verbum intransitivum oline jegliche Eec-
tion; oder sie sagteu estorcer alg. e, la jiena, la vmerte, dolores etc. odor liessen es die
Prapositiou de regieren : estorcer de alg. e, de muerte^ dolor, peligro etc. Und das port. Volk
bedient sich keiner verderbten und barbarischen, sondern nur einer archa'ischen
Formel wenn es beute sagfc: estorcer ìima dar, um perigo etc. Genau in demselben
Sinne, durfte Miranda sagen A suidade nào se estrece d. h. 7iào se póde estorcer:
die Selinsucht ist tmvermeidlich, que ha de vir e nào se estrece: sie viuss Jcommen,
sie Idsst sich nicht vermeiden, man entgeht ihr niclit. In den span. Stellen ist no se estrece
durcb. eine uupersonliche Formel wiederzugeben, wie etwa: es lassi sichnicht leugnen
dass.... oder es ist Mar dass...., Phrasen, die von deni (ledauken es ist oder ivar unver-
meidlich nicht allzuweit abliegen.
Sachlicli scheint daher die Zuriickfiilirnng von estrece auf estrocer fiir estorcer
sebr wold niòglich. Und phonetisch?
Dass man trocer fiir torcer, also auoh estrocer fiis estorcer sagen konnte, und gesagt
hat, bedarf des Beweises nicht. Das port. Volk zieht die Form trocer entschiedeu
vor. Wie torcer nun tuerce, contorcer contuerce, so bildete — wie die obigen Stellen
es zum Ueberfluss beweisen — aneli estorcer ein regelrechtes estuerce; estrocer also
estì'uece.
IJbergang von «e zu e, besonders in unniittelbarer Nahe vou r und /, ist oft
besproclien worden. Gleichwie a.ns fruente , frente ; aus afruenta, afrenta; aus estuerà,
estera ward; aus luerdo, lerdo (lurYi\dus); aus snerba, serba {serbum sorba); aus culuebra,
culebra (colomba); a,us Jiueco , Jleco {floccus); aus suerdo, cerdo {sord[id\us) , aus seciiestro,
secresto, so durfte estruece zu estrece werden. ' Ein Infinitiv estrecer, so er wirklich exi-
stirt, ware dann, nachdem die Herkunft von es^rec« sich verdunkelt batte und das
Wort ein seltenes war, vom Volke aus der vereinzelten iibrig gebliebenen Form
abstrahirt worden.
' Siehe auch pes fiir pues lat. i)Ost im ka,st. i>escuezo pespunte pesponto, port. pescoso pesponte, j^ort. pespegar ;
astur. atbedro iur albuedro aus lat. arbutrum fiir arbutum ; Tnaat. careTia fiir curmna; lejos fiir Unjos {longiis); viel-
leicht auch combUzo fiir combluezo. — Vgl. N" 30 pelmazo.
n
- 130 -
Eine andere Auslegiing als die oben von vniv vorgesclilagene ware freilich
noch moglich und wird manchem vielleichfc darum vorziiglicher ersclieinen, weil
sie die Heimat der, niir in den Werken eines portugiesischen Dichters vorkom-
menden Form estrecc in Portugal suclit. Estrece, oder in dieserà Falle der Infinitiv
estrecer, kònnte fiir estraecer steheu. Man vergleiche esquecer von cscaecer ; aquecer ftir
acaecer von calescere; aquentar fiir acaentnr von acalentar, und, was das prostketische
ex betrifft, espadecer esmorecer etc. Estraecer, buchsfcàblich also^heraus ziehen wie
estorcer z=lierausunnden, konnte leicht denSinn annehmen sìcli einer Saclie entziehen ,
sie vermeiden, und bat ihn wirklich, z. B. im Cane, da Vat. N° 930, 21 : ' ca non
■pod' el tal morte estraecer. Das alte Liederbucli kennt iibrigens auch unser estorcer. ^
Welche Deutung ist die richtige? Oder sollten gar estraecer und estrocer in
estrece zusammengefiossen sein?
Mit aterir terescer aterecer (span). estar vescer estnrrexer (port. gali.), wober uteri-
miento und aterecimiento ^^ (und wozu wohl aucli ateritar tirìtar =zvor Kdlte zittern, geho-
ret) einerseifcs, und andererseits mit estrecìiar (span.), étrécir frz. , estrecier afrz. (von
strictus s<rtci*Ms) hat das span. port. estrece j e denfalls niclits, absolut uichts zu tuu.'
20. Fasca fascas hascas.
E. W.'"" hascas: hasta casi. — Sanchez Gloss. zu Berceo, Alex., Fita: faz caso. —
Zscbr. VII 120, Baist, ohne Erklarung. Er verwirft einfach beide Etymologien. —
Die Formen mit / sind an die Spitze zu stellen, und unter ihnen wiederum die
ohne paragogisches Schluss-s, deun diese ist die urspriingUche , an deren Echtheit
nicht zu zweifeln ist. Sie findet sich im Alex. 1413 :
onde vio Tauron qne non poclia entrar,
fasca non querie menos en su tienda estar.
' TheophUo Braga verandert in der iritischen Ausgabe des Canoioneiro stillschweigend estraecer zìi
escaecer wozu kein Grund vorhanden ist. — Fiir entkommen vermeiden brauoht G. V. I 248 estorvar. Nào se póde
eacitsar a pasiada d'este rio nem a morte a'estorvar.
■ Lied 1096 begumt in der Editio Monaci:
loiian incbolas (1. Nicolas) souhe guarecer
de mort im liom assy per sa razou
que fuy iulgad a foro de leon
que nò denya demo castorcer.
Braga andort, ziemlich unbedacht, que non devya demo cas torcer. Ich wenigstens verstehe nicht. Ich schlage vor
zu leson que non devila de mort estorcer. Dieselbe Phrase, welcher wir im Altspan. begegneten, und die das port.
Volk beute noch kennt, glaube ich deranaoh im Canoioneiro zu finden.
' Noch weniger mit aiericia atericiar atiriciar (von hyctericia), obwohl der zufiillige Gleichlilang schon znr
Aufstellung dieser ganz vorkehrten Gleichung gefiihrt hat.
' Noch oinon Punkt mbchto idi beriihren. In den < Autos > dos Ant. Trestes lese ich auf p. 143 in einer
sohr schwor verstandlicheu , dem Ansoheine nach ein Wortspiel in sich bergenden, StoUe die Phrase estrerfuir
dùr. Eatref/uir ist unbekannt. Ich vermuto estronidr oder estrogir. Konnon diese Formen mit estorcer identisch
sein d. h. in letztem Sinue von lat. extorquere herstammen? Vielleicht. Edrogiiir eslreijiiir hiitten den Gnttural
bewahrt wie das voraltete gali, munr/uir das nehen mungir, jniigir stoht, von miilgerc (Saco Arco p. 294); languir
von tangere (ib. 210) ; kasfc. crguir ergtier noben ergir erger ercer.
— 131 -
2) in der Conq. de Ultr. p. 550.
cabalgó o fuése pora su hermano el omperador faaca por razou de servir é guardar;'
3) ib. p. 592.
é estos le enviaba él fasca por amor.
Die Formen mit s sind ungleich haufiger. Man sehe :
Berceo. Dom. 188 mas era de tal guisa demudado el viento.
que fascas non avieu ningun sostenimieuto.
ib. 443 avie fanras perdida la mano de dolor,
ib. 539 ca liascas non podie corner una bocada.
S. Oria 162 lo que ella comia non era fascas nada.
Mil. 464 issio confcra la claustra hascas sin nul sentido.
Alex. 166 fallólo que iazia fascas amortecido.
776 una agua de grant guisa, fascas semeia mar.
840 priso en aquel banno un tal destempramiento.
que cayó fascas muerto sen seso e sen tiento.
868 estauan Ics reys ambos fascas en un taulero.
966 mas esto a lo al fascas non an (?) monta. '
986 el golpe de su punno valie fascas dun ma90.
1253 el mismo don Alexandre era fascas cansado.
2373 (nicbt 2353) se entrando non fusse, fascas non perdira nada.
2389 las ondas del deluvio tanto querien sovir.
per somo de Tyburio fascas querien salir.
Apoll. 514 quando prenyada .sseyo, semeio fascas rana. ^
Juan Manuel, Cast. cap. 4 oa fascas tan grave cosa es vivir home....
Fascas que ist salir selteii. Icli keime iiiir zwei Beispiele aus deu Werken des
Erzpriesters :
800 està lleno de doblas , fascas que non lo entiendo.
938 fascas que me amenazaba.
Die JJehersetznng fast, beinahe bietet niiu zwar in alien Fàllen einen guten,
verstandlichen Sinn; und felilte die Form/asc«, und wàre ferner ein eiuziger Be-
weis dafùr vorhanden dass man fascas betont bat , So kònnte man sich vielleicbt bei
der von Sancbez vorgeschlagenen Efcymologie aus/«,s cas fi\r faz caso, ' mit seltener
Apocope des o, beruhigen, ^ obwohl es in diesem Falle immerbin befremden musate
' G-ayangos maclit zu dieser Stelle die wnntlerliclie Beraerkiing: pasca està aquì por fascia 6 hacia corno si.
dìjera pora hacia el Emperador.
' Morel-Fatio (Bom. IV) sagt mit Rcclit, (lev Veis sei dunUel und verderbt. Vielleioht darf man lesen non
amonta Qud demgemass ubersetzen: dienes jcdoch, devi ilbrigen verglicken, ist scheìnbar nichts wert uud unbs-
deutatd,
' So Fidai; Sanchez ìleut fastaa.
' Caso que oder oinfaohes caso bedeutet im Falle dass. Unter Fas caso que daehte Sanchez sich also etwa setse
den Fall, dass.... Mit Fazer caso hat man jedooh, so viel ioh weiss, niemals diesen Sinn vei-knupft. Fazer caso
de nh/. e. bedeutet sicli um eine Sache kiimmern oder bekilmmern, sie fiir wichtig lialten; nnd die Phraso nUo faz ao
caso heisst cs Ud nicìits, scftadet nichts ^n^o importa. — Den Fall gesetzt, angenommen dass, giebt der Hispanier mit
dado 0 caso wieder.
' In dei- betreflenden Phrase batte auf caso ein starker Hoohton gelegen, ware also ganz anderen Gesetzen
nnterlegen als casa in ere cas de, a cas de, und guisa in a guis de, nnd /oro in a for de, und nome in era nom, de.
Cfr. N". 29.
- 132 —
dass mir zwei Beispielen fiir fazcas que ueiinzelm andere oline que gegeniiber stelien.
Dass die Formel faz cas{o) qua sicli zu fasca abgeschliffeu liaben solite aber , sclieiut
schier immoglicb.
So wie die Saehen stehen, liat man die Yovra fasca zu erklaren iinter Bernck-
sichtigung von fascas als Nebenform, deren s angesiclits von quizds neben quizd,
doncas neben dorica, soncas neben sonca, ' snmicas neben samica etc. etc. nicht schwer
und mit ziemlicher Sicherbeit als paragogischer Znsatz zu deuten ist. '
Icli sebo va. fasca den Imperativ oder die 3*" Person sing. praes. faz von fazer,
nnd die Conjunction ca fiir que. i^asca bedeutet aìso: nimman dass.... glaube dass,... oder
vielleicbt aucb, iinpersònlicli und nicht als Aufforderiing verstanden, es titt sicli so an
als oh.... es sclwint dass Man kònnte die Formel demnach mit dem Anschein nach,
gleicìisam als oh.... scheinhar ubersetzen — Pbrasen die, in ihrer bescbrànkenden, in
Zweifel ^ stellenden Bedeutung in Wahrbeit sebr nalie an fast, beinahe angrenzeu.
Im Portugiesischen ist die Redensart fdzque, eine der Formeln welclie unter
eme/i Wortaccent fallen; sie ist nocb beute eine durcbaus iibliche, tindso klarund ver-
stàndlicb dass die Wòrterbiicber es nicht einmal fiir der Milbe wert balten Pbrasen
vne faz qìie nào ouve, faz que nào ve, faz que nào quei; zu verzeiclinen. Dieses faz que
bedeutet er {sie, es) iut als oh; es scheint als oh er (sie, es) nicht sdlie, li'órte, wolle oder
scheinhar sieht, h'órt, lolll er nicht. Aus der port. Scbriftsprache habe ich mir kein Bei-
spiel als Belegstelle notirt. Ein einziges galliziscbes ziebe ich aus den « Cantares
Gallegos » p. 109, das aber sebr cbaracteristich ist:
E ti rosa, roxiùa,
qu'os pes dos homes miras
para non velie a cara,
e faz que non entendes
cando d'amor che falan:
Das altspan. fasca(s) wiirde bier, und iiberall, die Stelle und Rolle von faz que
vollkommen adàquat ausfiillen.
Fragt man nacb àbnlicben -aus eiuer Verbalform und der Konjuuktion et oder
que entstandenen adverbiellen E-edensarten, so bleibe ich die Antwort nicht schuldig.
Ich kenne erstens das gallizische, auch im bercianischen iibliche seica seique = ich
tveiss dass, welches mit geiviss, sicherlich, manchmal jedoch nur mit vieilleicht, mog-
licherioeise zu iibersetzen ist. "Wer die Grammatik von Saco Arce, die Gedichte
von Rosalia de Murguia oder die berciauiscbe Gedicht-Sammlung zur Hand hat,
' Ubor sonca soncas, samica samicas sielie Groober, Zsolir. V p. G02 unti S,1 do Mii-an la, ed. C. M. do Vascon-
cellos, Glossar.
' Man vergleiche auch gali, dendes fiir dende; nuncas fiir nunca; somenles fiir somente; indusqiie fur ùtda
que; port. alìmrcs alffures und nenhures neben alhur algur nenhitr etc. etc.
' Auch der P)eonasmu.s /a« ca que bildet kein Hinderniss fiir meine Etymologio, da sich Z. B. aus son ca
nnd sonquc d. i. auR sino que ein keineswegs soUenos soncas que. entwickelt hat. Siohe G. V. 123. Die Formeln sonca
que; fasca que wird man schwerlioh auffiuden, da sie ihren Ursprung noch ali zu deutlich vorraten. — Bewiesen
wird durch die Esistenz der fraglichen Bildungen nur, dasa schon vor dem 1.5 ten .lahrhundert das Bewusstsein
von ilirer Entstehung und ihrem eigentlichen Sinn abhanden gekommen war.
— 133 —
wird sich leiclit von der Existenz und der grossen VolkstihnlichkGÌt des Ausdrucks
uLerzeugen konneu. Hier nur drei ausgewàhlte Beispiele:
Ros. p. 142 e seka nou faltou queu Ile dixera....
Bere. p. 227 o crego estuvo
tentao cou Lucas d'empreuder a paos,
seique porque este pouco honesto anduvo
en mirai' a pastora,
ib. p. 275 0 dar lixeira unlia volta
se Ihe caen a rapaza,
seique por levala solta.
Zweiteus kenue icii das span. port. in den Dialekten ùLeraus gebrauchliche ,
und in Brasilien zu erweiterter Verwendung gekommene dizque, auch disque == der
Suge iiaclì, ir /e man .so sa/jt, ' filr dessen Verwendung ein einziger Beleg gentìgt:
Saoo Arce p. 309 Vicina da erguida serra
que em tempo disque abrigou
mouro de condiciou perra.
Dritteus creoque = so v'iel idi weiss, das im Gallizischen mit seica und dizque
ziemlicli gleichbedeutend, doch. weniger iiblicli isfc. Saco Arce p. 212 — durch deu ich
es kenne — neunt es un verdadero adverhio.
Viertens das bercianische jJOtZajiie = vielleicht, Jioffentlich; wortlicli es moge kon-
nen, sein, gescìiehen dass z. B. p. 164: ya podaque todos cuideis qua....
Fiinftens das brasilianische imrézque fiir parece que = dem Anscheiii nach, das
genau so wie disque verwendet wird. "
Ca fiir que kann der Befùrwortung entbehreuiindlìegt ja auch im oben erwahn-
ten seica vor. Beispiele filr das paragogiscli zugefilgte s nannte ich schon. Die
Uebersetzung scheinhar, wahrscheinìicJi genugt in alleiL Stellen, in àenen fasca fascas
luiscas Verwendung fanden. Die ausscldiessliche Schreibnng fas hns ist freilich auf-
fallig; die Scbreibung an sicli ist es nicht, da aucb haser vorkommt, und im brasil.
disque derselbe Wechsel von s zu s eingetreten ist. Sonst wiirde die hier versuchte
Deutuug lautlich ebensogut wie dem Sinne nach befriedigen. "
' Auf dem Pestlande behauptet dizque nàmlicli seiue ursprtlngliche Steìlnng ani Anfang des Satzes und
tragt anf {«e einen secundaren Accent, warend der Brasili.aner die Formel an das Ende des Satzes stelli und sie
unter einen Accent fallen liisst.
- Bemerkt sei lùerbei dass die alte in span. Wórterbùcliern umgebeude Formel pazqitc statt parece que,
welclie Z. B. auch Cuveiro Piiiol verzeiclinet, sich moglicherweise noch als schlecht gelesenes abbreviirtes pa-
rezqne. oder als fazqiie d. h. als unser fascas entpuppen ìvird. — Ich kenne sie nur aus Tirso de Molina p. 532. Auch
das im Kastilianischen so belìebte penséqite muss erwàhnt werden. Der Komòdientitel £Z castigo del penséque
von Tirso de Molina ist bekannt.
' Bei G. V. I 13.5 ftndet sich das Wort /oscns in folgendem Passns: Issohefoscas mui asinha Por me metter
rthentinìia, Mas perol nào t'hei de crer. Der ungefahi'e Sinn ist: Das sind ìiòclist wahrscheinlich nur Flauaen. i?e-
denaarten die micìi drgern sollen, und darum i/erade werde ich Dir niehl glauben. Auch Jorge Ferreira de Vascon-
cellos. Eufrosina p. 164 kennt es; er sagt: tado isso suo foscas foscas. Steokt in diesem /oscas , welohes von den
Wórterbiichem als port. subst. fem. fosca katalogisirt wird , das alte fasca ? Kanm ! Vermutlich hat man es mit
dem in lasco fusco weiterlebenden Adjeetiv /«sco /osco zu tun, d. h. mit lat. /«««(«.
— 134 —
21. GuiNILLA.
In clen spau. Wòrterbiicheru als Proviucialismus erwàlmt. Ist galliziscli und
bedeutet PtqnUe, Augapfel. Gidnilla entspricht kast. guindiì.la, einem Diminutiv vou
(/umda^: Weichselkirsche. Vgl. esccma nebeu escanda, penol ueben lì&ndol. J] eber guinda
und quinja, ])ovt. giiija, woher auch altspan. yeuiUa, frz. guigne, afrz. guisne, kat. ginjol,
frz. giiujeole siehe Diez , E. W. 1 445 unter visciola. Auf der Halbinsel bàtte das Volk
also die grossen scbwarzen i^ugapfel seiner Sòbne und Tòcliter mit den dunklen
Kirsclien verglichen, — ein Bild, ahnlich dem welches im frz. primelle=PflUumclimi
.steckt (span. primela ist ein Gallicismus). Docli hat sich das treffende Bikl (spricht
nicht aneli das deutscbe VolksKed von Kirschenaugen ?) in der Schriftsprache,
gegeniiber dem klassischen nina, port. menina (lat. inipilla, griech. v-óf-Tj) nicht
gehalten.
22. Leiea.
E. "VV. II'' okne ErkLarung. — Zsclir. VII 102, Baist; von cireM. — Das port.
Wort, welches auch in Gallizien und in der Landschaft Bierzo heimisch ist, habe
auch ich schon ver langer Zeit fiir eiue Scheideform von eira=:DrescMenne (bere, noch
beute atra) gehalten , d. h. fiir lat. area mit aiSgirtem altport. Artikel la (altport. aiich
taira). ' Bereits in Dokumenten von 870 liest man larea und laria (Port. Mon.,
Chartae p. 4 u. 15). Es bedeutet nicht eigentlich Beet, -wenigstens kein Blumen-
beet ^ sondern einfach eine Scholle Erde, cm /Stiickchen Grund und Boden, einen
Flecken Landes, off. auch einen kleinen, meist langen und scJimalen Erdstrich der zum
Planzen von Koìd und anderem Gemiìse òenutzt wird, i;nd den man ja wohl auch Ge-
museheet neunen kann (friiher aller Wahrscheinlichkeit nach, wenu die Etimolo-
gie richtig ist, von bestimmtem Flàcheniuhalt?).
Zu bemerken ist dass neben leira ein Maskulinum leiro existirt , meiues Wissens
nur in der spanischen Landschaft Bierzo, mit vollkommen gleicher Bedeutung wie
leira. Poes. bere:
]). 224 o leiro da oorzapifia y o prao do vai.
302 as foUas das patacas se esmureoian nos leiros.
Und dies Nebeneinander briugt mich zu der Frage, ob in altspan. ero (das einen
von era deutlich unterschiedenen Sinn hat, da es Trager des Begriffes Stììck Landes,
und zwar Ackerlandes war, wahrend era nur Dreschtenne war und ist) ob im altspan.
ero nicht auch area steckt, das man als substantivirtes Adjektiv ansehen und daher
doppelgeschlechtig machen konnte. " Dass ero wirklich Ackerìaud benanute, zeigen:
Fita 1211 derraiiiar la simicntc al ero.
720 lue sembrar canuainones en un vicioso ero.
317 levólo et corniolo a mi pesar en tal ero.
' Siehe oben eiva N. 17 wo icli bereits auf gali. /oi/o = kast. Iioyo, port. /o^o, lat. /oc e a liiuwies.
■ Das Blumenbeet heLsst aUgrete.
' Vgl. das eben genannte hoyo neben /loi/rt aus fovea.
- 135 —
Dagegeu ib. 12Gt):
trigos e todas mieses en las eras tendiendo.
Der Samen wircl in deu ero gestreiit, die reife Frucht auf dio era. Ero kònnte
freilich aiich, wie altport. aro (E,om. XI 81, Cormi) vou agrum kommen (eine
Efcymologie, die wie idi iiachtraglicli bemerke, vou Baist, Z.sclir. VII, p. 633 befiir-
wortet wird).
Jedeufalls aber siud von ero = Arlcerland iind nicht von era^z Tenne die Substan-
tiva erta erial und erlazo abzuleiten, denn anch sie bedeuten Ackerland, und Diez (IP)
der sie aneli als nrsprimgliche Adjektiva ansieht, irrt wohl wenn er sie mit temie-
nartirj , ìcie eine Tenne hescliaffen (d. h. glattrasiert) unanfjeòaut wiedergiebt (in Uebe-
reiustimmnng mit einer modcrnen Verwendnng der Worto fiir Bracliland das mit
pousio (port.) vorziiglich gut gekennzeiclLuet ist?).
Man sehe:
Fita 721 comed aquesta semiente de aquestos ertales (=Felderu).
124G dà primero farina a bueyes de erias (=Feldern).
14G3 tal homen corno este non. es en todas eriax (= Landeii).
1208 de juglaros van llenas cuestas e eriales (=Hohen u. Ebenen?).
Ero era leiro leira also , meiner Ueberzengung nach , lat. area. — Gehort dahin
etwa aneli das aragonesische alerà: llanura en que se hallan las eras? (Borao p. Ili;
das Wort steht ancK in alien span. Worterbiichern) Alerà = lera * mit prostheti-
schem a , wie aglera = glera (lat. glarea) (da die Eeiheufolge arca aira era l'era lera la
lera l'alerà zu kiinstlich nnd seltsam ist)? Alerà ist ein Streifeu oder Stilck trocke-
nen, oder von der Natur mit flachem Gestein versehenen Landes nnweit der Hànser,
welches als Tenne dieut. Lera diirften wir angesiclits des westlichen leira fiir ge-
sickert anseken. Dock gebe ioli zn bedenken ob alerà., und selbst laira lera, nickt mit
dem eben erwaknten altspan. glera aglera , ' port. gleira, d. k. mit lat. glarea eins und
identisck sein konnen* Dasselbe bezeicknet bekanntlick im astur. aleira llera « ein
trocknes sandiges oder steiniges ebenes Stiick Land besouders am Meeresufer. » An-
laiitendes l &\xs gì wie in liron lirào von glire; lande landre von glande; latir von glatir.
Und das albori. ler^Meerestrand Strand Kusten.stncli,' gekòrt es zu area era ero?
glarea glera lera? oder ist es ein ganz auderes, alt einkeimisckes Wort? Der Fragen
viele ! der Antworten wenige ! dock auck das Fragen niitzt ja bisweilen.
23. Macho.
Diez II*" und Studien p. 43. — Ob span. port. macho = Mann, mannlich identisck
ist mit macho =z Hammer , d. li. ob es auf lat. masctdus oder auf »if«'c«Z«(s zurilckweist,
' Poema del Cid 56. 2243..— Berceo , Mil. 442 674 : hier iiberaU alerà , docli kommt aglera vor. - Maria Egypc,
291 eglera (?).
- Cane, da Vat. N°. 246 Foy eu madre veer a.s barcas em o !er; N». 710 foy ham dia polo veei- a santa Marta
em o ler; N". 754 En Lisboa sobre lo ter barcas novas maudey fazer.
— 136 —
bleibe dahingestellt, obwohl ich, uugeachtet der laiitlichen Schwierigkeit , fiir das
erstgenannte Etymon ganz entschiedeii eintrete, imter der Annahme das si zu eh
werdeu konnte, wie idi andereu Orts nachweisen werde. Pess'lare von pessulum
ergab nàmlioh pechar und vielleiclit aneli fecliar; penisla d. i. peninsula port. Peniche;
ass'la d. i. assida port. acha (nicbt ascia und iiicht astia); Sixffix is'luii aus isculus
ergab iclio.
Hier handelt es sicli iim span. port. maclio = Maultier welches weder maixulus
macìio, noch mascul'us macho ist. loh setze Rìr macho := Maultier ein drittes Etymon an.
Es steht fiir moacho* m.iiacho, das uns z. B. iui Cane, da Vat. 1109 und im Cane.
Col. 109 begegnet ; dieses aber fiir mulacho welclies ebendaselbst zur Bezeiehnung
des jungen Maultieres vorkommt (Col. 409). Macho muacho mulacho ist also ein Deri-
vat von 7nu muu^ mulo, lat. mulus, und ist idontiscli mit mulato, welclien Namen
nodi das Cinquecento fiir Maultier kennt und benutzt. Man sehe Miranda 108, 280;
G. V. II 227, 111232,233, 243. Das junge mannliclie Tier wird gleiclierweise
dureh die Endungen acJio und ato bezeidinet, welclie also in diesem Falle dimi-
nutive Bedeutung liaben. Man erinnere sieli an lehracho lohacho borracho, und aucli
an mochaeho muchacho und riaclio, andererseits an chibato cercato jabato' corvato,
lobato und lebrato.'
Macho fiir muacho "wie callaclo (gali.) fiir coalhado {]port.) = coagulatus ; port. gali.
cando fiir quando, cai fiir qual, calidad fiir qualidad, Jani fiir Joam, consante fiii"
coHsoante. A fiir uà gebort dem "westlieheu Spracligebiet an. ''
24. Madroào.
Einen Namen fiir den Erdbcer- oder Mecrkirschenhaum iiberkamen die Lateiner
den Eomanen. Es ist arbutus ( arbutus unèdo bei Linné.) lek habe friiher versueht
nacbzuweisen dass das astur. albédro, gali, érvedo hérvedohéròedo, altp. érvedo érvodo,
kast. alborto, alborzo, bisk. borio, kat. arbos arbosser, mail, arbossa, frz. arbouse ar-
bousier, arag. albrocera alborocera zum Teil aus arbétus zum Teil aus arbiitrum (fiir
arbfdrurn), zum Teil aus adjektivischem arbuteus hervorgegangeu sind. ' lek liiitte
noch das ital. albatro aus arbùtriim hinzufiigen kònnen.
Diese alten hispanisehen Vertreter des lat. arbutus sind lieutzutage im Munde
des gebildeten, aber nieht fachmànuisdien Spaniers nicht mekr zu finden. Der
Erdbeerbaiini heisst fiir ikn madroùera span., madronheiro gali., medronheiro port.,
und seine Fruckt madroho (sckon bei Juan Manuel, Obras p. 259) madronho medronho.
Nur als Provinzialismen leben die alten Namen weiter, auf hisp. Gebiete in
Gallizien, auf port. in der Proràiz Beira, welcke beideu Landschaften reieli an
' Muuz. B.Hv. de Linli. p. 186 u. Viit. 1000, im, muaih. 517, 1109, u. Coli. Br. 409,410; »!« boi G. V. Ili 216, 218.
' AuBjavali (aspan. javalin, vulgport. javuUm) dem arabisohen Adjektivo, abstraliirto man fiilsclilich den
Stamm jav.
' Siebe auch cegato niTiato novato nabato (rotw.) und nabaton.
' Was ist moacha bei G. V. z. B. II 81?
' Albédro aus albuedro albodro von albulrum fiir urbuirum. S. Studicn, jiag. 251.
— 137 ~
Erdbeerbii,umen, reicli aneli aii Ortschaften wie Ervcdedo Erbededo Ervedeira Ervedosn
Ervedal sind.
Ein Zusaminenhang zwisclien den alten iind den neuen Bezeichnungen ist
nicht, oder nur auf das allergewaltsamste liei'zustelleu mit Hiilfe des bere, mevodo
das ich weiter unten ini Artikel ilber morango erwahne. '
Nahe liegt es vielmehr in madronlio medronlw ein von mnturun vermittelst des
Snffixes -oìieus abgeleitetes adjektivirtes Substantiv zn snclien, uuter Berufnng
darauf, dass die Frucht sehr langsam reift, im Zustande der Reife aber durch ihre
kostliclie hoclirote Purpnrfarbe das Sinnbild aller Eeife sein kann. " Madronlio ware
verniutlich eine westliclie Bildung, da der Westen die Endung -onho bevorzugt.
Man selle medanho tristoiiho risonilo enfadonlio pediijonho guardonlio (Adjektiva) und
succedonho vidonJio " (Substantiva). Bei kast. Ursprunge wiirde man -ueno erwarten, wie
in risueno pedigueho lialag'ùeho viducno , oder -uiia wie in redruna veduno.
Das kat. maditxa maduixa., maduxera madiiixera, welches vorwiegend die
Erdbeere (fresa) aber aneli den madrono benennfc, wird von diesem Worfce kaurn zu
trennen sein. Mcuhixa filr madruxa von einem hypothetischen matur-uceus.* Zu ver-
gieiclien wiiren pori, garducho santucho peqtierrucho machucho hnrlenguche.
Eine frlilier versnclite Deutung von madrono ans dem Arab. sclieint mir
misslungen. Mathroniat matharunlat sind niclits als Arabisirungen der span. Form
madrono (inadruho*). '
25. Maecico.
Obras de D. Juan Manuel, p. 250'' Zeile 28 u. 57. — « Vogelart, welclie gejagt
wird, aber iiiclit selber jagt und sich auf festem Lande aufliàlfc wie Trappe,
E.olirdommel » etc. Vergleiclie Baist, Libro de Gaza p. 168. — Aller Walirsclieiulich-
keit nach. derselbe Vogel welclien der Portugiese macarico oder viassarlco nennt
{macarico wolil fiir macrico wie mnssnroca flir massroca span. mazorca). Hier zu Lande
ist er jedermann bekannt, wenn niclit aus eigener Anscliauung so dock von
Horensagen, durch folgenden Kinderreim:
Pico, pico, massarìco ,
quem te deu tamanho bico?
foi nosso senhor Jesu Christo etc.'^
' S. unten N». 27.
' Die schamroten Wangen dei* span. Schbnen werden im Liede unendlich oft mifc den madroTios vergli-
ohen. AugenbUcklicli fallt mir nur der andai. Vers ein : En dandole una gromita A cualquier mosa Pepilo , Lo mesmo
que un madroTiito Se pone de encarnada.
^ Sanfonlta aus sympkonìa; vergotika aus verecundia (alt auch vergon^a); peqonha Umbildung aus altem peQou
sp. pozon von polionem; vesonha, Umbildung aus veson = vision ; cegonha= ciconla. — Woher cnrantonha? — Bisonìio
vom it. bisogno.
' S. Colmeiro, Dico. Bot. p. 115 und das von Ihm citiite «libro de Agvioultura de Ebn-el-Awam, trad. del
àrabe y anotado por Banqneri », Paris, 1864.
" Mifc demselben Liedcben wird iibrigens auch noch ein anderer Vogel mit langem Schnabel angesungen,
falls, was sGlir wohl moglich ist. ein und derselbe Sumpfvogel nicht zwei Namen getragen hat. Das Liedcben
lautet namlich auch (bei Q. V. Etl 22): Qiiem te deu tamanho bico, Eostinho de Ccrolico? oder Sirolico tico tico
18
— 138 —
der ilin als einen Vogel mit sehr ' langem Schuabel cliaracterisirt. Nàheres wussten
die Laien der Naturgescliickte .mir nidit anziigeben; die einen erklilrten den
mussar ico filr eine Sclmepfensorte, ' die anderen fiir eine Reiliersorte, wieder andere
f'iir einen Kranicli : die Auswalil aber fand stets im Kreise der Sumpf nnd "Watvògel
statt. Die Worterbiiclier und die naturwissenschaftlichen Handbilcher besclireiben
den massarico als ave aquatica da orclem das pernaltas de Meo convprido e raho ctirto =
Ardeola marina, strepsilas, tringa mterpres, und untersclieiden den malarico redi
= numeni'us phaeopus ou scoloj>ax arquata; malarico das r o chas :^^ actites hypoleu-
cits; und macarico gallego =r: limosa melanura, scolopax limosa.
Das Wort zu deuten reiclien meine Kenntnisse niclit aus. Mit marzo marziego
Miirz liat es uichts zn tun. Die Erklàrung, welche Gayangos giebt, ist durcli und
durcli falsch. '
26. Meigo.
Zu Zsclir. VII p. 113. Auch der KastiLianer, oder sagen wir lieber auch die
spanisclie Schriffcspraclie, die wie alle Scliriftsprachen den verschiedensten Provin-
zen Worte entlehnt, bedient sick des Wortes mega im Siune von Zaubrerin, Hexe. Die
« Picara Justina », die wie ich schon ofters erwahnen musste, viele Eigentiimlichkeiten
der niit westlicken Elementen naturgemàss reicklickst gesattigten Provinz Leon
entnimmt, brauckt das Worfc auf p. 57 u. 202: sirva de defenderse una persona de
hellacas òrujas sanguijuelas , que asi Uamaron los antiguos a las lamias, hrujas y
megas. Graston Paris, Eom. XII p. 412 sckliigt vor an Stelle von magius die
Form magicus, als Etymon anzusetzen , und auck Herr Baist sprack mir vor
Zeiten in einem Briefoken dieselbe Ansickt aus. Magicus inalcus maigo meigo kast.
mego entspracke vom zweiten Gliede an genau der Entwickelung von Idicus durck
laigo zu leigo kast. lego. Und gegen den ersten Sckritt, Ausfall von g zwiscken Vocal
und Vocal (a + i). ware auf port. Gebiete nickts einzuwenden. Es geniigt an mestre
durck meestre aus maistre magister, an setta durck seetta aus saitta fiir sagitta, an hainha
aus vagina, mais aus magis zu erinnern. Was mick dakin gebrackt, die Form magius
lieber denn magicus als Etymon aufzustellen , an die ick natiirlick auck gedackt,
oder Sirolico lieo tico oder Sorrobico massarico) Qiiem te deu tamanho Meo? Und dieser ceroUco sirolico sorrobico
heisst feruer seropico soropico soropicote. und, wie der Spottname des Dichters Fernao Eodrigues Lobo beweist,
Soropìta Sorapita Surropita Suropita Zarapita. Kast. sarapico und zarapito (Fila 987; Cai. y Dim. p. 74). Der
Katalane nennt das Tier (deu numenius pliacopus) polii. — Cfr. Hom. VI p. 54.
' loh sago sehr lang weil der Goldsohmied sein feines Lothrolir naoh dem Schuabel des massarico ge-
tauft hat.
' Meiner Moinung naoh das Rtclilirje. Ilier kommt der massarico bisweileu, als gixtes Jagdstuck. zuni
Kaufe auf don Markfc, doch ist es mir noch uiclit gegliickt die Gelegenbeit beim Scliopfo zu fassen, xind den
fragliehen Vogol zu erwerbon.
' Die betreffendon Stollen sind Aufzahlungen und lauten: et los alcaravanee, et los marcìcos, et los siso-
nes etc. und Ila y olras qac se mantienen sicmpre cu el seco asi corno lus almfnrdas et ìos cucrvos caloos. et los
alcaravanes, el los mirlos \el los] marcicos el las ijamgas etc — Gayaugos bemerkt dazu, sein Augenmerk einzig
auf dio zwoito, vordorbto Stollo richtend: ' Marc ico adj. apllcado al mirlo. Diz-se tambion marziego (!) y (luizà
se tome del mes de marso. »
— 139 —
isfc die grosse Zuneigung der nordlichen und nordwestKcheii Dialekte der Halbin-
sel zur Ersetziing des auslauteudou o und a diircli io i;nd ia. Ausser den bereits
welter obeu untev a^amo erwahnten Fàllen seien angeflihrt: vulg. port. cifrìa, (juapio
morihuncUo ouvidio (Santo Ouvidio Schutzpatron der Ohrenkranken) melenia promes-
sia rabio escadia und altport. (u. vulgport.) clmvia und chuiva, venturia und venttdra,
in welchen beiden der gleiche Umsprung des i aus der Endsilbe in den eigentlichen
Stamm eiutrat wie in maiga. Vgl. aucli altport. Astuiras Estuiras fiir Asturias. Dies ist
ein kleiner Beitrag zu der zwischen Baisi und Cornu liin und ber bewegten Frage
iiber cudiar cuidar.
27. MORANGO.
Diaz, "Wortschopfung p. 59, erwithnt das Worfc irrtiimlicher Weise als spanisch.
Es ist portugiesisck. Der Spanier nennt die Erdbeere entweder in gelekrten Krei-
sen fraga, oder im gewohnlichen Leben des Volkes /resa [E. W. II''. s. y. fi'aise],
seltner (prov. ?) mayotn mayueta mayeta = Maifrucht [E. W. II''. VergL itak mag-
giostva]. Frilber soli er sie auck mit dem nock ungelosten micsgo (woker amiesga
miesgado amiesgado und durck Metatkese miezdago) bezeicknet kaben. ' Der Portu-
giese kingegen kennt fiir die in seinem Boden, wie auf der ganzen Halbinsel
(Aranjuez!) kerrlick gedeikende Fruckt keine andere Bezeicknung als morango fiir
die weisslicken grossen, moranga fiir die kleineren dunkelroten Sorten. Morangào
morungal morangueira sind Ableitungen zur Benennung der Pflanze als solcker, und
der Beete und Felder auf denen sie wackst. Die Orts ckaften Moraho und Moran-
gueiì'o liegen in G-allizien.
lek zerlege das "Wort in den Stamm mor und das Suffix ango (-anicios ?), das frei-
ck zu den seltneren geliort, ' kalte es also fiir eine auf kispanisckem Boden gesckaf-
fene Neubildung, fiir welcke kein unmittelbares Urbild in andereu Spracken (Lat.
Deutsck, Grieckisck Arabisck) zu sucken ist. Nur der Stamm ist lateinisck, ist das
bekannte mórus (grieck. [xtìipov und j),ópov), der Name also fiir Maulbeere u. Brom-
beere, der auf der Halbinsel diese selben. und nock andere abweicbende Beeren-
friickte bezeicknet, als da sind Himbeere Erdbeere und die eiues eigenen Namens
entbekrende Fruckt des Erdbeerbaumes (arbutus unèdo), (der, nebenbei gesagt, eiuer
der sckSnsten Zierbiiume des slidlicken "Waldes ist).
'Oolmeiro p. 126 stellfc miezdago unter die ùblicben Viilgaìrnamen dei* span. Pflauzen. Ob mit Recht? Das
brauclibare Bucli ist niclit immer zuverlassig. — tjber die Etymologie von miezga wage Icli nur eiiiige, vielleioht
ganz wertlose, Vermutungen zu aussern. Von mies (messis) wird es kaum kommen; die Bezeiclmung Erntebeere ver-
stande man in ilirem Motive niclit reolit. Eiier vielleicht lionnte miesgo das lat. vescus, d. h. dem Linnéschen //-a-
f/arìa vesca entnommeu sein. Hierbei sei bemevkt dass Colmeiro p. 231 unter den veralteten Pflanzennamou ein
mir gànzlicb nnbekanntes hiezf/o fiir sainbiicus ebuliis verzeiclinet. Icb vermute dieses biezgo sei Lesefebler fiii- yezgo
(altes yedgo), Attich Aditeìistaude Actenbecre (HoUunder), fiir den savibucus ebulus also. Dass dies .sjjan. yezgo unmòglich
ebulmn sein kann, wie Diez I" p. 161 s. v. ebbio sagt, sondern niohts auderes als deficit»* von ade grieoli ixrii fiir
àuTsa ist. Bei nebenbei erwiilmt.
- Diez Gr. II 377 eiico engo ango =la,t. inqulis ; ingo engo ango = deutsoii ing ling. Vgl. Foerster Gr. § 320 u. 322.
Docli sind der hispan. Bildungen in anca anco, anga ango, ancro, enga engo engtie, eneo, inga ingo ingitc, inca. onqo
onga,onca, unga ungleich melire als es nacb jenen Uebersichten den Anschein hat.
— 140 —
Morus steckt in deu peninsularen Namen ftìx
1) Brombeere: span. mora, mora de esjjuio, mora de zarza, zarzamora, port.
gali, mora, amora, amora de sìlveira, amora de silva; vai. mora de zarzal. '
2) Maidheere, span. mora, mora de mora! od. de murerà; port. mora, amora,
amora de drvore; gali, amorote.
3) Eì'dbeere, gali, amorote morote morodo morogo, port. morango.
4) Erdbeerbaumfrucht , Meerklrsche , gali, morote de ervedo und amorodo. Der
Einwohner von Bierzo neunt sie merodo (aucli morodoì), ein Wort. welches viel-
leiclit auderen Ursprungs ist, vielleiclit aber auch fiir morodo morote stehen kann."
5) Himbeere sp. mora roja, mora de zarza troyana ó idea, mora de zarzafraga,
port. amora roxa oder vermelha. DÌ6se Bezeicliniiugen siud selten, docli volkstumlicli.
Der Grebildete nennt die Frucht [morum idamm] mit dem niederlandischen Worte
frambuesa,frambueso, welches das Volk sich durch Umbildung zu sanguesa sanguéso
(gleichsam also Blutbeere) mundgereclit gemaclifc liat. '
Das altport. benannte zwei hockrote Beerenfriichte mit Derivaten von morus;
mit morèco entweder die rote Erdbeere oder die Meerkirscbe , mit amora walirscliein-
licb die Himbeere. Man lese das 1062te Lied des Cane, da Vat. , ' in welcbem die
weinrote, ins Blaulicbrote spielende Nase eiues Bischofs von Viseu mit Tollapfeln,
mit Feigen, mit Scliarlach, mit Himbeerrosen und zuletzt mit der Erdbeere, wenn
ich morecescuro richtig dente, und mit Himbeeren amoras maduras verglichen wird.'
28. Mouco.
Port.: sclmerhorlg. — Bei Diez E. W. II''. oline Erklarung. — Eom. IV p. 367 von
Bugge aus mucus* griech. jj-Oxcc gedeatet. Befriedigt weder lautlich nocli dem
Sinne nach. — Was ich hier verzeichne ist nur ein Einfall; vielleiclit jedocli der
Einfall einer gliioklichen Stunde.
Dass mouco aus manco entstanden sein kann wie ouro aus aurum , pouco aus
IKiucus, ronco aus raucxi,s liisst sich nicht leugnen. Manco aber diirfte auf'ein urspriing-
' Der Maulbeerbaiim beisst span. moral, inorerà, port. moral. mnoreira, der Brombeerstrauch {rubus) dort
zarza zarzal, auch zarza-idea nnd selbst moral zarzal (woher zablreiche Ortsuamen wie Morales Moraleda, ja sogar
Moralzarzal), hier silca silveira.
■ '■ Poes. Bere. p. 206 u. 245. - S. oben Madrono N» 21.
' Blutbeere nennt der Spanier bekanutlioh auch, nach alter lateinischer Sitte (Plinius), dio Korm'Ikirsche
mit den Worten saiigueno sangiùTiol pg. sanyuiiiha zniigrhilio (zaiKjrinheiro). Friiher beuutzten beide Sprachen
htiufìger cornizitelo cornizolo.
' Bemerken will ich dass der roten, stellenweiso ins Blaiilichrote hineiuspielenden Naso des weinseligen
Priilaten auch die Parbenbezeichnung cdrdeo beigelegt wird. Ich lese: et foi feda a hum bispo de Vi»eu, naturai
ìVAragom qiie era cardeo conio cada ima d'estas comas que contam evi està cantiya, ou màis.,., Th. Braga iindert auch
hier ohne jeglichen Grund und nicht mit gliiekiichem Griffe. Die verglichenen Gogenstande .sind bereniienlia ,
figos i^ofeinoa, escarlata roxa, rosa bastarda, morecesatro, amoras maduras.
' Mit amoras maduras vergleiohe man das kat. maduixa maduxa, maduxar maduxera madiixera und das span.
port. matiron/io. — Das kat. bietet ùbrigens fiir die hier verzeichneten Beerenfriichte recht abweichende Namen.
Die Himbeere heisst </er», der Himbeerstrauch gerdera: die Bromboere mora deesbarser; oder e.war.w.r der Straucli
esbarserar oder auch rnmaguera (^roma nietli: t'iir moraf odor von rubu.t, da an rumex dodi nicht gedaciit werden
kann f) ; die Kornelkii'sche jordu.
— 141 —
liclies midco weiseu ■wie faida aiif falta. ' Zuin Uberfluss seieu uocli Formen er-
wahnt, in denen ein port. ou aiis lat. id eritstanden ; soido -.^ saltus ; outeiro ::= altarius ;
ensoum = insaìsus; bouca = balsa; poupar = papar; toupeira von talparia, talpa.
Malco nun ist eiu Eigenname, ist der Name jenes berùhmten Kriegskneehtes
Malckus, welcliem Petrus einst das rechte Olir absclilug (Evang. Joli.), ihn also znm
Einolir machend. Den Schw&rhUrigen und den sicli ahdchtUclt tauh und ohrenkrnnk
stelleiiden konute man sclierzhaft selir wohl mit den Namen des sicheiiich berillim-
testen, òftest — in der Kirche — genanaten aller Eiuohre rufen.
Dass eia Eiuolir tatsachlicli einmal ein Malckus genannt worden ist, beweist
zum ilbrigen z. B. Estebanillo Gronzalez. Er erzalilt (p. 27 der ed. Paris) von seinen
Abenteuern als Barbierlehriiug : no acordando-ine que tenia orejas y pensando que todo
d distrito que cocjian las dos lentpuis aceradas, era madeja de Aòsaloii, apreté los dedos
y dejélo heclw un Malco.
Matteo Malcns steht also iu einer Reilie mit fiicar Fmjijer, sencjo Seneca, payo
Pelayo. '
Was die Begriffsiibertragnng von Einohr zu Stummelokr, schlechthorendes Olir
betrifft, so bietet z. B. sard. òisoyu, frz. louclie, port. zarolho eiuen iilinlichen Ùber-
gang, von schielend zu cindugig.
Von mouco abgeleitet sind mouquice, mouquidào, moucarrào, moucarrice, lauter gute
alte Formen welclie bereits in den alten Liederbiicliern vorkommen (z. B. Cane, de
Ees. I 396. 414). -
29. Non nom nào.
Spau. non noni; port. noni nào: Name; volgaire Kurzuugen des altspan. alt-
und neuport. nome (lat nomine; kast. nonihre) welclie jedoch nur in Schwurformeln
vorkommen: span. voto a noni de dios ( Valdivielso , Rem. Esp. p. 11) a non de dios
(Tirso de Molina p. 207); port. nào de deus (G. V. Ili 15), nào de san (id. II 498)
nào de Sào (id. I 251). — Diese Formeln fallen unter einen Accent; die Apocope ist
also genau so aufzufassen und zu beurteilen wie in anderen entsprechend gebauten
Formeln. lek meine en (de, a) cas de.... (spanport.); a guis de.... (Berceo, Millan 414);
afuer de.... (Mir. 102, 781); a for de (G. Y. I 195); a cab de (Mir. 113, 401); >' da
nemiga, hi de perro, hi de ruin etc. iiir fjo liijo de; gali, nò mais fiir nadamais; aport.
cdque fiir cadaque (Mir. 35, 4, dock problematisck) ; port. che-te = chega-te, guar-te
' Dar quince e faida Ausdruck des Ballsiùels. Span. dar quinse y falta.
■ Pelayo, der astm-ische Held und Konig, heisst in den port. Genealogien stetig Palayo, uud fiilirt immer den
Beinamen < o montesiiilin •■ S. Liv. de Linh. p. 231, iHS. Dass ans 'Palayo o montcsiiiho » palayo zuerst den Beige-
sclimaok, dann ausschliesslioli den Sino von « bàuerisch « annahm, liann nicht Wunder nekmen. Die Form 2mnyo fili-
Palayo bieten die Liv. de Linli. des ofteren, z. B. auf p. 249, wo vom heiligen Pelagius sam paayo die Rede ist;
payo aus Pelagius in dem bekannten Namen Sampaio. Im Kast. blieb payo in seiner Entwickelung steben sobald es
den Sinn von bduerisch |« agreste, safio »] grob, plump angenommen batte; im Port. gieng man noch einen Sohritt
welter; vom ausserlich baueriscb aussehenden, plumpen, knrzen, untersetzten Menschen ging das Wort dazu
iiber, eine dicke kurze ÌVurst zu benennen. — Angedeutet habe ich diese Etimologie bereits in meinen « Studien >.
— 142 —
= ffuarda-te , far-te = favta-te , cìpjìen-te = dejlende-te (Sjmn.) — Dies zu Diez II''
nombre.
Nach den Gesetzen der Satzplionetik wurden auch scnhor senhora iu den liispa-
nischen Sprachen behandelt, da wo sie iu der Anrede als "Vocative, iu Begleitung
eines anderen Wortes auftreten, welclies den Ton tragt. In der famiUaren port.
Sprache liort man oft: oh seu marroto! [oh sua marota.'] uud dhnliches. Séu séo fiir
séó seló aus senyó senhor. Der Andalusier sagt só^ der Bogotaner sió [das and. Fem.
kenne icli niclit, bog. lautet es sid und sena nd.]
30. Pelmazo.
Diez EW. IP: grieck. iTéXjia Fussohlef — Sanchez, Gloss. Alex 986 : jjZìHwazo ? ' —
Rom. IV 48 Morel-Fatio: flumhamtis.' — Zsckr. V 241, Baist: pemma (Backwerk).
Ein neuer Versuch das schmerige Wort zu losen, sei liier verzeicknet. Unbe-
dingt muss vou dem Stammwort ijdma ^ und von der Bedeutung flach zusammenge-
presste, klebende, breiartige{?) Masse ausgegangeu werden. Weil uun, was alle meine
Vorgiinger ubersehen haben, im Ladiuisckeu (buch. uud grd. und auck im bresc. Val
di Scalfe) ein vollig gleicklautendes Substantiv jjeZm« existiert, niit der ausscUiessli-
cken Bedeutung Honigfladeii ; da ein Fladen aber einmal soviel wie eine Honicjumbe ,
dann aber auck ein ]3lattes flaches Backwerk ist; weil also bei voUkómmenem
Grleicblaute Àkulickkeit der Bedeutung beider Worte vorHegt , so darf man diesel-
ben nickt getrennt von einander erklàren wollen; und muss ikr Etymon im lat.
Sprackfonds gesuckt werdeu.
Honigjladm, Honigwaben und Waffeln werden von alien Etymologen als zellenfor-
mige Backwerke ckaracterisirt, mit voUem Reckte. ' Und da meine ick denn, die
VorsteUung welcke den betrelFenden Backwaaren im Romaniscken den Namen gab,
konno sekr woki die eines ZusammengefUgten sein. Das von Sckneller ^ vorgescklagene
' Auch der Erzpriesfcer verwendet das Worfc, was bislier nirgends angomerkt ward, und zwar im Sìmie von
Langiveiligerj Làstiger, Scinvcr/dlliger tMensch) oder aucli vou Langwclligkeìi, Widcrwdrtigìceit, Idstigc Sache. Fita 718;
Este vos tirarla de todos esos pòbnasos,
de pleytos, o de afruentas, de verguenzas, e de i^lasos.
muclios disen qua coydan parar-vos tales lasos
fasta que non vos dexen en las pnertas Uumasos.
■ Lluma.w ist der hisp. Vertreter vom lat. plttmbaccus, port. alt cJiumba^o, chiima(;o; lettere Form vertritt
auch plumaceua und bedeutet Fedtrkissen ; indma-o noben plumazo = Federkissen z. B. Port. Mon. , Chartae p. 44. —
TJeber den genairen Sinn von pdmazo im Alexanderliedo ist es scliwer vorlaufig zu ontsclieiden. Zum Scliutze
gogen die Schljige des grimmen Megasar (Megusar Legusar Nogusar) konnte obensowobl ein Waffenstiick
aus Eisen als ein gepolstertes wattirtes Wams dienen: es kommt eben nur darauf an womit jener scine Scbljige
austeilte. Spricht das GedicUt von Faust- oder Keulensohliigeu oder von Lanzensticben ? Cfr. S77 und Q9i agebó
canna Jieafra mano una fiera plomada. Der Kiimpfor verwimdete scine Gegner an Brust und Schulter und im Kreuze.
' Ist es wirlilich ein andalusiscbes iind nur ein andalusisobes Wort? In den mìr bekannten and. Texten kommt
es nicht vor. Und das Worterbuoh der AUademie sagt, wie viele andore guto Wortcrbucher, oinfaob: « Pclma 1/ pel-
mazo : lo que eald aplastado. Met. El siijeto tardo 6 pcsado. » — Aucli kommen apclmazar apelmazado haufig genng vor :
z. B. cahello apdmazado bei Lue. Bodriguez p. 258; letrafcrmosa que non se apelma-ae im Cane, do Baena II p. 136.
' Cfr. Diez nii oro!i/"re ; Weigand s. v. ìVabe ÌVaffel; etc.
' Schneller, Sudtirol. p. 243.
_ 143 —
Etymon lai. jiegma gr. ;:Yj7;j.a befriedigfc also saohlicli. ' Und lautlich. gleicherweise;
denn aus griech. lab. </ luifc uamittelbar darauf folgender Consonanz (m und d) ist
im Span. melir denn ein Mal ein l geworden. Salma aus sagma, gr. aàY[j,a; esmeralda
aus smaragdus, gr. a[j.àfja-cSoc; altsp. Baldac fiir Bagdad;' ehenàsih.QV haldoque;^
ueuspan. im Volksmunde Maldehurgo fiir Magdeburg.
Einen anderen, friiiier, von niir versuchten Deutungsversuch lasse ich ange-
sichts der oben verzeichneten Auifassung ebenso leicht fallen -«de die vier àlteren.
Er -woWie pelmazo (durcli puelmazo* polmazo*) aus einem ìiy \ìOÌ\\eiisc\\Qn polmaceus*
erkliiren, d. h. ilin als ein Derivat des port. poIme = Brei\'' anselien, gestiìtzt auf
zahli-eiolie span. port. Eedewendungen, -welche den Tragen und Pblegmatikus als
Breisack (deutsch Melilsack!) bezeichnen.
31. PlNTASILGO.
Diez II'' : pidus passcrculuii. — Zschr. V 239 u. VII 121 : inctns{?)syìic,us. Der Por-
tugiese sagt keutzutage j>i«<rts%o wie der Spanier; friiher waren vorwiegend, wenn
auch nielli aiisscbiiesclilich, Formen mit rg in Gebrauch. Pintasirgo linde ich z. B.
in Diogo Bernardes, Bona Jesus p. 148, pintisirgo bei G. V. II 433; auch pintaxirgo
isfc mir begegnet. Man verstebt darunter gemeinhin unseren Stieglitz oder Di-
sielQ.Tik.= f ring illa carduelis, welclier hier allerorten — und sehr gern — geselien ist,
besonders als Stuben- und Singvogel; das fein geputzte Herrcben also, iiber dessen
buntes Galakleid den Kindern manches Gescbichtchen erzàhlt wird. Eichtig ist
dass der Spanier den Vogel meisthin xilguero nennt, nebenbei aber auch noch
pintad'dlo n. pecliicolorado im Hinblick auf seine bunte Farbung, und cardelìna carda-
lina (frz. chardonneret) nach seiner Lieblingskost, den Samen der Distel.
In cilgo silgo sirgo xirgo vermutete auch ich seit làngerer Zeit eine Farbenbe-
zeichnung; und das von Baist vorgeschlagene syricus == hochrot '' scheint mir gut ge-
' Dass palma im Span. ein Baclaoerk bezeichnet, ist freilioh zunaohst nnr Hypothese. Eine Zwischenstufe
zwischen der ladinisolien Bedeutiing und der span. in pdma und pelmazo steckenden glaube ich jodooh gefunden
zu haben. Beroeo bietet namlioh ein Wort pemazo im Sinne von kleisferaftige klebeiide Masse, vieUeicht von M'aclis-
kuchen d. h. von dem nach Auspresmtng des Honigs zuruckbleibendem Wachsbestand f
Dom. 6S7: En medio de Ics labros pusoli vm pedazo
de un engrut miiy negro, semeiaba pemazo.
Isfc Ai&s pcmnzo Druckfehler fiir, oder Nebenform von pelmazo? Eines von boiden gewiss. Sanohez erkliirt diesmal
mit Vorsicht: Parece especie de cerate. — Im Cane, de Baena II 97 scheint pelmaso so vie! wie Fhlerjma zu bedeuten. —
- Conq. de Ultr. 504.
" Conq. de Ultr. 26S und Cren. Rim. 928.
' Bei der Gestaltung desport, ijoime haben vioh\ polline (von poli en miàpol.lis)=feines Mehl, nnà pulmentum^
Speise (wofiir piilmen im Volksmunde eintreten konnte) zusammengewirkt? Palme aus polmen ptilmen, wie nome
aus namen, home aus homen età. Polmàa, aport. polmeira (Vat. 993 u. D. Duarte, Iieal. Cons. p. 118) bezeichnet eine
Geschwidst, ein Geschwiir, einen vlice««. — Moglioherweise ist bei der Enstehung von palme auch pulmo(ne) nioht
ohne Einwirkung geblieben , da dem Bomanen in den Lungeu besonders das « Sohwammichte, Leichte » auffallt
(Sp. livianos, alt lei:es, port. bofes).
» Eot ist die Farbe aller Farben; und der hoohrote Pleck des Stieglitz fallt in die Augen. — Botwein nennt
der Portugiese nie anders als vinlio tinta; span. Colorado, port. corado, ist ebeu rat.
— 144 —
fnnden uncl wird wohl das Etymou aneli fiir xilguero, alt xirguero, xirgan, sirgucrn
(gali, xilgaro Ros. Caut. p. 128) sein. '
Was aber ist 1)1111(1 imitif Baisi spricht sicli dariiber niclit aus, hat sich also
vermutlich mit der von Cabrerà und Diez befùrworteten Eetroversion zu pidus
begnilgt. Ein Kompositum pidus sijricus im Sinne von rotfjnfdrU rotfnrhig oder
bunt und rot (Part. +Adj.) ist selir unwahrsclieinlich und stiinde keineswegs auf
einer Linie mit Zusammensetzungen wie acpidulce , vcrdinegro (Adj. -r- Adj), oder wie
plntipaì-ado. (Part. -r- Part), oder -wie Pintaflor (Eigenname; Part.-h Subst.).
Eber kònnte jìinta pinti das Substantiv j;i«frt sein (von pidus, pida^ oder Ver-
balsubst. Yon. pintar?) welches auf der ganzen Halbinsel einen Farhenfleck bezeichnet.
Pintasllgo ware also liotlifledc. Dock scheint mir die folgende Deutung vorznziehen.
Pinti ist eine durck naheliegende Volksetymologie kervorgernfene UmbildiTng
aus pitiz=pedus^ Brust. Und zwar glaube ick das, obwohl die Form pitisilgo nickt
nackgewiesen ist, weil in zaklreiclien anderen Zusammensetzungen des peninsula-
ren Sprackfonds, welclie rotbriìstige Tiei-e, so Vogai als Fische, benennen , als
erstes Glied j;eh" piiti pinti pinto pinta und pecho aus pedus vorkommen. Pintasilgo
also i?o<&)'«sf, ein aus Subst.-r-x4dj zusammeugefugtes Wort wie nlcdtlanco pRclnplanco
carilargo etc. Peti piti ward pinti pinto pinta, mit welcken Formen sick naturgemàss
der Gedanke an pinto jnnta^=FarbenJlecJc verkntlpfeu mnsste. Dass sick beim Stieg-
litz der kockrote Fleck, welcker ihn ziert, eigentlick nickt auf Brust oder Kelile,
sondern am Scknabelgrunde befindet, ist freikck wakr; dock dass man es mit der
Ortsangabe des Fleckeus nickt allzugenau genommen, beweist das span. pcchicolo-
rado, in dem. jyecho nickt miszuversteken ist.
Zum Vergleicke kabe ick kerangezogen
1) jiort. gali, pintaroxo pintorroxo. Dasselbe soli zwei Vogelarten benennen,
beide aus der Familie der Finken , gleickwie der Stieglitz; erstens unseren rot-
brustigen Dompfaifen, fringilla rubridlla, welcken der Kastilianer auck mit dem
Namen des StiegKtz 2><i<^hicolorado , sonst aber auck camadiuelo und ferner pardillo
nennt; zweitens unser Rotkkelilcken, sylvia riòecula, die den Namen « Eotbrust »
gewiss verdient. '
2) kast. pitirojo, pitlorroxo^ (it. pettorosso) worunter das ebeu genaunte
Eotkciddien verstanden wird.
3) kast. pintarroja pintaroxa petirrojo pechirojo , (kat. pitros<) lauter Namen
fiir einen rotbriistigen Fisck (oder fiir mekrere ?). Die Portugiesen keunen nur den
Namen ruivo fiir denselben. ^
' Sirgo xirgo wo es im Altspan. vmd altport. als Simplex auftritt, bedeutet freilicli immer soviel wie se.rìcua =
Seide und seidig {Q. V. 1 84 und ol't). Und pinio airgo = Seidcnhrnst wiire eine keineswegs umnogliche Bildung. Es
fiagt sich nui' ob das Bruslgefleder des Stieglitz wirkUcli mehr Seidenglanz uud Seidenweichheit hat als das an-
dorer ouropiiischer Singvogel.
■ Conocimiento de las diez aves menores de jaula. Madrid 1614.
" Pito-nù heisst im port. Volltsmiihvchen oine Eulenart. S. Braga, Contos, voi. I p. 152. — Auch im kat.
giebt es einen Vogeli)i(ros = Rolhhrust; welcher cs ist, kanu ich uicht sagen. Den RothsptcM nennt der Gallizier
jìilurei pctorei. — Ein gali. Kinderreim, der vermutlich dom Buntspeclit gewidmot ist, beginnt: rito pito colorilo,
quem che deu lamano bica? (Rora. VI 54). S. obcn N» 25, Anm. 1.
145
32. POUSALODSA.
Diez EW. Il' s. V. mariposa. — Rom. V. 180 Storm. — Zschr. V 246 Baist.
Den Sclimetterling nennt der Portugiese borboleta, vulgar (wie auch galliziscL.
II. bercianisch) barbureta uud balbureta, seltner boas-novas (weil die haufigeren hellfar-
bigen buuten « Sommervogel » als Vorboten. guter Naclirichten angesehen werden;
die scliwarzen gelten hingegen fiir Tràger von Todesbotschaften, die gelben sind
Geldbrief-melder) ; selir selten mariposa. Das poetiseli kliugende jpottsaZoMsa, welches
Diez mit: setze dich auf den Grabstein! iibersetzen wollte, hat bis haute noch kei-
ner von ali den Portugiesen gekanut, die icli darnach gefragt, weder Kinder des
Volkes, nodi Gebildete von den oberen Zehntansend. An seiner Existenz zweifle ich
nicht; dock ist niir unbekannt wolier Bento Pereii-a es genommen. Seiner « Proso-
dia» entlelmten es alle spateren Lexikograplien. "Walirscheinlicli iiat er das, bes-
cliranktem Gebiete angehorige Worfc direkt aus dem Volksmunde aufgelesen. Den
Ursprung desselben glaube ich gefunden zu haben.
Pausar heisst niedersitzen und wird von Vogeln und Insekten oft gebraucht.
Die Ubersetzung setze dich die man pousa gegeben , ist also die rechte. Lousa ist der
flache Stein, besonders ScMeferstein, Schiefertafel. Grabstein bedeutet das Wort nicht. '
Eine Bildung pousa a lousa ist ganz nnmoglich. Setz diali auf den Stein ware
pousa na lousa oder soòre a lousa. Die W^òi'tev p)otisa=sitznieder, und lotisa^= Stein sind
schlechthin ohue jegliche bindende Partikel neben einander gestellt vvorden, und
zwar einzig und allein aus dem Grunde weil sie reimen , reimen auch in einem
Verschen welches die Kinderwelt Portugals (und walirscheinlich auch gewisser
spanischer Gebiete) alien oder einigen summenden, schwirrenden , schwebenden
Insecten ensgegensingt um sie zur Eulie einzuladen.
Dass der Portiigiese Eeimformeln oder wie Eeimformeln Idingende Wortab-
leitungen liebt, versteht sicli eigentlich von selbst. Cegarrega (fiir cigarra), tengo-
meìigo, luscqfusco, trouxemouxe , gigajoga, antecoante, terolero, tiravira, alhaspalhas,
choldabolda, trincolhosbiincolhos sind einige wenige Beispiele. "" Auch dass er zu
gewissen oft wiederkehreuden Phrasen eine ganz sinnlose Eeimformel hinzufligt,
einzig und allein aus Freude am Eeimgeklingel, ist ein Zug, der sich in alien rom.
Sprachen, wenu nicht in alien Sprachen iiberhaupt, wiederfindet. Z. B. zu Bem o
digo eu fiigt der Redende oder der Hòrende hinzu E' a Maria d'Abreu ; zu Que é
aquillo?, que é aquillo? ein Sani Joào a cacar um grillo! — Nào é nada, nào é nada. Sam
Joào a corner pescada. — Nào é mui{iì)to , nào é mui{iì)to. Sam Joào a corner presunto !
oder Basta, abasta, Maria da casta. — Deixe deixe, Maria do peixe etc.
' Ein Schmetterliug auf Grabsteinen in Spanien oder Portugal? Wer je einen Kii'chliof der Halbinsel betre-
ten, wird ibn daselbst nicht mehr suchen.
' Vergi, eira nem beira; reira e baceira; de cabo a rabo (altspau. de colodriello a tobiello); sem Milìio nem
vcncllho.
19
— 146 —
Der Kinderreim uim. um clen es sicli hier handelt, lautet:
Apouxa, ojìoìisa oder Pausa, ponsa
Maria da lousa.^
Das Màdclien, welches ilm meinem Kleinen vorsang, war aiis S. Joào da
Madeira bei Ovar, und behauptet in den Dorfem und Stadtclieu der Umgegend,
Oliveira d'Azemeis etc, kenne ilin jedes Kind; auf den Schmetterling liabe sie ihn
nie anwenden lioren, wohl aber auf den Hirschkàfer, die vacca loura oder carócha,^
wenn dieselbe im Finge summend angetroifen werde ' nnd , irre sie nicht , aneli
auf das Mavienwiirmchen. Dass der Kafer der gesnngenen Aufforderung stets
Folge leistet, niedersitzt und schweigt, versteht sich von selbst. Dass man denselben
Vers anderwàrts auf andere Insecten anwendet, wusste meine Gewàlirsmannin
ubrigens; dass mit demselben auch das beliebteste, verbreifcetste und augenfàlligste
aller Insekten, der bunte Sckmetterling , zur Euhe eingeladen "wird, ist meine Ver-
mutung, welcke die emsigen port. und span. Folkloristen koffentlich bald bestati-
gen werden.
Meine Meiunug besckritnkt sick nnn uickt darauf poiisa lousa aus jenem
Kinderreim kerzuleiten; auck mariposa soli gleicken Ursprnngs sein; und existirte
Marilousa, ick wurde nickt ansteken, auck diese dritte Form darin gegriindet
zu seken.
Mariposa (ein gutes altspan. Wort das z. B. Juau Manuel, Obras 248 kennt)
worin ick ricktig, wie Storm, den Namen Maria und den Imperativ posa vermutete,
ward somit nickt erst aus altem man y posa umgedeutet , wie ick annakm. Das
sardiniscke maniposa muss vielmekr eine jùngere Volksetymologie sein.
Den Namen Maria ftikren iibrigens weder im Port. nock im Span. Schmetter-
ling und Hirschkàfer ; in Portugal ist nickt einmal das Marienwiirmcken , das Son-
nenkafercken, der Mutter Gottes geweilit: es keisst Joanninha (gali, jedock Mariquina,
kast. Mariquita, kat. Marieta). Wolil aber kann und -wird mit dem Namen Maria anf
der Halbinsel jede beliebige weiblicke Gestalt angerufen , deren Namen man nickt
kennt; ' jedes Wesen an dem eine ckaracteristiscke Gestalt kervorgekoben werden
soli, jede Personificati on von Naturersckeinuugen.
' Doch aucli mit geschlossencm o Laute ApOsa apusa Maria da Iòsa.
' C'aroclia ist anderwàrts ein Name der barata, unserer Scliabe (Schwalie). Vgl. Leito de Vasconcellos. Trad.,
N«. 367, 370.
■' Die Jugend pflegt den Kiifer Ijoim Horn zu fassen, eineu Faden daran zu befestigon, ilin damitpendeln zu
lassen und dazu zu singen:
Zipiquéj zipicó
dd-ìa mosca no billió ,
cai de cima , cai de baixo.
Pica pica
na ban'iga
Die Verse sind eine Aufforderung zum Fliegon. Weder diosor noch der obige Reim sind bis jetzt von dou Folklo-
risten gebucbt worden. Sie haben nocli eine Uberreiclio NacMese bier zu Lande zu balten.
' V"!. Picara Justina 48: A^o liay hucspcd que no llamc Maria a loia moza de mcson und sielio Borao, Dice, de
Vozos Arag. p. 199 Mari- mariprisas, marienredos, mariapuros.
— 147 —
Nichi nm* class jeder Mamiol seine Maria hat wie bei uns jeder Ilansi seine
Liese, das Volk kennt ferner eine Maria das pernas compridas oder de bons pés := deu
Regen; eine Maria Parda als Trinkerin; q\\\q Maria da manta,' eine verkappte mit
der hassiichen altiDort. ca/m verhiillte Frauengestalt, ein Schreckgespenst; eine
Maria Marcella, eine mythisclie Figur, ùber die ich nichts nalieres weiss; eine Mana
Gou-Gou, desgleichen; eine Mari Castanhas, die Verkòrperung der fernsten Vergan-
genlieit. In Spauien haben wir dieselbe Maricastahas , haben dieselbe marimanta
uud ferner eine marimoreiia mariperez maritornes marizapalos marisahidilla marima-
ricas (Justina 193) manforzada (ib. 194), eine Marifea, Mariangel, Mariseca, Mari-
corta, Mavimanclia, Marinstiena (Luis Milan, Cortesano p. 13, 254, 236, 334, 876,
388); eine marica = Elster, eine Marinica del cascajal (Kieselstein) etc. " Bei fast
alien abergliiubischen Branchen der Sankt-Johaunisnacht muss die Handelnde
eine Jungfrau uud Maria sein. Drei Sterne fiilireu den Namen o.y tres Marias.
Tres e tria disse Marta a Maria und dergleichen mehr. — Ein altes Wort mit der
Bedeutung « Schmetterling » kann ich in ^osa nicht finden ; den Ursprung von
lousa suche icli wie Mahn im Celtischen. ^
33. QUEEA QtJEHADO.
Borao, Voces Arag. p. 225: « quera=carcoma, querar = car corner. » Wohl aus
caira fiir caria an Stelle von lat. caries.'' Caria fiir caries, wie rabia fiir rabies, satiia
fur sanies. S. ob. Eiva N°. 17.
34. QuExiGO.
Diez II"': « Quexigo grline Eiche; nicht aus quercus abgeleitet, da dem Spanier
keiu Suffix igo zu Gebote steht. »
Ist das vermeintliche Fehlen des Suffixes Igo der einzige Gl-rund , welcher daran
hindert, quex{igo) von quercus oder richtiger von einem Thenia querci abzuleiten,
d. h. bleibt die Mògliclikeit des Eutstehens von quex aus quess fùr qiierc unange-
fochten — was mieli Wunder nehmen solite — so kann ich die Etymologie quexigo
von querc{i\us ziemlich sicher stellen.
Vorausschicken muss ich dass man sich im Allgemeinen der Annahme viel zu
schroff und spròde gegenliberstellt als konnten Worter westlichen Ursprungs in den
kast. Sprachschatz u. in die Schriftsprache des span. Volkes Aufnalime gefunden
' Das kast. marimanta gebrauolit Quevedo im Sinne von « alte .Tnngfer. » (Poesias, p. 154, cfr. p. a-JS). Diese
Stelle (quedarnn por marimaiitas y a tu ìiiz por mariposa) ist interessant, weil sie zeigt dass 3fari in marimanta nnd
mariposa im Bewusstein des Dichters ein und dasselbe bedeuteten.
' Von Pflanzen nnd Tiernamen zu scliweigen in denen Maria und Maìi hUxiiìg sind.
° Die jungsthin von Baist vergesclilagene Erkliirung aus laxa befriedigt nicht.
* Ist caries iiberhaiipt einmal in die romanische Volksprache iibergegangen, so diirfte ancb fiir das kast.
carcomer, welches ich friiher bebandelte (.Jabrb. XIII, zu Diez ni>i , eine neue dritte Dentung aus carie comedere in
Betraclit gezogen werden.
— 148 —
haben. Als ob in Spanien sicli niclifc wie allerwarts die Seliriftsprache je nach dem
Heimatorte der verschiedenen Schriftsteller , mundartlicli farbte , wenn aucli nodi
so leise! Als ob die kast. Spraclie nicht aus dem Wortschatz der Volksmundarten
geschopt hatte ; als ob nicht manclies leonesische , asturische, aragonesische, andalu-
sische Wort Heimatrecht in ihr gefunden. Warum nun gerade kein portugiesisck-
gallizisclies ? Hat man vergessen wie eng der Znsammenhang beider Staaten bis
1640 gewesen? Und solite eine Periode wie die der alten galliziscben Troubadour-
poesie voriibergegangen sein okne in der Sprache irgend welche Spur zurùckzulas-
sen? ' Wie mrgo, wie sarao, wie chero, wie broa saudade huir vigiar etc, balte icli auch
quexifjo fiir ein port. "Wort.
Denn der mit diesem Namen benannte Baiim ist eine portugiesisclie Eiclienart,
quercus lusitanlca (v. Colmeiro), eine kleine kurzstiimmige Sorte ; wo eine Sache hei-
misch ist, pflegt aber aneli das Wort zu Hause zu sein, welclies sie benennt; und
was wesentlioli ist, das Suffix Igo, welclies in dem Worte steckt, ist ein j^ortugiesi-
schfis, wie ich gleich zeigen werde. Von Wichtigkeit ist auch'dass eine andare Ablei-
tung vom lat. quercus, dass cerquinho in carvalho cerquinho, gleichfalls dem Westen
angehort, der liberaus reicb. an Eiclienarten ist, die alle ihren besondereii Namen
haben.
Ich wiederhole dass mir nicht ganz klar ist, warum aus quercL... nicht querc,
sondern queix qnex ward (der Grallizier sagt qiudxigo). Gesetzt aber, es sei entstan-
den, so konute das Simplex nicht geniigen weil es mit drei anderen gleichlautenden,
doch vòllig verschiedenen Stàmmen zusammengefallen ware. Erstens mit quexo =
Klage (altsp. fllr modernes quexa, port. queìxd), von quaestium; zweitens mit
g'!tea:;o(aspan.) qiieixo (port.) = Kinnlade, (aspan. auch quexada, neusp. quijada) aus
capsus; drittens mit quexo (aspan.) queijo (port.), neusp. (2«e.90 = A'asc, aus caseus. Ge-
nùgte das Simplex nicht, so war Erweiterung desselben durch Diminutivsylbeu
leicht an die Hand gegeben: wie man ovicula und nicht ovis, apicida und nicht
apla, auricida und nicht auris sagte, so konute man auf hispaniscliem Boden sehr
wohl quercicida brauchen. Aus ovicida apicida auricida ward freilich ovelha abelha
orelha, span. oveja abeja oreja; aber aus lat. -iculum ward in Portugal auch igoo igo.
Und so gut wie lìericulum perigoo jjerigo ward, articidum aHìgoo artigo, aus umb{{li)-
culum timhigo, konnte querciculum (durch quessicidum queixigoo) quexigo, und hesticidum
(von bestia) vestigo * werden. Nach Analogie dieser Formen konnten Neubildungen
in Igo entstehen und entstanden tatsilchlich , was um so leichter war als eine En-
dung igo dem Hispanier auch aus amigo enemigo mendigo postigo entgegentònte. '
' Man vergisst oft auch — beim Etymologisiron wenigstens — dass der gomeinsaraen Vorwandtscliaftszuge
welche den altspan. und den altport. Mondarteli auhaften , viel mehr waren als hente zwisohen der kast. und der
port. Schriftsprache bestehon. Der Zusammenliang zwisohen port. gali, tmd asturisch u. loonesisch ist ein viel in-
nigerer als man gemoinhin glaubt.
■ Siche nnten N°. 4S vestigio und oben Cernirlo N". 13, zwei Artikel aus denen orhellt dass port. (170 alt iijoo, aus
lat. iciilum, dem Itast. ij)lo ontsprioht.
" Igo auch im aspan. pdcigo (Berceo, Mil. 240} fùr pdizgo pcUtzco^ Ein ganz andores, durch Einfiigung von
hiatustilgendem g, aus io entstandones 7.70 Itennt das asturische, welches die 3ps. sing. perf. der Verben 3 Couj.
statt in io in Igo bildet : Vigo scntigo eto. — Man vergi, vulg. port. /atiga fiìrfatia.
— 149 —
Dass es sich in beideu Reilieu nm ursprimglich ganz verscliiedene Sufìixe handelt,
weiss und empfindet das Volk eben niclifc. Die mir bekannten Noubildungen , zu
denen man meinethalben auch qnexigo und vestigo rechnen mag, sinà jazitjo =: Be-
grdbnisstiitte,' pascigo=Weideplatz^ tapigo = Hecke Zcmn, hodigo ^: Brodòrocken und
Kuchen,' rahigo adj.= scJiioanzelnd und geschtocinzt.^
Jazigo ' hodigo und unser quexigo sind westwàrts oder von Nordwesteu nach Ka-
stilien binilbergewandert. Besonders in der Gegend von Avila und Cadalso fiilirten
ehedeui Eiclieuwaldstrecken , mit ergiebiger Biirenjagd, Nanien wie Quexigar
Qiiexigoso Quexigosillo. Cfr. Monteria 120, 120, 161. '
35. E.ELHA.
Diez EW I: « Relìm pg. pr., raille altf'r. ; reja S]).; jjflugscJiar; von rcgulti ^lattei »
— Wolil kaum; die Begriffsentwiokelung stort und port. regoa re</ra, sp. regla^ etc,
widersprechen. — Warum niclit von lat. rallia^ rnllium* fiir ralla rallum, welclies
ja PJiugschar bedeutet? — Fiir Ausdriicke, welche der Ackerwirtschaft angeho-
ren, sind die Spanier dem Kòmer meist direkt zu Dank verpfiiclitefc.
36. Sakdeu sandìo.
Man kann das port. span. Wort mit seinen Ableitungen sandece samlice, sande-
cer eììsandecer, sandejar (port.) ° auifassen entweder als bestehend aus einem Stararne
sand und dem Sufìixe io{eu) {inacio , nadio sadiu — • judeu) oder als ein Compositum
von san und deu^ dìo. "Welche Auffassung der Wahrheit entspriclLt. wage icli nicht
zu entscheiden: die Acten ùber das Alter, die ursprtìngliclie Bedeutung und
Verwendung und damit iiber den Ursprung des Wortes sind noch nicht geschlossen.
Bis beute ist meines Wissens nur ein ernster Versuch ■ gemacht worden sandéu zu
deuten, ein sehr ansprechender Versuch, und zwar von Diez selbst (EW. II'') unter-
nommen, und neuerdings von Baist Zschr. VII p. 633 gutgeheissen.
'. Neben jazigo und pascigo bestanden im Altport. die niinmebr erstorbenen Formen i«s!(!o una pascido. Ich
glanbe nicht dass sie selbstandige , von den iibliclieren unabhangige Bildungen sind. Vielmehr fasse ich sie so ani
als ob das Bestreben , das immerhin Beitene Sufflx ìgo dui'ch das nngleich brauchliohere ido zu ersetzen sie ins
Leben gerufen; ein Leben von kiirzer Daner. Man vgl. scnzido N^. 38. Cfr. aport. taiìjuda neben tanjuga.
' Altspan., Fita USO. Gaìlofas e bodigos lieva y condesados.
^ TH&fonniga rabiga spielt in einem port. Vollksmahrchen cine Eolie. Coelho, Conto N°. IH.
' Da neben altspan. yacigo auch yaclja besteht (Zschr. I 2i'2), im Altport. aber jazigoo vorkommt, darf auf
eine (3rvujiàiorm.jacicHlum geschlossen werden.
'■ Ich habe mir die Form cair.igo fiir queixigo als der alten Landsohaft Ribagorza angehorig notirt, doch
ohne QueUenangabe, weshalb icU sie unberiicksiohtigt lasse. — oi fiir ei, eine im Port. haufige Erscheinnng,
ist auch auf span. Boden zu finden, freilioh nur in Fiillen, in denen ei (an Stelle von zu erwartendem kast e) auf
westliche Beeinflussung schliessen liisst. Man denke an taimado fiir teimado temado , von thema.
' G. V. I 264.
' Dmstellnng aus einem Part. aanido von sanir fiir insanir wird Niemand ernstlich befiii'worten, um so weni-
ger als man die Etymologie saTìa aus insania neuerdings aufgegebén. Herkunft aus «««72a = Zahnefletschen, welche
Diez gleichfalls fragend erwahnt und die, wenn ich nicht irro, bereits im « Dialogo de las Lenguas > vermutet
warde, ist ebenso imwahrscheinlich.
— 150 —
Diez siehfc iu sainUo ein Compositum sancte deus, und meiut, derjenige welclier
dieseu Ausruf gar zu oft im Munde gefùhrfc, sei sandeu (p.) samlio (sp.) genannt
worden. Besticht auf den ersten Blick! Denkt man aber etwas scharfer nach, so
stellen sich gewisse Bedenken ein. Ziigegeben dass wer ùber alles staunt, ein
Dummkopf, meiuethalben auch ein Narr ist, nach dem Grundsatz nihil admirari, so
glaube ich doch dass in einem Lande, wo das Sich-bekreuzen , das Anrufen Grottes
nnd aller HeiLigen bei dem geringsten Gegenstande des Staunens, so sehr an dar
Tagesordnung ist wie in Spanien und Portugal, das Uebermass davon kaiim als
ein Zeiclien von Narrheit angesehen werden mirde, eker vielleicht als ein Zeichen
von Fròmmelei und Scheinheiligkeit. Ist der Gedanke im Grande richtig, so wilre
san{cte)dei(, elier derjenige, ob dessen Dummheit das Volk mit einem kraftigen
santo deus! die Hàude iiber dem Kopfe zusammenschlagt, gerade so wie ein
Aijesus! aijesusinho! der Liebling des Volkes ist , iiber dessen Schònheit, Klug-
lieit nnd Liebenswiirdigkeit es sick vor Verwunderung nicht zu fassen weiss. Was
aber besonders gegen die Etymologie spricht , ist dass die aitaste Form des Wortes
— im Fuero Juzgo und bei Berceo , Mil. 646 — nicht sandio sondern sendiu lautet.
Obwohl ich ein eutsprechendes altport. sendeu oder semdeti noch nicht aufge-
funden habe, glaube ich doch dass man von der Form mit e ausgehen muss, da
der Ubargang von semdiu zu sandio, bei der bekannten Vorliebe des Romanischen
fiir a statt e in protonischer Anfangssilbe , wahrscheinlicher ist, als der umgekehrte,
noch dazu die Badentung verdunkelnde von sandio zu sendio.
Betrachtete man den Einfaltigen, den Geistlosen und den Geisteskranken vielleicht
alseinen Gottverlassenen und nannte ihn ainen Ohne-Gott, sen-diu, sem-deu*? Formeln
wie sem deus e seni dereito , setn deus e seni razào waren und sind viel gebrauchte. Ein
altes Baispial steht in den Livr. de Linh. p. 268. Volkstiimliche Zusammensetzun-
gen mit lat. sine bieten alle Romanischen Sprache und Mundarten. Der Spanier
kennt sinjin sinigual shijusticia sinnumero sinrazon sinsabor, asp. auch sinsaber, der
Portugiese semfim semnumero semrazào semsahor semsahorào senisal senipar semsegundo
semnome semceremonia etc. Und Span. sen fìir sin ist iu der alten Sprache ganz
gewòhnlich (s. z. B. Alex. 840. B18), im Port. sem von jeher die einzig iibliche
Form. San fiir sen in tonloser Sylbe ist wie gesagt jadenfalls moglich; es sei auch
an it. sanza, frz. sans erinnert.
Sandeu scheiut bereits in den Livros de Linh. und im Cane, da Vat. die aus-
schliesslich angewandte Form zu seiu; ihre Bedeutung stets narriseli; besonders
hàufig ist die Verbindung lonco e sandeu , auch span. loco y sandio und necio sandio;
in der stereotypen Formel morreo sandeo e seni semel kònnte es einen etwas
abweichenden Sinn tragen (Linh. p. 195, 205, 260 und oft).
Ich selbst messe diesar Deutung nur den Wert einer Hypothese bei, und ver-
suche personlich noch weitere zwei Erklàrungsvorsuche , oline von dcnselben be-
friedigt zu sein.
Sandeu port. (doch auch von Spaniern iu der gallizischcn Liederpoesie gebraucht,
sandeo z. B. im Cane, de Baena, I, 31) kliugt, wie Diez bereits heworgehoben, auf-
— 151 —
fàllig mit seiuem suffixartigen -eii. aii jadeu (pori. u. altspan.) an , (nensp. jndio wie
sandki; \>oxt. sandcu sandia, wie judeo jad/'a); fiilirt also auf lat. -ams. — Buy da
Saade nun war ein altport. dem 13ten oder ].4ten(?) Jahrhundert angehòriger « Lie-
besuarr, Liebeswahnsinniger » (doudo de amor), der noch im IGten Jahrhundert
sprichwòrtlich genaunt ward.' Von ihm sprechen unter anderen Francisco de Moraes,
Dial. p. 17 aqid nào chega Raij de Hande; Camòes, Filodemo p. 30 Com essas finezas
de iianiovado mmca chegareis onde chegoic Riuj de Samle; Jorge Ferreira de Vascon-
cellos Eufrosina p. 190 aqui nào chegou Ruy de Scinde; id., Ulys. p. 224 dasselbe.
A.ndere uennen ihn als Geistesbruder des Macias. Stammt er aus Zeiten die vor
die Siete Partidas, das Fuero Juzgo etc. falleri, so batte man den welcher vor
Liebe den Verstand verloren — was in Portugal ja nicht selten geschehen — einen
SaudcBus ■■= scmdeu nennen kònnen, im Gedanken an die vielen in a'.m endenden
Volksnamen wie fariseo philisteo judeo hebreo ccddeo etc. — Ein Einfall der angesichts
des altsp. sendiu nicht Stich hàlt.
Noch weniger Wahrscheinlichkeit hat fiir sich dass sp. sandin sendiu mit sandia^=
Wassermelone etwas zu tun hat. Scmdia, auch sandria und sendria sendria acendria., kat.
cindria, sùidria — die kast. und kat. Nameu der port. melancia — hàtten um ihrer wàs-
serigen unsubstantiellen Beschaifenheit wegen, wohl ein Epitheton fiir saft- und
kraftlose Menschen hergeben kounen. Nennt doch der Portugiese eine schlaffe
weichliche schlafmiitzige Person banana und eine gedunseue phlegmatische ahohora
(Klirbis). Ehe man jedoch zu diesem Vergleich zwischen sandio Narr und sandia
Wassermelone schritte, musste man ùber die Herkuuft des letzeren Wortes etwas
genaueres wissen. °
Gii Vicente , III , 250 , kennt ein Wort snndia " dass sich soust iiirgends findet.
Ob es mehr als ein Druckfehler, ob es eine Nebeuform von sandia sendia ist?
' Im Cane, general (1557) findet sioh auf il. 89 das Gedicht eines Portugiesen Antonio do Velasco, betitelt:
.... tcslamanlo que hlzo ere nombre de un portugiiéa ìlamado Buy de Sonde. Mir ist niclit Mar ob das burleske Te-
stament zum Scherzo im Namen eines liingst Verstorbenen, in der Erinnerung der Nacbkommen aber Lebendigen
verfasst ward, oder ob Velasco und Sande Zeitgenossen, Angehorige des loten .Jahrhunderta sind. [Cane. gen.
ed. 1883 voi. II N°. 207]. Ein Euy de Sande war um 1480 Gesandtschaftsecretair am Hofo der katholischen Konige
(Sousa, Hist. Geneal. IH p. 1D4). Sande, ist ein port. Stadtolien (Beira; imweit von Lamego). Alfons VI scliuf das
Marqoisat Sande.
' Wie populàr sandcu im Port. war beweist die grosse Keihe von Spricliwòrtern welclie dem < Narren >
gewidmet sind:
O sandeu trata do alheo, doixando o seu.
Quem pedo ser todo seu, em ser d'outrem he sandcu.
Mais sabe o sandeii (< o telo », oder « o ignorante ■) no seu quo o sesudo no alheo.
Muito pode o sandeu, mas mais o he quem Ihe dà o seu.
Espada na mSo do sandeu, perigo de quem Iha deu.
Quando o sandeu se perdeu, o sisudo aviso colheu.
Donde o sandeu so perdeu, o bom siso aviso colheu.
Quem de sandìce adoece, tarde ou nunca guarece.
Sandicc crasnia^àa,s < Lob der Narrheit » des Erasmiis.
^ E teu pae he tao cniel
e tua mae tao sundia^^ semsaborona.
— 1-52
37. Saeau Serào.
Sarau sarao bedeutet im heutigen Leben Portugals etwelche AbendunterhaUung ,
besonclers aber ein nachtliches Fest , dessen Hauptvergnugen im Tanze besteht. Pas-
satempo nocturìio, funccào; halle nocturno entre pessoas nohres. Der tibliche Plural
lautet saraus; das Wort folgt also der Analogie von mau pau vau nau degrau.
Serào — in alter Schreibung seram ' — bezeichnet die Abendzeit besonders die
langen Wintermichte iind vor allem. die in denselhen nacli Sonnemmtergang verricMete
Arheit.^0 tempo desde a bocca da noite até ds 10 lioras; o traballio que se faz depois
do sol posto ; tarefa nocturna das criadas, nas primeiras tres lioras da noite, comecando
do lìrincipio do mez de Outubro até o Entrudo ou Paschoa ; traballio nocturno. Die ubliche
Pluralform isfc seròes, nach Analogie der ùbergrossen Schaar derjenigen "Worter in
ào, welche auf lat. onem znrilckweisen, oder aiaf port. Boden selbstandig dnrch dies
zum Augmentativsuffixe gewordene on vergròssert wurden {verào von ver) iind vie-
ler anderer von nicht lat. Herkunft. (Cfr. N'^. 2 AtgAPÀo u. N". 3 Alinhavào.)
Bedeutung, Verwendiing, iind Flexion beider Worte sind also liente durchaus
verschiedene. Solite das friiher uiclit anders gewesen sein? mnss man sich jedoch
fragen, da ein Beruhruugspunkt zwischen beiden vorhanden ist, das ndclit-
liclie. Ob sich als urspriingiicher Sinu beider "Worte nicht Naclitzeit, ndchtliche Be-
schdftigung ergeben wiirde? d. h. ob nicht in sarao und serào ein und derselbe Stamm
steckt welcher Ahend bedeutet. Dass e vor r geme in tonloser Sylbe zu a wird,
beweisen iins ja port. sarrnr sarralli/iiro Thareza Tareija libardade misaravel impa-
rador, etc. etc.
Und tatsachlich war das Verhaltniss friiher ein anderes. Was beute Scheideform
ist, war ehedem Doppelform. Beliebig liess man die Formen in «o mit denen in ào
wechseln: sowohl sarao serao (denn serao existìrt) als serào sardo (denn auch sardo
kommt vor) konnten ein lùìfisclies Ball/est, cine Hofgesellschaft benennen. Und alle
vier Formen bedeuteten urspriinglich Abend Abendzeit; dann ndchtliche Besclidftigtmg ,
ani spàten Abend ausgeubte Tàtigkeit , gleichviel ob diese nun Arbeit oder Vergnll-
gen war — zwei Begriffe , zwischen denen ja iiberhaupt eine recht bewegliche
Grrenzscheide steht. " Die Scheidung zwischen sarao und serào ist erst im Laufe des
17'"' Jahrhunderts eingetreten. Was mancher beute als sej-òes litterarios:=litter arisene
Abendarbeiten, auffasst, beurteilt ein anderer als saraus litterarios=litterarisclte Abend-
nnterhaltungen.
Aeltere portugiesische Lexikographen haben in ihren "Wórterbiichern sarao
und serào zu deuten versucht, deren Einheit, was den Stamm, das Etymon be-
trifft, ihnen mehr oder woniger warscheinlich schien. Der eine schlug ein hebrà-
' Im Cane, da Vat., Cane, de Bos., etc.
' Zahlreiclie SteUen aus Resendo, S» do Jliranda, Barros, Bemardes, Nrnies do LoSo etc. beweisen os zuv
Geniige. Abend bedeutet aerào z. B. iu Sa de Miranda 107, 277 i alto o serào: « es ist spat am Abend. » Scrùcs und
seraos im Sinno cines h'Ofiachen Festea benutzt obondorsolbe JDichter 109, 127.
— 153 —
isches Etymon si/r vor, der andere ein persisches xire, der dritto ein arabisches sar-
hoiiz^ vigilia; wieder andere, niinder orieutalisch angehaiichte, glanbten ini afrz.
serée, oder im neufz. soirée, oder im ital. sera, oder im lat. seruni das Vorbild gefnn-
den zu haben. Die letzeren haben RecKt. IJber die Art und Weise der Ableitung,
ùber das Suffix, sucht man bei ihnen natilrlich umsonst nahere Aiiskunft. — Diez
erwahnt die Worte gar nicht; ebensowenig Coelho.
Ich naunte sarao und serào bereits oben ein Scheidepaar. Um dies zu bewahrhei-
ten muss icli erweisen dass ao und ào ein und dasselbo Suffix sind, was leicht ge-
lingen wird. Nur wenn man serào seròes und saran saraus getrennt betrachtet, ma-
chen sie Schwierigkeiten iind filgen sich nicht in ein e Musterform. In ào-òes sucht
man dann o-onis, d. h. ein Augmentativ, sevo seronis; und aus sarau weiss man
uichts zu machen, da wohl Worte in au vorhanden sind, ein Suffix au mit schòpfe-
rischer Lebenskraft, das also als Suffijx empfunden wiirde, aber nicht. Selbst fllr
viele Portugiesen hat sarau fremdartigen Klang, maurische Farbung.
Das Nebeneinander von au und ào, gerade klart auf — mit einem Schlage und
mit unfehlbarer Sicherheit. Das Suffix welches an lat. serum gefiigt ward, ist das
echt lat. in alle rom. Sprachen iibergegangene anus. "Wie der Portugiese das kurz-
stammige ver zu verano machte, so ser.., zu serano; ano aber konnte ebeuso gut ào
wie ao werden, und zu den beiden Vertretern des Suffixes, gelehrtem ano und volks-
tiimKchem ào, mkss als dritter, vereinzelter , impotenter, die nur im archaischen
Port. , im Volksmunde und in den Norddialekten [Minho iind Gallizien] erhaltene
Bildung ao gefiigt werden.
Hier einige Beispiele. 1° Aus enanus = Zwerg ward einerseits das schriftmàssige
anào, andererseits ein populaires anao^^Knirps, dessen heutiger Vertreter anaio heisst ;
und drittens ein beute veraltetes nano in paro nano = Zioerghirne. 2° Germanus ward
irmào; dass jedoch nicht allerwarts Nasalisatiou eintrat, beweist das mirandesische
armano und stiirker noch (denn im Mir. konnte man span. Einfluss vermuten) das
veraltete port. irmao, welches Sa de Miranda 116, 417 aufweist, im Versausgang
als E,eim zu mau, (malus). 3° Neben argào existii't gleichberechtigt argao, zwei For-
men, die, wenn nicht in Wahrheit, so doch im Volksbewusstsein auf organmn zu-
riickweisen. 4° Neben quartào steht quartati ; neben rahào rahano und rabao. Doch
welter! der Gallizier stellt beute noch irmau neben irman; tahau neben taban
{tabanus); vrau neben bran vran [veranus); chati neben chan (planus); Cibrau neben
Cibran {Cypr{i)anus); ìiviau neben livian {levianus) etc, (um mit Wortern Mar
erkennbaren Ursprungs zu beginnen in denen ohne jeglichen Zweifel lat. anus
steckt). Durch Anlehnung an diese Gebilde entstaud dann auch neben bacallao
z. B. ein unmotivirtes bacallan, gleichwie im Port. neben alacrào lacrau, neben
girào girau, neben babau babào. ' Auch im Bercianischen wiederholt sich der gleiche
Vorgang: neben cercau steht cercano.
' Das port. solau, naoh dossen Sinn u. Ursijrung vielfach gesuclit worclen ist, wird kaiini etwas anderes als
soìanus sein (gali, soao) , also eine Sclieideform von aiiao {vento sudo).
— 154 —
Entsclieiclend fùr diese Etymologie ist dass der Gallizier den Ahend noch beute
seran nennt, dock niclit o seran, sondern weiblicli nacL Analogie von a tarde und a
manhan, a seran; Murguia, Foli. Nov. p. 77 u. 218. Nebeuformen sind sera und sa-
ran); enfcscheidend aucb dass der Portugiese die Pluralform seràos gekannt hat. Siehe
z. B. Cane, de Ees. I 256. 467 etc:
Là lograe vossos seraos,
vossas damas e privaii9as
cos cortesàos;
mas bom par de bois iias m aos
vai seis pares d'esperan9as.
Im Kastilianischen ist snrao Balìfest ein Lebnwort, welcbes dem. port. Sprach-
fonds entnommen ward.
Zum Scblusse frage icb nocb, ob das span. sereno =r Nachtivcichter , nebst frz. sc-
rein^ neap. serena, it. serenata nicbt doch aiif seranus bindeutet, wie Diez annabm?
Bekanntlich hat Storm, Rom. V 182 dem widersprochen. Durchgang von seranus
durcb Frankreich, wo serain zu serein ge-vvorden wilre, liesse sicb zur Net ja annebmen.
Eutstand das Wort in Spanien, so konnte aus einem bypotbetisoben seraneus seranio
seraiìio sereno geworden sein.
Im asp. ist. sereno die feucJde, ungesìiiide Kachtluft, ver welcher in den Jagd-
blicbern so oft naclidrllcklicb gewarnt wird.
38. Senzido.
Altspan. z. B. bei Berceo, Millan, 389:
Piegò aSant Fagimt. , qncmó una partida,
fue cerca de la media de Carrioa ardida;
por poco fuera toda Fromesta consmnida ,
Castro entre las otras non remaso senzkla.
undMil. 2:
un prado
Verde o bieu sencidn , de flores bien poblado.
Im ersten Falle kann senzido nichts anderes bedeuten als ganz, unverschrt,
verschont, imhetreten; im zweiten dlirfte es wobl unserem schmuck, sauber, tinversehrt
gleichstehen; eine Wiese aber bleibt schmuck und sauber nur solange sie von
menschlicben und tierisehen Ftissen verschont, also unbetreten bleibt.
Das Glossar von Sanchez erldart ganz ungenau und willkurlich, wie so oft, die
beiden Filile durch adornado , hermoseado. ' Wunderbar dass der geborene Spanier
sich nioht des modernen (provinciellen? seltenen? volkstumlichen ?) Vcrtreters des
aspan. senzido, des Wortchens cencido erinnert hat, welches; nur auf Wiese und
Weideland bezogen, unhetreten, mit frischem. nicht niedergetretenem Grase hedeckt be-
deutet. Acad.: la tierra, yerha etc. quenoestd hollada. Salva: e. se dit d'un pdturage doni
' Sencido, da. Pareoe adornado, hermoseado. Milag. 2. — Senzido, da. Lo mismo qvio scncido, S. Mill. 3S0.
— 155 —
Vherhc ri est point foidée. Das unbetretene Weideland ist gleichzeitig ein unnlifczes,
iinbestelltes Ackerland, daher cencido deun auch %nangehaut, und mit erweitertem
Sinne — im Gegensatze zu tierra lahrada — die tierra inculta bezeiciinet. Die aus
Originalwerken abgeleiteten Wòrterbucher [SeckendorfF, Franceson etc] gebeu
diesen abgeleiteten Sinu duroh Worte wie ode vnlst nicht ganz treffend wieder, und
manche erwahnen leider nur diesen (dem ioli NB. in Druckwerken nocli niclit be-
gegnet bin).
Sens- senc-oàev cenc-ido. Einen Stamm cene- iinde ich. im kast. cchc-gììo wieder;
sene-, in sencillo. Cenceno bedeutet beute schlank dilnn zart (von Ì/Lensoh und Thier),
bedeutete 'aber frllher vorzugsweise rein, unvermischt, umerfàlsclit, redlich, ohm Fcdach,
aufricMig, und vom Brode gesagt mujesimert. Sencillo bedeutet rein unverfàlscht auf-
ricJitig, einfidtig, einfach. Die von Diez vorgesclilagene Deutung dieses Wortes aus
simjilicellus ist abzuweisen (wie ioli anderwarts ausfilhrlich getan.) Es ist vom port.
siuyello nicht zu trennen und aus gleichbedeutendem lat. sùtgillus zu erkliiren. Der im
lat. siiicenis u. singulus steckende Stamm (indogerm. sania=ganz) ist es, aus dem
ich sene-ilio, sing-ello, senc-ido, cenc-eno ableite, und ferner uoch port. sinc-el sinc-elo.
Siìic-eì-us bedeutete integer =:z ganz , unverletzt, und aufriclitig , oline Falscli, rein
fleckenlos. (Siete die mittellat. Grlossen). Die Bedeutung ganz bewahrte es z. B. im
altkat. sancer mail, sencer. Tirant lo Blanch p. 14 lo qual aneli era fet ah tal artifici
gues departia pel mig restant cascuna pari aneli sancer. Weitere volkstumliche Vertreter
des Wortes sind nicht vorhanden : als mot savant lebt es unverandert mit der Be-
deutung aufrichtig luahrhaftig in alien romanischen Sprachen weiter.
Aus sing-illus, Diminutiv von sing-ulus, entstand zweifelsohne das port. sing-eUo
adj. einfach schlicM, und auch sp. sene-ilio. Sincel sincelo =Eis, gefrorener Schnee (prov.
Douro , Villareal) ist dagegen kaum als Scheideform aufzufasseu. Es lasst sich besser
aiis sincerus = rein fieckenlos deuten , dessen ero zu elo el werden konnte.
Im kast. senz-ido nun und in cenc-eno (s. ob.) sencer und sene-ilio ware Suffìxver-
tauschung eingetreten. Der Ausgang zu derjenigen welche in senz-ido vorliegt, konnte
ein laiitlicher Process sein. Sencero durfte im Munde des Spaniers sencedo werden; '
das in Adjektiven ungewohnte Suffix edo aber , welches im Kreise der Substantive
seinen bestimnt abgegrenzten Wirkungskreis hat, wurde mit dem Participialsuffix
ido vertauscht.
39. SOSEGAE.
Diez II'' und Anhang, nach Rom. V p. 184 Storni. — Sosegar ist weder subcequare
noch suhsidere noch suhsedicare; das Praefix sìib steckt liberhaupt nicht darin. Die
altesten Formen, in welchen uns das Wort auf der Halbiusel begegnet, im Port.
' Der, im Grossen und Ganzen nicht liaufige Ubergang von V+r-h Fzu V-i-di- V liegt vor in secadal se-
quedal fiir secaral; panadizo fixv panaricio; polvareda fùr polvarera (Dissim.) ; pclarc-la iiir peladela (Beimformel).
S. Stndien p. 235 u. 332.
— 156 —
ebenso hilufig wie im Span., kenneu cleri o Laut der ersten Sylbe niclit. Derselbe ist
erst spater in die tonlose Sylbe eingescbmiiggelt worden , in Nachabmung der vielen
Bildnngen mit so:=s2tb welclie der Halbinsel eigentiimlich sind. Dass sub jemals zu
se geworden wàre, ist niir iinbekannt: als so zo sa za son sol zom san zam sai ist es
mir begegnet; niemals als se. Hingegen ist ein iirsprùngliclies se, das die erste Stelle
im Wortkòrper einnahm, mebrfach in so iimgedentet worden, z. B. im altport.
socrestar fiir sequestrar (segar sohcrestar kommt vor); ferner im span-port. sopultura
fiir sepoltura tind im kast. soholUr zabulUr fiir sepelire.
Die altport. Dokumente kennen nur sessegar und assesseijar assessego assessega-
mento etc. Man sehe z. B. die von Santa Eosa de Viterbo mitgeteilten Stellen,
welche sich verzehnfaclien liessen. Bis zur Neige des lo"" Jahrhunderts hat es
bestanden; im Cane, de Eesende kommt es noch oft geni;g vor, z. B. I 84 sospirar
nunca sessega. I 64, 162, 256 etc. Ebenso ist im Altspan. die Form {a)sessegar die
iiberwiegende. Aiis den einschlagigen Stellen, von denen ich einige wenige mitteile,
gebt deutlich hervor dass es urspriinglick niedersìtzen, sich setzen, sich niederlassen,
cine Stellung einnehnen, zum Stillstand komnien oder hringen, einsetzen bedeutet:
Conq. de Ultr. p. 490 pues que tobieron cercada la villa e la hueste asesetjada fioieron
armar los engennos (= aufgestellt).
ib. p. 503. Mas despues que el rey Amauric hobo eoliado de Egipto à Siracon é
asesegado en ella à Senar el Soldan (^eingesetzt).
ib. p. 503. mas non se le asesegaba la voluntad de creer de tod en todo que el
Rey le vinia ayudar (= Seiii Sinn war nicht fest in dem Glauben....).
ib. p. 583. E Sal.adin dejó los bien asesegar e comer e tnmar de las viandas a.
su voluntad.
Von gesetzt zu rìihig ist nnr ein Schritt. Man sehe Conq. p. 493 :
« E deque el Rey caso con su mujer, dexó todas malas costumbres.... e fué asesegado , de
buenas costumbres. »
Ein Land beruhigen, Frieden darin hcrstellen bedeutet es dann in iibertragenem
Sinne, z. B. p. 607, 587, 586, 581 etc; und spiiter allgemein beruhigen.
toh. leite dies sessegar, aus dem wie gesagt sosegar sosiego (pg. socego) und sosegar
somegar sonsiego ward (Cane, de Baena I p. 200, 201, 202, 289 etc.) durch Ein-
sckwàrzung des Prafixes sub, von einem hypothetisckeu, dock kochst wakrsckeinHcken,
mittellat. sessicare ab [S. Du Gange sessoniun sessura sessiva etc.) das aus sessum, part.
von sedere, entstand; ' und weise, ein lat. sessiì.... z. B. auch im port. adj. ressésego,
ressécego, rececego = altbacken , abgestanden^ nacli, und im gali, srssigas = asiento de las
losas en que se coloca el pie del molino.
Im altport. haben wir ferner scsega séssega ■= assento ou terrado nào so de qual-
quer edificio, mas tamhem das arvores; sesega bezeicknete auck eine Ahgabe fiir irgend
ein auf fremdem Grund und Boden wurzelndes Besitztum, Baum, "Weinstock,
Miihle etc. Dass gali, sessiga ist ein Sprossling des altport.
' Prov. it. assestar kann nur lat. scss-itarc sein.
' Bluteau , Suppl. II 504: rececego ^=seidii;o oii de muito tempo.
— 157 —
40. SOTUENO.
Port. Adjektiv : ^«sfe;-, uìifreuwlUch, m'ùmsch, fjriesgrum'uj. Wohl niclits anderes
als Saturilo, der finstere Gotb und ungllustige unheilbringende Planet (grave sidus,
stella ìiocens, sidus triste und sogar bugne dio del — bei Victor Hugo), im Gegensatze
zu Jupiter, dem jovialen Gotte, und glixckspendenden Planeten.' Also ein adjecti-
"virtes Substantiv, und zwar adjectivirter Eigenname, wie der Portugiese deren
mehre kennt. Sengo = sjìruchiveise, narcizo = eitelschon, marialva = geckenlmft,jusimino=^
liebKcIddnend, fucar =z steiiireich , sandeio ^ liebestoll , nsihm. er von den Eio-ennamen
Seneca, Narcino, Marialva, Josquim des Prés, Fugger, Sande [f Siehe oben N. 36).
AVas deuWaudel von a zu o vor der Tonsilbe betrifFt, so sei, um auf port. Grund
und Boden i;nd daselbst im Bereiche der Scliriftsprache zu bleiben , nur an bolor aus
pallorem (S. ob. N. 8.), an bogalho ftìr bagalho von bacca erinnert, und an Monfreu
ftìr Manfred, Domas fui' Damasco, Wolistan fiir Wallenstein (Cfr. Eom. X p. 336-345).
Dass der Wandel aber im Eigennamen Saturno tatsachlich vor sick gegangen,
beweist die Form Saturno, welohe z. B. im Cane, de Baeua I 265 u 267 vorkommt
und gern als Reim zu noturno = nàchtlich finster verwendet wird , im Gegensatze
zu vorausgegangenem diurno.
41. So VELA.
Port., span. subilla, aspan. sobiella (Alex. 2009). "VVie ital. subbia vom lat. suhùla.
Dock ersetzten die span. Spracken das Suffix ùla durch diminuti ves, toutragendes
illa; also von subilla.* — Cfr. hebilla Jivela von fibula; postilla bostella von pustula;
lucillo vou loculus; pestillo von pestuluin fiir pessulum.
42. Atordido sp., STORDraE it.
Diez I stordire. — Zsckr. II 86 Foerster. — Zsckr, VI 119 Baist. — lek mockte die
Kerleitung aus turdus dock nickt abweisen. Der unleugbare Anldang des Drossel-
namens turdus an rom. turb'dus torv'dus trop'dus, also an turbidus torvidus torpidus,
— Bezeicknungen fiir unriddg wirr Starr betdìibt — konnte den Glauben an eine tatsack-
lick gar nickt (?) oder in geringem Grade vorkandene, zeitweilige Starrkeit und
Betaubtkeit der Drossel erwecken. Einmal vorkanden musste er sick in allerkaud
Fabeln " Makrckeu Sprickwòrtern Kinderreimen dokumentiren. Diese musste man
sammeln, um zu erfakren ob der Glaube oder Aberglaube wirklick in romaniscken
Landen vorkanden, wie mir wakrsckeinlick vorkommt. lek kabe mekrfack sagen
' Cane. Gen. II p. 301 spricht D. Francisco de Castilla vom « Saturnischen Melancholiker ■ Saturnino me-
lancólico.
'- Die eine Fabel, dass namlicli die Drossel sicli selbst den ToJ bereite, ist bekannt. (Comenius § 157.) —
Was aber wiU das Sprichwort sagen: TaTtc el esqiiiloii- y dnermeii los tordos al soii? Wer Haller oder Sbarbi zur
Hancl hat, weiss es vielleicbt; icb nicbt. — Was bedeutet nascer de las tejas abaj'o corno tordof —
— 158 —
lioren, die Drosselscliwàrme, welclie im Friilijahr uacli Europa lieruberkommen,
fìelen nach dem langen Finge wie betaiibt zu Bodeii, was geméinhin von dar schwer-
fàlligeren Waclitel gilt. Die statUiclaeu gesclilossenen schwarzen Ziige der Drosseln
gaben jedenfalls eia Bild und Gleichniss her, iiuter dem man Scliaaren hereiubre-
cbender Feinde oder ausgesandter Pfeile etc. betrachtete. ' At-tordire und ex-tordire '
konnten daher reclit wohl ein plotzliches iìber-raschen, ersclireckeu , erstarren, betàuhen
bezeiclinen {bedrosselnf Cfr. heluchsen u. sp. amilaiiar; amilaiiamienlo = Furàttsamhéit).
43. TERgó.
Der Spanier nennt das Augenlidgeschwur wie der Deutsclie, ein Gerstenkorn,
oder richtiger ein Gerstenkdrnclien:=orzudo. Dasselbe tun Italiener iind Franzosen, d. li.
sie alle bezeicliuen die AugeuUdentziuulung mit Worfcern welohe auf lat. hordeolmn
von hordeum zurtickweisen: it. Oì-zajuolo = hordeariolus, frz. orgelet orgeolet = hordeolum
mit Anfllgung der Diminutivsylbe et. Der Porfcngiese, welclier, mit dem Spanier,
auch das Simplex hordeum einbnsste uud es durcli ceuada sp. cebada ersetzte, betrach-
tet das Gerstenkorn als ein Weizenkornclien , denn die mannichfaltigen port. For-
men tressó ' tressol treqol terqó tercól tersol trecouro tregougo ticouro treqòlho iind sogar
torcào, die man sammtlicli im Volksmunde hòrt und zum Teil auch gedruckt
findet, weisen, mitsammt dem gali, ttrizó tirisol, naturlioh auf ein ursprungliches
triqól und tricóo, Parallellbildungen aus lat. triticeohim * vom Adjektiv tritlceum.
Sie entstanden unter euplionischem Ausfall der zweiten Sylbe, deren Gleicliklang
mit der ersten misfiel.
Port. (c)ó^ diiViS {t)lolum fur [tjeolum in lencól, kast. lenzuelo=^Unteolum; anzol an-
zuelo aus und{ni)olus , wie ioli anderwiirts zeige. — Man vergleiche auch port. nraHoL=
araìiuelo, crisol = crisuelo ; und port. Neubilduugen wie reinól.
Port. óo neben Bildungen in ol liegen vor z. B. in feijoa (haute feijào,) aus
phasiolus (span. /(r)jsMefo) ; ferner in tercóo tergo tregó prov. tersól, afrz. terciol, kat.
tersol, spau. terzuelo torzueh, it. terzuoìo = lat. tertiolus Habiclit (kat. astor tergól);
linhó neben linhol etc. — ■ Viele Ortsnamen in oo od. ó wie Figneiró, Griju etc. mogen
auf ursprungliches olus lohis hindeuten.
44. Trinca.
Diez II'' und Anhaug, nach Rom. V. p. 186 Aum. — Das span. port. cafrinca
quatrinca= Vierheit Vierzahl, welches mir z. B. in einem Prosabriefe von Camòes
' Oonq. do Ulfcr. p. 346 tan eapesos comò banda de tordos p. 412 tan espesamente que parescien mCbada de tordos.
'■ Eslordido z. B. tei Fita 741 n. 952. Esloriecido im Amadis I oap. XIII. Atordido (niolit aturdido) ist die gute
alte, aach heute nooh volksùbliolie Form, die jedem Romanisten oft begegnet sein muss. (Z. B. Cane. Gen. II 45;
Valdivielso, Cane. Esp. p. 29; Basna I 131. Amadis etc.). — Der Port. kennt aucli alordar und atordoar.
" Cfr. Leite de Vasconcellos, Tradi(?oes, N" 22. Qiiem tiver um tert^ol, ou corno o povo Vie chama um tres sóy
vae ao campo antea do despontar da manlià , e collocando sobre o olito atacado a mào contraria, dìz tres veses: Sol
toma Id tressó (nicht treasólf), e era pouco desappareoe o mal. N" 85 Para curar um ten;ol, é costume l'azer uma
casinha peqaena com cinco pedraa, accender lume Id dentro, deitar-lhe sai e largar afiigir dicendo: Aquedelrei quem
acodc ao fogo na cata do tercOgo (j; hiatustilgend zwiacben vo).
— 159 -
begegnet in der Plirase: òeijo es.ms màos urna quatrinca de vezes, spriclit daf'ur
dass man uach dein Master vou unus luiicus aus trinus eiu triìiicus,'ii,us quattuor aber
quattrinicits gebildet hat. Im port. ist trinca nur im Kartenspiel ilblich wo es
drei gleiclie Karten bedeutefc, wie catrinca deren vicr.
45. Umbral.
Zsclir. VII 124. — Baist erkliirt daselbst das span. Wortfiir Schwdh aiis dem lat.
luminar e ^= Fenster, gestiitzt anf die alte, seltne, mir in kasfc. Texten nie begegnete
Form lumhral, ■welcbe die Wòrterbiicher verzeicknen, vaia, die, nebenbei gesagt, noch
im Grallizischen weiterlebt, was fiir ihre Existenz im Altsp. spricht. ' Das anlau-
tende l von lumbral ware also als Artikel anfgefasst, iind vom Wortkorper ge-
trennt worden, wie in afril ans latril fiir letril. Lautliclie Scliwierigkeiten sind also
nicht vorhanden, und sachliche aiich nicht, weun man zugiebt dass der Name des
Tiirfensterchens auf dessen Stixtzbalken d. li. auf die Oberscliwelle und von dort
auf die Unterschwelle, die eigentliclie Schwelle, llbertragen werden konnte. Der
zweite Ubergang ist walirscbeinlicli , der erste bei der Durchscbauliclikeit aller
Ableitungen vom lat. lumen niciit. Darum befriedigt mieli die vorgescHagene E±y-
mologie niclit ganz. Die Untersucliung Baist's ist aiich keine voUstandige.
Fiir Oberscliwelle, das iiher der OherschweUe angebrachte Fenster und die verti-
calen Pfosten icelclie die Ohersclurelle tragen, d. h. fiir die Eiuzelteile des Tiirralimens ,
bieteu die Sprachen der Halbinsel eine ziemlicli bedentende Eeihe von Ausdriicken,
deren lateinisclie Etyma — als da sind 1° luminare von lumen; 2° liminare von limen;
3" Immeralis von humerus uud 4" limitar is von limes — zufallig zu mancben sich ahnli-
clien und einigen fast ganz gleiclilautenden Hispanisirungen gefiibrt haben, deren
Specialsinn, eigentliclie Bedeutung und ursprùnglicbe Verwenduug fiir einen be-
stimmteu Teil des Tiirgesimses , wie mir sclieint, in und durcli einander gegan-
gen and verweckselt worden sind, so dass in den Einzelfàllen die Entsclieidung fiir
oder wider dies oder jenes Etymon iiiclit ganz leiclit zu treifen ist.
Umbral aus lumbral d. h. aus luminare abzuleiteu, obne Rucksicht zu nehmen
auf das aspan. limnar, port. liminar und limiar, aport. limiar, lemear und himear lo-
onear, altgall. lumiar, neugall. lwmial{es), aspan. lumnar und auf. port. gali, lumieiro lu-
mieira, so wie auf umbreira ombreira liombreira Immbreira (port.) und auf die port.
Sckreibweise Immbral, und ferner auf die span. port. Ableitungen von limite
(namlicli lintel dintel lendel und vielleiclit gar aledaììo, port. lindeira prov. lindar
frz. linteau, latinisirt Untellum) scheint mir gewagt und misslich. Selien wir die
A^erschiedenen Gruppen ulilier an.
rt) Die Derivata von limen liminare, d. h.. das aspan. limnar (Berceo, Saorif. 163)
mit dem neuport. limiar (und liminar, gelelirten Ursprungs) liaben sclieinbar stets
' Sonst konnte man glauben, die Lesikographen hatten aus ellumbral eines alten Textes irrtilmlicli (statt
cìl ambral) ci lumbral gezogen.
— 160 —
Scluvelle bedeutefc, liaufiger die Unterschwelle, aber wolil aiich, wie schon im. Lat.,
dell oberen horizontalen Querhalken ocler Ohersturz.
h) Die Derivata von lumen rr: luminare luminaria (neutr. pi.) kòniien urspiiiiiglicli,
Direr Mar erkenubaren Lichtbedeutuug gemiìss, iiur das « Turfenster iiber der
Oberschwelle » bezeiclinet liaben. Es sind aport. lomear lomiar lumiar lumear gali, lu-
miar n. lumial; port. lumieiro gali, lumieira, aspan. lumnera, ' uud vielleiclit eben auch
sin bypotlietisclies aspan. lumnar* lumnal,* Avoraus lumhral uiid spiiter durch Auffas-
simg des l als ware es der Artikel, das moderne span. umhral port. hnmbral entstan-
den sein konnte. Solange lumnal lumbral das Turfensterclien bedeutete, ware das
freilich eiiie kaum zu erwartende Verundeutlicliung des Begriffes gewesen.
Die grosse Aluilichkeit zwisclien limiar und lomiar lumiar im Port., nnd zwisclien
limnar und lumnar * im Kast. konnte dami sehr wolil eine Verweclislung der beiden
Begriffe und die Verwendung von lumiar lumnar zur Benennung erst der Ober- und
Unterschwelle und dami vorwiegend der Unterschivelle liervorgerufen haben, und liat
es getan. Fiir port. lumieiro und gali, lumieira ' bestand soldi eiii Grund zur Ùber-
tragung der Begriffe nicht, weslialb beide Worte denn aucli lieute nocli ausschliess-
licli die Bedeutnng Fensterchen bewaliren. Und da im Kast. neben limnar kein limnal
existirt zu liaben scheint, war auch fiir das, in Bezug auf Tiirrahmeuteile ganz
hypotlietische, lumnal aus lumnar die Gefahr der Verwecliselung niclit vorlianden,
was gegen eine sachliche Identifìcirung der Begriife Turfenster und Oher- Untersturz,
also gegen die Etymologie umbral aus limnal unter Anlelinung an lumnal spricht.
e) Wie steht es nun mit den vermeintlichen Ableitungen von humerus ? mit
dell port. span. Repriisentanten von humerale humeralia? Im Lat. und Mittellat.
haben die A¥orte niemals « einen Teil des Tiirralimens » bezeiclmet. Der Vergleicli der
vertikalen Tilrpfosten (mit der Oberschwelle u. ohne diese) mit lasttragenden Schul-
terstiicken, wenii anders er ilberhaupt existirt, ist von den Hispaniern vorgenom-
meii worden. Ist er ein trefFender, oder ein schiefer, falscher verkehrter? Darf man
die im Port. ilbliclisteii Worte fiir Tilrpfosten und Obersturs, darf man {h)umbreira
{lijombreira ' von humerus ableiten ? Sie sind ohne Frage Zwilliugsgeschwister des
gleichbedeutenden und gleich ùblichen {h)umhral,'' welches wiederum von kast. gali.
umbral lumhral nicht zu trennen ist. Entweder stammen sie alle, wie Baist fiir die
kast. Form ansetzt, von luminare, respective luminaria ab, oder sie sind alle mit
humerale humeralia zu identificiren. El lumbral stiinde in letzterem Falle fiir altes
eli umbral. Im ersten Falle hatte spàterhin wenigstens Umdeutuug unter Anlehuung
' Span. lumbrera = Dachfenster KeUerfenster ist oher oino selbstiindigo Ableitung vou liimbre als welter
entwickeltes lumnera. Diesos fiadet sich z. B. im Alex. UG6; Mil. 280 u. 710 als Licht Leuchte. Das gleiche cilt von
lumieira lumbcirada (gali.) als Triiger des Sinnes Herdfeuer.
' Pequena abcriura esireita e comprida sobre urna porta ou janella para dar luz e ar.
" Humbreiba: 1» parte complcmentar de qualquer especie de vestimento correapondente aos hombros. 2» cada urna
das duas pedras ou pe<;as de madeira compridas.... que postas perpendicularmcnte suatentam a verga ou os aaimeis da
porta ou portai. 3" limiar, cntrada.
' HuMBBAL : humbreira da porta ; porta , entrada , limiar.
s _ 161 _
an humems stattgefunclen. ' Filr /»HHemZ(rt spricht, meines Erachfcens, dass sowolil
umhreira als auch umbral, mici zwar im Span. wie im Porfc., aucli wenn sie
SckweUe bedeuten, im Plaral gebrauclit werden. Man denke z. B. an los umhrales de
la muerte, gali, os lumialcs da morte ^ port. os humhraes da eternidade.' Bekanutlich
stehen aber gerade die Namen von am Kòrper doppelt vorkommenden Teilen gern
in diesem Numerus {faces, mejillas, nalgas, hombros etc). Doppelt aber sind am Tilr-
ralimen niir die verticalen Pfosten; und von alien moglichen Vorbildern der be-
treffenden "Worte greift nur das von mir vorgeschlagene humeralia liumerale in das
Bereich des menschliclien Kòrpers hinein. ^ Dass im Port. eira der Vorzug vor al
gegeben ward, entspricbt nur seluer ausgesprochenen Vorliebe far die volltonenderen
Derivata in eira, die sich aneli in den Ableitnngen von limite limitaris limitaria zeigt.
d) Dem spaniscliem dintel lintel, prov. lindar, fr. linteau lintel entspriclit im Port.
niclit, wie zu erwarten, lindar, sondern lindeira: verga suferior da. j)orta ou janella
que serve para firmar e unir o pé direito ou as umhreiras entre si. Lindeira ist librigens
ein wenig gebrauclites Wort, welcbes bei einigen Lexikographen (Bento Pereira)
nur mit ornato nas ombreiras da porta gedeutet wird. Die niclit port. "Worte bezeicli-
nen manchmal die Oberschwelle, welclie als Grenze des Tiirralimens anfgefasst ward,
dodi meistens die UnterschweUe , welclie als Grenzrain zwischen Zimmer und Zim-
mer gilt.
Zum Schlusse sei nocli angemerkt, dass in slidliclien Hansern, wo man Ver-
bindungstiiren gern auskebt, die Unterscliwellen meist, wenn niclit immer, feMen
— liier in Portugal wenigstens. Oberschwelle und Vertikalpfosten kònnen nie f'ehlen,
selten fehlt aneli das Fensterchen : die Namen fiir diesa Teile waren also unentbelir-
licher als die fiir die Schwelle. *
Nur ein sorgsamer Vergieich aller alten Stellen, in denen die einschlagigen
Worter Verwendung gefunden haben, wird die entscheidende Antwort auf die
Frage nach dem Etymou von umbral geben.
46. Urze.
Diez II'': von erice. — Zschr. V 556, Baist: von idice. — Da nicht einzusehen,
warum aus der hypothetischen Form erice* erica*, statt erze erga, ìi.rze urga, mit
ganz unmotivirtem, phonetisch unmoglickem Ubergange eines tontragenden S io. u
geworden ware, dieser wLaut aber in idice vorhanden ist, darf man der letzt vorge-
' Die Sohreibung mit h an sicli Tjeweist gar niohts. Sie konnte auf t'alscher Etymologie Vieruhen.— Verlust
des ani. l ist im Port. selten dooh liommt er vor. Siehe oben N° 17.
' Àlinliche Redewendnngen sind haiifig. Das erste Beispiel das icli finde, stelit in der Pie. Just. p. 209.
' Plionetisohe Schwierigkeitea sind niclit vorliandon. Hoclistens konnte man sich darùber wundern dass
kein kast. hombral ombi-al vorliandcn ist. Jl/ftr — Ersatz fiir lat. me — halt Diez, Gr. I 303 fiir eine echte port.
Lautverbindung. Ob mit Recht? Sind nicbt alle port. Worte in ambre imbre umbre etc. Hispanismen? Fiir den
vorliegenden Fall ist die Entscheidung der Frage wertlos, denn hiitte das Port. den Namen fiir den Tili-pfosten
dem Kast. entlelmt, so milsste er daselbst mit gleicher Bedeutung vorbauden gewesen sein.
' Die Bautischler nennen hente die holzerne Unterscbwelle soleira (von sobim Boden), die steinerne cou-
ceìra {^= a pedra do baixo . em quo assentito as onibreii-as ou pedi'as lateraes da porta) von coiice = calce , also
eigeutlicU calcearia = Feraen odor Fusstilck; die Pfosten umbreiras, die Obersobwelle pavicira odor xìadieira.
81
— 102 —
schlagenen Etymologie wohl zustimmen, obwolil dasjenige Heidekraut welches alt-
span. urga ' lieisst, kast. uree, port. terze urge (vulgair auch ttrgem) urgueira, gali. bere.
tiz (welches in der doppelten Schreibung uz und hus mifc etwas abweichender Be-
deutung ins Kasfcilianische Aufnahme gefunden bat'), tatsàcblicb die rotblùbende
Erika {Erica arborea) benennt. Ob mit lat. ulice bereits dieser Sinu verkuilpft ward ,
isfc unbekaniit; die Stelle in Plinius entscheidetnicht: einen rosmarinarfcigen Strauch
hann man die Erika allenfalls nennen, obwohl der Vergleich stark liiukt. Es konn-
ten auf der Halbinsel hj'pothetisches erze nnd hypotbetisches tdze "' zu dem einen
"Worte urze zusammengeschweisst worden sein , da beide Worte Heideki-aiitarten,
vielleicht gar ein und dieselbe Art bezeiobneten.
Uz konnte aus urze entstanden sein, wie z. B. uvaduz, uva de usso fiir uva de
urso, uva ursi =: Bdrentraidie stebt; konnte aber auch aus verlorenem gali, nlze
hervorgegaugen sein, wie duz dtis, aspan, * gaU. und bere, aus lat. didce (Man vergi.
ducaina); entspreehend kast. saz aus salze (salice\ caz aus calce (calice). Den G-rund
warum filr idze nun wze, fiir ulga urga steht, fiir ulguelra urgueira (tdicaria) kenne
ich, wie schon gesagt, nicht. Pulice ergab pidga; ilice, eie... cncina; filice felgu,..eira;
salice salgu..eiro. — Eine einzige Bildung kenne ich, in der lat Z-j-& im span. zu
rgi geworden , sarga = salix alba. Gehòren sarga und urga (in tirgueira) demselben
Dialecte an? Und welchem? '
47. Vestiglo.
Span.: Ungetiim, Untier, schreekhaftes Gespenst, Scheusal, Brache; kurzum ein derbes
Schimpfworfc, mit dem ein menschUehes "Wesen den nicht sprachbegabten Tieren
gleichgestellt, als dumme Bestie oder, gut berlinisch, als dummes Biest behandelt
wird. Damit konnte ich eigentlich schliessen, doch will ich mich niilier erklareu.
Der Leser sehe freundlichst die unter N. 13 mitgeteilte Strophe 982 des Erzpriesters
noch einmal an. Ich stelle vestiglo neben die daselbst gebrauchten ReimM^orte siglo =
saeculum; per iglò ^: per iculum; ce[r]uiglo=:cernicalum, vergleiche das vulgairport. be-
' Urga z. B. in dar Conq. de Ultramar p. 329. 3i2. 343.
' Uz bedeutet im Bercianisohen , wie tirse ira. Span. Port. , die friache rolbWiende Erika , welche aiif dem
westlichen Teile der Halbinsel, und, sowol ich weiss, anoh im Norden, ganzer Borge einziges dauerhaftes, rosi-
ges Klcid ist, ani" dem die Bienenscliwarine sich gern niederlassen. — S. Poes. Bere. z. B. p. 3;}l> uceSj cantrozos e
hrezoa, womit also drei verscliìedeue Heidekriiater bezeichnet worden, der gewòlinliclien Annalime entgegen,
welcbo urz& und brczo fiir ganz gleichbedeutend ansielit. — Dies Heidekraut wii'd in Gallizien — wie im Portu-
giesischen der carqueijfi genannte Heidestrauch — dazu verwendet um das eigentliolie Brennmaterial anzuisiinden,
bedeutet also selhst klcines Brennmaterial. Ein Sinn mit dem allein es im Kast. auftritt. Das Scbeidepaar «irsc uz,
verzeichnete icb daber scbon in meìnen « Studien ». — Uz Uzes Urgueira sind biiufige Ortsnamen in Gallizien und
Leon. — Dio Etymologie w« aus ulice batto Monaci bereits im Manual, p. 55 aut'gestellt, was Baist ùbersoben bat.
' Der Ortsnamo Ulztira kommt in Gallizien ver. — lu Kastiìiou u. in Portugal giebt es mebrere Stadtcbon
Eris Brize(C)ra.
' Fita 107. 106.
' Ob wirklioh jeder Zusammenbaug zwisohen erice erica otc. und brizo brezo brcza bene (gali.) bres
!>Uzo brega eto. etc. ausgescblosson ist? Konnte brizo nicbt {e)ricius mit prostbetischem b sein wie brusco = ruscus;
bronco ^= ronco; broca = rueca eto.? J3/t;o bezeichnet allgomein alle Ueidekriiutcr, im besoudoron aber gleicb urze
cine Erìkasorte.
_ ifìs —
stilo, vestiijo ' (alt besUfjm hestigoo), welches geuau so viel wie dimmes hasdiches Vleli
bedeutet, denke uebenbei an spaii. ctUmana, das ahnliclie Verweiidung findet imd stehe
uicht liinger au , vestigio iind vestigo auf ein hypothetisches òesticulum zuriickzufù-
hren, d. h. es fiir ein volltònouderes òestius zu ei'klareu. Cfr. N. 13 uud 34 wo ùber
das Suffix igo gesprochen ward. "
Folgende Stelleu werdeu meiuer Ausicht zur Stùtze dienen:
Cane, de Baena I p. 8 Prologo. Leones e osos e puercos e ciervos e otros muchos venados
e animalias e vestyglos bravos e muy espantable-s.
Cai. e Dym. p. 7.5 de leon e de otros vestiglos.
70 Dicen qua unos homes fueron al monte e cavaron y una lobera para
tornar los vestiglos.
71 et él le conto todo cuanto le acaesciera con los vi'stìg!os (als da sind:
Affé Dachs und Otter ximio, tasugo, culebra).
57 dicen que en una tierra habia un arbol.... et al pie del habia muchos
vestiglos (mur, gate, liron, bulio).
Cane. Gen. I 45. Tu que eres el Seilor
de los siglos ;
d'animales y vestiglos
hazedor.
117 Tricipides sierpes y bravos vestiglos'.
124 por do fué muerto con duros colmillos
del bravo vestigio de tierra de Oneo.
420 Porqu'el muy feo vestigio
no me traiga mal saiiudo.
II 305 Tres fieros vestiglos, sobervios gigantes
Contrarios perpetuos del bien operar,
Salieron senora, con vos a lidiar etc.
48. Vinco.
Diez 11'^ ohne Erklarung. — Die IJbersetzung Folte , Geleise des Wagens klart un-
genugend iiber den waliren Sinn des Wortes auf. Vinco bezeiclinet « den Eindruck
oder Einschnitt, welchen ein Band oder Biudfaden, stramm angezogen, auf eiiiem
Packete binterlàsst , die Rinne welcke ein Rad in den Boden drlickt, den KniflP
der in Papier, Zeug etc. bleibt, wo es gefaltet worden war. » ^ Provinziell benennt das
Wort auch « eine Nasenklemme aus Draht , welche dem Schwein aufgesetzt wird um
es am Wùhlen etc. zu liindern. » Vinco kann nichts anderes als lat. vincidum sein, in-
' Siete z. B. G. V. I 262: mentis comò bcstiyo, salvanor, (d. li. mit Verlaub zu sagen wie der hofliche Portu-
giese beute noch hinzufugt, wenn er Worte wie beata burro porco in den Mund nimmt). Sielie auch Cane, de Bes.
Ili p. i9H porque me vi muy cercado | de bestiguos | de minha Vida imignos, | e eu por foijyr lìeriguos \ foi /orgado \ em
hitma arvor ser trepado.
' Das span. Diminutiv Jitslimga (Pio. Just. p. 2S) dtìrfte nach port. Weise far Jnstinigua atehen d. h. Justi-
nicula sein. Man bedenlie immer dass der ganze Roman in Leon spielt am Zeafliisschen , und dass geistig wie
.sprachlicli port. gali. Elemente darin naclizuweisen sind. Ob igo aucb in dem humoristisch gebrauchten Adjektive
Xtrincipiantigas steckt , weiss icb nioht. Mòglicberweise ist es priiicipidntigas.
' « Signal que fica em cousa que se dobrou, ou na parte de um coii)o apertado com fìta, oti finalmente em
sitio por onde passou roda, > — Aviucar a testa = die Stìrii kraus oder in Falten zieJiev.
— 164 —
dem der Name des Ursachliclien (des Bandes, des Strickes, der Fessel) auf die
hervorgebrachte Folge und "Wirkung (den Einschnitt, das Geleise) iibertragen ward.
Fineo aus vincoo fiir vinculum, mifc syiicopirtem Z wie in magoa aus macula, hago
aus haculum, perigo aus periculum, dialo aus diahulmn, orago aus oraculum, povo aus
pojndum etc.
Vinco vaxà vincido sind also Sclieideformeu. Die erste Form ist die natiouale
volkstiimliclie, die zweite die Idassische, dem Lateiuischen entlelinte.
49. Xato.
Diez IP 193 weisfc nur die arab. Etymologie ab. — Baist, Zschr. VII p. 124
halt das kast. Wort fiir identisch mit span. port. kat. chato (xato) =rjjZa<t Man hiitte
das Kalb, welclies sonst auf der Halbinsel vom lat. vitellus, -a seinen Namen hat
(port. vitello, -a, kat. vadell, mallork. vedell), oder mit Ableitungen von tener z=zart,
■ und noviis^=jung benannt wird (im and. kast. vai. temerò, -a; kast. novillo, -a) alsjilatt-
ndsiges Tier bezeicbnet. Ansprecliend, obwolil der Spanier fiir plattnasig ein be-
sonderes Wort batte, romo port. rombo.
Gresichert ist die Etymologie iibrigens keiueswegs. Feruan Nimez citirt namlich
ein Sprichwort, welcbes lautet: Jado de noviella y pjotro de yegnn vieìla, und erklàrt
jado durch hezerro de bezerra, also in Ùbereinstimmung mit der modernen Verwen-
dung von xato. Sonst bin ich dieser Form nocb nicht begegnet weder in alten, noch
in neuen, noch in dialektischen Texten, so dass es sich ja moglicker Weise um
einen DruckfeKler fiir jato handeLn konnte.
Zu bemerken habe ich noch, erstens dass xato das Kalbchen nur bis zum Alter
von 6 Monateu bezeichnet (spater heisst es im Asturischen moseo, jahrig, und Mm-
bon, 2 jahrig, Vergleiche port. phnpào = schmuck). Zweitens dass das Wort nicht im
Nordosten zu Hause ist, sondern im Nordwesten. Gerade der Asturier, der Gallizier
und der Einwohner von Bierzo benutzen es. '
50. XODEEIEO.
Die Wòrterbiicher verzeichnen ein port. Wort xodreiro nicht. Ich keune es aus
Sa de Miranda 164, 338 wo es als Beiwort von porco ^auftritt uud soviel wie im
Scìdamme wuhlend, schmutzlieòend, schmutzig bedeuten muss. ' Sichergestellt wird das
Wort mit dem angegebenen Inhal^ durch das alte Sprichwort : Janeyro porcos em
xodreyro (Nunez), im welchem es also als Hauptwort auftritt und Pf'ùtze, Schlamm-
was.^er besagt. Ein solches kenuen die Lexika denn auch, in der Form enxodreiro
enxurdeiro = lamaqal lodagal. ' Sie keunen ferner enxurdar-se = sich ini Scìdamme loiil-
' Poes. Astur. p. 36; Bere. p. 179. 308, GaU. Cuv. Pinol s. v. jato.
' Acliou d' eia (da agna de maio) inda que farle, E corno porco xudreìro, Ben cnmUo d' ùa parte , Deu a volta
ó corpo enteìro.
' S. Rosa bietet: Éiucadreiro ^eslrumeira, Ittgar de immundicias , lodagal. — Aneli als Orfcsname kommt Enxu-
dreiro vor. (Vielleioht eine Verdrehvmg von Inxidreirof)
- 1G5 -
zen, und chHvilo^scInnntdg ' In xiivdo .vordo xodro erkenue ioli das lat. sordidus.
Porcus sordidus liat walirlich niclits befremdeiides. Indirekfc wird durcli diese vul-
gair porfcugiesisclien Vertreter des lateinisclieii Eigenschaftswortes auch die Her-
kunft des kast. cerdo (serdo smrdó) aus sordidus bestàtigt. "'
Mòglicherweise stammt vou xordo auch das port. Substantiv cholda, choldra ab,
oder isfc eins damit. Es bildet einen Bestandteil der Reimformel clioldaholda choldra-
boldra, mit welcher ein sclimutziges unordentliclies Gemengsel von allerlei Diìujen , dann
Wirrwarr, Unordmmg, und ein Haufe roller Mensclien benannt wird.
Xodreiro z= sordidarius %• xurdo = sordidus.
51. Y.TADA.
Rabbi Santob, 153 Quien vestir non quisiere
sy ■a.on piel syn yjada.
162 Non ay piel syn yjada.
604 Syn taohas son falladas
dos costunbi-es senneras,
dos pieles syn yjadas,
que non han conpauneras.
Das Glossar giebt keine Aiifklaruug. Yjada muss liier so viel wie Ungeziefer,
(Laus oder Floli) bezeichnen. Docb kanu ioli dem Ursprung und den Verwandten
des Worfces durchaus niclit auf die Spur kommen , weslialb ich es hier nur fiir an-
dere glùcldicliere Forscher hervorhebeu will. Yjada = Injada von hijar, Eierlegen i Eiu
Ausdruck « ein Nest voUer Eier » scheint jedoch eine fiir den Juden von Carrion
zu -wenig realistische Ausdrucksweise ? Im Port. freilich wiirde Jedermann verstehen
was eine felle sem ninliada bedeutet. Ich glaube , es existirt auf der Halbinsel ein
Sprichwort, des Inhalts « es gabe keine Rose ohne Dornen und keinen Pelz ohne
Ungeziefer » , doch finde ich den Wortlaut nicht wieder. HaUer und Sbarbi geben
mògUcher Weise Aufschluss.
52. ZlSME.
Altspan., bei Juan Manuel, Obras p. 249. Et otrosi ha y otra manera de bestias
que son muy enojosas et sehaladamente d los caballeros cuando acaecen que andari arma-
dos en las guerras, asi corno los piojos, et las jndgas, las zismes et las formigas et sos se-
mejantes. Grayaugos erklart im Glossar, zismes musse in zinifes umgewandelt werden
denn es seien i^^i'e^eu darunter zu vestehen! {zinifes que san moscas!) Wunderbar!
noch wunderbarer aber dass Baist diese Auslegung nicht nur unangefochten lasst,
sondern sie sogar ausdriicklich gutheisst (Gaza p. 166).
' Cìiurdo^=villào ruiiiij mìseravel; lan churda^^sitja de guarda, corno sahe'das ovelhas).
' Ein Naclitrag zu dem, meìnen « Sfcudien • eingefiigten Exkurs iiber die romanischen Eigenscbaftswoi-ter
in ulits, den icli mit manchem intereasanten Beispìele bereicliem kònnte. — Ctr. Zscbr. Vili 228,
- 166 —
Vou Fltei/eu war sclion vier Zeilen hòher bei Juan Manuel die Reda: Et ha
y otros que son'entre maìiera de hestias et de aves asi corno morciellac/os et mariposas et
abejas , et ahispas et todas las maneras de las moscas. Zu den Fliegen liat der
Verfasser aber hochst wahrscheinlich aneli die Mùcken gerechnet, was cùiife doch
ist. Die ZusammeusteUung « Lause und Flohe, Mùcken und Ameisen », gìnge ja recht
gut an, dodi schemfc mir man milsse lesen los piojos, las prdgas et las zismes, et las
formigas d. h. die drei erstgenannten Quiilgeister zusamnienstellen , und den vier-
ten viel unschuldigeren alleili lassen.
Floh Laus und Miicke bildeu freilicb uun kein bekanntes Dreiblatt; man
erwartet Floli , Laus und Wanze , — und findet es auch wenn man ricbtig liest.
Zisme ist lat chnice, und steht fiir zùnce [cliinclie.) Wer es nicht glaubfc vergleiche
aporfc. chimse! (bask. cìiimetch, romagn. zemsa, mail, scimes, ital. cimice, veuez. cimese,
sard. diimiglie, albanes. Taiftsx) Einport. chinche, wie Diez irrtilmlich angiebt, existirt
nicht, und liat uie existirt. Das abstossende Tier heisst hier zu Lande lyersevejo
« der Verfolger, der Verfolgungsfrohe » (alt j^ersovejo porsovejo porseve perseve fùr
persegue vou perseguir).
Dies zu Diez IP chinche und zu den Eeicbenauer Glossen 14 scinifes cincellas,
131 ciìnex cimcella, welclie vielleicht eiue andere Erklarung als die vou Diez p. 22
gegebene zulassen. ' Fùr das Volk kounten die verschiedenen , im Sùdeu jedoch
durcli ihre Sfciclie gleicli lastigeu lusecten wolil ein und denselben Namen (cimcella)
tragen, so dass auch im aspan. zisme beide Arten inbegriffen waren. Lautlich aber
ist zisme, wie bemerkt, durcli zim,se (die Vorstufe von chinche) aus cimice entstan-
deu. Man vgl. hrizna neben brinza, gozne neben gonze, hrozno und hvonze, hizna und
liiaza; trezna und trenza tranza.
C'inif e = Miicke ist im Span., obwohl vielgebrauchfc, gelehrteu Urspruugs. '
' Icli wiirde cimex cimcella unangetastet stehen lassen.
' Im altport. Te.stamente (Boaventura II p. 101, Exodus Vili 16) wird das sciniphes der Vulgata, in Ermange-
lung eines entsprecbenden Wortes, durcli moscas wiedergegeben. Modem mosquito.
Carolina Michaelis de Vasconcellos.
DIE ENTAVICKELUNG VON C0N80NANT+W'
IM FRANZOSISCHEN.
Aus eineni Hiatus-^ eutwickelt sich bekanntlicli schon friihzeitig im Lateini-
schen eiu consonantisclies u (ir): ich erinnere hier nur au die eine Thatsache, dass
Wòrter wie temds u. dgl. bei ròmischen Diclitern wie Grammatikern bald di-eisilbig
(d. i. te-nu-ù)j baki zweisilbig (d. i. ten-iois) gerechnet werden, an die Vorschrifteii in
Probi App. vacua non vaqua, u. s. w. Man vgL kieriiber jetzfc E. Seelmann, Die
Ausspracke des Latein nach physioL-kistor. Grrundsatzen (Heilbronn, 1885) S. 231 ff.
Was nun die Weiterentwickelung eines solchen aus Hiat-w entstandenen w beim
Znsammenstoss mit andern Consonanten im Franzòsischen anbetrifft , so beobachtet
man hier die auf den ersten Blick uberraschende Tliatsacke, dass in einigen sonst
ganz gleichgearteten Fàllen eine trotzdem verschiedene Bekandelung des w sich
eingestellt hat. So ergibt die Grappe itgjuWa -r- w in einigen Wortern LigMtVZa-j- y,
wahrend in andern Wortern mit denselben etymologischen Voranssetzungen das io
ganzlich schwindet: man vergleiche z. B. Jaimarius : ^Jemoarius '.jenYter, aiinualis :
*anwalis:aTi^el^ etc. roìt voluisti:*volwistì:vo'LÌs ^ teimisti : *tenwisti: teixis. Die Wahi'neh-
mnng dieser zwiefachen Behandekmgsweise veranlasste mich schon vor langer Zeifc
einmal alle FaUe von inkxutendem consonantiscken u (tv) naker zu untersuchen: die
Gesetze, welche sick als Resultai dieser Untersuchung ergaben, habe ich in Kurze
bereits Zs. fùr rom. Phik Vili S. 371 Anm. und S. 406 Anm. mitgetheilt. És sei
mir gestattet, das dort in anderm Zusammenhange nur kurz augedeutete hier an
dieser Stelle etwas welter atiszufiihren und zugleich in einem Punkte zu bericktigen.
Es ergeben sich folgende Lautregeln.
I. Kurze Muta (b p v g g d t)' -ì- io: in diesen Gruppen geht die Muta stets in
Assimilation an das folgende consonantische u (w) unter; es entsteht jeweils aus Muta
-f- w zunachst wic, das alsdanu . wie jeglicke lateiniscke Consonanten-Gemination
' Da andere Zeiclien in der Druckerei uiclit vorbanden siud, bezetchne icb mit w consonautisches f. , mit j
consonautisches i.
- Thurneysen, das Verbum Hrc und die franzosische Conjugation (HaUe 1SS2) S. U sin-icht mit Unreoht
nur von b p e d g.
— 168 —
franzòsisch friihzeitig zu einfacher Consouanz ubergiug, zu io reduziert wurde. Ùber
die weitern Schicksale dieses aus Muta -f- te entsfcandenen w ist von mir Zs. f. rom.
Pliii. Vili, S. 371 f. S. 386 f. u. sonst ziemlich eingeliend gehandelt: 1) InIìAUTend
INTEBVOKALISOH ist IO erhalten , sobald es voe bem Accent steht und der Vokal a oder
e vorausgeht (in der Schrift gewohnlich diirch deu Buchstaben w dargestellt), vgl.
imter den folgenden Beispielen als kierher geborend Falle wie aìois, sawis, plawis,
deiois., etc; geht dagegen der Vokal u voraus, so ist tv gefallen, vgl. niuis, nuis,
comds (S. Zs. VTII, S. 378); nber pois =2^oticisfi s, u. I, 7, Anm. 2) Nach dem Ac-
cent dagegen liat ?i' in derselben Stellung (inlantend intervokalisch) uv beziehungs-
weise V ergeben, vgl. vidwa : *veivwa : véuve, véve und das welter unten hiezu be-
merkte. 3) Inlautend voe. folqendem Consonanten wurde w zu vokaUschem u, das
mit vorausgekenden a o und i zum Dipktkong versckmilzt, dagegen bei vorlier-
gekendem ìi in Assimilation an dieses fàllt, vgl. unten die Perfect-Formen mit, saut
jdaut, liout {xìbev pot porent s. Zs. Vili, 374) diut etc, atirent, saurent, plaurent, j)ou-
1-ent, diurent, etc; dagegen mwi, mit, conut, plut, murent, nurent, conurent. 4) In
den Auslaot geteeten wandelte sich tv ebenfalls zu vokaHsckem «t, auf einem Wege,
den ich vor alien a. a. 0. S. 386 naker bescluieben habe; dies u verschmilzt mit vo-
rausgekendem a o e i wieder zum Dipktkong, fiillt aber bei vorausgekendem ti; vgl.
von den unten stekenden Beispielen die Perfectformen aii, sau, plau, j)ou, diu, etc,
dagegen mu, nn,'conu, jj^u. Beispiele, welcke das kier fiir die Entwickelung der
Grruppe: Kurze Muta -f- «« aufgestellte Gesetz bestiitigen, liefert besonders zaklrei-
cke und instructive die Klasse der' starken ?tt-Perfecta; vgl. fiir die in Betrackt
kommenden Einzelkeiten , auf die lek an diesar Stelle nickt wieder eingekn kann ,
Suchier's bekannte trefflicke Abkandlung Zs. f. rom. Pkil. Il S. 255 ff. sowie Neu-
maun , ebenda Vili S. 369 ff. Uber die sonstigen kier folgenden und fiir unser Gesetz
beweisenden Beispiele findet man das Nakere von mir Zs. Vili S. 381 ff. ausgefiikrt.
lek lasse jetzt die Belege fiir die aufgestellte Lautregel folgen, deren Allgemeingiil-
tigkeit sick dabei kerausstellen wird.
1) b~i-iv:io. Vgl. ]iabwi:*awwi:"aw[i]: nordosiir. aii; ' hahwisti:*awwisti:'^awisti :
nordostfr. airis; ebenso entstanden aut, awimes, atvistes, aurent, aioisse, età. aus habioit,
*habiciìnus, hahwistis, ^lidbicerunt , liabioissem, etc; vgl. ferner *bibwi, %ibwisti, etc. zu
*biw[i\, *bkvisti, etc. : biii, bewis, etc; dehioi, debwìsti, etc. : *deio[i], ^dewisti, etc. :
diu, dewis, etc; desgleicken *se&M-^°''- : ^sebio- : *seio- : seu (s. Zs. Vili, S. 399).'
2) p -^w.w. Vgl. sapwi , sapwtsti, etc. : *s«(«[t] , ^saivisti, etc. : sau, snwis, etc;
^recipwi, '*re,dpu-isti, etc : *reci('.-[*] , *reciwlsfi, otc. ■.reciu, receu'ls, etc; desgleicken
' Ich teschriinie mieli, xim niclit ziiviel Eaum in Ansprnoh eu nehmen, bei don Formen von iu-Perfeoten
auf Angabo ilei- nordostfranzbsiscben Gestaltunp;. Wie aus einem *aioi etc. sich die gemeinfranz. Form ot etc.
entwickelte, ist von mir a. a. O. eingobend dargolegt wordon.
■■ Die nahere Begrilndung der oben dos bosohriinkten Eaumes wegen n\ar kurz angedeutetcn Entwicke-
lungsreiho, der gemass wir in seu (wie in einor Eeiho von weitern Fiillen) ■^erallgomeinerung einer in der spezieUen
Stellung vor folgcndem vokal. Anlaut eingetretonen und duroh diese Stellung bedingten Gestaltung zu erblicken
haben, ist von mir a. a. 0. Zs. Vili; Heft 2 und 3, besonders S. 381 ff. gegebon.
— 1(19 —
*ca^jM-™^'- : *capw- : *caw : *cau , woraus danu iu der Zs. Vili , S. 399 beschriebenen
Weise kieu, keu bervorgiug.
3) 0 -h IO : w. Vgl. ^pavioi, ^j^avwisft, ete. : *j>)aw[('J , ''■^jnwUti, etc. : jjrtft, pawis, etc;
*crevwi, *crevioisti, etc. :*cr'ei«[ij, ^crewisti, etc. : cj-im, creiois, etc; *movwi, *'movivisti, etc:
*»iOR'[i| , ^rmwisti , etc : mw , »mws, etc. ; *cognovxoi , ^cognovwisti , etc. : "*co»ìOM'[t] ,
*conowist{, etc. : conw, conuis, etc; '^jilovioit : *pZo«6'[i]< :pZ«f. Desgleiclien die Adjectiven-
dung -um-^-"'^- : '^-imu- : *-iw : -iu (s. Zs. Vili, S. 397 f.); *blavu-^o^- : %lavio- : *blmo
: biau, blou (s. ebenda) ; clavu-^°^- : '^eluvio- : *claw : clau, clou (s. ébenda); das Suffix
-avu-"''°^- (z. B. Pictavum, etc.) : '*-avio- : *-aw : ou {Peitou, etc, s. a. a. 0. S. 398).
4) ^ _f_ w : IO. Vgl. *legwi, ^legwisti, etc : *lew[i], Heioisti : Un, lewis, etc. Desgleiclien
traugu-^°^- : Hraugw- : Hrqio : trou (s. Zs. Vili, S. 388); fagu-^"^- : *fagw- : *faw : fau ,
fon, etc (s. Zs. Vili, S. 390); '^sclagu-^"^- : *esclagio- : *esdaw : cgclau-, csdo (s. ebenda);
g^Qvok. . «g^,y . *g,,y . gjj ^g_ ebenda , S. 392).
5) c-+-w:w. Y ^. placwi , placwisti ^ etc. :*j)law[i\^*i]lawisti^ eie : pimi , plaiois , eie;
tacici, tacwisti, etc. : *<a(('[*] , *taivisti, etc. : tot, taiois, etc; "jecwi, *jacioisti, etc. : *jew[i] ,
*jewisti, etc. :jiu.,jewis, etc; liciuit : *fò«[i]< : liut; nocioi, nocwisti, etc. : *notoi, ^nmoisti, etc.
■.mi, nuis. Desgleichen focu-'^°^-, locu-^°^-, jocu-^°^-, cocu-^°^- : *fociu, *loctv, *jocw,
*cocio : */'o(o, How, *joio, *cow :fou, lou,jou, cou (a. Zs. Vili, S. 386 &)\ paucu-^°^- ,
baucu-^"^- : *pauao , *bauciv : *pauw, *hauw : pou, bou, etc. (s. ebenda S. 388 flp.) ;
graecu-"^"^- , caecu-''°^- : *graecw, *caecio : * greto , *cew : greu, ceu, etc. (s. ebenda S. 394).
In der Entwickeliingsgeschicbte der Gruppen g -{- io tind c-+- w ist noch ganz
besonders der Umstand zu beachten, dass die Gutturalis in dem Assimilationspro-
cess vòLLiG iintergebi, walirend in der allerdings keineswegs gleich gearteteu, aber
dodi verwandten Gruppe cv (qu) von der Gutturalis eine Spur in einem parasitischen
i zuriickbleibt : vgl. z. B. aiwe aus aqua, sivve (= *siei«re) aus *sequere, ive aus equa
u. s. w. Der vollstandige Untergang von e und g in den Gruppen cto und gw batte
wohl seinen Grund in dem Umstande, dass w seiner eigenen Articulation geniàss
eine grossere Assimilirungskraft besass als das in seiner Articulation von w unter-
schiedene v von qu.
6) cZ -f- ?y : io. Vgl. ^credici, *credwisti, etc. : *c»'e?«[i], ^creivisti, etc. : criu, creiois, etc.
Desgleichen vado^°^- : *vadio : *vaw : *vau : vo[is] (S. Zs. Vili, S. 395). Hierber gekò-
ren aucb die frz. Reflexe von lat. viduns, vidua. Vidua wurde durch vidwa, vedwa,
veiowe, vewe bindurcb zu altfr. ve^oe, veuve (dialectisch auch veve cf. Pbil. Mousket
2760). Nach dem Accent ergibt w (bezw. wio) hier uv, dessen u mit dem be-
tonten Stammvokal verschmilzt, ' wàhrend vor dem Accent, wie wir salieu, io als
solcbes (ir) beharrte {awis, etc). Gegen diesen Wandel von w nach dem Accent zu
uv spricht durchaus nicht das io der bekannten pikardischen Femininformen von lat.
Adjektiven omì ivus : ententiwe, hastiwe , tardiwe, etc. (S. ìiber dieselben das Nàhere
bei Suchier, Zs. II, S. 298 und meine Ausfuhruugeu ebenda Vili, 397). Dies w ist
' Vgl. damit den gmfr. Wandel von *aifi (walii'scheinlich dnrch Gin a"wi hindurch) : ^'Oivi : ol, *claiv {:*cla"ic)
^cìow.clou etc, worùber ich Zs. Vili, s. 371 u. sonst geljandelt liabe.
— 170 —
ganz anderer Provenienz als das tcv von veuve und zndem, wie ich glaube, auch
welter niclits, als eiu Zeicheii f'iir uv. Lat. Inteiitioa, tardiva, hastiva ergaben zvinàclist
franz. eìdentìve, tardive, hastive; aiif diese Formen wurde alsdann das iio der Mascu-
linformen ententiu, tardiri,, hastiu, dereu. Entstehungsgeschichte von mir a. a. 0.
dargelegt ist, aualogisch llbertragen , und so entstanden die Formen ententiuve
(geschrieben ententiwe), tarditcve (g. tardiwe), hastiuve (g. hastitoé) n. s. w. Das d der
z. B. in den Quatre Livres des Kois (ed. Le Roux de Lincy) S. 197, Zeile 11, Ges.
Wilhelms des Eroberers 9, Thom. le mart. 120 stehenden Form vedve darf wolil
als bloss etymologisierende Schreibung angesehen werden, an der ersten der ange-
fiìhrten SteUen besonders noch durch ein in der lat. Vorlage steliendes vidtdtate ver-
aulasst. Solite dagegen das d wirklich gesproclien worden sein, was positiv zu
entsckeiden nns die Hilfsmittel fehleu , so kann vedve im Hiublick anf die sonst in
Erbwòrtern beobachtete Eeduction von Muta {d)-i-w : io nicht Erbwort sein, sondern
muss als fremdwortliclie Gestaltung von lat. vidua betracbtet werden. Vgl. dazu die
atich in andern romanischen Spracben eigenartige Beliandlung grade dieses Wortes:
prov. vezoa, ital. vedova u. s. w. Unregelmàssig und daher einer Erklaruug bediirftig
ist aneli die Form des Masculinums mit/; ^'Ci(/(bezw. vef) = vidmmi. Wie z. B. po<!«
AvLvah polivi *poioi , *])ow\i] hindurcli zupow wird (s. Zs. Vili, s. 379), so solite viduum
durch vidwum, *vedwum, *veivum, *veto[mn] (um fiillt unter derWirkung der Auslauts-
gesetze) zn '"veu sicli gestalten, viduus anf demselben Wege zu veus. Das/ von veuf
beruht auf analogischer Neubildung: wie man zu rive etc. ein masculines vif batte,
so schuf man zu veuve ein veuf. — Dass vuit , vuide, vuidier nicht hierher gehoren und
mit viduum, vidua, viduare nichts gemein haben, bedarf wohl hier nicht der Eròrte-
rung (vgl. Thomsen, Rom. , IV, 257).
7) t-}-w.io. Vgl. potivi, potwisti, etc: *pow\i], '''powisti, etc: pou, pois,^ etc;
*stetwi, *stetwisti, etc : *sfeM'[«J, *stewisti, etc. : estiu, estewis, etc
' Diese Form pois (ebenso natiu-licli po'imcs pdisUs, ferner dei" Conj. 2>oisse etc.) bietet nocla eine bislier un-
geloste Schwierigkeit. Erwarten soUte man als altere lautgesetzliche Entwickelnngsform ein *pou'ìS etc. (—crciris,
estetcia, awis etc.) Suchier ist entscbiedon im Uni'echt, wenn er als die altre Form, aus welcber jjoì's entstanden
sei, eiu ^jyodis ansetzt: so gut (nacli Svichier) xyotwl sein t verliert in don woitern Entwickelungstiifen
^pow[i\ ipouj musste auch in potwtsti etc. t untergehen nnd '-^powisii '^^powis entstebn. Was die einzige belegte
Form mit d {pollisi des Jonasfragmentes) anlangt, auf die S. sìoli stiitzt, so mochte ich dodi Freund, iiber die
Verhalfle.\ion der iilteston franz. Sprachdeukmiiler, Reclifc geben, der diese Form S. 22 mit dem aus den Strass-
burger Eidcn hor bckannten Infinitiv podir in Vcrbinduug bi'ingt, womit aber durcbaus nicht gesagt sein soli,
dass dio naohhcrigon Formen pois cto. poissc otc. obonfalls zum Inlinitiv poir gehoren: dies goht nicht an aus
Qrunden, welche Suchier a. a. O. S. 270 Aum. 3 (Sohluss) angibt. Oder aber: podist des Jouasfragm. kann sogar
als jilngere Gestaltung aus Xìoist hervorgogangen sein , indem auf letzteres von Formon mit damals noch erhalte-
ncm d (() wie poduns podra etc. d analogisch iibertragen wurde. Wie cntsteht nun aus altem *poivis etc.
*i)0ì«i«se etc. jiingeres iJOis età., po'isse i^tc, mit andern Worton, wie erldart sich hier der Schwund von w?
Das ist mciner Moinung nach die Frage, wcloho zur Bcantwortung steht. Ich glaube, dass w hier gefallen ist
"wegen des vorausgehondcn o, ganz "wio in mn'is, iiu'is, coinìis (s. o.) w wogeu des vorangehcnden u iìol, wahrend
w nach a e von Bòstand war (awis, dcwis cto.) Diesor Auflassung steht nicht entgogen, dass in poti poni ponrent
{die Formen pot i>orent siud Zs. Vili, 374 besprochen) das w als u im Gegensatz zu i)oì> otc. ekbalten erscheint ,
wiihrond io in den ontsproohendcn Formen imi miUmiirent, nu nul nunnt, conu comit conunnt, phd glcichfalls
und nEBEREiNSTiMMEND mit «iKi» kkìs cOBMi's GEFALt.E.-j ist: in poii poiit pourcnt ist w als u geblieben, weil das letztre
hier cine der franzos. Spraohe geliiufige Dipbthougvorbiudung (oh) cingolm konnto, wahrend das ungowohnliehe
iiu von *mau *nUu etc. (s. Zs. Vili, S. 378) nicht als Diphthong von Bostaud war, sondern zum Monophthong ver-
— 171 —
Das Proveuzalische stimmi — was Iiier uebenbei bemerkt sein mòge — mit cler
durck die vorstelieuden Thatsaclien fiir das Frauzòsische erwieseuen Behandlung vou
Muta + IO bis aiif eineu Fall uberein. Vgl. fili' h -+■ w Perfectformen wie oc aguist, '
bec begidst, dee deguist, fiiv v -+-w ])ac ]](iguist, crec creguist, moc mogidst, conoc cono-
guiiit, fiir e -f- lu plac plaguist,' jac jaguist, noe noguist, lec, desgleichen *facó^°^- : *facw :
*J'aw : fau (Zs. Vili , S. 391) , anncu-"'°^- : *amicw- : ^arniw : amm (ebenda S. 394) , fiir
(j 4- w fagu-''°^- : *fagiu : *faw : fau (s. o.), ebenso esclaio (s. o.), fiir d-h w sec, vado'"'^- :
*vadw : *vaw : vau (s. o.), ebenso gradu-"'°^- : grau^ nidu-""^- : niu (Zs. Vili, S. 396),
fiir t -(- IO poc^ 2)ognist, etc. — Eine noch nicht erkliirte Ausnalimestellung nimmt im
Provenzalischen die Gruppe p> + w ein : wàhrend im Franzosischen sich aus ^j + w
ebeufalls wie in den andern Filllen mit Untergang der lab. Tennis w entwickelt,
widersteht im Provenzalischen das p der Assimilatiou an iv , dergesfcalt, dass sapm
ein saup, saptcisti ein saubist u. s. w. ergibt.
II. Lange Consonanz (Muta + Muta, Liquida + Muta, Muta + Liquida etc.) +w.
In diesen Gruppen widersteht die Muta vor w der Assimilation und das w geht
unter. Vgl. batlwo, *bdttwere, ^ battwalia : bat^ battre, bataille; quattwor : quatre; conswo,
*cónswere : coms, cousdre; sangiois : sane; lingiva : leng(ti)e, exstingivere, etc. : esteindre;
ungiuere, etc. : oiadre; febrwarius -.febrarius (App. des Probus) ■.fevrier; vgl. auch mortus
fiir mortwus schon bei Cicero u. s. w.
IIL Liquida + w. Hier sind zwei Falle zu unterscheiden :
1) Wenn Iw und nw (diese zwei kommen nur in Betracht) in franzosischer
Lautentwickelung mit einem folgeuden deitten Consonanten zusammenstossen , so
schwindet in dieser dreifachen Consouanz der mittlere, das w;'* so werden Iwt mot
schmolz. Vgl. als eìne dem Schwund von iutervokalem w nach ;/. , o verwandte Ersclieìnuug den Ausfall von iu-
tervokalem v (6 pf) vor and uach labiaben Vokalen : Inette, oeille, paon, paor u. s. w. S. Thvirueysen a. a. O. S. 30 f.
Zs. VUI, S. 382 f.
' ìiahwisti: ^awisti: agulst mit Wandel des io : gii, ebenso placioiaii : *pìawìsti : plaguìst, pottvisti : *pQwisti:
poguisl u. s. w. S. Zs. Vili, S. 372 Anmerk. aacb Sucbier Zs. II S. 268.
' Dass e, gii hier niolit Eeflexe d6.s stammhaften e sind, bedarf wohl kaum der Erwabmuig: s. Z.s. VIII,
S. 372 Amn. und S. 391 f.
\ ' Oeber dio Aoeeutversotznng s. Zs. VIII, S. 408 Aum.; iiber battre, cousdre vgl. auch Grober im Archiv f. lat.
Lexikographie I, 249 und 553.
' Auch sonst beobachtet mandieRegel, dass in dreifacher Consonanzder mittlere Bestandtheil fallt, wenn
derselbe eine Laiiialis und der erste Consonant keine Muta ist. Mit der Kediiction von lim' : Ir (Idr) lasst sich direct
vergleichen dar Wandel von lor : Ir ^Idr) : z. B. solvere : solre (pik. saure), soldre; pulv'rem : polve, poldre; vgl. fer-
ner die; Uebergange Ibn zu ht : galb'nus znjalne, Jaunisse; Ips zìi Is : colps zu cols; mps zu ms : tcmps zu tems,
camps zu cams, redempsi zu raems etc; mpt zu ìit : comp[u]tiis zu conte; mbs zu vis : amb's zu ams; mbt zu nd :
bomb[i]tare zu bandir, amb\i]tus + anus zu and-ain (vielleicht auch in afr. oude = amb{i]tiis vgl. Zs. f. rom. Phil. II,
S. 313 ; dagegen Rom. VII S. 630) ; rvc zu rg : verv\e]caTius zu bergier; rvs zu ra : serv's zu sers, cerv's zu cers; rfc, zu
r<ì:forf\i\cem zu. force; rps zu rsicorp's zu cors; [rbl zu ri; parabolare z\i parler ;] rmt zu ri : dorm[i\toriuìn zu dortoir,
firm[i]tatem zu ferie frete Eich. 1. b. 1042, 1062, (fermete und fermte sind Premdworter), coiìfirm\e.]t zu conferì; rms
zu rs : infirm's zu enfers, verm[i]s zu vers (s. Suohier, norm. Reimpredigt S. XXXVIII); spc zu se : susp[i]care zu
soschier (cf. suscherent = suspioati sunt Q. Livi-es des Kois, ed. Le Eoux de Lincy S. 338, Z. 18; sospicier ist Fremd-
wort, ebenso wohl sospe<;on, wenn man nicht vorzieht, dasselbe mit Horning Zs. VI, S. 435 t. = suspectionem zu
setzen); apt zu 3t : hospli]talem zu Jiostol; spd zu sd : hisp[iìdus zu hisde, hisp[ildosus zu liisdos; spi zu si : mesp[ì]li(m
zu ìnesle (O. de Serres 656 : XVI. Jh. ; neu-norm. mele , pik. mesle merle, bcrr. mèle ; mesjile, meple, mespe sind Fremd-
worter); sbt zu st : presb[y]ter zu prestre; sfm zu sm : blasfie]mare zu blasmer.~In der eineu Gruppe rmu liei der
dritte Consonant n : terìn[i]niim zu afr. terme {termine ist fremdwortlich). — Erhalten ersoheint interoonsonantische
— 172 —
Iwr nwr zu It ni Ir (bzw. Idr) w (bzw. ndr) : volw[i]t : volt, tenw[i]t: tint, "venw[i]t:viiit,
*vólw[e]ruiit : volreut voldrent, *téiiw[e]runt : tinrent tindrent, *vénw[e\runt : vinrent vindrent.
Ebenso werden Iwj und nwj zu Ij (weiterHn l l) und nj (weiterhin n n). Beispiele :
*volwj *tenwj *vemoj (z^ volwi^°^- tenwi''°^- *venwl''°'^-) ' : *voIj *tenj *venj : voti Un vin,
deren l und n dann nach Analogìe von volt tint vint (s. o.) zu l n ùbergehn: voil
tin vin.
2) Wenn auf inlaut. ho mo ein Vokal folgt, so bleibt w als v erhalten. Beispie-
le: tenuem : tenwem : tenve; januarius : jemoarius : genvier; annualis : amoalis : anvel.
Danach soUten wir aus Genua nicht das bekannte fr. Gènes sondern ein Genve entwic-
kelt erwarten. AUein dieser Ausnahmefall dilrfte kaum im Stande sein die Allgemein-
giiltigkeit der obigen Lautregel in Frage zu sfcellen: Eigennamen participiren, wie
zahllose Beispiele beweisen, nicht immer an deujenigen Lautgesetzen , nach denen
sich sonst die lautliolien Wandlungen des volksthumlichen Wortscliatzes regeln , und
unterliegen oft der Wirkung von ansserhalb der Laufcgesetze stehenden und z.
Th. nicht mehr erkennbaren Faktoren (Volksetymologie u. dgl.) , zumai wenn es sich
lina Namen aus einei' fremden Sprache handelt. Fur den vorliegenden Fall beachte
man wohl, dass im Dialekte der Genuesen der Name ihrer Stadt ZeNa lautet.
Gewichtigere Bedenken kòunten jedoch gegen unser Gesetz von Seiten gewisser
franz. Verbalformen erstehn. Nach der aufgestellten Lautregel sollteu aus einem
lat. tenwisti *vemuisti volwisti natiirlicherweise als altfranz. lautgesetzliche Formen
*teniois *venwis *voliois und weiterhin *tenvis, *venvis, *volv{s (ebenso *tenvimes,
*tenvistes, *tenvisse, etc, *venvimes , *venvistes, *venvisse, etc, *volvimes, *volvistes,
Labialìs nxix wenn sie uingeben ist von r~r {vgl. arbre marbré purpre etc), oder s-r {vcsjrre), oder ?»-?* (vgl. rompre
pampre), oder ii-Jt w-' (vgl. embler^^ involare, ambler^= ambulare, nomhles simple). Man beachte, dass, wie zwischen
m-r und m-l die Labialis sich erhiilt, ebenso andrerseits die Gruppen vir mi fr. ein b als UeborgangslaiTt annehmen
nnd zu mbr, mbl werden (mit Ausnahme bekanntlicb des pik. Dialektes): vgl. nombre, cocotnbre, membrer, chambre,
raembre etc. (in giendre =■ gcm[e]re, priendre=::prcm\e\re, crnindre = trem[e]re ist nicht etwa mr ausnahmsweise zu
7j(Zr geworden , sondern es ging das -m- des Infinitivs nach Analogie von Voriaen-wìe gieiis giait, prieìis prient,
crìens crìent, in denen m sich an das dent. s, t assimilìrte undjautgesetzlicli zu n wurde, ebenfalls zu n iiber, und
in der so entstandenen Gruppe n-r stellt sich naturgemiiss d als Uebergangslaut ein; so stellt sich neben gkKT,
prienT, crieNT ein ///cndre, ^jr/eNOKE, creìsDRE, wie man zu prewv ein prcNoRE, plaiUT ein iJiaiNORE etc. batte) , ferner
sembler, combler, humble, trembler etc.
' S. Zs. Vili, S. 2S9. Wie fiir tin vin wegen des Uinlauts von stammliaftem e zu i von einem *(fi??.[!«];'«ok. *t)enr«iy«nk.
auszugehn ist, so muss erst recht voil wegen seines parasitischen i vor l als Verallgemeinerung der Entwickelung
von «otojvok- angesehn werden. Nui' das sich in dieser Stellung einstellende *voliiiì, *volJ (Hiat-i : j) mit der Gruppe
Ij kann parasitisches i vor l entwiekeln, wahrcnd sich aus einem v -Zw^ons. mit stets vokalischem und dann unter
der Wirkung dea Auslautsgesetz abfallenden ausi, i nie cine Gestaltung mit parasitischem i vor l ergeben konnte.
— Aehnlich ist — was hier zu Zs. Vili S. 26:i ff. uachgetragcn sein niag — das mouillirte l [III) in prov. jì«/A noben ttul,
belìi neben bel etc. zu orkliiren. Auszugehn ist von dor Form des Noni. Plur. nulli, belli. Die beiden mussten bei vo-
kalischem Anlant dea folgenden Wortea zu nnHj'^"'^ beHj'"^ werden, woraus dann ganz regelrecht mit dem
bekannten Uebergang von Ij :1 (Ih) nulli, nnd belìi entstanden, wiihrend nulli '''""■ belli <-'»"=•, da in dieser Stellung
ausi, i stets vokalisch blieb und dann fiel, ein nul bel entwiekeln. Von jenen nulìi und belìi aus wurde Ih dann aiich
auf andere Forraen derselbon Worter (z. B. Ca». obi. Sgl. nulli belli neben dem laxitgesetzlich nur moglichon nul
bel) analogisch ttbertragen, gleiohwio nach Analogie von ilìi cilìi (= illi 'ok ) auch andorc Formen dieses Prono-
mens (z. B. Gas. .obi. Sgl. celli) das III annahmen (S. a. a. O. S. '264). Die Annahme, wonach in Formen wie belìi nulli II
im Gogensatz zu der sonst bolegten Lautregel statt zu l ausnahmsweise auch einmal zu III entwickelt sei, steht,
solange man aicb nicht hemùht die Griinde dieser Doppolgestaltunp; kines und dessolben Lautes klarzulcgen,
mit den Principien der Spraohgesohiohte im Widerspruch.
— 173 —
*volvisse, etc.) entstandeu sein. Diese Formen sind jfidoeli, wie bekannt, niclit
belegt, sondern wir treffen dafiir von Anfang an nur t.e>m, venis , volis, u. s. w. rnit
Scliwund des consonantischen u{w). Allein wenn auf der einen Seite bloss Formen
von Verben stehn , welche oft imd leicht allerlei Systemzwang und Aualogiewirkung
unterworfen sind, auf dee andern Seite dagegen Wòrter wie tenve, etc, die
ziemlich isoliert im Worfcschatz dastehn und daher keiuerlei Systemzwang ausge-
setzt sind, so kann man stets sicher gehn, dass die isolierten Worter das
regelmasslge, gesetzmassige repriisentieren und im vorliegeuden Falle das Gesetz
des Wandels von Iw, nw : lo, nv garantieleisten, dergestalfc, dass jene Falle tenis ,
venis, volis nicht lautgesetzlich sein konnen, sondern ilire Erklàrung ausserhalb
des Gesetzes finden milssen. Wir haben es in der That in diesem Schwund des
w(y) mit einem analogischen Vorgang zu thun: nach dem Muster von voil, volt,
voldrent ; tin , tint , tindrent ; vin, vint, vindrent, in denen das w der Grtippen ho, nw,
wie wir unter ITE, 1 sahn, lautgesetzlich fiel, ist auch in den Formen *temvis,
*vemv{s, *volwis, etc, friih Iw (Iv), nw (nv) zu l, n reduziert worden, so dass tenis ,
venis,' volis, entstehn. Durch. die Annahme, dass nur in voil, volt, tin, tint, vin,
vini, etc LAUTGESETZLiCHEE ScHWTJNB des mittleren Consonanten tv einer Dreiconsonanz,
in tenis, venis, volis aber analogischer Schwund vorligt, stehe ich in Gregensatz zu
Suchier's. Zs. II, s. 270, Anm. 1 ausgesprochener Ansicht, wonach Iw, nw durch Assi-
milation zu II l, nn n geworden sein kònnte: ich glaube, dass Suchier fùr tenis,
venis, volis die richtigere Erklàrung oben auf derselben Seite 270 getroifen batte. —
Wenn aber auch alti, von Anfang an in den Literaturdenkmàlern nur tenis, venis,
volis, etc. angetroffen werden, so haben wir doch (wie ich schon Zs. Vili, 406 Anm.
angedeutet habe) sichere Anzeichen dafiir, dass jene lautgesetzlich en Formen *volvis,
"tenvis, *venvis, etc. einmal — wenn auch vielleicht nur kurze Zeit — in der leben-
digen franzòs. Sprache existiert haben miissen. Die von Suchier a. a. 0. S. 263,
besprochenen dialektischen Formen tinvet, vinvet fur tint, vint, die man bislang ent-
weder garnicht erklarte oder doch nur in sehr gezwungener und den sonst erkann-
ten Lautgesetzen widersprechender Weise zu deuten vermochte, finden, wie ich
glaube, ihre ungezwungene Erklàrung in der Annahme, dass sie zur Zeit, als jene
*tenvis *venvis, etc. nodi existierten, durch Analogiewirkuug dieser Formen ihr nv
fiir n erhielten, wie umgekehrt nach dem oben eròrterten *tenvis *venvis, etc. nach
Analogie von tint vint etc. ihr v (w) verloren und zu tenis venis wurden. Vgl. fiir diesen
in zwiefacher und dazu grade entgegengesetzer Richtung eingetretenen analogischen
Ausgleich bei denselben Formen u. a. afr. pri-proions, wofiir einerseits pri-prions
mit analogischer Verallgemeinerung des Vokals der stammbetonten Formen , ander-
seits proi-proions mit analog. Verallgemeinerung des Vokals der endungsbetonten
Formen eintrat. (vgl. Behrens, Franz. Stud. Ili, 6 S. 35 ff.) Was endlich die
* Das frz. venis direct auf das lat. venisti zuruckzufiibreu. "widerriith. wie Suchier Zs. II, 270 richtig bemerkt,
das entsiirechende provenz. vcnguisl, woi-in das gu dem tv (von *ccuioisfi) eiitspricht.
— 174 —
Aunalime einer Analogiebildung nach iii;r erschlosseueu Formeu anlangt, so stelin
derselbeu keiuerlei Bedenken entgegen. Deiin wie die pik. Neubildung mi[e]ue in
bisher nie angezweifelter Weise die eiumalige Existeuz eiues afr. nicht belegten *mieus
bestàtigfc, so legen die Neubiklungen tlnvet vinvet von der friiheren Existenz der
nicht belegbaren, aber auf Grund sonsfc erkannter Lautgesetze erschliessbaren For-
men *tenvis *venvis, etc. ein, wie ich meine, gleich unwiderlegliclies Zeugniss ab.
Fritz Nedmann.
UN TESTO DRAMMATICO SPAGNUOLO DEL XY SECOLO
PUBBLICATO PER LA PRIMA VOLTA
I3.A. .A-LFOlSrSO lSj!LI01^ A..
Il testo che vien pubblicato qui appresso si trova nel primo dei due volumi cartacei in 8"
d' una raccolta manoscritta di poesie e prose, latine o italiane quasi tutte, appartenuta al
marchese De Sterlich, e venduta dai costui eredi nel 1871 alla Biblioteca Nazionale di
Napoli, dove ora si conserva. Questo volume, segnato XIII. CI. 42, contiene in primo luogo,
come si legge nell'indice di mano moderna, che gli sta innanzi:
Elegia Paridis Stratae.... in laudem Colantonii Calai-di.
Tragedia del Giudizio Universale di Colantonio Galardo. (1584)
Canzonetta Spagnuola in decima runa con sua prefazione, d' incerto autore.
Con quest'ultimo titolo sono indicate talune decime contenute in un quaderno di 8 carte,
scritto, come pare, alla fine del XV secolo. Esse son precedute da una lettera dedicatoria
senza sottoscrizione, che comincia:
« Muy alta y L.'"" ex." »
« Los que mcresgieron en las tales causas escrevir de qualro virtudes deuen ser guarne-
cidos.... »
Seguono le strofe, le quali sono in lode della Duchessa di Ferrara e delle sue damigelle:
la prima comincia :
« Soys duquena tan Real
en f erara tan querida
qu el bueno i el comunal
de todos en general
soys amada soys temida.... »
Dopo di esse ho rinvenuto l'anonimo testo che do alla luce, sfuggito al compilatore del-
l'indice, o da lui confuso col precedente.
Molti altri scritti vengono in seguito, e primi fra essi una
Egloga di Nicola Bonifacio.
Il Fedro, ovvero il Dialogo detto Carrafe.sco composto dal N.'' Ovidio Dava di Miner-
vino (1576), etc. etc.
La maggior parte son cose del XVI secolo, ed ajipartengono ad autori pugliesi, in par-
ticolare di Bitouto e di Minervino, o hanno alti-imente rapporto con quei luoghi. Ma la
— 176 —
coesistenza dei due manoscritti spagniioli e delle dette scritture nello stesso volume io la
credo puramente fortuita. Forse non rimonta più in là della fine del secolo XVIII, quando
questa miscellanea fu rilegata e furonvi aggiunti il frontespizio, l'indice e nuovi numeri
alle carte.
Il nostro testo è racchiuso in un quaderno di 10 carte, che portano i numeri 132-141
della nuova numerazione. Il carattere in cui è scritto mi pare della prima metà del XVI se-
colo: appartiene a quel genere che gli Spagnuoli chiamano bastardo o italico. '^ Manca, forse
per lo smarrimento di una o più carte, sì il titolo del componimento e il nome dell'autore,
che qualunque altra indicazione di età o di provenienza.
A me occorreva sapere, ritrovato che ebbi questo testo e vistane l'importanza, se fosse
edito o noto almeno, prima di accingermi a darlo fuori. Senza aver jiotuto rintracciare, per
quanto mi fossi dato da fare , ' notizia alcuna di esso , non tardai ad accorgermi che nel fondo
questo piccolo dramma aveva molto di comune col celebrato Diàlogo entre el Amai- y un Viejo,
composto da Rodi-igo Cota alla fine del XV secolo. Il quale dialogo, pubblicato la prima
volta nel Cancionero general di Hernando del Castillo ^ {impreso en Valencia por Cristohal
Hoffman, aiio de 1511) fu ristampato in Medina del Campo l'anno 1569 col titolo: Dialogo
hecho por el famoso autor Rodrigo de Cota, el Tio,'' nattiral de Toledo, el cuoi compuso la
ègloga de Mingo Revulgo, etc. Da quest'ultima indicazione, ora non più ritenuta per vera, ■
il Moratin , nelle sue Origenes del Teatro Espaiiol, " dice che si può inferire esser vissuto
Rodrigo Cota sotto i re Giovanni II ed Enrico IV, essendo l'Egloga cosi detta di Mingo
Revulgo una satira contro il re Enrico, fatta da un contemporaneo. Il De la Barrerà può
affermare con sicurezza ciò che suppone il Moratin; ma fondato sopra un fatto diverso e
certissimo, cioè l'essere stato il Cota contemporaneo del poeta Anton de Monterò, che visse
realmente a tempo di quei sovrani, e scrisse contro di lui taluni versi.
Il detto dialogo di Rodrigo Cota è stato ristampato pure altre volte, cioè insieme alle
Coplas di Jorge Manrique in varie antiche edizioni; " separatamente in una edizione senza
data né luogo di stampa, citata da B. J. Gallardo; ' ma che apparisce fatta da J. A. de Pa-
dilla al principio del XVIII secolo; ed in fine delle due edizioni della Celestina, (1822-1835)
per cura di Leon Amarita. * Io intanto non ho potuto aver presente che il testo mancante di
circa una terza parte, quale si legge nella collezione di drammi anteriori a Lope de Vega,
che aggiunse il Moratin alla citata sua opera. Quindi m' è impedito di fare un' esposizione
parallela dei due testi, cioè del Cota e del mio Anonimo, per stabilirne i rapporti. Non mi
credo però dispensato dal dirne alcuna cosa, e comincio per mettere innanzi la quistione:
quale è il più antico dei due componimenti? Parrebbe, a piuma vista, il Dialogo; poiché figu-
' Veggasi il saggio a, facsimile , olie ne do in fine.
' Fra le opere che in primo luogo ho consultate citerò il Cafalocfo hiblloijrnjico /j hioffrafico del teatro nntigito
espaTtol (lesile sus ori(jenea haata mediado del siglo XVIII por D. Cayetano Alberto de la Barrerà y Leirado. Madrid
(Rivadencyra) 1860, in-4.
" De la Barrerà, op. oit. pag. 106. Il suddetto Canzoniere si è ristampato ultimamente a cura de' Bibliójìlos
EspaTioles.
' È detto eltio, ossia il vecchio, il seniore, per distinguerlo forse da un suo parente più giovano che portò
lo stesso nome. Il De la Barrerà lo chiama Rodrigo Cola, de Uagnaque, e dice che fu di razza israelita.
' Biblioteca de Autores EspaTioles, edita dal Rivadeiieyra, Tom. II, pag. 179.
" De la Barrerà, 1. e.
' Ensayo de una Biblioteca EapaHola de libros raros y curiosos, Madrid (Bivadeneyra) 1856. Tom. II, col. 016.
' Do la Barrerà , 1. e.
— 177 —
rando in esso solamente due personaggi, dovrebbe così avvicinarsi di più al Contrasto, che
apparisce nelle nostre letterature come la forma primitiva donde poi è derivato il dramma.
Come in tutte le letterature neolatine, abbondano nella spagnuola i Dialoghi e i Contrasti,
di cui parecchi, scritti nel XV secolo, e che precedono quindi di poco l'apparizione del
dramma, son citati dall' Amador de los Rios nella sua Historia Critica de la Literatuva
Espaùola. ' In alcuni di essi vediamo aggiunti ai due primi interlocutori altri personaggi, e
ciò veramente accade anche in tempi anteriori a quello, in cui fu scritto il Diàlogo entre el
Amor y un Viejo; sicché 1' esserci nel nostro dramma un terzo personaggio non sarebbe ima
ragione sufficiente onde accordare la precedenza al Diàlogo.
Ci sono altre ragioni invece , le quali farebbero supporre che dall' anonimo dramma sia
piuttosto derivato il Diàlogo. Di fatti in esso, quantunque non manchi l'azione, e tutto ciò
che costituisce un vero dramma fatto per essere rappresentato ; ^ quel che maggiormente pre-
domina è il Contrasto, eontienda, come l'Amore chiama due volte il lungo ragionamento fra
lui e il Vecchio : il che manifesterebbe una più immediata attinenza con le antiche forme. Ma
d'altra parte qui il Contrasto non ha nulla dell'aridità primitiva. I personaggi, mentre qui-
stionano sottilmente, spiegano un carattere tutto proprio ed hanno una particolare fisonomia
che li distingue; e ciò è indizio di un'arte già abbastanza provetta, della quale è pur segno
un certo che di compiuto che si avverte in tutto: nell'orditura e nello svolgimento della
favola, nella squisita venustà dei concetti e delle frasi, nell'espressione dei sentimenti la più
vivace e naturale , senza che vi s' incontri pur una bassezza.
Queste doti, o altre simiglianti, hanno attribuite i critici anche a quei primi saggi del
genio drammatico spagnuolo, che aprirono la via al vero dramma; e fra tutti è specialmente
ammirato e lodato il Diàlogo di Rodrigo Cota. Il Moratin ' dice che quel dialogo è una vera
rappresentazione drammatica, con azione, intreccio e svolgimento. Il Ticknor aggiunge che
esso senza dubbio preparò la via al dramma, cominciato più tardi col genere pastorale; e
nota la somiglianza d' un' Egloga di Juan del Encina col detto dialogo. L' Amador de los
Rios afferma ° che basterebbero solo i due dialoghi di Mingo Revulgo e dell' Amore e un
Vecchio , per scovrirci entro l' impronta caratteristica dell' ingegno spagnuolo nella rappre-
sentazione viva degli affetti e dei costumi, che trovano nell'arte drammatica il loro centro.
Eppure, di fronte al nostro ignorato testo quanto non risulta inferiore il Diàlogo del
Cota! Le accennate qualità, per quanto mi è dato giudicarne dalla mutila edizione del Moratin ,
si fanno in esso intravedere senza esplicarsi pienamente. L'azione è più rapida, vi è meno
disputa; ma lo scioglimento arriva non preparato; i caratteri non sono abbastanza determi-
nati; tutto divien vago e scolorito in quel dialogo quando si ponga a confronto con questa
vera e perfetta poesia drammatica che ci sta innanzi.
Tornando ora alla quistione circa la priorità dell' un testo o dell' altro : si può dopo ciò
che ho detto, risolverla? A me è sembrato di vedere, e l'ho manifestato, ragioni a favore
' Tom. VII. Madrid, 1865, pag. 481.
' I seguenti luoghi, e qualche altro, fan presupporre necessariamente gli spettatori:
« .... corno aveys visto aqui todos »
« .... pues delante vuestros ojos. »
(V. a pag. 188, col. 1 , str. 2 e col. 2 , str. 2. — V. ancora a pag. 182, col. 2, str. 2 e 3.)
" Op. e 1. cit.
' Hiatoire de la littératiire espagnole , traduite par .J.-G. Magnabal , avec les notes et additions de P. De Gayangos
et H. De Vedia 1«' Periodo. Paris (Durand) 1864, a pag. 241.
' Op. e voi. cit. pag. 482.
— 178 —
di entrambi: ritengo, per altro, senza saperlo precisamente dimostrare, che debba essere
più antico, ma non di molto, il Dialogo. Non di molto, perchè se esso fu scritto verso il 1470,
anche il nostro Anonimo dovette scrivere j^rima del 1500.
Il nostro manoscritto, che è una copia, come ho detto innanzi-, della prima metà del
XVI secolo, fu tratto certamente da un più antico esemplare, di cui il copista si studia se-
guii'e la grafia, che non è più quella del suo tempo. Una volta comincia a scrivere hom....
e poi cancella quelle lettere , e scrive onhres per essere fedele al suo originale. '
Per parte mia ho anch' io fedelmente esemplato il manoscritto eh' ho avuto presente ;
tranne l'aver separate le parole fra loro imite e avvicinate le sillabe divise, introdotto la
punteggiatura e gli accenti, reso costante l'uso degli altri segni ortografici. Di più mi son
permesso di emendare taluni luoghi del testo, che ho trovato errati, ed in tal caso ho se-
gnato in nota la lezione del manoscritto. Il copista corregge pur egli qualcuno degli sbagli
che commette per distrazione o fretta; ma altre volte mi pare ch'egli cada in errore anche
per imperizia neU' intendere i caratteri che trascrive. ^
Alfonso Miola.
' Questa data, ohe vien fissata dalMoratin. non può essere che approssimativa.
- V. a pag. 121, col. 1, ultimo verso.
" Per essere sicuro, prima di darlo alle stampe, che questo testo fosse veramente inedito, ne diedi notizia
all' illustre prof. D. Marcolino Menendez y Pelayo , della cui amicizia assai m' onoro ; chiedendogli se nulla no sa-
pesse. La risposta, teste arrivatami, è una conferma, e la più autorevole che ci possa essere, del risultato negativo
delle mie ricerche. 77e nicorrido, mi scrive il Menendez , nuestros niitiijuos Caiicioneros y imestras antigiins piezas dra-
mdticas sin encontrar rostro ni vestigio de la comitosicion que Vd. ha desmbierto.... Mis amitjos tampoco conocen el dialo-
go, y esto aumenta la importancia del desciibrimienlo de Vd....
/Oi-
l^fi-
'Tr.v.rl.cu^u., S^-^ ^t <x»...-MuUrcppfU-p
oT^mci^
'fa
(o Q f^oT n^iias ora y<7<z5
'bttffis
qu<zi lo <Sx)ntde.i a^^(<:S
fo alio': //^lias cIcK^i
' ■ *' tJi 7110S tna(<i5
IO (V <i atiqarìas
ìtmn-vio
y <xmac(ò
ll}i<i.n Q ^'^^ ^^itXfJii.-moS
Z oìnan fajjiiQrc/c /ordii ci
h Q.J cTlatiQ-no. ìiteir /^:t<
<z^ ari nuacfo tkyiTiléla.
<zr Ipv jjQjiofo rtiyeracio
(/<ZfijO cO!fisf>Q7<ie{o
y QnU-izkrìtsL J/hito-jiKz^ci
^oìamas ffoj^ coi? /fan fa
'\}n -momcTì/o ao.TiArìofo
J/fl-ryoT czjfo /^ ftQriTtS.
aindrr Jq hi pkzti /^ c^tfix.
at/a al-frn 711 Uy 7)7ns fx'ofo
clahi^ jpToiTTc/èfS hi^^»A%
iUnos ci* TZ Iterai y crrrtHS
nryvciy
— 179 —
INTERLOCUTORES SENEX ET AMOR MULIERQUE PULCRA FORMA.
S. \0 muudo, dime quién eros,
qué es lo que puedes, qué vales,
con qué nos lleuas, dò quieres,
siendo el fin de tus plazeres
principio de nuestros males!
^Qué es el 99110 con que enganas
nuestra mudablo aficion?
que con engaùosas maùas,
al tiempo que tu te ensanas
dexas preso el coracon.
l Con qué nos buelues y tratas ,
abaxas y fauoreces ?
l Con qué nos sueltas y atas ?
(^ Con qué nos sanas y matas ,
nos alegras y eutristeces ?
^ Qué.es el secreto ascondido,
tras quien todos nos perdemos ?
^Quiei-es, ' mtindo entristecido,
que haga ser cono9Ìdo '
el bien que de ti atendemos?
Es Tua esperan9a vana,
do jamas falta querella;
que quien la pierde la gana ,
y él que la tiene mas sana
està en miedo de perdella:
es vn penoso cuydado,
vna rrauia lastimei'a,
Ms. queres.
■ Ms. concido.
desco desesperado
en los huesos sepultado
y en la frente escrito fuera.
Do jamas no se consiente
"VTi momento de reposo;
y si por caso se siente
quien de tti bien se contente,
queda al fin muy mas quexoso;
que lo que mas alcau9amos
de tus promesas liuianas,
es que quando nos guardamos
sin pensarlo nos hallamos
llenos de rrugas y canas.
Estos son tus benefi9Ìos,
tus mas crecidas mercedes,
con que pagas los seruicios
de los que a olor de tus VÌ9Ì0S
van a caer en tus rredes:
y despues que con tus galas
has preso los que eran sueltos ,
con ligero batir de alas
comò anguilla te resualas,
y ellos se quedan rebueltos.
Yo hablo comò quien sabe
todas tus faltas y sobras:
he visto lo que en ti cabe;
y si quieres que te alabe,
muda condÌ9Ìon y obras,
— 180
que del bien tan prosperado
de que me heziste contento,
tus mudancas me an dexado
solamente està cayado,
con que mi vejez susteuto.
A. ^Quiéu sta en casa? S. ^,Quiéu llama?
A. Abre. S. ^Qmén eres? A. Amor.
S. i Qué qiiieres ? A. A tu vida y fama.
S. Va con dios que ya tu llama
no me causa mas dolor.
^No sabes que ha muchos anos
que de ti me hallo lexo?
por que tus dulces engaùos
me han fecho no meno danos
que el mundo de quien me quexo.
A. Desplazeme tu porfia,
no consiento tal oluido;
que no cabe en cortesia
desazer la compania,
despues que es el pan comido.
Y pues eres bien criado
no sigas villanos modos :
abreme, y despues a entrado
quexa el mal que te e causado ,
que jusiiicia ay para todos.
S. Conozco tu condicion,
sonme claras tus cautelas,
sé que centra tu pasion
la justicia y la rrazon
muchas vezes calan velas:
no me engaiìa el sobreescrito ,
110 tu ciencia, no tu arte;
avnque, comò los de Egito,
halagas el apetito
por Imrtar por otra parte.
A. Sin rrazon vsas comigo,
tratasme corno adversai'io;
y sabes bien que yo contigo
siempre vsé cosas de amigo,
sieudo en mi mano el contrario.
'Ya tu llamaste a mi piierta
quando estimauas mi gloria :
fuéte sin tardar abierta;
bien lo sabes, si no es muerta
con los anos la memoria.
jNo seas desgradecido, '
pon a tu sana algun freno!
y si estàs endurecido ,
mira que de onbre sabido
es seguir cousejo ajeno.
S. Quiero querer lo que quieres ,
por que des fin a tus quexos;
mas despues que dentro fueres,
por que conozco quien eres ,
saludame desde lexos.
Que corno, tocando, Mida
conuertia ' en oro luego ,
asi tu mano enyendida
quanto toca en està \T.da
haze conbertir en fuego.
Pues si a mi no as de llegar,
entra si entrar te plaze,
y sey breue en el hablar,
por que el mucho dilatar
es cosa que me desplaze.
A. Saluete Dios, buen senor,
biuas de Aestor los aùos
sin saber que sea dolor.
Publiquese tu loor
entre los pueblos straùos:
los daùos de senetud
y su cansacio te huya:
tórnete la jouentud
con mas perfeta virtud,
que quando mas era tuya.
' Ms. desffradecio.
'- Ms conuertida.
181
S. Falsa cara de alacrau,
cierto daùo que atormenta ,
ya sé bien corno se dan
las zarazas eii el pau,
por que el gusto no las sienta.
Estas bendi ciones tantas
no las quiero ^,claro babloy
por que con ellas encantas,
corno quien con cosas santas
quiere inuocar al diablo.
No te cale roncearme,
que soy viejo aoncliillado:
que tvi querrias remocarme,
para tornar a mancarme,
el camino traes errado;
por que es ' la pasion tan fiera
que causas, que quiero mas
beuir en està manera,
que debaxo tu bandera
la mejor vida que das.
A. Pues que me diste licencia
para entrar donde te veo,
con algo mas de pacientia
te plaga prestarme audientia;
por que sepas mi deseo.
Soy venido a consolarte
por mostrarte mi afficion,
no con gana de enojarte,
ma por que senti quexarte
del mundo no sin rrazon.
Y agora, segun pare9e,
sin justa causa mouido
tu furor se ensoberue9e
centra quien no lo merece,
poniendo el mundo en oluido :
quiero estar contigo a cuenta
si te plazera escucharme.
' Ms. por que la....
S. Desde alla haz que te sienta,
que tu allento me escalieuta
tanto que temo abrusarme.
A. Soy contento , pues te plaze :
quiero en todo obedecerte;
pero, si no te desplaze,
dime ^qué causa te haze
vltrajarme de tal suerte?
S. ^ Quieres que claro lo diga ?
A. Dilo sin ningun recelo.
S. No me muestres enemiga
por ningun mal que te sigua,
mostrando tu desconsuelo.
A. Stando quedas las manos,
poco temo de la lengua.
S. jO carcel de los hiimanos,
ya muestras por dichos llanos
no stimar honrra ni mengua!
Tii te abaxas, tu te enxalcas,
tu te alteras y te mudas,
tu con presunciones altas
pieusas encobrir tus faltas,
y dexaslas mas desnudas.
Eres vn fuego ascondido,
que las entranas abrasa:
eres tan entremetido,
que, sin ser mas conocido,
te azes seiìor de casa :
eres sabroso venino,"
àmago dulce y suaue,
fiebre, frio de contino,
piloto que sin mas tino
Ueua do quiere la naiie.
Es tu pena tanto fuerte,
que qualquier otra se oliaida:
atormentas de tal suerte.
— 182
que, siendo qiiieai es la muerte,
la hazes tornar por vida:
es tu Reyno vna galea,
do biue tan tristemente
quien mas seruir te desea,
que no ay onbre que lo crea,
sino el triste que lo siente.
Alli son los coracones,
galeotes de por fuerca,
rreman con las afficiones,
liiereslos con las pasiones
por poco que el rremo tuerta:
lo que deseclian los ojos
es lo que la boca gusta ;
cuytas, mudancas, antojos,
sospiros, 9elos y enojos
son la xar9Ìa desta fusta.
No bablo corno enemigo,
no con cautelas y artes:
de todo quanto aqui digo
tu presencia es buen testigo:
si se notan bien tus partes,
siendo moco, pobre y 9Ìego
^ qué es lo que de ti se espera ?
El bolar es tu sosiego,
llamas son de biuo fuego
lo que està en tu liujauera.
De los tuyos mas de dos,
por colorar tu locura,
te pusieron nonbre dios;
mas lo cierto es que entre nos
eres mortai desuentura:
que si fuesses quien te llamas,
dexarias de ser quien eres:
la lena para tus llamas
no serian vidas ni famas,
de quien sigue tus plazeres.
Asi que es la conclusion
que dire, avnque te enojes,
que, pues mata tu pasion,
ó mtides la condicion,
ó del nonbre te despojes.
A. (_ Y tan presto as acabado?
S. No ay acabo en tu tormento.
A. i Pues ? S. Dexolo de causado.
A. jDespues qiie me as desonrrado,
te falta, viejo, el allento!
No pienses con tus furores
quitarme desta contienda:
mas lo que me da dolores,
que entre tantos amadores
no ay vn ' que me defienda,
no ay quien responda ^ A quien digo?
Todos abaxays las cejas:
solo Dios me sea testigo
que a quien fuere mas mi amigo
cerare mas las orejas.
Con lagrimas y gemidos
en vuestras necessidades
suplicays ser socorridos;
mas cierranse los oydos
para mis aduersidades.
S. ^Quién a de tornar por ti,
siendo tirano tan diiroV
A. lA. quién! Quantos estan aqui.
S. i Y en esos pones a mi V
A. El primero. S. Yo lo dudo.
A. No dudaràs" quando vieres
los bienes que en mi se encierrau.
S. \ Ha ha ha! A. Oye, si quieres,
y veràs que mis plazeres
vuestros pesares destieran.
«S'. Gata, que a mucho te obligas.
A. ^ Qué diràs, si lo ago cierto?
S. Que, por mucho que me digas,
' Ms. vno.
' Ms. duras.
183
son tus obras enemigas
de plazer y de concierto.
A. Aora escuclia, por que veas
comò biues engaùado.
S. (^ Engaùado ! No lo creas.
A. No me turbes, si deseas
ser dello certificado.
Comienca del alto polo
basta el pentro del iufierno,
y veràs comò yo solo
a Jovie, Pluto y Apolo
mando, gonierno y rebueluo.
Destos particnlarmente
es mi enemiga contarte:
bàstete que el mas potente
he fecho ser mas obediente,
mas por fuerca que por arte.
Las aues libres del cielo
a mi mando son sujetas:
los peces andan en celo,
y sienten debaxo el yelo
las Uamas de mis saetas.
A los animales torno
fieros, que con mi centella
de mansedumbre los orno:
es testigo el vnicornio,
qual se vmilla a la donzella.
Las plantas inanimadas
tanpoco se me defìenden:
con tal fuerca estàn liguadas,
que sino estàn aparejadas '
ay algunas " que no prenden.
De los onbres y muieres;
pues eres tu deste cuento,
si coufesarlo quisieres,
bien diràs que mis plazeres
' /Sic = apai'eacla6.
' Ms. alguna.
sigue quien a sentimiento:
y tanbien por esperiencia
deues tener conocido,
que si alguno à mi potencia
quiere azer resistencia
aquel queda mas vencido.
Los que estan en religion,
y los que nel miindo biuen
de qualquiera condicion,
con deseo y aficion
en mi esperan y a mi siruen;
asi que bien me conviene
este nonbre dios de amor;
pues si el mundo plazer tiene
yo lo causo y de mi ■viene,
y sin mi todo es dolor.
Si no, dime sin pasiones,
ya acabo : ' no te alborotés :
,; quién haze las inuintiones,
las musioas y canciones,
los donayres y los motes,
las demandas y respuestas,
y las sontuosas salas?
^ las personas bien dispuestas ,
las justas y rricas fiestas ,
las bordaduras y galas V
^_ Quién los suaues olores,
los perfum.es, los azeytes,
y quién los dulces sabores,
las agradables colores,
los deKcados afeytes ?
l Quién las fìnas alconzillas , '
y las aguas estiladas ?
,; Quién las mudas y cerillas ?
^ Quién encubre las manziUas
en los gestos asentadas ?
Ms. acalo.
Ms. alconzilla.
184 —
Las fuercas de mis efetos
los defetos naturales
tornan en actos perfetos:
liazen de torpes discretos,
y de aiiaros liberales:
los couardes esforcados,
los soberuios miiy vmanos,
los glotones temperados, '
los inetos prouechados
y plazibles los tirauos.
En los viejos encogidos
resu9Ìto la virtud:
tornan linpios y polidos,
y en plazeres detenidos
les conseruo la salud:
causa proueclios sin cimento
que dezirlos seria afrenta.
S. Verdad es ; ^ mas el tormento ,
que traspasa el sentimiento,
no se escriue en està cuenta ?
Creo que auias oluidado "
que hablas con quien te entiende.
,; No sabes que yo e prouado
que es aziuar coufitado
lo que en tu tienda se vende?
0 no alcanca mi saber,
ó tu alabas gloria ajena;
pues en la tuya, a mi ver,
no ay momento de plazer
qua no cueste mas de pena.
A. Nunca muclio costò poco,
ni jamas lo bueno es caro:
mira bien lo que te toco;
que es sentencia , y no de loco ,
ser prepiado lo que es rraro:
todas las cosas criadas
tienen està condicion.
' Ms. temperarle.
que facilmente alcaucadas,
facilmente son dexadas
sin mirar' mas lo que son.
De la cosa mas compuesta
si el precio quieres saber,
veràs conforme respuesta:
tanto vale quanto onesta,
sea qualquiera sa valer;
pues siendo qual es mi gloria,
por que no venga en oluido,
no es justo que aya memoria
el que consiguie viteria
del mal por ella cofrido.
^, Has visto los que coubaten ?
Si veen ganaucia al ojo,
no temen que los maltraten,
y coren donde les maten
por codÌ9Ìa del despojo:
daquesta misma manera
es quien sigue mi querer;
por que el &i que en mi se espera
es tan dulce, que quienquiera
a el trabajo por plazer.
S. Puede ser que en tantos dias
ayas mudado costunbre;
mas quando tu me regias,
yo sé bien que ser solias
vna amarga seruidunbre.
A. Hallaràs gran difFeren9Ìa
de lo de eston9es agora,
y veràs por esperiencia
de gratitud y clementia
mi condicion se decora.
S. Pues si, comò dizes, eres
y tus obras son tan fieles,
ese arco con que hieres,
dime: ^para quo lo quieres?
A. Solo para los rebeles.
— 185 —
S. rt Y a los que leales fueroii ,
qné galardones les dan ?
A. Queridos comò qiierran
seràn, y mientra binieren
no sabràn qné sea pesar.
S. En el prometei" sin rrienda
he visto siempre tu lengua.
A. (_ Quieres desto alguna prenda"?
S. i Que al partir de la azienda
no recibas daiìo y mengua!
A. Yo sé bien lo que prometo,
y sé que podré gardarlo.
S. ; Mira que ande el juego neto!
A. Si quieres ser mi sujeto
comencaràs a prouarlo.
S. Temo de tu sujecion;
por que fuy en vn tiempo tuyo , '
y sé quàn contra rrazon
va la ley de tu pasion:
•mas ni por eso la buyo,
que avnque tu ley enemiga
de sosiego y de alegria,
es tan naturai y antigua ,
que es por fuerca que se sigua
si por as sino por tria.
A. i Luego ya quieres seguirme?
S. No sé si diga de si.
A. i Qué temes ? S. Que no eres firme.
A. i Con qué quieres que confirme
la promesa que te di?
S. Con la obra. A. So contento: '
dexame poner la mano
do tengo hazer asiento;
y veràste en vn momento
derecho, fresco, locano.
S. Dime primero en qué parte.'
' Ms, por que yafuy.,..
' Ms. memento^
A. Aqui sobre el cora9on.
S. He miedo no andes ' con arte,
por que siempre oy loarte
por vn famoso ladron :
y avn dire , sino te ensanas ,
que te comparan al rrayo;
por que con sotiles manas
nos arrancas las entranas
sin liora darnos eusayo.'
Pues, si me quieres tocar
para sin vida dexarme,
so color de me sanar,
mas me quiero enfermo star '
que no acabar de matarme.
A. Demasiadas porfias
vsas en està contienda:
proprio es de onbre de tus dias;
y pues de mi no te fias,
busca quien menos te ofenda.
S. ^ Como ! Y jiizgas a locura,
si el que espera acometer
sus bienes a la ventura ,
con diligen9Ìa procura
lo que puede suceder?
A. i No mas di ! No es escusado ,
y avn sellai de onbre ingrato:
siendo ya ^ertificado
del bien que està aparejado,
busca cince piés al gato.
S. Ya te entiendo , bien te ueo :
mi dolencia es tu salud:
satisfaz a tu^ desco ,
que azer cunple, segun creo,
de ne9esidat virtud:
pon ' la mano do dexiste:
toma posesion entera
' Ms. 0 andas.
'- Ms. el sano.
^ Ms, por.
186
desta casa que elegiste.
A. Dime: ^, agora quo sentiste ?
S. Vna llaga clulce y fiera,
Pena cierta incorregida,
vn sabor que al gusto plaze,
con que salud se oluida;
vn morir que ha nonbre vida,
deseo que me desplaze:
el plazer que agora siento
veesle aqui luego de mano.
A. iBiue alegre, està contento!
que si el principio es tormento,
medio y fin te sera llano.
S. Ya te he hecho sacrificio
de mi antigua libertad;
mi deseo es tu seruitio;
quanto al dar del beneficio
cunplase tu voluntad.
A. Endreca tu persona ,
coupon tu Gabello y gesto,
tus vestiduras adorna;
que, avnque jouentud no torna,
plaze el viejo bien dispuesto. '
S. Ya que estoy atauiado,
dime: ^ qué quieres hazer?
A. Quiero te azer namorado,
y el mas bien auenturado
que jamas pensaste ser.
*S'. Querria que me mirases
todo todo en deredor,
y si ay mal que le emendases.
A. Si 9Ìnquenta aùos dexases
no podrias estar mejor.
Mas tal es mi propiedad,
que do quiera que yo llego
no ay respeto a autoridad,
' Ms. riaze el bien el vicjo disjmes.
a linaje, ni a edad:
por eso me pintau ciego.
S. Hora pues ^ quando querràs
meterme en està conquista?
A. Buelue el ojo aqui de tras,
qtie soy cierto que veràs
cosa jamas por ti vista.
Mas no te mudes, ni alter es,
que es cosa de onbre indiscreto:
di pues por seruir la miijeres,
quando con ella fueres,
que te acete por sujeto.
*Si. (, Y tu no estaràs eomigo ?
A. No. S. iPor que? ^1. Por ' que yo quiero
que tengas solo contigo
el secreto, buen testigo
del amor que es verdadero :
Mas aqui, tras està pnerta,
estaré donde te sienta
con oreja bien dispuesta:
tu, despues de echa tu of'erta,
con ser suyo te contenta.
jOye, oye! antes que vayas:
por evitar ' desconcierto,
cata que, por mal que ayas,
nunca muestres que desmayas
de ser suyo bino y muerto.
S. \0 diuinal hermosura,
ante quien el mundo es feo ,
ymagen, cuya pintura
pintó Dios a su figura,
yo te veo , y no lo creo !
Tales dos contrarios siento
en contenplar tu e9elen9Ìa;
que entre plazer y tormento
detenido el sentimiento
no conozco tu presen9Ìa.
' Ms. j^fo.
' Ms. avitar.
— 187 —
; Descanso de mi memoria,
de mi cuydado Consuelo,
de mis plazeres istoria,
causa de toda mi gloria,
sefiora de mi, en el suelo
suplicote! pues mi suerte,
por hazer mi pena cierta,
piiso en ti mi vida y muerte ,
que tu virtud desconcierte '
lo que en mi mas se congierta.
i Cousieuta tu merecer ,
no por rruego ' conpeUda,
mas por solo tu valer,
que te sima mi querer
mientra durare està vida!
y si me culpas, por que
en pedir merced excedo,
rrazon tienes, bien lo sé;
mas tu virtud y mi fé
me ponen nueuo deuuedo.
j 0 aiìos mal enpleados,
o vejez ' mal conocida,
o pensamientos danados,
o deseos mal hallados,
o verguen9a bien perdida!
M. Uiue en seso, viejo, en dias
que te espera el cementerio:
dexate destas pórfias;
pues con mas razon debrias
meterte en \Ta mouesterio.
jMira, mira tu cabeca
que es ' vn recuesto ueiiado!
Mirate pieca por pieca;
y si el juzgar no eutropieca ,
hallaràste '' enbalsamado.
' Ms. desconcierta.
- Ms. rrugo.
" Ms. vezes.
' Ms. pues.
° Ms. hallarteas.
(, No vees la freute arugada,
y los ojos a la sonbra?
^ La mexilla descarnada,
la nariz luenga afilada,
y la boca que me asonbra ?
l, Y esos dientes carcomidos '
que ya no puedes mouerlos,
con los labrios bien fronzidos
y los onbros tan saUdos,
a quién no espanta en verlos ?
Y en te , caduco cimiento ,
do fuerca ninguna mora,
^, no te trae al pensamiento
que deuieras ser contento
con tener de vida vn ora?
i 0 viejo descon9ertado !
^no ves que es cosa escusada,
presumir de enamorado;
pues quando estàs mas penado
te viena el dolor de hijada ?
Torna, torna en tu sentido,
que can9as ya de viejo;
y este mal sobreveuido
podràs poner en oluido,
siguiendo mejor consejo.
S. Pues que tu beldad me daùa,
tu piedat , senora , inuoco :
i eese contra mi tu sana,
no te muestres tau estraiìa!
M. ; Tirate alla , viejo loco !
S. ;A! ^nno sabes qUe soy tuyo?
M. Mio no, mas de la tierra.
S. Tuyo, digo, y no te huyo.
M. Presto veràs que eres suyo,
si mi juyzio no yerra.
i No toques, viejo, mis paiìos!
Ms. caramìdos.
Dexame, que estoy nojada;
que si estouieses mil anos
quexando siempre tus danos,
annca me verias mudada.
S. Yo tengo mi merecido,
y es en mi bien enpleado ;
pues, estando ya guarido,
quise tornar al rruydo ,
do me aviau de escalabrado.
Este es pago verdàdero,
que suelen aver los tristes
sometidos ' a quel fiero,
crudo, falso, lisonjero,
ciego y pobre que aqui vistes:
aquel que, por enganarme,
vsó tan diversos" modos,
que sin " poder remediarme
fué forcado sojuzgarme ,
comò aveys visto aqui todos.
Cuyas promesas juradas,
causa de mi perdimiento,
muy mas presto son mudadas
que las hojas meneadas,
quando corre rezio viento. '
Bien estaua en mi sentir
quando no queria abrir,
aunque " viejo porfiado :
mas ^quién puede resistir
al furor de aquel malnado,
Que conpuesto en falso afeyte
no entra sin enbaraco?
Y asi cunde su deleyte,
que comò mancha de azeyte
no sale sin el pedaco:
' Ms. sometido.
' Ms. diuefso.
' Ma. ai.
' Ms. rezo vieniento.
' Ms. auque.
y pues vedes comò abrasa,
huid desa compaùia;
que , vna vez entrada ' en casa ,
no se amortigua su brasa
basta dexalla vazia.
Huid de sus ciertos enojos,
apartaos de sus desdenes; '
pues delante vuestros ojos
aveys visto los abrojos,
que se cojen con sus bienes
castiga en cabeca ajena;
pues mi tormento os amuestra
a salir desta cadeua:
y sin OS dude mi pena
esperad ^ y vereys la vuestra.
VXLLANgiCO.
Quien de amor mas se confia
menos tenga de esperanca;
pues su fé toda es mudanca.
No deuen ser estimadas
sus promessas infinitas,
que en el agua son escritas
y con el viento selladas:
facilmente son tratadas
y el biuir queda en balan9a.
Es su gloria mas entera
engaiìar nuestro apetito,
y so falso sobrescrito
poner pena verdadera;
por que necessario muera
quien de su fé mas alcanca.
Su enganosa condi^ion
en ausen9Ìa da denuedo,
' Ms. entra.
■ Ms. deade'nes.
' Ms. esperà.
189
y en presensia pone miedo,
por que cresca la pasiou :
su mas cierto galardon
es perder la confianca.
Muy mayor es el cnydado
que el plazer que da su gloria,
pues descausa la memoria
qiiando piensa en el pasado;
comò quien de mar turbado
se siente puesto en balan^a.
Pues vemos ' corno ofende
su gloria quando es mas llena,
liuyamos desta serena,
que con el canto nos prende:
cuyo engano si se en9Ìende
poco a poco ha tal pujanca,
que nos trae en mal andanca;
Pues su fé toda es mudauca.
EINIGE DICHTUNGEN LIONAEDO GIUSTINIANI'S.
Geme bin ioli der Einladung dar Freunde und Collegen des verstorbenen
Prof. N. Caix gefolgt, fiir den Band, der dem Gedàchtniss des Dahingeschiedenen
gewidmet werden soli, einen Beitrag zu lieferii. Herr Prof. Caix ist mir wàhrend
meines Aufeiithaltes in Florenz im Sommer 1881 ein treuer Berather meiner Studien
gewesen. Auf seine Anregnng habe ich eine Ausgabe des Tesoretto nnd FavoleUo
unternommen, er hat mieli auf die Bearbeitung der Lieder Giustiniani's hingewie-
sen. Die Nachrichfc von seinem Tode, welche mieli imerwartet traf, riihrte mich
seKr; sein Andeiiken wird bei mir ein bleibendes sein.
Diese kleine Arbeit bringt einige weitere Notizen ilber die Gedichte Lionardo
Giustiniani's und am Scliluss einige Texte aus dem cod. mare. CV. ci. IX it.
sec. XV. (M). '
Kurz naclidem meine Ausgabe der im cod. pai. E. 5. 7. 47. entlialteuen Lieder
erschienen war, ' kam in der Biblioteca di Letteratura Popolare Italiana im 2. Bd.
duroli S. Morpiirgo ein venez. msc. mit « Canzonette e Strambotti » zum Abdruck.
Morpurgo hat mit Eeclit ftìr dieselben die Autorschaft Giustiniani's geltend
gemacht. Die Canzonetten finden sicli sammtlicli in dem cod. pai. wieder ; Morpurgo
konnte dies nur von 12 nacliweisen , weil er nur die Anfànge der im cod. pai. voU-
standia; erbalteuen Lieder kanute. '
' Urspriinglich liatto icli noch die in der Neuzeifc imedierten Lieder aus den Druoken mit Bemerbungen hin-
zugefiigt; da die Arbeit aber zu lang war, liess ich dieselben weg und werde sie gelegentlioh an andi'er SteUe
veroffentlichen.
■ Als Dispensa CXCTII der 8cdta Di Curiosità Letterarie Inedite oRare Dal Secolo XIII Al XVII, Bologna, Ro-
magnoli. 1883.
" Die Inhaltsangaben des cod. pai., des Druckes und des ood. ricc, welohe, von Herrn Vittorio Fiorini
verfertigt, in einem Anhaug zu Morpui'go's Einleitung (pag. 10 ff.) stehen, sind sehr ungenau. Der cod. pai. entliàlt
jetzt noch 81 (nach Fiorini's Rechnung 82) , nicht 79 G-edichte. Das von mir unter VI piiblicierte Gediclit zerlegt
F. in zwei Gedichte. Es isfc das ganze ein Contrast zwischen amante und madonna, wie es deren so viele giebt.
AUerdings beginnt die Rode des Amante mit eiuer neuen Ripresa, sodass wir formell zwei Balladen haben. Vom
Schreiber ist nicht die mindeste Liicke oder ein Raum fiir eine Majuskel gelassen, welclio letztere F. vermisst.
Sonst steht im cod. stets am Anfang jedes ganz erhaltenen Gedichtes eine Majuskel und an seinem Schluss:
— 192 —
Ich stelle die ZifFeru zusammeu, unter denen sicli das gleiche Gedicht in den
beiden Ausgaben (S. und W.) befindet.
S. I = W. IV S. X = W. XLIX
S. II = W. LIX S. XI = W. XVII
s. ni = w. Lvm s. xiii^w. xxxi
S. IV = W. XV S. XIV = W. XLII
S. V = W. LVII S. XV = W. XIV
S. VI = W. LIV S. XVn = "W. XLV
s. VII (XVI) = w. I s. xvm = w. Lxxvn
S. vili = W. XLIII S. XX = W. VII
S. IX = W. XXIII S. XXI = W. XVIII
S. V liefert den Schluss zu \V. LVII, der im cod. pai. feklt, und S. VI den
Anfang zu "W. LIV; S. VI endet jedoch schon mit W. v. 88, làsst es also
iinvollendet.
Als Beweis der Volksthumliclikeit der Lieder Giustiniani's ftìhrt Morpurgo
an, dass einige von ihnen in Lauden parodierfc und nacli der Melodie anderer
Lauden gesungen wurden. Auf letztere Tatsache kabe icli gleiclifalls liingedeutet
und gebe hier noch einige Nachweise.
Das Lied W. XVIII (S. XXI): « Piango^ meschino, l' asjiem mia fortuita, » ist
\àelleiclit parodiert in der Lauda, die sick im Druck Venedig 1474 als die 48te
findet und beginnt:
Piango misp.hino 1' aspra passione
de yesu xpo figliol de maria.
und ebenso W. LXIX:
O Qoueneta bella
piena de zentilezza.
in der Lauda im Druck Venedig 148.3 :
" Verzeneta bella
Piena de oaritade.
lek habe mir nur die je zwei ersten Verse der Lauden notiert, und kann meine
Vermutkung daher nicbt welter verfolgen. Das Ged. W. LIX ist in den Lauden-
Finis, iind ist vor Begìnn jedes neuen Gedichtes ein Spatium gelassen; dies Lied wiirde die einzige Ausnalime
machen. Kach 15 seiiier Zahlung iibersielit F. das Fehien des Fol. 41 und damit die von mir unter XV publicierte
Ballata. So kommen vvir in der Ztihlung wieder iiberein bis 67. Hinter 67 ist das Fehien des Fol. 172 nicht bemerkt
nnd das von mir unter LXVIII edierte Fragment als Scliluss von 67 angesehen. Endlicli ist nach LXXV (Fiorini 74)
das Fehien des Fol. 192 iibersehen und daher das boi mir unter LXXVI herausgegebene Fragment unbemerkt
geblieben. Im ood. rico. 1001 steht das von Fiorini unter 7 erwiihnte Gedicht (es ist nur ein Fragment von 15 vv.)
anonym (of. meine Anmerkung zu LXXV pag. iillO). Es folgt im ood. dem unter 6 (W XIV) auCgefiihrten Gedicht
mit Spatium fùr eine Ubersohrift. Kndiicli enthiilt der Druck 30 (nicht bloss 29) Gediohte. Das von Fiorini unter 28
citierto Lied enthalt nur 9 vv; am Schluss fehlt allerdings das • Finis, > dooh mit dem Vers: Rosa mia gintile >
(nach V. 9) beginnt das W. XXVII publicierte Gedicht. Ganz abgesehen davon , dass die voraufgegangenen 9 Verse
im Vorsmass gar nicht zu dem Folgenden passeu, zoigt schon das Fehien der Majuskel (O) in dem Druck, dass
hier ein neues Lied beginnt.
— 193 —
sammlungen von 1480, 1485 und 1512 erwàhnt. Das Gedicht W. XLV ist im cod.
corsili. Col. 43. C. 33, der ^us dem 15. Jhd. ist und Lauden enthàlt, erwàh.nt. Es
steht daselbst: « Echantasi ahnodo chinò a prounto amore. » In dem Druck und in dem
von Morpurgo edierten cod. (S. XVII) beginnt di© Canzonette mit zwei Stroplien,
die im cod. pai. fehlen. Die Erwahnung in dem cod. corsin. scheint den Beweis zu
liefeni, dass diese zwei Stroplien erst spater hinzugefiigt sind und vielleiokt
urspriinglich zu einem anderen Gediclite geliorten. Im cod. cors. sind von den in
meiner Ausgabe bereits als in Laudensammlungen vorkommend nachgewiesenen
Anfàngen folgende gleiclifalls erwahut: W.' n, TV, XV, XXVII, XLIII, LVIII,
LXXV.
Ich habe bei dieser Ausgabe iusoferu ein anderes Verfahren als bei der des
cod. pai. eingeschlagen, als ich die Verse auf das riclitige Mass gebracht habe.
Der erwahnte cod. mare, ist zuerst in dem Aufsatz D' Ancona s im Giornale di
fi. rom. Il 179 ff. erwàhnt. Es enthtìlt die reichhaltige Gedichtsammlung dieses
cod. 5 Gedichte mit der Ùberschrift. D. L. I. = Di Lionardo Justiniani. Es sind
dies die unter I und II publicierten Gedichte; ferner das Gedicht W. LVIII '
{Io aedo ben eh' amore è traditore) , welches auch E, und die Drucke unter Giustiniani's
Namen haben (cf. auch Morpurgo pag. 5 oben).
M hat nach v. 181 acht Verse, die nicht in P stehen, dieselbeu, welche die
Drucke haben mit Ausnahme des ersten Verses (cf. in meiner Ausgabe pag. 303).
Ferner in M mit der tjberschrift D. L. I. das Gedicht W. LXI {Ay me meschino, ay
me, che dizo fare?) fur welches nodi kein Beweis fiir die Autorschaft Giustiniani's
beigebracht war. Nach W. LXI 120 schiebt M folgende vier Verse ein:
Meglio seria per me certo , di' io more ,
ma per non far più grani i suo' lamenti,
meglio è, eh' io uiua e stenti
e siecho pianga il suo nouelo affano.
Die Stroplie 157-160 ist in P dem Metrum nach verdorbeu; in M lautet sie
richtig :
Hio uoglio , per mio amor, che '1 cor tu piegi
a tuor dal tuo dolor rimedio e pace;
uedi, oh' el si disface
la tua tenera uita in ste tristece.
V. 160 fehlt in M natiirlich. Endlich W. LXVIII, fur welches wir also die Autor-
schaft Giustiniani's und den Anfang des Liedes erfahren; diesen publiciere ich
unter III. Der Schluss stimmt mit P, abgesehen von Lesartvarianten.
' In meiner Ausgabe ist unter XV, XXXI, XLIX, LVIII, LXXV in den Anmerlcungen die .Tahreszahl 1512
stati 1510 zu lesen und XXXI einmal 1512 statt 1501.
' Ich selle davon ab, die Varianten zwisolien P \md il/ mitznteilen , docb bedeutendere Abweichungen fuhre
ich auf und gebe die Vervollstandigungen , welche die Ausgabe von P durcb M erfahren kann.
— 194 —
Auonym stelit iu M: W. LXXI. Statt v. 54-5G hat M folgende Verse, welche
aneli vollig lùneinpassen :
qual porti belo hornato di chostumi,
quei chiari e uiui lumi
anoi due stelle o un sol, che si riluce.
Tu sei mia dea, mia ninpha e sola luce
a st' alma e al tristo chor, che amando sjiera;
la tua legiadra ciera
mi tie sugieto a amor sempre sperando.
Am Schhiss hat M (nach v. 68) deu Vers: « Posache di me solla regina sei, » der
vielleiclifc dahin gehort. Ferner anonyxa in M: W. LXXII, welches Lied, abgeseheu
von Lesartvarianten , in der Anordnnng und Verszahl mit dem in P stimmt.
Endlich W. LXXIV, mit dem es sich genau so verhàlt. Das Gedich.t W. LXVII ist
in M ilberschrieben. « D. Jacohus sanguinacius. » Es ist in P Fragment, wir erfahren
also den Scliluss; doch die Fassung in M ist wesentlich von der in P abweicheud;
ich. gebe daher das Gediclit unter IV gauz nach M. In den Stùcken lòst die
Cursivschrift die Abre-\daturen des cod. auf.
Rostock vM. Aìif/iist J883.
Berthold Wiese.
I. — (Cod. M. Fol. 29 V.)
D. L. I.
V_^He debio più sperar al mio languire?
amor, che uer me regni ogni dureza,
doue è tua zentileza,
poiché chonsenti di farmi morire?
Omè fatiche , aimè fidel seruire ,
o uan pensier, chi spera in tua mercede!
ahi ohi chon le tue rede
tu allacci, eh' el non pò giamai fugire!
Amanti, che uedete el mio languire,
fugite amor, che si pò dir amaro ,
e fate hogni riparo
a sue perchosse tanto accerbe e dure.
Fateui intorno al cor le forte mure
e non credete a sue luxingo blande,
sichome di fuor spande
I. V. 7 hi chi.
nel proprio guardo, che par tanto humile.
Che , se prouate sue mortai fauile ,
mai non sperate auer alchun chonforto ,
dapoi che a tanto torto
mi sforzai sempre amar honestamente.
O mixer me, ho specchio a tuta gicnte,
in chui ueder si pò ciò che pò amore !
e ciaschun gientil chore
pianga chon mecho il mio tempo perduto ,
E quel che per amor ho sostenuto ,
uedendomi a tal modo meritato ,
dolente e suenturato ,
che per mia pace sempre ebi tormento.
Ciascun mirate il mio grane lamento,
prima che tal desio u' entri nel chore,
che mai da nesun' ore
ebbi piacer per mia fiera fortuna.
O cieli, o terra, o stele, o sol, ho luna,
chome assentite a tante crudeltade,
eh' ol non uenga pietade
a chui del uiuer mio è gran chaxone ?
Aimo crudel , ho false openionc ,
o miseri mortai, in che sperate,
che chussl chonsumate
— 195 —
nostre speranze, non chogliendo il fruoto ?
Et hio , ohe innanci non ho chonosuto
pcj" tropo fede il mio misero fino,
mille pongiente spine
mi passa il pecto , e sempre grido , omei !
Pietà uenga a ciasohun di suspir mei,
poich' i' o pfrduta ogni dolce faticha,
che mia giouenil spicha
ho chonsumata in accerbo doloro.
E non posso ritrarmi de sto ardore ,
onde me stesso strinsi chetai nodo,
che mai per alchun modo
altri che morte soluer noi potria.
Ma pur per ben seruir si doueria
uolzer i sasi e uolzer oiaschun monte,
uedendo tanta fonte
di lacrime , eh' io spargo e giusti priegi.
E tu, non so per qual chagion deniegi
la gratia tua a chui chotanto t' ama ,
che in sì ardente fiama
lasi fenir suo ulta, aimè, crudele!
Non sa' tu ben, s' io ti son sta fìdele?
non sa' tu quanto hio t' ò anchor riuerita,
et se sempre scorpita
nel clior m' e stata tua zcntil figui-aV
O mondo ciecho , o mia disauentura ,
ho destinato giorno quando nacqui,
dapo' eh' io sempre spiacqui
a chui per ben seruir noi pur eh' io mora.
Almen mi fosti stata una sol hora
chon tuo guardo gientil un poche pia,
acciò che in ulta mia
da te auesse auuto qualche gratia.
Ma uedo ben che ancor tu non sei satia
di creser penne a me iìdel semente
et non ti churi niente
de mei amari e lacrimoxi uersi.
Ho , foss' io morto quando gli oclii apersi
per risguardar le tue tante ballece
e polite factece ,
che, quanto penso più, mi creso pejma.
Certo hio non ò polso, neruo ne uena,
per ogni modo eh' io non abi onfexo ;
ben so, eh' io son inteso,
siche per me oiaschun fuza tal uarclio.
Non ui sottometeti a tanto charcho
per uoler adimpir nostro dixio ,
mirate il dolor mio
e la mia grane doglia e grani affani.
Vedete chome ho perso i giorni e gli anni
sul nobel fior dela mia uerde etade,
e la mia libertado
ho data a chui di me giamai non chura.
O morte, perchè sei chotanto dura
chontra chui del bon chor chotanto t' ama?
e chui il uiuer brama,
tu gli uà' seguitando in hogni lato ?
V. 81 Per certo hio.
V. 90 fiore.
De, uiejnii ornai, per dio, fami boato,
po' oh' io dexio il tuo pongiente strale,
eh' assai mi fia raen male
morir oh' esser al mondo sconsolato.
FINIS.
II. — (Cod. M. Fol. 51 r.)
D. L. I.
o
Misera mia uita , ho cor mio afflicto ,
ho alma sconsolata in .tanti guai ,
aimè, non criti mai
esser topin d' amor ehusi tradito.
O traditor amor, sia maledite
el giorno , che porgiesti agli echi mei
la domna , eh' io uorei
non auer uista mai per più mia pace !
El cor si strugie e 1' alma si disface ,
non trouo alchun rimedio al mio penare;
ognor chon lacrimare
non biastomando amor e rea fortuna.
Biastemo el ciel, le stele, el sol, la luna,
biastemo ogni pianeto e '1 mondo tuto ;
biastemo afflicto e struto
il tempo perso e '1 mio uanno soruire.
Aimè, por biastemar né maledire
non trouo alchun chonforto al tristo pecto ;
perduto ho il mio dilecto ,
perduta ho la mia dea e '1 mio sol bene!
E tu , rezina mia, di sto mie penne
se' la chagion, colandomi il bel uixo;
tu sei mio paradiso,
per dio, non mi fuzir , non far oh' io mora !
Tu m' ai bandito , tu m' ai posto fora
dil tuo perfeoto amor dolce e suaue,
questa è la doglia graue ,
che mi chonsuma e strugie in graui affanni.
A ! mei dolci pensier uedo esser uanni ,
le mie dolce fatiche alfin perdute ,
et le sperance tute
manchate, meschinel, chon gran dolore!
Vedomi amor nemicho e traditore,
uedome il ciel chontrario et ogni stela,
e tu se' solla quela
che stata sei chagion di tanto errore.
Hio moro e me disfazo per tuo amore ,
Tu non ti chure e lasime morire ;
aimè non chonsentire ,
V. 100 che uiuer.
II. V. 5 maledeto.
196 —
porgi qualche souegno al tuo fìdele !
Pensa quel che ti gioua esser crudele
uer me , che t' amo in doloroxe stente !
non so , chome chonsente
1' abisso, che non s' apre a far uendeta!
Aimè , chome esser pò , che una augioleta
ahi sì duro il chor, sì accerbo e fiero!
aimè, eh' io mi dispiero,
e mille uolte il dì chiedo la morte !
Credo, che '1 ciel ti fece per mia sorte
legiadra, pelegrina, onesta e bela,
umile in tua fauela
e negli efecti poi superba e fiera.
Tu par suaue e dolce in tua maniera ,
benigna nel bel guardo, humil e piano,
e questo fu 1' ingano ,
che mi chonduse al' amoroxo lazo.
E poiché per tuo amor m' ardo e disfazo ,
per dio, succhori a st' alma topinela;
tu non serai men bela,
né men d' ouor seràti esser chortese.
Quanto hio t' amo , pur tul sai palese ;
uo' tu, che tanto amor mio sia perduto?
uo' tu, eh' io mora al tuto?
uoglio morir per te pur s' el ti piace.
O tu mi cecidi , o tu dij qualche pace ;
chonforti il tristo chor di doglia pieno ;
fami sta gratia almenno ,
poscia che '1 mio sperar uedo falare !
FINIS.
III. — (W. LXVIII)
i>'XOro d' amore, aimè laso, eh' io moro!
duo begli ochi gentil sì me disface ;
altro più non mi piace ,
se non el mio dolce et charo tesoro.
Altro non amo , altro più non adoro ,
ogn' altra dona amor m' à posto in bando ;
hio me nutricho ardando ,
struzom' e godo uiuo in dolce fiaxmia.
Duo begli ochi gentU 1' alma me 'nfiamma,
anci due stele chiare più che '1 giorno,
et un bel uis' adorno
che di bellece auanza ogn' altro uolto.
O belece gientil, che '1 cor m' à tolto,
o solla dona senija alchun diffecto ,
V. 40 suegno.
V. 60 me.
III. V. 14 senca.
o seno , o intelecto ,
parole dolce e modi acchorti e beli!
Non nidi d' oro mai più bei chapeli ;
o fronte, o naso, o bocha, o lapri rossi,
credo ben , che uuj fosi
facti SI adorni per farmi languire ! i
Aier benigno più eh' io non so dire,
achorto guardo , angielicha maniera ,
donesoha e lieta ciera
da far sentir d' amor le pietre e i sasi !
Or sapi ben, or sapi, che tu pasi i
quante done legiadre eii soto il solle;
uiue rose e uioUe ,
bianchi e uermigli son li tuo cholori.
Eiso suaue, uolto jnen di fiori,
chandida gola , o pecto , oue i-iposa '•
quel' una e 1" altra rosa,
le qual porti nel tuo bel senno ascose.
Spale legiadre, o membra si formose,
o brace , o man gientU, che mi disfanno ,
sia benedeto 1' anno
e '1 mese e '1 giorno eh' io m' inamorai!
Adorne ueste più non nidi mai
tanto pulite al suo legiadro dosso;
aimè, che dir non posso
de mille parte una di quel eh' io credo.
e 1' altre tuo belece , eh' io non uedo,
che son choperte chon la bela uesta;
ho dio, chon quanta festa (W. LXVIII v. 1.)
di quele penso, beuch' io non le ueda!
JN. — (W. Jaxni)
D. .Tacobns sanguinaeius.
Ui
' Euuta è 1' ora e '1 dispietato ponto
che partir mi chonuien chontra mia uoglia,
chon tanta amara doglia,
che di mia ulta ormai più non fo chonto.
Ma poiché la fortuna m' à chongionto
a tal partito uenenoso assai,
che poss' io far ormai,
se non riohomandarmi al signor mio ?
O mondo senza fede, falso e rio, (TF. v. 15.)
chome esser pò eh' io degia dipartirmi
da chui sentia nutrirmi
chon un sol guardo e chon un dolce riso ?
Come esser pò che da quel chiaro uiso
hio degia lontanarmi, ai meschinelo?
V. 29 suaue ohol.
V. 41 L' altre bolece tuo.
IV. V. 6 a si duro.
— 197 —
questo piacer si bello 15
chome esser pò eh' io degia abandonarlo?
Aimè, che in uanno mi lamento e parlo,
che quel che uol fortuna esser chonuienne ;
falita è la mia spenne ,
chussl hor faliscon tuti i pensior mei. 20
Priegoti adonque per li sacri dei ,
tu, che sei mia regina e mio signore,
che sempre nel tuo chore
ti stia il mio nome et la mia pura fede.
Piangiendo i' me ne uon cliomo si uede , 25
e r alma mia riman nelle tue force.
de, fa, che non si asmorce
per tua chagion la nostra dolce fiama!
Vedi , eh' altra cha te mio chor non chiama;
te solla piangie e d' altra non fa chura ; 30
tu sei quela figura ,
che sempre alberga in mezo del mio pecto.
De, fa, madona, che '1 tuo bon sugieto
non sia per altri amanti abandonato ,
acciò che disperato 35
non ardi sempre nel focho eternalle !
Et se pur far uolesti tanto malie,
priega Neptuno e gli chontrarij uenti ,
che chon mortai tormenti
guide mia naue a più teribil scoglio. 40
Ohe questo mi seria menor chordoglio
cha s' io uedesse d' auerti perduta;
però che anchor pentuta
seresti auer chomisso tanto fallo.
Ma se tu pensi quanto buon uassallo 45
hio ti son stato e serò sempre mai,
certo tu non uorai
priuarmi sì aspramente di sta ulta.
E benché da te i'fazi tal partita,
V. 32 nel.
V. 42 allerti.
tu sai quel che mi sforza e mi chondajina. 50
ma so '1 ciel non m' ingajina,
tu solla sei che mi poi far tornare.
Ond' io ti uoglio, cliar signor, pregare,
che chon tuo dolce e angieliche parole
tu priegi r alto solle , 55
che gir mi faci e '1 mio tornar sichuro.
Dapoi per la tua luce ti scongiuro ,
che '1 mio chore , che tieni in tua balia,
ricomandato sia
ad la tua excelsa et alta gientileza. 60
Hio ti scongiuro per tua gran belleza
che di me ti richordi qualche uolta,
però che mai distolta
non fia da me la so«tma tua uirtute.
Dio sa che mai non sporo chon salute 65
posser tornar dalla tua legiadria,
ma sempre oue mi sia
arò in bocha il tuo gratioxo nome. {W. v. 60)
I tuo begli ochi e le adornate chionìme
mi staran sempre fiti nella mente , 70
e chome bon seruente
mi sforcerò di farti sempre honore.
A dio ti lasso donque, char signore ,
che tiecho più non posso far dimora ;
questo partir m' aohora , 75
ma chussl uà, chui uiue jn seruitute.
Aimè , che le mie rime ormai son mute ,
ne dir pon altro se non slatti a dio !
lassoui il spirto mio ,
e uomene , piangiendo il partir mio. 80
FINIS.
V. 53 charo (e/, char v. 73).
V. 61 la tua gran belleza.
V, 69 hornate; die urspriingliche Lesart wird, wie
P hot, deaurate seiv.
ETIMOLOGIE SAUDE."
« AssKLENAKE V. n. log. mitigare, diminuire. Lat. Serenus, cangiato r in l. »
Nulla di più comune ohe r mutato in l; ciò non di meno dubito assai di questa eti-
mologia, e non ne dubito tanto per la modificazione del significato, che non
avrebbe nulla di troppo forte, quanto perchè il latino somministra un aggettivo
più acconcio al senso àìasselenare; e questo è lenis. Insieme con asselenare lo Spano re-
gistra pure un equivalente assulenare. Ora egli è chiaro che questi due verbi non pos-
sono etimologicamente separarsi; e siccome il sardo conosce anche un aggettivo std-
lemi, lento, temperato, così egli è pur chiaro che da questo fecesi suUenare, indi per via
del prefisso ad *assuUenare, assulenare, asselenare. Sullenu non può venire d'altronde
che da ^suòleiiis, '^sullenis, specie di diminutivo che varrebbe aliquantulum lenis, fog-
giato alla maniera di suhalhus, suhdulcis, subdurus, suhgravis, ecc. Un verbo del tutto
analogo a questo in quanto ai due prefissi lo trovo pur nel sardo assuabbare, inu-
midire, bagnare, che risponderebbe ad un organico ad-sub-aquare (cf. sardo abba =
aqua) e del quale lo Spano non cerca punto l'origine. Quanto al trovarsi la doppia
l in sullenu e non nel verbo derivato, noterò come il primo appartenga alla varietà
meridionale, mentre il verbo è della logudorese. D'altra parte lo scempiamente
della consonante è sempre più naturale, com'è noto, ne' vocaboli di forma più am-
pliata , secondo che appunto viene qui ad essere il verbo. Aggiugnerò ancora come
contro cotesta etimologia da sereno faccia pure lo stesso verbo asserenare, vivo nel
logudorese col suo proprio significato di rasserenare e rasserenarsi; e come finalmente
il passaggio di asselenare in assulenare presenterebbe nell' e trasformato in u x\n fe-
nomeno qui poco verosimile, mentre assulenare (da ad-sub-lenare) presenta nell'jt atono
mutato in e un fenomeno d'assimilazione vocalica dovuta all' e seguente, assai comune
nel sardo. Si noti in ultimo che dallo stesso ^sidlenis viene l'it. sollenare, allenire,
degli antichi nostri scrittori.
' Sono ben circa vent' anni che mi vennero scritte alcune decine" di note o postille intorno ad etimologie
elle dava lo Spano nel suo Vocabolario sardo-italiaii'^. Mirando la più parte di tali postille a rettiiicare quelli clie
a me parvero errori etimologici, m'astenni dal pubblicarle per riguardi meritamente dovuti al canonico Spano,
tanto benemerito degli studj sardeschi d'ogni maniera; e solo alcuni anni dopo io dava fuori, con qiialclie più
— 200 —
« Attataee (aftattai-e) , ^ saziare, ecc. voc. arab. » Donde si derivi questo verbo
non è detto, ma esso è dato per vocabolo d'origine araba. Ora io nego questa origine
e affermo senza più che attatare viene, insieme con attattare, e lattare significanti lo
stesso, dal lat. satiare; e la fonologia lo dimostra con evidenza, matematica. Queste
varie forme d'uno stesso verbo appartengono al logudorese. Ora è da sapere che
questo dialetto cambia non di rado la sibilante iniziale in t, onde per esempio da
siliqua fa tiliba, dall'arabo sokkar, lat. saccarum, fa tuccaru, dall'arabo zdfardn fa taf-
faranu, tanfaranu; per zoppo, zoppicare (dal ted. schupfen) il log. ha toppa, toppigare;
inoltre il tj (ti, te) interno è dal logudorese assai spesso converso in tt, onde tittone
da titione, tizzone, jiiatta às. platia, pilatea, mattolu da matiolu {mateolo; cf. lat. nia-
teola, it. mazzuola) , ^jaifo da patior; quindi agli ocelli della critica glottologica tattare
= satiare e col pref. ad attattare ^ ad-satiare , it. saziare, ant. assaziare.
« Battìa, s. f. log. sett., vedova. Voc. ar. òaddha (sola, separata). » Anche qui la
fonologia, come assai spesso, basta per giugner subito alla vera etimologia di questo
vocabolo, senza che punto accada di abbandonare il campo neolatino per trovarla.
Già vedemmo come nel sardo il b iniziale nasca spesso da g (e) ; ' fenomeno più o meno
comune a tutti i dialetti italiani è il dileguo di v tra vocali, onde verbigrazia, per
tenermi solo nel logudorese, istiu — estivo, olia-= oliva, ecc. e perciò battia — gattiva,
cattiva, captiva. Chi ne potesse ancora aver qualche dubbio non ha che da ricorrere
al siciliano e troverà che anche in questo dialetto la vedova dicesi cattiva; e come
battia la vedova , cosi pur battiu (sic. cattivu) il vedovo. Qui il nome cattivo significante
vedovo, vedova è manifestamente nome di compassione e vale quindi misero, lasso,
meschino, come appunto negli antichi nostri scrittori cattivo e cattivello; e come
anche il prov. caitiu, l'ant. fr. caitifs, caitive, e l'odierno fr. clietif, chetive.
« Bénnebe, log. venire, ecc.... Dal greco [Batvto, eo o dal lat. venio. » Quando in
logudorese il passaggio di v iniziale in Z» è fenomeno regolare; quando verbi della
quarta passano indubitatamente nella terza, come p. e. apperrere, aperire, e gli stessi
verbi convenire, prevenire, suonano nel log. ciimbènnere, prevénnere, come potrebbe
rimaner dubbio che bennere non venga dal lat. venire, non avendo punto a che fare
col gr. fjaivw, se già non fosse in quanto il verbo greco e il latino procedono noto-
riamente entrambi dallo stesso fonte indoeuropeo?
« Chedda, f. log. quantità, stormo, gran fatta. Maudigare lina bona cliedda, man-
larghezza, che originariamente non avesse, una mia postilla Dell' origine della voce sarda Nueaohe, contrari» al-
l' etimo che (li tale voce dava lo Spano (Atti della H. Accademia delle Scienze di Torino; voi. VII, 869-881). Pubbli-
cando ora qui alcune di quelle postille senza punto farvi mutazioni, non posso dissimularmi ohe dopo vcnt'anni di
studj e lavori fattisi nel campo delle lingue neolatine, scritte oggidi esso dovrebbero talvolta riuscii-e alquanto
diverse d'economia e di forma, la qual cosa avvertiranno di certo i compagni di studio. Le poche giuuterelle che
v'ho fatto di poi sono tra pjvrentesi quadre.
' Lo Spano registra nel voc. sardo-it. attatare e tattare, non attattare; ma questa forma adopera poi nel Voc.
it.-sardo sotto 'saziare *, e nell' Ori. sarda, I, 183; e s'incontra anche p. e. nelle Vanz. pop. App. p. 162; sicché pare
la si debba aver© per la più corrotta e genuina.
• [Qui lo scritto si riferisco ad etimologie precedenti, dove si trattava di questo fenomeno. Meglio ora riman-
dare ad Ascoi,!, Corsi di glott. § 27].
— 201 —
giare una quantità di cose. V. fen. Ghad, cumulus. A cheddas , a mucchi. » La parola
cìiedda lo»'. <xdda mer. foneticamente verrebbero ad essere nel sardo una risultanza
regolare del lat. cella, dispensa, guardaroba, conserva. Dice Cicerone (Verr. IV, 2)
che Catone aveva chiamata la Sicilia celiavi jjenariam., una dispensa di vettovaglie.
Quantunque qui non si possa ancor dire che la parola cella sia adoperata in senso
figurato, pure si sente che ben vi s'accosta; e che cella può significarvi una gran
provvisione o gran quantità in genere. Ora io non dubito che la parola cella, in
quanto significò dispensa, non sia venuta ad aver nel sardo questo significato tra-
slato e generale di quantità, mucchio e quindi anche di stormo, branco d'animali.
L' esempio stesso che lo Spano arreca di mandigare una bona cìiedda raccosta ancora
d'assai la parola cella al primo suo significato di dispensa. Per trapassi analoghi di
significato cf. il sardo Meda p. 207 seg.
« Chiiìeu, m. log. sett. crivello, vaglio. V. gr. xtXiCco (sic). » Impossibile etimo-
logia. Chiliru viene dall' equivalente lat. cribrimi. Nacquero primamente ckiribrio, cìii-
riru; poi per dissimilazione chiliru. Tutti i fenomeni occorsi in questa trasformazione
hanno riscontri vari che li confermano. Quanto a crt-diventato cMri-sì confrontino
Ghirigoro per Grigorio, schiribi per scribi {Tao. rot. I, 465) ecc. In calabrone da crabro-
nem, oltre ad un'epentesi perfettamente analoga nell'a inserto in cr, abbiamo il pas-
saggio del primo ?-, pur per dissimilazione, in l, fenomeno che s'incontra ancora in
più altri vocaboli come p. e. io. pellegrino da peregrinus, celabro da cerebrum, pilatro
da pyrethrum, veltro da vertragus, jìalafreno da paraveredus , ecc. Quanto al b fogna-
tosi immediatamente dinanzi a r, oltre al log. lara da labra, log. e setti, colora da
colubro, ne abbiamo anche riscontro in lira da libra e nell'antico senese Uro, allirare
per libro, allibrare. L'eqiùvalente merid. ciliru, ciidiru, che ha la medesima origine,
viene dal Porru derivato dal gr. y.uXiCoJ, donde probabilmente la citata forma di
y.iXtCw recata dallo Spano.
« Ello avv. log., ellu mer. dunque, certamente: elio gasi, dunque così. Dal gr.
sXXw (sic), affirmo. » Io non dubito punto che qui non ci sia il pron. ille, preso nella
forma dell' abl., secondo che lo proverebbe Vo finale della forma logudorese; e quale
si ha pur nel latino pel pron. is, nella seconda parte del composto id-eo. Cf. perciò,
però (per hoc) , ecc. Anche qui cotesto gr. £/.).to era già stato messo avanti dal Porru.
« Endiosaee, AD0, V. n. log. invaghirsi, elettrizzarsi, divinizzarsi. Dal gr. enthei
(sic) che vale immedesimarsi con Dio, da cui la voce italiana entusiasmo. » Qui il
greco non ha punto che fare. Endiosare è d'origine spagnuola; e Vendiosar spagnuolo,
significante deificare, indiare e al riflessivo inorgoglirsi, andar in estasi, viene mani-
festamente da dios che , com' è noto , è la forma spagnuola improntatasi dal nomina-
tivo latino deus. Come Dante da dio fece indiare, indiarsi, cosi gli spagnuoli da dios
derivarono endiosar, endiosarse. L'it. entusiasmo ^^oi è, come la corrispondente voce di
tutte le odierne lingue europee, il gr. =vì>0DO'.7.aij,ói; (lat. enthusiasmus) connesso col verbo
svtì-o'joiàCa) , essere ispirato, invaso da divino furore, il quale verbo si derivò assai
verisimilmente da sv&gd? (svasso?) , ispirato , mimine afflatus. Un' altra forma sarda , pur
logudorese, dello stesso verbo è endeosare collo stesso significato e coUa stessa ori-
— 202 —
gine. Cf. ven. inanzolao o inaazolà = viaii(jelato, p. e. siestu laanzolao, che tu sia be-
nedetto.
« Faddija, f. log. focolare. Cenere accesa e viva. Lat. fax viva o da favilla. »
Non da, fax viva, che foneticamente sarebbe impossibile, ma piuttosto da favilla,
per mezzo della forma ^favillicula che sincopata in faviUicla, perdendo v e con-
traendo, dà regolarmente faddija (cf. p. e. log. caddu = caballo , orija = arida, ecc.).
«Fitta, fr. log. fetta, pezzo, ecc. toc. fen. phat, pliet, frustulum. » Fitta sardo
ha comune coli' it. fetta, come il significato, così anche l'origine. Non saremmo però
per ammettere come verisimile un'origine fenicia p)er questa voce così viva e, sto
per dire, italiana. Il Diez vorrebbe dare a questa voce una provenienza germanica,
connettendola coll'ant. alto tedesco ^za, nastro, filo, nuovo alto ted. /efee;i, straccio;
dichiarando men verisimile l'origine che alcim.i gli vollero dare dal lat. vitta, e ciò
per la rarità della mtitazione di v iniziale in / e perchè da vitta V it. ha vetta, e lo
sp. e il prov. hanno veta. Senza volere assolutamente escludere una tale derivazione
non saremmo neppur disposti a rigettare l'etimologia di vitta; perocché il v iniziale,
mutato in /, non è poi tanto raro da toglier verisimiglianza a questa origine. Il
sic. vitta viene a significare a un di presso quello che l' it. fetta; ed ha per fettuccia
il diim.. fittidda. Il nap. /«&, fetta, mostra nascere da una forma sincopata del dim.
fittula {vittida, cf. spalla =sijatula. Il significato proprio del latino vitta si manterrebbe
più vivamente sensibile nel dim. fettuccia, sardo fittichedda {*fetticella).
« Masone, m. log. Olii sett., branco, gregge, armento di grosse bestie. Voce fen.
viason (alimentum, pastus). » Anche qui credo s'abbia a ricorrere non al fenicio,
ma sì al latino, non potendo essere altro cotesto masone se non il lat. mansione, it.
magione; non ostante il genere mascolino che venne qiii a prendere questo nome in
sardo. Quantunque il latino mansione non abbia lasciato nei volgari odierni della
Sardegna, quanto a questa sua forma positiva, altra testimonianza che questa di
masone, in senso di gregge, ecc., pure è indubitato che questo nome era in quel-
r isola molto usitato ne' secoli di mezzo; e basta volgere un' occhiata agli antichi do-
cumenti sardi, così latini come volgari, per restarne capaci. Fra i molti esempj
ch'io potrei citare e dal latino e dal volgare di que' tempi, mi ristringerò a due
soli. L'uno, parte in latino e parte in volgare, in cui leggesi ripetutamente, per
la parte latina, mansionem e per la parte volgare musoni, a quanto pare, in senso
di casa, è l'atto di donazione fatto alla chiesa pisana da Torgotore o Torgo to-
rio, giudice di Cagliari, intomo all'anno 1070, pubblicato dal Muratori (Antiqu.
Medii ^vi, II, fol. 1053-55); l'altro, pure un atto di donazione, tutto in volgare,
fatto alla chiesa di S. Maria di Lozzorai dal giudice Salusio di Lacon, del sec. XII,
pubblicato dallo stesso Spano {Ort. sarda, 11, 89), dove leggesi et dau illoL... duas ma-
sonis de cabras et una masoni de jporcus, cioè : e dogli.... due branchi o greggi di capre e
un branco o gregge di porci; esempio notevolissimo in quanto qui masoni ha già preso
il valore di branco o gregge, ma viene ancora adoperato come femminino quale è il
corrispondente latino mansione. Dovrò io ancora aggiugnere che la forma del voca-
bolo è per l' appunto quale la richiede la grammatica storica del dialetto sardo , cioè
— 203 —
che come v. gr. prensione (da preliensionè) ha dato al sardo presone (log.) presoni (me-
rid. e sett.), pressioni (gali.), ìt. jprigione, cosi pure da mansione sono rispettivamente
venuti masone, viasoni, masgioni, magione.
Tre notevoli nomi di forma derivata, etimologicamente connessi col lat. man-
sione, ha ancora il sardo in masnatingu, masonada e masonza.
La glossa masnatingu, che lo Spano registra nel suo Voc. col significato di
«masnadiere» senza cercar punto d'accennarne l'origine, si trova nello Statuto
sassarese del sec. XIX (V. Tola, Codice degli Statuti della RepuhUica di Sassari, I, 7)
dove è detto: sergentes over masnatingos che risponde a, servientes aut armigeros del testo
latino. Questo vocabolo accenna manifesto alla forma fondamentale di *mansionatingo,
come l'it. (tose.) masnadiero a quella di mansionatario e vengono entrambi da *mahsio-
nata (masnada) ohe è come l'astratto di mansione o piuttosto il collettivo di cose at-
tinenti a mansione. Una forma rispondente come il sardo masnatingu ad un organico
^mansionatingo, ma più profondamente alterata, secondo esigeva la fonetica regionale,
si trova nella glossa pedemontana masnengo , servitore , famiglio , che s' incontra in
più documenti medievali e che al femminile registrata nel Ducange (Gloss. m. lat.,
s. masnengo) viene erroneamente interpretata per familia, in liiogo di serva , famula. '
Questa forma in ingo (engo) che nell'ambiente pedemontano è al tutto ovvia e natu-
rale, nel dialetto sardo riesce piuttosto singolare, perocché il suffisso ingo (engo),
d'origine germanica ed essenzialmente proprio dell' Italia superiore, è comparativa-
mente rado nella Toscana e quindi nella lingua comune , e si può dir quasi ignoto
all' Italia meridionale e quindi alle sue isole. "
L'altra forma- sarda derivata da mansione, come s'è detto, è masonada, viva nel
sardo logudorese e nel settentrionale, col significato di famiglia, figliolanza, quantità,
o, come si esprime lo Spano con modo tolto dal Malmantile, gerla di ragazzi. Questa
voce, rispondente al già toccato latino mansionata, è notevole non solo in quanto si
connette etimologicamente e formalmente aU'it. masnada, che si trova ancora usato
dagli antichi nel significato suo proprio di famiglia, ma a molte voci più o meno
analoghe di forma e significato, proprie dei dialetti italiani e francesi. Comincierò
dal notare l' ant. genovese »irts«àa delle Rime storiche d' anonimo, scritti d'intorno al 1.300
(1270-1320) dov'è detto: tal maire e tal masnaa, tal madre e tal famiglia {Ardi. Stor.
It. App., n. 18, p. 1^),^ fiioi aveva tai e tanti, masnà de servi e de fanti, figliuoli aveva
' Nel Ducange, ed. di Didot, si legge; « Masnenga, ut maìsnada, familia. Statuta astens. coli. 4, cap. 1" p. 16....
ncc raasnengas alicuius vel aliunde ortas quam de civitati astensi. Hinc masnengonus, vel masnengus, etc. >> È
troppo chiaro che qui si parla di servo anche non nate in Asti, E già s'intende che masnenijus non può venire,
come qui si direbbe, da masnenga che non può essere altro che il suo femminile. Quanto al masnengonus, citato dagli
Statuti vere, lib. V, fol. 122, V, credo si debba avere pei- errata lezione, trovandosi preceduta di tre linee da masnengo
e seguita di due da masnengiim, tutti e tre d'un perfettamente identico significato. D'altronde sarebbe forma mor-
fologicamente inverisimile.
■ La sola parola ch'io sappia di qiiesta forma in Sicilia è il nome locale di Sperlinga, che sola nel famoso
vespro non volle insorgere contro i Francesi. Sarebbe curioso il vedere se questa forma sia dovuta alla stessa
causa moi-fologica (che in parte s'avrebbe a dire etnica), a cui sono da recarsi i tanti nomi locali in-engo dell' Ita-
lia superiore.
' [Le antiche rime genovesi, donde son cavati quaesti esempi, furono poi pubblicate interamente dal Lago-
maggiore nelVArch. glott. it, II, 16Ì-312 e sono annotate dallo scrivente. Vili, IX,]
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tali e tanti , masnada (famiglia) di servi e di fanti (o. e. p. 20) , dove si vede masnàa
adoperato primamente in senso di figliolanza, poi in un senso non più tanto dome-
stico, ma tra quello di famiglia e quello che ebbe dipoi l' it. masnada. L'antico pro-
venzale conosce anch'esso la parola mamada, maynada (oggi meinà, fanciullo, meinado,
famiglia) in senso di famiglia, séguito di famigli, ecc., onde p. es. los paures son
maynada j^etita de Dieu, i poveri sono la piccola famiglia di Dio (Rayn., Lex.
rom. IV, 149); tal selinor, tal maynada, quale il padrone e tali i servitori; e l'antico
francese ha questo vocabolo sotto le varie forme di maignyè, maigniè maignée , mai-
snée, ìuesgnée, ecc. pure in senso di famiglia, onde per es. Voyant trop grievement
cliargée, Sa maison de trop de maignée, Mist sa jìlle en religion (Remi Belleac, t. II,
p. 154). L'odierno maisonnée, che metterebbe capo ad uno stesso tipo morfologico,
è una forma comparativamente recente, e sta alle antiche, quale sarebbe per es.
un it. *magionata dirimpetto a masnada. Anche lo spagnuolo ha masnada, mesnada
nel senso più comune dell' it. masnada. Il piemontese conserva vivissima la parola
masnà (var. dial. maina, magna, meinà); ma di nome collettivo ne fece uno di
significato personale; sicché masnà al singolare significa bambino, ragazzo e bisogna
il plurale per avere il senso di bambini, figliolanza. Questo significato individuale fu
verisimilmente causa, che questa voce, massime in quanto applicata a bambino ma-
schio, si facesse anche di genere maschile onde masnà venne poi ad usarsi promis-
scuamente ne' due generi senza riguardo al sesso. Il Diz. ven. del Boerio ha masnada
0 masenada in senso dell' it. masnada, brigata e reca masnada de fioi per molta figliolanza.
Viene in ultimo la citata parola masonza che vale p)orchetti colla scrofa (Spano,
Voc. sardo, s. v.) cioè propriamente branco (masone) di porcellini insieme colla madre e
mette capo a *masonia (= mansionea), presentando nella desinenza il fenomeno fo-
netico p. e. di vinza da vinea, ranzolu da araneolo [Cf. Ascoli, Ardi, gioii, it., II, 140].
Morfologicamente, in quanto s'appunterebbe in '^mansionea, da, mansione, il sardo ma-
sonza cade nella categoria in cui gl'italiani gramigna = graminea da gramen, stamigna
= staminea da stamen, carogna =■ caronea da caron- (gen. carnis da *carinis), ecc.
E poiché già tanto mi sono esteso a toccar della storia di mansione e de' suoi
derivati, giovi, per più compimento d'un inventario, dirò cosi, genealogico della
discendenza di tal vocabolo, dire ancora di qualche sua derivazione, quantunque il
sardo di per sé non ne porga occasione. Notevolissimo é tra i nomi di questa fami-
glia il fr. menage (antico maisnage meisnage, ecc.), rispondente ad un basso latino man-
sionaticìim; la qual parola significando propriamente il complesso delle cose relative
alla casa {mansione), il governo della famiglia, ecc., in qualche dialetto francese, con
trapasso anche più ardito che non nel piem. masnd, venne pure a significar bam-
bino, figliuolo; onde un poeta limosino dice: Se; so fenno, soù trei meinagei-Toà bravo
gen e toù bien sagei-Que de irei jour n'óvian minja-Semblòvan chi rat eicurja; vale a dire:
lui, sua moglie, suoi tre figliuoli, tutti brava gente e tutti molto saggi, che da tre
giorni non avean mangiato, sembravano cinque topi scorticati. (Faucadd, Poésies en
patois limousin, Paris, 1866, pag. 13). Il piemontese ha anch'esso cotesto nome nella
varia forma di mainagi, meinagi, menagi, prossimi di forma al prov. mainagi, dal
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quale forse è venuta la parola piemontese; dico forse; giaccliè non è improbabile che
sia di fondo proprio come si potrebbe anche congetturare dal meynatium degli sta-
tuti di Torino {Mon. liist. patr., voi. I , p. 706).
Notisi ancora come il napolitano abbia il verbo ammasonarese in senso di riti-
rarsi in casa, andare a dormire, coricarsi, ajjpollajarsi, accovacciarsi, rintanarsi;
ed ammasonaturo , pollaio , al qual proposito è da notare come ne' dialetti lombardi
m«son valga appunto poUajo, onde ancld a mason, andare a poUajo, appollajarsi. Il
siciliano aveva pixre anticamente ammasunu, pollajo, e insieme con masunata, fa-
miglia, ha ancora Aìnmascinni, nome d'un antica chiesa di Palermo (v. Pasqu. Voc.
sic, s. V.). Magione, Moscioni, Musone, Masona, Mason, Masuni mannu (sardo, già ma-
schile) e le forme derivate Masonaje, Masonazza, Masonera sono parte della toponi-
mia italiana (cf. Diz. geogr. postale, s. w.).
« Upuale, m. log. secchia, lat. aquale. » Questa etimologia si rende problematica
non solo dal lato fonetico inquanto, venendo da acqua (log. alba), dovrebb' essere ah-
hale e non upuale, ma anche e specialmente per l'esistenza d'una parola log. upu,
significante attignitojo, e che sarebbe impossibile derivare da aqua, anche pel signi-
ficato, e da cui non si può etimologicamente staccare upuale. Se poi upu e upuale
abbiano qualche connessione d'origine con umpire log., tmipriri mer., umpì, sett., at-
tingere, empiere, e umpiolu, log., secchia, non oserei né affermare, né negare. Osser-
verò solo come nel verbo s'abbia manifestamente un'alterazione del lat. implere, che
anche nel catalano è venuto a sonare umpUr; e come per conseguente, quando upu,
upuale vi si connettessero etimologicamente, il proprio loro senso sarebbe come dir
riempitojo che ben si confonde con quello di secchia, attignitojo. Il log. umpiolu ac-
cenna abbastanza chiaro ad una base *impleolo; ma l'assenza della nasale e la singo-
larità morfologica à!upu e upuale renderebbero pur sempre incerta la connessione di
questi vocaboli con implere. E incerta pur tornerebbe la connessione etimologica
à' upuale con un jjMfeafe, poiché jjwfeo sonando j^ufu nel logudorese, puteale dovrebbe
d.sxYÌ putale. Né credo valgano a tor l'incertezza, dal lato fonologico, \\ pou^=puteo
e la frequente vocale prostetica del meridionale, né dal lato logico e morfologico lo
spagnuolo posai, vas puteale, e il piem. putzaj {puteale), secchia, proprio d'al-
cuni dialetti monregalesi.
« Meda, aw. log. mer. molto, assai; agg. molto, molta, meda forza, molta forza.
In plur. di genere comune: medas homines, medas feminas, molti uomini, molte donne.
Meda meda, assaissimo. Voce ebr. meod (nimis). » Il sardo, così tenace dell'elemento
latino, non ha serbato la tradizione del nome multus, né dell' aw. viultum, e adoj)era
in loro vece la parola meda, che vale come avverbio, e come aggettivo fa per ambo
i generi al sing. meda, al plur. medas. Ma è da avvertire che il dialetto meridionale
adopera meda eziandio con significato di gran copia, il qual senso, non recato nel vo-
cabolario dello Spano, viene però registrato in quello del Porru; é importa assai
che si noti al nostro proposito. Cotesta voce e per la si;a singolarità etimologica e
per l'importanza che ha nel dialetto sardo, ben merita di essere chiarita, per
quanto é possibile, nella sua origine.
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Lo Spano, per quella sua troppa tendenza alle origini semitiche delle voci
sarde d'etimo alquanto oscuro, identifica il sardo meda coli' ebraico nieod, nimis. Ora
noi vedremo come la critica glottologica possa senza il minimo sforzo rivendicar
questa voce alla giurisdizione latina.
Meda, nell'ambiente sardo, accenna a primo aspetto ad un organico meta, verso
cui esso sta come per es. fedu (it. feto) a fetiis, seda a seta, ecc. Del resto è principio
elementare di grammatica storica il digradarsi della tenue in media, che principal-
mente fra due vocali ha luogo in volgari della famiglia italica, anzi neolatina, e se-
gnatamente nel sardo, dove noi abbiamo verbigrazia roda = rota, vida = vita, code
:^cote, nebode =z nepote , ecc. Adunque la relazione formale o materiale che dir vo-
gliamo tra meda sardo e meta latino sarebbe quale appunto s'aspetterebbe di trovar-
vela chiunque abbia anche solo una conoscenza elementare o superficiale delle leggi
di trasformazione della parola latina presso la gente sarda. Ma v'ha di più. L'ori-
ginaria forma latina si mantiene ancora intatta negli antichi documenti della lin-
gua sarda ; e io non citerò se non l' esempio d' afti-ros meta te.stes (altri molti testimonj)
che leggesi ben due volte in una carta del 1173, pubblicata dallo stesso Spano
{Ort. sarda, II, 89), dove la dentale tenue, come in moltissime altre forme dell'epoca
stessa, non è per anche surrogata dalla media.
Vediamo ora se come meda sardo s'identifica materialmente con meta latino,
cosi le due voci anche logicamente si possano connettere fra di loro.
Presso i Latini la parola meta dinotava principalmente, come ognun sa, quelle
tre pietre o colonne di forma conica o piramidale, rizzate ai confini del circo, in-
torno a cui giravano i carri. Ma un altro uffizio assai frequente di questo vocabolo
fu poi quello di significare un oggetto qualunque che, poggiato sopra più o men
larga base circolare, s'alzasse gradatamente restringendosi a foggia di cono. Quindi
è che troviamo i Latini aver detto ìneta ligìiorum, m. /ceni, vi. lactis, m. sacchari, ecc.
cioè meta ossia ammasso di legna, di fieno, di latte (rappigliato . ben s'intende), di
zucchei'o, ecc. per dinotare cotesti oggetti rispettivamente ammucchiati, accatastati,
foggiati a guisa di cono. E questo è appunto il significato che può dirsi essersi man-
tentito più o men vivo nel romano volgare, trasmesso senza interruzione a buon
numero degli odierni dialetti della famiglia neolatina.
E cosi nel nap. s' incontra la parola ìueta significante pagliajo, legnaja, bica, barca,
cioè quello che presso i latini era meta foeni, ecc. in quanto che non solo i Napolitani,
ma in genere i popoli dell' Italia media e meridionale rizzano i loro pagliaj a foggia
di cono o cupola intorno ad uno stile od antenna che i Toscani dicono anima del
pagliajo e con nome speciale stollo, barcile, metnle o mitule. ' Pei Romagnoli meda im-
' Quasi superfluo notare ohe l'aretino metiiU o mitiiU viene da meta,pvir proprio dei Toscani in senso di pa-
gliajo (Cfr. GrireRAKoisi , Siippl. ai Voc. it. s. v.). Trovo la prima di queste forme in un vocabolario lat.-volg. ms. di
Domenico d'Arezzo che fa venir questa voce da non so quale meditulum ! la seconda nel Voc. ar. pur ms. del Redi,
dicliiarata per ' lungo legno od antenna che si mette noi mezzo del pagliaio. ' Sono derivazioni morfologicamente
a.na.logìie a pedule, gam'iide, grembiule ecc., e di questa forma in iile è come deviazione o varietali meliillo perugino.
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porta catasta, quindi «iVZè (*rnedér, *mefcare), accatastare, abbarcare, abbicare. Nei
dialetti lombardi ed emiliani la parola meda (ferr. miccia) viene usata a significar
catasta di legni, di fascine, mucckio di letame, barca di fieno, paglia e presso i Pia-
centini massa di lino ammucchiata, perchè soggiaccia alla fermentazione, e anche nel
retoromanzo la voce meida (cfr. seida = seta) importa gran massa di fieno fittamente
ammontato. Nel trentino mea^meta, vale muccMo, e i derivati medi ^ *metatto (cf.
scout ^ scopatto , granatino) muccMo di fieno, smeaz^*smetaccio, lo stesso; e da meat
meattar = *metattare, ammuccliiare.
Meta, in quanto è venuto a significare mucchio di paglia o di fieno , ha pure i
suoi riflessi così nella lingua come in qualche dialetto di Francia. La voce meule di-
notante lo strumento delmuguajo e dell'arrotino risponde alla mola del latino e del-
l' italiano, ma in quanto dice mucchio di fieno o di paglia, etimologicamente non
ha più che fare né con mala né, come alcuni vorrebbero, con moles, ma sibbene col-
l'equivalente latino meta, di cui rende però la forma diminutiva, metida, venuta qui
a rappresentare il positivo, secondo che ciò si trova avere avuto luogo assai spesso
nella formazione delle lingue neolatine. Circa l'attinenza formale tra meule e metida
si possono confrontare p. e. l'ant. fr. seide con seculum, reide con regida, onde l'ingl.
rìde. Il primitivo meta è rappresentato dall' ant. fr. moie, ancor vivo oggidì in qualche
dialetto come p. e. nel piccardo e nel vallone (cf. Diez, Et w. 686, s. meule). Anche
lo spagnuolo e il portoghese hanno meda in senso di mucchio, castata, covone, e il
primo ne deriva il verbo medar, accatastare, ammucchiare, come pur medano o medano,
per miicchio d'arena nel mare, e il portoghese medào, per gran mucchio. Da questo
raffronto risulta, parmi, assai chiaro come il latino meta nel senso di cumulo coni-
forme dovesse essere assai vivo ed esteso nel romano volgare e come vi si sia gene-
ralmente conservato sì col senso originario e sì con quello più generale di muc-
chio, quantità, quale ho già notato essere nel meda del sardo meridionale, preso nel
valore di un sostantivo importante gran quantità {grandu cantidadi, Poebu, Diz. s.
meda); appunto quale suona anche per estensione in alcuni altri dialetti che l'ado-
perano più particolarmente nei sensi sovra indicati, verbigrazia nel milanese che
usa meda anche come semplice equivalente di mucc, monton (v. Banfi, Voc. mil. s. meda).
Ammesso dunque il nome meta significante mucchio, quantità, come ne' volgari
continentali, così pure in quello della Sardegna, non sapremmo vedere il pei'chò da
tale significato esso non abbia potuto prendervi il valore di molto , tanto come av-
verbio, quanto come aggettivo. E qui pure un raffronto di qualche voce di signifi-
cato originariamente analogo, passata a nuova significazione analoga, gioverà a ren-
dere anche più verisimile la fortuna a cui soggiacque la parola meta presso i sardi.
E sia la prima di queste voci massa che significando originariamente pasta, poi
pezzo di cacio , di metallo , di vetro , di marmo , venne finalmente a significar princi-
n berg. e frinì, medil é analogo al sinonimo harcile da barca. Con meta in senso di pagliajo si connettono più nomi
locali: Meta, Mutola, Meda, Meida, Medola, Medile, Metila ecc., fr. Meule. Una trentina di nomi locali abbiamo da Pa-
gliaja, Pagliara, Pagliero ecc.; e circa novanta da Fenile, Feniletto, ecc.
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palmente una quantità di qualsiasi materia riunita, e formante per cosi dire un corpo
solo. Or bene, la parola massa venne appunto ad avere un' analoga applicazione in
senso particolarmente di avverbio significante molto , troppo , cosi nel provenzale e
nel catalano, come in alcuni dialetti italiani e segnatamente nel veneto, nel friulano
e nel trentino. Abbiamo quindi nel provenzale: ricxrhom que massa voi U-aire, ricco
uomo che troppo vuole accumulare: massa parlatz., parlate troppo; ab massa d'aiitres
encombriers , con molti altri impacci (v. Ratnouabd, Lex. Bom. s. v.). Ne' dialetti ve-
neti, nel friulano e nel trentino, massa (friul. masse) ha valore d'avverbio e significa
molto, troppo, fuor di misura. Questa voce, in cotal senso, era già stata notata nel
dialetto veronese da Fazio degli liberti il quale nel Dittamondo (1. Yl, e. 13, t. 31)
diceva: Similmente Eliseo ancor trajjassa — Giordan col suo mantello che attor era, — Al
modo veronese, grosso massa. Al modo veronese, cioè per dirla come farebbero i Vero-
nesi. ' Adunque grosso massa, massa grosso (che oggi i Mantovani direbbero con tra-
sposizione d'accento massa gross), è un'espressione perfettamente analoga al meda
grussìi o russu dei Sardi. Ho già notato l'esempio di atteros vieta testes (altri molti te-
stimonj), dove, oltre la conservazione deUa dentale forte, è ancora da avvertire l'in-
declinabilità di meta, equivalente all'aggettivo plurale molti; che oggi direbbesi
medas testes. Cotesto antico costrutto viene ad essere del tutto analogo a quello,
ancor vivo oggidì nel francese, del sost. force, adoprato nel senso di molti e di molte,
onde non solo force gens, force monde, ma anche force sots, force moutons, force témoins
(meta testes); il quale /orce viene poi anche usato come avverbio col valore di molto,
come per es. in /orce bien, molto bene, valde bene.
G. Flechia.
' n Nannncci pone massa, in quanto viene adoperato da Fazio dei!li Dberti col significato di molto , tra le
voci e locuzioni ìlaliane. derivate dalla lingua provenzale, ecc.s.v., osservando clie, sebbene egli (Fazio) dicaesservoce
de' Veronesi , tuttavia fu prima de'Provenzali ; quasiché per andar da Eoma a Verona s' abbia da passar prima in
Provenza. E il Boerio nel Diz. veti, [e poi il Pirona nel l'oc, friul] mostra credere ohe massa [mosse], " troppo ', possa
venire dallo sp. mas che non ha punto a che tare con massa , ne pel significato né per l' etimologia, volendo dire
' pili ', ' mai ' ' ma ' e venendo insieme colle due ultime voci italiane dal lat. magis.
UNE FORME DE L'ARTICLE EOUMAIN
QUI SE MET DEVANT LES SUBSTANTIFS ET LES ADJECTIFS.
\ (DiALECTE DU DaNDBE).
L'article a, dans la langue roiimaiue, trois formes:
P''<^ forme. Artide qui est mis à la fin des substantifs et des adjectifs: lii,
l, le, pluriel i, pour le genre masculin; a, pluriel le pour le féminiii.
Il'- forme. Artide qui est mis devant les pronoms possessifs: al, pluriel ai
pour le genre masculin; a pluriel alle pour le féminin.
HI" forme. Artide qui est mis devant les substantifs et les adjectifs: al, plu-
riel ài, pour le genre masculin; a, pluriel alle pour le féminin.
On connaìt généralement les deux premières formes; mais on connaìt bien peu
la troisième, surtout à l'étranger. Celle-ci ne se trouve pas dans la langue ócrite,
mais seulement dans la langue parlée des villages.
Les éléments ethniques étrangers (Bulgares, Grecs, Albanais) ont tellement
abondé dans les villes, que certaines formes de langage, l'article mis avant les
substantifs, par exemple, ont presque disparu du parler des gens de la ville.
Nous devons ajouter toutefois que, méme dans les villes et dans la langue
écrite, l'article de la première forme est placò devant les substantifs, mais seule-
ment qtiand il s'agit du génitif et du datif des noms propres masculins. Ex.: casa
luì lon, la maison de Jean, disseì lui Petre, je dis à Pierre.
Les formes que nous allons signaler sont usitées par la population des villages
situés entre Bucarest et le Danube, dans le triangle forme par Bucarest, Giurgévo
et Oltenita.
Disons d'abord quelques mots de l'article que l'on emploie devant les pronoms
possessifs {IP forme). C'est-à-dii-e : al, pluriel ai, pour le genre masculin; a, pluriel
alle pour le féminin.
Al meù, le mien; al tei, les tiens; a nòstra, la nòtre; alle vòstre, les vòtres.
Cet article apparaìt dans le langage parie, comme dans les li\'res, dans les cam-
pagnes comme dans les villes.
— 210 —
Le langage écrit se sert aussi du datif de cet article: si disse allor sei. et il dit
aux siens. Mais ce cas est peu usité , méme dans les livres.
Voici le tableau de la IIP forme d' article précédemment signalée:
( singrd-ier «/, génitif et datif àV.ui,
Mascimu . , . , . .„ n ,.„ „„
' pmriel «ì, genitii et datii allor,
. . ( singulier «, génitif et datif allei ou àllii,
' pluriel alle, génitif et datif àllor.
Cette troisième forme est placée: a) devant les substantifs, et to) devant les
adjectifs.
L'article place devant les adjectifs est usité dans les villes et dans les campa-
gnes, mais non pas dans les livres.
L'article place devant les substantifs n'est guère usité que dans les campagnes ,
comme nous l'avons déjà dit.
a) L'aeticle place devant les substantifs.
Exemples: et vede tu candii te o i^'inde al vier, tu verras [ce qui t'arriverà]
lorsque t'attrapera le vigneron; — muiere, dà 'mi a sapà, femme, donne-moi la pio-
che, — ce s'a fàcut Marini — Sa dus in ài munti mari, qu'est devenu Marin? — Il
s'est en aUé dans les grandes montagnes; — unde 'ti sùnt cai? — Mi 'i a mdncat ài
lupi, où sont tes chevaux? • — Les loups me les ont mangés; — OrU mai lucra si alle
fete, les fìUes travailleront aussi (ou: on fera travaiUer les fìlles aussi).
n est à remarquer que l'on contraete les preposi tions cu, in, de, avec l'article
de la III® forme. A in si , de cu et al, il resulto cu-àl, et si la prononciatiou est ra-
pide, on entend col; de hi et ài il résulte 'nài; ' de de et ài il resulto d'ai; de cu et ài
il résulte cu-ài, et si l'on parie rapidement, on entend col.
Ces diverses contractious rappellent les col, nel, coi, nei, dal, dai de la langue
itaUenne.
Exemples: am f osta cu ài militar (prononcé rapidement col militar), j'ai été avec
le militaire; — fugi 'n ài munti mari (prononcé rapidement 'nài munfi) , il s'est enfui
dans les grandes montagnes; — vorbimù d'ai -macellar, nous parlons du boucher; —
se dusse cu ài berbeci (prononcé rapidement coi berbed) , il s'est en alle avec les mou-
tons; — cu alle oi (prononcé rapidement còlle ci), avec les brebis.
Hàtons-nous de dire que àl^ ài, a, alle jouent aussi le ròle de démonstratif
et correspondent à l'italien quel, quei, quella, quelle. Il en est de méme de l'allemand
der, die, das et du languedocien lou. Aìnsi ce dernier idiome dit: lou pastre, le
berger; — lou qu'es vengut. celui qui est venu; — lous d'Erepio, ceux d'Hérépian, etc.
' Ceci serait plutót une alliauce de deux inots avec oliute de la voyelle initiale da premier, qii'nne
contractioD.
— 211 —
H n'en saurait étre autrement, car l'article roumain qui se met à la fin des
substantifs (P''^ forme) tó, l, le, i, a, le, derive, ou, si l'on aime mieux, correspond
au démonstratif latin ille, illa, illud, ce qiù est reconnu mème pour l'article itali eu
il, lo, i, la, le et pour l'article provencal, fran9ais, etc.
_I1 n'en est pas moins vrai que dans les exemples cités plus haut.... candii te o
prinde ed vier.... dà 'mi a sapà, etc, al, a, ai, alle sont des articles, et non des dé-
monstratifs, comme l'imaginent certaines personnes qui n'ont entendu que le lan-
gage des villes.
Ce ne sont pas des démonstratifs, par cette raisou que, dans les exemples don-
nés plus haut, les substantifs précédés de l'article, les personnes et les objets dont
on parie, ne sont pas montrés, indiqués, ne sont ni présents ni visibles.
Ainsi, dans l'exemple: muiere, dà 'rm a sapà, l'homme qui demandala pioche à
sa femme, ne mentre l'instrument ni de près ni de loiu; il demanda simplement
« la pioche, » la piocha qu'il a, et que sa femme connaìt.
Lorsque l'homme raconte que ses chevaux ont été mangés par les loups , il ne
montre les loups ni de près ni de loin; il n'indiqua pas quels sont les loups qui ont
mango les chevaux.
Dans le langage des campagnards de la ragion dont nous nous occupons, cette
troisième forme d'article a absolument la méme valeur que l'article francais le, la,
les, que l'article italien il, lo, la, i, le, etc.
Dans les phrases roumaines citées plus haut, l'intantion de l'interlocuteur est
bien de se servir de l'article. S'il s'agit d'employer les démonstratifs, on dit : am fostfi
cu militaru alla, j'ai été avec ce militaire-là, avec le militaire que vous savez; —
fugì in munti àia mari, il s'est enfui dans ces grandes montagnes de là-bas ; — vorbi-
mù de viàcellaru alla, nous parlons de ce boucher-là, de ce boucher que vous savez;
— mi''i a mdncat lupi àia care a venit ast' nópte, ces loups qui sont venus cette uuit me
les ont mangés; — dà 'mi sapa aia de colo, donne-moi cette pioche qui est là; — dà
'mi sapa aia care sa rupté ien, donne-moi cette pioche qui s'est cassée hier; — Care
vierf — ài care s'a ìnsurat acnm, quel vigneron? — Celui qui s'est marie maintenant.
Nous devons dire aussi , que , dans le langage des gens de la campagne , l'emploi
de l'article devant les substantifs, donne beaucoup d'energie au discours; et c'est
surtout en cas de dispute, de contestation et de querelle que l'on a recours à cette
troisième forme d'article. En conséquence, il est moins usité dans le récit que dans
l'action et la couversation animéa.
b) L'article place devant les adjectifs.
Dans la langue parlée, ou dit: al Imi, la bon; — a rea, la mauvaise, laméchante;
— ài vecM, les vieux; — alle verdi, les vertes; — àlluì mie, au petit; — allei grasse, à la
grasse; — aliar ràpedì, aux rapides; — cu al negru (prononcé rapidement col negru),
avec le noir; — Il versa 'n al rosiu, il le verse dans le rouge; — se approprie d'àl calde,
il s'approche du chaud; — cu a rtdósà, avec la galeuse, la rogneuse; — pune-uà 'n a
— 212 —
fece, mets-là dans la froide; — a venit cu ài neyri (prouoncé rapidement coi negri), il
est venu avec les noirs; — a tnceput cu alle albe (pronoucé rapidement còlle albe), il
a commerce avec les blanches; — - intrd 'n alle noni, il entra dans les nouvelles.
Nous le répétons , c'est cette forme d'article qu'ou met devant les adjectifs qua-
lificatifs , dans la langue parlée de la Vallachie.
Dans la langue écrite, on emploie au contraire, une forme usitée dans quel-
ques districts de la Moldavie, mais qui en Vallachie, semble quelque peu factice; on
se sert de l'article cel, cea, cel, celle, qui correspond à l'italien quel, quello, quella,
et au languedocien aquel (provencal aqueu).
On écrit dono: cel mare, le grand; — cea grossa, la grosse; — cel albi, le blancs ;
— celle frumóse, les belles ; — cu cel naltù, avec le baut; — in cea déssà, dans
l'épaisse ; etc.
Voici le tableau de cette forme d'article:
( singuUer cel, génitif et datif cellui,
\ pluriel ed, génitif et datif celiar,
i singulier cea, génitif et datif celici cu ccllil,
{ pluriel celle, génitif et datif celiar.
Au parlement, au tbéàtre, devant les tribunaux, quand on fait des phrases
déclamatoires , on emploie cette forme d'article devant les adjectifs; mais on
sent bien que c'est empesé, guindé, serre dans le corset, génant.
Et comme dans les écoles on n'admet pas l'empiei de l'article ài, ai, a, alle de-
vant les substantifs et les adjectifs, un professeur de grammaire de Bucarest diete
aux élèves des phrases comme celles-ci; Stefan cel mare; Etienne le grand.... — cu cel
neqru, avec le noir.... — cea antica, l'ancienne.... etc.
Mais suivons le méme professeur chez lui. Sa femme lui demando : « Avec quel
paletot sortiras-tu demain? » Et le mari répond: cu al vecliiù (prononcé rapidement
colvechiù), avec le vieux.
Il ne dit pas: « cu cel vecìnù, », car sa femme le regarderait avec étonnement. Et
s'ils continuent leur conversation familière, nous leur entendrons dire : « A venit fe-
cioru popi. — Careì — al mare. Le fils du prétre est venu — Lequel? — le grand,
(l'aìné). »
Ainsi, le professeur dira comme tout le monde: al mare, a negra, ài verdi, alle
rosii, et non pas cel mare, cea negra, cel verdi, celle rosil, le grand, la noire, les verts,
les rouges, etc.
Il en est de méme pour l'adjectif alta, autre.
Dans le langage parie, on dit:
( singulier àl-lalt&, génitif et datif àlìm-lalta,
{ pluriel ài-lai fi, génitif et datif àllor-laM,
.' singulier a-laltà ou al-laltà, génitif et àa,tìf àUel-lalte ou àllii-lalie,
^ ' pluriel alle-lalte, génitif et datif àllor-lalte.
— 213 —
Et dans les livres, on écrit:
cel-laìtu, gónitif et datif cellm-lalta,,
pluriel cel-laìtì, génitif et datif cellor-lalti,
féininiu singulier cea-laltà, gónitif et datif celleì-lalte ,
fémiuin pluriel celle-lalte^ génitif et datif cellor-lalte.
Est-il plus euphonique d'employer devant les adjectifs l'article du langage parie
de la Vallachie al, ài, a, alle, ou bien l'article adopté dans la langue écrite: cel, ceì,
cea, celle?...
Nous allons apporter encore un élément au débat.
On a vu plus haut, que al, dì, a, alle ont aussi le ròle de pronom demonstratif.
Dans le langage écrit, nous trouvons naturellement cel, cei, etc.
Pour rendre la phrase « celui qui est veuu hier, » on dit en langage parie: ài
care a venit ieri, et dans le langage écrit: cel ce a venit ieri.
On avouera qu'il n'y a rien d'euphonique dans cette rópétition de la syl-
labe CE.
On rencontre dans les livres, des phrases corame les suivantes, où la syllabe ce
est encore plus fréquemment répétée: cel ce a fàcut cervi si pàmìntid, celui qui a fait
le ciel et la terre; — cel ce cercetédà, celui qui reclierche, qtù esamine; — cel ce pen-
tru Urrà mi scie se mòra (Bolintineanu) , celui qui ne sait pas mourir pour le pays.
Dans le langage parie, on dirait: al care a fàcut centi si pàniìnUd, ài care cercetédà,
cine ijentru tèrra nu scie se mòra.
On avouera que le demonstratif et l'article de la langue parlée sont plus eupho-
niques que le demonstratif et l'article adoptés jusqu'à ce jour dans les livres.
Encore une fois, l'étranger qui étudie la langue roumaine dans les livres, ne
rencontre que cel, ceì, cea, celle devant les adjectifs; il ne peut donc faire la connais-
sance de l'article ài, ài, a, alle.
Nous avons voulu lui servir de cicerone et l'aider dans cette excursion philo-
logique.
On sait que les verbes ont en roumain deus formes d'infinitifs, l'une terminée
en re, et l'autre sans re; aiusi, laudare et lenidà, louer; vedere et vede, voir; simtire et
simù, sentir, etc.
On sait encore qu'en italien on trouve lodare, vedere, sentire, etc, et que le dia-
lecte moderne du Latium (lingua romanesca) nous mentre les iufinitifs vede, sentì,
magna, etc.
Dans les temps des verbes qui, en roumain, sont composés d'un ausiliaire et de
l'infinitif, ■ on trouve tantòt une forme de l'infinitif, tantót l'autre. Esemples: 7ndn-
car 'ai foc! puisses-tu manger du feu! candii Si manca, quand tu mangeras.
En roumain, les infinitifs sont très-fréquemmeut pris comme substantifs ; en pa-
reli cas, le substantif est féminin, et non pas masculin, comme en fran9ais et en
itaUen.
— 214 —
Aùisi, on dit en roumain: cu venirea mea, avec mon arrivée, à l'occasion de mon
arrivée (littéralement avec mon venir); — la f acerea cassi, lors de la construction de la
maison {littéralement au faire de la maison); — jjunerea pietre-lor. la pose des pierres
(littéralement le poser des pierres).
'K la fin de ces infinitifs pris coinme substautifs, ou a ajouté l'article féminin de
la première forme a.
On peut se demandar maintenant si l'article féminin a est place quelquefois
devant l'iufinitif, au méme titre qua devant les substantifs proprement dits, les
adjectifs qualificatifs et les pronoms possessifs.
Nous avons entendn, — -très-rarement, il est vi'ai, — des phrases comma celle-ci:
Apol cu a venire a Dumitalle écà ce ai fàcut! Mais avec votre arrivée {littéralement avec
le venir de ta seigneurie), voilà ce que vous avez fait!
Demandons-nous encore: « Devant l'antre forme de l'infinitif, ne met-on pas
l'article «A.. Ne dit-on jamais a veni, a vede, a dice, venir, voir, dire?... »
On trouve, en effet, en roumain le verbe à l'infinitif dépourvu de la finale re,
et précède d'un a; ainsi, on dit: pentru a vede, pour voir; — pentru a ])uté dice, pour
pouvoir dire; et l'on considère cet a comme une préposition.
Mais examinons un peu la phrase a cumperà un cai nu e lucru greii, acheter un
cheval n'est pas ciiose diificile; (en italien, il comprar un cavallo non è cosa difficile).
Il semblerait que « est l'article féminin mis devant l'infinitif; a tieudrait ici la
place de l'italien il qui précède le verbe: Il comprar tm cavallo....
Nous troiivons cet emploi de l'article devant l'infinitif italien dès le XIII^ sie-
de. Ainsi nous lisons : « Più utile è l'acquistare degli amici che reame. » ( Volgarizzamenti
del libro di Catone, Milano 1829, pag. 96).
« Che 'l nominarsi V uomo savio è vizio di grande arroganza. » (Brunetto Latini, Ma-
nuale del Nannucci, 2'' ediz., t. II, p. 301-2).
« L'avere nelle miserie comjjagni suole essere grande alleviamento di quelle [miserie], »
(Boccaccio, Lettere).
Comme on le voit, il est permis de se demander si, en roumain, on ne pourrait
pas considerar Va comme étant l'article féminin de la troisième forme mis devant
l'infinitif.
Lors que l'infinitif a sa terminaison en re, il est facile de le compléter au
moyen de l'article final; vinderea unùì cai, la vente d'un cheval.
Mais lorsque cet infinitif a perdu sa finale re, l'oreille ne lui permet plus de
prendre l'article à la fin; on ne pourrait pas dire cumpèràa un ccd, acheter un che-
vai; on éprouve donc le besoin de piacer l'article devant l'infinitif, et de dire a
cumperà un cai.
L'article a joue, dans ce cas, en roumain, le méme róle que l'article italien il.
— A cumperà un ccd... en italien, il comprar un cavedio...
Le premier article peut ótre suivi d'un second article; ce dernier mis à l'ac-
cusatif. Dans ce cas, en italien, le second article est mis à la suite de l'infinitif;
et en roumain, il est mis après le premier article. Ainsi, on dit: Il comprarlo, non
— 215 —
sarehhe difficile, » et en roumain, <^ A'I cunvpérà, nu ar fi greti, » — « L'acheter ne
serait pas difficile, » ou « il ne serait pas difficile de l'acheter. »
Nous avons dit plus haut que cu al contraete et prononcé rapidemeut de-
vient col.
Dans d'autres circonstances aussi, w suivi d'a produit, en roumain, le son o, sur-
tout si les deux lettres sont prononcées rapidement. Omu alla, cet homme-là, se
prononcé en réalité om olla; — locu alla, ce lieu-là, se prononcé he olla; — Itiàmù,
nous prenons (le verloe est luare, derive de levare), se prononcé rapidement lomii.
Dans una, une, Vn ayant disparu, il est reste M, que l'on fait encore sonner en o.
Obédénabe
Membre correspondant de l'Académie roumaìne,
Membre de la Société pour Tétnde des Laugues Romanes
de Montpellier.
RECHERCHES SUR LiV CONJUGAISON ESPAGNOLE
AU XII^' ET XIV'^ SIECLE.
Le futur et le conditionnel.
La cliute de la voyelle protonique clans ces cleux teiiips est régulière en ancien
espagnol , tandis qua de nos jours l'infinitif n'apparaìt mutile qua dans liabre
liabria, cabré ca'bria, haré haria, podré podria, pondré pondria,
qiierré querria, sabre sabria, tendré tendria, valdré valdria, dire di-
ria, saldré saldria etvendré vendria.
Conjugaison en -er.
aver aber : avré abré, avrie abrie.
arder : ardrà Signos 21.
beber : bevràs Alex. 862; bevràn Alex. 2202; bebrien S. Millan 245; bevrien
Alex. 1986.
e aber : cabré cabrie.
cader : cadré Milagros 764; cadrà Alex. 1B12, 2195; cadràn Cid 3622; cadria S.
Oria 121; cadrias S. Dom. 429; cadriamos Loores 217; cadrian Loores 83;
carria Alex. 81.
coger : codremos S. Laur. 69.
corner : combré Cid 1021; combràs JR. 1137, 1138; corabredes S. Dom. 376, 459, JR.
751; combràn Ditelo 53; combrie «Si. Dom. 355, Apol. 66, JR. 89; combrian
JR. 755.
conte e er : contezria Loores 27.
contender : contendra Alex. 2195; contendremos »S'. Dom. 288; contendredes Mi-
lagros 716.
crecer : cre9rà Cid 1905, cre9renios Cid 688, 1883, 2198.
defender : defendrà Alex. 628.
dever : debria Milagros 760; devries S. Laur. 66; devrias Alex. 467; debria Loo-
res 73; devria Apol. 536, Alex. 210; devrie Apol. 293, Alex. 617, FG.hM;
devryemos FG. 204 ; debrien JR. 104.
28
— 218 —
entender : eutendrà Milagros 180, Alex. 2344; enteudremos Loores 142, Milagros
498; entendredes Milagros 431, 432, Apol. 182, 372; entendràu Sacrlf. 58,
Signos 66, Alex. 69; entendries S. Doni. 431, J.j>oL 497; entendrie Milagros
420, ^poZ. 146.
esconder : escondrie S. Millan 240.
fer : fere ferie dam le P. <ln Cid (fare 108, 819, 2227, 3479); dans les autres textes
toujoiirs fare farla '.
merecer : merezria S. Oria 200.
in e ter : metré 3fE. p. 311 a, Alex. 369, 924, 926; JR. 1064; metrà Sacrif. 206,
Milagros 765 ; metràn Signos 42 ; metrie S. Dom. 200 , Milagros 467 , Apol.
19; metria Apol. 28; metrien S. Millan 413.
moler : moldrie S. Boni. 659.
mover : movrà Ajwl. 100.
parecer : parezré Loores 176; pare9rà Cid 1126.
pender : despendràs ME. p. 312 a, espendremos S. Dom. 487.
perder : perdràs Ajwl. 583; perdredes Sacrif. 297, S. Oria 74; perdrias S. Oria
158; perdria Sacrif. 210; perdrie Milagros 14; perdrian Loores 15.
plazer : plazrà Milagros 215, ^Ze*. 56; ^jlazrie S. Dom. 680.
poder : podré podrie.
pener : pondi'àn Cid. 1666; porre Milagros 658; porràs *S'. Millan 87; comporrian
Duelo 171 ; porne xlZea;. 2283, JR. 552 ; poma S. Dom. 722, xlfe. 739; por-
nemos Alex. 189; pornàn Alex. 2173; pornie Alex. 1089.
prender : iDrendré Duelo 106, Cid 503, J.^o/. 12, 388, ME. p. 318 b; aprendx-é Alex.
4A; prendràs Milagros 479, 609, Alex. 50, 547; preudrà Cid 386, Apol. 319,
390; aprendrà aS. Millan 2, .4Zea;. 3, prendremos Milagros 54; prendràn ^.
-Dowt. 501, Loores 64, Signos 43, Milagros 794, ^?ea;. 69; prendrie & i>om.
582, Milagros 89; prendria il£B. p. .SCS» a.
querer : querré querria.
rremaner : rremandràn Cid 2223.
rrender : rrendré Cid 2582 ; rendriedes ^S'. Millan 402.
responder : respondrà Loores 186; respondremos S. Laur. 35.
roer : rodré JR. 1405.
saber : sabre sabrie.
seer : sere serie,
tanner : tandrà Cid 318.
tener: tenrrie S. Laur. 105; terre Milagros 46; terràs S. Dom. 237, S. Laur. 72,
S. Oria 135; terrà S. Millan 117; terredes Milagros 1; terrie ,S'. Dom. 676;
terria /S. Dom. 17(5, 205, /S". Zaier. 13, 41, Alex. 42; terriedes S. Dom. 510;
terne ;S. Dom. 146, 760, CwZ 450, 3049, Apol. 357, ^Zea-. 5, 205, 377, JR 552,
' Ce futnret 06 oonditionnel ne sont pas des comiiosós do fazer, mais de far=dar et ostar. Fer a in-
fliiencé deràn (UE. p. 3t'i a), qui n'est pas nccessairoment une forme coriompue.
— 219 —
M. des rois mages 19 '; terna Signos 15; ternedes Alex. 725; tcrnàn Signos 59,
Alex. 649, 1290, 18()5; temie S. Doni. 661, ApoL 526, Alex. 248, 864;
tevnia. S. Dom. 742, Signos 34, J/e.«. 133, 2091, FG. 594, .//^. 717; ter-
nian FG. 202.
toller : tolrey Alex. 791; tolrrie Alex. 1714; toldria 4^jo/. 526; toldrie Alex. 1073.
treverse : me trevi'ia Milagros 45.
valer : valdré valdiie; valrria Alex. 62.
veer : vere verie.
ven9er : vencremos Cid 2330; venzrien S. Millan 412.
yazer : yazràs S. Oria 128; yazrà S. Dom. 723; yazremos Loores 185; iazredes Cid
2635; yazràn Loores 183; iazrie S. Dom. 318, 622, Milagros 366; iazria Mila-
gros 815, 827; iazdrie Milagros 203; yaria .4?ea3. 2094.
Les exceptious suivantes s'expliquent par l'eupliouie qui a voulu éviter l'accu-
mulation des r:
acorrerà Alex. 689 "; correràn Signos 22 ; acorreryas FG. 544.
cresceràn S. Dom. 755 '; descreceràn Loores 183.
creerà ifi/a^j-os 534; creeremos Milagros 'Òli; creeràu Sacrif. 53; creeria Milagros
643, Alex. 629; creyeria A^ol. 221.
morreredes Alex. 492 et morrerieu Alex. 910 sont des formes introduites par l'un
des copistes du poeme.
perdere Cid 1022, JB. 165, 166, 566; perderàs Cid 632, 633, JR. 1227; perderà
Cid 1389, Apol. 466, JR. 663 ; perder edes Cid 1530, i^6*. 443; perderàu Alex.
1182, 1290, FG. 242, Ji?. p. 226 6; perderle Cid 27; perderla i^G. 539, JR.
662, 734; perderiemos Cid 45 '.
prenderas ifi?. p. 312 a, Alex. 735; prenderedes FG. (330; apreudei-ia 4?ea;. 18,
mais pent-étre que l'origiual portait: elli mas aprendria.
romper ien Alex. 930, 2176.
estorcerien Alex. 1854-
traeré JR. 692, 905; traeràs S. Millan 268; trayeràs ME. p. 316 b; traerà i^<7. 407.
tremerà Signos 15; tremeràn Signos 63, ME. p. 314 a.
[me] treveria Milagros 787.
volveràs JR. 1138 et volverie xlfex'. 901, s'expliquent également par une raison
d'euphonie.
' Gite d'après la réimpression de K. A. Martin Hartmann . Ueber das altapanische Drtik'ónigsapiel , Bautzen 1879.
- Le vers est corroinpu. Au lieu de Enton(;;es nos acorijerà, 1. Entonz acorrerà.
^ E crescerai! cutiano.
* Aussi est-ìl peut-étre permis de lire perderemos au lieu de perdremos, .S'. Lanr. 68, quoique Berceo ait
ailleui'S les formes abrégées. Mais il vaut mieux lire : |E] nos non lo[sJ perdremos.
— 220 —
Il ne reste cl'exceptions réelles qua les suivantes qui prouvent qne qnelqnes
luies des formes modernes remontent déjà au treizième siècle:
averà liois mnges 101; averliiau Alex. 2255'.
aborreceràn JR. p. 226 b.
asconderian FG. 668.
caeràs Milagros 261; cayeràs Apol. 409; caeredes Alex. 768; caevia S. Mìllan 419.
descogerà JR. p. 226 h; escogera JR. 574.
fales9erias FG. 398.
gradesceria FG. 285.
mere e era ME. p. 307 h.
ofreceremos Roh magcs 70. Le vers exige cefcfce forme: Oro, mira i acenso a el
ofrec[e]remos.
pertenecerà Rois mages 74.
planyeré A^wl. 444.
quet[e]rà Rois mages 71. Le vers exige cette forme.
sab[e]remos Rois mages G9 , mais sabre 10, 29.
temerà S. Dom. 161.
venceràs FG. 404, JR. 492: ven(;eremos Alex. 800, 1283, 2111; venceredes Alex.
1917, daus des hémistiches corrects.
Les copistes cut souvent remplaeé les formes syneopées par celles qui leiir
étaient plus familières, de manière qu'un grand nombre de passages doivent étre
corrigés:
Alli lo eiitenderemos (/. entendremos) que tiene mala manna, <S'. Ihm. 96.
Guaresceré (l. guarezré) por el ruego de los tns paladares, 8. Dom. 776.
Cansariemos en medio, perderiemos [l. perdriemos) la soldada, Sacrif. 136.
Estonce conosceriamos (Z. conozriamos) eom(mo) somos engannados, Loores 188.
En el segundo dia parescerà (/. parezrà) affondado, Signos 7.
Averau (/. avràn) fambre e frio, temblor e callentura, Signos 88.
Entre sus corazones averàn (l. avràn) niuy granfe ardura, Signos 38.
Contecerà (l. contecrà) eso mismo a los malos merinos, Signos 45.
El cuerpo y el alma yaceràn (/. yazràn) en refrigerio, Signos 53.
Aberàn (/. abràn) vida sin termino , nnnca an de morir , Signos 54.
Paresceràn (/. parezràn) las paredes que fueron mal tapiadas, Signos 71.
Los dias son non grandes, anoche^erà (l. anoehezrà) privado, S. Oria 10.
Pei'deràs (Z. perdràs) està tristicia e està crueldat, Aj)ol. Ali.
Que. XXIII, lobos comerian (combrian?) un moton, Alex. 100.
' Ij» vers exige octte formo qui sans doutu peiit. étre corrompilo. Gomme averi
jecrois. perpiis de lire averàn au lìeu de avrtln. AU.r. 165B.
— 221 —
Perderà (Z. perdrà) toda braveza quand(o) yo en al soviere, Alex. 102.
Non me venzeria {l. venzria?) por armas nin por cavalleria, Alex. 642.
Mientre ombres ovier, non caerà {l. carrà, cf. 81) en olvido, Alex. 674.
Quando esfco viessen, perderien {l. perdrien) seso e tiento, Alex. 698.
Quienquier los connoscerie (l. connozrie) qite eran companneros, Alex. 808.
Verien quales a quales conuoeerien (l. connozrien) meioria, Alex. 887.
Ant(e) perderien (l. perdrien) las cabecas que non los coracones, Alex. 930.
Et se a otre la diesse que parecerie (/. parecrie) mal, Alex. 108B.
Et ques perderien [l. perdrien) los suyos que eran por llegar, Alex. 1275.
A duro entenderie {l. entendrie) la lengua de Yconia, Alex. 1355.
Que por nengmia guisa de muert non estorcerien (/. estorcrien), Alex. 1425.
(Ne) nacioron ne naceràn {l. uazràn), cuydo dezir verdat, Alex. 1858.
Que non entenderie (l. entendrie) omne do furan aiuntados, Alex. 1962.
Quienquier lo entendei-ia (l. enteudria) que lo avien a veras, Alex. 2025.
A mi faredes proe, vos non perderedes (/. perdredes) nada, Alex. 2509.
Sy querian yr a ellos o sy los atendeiian (Z. atendrian), FG. 202.
Venzeremos (/. venzremos) los poderes del rrey Almocorre, FG. 223.
Que venceremos (l. vencremos syn duda el moro AlmoQorre, FG. 225.
Venceràs {l. vencràs) todo el poder del moro Almocorre, FG. 238.
Conosceredes (l. conocredes) a donde diestes (el) vuestro ospedado, FG. 247.
De tus buenas conpanuas muclias ay perderàs (l. jjerdràs), FG. 404.
(Los) Moros quando nos veyeren, perderàn (/. perdràn) el coracon, FG. 407.
Venceremos sy esto tii faces {l. vencremos si lo faces) a est(e) bravo leon, FG. 414.
Antes averàn {l. avràn) de mi los moros mal mercado, FG. 546.
Meteredes (l. metredes) grandes duelos en vuestras ve9Ìndades, J^G*. 555.
*Sy yo fuese rey commo tu, ya vengado lo averya (l. avria), FG. 578.
"Fablarian e prometeryan lo que por bien toviesen, FG. 581.
Porend(e) non nos perderemos {l. perdremos) amos en el coudado, FG. 644.
Los cuerdos con buen seso entenderàn {l. entendràn) la cordura, .JF. 57.
Et non perdere (/. perdré) a Dios nin n su paraiso, JR. 163.
Diziendole de mis coj^tas, entenderà (l. entendrà) [la] mi rencura, JF. 626:
Usando oyr mi pena, entenderedes (l. entendredes) mi quexura, JR. 649.
Yo entenderé {l. entendré) de vos algo, (et) oyredes las mis razoues, JR. 651.
Que qual es el buen amigo por las obras parescerà (l. parezrà), JR. 657.
Mas est(e) vos defenderà {l. defendrà) de toda està conti enda, JR. 729.
Vos cantad en voz alta, responderàn (l, respondràn) los cantores, JR. 745.
Ofreceremos (l. ofrecremos) cabritos los mas e los meiores, JR. 745.
Casamiento que vos venga por esto non lo perderedes (/. perdredes), JR. 853.
Ca tu entenderàs (/. entendràs) uno, e el liblo dice al, JR. 960.
Beberia (/. bebria) en pocos dias cabdal de buhon rico, JR. 987.
El tercio de tu pan comeràs (l. combràs) o las dos partes, JR. 1139.
Por la tu grand loxuria comeràs (/. combràs) muy pocas desas, JR. 1140.
_ 222
El viernes pan e agua comeràs (/. combràs) e non cozina. JB. 1142.
Por tu envidia mucha pescado non comeràs {l. combràs) , JR. 1143.
Non te nos defenderàs {l. defendràs) en castillo nin(en) miiro, JR. 1166.
Dezian a la Quaresma: Do te asconderàs (/. ascondràs), cativa?, JR. 1172.
Diz: asim(e) contesceria (Z. contezria) con tu conseio vano, JR. 1321.
Al que el estiercol cubre mucho resplandeceria (Z. resplandecria) , JR. 1363.
Non temerle (/. tembrie) tu venida la carne humanal, JR. 1527.
Venceremos {l. vencrenios) a avaricia con la grada spiritual, JR. 1565.
Con esto venceremos (Z. vencremos) ira, et habremos de Dios querencia, JR. loGO.
Conjugaison en -ir.
comedir : se comidràn Cid 3578.
conquerir : conquerrà Alex. 13.
dizir : dizré S. Doni. 136, Frammento 3'; maldizré Fragmento 25; dizremos S. Mi-
limi 377, 401, Rois mages 78', 92; dizredes S. Dom. 335, S. Millan 365, Mi-
lagros 606; dizràn Milagros 773; dizrie 8. Dom. 55, Milagros 181, 627;
dizria S. Millan 71, Milagros 224, 583; dizrien S. Dom. 232; dirà S. Oria 204;
diràn Loores 116, Sacrif. 42, Signos 14, 42; diriamos S. Dom. 752; diriades
S. Dom. 759. Dans les autres textes dire, dirle (deredes= diredes Alex. 130;
deria = dirla FG. 474).
ennadir : enadràn Cid 1112, en[a]dró Alex. 925; enyadrie Apol. 398.
fallir : faldrà Ajjol. 417;faldràs Alex. 358, mais le vers est corrompu, cf. vv. 262, 379:
l.: Quanto en el juyzio sé que non falliràs ou fallecràs; faldrie S. Millan 195.
ferir : ferredes Cid 1131; ferràn Alex. 61; ferria .4Zea;. 638.
guarir : guarrie S. Dom. 295; guarria 8. Oria 155.
issir:iztremos 8. Millan 327, 8. Lanr. 92; istrie 8. Millan 209, Milagros 337.
mentir : mintré 8. Oria 154, Apol. 232, cf. mintroso; mentrie Alex. 775.
morir : morré Milagros 634, 752, FG. 546, 595; morràs 8. Millan 287, JR. 1432;
morrà Apol. 305, Alex. 629, JR. 121; morremos 8. Dom. 755, Cid 2795;
morredes FG. 631, JR. 811, 1505, 1551 ; morràn 8ignos 20; morria JR. 667,922.
odir : odredes Cid 70, 138, 684, 1024, 3353; ondredes Cid 3292.
oir : oiràs 8. Orla 150 (Oria, abre los oios, e oiràs buen mandado) ; oyrà Loores 214
(Filo lo às e padre, oyrà los [tus] clamores), JR. 1170 (Si muy sorda non
fuere, oirà nuestro apellido); oyremos Loores 103 Oyremos tales nuevas con
que nos gozaremos), JR. 1165 (Oyremos la pasiou, pues (qua) valdios esta-
mos); oyredes FG. 372 (Oyredes Io que fico al conde tolosano), JR 1155
' t'raijmeiito de, un ]>oema caslcUano iiutigiio publié par Octavio uè Tolkdo, Xeitschrifl fin- roiii. l'hilologie 1878.
p. 60-62.
' Lo teste porte dizoremos, mais le vers exige dizremos.
— 223 —
(Vos oyredes [la] misa, yo rezaré rais salmos); oyriedes Sacnf. 107 (oyrie-
des razones que vos faràn piacer); oyrian FG. 310 (Non oyrian otra voz
sy non astas quebrar) '.
partir : partremos Milagros 393.
pedir : pidré JR. 561; pedrie Alex. ll'iCi.
recibir : reoibré Apol. 253; recibràs S. Millan 89, Apol. 389; rccibrà S. Doni. 731 ',
Milagros 257; re9Ìbremos Apol. G51 , Alex. 2062; recibredes Svjnos 32; reci-
bràu ME. p. 307 a; recibrie S. Doni. 21, Mihujros 94; recibria Apjol. 471.
reir : reirian JR 855 (Non la colgarian en (la) plaza, nin reirian do lo que diz).
repentirse : so repintrà Cid 1079; nos repentremos Alex. 685.
salir : saldré, saldria; salrria JR. 662.
seguir : conssigrà Cid 1465; sigremos Alex. 2131.
sentir : consintré JR. 654; consintrà J"i?.539; consintràn Cid 668; sintrie ^S'. Doni. 610,
Milagros 152, Duelo 59; conseutria JR. 1384.
subir : subria Loores 97, S. Oria 50.
venir : nos avendremos Cid 3166; vendràn Alex. 72; venrràn Ajjol. 101; verrà Mila-
gros 390; verria Loores 14; verné Milagros 737, JR. 841; averne JR. 552;
vernàs Cid 2622; verna Loores 133, 170, Signos 13, 14, 26, Cid 532,
2987, Aj)ol. 515, 581, Alex. 1286, JR. 657; vernemos Loores 170; vernàn
aST. Doni. 243, %)ios 3, 16, 24, Milagros 169, Cic^ 1280, i^G. 407; vernie
S. Doni. 207, Cid 1944, J^w?. 369; vernia ioores 34, JR. 567, 1035; vernien
^te. 900, 1297.
vivir: vivré Milagros 297, Alex. 41, bivràs JjjoZ. 102; vivràs JR. 234; vivremds
Loores 185, ^Zecc. 232; vivredes Signos 30; vivrie /S. Dom. 172; vibria S. Mi-
llan 43; vivria Alex. 1770, 2214 '; vivrian Alex. 2184.
Des verbes tels qiie abriré, cubriré, conipliré, sufriré, étaient de leur
nature incapables de perdre la voyelle protonique. Dans les suivants c'est l'eupbo-
nie qui a maintenii l' i :
,destru|iran S. Millan 287; destro|yràn Alex. 1689.
escarniremos Cid 2551, 2555.
gradirà Milagros 189.
partire ME. p. 311 a; partirà Cid 1106; partiremos Cid 1055, 2716, Reyes de Or.
p. 320 a; departiràn Cid 2729.
' Oyrà paraìt compter pour trois syllabes, Alex. 1218, mais avec ce mot le passage ii"a pas de seiis:
Veerà dolor doblado qual nunca fue oydo,
Qual oyra (I. probablement oviera) de ti la quo te ovo paride.
Je ne crois pas non plus que oyra soit le plus-que-parfait.
■' Au lieu de r ei;. ibr a mal g alar don 1. peut-étre avrà m. g.
* Le vers est fautif; 1. La una sen la otra ya [mas] nunca vyvria.
224
primirien Ml/u<jr<it< 242.
servire ME. p. HU a; serviremos Cid 622; sirvirie JR. 1403.
Les exceptions sont :
fallire Alex. 362; fallirian Alex. 379; falliràs semble devoir étre rétabli dans le
vers suivant de VAlex. (358): Quanto en el juyzio sé que non faldràs.
fu|yran Loores 183.
ixiria S. Boni. 101; exirie Alex. 2030.
morirle Carta 1.
salirà JR. 485.
seguiràn JR. 1671.
subirà iSignos 5.
vanirà FG. 625.
Il y en a d'autres très nombreuses dans les vers suivants dans les qnels les for-
mes syncopées sont à rétablir :
EUos con el tu filo partiràn (l. partràn) los gualardones , Loores 165.
Allis(e) partirà (l. partrà) por siempre mentii-a de verdat, Loores 170.
E dissoli por nuevas que paiirie {l. parrie) a Messia, Milagros 53.
Mas vivré con rancura, morire {l. morré) con repentenca, Alex. 41.
Exirà {l, Istrà) Grecia de premia, tu ficaràs ondrado, Alex. 74.
Exirien [?] del cavallo los que serien encerrados, Alex. 697.
Salvaredes a Grecia, el muudo conquiriredes (/. conquirredes) , Alex. 725.
Ante morrerien {l. morrien) todos fasta[e]l postremero, Alex. 910.
Morreredes {l. morredes) de tal mano que vos deve plazer, Alex. 1207.
Nunca sentirà {l. sentrà) beudez qui la ovies tannida, Alex. 1323.
Dizerté quet(e) contyrà (/. contrà) sem(e) non quisieres (/. quieres) creer, Alex. 1764.
*A1 menos XXX cavalleros de mas [yo] non mentirla (/. mentria) , Alex. 1814.
Mentiriemos {l. mentriemos) se dixiessemos que non avie dolor, Alex. 1930.
Non ferirle {l. ferrie) mas apriessa pedrisco en taulado, Alex. 2066.
Que non morirla (Z. morria) por esso ante del posto dia, Alex. 2088.
Mas destaiado era que en mar non morirla {l. morria), Alex. 2146.
Nunca sentirà (/. sentrà) teniebra, fnen) frio nen calentura, Alex. 2174.
Matartàn traedores, morreràs [l. morràs) apoconado, Alex. 2327.
Sennor, los tus criados aora nos partiremos {l. partremos), Alex. 2485.
Non avràn ningun miedo, visquiràn {l. vivràn) en tus posadas, FG. 62.
Visquiran {l. vivràn) por està guisa seguros [e| en paz, FG. 66.
Que gela conquereryan {l. conquirrian) , mas non lo bien asmavan, FG. 133.
Caer o levantar, ay lo departiremos (/. departremos) , FG. 222.
Non me partyré (/. partré) de ti en todos los mis dias, FG. 398.
— 225 —
Moriredes (l. morredes) commo malos, la terra perderedes, FG. 443.
Et que partirias (/. partrias) con pobles et non farias fallen9Ìa, JR. 240.
Non la consintirà (l. consintrà) fablar contigo en poridad, JR. 617.
Coracon, por tu culpa vivìràs {l. vivràs) vida penada, JR. 760.
Bien sentina (l. sintria) tu cabeza que son viga (de) lagar, JR. 992.
Perdonastes mi vida, e vos por mi viviredes (l. vivredes), JR. 1406.
Remarque.
Lors méme qu'il arrivo assez fréquemment que un ou deux pronoms aéparent
l'inflnitif et l'auxiliaire comme dans fer lo lié, facer lo he, dezir te lo lié,
dezir vos é etc. , on peut dire que la composition ou l'union de l'infinitif avec
l'auxiliaire est parfaite. Mais il y a des cas où la composition ne s'opère pas, c'est
quand l'auxiliaire précède l'infinitif ou qu'il est à un autre temps que le présent
ou l'imparfait. En latin, comme on sait, la place des deux éléments n'était pas
fixée. Dans les écrivains classi ques et dans ceux de la décadence habeo suit ou
précède indifféremment l'infinitif, ainsi que le montrent les exemples de R. Kùhner,
Ausfiilirlicbe Grammatik der lat. Spraclie, II, p. 496, et ceux de Eònsch, Itala
und Vulgata, p. 447-449. La méme liberté se retrouve dans les exemples bas-latins
cités par Diez, Gramm., Ili p. 237. De cette construction nous en avons des dé-
bris en ancien portugais, et je crois devoir l'admettre aussi dans les passages sui-
vants et dans d'autres qui se corrigent le plus aisément en la rétablissant.
Mucho de mayor precio a seer el tu manto
Que non sera el nuestro, esto yo te lo canto, S. Laur. 70.
Por el tu guyonage avemos arrivar
Et de aquellas ondas tan fuertes escapar, Loores 197'.
El Campeador a los que han lidiar tan bien los castigò , Cid 3623.
Oy a seer el dia que lo às de provar, Alex. 1526.
Qual galardon espera, en cabo ha (de) recebir.
Se mala vida faz, mala la ha padir, Alex. 1651.
Cuntan las escrituras un [muy] sabido canto
Porque an los infiernos prender muy grant espanto. Alex, l'ili .
Prophetaba la cosa que avenir avie. S. Doni. 284.
' Quoique je regarde cet exemple comme assuré, je dois sigualer la possibilité de lire ar
Milagros ^Sì e ribadas S. Oria 43.
— 226 —
Todos avian el cuerpo de Christo rescebir, Sacri/. 285.
Cnenio fazer avieu, estavan ya faladoa, Alex. 1537.
Cuemo es la natura de los omnes carnales,
Que ante de la mnert sienten puntas mortales,
Ovo el Sancto padre sentir iinas atales, S. Doni. 490.
Sii passò 0 sii plogo , triste e desmedrido ,
Ovo del pleito todo venir desconnocido, Milagros 696.
Un ricombre que mal sieglo pueda alcancar
Ovos de la reyna tanto enamorar , Alex. 148.
Pero tanto ovioron contender e buscar
Fasta que lo ovioron en cabo a fallar, Alex. 2082.
Hobe con la grand coita rogar a la mi vieja, JR 903.
Gommo se nos ovyera todo esto olvidar, FG 221.
Siempre faz con conseio quanto que ter ovieres, Alex. 48.
Oviessen Iiy las pasciias por siempre celebrar, Alex. 1949.
Lo que yo non querria abré(lo)aqui passar, S. Dom. 51.
La méme construction me parait devoir étre rétablie dans d'autres passages
modifiés par les copistes pour qui elle était vieiUie. C'est du moins la correction la
plus aisée et la plus vraisemblable dans les vers que voici :
Lo que debia él dar, (viene) de mi a recebir, Loores 44.
Si às(a) enflaquecer (mais onpourrait lire enflaquir), mas te valrria morrer,
Alex. 62.
El bien d'aqueste muudo todolo à(a) perder, Alex. 726.
Cuemo omnes que tal cosa, ciertamiente an(a) ganar, Alex. 744.
Quanto gana el omue, todo lo ha (de) dexar, Alex. 1646.
pues non as(de) pelear? FG. 51.
AUi lo avian(a) aloar, non en otro lugar, Alex. 176.
Quando primieramiente venist(i) en est(e) logar,
Non te paguesti delli, ovistilo (a) dessar, S. Millan 114.
227
Ovo quando les quiso el Criador (a) prestar, Alex. 691.
Ovo està fazienda XV dias (a) durar, Alex. 1903.
Onde ovioron (a) caor enna su maldicion, Alex. 1944.
Vuscandol(o) por Espanna, ovyeron lo(de) fallar, FG 30.
E ovyeron por tanto las Asturias (a) linear FG 82.
Ovyeron le entrramos al traydor (de) matar, FG 649.
Esas oras (1. Essora) ovo el conde centra Leon (de) mover, FG 726.
Tableau des conjugaisons en ancien espagnol.
Indicatif présent.
canto
vendo
meresco
parto
cantas
vendes
mereces
partes
canta
vende
merece
parte
cantamos
vendemos
marecemos
partimos
cantades
vendedes
merecedes
partides
cantan
venden
merecen
parten
I?.rPÉEATIF.
canta
vendi -e
parti -e
cantad -at
vended -et
partid -it
SUBJONCTIF
PEÉSENT.
cante
venda
meresca
parta
cantes
vendas
partas
cante
venda
pa.rta
cantemos
vendamos
partamos
cantedes
vendades
partades
canten
vendan
partan
Imparfait.
cantaba
vendie -ia
partie -ia
cantabas
vendies -ias
parties -ias
cantaba
vendie -ia
partie -ia
cantàbamos
vendiemos
-iamos
partiemos -iamos
cantàbades
vendiedes ■
-iades
partiedes -iades
cantaban
vendien -ian
partien -ian
228
cantando
cantant -e
Géeondif.
vendiendo
Paeticipe peésent.
vendient -e
partiendo
partient -e
cante
cantesti -este -est
cantò
cantamos
cantastes
cantaron
Prétérit.
vendi
vendisti -iste -ist
vendió
vendiemos
vendiestes
vendieron
Plus-que-paefait (Conditionnel).
cantara vendiera
cantaras vendieras
cantara vendiera
cantàramos vendiéramos
cantàrades vendiérades
cantaran vendieran
parti
partisti -iste -ist
partió
partiemos
partiestes
partieron
partiera
partieras
partiera
partiéramos
partiérades
partieran
cantaro -àr -are
cantares
cantare -àr
cantàremos -armos
cantàrades -ardes
cantaren
FUTDE.
vendiero -iér -iere
vendieres
vendiere -iér
vendiéremos -iermos
vendiéredes -ierdes
vendieren
partiero -iér -iere
partieres
partiere -iér
patiéremos -iermos
partiéredes -ierdes
partieren
Plds-qce-pabfait du Subjonctif (Imparfait).
cantasse -às
cantasses
cantasse -às
cantàssemos
cantàssedes
cantassen
vendiesse -iés
vendiesses
vendiesse -iés
veudiéssemos
vendiéssedes
vendiessen
partiesse -iés
partiesses
partiesse -iés
partiéssemos
partiéssedes
partiessen
229
cantado -a
Paeticipe passe.
vendido -a
vendiido -a
partido -a
cantar
Infinitif.
vender
Fdtue.
partir
cantare
veudró merecré
partré
cantaràs
vendràs
partràs
cantarà
vendrà
partrà
cantaremos
vendremos
partremos
cantaredes
vendredes
partredes
cantaràn
vendràn
CONDITIONNEL.
partràn
cantarie -ia
vendrie -ia
partrie -ia
cantaries -ias
vendries -ias
partries -ias
cantarie -ia
vendrie -ia
partrie -ia
cantariemos -iamos
vendriemos -iamos
partriemos -iamos
cantariedes -iades
vendriedes -iades
partriedes -iades
cantarien -ian
vendrieu -ian
partrien -ian
J. COEND.
COMPLAINTE PROVENGALE ET COMPLAINTE LATINE
SUR LA MORT DII PATRIARCHE D AQUILEE
GREGOIRE DE MONTELONGO.
Ces deux pièces ont été écrites au XIV*» siècle sur l'avant-clernier feuillet (fol. 143) du
chansonnier provencal de l'Ambrosienne (R. 71 sup.). Elles ont été signalées par M. Bartsch',
qui en a indiqué le sujet et reconnu l'intérèt, mais, à ma connaissance du moins, elles n'ont
pas encore été publiées. II m'a paru que l'éloge funebre d'un bomme qui fut en son temps
l'une des gloires de l'Italie, ne serait pas déplacé dans le recueil qui doit perpétuer la mé-
moire des deux savants dont les études italiennes déplorent la perte.
Il serait superflu de dire ici ce que fut Grégoire de Montelongo. Tous les livres qui trai-
tent de la Ligue lombarde, des Guelfes et des GhibeUns, toutes les histoires d'Italie, ont ra-
conté, avec plus on moins de détails, les actes du célèbre légat pontificai, qui fut plus guerrier
qu'ecclésiastique , et ont notamment célèbre l'energie dont il fit preuve lors du siège de Parme
par Fréderic II (1248-9) ^ Grégoire, patriarche d'Aquilée depuis 1251, mourut le 8 septem-
bre 1269. Le planh qui lui fut consacré par un poète certainement Lombard ou Vénitien,
dont nous i^orons le nom , appartient dono aux derniers temps de la poesie proven9ale en
Italie. C'est proprement l'epoque où composaient le vénitien Barthélemi Zorzi et le génois
Boniface Calvo, mais je ne vois pas de raison pour attribuer notre planh à l'un ni à l'autre
de ces deux troubadours. La pièce proven9ale se recommande par une grande simplicité de
fond et de forme. Elle est pleine de bons sentiments, mais d'ailleurs ne se distingue pas par
des mérites bien saillants. Elle n'est pas non plus écrite en une langue très pure: predon, v. 39,
est italien bien plutòt que provenfal; et on en peut dire autant de l'emploi de rancor au v. 39.
Ailleurs l'auteur semble mèler le fran9ais et le proven9al. Le nom mème qu'il donne à sa
complainte, chanplor (vv. 7, 64) est le fran9ais chantepleure. Puis il ne s'aper90Ìt pas que
la finale aire, correspondant au lat. arius, dans contraire (6), essemplaire (25), aver saire (35),
luminaire (49) est fran9aise et non proven9ale. Enfin il crée, par une fausse analogie, les for-
mes 2}erdaii-e (11), deffendaire (45) au lieu de perdeire, deffendeire. Mais ces irrégularités
mémes ont de l'intérèt pour l'histoire de la culture du proven9al en Italie. La forme est celle
' Jahrbuchf. engl. u. roman. Literaiur, XI, 3 (1870).
' Voy. par ex. de Cherrier, Uistoire de la tutte des papes et des empereurs, 2.' ed. , 11,336 et suiv.
— 232 —
d'un couplet de huit vers a rimes enchainées où les quatre derniers vers offrent les mèmes
rimes que les quatre premiers, mais en ordre inverse: ahah , babà. Cette disposition, fort
élémentaire, ne paraìt pas avoir été très usitée. On la retrouve dans une pièce d'ajiparence
assez jjopulaire, de Guillem de la Tor: Una, doa, tres e quatre.
La pièce latine oifre une forme rechercliée sinon rare. Elle est en liexamètres associés
deux à deux par deux rimes, l'uue à la cesure du troisième pied, l'autre à la fin du vers. Le
vers se trouve ainsi divise par la rime en deux hémistiches. Mais la disposition n'est- pas
semblable d'un bout à Fautre de la pièce. Les vingt premiers vers forment dix couplets ayant
chacun deux rimes , l'une pour le premier hémisticlie de chaque vers l'autre pour le second.
Les vers 21 à 32 forment six couplets ayant chacun une seule rime qui se reproduit à la fin
de chaque liémistiche , par conséquent quatre fois par couplet. Enfin les vers 33 et suivants
ne forment pour ainsi dire qu'une strophe où tous les vers riment en ori tant au milieu qu'à
la fin. Ce sont des variétés de ce que les Leys d'amors (I, 172 et 246) appellent rims mul-
tiplicatius.
La pièce provengale et la pièce latine sont de deux écritures bien distinctes et très
sensiblement différentes. Mais il paraìt que le scribe de la pièce provengale a revu la copie
de la pièce latine, car il l'a corrigée en deux endroits ; au v. 42 parciY est ajouté de sa
main, et au v. 43 il a écrit en iuterligne, au dessus à^injyefatori, la syllabe du, la le^on cor-
recte devant étre induperatori.
Paul Meyeb.
233 —
PLANCTUS.
I. Eli cliaiitan m'aveii a retraire
Ma gran ira e ma greu dolor.
Non chan ges con autre chantaire
Que clianta de jois e d' amor : 4
S'eu chan de boca, de cor plor,
C'a chantar m'es razos contraire;
Per que mos cliaiiz a noni chanplor,
Que chanz noni pot de plor estraire. 8
II. Ben deu cel plorar e dol faire
Que pert amie ni bon segnor,
Ni ja om, tro qu'en es perdaire,
Non saura d'amie sa valor. 12
La morz m'a fait conossedor
De mon damnage non a gaire :
Tuit cil c'amon prez ni valor
Devon doler d'aquest afaire. 16
III. Morz nos a tolt lo debonaire ,
Lo prò patriarcha Gregor,
On avian fait lo[r] rejsaire
Tuit li bon aib e li mellor. 20
Qui veira mais tal guidador
Tan prò, tan frane, tan lare donaire!
Passat avia de largor
Alixandre que venquet Daire. 24
11-2. Cf. Hugues de Saint-Cirq:
Nuls lioin non sap tVamic, tro l'a perdut.
So que l'amics li valia denant.
22-i. Cf. Gaucelm Faidit. daiis le plaiili sur la mort de Richard Co?iir-de
Xant larcs , tan pros, tan arditz tals dnnaire
Qu'Aiisandres, lo re.ys que venquet Daire,
No ore quo tan dones ni tan s
— 234 —
IV. De lui fes valors essemplaii'e
E lialtaz Castel e tor.
Als bos fo francs e mercejaire,
Plen d'umiltat e d'aleg[r]ox-. 28
Los crois teni' en tal rancor
Per re non li podion plaire.
Aras sabron gran e menor
Que peri lo filz can mor lo paire. 32
V. Assaz podon cridar e braire
Friolan el veizin d'entor,
Car be savon lor aversaire
Qu'il an perdut lo ben pastor 36
Qui los deffendia d'error
Els crois fazia arreras traire.
Lairon, predon e raubador
An jois, car manz en fes desfaire. 40
VI. Dieus non fes rei ni enperaire
Dels crois tal justiziador,
Tal guerrier ni tal deffendaire
Dels sieus ni ab tan de "^dgor, 44
Que lai on jazia en langor,
Que greu si podia sostraire,
N'avion li croi tal paor
Que non a.usavou vezer l'aire. 48
VII. Laissus en son sant lumiuaire,
O son martir e confessor,
Meta s'arma lo ver Salvaire
E la deffende de tristor, 52
Car s'anc nulz om per gentili cor.
Per lialtat ni per maltraire
Deu iutrar el palais auchor,
Gregor de Montlonc en es fraire. 56
Vili. Mon chanplor tram et a la maire
De Jesuci'ist lo Salvador,
28. Je corrige aleg'rlor, doat il y a un ex. dans Raynouard, Lex. rom., IV, 53; à la rigneur oiiiiou
da (pour de) legar, dont le sens tontefois oonviendrait moins.
31. Sabron t il faadrait sffftrnH.
48. Ce vers n'est pas clair pour moi. Y a-t-il une laute ?
— 235 —
E qnier li coin umil pecaire
Que prec son filz per sa dolzoi* 60
Qu'en la celestial baudor
On son li patriarche maire
Meta l'arma d'aquest ab lor,
Toz om en deu esser pregaire. 64
IX. A l'archediaqne t'en cor ,
Chanplors, que te sia gardaire:
Car a del lignage la fior ,
Be deu al bon oucle retraire. 68
Flebilis est obitus toti mundo patriarche
Cujus sit positus celesti sj)iritus arce.
Ut mater sterilis plores, Aquilegia tris ti s ;
Non dabitur similis patriarcha diebus in istis. 4
Tutor erat legis, inopum tutella, reorum
Pena, lucerna gregis, cleri via, vita bonorum.
Flet Juliense Forum, Campania luget alumpna:
Hujus erat lorum, dux illius atque columpua. 8
Sacra tibi sedes luctus patuit Jeremie:
Quomodo sola sedes, dans materias yronie!
Dum leo rugierat patriarcha Gregorius ille.
Si tunc hostis erat uuus tibi, sunt modo mille. 12
Jam te predones circumdant atque tiranni,
Sciavi latrones , spoliatores Alemani.
Hoc vivente viro latebris latuere latrones.
Qui nunc in giro ponunt tibi seditiones. 16
0 que tristi tia, quis luctus, quale periclum!
Jam vacat ecclesia, fidei titubat redimiclum.
Luctus causa datur dempto pastore fidali ;
Mundus tristatur, exultat curia celi. 20
Ecclesie clipeus hic alter erat Machabeus.
Tu sibi parce. Deus, comitetur eum Galileus.
Copia virtutum si frangere mortis acutum
Posset, erat tutum sibi non penetrabile scntum. 24
Huic non discordet quisquam, quia vivere sordet;
Nemo sibi cor det: vite mors omnia mordet.
Mortis ad adventus fit morsus ubique cruentus,
— 236 —
Labitnr ut ventiis prudentia, forma, Juventus. '28
Tantus gerarcha fidei, tantus patriarcha
Finali parcba modica tumulatur iu archa.
Spii'itui parce, pie Clu'iste, pii patriarclie,
A penis arce summaque locetur in arce. 32
Mente tenere mori memori, patriarcha Gregori.
Suades, nec decori confidere sive decori,
Vatum nempe chori , juvenes fortesve decori
Cultoresque fori moriuntur et ere sonori. 36
Ve tibi raptori cui mundus habetur amori!
Credas doctori, nimium ne crede colori.
Est homo par fiori qui mane stat aptus odori ,
Vespere fetori cedit, velut umbra vapori. 40
Ergo creatori non sit servire labori;
Crede relatori: mors nulli parcit honori.
Induperatori Victoria vieta pudori
Cessit victori , qui nunc latet ede minori. 44
Hujus lectori dictu mens consonet ori.
Te Salvatori placet pia Virgo , Gregori.
Amen.
Quando ruit disce per legis tempora prisce:
M semel et bis e, bis x, Ij rotro misce;
Hac agente die colitur natale Marie,
Septembri mense communi corruit ense.
LA aTJESTT<)NE DELLE RIME
NEI POETI SICILIANI DEL SECOLO XTII.
Adolfo Gaspary , nel suo importante libro La scuola poetica siciliana del sec. XIII,
al cap. La lingua, dopo aver fatto la storia della vecchia e contrastata questione
sulle origini del nostro volgare letterario, con singolare dottrina espone vari dubbi
intorno all'opinione sostenuta da una scelta schiera di filologi italiani, che, cioè, i
componimenti dei poeti siciliani ci siano pervenuti tradotti in toscano. Fra gli altri
il dotto professore aggiunge anche questo (pag. 203 della traduzione italiana di
S. FriedmaiLn): « Senonchè con qiiesta quistione, se le rime siciliane si trovino esclu-
sivamente nei poeti del mezzogiorno, non era ancor fatto tutto; rimaneva 1' altra,
se cioè per avventura, ritraducendo le poesie nel dialetto siciliano, non verrebbero
per inverso distrutte certe rime: che è quanto dire, se attualmente non si trovino
in rima parole che recate in siciliano non consuonan più. Toscanamente o, o ed au
lat. diventarono in egual modo o, con pronunzia diversa, ma indifferente per la
rima; sicilianamente invece 0 divenne n, ii ed au divennero o, ovvero restò V mi. Da
ciò segue che la maggior parte delle rime di ò toscano aperto con 6 chiuso, sicilia-
namente cesseranno d' essere rime. E tali casi trovansi difatti persino in poesie che
senza contrasto sono attribuiti a siciliani. »
Queste rime sarebbero, secondo il Gaspary, /óre, core, mòre con amóre, tenóre,
servidóre , fióre , inizadóre, meglióre, ardóre, signóre; suona con dona, abbandona, coróna;
còsa con amorósa. In siciliano, egli aggiunge, non rimano macchiòne e sodisfazi/me,
ora (sostantivo) con ancora. E non rimano pure merzedc- acede , freno-fino , jjlcno-peno,
rifino , indi ino-mino.
L' argomento in vero è stringente , e quantunque non decisivo , anche a detta
del chiarissimo autore, sarebbe senza dubbio grave, se non ci fosse modo di
provare 0. contrario. Sennonché esso è fondato sul siciliano mbderno, anzi sul sici-
liano offerto dai vocabolaristi ai cultori di filologia; e non si è fatto conto del sici-
liano antico, il siciliano dei secoli XIII, XIV, XV e XVI, il quale differiva non
poco dal moderno.
I dizionari siciliani, non escluso quello del Ti'aina, che ha accolto molte voci da
tutte le parti dell' isola (senza però indicarne la provenienza) ed è certamente il
— 238 —
migliore per molti riguardi, rappresentano il siciliano di Palermo, che è il dialetto
letterario moderno del Veneziano, del Meli e di chiunque voglia scrivere oggi in
vernacolo. Ma essi non registrano il materiale lessicale di tutta l' isola , e molto
meno si curano della fonetica delle città mediterranee, specialmente delle più in-
terne non rimescolate dal commercio, dove, com'è naturale, le forme e i suoni ar-
caici sono conservati o meno alterati. Quando un siciliano di questi paesi scrive in
dialetto, schiva di usare le maniere e la pronunzia nativa, messe in canzonatura
nelle grosse città marittime , e si sforza di scrivere nel dialetto letteraiio , quello che
si parla a Palermo, Messina, Catania, Trapani ecc. E che debba farsi cosi e non
altrimenti, basterà dir questo, che quando pubblicai i canti popolari di Noto, per
essermi attenuto, nella trascrizione, alla fonetica notigiana, ne ebbi censura nelle
Nuove Effemeridi, siciliane da uno dei più bravi cultori di letteratura popolare, dal
Pitré, che nomino per cagione di stima.
Dai dizionari siciliani adunque non si vede che in una zona dialettale del-
l' isola liavvi un suono che ha dell' o e dell' m (Ennese orientale), e- altrove un altro
che ha dell' e e dell' i (Militello, Sortino). ' I vocabolaristi non dicono che in talune
parlate dell' interno le terminazioni caratteristiche del siciliano in-w e ìn-i, finali
atone, fanno o ed e, come in toscano; che mh e nd, oggi modificate in quasi tutta
l'isola per assimilazione in mia e ait, sono ancor vivi nella pronunzia di alcune po-
polazioni dell'isola (il primo in Brente, il secondo nel messinese); non dicono che
i riflessi del Ij sono j in qualche parlata dell' ennese (,/yi(-filius). Il nel geracese {Jìl-
lu), Il nel linguaglossese (JìHk), g nel chiaramontauo {fign), l in tutto 1' ennese {filu),
oltre del glij (Jìghju) rafforzamento àij{fi.gìdu) come si pronunziava nel secolo scorso
da tutti i siciliani che oggi dicono fi.gghju. (V. il Dizionario siciliano di Dei-Bono).
Lo stesso dicasi del Ij implicato il quale ci dà una serie parallela che va dall' /'
al kj da una parte, e al e n al g dall' altra. Un altro suono caratteristico del mo-
derno siciliano è. il dd, = U; ma nel brontese si dice caoallu ecc., non cavaddu come
nel resto dell'isola.
Or tutte queste specialità fonetiche che si trovano qua e là in Sicilia, in eerti
punti limitate a pochi comuni, in certi altri estese a grossi distx'etti, costituiscono
appunto la differenza tra 1' antico siciliano e il nuovo. Sicché quello che ora è par-
ticolare ad alcune parlate o ad iin intero sottodialetto, u.u tempo era generale in
tutti e costituì la lingua scritta fino al secolo XVI e anche ai primi anni del se-
colo XVII, così come la troviamo ugualmente nei codici, a Palermo, a Messina, a
Catania, a Noto. Essa rappresenta senza dubbio una fase dialettale del siciliano,
che restò fissata nelle scritture anche quando, per lo svolgimento interno del dia-
letto e per gl'influssi stranieri, il segno grafico non corrispondeva più dappertutto
al suono parlato.
'Por chi sospetta che Vti siciliano provenga dal dialetto delle colonie subalpine dette ìomlmnli' , i-am-
manto ohe nel pedemontano esso ò riflesso solo deU'ò, non dell' o e dell' o in posizione (cfr. .\scoIi, Ardi,
r/lott. pag. 117-118, voi. Il) ; o avverto che lo riscontriamo in bocca di popolazioni alle quali non si pnó attri-
buire neanche da lontano la parentela piemontese; oltreché, come vedremo, questo suono appartenea a tutto il
vecchio siciliano.
— 239 —
Ma non tutti i suoni del vecchio dialetto avevano una rappresentazione grafica,
6 spesso nn solo segno serviva a figurarne parecchi. Questa povertà di elementi al-
fabetici è tanto più avvertita, quanto più si va indietro nelle scritture, ed ebbi al-
trove occasione di dimostrarlo (Iiitrod. allo studio del siciliano; Noto, 1882, pag. 128).
Del resto non avverrebbe diversamente, se un siciliano di Piazza o di altre località
dell' enuese orientale volesse scrivere divoxiniti, se un sortinese o un militellese vo-
lesse scvìveve fégghjti (filius), se un ennese occidentale volesse scrivere ìiavi o ìianu
(clavis, planus); ed è nota la controversia, non risoluta in un congresso di letterati
siciliani, sul modo di rendere graficamente il e di cumi (flumen) ecc., per distinguerlo
dal s di cam (it. cassa) , di sefjghjri (it. scegliere) ecc. Cogli elementi dell' alfabeto
ch'essi posseggono, che è l'alfabeto italiano, scriverebbero or divoziimi ed or divo-
zioni, or fiyghju ed ov fcgghiu, or juvi ed or liinvi, o j/iifly;', come appunto fa il Traina
nel suo vocabolario. '
Questo disagio era pure sentito dagli scrittori del vecchio dialetto, e lo argo-
mentiamo dalla incertezza nella trascrizione di certe parole.
Lo Scobar ora scrive apparickiari , incumharij aHckellu,fiirtickellu, ed ora, appja-
richari, iuchumbari, aiichellu, furticliellu. — Una volta scrive aimJd, un'altra aurichi,
e poi altrove troviamo pure aurechi. — Amunifitini, cimcessiuni, cunfirmaUnni, cun-
fusiuni, cimsidaciuni, difinsiuni, distrnciuni ecc. ecc., accanto ad ainunitioni, cuncessioni,
cunfirmationi , confusioni, cunsidacioni, difinsioni, distrucioni. Scrive cnntra e contra, cur-
chula e corchula (*cochlula) , cuncavu e concavu, culunna e culonna, coma e cuma,jurnn
ejormi,, demuniu e demoniu, dipusitae dipositu, disiirdini e disordini, feruchi e, f crochi,
cusa e cosa (anche nelle Costituzioni benedettine e' è un cu7n zo sia cusa kl e nella
Conquesta, dui cusi, al cap. XXVI), pampa e pompa, ricugliri e ricogliri, riturnu e
ritornu, returchiri e retorchiri, purfa e porta , spiujla e spogla, stumacu e stomacu , tu-
nica e tonica, vutu e votu ecc. — Andriotta Rapi scrive umini (387), cnnfortl (385); e
Scobar, homu e cuHfurti;le Costit. bened. virgogna, lo Scobar vergugna; in un atto no-
tarile del sec. XVI j^aglalora, lo Scobar lìaglalura ecc. ecc.
E giova avvertire subito che è ben difficile non riscontrare queste voci nelle
varie parlate dell'isola, pronunziate in un modo o nell'altro, non dico già nelle po-
polazioni dove persistono i siioni ù ed é, ma anche dove l'è si fissò in i e Vfi in o,
per influsso principalmente del toscano che nei prinoipj del sec. XVII, divenuta la
Sicilia provincia spagnuola insieme col Napolitano e col Milanese, sostituì nel lin-
guaggio ufiiciale il vecchio siciliano adoperato fino a quell'epoca.
Or se cusa per cosa lo abbiamo nel vecchio dialetto, se il normale riflesso dell'o,
Al dottor Eugenio Paiiselle {ì^hcr Aie spracliformen der allesien sio'ìianìschen rliroiiiken. Halle a S. 18S3,
pag. 27, n.) pare innaturale che il vecchio siciliano avesse questa gutturale sorda, j>crc1w in nessuna parte deì-
Vìsolay el dice, Ofjgi trovasi esistente. Un'indagine più estesa mi permette ora di confermare la pronunzia aspi-
rata del eh nel vecchio siciliano; e se per ammetterla la difficoltà è solo questa, gioverà sapere che il suono //
trovasi vivo In molte parlate dell' ennese, e il Traina non potè trascurarlo nella seconda edizione del .'ìuo Voca-
bolario Siciliano (Torino 1877), dove alla lettera H si legge: » Questa lettera servirebbe per esprimere la pronun-
zia aspirata di alcuni sottodialetti, simile alla x greca equivalente a e, cìi, e se; che i nostri antichi scrivevano x
(e qui sbaglia) e io secondo la pronunzia più forte di altri paesi, scriverei anche Jhi. »
— 240 —
da qualunque base latina provenga, fa ù in una parte dell'isola e iacea anche h nel
vecchio siciliano, possono benissimo rimare fra loro, quando si voglia ritraduvli,
cosa e amorosa, fare, core e amóre, valóre (un curi scusso scusso lo abbiamo in un canto
popolare di Messina, rs. Vigo, Raccolta ampi, al n. 2706); e rimeranno suona con
abbandona e coróna; dappoiché la diversità tra ù ed n è tanto poco sentita da riuscire
indifferente per la rima. Lo stesso si dica per óra-aiicóra, che fanno ura-ancùra nel-
■l'ennese orientale.
Non ci fermiamo molto alle rime phno-meno, mino- rifino -incliino. Intorno al la-
tinismo pieno che in Sicilia fa hjnu per il normale riflesso è-i, oltre dell'esemjsio ci-
tato dal Gaspary, tratto dalla Conquesta di Fra Simone da Lentini, eccone un altro,
più recente (sec. XVI): plenu di rabbia e di rancuri, nella Vita di S. Corrado piacen-
tino del notigiano Girolamo Puglisi, III-97; e un altro ancora: Videnda la ligiji
piena, nei Canti pop. del Vigo al n. 3438, dove è in rima con cena.
j\[inu è ancor vivo nel siciliano d'oggi (cfr. il Vocabolario del Traina); e nell'an-
tico non ricordo d'aver trovato mai menu. E siccome mino-rijino, mina-inchino tosca-
namente non sarebbero in rima e lo sono invece sicilianamente, così essi anziché
indebolire, rafforzano la tesi del D'Ancona, del Comparetti, del D'0\idio, ecc.
Occorre però giiistificare merzede- acede, freno -fino. Nello Scobar e nel Traina
mercedem dà merci e merzi; ma il Del Bono nel suo Dizionario siciliano, Palermo 1752,
registra mercedi e merceduzza; e sono comuni in Sicilia: S. Maria di la Mircedi, Mo-
nacu di la Mircedi, Cresia di la Mircedi. Può essere che sia un latinismo, ma non deve
sorprendere che questo ed altri siano stati usati dai poeti siciliani del sec. XIII,
come non sorprendono gl'italianismi frequentissimi del Meli,
Fremi è una delle eccezioni al riflesso siciliano i per e cliiuso originario. Non è
solo; noto fra gli altri esempi: agéa (beta), velu, vela, auena, bestemia, sirena, Cresia,
fiéhili, daveru, cera e ««(/«jfa^sedia), debuli, Jcjericu, premiu, tirrenu, né, Maddalena, Mu-
séu, ruvetn, ecc. Ma, or nelle vecchie scrittiire, or nell'interno dell'isola, leggiamo e
udiamo: aita, vilu, vita, aina, j astima, sirinu, Chisia, sividi, dammiru, sidia, fjividi, chi-
ricii, primiu, tirrinu, ni, Maddalina, Musiu, rucitu. Migliori indagini ci potranno of-
frire l'occasione d' imbatterci in un frinu. Ma ancorché non si trovi, potea benissimo
in siciliano /re«it rimare con fenu (fin-; cfr. Diez, Et. W'òrt. s. 'fino"); e può anche
trovarsi in qualche parlata /ems pev finn, così come c'è venu e vinu (vlnum), renu e
riiìiu (orlganum).
Non so se si possano ugualmente giustificare le rime imperfette dei poeti to-
scani classificati nella scuola poetica siciliana del sec. XIII; ma per ciò che si rife-
risce ai poeti siciliani, non dubito che l' argomento delle rime non abbia ancora il
suo valore dimostrativo in favore dell'opinione per la quale si vogliono quei compo-
nimenti scritti prima nel dialetto dell' isola e poi tradotti in toscano.
A mio avviso però la stessa tesi non può essere sostenuta per la Tenzone di
Cinllo o Cielo d'Alcamo. Per le rime non già, che esse possono ridui'si, ma per certe
forme e per alquanto costruzioni sintattiche ignorate dal siciliano moderno e non
riscontrate nell'antico. Gosi per peri, (piaci, pareAo, oitama, carama, casata, perderà, to-
— 241 —
cara, mo.sfira, degnava, poterà, percazare, teve, mene, disdotto, podestà (di cui alcune si
leggono nel Keijimen annitatis (poesia in vecchio napolitano pubblicata e illustrata
dottamente e da par suo dal Mussafia) non sono foi-me siciliano. Nò lo sono questo
costruzioni: Poi tanto trahagliasti (verso 66 ) che fa riscontro con simili maniere del
Regimcn sanitatis ai versi 294, 313, 649; follia lo ti fa fare (verso 6 ); piM- di repentere
(v. 5"). Il 21", Se n tuoi parenti trovanmi e che mi pozon fare? dovrebbe tradursi: Se li
toi parenti trovanmi et hi mi poczou fari?, e così la misura non viene. Se poi facciamo:
Se i toi parenti ecc., sarà siciliano moderno, ma non antico, dove non ho mai visto i
adoperato per li. Ed è notevole anche questo , che oggi nelle canzoni popolari il
poeta siciliano preferisce li ad /, quantunque poi in prosa dica sempre i.
Potrei portare altri esempi, ma non mi par questo il luogo di parlarne più a
lungo. Aggiungo solo che, provatomi a tradurre in vecchio siciliano una dozzina di
strofe della Tenzone, il componimento ha conservato un'aria napolitana spicca-
tissima.
E poiché il discorso «^. caduto sulla Tenzone, non sarà forse inopportuno di fare
qualche osservazione sul nome del suo autore, a soddisfazione d'.uu desiderio del
D'Ovidio {K. Antologia, marzo, 1882). Celi, Ciido o Ciullo sono nomi che s'incon-
trano nelle scritture del vecchio siciliano, fin negli atti dei notaj del secolo XVL
Cheli (pronunziato Keli e poi celi) è accorciativo di Micheli. Oggi in Sicilia si dice
Mikeli, ma è neologismo ; e abbiamo, a testimonianza dell'antica fase fonetica, Borgo
S. Miceli in provincia di Galtaidsetta, Porta S. Miceli a Morreale e il cognome Miceli
molto diffuso nell'isola.
Per Ciulo o Ciidlo, esso non potrebbe essere il diminutivo di Vincenzo, come da
alcuni si volle ; che avremmo avuto Czullo, se mai. Chula invece comparisce in qual-
che atto notarile del sec. XVI qtial diminutivo di Lucilia. E che Clmla potè anche
pronunziarsi Ch'ulla lo desumo dal cognome siciliano P>i Ciulla, foggiato come gli
altri cognomi Di Maria, D'Anna, D'Agata, D'Antona, Di Chiara, Di Lucia, ecc., comu-
nissimi nell'onomastica siciliana.
Noto, 2 aprile 18S5.
COERADO AvOLIO.
UN 8EEVENTESE DI UGO DI 8AIN CIRC.
Ugo di Sain Gire, come altri trovatoi-i in Italia, non soltanto cantò di amore,
ma s' interessò anche alle cose nostre. E questo egli fece per lo più nella Marca Tri-
vigiana, paese ove stette di preferenza, ben accolto da Alberico da Romano, fra-
tello di Ezzelino. Noi qui non vogliamo studiare queste relazioni del trovatore con
uno o con entrambi i fratelli da Romano, ma prendere in esame il più importante
serventese eh' ei ci abbia lasciato. ' E una poesia che non splende per grandi bellez-
ze, e certo non è delle più belle che la passione politica de' trovatori abbia prodotte;
ma ha interessato sinora per le allusioni storiche, e interesse ancor maggiore desterà
quando verrà dimostrato che essa viene anzi a supplire a' documenti storici ed è uu
documento essa stessa.
Vogliam parlare della poesia che comincia: Un siroeiites vueill /aire eii aquest son
cl'en Gui. Essa ci trasporta in un momento della lotta di Federigo II contro le città
dell'Alta Italia e il Papa, lotta che non si chiude ne' confini tra cui si svolge, ma
di tutta Europa mantien sospesi gli animi, e assume quasi perfino il carattere di
crociata.
Però, come il papa ed i guelfi, anche Ugo di Sain Gire voleva che tutta Europa
si movesse contro Federico II. Egli che in patria aveva assistito alla distruzione
degli Albigesi , all' umiliazione de' conti di Tolosa , agi' interventi de' re di Francia
e d'Aragona, alla morte di quest'ultimo, vedeva come l'ipetersi in questa lotta la
guerra contro quegli eretici, e riteneva che l'ira di Dio, come su costoro, sa-
rebbe certamente piombata anche sul potente imperatore. Gosì pensava Ugo col
suo spirito di chierico, che egli portò dal seminario di MonpelHer, che le scene di
' Ne parlò già il Diez, Leben aììd Werk'e 310 s»., ponendolo innanzi al 1217. Il Gaspury, Gescliichte d. iUiUe-
nìschen Litcraiur , p. 53 e nota in appendice, lia corretto il ragionamento del Diez, assegnando il serventese ad un
torno di tempo , che è il giusto. Noi dopo indagini fatto di proposito e sorretti poi nella nostra persuasione
dalla lezione del codice estense, possiamo dare l'epoca precisa in cui fa scritto, la quale ditferisce di pochi
anni da quella del traspary, che lo credè composto dopo il 1246.
Quel che è detto del nostro serventese nella Bistoire Litiéraire de la France. , voi. XIX. è affatto privo
d'interesse. Senza interesse e scorretto è ciò che dice il Brinckmeier. Die provenzalische Troubadours als
lyriaclie und. polUiscìie Dicliter , Gottingen 1882, p. 265, a proposito di questo serventese e di altre poesie poli-
tiche del nostro.
— 244 —
terror'e seguite nelle sue coutrade gli raffoi'zarono , e cke certo contribuì a ringa-
gliardirgli il soggiorno nell' Alta Italia , in mezzo ai furori del gi;elfismo, sotto
r impressione degli avvenimenti straordinarii cke si andavano svolgendo.
Il trovatore manda il suo serventese a Faenza al signor Guglielmino, al conte
Guido Guerra, ai signori Michele Morosino, Bernai'do del Fosco, a Ser Ugolino ed
agli altri di là dentro; v. 1-8. Si tratta manifestamente dell'assedio di Faenza, in-
trapreso da Federico II alla iine di agosto del 1240, e durato sino al 13 di aprile
del 1241. ' La nobile città resistette otto mesi, mentre l' imperatore credeva dovervi
spendere poco tempo e fatica. Nelle lettere datate dall'assedio di Faenza egli cer-
ca,va dissimulare 1' acei'bo disinganno che gli faceva provai-e quella valida resistenza;
e aggiungeva eli' era aff'ar di giorni, ma che infine se ne sarebbe sbrigato presto. "
Gli avversarli però vi vedevano l'impotenza dell'imperatore, e il trionfo della loro
causa giusta; Ugo di Sain Gire sente partir dell'animo il suo serventese, e: « quale
che sia il vostro stato lì dentro, egli dice agli assediati, sappiate che la vostra fer-
mezza, e il bel nome, e il pregio, e la lode che la gente dice di voi, vi coronano
di onore! sol che facciate buona fine! »
Notissimo fra que' personaggi è il conte Guido Guerra. Egli tenne lungamente
la parte della Chiesa contro l'imperatore, e con forte nerbo di combattenti corse in
aiuto di Faenza, mentre altri mille soldati bolognesi e veneziani venivano pure ac-
colti nella città. ' E quanto notevole fosse la parte del conte Guido in queste lotte ,
mostra anche una lettera che il 26 ottobre del '43 papa Innocenzo TV gì' inviava
per mostrargli tutta la sua gratitudine, ' e le trattative che Federico stesso inizia
per riaverlo tra' suoi fautori. '" Un altro personaggio noto è Michele Morosino (piut-
tosto che Aloresino, come dice il serventese), veneto, potestà di Faenza appunto in
quell' anno , '' e ricordato come valoroso duce e combattente : esso si nasconde sotto
la forma greca Maaroceno nella Cronaca del Dandolo. ' Ser Ugolino potrebbe essere
Ugolino Giuliano di Parma, creato conte di Romagna nell' agosto del 1220 dal le-
gato dell'imperatore, Corrado vescovo di Spira e di Metz, ma che per ordine
espresso di Federico II fu nel giugno 1221 sostituito da Goffredo di Biandrate: '
egli adunque avea ben ragione di mantenersi avverso a Federico 19 anni dopo, e di
continu.are ad aizzare le Romagne contro di lui. Su GugHelmino esprimiamo sem-
plicemente la congettura che possa essere Guglielmo di Camposampiero, fuggito da
Verona poco prima dell'assedio di Faenza, temendo l'ira dei fautori di Ezzelino e
' Muratori , ^Kjirt/i d* Italia, voi. Vii. Notizie sull'assedio di Faenza si cercano invano nel Cantinelli,
Clironicon Faucntimim, ap. Mittarelli, Ad rerum itnlic. script, accessioties.
' Huillard-Bréholles, IJistoria diplomatica Prìdertci //, t. V, "J nelle lettore datate da Faenza ì>a-?.'iim.
Schirnnachei-, Kalner Fi-idcricli der Zweite, III, 169.
' Aiinales Piacentini (libellini, in Pollastrelli Clironica Iria Piacentina. 181. Schirrmacher, I. e. 168.
' Huillard-BrélioUes, ib., VI, 1.16.
'■ Huillard-Biéliolles, ih., 137.
" .Schirnnaeher, 1. e. 168. Gli Annalea Piacentini dicono che era veneto. I. e.
' Chrunicon, in Muratori. ìì.. 1. S., XII , 352.
" Huillard-BréhoUe.^, ib., IntrodKclion , paff. CDLX-^vn.
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dell' imperatore, e ricoveratosi nel suo castello di Treville. ' Di Bernardo del Fosco
non ho rinvenuto notizia, né è difficile che non ve ne siano. '
Ma i difensori di Faenza hanno maggior significato per Ugo di Sain Gire
come difensori della Chiesa e della religione , « contro colui che non crede in Dio e
nella Chiesa e si fa lecito ogni delitto » ; v. 9 sg. Federico II in quel tempo era di-
pinto co' caratteri più neri nella fantasia de' credenti: tutti parlavano della sua
vita affatto oi'ientale , dell' harem in Lucerà , tutti sapevano riferire le sue parole
ingiuriose e le bestemmie contro le cose sante; e papa Gregorio IX il 20 marzo
del 1239 r avea scomunicato dal Laterano , lanciando contro di lui le più acerbe
accuse, fra le quali che Federico fosse 1' autore del libro de trihus impostoribus : ^ ciò
che lo faceva simile all' anticristo. Pare quindi che Ugo sia mosso dalla propria
coscienza a scagliare 1' amaro serventese contro « colui che non crede né alla Chiesa
né a Dio, né all' alti-a vita dopo morte né al paradiso, e dice che 1' uomo è niente
poi che perde lo spiro ». Parole nelle quali il trovatore appare come schietta eco del
popolo; e cosi quando dice che Federico non s' astiene da crudelttà e da delitti egli
accennerà pure a certi fatti, come tradimenti ed avvelenamenti, che si facevano pe-
sare sulla coscienza dell'imperatore: il quale nell'assedio di Brescia del 1238 avea
rinnovata 1' opera di Federico I attaccando alle sue macchine di guerra i prigionieri
bresciani. '
Subito accanto a Federico, viene il conte Raimondo VII di Tolosa, che per Ugo
di Sain Ciré ha molti punti di contatto con l'imperatore de' Romani; v. 17 sgg. E
« se il conte Raimondo lo sostiene, guardi che faccia suo prò », egli dice, perchè
di questo ricalcitrare al papa ed alla Chiesa, ei doveva sentirne gli effetti più di tutti.
Riacquistati appena i suoi dominj , perduti dal padre Raimondo VI nella guerra
degli Albigesi, egli li avea riperduti affatto, dopoché il 29 gennaio del 1226 il car-
dinale di Sant'Angelo, legato del papa, lo scomunicò e lo dichiarò eretico, e Lu-
dovico Vili s'incaricò di fargli la guerra, e s'impadronì di tutte le città e castella
di Linguadoca, sino a quattro leghe da Tolosa. ' Parte ne ricuperò nel trattato di
pace con Luigi IX il 1229;'' parte più tai-di e anche per benevolenza di papa Gre-
gorio; altri non riebbe mai più, come Avignone, Nìmes, Uzès e Gourdon. Fatto é
eh' ei perdette tanta parte de'dominii aviti per causa del papa, dice Ugo; e il re
Pietro d'Aragona, del quale egli avea sposata la sorella Sancia, ripudiata nel 1241, '
morì per sostenere la causa di lui e di suo padre. Ora parea proprio che Raimondo
dovesse pigliar parte attiva a favore di Federico. Già verso la fine di settembre
' Schirrmacher . 1. e. 167.
" Si potrebbe pensare ad un orroro del manoscritto per Bernardo de Rosso (o de Rossi) da Parma che
nel 1238 si volse alla parte della Chiesa, ofr. Ann. Piacentini Gihel-, 153. Sarebbe andato in Faenza con Guido
Guerra e coi Bolognesi e Veneziani.
^ Muratori, Annali , VII. Alberìcus monacus triuni fontium, in Script, rerum frane, t. XXI, 623 so-g-. Huillard-
Bréholles , ib. Introduction cdlxsxvu.
* Muratori, Annali, VII, 241.
^ Art de vérijier le3 dates , artic. Raimondo VII.
' Histoire generale de Langiiedoc, IH, preuves 329 sgg.
" Art. de vérijier les dates, ibid. •■
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del 1239, Federico gli scrive ringraziandolo dell'essere con Ini e contro la Chiesa, '
nell' anno dell' assedio di Faenza lo esorta a marciare contro il conte di Provenza,
Berengario IV, messo al bando dell'Impero, e Raimondo va con le sue truppe
per impadronirsi della Provenza. ' Sennonché al principio del 1241 Raimondo avea
cambiato parere, ^ e nel marzo scrive a papa Gregorio ch'egli è deciso ad aiutarlo
contro Federico. * Ugo finisce coli' ammonire il conte che non abbia un' altra volta
a soffrire la signoria di un altro. E questi era il re di Francia: Raimondo, dopo
il trattato di pace il 1229, era stato sei settimane prigione nel Louvre. '
E il trovatore si volge al re di Francia; v. 25 sgg. Dopo che Filippo Augusto
ricuperò in Francia tutti i dominj dei re d'Ingliil terra, questi tentarono più volte
di rifarsi. Ed Enrico III il 1231 dovè tornarsene inglorioso da un'impresa fallita
per ricuperare la Brettagna e gli altri dominj continentali , e fu costretto alla pace
da Luigi IX. " Ora Enrico III, la cui sorella Isabella era sposata a Federico II e
mori nel decembre del 1241, era ben naturale che dovesse sperare appoggio in Fe-
derico, che essendo nemico del papa, lo sarebbe dovuto essere anche del re di Fran-
cia. Certo è ohe nel 1238 egli mandò in Italia un buon numero di soldati con Enrico
di Trubeville per aiiitare Federico contro le città lombarde. ' Dall'altra parte il re
di Francia non corrispose alle speranze del papa, che vedeva in lui , come già ne' suoi
predecessori, il suo difensore. Né saran mancate insinuazioni e pressioni di ogni
sorta per scuotere quell'animo retto di Luigi IX, e muoverlo a sostenere una causa,
dove gì' interessi della curia romana erano tutto. Ma se la promessa di cui parla Ugo
di Sain Circ sia stata realmente fatta balenare ad Enrico III da Federico, o se fosse
soltanto una manovra di papa Gregorio, noi non sappiamo. Quel che si sa di sicuro
è che appunto durante l' assedio di Faenza ha luogo da parte di Gregorio IX l' of-
ferta della corona imperiale a Roberto d'Artois, fratello di re Luigi. '
La conclusione che Ugo tira da' suoi ammonimenti è che la Francia debba aiu-
tare la Chiesa contro Federico e tutte due sostenere i Milanesi e il signor Alberic
que tolc qite lai passatz non es. Qui si accenna ad Alberico da Romano, e all'ultima
campagna di Federico contro i Milanesi sullo scorcio del 1239. Già dal mese di
maggio di quest'anno Alberico si staccò dal fratello Ezzelino e prese le armi contro
Federico, e avea occi^pato Treviso imprigionando i fautori dell'imperatore, tra cui
la moglie del podestà Jacopo de Morra, pugliese, che era fuggito a stento ; e rendendo
vano l'assedio che vi pose Federico subito dopo." Di ciò fu lietissimo il papa, e si
' Huillard-BiL-hoUes, 1. e. V, 405.
■ Histoire generale de Languedoc, IH, 420.
^ Hìsloire gcnér. d. Lang., iXL, 42.3.
' Huillard-Brèholles, I. e, V, 1101.
^ Art. de vé.rifier les dates , ibid.
' Matthaeu» Paria , in lìer. Britaun. Script., voi. II.
• Matthaeus Paris, Ilistoria Anglorum, 1» ediz. London 1571, pag. 413.
" HuiUard-BróhoUes, 1. e. Introduction , eoe sg. Soliirrmacher , 1. o. 171 sgg.
' Kolandino, in Muratori, /f. /. S. Vili, 223; Eicoardo di S. Germano, Muratori. R. I. S. VII, 1042. Il Mo-
naco padovano. Muratori, ib., Vili, 678. E ofr. Veroi, .Storia degli jEccelini, li. 178 sg.; e Mmatori, Annali VII,
247 sg.
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affrettò a scrivergli, il 7 giugno, per tributargli grandissime lodi: continuò poi a
scrivergli sempre, scorgendo in lui il principale suo sostegno nella Marca. ' Che Al-
berico pigliasse parte coi Milanesi e col cardinale Gregorio di Montelongo nella
successiva campagna, che si distingue per l'inondazione del Lodigiano, operata col
far scorrere le acque del Lambro nell'Adda, ' non ci è attestato da nessmi cronista,
per quanto io sappia. Ma niente mi par più probabile. Che anzi, subito al princi-
pio del '40 troviamo Alberico col cardinale di Montelongo all'assedio di Ferrara. ' Lo
proverebbe anche la grande ira che mostrò sempre l'imperatore contro di lui, il
proditor noster; e un anno dopo, il 13 settembre. Federico scrivendo al re d'Inghil-
terra si lamentava che il papa avesse invitato al concilio per la pace il suo tradi-
tore Alberico. ' L' imperatore dopo essersi presa la soddisfazione di devastare alcune
località presso Milano, dovette retrocedere, e andò a Pisa.' Cosi adunque ci appare
giustificato quel che Ugo dice al principio della strofa seguente, ch'egli sarebbe
passato oltre se ne avesse avuto il potere.
Quando Federico riprese le ostilità, si rivolse alle Romagne, e assediò prima
Ravenna e poi Faenza. Ed animato dal buon risultato della campagna del '39 e dalla
valida resistenza di Faenza, Ugo esclama: « la Chiesa e il Re di Francia provve-
dano, mandino la crociata, ed andiamo là in Puglia a conquistare il regno, perchè
chi non crede in Dio non deve tener terra!» La crociata! Già papa Gregorio l'avea
proclamata nelle vie di Roma il 22 febbraio del 1240, e poi l'aveva annunziata per
tutta Italia ed Europa, e vi lavorava " con tiitto il fuoco che bolliva nella sua anima,
non accasciata da circa un secolo di vita!
Degli ultimi due versi Ugo si serve per dire che Fiandre né Savoia non devono
sostenere Federico, tanto deve loro rincrescere dell'eletto di Valensa! Questi era
Guglielmo I di Savoja, fratello del conte Amedeo, e di Tommaso di Savoja, conte
delle Fiandre per aver sposata, il 1237, Giovanna di Fiandra, che mori nel principio
del 1245. ' La storia degli ultimi due anni di Guglielmo I ci è arrivata sparsa in
cronache di paesi diversi , quindi ha bisogno di una vera ricostruzione. Guglielmo I
nel giugno del 1238 fu eletto vescovo di Valensa, ' l'antica Valentia alla riva sini-
stra del Rodano ; non chiese la consecrazione , ma fu e volle soltanto essere detto, ciò
che lo distingue da' suoi consanguinei successori nel vescovato di Valensa,'' l'uno
Bonifacio di Savoja, che fu solo administrator episcopatus, ed electus di Belluy, poscia
trasferito a Canterbury, l'altro Filippo di Savoja, che fu procurator, ma nel 1267
lasciò la cattedra, si ammogliò e successe nel 1278 nella contea di Savoja a Pietro
' Huillard-BréhoUes, 1. e. V, 317 e nota; cfr. pure Verci, 1. o. 183 sg.
' Schirrmacliar, 1. e. Ili, 147 sgff.
' Muratori , Annali VII.
' Huillard-Bréhclles , 1. e. V, 10B7.
* Galvano Fiamma, ax). Muratori, Annali VII; e Schirrmacher , 1. e.
' Muratori, Annali Vn, 251. Huillard-BrélioUes, 1. e. voi. V, lettera del papa della fine di febbraio 1240.
' AH de vérifler les date», artic. Jeanne de Fiandre s.
** Gallia Christiana^ t. XVI.
' Gama, Series episcoporum ecclesiae catholicaCj Ratisbouae, 1876; artic. V alene e.
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detto il piccolo Carlomagno- ' G-nglielmo I era un uomo bellicoso, sanguir/no come lo
chiamavano i monaci di Wincliester. ' Era amatissimo da Enrico III d'Ingliilterra,
tanto da suscitare la gelosia de' magnati; e nel 1238 egli seguì in Italia Enrico di
Trubexdlle co' soldati inglesi. ' Venne in Italia e si accostò a Federico : nel settembre
del '38 egli è con l'imperatore all'assedio di Brescia, ' e nel novembre in Cremona,
dove si fa dare dii-itti di sovranità immediata sopra i sudditi di Valensa. ' E presso
Cremona egli voUe dar prova all' imperatore del come gli stesse in mano meglio la
spada che il pastorale, battendo, in unione col marchese Lanza, i Piacentini, e fa-
cendo molti cavalieri e fanti prigioni, che portò in Cremona. ' Sennonché accomo-
date le sue faccende, con Cesai'e, il furbo Guglielmo va nell'anno seguente dal papa,
presso cui si era fatto dare da San Luigi l'incarico di trattare la pace tra la Chiesa
e l'imperatore; ' e Federico medesimo, voglioso com'era di nn accomodamento, gliene
dovette^ dare anch'agli speciale incarico. Invece l'eletto di Valensa tratta altre fac-
cende col papa, e gli si offre di capitanare iin esercito contro l' imperatore, '^ in cam-
bio dell'elezione al vescovato di Liegi e della procura del vescovato di Winchester:
« ut in episcopatum Leodiensem eligeretur electus manens Valentinus et episcopa-
tum Wintoniensem optineret ut procurator, manens electus Leodiensis » dice Matteo
Paris. " Ottenuto ciò, si accinse a tornare; ma il 3 ottobre del 1239 morì presso Vi-
terbo, e corse voce che fosse stato avvelenato. La colpa si fé' cadere sopra un povero
maestro Lorenzo di San Martino, amico di Guglielmo, e che non dovette far molto
per scolparsi ; '" ma quanto sarebbe stato più giusto il cercarla nella fazione parti-
giana di Federico, irritata dalla condotta che il vescovo avea tenuto negli ultimi
mesi, e dal tradimento patente! La notizia di questa morte scosse Enrico III, ne
meno i due fratelli Amedeo e Tommaso. Amedeo avea fatte festosissime accoglienze
a Federico il 1238, quando qiiesti passava per Torino tornando dalla Germania:
l'imperatore ne fu compiaciuto al segno che eresse in ducato il paese da Chablais
ad Aosta. Tommaso al contrario era nemico di Federico, e verso la metà del 1240
rinunziò a continuare una lotta in citì avea sacrificato tanto del suo; e a ciò lo
spinse anche il dolore della morte del fratello Guglielmo. " Ma se Ugo poteva temere
che Amedeo soccorresse Federico, non pare che avesse potuto aver tali timori an-
che per Tommaso, aperto nemico. Pure negli ultimi mesi del 1240, durante l'assedio
di Faenza può esser successo qualche cosa che noi non sappiamo, devono esserci
stati de' sospetti che anche il fratello di Amedeo in fine, dopo aver cessate le osti-
' Art de vérijier les daics , ili, artic. Philippe do Savoye.
• Matthacus Paiis, 1. e. 2" odiz. Londra IMO, p. 473. Mi si perdoni 1' aver citato questa storia dii dirt'erenti
edizioni. Come la cosa sia successa, è inutile il dirlo.
' Mat.tliaeus Paris, 1. e, 1» ediz. pag. 397 sg.
' QaUia Chrialitma, ib. HuilIard-BrélaoUe.s, 1. e. V, 232, 235.
' Gallia Christiana, ib. Huillard-BréhoUes, V, 247, 261 sg.
' Amai, Piacerli. Gibei., ib., pag. 153.
' Chronicon Aiberici mott, irium foniimn , ib. pag. 623.
' Matthaeus Paris, 1° ediz. pag. 413.
» In Rer. Brilati. Script. II, 427.
'" Ibid.
" Matthaeus Paris, 1* ediz. pag. 47;t.
- 249 -
lità, potesse anche mettersi dalla parte di Federico. Ugo di Sain Gire rammenta ad
entrambi la morte del congiunto, e questo deve bastare, secondo lui, perchè né
Fiandre né Savoja ajutino il cattivo soggetto.
Cosi siamo arrivati alla fine del serventese. Secondo tutte le probabilità, esso
cade precisamente tra la fine del 1240 e il principio dell' anno seguente, forse non
oltre il febbraio, quando Faenza si sosteneva già da im pezzo, rinchiusa nella città
di legno che Federico neU' ottobre le avea fatta costruire all' intorno; ' Raimondo VII
non avea ancora apertamente lasciato Federico, ciò che fece il primo di marzo;
e Tommaso di Savoja avea smesse da qualche tempo le ostilità. E se è permesso di
circoscrivere ancor più questa data, noi pensiamo che il serventese fu scritto nel
novembre del l'240, quando inclinando i difensori di Faenza alla resa, da ogni
parte s' insinuavano ihessaggi del papa, sotto le spoglie di monaci questuanti, inco-
raggiandoli alla resistenza; ciò che conseguirono pienamente. ' E supporre che an-
che il serventese di Ugo sia penetrato ad infiammare gli animi degli assediati, è fare
semplicemente una probabile congettura.
Il serventese trovasi nella prima parte del codice estense , D (segnatura Bartsch),
e in due codici parigini (secondo Bartsch, Grundriss, 457, 42). Il Millot ne dette una
versione, di cui si giovò il Diez non conoscendone alcun testo quando pubblicò
Le vite e le opere de trovatori. Il Raynouard, Lexique Roman, I, 417, lo pubblicò la
prima volta; e questo testo riprodusse il Mahn, Wm-ke der Trouhadours, II, 151. Noi
lo ripubblichiamo, giovandoci principalmente della lezione dell'estense.' ■
Riguardo alla sua fattura, esso si compone di sei strofe monorime di otto versi
e di altri due versi di congedo. Le strofe sono le così dette coblas capfinidas, ognuna
cioè comincia con l'ultima parola della strofa precedente: su di ciò vedi Bartsch,
in Jahrhich fiir romanisclis und englische Literatur, I, 181. I versi sono dodecasillabi,
alessandrini, con la solita cesura, qualche volta femminile, al mezzo: metro piuttosto
frequente nei serventesi e nelle coble di questo periodo, per quanto scarso era prima.
E detto nel primo verso che il serventese è fatto en aquest son d'cn Già: si tratta
di una poesia di Grui de Cavaillon. Tra le poche poesie pervenuteci di questo tro-
vatore, abbiamo una tenzone con Peire Bremon. Questi dice: Un vers voil co-
mensar el son de ser Giti, Pos Guis ina dit mal eu lo dirai attressi; e G-ui risponde:
Ben avetz auzit quen Eicas Novas ditz de mi; Herrig, Ardi. 34, 410 sg. Tra le poesie
di Grui deve essercene "dunque stata una, non pervenutaci, nel medesimo metro di
queste, ' e monorime come esse, da cui Peire Bremon avrebbe preso occasione al
' Schii'rmacher , 1. e. pag. 169.
" Scliirrmacher , 1. e. pag. 170.
' Ci è stata fornita, insieme ad altre cose inedite dell'estense, dalla gentilezza del signor Giuseppe Van-
delli, modenese, alunno deU' Istituto fiorentino di Studi Superiori. Gliene rendiamo grazie sentite.
* Veramente la lezione dei versi qui citati è corrotta, cosicché l'alessandrino non si vede più; i versi se-
guenti però sono di misura giusta; cosi il terzo verso della prima cobla, Qii'en son alberc raubet Eaimon de Saint
Marti, ecc. Più innanzi diciamo che queste coble son di quattordici versi l'una; più esattamente, la prima è di
tredici; potrei da ciò lasciarmi ingannare, e dire che questa disuguaglianza nel numero de' versi in queste due
coble è a favor della mia ipotesi ; ma mi par molto probabile che sia caduto un verso nella prima; mentre, d'al-
tra parte, lo stato del testo della 2" è si deplorevole che non permette ci si fondi troppo.
— 250 —
suo vcrs. Nello stesso suono avrebbe Ugo di Saiu Ciro composto il suo serventese,
come ha osservato già il Bartsch. in una giunta alla seconda edizione della Poesie
dei- Troubadours del Diez, p. 75 sg. Non fa difficoltà a ciò che le coble di Peire
Bremon e di Gui siano di quattordici versi l'una, o che la poesia perduta potesse
avere più coble e ancor più lunghe. Ugo non ha preso che il suono, e ognuno di
questi versi lunghi sta da se. Si ricordi a questo proposito che Guglielmo di Tudela
fa la sua canzone degli Albigesi con lo stesso metro e nel suono, dice egli stesso,
della canzone di Antiochia; ma, com' è natixrale, il numero di versi di ciascuna serie
non ne è punto vincolato.
TJn sirventes vueill faire en aquest son d'en Gui,
Que farai a Faiensa mandar an Guillelmi,
Et al comte Gui Guerra en Miquel Moresi,
Et an Bemart de Fosc et a siqr Ugoli , ' 4
Et als autres que son lains de lor vesi;
E sapohan , com e' a lor de laintre esti ,
Quel sens, el uoms, el pretz, el laus e' om de lor di,
Los coronan d' cuor, sol fassan bona fi. 8
Bona fin deu ben far, e dieiis li deu far be,
Qui franquez' e dreitura e la gleisa mante
Con tra cel que non a en dieu ni en leis fé.
Ni vida apres mort ni paradis non ere: 12
E dis e' om es nienz despueis que pert 1' ale ;
E crueltaz 1' a tolta pietat o merce.
Ni tem laida faillida faire de nuilla re
E totz bons fatz deshonra e baiss' e deschapte. 16
Sii chaptel coms Raimons gart quen fassa son pron;
Qu'eu vi quel papal tolc Ai-gens' e Avignon,
E Nemz'e Carpentras, Vennasqu'e Cavaillon,
Uzetge e Melguer, Rodes e Boazon, 20
Tolzan et Agenes e Caortz e Gordon ,
En mori sos coingnatz, lo bons reis d'Arragon;
E s'el torn'a la preza per aitai ocaizon,
Encar l'er a portar el man l'altrui falcon. 24
VARIANTI.
1 li vuelh, JJ vuoili. JJ a(iuBs. — -^ D affiiienza, B a falhensa. Jl Guillami. — i J) , li Morezi. — 5 li layns.
n dol. J3, ti, f esi — 6/1; cum , D con. I) , li caler. 1) del. — TKcì laus | manca el. R qu'. — 8 li corona. — 9 li iì. ~
10 D Que. R franqueza et. f> glioiza, li gleyza. — 11 D deu. — IS D dea puoie, ij depueis. — 15 li layda. li fayre.
11 nulla. — 16 D toz. li boa. Il faitz dosonra. li e manca, li baysa. Il desoapte. — 17 jB Beimons. Il qu'en. D fassan.
Il prò. — 18 li Qu'ieu. Il Avinho. - li) J) manca per intero. Il Cavalho. — 20 li Boazo. — 21 II Caors. li Guordo,
— I) coingnaz, R coynhatz. D bon. li Arago. — 23 iì torna. R ocliiazo. — 24 D lor. Il autrui. R falco.
— 251 —
Lo falcons, fils de l'aigla, qiiez es reis dels Franses,
Sapcha que Frederics a promes als Engles
Qu'el lor rendra Bretaingna, Anjou e Toarces,
E Peitau e Saintonje, Limonge et Engolmes, 28
Toroinn' e Normandia e Gruien' el Paes
E venjara Tolzau, Bezers e Carcasses:
Doncs besoingna qua Fransa manteingna Milanes
E nAlbaric, que tolc quo lai passatz non es. 32
Passatz lai fora ben s'el n'agues lo poder ;
Qtie de ren als non a desirier ni voler
Mas com Trans' e la gleisa el pogues decazer,
E la soa crezensa e sa lei far tener; 3<i
Doncs la gleisa el reis i devon pervezer,
Queus manden la crozada ens veingnan mantener:
Et anem lai eu Poilla lo regne conquerer,
Car cel qu'en dieu non ere non deu terra tener. 40
Gres Flaudres ni Sayoia noi devon mantener,
Tant Ipr deii de l'eleg de Valensa doler. 42
VARIANTI.
25 R fai 003. E que. B reys. — 26 E Fredericx. — 27/2 Bretanha. D aniou. — 23 R Peytau. D santonie, R
SajTQtonge. R Lemotges. i? et] manca. — 29 D Totoinne, E Tolonj'. R Gniana e'I. - 30 D besers. D Caroassers.
— 31 R besonh a. D Franzia. R mantenlia. — 32 72 E'N. R lay. — 33 ii s'ilh. — 34 X> dezerier — 35 R cum. D franpe.
Il resto del verso e tutto il 3(; manca in D. R gleysa. — 36 ij ley. = 37 E don. X) glieza. R reys y denhon, D de-
vom. — 38R mandon. E venlian. — 39 R Polla. — iO E selh, D sei. = il E Savoya. D d'avom, E denhon. = 42 R
Tan. R Del elieg. D ualenza.
- 252
ANNOTAZIONI AL SERVENTESE.
2. Faiensa, Faenza. L'i mediano sta qui a togliere l'iato prodottosi dalla scomparsa di -v-. Il
francese fattnce, majolica è in origine Faenza, e ci conserva dunque questo i. Pure in Donatz proen-
sals, ed. Stengel, 52, % faenlis, faventinus.
4. Sier, titolo s"pecialmente de' notai, com'è noto; ma che si trova anche dato ad altri, come:
« un mercadier de Genoa que ao nom sier Amfos » (biograf. di Folchetto di Marsiglia) ; « sier Peire
de Fraisse, vuelh jutje notre dig. » (G-muAnT Eiquiee Aras s'esfors) ; tutti e due, insieme al nostro, ci-
tati dallo Stimming, Bert. d. Barn, nota a poesia 4. Può aggiungersi: « un vers vuelh comensar el son
de ser Gui. » (Peire Brkmok). In una colla inedita di Ugo di Sain Ciro, Antan feti colla d'una hordeliera,
Amerigo di Pegulhan è chiamato Sei- Aimeric. Non pare un notajo il ser ArdiQons (Albric [da Romano])
in Suchier, Denkmaler I, 320. Lo Stimming, 1. e. ha pure «lo sier Salamos que tant fon sapiens »,
Peihe de Gorbiac , Trtsor, 386; ma questa lezione è giustamente, sospetta al prof. Tobler, anche per la
ran-ione che è strano vedere quel titolo di siec i:ireceduto dall' articolo; sarà da leggere lo reis Salamos,
come vuole il Tobler.
5. vesi, vicini. Contrariamente al sibillino /est che leggono 1' estense o il Raynouard, noi abbiamo
adottato vesi; congettura che per motivi paleografici avevamo respinta appena ci venne in pensiero, ma
che poi abbiamo finalmente adottata sentendocela proporre dal prof. TobleS. Il verso va dunque inter-
pretato: « ed agli altri che son loro vicini là dentro ». Non si dimentichi che Ugo parla a' difensori ac-
corsi in aiuto di Faenza; dunque, que' che sono accanto a loro, l'i dentro.
8. sol fassan, sol que f., cfr. it. sol che, e Diez, Gr. III, 358.
10. franqueza; potrebbe intendersi franchigia, libertà, come inBartsch, Ohr. * 99,37; e così dreitura
per giustizia, Donatz proensals, ed. Stengel 6, 15. Ma qui Ugo loda lo spirito cavalleresco de' difensori
di Faenza, e secondo l'uso generale intenderemo /ranguezo, lealtà, generosità, (cfr. franca , curialis ,
Donatz proens. 3, 35), e dreitura, rettitudine. È a proposito il seguente esempio iaX planh di Daspol
perS.Luigi, P. Meyer, Les derniers troubadours , in Bibl. d. fècole d. Chart., XXX, 285: «Quel era francs
e fis et amoros, E lials reys e drechuriers e pros.» Insomma, franqueza e dreitura non sono ideali sociali
qui, ma qualità cavalleresche. — E così quest' unione « qui franqueza e dreitura e la gleisa mante »
ricorda Aimeric de Pegulhan, Mahn, Ged. 83: «Lo pros Gugliems Malespina soste Don e dompnei e
cortesia e me. »
15. faillida; falhir, delinquere in Donatz proens. 37, 11 e 53, 21.
16. coma Raimons. Anche Sordello accenna alle perdite di Raimondo VII nel planh per Blaeatz:
« al conte di Tolosa è uopo ben ne mangi, se gli sovviene ciò che possedette di già e ciò che possiede ! »
18. quel jiapal tolc. Similmente, Gui de Cavalho nella tenzone con Raimondo VII gli domanda
s' egli aspetta le grazie del papa o vuol riconquistare da so i dominj perduti ; Herrig, ArcUiv 34, 407. —
Argens'', « Argence, dipart. Calvados, arrondis. Caeu, » Raimondo nel 31 Maggio 1241, dopo cioè che
fa scritto il serventese , riceve l' investitura della terra di Argence, cfr. Hist. gén. de Languedoc III, 425.
19. Nemz', cioè Nemze, fr. Nìmes , Nismes , lat. Nemausws, dipart. del Gard. Nel 1229 si sottomise
al re di Francia e non tornò più al conte di Tolosa, cfr. Hist. gén. d. Langu. Ili, 355. — Oarpentras,
dipart. di Valchiusa, fa omaggio a Raimondo il 15 Maggio 1239; Hist. gén. d. Langu. Ili, 339 sg. — Vcn-
nasque. Quando Innocenzo III assegnale terre a Simon de Monfort nel concilio latei-anense del 1215,
gli dà dal Rodano sino al Porto. P. Meyer, in Chanson d. 1. oroisade eontre les Albigeois, voi. II, 182,
n., domanda se il Porto è Saint-J'ean-Pied-de-Port ovvero il Port de Venasque. Contribuirebbe la no-
stra poesia a risolvere il dubbio? — Cavaillon, dipart. di Valchiusa, avrondiss. Avignone; apparteneva
alla contea di Venaissin, quindi segui la sorte di Carpentras.
20. Uzetge, Uzès (Ocetia) , dipart. del Gard, riunita alla corona di Francia nel trattato del 1229;
Hist. gén. d. Langu. Ili, 375. — Melguer 1. raed. Melgorias , fr. Melgueil, l'ipresa da Raimondo VII il
1223; Hist. gén. de Langu. 111,334. — Rodes, dipart. Aveyron (già prov. Rouergue) , riacquistata da
Raimondo il 1228; Hist. gén. d. lang. Ili, 369. — Boazon, Boissezon, lat. med. Boisazone, castellò nel-
— 253 —
l'Albigese, proso nel Maggio del 1221; Hist. <jén. ci. Langu. Ili, j^rcwi'cs IH. Non conosco altro passo di
autore provenzale in cui trovisi la forma Boazo, che di regola è Boisazo, Bosazo; e forse dunque sarà
da correggere il nostro testo. Thomas, in Dictionnaire to2>oi/rapfiìque de l'JIérault, registrando questo
castello Boissezon, che è propriamente nel comune di Vieussan, cantone di Olargues, arrondiss. Saint
Pons , non dà nessuna forma antica. Ricorro però oltre che al luogo citato qui su, anche nella biografia
di Kaimon di Miraval. Esso è diverso dall'altro castello, nello stesso dipartimento Boisseron, che pur
deriva da Boiscdono, Buxodone, e che perciò poteva dari'i anche la formOf Boissezon ; cfr. P, Meyer, in
Romania , IV , 189.
21. Tolzan, contea di Tolosa; ritorna a Kaimondo il 1229; Ilisl. Ili, 371. — Agenes, Agenois, nella
Guienna, ricuperata già nel 1229; Hist. Ili ^jreuves 329 sgg. — Caortz, Cahors , capitale del Querei. La
città di Cahors rimase al re di Francia, mentre il Querei fu reso a Raimondo ; Hist. Ili, 371, 876, preit-
ves, 329 sgg. — Gordo , Gordon , castello nel Querei.
22. Pietro II morto il 1218 alla battaglia di Muret ; cognato così di Raimondo VII come del pa-
dre Raimondo VI. È iierciò che il JDiez pose il serventese j^rima del 1217; cfr. Gaspara/, I. e. — Lo
bos rels è chiamato Pietro lineila canzone degli Albigesi; le diverse redazioni della biografia proven-
zale di Ugo di Saiu Gire ci dicono oh' egli è stato presso il re Pietro d' Aragona.
23. Es'eltorn'a la preza, se, cioè, un'alti'a volta vorrà riprendere il perduto, profittando di que-
sta occasione; allusione alla guerra contro Berengario IV conte di Provenza, della quale Federico
avea incaricato Raimondo.
24. el man; di mano usato come maschile altri esempj presso Stimming , Bertran de Born,
Anmrkg., 254.
25. Lo falcons ecc. Non pare si abbia in queste pai-ole alcuna reale allusione storica. Certo
S. Luigi era un re valoroso, e sua madre. Bianca, sotto la cui reggenza egli stette negli anni di mi-
norità, donna a cui l'appellativo di aquila potrebbe star bene, come al suo sposo Luigi Vili stava
bene quello di Leone; ma io qui non so vedervi altro che soggettive allusioni del poeta ; a cui ha con-
tribuito Wfalcon della strofa precedente, che ora gli occorreva per cominciare la seguente.
27. Toarces, il paese di Toartz. E l' attuale Touars , nel dipartimento delle Deus-Sèvres, viscontea
nel Poitou.
29. Toroinn'' ; è 1' odierna Touraine, che nel lat. med. è Turonia, Turoina. Questa lezione la dob-
biamo al prof. Tobler; ed è incontestabilmente l'originaria, mentre il Tofoinne dell' estense è un vero
sbaglio ortografico , e il Tolonf del Raynouard è lo sbaglio elevato a terza potenza. Si sa che la Tou-
raine è tra le provinole che tolse Filippo Augusto al dominio degl' Inglesi sino al 1204.
— Paes, il Pays-Charfrain, nella Francia centrale, oapit. Chartres.
30. Accenno alle stragi avvenute in questi luoghi per opera de' Francesi, nella crociata contro gli
Albigesi.
32. Albaric. Alberico da Romano è nominato da Ugo anche nel serventese « Messonget un sir-
ventes », Mahn, Werke II, 150. Esiste inoltre una colla con cui Ugo fa una domanda ad Alberico e
un' altra che contiene la risposta di quest' ultimo , presso Suchier, Denkmaler , I, 320- ne toccò il
Grober, in Bohmer, Romanisohe Studien 2, 495.
34. desirier ni voler, tornano spesso accoppiate , similmente ad altre note ripetizioni quasi tauto-
logiche , come sen e saher, planhs e plors eco. In questa stessa poesia posson citarsi anche , non come
equivalenti alle prime, ma dello stesso conio, dovute alla medesima tendenza, sens e noms , e pretz e
laus, pìetat e merce, franquez'e dreitura, baiss'e descapte.
35. decazer, avvilire, far decadere. Il neutro decazer, descazerha preso significato causativo, fatti-
tivo. Cosi nel pugliese scadere.
38-42. Da questa ultima strofa si vede con quanto fervore Ugo abbracciasse la causa delle città
nemiche dell'imperatore: egli è qui animato dalguelfismo più schietto, e con tanta passione che i suoi
versi ci paiono belli, non indegni di altri, assai più grandi, trovatori. Ci è qualche cosa di originale
nell'intera poesia, ohe si riflette anche nella forma : il congedo, per esempio, è al principio, e ne' due
versi di congedo si continua invece 1' argomento ; e poi un' intonazione epica manifesta , una robu-
stezza sempre sensibile, quella nota di forte credente medioevale, a cui si unisce la schietta espressione
popolare, fanno di questo serventese la più bella poesia ohe abbia composta Ugo di Sain Ciro, il quale
si è poi tanto dilettato di poetare a freddo.
N. ZlNGAEELLI.
UNA PARTICOLAEITA SINTATOCA
DELLA LINGUA ITALIANA DEI PRIMI SEGOLI.
I pronomi personali obliqui atoni mi, ti, si, ecc. e le particelle pronominali atone
ci, vi, ne, o precedono il verbo di forma finita (proclisi) o gli tengono dietro, formando
con esso una parola sola (enclisi): Mi dai. Dammi. Esaminando le fritture dei primi
secoli, non tardiamo ad accorgerci di questa particolarità: che quando il veebo sta
IN PRINCIPIO DELLA PROPOSIZIONE PRINCIPALE, LA PROCLISI È ESCLUSA. NoÌ diciamO : Lo
vidi; gli antichi dicevano: Vidilo. Noi: Mi pare o, volendo, Farmi; gli anticlii non
adoperavano che la seconda collocazione. Chi direbbe oggi: Dicerolti molto breve? o
(colla forma attuale Dirò e colla disposizione dei pronomi ora usata) Dirottelo? E
Dante non avrebbe mai usato : Lo ti dicerò. Così pure nelle proposizioni interroga-
tive. Noi: Gli destila Ietterai, T'ho io mai ingiurato ì; nei primi secoli non si sarebbe
mai detto altrimenti che Destigli la l.ì, Hotti io mai ing.f Colla seconda persona sin-
golare e plurale e colla prima plurale dell'imperativo anche a noi l'enclisi è d'ob-
bligo (unico rimasuglio dell'antico uso): Dimmi, Ditemi, Diciamogli; ma colla terza
singolare e plurale (che in fondo sono forme del modo congiuntivo) preponiamo di
solito il pronome: Ti piaccia. Se ne rimangano; mentre agli antichi anche in questo
caso la proclisi era ignota: Piacciati, Riméngansene. E quasi superfluo avvertire che,
quando precede un vocativo, poiché questo non forma parte della proposizione, ma
se ne sta da sé, a modo di proposizione ellittica, l'uso antico non ne é alterato : Amico
mio, pregoti che...; A. m., hotti io mai ing.ì; A. m., piacciati di ascoltarmi. Negli esempii
fin qui recati, la proposizione principale é la prima del periodo ; l' enclisi presso gli
antichi è d'obbligo anche quando la proposizione principale, cominciante col verbo,
ricorre per entro il periodo, coordinata asindeticamente ad altra o ad altre che la pre-
cedono: Andai da tuo fratello, diedigli la lettera, pregailo di..., non: gli diedi, lo pregai.
Io non ho percorso per intero la letteratura del dugento e del trecento coli' at-
tenzione rivolta a questo punto microscopico di grammatica ; ma pure ho esaminato
tutta la Divina Commedia e tutte le liriche del Petrarca; poi risalendo nell'ordine
dei tempi ho letto un centinaio di componimenti nelle Rime volgari pubblicate dal
D'Ancona e dal Compare tti, ed il primo volume del Nannucci; e nei casi suindicati
— 256 —
trovai costantemente l'enclisi. E poiché i risultati ottenuti dall'esame di poesie
non mi parevano sufficientemente conclusivi, perchè la collocazione del j^ronome
potrebbe dipendere da esigenze ritmiche ', percorsi il secondo volume del Nannucci
ed altre scritture in prosa dei primi due secoli e vi trovai confermata l'osservazione
esposta di sopra. Ora, se ad ulteriori ricerche non riuscirà (e dubito assai che riesca)
trovare un numero sufficiente di passi, che contengano la proclisi in principio di
proposizione, la sintassi storica della lingua italiana dovrà registrare questo fatto.
Il quale, benché molto tenue in sé, può nondimeno avere qualche utilità allorché si
tratti di giudicare non dirò dell'autenticità d'una scrittura (che sarebbe troppo) \ ma
dell'accettabilità d'una lezione, d' un'interpunzione, d' un' interpretazione, d'un' emen-
dazione. Ed a questo proposito mi giova recare alcuni esempii. Al § XII della Vita
Nuova il Giuliani nella sua edizione del '03 leggeva: Avvenne.... che mi parea vedere
nella mia camera lungo me .sedere un giovane vestito dì bianchissime vestimentaj e pensando
molto, quanto alla vista sua. Mi riguardava là ov'io giaceva.... Poi mutò pensiero e cosi
egli come gli editori posteriori mettono una virgola dopo sua. Le ragioni, che con-
ducono a leggere così, appartengono ad un ordine più alto d' idee, e sono giustissime ;
sarà però lecito alla grammatica notare ch'essa pure dal suo lato rifiuta l'interpun-
zione del '6.3, perchè se Dante avesse voluto incominciare un nuovo periodo col verbo
riguardare, egìi senza, dul)bio avrebbe scritto Riguardavami. — Sono note le ingegnose
argomentazioni, colle quali al v. 89 del XXV del Paradiso si volle interpungere ed
esso: Lo mi addita, considerando il verbo qual di seconda persona dell'imperativo. I
commentatori fanno lunghissime note per ribattere cotali argomenti e difendere
l'opinione, che dice il verbo essere di terza persona dell'indicativo; il grammatico
prende la via più spiccia e ricorda che il periodo non potendo cominciare da pro-
nomi proclitici, l'imperativo è escluso. " — Al capitolo XIX del quarto trattato del
Convito tutte le edizioni da me esaminate leggono: Che cosa è l'uomo, che tu Iddio
lo visiti? L' hai fatto poco minore che gli angeli. Non potendomi persuadere che Dante
scrivesse cosi, pregai 1' amico Rajna di consultare i codici; ora egli trovò che di
dieci manoscritti fiorentini sei leggono Tu V (Tu Ilo) ài fatto e quattro o fu ài fatto
' In Suppemi l'alto sonno nella testa diremo ohe il ritmo richieda imperiosamente rendisi? Non sarebbe
altrettanto giusto il verso Mi ruppe V dito sónno collo stesso movimento giambico che in Poi dì ri posato un pòco. ^
Si risponderà: giusto si, ma non del pari armonioso. Se non che è possibile che se a noi sonerebbe men bene
Mi ruppe, ciò non dipenda già da motivi ritmici, ma in parte dall'abitudine che abbiamo presa di udire questo
verso di Dante così com' egli lo dettò , in parte (e forse più) da un sentimento quasi istintivo , il quale ci dice che
in una scrittura antica (anche di prosa) quella collocazione del pronome sarebbe insolita affatto. Dicasi lo stesso
di Fecemi la divina potatale , ove si potrebbe perfino diro che lo quattro sillabe atonc fra la prima e la sesta accen-
tate (tutt'al più al la, quale prima sillaba del nesso ladivina, si potrebbe attribuire un accento secondario)
danno suono alquanto meno grato che non darebbe Mi fece.
■ Nondimeno sarà utile porre in rilievo che nello pseudo-Spinello si legge : Me venne proposito , Me disse ecc.
" E ciò si sarebbe potuto dire (o tòrse si alletto) anche prima che si fosse posto in chiaro il fatto che qui ci
occupa ; giacché l' uso di posporre il pronome air i mi>erativo di seconda persona è durato sempre nell.i lingua. Che
se altri obbiettasse essersi qui Dante scostato dall'uso comune in grazia della rima, si risponderebbe facilmente; .
1" che ciò potrebbe ammettersi quando il caso fosse indubbio , ma che il supporre un' eccezione , la quale sarebbe
unica, nonché nel poema, in tutta la letteratura antica per sostenere un'interpretazione molto discutibile, è un
procedere contrario alla sana critica; •2" che se Dante avesse proprio voluto usare l' imperativo, egli, senza scapito
del verso e della sintassi, avrebbe dotto: Or lo m' adilita.
— -lol —
lai o Tu lui ài fatto; nessuno aduncj^ue ha il pronome obliquo atono in principio
della proposizione. — Nel Novellino '' qui conta d' uno martore di villa ecc. ' (Gualt. 95,
Borgh. 1)3) neir edizione di Milano 1825 , che a detta del Biagi è ' un' accurata ri-
stampa del testo gualteruzziano ' , verso la fine si legge : ' Li altri discepoli furono in-
tenti colle correggie. Lo scoparo per tutta la contrada;" mentre la stampa del Borgtini
(1572) ed altre che ne derivano (p. es. 1724, 1778, 1804) hanno e scoparlo. I tre co-
dici del XIV secolo qui non ci possono dare ajuto, perchè in nessuno di essi è con-
tenuta la nostra novella; e che quegli del XVI non hanno sufficiente autorità, s'in-
tende da sé; giacché un copista anche diligentissimo può avere involontariamente
introdotto una così lieve modificazione. Ad ogni modo si noti che il panciaticliiano
ha et ischoparolo; non sarebbe inutile esaminare come abbiano gli altri, special-
mente il vaticano (che certamente ha stretta affinità col testo gualteruzziano), per
certificarsi se l' infrazione dell' uso sintattico antico sia stata commessa da un ama-
nuense o dal primo editore. Che se il Borghini ha la lezione , che abbiamo diritto di
supporre genuina, non è impossibile, a dir vero, che egli l'attingesse ad alcun ma-
noscritto; molto più probabile si è che egli abbia mutata la dicitura della prima
stampa per quella fine conoscenza che aveva dell'uso antico, al quale egli stesso
si atteneva nelle sue scritture. — E poiché ho citato il Novellino, noterò nell'edi-
zione che il Biagi fece del cod. gaddiano (pag. 229): Et quella disse: Il presi pmr co le
forcelle. La grammatica esige che si stampi T 'l.
Quando cominciò a modificarsi l'uso antico? vale a dire quando appariscono i
primi esempii di proclisi in principio di una proposizione? Io non lo so dire. Sup-
pongo che nel corso del quattrocento. L'Ariosto ha già I 77 V odia, II 10 ne geme;
componimenti in prosa del cinquecento ci danno ancora molti esempii dell'uso an-
tico, ma altrettanti, e forse più, del moderno. Più ci avviciniamo all'età nostra e
più comune si fa la proclisi (ad eccezione, s'intende, dell'imperativo di prima o se-
conda persona), non mancando tuttora esempii d'enclisi, specialmente in quegli
scrittori che hanno fatto l'orecchio alle movenze della lingua antica. Ai giorni no-
stri nessuno, credo, userebbe: Sailo'ì Sollo, Meravigliomi; solo ai riflessivi di terza
persona con valore passivo {Dicesi, Trovansi) ' ed agi' impersonali (Havvi) viene non
di rado posposto il pronome.
Il perché dell'uso degli antichi scrittoli è facile riconoscere; era un fine senti-
mento che li faceva rifuggire dall' incominciare la proposizione (che nei più casi è
quanto dire il periodo) con un monosillabo privo di proprio accento, e quindi di
suono e di significato soverchiamente tenue. Questo sentimento si venne sempre più
affievolendo ; ond' é che a mano a mano si rese generale quella collocazione che ricor-
reva quando il verbo si trovava per entro alla proposizione, vale a dire nel numero
di casi di gran lunga maggiore. Che se nell' imperativo rimase — almeno in parte —
'l'antica disposizione dei due elementi, anche ciò si capisce molto bene; alla vibra-
Cfr. la Sintassi del Fornaciari, pag. 456.
— 258 —
tezza del comando giova enunciare prima di ogni altra la voce più significativa, il
verbo.
Non è senza interesse risconti'are il medesimo uso nel francese antico. ' Ora si
dice : Afe vois tu ?; in antico o : Vois me tu ì o : Moi vois hi "ì; vale a dire, per evitare il
pronome atono in principio di periodo, adoperavano l'accentato, ancorché il signifi-
cato non esigesse punto che s'appoggiasse con forza particolare sul pronome: l'en-
fasi in questo caso è non rettorica, ma grammaticale. " Si dica lo stesso del proven-
zale. ■' Anche nel francese rimase l'antica collocazione nell'imperativo: Donnez-m'en.
Ho detto che nelle mie letture trovai costantemente confermate le mie osserva-
zioni. Aggiungerò ora che altri potrebbe supporre un'eccezione nell'uso di mi disse,
gli rispose ecc. per entro ad un'orazione diretta (p. es., Inf. V53). Se non che, a ben
vedere, l' eccezione non ò che apparente ; in questo caso l' orazione diretta rappre-
senta l'oggetto del verbum dicendi; e poiché il periodo comincia da questo oggetto,
cessa l'obbligo dell'enclisi. 3fi disse: 'Chi sei tuf contradirebbe alla teorica, e non
se ne trovano esempii; in 'Chi sei tu'P mi disse la proclisi é concessa. Ma pure
un'eccezione la c'è nella canzone del Petrarca Nel dolce tempo, ove alla st. Vili, si
legge: Spirto doglioso errante [mi rimembra) per siielonclie j)iansi, ove la proposizione
incidente è del tutto isolata. Invero scritture in prosa ci danno in simili casi l'en-
clisi, p. es., Io sono, sullo Iddio, innocente. Eccezione adunque, ma colla circostanza
mitigante (a non dire della rima) che almeno il pronome atono non incomincia il
periodo. Notevole però é quanto segue. Nella Confessione latino-volgare che il Flechia
pubblicò nelVArch. glott. VII 121 — documento, a cui il cauto editore assegnò limiti
molto vasti (1000-1200), ma che ad ogni modo va fra i più vetusti monumenti di
prosa italiana ^ — si legge una serie di periodi che incominciano: 31' accuso. Dell'au-
tenticità, s'intende, non é da dubitare. Or come spiegheremo noi questo fatto? Di-
remo che il rifiutare la proclisi in principio di periodo non sia uso originariamente
italiano, ma si sia introdotto per imitazione del provenzale e del francese? Ciò mi
pare molto inverisimile, chi badi che si tratta d'un uso costante, confermato da
scritture d' indole del tutto popolare. Diremo piuttosto che qui si ricalchi parola per
parola il latino e che quindi non vi si debbano ricercare le ragioni sintattiche della
lineua schiettamente italiana.
' Ciò iLL avvertito or sono iiiolii anni dull' illustre romanologo Adolfo Tobler; e dal vedere cosLauLemeiiLe
osservata la regola sintattica nel fi'ancese antico io tolsi occasione ad esaminare come stessero le cose in italiano.
■ In italiano questo spediente non fu issato se non di rado. Citerò a questo proposito un altro passo del Xovet-
lino (Grualter. 74 , Bergli. 73), ohe in tutto le stampe suona uniformemente: Domine, ti lodo. Mail ti in principio di
proposizione è del tutto insolito. Per mala ventura anche questa novella manca nei codici del trecento; giova però
osservare che il panciatichiano legge te lodo. Ora io non negherò che te possa venir considerato qual mera variante
fonetica di (/, nel qual caso sarebbe anch' esso una forma atoua; ma (se 1' amore alla mia teorica non mi preoc-
cupa soverchiamente) io credo che sì debba piuttosto interpretarlo qual forma accentuata; a quel modo che in
francese antico si sarebbe detto: Dea.?, toi loje.
I ' Cfr. la dissertazione del dr. Pape: Die WortstclUinq in der prove nqalisclien rrosa-Literatar des Xll. nnd XII f.
.Tahrhunderfs. Jena ISSH.
— -259 —
II.
Se la proposizione non incomincia col verbo, 1' enclisi non è a dir vero del
tutto esclusa, specialmente nelle scritture metriche (cfr. qui appresso, al n. V) , ma in
tesi generale si può dii'e che al verbo collocato per entro alla proposizione il pro-
nome va preposto: Io lo vidi, Non lo vidi, Or t'ho io detto? ecc. Ne risulta che quando
una proposizione principale si collega sindeticamente ad altra precedente , la prima
voce della proposizione coordinata essendo la congiunzione , vi ha luogo la proclisi :
Io l' amo ; perciò lo punisco. Fa eccezione anzi tutto la copulativa e; il suono ed il
significato ne sono così esili, che agli antichi era ov\'io il considerare una proposi-
zione incominciante da e qual asindetica; ed usavano anche in questo caso l'enclisi.
Dante ha un grandissimo numero di passi sul tipo: V ombra si tacque e riguardommi e
soli sette sul tipo : si volge al grido e si protende. L' enclisi non è quindi di rigore ,
come sarebbe se la proposizione incominciasse col solo pronome atono ; non di meno
prepondera assai. E la proporzione degli esempii cresce di molto più a favore del-
l' enclisi nelle scritture in prosa , che sono sempre le più atte a dimostrarci il vero
uso, libero da riguardi metrici; ad ogni pagina troveremo esempii quale: Venne e
dissemi; molto raramente ci avverremo in passi quale: Venne e mi disse. Anche la
congiunzione ma promuove efficacemente l'enclisi. Dante non ha verun esempio di
ma-j~ pron. atono -f- verbo; ne ha parecchi da confrontarsi a Malvolentier tei dico, ma
sforzami la tua chiara favella (ini. XVIII, 52). È possibile che in tutti l'enclisi sia
voluta dal ritmo o dalla rima; ma si può dubitarne, quando si osservi che le scrit-
ture in prosa abbondano di esempii del pronome posposto e ce ne danno pochissimi
di preposto. Anche nella prosa provenzale la formola e + verbo -ì- pron. atono può
considerarsi come la normale; non m' è noto quale sia l'uso dopo m.as. In francese
antico all'incontro la proclisi è costante: vint e li dist.
III.
Quando la proposizione principale forma l' apodosi di una dipendente , quale
posto davano gii antichi al pronome? Dicevano: Quando m.i vide, si nascose dietro una
colonna o: nascosesi?! testi ci presentano un continuo ondeggiare. La Divina Commedia
ha quasi sempre 1' enclisi (p. es. Quando tu sarai nel dolce mondo, pregoti); in tutto
ventun passo e solo due volte la proclisi: Da poi che Carlo tuo.... m' ebbe chiarito, mi
narrò gl'inganni (Par. IX, 2); se tanto scendi, gli potrai vedere (Inf. VI, 87). Nella
prosa della Vita Nuova la prochsi è frequente: e poicliè fu meco a ragionare, mi pregò
(§ XXXni); quando li vidi, mi levai (§ XXXIV). Ma poiché esempii di enclisi nella
Vita Nuova non mancano ed in altre scritture sono ancora più frequenti, e poiché,
come diremo al n. V, nella pi-osa antica il pronome di rado si pospone senza che
— 260 —
ce ne sia uua speciale cagione , a spiegai'ci il vacillare dell' uso nell' apodosi varrà la
doppia natura sintattica della protasi. La quale si può considerare o qual proposi-
zione che stia da sé, o qual complemento avverbiale della principale {allorché mi vide
r= al vedermi = alla mia vista). Nel primo caso la proposizione principale comincia
col verbo, quindi enclisi; nel secondo essa comincia col complemento avverbiale ed
il verbo si trova per entro alla proposizione , quindi proclisi.
IV.
Poiché le proposizioni dipendenti incominciano sempre con un pronome od un av-
vei'bio relativo o con una congiunzione, è naturale che il verbo , non più in cima della
proposizione, prenda il pronome dinanzi a sé: L'uomo che t' ama, Desidero che ti p-e-
jjari, Se te ne volessi andare. Or bene, quando una proposizione dipendente è coordi-
nata asiudeticamente ad altra o ad altre che la precedono , senza che si ripeta il pro-
nome o r avverbio o la congiunzione, essa simula in certo modo le apparenze di
proposizione principale, ed ha luogo l'enclisi. Vedasi Decani. VII: Vogliono che voi
empiate..., fidiate..., siate..., perdoniate le ingiurie, guardiatevi dal mal dire. Il Boccaccio
non avrebbe per certo detto : Vogliono che guardiatevi e quindi nemmeno : V. che voi
emp., chefid.,che siate, che perdoniate le ingiurie, che guardiatevi. Ed anche qui le coor-
dinate colle congiunzioni e, ma si comportano allo stesso modo che le asindetiche;
io fui quelli che vinsi li re e scacciaili da voi (Nann. II, 128) — e die li scacciai; come fa
l'uovi che non s' affligge, ma vassi (Purg. XXV, 5); se egli sapesse lavorar l' orto e vo-
lesseci rimanere (Bocc. nella novella di Masetto), il qual ultimo esempio è il più con-
chiusivo, perchè essendo il verbo al congiuntivo, meno spontanea doveva offrirsi
l'analogia colle proposizioni principali.
V.
Abbiamo fin qui trovato: a) enclisi costante in principio di periodo o di propo-
sizione principale asindetica; b) quasi costante in principale coordinata con e, ma;
e) concorrente colla proclisi in principale formante apodosi; d) usata per analogia,
e quindi non di rigore , nelle dipendenti coordinate asindeticamente o per mezzo di
e, ma senza ripetizione del pronome ecc. Tutte e quattro le formole hanno questo di
comune, che il verbo sta a capo della proposizione o è tutt' al più preceduto da e,
ma. Dal fin qui detto risulta che nella lingua antica v'ha un caso (formola a), in
cui la proclisi è esclusa; aggiungiamo ora che non ve ne ha nessuno, in cui l'enclisi
sia assolutamente vietata. Giacché, sebbene in tutte le costrazioni non spettanti alle
quattro formole succitate a — d la proclisi sin. la collocazione normale, nondimeno
l'enclisi è permessa. Lo huon maestro mi cominciò a dire era ed è il modo più comune;
ma nulla vietò a Dante dire cominciommi, che solo gli cadeva bene nel verso. Nondi-
meno giova notare che di cotal enclisi facoltativa gli antichi poeti fecero uso molto
— 261 —
parcamente, e pei' lo più stretti dalla necessità del verso, e gli scrittori in prosa
(fra questi anche il Boccaccio, che fu pur così studioso dalla varietà e del numero)
non r adoperarono che molto di rado. Appena più tardi cominciò a parere elegante
il posporre il pronome al verbo. Ai giorni nostri alcuni scrittori si piacciono ancora
di un tale vezzo; ' i più 1' hanno smesso o del tutto o quasi.
La tendenza degli antichi a preferire la proclisi per entro alla proposizione si
manifesta chiara all' imperativo. Dicevano, come sappiamo: AjiUatemij ma nori appena
al verbo stava innanzi alcuna parola (anche monosillaba) preferivano di gran lunga
la proclisi: Con ■plaìujare e con lutto ti rimani, Un jìoco mi favella, Or m ajutate, tu. '
ne conduci.^ Tutti esempii tolti alla Divina Commedia, che ne ha una cinquantina,
di fronte ad uno solo coli' enclisi facoltativa: senza scorta andianci soli (Lai. XXI,
128). Né altrimenti in prosa. Quando poi l' uso antico si venne modificando , a quel
modo che da un lato F enclisi obbligatoria cedette il campo alla proclisi nelle frasi
affermative, interrogative, imperative di terza persona {Lo vidi. T'ho io...?, Ti piac-
cia) cosi dall' altro allargò i suoi confini nelle imperative col verbo di prima o se-
conda persona; noi usiamo non solo Ditemi, ma altresì: Or ditemi. Un rudere però
dell'uso antico l'abbiamo ancora quando la negativa non precede il verbo; gli an-
tichi dicevano: Non lo fy'iftofe per quello stesso motivo per cui dicevano: Orlo ajutate;
più tardi la collocazione del pronome si conformò nel secondo caso a quella di Aiu-
tatelo; nel primo resistette all' analogia e si mantenne fedele all' antico uso.
Ho finito; e mi resta solo di chiedere se alcuno prima di me abbia fatto le me-
desime osservazioni rispetto all' italiano. In tal caso mi devo rassegnare a sentirmi
dire: Sapevamcelo (che, per finire come s'è cominciato, ci rappresenta l'antica en-
clisi obbligatoria in luogo del Ce lo sapevamo moderno).
A. Mdssapia.
' Ed è facile oaserv.are che anche qui, come in principio di proposizione. Tuso delF enclisi si ristringe al
pronome riflessivo.
' Qui tu non è vocativo , ma nominativo.
■'Non è tropo dire che e, ma non solo consentono, ma prediligono e forse esigono l'enclisi: e dimìni,
ma dimmi.
ETYMOLOdIAS POPULARES PORTUGUESAS.
Milito se tem escrito jà sobre etijmologias pojyulares, porque este processo en-
contra-se era todos os tempos e eni todas as lingoas, cultas e selvagens. Dispensando-
me de fazer urna reseuha bibliograpliica do. que conhe9o directa e indirecfcamente a
respeito de outros joaises, basta que, pelo que se refere a Portugal, mencione o im-
portante traballio do sr. F. Adolpho Coelho, Questòns da UmjHa porùifjucza (Porto e
Braga, 1874), onde, de pag. 109 a 126, se reimem varios exemplos portugueses (e
extrangeiros).A mina porém é tao vasta, que nào póde ser explorada de urna so vez.
Eis o que me levou a accumular aqui mais alguns materiaes.
A cti/mologia popular funda-se numa analogia , proxima ou remota , de som entre
a palavra dada e outra que se conhece melhor. Umas vezes a palavra primi-
tiva desappareceii completamente e aclia-se substituida pela que se Ihe aproxima
(vid. §43, etc); outras vezes a palavra ou phrase nova tem apenas um sentido iro-
nico e coexiste com a primeira (§ 1, etc); outras vezes ainda, a expressào inno-
vada existe unicamente corno explicaoào da primitiva, o que acontece com a inter-
pretacào do grito dos animaes (§ 39, etc.) e com a de alguns nomes de terras (§ 28, etc);
finalmente o desejo de evitar urna palavra, ou porque sòa mal, ou porque a sua
pronuncia se liga superstipào, faz usar outra (§ 61). ' 0 processo funda-se frequen-
temente tambem na decomposicào do nome em elementos que podem ter indepen-
dencia (§ 30 , etc). Nelle se baseia em parte a existencia dos trocadilhos , das cliara-
das e ainda de algumas adivinhas populares;' os trocadilhos podem resultar tambem
de uma agglutinacào de fórmas. Usào-se actualmente, comò pseudonymos de aucto-
res, palavras decompostas da mesma maneira, por exemplo Victor no ar (= Victor
noir). Tambem jà tenho \isto escrito inconscientemeute Santo Me [= S. Thomé).
Em vista d'isto , sou levado a dividir o meu traballio em dois capitulos corre-
spondentes aos graus em que creio se divido naturalmente o processo da etymolo-
gia popular:
I. Efymologias pojndares do primeiro gran. Comprehendo as palavras ou phrases
em que o sentido actual se nào obscureceu ainda , em que a formacào è perfeitamente
' Notare! de passagem que na explicanao do onomastico entrilo de ordinario reis ou altos personagens
(§ 29, etc.). E' que o.s povos, conio os individuos, procurao sempre remontar-se a uma origem nobre.
' Cfr. està adivinha ijopular de Rezende:
No rochedo bate o mar; \
A cabra no monto diz: me;
O musico na solfa diz: h7 ;
O pobre c'o pau nas pedrasdiz: da.
marmelaila.
— 264 —
consciente. Sub divide- se em varios grupos, conforme o sentido se toma em boa cu
em ma parte;
II. Etymologias ^^ojndarfs do segundo (jynu. Compreliende as palavras ou plirases
em que o sentido se perdeu, em que a formaoào é, ou pelo menos se revela lioje,'
perfeitamente inconsciente.
0 primeiro caso póde por ventura às vezes ser a causa da existencia do segundo.
Quando se follieiào os auctores que se occupàrào da chorographia portuguesa,
a cada passo se encontrào etymologias que se baseiào no mesmo processo da ety-
mologia popular. Por exemplo: um explica Guimaràes por via maris, porque a fórma
archaica é Vimaranes; outro explica Laboveiro por lahor (mas a fórma archaica é Le-
ioreiro, que assenta no lat. lepovarium)\ outro explica Avellada por « ave, leda! », mas
a verdadeira etymologia é * avellanda, por" avellanetum, de avellana; entro explica
Covellas por covas beUas, quando a etymologia é so covas (Covellas é um deminutivo).
Podiào multi plicar-se os exemplos. Estas explicacòes sào puramente eruditas, nào se
transmittirào ao povo. A's vezes poi'émo processo em questào gauhou raizes profundas:
assim o brasào d armas da villa de Chai:es è um escudo com chaves, corno se o nome
viesse do substautivo commum, quando elle vem de ^[(juae Flavlae, que é a fórma
archaica.
Foi a proposito do segundo capitulo que o sr. F. A. Coelho escreveu no seu
precitado livro. 0 primeiro caso nào està aiuda estudado, coni especialidade o que
respeita às expressòes tomadas a ma parte: por isso o meu traballio offerecerà al-
guma no\ddade aos leitores.
I.
Etymologias do primeiro grau.
A. — Palavras e expressòes ironicas, od por simples ch.alai;'a.
1) Cura-cestas por coracào]
2) Ouvi a tins rapazes no Porto « na minlia stdva-cestas » por « na minha
salvacelo », que é a fòrmula usual.de uma jura;
2') Tanibem se diz Conceicsstas (com-seis-cestas) por Coitcekào. A termina^ào
-cào è nas etymologias populares substituida por cestas.
3) « Vou-me em hotas » por « vou-ine embora. » Tambem, por extensilo, se diz
às vezes: « vou-me em butes. »
4) Na Beira-Alla, na occasiào dos leilòes que se fazeni para arranjar dinheiro
para as fostas, o leiloeiro, que ó de ordinario uni homem folgasào, diz: « jà dào
■vinte ciscu.f! » , em vez de « jà dào vinte ciuco [reis]! »
5) Tambem às vezes se diz « pois cinco » em vez de « pois cim. »
li) <• Minhas manan» por « minlias inàos. » Aqui ha talvez influencia do
latim vianun.
7) Os palha90s, quando entrào om scena, nas comedias, saùdào os expectadores
dizendo: « Meus cebolos e minhas ceholas » em vez de scnhorcs e ncnhoras (Beira-Alta).
— 265 —
8) No Alemtejo: scm ceronins por siiìi scnhor.
9) Em comprimentos : « pastou bem? » em vez de « passou bem? ».
10) De alg'uem que sabc latim diz-se que « sabe latir. »
11) Em Elvas:
Nào facja cachaco,
Que tudo é pescoso.
Aqui cachago representa caso.
12) Burros assados em vez de rebugados, porque a fórma popular de rebugados
é algures burrugados.
13) Testa de burra por testemunJia.
14) Vossa insolencia por vosi^n excellencia: em tractamento.
15) Nas aulas de historia os estudantes dizem por graca Zé da véstia em vez
de Zend-Avcsta. A expressao Zé da véstia ( = José da véstia) é multo vulgar para
escarnecer de alguem que é um fraca figura, etc;
16) A's vezes a analogia ó so na terminacào^como em ni Jasuhas! (-uvas) por
ai Jesus! A fórma popular de Jesus é Jasus e de tivas é ubas. — Tambem ;S. Bhiula-
'niego (etym. do 2'^ gran) por S. Bartholomeu. Lamego è urna cidade; na primeira parte,
porém, d'ésta riltima póde entrar Berto (= Alberto).
17) Nas reparticòes diz-se saca-trapo por secretano (Beira-Alta).
18) Ao Diario do Governo., que ó a foiba officiai, chama-se Diabo do Governo.
19) A phrase do Evangelbo jjarabolam itane é traduzida por jìaremos aqui.
20) Outra phrase do Evangelbo cunctis diebus traduz-se: com toclos os diabos.
21) A expressao de Cicero « 0 tempora! o mores! » traduz-se assim: « ó tempo
das amo ras! ».
22) A expressao de Vergilio arma virumque cerno alguem a traduziu por armo,
de vareta e cano.
23) A urna apostilla os estudantes cbamào pastilha (Porto).
24) 0 escriptor C. Castello-Branco escreveu um livro A pirinceza Eatazana,
onde o nome provém de Rateizzi (por causa de urna questSo que andou na im-
prensa).
25) A plirase da ladainha fidelis arca é interpretada por féde-lhe nas ancas.
26) Os empregados de um lyceu cliamavào por graca aula do Gregorio a aula
de grego.
27) Diz-se: '^ Alma até Ahneida » por: « é preciso ter animo!». Almeida é
uma praca. — Ha aqui influencia de rima allitterante.
27) No AJemtejo: dorme no esterco por Dominus tecum.
B. — ExPLICAgÒES DE NOMES DE TEREAS.
Apezar de talvez poitcas terras haver, de cujos nomes o povo nào de uma expli-
cacào , raros exemplos posso aqui reiinir :
28) 0 nome Briteande (Beira-Alta) explica-se assim : Era uma vez um rei que
passou por um sitio na occasiào em que um lavrador andava a varejar uma
— 266 -
nogueira. O pobre homem offereceu nozes a urti dos da comitiva real, e, corno este
acceitasse, o rei disse-Ihe:
— Conde, Brite e anele (Briteande). — D'aqui o nome da povoacào.
29) 0 nome de Crescido (Beira-Alta) explica-se d'este modo: Um rei, visitando
um certo iidalgo, exclamou ao reparar no desenvolvimento physico de nm filho do
fidalgo: — Ah! està crescici».
BO) Ancéde. 0 nome d'està terra é explicado assim: 0 rei D. Alfonso I disse:
« Supposto que os conegos hào sede, mudem o mosteiro » (Apud Chorogr. Port. do
Padre Carvallo, pag. 359, voi. I, 2* ed.). Està explicacào é ainda dada, pouco mais
ou menos, pelos habitantes da loealidade; por isso a incluo aqui. Em todo o caso, a
etymologia verdadeira parece ser o lat. anicetum. Sào multo numerosos os nomes ti-
rados da flora.
31) Cammello. E' explicado por cào coni pelo. A verdadeira etym. é campo, de
que Campello é um deminutivo.
32) Penajoia. Tem duas explicacòes, urna populnr, nutra erudita. A popular
diz : « Passou uma vez naquelles sitios uma rainha a cavallo , e deixou cahir ao
chào uma joia; um dos da comitiva disse entào: — 0 cavallo tem o pé na jóia ». A
erudita explica o nome pelo lat. paene: Penajoia seria pois quasi uma joia. A verda-
deira etymologia é obsoura.
33) Alijó. Ha uma lenda em que se diz « Alli Job » , o que explica entre o
povo o nome. A etymologia verdadeira nào.é està evidentemente. Alijó parece ser
um deminutivo, comò grande numero de nomes terminados em o e ó; os em o sào
geralmente femininos, os em ó masculinos. Ha outras fórmas, verosimilmente vizi-
nhas do nome em questào, taes corno Lajó, Alijóla e Lijó. A arvore genealogica póde
reconstruir-s6 assim :
Laja
ì
1
*Lajola
r
'Alajola
* Lajóa
'l
' Alaijola
1
1
Lajó
1
l.
'Aleijola
1
)
~ Laijó
i
'Alejola
1
1
*Leijó
"l
Alijóla
' 1
1 _
* Lejó
'l
1
' Alijóa
1
1
Lijó
1
Alijó
E certo que Lijó tanto póde provir de Lajó, por um desenvolvimento phone-
tico, comò do Alijó por apherese, poisque a apherese e a prosthese do « sào vulgares
nos nomes de terras. Em vez de laja, podemos tambem admittir laija (fómia pò-
— 267 —
pulai" nos dialectos do Norte) para Alijóla, AUjó e Lijó, vindo laja apenas a ser o
etymon de Lajó; mas nào vale a pena entrar em minuciosidades.
34) 0 nomo de urna quinta Filhadella explica-se popiilarmente por urna
landa em que entra, Jìlha d'ella; mas aqnelle nome é um demiuutivo do port. ardi.
filhada.
35) 0 nome de terra S. Fedro de Rates é explicado por i\ma lenda popnlar,
segando a qual appareceu na cabeca de S. Fedro , quando morto , um ninho de ratos.
Vid. o meu livro Tradigòes pop. de Portugal, § ICA.
36) Alemquer. Como a respeito de Cìiaves, as armas da villa de Alemquer rela-
cionào-se com a etymologia popnlar. Diz o P.'' Carvalho: « .... tem por armas as
reaes com kum cào pardo ao pé, que chamavào Alào, o qual vigiava a villa no
tempo que os Mouros erào senhores della, & quando os Christàos a tomàrào (de que
ha tradicào ser em Imma manhàa de S. Joào, indo-se elles banliar ao Tejo, & fazer
suas correiias) o dito cào se calou, & fez tanta festa, que disse El-Rey D. Affonso
Henriques: « 0 Alào quer»; donde com pouca corrupcào tomou a Villa o nome »
Corografia port..! Ili, 39). Segundo o costume nas leudas mouriscas, a accào passa-se
na epocha do S. Joào.
37) Adrào, povo no Alto-Minho, tira, segundo o povo, o nome de um ladrào
que em eras remotas alli viveu. Vid. o meu opusculo Urna exmrsào ao Soajo, pag. 17.
38) Soajo, povo no Alto-Minho, chama-se assim, conforme a lenda, por ser
so em tudo,isto é, por ter sido fundado sòsinho, e porque, quando elle nào dà
fructos, tambem as outras localidades os nào dào. Vid. o cit. op., pag. 9.
C. — iNTEEPRETAgÀO DO GEITO DOS ANIMAES.
Nas minhas Tradigòes p)opulares de Portugal reuni varios exemplos. Vou para
aqui transcrever alguns, apenas para abrir o quadro, e nào para o preencher.
39) Quando Christo naseeu, o gallo disse: Jesus-Christo é na....a....d....do (nado)
D'aqui a siia lingoagem. — Outros explicào a lingoagem do gallo , dizendo que elle
disse de Christo: Coroado!
40) 0 grito da codorniz provém de que ella disse uma vez ao sapo: fem-te la!
tem-te la!
41) 0 grito do corvo jirovém de que elle disse uma vez: scala! scaha!
42) Quando Cain matou Abel, o cao foi pelo mundo fora a dizer: Cain.... Cain....
D'aqui o seu grito, quando Ihe batem, grito que na Beira se chama cainhar (do lat.
caninus).
Segundo a crenca popular portugueza, estes factos succedérào no principio do
mundo, quando tudo fallava.
268 —
II.
ETYMOLOGIAS DO SEGUNDO GRAD.
43) 0 uome Santo Ovidio é traduzido por Santo Ouhldo. 0 povo accrescenta
que Santo Oubido é advogado das dòres nos otibidos (ouvidos).
44) Tenho ouvido vàrias vezes dizer Villa-menhà por Villa-Meà. Póde haver
aqiii um phenomeno de etymologia popular, poisque diz-se algures menhà evo. vez de
manlià. Jà F. Manoel de Mello, Apologos Dialogaes, ed. de 1721, pag. 28, etc. , teni
menhàa. A mesma fórma a^^parece noutros A. A.
45) 0 povo diz sempre Migalhada em vez de Mealhada, por influèucia de mi-
gallia. Egualmente se diz, e às vezes se escreve, migalheiro por mealheiro.
46) Ha urna siipersticào em que entra urna mào dejlnado; o povo cliama-lhe
mào finada e mào refinada. Vid. as minlias Trad. pop. de Pori. , § 342-cM, etc.
47) Ha no Porto uma rua chamada do Paco Episcopal; o povo diz Fisco Paulo,
corno tenho ouvido às vezes.
48) O povo diz se-me-sugas em vez de sanguesugas. Numa cantiga popular do
Minho entra por exemplo essa palavra:
O'meu amor, binho! binho!
Q' eu augua num sei bnber:
A-i-augua tem se-vie-sugas,
Tenlio niedo de moi-rer....
49) E' multo vulgar Beijamim (beija-mim) por Benjamim.
50) Diz-se dedo menino por dedo mendinho on minimo.
51) Em Entre-Donro-e-Mlnho diz-se Mangalona (mauga-lona) em logar de
Magalona. Tambem na Beira-Alta.
52) Na Beira usa-se multo cristà por questào. Parece haver aqul uma Influen-
cia de christà.
53) Ne portugués do Brazil diz-se tres-só por trecd ou tì^ecó. Cfr. as minhas
Trad. jioj). de Pori., % 22. — • Na Beira diz-se tressólho {-6lho)\ cfr. § 16.
54) No Compendio de Orthografia do P.« Monte Carmelo, Lisboa 1767, dào-se
a pag. 516, Aitar do cham e Altarpedrùso comò as fórmas populares de Alter do Cimo
e Alter Pedroso. Ha influencia de aitar.
55) 0 mesmo auctor traz hrutcsca por grutesca: pag. 88. Ha influencia de bruto.
Assim comò a analogia póde ser no firn (§ 16), tambem, comò aqui, póde ser so
no principio.
56) E' vulgarissimo sanchristào (sa christào) por sachristào. D. Francisco Ma-
noel de Mello, Ajml. Dialog., ed. 1721, pag. 6, tem sanchristào. — Cfr. tambem F. José
Freire, Refiexòes sobre a linq. ptort. Lisboa, 1842, pag. 136 (sancristia^ sancristào).
— 269 —
57) No Cadaval (Extremaclura) cliz-se Suiitauds por Satcmaz. Ha influencia de
santa ou talvez santo Ands.
58) No dialecto brazileiro existe alinstas pòi' alvicaras. Influencia de vistas.
59) Ao resar a ladaiuha diz-se inconscientemente ju nu' ha ceù {= ja nào ha
ceu) por janua codi. Em andaluz dà-se o mesmo phenomeno.
60) Diz-se fillio faminto por filho-familia.
GÌ) Por eupliemismo diz-se Demontes (de montesj em vez de J)iaùo, o jjuxa em
vez de urna palavra obscena. Na iiltima palavra, que so oiivi, mas a mnita gente,
no Cadaval, ha talvez ainda consciencia da substituicào.
Fora-me impossivel rennir aqui todos os casos que tenho observado de etymo-
logias populares. EUes sào multo numerosos.
Vè-se que as fòrcas da lingoagem estào constantemente em accào , e que aquillo
que, a primeira inspeccào, se afigura uma simples curiosidade, ou um facto inexpli-
cavel, é, em ùltima anàlyse, mais uma demonstracào fecunda da regularidade das
leis a que obedece o cérebro do homem.
J. Leite de Vasconcellos.
UN MAZZETTO DI POESIE MUSICALI ERANCESI.
Nella biblioteca comunale di Cortona, coi numeri 95-96, si conservano due codicetti mem-
branacei entrati in quella libreria solo nel 1879. Essi contengono 64 pezzi di musica, con la
notazione sovrapposta alle parole. L'uno dei due codici (il 96) è per voce di soprano; l'altro
(il 95) per voce di contralto. Ne diede notizia Girolamo Mancini ' con quella scrupolosa esat-
tezza e quella critica illuminata cbe è propria a tutti i suoi lavori.
Occupandomi io da qualche tempo delle intavolature musicali anticbe a stampa e manoscritte
(intorno alle quali darò quandochessia un lavoro cbe mi lusingo possa riuscire vantaggioso)
ebbi vaghezza di conoscere più da vicino 1 due codicetti di Cortona, ed il signor Mancini, con
cortesia squisitissima, me ne mandò senz' altro la copia eh' ei ne avea tratta. Più tardi, mi recai
io medesimo a Cortona e potei esaminare personalmente i manoscritti. Dei quali non credo
inutile il riferire qui la parte più rilevante, le canzonette francesi, che vi sono numerose.
Prima peraltro che io dica di esse qualche parola, mi si conceda di intrattenermi brevemente
nella descrizione dei due codici e sulle poesie non francesi che in essi si trovano.
I volumetti hanno la dimensione 122X175. Quello per soprano ha due carte con l'in-
dice, non numerate, 74 scritte e 14 coi righi musicali senza note né scritto. L' altro codice
ha pure due carte non numerate con l' indice, 77 numerate con scritto e note musicali e 13
coi righi musicali senza parole né note. Nel libretto del soprano si vedono a e. 38 e 60 due
iniziali miniate ben grandi, la prima con lo stemma della famiglia Medici di Firenze; la se-
conda con un cane disteso e legato ad un albero con la scritta costante. lu capo al libretto
vi è miniata una iniziale alquanto più piccola delle due descritte, ma maggiore delle altre 69
iniziali miniate sulle carte del libro. Lo stesso si osserva nel libretto del contralto.
Delle 64 composizioni musicali alcune compaiono, con le jjarole, solo in uno dei due libretti
e puramente con la musica nel!' altro; di due, che citerò, si leggono semplicemente i capo-
versi, e sono francesi; * di altre due' si hanno le prime parole; di una la semplice iniziale /, '
' / manoscritti della libreria del Comune e dell' Accademia Elrusca di Cortona, Cortona , Bimbi, 18S4 , pag. 53-51.
N'. XXII e XXXIV, secondo la numerazione continua dei componimenti.
" N'. XXXV e XL.
' N°. XXVI.
di un'altra infine le note musicali soltanto, senza parola né lettera alcuna. Una buona parte
di queste composizioni è in lingua francese: sono 28 canzonette, intere o frammentarie, più le
due menzionate, di cui ci è indicato solo il capoverso. Delle altre, cinque sono in italiano e 26
in latino.
Delle 26 poesie latine, il più gran numero ha carattere religioso. Sono inni sacri o ver-
setti dei salmi e dei vangeli. Due delle poesie latine che non hanno soggetto sacro piangono
la morte di Lorenzo de' Medici, una con versi di Seneca, l'altra (ed è cosa notevole) con
quelli del Poliziano Quis dàbit capiti meo aquam. ' Un' altra nenia lamenta la morte di una re-
gina Anna che la Britannia piange e la Francia, cioè senza dubbio Anna di Brettagna, moglie
in prime nozze di Carlo Vili re di Francia e in seconde nozze di Luigi XII, pure di Fran-
cia. Anna mori il 9 gennaio 1514; quindi i due codici sono certamente posteriori a questo
anno. Se questo è il termine a quo, non è difficile lo stabilire anche il termine ad q7iem , giac-
che i due stemmi medicei ci mostrano essere stati scritti i due codici prima che quella fami-
glia, divenuta signora di Firenze, fregiasse la sua arme della corona ducale. Non andremo
dunque certo molto lungi dal vero ponendo col Mancini la composizione di questi codici verso
il 1520, 0 poco dopo.
Le cinque canzonette italiane non sono da trascurarsi. Di una (la XL nella serie generale
di queste poesie) si leggono qui solo due parole Palle, palle. Ma queste due parole ci bastano
l^er farci ravvisare in essa la canzone Palle palle, viva, viva,'\ Grida il mar, la terra, il cielo,
che da un raro libercoletto antico trasse il D' Ancona. '' La XIX della raccolta ha qui solo
questi quattro versi:
Fortuna disperata,
iniqua et maladeota ,
che di tal donna electa
la fé' m' bai dinegata.
È una delle canzoni sulla cui aria solevansi cantare le laudi," ed è notevole il trovarla ade-
spota in un codice del Museo Britannico , che contiene le rime del Poliziano. '' — Quattro
versi soli compaiono qui pure della XXIX:
Che fa la ramanzina ,
dell che fa che la non vien ;
o car amor,
deh che fa che la non vien.
Questa ricorre nel Libro quarto degli Stramhotti, ode, frottole del Petrucci (1505) e nel Li-
• ' N». LXI.
- Vedi Mancini, Op. e loc. cit. Cfr. Del Lungo, Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite ed inedite del
Poliziano, Firenze, 1867, pag. 274.
' N". LIX. La nenia fu dal Mancini riprodotta intera.
' La poesia pop. italiana, Livorno , 1878, pag. 55.
' Cfr. D'Ancona, Op. cit., pag. -1336 Alvisi, Canzonette anticìie, Firenze, 18^, pag. 92. È noto come i primi a
raccogliere i capoversi dello canzoni popolari sulla cui aria si cantavano le laudi siano stati, inilipendentomente
credo, il Settembrini nelle Lezioni (cfr. 7" ediz., Napoli 1881, 1, 303), e il D' Ancona, prima" nella lìivista ili Fi7'e7ize,
e poi nella Rivista contemporanea , XXX, 387 7i. Quindi uscì la prima tavola del D' Ancona nella Poesia popolare e
finalmente quella dell' Alvisi. Ma per questa, come per tutte le altro pertinenze della poesia antica popolare, c'è
ancora da faro moltissimo. Lode, ciò non ostante, sempre agli iniziatori.
' Ms. 16439 del Museo Britannico, già Chigiano M. IV. 81. Canzonetta intonata antica è ivi chiamata dalla dida-
— 273 —
hro nono delle Frottole, del medesimo Petrucci .(1508).' — La XXI è un contrasto, su
motivo molto amato dal popolo :
Donna, di dentro dalla tua casa
sou rose, gigli et iìori;
tutto uomo che 1' annasa
ne sente ghusto al core.
Fortuna d' un gran tempo ,
dammi una rosa.
— Totela, o perla preziosa.
Dammene un poco
di quella mazacroclia
0 non me ne dar troppa,
dammene un poco
et dammela ben chotta.
Altrove questa canzone non vidi, ma che essa generalmente si chiamasse la canzone della
mazzacrocca, parmi poterlo arguire dal trovarsi rammentata nel centone bolognese pubblicato
dal Ferrari '" e anche in nn principio di centone che costituisce la XX poesia dei codici
cortonesi :
Vidi la forosetta in un bosclietto.
Cile mangierà la sposa una fagiana grigia.
Ghiere, ghiere, ballate ciascherc.
Levantcus, donna Johanna,
Levanteus a far del pan.
Fardandiruudina, se 1' orso non ritorna.
Dammene un poco di quella mazaoroca.
soalia. Vedi Casini, Opere volgari di M. Angelo Ambrogiiii rolizinno, Firenze, ]88;5, pag. xii. Il jirincipio di questa
canzone trovasi pare nei ood. musicale G. 20 della bibl. comunale di Perugia, del quale avrò a discorrere in altro
luogo. E a e. 91 ?', ed ecco quello che ne è riferito molto corrottamente:
Fortuna disperata
iniqua et maledecta
che datai domna electa
la fama ai denegata
fortuna disperata.
O morte di.spietata
iniqua et crudele
che alta più che stella
ma siahassata
meschina et des^iletata
ben piangere possomay
et descoprire li mei guay.
Quantunque siano uniti nella intavolatura, sembrerebbero principi di due canzoni diverse; ma e da osservare che
in questo caso la seconda non avrebbe nulla a che fare con la canzonetta 0 morte dispieiaia^ sulla cui aria sì
intonava una laude (Alvisi , Canzonette, pag. 106) e che il D'Ancona {Poesia pop., pag. 87) riferisce intera.
' Cfr. le tavole di queste rarissime stampo musicali, pubblicate con ottimo pensiei-o dal Vernarecci, Otta-
viano de' Petrucci da Fossombrone inventore dei tipi mobili metallici fusi della musica', Bologna, 1872, pag. 256, f. SO e
pag. 267, f. 39. — V è anche la canzone Fortuna disperala; cfr. pag. 241, f. 69 e pag. 243, f. 127.
" Chi vuol spazar camin , la viazacroca, dice il prezioso centone della Universitaria di Bologna. E il Ferrari
nota: < Mazacroca è un vocabolo, credo, zingaresco, di cui non so il vero valore. Lo trovo ancora in un sonetto del
» Pistoia. > (V. Docum. per servire all' istoria dellapoesia semipopolare cittadina in Italia, nel Propugnai., XIII, I, 445).
Il Pistoia (secondo l' unico testo modenese) dice di un eavallo che/a la massacrocca 2>er la strada (ediz. Cappelli- Fer-
rari, pag. 115) e qui confesso che proprio non ci capisco nulla. Per trovare il significato della parola mazzacrocca io
feci lunghe ricerche. Con 1' aiuto del mio amico marchese Adriano Colocci, che con molto profitto si occupa dei
gerghi zingareschi, cercai prima se fra gli attuali zingari d'Italia vi fosse nulla di simile. Ciò senza alcun risultato,
35.
274
Che questo sia un brano di centone, come la poesia popolare ne ebbe in tutte le parti
d'Europa, non mi pare possa mettersi in dubbio. Delle sei canzoni qui rammentate, l'ultima
Poi mi rivolsi all' antica lingua furbesca, intorno alla quale scarseggiano tanto i docunaenti, e avrei forse speso
inutilmente il mio tempo anche in queste ricerche, se per un caso non venivo a sapere dal conte Ferraguti che la
voce mazzacrocca è ancor viva nelP Appennino marchigiano e vale quello che più comunemente dicesi mazzarella,
cioè la verga usata dai jiastori o vergavi. La mazzacrocca è un bastone di quercia, foggiato a pera da un' estremità,
e del vocabolo si spiega facilmente la formazione, poiché crocea, e più comunemente incrocca, vien detta in tutte
le Marche quella specie di ghiandola, con cui termina il fuso. Dato ciò, il canto del cod. Cortonese sarebbe perfet-
tamente spiegato , giacche non v' è dubbio, a me sembra, che quel contrasto abbia significato osceno, e mentre
r uomo chiede alla donna la 7'osa , questa gli domanda un poco di quella mazzacrocca (anche mazzafrusto e mazza-
picchio ebbero significato osceno; cfr. Sacchetti, nov. 157 o 82). Mazzacocca e mazzaclocca esistono anche nel-
l'Abruzzo, come si impara dal Vocab. dell" uso abritzzese del Finamore e dalla Gramm. e lessico del dialetto Tera-
mano del Savini. Io non ho trascurato di fare indagini nelle Marche e nell' Umbria; ma ho dovuto persuadermi che
la voce deve essere colà di uso antiquato o assai raro , poiché è ignota non solo ai più, ma perfino ad uno dei mi-
gliori conoscitori di quei dialetti, quale è il prof. Gianaudi'ea. Nuovi dubbi sul significato preciso della parola mi
sopravvennero quando trovai, tra le poesie inedite del Pistoia, che si conservano nel prezioso cod. Trivulziano 979,
il seguente sonetto . che vi ha il mini. 197:
Se amor la sua balestra al mondo scocca
tra rustici animali nel porcile,
perde la forza e fugge in campanile
quando sente gridar la mazzacrocca.
Vede il villan col j>iffaro a la bocca
e Vener ritornarsi al suo cubile,
stima ogni amante senza senno e vile
che mena il ballo e pur zara a chi tocca.
A colui che compose la dauzetta
gli doveva piacer quando sognava
veder giocar la simia a la civetta.
Dicono alcun che un rustico da Pava
1' imparò su 'n un manico di cetta
da un greco di là che indovinava.
Tanto dolce cantava
che per la invidia che n' ebbe un alocco
fu da li dei converso in mazzacrocco.
Qui pare che mazzacrocca {fem. di mazzacrocco) sia un uccello; non saprei precisamente quale . a meno non si possa
identificare con quello che in Toscana chiamano oggi croccolane {ficolupax major). Cfr. Savi, Ornitolofjia toscana,
Pisa, 1829, n, 309. — Comunque sia di ciò , non dubito che la canzone popolare accennata nel centone bolognese
sia precisamente quella che ho riferita. Essa viene indicata insieme ad uu' altra, che pure ho rinvenuta e che an-
ch' essa ha significato osceno, Chi vuolspazar caini». La riferisco da ima ignota stampa di Villotte alla padoa,na , Ve-
nezia, Rampazetto, 15G6, che verrà quanto prima illustrata:
O spazza camin,
chi vuol belle madon' spazza' '1 carni.
Coi nostri mucegù,
curt e gros d' ogni rasù
v' intrarem su la colmegna,
spazzaren da paladi.
Gnie volen de vos quatri,
gnie da biver, gnle magna,
sol pensen a ben spazza
tucchi la canna del carni;
. sol pensem a ben spazza
tucchi la canna del carni.
O spazza carni.
(Cfr. il Canto degli spazzacamini nei Carnascialeschi, Cosmopoli , 1750, I, 100). Né deve far meraviglia 1" uso di acceu-
— 275
si identifica col contrasto sopra citato, mentre delle altre non so esser nota se non la prima
che si legge nel codice Riccardiano 2871, e di cui si ha il capoverso nel Chigiauo L. VII.
26G, già 577. * Il secondo capoverso può rammentare il Canto del foijiano nei Carnasciale'
scht\ pieno di doppi sensi osceni.
IL
Noi abbiamo molte testimonianze della difFusione immensa di cui le canzonette musicali
francesi godettero in Italia. Una gran parte dei codici di poesie popolari, con o senza intavo-
latura, ne contengono. Cosi il celebre Magliabechiano strozziano ci. VII, 1040 ^ del secolo
XIV e XV, ne ha 33, che furono recentemente messe in luce. * H 568 della Palatina di Mo-
dena, scritto in sulla fine del XIV secolo o nel principio del successivo, ne ha undici ^ ed
nare ad un canto popolare noto con la parola più caratteristica di esso. Ne abbiamo moltissimi esempi. Per citarne
uno poco o punto avvertito, il Folengo nel Baldo (II, 29, ed. Portioli) fa cantare a Cingar Gamhettam, hroccam,
passandoque per na rigiolam. L' ultima di queste canzoni non conosco , ma la seconda è probabile sia queUa clie nel
centone bolognese è accennata cosi: Ttntina oime la brocca o fai ìlei a e che ho rinvenuta nel Zlbaìdoncino musicale
della Marucelliana (pag. 345 della num. a mano) :
Tintinami la brocha .
chio sento mal d" amore — vita mia dolce.
Se la brocha si rompe
io te la pagarò — vita mia dolce.
Se li danar son falsi
io te li cambiarò — vita mia dolce.
Su su a la montagna
a far ci bastion — vita mia dolce.
Questa canzone interamente popolare trovasi rimaneggiata in una notevole pastorella, che è in nn' altra stampa
del sunnominato Zibaldoncino musicale (pag. 305 num. a mano; com. Et servo che te adora). La prima delle can-
zoni menzionate dal Folengo si può identificare con un contrasto finora ignoto tra la madre e la figlia, tema co-
munissimo, come ognun sa, della nostra antica letteratura popolare, di cui v' è il principio nelle citate VìllotU
alla padoana:
— Sentomila formicula
su la gambetta,
madonna mare ,
sentomi la,
la fa li le la.
— £ se la senti, fia,
deh sping' e para
che la gh' andarà.
' Alvisi, C'anzon. ani , pag. 122.
' Cfr. Canti carnasc, Cosmopoli, 1750, I, 113.
' Pubbl. nella parte ital. dal Carducci, Canili, e hall.; e dal Ferrari, Bibliof. di leti. pop., I, 68 segg.
* Da A. Stickney, nella Romania, Vili. 73 seg;?.
^ Pubbl. dal Cappelli, Poesie nmsi'caZirfeificc. XIV, XV e XVI tratte da vari codici, Bologna. 18(38, che dà am-
pia notìzia del ms.
— 276 —
umane ha il Laureiiziano mediceo palatino 87,' e parecchie' il Parigino it. 568,' ambedue
scritti nel secolo XV. E siccome fu antico costume 1' applicare le arie di canzoni profane a
canti sacri, ' cosi avvenne che molte volte le nostre laudi si cantassero sulla musica delle can-
zonette francesi. Diverse ne sono registrate nelle tavole del D' Ancona e dell' Alvisi. Ma sicu-
ramente i più ricchi repertori di canzonette francesi sono ancora certe antiche stampe musi-
cali, tra le quali vanno segnalate quelle celebri del Petrucci e di Andrea Antico da Montona.
Non v'ha dubbio, a parer mio, che di queste canzonette francesi divenute popolari fra
noi, il popolo intendesse il senso molto approssimativamente. Ciò che più gli importava era
r aria; tanto è vero che dalle antiche intavolature ci risulta essere state popolari eziandio
alcune canzonette tedesche, delle quali certo volgarmente non si poteva avere alcuna intelli-
genza. Questa osservazione spiega assai bene come e perchè di solito queste canzonette ol-
tramontane giungessero sino a noi a brandelli, storpiate, malconcio in ogni maniera dai can-
tori prima, poi dai copisti e dai tipografi. Il più delle volte se ne hanno solo le prime strofe,
ovvero una canzone entra in un'altra, ovvero vi si introducono tali e tante modificazioni, che
riesce malagevole il ricavarne un senso qualsiasi. Ciò non toglie che questi singolari documenti
letterari meritino di essere raccolti e pubblicati, giacché in seguito, col raffronto dei testi, non
sarà impossibile richiamarli a forma completa ed a lezione corretta.
Le canzoni fi'ancesi dei codici di Cortona, che io qui offro ai lettori, hanno tutte le
traccie del lavorio di decomposizione cui solevano andare soggette queste poesie in terra
straniei-a. Di due, come ho già accennato, non vi sono nei nostri libretti se non i capoversi,
l'uno dei quali suona Entré ye sui's en gran j^ensier, e l'altro Elogeron nous seans hostesse.
Queste poesie erano forse cosi^note, che non si credeva opportuno il riferirle. Di altre, che
io pubblico, abbiamo solo i primi versi o la prima strofe: poche danno indizio di essere
intere.
Io ho cercato in tutti i modi di identificarle con canzoni già conosciute, e in alcuni
casi ci sono riuscito. Anzitutto va avvertito che noi troviamo una diversità notevolissima fra
' Non due, come asserì il Carducci, Studi UH., Livorno, 1S74, pag. .376, giacché l'unica poesia La dotice fere
d'unfier animai vi è ripetuta due volte (e. 101 ti. e 102 r.). D'un' altra canzonetta francese vi sono unicamente i
primi versi (o. 161 v.) e cominciano Adiu adiu dous dame iohj. Ma se si prendo in considerazione questa, non si
dovrà neppure trascurare la rilevante poesia trilingue, che si logge nel cod. a e. 95 v., 101 v. e 105 r.-
La fiera testa che duman si ciba
ponnis auratis volitum perquirit;
so vr' ogni 'talian questa preliba,
alba sub ventre palla decoratur,
per che del mondo signoria richiede
velut eius aspectu demonstratur.
Cist fier cymiers et la fiamma che mart
sofrìr mestoyt che son fior leopart.
Delle molto poesie musicali italiane di questo cod. diedero replicate volte dei saggi il Bilancioui, il Cappelli, il
Ferrato. Cfr. Zambrini, Op. v. a st', 48-49, 125-26 e 823-24.
■ Diciassette secontio il Carducci, Op. cit., pag. 375; ma so dice vero una gentile comunìcazioiio avuta dal
sig. G. Raynaiid, non sarebbero tante, be non che il vedere nella tavol.i dello poesie italiane del cod. favoritami
dal dottor Mazzatinti qualche capoverso francese sfuggito al Raynand, mi fa sospettare che egli abbia scorso il ms.
troppo frettolosamente.
" È r antico Siippl. 535 , descritto dal Marsand , .lAs., 1 , 57 I e utilizzato dal Trucchi , Poesie , II . 142 seg.
' Cfr. Lavo!?:, La munique ansicele de S. Louis, in Raynaud, Ileciieil de mote.ts frnnrnia , Paris, 18«.'-8i, II, 264-G7.
È noto come uno dei più antichi e notevoli esempi di questa applicazione sia nel mistero provenzale di Sant'Agne-
se. Cfr. l'.artsch, Saiicla Ar/nea, Berlin, 1S89, pag. xi.t-xxx.
lo più antiche poesie musicali francesi, quelle del sec. XII e XIII, e le posteriori. Appena
qualche motivo dei motets e dei rondemix antichi * sopravvive nelle canzonette francesi del
sec. XV e XW. Quindi le poesie del famoso codice di Montpellier segnalato e illustrato dal
Coussemaker, " pubblicato integralmente dal Raynand, '' e le altre simili che da parecchi
codici mise insieme lo stesso Raynaud, hanno ben poco a che fare con le canzonette dei
codici di Cortona.
Riscontri invece osservabili possiamo trovare studiando il manoscritto francese 12744 della
Nazionale di Parigi, pubblicato da Gaston Paris.* Ivi leggiamo intera " la canzone Lordault
di cui nel codice di Cortona vi è solo un piccolo frammento (n". VI), e della cui diffusione in Italia
può esserci testimonio il trovarla nei Canti B. ninnerò cinquanta del Petrucci." Di là rileviamo
come il n". X di Cortona sia una contaminazione di due motivi diversi, ambedue appartenenti
ad un gruppo speciale di canzonette francesi , quello degli avventurieri. ^ E là pure troviamo
nella seconda strofe della canzone La nuit, lejour je snis en painne , quel componimento Entré
je sidx en grani pensée, di cui nei codici cortonesi vi è solo il capoverso. ' Altri riscontri non
trovai. Noterò qui solo che il principio della nostra canzone XXIV, Vray Dieii que pene
m'esse' è comunissimo nelle antiche canzonette francesi, in cui si invoca per solito il rray
dieu d'amour, ■'" che la XXVIII tra le nostre canzonette riproduce un motivo frequente
nella poesia popolare in genere e nella francese in ispecie, il lamento dell'amatore o della
amatrice abbandonati; " che la XXIII non è se non il principio di una pastoi'ella cui suol esser
convenzionale quel prew(fere per la mano bianca, sopravvissuto anche nelle più tarde can-
zoni francesi. '" Questa poesia, del resto, trovasi anche nei Canti C. del Petrucci. '^
Nelle intavolature del Petrucci si rinviene anche la I,'' che trova riscontro nel motivo
' Per il significato musicale e letterario di queste x^arole vedi Coussemaker, V art ìtarmnnìqne nnx XII^ et
XIII' siècles, Paris, 1865. pag. 59-65.
- Vedine la tavola in Op. cit, pag. 257-G8.
' Nel Itccaeil de motets frangals sopra citato. Il cod. di Montpellier ha ormai una intera letteratura.
' Cliansoìis da XV siede, Paris, 1875.
* A pag. 69.
' Vernarecci, Op. cit.. pag. 258, f. 8.
' Cfr. pag. 127 e pag. 143 della raccolta Paris. I canti antichi dei soldati di ventura francesi sopravvivono mo-
dificati in una intera serie di canti popolari d' oggigiorno, cho è accuratamente esamin.ata in un' apposita sezione
deir opera recente di W. SchetHer, Die frmizusische VolksilicUung nnd Sane, Leipzig 1885, voi. Il, pag. 3 segg. Cfr.
spec. pag. 47-50.
' Cfr. Paris, pag. 141. Una canzone con principio .simile, Entrée Je siiis en gniiit tnrment, è a pag. 80.
' £sse per est ce. Cfr. Paris, Oj). cit., pag. 29.
° Cfr. Paris, pag. 9, 27, 44, 121, 122-125. La canzone Vray Dieu d'amor qui me conforterà, ohe nel Paris è a
pag. 122, ricorre anche in un codicetto Campori, non ancora catalogato, di cui ho la tavola da V. Gian, che ne ha
detto per primo qualcosa nel Gior. st. della leti. Hai., IV , 22 ». La citata è 1' unica canzonetta francese che si trovi in
quel ms. La si rinviene pure nei Canti B del Petrucci (Vern., pag. 238, f. 7) e forse è ripetuta nei Canti C. num. cento-
cinquanta (Vern., pag. 242, f. 96),
" Cfr. nella race. Paris, pag. 91, 104, 103,183, e più particolarmente le bellissime poesie su questo motivo,
che sono nella raccolta Haupt-Tobler, Franziisische Volkslieder , Leipzig, 1877, pag. 2, 10-18, 130. Vedi anche la bella
e serrata esposizione dei principali motivi che ricorrono nella poesia popolare francese in Bartsch, Alte franz'ù-
Bische Volkslieder uebersetzt , Heidelberg, 1882, pag. xxv.
" Vedine riscontri in altre pastorelle guastate : Paris, pag. 52. Je la prins par sa maiii qui blanclioiie , pag. 54,
Je la prins par sa main bianche. E cosi pure in poesie popolari di genere diverso: race, cit., pag. 115, e Haupt-Tobler,
Op. cit., pag. 84, 142. Per le nuove forme che hanno assunto lo antiche pastorelle neWa, poesia popolare francese con-
teaipor.anea, vedi ScheiBer , Op. cit., I, 132 segg.
" Vernarecci, pag. 241, f. 65.
" Vera., pag. 212, t 94.
— 278 —
della canzone En mes amours ie nay quo dispìaisìr d' una antica raccolta. ' E nel Petnicci
vi ha pure la III,' e la V, ' e la VH, ' e la Vili, '' e la IX, '' e la XI,' e la XVn, ' e
la XIX, " la cui aria sembra entrasse anche in qualche messa. '" La XXV ha l'andatura della
celebre canzone della bella Alice, il cui motivo ricorre in Erancia come in Italia. " La XIV,
molto lubrica, se da una parte si collega per il principio a quella Hor oires une chanson
che ha il Petrucci,'" sembra per altro lato richiamare nel contenuto una delle molte canzo-
nette di cui dà il principio il Rabelais, Mon con est devenu sargent.'* La seconda, il cui
motivo è in una delle canzonette pubblicate dal Paris, '^ e che troviamo ricorrere nel Pe-
trucci,'^ ed è illustrata nel Liher quindecim missarum di Andrea Antico," leggesi con buona
lezione nei Mottetti novi et chanzoni franciose a quatro sopra dai inseriti nel Zibaldoncino
mvsicale della Marucelliana, del quale avrò a discorrere in altra occasione. Eccola secondo
quel testo : '
Baises moy , ma doulce auiyo ,
par amour, je vous en prie.
— Non seray — Et pour quoy ? — Si
je faisoye la folye ,
ma mere en seroit marrye,
vela de quoy , vela de quoy.
III.
Quanto ho detto sinora -spiegherà perchè io qui pubblichi le canzonette dei codici Corto-
nesi senza tentarne veruna correzione, neppure là dove sarebbe agevolissima e consigliata
dai riscontri. E mia ferma convinzione che anzitutto le canzonette straniere come le italiane,
che si trovano nei nostri codici musicali, debbano essere riprodotte cosi come sono, con tutte
le storpiature e le mutilazioni dovute all'uso, alla musica, alla poca intelligenza dei testi.
In seguito, allorché questa via, nella quale sono fra i jiriml ad entrare, sarà ampiamente
' Lafleur dcs cluiiiS07i8, reimpressione moderna a facsimile, fatta a Ganti o Parigi s. d., di una stampa antica
che si giudica del 1530. La canzone da me nienzionata è la 12'» di questo volumetto.
' Vera., pag. 210, f. 10.
' Vern , pag. 239, f. 26.
' Vera., pag. 236, f. 46.
' Vern., pag. 212, f. 82.
' Veni., pag. 239, f. li.
' Vern., pag. 236, f. 28.
' Vern., pag. 211 , f. 35.
" Vern., pag. 210, f. 5, 6. 24; 241 , f .")2.
'" Cfr. Zenatti, Andrea Antico da Montana, in Ardi. il. per Trieste , ec, I, 1S7, n. 3.
" Vedi D'.\ncona, Poesia pop., pag. 90-98.
'• Vern., pag. 235, f. ».
" Pantatiruel, V, 34.
" Cfr. pag. r.i, nella canz. Vec>i venir la i/elh'e.
" Vern., pag. 239, f. 38, 40.
'" Vedi Zenatti, Op. cit., pag. 1S:1.
'* A pag. 575 della numerazione progressiva a mano.
— 279 —
percorsa, in seguito si potrà e si dovrà sui testi molteplici e vari ricostruire la vera lezione
primitiva e studiare le trasformazioni subite da quei motivi, sempre giovani nella bocca del
popolo. Il farlo prima sarebbe cosa, non solo imprudente, ma, quel eh' è peggio, inutile.
A base del mio testo è messo il libretto del soprano , che è il più ricco. Ho sempre
indicato i luoghi in cui il testo riferito nel codicetto del contralto presenta delle varianti di
qualche entità. Nei casi in cui le parole che si trovano nel libretto del contralto fossero de-
cisamente da preferirsi a quelle date nel libretto del soprano, le ho introdotte nel testo
in corsivo. Ho pure introdotto nel testo i versi che mancano nel libro del soprano e si leg-
gono nell'altro, spazieggiandoli.
Rodolfo Renier.
280 -
Je n'ay dueil que de vous ne TÌegne,
mais quelque mal que ie soustiegne
j'ay trop plus cher vivre eu doleur,
que soufFrir que mon pouvre cueur
a ung aullire que vous se tie)ì<jne;
car Dieu voulut tant pour vous taire,
qui n'est cueur qui n'eust trop a taire '
de vous grant bieus a droit louer.
Son plaisir fust de vous complaire
et plus eu vous qu'eu aultres a faire '
dont ung chacun vous doibt amer.
II.
— Base moy pour amor,
je vous am prie. '
— [J]e non fere — E por quoy? —
— Ma mere en saroet marie ,
vela de quoy.
III.
Une plaisaut figlefcte
au mattin .se leva,
apris sa ciemisette
a hote voes crie:
entro dos huis
que m'est il avenu?
— Par Dieu ne plores plus. —
Ma cinture cliorte
Cont. : Qui: il n'esl. nid.
' Cont.: J'2 plus de bitns.
' Cont.: Base, moy, hcn/se moii douìx amie.
- 281 —
e o le ventre me creu. 9
— Or vous tases la belle;
si c'est un enfant, male,
il porterà le schu ; 12
si c'est nne fillette,
ella ioiira dn chu '
entre dos huis. 15
IV.
Jouli marinar, passe moy sena.
L'altre ior j'estoit sur Sene
rencontre d'un capitene. 3
n moit apella villeyna; '
yoly marinar, je ne sui passe villeina;
youli mariner, passe moy sena. 6
Se le fi du roy non m'ame,
yoly mariner passe moy sena.
V.
Veci la danse bai'bari.
En Barbari avint l'altrier
une grant aventure 3
de troes filles d'un borgioes
chi yoent a la verdure.
Disoet la plus yone de troes : 6
je suis la plus fendue,
de puis le cui jusch'a nonbril. '
Veci la danse barbari. 9
VI.
Lordault, lordault, garde que tu feras,
car si tu te marie, tu t'en repentiras.
Si tu prens yone femme, yalous tu en seras; 3
lordault, lordault, garde que tu feras.
Cont.: cimi.
■ Cont.: apellc.
' Cosi cont. — Sopr. più corrottamente ire chanon brìi.
- 282
VII.
Vostre bargeronette , m'amiette,
vostre bargeronette m'a nouri.
Mon pere m'a doné mari;
la premier nuit
qiiant je cliucie o luj',
vostre bargeronette, m'amiette,
vostre bargeronette m'a nouri.
Vili.
Et leves vous, o Guigliermette ,
et leves vous car il est jor :
vestre ciamisette apretee,
se mon biau pellicon je n'ay;
iron faire la tourte
et cleliez no vache.
Quant Guiglielmet entendit,
si respont a grant bate:
et point je ne mi leverò.
IX.
Je suis amie du fourrier Oralez
et mignonne a ces gendarmes.
Je fus prise en uug village
au mattin a dezlogier Oralez.
Se mon pere me donne Orales,
cent escus en mariage,
je n'usse pas fet Voutrage
de mon cors abandoner Orales.
X.
Gentil galans de Frauce,
qui alla guerra alez,
je vous pri que vous plaise
— 283 —
mou ami salues.
Et nous ne porteroii plus d'esjiee
plus que le roy nous acasses 6
et nous a rogne nosode.
XI.
Alon fere uos barbes,
alons , gentil galans ;
la barbiere les mogie 3
sovent deux a la foiz.
Il trove ses mignons
quant son mari revient 6
de fere sa besogne
qui luy font vigle come
disant: coment va, 9
coment fet vostre femme
fet elle plus cela?
Et on la troveroye 12
la femme 0 petit con.^,
don don don don.
Trover ne la saroie, 15
je né bien trové une ,
qui dit que l'a petit;
par Dieu ye buteroie 18
Paris, Bruges et Gant
de daus, de daus,
et Troye, si je voloye. 21
xn.
Tambieu mi son pensada,
mari, se mi bates,
a l'ami m'en ire. 3
• — Helas la mi moglere
cbe con selas aghut
io te tenir ondrade 6
chon l'aigle d'un duoli ,
non ch'ai partir de cliase
por aver ton deghut 9
e mescliin con feray.
— 284 —
XIII.
Tambur, tambur, tambiir,
tamburelaridou , tamburelaridena ,
le roy a fet crier
par villes et fabors
que le ^oieHte'mesfcier
soet inantenu toitiors.
XIV.
Voles oir tiue cbanson de chons,
qui mal en dit il ne pas gentilz lions.
Se bien en vient le solaset le yoye,
a dos genos on luy baigle sa proye;
le ehon ne craint bombarde ne chauon
chortot, chogliarfc, passevolant.
Flecie ne vei'eton '
n'e rien si fort que contre luy ne ploye.
XV.
Si je fet ung cop apres
no en doie estre blasmee.
Si m'u fet mal j'usse dit ho.
L'altri er quant ciemynoye
mon cieniin to droet a Paris,
j'é rencontré la belle
antre le bras de son amy;
cela sans plus et piuz boia.
XVI.
Si je vous avoye pomte hdas dandriglon
da me belle gente tros fois de mon aguglon,
Cont.: vintton.
— 285 —
vous n'en series quo, plus gentil hellas dandriglon;
0 qiiant vous viendres a nostre maison,
vous choucieres avec moy, hostesse.
— Helas ami., cela ne fere pas,
helas ami, ne choucieres avec my.
E darion la mi fa lo re daridon daridon
fa lo re la ri la mi fa lo ri darion
■ mariou farion farion miredon farionde.
XVII.
Chascun me arie, marie toy, marie.
Helas je n'ose, tam sitiz bon conpagnon.
La jillette qid m'ara n'ara pas tous ses ayses 3
de ver le vespre, luy doblera la feste
de sur sa teste quatre cops de baton.
Qunnt fesfoye a marier si tres yoìi/e i estoye 6
ch'on ne m'ut donne img bochet.
Ciascun me crie, marie toy, marie.
Helas je n'ose tan suiz bon conpagnon. 9
Certe si vous maries vous ferez grant follie,
je me reprenz de Vavoir fet,
or suis je pris outre buciet. 12
- XVIII.
Fille, vous aves mal gardé le pan davant.
— Mere, je ne puis amander, c'est par le temps.
— E figle, ma tre duoìce iiUe 3
e n'ames vous home qui vive?
— Mere , trop tart le m'aves dit
et parles bas, tousior de celle me souvient G
qui a la teste enveloppa d'un crovercier
eusafrana la marende, je l'ame bien bin bin.
XIX.
Eorselleinent Fatante che je more,
en mon cor nul espoir ne demore,
— 286 —
car mon malhor si tres fort me tormente
ch'il n'est dolor que par vous ne sente
porca che suis de vous perdre bieu sore.
XX.
Il estoit ung bon home qui venoit de Liou ,
il avoit une lille de tan belle facon,
fa re la mi sol ut,
de si belle fasson;
il l'a mis a l'escole aupres de sa meson
fa re la, etc.
XXI.
L'amor de moi il est ondose,
sy est enclose eu ung si plaisaut jardinet,
ou croit la rose et le mughet
et aussy fet la passe rose.
XXII.
Maìi-e de Die
tant caude soy piene d'ordure ,
vous es mege naturai,
sans fere mal prenes ma cure.
Je son mege naturai
que cognoisse l'orinai,
plaga mortai ioux la senture
a ung pan pres du nonbril
a gran perii prenez ma cure.
XXXIII.
L'aulire jor je cievalcioie
l'ombre d'un pont
son gabiUiondou.
Je trovei una bargiere
en l'ombre d'un pont.
— 287 —
Nous dansaron sans vous soner;
je la pris par sa man bianco
en l'ombre d'ung pout.
Nons dansaron sans vous soner.
XXIV.
Vray Dieu que pene m'esse
che d'estre presonier.
Ye vis en gran tristesse 3
et an tres grant dangier.
La dolor ehi ne cesse
mi fet lo color cangier; 6
ye n'ay bien ne liesse
por mes manlx alegier. '
XXV.
Je me levei l'anitre nuyt
un bien petit devant le jor,
j'oi canter en une tour 3
une figle gaye et jolie
disant ansi:
et portant se je suis 6
jonette, gaiette,
fraschette, bellette, brunette,
s'est afin que mon corps playse 9
a mon ami.
Volé vous point une amoreus
si n'a la cemise fronsee, 12
vous m'aves bel attendre,
vous m'aves bel attendre vous."
XXVI.
Sardonnes moy se je faloye,
verdin verdingoye,
l'on ne s'en doibt esmerveiller , 3
' Nel libretto del contralto sono scritte solo le parole Vray dieu.
Nel libretto del contralto non v' è ohe la iniz. J,
— 288 —
por verdinguer,
car plus sage qtie mon foloye
et verdingoye.
Ung falconier tousiors se ioye
quant il voit son oyseau voler,
gay, gay, gay;
mais qu'il ne perde point sa prole
et verdin verdingoye.
XXVII.
Vele e?/, vele la, ma mere.
Vele ci, vele la le gorriere mignon.
Quant j'estoie jonette petitte garsillon ,
on m'envoiet a l'erbe garder mes agnellons.
Fainon, fiUette.
Le godon, ma mere, vele cy, vele la,
le gorriere mignon.
XXVIII.
/Sej'ay perdu mon amy
je n'ay pas cause de rire; '
je l'ay si long temps amé,
vrai Dieu que volé vous dire.
Il y a cinque ans et demy
qu'a mon gre l'avrie clioysy
et morte suis se je ne l'ay,
que volé vous dire de mon amy.
Cont. : Jc n'ay point.
UBER DIE TENZONE DANTE'S MIT E0RE8E DONATI.
Isidoro Del Lungo hat das Vei-dienst, das von dem Anonimo Fiorentino zu
Purgatorio XXIII. erwàhnte Sonett Dante's an Forese Jiom,ii: Ben ti faranno il
nodo Salamone ans Licht gezogen una damit dem Streite um die Echtheit der ge-
sammten aus fiinf Sonetten bestehenden Tenzone, die freilicli mehr eines Villon als
eines Dante wiirdig scheint, wohl fiir immer ein Ende gemacht zu haben. Seiner
Ausgabe der fiinf Sonette {Dino Comjjagni e la sua Cronica. Florenz 1879. II, 610-24)
ist ein Kommentar beigefùgt, der, wenn man Gaspary's und Renier's Anmerkun-
gen ' hinzunimmt, kaum noch Dunkelheiten iibrig lasst.
Indessen liegt eine solche vor in dem Schluss des erwàhnten Sonettes , wo Dante
dem diirch seine Schlemmerei lieruntergekommenen Forese den Rath gibt, eine
Kuust zn iiben, auf die er sicli bereits verstehe: dieselbe sei in der Zeit gebràuclilich,
in der man Sclieu vor dem Fleische habe; Forese branche dazu nicht einmal von
seinen sonstigen Beschàftigungeu abzugehen. — Del Lungo bemerkt hierzu: « Quale
1' arte da quaresima e lucrativa , con la quale il poeta consiglia ironicamente Forese
a rifarsi de' suoi scialacquamenti e stravizi, e quale il morso in cotesta ironia con-
tenuto, non saprei dire. »
Ich glaube dass Dante ilim empfielilt sicli des elielichen Verkehrs zu enthalten.
Dass diese Kunst dem Forese geliiufig ist, liat Dante auch. im Soiiett Chi tidisse
ausgefiilirt und ani Schluss des Souetts Bicci angedeutet. Der Ausdruck carne in
dem den Begriif der Fasten {quaresima) umsohi-eibenden Verse
E fassi a temilo eli' è téma di carne
ist doppelsinnig. Dass man sicli wahreud der Fasten des Beischlafs enthalten soli,
schreiben die Bussordnungen des Mittelalters vor, von denen icli nur zwei aiifiihren
will: eine aus England und eine aus Italien.
« Qui in quadragesima ante pascha cognoscet mulierem suam, noluit abstiuere :
' Gaspary, ■ CfescfticMc der Italienischen Literaluy 1, 516. Eenier im Mocimeiito letterario italiano. Taiin,
September 1880.
37
— 290 —
annum peniteat vel suum pretium recldat ad ecclesiam vel pauperibus dividat
aut XX et sex solidos reddat. » Pmnitenticde Egberti VII, 4. (Die Bussordnungnn der
abendlundischeìi Klrclie lierausgegehen von Wasserscklebeu. Halle 1851. S. 238).
« Si abnsus fuisti uxore tua , vel in die domiuico vel in aliis festivitatibus sancto-
rum coucubuisti cum ea vel in quadi-agesima : VII diebus peniteas. » Fmdtentiah Ci-
vitateiise e. XVIII {Bassordnungeii. S. 690).
Beilàufig sei darauf liingewiesen dass in dem Altfranzòsischen Roman von der
Manekine (V. 6621 fg.) der Konig von Schottlaud und die Manekine wahrend der
Passionszeit solche Enthaltsamkeit uben.
Icli moclite aber nodi auf einen andern Umstand die Aufmerksamkeit lenken.
Die f'iinf Sonette bei Del Lungo beginueu mit folgeuden Versen:
Dante:
Forese:
Dante :
Dante:
Forese :
CHI UDISSE tossir la mal fatata
L' ALTRA notte mi venne una gran tosse.
BEN TI faranno il nodo Salamene.
BICCI Novel, figlinol di non so cui.
BEN SO che fosti figliuol d' Allaghieri.
Ich citiere die Sonette mit deu in Majuskel gedruckten Anfangsworten.
Bis vor kurzem waren nur vier dieser Sonette bekanut (Chi udisse, L' altra, Bicci,
Ben so) , welche in dieser Reihenfolge in dem s. g. Quinterno und in einer Chigi-
Handsohrift erhalten und nach jenem von Palermo (J Manoscritti Palatini di Firenze,
II, 1860. S. 719, vgl. S. 614), nach dieser von Monaci (im Projmgnafore , X, 346)
herausgegeben worden sind. Der Sammler des 14. Jalirhunderts — nach Palermo
wàre es Petrarca geweseu — kannte also vier Sonette : das funfte, von dem Ano-
nimo' Fiorentino citierte und von Del Lungo herausgegebene war ihm unbekannt.
Ftigen wir nodi liinzu dass die beiden Sonette Bicci und Ben so in Ilandschriften
und alten Drucken fiir sich allein iiberliefert werden, so wird folgender Schluss
bei'echtigt sein: Dante und Forese haben sich nicht darum bemiiht, die Sonette der
Nachwelt ■ zu iiberliefer3i , die wahrscheinlich sogar gegen den AVunsch der Bethei-
ligten, sicher gegen Dante's W^unsch, auf uns gekommen sind. Die Sonette hatten
als Gelegenheitsgedichte von vertraulichem , nicht literarischem Character nur im
engern Freundeskreise circuliert, und erst der Sammler des 14. Jahrhunderts wird
sie unter Dante's lyrisclie Dichtungen aufgenommen und ihre Reihenfolge be-
stimmt haben.
Von dieser Reihenfolge ist unzweifelhaft dass das Sonett Ben so die Antwort
auf das Sonetto Bicci bildet. Schon der erste Vers Ben so che fosti Jìgliuol d'Allaghieri
— 291 —
autwortet anf deii ersten Vers Bicci Novel, JìyUtiol di non. .su cui. Del Limgo liess die
Reihenfolge des Quinterno besteheu und schob uur das ■ von ihm entdeckte Sonett
Ben ti hinter dem Sonett L' altra ein : mit vollem Rechte , da schon der erste Vers
von Ben ti eine "Wendnng aiis dem Sonett L' altra wieder aufnimmt. Del Lungo liat
jedoch iiberselien dass in Folge dieses Einschnbs nunmelir zwei Sonette Dante's
uumittelbar anf einander folgen, wodnrch zwei Tenzonen gleichen Tones nnd glei-
chen Inhaltes entstehen, dio beide von Dante ausgelien. Das ist hoclist unwahr-
scheinlich: die Sonette werden eine einzige Eeihe gebildet haben, in der je ein So-
nett Dante's mit einem Sonette Forese's abwechselte. Ich balte daher tur die nrsprilng-
liohe Reiheufolee diese:
Dante :
Bicci.
Forese :
Ben so.
Dante :
Chi adisse.
Forese :
i' altra.
Dante :
Ben ti.
Das dem Quinterno fehlende Sonett war also das letzte der Reihe. Einige Stellen
kommen erst bei dieser Auordnung in das rechte Licht. So L cdtra V. 6 und 7,
wo Forese auf das Sonett Z?«cct anspielt, in welchem Dante ihm vorgeworfen batte,
er vergreife sich an andrer Lente Gut. Dante wirft ihm in den drei Sonetten Eanb-
lust {Bicci), Versaiimnis der ehelichen Pflichten {('lii udisse), Gefrassigkeit {Ben ti)
vor, hat aber schon im ersten Sonett alle drei Liebenswiirdigkeiten angedeutet.
Dante spricht in deu ersten beiden Sonetten von Forese in der dritten Person,
geht dami aber in Ben ti zur direcfcen Anrede iiber, ein Moment das gieichfalls flir
die Richtigkeit der hier vorgeschlagenen Reihenfolge in die Wagschale fallt.
Halle (Saale).
Hermann Sochiee.
L'ARTE DEL DIRE IN RIMA.
SONETTI DI ANTONIO PUCCI.
L' arte del dire in rima del Pucci non è — si capisce bene — né poteva essere , nulla di
simile all' Epistola di Orazio o alle poetiche del Menzini e del Boileau. 11 Pucci dà soltanto
qualche ammaestramento pratico sulla struttura del Sonetto: e delle varie fogge di questo
componimento consiglia quella sola delle quartine a rima baciata e delle terzine con due
rime alternate, quasi non avesse altri tipi da proporre ad esempio, e Dante stesso, dei Ciri
sonetti raccomanda lo studio, non glie ne offrisse: ed egli stesso non apponesse ai suoi la
coda, di che tace affatto. Si diffonde quindi, dal VI sonetto in poi, in precetti, appropriati
cosi a questa come ad ogni altra maniera di componimenti in poesia, od anche in prosa. Se non
che, il povero tromba non cava questa farina dal suo sacco, ma dall' altrui, compendiando il
Tesoro di Ser Brunetto, che, a sua volta, nei capitoli del libro VII che a tal materia si ri-
feriscono, riproduce Albertano. Ma che 1' esemplare del Pucci fosse proprio il Tesoro, lo dice
chiaro un attento confronto dei due testi. Ad es. il v. 12 del son. IX riferisce una aggiunta del
retore fiorentino ai precetti del bresciano. ,
Il testo onde sono tolti questi sonetti è un codice di rime antiche della Comunale di
Udine, probabilmente scritto nel sec. XV dal poeta Giorgio Sommari va. Evidentemente egli,
od altri che lo precede, travesti alquanto il dettato fiorentino del Pucci, come apparisce ben
chiaro e subito dal titolo, che abbiamo conservato quale il manoscritto ce l'offriva. Né le ricer-
che fatte avendoci somministrato altro testo migliore e più compiuto , ci siamo dovuti conten-
tare dell' utinense, correggendo soltanto laddove era possibile congetturare la forma originale
dalla seconda. Ma alle lacune di versi interi ci è stato impossibile rimediare.
Offriamo adunque agli studiosi questa corona di sonetti pucciani, cosi com' è. Essa con-
fermerà sempre più che il modesto quanto fecondo improvvisatore popolare aveva, come altre
prove ne dà il suo Zibaldone, un sufficiente possesso dello scibile de' suoi tempi, e che dalla ,
notizia di cose diverse e disparate traeva egli materia al canto , col fine di rendere maggior-
mente comuue fra le plebi la dottrina da lui pian jnano e non senza fatica accumulata.
Alessandro D' Ancon.\.
- 294
Autoiiij Pncio ad un fiol de mi chavalero podestà iu Fiorenza che reqiiirl gè
insignasse l' arte de dir in rima. E lui a sua risposta li scrisse dodexe Sonati in
tal guixa.
Ben che non sia maestro di trovare,
po' che tu pur mi preghi che t'insegni,
mostrar ti voglio mie' piccol' ingegni ,
onde talor parole so rimai'e.
La tema ti conviene imaginare
prima che a cominciar sonetto vegiii,
e dal pensare fa che non isdegni
se in corto tempo tu vogli imparare. 8
E tutta V a b e vien bischizzando
quando tu sei dal tema ['n] rima ei-raute
per trovar quella che tu vien cercando.
Ma d' una cosa t' aniaestro avante :
che tu [ti] vegue spesso spermentaudo
sopr' a' sonetti che furon di Dante. 14
Se ti correggi pe' sonetti suoi
per nulla guisa mai fallire puoi. IG
2 me predi inzcgiiì. — 5 convien. — 7 pensar. — 8 curto. — 9 ?« 6 beschizamìo. — 1- ta maestro.
205 —
II.
Fammi eli piò quattordici il sonetto,
che '1 primo rime cV una condizione,
al secondo e '1 terzo [a] una ragione,
e '1 quarto sì risponda al primo detto.
El quinto dir col quarto sia coi'retLo;
dal sesto al sette non sia jurgione,
a' duo secondi faccian responsione;
r ottavo dir col quarto sia perfetto. 8
Il nono rimi d' altra mainerà,
decimo d' altra clie svari da quella,
l'undici serva la nona ma tara;
Duodecimo col decimo novella,
il tredici coU' undici sia spera,
quattordici con dodici suggella. 14
Undici sdlabe esser vuol la rima:
qual fusse più o man, rendi con lima. 16
1 fa meci pie quatordice. — 2 condtclone. — G tptrfjionc. — la dai. — 10 d'nn aìira. — 11 vuìuUct maltiera,
13 tredecì vundeci. — 14 qiiattordecì con dodcci. — 15 Viidcci. — Iti tendi.
in.
Se tu divari la comune usanza,
rima in diece sillabe si vale
se una sola lettera vocale
perfettamente fa la consonanza.
Se d'undici vuoi far senza fallanza,
fa che ogni verso sia di piedi uguale:
due lettere vocal' tien per segnale
coli' altre che fra lor fan dimoranza. 8
Se 'n dodici facesse recaduta ,
tre lettere vocal' similemente
tien pel secondo modo provvedute.
Si che ciascuna, sia nel dir corrente,
che quando per altrui saran vedute
ti porti pregio di rimar la gente. 14
Disputa con color che son più savi ,
a ciò che ciaschedun d' error ti cavi. 16
2 dece. — 5 de vndeci voi. — 6 de, p. — 7 Doi ìctre.... siijnaU. — 9 duodcci. — 10 letre ... aimelmente. - lli>er lo s. ■
12 ziaschaduna. — 15 qiielor. — 16 zaachadan de.
296 —
IV.
Perchè cV imprender veggio eh' ài desio
a me diletta molto d' insegnarti
mostrandoti lo stii che ne tengo io.
S' è per li temporali ovver di Dio,
di dire « te » e « voi » qiianto puoi guarti:
se dal seguir la proposta ti parti,
non puoi un fallo far che sia più rio.
Ancor se vói tener diritto stile,
del femminile non far mascolino,
né del mascolin verbo femminile.
Se fai risposta [a] alcun, con bel latino
14
vinci che 1' usa a te con cortesia. 1<3
I delelta iiìsìgnaiii. — 3 Manca nel ms. — 5 de d. — (i Di lìhij ti et coi. — 9 tniii- ilrito stille — 10 Dil feme-
. mascuUiio. — 11 mnsculino feininille. — 12 cum b.— 13-5 Mancano nel ms.
V.
E non entrare, amico, troppo fiero
nel voler apparar a dir per rima,
eh' egli è fatica grande senza stima,
accupamento d' ogni altro pensiero.
Ben che '1 principio ti parrà leggiero ,
egli è più grave a salir nella cima
come t' ò detto , a far bon magistero. 8
Non dico questo per isconfortare
il tuo 'ntelletto di così beli' arte ,
ma perch' ella vuol dolce cominciare ,
Pulendo ben per sé catuna parte;
e tutte insieme pi-ima concordare
che '1 dir si metta per compiuto in carte. 14
Che molti fanno pai'ole rimate ,
che molto men che in prosa anno bontate. Itì
lintrar. — S Chelgie. — b te p. ifV/iVro. — 7 Manca nel ms. — iO tuonceìhlo cussi. — U doìze comcnzare.
12 cliadauna. — 14 se. — 15 rimadc. — 16 boutade.
297 -
VI.
Sai coni' se fa? che pensi innanzi tratto
se tu non vói nel tuo parlar fallire ,
chò si convien sì le parole ordire
che gli auditori non ti taguan matto.
La prima , chi tu sei che viene all' atto ,
6 la seconda , quel che tu vuo' dire ,
la terza, pensa chi ti sta a iidù'e,
la quarta, che cagion t'induce al fatto. 8
La quinta, ti convien pensare il come
tu dichi, sì che non ti sia vergogna,
ma nasca del tuo dir fruttifer pome.
Sesta, pensa di tempo che bisogna:
[che] ben che tutti i tempi abbiano iin nome ,
non si conviene a tutti la sanpogna. 14
Or ti dirò di ciascheduna cosa
che buone son per rima, e più per prosa. 16
1 Scie con se fa. — 3 se. e. — a tit sceche vien allato. — 7 che te. — S qtie e. te. — 9 x>ensar el e. — 10 te s. —
11 frutier. — 12 La seta. — H convien — 15 de zaschaduna. — 16 sun per.
1-14. Misura le jjarole, che sicome dell'opere, che sono slahilile per viriudi, così [segue iJericolo] del
parlare quando non è secondo ordine di ragione. E però innanzi che tu dichi, tu dei considerare principal-
mente sei cose; Chi tu se' : Che tu vuoti dire; A cui tu di'; e Perchè, e Come, e Quando: B. Latini, Tesoro,
volg. da B. Giamboni, Bologna, Eomagnoli, 1880, lib. VII; e. 13, voi. Ili, pag. 250. Cfr. con Albertani,
Ars loquendi et tacendi, in Sundby , Della vita ed op. di B. Latini, trad. Renier, Firenze, Successori
LeMonnier, 1881, pag. 479: Versiculus hic est: Quis, quid, cui dicas, cur, quomodo, quando requiras.
— 298
VII.
Pensato chi tu se' in quella stagione ,
guarda se in tuo bon senno esser ti pare;
e non ti vegua voglia di parlare
si che tu non consenta alla ragione.
Se d' alcun vizio biasimi persone ,
guarda ch'in te non si possa trovare,
però che quei che fossono a 'scoltare
di te farebber beffe e diligi one. 8
E guarda che tu sappi chiaro e scorto
quel che tu 'ntendi dir, eh' è villania
spregiar altrui, e maggiormente a torto.
E sopra ogni cosa che si sia,
fa che consideri 1' ultimo porto
che nascer può della tua diceria. 14
E questo basti alla parte di pria. 15
1 clic, — 2 tìilo bon servo esser. — 3 nierjnn. — 4 consenti la r. — 5 biasenti. — 7 fosseno ascoltare. — 8 fareòbe.
10 tu tendi. — 12 die ti s. — 14 di la l. dicaria. — 15 de.
1-2. Innanzi che tu dica parola , considera nel luo cuore chi lu se' che vuoti rfirc : B.. Latini, pag. 250.
Cfr. Albert., pag. 481.
4. Guarda che tu non sia corrente per desiderio di parlare, in tal maniera che Ina voluntale non
consenta a ragione: Id., pag. 252. Cfr. Albert., pag. 482.
5-8. Seta voli biasimare o riprendere altrui, guarda die tu non sia inagagnalo di i/uello tizio mede-
simo, chk istrania cosa è di vedere il busco ncW altrui occhio , e nei suoi non veder lo trave : Id. ,2b'ò. Cfr.
Albert. , pag. 483.
9-10. Appresso , guarda ciò che tu vuoi dire, se tu 7 sai o no, che altrimenti non lo potresti tu ben
dire: Id., pag. 254. Cfr. Albert., pag. 481.
12-14. A^ìpresso , pensa tuo ditto e quello die ne piiotc addivenire , chk molle cose hanno simìglianza di
esser buone nel principio, die hanno mala fine: Id., pag. 254. Cfr. Albert., pag. 484,
— 299 —
Vili.
Pensato quello che vói dir, ancora
non dir s' egli è con tra la veritade ;
nou dir parole senza utilitade,
e con ragione ogni tuo dir lavora.
Non parlar aspro , ma dolce d' ogn' ora
fa el tuo dir, bello e pieno di bontade,
e non usar alcuna oscuritade:
non disservir, ma tutta gente onora. 8
Nou ischernire e non gabbare alcuno,
e guardati da far male parole ;
da orgoglio e da superbia sta digiuno.
Contr' a' costumi bòn, dir non si vole:
pensa i tuo' detti, cké di ciascheduno
renderai po' ragione all' alto sole. 14
Della seconda non ti fo più scole. 15
1 che te uoy. — 3-1 Sono trasposti nel ms. — 5 dolze. —7 alguna. — S deseri'ir zente. — 9 ischerinii- gabar
algmw. — 11 sojìerbia dettino. — l:i si; volle. — 13 i to dite zaschaduiw. — 14 raggion. — 15 te so.
1-2. Tutto quello che tu voli dire, considera se è vero o menzogna: B. Latini, pag. 256. Cfr. Albert.,
pag. 4Si.
3-4. Ajìpresso , ijuarda che le tue parole nonsieno frioole , però che nullo non dee dire parole che non sieno
profittevoli in alcuna parte: Io., pag. 259. Cfr. Albert., pag. 48G.
4. Appresso , guarda se le tue parole sono per rar/ione o senza ragione : Id. , pag. 259. Cfr. Albert. ,
pag. 48G.
5. Appresso, guarda che il tuo detto non sia aspro, anzi sia dolce e òz/oHct «ria.* Id., pag. 260. Cfr.
Albert., pag. 487.
6. Appresso, guarda die la tua parola sia bella e huona , e non laida né ria: lu., pag. 260. Cfr.
Albert., pag. 487.
7. Appresso, guarda che tu non dica oscure pirole , ma bene intendevoli: Id., pag. 261. Cfr. Al-
bert., pag. 438.
8. Appresso, guarda che le lue parole non sieno sofistiche, cioè non abbiano sollo alcun male in-
gegno da disservire: Id., pag. 262. Cfr. Albert., pag. 488.
9. Appresso, ti guarda che in tuo detto non ti gabbi malamente né di tuo amico né di tuo nimico né
di nullo: Id., pag. 264. Cfr. Albert., pag. 489-90.
IO. Appresso, guarda che tu non dica maliziosi motti: Id., pag. 265. Cfr. Albert., pag. 490.
12. Di ciò che peggiora V onore di noi, e che sia contro buono costume, nullo non dee dire laide
parole, né metterle in opera: Id., pag. 266. Cfr. Albert., pag. 491.
14. Alla fine, guarda che le tue parole nen sieno oziose, di' egli te ne converrà rendere ragione:
Id., pag. 266. Cfr. Albert., pag. 491.
300
IX.
Pensato a cui tu parli, si pertene
molto guardar s' egli è o non tuo amico,
che pòi dir con fidanza : e col nemico
non parlar troppo, clié non si conviene.
Con folle non parlar, che non è bene,
né con ischernitore; ancor ti dico
se '1 mio dir tieni a capitale un fico .
che più lo fugga, che di morte pene. 8
Non parlar, [non] usar con maldicente;
a ubriaco non dir tuo secreto;
e dove parli, guarda primamente.
Oh' altro bisogna in chiesa, altro nel geto;
se parli con signor, sie reverente.
rendendogli ragion come discreto. 14
Di questa terza parte mi racqueto. 15
1 ]jarle se. — 2 to. — 6 ischenliore. — "i cupital.— 8p(« Unfiicga — 9 Non purlur iwar. — 10 Aobrico. — 11 doni
. narda. — 12 Cke giexia nel ijictto. — 13 seffiior.
1-3. Or il (lei guardare a cui parli, s' egli i'è amico o no, clih col tuo amico tu puoi parlare bene e
diritlamente , jperh che non è si dolce cosa al mondo, come avere uno amico, a cui tu 2^ossi parlare altresì
come a te: ma non dir cosa che non debba esser saputa , s'egli ti diventasse nemico : B. Latini, pag. 267. Cfr.
Aliìkiìt. , jiag. 492.
3-1. Apiìresso, guarda che tu ìinn parli troppo a tuo nemico, clic in lui non 2'^^o'' etere nulla
ficlaiv:a , ne ancora s' egli fosse pacificalo teca: Id., pag. 269. Cfr. At.bkkt. , pag. 493.
5. Appresso, ti guarda che a folle tu non parli: Id., pag. 270. Cfr. Ai.iikrt. , pag. 494.
6. Appresso , gìiardali die tu non parli ad uomo lusingritore e pieno di discordie: Id. , Jiag. 271.
Cfr. .\i,EEUT., pag. 404.
10. Appresso, guarda che il tuo segreto tu non parli a ubriaco: Id., pag. 272. Cfr. Albkiìt., pag. 495.
11. Ed, in somma, ti guarda sempre dinnanzi cui tu se' e mollo bene considera lo luogo, che è me-
stiere di dire altre cose a corte ed altre a nozze, ed altre cose al dolore ed altre a magione, ed altre cose con
compagni con cui tu sei o in piazza: Id., pag. 272.
18. Appresso, guarda se tu parli al signore, die tu l'onori e rieerisci secondo la sua dignitti:
Id. , pag. 273.
301 —
X.
Pensata la cagion che a dir ti move
(che nuUa senza cagion si fu mai)
vù che tu pensi che le sono assai,
come da parte qui ti farò prove.
Altro si convien dir pel sommo Giove
che 'n servizio degli uomini, e tu '1 sai;
altra part' è che per altrui dirai
se procaccio farai di cose nove. 8
Fa che '1 procaccio tiio non sia villano ,
ma sia bello, onorevole et onesto,
e non far male altrui per far te sano.
Se per 1' amico parli , ancor fa questo :
movi per bene , e non per altro danno ,
che prima a Dio che a te fia manifesto. 14
Di questa quarta non t' è più richiesto. 1.5
1 clte de te. — 3 son. — i de te. — 5 se summo .Jone. — 6 seruicio deli homeni. — 8 proccatio tuo unii farai
(l'aggiunta del tuo non è uuo scorso di penna del collista prodotto dalla somiglianza dol v. seguente). — 10 hoiw-
reuollo e honesto. — 11 vial. — 15 recJiiesto.
1. Appresso, dei tu r/uardare perchè tu 2iarli, cioè a dire, la cagione del tuo detto : B. Latini, pag. 274.
Cfr. Albert. , pag. 496.
2. Cassiodoro dice che nulla cosa paote esser fatta senza cagione : Id., pag. 274. Cfr. Albert., pag. 49f).
4-10. E tu dei guardare per cui tu dì, che altrinientl del parlare per lo servizio di Dio che per lo
servizio degli uomini, ed altrimenti per tuo prò, ma guarda che lo tuo guadagno sia hello e coneenevole , che
la legge vieta il laido guadagno : Id. , pag. 274. Cfr. Albeiit. , pag. 496-7.
11. La legge dice eh' egli è dritto di natura che nullo arricchisce di altrui danno; lu., pag. 275. Cfr.
Albert., pag. 497.
12. E per cagione del tuo amico dèi tu bene dire, ma che ciò sia buono: Id., pag. 276. Cfr. Albkrt. ,
pag. 497.
302 —
XI.
Pensato come parlar dèi, inteudi
eh' ogni cosa à sua manèra e misura:
ogni superchio è vizio: e qui procura,
né solo nel parlar modo conprendi;
Ma in buon portamento e in bel t'arrendi:
non far parole né sentenzia oscura,
tra r alto e '1 basso sempre abbi cura :
piano incomincia, e '1 mezzo e '1 fine accendi. S
Queste mainerò muta con ingegno
secondo il loco, il tempo, e '1 movimento,
e in qua! si mostra amore, in qual disdegno.
E '1 suono , e la parola , e '1 portamento
colla materia ti lega in un segno ,
e tien tra 1' alto e '1 basso il viso attento. 14
1 corno. — 3 vicio. — 5 le ar. — 6 sententia ohs. — 8 incomema ti fin. — IO c(. — 11 £ hcn qual. — 13 Cola
materia tilagarium. — 14 eì.
1-4. Or ti conviene considerare come tu parli, cìic non e nulla cosa che non abbia mestiero di sua ma-
niera e di sua misura, e in ciò eh' è dismisura e male, e tutto ciò eh' è sopra misura , torna a noia: B. La-
tini, pag. 277. Cfr. Albert., pag. 493.
5. Parlatura è la dignità de! motto e la porta/lira del corpo, secondo che materia richiede....
Tullio dice.... che.... se tu 'Iproferai {il tuo detto) gentilmente e di bella maniera e di bel p>ortamento, sì sarà
etjli lodato : lo. , pag. 278. Cfr. Albert. , pag. 498.
7-14. E però dèi tu tenere e temperare tua bocce tuo spirito, tutto il movimento del corpo e della
lingua, ed ammendare le parole all' uscire di tua bocca, in tal maniera eh' elle non sieno enfiate nh dicassate
alpalato, ni troppo risonanti di fiera boee, né aspre alla levata delle labbra, ma sieno intendevoli e sonanti
per bella proferenza soave e chiara , si che ciascuna lettera abbia suo suono e ciascuno motto suo accento , e sia
tra alto e basso, e non per tanto tu dèi cominciare pilt. basao clic alla fine; ma tutlolcib ti è mesticro movere
secondo il movimento del luogo, delle cose, della cagione e del tempo : che una cosa dee l' uomo contare sempli-
cemente, alcuna dolcemente, V altra a disdegno, V altra per pietà : in tal maniera che tua boce e tuo detto e tuo
pensamento sia .sempre aceordevole alla materia. E in tua portatura guarda che segua tua faccia diritta e
non alta, né occhi fitti in terra; non torcere le labbra laidamente , non aggrottare le so^ìr acciglia, e non le-
vare le mani, nèfia in te nullo portamento biasimevole: Td., pag. 278-80. Cfr. Ai.iiekt., pag. 499-500.
— 303
XII.
Pensato ch'ai il tempo, tanto taci
che riposatamente tu sia inteso,
e di risponder non essere acceso,
però che agli auditori molto spiace.
Che se facessi com' altri fallaci,
saresti poi biasimato e ripreso:
finita la domanda, abbi compreso,
e po' rispondi con sermou veraci. 8
Non dimenar le meubra, e fa buon viso,
e '1 tuo dir fa che non sia troppo lungo,
e sia senza gridare e senza riso.
E per conclusion tanto t' aggiungo,
che s' tu non fussi ingegnoso e provviso ,
ciò che t' ó scritto non varrebbe un fungo. 14
Ornai più non ti pungo
di questa sesta parte, perdi' è intera:
e Tullio prova sì fatta manera. 17
3 de esser. — 4 Fo cìie ali alditori m. piace. — 5 co altri. — 6i>uoi hiasemnlo. — 8 ferace. — 9 la menbra Iwn. —
10 loìtgo. — 11 Gridar. — 12 te aiongo. — Id fusti. — 14 ^io font/o. — lo pongo. — 16 De.
1. Altresì (IH i/uardar tempo come tu voli parlare: B. Latini, pag. 283. Cfr. Ai.iìkkt., pag. 503.
2. Lo maestro dice : Tu dèi tanto tacere, cìie gli altri odano tua parola: Id., pag. 283. Cfr. Albert.,
pag. 503.
3. Anche non dei tu rispondere anzi che la dimanda sia finita: In., pag. 283. Cfr. Albert., pag. 503.
4. Salomone dice: che quello che risponde innanzi di' er/li abbia udito, si è folle: Id., pag. 283. Cfr.
Albert. , pag. 504.
10. En la quantità di tuo detto, dèi sopratutle cose guardare di troppo parlare , che non è nitma cosa
che tanto dispiaccia quanto lungo parlare e stolto: Id., pag. 281. Cfr. Albert., pag. 502.
11. Dì dunque huone parole , liete e oneste e chiare, seviplici e hene ordinate, a piena bocca, lo viso
chiaro, senza troppo ridere e senza trojipia ira : Id. , pag. 282. Cfr. Albert. , pag. 502.
IL VERBO AREimO E LUCCHESE."
Quanto alla morfologia, i dialetti toscani si scostano dal tipo lettei'ario spe-
cialmente nel verbo , e però non sarà mal fatto d' indicare le singole differenze di
flessione dell'aretino, alle quali aggiungo di mano in mano le forme più notevoli
del lucckese. Spesso per non moltiplicare fastidiosamente gli esempi, mi servo
d'un sol testo; ma, quando non è avvertito il contralio, s'intende che la tendenza
è generale.
Indicativo. — Presente, Ipers. plur. Desin. -iéno ^ii. -lamo: -arosjiiétio da, *&yvo-
spare, arraspare B. 84.21; pigliéiw ib. 23; faciéno 94.22; vuliéno 114.27; Gruad. sieiio VI,
5, eco. Per altro non mancano esempi, dove 1' m si conserva. Circa la probabile ori-
gine di questa forma della prima plur. con m, cfr. Ascoli, Ai-ch. II, 452.53. — II pers.
Sono notevoli alcune forme del torniese dove si perde il t del finimento te in verbi di
tutte e tre le coniugazioni. 0. aée avete Q2.11] pensée ib. 13;/enii«e 69.7 con persi-
stenza del a tonico fuori di posizione; parvi parete 76.23 con passaggio del tema
verbale dalla seconda alla terza coniugazione; sape 94.22, ecc. — III pers. Nel chia-
naiolo, pei verbi della prima coniug., desin. -oko = it. -roto, fenomeno d'assimilia-
zione già notato e qui non senza virtù d'espansione analogica di questa desin. pro-
pizia delle altre coniugazioni B. pigliono 74.12; pescando) 88.17; aritornono 98.14; ariz-
zoìio ib. 15; arpeìismi{o) 104.30; garbon{o) 118.11, ecc. Questa forma che il Perticar!
credè propria soltanto dell'antico fiorentino {Scritt. del Trec. lib. I, cap. 10) è di
tutto l'antico italiano e d'altro lingue romanze. Cfr. Naunucoi. Anal. crit. de verbi
' Queste pagine son parto della fonetica dell' aretino, che fra breve uscirà in fisa pei tipi del Nistri.
L'autore sta ora riordinando i materiali per la fonetica del lucchese, altra i)arte d' un lavoro più generale
sulla fonetica comparata dei dialetti toscani.
I testi che cito sono i seguenti: 1) B. ; Poesie giocose di Raffaele Luigi Billi; Arozzo, 1870; 2) C; L'ita gior-
nata di Tornia, commedia in tre atti di Mariangiolone Cerro , nel lunario La castagna; Roma, 1870; 3) Guad.; Menco
da Cadecio idillio d'Antonio Guadaguoli, nelle Poesie; Lugano , 1858; 4) Pap.; Traduzione in aretino d' una novella
del Decameron (Ir9), ne I parlari italiani in Certaldo ecc., di Giovanni Papanti; Livorno, 187^; 5) Zucc; Traduzione
in cortonese d'un dialogo fra padrone e servitore, in Raccolta di dialetti italiani di Attilio Zuccagni Orlandini; Fi-
renze, 1864; 6) Na., Nb; Due poesie in ottava rima mss. presso di me, ima delle quali attribuita a Giuseppe Giusti.
Sono in dialetto del contado. Per ciascuna citazione il x^rimo numero o il numero romano indica la pagina o la
stanza, il secondo numero la linea od il verso.
— 306 —
ital. pag. 118 e segg. Il resto dell'aretino fermasi all'assimilazione imperfetta e
quindi desinenza -etto=:it. -uno. Guad. troven(o) XII, 1; lasceno ib. 2; C. vmgneno
89.23; sciujjcno ib. 26, ecc. *NeI lucchese è normale la sostituzione, diremo cosi, della
terza pli;r. del pres. congiuntivo, desin. -ùw -ano, alla terza plur. del pres. indicativo
desin. -ano, -ano. Es.: cantino cantano; vedano vedono; credano credono; sentano
sentono. Il fenomeno, per la prima coniug., è peculiare al lucch., ma per le altre è di
tutto il toscano, e dell' ant. italiano. Cfr. Nannucci, Op. cit., pag. 126.27. Nel luc-
chese vivono anche le forme analoghe pei verbi della seconda e terza coniug.: ve-
deno e vedino; credeno e credulo; senteno e sentino ; soffrano e soffrine; delle quali quella
in e mi pare usata maggiormente. Notevoli: B. seno 8.32 e C. 51.29; hèn{o) 22.26 e
C. 57.12 ; fènio) 84.23 e 0. 55.9 ; dèn{o) 48.24; vhio 5.15 e C. 63.1 ; stèn(o) 51.6 e C. 48.
11 ecc. *Confronta nel lucch. sano, hano, fano, dano, vano, stano.
Imperfetto. — I pers. sing. Pei verbi della prima coniug., desinenza -evo ed -co,
col normale passaggio d'« tonico in e largo. Il chian. par che abbia soltanto -èo,
unica uscita che indica il B. nel siio « quadro sinottico »: Guad. smettevo II, 3; pen-
séo V, 4, ecc. *Una forma analoga, con e stretto, si riscontra nel lucch.; ma sol-
tanto in devo da dare, andevo e stevo, per le singole voci dell' imperf. Il montalese,
vernacolo del pistoiese, oflPre andea (Nerucci, Saggio, p. 33) com' esemjjio illusorio del
passaggio d'fl tonica in e. Nella seconda coniug., desinenza -io per espansione analo-
gica dalla terza: B. vidio 6.23, cridio 8.29; sajrio 32.1; aio 128.8; avidio 118.16. 0.
pudio potevo 67.29, ecc.; ma nel torniese più spesso le forme in -eo, senza muta-
mento di coniug., e quindi credéo 54.14; eo avevo 65.22; dovéo 81.15, ecc. Nella terza
coniug., desinenza -io = it. -ivo, -io. B. sintio 20.30; discurrio da discurrire 26.35. La per-
dita del V ha luogo per tutte e ti'e le coniug., ma non di regola, occorrendo spesso le
forme piene. *I1 lucch. non comporta mai la caduta del v in -avo, ossia in verbi
della prima coniug. (sempre amavo, giocavo, e non amao, giocao, ecc.), spesso bensì la
comporta in -evo (faceo, diceo, ecc.) e qualche volta in ivo (Jinio, sentio, ecc.) Predo-
minano per altro spiccatamente le forme intere. — III persona. Nella prima coniug.
termina in -èa, -èva (=it. -ava). In -èa: figUèa figliava 32.15; crocqmlèa croc-
colava ib. 1.6; fnighèa 34.3; andèa 40.33; sonèa 44.26; Nb. campiia X, 1; andèa X, 3;
stuzzecìiki ib. 5, ecc. G.filèa 59.18; aspensèa 65.21; accennèa 76.9, ecc. In -èva: B. toc-
chèva 34.6; cantèva 60.9. Anche in -ia, per successiva analogia della terza coniug., ma
quest'uscita è soltanto del cortonese. Zucc: tagliia (sic) tagliava 260; costìa co-
stava 262, aspettia 263; Pap. 'ngullia ingollava 91. Nella seconda coniug., desinenza
-iva ed -ia, per espansione analogica dalla terza, come sopra. B. aia 10.18 ed
aiva 104.25;/acza 18.19 e/aciVa 88.18;par8a 18.11; spariva 92.8, ecc. Guad. avial, 3;
putia poteva II, 7; cridiva III, 1; paria III, 3; dicia VII, 1, e Nb. diciva II, 3;
Uggia IX, 8. — III pers. plur. Desin. -iono (^it. -evano, -eano) pei verbi della se-
conda coniug., per espansione analogica, come sopra. B. cridiono- 90.31 ; dicion{o) 108.4;
vidion(o) ib.; ridiono 118.9; faciono ih. 15. Nel vernacolo di Tornia non è costante il
passaggio del tema verbale dalla seconda alla terza coniug., e quindi presso a di-
scurrion{o) 58.12; viono 76.12, ecc.; troviamo aéono avevano 60.40; féono 61.5; paréono
— 307 —
64.21 , ecc. Parallele a queste sono le forme ' ìitoppdono 60.13, squilléon(o) « sguisciavano »
ib.; arlc'oiio 61.4, ecc. di verbi della prima, col normale passaggio à' a tonica in e.
*Quanto al plurale di questo tempo , nel luccli. è senza eccezione il passaggio d' a
in l; onde gridavimo, credevlmo, sentivimo alla prima persona; gn'davite, credente , sen-
tiuite alla seconda; gridavùio, credevino, sentioino alla terza. Il fenomeno forse cominciò
nella terza coniug., dove la sua ragione fonetica è chiara: l'assimilazione d' a posto-
nica ad i tonico; e quindi per analogia s'estese alle altre due. Del resto la preferenza
che mostra il lucch., in voci sdrucciole, per im, it, in sopra am, at, aii è sufficiente
spiegazione. Tanto le forme in a della lingua colta, quanto le forme in i del volgo,
sono nel lucch. proparossitone anche alla prima e seconda persona; e il farle, pro-
nunciando, paressi tone, non è senz'affettazione. Anche quest'uscita è propria del-
l'ant. italiano, e specialmente del fiorentino, e ha riscontro in altre lingue romanze.
Cfr. Nannucci, Op. cit., pag. 149 e segg.
Perfetto. — I pers. sing. Desin. -è largo = it. -ai, ne' verbi della prima coniuga-
zione. Parrebbe da principio , che dovessimo spiegare questa forma supponendo la
caduta del secondo elemento del dittongo, e il passaggio, normale in questo verna-
colo , dell' a tonica in è largo. Se non che bisogna osservare che a tonica in parola ossi-
tona , quando non sia un monosillabo (quale : B. he hai 22.1 ; de' dai 30.16; C. fé 55.2;
Guad. sé XII, 6, ecc.) persiste senz'eccezione, e quindi più agevolmente suppor-
remo la contrazione in è à^ ài. B. auettè montai 6.21; stroppè strappai 6.26; andè ib.;
'nconfrè 20.26; salute 547; aloggè 58.26, ec. Giiaà. fadighè II, 2; zazzichè « ricercai mi-
nutamente » V, 2, ecc. Qualche volta trovasi anche la forma non contratta; p. es. Na.
provei II , 8 , ecc. — III pers. sing. Desin. -ètte (= it. -ò) pei verbi della prima coniug.
0. glievètte 60.10; scordètte 82.2; fondette 85.17; arizzètte, ib.; Na. manchette I, 3; an-
dette XII, 2; Pap. 'nvogliètte invogliò 90; varchètte ysltcÒ, ih., soeghiètte, 91; agumincètte
cominciò, ib. *Questa forma, dovuta ad analogia delle organiche dette stette, si trova
pure nel lucch., ma solo per alcuni verbi. In andette, (il lucch. ha pure andiede) dob-
biamo riconoscere l'influenza diretta di dette, essendosi considerato andare qual com-
. posto di dare (Cfr. Diez, Gramm. II, pag. 139 della versione francese). Si può du-
bitare se in queste forme non si. debba riconoscere iin avanzo del t latino del
finimento -«[«iji , sostenuto dall' e epitetica e raddoppiato per l' intensità della vo-
cal tonica, che regolarmente qui passa in è. Ecco ciò che 1' Ascoli altra volta ebbe
occasione di dire : « M' è sempre parso singolare , che i romanologi non si fermas-
sero all'» che è nel frane, chanta (ant. chantat) e accenna a posizione, e ho sempre
creduto che un popolare canta vt (cantadt) dovesse spiegare a un tempo !'««
sicil., ecc. ipurtau, ecc.), l'oital. e spagn., e Va francese {Ardi., IV, 175 n.) ». Certo,
la spiegazione che dà il Diez {Gramm., II, pag. 137-8), supponendo la paragoge d' un
o e la successiva contrazione, onde ca?itoo e poi cantò, non finisce di persuadere,
sebben questa, se si ha da dir paragoge, si trovi anche alla stessa persona e nu-
mero, nei perfetti della terza coniugaz., onde Jinio finì, sentio sentì, ecc., forme oramai
rimaste aliasela poesia, ma altra volta popolari. Per altro, nel caso nostro, volendo
derivar 1' -ètte dall' -av[i]t, si troverebbe poi difficile a spiegare il passaggio in è del-
— 308 —
Va tonico in posizione, benché questo non sia, come fu notato, senz'esempi spo-
radici. Una forma, per quanto pare, preziosa è V artornè ritornò, Pap. 86, paral-
lelo al frane, clianta, e cke rimonta di certo ad -a[mt\ , e sembra perciò confermare
il processo di derivazione indicato sopra. — *Notevole il lucch., che ha costante-
mente un'uscita in -itte pure aUa terza del perf. nei verbi della terza coniug., e
quindi /juìfe, seutiUe, cojnitte, ecc., dove sembra si debba pur riconoscere il t finale,
conservatosi nella maniera di cui sopra, del lat. -ivit. Questa forma mal si po-
trebbe ripetere dall'analogia de' verbi della seconda coniug., ostandovi la diversità
della vocal tonica, onde -itte di contro ad -ette.
Congiuntivo. — Imperfetto, II pers. plur. *Nel lucchese la seconda persona plurale
termina in -assite, -essite, -issite; quindi amassite,pensassite; volessite, credessite; sentissite,
morissite. L'accento, sulla penultima in latino, è retrocesso suUa terzultima, come nella
prima e seconda plurale dell'imperfetto indicativo. Accanto a questa forma, esiste
l'altra in -assi, -essi, -issi, coUa caduta dell'ultima sillaba, ed è propria di tutto il toscano
e dell'antico italiano. Cfr. Nannucci, Op. cit., pag. 30.5-6. —Ili pers. plur. 1) Desin.
-ono (=it. mod. -ero): B. volassono 106.18; 'njìlassono ib. 20; aessono 108.6 , éc. G. arpic-
cJiiessono bl.32; parlassono 70.b ; fesson{o) facessero 81.21; fussouo 97.27, ecc. 2) Desin.
-eno (=it. mod., come sopra). C. 'aesseno 60.26; vogliesseno 81.1; arivesseno ib. 18; las-
sesseno 97.28. Il chianaiolo di Castiglion-Fiorentino non presenta che le forme in -ono,
col noto fenomeno d'assimilazione. Il vernacolo torniese e quello del contado mo-
strano una specie d' oscillazione tra le forme in -ono e quelle in -eno. Ofr. Nannucci,
Oj). cit., pag. 306 e segg. *Nel lucchese la terza pers. plur. ha le desinenze -eno ed -ino,
che ricorrono anche spesso nell'ant. italiano; e quindi trovassmo -ino; potesseno -ino;
sentisseno -ino, eco.
Imperativo. — II pers. sing. Neil' aretino -a passa in e pei verbi della prima, se
seguono suffissi i pronomi lo, la, li, le, me, ce, te, ne. B. souela 18.7; acquétete 28.4;
ajjródete 44.11; lasceme 64.21; domandelo 72.32; contentete 80.29; scolteme 84.5, ecc. C.
fermete 62.22; amireme 65.17; a.pvovece 66.32, ecc. Guad. lasceme I, 1, ecc. *Ugual-
mente nel lucch., dove, quando seguono i pron. mi, ti, ci, si, li, ha luogo 1' assimila-
zione perfetta; onde cantimi, guarditi, jìortici, ecc. Per contrario, ne' verbi della se-
conda, si continua l'è latino, e pur ne' verbi della terza e, per analogia; onde credemi,
scriveli, ecc., ed apreti, senteci, ecc. — I pers. plur. 1) Desin. -ieno {=\i. -iamo) come
neir indie, e nel congiunt. B. varchiéno 30.29; ajen{o) ib.; vediéii{o) 32.8; facién{o) 34,37
cantiéno 38.22; òeyVuoib. 29; andiéìi{o] 40.32; svegghiéno ib.38, ecc. 2) Desin. -iemo {=^ìt.
-iamo). B. lasciém{o) 32.17; vediém{o) 44.19; diémigli 42.6; diciemla 114.27; Na. la-
sciemo, YI, ec. 3) Desin. -emo (=it. -iamo). G.perdemo 64.8; vedemo 55.28; levemo 61-31-
soleccetemo 70.29; pensemo 71.9; magnemo 76.1; aprovemmese 97.1 , ec. — Ed -eno. Zucc.
penséno 263, ec. — L' o della desinenza -emo s' assimila, se non s' elide, alla vocale del
pronome suffisso. Ad. i: B. diémigli 42.5; ad e: B. figuriemece 36.40; G. femmela,
facciamola 56.31. Assim. imperf. in arrizzemece arrizziamoci 81.32, ec. 4) Desin.
-imo (=it. -iamo). C. sintimo 67.20; vimo da « vire, gire » 80.17, ec. Ed -ino in
Zucc. sentino sentiamo 259. — II pers. plurale. Si noti 1' assimilazione d' e ad i quando
— 309 —
seguono suffisso le particelle pron. mi, ci, vi. B. traventètigli scaraventategli 70.7;
fìti(jli 80.35. Anche qui il toruiese, come nella seconda pers. del pres. indie, lascia
cadere l' ultima sillaba. C. tini tenete 65.31 ; merìi mirate 76.4, ma merète 95.24. * Lo
stesso nel lucch. che offre per es. andatimi, gridatigli; leggetici, credetici; apritivi, ec.
Per altro sono possibili anche le forme senza quest'assimilazione.
Futuro. — Le forme con sincope della vocal protonica, come andrai, vedrai, go-
drai e simili, molto usitate nell'italiano, non si trovano quasi mai nell'aretino, e
nel lucchese occorron solo di rado. — II pers. sing. Desin. -è (= it. -ai). Ha luogo
come al perfetto la contrazione in è de' due elementi del dittongo ai. B. fare 10.22 ;
diri: 26.8; stare ib.lO; hatfarìi ib.ll; sintivìi ib.l9; are 42.25; pensare, 112.21; C. ve-
cZrtJ'e 54.21 ; sire 93.3, ec. — I pers. plur. 1) Desin. -iéno (=it. -emo). B. dariéno dare-
mo, 38.4; arvedariéno AO.^Q; fariéno 42.21; scompiartiriéno ib.28; ariéno 88.21; siriéno
112.14, ec. Guad. arparlariéiw VI.l ; vedariéno ib.3; Nb. 'npiparicno impiperemo
vb. riflesso III.8. 2) Desin. -hio (=it. -emo). B. arestarèno 38.12, resteremo; ver-
rino 64.11; darèno 86.28; C. cavarèno b8.29; f areno ib.31; siriino 59.32; aren{o) 64.25;
virano 65.9; dirhi{o) 70.22; toccarono ib.30, ec. Na. sapreno III.2; Nb. sireno IX.2. —
Circa la prima plur. in -no, che deriva probabilmente da -mo coli' apocope, onde
per es. facciamo, facciam, vedi Ascoli, Arch. II. 397 e 453.
Condizionale. I pers. sing.— 1) Desin. -i ( = it. -ei) con contrazione de' due ele-
menti del dittongo. B. sperar! 10.31 ; cadavi 22.14 ;/«?•« 26.13; arhattarì ib.26; amaz-
zart 28.16; asucenari da asucenère «applicare, menare» e dicesi de' pugni, ib. 23;
'ntarsarl da antarsère «mettere a traverso», ib. 25, ec. C. diri 66.19; siri 70.1,
vurrì ib. 16; ari 101. 13. — 2) Anche desin. -ihhi (= it. -ei, are. -ebbi). Pap. daribbi 86.24;
Na. scommettaribbi IV. 8; Nb. pensaribbi IV. 8; C. siribb'io 85.13; credaribbe 86.23. Di
questa seconda uscita non trovo esempi nel Billi, e quindi sarà poco o nulla in uso
a Castiglion-Fiorentino. È del resto foneticamente la più organica, derivando dal
perf. forte ebbi, succedaneo del lat. liabui, mentre l' uscita in -ei è dal perf. de-
bole avei, di formazione al tutto romanza. Cfr. Nannucci, Op. cit., pag. 312 e seg.;
e pag. 497. *Ne] lucch. -ebbi^-ei. Es. canf erebbi, penserebbi; 2ìoterebbi, crederebbi; sen-
tirebbi, jjatirebbi. E la sola forma d'uso nel contado, non conoscendosi affatto l'al-
tra in -e/. — 3) Desin. -aria (=it. [poetico] -erta). C. scommettaria 76.3; giurarla 78.17.
Non se ne trovano esempi, mi sembra, che nel torniese, e anche qui sono scarsi; il
che prova che questa forma è d' importazione , e devesi all' influenza de' dialetti li-
mitrofi. ' Cfr. Nannucci, Op. cit., pag. 317 e segg. e pag. 495. — II pers. sing. e plu-
' n D'Ovidio {Saggi critici, pag. 523 e segg.) dimostra egregi.\meufce, che quest'uscita del condizionale avrebbe
potato essai- propria anche del toscano. Ma forse non ha del tutto ragione, quiindo fa appunto al C'aix d'essere stato
troppo corrivo ad affermare che nel toscano non e' e. Convengo che molto resti ancora da fare, per la pubblicazione
e la revisione degli antichi mss. del daganto; ma quando si tratta d'una forma verbale che deve ricorrer si spesso,
se non venne fuori fin qui, a me sembra si possa senz' altro escludere. Una forma verbale, quand'è veramente
indigena, node una vita florida, e quindi compare spesso in ogni scrittura; e non solo qua e là, e solo una volta o
un'altra, come per caso. Ora vedi anche, dello stesso Caix, Le orig. d. lingua 2>oet. it, pag. 231.
— 310 —
rale. Nel cliian. si trova per assimilazione i-i da é-i. B. movaristi 8.5; trappiaristi
ib.6, da trappière « il filtrar dell' acc[ua, penetrare »; amprestaristi impresteresti
ib.7; peìisai-iatl 26.5; faristi ib.25; mirtlristi ib.34 ;. urristi vorresti 28.5; ai-isti
30.17, ec. Guad. putristi X, 4, ec. *I1 mutamento dell' e finale in i nella seconda
plurale, e perciò 1' agguagliamento di questa colla seconda singolare, lia luogo,
quantunque non di regola, pur nel lucchese. — III pers. sing. Desin. -iòbe (= it. ebbe).
E costante la dissimilazione {-e da é-e: B. bisognaribbe 6.16 ]portaribha 10.24; arincrescia-
rlbbe 63.8; bastaribbe 70.1; sirviribbe ib.3, ec. G.seribbe, siribhe 52.2, ib.ll; an'&ieib.l9;
vurribbe 57.19; giribbe 87.7, ec. Na. saribbe I, 7; Nb. andaribbe II, 4; aribhe X, 6, ec.
Troviamo per altro che prevale l'uscita in i. B. pnov 10.6; potavi 34.11; armarri
rimarrebbe, ib.l4; andari ib.l8; acommedart, 30.18; siri ib.l9; fari ib.21; aringrd-
ziarì ib.23; C. ari 65.2; 'gnari 68.14; sia»-* 74.28; guardari ib.28, ec. E in tal caso la
terza persona non differisce dalla prima. A questa forma corrispondono 1' amare, te-
mere, udire, forma del toscano antico, viva tuttora in alcuni luoghi. Cfr. Nannucci,
Op. cit., pag. 314. — I pers. plur. Desin. -immo (=it. -emmo) con passaggio d' é-o ad i-o,
dove r i è dovuto, come nelle precedenti persone, all'influenza che esercitò la vocal
tonica della prima sing. B. arimmo 32.24; vurrimmo 94^.12; farimmo 120.18. C. .sarimmo
87.7; Nb. dovarimmo V, 3.* Nel lucch. è notevole l' uscita -ebbimo. Es. canterebbimo, ande-
rebbimo; vedrebbimo , averebbimo , crederebbimo , coglierebbimo ; sentirebbimo , dormir ebbimo.
È uscita regolare da -ebbimo del perf. forte d'avere. Cfr. Nannucci, Ojj. cit. pag. 185
e 449. — II pers. sing. e plur. Anco i-e da é-e. C. diriste 53.9; corbellariste 64.19; ari-
ste 67.1 ; dariste 75.27, vurrìste 98.16, ec. Notisi a questo luogo che, mentre nel
chian. esiste la tendenza ad uguagliare la seconda plur. alla seconda singolare (onde
p. es. enti =^ aveste, cong. 10.6; nascesti 18.11, ec.) nel tornisse è manifesta la contra-
ria tendenza all' uscita in e della seconda pers. sing., come fu notato. — III pers.
phir. Desin. -inno (=it. -ebbero). B. vurriimo 34.35; arestarinno 76.8; rinversciarinno
ib.9, ec. C. arinno 55.16, ec. *Nel lucch. troviamo -emio. Es. canterenno, anderenno;
vederemio, averenno, crederenno, coglierenno ; sentirenno , dormirenno, ec. — Nel lucch.
altra uscita, e molto più frequente, è -ebbe)io , con passaggio d' r ad n, che spesso scade
poi ad -ebbiiio.Ea. canterebbeno -ino; anderebbeno -ino; vederebbeno -ino; averebbeno -ino;
crederebbeno -ino; coglierebbeno -ino; sentirebbeno -ino; dorniirebbeno -ino, ec. Cfr. Nan-
nucci, Op>. cit., pag. 316-17.
Infinito. — È quasi superfluo l'avvertire che 1' ;• finale dell' iuf. tronco è assi-
milato alle particelle pron. suffisse me, te, ce, se, ve e ad a, lo, la, li, le; del che non
mancano esempi alla lingua letteraria. Inoltre è assimilato sempre alla consonante
iniziale della parola seguente. * Lo stesso avviene nel lucchese. — Pei verbi della
seconda coniugazione in -ere postonico (terza coniug. latina), non ha luogo all'infinito
1' assimilazione d' /• alla consonante de'pronomi suffissi, ma il finimento re cade tutto
intero; e così B. rompeme rompermi 26.21; rompece 66.22, ec. C. gniscondete nascon-
derti 60.10; mettece metterci; 73.15; cuoceglie cuocerli 77.25; armettela 51.7. Zucc. cno-
cese cuocersi 262; Pap. mettese mettersi 88; pugnelo pungerlo ib.; smuovelo smuo-
verlo 91, ec. *Lo stesso avviene nel lucch., dove per altro accanto alle forme colla
— 311 —
caduta di tutto il fiuimento re si trovano anche quelle con assimilazione dell' ;•,
onde crcdemi e credemmi, perdeci e perdecci., rovìpevi e roììqjevvi, ec.
Participio. — È frequente la forma accorciata del participio nei verbi della
prima coniugazione. B. l' asti scorda scordata (di strumento musicale) 10.6 ; la
notte varca 24.17; ì'«ìy stroppo strappato bG.12; gli hai chèvo saìigue ib.26; im mete
parlo 58.2; s era ardormento 90.7; m' hèro a(jrappo aggrappato ib.l8; nun me fvssi
aderizzo 106.3; Pap. avv' arquisto 86.'ò; fadiga butta ib.V), ec. Eichiamo qui ciò che
dice l'Ascoli, Arch., II, 451-2. «Se fra gl'idiomi letterarj questa elegante proprietà
è pressoché un privilegio dell'italiano (cfr. Diez. , Gramm., IV, 152.3), si troverà poi
difficilmente alcun vernacolo dell' Italia, o pur della Toscana, in cui essa resulti più
cospicua di quello che è nell'aretino. Duole, a ogni modo, che manchi ogni studio
intorno alla geografia e alla statistica di questo fenomeno.... Anche dal versante
Adriatico potè il Mussafia addurci dei belli esemplari Eomagn. Ilund., § 256, faent.
l'ha ciap «ha chiappato»; Ve scap ì ho « sono scappati i buoi», e altri, che giova
aver qui rammentato. ■» E segue adducendo una lunga filza d' esempi, dove sono
compresi anche quelli testé riferiti. '
Silvio Pieri.
' la nota l'Ascoli aggiunge: • Forse il senese e il lucchese .si potranno misurare coli' aretino, o anche supe-
rarlo. • Ora io, turante al lucchese, non ho in mente nessun participio passato di prima coniug. d'uso schiettamente
popolare, che non presenti la forma ridotta. Basti che di tutti gli esempì che reca l'Ascoli, si nel testo e si nella
nota, da diversi vernacoli, non mancano al lucchese che due, Vaìxòlco del Lappoli, e il varco 70.29 del Billi, perchè
di verbi non usati. Riesce per altro difficile a stabilire tutti i casi, ove la forma ridotta trovasi da sola, senza fare
un doppione con quella intera. L' esistenza poi di questa in canti popolari non vuol dir nulla, jiorchè anche in To-
scana è notevole la tendenza ad un certo ideale linguistico per la poesia, che induce i campagnoli a modificare , più
o meno, la loro lingua d'uso. E quando, per servire a quest'ideale, il contadino adopera un verbo che non è del
suo linguaggio comune, allora egli non si permette quasi mai la forma accorciata; cosi pel verbo amare (nel lin-
guaggio comune, volé bbeìic^fà aW aìnorc) adopera sempre amato (O Dio de' Dei! — Armnuco s'un t'avessi amato ifliai!
— Ir sangue delle vene paijlierei). Cosi del verbo andare, il cui participio non è del linguaggio comune, sxipplendosi
questo con ito, adopera per imitazione letteraria sempre la forma intera andato e mai andò. E anche è difficile il de-
terminare quanto nelle varie località l'uso di persone-colte influisca sull'uso popolare e valga a infrenare questa
tendenza fonetica. Del resto , pur in canti popolari, si trova spesso la forma tronca, com'cbbi occasione altra volta
di avvertire {Propugn., a. XIII, P. II , pag. 157, nota 2).
L'ODIERNO DIALETTO CATALANO
DI ALGHERO IN SARDEGNA.
Invece di respingermi a prendere nota de' soli punti, non molti (come si vedrà) uè es-
senziali, in cui 1' algherese divaria dal linguaggio presentemente parlato ne' paesi ove il cata-
lano è indigeno, mi è parso opjiortuno di abbozzare uno schema complessivo del dialetto
-medesimo; dal quale facilmente si possa desumere quanto del patrimonio linguistico della co-
lonia catalana resti ad Alghero intatto e quanto siasi alterato e dove abbia esso ceduto al
sardo clie da ogni parte lo stringe. Tanto più mi è parso opportuno questo compito, clie di
nessun odierno dialetto catalano, per quanto io sappia, si è fatto uno studio metodico e com-
piuto. Il materiale per il presente studio (comjDresi i proverbi, i modi di dire proverbiali e le
similitudini cbe pubblico in appendice al medesimo) è dovuto alla cortesia del eh. prof. Giu-
seppe Frank, nato e dimorante in Alghero, amoroso e intelligente cultore dell'idioma avito.
E questo materiale mi è stato possibile di accertarlo e accrescerlo coli' interrogare personal-
mente qui a Firenze un giovane egregio del luogo. Ebbi pure sott' occhio la traduzione al-
gherese della novella IX della giornata I del Decameron di G. Boccaccio edita in Papanti,
I parlavi italiani in Certaldo ecc., Livoi'no, 1875, pag. 43G-37.
i. — APPUNTI FONETICI.
Vocali toniche. A. — Ecco qui tutti i casi in cui, por qualsiasi ragione, in luogo
cleU' A originario si ha un'altra vocale. 1. Un e : a) nella risposta ad -amo : ganc efrahé
januario- e febr., tare tei., grane, guljé (agorajo), jxe/y'c, acer (acciajo), dane[ì] den.,-
imme{r\ e terce\r]; cubate (calzolajo), carnigé (macellajo); gutera (grondaja) 'gattaria',
caldera, culjera (cucchiajo), las idjcras (gli occhiali), cacera (caccia) 'captiaria' e così
massera (messe); pirera (pero) e analogamente clrera — cfr. prov. ceceù-rt — in luogo di
dreseraì (ciliegio e ciliegia) ;/«^«e)-a forn., dona finestrera (donna che passa il suo tempo
alla finestra); allato a campanar (-ile), uUvar (olivete), nutar not., e alle voci d'ori-
gine sa.vda. frailargu ('fabrilario-' magnano; cfr. Arclt. Glottol. Ital., II, p. 139), ìnu-
rinargu molinario- e simili. — p) greu., ali. ad agrdvi , e Ijepa lappa (cfr. Diez, Et.
10
— 314 —
Wort., I, s. 'lappare'). — 7) e' ai' habeo, se 'sai' sapio, trec treus 'trajo -is' = traho -is;
bes basio- e fes fascio-; /cr 'faire' facere (e affer affare, /eiYW facevano, fenll facen-
dogli), j;?tì< (litigio) placito-, mes ma[g]is, menò (mangio); — ò) fet 'faito' facto- e Ijct
lacte. — 2. Un 0 : opr apro.
E lungo — 3. i:Jir(i (fiera) fèria, muìiadi monasterio-, rahim racemo-, e, non
ostante la posizione antica e moderna, cris créaco. — 4. e piuttosto chiuso: tera tela,
ayhé avere, ecc., curezma quadrages; carena cat., tarré terr., »are' veneno-, varema vin-
dèmia, biirét (fungo) boleto-, seu sebo-; e meza mensa, mes mense-, frances, ecc. —
E breve — 5. e : deu deus e deu decem, gel, era eram erat, feula teg., jjedra e jjera
petra, peii pede-, ÌJeòra lep[o]re-. — 6. / : air beri, cariru (sedia) cathedra, sic seqiior. —
E in posizione — 7. e in velj (vecchio) e meja medico-, in posizione moderna; aiielj
anello- e simi i; terra, pvessac persico-, 'nvelii (inverno), pelt perdit, erba, despa vespa
— 8. e (e chiuso) davanti a n + conson. : parmit^ veni, dent, plur. parents ecc.; ventra
ventre-, teins tempus, setembra sept. ; e anzi vmc vendo e pirènc prehendo. — 9. i : viiic
venio , tinc teneo (2"- pers. vins, tiiis), allato alla S* pers. ve, te; Ijic quasi 'legio'=légo
(cfr. ijigis legis) , mie mi<jd medio -a ; is exeo , tiis texo. Inoltre : sis sex ; e Ijit lecto-
e pit pectus (ali. a d.vct directo-). L' i di drumiid, fiiijint, santiiit dormicndo, ecc. (ali. a
bajent bibendo, antaiient intend.) continuerà quello dell'infinito drumir, ecc.
I lungo — 10. (■ : vili, vivo-, istm (estate) [tempore] aestivo-, bisid (pisello) 'pisulo-',
ytZma ' vinjma ' vimine-, uluidan obliano, marit. I riflessi di ^cato- e frigido- sono
fetja e fret, secondo il num. 13. — I breve. — 11. i : si sino- e .s* sic, IJc ligo, dit
digito-, vidra vitro. — 12. Ma di solito, « -.jm'I, ìwìi nive-, firn, fimo-, scxMWrt simula ,
aiisems s'unuì, f ree frico , 2'i'cc plico, ^iega (pece), net nitido-, /e fide-, veii videt, pebra pi-
pere. — I in posizione. — 13. n : maraveljn, ceìja cilio-, iirelja auric[u]la, ìivclja
ovic[u]la, jj«)-e/y' (coppia) paric[u]lo-, iiiens minus, aiivega invidia; eJJ elja ilio -a, cabelj
capillo-; [ìiielca (milza)], velt viride-, ^jes pisce-, mestra magistro-. — 13"^'^. e davanti a
n-i- conson : cendra cinere-, dimienga [dies] domiuica, cuìiienc (comincio); ÌJeiogua lin-
gua, trenta (ma, per influenza dell' antico -i, vini viginti), entr intro. — 14. u in mifl
inflo e «;//^>/ impleo. (E n, ',' = /= é s'ha in/*-asJ«Mì« blasphemia e /)-«s^/»i blasphemo).
O lungo. — 15. u in nu nodo-; e 0 piuttosto chiuso in «ossole- e solo-, ora hora,
la pastora e liis pastors, manrjarora (-atoja) tizoras (forbici) tonsorias, tions (tizzoni),
com quomodo,poj)!«s, nabot e nabora nep., tot e plur. tots. — 15*^'^. 0 in viiljó Qpigó meliore-
6 pejore-, cacavo (cacciatore), razó (rasojo), raM ratione-, tió sing. di tions, e simili.
— K). Altri riflessi, ma sporadici : ara ('ora", avverbio) e ancara; — veu voce- (cfr.
cren cruce- del num. 22), ciwìé.s cognosco. — 0 breve. — 17. 0 in yo^ 'volet' vult
(2" pers. voh), vora volat, sora solea, mar, cor, non novem, bo bona, orna homo, ìjoc
loco-, /oc, coura coquere, pot pot[est] (2"' pers. pots), a prop (vicino) ad-prope. —
18. Il : j/((c jocor, |pMcpossnm]; buit da 'bilit' (vuoto, agg. e verbo), se qiiesta e la voce
congenero delle altre romanze è (vedi Ardi. Glottol. Ital, IV, p. 370-1) da * vòcito- =
'■' vacito- (*vacuito-?) evacuo. — 0 in posizione. — 11). 0 : solt (sciolto), dolm dormio,
poh porco-, moU mortuo- , oidi hordeo-. — 20. o (cioè 0 chixiso in analogia col num. 8)
=0 susseguito da n-i- conson. lasjjouf/aspongia, adanwìi 'a monte' sopra, cQnt computo.
— 315 —
rmpnnc respondeo. — 20'''*'. n : fui) folio-, vulj (voglio) ali. a voi e vols del mim. 17;
adj ('coglio' colgo), nlj 'ocljo-' oculo-, Ijìin longe, vui. avnj hodie, tramuga trimodia;
mussic morsico. — Per cusa coxa, vii/'t (da ' vint ) octo o vit (da ' imit' da 'itì'iit') nocte-,
cfr. num. 0.
U lungo. — 21. u'.puca ptilice-, mìo-, cuzidura, ìjunn, ai ac exsuco, 'nnit , aufj tu'
inglat[i]o (ma, dietro all'analogia del nnm. seguente, cìoura clfidere). — U breve. —
22. 0 in : iirou pluit, dos ómans ' àwQ uonaini' (allato a duas dunas)^ gora gula, nora
*uuria = nurns, r/oya juvene-, ^jj-oma piuma, nou nuce- (cfr. pou-^puc-'' pnteo-; ma
creu cruce-), IJop (ingordo) lupo-?, coznr cubito-. — U in posizione. — 2.3. Di rado
Il : migra nngula, jjuìtt puncto-; e anche asutt exsucto- e fi-ui't (da 'fnìit') fructo- (ali.
a trota tructa, dal sardo) ove trattasi di originario u. — 24. o : {/anplj 'genuc[u]lo-",
fanglj fenuc[u]lo; (e anzi agulja acuc[u]la). — 25. o : sofra sulphur , po?,s pulsus e pul-
vis, dolc dulce-, ascoU, sangrot singulto-, solt surdo, rot xuciw- ., gota gutta, sota subta,
ma (cfr. num. 20), gnca lincia, songa axungia, mgn mundo-.
M, OE. — 2G. cel, ffM (brutto) foedo-. — AU. — 27. o : col caule-, ^joc, proba pau-
pere, eoa cauda. —^ Quanto all'AU secondario, allato a coca — cfr. prov. caiisaa — (calcio)
e a^gc sciacquo^' asau& (cfr. cdgiia = augua^?iq\\^) , trovo crau davo- e par aula para-
bola. — 28. Esempi ài y in e : mella amygd- ; pto.ra; pape -yro; — 20. di // in n : multa
(catal.-com. mm-tra) uxjvto- e grida crypta. Del resto hgssa byrsa, frof: num. Ili, ecc.
Vocali atone. — 30. L' a sola, di regola, è intatta. E ritorna Fa che in accento
si era alterata, come si vede p. e. in hazdr e mangdr infìn. di hes o mene. E prende
volentieri il posto anche delle altre o direttamente o dopo la loro caduta: ma veus
me vides, ta voi te vult, désama laxa me; fZa =: de in composiz. {dama de-mane), ^>«-
rUj periculo-, dascrt, prazó pre[h6]nsiono-, masura mens., vanir, vare xeneno-, fa melj a
femella , ^jaiii appet., cragi'tt (creduto) , maraciiia medie, nabot nep. ; capaljd (cappel-
lano), dascus (io scucio), dastac (io distacco) ecc.; vangut e tangnt pep. di vanir ve-
nire e trenda tenere, ma pant/té mi pento, ecc.; essa;-, ciniiUar ; pjara mara frara patre-
niatre- fratre- ;pro&a paupere-; edura cadere, béura bibere, e cosi tutti gli altri verbi
in -ÈRE. Analogamente: orna (pi. omuns), mastra magistro-, mega medico-, Ijadra
latro (pi. Jjadras), miracra -aculo- ecc., che rispondono a' catal.-com. home, ìnestre, ecc.
— S' intende che s' ha a = e prostetico catal.-com. del num. lOS : ascala. , ecc. — a = i :
rtwae/ii'in-eccu-hic', analjd 'in-eccn-iLlac', anvega invidia, au casa, nnganar (ingann.),
antcramols ('interra-morti' sepoltore), anter integro-; manut, vagada (fiata) *vicata,
ascidtagar (ali. ad ascurgar) excortic, garhalj cribello-, bagid (bevuto), e pascar,
sangrot singulto-, Ijancol linteolo-, ma vandieliéé; [varmia vindemia]; pressae persi-
co-, ecc. — «. = o : falnes (fornisco, col senso di 'finisco'). — 31. Conservato l'i dinanzi
a vocale in cristid, viaga (viaggio), diacra, niara (nidiata), rlcA-a ridebam, diiiré (dirò),
siidetdr sibilare, eardiiil 'qualcuno' (da cui sarà determinato l'i di uingu 'nessuno');
— in grazia della vicinanza di voc. o conson. palatale, in : ascriclr scribere, astrimr
stringere, simic (somiglio), cristid, camice nnm. 1; — inoltre in r?i-//«)is lunedì, di-mcds
martedì, ecc., e in miracra e mirai/ (ali. a marauelja), fmdr finire, vinagra, primér,
dirai dit. ; anima , maniga. — L' i è anzi talvolta sostituito ad e che si trovi dinanzi
— 31G —
a vocale o attiguo a suono palat. : criatura, girerà nnm. 1; istm uum-. 10; miljó e j^igó
num. 15 e tindó (cfr. tis num. 9). Inoltre in dina (desinare) clecoen-, e in diners de-
na.rii,JtHestreì'a num. 1, viiighé e tingile S^ pers. perf. di vanir e trenda (cfr. vinc, tino
ni:m. 9), allato a' -pc^.vangutytangut; e in tisoras num. 15 =: catal.-com. [es]tesc)ras. —
E sempre i è la vocale di flessione del pres. sogg.: sa desi (si lasci), ddsisa (lascisi),
currin (corrano), ecc. — 32. Normale ((^o : vuhr, hurét num. 3, muri (molino), mu-
rir, uveJja ovella, muiéin movemus, nuvemhra, cuncsar; dimienga, pudér; adjera
num. 1; druinir dorm., ecc. (Forse unica eccez. : noranta nonagiuta). — 33. Casi spo-
radici di ((. =L a, e ed i, solitamente per influsso di labiale attìgna. : avidut tu-
multo (cat.-com. aval-), munti (mast.), cidtat civit-, inoltre: Ijwjd (leggiero). Da
ragioni speciali dipenderà Vu di curezma quadragesima, siuletar sibilare, curigd
chirurgiano'; e di hastunaga pastinaca, ove probabilmente ka influito 'bastone'
(per unfldr e umplir vedi unjl e um^il num. 14).
Consonanti. J. — 34. In g (e all' viscita) :?/««(/ num. 1 , (jim juuio-, gugar judic,
digóus (giovedì), drujA (digiuno), mnó niajo- (ma ajut). — 35. LJ : muljér, miljó,
jìijora filiola; alj, 2>nIJa, celja cìlio-,f IJ (ma plur. fls). — 30. EJ : astoni storca, ecc.
Dal sardo: frailargu e murinargu num. 1. — 37. VJ : gahia cavea. — 38. SJ : ca-
m.iza, hes num. 1. — 39. NJ : castana, vina, gun. Dal sardo: carcanzu calcagno. —
40. MJ : varema vindemia. — 41. CJ : faci faciat, calqa 'la calza' (e enea 'il calcio'
num. 27); hrac bracliio-. — 42. TJ : jirana platea, (cnceca num. 1 e cacarónnva. 15^'^),
Ijancol linteolo-, cancó,comenG (comincio); allato a ralió ratione-, tió titione- (astazó
stagione' può essere dal sd. stazóni'. — Il tj finale si è risoluto in u : palau palatio-,
ji^oif puteo- (cfr. num. 7G, 77). — 43. DJ : anvegar (invidiare), desigar (desiderare ' —
vedi Diez, Et. Wort. I, s. 'disio-"); vac 'vadio' vado, ca vagi 'vadiat' vadat, anvega
invidia, mie miga medio -a, desiò (desiderio), tramùga 'trimodia' (ma rajjremej, avt/J
bodie). — 44. BJ: roc roga rubeo -a (ma rahia rabie- e robia rubia). — 45. E passino
qui gli esiti, sebbene forse non tutti riducibili ad una medesima causa , della formula
atona -ico preceduta da n, nd, d, t, : dumenga [dies] dominica, eanonga, monga (ali. a
manie e maniga); mene 'mandico' (mangio); msga medico- (per guga 'giudice' cfr.
gugar num. 34); viaga, furiuaga, fega 'fitico-' = ficato-, scurgdr excortic. {polcu por-
tico è il sd. porcii).
L. — 46. L- : IJana, liadra, Iji lino, Jjit num. 9, Ijoc (e anche iioc) loco-, Ijuna.
Davanti ad i è però sì debole da ridursi talvolta a J, p. e. nel riflesso di 'lego, le-
gis', che propriamente suona jió, jigis piuttosto che Ijié ijigis. — 47. 'L'' '-firà, vurd
voi., tare telarlo-, hurét num. 3, marincunia, mitrt (molino), scaì-ons (scalini); ara,
scara, mar a Jìijora mala filiola, caria calice-, saric salice-; tera, candera, fira, vira
vila' = villa, sora sola (aggett.) e solea, vor volo, vórah (vogliono), gora gula; tuura
tabida, téura teg., dcchira aquila, furmigiira, niivura (inoltre piudura ^= catal.-com.
pind,ola, spagu. pildora). — 48. Scambio sporadico di 1 con n in gunivelt (prezze-
molo) := catal.-com. julivert. — 49. LL : valjana avell., galjina; gàlj, anelj, helj orna,
belja cara bella cera, seija, colj, ecc. — 50. L -i- conson. : lus animals, lus cabels, viils
mille, j;io/.s- mini. 25, tu vols (tu vuoi), ealca e dascalc scalzo, carchiu (qualciuio), meìca
— 317 —
num. 13, multò (montone), ascólt, polp polypo-, arha ; ali. a .sam e pam, pi. sams ecc., (salmo
e palmo), coca mxm. 27, doc dora dulce-, j^iga pul'ce-, che presuppongono saum.,
saums, ecc., cioè la risoluzione in m. (Quanto a sou sol'do-, si può dubitare se continui
souD- o non piuttosto sod-, conforme al num. 90).
CL , TL. — 51. cr (d intatto solo se la parola contenga un altro ;•) : dar, cran
clave- e davo-, amascrà (mescolare), a-areJJ (catal.-com. davclj) caryopliyllo-, [escrat
schiatto]; i(j res ia eccl., rt;ìcr«.3'a= catal.-com. eiidusa (incudine), dóura elùdere — Spo-
radico Ijoca (chioccia), eh' è catal.-com. — In postonica cr solo in mlracra e mascra=^niì-
rac[u]lo- e masc[u]lo-. In tutti gli altri casi domina Ij (= -clj- = -ci-) : miralj (specchio),
pnriilj n.x\xa. 13, veìj (vecchio), urdja, umbrilj 'umbiliculo-', idj oculo- (ma pi. lus tds);
(janolj ' genuculo- ' , poìj ' peducolo- ' (ma pi. foh) , acjidja ' acucula. ' — Nel riflesso di ' len-
ticula' si è affilato a J e per questa via dileguato: Ijantia {cfv.jic, ecc. del num. 40).
— 52. GL. (jlara, sanrjrut num. 23 (ma aagiìr, angiirti-, invece di angriir, ecc., inglu-
tio -ire), Migra. — 53. FL : frama , Jlor , nnflar. — 54. PL : j^jraca platea , ^j/rtr/« e praga,
aéprafja spiaggia; j^jrancm'planulare' (piallare), ^;ira)tfrt, pratt; pr e prena '^leno- -a, pdcc
plico (non prec , per evitar confusione con prec precor) , pht e pret placito-, jìlor, plou e
prou, pluit, 2)rom plumho-; ampra (distesa d'acqua stagnante). — 55. 'B'L-:hran
'biavo' bleu, hraiic e hrancaria, ecc.; e, per BL secondario, brera 'bleta'='betula' (cfr.
ital. bietola) beta, umhilj umb[i]liculo-. (Ma vedi frashhna e frastgm num. 14 be-
stemmia, ecc.).
E. — 56. Tra vocali, così sottile che poco o punto differisce da L : la risposta
a 'moriebar' p. e. è piuttosto midiva che muriva. — ^Ed è di regola l davanti a con-
son. : calli, salment, IJnlg largo-, ?« faW« (la sera), calvelj cerv., anvel[n] (inverno), malcat
mere, velt viride-, poUu num. 45, moli, tolt, scidtar/ar num. 30, fohi e fulnera fur-
no-, ecc. — Affatto sporadico il ijl di rjloc (giallo), che è il sd. r/rogu croco. — 57. Sop-
presso in abra (ali. ad arhra) arbore- e )»«6;-rt 'marbra" = 'marmbra' = mai'more;
in sastra sarto, catal.-com. e spagn. sastre, cioè 'sarstre' = sarcitor, e in curi/jd del
num. 33. — 58. All' uscita cade quando non sussegua parola incominciante per vo-
cale: -a -e -«' = -are, ecc. degli infin. ; pe o pa per (p. e. pe la primera vagada per la
prima fiata), calo calore, cacadó cacciatore-, ecc. — 5'J. Il r di US si conserva solo col
mutar di posto (p. e. pressac persico); del resto, si assimila a s (p. e. miissic num. 20
e bassa num. 28).
V. — (30. Inizialo, di solito intatto. Raramente sale a b : barrina (trivella), se è
. da 'veru"; buitia.\\.va.. 18. — Solitario tZas^ja vespa. — GÌ. Tra vocali : trabalj (*trav-, cfr.
Diez, Et. W'órt., s. 'travaglio"), gabia; allato a prto pavone-, por pavore-. — 62. Al-
l'uscita : cran num. òl,neu nive-, istiu num. 10, bou bove-, oii, ovo-, digous (giovedì),
moli, movet , jjj-oìt 'pluvit' pluit.
S. — 63. Notevole : asi così. — 64. Il riflesso di NS è z (s all' uscita) : mcza
mensa, cuzir {cus cousno), 2>razó pre[he]usioue-. (Per il -s di flessione, vedi num. 117
e num. 123). — SS. — 65. bas. — SC. — t>C\ nas (nasce e nasco), pes pisce-, «wie.v
(conosce e conosco), e crii num. 4 allato a pese (io pesco) , ecc.
N. — 67. Tra vocali — in l:vdma num. 10; — in r (poi tramite di Z) : ìtorrt/ì^j
— 318 —
nonaginta, ;•«;•«' veueno- e ranm-i =vau- viii- viiin- viiulomLa; dincra diacono. — G8. Fi-
nale, di regola cade (salvo nel riflesso del proclit. 'in', che è sempre en o an) : ma,2)a,
cryva//«' cappelL, tan-e terr., Se, vi, ho, tió mim. 42, k, mlchiiL — Riappare però il n in
certi casi di cui do gli esempi ch.e seguono: bon anfan, hnn vi, hon fros (buon tozzo);
jyaiis e tions (mai j;as e tios) pi. di jja e tió; tiiis tenes, allato a te tenet. (Per ND vedi
num. 113). — 69. Il riflesso di 'lingua' è IJehga. Cfr. num. 104.— NN. — 70. Jotizzato
come LL : nn, ahada anara annata, [rata]pinada -pinnata (pipistrello), angnn (in-
ganno).— 71. Cosi anche cZ«m = danno ^ damno-. — Di solito però il doppio n da
MN sfugge a questa alterazione: dona = 'donna' = domina, so)« = 'sonno-' somno-.
(Por lo scempiamento del doppio N, vedi num. 103). — 72. Dell'assimilazione di n
a M unico es. sumiéc [ego] somnio. — 72'''''. M in ò : harandr cioè hì-an- rahran-
m remar {— ii&l. merendare, ecc.); cfr. Mussafia, pag. 14, nota 5 dell'opera che si
citerà più sotto.
C. — 73. Iniziale, intatto : cu cane, coi-, cult cocto-, ecc. — 74. Tra vocali, in
(j : plerjil plicare, fjugdjoc, si guijìiéssin (se giuocassero) , scultagd, vagada *vicata (fiata),
sagur secuxo-, plagAt (piaciuto); cngu cceco-, paga 'pica'=:pice-, figa (fico), digiti dicam
(ma die dico, perchè qui il e riesciva finale); maniga. — Cosi dopo di r : margant' ama-
ricante' amaro, cargd e cnrga cario-; e aggruppato a l e u : igresia eceì., magra, ri-
nagra, sogra (suocera). — In garhelj non vedverao un esempio di </ ^ e din. a voc, ma
gnrhz=g)'alt- emù- cribello-. — 74^'*'. Il nome proprio ./«m« risponde a J((cm-=JacoJjo
(cfr. num. 7^). — C. 75. cel, galcelj , cera, cehha caepa, cod, docens (duecento), celja cilio-,
(qÌiic quinque, curigd num. 38); faci faciat, cinca cimice. — Così dopo leu: calcina,
jniqa pulice-; ances accenso-, vinc vincere. — E regolare è z nei casi di maizina (ali. a
marac. num. 30) med[i]ciua e onza undecim, dgza, ecc. — 76. Al C tra vocali solo per
rara eccezione si risponde con e, p. e. in deqeniljra e suceit (succeduto). La regola si
è che il e si affili in una leggiera aspirazione e quindi anche dilegui affatto; veld
vicino-, rahim racemo-, praltc e piv(yV' piacere, recnt e r^tìif (lavo) *recento, reep e ri-p
l'ecipio, \auaa coquina]. Cfr. rahó e tió num. 42. — Quanto a rfrY//f/;irt.s- (radici, ramo-
lacci), è dal sd. ruiga. — 77. Salvo in voci jn'oparossitone (p. e. sdric^ salice-, carie
calice-, indec indice-) il e riuscito finale si vocalizza in u : ])aw^^.cQ-, prau placet,
iIcH decem, din, dicit, pardÀu perdrice-, vcu voce-, {cóus, cou, cóure coquis, eco), creu
cruce-. Cfr. falau e ^Jo;^ num. 42; e -au -eu -Ht = -at[ijs, ecc. dei verbi nella 2' plur. :
mangau, crajfìu, muriu (ali. a pots potes, [cJmaii.^] amdts [uomini] amati, e .simili). —
CS. 78. éisanta (ali. a siss sex), aiiic ahUt exsuco, ecc., tis texo, cum coxa, bus buxo-.
Ma «ùnga axungia. — CT. 79. Ijet lacte-, e cosi f et; Ijit num. 9 ali. a dret; viu'f odo,
cult cocto-, ìiitwoctQ-, fruii ali. ad ahUt su cit. e a rot ruoto-. — QU. — 80. casi casi,
carchiu num. 31, curezma num. 33; ma cual e cuant, (jiianfas dOiuis, qiicdra quatuor, e
algua aqua. Per QUI, al solito, di contro a <}Ìhc quinque, si ha cliinza quindecim e
dcchira aquila; e, per QUI di seconda mano, anachi num. 30.
G. — 81. Sempre intatto, .anche tra vocali, salvo in fra id a e tuida. — 82. (Jf : {idiiolj
num. 51 , gannd germano-, ecc. — Per ir a cui preceda n ho : asponga sp., songa num. 78,
«)(;/((/.« angeli; allato ad astrifùr stringere. ìjit'i lunge. — 82'*'^ Es. dia' dil(>guato : (oltre
— sin —
il solito dlt digito-) ganlvns gingivas. Verranno dallo spagn. lej lege-, vej rege. —
88. CtN. Sempre h : Ijen Ugno-, pim^ ecc. — SI. GU : JJeùfjua, ma sahc.
T. 85. Intatto solo all' nscita : cannt, beltat, caritat veritate-, huntl num. 3, dit,
jiot pot-est, nahiit nepotc-, buit num. 18. — Forse nnica eccezione anrjur 'inglnt[i]o'
(ali. a siuti/rof singulto-). — SG. Tra vocali è riflesso per d : Xadal, cadeiia, imdéin
'potenio' ^possiamo), radali (gomitolo) = catal.-com. retol, cuzidora (cucitrice), ti'èidó
(tessitore), madùr; seda, erba ruda, pudo putor. Forse unica eccezione: mates num. 98.
[siuletar del num. 31 è dal nome siulct 'fischietto'). —Il più delle volte però questo
d presso il volgo suona r : A7tr«^, earena, puréìii, cuzirura, tisiró, sera, erba rura. Altri
esempi : e? tVrt'i! (ali. a <//^ num. 85), piirar putare, IJaram laetamen, ^j«re//rt patella,
burelj hoteWo- , farà (strega) 'fata', niara (nidiata), «««ra (andata) e «yjrérrj (anitra)
'anàta', 9ii' rt^/ivtra (mi aggrada^ brura num. IS, far ira (ferita), indiora e. huira fenim.
di nabot num. 85 e Imit num. 18, rora rota, salura (saluta). Di ulteriore alterazione
(di t in d, in r, in I) ci sarà esempio malassa (matassa). — 87. Dopo di n e massime
tra N e s il T è assai debole e facilmente, ma non sempre, dilegua : anfan infante-,
adamgii num. 20; cuntens e deus, più ovvii di cunteiits e dents. ■ — 87'"'*. Es. singolare
è cin^thio- (zio). — 88. Il nesso TR perde il R -.iiara, mara, frara fnel senso di
'monaco'), arara, Pera Petro-, ararera 'ad-de-retro'; o mostra il T assimilato al
il : Jjarra latro, pnjerra pullitro-, e anche ^yerra e virra {\ni\ comuni di pedra petra
e di vidra vitro-). — Poi rilicsso di T -f- S vedi num. 77.
D. — 8'J. Iniziale, intatto. Tra vocali e in protonica è /• in ararera. del num. preced.,
nr/HS = catal.-com. dins, curi (codino), prarlcdr praed-; in poston : entra., nura, ecc.
— 90. Ma il più delle volte dilegua : suAr, nidra (nidiata) , jj^wrff/ra pod., rieva e cajeim
rid- cadebam, banaitt e ìimraitt Lenod. maledicto-, cja cauda. — 90'-'"'. E cade il D
del nesso DR in carira num. (3. — 91. Finale (o anche susseguito da -s) si risolve in
u : eaus cau cadis cadit; aem seit sodes sedet; ria:^ riti rides ridet; donde gli iniìn.
cdura, se'ura, riura, ecc.; [dau dado]; j;eì( pede-, plur. pPAis; feti (brutto) foedo-; imi,
[broli brodo]. — 92. Caduto affatto in/e fide- , crii e mi (ali. a crura e mira num. 89), mi
nodo-, tebl tepido; e caduto o assimilato a n in canta n -andò, mon mundo-, ecc. (cfr.
num. 87ì. — 93. Sporadico il l (pel tramite di r.' cfr. num. 86) di calavra cadavere-.
P. — 94 P- in b in basi unni/a num. 33, bi.'^ul num. 10, bisba episcopo- (ove no-
tisi pure il i = p della seconda sillabai; del resto, è intatto. — 95. 'P" di regola in
b : arrihdr, sahér, ubiilt (aperto), cabélj capillo-, ahélja apicula, nabót; acdba ('accapa',
termina), rebut (ricevuto), ^"'oba paupere-; crabba capra, e crahhiól (ali. a crabits ca-
pretti), e cabba caepa. — 9(3. Perduto in iems. —97. Quanto al nesso PR, ho da un
lato brd aprile e JJebhra lép[o]re-, dall' altro ^JOJ'cayj-w (cinghiale) 'porco-api'O-'; inoltre
rtscj'rtmcuifrt)' 'exp[e]rim-\ In ogni altro caso, nessuna alterazione; salvo che all'uscita
il p è piuttosto debole, sicché per 'rumpit' p. e. si sente rovi piuttosto che l'onij}. —
98. PS. casa, mates 'met-ipso-", y/us gypso-. — ■ 98'''*'. PT. Normale l'assimilazione : set
(da's'-'M) septem, ecc. Il riflesso però di 'male -apto-" è maralt o malart, che pre-
suppone 'malauto-'.
B. — 99. Iniziale, intatto. — 99'"*'. 'B" in e : a.serivit ' .scribito" = scripto-; in
— 320 —
m : cdiiam cannabi-; assimilato a t in dlssatta dies sal)ati;'clel resto, intatto. — 100. Ei-
soluto in u in se« sebo-, deu debet, Leu. bibit, ascriu scribit; /;««•« libra. — Dileguato
in .mdetdr Tiuva.. 31, sf««c sabuco-, tdula, imrdula; néula, déuta debito-, — 101. Si
ha 2^11'Oìn da ' i)romp'' = plumbo- in analogia coi num. 87 e !I7.
Accidenti generali. — 102. Poco da osservare in quanto all' accento , p. es. pan-
tiii pectine. (In carréc 'io carico' avrà influito l'analogia della numerosa classe
de' verbi in -ce; cfr. num. 125). —103. Normale lo scempiarsi di consonanti doppie,
specie di tenui e in voci terminanti in vocale : f rama -B.., vaca, òoca hucca,, gota gutta;
astopa stuppa; e cosi dona dom'na, sota 'subta', rpmta crypta. — 104. Di regola ha
suono sordo la sonora clie riesca finale e riappare in tale congiuntura la sorda che
tra vocali era divenuta sonora o anche s' era dileguata : Ijlc ligo (infin. Ijigar) , sane
sangue-, /;-rf frigido- (fem. fredu), -ant -eitt -inf = -&nào -endo del gerundio, cuant
quando, da-rmt de-unde, oì-jj orbo-; cus (inf. cuz'u-), mes (dos mezos), ascrif (ascrivir),
(juc (gicgar), mene {mangar), sangrót (sangrudar o sangrurar) singult., ojìr (uhrir). —
105. Richiamerò qui anche la debolezza della seconda consonante dei nessi NC, NG,
NTjND, MP, MB : tmii (tronco), san allato a sane del num. 83, aiifan num. 87,
moH unm. 02, rom num. 97,p;-omnum. 101. — ^103. Dileguo di vocali : ualjana avell.,
mdla amygd., hr'd apr. ; sainana se'ptim. Determinato da dileguo di consonanti
in : rep recipio, diluir decoenare, racdr recit., raufdr (lavare) * recent. — Altri esempi di
Dileguo di consonanti : angi'tr nnm.. 52; aòra, ecc. ,ni\m.. 57; m.rt;</)-rt/ia = 'margr. malgr.'
(melagrana), fZò'mecr«s=r'dimercras' (mercoledì). — Non dipenderanno da semplici
cause fonetiche IJama lamina e IJema = catal.-com. IJemana (lendine). — 107. Accenno
qui a' riflessi delle formole -io (-eo) e -ine-, ecc., di postonica : odi, Ponci Pontio-,
ori oleo-, ed oìdi hordeo-; — gora juvene-, marga margine-, cofa cophino (ma dia-
cra =::: catal.-com. diaca diacono). — 108. Aggiunzione di vocali : ardm (se qui l' a,
per avventura non continui l'aedi 'aeramen'); ascaZa, ascltena, ascomhra num. 109,
ascrif, astan, astómac, astret, asjjeri, asponga (^catal.-com. escala, ecc.). — 109. Ag-
giunzione DI CONSONANTI — 7.) di V : vuj amj hodie, vuit divuit octo, ecc.; — |3) di /
in rijeva (ali. a rieva) ridebam, cajeva cadebam, ecc. Non vedremo però un sem-
plice o epentetico destinato ad impedire l'iato in agln'r habei'e, aghiém habea-
mus, aghéss habuissem, ecc. — cfr. 1' antico perf. catal.-com. ac, ecc., — né in sa-
gut , cragut pcp. di sec sedeo , crec credo , ecc. ; né in hegìiis (ali. a heus) 2'^ pers. sing.
pres. indie, di hec bibo, e simili; si apparirà in tale funzione il z ■ — rispondente
ad un anteriore j ?■ — di cozar = ' cùad-" = cu[b]ito-; — 7) di n in pantln pectino; —
ò) di M in ascomòra scopa, se, come pare, riflette 'scobra = scob[u]la:= scopula'; —
s) di D tra 1 o r, tra u e r : moldra (macinare) mol[e]re, vuldrds (vorrai), vandrds ver-
rai, trcnda 'teudra=:téu[ejre'==: tenére, trenda tenero-, gendra genero-, gendra cinere-,
dircndras (venerdì); — '€} di b tra m e r (m e n) : mahra nnm. 67, cugromha cioè
'cugombra' (cocomero), sembra semina. — Epentesi sporadica di r (l) in ancruza=^
catal.-com. enclusa (cfr. prov. encluget,ivB,nc. encJume) 'ineudia' incude-; astreijas, (ali.
alla formola masch. estel), ove però avrà influito 'astro', cumplcrt completo-, ìjestr
(lesto). — 110. Il l di digita, aqua, si spiegherà presupponendo ' didgua, diigua, dgiuC;
— 321 —
come da ' c(ms[s]e, cóude, code' = cubito (cfr. algher. cozav, spagn. cohdo, cado, ecc.)
si spiegherà il catal.-com. colse e come l'ital. 'ardire'' è =' cdd=:mdd-' ^=a,udeve. E
analogamente si spiegherà il l di maralt (cfr. catal.-com. maiali) 'male -apto'. Qui
noto anche cale (cfr. caus g cau 2"' e 3* pers.) cado. — ili. Metatesi : stranurar ster-
nut., ttvs (pezzo) thyrso-, ■ cfr. Diez Et. Wort., I, s. ' torso' , drn.mi dormire, donde
raiiuid dormendo; pressac persico-; (e viceversa parci-s preciso); — crahba capra,
erompa, cugromba e trenda num.. 109, frale Tinm. l,preba pipare, prudga podagra.
— ^'erranno qui valmuca malva e rudéa rugiada? — 112. Di attrazione di vocali
non trovo esempi se non al unni. 1 sotto a) e in maitl mattino, e in muir morior,
che sta allato al più ovvio mor. ■ — In fahnelja (ali. a fam.'\ femella si vedrà un
esempio di attrazione di l oppure un esempio da aggiungere ad algiia, ecc. del
num. 120, quasi /rt?»i- = fnii.iu- = fam- femella? — Attrazione di l mi par certa in
hrera num. 55, che starà a 'betula' (cfr. ital. bietola) ^h età,, come p. e. il prov.
fronda {ital. Jìonda, ecc.) a 'fundula' = funda. — 113. Per 1' assimilazione ho o ri-
chiamo ss = ls, rs di amasse ama' ls = ama-los (con gli), coca (o cqs^) num. 27,
?)»tssic morsico (ali. ad asmursdr 'fare colazione' = catal.-com. esmoesar, spagn. ahi-)
e bgssa num. 29; HU=nl e mi : dliui nas donas (dicono le donne), con nu (come
la); — mm=mn num. 71; — «ft:=nd : marandr (merend.), antanint intendendo, ona
unda, ecc. (Curioso Ijéma, cioè catal.-com. IJ emana =^'ljen- Ijenn- lendina' lende-); —
ll = nà'l in metta num. 106; e tt = pt num. yS'''^ e ii = bt num. 99^'=^; — sisanta sexà-
ginta e cMc'«r ' suctiare '. — 114. Casi di dissimilazione si ponno vedere a' num. 51-54
{dar ali. a craa, ecc.); e in tdturd^' urturd'' (cfr. num. 49) hortulano-, in vdma
num. 10 6 in IJema del num. precedente.
II. — Appunti morfologici.
Articolo. — 115 : /((, la, pi. Ins, las. — Pronosie. — 116 -.jó, a ini; tu, a tu; elj,
a elj; elja, a elja; plur. uii.s-altrns -as, vus-aUrus -as; eljus eljas, acljus, ecc. — ddéémus
(lasciamoci), dasdi-us (lasciatevi), désal (lascialo), désals o dekiss (lasciali), damai (la-
sciatelo), ecc. — meumea, pi. meus meas (e mia.s); e analog. tou toa, sou sua, pi. tous
tuas, ecc. — 7nun pais, ma mara, ma-n-galmana mea germana, ta eia (tua zia), mus
fls, ecc. — jja cldn acds (per qual caso) — achest -a, aclies -a (codesto -a), aclielj -a;
ealchiù, ningii, card cadauno, pe cara Ijoc (in ogni luogo); — asó e anche lu, V (ciò),
p. e. diure l' che vuldrds (dirò ciò che vorrai); — lu, la in certe contingenze usato nel
senso di 'quello -a' (vedi p. e. nell' Appendice il proverbio 32). — 117. Aggettivi e
nomi. Costante (come, del resto, nell'articolo) il -s caratteristico del pi. : la dona, las
donas, quantas donas; V orna, lus ómans; la canea, beijas cancons belle canzoni; crabif
crabits, tot tots. Anche ne' numerali : docents o docens óus (ducent' ova) , mils (allato a
mil) ossus. Se talora manca, ciò avviene negli aggettivi e pronomi accompagnanti
de' nomi che presentino già il seguo del numero e anche (ma più di rado) in nomi
il cui numero sia già evidentemente significato da' pronomi e dagli aggettivi che
— 322 —
loro s'accompagnano : to lus cavcds, tota la.i donas; cuant ómans^ mil mnljcrs, la
festa de TO lus sants , pannu Ijugels (panni leggieri). — 118. Pochi nomi in -s nel
siug. : tems tempus, cos corpus, pois pulvis, avés (niente) res. — 119. Esempi di
figura nominativale di nomi imparisillabi di 3* sono : mosse'» :='mou-senyer' (titolo
originariamente dato a' soli cavalieri e ridottosi poi a' soli chierici: cfr. Mila y Fon-
tanals, Jahrò. f. rovi, und engl. Llt., anno 1863, pag. 145, nota 2), sastva num. 57,
e (se è da 'putor") j-iudo (puzzo) — 120. -Feminili in -dlja : parnntalja parentela, ruii-
daJja racconto fatto a più persone che stanno a sentire in circolo; — in -óra (corre-
lativamente al masch. in -u[r]) : cuzirora (cucitrice); rantarora (lavandaja; cfr. rMiit
num, 7(ì); tisìrora (tessitrice). — Si notino puro asmphia sputo (dal verbo ascup =
catal.-com. escup), munhica (scimia) in cfr. con spagn. mono e catàl.-com. mico., ecc.;
e hardissa (siepe; cfr. prov. scUssa). — 121. Di genere fem. i nomi seguenti : fd, mei,
fjel, mar, sane (sangue), cnló[r] col., so>i (sonno), IJum (lume).
Veebo. — 122. Paradigmi delle diverse conjugazioni. — Indie, pres. sing. : cant,
hec, drom, fahiés (canto, bevo, dormo, finisco); cantas, heus, dromis, fahiésas; canta,
ben, drom, fnhiiis; ]-)l. caiitem, òajem, drumim , falnim ; cantdu, hajeu, dm/iniii, falnia;
alatali, heun, dromiii, fahi-liaii. — Impf. : cantava -as -a -di:am -ucu {-au) -doan; rléva
pi. rlévam, tanta pi. taniam, santioa'^ì. santivam, ecc. - Pf. e ««««(/ai ho mangiato , ecc.
— Fut. cantare -ds -d -ém -éu -d>i; beiiré, drumiré, ecc. — Sogg. pres. che canti -is -i -iém
-leu -in; che mori, morts, ecc. — Impf. sa mangéssi -is -i (e anche sa manrjess alla 3"') -éssim
-èssili -essiti; sa hajéssi, sa drunussi, eco. — Condiz. cantariva, ecc. (cfr. impf. indie),
bajarioa, drinnirira. — Pcp. cantat , bagut, dnimit. — Grer. cantan[t], bajen[t], drumm[t[. —
Infin. cantd[r], sabé[r], béura, drumi[r\, falni\r\. — 123. Oltre la frequenza del pres.
indie, in -éc e in ce (cfr. num. 125 , 126) e la costanza del -s della 2"^ pers. sing., notevoli
i punti seguenti. — I. Non sono disusati affatto i perf. forti, come ach, volch, ecc., del
catal. letterario de' secoli XIII e XIV (tranne forse /o o fon fuit), ma ben di rado e sol
da' più vecchi s' ode ancora qualche forma di perf. debole, come anighé (= catal.-com.
aiui '&ndò'), aghé (ebbe), caZ^^/ie (cadde). Ne ha preso il luogo il perf. composto : compo-
sto, cioè, o del pcp. del verbo e del pres. degli ausiliari éssar e aghér {so astdt, é amdt),^
o dell' infin. del verbo e del pres. di andr (vaévas va «««?■' andai ', ecc.; anéni andu van
andr 'andammo', ecc.). In luogo di vaé 'vadio' vas, ecc., si usa pure, ed è anzi più
popolare, var varas vara vdram vdreti, vdran vado, ecc., p. e. jó var-a-vénra io .vidi.
Questa seconda forma di perf. composto, che s' incontra oggidì anche nel catal. let-
terario (vedi p. e. in Cortada, La noga fugitiva "pag. 54 : mi va trovar 'mi trovò), non
è ignota ad altri idiomi romanzi, p. e. a' dialetti valdesi. — II. A proposito del perf.
composto va notato che in tutte le congiunture in cui s' adopra 1' ausil. aghér si può
adoperare, e anzi più comunemente , irenda tenere; quindi p. e, : é tangiU dosflls, tania
vanùt una viha, vus altrus tangariuu fet asó s' jó no era vangiU (ho avuto due figli,
avevo venduto una vigna, voi avreste fatto ciò se io non fossi venuto). L' ausil.
' Ecco un frammento di un antico Credo algherese ove la forma semplice e la composta si avvicendano : Eg
nat (le Maria Vcrgina: j'ati bas lu ptidér da Pon^i Pilat; fo cru^ifiat, inori e sajmrtat; es debasat a V infdn; lu terger
dia residua, ecc.
- 323 —
poi de' verbi intransitivi od usati intransitivamente è sempre essar (p. e. no so p"-
jjiH aiulr); ed essar talvolta sostituisce aghér anche ne' verbi transit. (p. e. so j^ofif
massa de malsho patito molti mali). — III. Non è inaudita, almeno presso i più vec-
chi, l'antica forma del condiz. in -era {vnjera, pìnjhera^ aghera vedrei, eco.) e fora
'sarei' accanto all'altra in -icn o -la, che nella nuova generazione tiene il campo
(reurica, jyugariva, auriua, sarlva; o veuria, ecc.) — IV. Superfluo il notare la fre-
quenza del passaggio de' verbi in -è alla classe di quelli in -e (riura ridere; véuì-a vi-
dore, sénra sedere, trciida tenere, ecc.) e de' verbi di 3' (e anche, ma più raramente,
di 2") alle fox'me della 4'' conjug. {anfanir antnnit intendere, ecc.; ascrioìr ascrluU
scrivere, ecc.; vivii vivuto, ecc., allato all' infiu. viura; suceir suceii succedere suc-
ceduto, ecc. — 124. Paradigm.^ de' verbi ausiliari: a) essar : so, ses, es, seni, seu,
soìi (so) — era, eras, era, eram, érau (eru), crau (era) — so astut oppure vac essar —
sarii — che jó sia — .sa fos, sa fossas, ecc. — sarlva e slgarlva. — [i) aghér
{aver) : e, as, a, avém, avm, an — aveva o avea (antiq. avia) — e agiU - — agaré
— che jó aghi, che nus altrus aghlém — s' aghessl — auriva e agarlva — •;) tren-
da'.tinc, tlns, te, taném e tanghém, ecc. — tanlva e tangheva — e tangut — tangaré —
che jó tenghi — si fanghessi — tangarlva. — 125. Altri verbi notevoli. Astdr : astic,
astds, asta, astém, astato, astdn (astdnan) — astava — so astdt — astaré 0 asti gare — s'astl-
ghessi — astlgariva. — Andr : vac, vas, va, anéin, andu, van (vdnan) — anava — so andt
■ — alligare — che jó vagì, che nus altrus anlghlém, che tots vagu — ■ s' anighessi — aniga-
rlva — ■ véstan vattene, andvun andatevene. — Sahér : se, sas, sa (sap) , sabém, sahéu, san
(sdìian) — sapeva o saheva (antiq. sahia) — e sabùt — savaré — chejó sali — sa sabèssi —
— savarlvao sauriva. — Prajer piacere : prau , es pragut , ecc. — Vulér {vulghér) : vidj ,
vols, voi, vurém, vuréu, vóran — vuréva — e vurgiU — vìdg- o vugaré (antiq. vuldré) —
-che jó vulghi — sa vulghessl — vidganva. — Fer : fac, fas, fa, fem, feu, fan (fdnan) —
feva — efet — che jó fagl — sa fessi —f ariva o fagariva. — Diura : die, dins, diu, diém,
dliiii, diun - diéva e dit — dlgaré — che jó dlghl — sa dlghessl — digariva. — Viu-
ra : viv, vius, viu, vivém, ecc. — viveva — e vlvit (antiq. e viscùf, e vlschit). — Reciv ir : rèp,
rehas,rèp, reqevém, ecc.; e reqevit (antiq. reòùt). — Piò uva : próii pluit, ploéva, es pìo-
giU. — Cunésar : cunes, cunesas, cunes, ecc., e cunasilt (antiq. -agili). — Ubrir : ojjr, obrls,
ohri, ubrim, ecc.; — idjrlva, — e ubélt, — ubrlré — chejó obrl — s' ubrissi (e anche s'ubal-
ghessi)— tibalgariva. — Ljlgir legere : Ijié, Ijigis, ecc., e Ijigit. — 125'="-\ Verbi la cui
1^ pers. pres. indie, termina in gutturale. — a) Vinc venio, vlns, ve, vanim, ecc. —
vaniva — so vangili — yaKf/ara (antiq. vandré) — che vini — sa vanghessl — vangarlva — va-
niiim' avarerà venitemi dietro — infin. vanir (cfr. tinc num. 124); — p) donc (do) dono, das,
da, duném, che donghl, ecc. — prenc, prens,pren {pre),pranim,pramu,préiian — praniva — e
prangiit t- prangaré — che jó prenghl {preni) — sa pranghessi — prangarlva , infin. prenda.
E così antenc intendo, anqenc accendo, rasponc respondeo. — 7) mioZc (macino) molo, e
midgùt, moldre; e cale cado, caus, cau, cajém — so calgiit (calgiit), cairé, che cdighl, sa
caighessi, calgarlva, edura — ò) (oltre «.si/c num. 125) vcc video veus, veu, vajém , vqjéii,
vi'un — vajcva — e vagut — vauré — che jó veghi — sa vaghessi — vaurlva — véura — bec
bibo, beus, beu, bajém, ecc. — ■ bajeva — e bagiU — bagaré {hajré) — bagarlva (baur. balr.)
— 324 —
— ■ béttra — crec ci'eJo, crens, ecc., crqjeva , e cragi'ii . cn'ura — sec sedeo, seus^
seu, sajum, ecc., sajeva, sajut (mgiU), sàura (séira) — dee debeo, deus, deu, da-
jsm, ecc. — rie rideo, riuti, rlu, rlém, ecc., riura — moc moveo, mOMS, mou e mu-
jeva, e mìigiit, móura — pìsc possiim, 2>ots, pot, pughùm {pujém, puréin) e jìiiglieva
(pureva), e pugùt, che jo pugili, sa pughessi, lyitrjariva, pughir [purér). — 126. Verbi
in -te ed -66: Jaf^'c battezzo, simió (somiglio) e sumic o sumiéc somuio, cunsum6c, ma
vniidich66 mi vendico, siulct66 sibilo, nevèga nevica, grandinega fa gragnuola, ecc.
x4.vvERnr. — 127. aont (dove) ad-unde, da ont de-uude; amlclu (ananclà), analjì
analjd; an'vdnt, anarera {andrera), adamon sopra, aìahas e sola sotto, arins {adrins);
dasprés e lun; — cuaiit, sempra, mai, ara e ancara, ah'ira, legu subito; mcs più e men
più e meno; si, ino, asì. — Con -s : foras, drets (oltre), ansems ; folsis. (Cfr. i giorni
della settimana di Ijuns, dimecras, digous, e forse dimais [=: dimart's?], allato a c?('-
vendras, dissatta, dumenga).
128. Preposizioni è congiunzioni : en (an) =z in, fns e finsas (fino); sens (senza);
amba o ama (con), p. e. amba gusticia con giustizia, amhn gran pirajé con gran piacere,
amba mi e ama mi con me. Solo nelle scritture clie abbiano qualche tendenza let-
teraria trovo usato dagli Algheresi il catal.-com. ab. Ad 'et' si risponde con i.
ni. — Appunti di sintassi.
129. L'oggetto del discorso è designato, come in castigl., napol., ecc., col pre-
mettervi la prep. a; p. e. no vuréu mafdr als alfrus (non volete ammazzare gli altri),
no 2>uc vaura a tu (non posso veder te),jo vulj a- Pera (io voglio Pietro). — Notevole
la frase i a molts' ci ha (=ci sono) molti', se molts è accus.; e simili.
Osservazioni.
I. Uu' occbiata al suesposto schema ci dice subito che forse tutte le note carat-
teristiche del linguaggio parlato oggidì in Catalogna e nelle regioni affini si riscon-
trano neir algherese. ' — a) Vocali toniche : e = a, specialmente sotto 1' azione
' Ho rilevato lo nai-atteristiolie del catalano, massime del catalano letterario antico usato al di qua e al di \k
de'Pirenoi, da Die:!, (rr., I, pasj. 102 seff., 237, ecc., della versione irancese; da Mila y Fontanals, De- ìos Trovadoves
en EipaTia, B.arcclona, 1861, pag. 451 sojj., <s Jahrh.f. rom. uiid eiigl. Lit., cit., pag. 145 se g.; da Bofariill, Eitudios,
sMtma gramatical y crestomalia de la Unijua catalana, Barcelona, ìS6i, passim ; àti, Mussafia, Die catalanische metrische
version der sieben weisen Melater, Wien, 1876, pag. 4-23; a A'.akt, Eludes historiques et philologiqiics sur la laurine cata-
lane., i quali tengono subito dietro a' Documents sur la langiie cnlnhmc des atiQiè.ns comics de, lloussillon et de CerdaJie,
Paris, 1831, passim; e anclie (massime le caratteristiche del catalano odierno) da studi miei propri sopra testi re-
centi; quali J. Coiti'ADA, La noija fufjìtiva (Versione della ben nota novell.a di Tomm.aso Grossi). Barcelona, ISSI;
Tr. PuLAv-Biiiz, Cansons de la Tera, Paris y Barcelona. 1877, ecc.
— 325 —
di vocale 0 consonante palatale, nnm. 1; e o = a, in ojìv num. 2; — e ed o =i ed ù
num. 12 e 22 ed = i ed n di posizione num. 13 e 25; casi di >, e it. =é ed 5 ed anche = e ed
o di posiz. num. G e 0, 18, 20'''* e 24; h = ì num. 14; mancanza assoluta di dit-
tonghi che rispondano alle vocali suddette e quindi anche o = au num. 27; i pi'o-
venzalismi (se son tali) cunés cognosco, ven voce-, cren cruce- (coli' eccezione , anche
catal.-com., di 7io(t = nuce-, forse dovuta 'alla necessità di evitare in qualche modo la
confusione con netc nive-) e nit nocte-, e gli avverbi ara e ancara. — [5) Vocali
ATONE : «=:6 ed « = o, specialmente in protonica num. 30 e 32 : due vicende assai
frequenti nel catal.-com. (vedi Mila, Trov., pag. 462 segg. e JaJirb., pag. 147, nota 3;
Mussafia, op. cit., pag. 5). — •;) Consonanti : /y = 1-, '11", e -11, num. 46-40; repu-
gnanza alla risoluzione di 11 e di 1 4- conson. in n (comuni le poche eccezioni,
num. 49-50) e tendenza, al contrario, a favorire lo sviluppo di l da u di fase an-
teriore anche alloi'a che quest' u non risponda ad un l originario, nuin. 120; ÌJ = ci,
ti, ecc., nima. 51; apocope e riapparizione condizionata di r e n, num. 58 e GS;
Z< = v- num. 60 e GÌ, e &=:ni- in barandr num. 72; s rispondente non solo al nesso
originai'io se davanti a vocal palatale, sì anche a ss, cs, ps, num. 65, 66, 78, 98;
jl = 'nn" e -nn, num. 70, 71; e tra vocali continuato da una semplice aspirata e in-
fine dileguato affatto , num. 76 ; il e che riusciva finale risoluto in u, num. 77 , e an-
che il tj e il t -}- s, num. 42 e 77 ; (/ = 'e' e ;jr = ci , cr , num. 74; come d^=t, num. 86
e i = p, num. 94-95; l'u di qu e gu non sempre muto, num. 80, 84; il 7 de' casi del
num. 45 ; et risoluto in jt, ecc., num. 79 ; 'd" soppresso e -d risoluto in u, num. 90-91 ;
b scaduto a, v e quindi vocalizzato (in n), num. 100; wi = b in cniuim, num. 99. —
S) Accidenti generali : i casi in ispecie di scempiamente di consonanti doppie,
num. 103; di protesi di v e di epentesi di r e z num. 109; di metatesi, num 111; di
assimilazione, num. 113 {ona unda ecc.) e di dissimilazione, num. 114 {IJé-
mn[na] ='ljenana', ecc.?). — s) Concordanza quasi completa nelle coudizioni morfolo-
giche e in particolare ne' nomi sing. provenzaleggianti in -s sul tipo di tems, num. 118;
ne' nomi plur. sul tipo di omans, braoas, Ijadras (= catal.-com. Jioìnens, ecc.); nella
frequente sostituzione dell' infin. in -ère all' iufin. in -ère e nel frequente passaggio
de' verbi in -ere ed -ere alla conjng. de' verbi in -Ire e nell'uso del perf. composto
col presente del verbo che significa 'andare' num. 123. — Q Comuni parecchi av-
verbi in -s e ara ancara num. 127. — tj) E comuni non poche voci caratteristiche o
per la forma o pel senso ; p. e. amagdr nascondere e de amagàt di nascosto, hardissn
siepe, òofj ammaccatura, hracól culla (catal.-com. Lressol), hucl pezzetto , ^/os« conoc-
chia, ganiuét coltello, garhelj crivello, (/«(u'ye/^ prezzemolo (catal -com" j«Ztyej'<) , la glii-
nuu. la volpe (catal.-com. la guineu o la guilla), gos cane e gossa cagna, granata rana,
Ijavó semente, massa in quantità, molto, jm-ojj allato, j;ì{c?o puzzo, j^'i'ou abbastanza,
rata-pinada pipistrello, vantar -arora (catal.-com. reni-) lavare, ecc., sargantana
(— spagn. lagartlja) Incerta, scnrahat (scarafaggio), vora orlo, sponda, confine, usato
avverbialm., p. e. vora carni siili' orlo della strada. Di queste voci però, come mi av-
verte il prof. Frank , alcune, che suonano ancora in qualche proverbio o locuzione
proverbiale , nel linguaggio comune sono disusate e quasi più non s' intendono ;
— 32G —
p. e. fjnnivi't e rjos (jossa; alle quali si possono aggiungere (undót tumulto (col
verbo avuhddr), mild sparviero, tfaaxt'r allibire, svenire, fvuntólj agitazione e fra-
gore del mare. — 0) Non pochi spagnolismi del cat. o voci comuni al cat. e allo
spagn. si ritrovano uell' algh., p. e, apusentu stanza, dasjxic spengo, demi- lasciare,
ìrfjit subito, jìratta (=2^^-) argento, sastm sarto, sumhreru cappello, varun personag-
gio. (Le due ultime però e pZate, argento, sono anche del sardo).
II. Le differenze si riducono a' punti segueiiti : — -■/) costanti nell' algh. (nel ca-
tal.-com. parrebbero solo frequeuti) rt=e e )(- = o atone e più frequente n=i atono,
num. 30, e ii per altra atona sotto l'influsso di labiale attigua, num. 33. — [3) r='L",
num. 47 er = L implic, num. 51 e seg. ; e /=r susseguito da altra conson., num. 5G
(certo per influenza del sardo settentrionale; cfr. Ardi. Glott. Ital, II, pag. 135 e 137);
j-=d (t), num. 86, e w = 'b", num. 99; — ■;) l = xi di fase anteriore ne' casi di dl-
fjua e cale num. 110; ma, al pari dell'epentesi di z in cczar num. 109, è fenomeno
che ha pur sempre sua radice nel catal. vero e proprio ; — metatesi di r più fre-
quente (cfr. p. e. algher. coijroyidxt col catal.-com. cogomhya) , num. Ili; — 5) sostitu-
zione della forma italianeggiante -èva ad -t'a nell' impf ; sostituzione ornai compiuta
del perf. composto al semplice; sempre i per 1' e, vocale di flessione del pres. sogg.
della 1^ conjug., e per l'a, delle altre, num. 122 seg.; il verbo 'tenére' passato alla
3^ conjug. (trenda), mentre il catal.-com. lo attribuisce aUa 4^^ (tanir), num. 123;
nessun caso di infin. coli' epitesi caratteristica di un r alla solita desinenza (quindi
p. e. viìira, .léiira, pióura = ca,tal'.-coni. viiirer, scurer ^ jAourer); .ws = catal.-com. ds,
2"- pers. sing. pres. indie, del verbo sostantivo, num. 124; /ac e t-cc = catal.-com. /ac
e vec o veg, num. 125. — s) rtwìZ>a 0 ama = catal.-com. ah, num. 128. — C) Voci algher.
non interamente identiche, almeno nella forma, alle catal.-com. : andrà, cos'ars, IJe-
mn, parelja, umhrilj , «ji^ór = catal.-com. dnac, colses, Ijémana, jmélja, Ijomhrigol (cfr.
spagn. omhìlgó), inflar. — r,) Spaguolismi algher. : f anfana (spagn. ventana), guria (spagn.
jndia) , manasU (spagn. menester) = catal.-com. finestra , fasól, mesfér. — 0) Voci algher.
di apparenza catal. che non trovo ne' dizionari catal. (vecchi e scarsi però) che ho
qui sott' occhio : escratur schiattare (cfr. prov. esclatar, ecc.), gana ganascia (dall'an-
tico altoted. wanga?); massdr mietere e musserà messe; p?«f«? secchio di rame per at-
tingere acqua dal pozzo (cfr. poii pozzo); immatta pomodoro , curioso impasto (non
però esclusivamente algher.) di 'pomo-' e dello spagn. toniate; rahél e ribél vaso di
terra cotta ove si fa la pasta per il pane (=:labello-?), tintura zanzara (cfr. Diez, Et.
Wdrt., I, s. 'zenzara').
Superfluo avvertire che il sardo, il sardo sassarese e logudorese, ad Alghero
sempre più restringe il campo del catalano. Esso lo ha infatti soppiantato e lo viene
via via soppiantando ne' nomi di pianto e iu genere per ciò che x-iguarda i termini
propri dell' agricoltura; quindi p. e. : truvógn trifolium, fustidlbu populus alba, swirgu
quercus suber, rammgii 'gramineo-' graraen; aìhdra (vomere) =sd. oròada, argóla
ai'eola " aja ; hohi (mercato) , che sarà certamante in relazione colle voci sd. hodAeu, croc-
chio, trebbio, fiera, hodAiri raccogliere, ecc.; inoltre : aiunju (autunno), sua (scrofa),
valgia rondone) =: sd. varz/'a; rnuign ruggine: ni urinargli e frai/arjn num. 1; e an-
— 3-27 —
che cumnltdr (intridere, impastare), so è da '.commixtare ' (per i( sassar. = st cfr.
Ardi. Glott. Ita!., II, pag. 135; il Dizionariu sarda- itaUanu di V. Pomi ha in questo
senso cHinoss(u).
III. Secondo l'Ahirt, op. cit., pag. G2, (i3, Li terminazione rts=es del plur.
de'feminUi, contraria al genio del catalano, s'introdusse in questo nel XVI secolo
per influenza del castigliano e ^' ^=: 1 iniziale vi è affatto ignoto prima del XV. Ma
r alghorese gii dà torto. Esso ha sempre -as nel primo caso , sempre Ij nel secondo.
E i Catalani si stabilirono ad Alghero nel 1354.
E anche era senza dubbio già compiuta alla metà del secolo XIV l' alterazione
di aó- -ec.... e di -ats -ets.... in -o«, -e», ecc. (p. e. di 'pace-" in ^jiaw, di puteo-'
in jjou), altresì nella 2'' plur. de' verbi (p. e. di 'amat[i]s' in amdti); della quale alte-
razione r Alart (op. cit., pag. 6 e seg.), non vede esempi se non solo negli ultimi
anni del secolo stesso. L'algherese rincalza dunque l'opinione del Mila {Trov., pag. 456)
e del Mussafia (op. cit., pag. 14 16, nota 10): che «=ts de' verbi, sebbene tardi e
come a stento si mostri 'nella scrittura', doveva essere 'nel linguaggio parlato" di
antica data.
In conclusione le note caratteristiche del catalano odierno, poiché le ritro-
viamo nell' algherese, erano già fissate prima che venisse fondata la colonia di Al-
ghero. E poiché non manca qualche indizio di speciale attinenza del dialetto di
questa col dialetto che si parla oggidì nella Catalogna vera e propria, possiamo cre-
dere che la colonia algherese sia oriunda di qui piuttosto che da altra regione di
lingua catalana.
328
APPENDICE I.
PEOVERBI, MODI PROVEEBIALI E SIMILITUDINI ALGHERESI.
1) Anici las gJórias — sa nlvldnti laa ma-
mórias.
Colle glorie — si dimenticano le memorie
— (CM cioè sale da umile ad alta con-
dizione lascia cadere in oblio e tra-
scura tutto ciò che riguarda il passato
e, tra altro, gli antichi amici).
2) Chi te tióìis fa astéljas.
Chi ha tizzoni fa schegge (Cfr. il sd. Cliie
ienet-jìastinat hlnza in codina = Chi
25ossiede, chi ha denari, pianta vigna
nella roccia).
3) Mes vai un te che cent te iiunaeé.
Più vale un tieni che cento, ti daeò.
4) Mes vai un sumbreru a la praca — che
cent esctits an la casa.
Più vale un cappello (un potente jn-otet-
tore) in piazza — che cento scudi in
cassa. (Proverbio in contraddizione col
seguente).
5) Amor de senór — dlgua an cistelja.
Amor di signore (è come) acqua in (un)
cestello.
6) Mihóns i galj/'nas amòrutan la casa.
Bambini e galline insudiciano la casa.
7) No es gra.s[s]a la galjina — che no te
■ manastér da la vehina.
Non è grassa la gallina — che non ha bi-
sogno della vicina.
8) il/t'.s i:al un ho veld che' lina mala pa-
rantdlja.
Meglio vale un buon vicino che una eat-
tiva parentela.
9) Andra de caragóls — andrà de dnls.
Annata di chiocciole — annata di lamenti.
10) Chi no te arrés che fer — pantlna la
gaia.
Chi non ha nulla da fare — pettina la
gatta.
11) Galjina che no l/ica — hicdt a.
Gallina che non becca — ha (già) beccato.
12) Puljét de galjina — asgdrha.
Pulcino di gallina — razzola.
13) Filja de gata — (igófa rata.
Figlia di gatta — acchiappa topi.
14) An ahrafuljut — to lus parddls i fan.
niu.
In albero fogliuto — tutti gli uccelli ci
fanno nido.
15) Suspnrs de cor — mancamén de bassa.
Sospiri di cuore — mancamento di borsa.
16) Chi te aqienda i no la veu — prestu es
p'roha e no sa'l cren.
Chi ha podere e non lo visita — presto
diventa povero e non se lo crede.
— 329 —
17) Chi no adóha la ijutiini — te da fé la
casa anidra.
Chi non accomoda la grondaia — avrà da
rifare tutta la casa.
18) De gota an gota — sa umpli la bota.
A goccia a goccia — s'empie la botte.
19) Ghisa graia ami U.pnt — no fa agrari
a nìngii.
Chi si gratta dove gli prude — non fa
danno a nessuno.
20) ^I chi iins de dar a dina — no li plo-
ris V asmursd.
A chi hai da dare da pranzo — non rim-
piangere [d'avergli dato] la colazione.
21) Dinér de capaljd — cantdn ve i can-
tdn va.
Denaro di prete — cantando viene e can-
tando va.
22) Dona, che moli hada — acdlia tedi la
fuscida.
Donna che molto s'indugia — tardi em-
pie il fuso.
23) Ascomhra nova — ascombra net.
Scopa nuova — scopa bene (Cfr. il sd.
Iiistizia noa ferramenta acuta).
24) Ni dona prop de varóns — ni astópa
prop de tións.
Né donna presso a ("giovani) signori —
uè stoppa presso a tizzoni.
25) Vifia vora carni — p)rat vara rivéra. —
i dona finestréra — no an fei mai
hona fi.
Vigna allato a una strada — prato allato ad
un fiume — e donna che passa il tempo
alla finestra non hanno fatto mai buona
fine.
2G) Dels ascramanidis nasan lus avisidts.
(Dall' esperienza nasce l' avvedutezza).
27) Bou sol[t] — sa Ijepa com voi.
Bue sciolto si lecca come vuole.
28) Diun nas donas del holn — che de la
Loca sa ccdenta 'Ifoln.
Dicono le donne del mercato — che dalla
bocca si scalda il forno.
29) Ghèrra, cacéra i amórs — pe caraprajé
mil clulórs.
Guerra, caccia e amori — per ogni pia-
cere mille dolori.
30) Si vols éssar ben sarvii — festa tu ma-
tés hi Ijit
Se vuoi essere ben servito — fatti tu
stesso il letto.
3 1 ) Boca che menga fel — no pot asc up i mei.
Bocca clie mangia fiele — non può sputar
miele.
32) Lc( boca de la mei — tal/a Id de la fel.
La bocca del miele — taglia quella del
fiele.
33) An malartia i prazó — cunesards iun
cumpìanó.
In malattia e prigione — conoscerai il tuo
compagno.
34) Lu bon vi no te manasté de ram.
Il buon vino non ha bisogno di frasca.
35) Chi trabalja menga — i va hiinic hi du-
menga.
Chi lavora mangia e va ben vestito la
domenica.
36) Guani lu didbla va a ra.cdr — mira che
ta voi angandr.
Quando il diavolo va a recitare (orazioni
in Chiesa) — bada che ti vuole ingan-
nare.
37) Chi no dona lu che dol — no alcanca
hi che rol.
Chi non dà ciò che gli duole (di dare) — ■
non ottiene ciò che vuole.
38) La neces.siidt — no te lej.
La necessità — non ha legge.
39) Music pagàt — • no fa bon so.
Musicante pagato (avanti) non suona bene.
330 —
40) Chi barata — hi cap sa rjrata.
Chi baratta — il capo si gratta (ta o teme
sempre di fare un cattivo affare).
41) Chi aljoga 'l cui no seu cuant voi.
Chi appigiona il sedere non siede qiiando
vuole.
42) Chi voi mangd pei — sa lana 'l cui.
Chi vuol mangiare pesce — si bagna (cioè
bisogna che si bagni) il sedere.
43) Che fan lus anfanisi — Ln che veun
fer als grants.
Che cosa fauno i piccini? — Ciò che ve-
dono fare a' grandi.
44) Del pia de mun cumpara — hon tros
a mun filjól.
Del pane del (mio) comparo (padrino) — un
buon tozzo (toccherà) al (mio) figlioccio.
45) Caldèra velja — bon o furai.
Caldaja vecchia — ammaccatura o buco.
46) A V abra caìgnt — cani ì fa lena.
All' albero caduto — ciascuno ci fa legna.
47) La (jhhv'.ii cuant mi poi arrìbd — dia
che son vehìas.
La volpe quando non (vi) può arrivare —
dice che son verdi (lo uve).
48) Chi roni l'oss, chi sa'n cuca. 7 neuddu.
Chi rompe l'osso e chi se ne succhia il
midollo ('Sic vos, non vobis").
49) Diént la vanidt — sa peri V amistdt.
Dicendo la verità si perde 1' amicizia.
50) Ga ta cunés, arhéla, che ta dius mu-
raduis.
Già ti conosco, erbetta, che ti chiami
maggiorana. (Dicesi a persona di cui
alle primo parole o per altri indizi si
indovinino le intenzioni).
51) BclJ, culnrit coni tina rosa, da mac,
com un cravélj de pasiérn.
Bello, colorito come una rosa di maggio,
come un garofano di vaso.
52) Frac coni una rana.
Magro corno un ragno.
53) LJonc con na curezma.
Lungo come la quaresima.
54) Ljestr con nu Ijamp^ con na pórrara.
Lesto come il lampo, come la polvere.
55) Fret con nd geli con na carena del
port, con nu niabra.
Freddo come il ghiaccio, come la catena
del pozzo, come il marmo.
56) Feu con nu d/mta.
Brutto come il debito.
57) Ta'l veus davdnt con na moli.
Te lo vedi dinanzi come la morte. (Dicesi
di chi capiti senza far rumore, all'im-
provviso).
58) Dur com un soc.
Duro come imo zoccolo.
59) Gloc con nu, jy^u del mild.
Giallo come il piede dello sparviere.
60) Dret com tuia panna. '
Diritto come una palma.
61) Fer com un garbelj.
Fare (cioè 'scolare') come im crivello.
62) Essar un pés de portu.
Essere un pesce di porto (un furbacchione).
63) Manga com un Ijop.
Mangiare come un lupo.
64) Trenda nies tracas de una muninca
velja.
Avei'e più astuzie di una scimia vecchia.
— 331
APPENDICE IL
Al momento di mandare in macchina, dal cortesissimo prof. Frank, insieme colle prove
di stampa di questo lavoro da lui con tutta diligenza rivedute, mi pervengono un'altra col-
lezioncella di proverbi e similitudini e una canzoncina del secolo scorso, che non ha solo il
valore di un saggio dialettale, ma anche , sebbene evidentemente monca, non è priva d' inte-
resse per i cultori della letteratura popolare comparata. Pubblico ogni cosa qui appresso.
65) Chi asmórca dlr/ua — ^> snpdf vi.
Chi beve acqua a colazione, ha bevuto
vino a cena.
66) Pm's che vas— vsanca che trohns.
Paese ove vai, (adattati all') usanza che
trovi.
67) Chi fé mal cnp — teiif/hi honas camhas.
C!ii ha testa cattiva — abbia buone gambe.
68) Miljóì- cnjì de sardina die eoa de tunnu.
Meglio testa di sardella che coda di tonno.
69) Un nn i un pa — poc estchi a s an passa.
Un anno e nu pane poco stanno a pas-
sarsene.
TOj Blanc con na neu, con- nu Ijet.
Bianco come la neve, come il latte.
71) Kegra coni zm tió.
Nero come un tizzone.
72) Veli con n elba.
Verde come 1' ei'ba.
73) Blau con n azt'd.
Azzurro come il lapislazzoli.
74) Bo con nu pa.
Buono come il pane.
75) Doq con na mei.
Dolce come il miele.
76) Foli (o dur) coni un ascólj.
Forte (o duro) come uno scoglio.
77) Dret coni unfus, coni una vilma.
Dritto come un fuso, come una verga.
78) ^l'cc con na marma.
Ricco come il mare.
79) Ljiinc con nu mes de mac, com aviij ì
dainii.
Lungo come il mese di maggio, come
oggi e domani.
80) Trist con na molf.
Triste come la morte.
81) Trist (o ascér) con na nit.
Ti-iste(o scuro, d'aspetto) come la notte.
82) Trcnda cara d'astrélja, de rosa, de
clavélj, de gasrin., de Ijet e salic, de
gatuU scurgd.
Avere viso di stella, di rosa, di garofano,
di gelsomino, di latte e sangue, di gat-
tino scorticato.
83) Bel] coni a ftdjas de rosa.
Bello come foglie di rosa.
84) Culurit coni una pionia.
Colorito come una mela.
— 332
85) Fret con na neu, con nn gel.
Freddo come la neve, come il gelo.
86) Clar con n dmhria.
Chiaro come l'ambra.
87) Ljuijél com unpalddl, coni una fulja.
Leggiero come un uccello, come una foglia.
88) Liestr con nu veni.
Raiiido come il vento.
89) Tendra con nn guncàra.
Tenero come la giuncata.
90) Proha con nu pgìj.
Povero come il pidoccliio.
91) Ljadra coni una gata velja.
Ladro come una gatta vecchia.
92) Daspitós coni una muninca.
Dispettoso come una scimia.
93) Ambridc coni un asjJÓnza.
Briaco come una spugna.
94) Va con na pijls al veni.
Va (si disperde) come la polvere al vento.
95) Co)'j*[t] con nu mal dinér.
Va (senza riposo) come la moneta falsa.
(96)
Marine .1 hon marim; .,
Deu VHS dongld bundiicn:
visi l'avéu i cunagnt
a l'meu amadór de Franga?
Marinaio, buon marinajo, Dio vi dia buon
mare: visto l'avete e conosciuto il mio
amante di Francia?
Ga : l'è vist i ciinagut
i sa troha avìlj en dia :
i ara sastd casdnt
ani la princésa de Ungria —
-Già: l'ho visto e conosciuto e si trova
(vivo) oggigiorno: e ora si sta ammo-
gliando colla principessa d'Ungheria. —
Son set ans che l'è [alsperdf.,
altrus set l' aspér ancdra;
i si a lus set no ve
monga ma troha pusdda {-draf):
monga del mimasti sani
che té V noni de Santa Clara.
Sono sett'anni ohe l'ho aspettato, altri
sette l'aspetto ancora; e se dopo i sette
non viene, mi troverà (venendo più
tardi) messa monaca: monaca del mo-
nastero santo che ha il nome di Santa
Chiara.
I si vos vus pusdti monga,
elj sa pusard frarét :
elj sa pusard frarét
i im 'n prandrd cunfcssdnt:
« I caljduus vos , la helja ,
che jò so lu vasti-' amdut» —
E se voi vi mettete monaca, egli si met-
terà fraticello: egli si metterà frati-
cello e vi prenderà confessando {col
dire): « Tacetevi voi, la bella, che io
sono il vostro amante. » —
Ma fare a un anguiléta
i ma'n fugiré naddnt.
— Si vus feu a tm' anguiléta ,
elj sa farà pascadór :
elj sa farà piiscadór
i vu n prangard pascdnt —
Mi farò anguilletta e me ne fuggirò nuo-
tando. — Se voi vi fate anguilletta,
egli si farà pescatore : egli si farà pe-
scatore e vi piglierà pescando. —
Ma fare a una cidónia
i ma n fugiré nuldnt.
— Si vus fati a una culoma ,
elj sa farà cagadór :
elj sa farà cacadór
i vu n prangarà cagdnt:
« i caljdous vos la hélja
che jò so hi vostr amdnt. » —
Mi farò colomba e me ne fuggirò volando
— Se voi vi fate colomba , egli si farà
cacciatore: egli si fai'à cacciatore e vi
prenderà cacciando: e (dirà): « Tace-
tevi, voi, la bella che io sono il vostro
amante.» —
G. Morosi.
DIE RUMAENISCHEN
« MIEACLEtì DE NOTRE-DAME. »
Uuter die rumaenischeu Volksbuoher, welclie sicli einer gewissen Beliebtlieit
erfreuen uud walirscheinlich aneli einen Einfluss auf die Fantasie des Volkes ausgeiibt
haben , ist von mir die Sammlnng « der Wunder Mariae » mit eingereilit worden. '
Der Ratim gestattete es mir aber nichfc , in jenem meinem Buclie ausfiihrlich aiif
den luhalt derselben eiuzugelien; aneli batte icli nur von éiner Hs. genauere
Kenntniss; so dass ich mieli dazumal mit Aufiihrung einiger Beispiele begnllgeu
kounte.
Iiizwiscben ist es mir gelnngen eiue grossere Zabl Hss. anfznfinden, welche
tlieils alle Wunder des rumaeniscben Canons, tlieils mit untermisclit mit anderen
Erzàlilungen, einzelne aus dieser Sammlung entbalten (Sammelcodices).
Von mancher Seite ist der "VVunseli geaussert worden eine genanere Inlialts-
angabe dieser « Miraoles » zn besitzen.
Meinerseits mòclite ick geme mit einem kleinen Scherflein beitragen, das An-
denken der kocliverdienten , der romaniscken Wissensckaft leider zn friih entrissenen
Forscher zn ekren, so beniitze ich denn diesè mir gebotene Gelegenkeit um den Inkalt
der « Minunile Makei Domnuhd « wie die Sammlnng im Enmaenischen lantet, ge-
naner anzugeben.
Uumittelbare Qnelle derselben ist das neugrieckiseke AVerk des Monclies
Agcqnos: « A[j.api:wXà>v otartiiAoi » zuerst gedruckt Venedig 1641 (2. Aufl. ibid. 1780),
welclies friihzeitig in's Eumaenisobe iibersetzt wurde. Die àlteste bis jetzt bekannte
Hs. ist die von 1692, aus welcher ioli einige Speeimina in der » Chrestomatie ro-
mana » (I, 299-301) gebe. Unvollstlindig ist eine Hs. im Nationalmnsenm von Bu-
carest vom Jalire 1764. Eine vollstàndige Hs. vom J. 1784 befindet sich in meinem
Besitze; ferner eine vollstiiudige e. 1780-1800 bei G. Todlescu, und eine unvoUstan-
dige bei H. St. Sihleanu, frlilier im Besitze von BoUiac.- Zum ersten Male scheint
die Samluiig 1825 im Kloster Neamtì, gedruckt worden zu sein. Eiue Ausgabe ibi-
dem 1S39 beansprnclit den Titel der « editio princeps. » Zwar erwiihnt Suher, im
' D'. M. Gaster, LiUratura popidara romàna Bucuresti 1&S3, p. 430-138.
— 334 —
Jahre 1782 eines Druckes; er ist uns aber ìbis jetzt nicht zu Gesiclite gekommeu.
Die letzte Aiisgabe ist vom Jahre 1883.
Einzelne Wunder fincleu wir ausserdem in Saniinelcodices des vorigen Jalirliuu-
dertes haufig oline Augabe, dass es ein « Wunder der Mtitter Gottes » sei. So in einem
Codex e. 1730 in meinem Besitze fol. 42 «-52 h, 6 "Wunder u. zwar: Wunder N° 32,
37, 38,50, 65 u. 60; ferner (f. 130 «-132 h) W. N° 64. In einem Codex e. 1750 G. To-
cilescu (f. 19 a-23 a) Wunder N° 65; (f. 28 «-SOj N" 20: (f. 57 n-63 6) N" 11. Dann
in einem Codex des National-Museums e. 1720 Wunder N° 24. welche alle fiir die
grosse Verbreitung dieser Stoffe sprecKen. Weitere Forscliungen werden diese
Nacbweise gewiss uoch vermehreu. Alle Hss. uud Drucke sind elner E-ecension
entflossen und eutsprechen sich aucb voUstandig. Die Zabl der Wunder belauft
sich auf 69; davon fehlen die letzten drei in der altesten Hs. In der Hs. des Mu-
seums sind bloss N" 2-35 und N" 49; SihJeami N°2-45 erlialten. Auf kldnere Unter-
schiede, wie z. B.: Unordnung in der Eeilie der Wunder in den einzelnen Hss
euc. gelie ich nicht ein.
Ioli lasse nun die Wunder in ibrer Reihenfolge nacli der altesten Es. u. der
gedruckten Ausgabe mit knapper Inhaltsaugabe folgen. Der Forscher wird leicbt
den maunigfaltigeu Ursprung derselben erkennen. '
Wunder 1. Der Tod der Mutter Gottes. Juden wollen den Sarg von den
Sckultern der Apostel stiirzen. Die Hilude desjeuigen, welcher ilm beriihrt werden
durch eine unsiclitbare Macht abgeschnitten und bleiben ani Sarge klebeu; die aii-
dern Leute erblinden. Sie bekehren sicb alle und werden gekeilt.
Wunder 2. Maximin einer der 70 Jiinger wird zusammen mit Martha uud Mag-
dalene von den Juden in einem steuerlosen Boote dem Meere iibergeben. Sie lau-
den in Marseiile, wo die hi. Marie dem « Igemon » im Traume beiìehlt dioFremden
aufzunehmen. Er thut es, bekehrt sich zam Christenthum und tritt mit seiner fril-
her kinderlosen, jetzt in gesegneten Umstauden sich befìndeuden Frau eine Wall-
fahrt nach dem hi. Laude an. Unterwegs wird die Frau eines Knaben entbundeu u.
stirbt; sie werden beide auf einer wiisteu Insel in einer Hohle ausgesetzt. Ueber
Jahr u. Tag kommt d. Mann wieder uud iindet d. Kind saugend an d. Brusi, d. toten
Mutter, die nun auf sein Gebet wieder zum Leben erweckt wird. Jhre Seele batte ilm
unterdess auf d. Wallfahrt begleitet.
Wunder 3. « Im Synaxar vom 23 November » wird von dem Schneider Joau
erzahlt, dass er verstockten Siunes auf ein crstes Traumgesicht — er wird gekopft
' Eine genane Untei-snchungr der ganzcn Sammlung des Ajapios aiif ihro Qupllen hin, wurde iinsserst in-
teressant u. lohncnd sein. Die Sagen-imd Lescndenwolt des Oocidontes dringt hierduroh naeli dem Orient, zu
don Slaven und Rumaonen. Denn auoli in's Slavische ist das « Amartolon Sotiria » iibersotzt worden. Deber
seine QnoUen sagt der Verfasser librigens selbst in fior Einleitung: « (furi oi Aóifoi oOtoi eIvh EJ-|-a).|isvo! , ùis
iivuìEv t'.o-mat , àm BiJJ.ii SiiMpa l'xaXixà /.ni Pwuaizi.» welches vom rnmaenischen Uebersetzer folgender-
raassen wiodorgegebon wird: « jientru ca luvatatniile aceaste s.ant scoase, precum s'au zis mai sus, den multe
fealiuri de carti clmcasli sì franceasli. *
Analogieen und ParaUelen zu andorn Sammlimscn werden sich dalior leicbt nachwiiscn und orkliiren
lassen.
— 335 —
— iiiclit iu sich gehfc, im zweiten uur durcli die Fiirspracho der Muti. Gott. von
den IloUenqualen gerettefc wird, sich dahei- bessert. Seiu Beichfcvater erztlhlt ihm
eineu ilhnliclien Traum, dem der « Boer Gheorgliie » nicht gehorchen wollte, und
wirklich iiach Ablauf der Frisi von 20 Tagcn gesfcorben sei.
Wimder 4. « Im letzten Tage d. Monates August » d. li: im Legeudarium.
Ein Patricier Antonie batte iu Neoria (zu Konstantinopel) eiue Kirclie d. M.
Gottes u. Bad geba,ut; letzteres war wunderthatig. Nach seiuem Tode verfiel das Bad.
Kaiser Romano wollte sich eineu Pallast bauen, uud liiess Marniorsteine von jener
Kirche holen. Nachts erschien die M. G. dem Baumeister Nestor im Traume u. ver-
bot ihm darau zu riiliren. Darauf liess Kaiser Romano das Bad wieder aufbauen, ii.
er sowohl als aueh « Hristofor u. Constantin » badeten darin. Es folgt nun eiue Reihe
von «unzahligeu » Heilungeu. Eiue geschwoUene Frau sah dort im Traume d. IM. G.
wie sie eiiiem ehrwiirdigen Manne befahl das Geschwulst durcli eineu Sclilag zu
òffueu, u. ihr, dass sie bade ti. so wurde sie geheilt.
ÌVnnder o. (Pentikostarion. am ersten Freitag). Leon, spiiter Kaiser in Byzanz,
als er noch Soldat war, traf einen Blinden im Walde, ganz verdurstet. Nach langem
Suchen, hòrt er eiue Stimme, die ihm zuruft, in der Nahe sei Wasser. Mit diesem triinke
er den Blinden u. wasclie ihm die Augen; hier solle er daun als Kaiser eiue Kirche
ihr (d. h. der M. G.ì zu Ehreu bauen. Der Blinde wird sehend. Spater baut er die
Kirche des « lebenspendenden Quells. »
Wunder 6. Kaiser Leon, wird durch AVasser, das ihm Schwester Agapi vom
« Goldquell » im iluftrage der Isl. G. bringt vom , schweren Steinleiden augenblick-
lich geheilt.
Wunder 7. (Pentikostarion; hi. Freitag).
Ein reicher Mann aus Thessalonik reist zur "Wunderquelle. Unterwegs wird er
krank u. stirbt. Vor d. Tode bittet er d. Schiffmanu, er mochte seinen Korper iu
jene Kii'che bringen. Dort angelangt, wird d. Sarg geòffuet, u. als AVasser darauf
gespritzt wird, wird der Tote lebendig u. bleibt dort in d. Kirche.
Wunder 8. ■ « Im Metafrast zum. October » wird erzàhlt vom lil . Roman d. Siiu-
ger, dem die M. G. in d. Geburtsnacht des Heilands ein Buch zu verschlingeu
gibt. Am nachsten Tage singt er zar Verwunderang AUer die noch beute be-
stehende Festhymne, und dichtet dami Hjanneu fiir alle Feiertage des gauzeu
Jahres; nahezu an Tausend.
Wunder 0. Dem hi. Gregorius, Erzbischof vou Neocesarea, erscheiut iu einer
Nacht die M. G. begieitet von Johannes Evangelista uud unterweisen ilm in der
Reehtglàubigkeit. So verfasst er denn das « Orthodoxe Glaubensbekenntniss. » Von
seinen AVundern wird folgendes erzahlt: Er steckt seineu Stab an dem Ufer des
Flusses « Lupul » in die Erde , und der Strom wagt nicht mehr dort auszutreten.
DerStah erUuM und wird eia miichtiger Baum. Bei Gelegeuheit werdeu noch audere
AVuuder der hi. Viiter erzahlt.
Wìinder 10. Der hi. Johan Damasceuus sclirieb den Glàubigen in Konstantino-
pel , dass sie im Kampfe gegen die Bilderstiirmer aushai-ren. Kaiser Leo fing einen
— 336 —
diesel- Briefe auf u. liess einen falscheii tauschend ahnlichen Brief schreibeu , woriii
Johann seine Stadt und d. Herrscher verriith, uud schickte diesen Brief nacli Da-
mascus. Der Herrscher lohan die rechte Hand absohneiden. In d. Nacht heilte ihn
d. M. G. u. ein rother Strich bewies es gegen die Verlaumder. Der hi. Johan wird
dami Monch u. nur auf Befehl d. M. &. wird ihm vou seiiiem Vorgesetzten erlaubt
zu schreiben n. zu dichteu.
Wuìider 11. Ein Kaiser in Franhrelcli heirathet eine zweite Frau, welche die
Stieftochter umbringen will. Die Diener erbarmen sich ihrer u. schneiden ihr bloss
die Hiinde ab. So wird sie vou einem Prinzen gefundeu , der sie heirathet. Hir Vater
ist uutrostlich nnd veranstaltet Turniere nm sich zu zerstreuen. Dort zeichnet sich
sein unbekannter Schwiegersohn aus. Die Kaiserin erfahrt uun von seinem Diener,
wer er ist und dass Briefe ihm die Niederkumft seiner Frau inelden. Sie vertauscht
die Antwort u. befiehlt die junge Frau sammt Kinder zu toten. An dessen Stelle
wird sie im AValde zurilckgelassen, von einem Einsiedler aufgenommen u. von d.
M. G. geheilt. Der Priuz findet sie u. die bose Scliwiegermutter wird verbrannt.
Wundev 12. In Britanien weihet sich Maria, ein junge s Madchen, d. M. Gottes.
« Rikardie » der Fiirst verliebt sich in sie und will sie dem Kloster entreissen. Sie
sticht sich nun die verfiihrerischen Augen aus u. schickt sie ihm. Erschiittert bitten
alle d. M. G. um Heiluug und sie erhiilt ihre ausgestochenen Augen wieder.
Wunder 13. Eine gewisse Eftimia von wunderbarer Schonlieit, um nicht hei-
rathen zu miissen, da sie ein reicher « Boier » begehrt, schneidet sich Lippen u.
Nase ab. Ihr Vater ilbergiebt sie einem Bauer, dass er sie peinige u. schlage. Es
vergehen so 7 Jahre. Zu einer Weihnacht erscheint ihr uun d. M. G. mit Engeln
im Stalle u. heilt sie. Der Bauer, Zeuge d. himmlischen Erscheinuug, benaclirichtigt
ihren Vater, der in sich gelit u. ihr ein Kloster bauet.
Wunder 14. Eine arme "Wittwe empfiehlt ihre beiden schonen Tochter dem
Schutze der M. G. Sie schickt ihr durch eiuen strahlenden Jiiugling einen Beutel
Goldes. Durch den unerwarteten Reiclithum regt sich die Schmàhsucht, bis eines
Tages ein Engel, den iu d. Kirche auweseuden Jungfraueu, in Gegenwart einer gros-
sen Menge, zwei Blumenkrauze als Zeichen ihrer Uuscliuld, von Seiten der hi.
Jungfrau iiberreicht.
Wioider lo. Ein Mondi, Kellermeister, d. Id. Jungfrau ergeben, pflegte zu viel
zu trinken. Berauscht, woUte er dodi die Friihmette nicht versilumeu. Der Teufel
als Stier, dann als schwarzer Hund, dami als grauser Lòwe suclit ihn zu schrecken.
Die M. G. rottet ihn jedoch u. empfiehlt ihm fortan Massigung. Zugieich solle er
beicliteu u. die auferlegte Busse tragen. Es goscliielit u. er wird vom Trunke
geheilt.
Wunder 16. Ein Miinch dev d. Bild d. M. G. in seiner Zelle auf d. Oelberge
hatte, wird von unkeuschen Gedauken geplagt. Der Teufel verspriclit ihm Heilung,
wenn jener d. Bild wegschaffen wird. Der Mondi sdiwòrt, es Niemauden zu ver-
rathen, brichtaber seinen Schwur u. bcichtet es dem « Ava Teodor Eliotus. » Dieser
befiehlt ilim sich ganz d. Schutze d. M. G. zu iibergeben; u. ein Miniaturbild des
— 337 —
grosseu Biklos auf der Brusfc, geuiigt ilim voiinun an d. Teufel n. die siindigeu Ge-
daukeu lem zu halteii.
Wuiider 17. In einer Stadt (der Provinz) Koln, mit Namen: Vime^i lebte eiu
Priester, Petrus, welcher seiuer schlechten Thateii -wegen aufgehàngt wurde. Da-
durcli orschreckfc, wird « Aglaida » seiiie Geliebte, Nonne. Im Kloster erscliien ihr
eiu Teufel, der sie verlocken wollte. Am besten vertrieb ihn -abcr nur d. Name d.
hi. Jungfrau.
Waiuhr 18. Einer Nonne erscliien der Teufel in Gestalteines Engels. Von ihrem
Beichtiger belohrfc, bittet sie ihn, er moge ihr aneh d. M. G. zeigen. Wirldich zeigfc
ihr d. Teufel eine schòne Jungfrau, aber alles zorrinnfc in Eaucliu. Wind, sòbald die
Nonne d. tibliche Gebeb hersagt.
]Vunder 1!). Der hi. Partenius erweckt durch sein Gebet an d. hi. Juno-frau
einen am Ufer des Rothen Meeres liegendeu Kòrper. Es ist ein Nestorianer der im
Kampfe mit einem an d. M. G. Glaubenden in's Meer gestiirzt war. Sein Gefàhrte
wird von d. M. G. aus dem Meeresgrnnde gerettet; er aber wandert in d. Hòlle u.
sieht die Leiden der Nestorianer. Jetzt wieder belebt wird er glàubig.
M^under 20. Joan Gucuzel aus Dyrrachium, Hofsanger des Kaisers in Byzanz,
flilchtet sich seines Seelenheiles wegen anf d. Athos-Berg, wo er Ziegenhirt wird.
Boten d. Kaisers suchen ihn vergebeus. Durch Znfall erkennt ihn der Vorsteher d.
grossen Klosters, welcher vom Kaiser Gnade filr einen Ungenannten erwirkt, und
ihn so behàlt. D. M. G. gibt Joan in Traume einen wunderthiitigen goldenen Dukate.
WuìuUì- 21. Der hi. Atanasins griindet d. grosse Kloster auf d. Athos-Berge u.
erbaut es mit Hilfe des nachmaligen Kaisers « Nikifor. » Als die Mittel knajDp wur-
den, erscheint ihm die M. G. u. fullfc die Speicher mit allem Nòthigen. Er zweifelt
u. sie lassteine Quelle aus einem harten Staine hervorsprudeln. Von daher ist sie
Vorsteherin d. grossen Klosters.
Wunder 22. Zuerst wird von d. Griindung des iberischen Klosters durch Toro-
nikie erzahlt; wiihrend der Bilderstiirmerei, gibt eine Wittwe das Bild d. M. G. den
Meereswellen preis, welche es Jahrelang nachher, aufrechtstehend ■ nach d. Athos-
Berge .tragen. D. Monch Gabriel allein, dem d. M. G. erscheint, geht im Meere auf
d. Wasser dem Bilde entgegen u. bringt es hinauf In d. Altarraum gestellt, geht d.
Bild nachts u. stellt sich oberhalb d. Eiugauges wo es als Schutz fiir d. Kloster
bleibt. Sultan Amurat verwnstet einmal d. Kloster; in d. Nacht aber erhebt sich
ein Sturm u. alle seine Schiflfe gehen zu Grande. Andere Wunder geschehen eben-
faUs durch dieses hi. Bild. Fiilluug d. Korn-. n. Speisekammern.
Wunder 23. In Italien verschreibt sich ein Boier: Karol, mit seinem Biute, dem
Teufel, gegen irdische Guter. Er bereut es spater angesichts d. Bildes d. M. G. u.
bittet um Eettung. Sie nimmt ihn gnildig auf. Er bittet auch um seiuen Scheiu,
den d. M. G. schliesslich dem Teufel entreisst, u. Karol im Traume ubero-ibt.
Erwacht, fìndet er ihn in seinen Hànden.
Wunder 24. Teofil, in Cilicien in d. Stadt Adana wird bei d. Abtwahl ùbergan-
gen. Von einem jiidischeu Zauberer zum Teufel geleitet, verspricht u. verschreibt er
13
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sich ihm. Darauf elirt ilin dnrch fcenflische Kunst, d. neue Abt u. alle. Teofil Le-
reut spàter, es wird ilim verzielien, u. uach 3 Tagen erhtilt er durch d. M. (>. den
Scliein wieder. Gesclirieben ist dieses Wuuder von Evtiliie.
Wiunder 25. Zur Zeit d. hi. Sabba kam ein « Boier » zu ilim u. wwvàe Mondi.
Er komite aber nichfc fasten u. sicb kasteien. Ani Feiertage d. M. G. (15. Angnst)
schickt ihn d. hi. Sabba in die Kirche damit er sehe, was geschieht. Es war d. Abend-
gottesdienst. Da kam d. M. G. niit 2 Engeln, ii. wi-schte jedem Monch d. Gesichfc
mit einem Tuche ab, u. gab jedem das Abendmahl; er jedoch wird zuruckgewie-
sen da er nicht im Schwcisse seiues Angesichtes sich kasteit u. uicht fastet. Er wird
daduruh bekehvt.
Wanda- -U. In d. Stadt Xavìilc, am Flu.sss Xaris, kam die Frau eines relchen
Mannes mit einem scliwarzen Kinde nieder. Sie batte einen Neger uuter ihren Die-
nern, u. so verstiess sie ihr Gatte, als untreue Frau. Sie flehet zur M. G. u. stiirzt
sich in d. Fluss. Unten empfàngt sie d. M. G. u. erretfcet sie , das Kind wird sclmee-
weiss. Sie weist dann d. Gatten zuriick u. geht in's Kloster.
Wunder 21. Ein Kloster in d. Wiiste, wird von d. M. G. mit alleni Notliigen ver-
sehen, da das Land ringsumher von Barbaren verwiistet wird u. ihuen jede Zufuhr
von aussen abgeschnitten ist.
Wunder 28. Ein Eòmer, der hi. -Jungfrau sehr ergeben, stiirzt auf d. Jagd in einen
Fluss. Die M. G. ergreift ihn beimSchopf u. fiilirt ihn in einem Nunach Hause, wo
ihn seine Gefahrten, die ihn tot glauben, von Wasser triefend finden. Er geht in's
Kloster.
Wunder 20. Ein Bruder kann nur d. Gebet « salve Maria » erleriieu. Nach sai-
nem Tode wachst aus dem Grabe cine Lille, auf deren Bliitter jeue Worte standcn.
Die Briider graben den Korper aus n. finden dass die Lille aus seinem Herzen , auf
welchem d. Bild d. M. G. eingegraben war. dm'ch den Mund, herausgewachsen sei.
Wunder 30. In der Lombarde! batte ein frommer Manu das Bild d. M. G. au
seinem Hause angebraoht u. betete stets davor. Sein Kind ahmte dieses Beispiel nach.
Eines Tao-es fiel es in's Wasser. Die Eltern eilten herbei u. sahen das Kind auf d.
Wasser sitzen. Aiif ihre Frage antwortete es: die Herrin des Hauses (d. i. dieM. G.)
trago es; so wurde es gerettet.
Wunder 31. Ein reicher Jude wird in der Lombardei von Eaubern ausgeplùudert
u. eino-ekerkert. Hier erwaretete ihn der Tod. In seiner-Noth wendet er sich an d.
M. G. welche erscheint, seine Fesseli! lost u. ihn vor seinem Hause niedorlasst. Er
tritt sammt Familie zum Christenthume iiber u. geht in's Kloster.
M'under 32. Eine Jiidin wendet sich in Geburtsnòthen an die M. G. u. làsst
dann sich u. das neugeborene Kind taufen. Der Mann tijdtet das Kind; von d. Leu-
ten verfolgt, fliichtet er sich in eine Kirche u. der Anblick des Bildes d. M. G. be-
kehrt ihn. Zum Eichtplatz gefiihrt des Mordes wegcn, wird das Kindwieder leben-
dig, nur bchult es ein Zeichen am Halse.
Wunder 33. Als « Britania » nodi orthodox war , lebte dort oln Mondi , der so
oft der Nanie der M. G. erwahnt wurde, hinknieete. Alt geworden, half ihm ein
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Diener sicli von clen Knieen za erliebou. Eiues Tages war dar Dienor fortgegangen,
da orschieii d. M. G. u. gab ihm 30 Jalire weiteron L^li^ii-! n. die Kraffc eines 30
jaLrigeu j\Ianues.
Wnnder 34. In demselben Kloster lebteu 2 Briider, die mit einander verfeindet
wareu; besonders liafcte oiuer dea andern veiiaumdefc. Die M. G. erscheit dem Verzei-
lienden, begieitet vom lil. Joan Evangelista, nnd wendet den Sinn des andern zmn
Bessern. Bei ihrem Versciiwinden , blieb ein liebliclier Duft; besondei's aber stromte
ihn eine Marmorplatfce aus, auf welcher d. M. G. gestandeu.
Wunder 85. Ein Krieger fiihrt einen salir unsifctliclien Wandel. lu dar Kircbe
sieht er eiust beim Gebete die M. G. Jesum in Gestalt eines kleinen rait Wunden be-
deckten Kindes tragend. Auf ihr innstandiges Bitten verzeiht Chri.stns dem Krie-
ger, nur muss er die "Wunden kiissen. Diesa scliliessen slch nach jedem Kusse.
Wunder 36. In Paris lebte ein Clericus, welcher die M. G. in ihrer ganzen
Schònkeit sehen wollte. Ein Engel verkiindet ihm die ErfilUnug, nnr wird er auf bei-
den Augeh erblinden. Er schliessfc desshalb eiues und erblindefc nur auf d. andern. Er
bereuet es aber u, will gern auf beiden erblinden wenn sich ihm d. M. G. nur noch
ein Mal zeigen mochte. Er sieht sie u. Avird geheilt, seiner Opferfroudigkeit wegen.
Wunder 37. Ein Mann todtet d. Ziehkind , welches seiner Fr au anvertraut wor-
den war u. welche er grimmig hasste, da er mit eiuer andern lebte. Auf d. Richt-
platze, wo jene Frau hingerichtet werden solite, erscheint auf ihr Flehen d. M. G.
mit Christus als kleinem Kinde. Das ermordete Ivind wird lebendig und sagt aus,
war der wahre Morder sei.
ÌVunder 38. Im Orient ging ein jiidisches Kind zusammen mit d. andern Ge-
spielen in die Kirche und nahm das hi. Abendmahl. Der Vater erziirnt , warf das
Kind in einen breunenden Ofen; es blieb aber unversehrt, weil die «Frau aus d.
Kirche » es schiitzte. Die Christen warfen uun den Vater im d. Ofen , wahrend die
Matter u. andere Juden sich zum Christenthume bekehrteu.
Wunder 39. In Rom lebte eine Frau, die ihren Sohn inuig liebte, u. ihn stets
bei sich im Bette batte. So warde sie von ilim geschwangert , u. als sie niederkam,
warf sie das Kind in d. Abort u. totete es. Der Teufel vcrstellte sich als Beicht-
vater mit Seherblick, u. verklagte sie beim Gericht. Sie batte aber die ganze Zeit
innbriinstig zur M. G. gebetet u. am bestimmteu Tage, erschien d. M. G. neban d.
Frau, so dass d. Teufel verschwinden musste.
Wnndeì^ 40. Im Aerger verspricht eine Frau dem Teufel ihre Leibesfrucht ; sie
war eben schwanger. Als das Kind dann 12 Jahre erreicht batte , erschien der Teu-
fel u. forderte es biunen 3 Jahre. Sie granite sich darilber u. sagte es schliesslich
dem Kinde. Dieses floh nach Jerusalem zum Patriarchen, welcher ihn zu einem Ein-
siedler schickte. Sie flehten zur M. G. Eines Tages, genau nach Ablauf der 3 Jahre
wahrend des Gottesdienstes erschien der Teufel u. entriss den jungen Mann vom Al-
tare. Der Geistliche wendete sich zur M. G. u. gleich darauf war d. junge Mann wie-
der zur Stelle. Die M. G. war in die Holle hinabgestiegen u. batte ihn von dort
geholt. Der Junge gelit dann iiach Hause.
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Wunder 4L 700 Jahre nacli Cliristi Gebui't lebte eiu frommer Einsiedler nameus
Egidio in ci. Nalie von Jerusalem. Er nahrte sich von d. Milcli einer Hindin. li; der
Stadi lebte ein Lelirer, welclier au d. Jungfràuliclikeit der M. G. zweifelte xi. zìi
Egidie kam um seine Zweifel zu lòsen. Dieser kam ihm drei Stadien entgegeu u.
spracli: « Jiingfrau vor der Geburt. » « lungfrau bei der Geburt » lungfraii naoh der
Géburt » u. schlug jedesmal mit deni Stabe auf einen diirren Stein. Bei jedem Schlage
sprosste eine Lilie empor.
Wunder 42. Ein trager Moncli betete nur die M. G. an. Im Traume sali er, wie
seine Thaten gewogen werden, n. dass seine Frevel'bei Aveitem diese Tugend ùber-
trafen. Die Mutter G. flebete aber vor Christus fiir ihn , u. bat schliesslicli iim einen
Blutsfcropfen Ckristi , der alles anfwiegen moge. Er gibt ihn. Der Monch erwacht ii.
geht in sich.
Wunder 43. In « ALamania » war ein Geistlioher , namens Pelagie, welcher das
Wunder der Transsubstantation bezweifelte. Eines Tages verschwand die Hostiebeim
Gottesdienst u. es erschien d. M. G. mit d. Herrn als kleines Kind, so dass er die
Verwandlung selien konnte. Auf seine Bitte verschwand d. Kind von Fleisch u.
Blut u. die Hosfcie lag wieder da.
Wunder 44. In einer Kirchfe sangen die Christen ein Spottgedicht gegen die
Judeu. Diese toteten den Vorsiinger. Die M. G. belebt ihn wieder; dadurch erschreckt,
bekebren sich die Juden.
Wunder 4ò. Im Jahre 510 zur Zeit des Papstes « Gregorie Dialogul » war eine
Pest in Rom. Das vom Apostel Lucas gemalte Bild der M. G. wird durcli die Stras-
sen getragen u. es verschwindet d. Pest wie ein Nebel. Auf d. Tliurme des Adrian
u. d. Kriskentie » sah man einen Engel, der ein blutiges Schwert abwischte u. ein-
steckte. Dieser wurde nachher der Thurm d. Erzengels Michael genannt.
Wunder 46. Eiu Maler namens Joan pflegte d. Blid der M. G. so volllcommen
als moglich , den Teufel so hasslich als moglich zu malen. Aus Wnth dariiber, stiirzt
ihn einst der Teufel von einem hohen Geriiste herab; d. M. G. jedoch streckt aus
ilirem Bilde den Arm aus und hiilt den Maler so lange in der Schwebe, bis eine Lei-
ter gebracht wird.
Wunder 47. In Roma lebte ein Manu in Saus u. Braus. Als ihm das Geld
ausging, traf ihn der Teufel u. versprach ihm einen reichen Schatz, wenn er ihm seine
froinme Frau iiberliefere. Er verpflichtet sich dazu, geht nach Hause u. grabt dori
auf Anweisung des Teufels einen reichen Schatz aus. Auf dem Wege mit seiner Frau
steigt diese bei einer Kirche ab, und betet dort zur M. G. Diese nimmt ihre Gestalt
an, u. reitot mit jcnem Manne fort. Der Teufel entfliohtu. der Mann wird auch ge-
rettet. Der Schatz verwandelt sich in Asche.
Wunder 48. Kesarie schreibt in seinen «Diahxjen » dass in Frankreicheinfrom-
mes aber krankes Lladchen, sich dariiber argerte, dass es an d. hi. Prozession keinen
Theil nehmen konnte. Im Traume wird sie auf Fiirsprache d. M. G. in das Pa-
radies versetzt, sieht dort Christus selbst d. Dienst verrichten, u. erhalt eine Fackel,
die sic nachher ablieferii soli. Sie stranbt sich dagegen , u. die Fackel bricht eutzwei;
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eineHiilfte bleibt beim Engel, die anelerà bei ilir, weichesie aucli wirldich beiihrem
Erwachen in ihrer Hand vorfìndet. Diese macht nnu viele Wunder.
Wuiidey 49. Ein frommes Màdchen , wollte deu Herni in Gestalt eines 3 jahrigen
Kindes sehen. Jhre Bitta wird erfiillt; sie spielt arglos mit demlvindein der Kirche
oline zn ahneu, wer es sei, nnd versucht das Kind ziun Naclisprechen der Gebete
zu bewegen. Es gescliieht bis zu den Worfcen: « Gesegnet ist deine Leibesfruclit ».
Hier segnet sie Christus u. verschwindet.
Wunder 50. Nacli dem Heimgange des Alecsius des Gottesmannes, strebten Viele
in Rom seinem Beispiele nach. Unter andern wollte eine Jnngfrau ihre Eeinheit be-
waliren, da sie sie der M. G. geweilit batte u. bat ihren angefcrauten Gatten sie zu
scbonen. Er that es u. so lebtensie wie Bruder n. Schwester, bis zn ibrera Tode, wo
er Gott fiir ihren reinen Wandel dankt. Sie erkebt sich von der Bahre u. maìsht
ihm Vorwiirfe, desshalb weil er ihr Gebeimniss nun offenkundig gemacht habe.
Nacli seinem Tode gelangt sein Korper in ihr Grab, trqtzdem er- in einer andern
Kirche beerdigt wird.
Wunder 51. Kesarie erzàhlt in seinen Dialogen, von einem. Rauberhauptuiaun,
den ein frommer Mann dazu bewegt, Mittwoch u. Freitag zu aehten u. an den Feier-
tagen der M. G. 'zu rasten. Er thuefc es; oline Gegenwehr wird er gefangen, u. geht
freudig in d. Tod, als Stihne fiir seine Verbrechen. Nachts ersclieinen 5 Jungfraueu
vou welchen 4 eine Bahre mit d. Todteii tragen, die b'% d. M. G. mit einer Fackel
nacligeht, ilin aus der Begriibnisstatte der Rauber herausnehmen n. den Stadt-
wachtern befehlen, dem Erzbischof mitzutheilen, dass jen er auf Befelil der M. G. an
einem ehrenvoUen Platze beerdigt werde. Die wunderbare Decke, u. der mit dem
Korper vereinigte Kopf bestatigen die Aussagen der Wàchter, u. es gesoliieht so.
Wunder 52. In Sacsonia làsterte einst ein Karteuspieler , Christus , dann d. M. G.
Kaum batte er es ausgesproclien , als er todt hinsank. Der Baucli war ihm aufge-
schlitzt. Sein Geist erschien einem Freuiide u. wariite besoiiders vor Schmahungen
gegen d. M. G. die uie ungeracht bleiben.
Wunder 53. Ein gewisser Teodorit, Jude, batte seinen Soliu zum Aufseher der
christlichen Schiffsarbeiter ernannt. Am Feiertage der M. G. wollte er diese nicht
freilassen, u. schmahete, d. M. G. Da fiel ein Mastbaum um, u. erschlug nur ilm.
(Diese Erzahlung hat d. Sohreiber in einem alten Ms. auf d. Berge Athos ge-
funden).
Wunder 64. Eine Frau starb, u. batte élne Sllnde nicht gebeichtet, die sie
nicht aussprechen wollte. Sclion war ihre Seele in den Krallen des Teufels als d.
M. G. Fiirsprache fiir sie bei Gott eiulegte, der sie wieder lebendig werden liess
in der Kirche, damit sie beichte. Die Tote selbst erzahlte dieses auf der Bahre, u.
bittet alle Umstehenden fiir sie zu beten.
Wunder 55. Ein Clericus, welcher besouders d. Gebete d. M. G. recitirte, sonst
unziichtig war, fiel in's Wasser u. ertrank. Die Teufel zerrten seine Seele in die
HoUe; die M. G. erhebt Einspruch dagegen, da er mit dem Gebete im Munde ge-
storbeu sei. Gott lasst seine Zunge liinauf bringen , u. auf ihr stehen die Worte des
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Gebetes. In Folge dessert sclienkt ilira Gott das Leben wieder. Der Engel bringt ihn
an's Land. Er gebfc in's Kloster.
Wnnder 56. Ein Bitter, welcher taglicli zxrr M. Gr. betete, pflegte mit seinen
Eeisigen alle Voriiberzielienden zu pliindern. Eiues Tages wird ein G-eistlicher ge-
pliindert. Er verlaugt vor den Ritter gabraclit zu werden, nnd lieissfc diesen, alle
seine Lente versammelu. Unter diesen entdeckt er d. Tenfel, verkleidet als Kocb,
welcher nur auf den Tag wartet, wo der Bitter vergessen wird znr M. G. zn beten,
um ihn in die HòUe zu entfiihren. Der Bitter gelit in sich u. wìvà Mònch.
Wunder 57. Ein Geistlicher wird zu einer armen Wittwe u. zu einera Reichen
gerufen, um sie mit den Sterbesakramenten zu versehen. Er geht zi;m Beichen u.
schickt den Diakonus zur Wittwe. Dieser sielit die M. G. mit zahlreichen Jungfrauen
die Seele der Armen empfangen, wilhrend schwarze Hunde, (Teufel) dem Beichen
die Seele aus dem Leibe reissen. Die M. G. verkùudet d. Diakonus reiches Seelenheil.
Wunder 58. An einen Stein anstossend, sagt einer, der Stein sei vom Teufel hin-
gelegt worden. Zur Strafe fiir diese Liisteruug, wird ex, wie ihm scheint mit heissem
AVasser begossen, ii. geliihmt. Soleidet er lange Zeit ohne zu murren, nur Gott u. d.
M.G. lobend u. dankend. Als Lohn erschoint d. M. G. an einem Ostertage u. heilt ihn.
Wnniìi'r 5!i. Ein Monch, Adam, batte ungemessene Freude so oft er ein Wun-
der oder ein Lob d. M. G. las. Auf dem Todtenbette erzahlt er, dass als Kind
einen unheilbaren Grind auf dem Kopfe gehabt ; stets aber zur M. G. gebetet liabe.
Eines Nachts ging er in d. Kirche; dio verschlossene Thlir òffnete sich von selbst u.
drinn waren 6 Jungfrauen u. d. M. G. Diese Icgte iliro Hand auf seinen Kopf u.
heilte ihn. Daher seine Linbrunst x\. Freude.
Wunder 00. Bine Frau licss ilir Kind allein zu Hause unter der Obhut der
M. G. und trug Speisen hinaus ihrem Manne aufs Feld. Eine Feuersbrunst
zerstort ihr Haiis, aber d. Kind ist imnitten des Brandes unversehrt geblieben.
Wunder (Jl. Ein gewisser Dld'un blind von Gebiirt, ist trotzdenn sèhr fromm
u. ein Eiferer gegen die Ketzer u. Juden. Diese fragen ihn , wie er fiir d. M. G.
kiimpfen kiinne, wenn sie ihn nicht wenigsteus sehend gemacht habe. Er beraumt
ilinen einen bestimmfcen Tag an, u. dort in der Kirche vor dem Bilde der M. G. wird
er sehend. Es folgt darauf die Taufe der Juden.
Wunder 62. « Vikentie » in dem « Spiegel der Erzahlungen » (Viucentius, Specu-
lum historiale) erzahlt, dass einst auf einer Fahrtnach Jerusalem, das Schiff vmter-
ging. Vorher waren einige Passagiere sammt d. Bischofe in einen Naehen gestie-
gen, einer aber in's Meer gefallon; ebenso sei d. Schiff mit den Ubrigon uuterge-
o-angen. Aus dem Meere erhoben sich weissa Taubon: die Seclen der Ertrunkenen.
Jenen aber fanden sie unversehrt am Ufer, wohin ihn d. M. G. im Nu hingetragen
batte, da er sie angerufen.
Wunder 63. « In demselben Buche » heisst os, dass bei einem Sturme , jeder der
Passagiere einen bosondern Schutzheiligen angerufen habe. Auf die Autrorderung
eines « Igumen » wendoton sich jodoch alle an d. M. (_!. u. bald trat Windstille u.
Bettung ein.
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Wander 64. Derselbe « Vikentie » iu seinom « Spiegel der Sittcn » (^peculum
inorale) erzahlt: Eiu Reicher ist nack Tische eiiniial in eineu todesahulichen Sclilaf
vertalleu; erst nacli vielen Tageu kam er zu sicli. Vor seinem Tode ermahnt er
seinen iiltesten Sohu zu Wolilfchiitigkeit i\. erzahlt ihm die Erscheiuung , die er wiili-
rend jener Zeifc geselien: Eino Stimine hiess mieli aufstehen. Es ergrifF mieli je-
mand an der Iland u. fiilirte mieli auf eiiie "Wiese worauf er verschwand. Auf einmal
stilrmen Teiifel auf mieli ein , u. sprengteii die Tliiir des Zimmers in welches ich
mieli gefliielitet liatte. "Wisse aber, dass icli kurz vorlier drei Arme aufgenommen u.
bewirtliet batte. Dieso drei ersclieinen u. vertreibeu die Teufel. Aus d. Hause getre-
ten, betete ich zur M. G.; die Teufel verfolgten mich wieder; so gelangte ich an einen
vou Drachen u. Schlangen vollgepfropften Feuerstrom, tiber welchen eine, kaum
handbreite Briicke fiihrte, welche sich bis zum Himmel zu erheben scliien. Auf dem
Gipfel d. Briicke angelangt, waren die Teufel mir ganz nahe gekommen, da
ersehien d. M. G. u. errettete mieli'. Im selben Augeublicke erwaehte ich in meiiiem
Hause.
Wiindcr 6:~). Zur Zeit des « Theodosie » verkauft ein gewisser Julian seinen Solin
Teofil als Knecht, nm vom Erlos seiu Leben fristen zu kiinnen. Er empfielilt ihm
aber stets zur M. G. zu beten u. nie an einer Kirche vorilberzugehen oline eine
Messe lesen zu lassen, u. stets bis zu Eude driiin zu bleiben. Eiues Tages ilber
rascht er seiiie neue Herriii in stràfiioher Umarmung mit einem Diener. Die Frau
verklagt deu Teofil ihrem Gatteu, dass er ihr Gewalt angethan. Dieser bespricht
sich mit dem « Eparh » den Diener, den er zu ihm schicken werde, zu toten, n.
ihm den Kopf schicken. Teofil geht an einer Kirche vorbei, làsst sich dort eine
Messe lesen u. wartet den Schluss des Gottesdieustes ab. Inzwischen ist jener
Knecht hingegangen, u. hat seineu Kopf eiugebiisst, den Teofil versiegelt empfàngt u.
seinem Herrn znriickbringt. VoUer Entsetzen iiber diese Wendung, u. die Strafe
die jenen getroffen, gesteht die Frau ihr Unr.echt ein. Der Herr erfiihrt die Geschichte
des Teofil, seinen Verkauf , u. nimmt iliii an Kindesstatt an.
Wunder 66. Im Jalire 1507 war in Ki-it (Creta) grosses Erdbeben. Zwei Kinder
die in einem Laden eingeschlosseu waren, wurden von d. M. G. so lange beschiitzt,
bis sie ausgegraben Avurdeu. Die "Wand, auf welcher sich d. Bild d. M. G. befand,
blieb auch tmversehrt. « Jeronim Douat » der Herzog vou Krit liess dort eine
Kirche bauen, wo das Bild annodi "Wunder wirkt.
Wunder 67. In der Kirche des hi. Tit daselbst in Krit , ist ein anderes wunder-
thatiges Bild. Einst fiel ein Krieger von der Mailer u. wurde fast ganz zerschmettert.
Halb tot brachte man ihn endlich vor d. Bild; dort lag er u. betete. Uni Mitter-
uaclit ersehien d. M. G. u. heilte ihn.
Wunder 68. Iu dem Dorfe Tmpsunon in Krit befindet sich ein wunderbarer Brun-
nen, unter dem Schutze der M. G. , der so oft etwas hineinfàllfc, unmittelbar bis
zu seiner Milndung sich flillt, so dass das Hineiugefallene leicht heransgenommeii
u. gerettet werdeu kaun. Dasselbe versicherte den Verfasser, Fiirst « Andreiu Kor-
naro » dessen Sclireiber er lange Zeit geweseu.
— 3M —
Es folgen darauf Besclireibimgen auderer wunderbarer Brunnen, des toten
Meeres etc.
Wuiider 60. In der Blumenwiese cap. 8, Theil 3 wird von einem Frommen
erzahlt, der sali, wie Goti das jimgste Gericlifc sclion lialten wollte: Der Engel hatte
schon zwei Mal in die Trompete gestossen. Auf Fiirbitte d. M. G. lasst Gott jedoch
den Menschen uocli feriier Zeit zar Busse.
Damit schliesst die rumaenische, oder besser nengriecliisclie Sammlung der
Miracles. Der erste Blick, ja die hin und wieder angegebenen Quellen, beweisen
den compilatorisclien Characfcer derselben. Andererseits entbehren sie nicht eines
gewisseu Interesses fiir die vergleichende Volkslitteratur. Unfcer der Form von
Mirakel begegnen wir bekannten Figuren, wie « Genovefa, » oder « Der Gang zum
Eiseuliammer , » der ausserst zahlreiclian Ankliinge an March enmoti ve niclit zu
gedenken.
Es isfc selbstverstaudlicli Iner niclifc der Orfc diese Fragen nacli dem Urspnnge
zn erortern oder die Parallelen weiter zn verfolgen. So begntìge ioli mieli denn
damit, den Forscliern den Zugang zu einem, wie mir sclieint, minder gut bekannten
Tlieile eines grossen Literatur-Kreises, erleichtert zu haben.
M. Gaster.
ANTICHI TESTI DIALETTALI CHIERESL
AVVERTIMENTO.
I monumenti dialettali che qui nuovamente si pubblicano, furono dapprima segnalati dal
medico M. Pipino ' il quale volle anche corredare la notizia d' un saggio dello Statuto. - No-
tizia e saggio erano stati communicati al Pipino dal barone Giuseppe Vernazza, dotto cul-
tore di dialettologia piemontese, dei cui manoscritti disseminati in diverse biblioteche di To-
rino s' aspetta ora un catalogo. Furono poi pubblicati integralmente dal Cibrario ' che però
non vide 1' originale ma si giovò della copia di essi che il Montalenti inserì nella sua raccolta
manoscritta di documenti chieresi. L' edizione del Cibrario (non so se per colpa di lui o del
Montalenti) è ben lontana dal potersi dire corretta; 1' ortografia dell' originale vi è mano-
messa, le cattive lezioni vi sono frequentissime, ed è, nel suo complesso, fatta cosi trascu-
ratamente che qua e là sono persino state ommesse delle linee intiere. Il Biondelli ' non fece
che riprodurre il Cibrario rendendone però, per la brutta smania di ritoccare 1' ortografia,
più cattiva la lezione.
Nutro quindi fiducia che questa ristampa riveduta sul Codice con quella maggior scrupo-
losità che per me si poteva " abbia ad essere ben accolta dagli studiosi; ° anche per ciò che
' Grammatica piemontese, ediz. del 1783, pag. 135-136. Non so perchè il Pipino affermi qnivi in una nota che
il Giuramento è del secolo XV. A me è parso che i caratteri fossero della stessa mano che scrisse lo Statuto;
certo è in ogni modo ohe risalgono ad nna stessa epoca. Circa alla lingua ognuno riconoscerà eh' essa è aftutto
identica in ambedue i documenti. Ogni dubbio è d'altronde rimosso dall'ordine in cui trovansi disposti i due mo-
numenti del Codice:
• O. e. pag. 136. Va il saggio fino alla iine di 1. 23 dell.a presente edizione, e non è scovro d' inesattezze.
' Storie di Chieri, Voi. II, pag. 287 e seg.
* Saggio sui dialetti gallo-italici, pag. 597 e seg. Gli è per avere frainteso il Cibrario che il Biondelli dice di
pubblicare solo un brano dello Statuto. In realtà osso vi è riprodotto per intiero come nel Cibrario.
^ I testi vengono qui trascritti con esattezza diplomatica salve le noi-me seguenti: a) si sono sciolti i nessi
di più parole; gli elementi staccati vengon però nuovamente uniti con una lineetta, cosi la-ssoa = lassoa,
gl-aitr = glaìtr; b) le maiuscole e semimaiuscole che nel codice sono applicate senza norma veruna si sostituiscono
con delle minuscole, eccetto che nel nome proprio Gcorr^ nel quale 1' uso della maiirscola è costante; e) la semi-
maiuscola j ohe in principio di parola sta indifferentemente per i e per j è trascritta per / quando 1' etimologia in-
dica che debba trattarsi di j, co&ìjurer ecc.; circa poi al valore fonetico di quel j vedasi il num. 16; d) si scioglie
per cort quell' abbreviazione che suol rendere la preposizione associativa. 11 cod. offre, senza abbreviazione, due
volto com St. 17, 18, una con St. 28, ed una cum St. 84. Anche cdcu si interpreta per alcun abbenchè occorra un jjaio
di volte alcuni.
'■ Il desiderio d' una nuova edizione dei nostri testi trovo manifestato da Bollati e Manno nella prefazione ai
Documenti inediti in antico dialetto italiano {Arch. Star, it., voi. Vm, 1878) e dal Forster nelle Gallo-italiscJie Pre-
dìgtcn , pag. 11 in nota.
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le opere fin qui menzionate, sopratutto le Storie del Cibrario, vanno facendosi ogni di
più rare.
Trovansi i nostri testi nell' Archivio municipale di Chieri ' nel secondo dei due volumi
che contengono gii Statuti della Compagnia di San Giorgio del popolo di Chieri e che sono
inscritti nel Catalogo sotto il num. 3. Il volume è in 4° grande. I nostri testi sono scritti su
fogli cartacei, il Giuramento nella 1^ facciata del 3° foglio, lo Statuto nella l" del 4° e nelle
pagine susseguenti.
Il prof. W. Forster, dell' Università di Bonna, illustrando le Galìo-ìtalische Predigtcn da
lui edite nel IV voi. dei Romanische Studien ha abbondantemente annotati , servendosi della
lezione del Biondelli, anche i nostri testi; e lo ha fatto con quella competenza che ognuno
in lui riconosce. Mi toccherà quindi ripetere in più d' un luogo quanto già fu detto dal dotto
alemanno, quantunque lo scopo j^rincipale delle annotazioni che qui accompagnano i testi
voglia essere quello di riempire le lacune lasciate dal F. , e sopratutto di rettificare quegli er-
rori in cui il F. doveva necessariamente cadere, data la scorretta lezione onde dovette valersi.
' [Possiede Chieri un altro testo dialettale , più recente ma pur preziosissimo, vuoi por la dialettologia Tuoi
per la storia letteraria. Giace neir Archivio della Collegiata di quella città, e consta di 41 quartine (cosi almeno af-
fermasi; ma la cosa non potrà ritenersi per accertata che dopo un attento esame del Codice) coutLuenti una
lamentazione sulla Passione di N. S. — Ne diede prima brevissima notizia il Vallauri nella sua Storia della poesia
in Piemonte (1811) voi. I, pag. 243, e fu recentemente pubblicato dall' aw. F. Rondolino in appendice al suo ro-
manzo La Corte d' Acaja (Torino, 1.S84). Questa cojiia è però parsa a me e ad altri non troppo buona. Trovandomi
quindi a Chieri per,tr.iscrivere i presenti testi, cercai di vedere anche il documento della Collegiata. Ma per i re-
stauri di quel Duomo che continuano già da più anni, l'Archivio trovasi ora depositato un po' alla rinfusa in un
locale provvisorio; di modo che la ricerca sarebbe riuscita lunga e noiosa: non me ne sarei tuttavia spaventato
e mi sarei accinto a frugare ove il cortesissimo Signor C.av. Can. Pompeo Unia, sopraintendente all'Archivio, non
mi avesse assiciu'ato che questo si sarebbe riordinato quanto prima e che, appena compiuto il riordinamento,
me n'avrebbe reso edotto].
— 347 —
GIURAIklENTO.
Uos domini rectores de la compagnia de messer seynt Georc[-c] e del pouor de
cher el vostr sarameut sera tal o jureray al seint dee wangere ' de recer e de mante-
nir a bonna fay e senca engau ny del . le cosse le persone e . le rassoign de la com-
pagnia de tuta vostra possenca e . forca juxta y capitor e gly statut de la ditta
co?Hpagnia . e mancliant capitor o-sea statut . second le boune vssance aprouay .
e capitor o-sea consueòuden maficafit second . le lay romaiaie tant e se dener . o sea
ceyns o rassoign de colla compagnia perueran . a le vostre magn . colle tal cosse
salueray e feray saluer e varder e cola tal monea e rassoign . no laseray ocuper
a-gnu;ma perssona ne de colla, feray alcun don . e colla compagnia en recemeut las-
seray . second el mod e la forma de y capitor . de colla compagnia.
STATUTO.
A-lo nom del nostr segnor ylni /[ist amen . a 1-au de la-ssoa natiulta MCCCXXI
a-la quarta indicion . en saba a XXV di del meis de loign en lo pien e general
consegl de la compagnia de messer saint Georc de cher a son de ca»ipana e a uox
de crior . en la cliaxa de lo dit comuu de cher al mod uxa e congrega . el fu statui
e ordona per col consegl e per gle consegler de lo dit consegl e per gle rezior de la 5
dieta compagnia gle quagl adonch li eren en granda quantità e gniun de lor discre-
pant . fait apres solempn parti che gly infrascjv'pt qiiatrcent homegn de la ditta
co?»pagnia seeii . e debien . esser perpetuar meint e-se debien nominer un hospicij
co [co] e hospicij de la compagnia de sein Georc . i-quagl homegn debien e seen en-
' Leggo w-, perchè interpreto come un segno d'abbreviazione il tiretto che nel codice sta sopra il semplice
V-. S' accorderebbe cosi il nostro wangere coli' evvangelia delle carte in lingua latina, col c/uangii di Besc. pag. 37,
ool guagnelio di Ugucjon da Laodho, pag. 16, col guagnelista che è nel Coil. mare, del poemetto della Pass, e
Eisurr. ed. dal Biadene (Sf. di fil. rom. 2, pag. 230, e pag. 260 al verso 197).
— 348 —
10 tegnii perpetuar meint . consegler a adrit e lear meint . la ditta compagnia e i con-
sol e gli homega de coUa compagnia a bona fay . no declinand a alcu/ma volunta .
se no a chu/nia ' vtilita . del corp de colla compagnia. E se el entreuenis que dee .
nel vogla que alohuna persona . que ne fus de la ditta compagnia de quieta condi-
cio» o stat que sea feris alclmyj hom de la ditta compagnia . o veirament feis
15 ferir . o . vulnerer . o veiramewt afer " la ditta ferua o veirament deis consegi vo
fauor . o se el entreuenis de houre enaifit que alchu» de la dita compagnia feris
o vulneras alch.U)i o alcliuign . qui no fosseu de la ditta compagnia . o com
chol . o veyramsjit prandes guera com lor que gle infrascj-<pt quatrcent liomegn .
de la ditta compagnia seen entegnu e debien . precixameut e senca tenor portcr
-0 e deferir pareysament arme . co e . falchastr . juxerma . o sea spa o maca . e .
bracagl o sea tauolaca . taut quant porterea . col o coigi . de la ditta compa-
gnia . i quagl haveren " o . aues la ditta discordia e tant que la vindita se feis
de la ditta ferua . de-fin a-tant que . col qui area la discordia o chy a * serea
faita la ditta ferua . o qui ferea la ditta vendita a pas o-sea concordia peruenis .
--> con y soy auersarij. — • e ender e retorner . e . ester co» col qui arrea la ditta di-
scordia . e . col eucompagner . a la qual vindita fer . coigi quatrcent . liomegn . e
chun de lor . seen entegnu . e . debien precixamcftt . enter archoign de la ditta com-
pagnia . e . etiawdee fer . e . percurer con effet con coigi de la ditta compagnia que
la vindita d la percusion . que se ferea a coigi de la ditta compagnia se faca e se
30 debia fer semigla«tment . Otra de co aioynt . e . spressament dit .'' que se el entreue-
nys que . alcun chi ne fos de la dita compagnya feris o feis ferir o fos a . fer . colla
percussion . o deis consegi . eytori . o fauor . o vulneras alchun o alcoign . de colla
compagnia . e col . o . cogl de la ditta compagnia qui seren feruy . se vindicassen .
0 feissen . la vinditta eu quint mod de lo dit malificy en col o coigi qui cometiren
::5 lo dit malificy . o . avos cometu o avessen . fayt. cometer o veirament en alchun .
o sea en alchoign . de cola parentella qui no fos de colla compagnia . que o recior .
o . sea y recior de la ditta compagnia que serea en-1-oura o . que seren en cola
cojapagnia . e gle omegn de colla co)»pagnia . e la ditta co;;ipagnia seen entegmi
* Mal s' appone il Forster, Gallo-ìt., Pr. 44, asserendo che in cima debba trattarsi di clmn o qni di una abbre-
viazione iDer chascuii o caschaun. In realtà chun mai non occorre come mai non occorre ctZcttn; trovansi bensi co-
stantemente o quasi ckTmn corno alchuna {chiiiia e aldmiia occorrono una sol volta ciascuna, St. 13, 98 e potrebbe
trattarsi di una svista del menante) e la ragiono sta nel latto che la nasale che segue alla tonica sol si raddoppi
quando lo succeda una vocale (cosi bou St. 81, di fronte a boitim Q. 3, o bonne G. 5). Ciò ne conduce a ravvisare
in (■/;«« chuna nuli' altro che un ca[ditm[o\ caldluniia.
* Qui va letto /OS afer come a l. 31.
' Non s' ò voluto qni forzare l' interprota^iione del segno d' abbreviazione e leggere Irnvese^i come parrebbe
richiedere r o«e« che immediatamente susseguo. Il condizionale può fungere anche da imprf. del cong., nulla
quindi di strano che qui lo scrittore abbia messo a profitto ambedue le forme che stavano a eua disposizione. Qui
è poi anche capovolto l' ordine sintattico richiedendo il col o coigi ohe si ponesse prima aues poi havcnn. Ma olii
scriveva sì trovava certo sotto l' improssione del relativo plur. i qunijl che solo risponde ai due dimostrativi.
* Leggasi a chy.
'■ Questo passo va emendato cosi: otra de qo aioi/nt e (est) e s}yressament dit= oltre di ciò aggiunto 6 ed espros-
samento detto.
— 349 —
et clebiou . prtócissament e seiica tenor e sot la peina . e . band . de cent . lire . de
asteìtsihiis . per cliun re9Ìor extralier e fer extraher de 1-aveyr de colla compagnia . 40
col . o coigl . qui feren . la ditta vindita . e y lor coaiutor varder sen9a dagn . o
fosen . i dit coaiutor de la ditta cojupagnia o . no . e inse fer cura con . effet . e
compir . que . o sea daa . e se debia der a col . o . a coigl . qui feren . la ditta vin-
dita . benna pax e ferma concordia contra coigl centra i quagl serea faita la ditta
vindita . e con tuit gl-aitr . de la lor parentella o . fossen o veiramejit no fossen de 4")
la ditta cooipagnia e lor constrenzer . a-fer la ditta pax . infra doy meys . poy que .
la ditta vindita serea faita . per la \agor de la ditta coì«pagnia . e se el entreueuis
que col 0 coigl. contra el qual se ferea la ditta vindita o coigl de la soa parentella
o sea de la lor parentella o fossen de la ditta compagnia o no no voressen consentir
en la ditta pax fer que i rezior e gle omegn de colla co7?ipagnia . debien e seen en- 50
tegnu . precissament per la vigor del saramoit e sot colla meysma peyna metir la
man . n-l-arme ' prest e rebustament . e corer contra coigl . qui ne voren consentir
en la ditta pax . e lor tuit en tuit mod qu-i poran . cojistrewzer azo qu-i fazen la ditta
pax . e . colla pax obseruer . e seen entegnu pei'petuar ment . incorota . inse . e en
tal maynera . sea co«streit col e tuit gl-aitr de la soa parentella a fer la ditta pax . 55
e a tenir con eifet per lo rezior e per gle rezior de .colla co?npagnia . e per la com-
pagnia . soudita ' . que se col . 0 coigl . de soa pare/itela ne volessen . fer la ditta
pax . e . faita tenir . que 0 recior o sea y rezior . de la preditta compagnia . e colla
compagnia . sea entegnu . precixament . waster . en co»tenent i soy ben entera-
ment . e . niynck an . e . tenir wasta perpetuarment . co e chassa vigne . choiv . e CO
pray . de cy a-tant que y . aueran . consenty . en la ditta pax . e . se alchun . de
la ditta . soa parentella . poy que . y . predit ben . fossen wastay . deysen a-lor alcum .
consegl eytory . 0 sostegn . pareixamoit o pryua ' que . y . ben .de col . o . de
coigl . qui deren col tal coiisegl eytory . e . fauor . se debyen tenp' . semy-
glantme[n]t . de waster . e . tenir . myuch . an wastay . inse com . el-e de-sory dit . 55
e se alchuuna persona . qui fossen . de colla . coHjpagnya . 0 no fussen . deys 0 .
feys alchun . mal . o . iniuria . en . la persona . vo . en le cosse . de col . o . de
coigl . que ne . vovoi . fer . la ditta . pax . que . colla tal persona . quy . auerea .
dayt . col mal . o iniuria sea extrayt . semyglant meynt senca dagn . per la ditta
compagnya e eciamdee consegua . i quagl quatrcent tute vote e cliuyma vota el fos 70
iuiuynt a lor o . comanda . o cria . o veyrament alchun . aotr seyn * . ordona . a
fer . de la part del re9yor . 0 dy recior de la ditta compagnia a co qu-i venissen .
a . lor . con arme . o senca arme . qu-i debien venir ao. loo '' la vnde . lo . dit re9Ìor
' Sottolineato nel codice.
- Lo scriba lia qui ommesso U segno deU' abbreviazione per er, dovendosi certamente leggere sonerdita.
' Nel ood. una deUe tre gambe ohe potrebbero far credere ad un 2>r!l'na (dal Cibrario poi interpretato per
prt}ui<t) appare cancellata.
* Leggasi: per (o con) alchun aotr scyn.
'■ Ritengo che qui s' abbia a leggere a-lo loo. Il copista preoccupato dal l di loo ohe immediatamente seguiva
avrà omesso iU di a-lo. — Di al (prepos. + art.) che passi per le vicende d' ogni altro AL s' ha esempio . oltre che
— 350 —
o sea y rezior fossen . o la vude y feren crier . lassa cliu/aia cossa a fer . per achu«i-
75 pyr . le cle-sori ditte cosse . e y lor comandameut . e col . que . a-lo dit rezior o sea
y . rezior pyaxira . e 1-onor . e lo profet de la ditta coj^pagnj'a . per la vertu del
sarament . e set lo peina e band de . X . lire de astexan . pec . chun . e per chunna
vota . e eciamdee . j)orter I-arme ' . tant quant a-lo dyt rezior . vo . y . reziorgl '
pyaxirea . e qiie lo rezior . o sea gle reziogl de la compagnia . seen entegnu e de-
80 byen mynck an . del meis del luygn fer . appeler e . recercher lo dit liospicij de i .
dit quatrcent e se el entreuenis que alchnm fos mort de fer e suroger vn aotr bon
e sufficient en lo de col dit passa de costa vita . pressent inse . que sempr may . lo
dit liospicij romagna en la entera quantità . e . nomer de quatrcent i quagl quatrcent
debien jurer de attender e de obseruer cum effett tote le preditte . e . singule cosse
85 e que tuit y quatrcent habien lo escu a-l-arma de seynt G-eorc le quagl tute e sin-
guUe cosse . vaglen e tegn ' . e se debia perpetuar me^'nt . obseruer per lo rezior o
sea per gle reziogl de la ditta cojnpagnia e per gle vnivers homegn de colla compa-
gnia ijifrascci'pt a-la volunta e . declaracion . semper de col o de coigl . qui auren
la discordia . inse com el-e dit de-sori . e de aotra part se faza e se debia fer pu-
90 blicli instrument a cbun qui vora lo quar instrument sempr se debia obseruer inse .
com s-el predit capitol . se troùas script en lo volum . di capitor de colla compa-
pagnia . inse com gl-aitr capitor de la cojnpagnia . e se alcliun . feis diex o venis
coltra la preditta o alchuime . de le preditte cosse . que o sea reputa . e . se possa
apeler de tuit . treyfcor e rebel de colla cowipagnia . e centra col . se possa e debia
05 proceer . inse . com se . al-aues metu . la man . en alchuu . hom . de la ditta com-
pagnia. — lo qual capitor sea frem . e precis . e ne se possa remouer . ma . se debia
per chun rezior e reziogl e homegn . de . la ditta coj»pagnia attender . e obseruer .
sot la peyna . e band de vint e V . lire de astexan . per chun e . per chuna vota .
otra tute ly altre e . singule peine . que se couteinen . de-sori . neynt . de meiu . ro-
100 maneynt tuit gl-aitr . capitor . de la ditta compagnia en col . qu-i . fossen . py .
fort . en lor fermeca . en col veyrament . que . el present . capitor . fos . py . fort
de gl-aytr . sea derogatori . o (?) otra . dit . e . excepta . que se alchun . de la ditta
compagnia staxent for de la juridicion . del comun de cher . auex discordia con al-
chun . o . alchoign . qui . ne foxeu de cher o del poeyr . que . lo predit capitor no
105 habia loo . quant a porter le arme . en le aytre cosse . veyrament . romagna . en
la soa fermeca . amen.
nel francese (au) , in moderno varietà podomontane. Non credo jiei'ò che si tratti qui della stessa cosa. CCr. del
resto nuni. 3.
' Sottolineato nel codice.
' Questo reziorgl altro non ci rappresentorà che l' imbarazzo in cui si trovava il copisi a risiietto alla doppia
forma rezior e reziogl*
' tegnen.
351 -
ANNOTAZIONI FONOLOGICHE.
A. 1. Tonico e nella formola A'Ii si riduco ad e, oltre che noli' infinito in -or[e] (jiortcr ecc.),
nella parola, juxerma St. 20; cfr. less.; éi da di s' ha in seynt G. 1, 2, St. 85, seyn St. 9; [saint St. 3].
2. Atono: enriér St. 25; nella forinola ai : treytor St. 91, eytory -i St. 63, 64; in sillaba posto-
nica: ercn St. G, ei-ant; (Zejjcn pass., /a~e« St. .53, seen pass. ecc. -i per a all'uscita in de-snri passim,
cfr. less.
3. AL -i-coKS.: aolr , -a pass.; ma, f ale hastr St. 20, alchun («r- St. 27) ecc. pass. Circa aitr
V. N. 12, e circa aor=al ved. la nota a 1. 73.
4. A' RIO -A : dener G-. 6, cher pass., mayncra St. 55; aucrsarij St. 25.
E. 5. S'ha il dittongo ei' pere : peina pass., veira- pass., aveyr St. 40, poeyr St. 104 -; lo s' ha
pure, ma non costantemente, per 1' é nella formola É + N + cons : meis St. 2, 46, 80, pardxa- St. 20, 63
ceyna G-. 7; neynt v. less., romaneynt St. 99-100 [ma en continent, presscnt ecc.; -ceni pass.; -meni ^=
-MENTO {reQement , sarament eco.)]. Prevale l'^non dittongata anche nella risposta di -mente deriva-
tore d' avverbi [-meint St. 8, 10, 69, 86, ma -meni St. 54, 59, 60, 19, 27, 30, 39, 51, 52 ecc.); ma la costanza
con cui s' evita il dittongo nel -ment di veirament, parola questa che occoi-re una diecina di volte , e
di pareixament che occorre unpajo di volte, St. 20, 63, darebbero a credere cho v'entri per qual-
che cosa la spinta dissimilativa {ei — ci) la quale e poteva non lasciar mai prevalere il dittongo e
prevalso sopprimerlo.
.Ei per é (da i) nella posizione ^' ha costantemente negli imprf. del oong. feis, quasi 'fesse' (fa-
cesse) e deis 'desse' mentre V -és dello stesso tempo si mantiene inalterato in ogni altro verbo
{aues ecc.).
6. Come nel moderno piemontese uc dà o in col colla ecc. pass, o in costa St. 82.
7. Atono. Passa in a davanti a ?» in prandes St. 18; in o davanti a m in romagna St. 105, roma-
neynt St. 99-100. Va perduto in d la=^ de la St. 29 e, iniziale, in wanyereGr. 2, spressament Bt. 30.
All' uscita va perso ove risalga a lat -e : lìerpctuar , semyglant, prcssent, vigor, tcnor, scnipr, quar,
uox, pax, rcqer, portcr, fos, aues, trouas, purché però, in aggottivi femm., non si converta in a come in
granda St. 6, jiareixa- St. 20, 63; ma rimane ove risalga a lat. -ce: bonne, cosse, romanne, peine ecc.;
-i per -CE s' ha in aprouay G. 5, ein ly =^ le St. 99.
8. Prostesi di e davanti a s impuro' : esier St. 25, escM St. S5.
/. 9. S'ha il dittongo per l'i in mein St. 99. In conleinen St. 99, non s'avrà già *continent, come
taluno potrebbe essere tentato di credere, ma contégncn; cfr. seyn, St. 71, per scgn segno. Circa /«y cfr.
num. 5 n.
10. Sta e per i nell'iato in sca seen pass.; e sarà pur da --ia -{ano V-ca -en (:=-cen) di condi-
zionalo (porterea, seren ecc.); -i d'uscita in e : insé pass.
11. Atono : en- da in-: en l^ass., enlcgnii pass., engan G. 3, enaint St. 16, encompagner St. 20, c?i-
Irevenis pass.; in sillaba postonica : liomegn pass, consueluden G. 6.
12. -i all'uscita : a) cade: conseglcr St. 5, sialut G. 4, capilor pass., consueluden G. 6, infrascript
St. 7 ecc., entegnu St. 9-10, 19 ecc., icasta St. 60; b) rimane m.]]ray St. 61, loastay St. 62, G5,feruy St. 33;
' Jj'ei può poi ridursi, come avviene anche in varietà pedemontane moderne, ad ai: cosi in lay G. 6, fay
G. 3, St. 11. due parole nelle quali riman dubbio se il dittongo si debba all' e e rispettivamente all' l oppure sia
prodotto dal diseguo della consonante che seguiva alla tonica. — Circa jm'cray ecc. cfr. la nota.
' Tanto avajr che poe;;i' fungono, nei nostri tosti, da sost.iutivi. Del rimanente ad -Ebe suol rispondere
-il", tenir, mantetiir, achunnitjr, pijaxir-à -ca. In remover St. 96, s'ha molto verosimilmente *renióvere.
— 3r32 —
iloij St. 4G, soij St. 25; e) cade ma dopo essersi ripercosso dietro la tonica ' : luit pass., a'Ur pass., clioio
St. 60, cfr. less., rcziogl St. 79, 87, 97, cioè reziój {-gì sta graficamente per -j)=:uEziom (cfr. aer-
vitói ecc. nel dial. di Varallo-Sesia) , e qui andrà anche notato cnaint St. 16, 'in-anti'. Ma non va con-
siderato a questa stregua Vi dirassoign G. 7, 8, alchuign pass., coigl; e si vuol diro che qui l'isolo ci rap-
presenti un pleonasmo grafico atto ad indicare unitamente al gì o al gn ohe gU sussegue il « e il ?
che i francesi direbbero mouilUs; non hanno quindi maggior valore quegli -igl e quegli -ign che non
ne abbiamo i semplici gì e gn in homegn, magn, c.ogl, iinagl, hrae.agl; d) permane fondendosi però in un
suono unico col Z o col n che gli precedono: riu.agl eco. inwjn ecc.; cfr. num. IS, 25; e) si riduce ad e
inglcSt. 5, 38, 56, ecc.
0. 13. Atono : re- soppianta ro- in reìmstament St. 52, e pre- (quindi per-) soppianta jiro- in
2yercurer St. 28. Si ha l'aferesi in mijnch St. 60, 65, 80; cfr. less.
14. -0 all' uscita : occorre più volte ne = no (non) ; ma in realtà non è esempio buono d' un -o
poiché quella negativa ci appare come ne solo nella proolisi (enfaticamente occorre sempre no). In ican-
gere Gr. 2, non si vede bene se si tratti di 'vangelo' o di 'vangeli[o]' e quindi se quel!' esemplare sia di
spettanza di questo num. o non piuttosto del num. 12. Del resto 1' -o suol essere immolato su tutta la
linea: scin' , Georg, engati, -cent, quatr- , aotr, liom, hosincij, eijtori, malejìcy , dee 'de[o]' ordona, uxa,
parti, statuì, meta, capitor, nomer , consol, an; consegl, loign, ecc.; sot, apres, ecc.; seen, debicn,
cren, ecc.
U. 15. In iniuynt St. 71, di fronte ad aioynt St. 30, come ìnfus St. 13, /«ssen St. 6G, di fronte a
/os pass. /osseli pass., e' è rappresentata, se non una grafia latineggianto, l'incertezza del copista nel
rendere 1' o. chiuso volgente ad u [cfr., in sillaba atoma, anche aclmm.i>yr St. 7i-75, di fronte a compir
St. 43].
Di fronte al costante uso di u (qui indubbiamente nelle funzioni di ») nel sing., ci occorre il pi.
(ilcoign allato ad alchuign come occorre loign St. 2, allato a luygn St. 80; e deve trattarsi in realtà sem-
pre d' u che, scordata la sua primitiva quantità, s' assoggettò al trattamento clie suol essere inflitto al-
l'« in posizione (cfr. lógn, coli' o chiuso, nel dial. di Vallo Onsernone) ; e infatti se si può con facilità
accordare che il menante, dato un segno ti, lo applicasse ad il e ad o chiuso, non puossi con ugual fa-
cilità ammettere il contrario, cioè, ohe, dato un segno o, il menante lo applicasse indifferentemente
per o e per u. — Alchuign e luygn saranno poi o delle doppie forme nelle quali 1' w sarebbe passato jier le
vicende che gli sono jiroprie (cfr. liign nel piem. mod.) oppure ci saranno nuovo esempio dell' u che
s'adopera anche ad indicare 1' o chiuso.
CO.XSONANTI.
/. 16. La risposta di j etimologica è, nei nostri testi, indubbiamente g , si renda esso perj (ini-
ziale) o per i (interno) : jurer sa.ra, giurer , juxcrma giuxerma, iniuria ingiuria, coaiutor coagiulor, iniu-
ynt ingiuynl, aioynt agioynt, ecc.
L. 17. Bidiicesi a r in ivangere G. 2, pareixa- St. 20, 63, pouor Q. 1, capitor Gr. 4, 5, 10, St. 96,
104, ecc., licrxìetuar- St. 8, 10, Icar- St. 10, archoign St. 27, qaarSi. 90, voren St. 52, vara St. 90.
LJ. 18 : vogla St. 13, vaghn St. 86 : consegl, conscglcr, scmyglanl- e con i/ finale : cogl coigl pass.,
(juagl pass., hragagl St. 21.
19. OL 4- cons. : vota -e pass., eira pass. Circa AL cfr. num. 3.
20. In luygn potrebbero aversi l-l dissimilati per Z-n * luuio- = lulio-; molto più probabil-
mente però dovremo ravvisare nel it (-ygn) di luygn V influenza di jUìNio- ; cfr. Diez TI'.', 3S1.
' Va scartata l'asserzione del Forster, Gallo-U. Fr., 51, secondo la quale nell'i degli apostoli angeil ecc.
delle Prediche s' avrebbe a vedere V-ì clie si ripercuote anche dietro l'atona ohe precede. Finora tutto dimostra
cìie il fenomeno della propagginazione dcU'-i, in quanto osso ò gallo-italico, non ci si manifesta che dietro la
tonica. Del resto in tutti gli os. che il F. adduce trattasi di sdruccioli in -'uU, -ili; è quindi evidente che V-il di
apostoil ecc., altro non ci rappresenta ohe una grafia per ÌJ o per il suo succodanoo }.
- 353 —
lì. ZI. Persiste il -r venuta a trovarsi finale per la caduta della vocal d' uscita successiva; cosi
nelle uscite verbali -ér, ecc. -.jarer, lenir, córcr, re(;er, ' ecc.; cfr. inoltre crior, rezior, vigor, tcnor,
dencr, ecc.
Cado invece qual secondo elemento del gruppo finale -jr in reziorjl = * rcziójr ; cfr. num. 12 e).
W. 22 : varder G. 8 , St. 41 ; (jucra St. 18. Ma il Cod. scrivo appunto io in due esemplari di baso
non germanica, in »^nnjfrc, cfr. la nota a G. 2 , e in icas/er ecc. St. 60, 65, ecc.
Sibilanti. 23 : 5 ha costante nei nostri testi il valore di z tanto media ohe tenue, e u' ò prova
il continuo alternare dei due segni : recior e re(-ior , fac^a e faza, qo e zo, ecc. Davanti a vooal palatile
serivonsi però più volentieri e e g e rimane cosi indicata la difi'erenza tra tenue e media : Gcorq, gene-
ral, ussance, preclxament , indicion, ecc.
Per s tanto tenue che media servono indifferentemente i segni s, ss e .1; : chaxa 0 chasaa , peramion
e percussion , pressenl , precixainent & prccisiament , pax a pas , d'ic.r , cfr. num. 2('i.
M. 24: akhumSt. 62, 81.
N. 25 : trovasi spesso raddoppiata nel ms. quando succeda alla tonica e lo sussegua vocale : honne,
ro)iianne, ecc.; cfr. la nota a 1. 12 dello St., e trovasi ridotto a semplice -n il -mi eh' era riuscito fina-
le : an pass., engan G. 3. — MX : dagn St. 41, 69; mynch cfr. less. — NJ: gnunna G. 9, gniun St. 6, ro-
magna St. 83, 105; inoltre, con jVJ" finale : rassoign G. 3, 8, akhoign pass., magn G. 7, homegn pass.
Gutturali. 26 : loo St. 105, lo St. 82, diex St. 92, cioè * dighesse *dichesse (su dicam, ecc.); ma
congrega St. 4, second G. 5, 6.— GR : sarament pass., entera St. 59-60, 83; CTifait -a pass., extrait St. (Ì'J
[su questi poi dagt St. 69], constreit St. 55, e, coli' invertimento di -njt in -jnt, saint, aioynt St. 30, iniugnf,
St. 71. Non è poi escluso che questa risoluzione .di CT s' abbia anche in dil -a (dijt, ecc.), vindiUa -la,
adril St. 10. Il doppio ti che occorro accanto a t nella risposta di dieta vindiela non proverebbe certa-
mente nulla in contrario. Cixas, prof et , effet v. il less.
Dentali. 27 : monea G. 8, esc«St. 85, fpa St. 20, proceer St. 95. chun -nna ca[d]uno -a, cfr. la
nota a 1. 12 dello St. ; crior St. 4 'cri[t]a[t]ore', cria St. 71, crier St. 74. rezior 'reggitore', treglor
St. 94, lìrag St. 61, /crua St. 15, 24, ecc., parli St. 7, e vedansi, per maggiori esempj, i participi ; ma
stat St. 14, statuì G. 4, 5, capitor pass. ; mod pass., consuctuden , tutte parole però, meno viod, ohe su-
bito si riconoscono come non popolari. — TR : poran St. 53.
Labiali. 28 : pouor, tauolaga, aues, eoe— BR : ari ea St. 25, area St. 23, allato ad auren St. 88;
qui si noti anche dc-sori pass, 'de-supra'.
ANNOTAZIONI MORFOLOGICHE.
Passaggio dall' una all' altra conjug. si ha in mellr St. 51 (cfr. anche eometlr-cn St. 31, allato a
cometer St. 35).
Singoli tempi e modi : Indie, pres.; l'' pers. sng. : e in 50 e pass.; 3' pi. : conlcinen St. 99. [Per
l' indie, pres. di habere v. il futuro]. Gong, pres.; 3^^ sng. : sea pass., habia St. 105, delia pass., faqa -z-
St. 29, 89, vogla St. 13, romagna St. 83, 105,^o«soSt. 93, 94; 3* pi. : scera pass., hahien St. 85, rfeStenpass.,
fazen St. 53, vaglcn St. 86. — Indie, imprf.; 3^ pi. : ei-en St. 6 [per l' imprf. indie, di habere v. il condizion.].
Gong, imprf.; 3' sng. : fos St. 31, ecc., fus St. 13, vulneras St. 17, 32, trouas St. 91, aues pass, prandes
St. 18, diex, cfr. num. 26, /eispass., deis ^a,ss. , peruenis St. 24, enlreueniss pass., /eris pass., venis St. 92;
3' pi. : fossen pass., /«sse» St. 66, vindicassen St. 33, avessen St. 35, voressen -l- St. 49, ol , feissen St. 34,
flriisen St. (12, venisscn St. 72. — Imperai.; 2^ sng. : lassa St. 74. -'^Infinito : vardcr, parler, nominer, der
' Come ancor oggi in varietà canavesaue; cosi a Barbania : cantdf héivcr ecc.
' La flessione nominale non offre nnlla per cui se ne possa giustificare una benché breve esposizione siste-
matica. I fenomeni che la importano si considerano qua e là nelle annotazioni fonologiche e nelle lessicali.
' Potrebbe però anche leggersi lassa forma questa che potrebbe corrispondere ad un 'lassà[t]e'. Il passo
relativo dello St. va cosi interpretato; ;à dove i reggitori facessero bandire: lascia (o lasciate) ogni cosa a fare.
— 354 —
St. 43, fer St. 72 , 74, 81 , esIcT St. 25; [ate/yr St. 40, i<ocyr St. 101 ; cfr. num. 5 nota] ; manlenir G. 2-3,
tenir St. 58, compir St. 43; consentir St. 49, 52; comclcr St. 35, constrenzer St. 46, 53, corcr St. 52, reger
G. 2, proceer St. 05, attender St. 84. — Gerundio e prtcp. pros. : manchant G. 5, 6, declinand St. 11, roma-
neynt St. 99-100, discrepant Sb. 0-7^ slaxent (corto sul!' analogia di *faxent * dixent) St. 103. — Prtcp.
pass. : uxa St. 4 , ordona St. 5 , ecc. ; wasla = vastati St. 60 , loaslay St. 62 , 65; fiaa = data (cfr. spa spa-
da) St. 43; aprouaij^ xnFROKKTKTi G.5; — metu St. 95; enter/nu (-u=-uti) pass., /era?/ St. 33; [ferua
St. 15, 24]; — statuì St. 4, consenti/ St. 61; —/«ti -« pass., exlrayt St. 69, [rfnyi St. 69], aio»/n< St. 30,
iniuynt St. 71, consireil St. 55; tZ/i -te -J/o pass., script St. 91 , infrascrlpl pass., (certo una grafia latineg-
giante per scrit, ecc.).
Tempi e modi composti. Futuro; 3^ sng. : sera G. 2,piaxira St. 70, vora St. 90; 2'- pi. : jureray, la-
seray,feray, ecc., tutte nel G.'; 3' pi. : perueran G. 7, aucran St. i:>i, poran St. 53. — Condizionale (che
funge anche da imprf. del cong.) : 3' sng. : serea pass., area arrea auerea St. 23, 25, G8,ferca pass., 2'or-
terea St. 21, 2)yaxirea St. 79; 3' pi. (-én = éen) : seren St. 33, 37, ourot St. 88, liaueren^i. 22, /cren St. 41,
74, deren St. 64, vorcn St. 52, 68, cometiren St. 31.
' Il Fòx'ster, o. e. pa^. 75, sedotto forse dalla traduzione latina fiic Jnraho , interpreta per eoo V o dì 1. 2 nel
G. e mostra con ciò di ravvisare nolP-wy dijnreraij ecc. una desinenza di 1' sng.; tiittavia non ne deve esser ben
sicuro egli stesso iioichè i jiircran ecc. non vengon accolti a pafj. 79-80 dov'è l'elenco delle forme verbali dei
testi di Chieri. Tutto indica infatti come invece di io giiirei-ò ' devasi tradurre ' voi giurerete'. Che si tratti in ogni
caso d'un pi. lo prova il Uos domini rectores con cui comincia il G.; per convincersi poi che s'abbia ruia 2" pers.
basta aver presente il vostre magn di 1. 7 dove, se l'interpretazione del F. fosse giusta, dovrebbe aversi mee
magn. — Più che una formola di giuramento vuol essere il nostro testo un'indicazione dei punti che i ' reotores '
dovevano giurare. — Circa all'o v. il less. e circa all'-ni/ io non dubito d'afifermare che esso proviene da -('(;
Cfr. num. S.
ANNOTAZIONI LESSICALI.
ago azo pass., afSnchè.
adonch St. 6, dunque.
adrit; a adrìt St. 10, rettamente. Invece della
prostesi di a- potrebbe aversi un errore del
copista.
a'wynt St. 80, aggiunto.
an St. 1, 60, 65, 80, anno.
apeler St. 94, chiamare.
apre.s St. 7, dopo.
archoign St. 27, alcuni.
bragarjl St. 21 , bracciali.
cha.'isa chaxa St. 4, 60, casa.
ceynsG. 7. censo; è detto di beni immobili in
opposizione a dener.
cher pass., Chieri.
clioiv St. 60, le messi; abbiamo qui al plur. (il
sng. sarebbe c/ioi')il positivo da cui 6 estratto
l' it. 'covone'. Il pieni, mod. ha cova,
chini chuna chunna, ogni, cadauno -a; cl'r. la
nota a 1. 12 dello St.
coaiutor St. 41, 42, coadiutore.
consegl pass., consiglio.
crier St. 74, bandire.
crior St. 4, banditore, araldo.
cy St. 61, qui; il piem. mod. ha gi.
dagn St. 41 , 69, danno.
dee St. 12, Dio.
de fin a tanf. qne St. 23, fintanto che.
dener G. 6, danaro.
desori pass., di sopra.
dol G. 3, dolo.
don G. 9, dono.
e.naint St. 16, innanzi, prima.
encompagner St. 26, accomijagnare.
ender St. 25, andare.
engan G. 3, inganno.
enter St. 27, fra.
enferà St. 83, intiera.
entreiienis pass., accadesse; entreiienls de
houre procedesse per vie di fatto.
e.icu St. 85, scudo.
enter St. 25, stare.
eytori pass., ajuto. Circa alla diffusione di que-
sta voce cfr. ora Flkcuia, Arrh. (',).. \'\\\.
pag. 821, s. 'aitorio".
falcha.ìtr St. 20; cfr. Diez W 167, s. ' giusarma ".
fay G. 3, St. il, fede.
ferua St. 15, 23, ferita.
frem St. 96, fermo.
— 355 —
f/Hiiin St. iì.ynìinna G. 9 , uiimo -a ; il piem. iiioJ.
Ila (/nlin.
incorota St. 54, (^).
hise pass., cosi; cfr. lomb. iirsn.
iniuynt St. 71, ingiunto.
juxerma St. 20, giusarma; cl'r. Dn;/. W' l<i7.
lay G. 6, leggi.
/(• St. 6, li.
toSt. 82, loo St. 105, luogo.
ìtiygn St. 80, ìoign St. 2, luglio; cl'r. uum. 15.
maea St. 20, mazza.
mnyneru St. 55, maniera.
wci/i St. 99, meno.
meis St. 2, 46, 80, mese.
ineysma St. 41, medesima.
riionea G. 8, moneta, danaro.
iiiynch St. GO, 64, 80 (sempre in unione con ari),
ogni; sta per omynch e si ragguaglia al-
l'owÌMca della Pass, di Como; il mod. piem.
l' ha in mincatant = ogni tanto ; cfr. del re-
sto, Arch. Gì. VII, 537.
neynt St. 99, niente: ■ne-oynt\
noni. St. 1 , nome.
iiomer St. 83, numero.
0 St. 35, il; sta molto probabilmente per o[l\.
o St. 43, pron. neutro ; o sea daa , come clii di-
cosse 'e' sia data".
V (ì. 2, voi; è in posizione proclitica; cfr. o oi
nelle lìinie Gen., Ardi. Vili, 374.
otì\i pass., oltre, inoltre.
pareixa- St. 20, 63, palese-.
pax e pas pass., pace.
peina pass., pena.
percurer St. 28, procurare.
percussioH St. 32, percusion St. 29, percossa.
poeyr St. 104, podere; qui piuttosto nel senso
di giurisdizione.
pouor G. I, popolo.
2>ray St. 61, prati.
proceer St. 95, procedere.
profet St. 76, profitto; cl'r. profeltavo! nelle
Gallo-it. Pi:, 16, 31. Se, com'io inclino a
credere, si tratta qui d' un ' proficto-' (in
una tal forma possono accordarsi tutte le
lingue neo-latine coi loro pt-ofit, profitto,
jn-ovecho, proveito). Vi è andato, piuttosto
che nelle ragioni della quantità, in quello
della posizione come avviene pur nello sp.
e nel prtg. Circa alla risoluzione di et, cfr.
effet pass, non che il tolet delle Gallo-it.
Pr., 68, e i let pet del piemontese moderno.
py St. 100, più; il piem. mod. ha purjji.
qiiint St. 34, -a St. 13, qualunque. Circa a
questo pron. v. soprattutto Arch. Gì., Ili,
91-2 n. Nel nostro testo esso è una volta
esplicato, abbenchè non immediatamente,
da que. .tea cosicché verrebbe a raggua-
gliarsi a ' qualsiasi \ Ma quinta St. 13, sta
solo affatto. Nei nostri tosti il pron. non è
in posizione esclamativa come negli es. che
s' hanno nel 1. e. dell' Airli. ai quali si pos-
sono ora aggiungere anche quelli che si ri-
cavano dalla Pass, di Como.
ras.wign G. 3, 7, ragioni.
relelSt. 94, ribelle.
recer G. 2, reggere.
reziogl St. 79, ecc., reggitori; cfr. num. X2 e.
.laha St. 2, sabato; la ste.ssa forma nel piem.
mod.
sarainent pass., giuramento.
sempr St. 82, e, con la vocale irrazionale,
semper St. 88, sempre.
seyn St. 71, segno.
sot pass., sotto.
.spa St. 20, spada.
SMro.9er St. 81, surrogare.
spressament St. 30, espressamente.
tant G. 6, soltanto.
tauolaca St. 21.
tenor St. 19, 39; senga tenor senz'indugio;
circa alla diffusione di questa locuzione,
cfr. BiADENE, St. di fil. Tom., fase. 2, 263.
treytor St. 94, traditore.
varder G. 8, St. 41, salvaguardare, custodire;
cfr. fr. yarder.
vigor St. 47, 51; per la vigor in forza.
vili- e vendita -tta pass., vendetta.
vnde St. 73, 74, dove.
vo St. 15, 67, 78, o (aut). Occorre anche la for-
ma senza il v- prostetico.
vota pass., volta, flata.
vssaiice G. 5, usanze.
vulnerer St. 15, vulnerare.
ìoaiigere G. 2, evangelo; cfr. la nota a 1. 2
del G.
waster St. 59, 65, devastare.
C. Salvioot.
LA FOEMA METMCA DEL 'COMMIATO^
NELLA CANZONE ITALIANA DEI SECOLI XIII E XIV
In fine di quasi tutte le canzoni provenzali si trova la così detta tornada, che
per lo più è ritmicamente uguale alla seconda parte della strofa. ' In essa, come
tutti sanno , il poeta non prosegue 1' argomento della canzone , ma rivolge il di-
scorso o alla sua donna, o a un protettore, o a un amico, o al giullare, o infine
apostrofa la canzone stessa. Non di rado si trova più di una tornada, e in tal caso
quella che segue suol essere più breve di quella che precede.
La tornada trovasi anche nell' antica Canzone italiana, e fu imitata di certo
dalla poesia provenzale.
Dante la chiama collo stesso nome dei trovatori," ma il termine popolare era ri-
tornello e anche volta. 'Più tardi fu detta variamente chiusa, ripresa, licenza, invio,
congedo, commiato. '' Quest' ultimo nome sembra ora divenuto più comune degli altri.
' Vedi DiEZ, Di'e Poesie der Troubadours , zwsite Anflage, Leipzig, Bai-th, 1S8J, p. 79-80 e Bartsch, Grundriss
zur Oescliiclite der Prooenzalischen Literatur, ElberfelJ, Fi-iderichs, 1872, pag. 71. Le Leys d'amors a proposito della
forma della tornada cosi si esprimono (T, 3SS): « Cnsctina tornada detc esser del compas de la meytat de la cobìa
derriera vas la fi. » Non ci è parso inopportuno citare questq autorità, sebbene la tornada sia stata fatta oggetto
di una speciale monografia. 11 sig. A. Kalisciiek noli' opuscolo intitolato Observationes in poesìm romaneiisem
Provincialibus in primis respectis (Berlino, Daemraler, 1S36), esamina la tornada provenzale si dal lato dell'argo-
mento (p. 3-80) e si da quello della forma (p 60-7Ò). e ne studia quindi brevemente l' imitazione nella poesia fran-
cese (p. 7J-Si) e italiana (p. 84-102). In iine (p. 102-14) tocca della questiono se la tornada sia stata inventata dai
Provenzali o no, e nota elle era già in uso presso gli Arabi. Sa qiiesto lavoro del Kaliscber avremo occasione
'li ritornare più avanti.
' Soltanto dà alla parola la forma toscana. Vedi Convito, tratt. II, cap. SII: « E acciocclie questa parte più
pienamente sia intesa dico che general menle si cliiama in ciascuna cantone Tornata », e vedi anche la fine del
cap. XV del tratt. III.
' A. Da Tempo nel suo trattato Delle llime volgari (pubbl. da G. Grion, Bologna, Komagnoli , 1869) scrive
(p. 129): < Hae autem cantiones ut phiriniam finnt cum quadam parte inferiori, quae est minor aliis partibus, et appel-
latur vulgariter retorneUus. Alii appellant ipsani voltam. » Gli stessi nomi conserva Gidino da Sommacampagna
(,Dei Ritmi volgari, Bologna, Romagnoli, 1870, p. 107;. F. da Barberino fa uso soltanto del termine ritornello:
' Ritornelli autem et multa alia qne suìit partes a partibus vel non digne relntu , in hoc opere non subduntttr » (cfr.
la prima delle due glosse ai Documenti d' Amore pubbl. da O. Antognoni nel Giorn. di fil. rom. voi. IV a pag. 96).
* Vedi Kauscher, op. cit. pag. 63-61. Del nome tornada ci sembra opportuno discorrere in una speciale ap-
pendice.
~ 358 —
e lo conserveremo anche in questo studio, nel quale si vogliono minutamente de-
scrivere le varie forme che ebbe il Commiato della Canzone italiana nei due primi
secoli. ' A tal fine esamineremo tutte le canzoni del secolo XIII e gran pai'te di
quelle del XIV. Spoglieremo cioè le raccolte qui appresso indicate, avvertendo che
le edizioni di singoli poeti saranno citate col solo nome di questi e le altre coli' ab-
breviatura posta fra parentesi dopo il titolo. Ecco l' indice delle raccolte :
Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. rat. 3793 per cura di A. D' Ancona e D.
Comparetti, Bologna, Romagnoli, 1875-81, tre volumi (D'Anc); Poeti del primo secolo della
lingua italiana pubbl. da Valeriani e Lampredi, Firenze, 181G, due voi. (Val.'); Rime di Fra Guit-
tone d' Arezzo , Firenze, 1828; Le rime dei poeti bolognesi del sec. X//J pubbl. da T. Casini,
Bologna, Romagnoli, 1881 (Casini); Guido Cavalcanti e le sue rime a cura di P. Ei'cole, Li-
vorno, Vigo, 1885; Documenti d' Amore di M. F. da Barberino, Roma, Mascardi, 1610 (in fine
si trovano tre canzoni intere, con una delle quali, come si sa, si chiudono i Documenti); Il Canzo-
niere di Dante Alighieri annotato e illustrato da P. Fraticelli, terza ediz., Firenze, Barbèra, 1873;
Le rime di M. Cina da Pistoia ridotte a miglior lezione da E. Bindi e P. Fanfani, Pistoia, Niccolai,
1878; Rime di Binda Bonichi da Siena, Bologna, Romagnoli, 1867; Rime di Matteo Frescobaldi
a cura di G. Carducci, Pistoia, 1866; Liriche edite e inedite di Fazio degli Uberti per cura di R.
Renier, Firenze, Sansoni, 1883; Rime di F. Petrarca, Milano, Souzogno, 1875; Rime di M. G. Boc-
cacci, Livorno, Masi, 1802; Rime di M. Cina da Pistoia e d'altri del sec. X/F ordinate da G. Car-
ducci, Firenze, Barbèra, 1862 (Card.). Da questa raccolta citeremo le canzoni di trecentisti non
contenute nelle pubblicazioni avanti indicate, tranne quelle del Sacchetti, per le quali, grazie alla
gentilezza del dott. S. Morpurgo , ci è dato di citare le pagine dell' edizione dell' intero Canzo-
niere, che uscirà prossimamente a sua cura. Si aggiunga: Poesie minori del sec. XIV a. cura di E.
Sarteschi, Bologna, Romagnoli, 1867 (Sarteschi); Poesie italiane inedite raccolte e illustrate da F.
Trucchi, Prato, Guasti, 1846, voi. II» (Trucchi); Rime antiche aggiunte a La Bella mano di Giusto
de' Conti , Firenze, 1715 (Bellamano) ; Saggio di rime inedite di maestro Antonio Beccari da Ferrara ,
a cura di G. Bottoni, Ferrara, Taddei, 1878; Sonetti et Canzone del Clarissimo M. Antonio delti
Alberti, Firenze, Molini, 1863 (nelle Delizie delli eruditi bibliofili toscani); Rime dì M. Cino Ri-
nuccini (pubbl. da S. Bongi), Lucca, Canovetti, 1858.
Ci accadrà di citare anche alcime poche canzoni disperse in libri dei quali indicheremo a
suo luogo il titolo.
Saranno in fine esaminatele canzoni inedite del Codice Laurenziano-Rediano 151, 184.
Di Ogni singola forma di commiato procureremo di recare tutti gli esempì, e
faremo in nota quei confronti che son possibili colla poesia provenzale. '
' L'esame dei commiati di tutte le canzoni di Dante o a Dante attribuite tu tatto dal Boiciimkr (l'eber
Dante:» Sclirifl De vulg. eloq-, ecc. Hallo, 1333, pag. 4'>-16, e vedi anche lo rettificazioni che specialmente aU' ul-
tima parte dell'opuscolo fece lo stosso autore nei Romaulsche Studien IV, 117-18) e dal Bautsch {DanW.i roetik,
pag. 362 e seg.). Assai poco dice il Kawscueiì sulla torma esterna del commiato della canzone italiana (cfr.
pag. 84 e seg.).
' Nonsitien conto delle tre canzoni attribuito a Danto da Maiano (TI. 44.Ì-51), parendo gravissimi i dubbi
cb e sull'autenticità delle costui rime italiane avanzò il Bokooononi (vedi specialmente l'ultimo suo scritto La
questione Maianesca o Dante da Maiano, Città di Castello, Lapi, 1885). Parimenti escludo dall'esame la canzone attri-
buita a Bonagiunta Orbiciani (T, 509) « Ben mi crcde.ua in tutto esser d'Amore ». la quale, a quel che io so. non tro-
vasi in alcitu ms.
' Rimanderemo d'ordinario lai lavoro dol Kalisciieh.
— 359 —
Giova esaminare separatamente le canzoni a stanze indivisibili e le canzoni
a stanze divise.
Cominciamo dalle primo. Le sestine dei dne primi secoli sono, a mia notizia, 18:'
nna di Dante (pag. 158) « Al jmco rjionio ed al </ran cevclùo d' ombra », due attribuite
illegittimamente a Dante (Fraticelli, pag. IGl e 1G2), nove del Petrarca (vedi l'in-
dice del Canzoniere), una delle quali doppia (cioè di 12 stanze), due del Sacchetti
(pag. 28 e 49), una di Antonio delli Alberti (pag. 63), una di Cino Rinucciui (pag. 19).
Due sono inedite e appartengono: una a Giovanni da Prato « Per volermi ritrar ra-
ijioii di fiamma » (Cod. Lanr.-E.ed. 151, e. 93'') e una ad Alberto degli Albizi « Amor
da poi che 'l core la Leila donna » (Ibid., e. 96 ).
In tutte il commiato è uguale a metà della stanza, si compone cioè di tre
versi endecasillabi. Tre qualunque delle sei parole-rime chiudono i tre versi, e neK
l'interno di ciascuno di essi, in sedi non determinate, sta una qualunque delle al-
tre tre,' così che ogni verso contiene due parole-rime. '
Inchiniamo a considerare come indivisibili le stanze della canzone di Dante
« Amor tu vedi ben che questa donna ».' Ogni stanza consta di 12 endecasillabi e ha
' Di una sestina del Boccaccio il Trissino nella Poetica riferisce soltanto la prima stanza , nella quale ri-
mano fra loro i due ultimi versi; ma essa non è stata trovata dal Baldelli in alcun ms. — Sarà opportuno ri-
cordare chele sestine provenzali sono quattro soltanto, e cioè una di Arnaldo Daniello, che, come è noto, ne
fu l'inventore (vedila in U. A. Canello, La vita e la opere del ti'ouatore A. D., Halle, Niemeyer. 1883, pag. 118-19),
una di B. Zorzi (ved. E. Levt, Der Trovbadour Ecrtolome Zorzi, Halle, Niemeyer, 1883, pag. 68-69), una di Guillem
de Saint Gregori (Mahn, Gcdichte 940), che è incompiuta, terminando colla quinta strofa. Sono tutte tre colle
stesse parole-rime. Un' altra finalmente in versi ottosillahi e alquanto anormale appartiene a Pons Fabro d'Uzes,
ed è ancora inedita in C SS"^'' (ved. Casello, op. cit., pag. 278-79 e F. W. Maus, Pcire C'arderiaìs Str02>heubait ecc.,
Marburg, Elwert, 1884, pag. 93, nota 16).
' Isella tornada della sestina del Daniello l'ordine delle rime è più regolare ed artistico. I tre versi fini-
scono colle tre ultime parole-rime dell'ultima strofa, disposte nel medesimo ordine che in questa (come avviene
d' ordinario nelle toi-nade), e immediatamente precede a ciascuna di esse una delle altre tre parole-rime disposte
esse pure nell'ordine in cui si trovano nell'ultima strofa, cosi che le parole-rime di questa 1, 2, 3, 4, 5, 6 sono
cosi .aggruppate nel commiato: 1-4, 2-5, 3-6. Se ben si guarda, questa è la migliore disposizione ohe .si possa
dare nel commiato alle parole-rime della sestina. Nelle sestine it.ili.ine , come è detto di sopra, in generale
le parole-rime si succedono a capriccio nel commiato; soltanto in quelle del Petrarca che hanno i nu-
meri V, VI, VII, Vili, IX (doppia) l'ordine è sempre lo stesso. Le parole-rime, cominciando a contare dalla
prima che trovasi nell'interno del verso, stanno rispetto all'ultimii stanza nella stessa relazione che ciascuna
stanza colla precedente. Parrebbe cho questo fosse un perfezionamento della sestina provenzale, giacché l.i
legge di successione delle rime della sestina continua fino alla fine dui componimento, ma si ha l'inconveniente
che alla chiusa dei ver.si del commiato vengono cosi a trovarsi le tre prixne parole-rime dell'ultima stanza
anziché le tre ultime.
^ Si nota per altro qualche eccezione. Nelle sestine di Cino Rinuccini e di Alberto degli Albizi trovasi
nel primo verso del commiato una sol.a parola-rima e tre invece nel secondo.
* Il Boehmer la considera come divisibile e pi'opriamente come composta ài fronte e vulfe (op. cit.,
pag. 43), il Bartsch invece la tiene per indivisibile {Dante^s Poetile pag. 315) e più giustamente, secondo noi,
ma non possiamo assentire alla sua oiunione che la forma di questa canzone sia imitata dai Provenzali e pro-
priamente da una ronr/a di Giraldo Riquier. Quest' affermazione é contraddetta dallo Stesso Dante, il quale
nel commiato dichiara di aver composto una novità (Sicoh' io ardisco a far per questo freddo La novità
che per sua forma luce Che mai non fu pemsata in alcun tempo), e nel Ve viilg. eloq. lib. II, cap. XIII, cita la
stessa canzone come avente « novum aliquìd atipie intentaticm artis, * Con ciò non si vuol negare che nel fatto la
canzone di Dante assomigli per la foima a qualche canzone provenzale; ma quella che i^iù le si accosta non è la
ronda di G. Biquier, sì bene una poesia di Peire Vidal (Gr. n» 29), come già notò C. Appcl {op. cit., pag. 19).
— 360 —
cinque sole parole-rime, le quali si conservano, come nelle sestine, anche nelle altre
stanze e sono disposte secondo lo schema:
ABAACAADDAEE
EAEEBEECCEDD
DEDDADDBBDCO
CDCCECC AACBB
BC BBDBBEEBAA
Lo schema del commiato è : AEDDCB. Dunque il commiato è uguale a metà
della stanza, come nella sestina, e quanto alle rime, la prima parola-rima è quella
del primo verso della prima stanza, la seconda quella del primo verso della secon-
da, e così di seguito. La terza parola-rima è ripetuta perchè il commiato sia uguale
'a metà della stanza.
La canzone di Dante, che abbiamo ora esaminato, fu imitata dal Sacchetti
(pag. 35) e da Gino Einuccini (pag. 11 e 22).
A una terza maniera di canzoni indivisibili appartiene quella del Petrarca
« Verdi panni, san(/id(jni, oscuri, e parsi » , che si compone di otto stanze tutte colle
stesse rime disposte in quest' ordine :
AbC x-DE y-Pg
Il commiato corrisponde ai due ultimi versi.
Imitazione di questa del Petrarca sarà una canzone inedita di M. Alberto degli
Albizi « Quanto lo maginar piw s' asottiglia » (Ood. Laur.-Red. 151 , e. 96'^) , che è con-
dotta sullo stesso schema. '
Passando alle canzoni a stanze divise, esamineremo prima quelle con un solo
commiato e poi quelle con più di uno. •
1. L'ultima stanza funge da commiato. '
Notaro Giacomo D' Anc. I", ii; Rugieri d' Amici D' Anc. I", xix; ' Odo deUe Co-
lonne D'Anc. r% XXVI ; Giacomino Pugliese D'Ano. I", Lvm; Guido delle Colonne
D'Ano. I", Lxx vii; Chiaro Davanzati D'Ano. IIP, cciv, ccix, ccx, ccxvu, ccxviii,
ccxix, cxxm, ccxxxv, ccxxxvi, ccxliv, ccliv, cclvi (12 canzoni); Camino Ghiberti
D'Ano. 11°, clxxu, clxxiv; Brunetto Latini D'Ano. II», clxxxi (tutte le stanze sulle
stesse rime); Bondie Dietaiuti D'Ano. Il", clxxxii, clxxxiii ; incerto autore Ca-
sini XXVII, D'Ano. I", xlix,'* lxxiii;' anonime D'Ano. I", xcv, II", cxxxi.
' Non ha per altro le rime interne e consta di 5 sole strofe.
' Questo caso, so forse non si può dire col Diez (Poesie, pag. 80) molto raro nella poesia provenzale, è
certo poco frequente. II Kalisclior, che l'ur ' vorrebbe mostrare inesatta l'affermazione del Diez, ne trovò .sol-
tanto 19 esempì fra le canzoni da lui esaminate che hanno una sola toniada (ved. pag. 64).
' Nel Palatino 41S (n" 45) è attribuita a Bonagiunta Orbiciani, ma che essa appartenga ad autore meridio-
nale e quindi probabilmente a Rusieii d'Amici, a cui l'assegna il Vaticano, sembra doversi ricavare dal com-
miato, nel quale il poeta invia la canzone a lo Regno.
' Nel Vat. 6 data a Kugierone di l'alermo e nel Lanr-Ked. IX. 63 (n" cxvni) a Re Federigo.
' Nel Vat. è anonima e noi Palat. (n» 21) è attribuita a Piero dello Vigne, ma pare che di costui non
possa essere, giacché nel commiato (che manca neU'ediz. del Val. I, 51) il poeta si dichiara di Messina (Can-
zonetta piagente.... E dille : a voi mi manda Un vostro fiuo amante di Messina).
— 361 —
IH", ccLxvi, ccxcviri, ccxcix; Cavalcanti II;Ser Onesto Casini XXXV; Lapo Gianni
Val. II, 122; ' Dante, pag. 90 e 182 o quelle attribuite a Dante, pag. 115 e 20'J;
Cine, pag. 75, 85, 135, 186, 398; Fazio degli liberti, la Ut' delle canzoni di dub-
bia autenticità ; Antonio Pucci Card., pag. 465 ; Boccaccio , pag. 61 ; Antonio da
Ferrara Bellamam, pag. 158; Matteo Coreggiaio Saeteschi, pag. 9; Riccardo degli
Albizi Card., pag. 347; Guido del Palagio Card., pag. 597; F. Sacchetti, pag. 176;
F. Vannozzo, Grion, appendice al Da Tempo, pag. 295. In tutto 51.
2. Il commiato è ritmicamente uguale alla seconda parte della stanza o a
parte di questa seconda parte. '
a) La struttura del commiato corrisponde a quella della sirima intera. Quando
si conservano per tutte le stanze le medesime rime della prima ancbe le rime del
commiato sono uguali a quelle della sirima. Cosi: Stefano Protonotaro Barbieri,
Orujiìie dulia poesia rimata, pag. 143; Guittone XX e XXVI; Monte Andrea D'Anc.
HI", cccin; Bonagiunta Orbiciani Val. I, 507; Petrarca, P. I', canz. xv.
Notevole che si conservino nel commiato le rime della sirima dell'ultima
stanza in tre canzoni, nelle quali le rime cambiano in ogni stanza:' lughilfredi
D'Ano. I°, xcix, Val. I, 144; Don Arrigo D'Ano. IP, clxvi.
Ma d' ordinario le rime del commiato sono diverse da quelle dell' ultima stanza.
Guittone, I, III, V, X, XVII,* XXI, XXII, XXIV, XXVIH, XXXI, XXXII,
XXXIII, XXXIV, XXXVII, XXXVIII, XLI, XLV, XLVI(18 canzoni); GuinizelH
Casini VI; Lemmo Orlandi Val. II, 211 e 213; Chiaro Davanzati D'Ano. IH",
ccxLU, COL, ccLX; Bacciarone Val. I, 401; Panuccio dal Bagno Val. I, 368; Terino
da Castelfiorentino D'Ano. II", clxxxix; anonime D'Ano. I", lii, IH", ccxc;
Francesco Ismera Val. II, 428; Dante, pag. 90, 130, 135, 167, 198, 205; Gino,
pag. 59, 68, 98, 189, 270, ' 290, 423; Fazio degli liberti XII; Sennuccio del
Bene Card., pag. 233; Petrarca, P. P', I, III, XII, XIII, XIV, XVI, XVII, P. II',
I, IV, VI, VII, Vili, P. IV'', I, II, III, IV (16 canzoni); Boccaccio, pag. 68, 79;
A. Pucci Card., pag. 460; Matteo Coreggiaio Sarteschi, pag. 91; Bartolomeo
da Castel de la Pieve Sarteschi, pag. 20; Braccio Bracci Sarteschi, pag. 31
e 35: Giovanni da Prato Wesselofsky, Il Paradiso degli Alberti, Bologna, Roma-
' Nel Val. alla sesta strofa, che serve di commiato, segue im'.altra di struttura differente dalle la-ece-
denti; ma essa nel cod. Chig. L. VITI, 305 forma un numero a parte (67iJis). E come componimento a sé sta an-
che nel cod. Bolognese Universitario 2418 (ved. E. Lamma, rropugnatore, t. XVIII, pag. 101). In un cod. Trivul-
ziano, secondo 'il Ciampi, è attribuita a Gino.
■ È il caso che. nonostante parecchie eccezioni , si può dire normale nella poesia provenzale.
* Cosi invece avviene di norma nelle canzoni provenzali a coblas siiigulars.
' Nella stampa e anche nel codice Laur.-Red. IX, 63 (n" xvn) il secondo verso del commiato è endecasil-
labo, mentre il secondo della sirima è settenario; forse sarà da espungere « lo migliore ». Per il caso che si
confronti il commiato coli' ultima stanza, avverto che questa nella stampa è mancante del penultimo verso,
che nel cod. è tale « almeii quanto gli altri ».
'Lo schema delle stanze è: ABc. ABc:CDEeDD; nel commiato la rima C non rimane slegata es-
sondo uguale alla rima E. Similmente si allaccia nel commiato la prima rima, che è sciolta nella sirima, in
una canzone incertamente attribuita a Gino (pag. 103) e in una incertamente attribuita a Dante (pag. 242).
16
— 362 —
gnoli, 1867, voi. I, p. I!', pag. 435, e una medita dello stesso autore che comincia
« Bella dolcie star/ione che verdi colli » (Cod. Laur.-Eed. 151 , e. 92'=).
Si possono aggiungere due canzoni nelle quali la disposizione delle rime del
commiato diiferisce alquanto da quella della sirima, ma è uguale il numero e
la qualità dei versi, che è condizione sufficiente perchè possano avere la medesima
melodia. Una è di Lapo Gianni Val. Il, 127
st. 5. .'^C. ABC : CDEEDFF
comm. GHIIL l-GG
e l' altra di F. Sacchetti , pag. 25
st. 5. ABC. ABC : CDEEFGG
comm. HILLMMN
e.) La struttura del commiato corrisponde a parte della sirima. Sarà op-
portuno considerare separatamente il caso che è omesso nel commiato soltanto il
primo verso della sirima, cioè quello che rimarrebbe slegato. Gli esempì sono po-
chi: Gixittone VII; Lotto di Ser Dato Val. I, 390 e la risposta sulle stesse rime di
Panuccio Val. I, 894; Giovanni da Px'ato, inedita « Donne gientili die ssi somma Id-
dea » (Cod. Laur.-Red. 151 , e. 93'^).
Citando gli altri esempì nei quaU è omesso più di un verso della sirima, indi-
cherò fra parentesi il numero dei versi di questa.
Il commiato corrisponde agli ultimi 9 versi: Petrarca, P. P', IV (14), agli ul-
timi 6: Sennuccio del Bene Card., pag. 238, dove è diverso anche il numero delle
rime, come si vede dallo schema:
sirima CDEEDd FF
comm. GlIIi LL
agli ultimi 5 : F. Sacchetti, pag. 104 (10); Giannozzo Sacchetti Trucchi II, 206 (9)
e, benché siano diversi il numero e la disposizione delle rime, F. Sacchetti, pag. 44 (7)
e 68 (10); agli ultimi 4 : Pacino Angiolieri D' Anc. II", clxxxvi' (7) ; Petrarca, P. II'
V (6). Più di frequente il commiato è uguale agli ultimi 3 versi: Guittone D'Anc.
II", cxLvin (5); Dante, La dispietata, pag. 80 (7); Petrarca, P. P', II (7), VI (9),
VII (9), Vili (9), X (6), P. n^ II (7), III (6); Niccolò Soldanieri, inedita « Per
ch'io di me non ò cM a me si doglia » Cod. Laur.-Eed. 151, e. 82'' (10). In tutto 23
canzoni.
ji) Il commiato è uguale a tutte due le volte insieme. Chiaro Davanzati
D'Anc. Ili", ccxLiii, ccLXXXv; Panuccio del Bagno, D'Anc. IH", cccvui; anonima
D' Anc. IH" , ccxc.
'II commiato dovrebbe avere la rimalmezzo nel secondo verso, a quindi probabilmente sarà intenzio-
nale l' assonanza fra onore f con cui termina il primo verso, e canzone che sta in mezzo del secondo. Gli esempì
di assonanza nella Canzone sono assai rari; il caso relativamente più frequente è quello appunto fra le termi-
nazioni -ore e one. Cfr. Guittone XXXII, st. LI, vv. ò-H persone: valore; Guglielmo Boroardi D'Anc. 11°, CLXxviir,
st. V, vv. 7-8 (rimalmezzo) rasyionc : amore e queste due stesse parole in una anonima D'Anc. II'\ cr.xx, st. ITT.
vv. 7-10; anonima L'Axc. TI», ci, st. IV, vv. 1-3 slasrjionc : amore: anonima D'Asc. 1°, xcvi, st. II, vv. 9-13 fasonc:
amore.
— 363 —
P') Il commiato è uguale a una sola volta.
Noceo di Cenni Val. I, 4GS; Francesco da Bavljorino, pag. 359 e ;3IjS.
fi") Il commiato ò uguale all' ultimo verso o ai due ultimi versi della prima
volta più tutta la seconda. Cavalcanti I
volte. Ff-Gg-HH. Ff-Gg-HH
comm. I Ll-Ii-MM
La prima rima del commiato si allaccia coUa terza anziché coli' ultima, come
dovrebbe per corrispondere esattamente ai 5 ultimi versi della stanza. Anonima
D' Ano. IH", cclxxvi
volte. deed. deed
comm. fg hiih
3. Il commiato è uguale all' ultimo verso o agli ultimi versi della prima parte
della stanza più tutta la seconda parte.
Matteo Frescobaldi II
st. 4. ABbC. ABbC : CDD
comm. E FFE
È diversa dunque la disposizione delle rime, per evitare che il commiato
constasse di due coppie a rime baciate.
Guittone XXXIX (si conservano le stesse rime per tutte le stanze)
st. 3. abba. abba : accddA
comm. bba accddA
Si può forse aggiungere la canzone anonima D' i^-NC. Ili" , ccciv.
4. Il commiato è uguale alla prima parte della stanza o a parte della prima
parte. '
a) Il commiato è uguale alla fronte in una canzone anonima Rio. di fil.
rom. I, 83.
st. 3. a a to : e d e. e d e
comm. ffl)
p) Il commiato corrisponde a tutti e due i piedi.
Noffo d'Oltrarno Val. I, IGl; Bonagiunta Orbiciani Casini, Testi inediti di an-
tiche rime volgari, Bologna, Romagnoli, 1883, n" LXX. '
p') Il commiato corrisponde a un solo piede.
Cino, pag. 218; Fazio degli Uberti VI; Boccaccio, pag. 72; Giotto Card.,
pag. 143. In quest'ultima lo schema di ciascun piede è ABbC, nel commiato in-
vece 1' ultimo verso rima col primo.
5. Il commiato è una stanza più piccola delle altre.
' Alcuni pochi esempi cita il Kalischer (p.ig. TO) neUn, poesia provenzale, ni quali è ila aggiungere uno di
Bertran de Born (n» 30 dell' ediz. Stimming).
- Nel cod. Vat. (D'Akc. H", cxxiv) e nel Val. 1 , 479 questa canzone è tutta sformata , perciò ho citata la
lezione del cod. Laur.-Red. IX, 63, d.al quale si rileva ohe lo schema è : abbc. abhc : ddeeP. ddeeF. I versi in-
dicati colle lettere & ed e sono quinari.
— 3G4 —
a) I piedi della stanza-commiato sono uguali a qiielli della stanza della can-
zone, e la struttura della sirima corrisponde all'ultima parte della sirima della
stanza della canzone.
Prima di passare agli esempì, avverto clie in questo numero e nel seguente (fino
alla rubrica =) gli schemi del commiato si compileranno cominciando dalla prima
lettera dell'alfabeto, anziché da quella die segue all'ultima dello schema della
stanza della canzono. Ci pare opportuno staccarci in questi due numeri dall'uso solito
e perchè i commiati di cui qui si parla hanno la forma di una stanza intera e
perchè così è dato di rilevare più prontamente la relazione della loro struttura con
quella delle stanze delle rispettive canzoni.
Dante, Voi che intendendo, pag. 179
st. 4. ABC. BAC : CDEEDFF
comm. ABC. BAC : CDD
E simiknente M. Frescobaldi I; F. Sacchetti, pag. 57, 195, 199, 218, 24.3;
Nicolò Soldanieri (13 canzoni, una sola delle quali pubblicata dal Eeniee, Fazio de-
(jli liberti, pag. 223; le altre inedite nel Cod. Laui-.-Eed., 151, e. SI'', e e. 82a-87'i).
La prima rima della sirima della stanza-commiato rima sempre coli' ultima dei
piedi, come nella stanza della canzone.
ji) I piedi sono uguali, la seconda parte della stanza è diversa.
Pauuccio del Bagno Val. I, 361
st. 5. ABBC. CDDA : EFFG. GHHE
comm. ABBC. CDDA : EFFGGE '
Bruzio Visconti Renier, Fazio defjli liberti, pag. 226
st. 12. AbC. AbC : CddEeFF
comm. AbC. AbC : C d dd EE
y) e differente la struttura tanto dei piedi quanto della sirima. Citeremo
per prima una canzone anonima (Crescimbeni, Istoria ecc., II, 276) nella quale la
differenza fra i piedi del commiato e quelli della canzone è piccolissima e la sirima
del primo è ixguale, se si tolga che il primo verso è settenario invece che endeca-
sillabo, ai 5 primi versi della sirima della seconda.
st. 5. ABbC.ABbC : CDdEEFfGG
comm. ABBC. ABBC : cDdEE
La differenza invece è spiccata in una canzone attribuita a F. Sacchetti Bella-
mano, pag. 146 '
st. 5. ABC. ABC : CDdEEffGGHH
comm. ABbA. BAaB : BccDD
' La seconda parte ileUa stanza-oomm'iato differisco da 'luolla della canzone soltanto per avere una cop
pia di versi di meno. Questa piccola modificazione per altro 6 sufficiente a far sì che il tipo delle due stanze
sia diverso; la prima si compone di piedi e sirima e quella della canzone invece di piedi e volte.
' Secondo il Trucchi, II, 209 ossa .appartiene a Bartolommeo da Castel della Piove.
— 3G5 —
E similmente Panuccio del Bagno Val. I, 333 e Fazio degli Uberti, V, X. XVI.'
(). Il commiato ha la forma di una cobbola. "
a) Il commiato ha la struttm-a di quella parte della stanza della canzone
che ò costituita dai piedi e dal primo verso della s ir ima.
Fazio degli Uberti, la I* delle canzoni di dubbia autenticità
st. 4 -H comm. (ABbC. ABbC : C|DdEE
commiato
Boccaccio, pag. 74
st. 7 + comm. ,ABbC. BDdC : C|DEECc FfGG
fri) Il commiato si ottiene aggiungendo a un piede della stanza della can-
zone la sirima scema del primo verso.
Gino, pag. 395
Matteo Frescobaldi IV e V (tutte due sulle stesse rime)
st. 5. ABbC. ABbO : CDD
comm. ABbA CO
La parte del commiato che corrisponde al piede della stanza ha dunque una
rima di meno, e ciò per evitare l'inconveniente o che rimanesse slegato il quarto
versò o che i tre ultimi versi fossero su una stessa rima.
V) Il commiato ha la struttura di quella parte della stanza che risulta dal-
l' unione di un piede col priino verso della sirima.
Dino Frescobaldi Val. II, 510
st. 4 T- comm. ABbC. |ABbC : C,DD '
E parimenti Matteo Frescobakd III e F. Sacchetti, pag. 315 e 363.
S) Il commiato risulta dall'unione di un piede della stanza della canzone
con una volta. Un solo esempio di Chiaro Davanzati D'Anc. IH", ccxxxi
st. 5 4- comm. abc. |abc : DdeEf^ . DdeEf. '
s) La prima parte del commiato ha la struttura di un piede della stanza
della canzone, il resto è differente.
' Si potrebbe osservare oKe in tutte ti-e le citate canzoni ili Fazio lo schema dei piedi della stanza della
canzone è ABbC e quello dei piedi della stanza-commiato ABC.
' Diamo alla voce cobbola il signiiìoato che sembra aver assunto in Italia , cioè ili stroia a cni non sono
applicabili le leggi di partizione fermate da Dante, come sono appunto le cobbole del Barberino e del Bamba-
gioli. Conosciamo un solo esempio della voce r/obola usata ad indicare una vera e propria stanza di canzone
(ved. D".\nc. IH", cccsvui).
' Il commiato ha dunque la forma di quella cobboletta che è usata abbastanza di frequente anche da
F. da Barberino; cfr. Documrnti d'Amore, Parto U", doo. V, le regole 30, 32, 3G, 70, 89, 101, 101, 134, 141.
' Questo è lo schema delle tre ultime stanze; nella prima mancherebbe il v. 13, e il v. penultimo dovrebbe
essere endecasillabo invece di settenario, e nella seconda mancherebbe il v. 10.
— 36G —
Ciuo, pag. 354
st. 5. ABbC. ABbC : ODE e DEFF
comm. ABbC CB
E similmente Fazio degli liberti XI e la 11"^ delle canzoni di dubbia autenticità,
e Saviezze Card., pag. 586.
C) La struttura del commiato apparisce tanto o quanto determinata dalla
stnittura della sirima delle stanze della canzone.
Dante, Gli occhi, pag. 118
st. 6. ABC. ABC : CDE e DEFF
comm. GHhlIH
Lo. stesso , Le dolci rime , pag. 18G
st. 7. AbBC. BaAC .• CDE e DdDFfEGG
comm. HhILlI
Lo stesso, Ai fals vis, pag. 219
st. 3. ABC.BAC : cDEeDFF
comm. GHliII
Panuccio del Bagno Val. I, 338
st. 5. AbC. AbC : DeFfGgHH
comm. ILlMmNnl
Si potrebbe dire che nel commiato di qiiest'ultima canzone la coppia finale
della sirima viene divisa, e un verso è posto in principio, 1' altro in fine.
Lo stesso, Val. I, 341
st. 5. a BbC. a BbC : aDdC:EeFf GG ("«"•'^ >*'■ " •"''«■'-' ■' i"!»^"
verso , e la rima a è uguale
comm. Il li LIHH alia rima C).
Il commiato dunque è uguale alla sirima, avanti alla quale sta un verso set-
tenario rimante colla coppia finale.
Vedi anche Sacchetti, pag. 14, 162, 171, 208, 293.
Yj) La striittura del commiato non apparisce in alcun modo determinata dalla
stanza della canzone.
Meo Abbracciavacca Val. II, 1 (tutte le stanze sulle stesse rime della prima)
st. 5. AbC. AbC : DdEF e GfG'
comm. dCcBbD
Neri D'Anc. IH", ccxcv
st. 5. abbC.addC : CeeF. CggF. (neUast.V il primo verso <U1-
le volte rima col primo dei
comm. hhiillmmunh piedi invece cliecoU'ultimo).
E vedi anche: Panuccio Val. I, 345; Gino, pag. 159, 264, 375, 418; Fazio
degli Uberti, I, II, III, IV, VII, IX, XIV, XV e la IV delle dubbie; Gio-
' Nella stampa manca il terzultimo verso iIoU' ultima strofa o al v. ultimo si deve leggere cera invece di
cura (v. Casini, Testi inediti di antiche rime volgari, n" i.xxvi).
— 367 —
vanni Dall'Orto Renier, Fazio degli Uberli , pag. 213; Antonio da Ferrara Bella-
mano, pag. 153.
Restano da esaminare le canzoni con più di un commiato.' Cominciamo na-
turalmente da quelle con due.
7. La forma dei commiati è quella descritta al n" 2.
a) Tutti due uguali alla sirima (cfr. n" 2a).
Guittone II, IX, XXXV, XXXVI, " XXXVII, XL, XLIII; Monte Andrea
D' Ano. III" , cclxxxi, '' ccLxxxm , cclxxxviii ; Panuccio Val. 1 , 365 ; Finfo del Buono
Guido Neri D'Ano. Il", cxcu; Tommaso da Faenza D' Anc. IH", cclxxxii; ano-
nime Val. I, 374 e 378. In tutto 15.
a') Il primo commiato è uguale alla sirima intera (cfr. n" 27.), il secondo
agli ultimi 7 versi (cfr. n" 2a'). Gulttone IV
st. 5. ABBA : CcDDE e FFGGE
Veramente nella prima stanza lo schema della sirima è questo:
CcDDCcEEFFE
a") Tutti due i commiati sono uguali alla sirirna meno il primo verso
(cfr. n" 27.'). Guittoue Vili "
st. 7. AaB. AaB : bCcDdEFeGgHhIiLFL
rj.'") Il primo commiato è uguale ai 7 ultimi versi della sirima, il secondo
ai 4 ultimi (cfr. n" 2a'). Guittone XVI "
st. 2. ABCcAB : DEeFfggDHliIiiD
P) Ciascun commiato corrisjìonde alle due volte (cfr. n" 2,3).
Guittone D' Anc. IP , gxlvi ; Monte Andrea D' Anc. IH" , cclxxxvi, cclxxxix. "
(i) Il primo commiato è uguale a tutte due le volte insieme, il secondo a
una sola volta (cfr. n" 2,3'). Bacciarone Val. I, 407.
' Piuttosto di frequente nelle stampe del Val. e delle Siine di Guittone i commiati non sono distinti l'uno
dall'altro; ma la divisione è ris^Dettata nei codici.
' Nella stampa, anziché aver la forma della sirima come nel Red. IX, 63 (n" xxxviii) e nel Vat. (D'Anc.
n®, cxxxiii), il primo commiato di questa canzone si compone di 8 endecasillabi a rime alternate.
^ Questa canzone fu pubblicata per isvista due volte dal Val. la prima a pag. 31 e la seconda a pag. 375
del voi. II. È da notare che l'ordine dei commiati è diverso nelle due redazioni, cioè in una segue quello
che nell'altra precedo. Qxiale sarà 1' ordine giusto? La risposta non si può dar subito guardando alla canzone
di Tommaso da l'aeuza che è sulle stesse rime, poiché anche per questa l'ordino dei commiati del cod.
Vat. è diverso da quello del cod. Laur.-Red. IX, 03 (cfr. D'Anc. Ili», cclxxxu e Val. II, 248). Ma è da aggiungere
che in quest'ultimo l'ordine dei commiati della ris posta è quello stesso della j)roposta, ciò che non avviene
nel cod. Vat., e che esso par preferibile anche per il senso.
' Nella stampa manca il v. 12 del secondo commiato, che noi Laur.-Red. IX, 63 (n° vni) è tale: <i. nel valle
d'ogni falle ed eternale » e leggesi con qualche variante anche nel Vat. (D'Asc. Il", clxi) e nel Palat. 418 (n» 4).
* In tutte due le stanze manca il v. 13, che leggesi nel Laur.-Red. IX, 63 (n" xvi).
" Nell'ultimo verso del primo commiato ò evidente che invece di volontà si deve leggere volontate come
al v. 5; similmente dovrebbero rimare i vv. 5 e IO del secondo commiato, il primo dei quali termina con detto,
il secondo con dotto. O si dove ammettere la semplice consonanza? Non so decidermi, poiché il senso non mi è
chiaro.
— 368 —
8. La struttura di almeno uuo dei due commiati è couforme o all' ultima
stanza o a parte di essa.
a) E primo commiato è uguale alle altre stanze (cfr. n" 1), U secondo è
di 5 versi (cfr. n" Gq). Mino del Pavesaio Val. II, 382 '
st. 4 -H 1 aBbC. cDdE : ffGg-Hhl 2" comm. = IMmN
p) Il primo commiato è uguale agli ultimi 5 versi (cfr. n" 2a'), il secondo
è una stanza che, relativamente alla stanza della canzone, ha la forma descritta al
n" 5a. Guittone Casini, Testi inediti di mitiche rime volcjari, n" XXV.'
st. 5. aBbC. aDdC : ccEFggHliFfliE
1" comm. LlMmN
2" comm. aBbC. cDdE eN '
•() Il primo commiato lia la struttura di quella parte della stanza clie comin-
cia dall'ultimo verso dei piedi (cfr. u" 3), il secondo è uguale alla sirima (cfr. n" 2a).
Panuccio Val. I, 351
st. G. ABbC. ABbC : cDdEeFF
1" comm. G glibliLL
2» comm. gMmNnMM
9. La struttura dei commiati non presenta alcuna analogia colla struttura
della stanza (cfr. n" G/j).
Panuccio Val. I, 348
st. 5. AbC. AbO : c-DEeF.f-DEeF
1" comm. gHliIiLlMmG
2" comm. nULN
Similmente Panuccio Val. I, 350 e PaUamidesse D'Ano. Il", clxxxviii.
Minore d' assai è il mimerò delle canzoni con tre commiati. '
a) Tutti tre eguali alla sirima (cfr. u" 27.). Monte Andrea D' Anc. III",
CCLXXXIV. "
rj.) I due primi eguali alla sirima (cfr. n" 2a), il terzo eguale agli ultimi
versi della sirima (cfr. n" 2a'). Guittone VI e XLII.
fj) Tutte tre eguaK alle due volte (cfr. n" 2ji). Guittone XIX.
fj') Il primo e il secondo eguali alle due volte, il terzo eguale all'ultimo
verso della prima volta più tutta la seconda (cfr. n" Tf). Monte Andrea D'Ano. 11°,
CCLXXXVII.
' Nel cod. Vat. (D'Anc. 1X1°, cccxsiii) manca U secondo commiato.
' Nell'edizione delle Ilime di Guittone manca il primo commiato.
' Il secondo commiato è più hmgo del primo, che e un caso assai raro anche nella poesia provenzale
(KALiscnEH, pag. 72).
' Tre commiati si trovano relativamente di rado anche nella poesia provenzale.
'' Il penultimo verso del primo commiato dovrebbe terminare in -oso anziché in -io: ma non intendendo
chiaramente il contosto non ardisco proporre un'emendazione.
— 369 —
Finalmente la canz. XXIII di Guittone ha cinque commiati,' ognuno dei
quali ha la struttura della sirima della stanza della canzone.
Le canzoni che abbiamo esaminato sommano a più di 600 e metà circa sono
senza commiato. * Devesi per altro avvertire che il maggior numero di queste trovasi
. nella cosi detta scuola poetica siciliana e che tal numero cresce quanto più si risale
indietro. Difatti in meglio di 360 canzoni di quella scuola,' soltanto 113, se non è er-
rato il nostro computo, hanno il commiato, e soltanto sei appartengono a rimatori
meridionali. Si aggiunga poi che in una sola di quest'ultime, quella di Stefano Pro-
tonotaro , ' il commiato è ritmicamente distinto dalle altre stanze. '
Come introduttore del Commiato vero e proprio nella Canzone italiana si può
considerare Gruittone; '' ne sono senza soltanto cinque delle sue 43 canzoni. Ma i
poeti di lui contemporanei, se eccettui Panuccio e Monte Andrea, non ne fecero uso
molto largo. Basti citare l'esempio di Chiaro Davanzati, che, quantunque ricono-
scesse Guittone per maestro dell' arte del rimare e lo imitasse, lasciò ben 40 canzoni
senza congedo. Invece l' uso di esso diventa generale e frequente negli ultimi anni
del sec. XIII e pochissime canzoni poi del sec. XIV ne sono sprovvedute. Veramente
ne mancano tutte 20 quelle di Bindo Bonichi, ma per queste la ragione della man-
canza è evidente. Le poesie del Bonichi sono insegnamenti morali che si indiriz-
zano per la natura loro a tutte le persone. Doveva il poeta far questa dichiarazione
espressa in fine de' suoi componimenti ? Nessuno vorrà dire che ciò fosse necessario.
Ed ora, riassumendo i risultati del confronto fra la Canzone provenzale e
l'italiana per ciò che concerne il Commiato, osserveremo che nella seconda esso
manca assai più di frequente che nell' altra , che è relativamente maggiore il nu-
mero delle canzoni in cui 1' ultima stanza funge da commiato, che questo da prin-
cipio ebbe struttura analoga alla Tornada provenzale, ma verso la fine del sec. XIII
assunse anche una forma diversa, non corrispondente ad alcuna delle parti delle
altre stanze. ' Uno dei primi a comporre di siffatti commiati, che per brevità po-
' È il numero massimo che si trovi anche nella poesia provenzale; vedi Kaliscueiì, pag. 64.
' Anche nella poesia provenzale non mancano canzoni senza tornada (Kalischek, pag. 74), ma sono rare.
' Sono contenute, meno pochissime, nei tre più antichi Canzonieri, il Palatino 418, il Lanr.-Red. IX, 63 e
il Vaticano 3793. Soltanto in quest'ultimo si trovano due canzoni appartenenti al periodo del dolce stil nuovo, e
sono la notissima di Dante « Donne ch'avete infeìletto d'amore » e la risposta sulle stesse rime « Ben aggia Vamo'
roso et dolce core » (D' Asc. ni», cccx e cccxi).
* Citata in principio del n" 2:t.
^ Le altre cinque, nelle quali funge da commiato l'ultima stauza. sono citate per le prime al n" 1.
' Ciò fu già notato dal Monaci. Vedi la sua Nota Sul collegamento delle stanze nella canzone nei Bendiconti
della R. Accademia del Lincei, serie quarta, voi. I, fase. 12" (Comunicazione del 17 maggio 1885) pag. 355-58.
' Il Da Tempo non pone alcuna regola fissa sulla lunghezza del commiato. Nella canzone da lui compo-
sta come esempio del genere esso corrisponde alla sirima meno il primo verso , ma poi aggiunge a pag. 134 :
« M posset etiam fieri volta brevior quam in exemplo supra proximo et ad libitum. » E Gidino cosi si esprime
(pag. 107): « la ditta volta ee o de pia versi, o de men versi che le altre stancie della ditta cannone; ma per la più, parte
la ditta volta, o sia retornello ee de meno versi che non sono le altre stanze de la camone. Et eciamdeo la ditta
canzone destesa se può compillare senza lo ditto retornello o sia volta, a ben piacere de l'omo. »
47
— 370 —
tremo chiamare irregolari, fu Dante, che lo dice anche espressamente nel Convito. '
Nel sec. XIV è notevole la forma descritta al n° 5, e che fu issata, come s'è visto,
con qualche predilezione dal Sacchetti ed esclusivamente da N. Soldanieri.
Questo studio resterebbe anche più incompiuto di quello che per avventura
non sia, se qui in fine non tentassimo di indagare la causa delle diversità accen-
ntite fra la Tornada provenzale e il Commiato italiano. La causa principale
dev' essere quella stessa che serve a spiegare parecchie altre differenze ritmiche ;
deve risiedere cioè nel fatto che la canzone provenzale era composta per essere mu-
sicata e cantata e 1' italiana invece per essere letta o recitata. ' Fatta questa avver-
tenza, si intende come ai trovatori dovesse parer quasi necessario che coloro i quali
ascoltavano le canzoni e talvolta dovevano prestare maggiore attenzione alla musica
che alle parole , potessero avvertire anche coli' orecchio quando la poesia volgeva
alla fine. A ciò serviva assai bene la Tornada, e non fa mestieri spiegare perchè
fosse conveniente che avesse la forma e la melodia dell' ultima parte delle altre
stanze. Ai rimatori italiani invece la necessità e la convenienza testé accennate
non dovevano farsi sentire che debolmente.
Asolo, agosto 1885.
Leakdko Biadene.
' Tratt. II, cap. XII. Dopo aver detto clie i dicitori ohe prinm iisiu-ono di fare la tornada ' fenno quella
perche cantata la canzone con certa lìarte del canto ad essa si ritornasse ., aggiunge : « ma io rade volte a quella in-
tenzione la feci; e acciocché altri se ne accorgesse, rade volte la posi coli' ordine della canzone. »
. " Questo si intende in generale , cliè forse non sarà mancata qualche eccezione. Cosi da un luogo del
Purgatorio (II, 112 e seg.) parrebbe ohe fosso stata intonata da Casella la canzone di Dante « Amor che nella
mente mi ragiona •. Lo stesso musico diede il suono a una stanza di Lommo Orlandi (Val. U, 217) secondo la di-
dascalia del cod. Vaticano 3214 (e. IIS'O. Vedi Iliv. di fll. j-om., I, 79.
— 371 —
APPENDICE
DEL SIGNIFICATO DELLA VOCE 'TOENADA'.
Sull' etimologia o a meglio dire sul valore primitivo della voce tornada , non tutti sono d' ac-
cordo. Secondo il Kaynouard (Choix, II, 1G3) significherebbe ritorno, poiché il poeta vi ripete al-
cuni pensieri o alcuni versi della canzone. ' Lo stesso autore nel Lexique Roman, V, 377 traduce il
termine provenzale con <■ ritournelle, refrain ». H Diez osservò che il caso indicato dal
Kaynouard è raro e che la voce si spiega più convenientemente per 'Wendung', cioè, egli aggiunge,
' Apostrophe oder Anrede' {Poesie, pag. 79). Per il Kalischer, che nella prima parte del suo opu-
scolo intende dimostrare come i significati di tornada sieno quasi altrettanti di quelli del verbo tornar,
l'etimologia non offre alcuna difficoltà. Se non che fu già osservato al Kalischer dal Moyer e dal
Bartsch ohe anche quella parola, come ogni altra, deve aver avuto da principio un solo significato ben
determinato. E il primo dei due provenzalisti testa nominati, nella Revue critique, II, 298 e segg., no-
tando che i commiati contengono per lo più un invio e che tornar esprime assai bene l'idea di in-
viare, si attiene a questa come «l'accezione la più frequente, la più antica, quella che ha maggiore pro-
babilità di essere etimologica». Il Bartsch invece nel Literarischcs Centralhlatt, 1867, n''21, col. 580, os-
serva che il significato più semplice e naturale di tornar è volgere e di tornada volta. «Il poeta, egli
dice, alla fine della canzone si volge dall' argomento principale a un protettore od amico, o alla sua
dama, o al messo, che deve cantare la canzone, o alla canzone stessa, la quale in certo modo è perso-
nificata e apostrofata. In questa categoria rientrano le più delle Tornadas. » La stessa opinione espresse
il Bartsch nel Grundriss (pag. 71) e nel capitolo sul Commiato, che fa parte del suo lavoro Dante 's Poctik
(nel Jahrbuch dcr deutschen Vantegesellscliafl , III, 303-67). In questo per altro aggiunge che la tornada
potrebbe essere cosi chiamata anche a cagione del formale ' ritorno ' dell' ultima parte della strofa
o della melodia di essa (pag. 362). E una tale ragione apparisce più probabile dell' altra , essendo , come
già fece osservare il Tobler (v. M. Gisi, Der Trouiadour Guillem Anelier von Toulouse, Solothurn, Gass-
niann, 1877, pag. 25), quella stessa recata da Dante, il quale nel Convito, tratt. II, cap. XII, scrive:
« Dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone Tornata, perocché lì dicitori che prima usarono di
farla, fenno quella, perchh cantata la canzone, con certaparte del canto ad essa si ritornasse. » Questa
spiegazione sembra confermata dal nome italiano corrispondente che, come s'è detto (pag. 331), era
ritornello. Nondimeno neppur essa è tale da acquietare tutti i dubbi e si affaccia subito un' obbiezione
che è implicitamente contenuta in due delle spiegazioni più sopra ricordate. Dante cioè dichiarò la voce
tornada avendo riguardo al significato più comune del verbo tornare in italiano, ma il significato più co-
mune di tornar provenzale è volgere, quindi sombra che la spiegazione si deva dare movendo da questo.
Se non che anche in tal caso non è necessario accettare la spiegazione del Diez e la prima del Bartsch,
potendosi riferir sempre la spiegazione alla melodia, anziché all'argomento. Noi abbiamo già veduto
(pag. 331) come anticamente presso di noi la tornada si chiamasse appunto volta. Le due parole sarebbero
quindi andate soggette alla medesima evoluzione ideale, che per una di esse possiamo anche storica-
mente descrivere. Volta era termine popolare col quale designavasi dagli antichi il volgere della me-
lodia della prima parte della stanza ili quella della seconda. Ce lo fa sapere Dante che traduce quella
parola con diesis e la definisce così {De vulg. eloq. lib. II cap. X) : « diesim dicimus deductioncm vergentem
de una oda in aliam; hanc Voltam vocamus cum vulgus alloquimur y> . Volta poi doveva significare, come fa-
' Esempi di tornacU nelle quali sono ripetati vor.si o parole dell' ultima .stanza furono raccolti da C. Ai'PEr.
(flfls Leben und die Liedei- des Trobadors Feire Roi/icr, Berlin, Reimer, 1SS3, pag. 29 n). È nna particolarità che
si riscontra specialmente nelle canzoni più antiche.
— 372 —
cilmente si intende, anche il punto dove avveniva il rivolgimento o il mutamento della melodia
elle si voglia dire, e il significato della parola si estese tanto da indicare tutta la parte della strofa
principiante da quel punto, quella parte che Dante denomina sirima o coda. Ciò si apprende dal
Da Tempo.' E, poiché il commiato ritmicamente distinto dalle altre stanze nelle canzoni più antiche
era d' ordinario uguale alla volta, è naturale che anch'esso si chiamasse con questo nomo. Analoghe,
come più sopra s' è detto, potrebbero essere state le vicende della voce tornada. -
L. B.
' 0]). cit., pag. 117. Acoemiando alle parti della stanza della ballata, alla dottrina della quale riconduce
poi la canzone (pas- 128), scrive: 'Quarta ed ultima pars appellatur volta.» La volta poteva poi suddividersi in duo
periodi ritmici uguali, i quali erano chiamati anch'essi volte (v. F. da Barberino, op. cit. pag. 95). La voce versus
adoperata da Dante {De vnlij. eloq., lib. II, cap. X) a indicare appunto le volte, non sarà che traduzione di questa
parola.
' Di questa opinione in fondo è anche il BoEHMEn (Ueier Dante's Sclirift De mdg. eloq. ecc., pag. 29 u),
il quale per altro, nel luogo ora citato, sembra confondere i versus di Dante con la volta o sirima.
UN'ALBA CATALANA.
« .... Eiifermoyadedias,aunque, a Dios gracias, con esperanzas de mejora, mi
conti-ihncion ha de ser miuima , y se reducira a la copia de la siguiente poesia popiilar
que recogi eu Padaldà (juufco à Ainélie-les-Bains) en 1865:
ALBADA.
En està pedra m' assento , m' hi comenso d' assenta ;
Tincli la mi' amor que reposa ; no la gosi despertà.
Desperteuvos que ja 's alba, [jaj no es liora de dormi;
Al galan que raes vos ayma à la porta lo teniu.
Vos esteu al Hit cutjada, jo a la porta mort de fret.
Abrigat ab una capa y arrimat a la paret.
N'hi ha una donzelleta que robat me té '1 men cor;
Ne té la talla minuta y perfecta n'es del cos.
Si voleu que jo no hi passi, minyona, '1 vostro carré,
Si voleu que jo no hi passi. murallas hi haureu de fé.
Feulas de olavells y rosas, que passant las cnlliré;
Culliré las mes hermosas y las altres deixaré.
Per tan gran que sigui l'arbre, per la soca muntaré;
May cai dire, galan nina, d'aquest'aygua no beuré.
Albada, qui te l'ha feta, albada, qui te la f&?
L'ha feta un fadriner sastre, Pages si fa 'nomenA. »
Quest'alba colle parole che la precedono, inviava, probabilmente dal letto,
Manuel Mila y Fontanals, il 29 di marzo del 1884. Pur troppo le « esperanzas de
mejora » non si avverarono; e tre mesi e mezzo dopo , il 16 di luglio, anche il MUà
seguiva nella tomba coloro ai quali aveva voluto rendere U tributo pietoso del suo
rimpianto. Non senza sentirsi ridestare nell' animo un sentimento di vivo ramma-
rico leggeranno qui il suo nome quanti hanno cari gli studi neolatini; coloro poi
soprattutto che oltre allo scienziato conobbero 1' uomo.
IL lilTMO CASSINESE E LE SUE LMERl'llETAZlONL
Quello che di Persio solevano scrivere i vecchi commentatori, quando, lasciata
ogni speranza di comprenderne le oscure sentenze, deponevan la penna sclamando:
ut tenebris Ditis sic maiiet iste suis! a molti studiosi sarà certamente avvenuto di ri-
peterlo a proposito del Eitmo Cassinese. Dopo tant' anni infatti che esso ha veduta
la luce, noi siamo sempre a domandarci quale spirito lo animi; quale intento nel
dettarlo si sia proposto l' autore. Né dell' oscurità che 1' avvolge neppure le cause ci
appaiono ben chiare. Dobbiamo noi incolparne, come ha fatto taluno, l'ingenua e
malaccorta presunzione del poeta, il quale stimò dare ai suoi concetti peso e gravità
maggiori, avvolgendoli di una enigmatica veste? 0 non è piuttosto da accusarne
l'inesperienza nel maneggiare l'idioma del volgo, che, rude qual era, mal sapeva
piegarsi ad artificiose espressioni? 0 infine si deve da ogni accusa prosciogliere il
rimatore e rivolgere le nostre querele contro il dappoco amanuense, che, fidando
forse troppo nella sua malsicura memoria, ' affidò il ritmo, così lacero e guasto, al
codice cassinese?
Egli è probabile che tutte queste cause abbiano cooperato a produrre 1' effetto
che noi lamentiamo ; ma non esse sole. Se il Ritmo Cassinese è sembrato sino ad
oggi e sembra ancora un tenebroso indovinello, volendo esser giusti, qualche po' di
colpa converrà attribuirla anche ai suoi editori. Ai più fra di essi (e dal Federici in
' Che il codice cassinese , ben lungi tlall' essere 1' originale del Ritmo, non sia di questo che una trascrizione
posteriore e scorretta, ninno parmi abbia difficoltà ad ammetterlo. Non altrettanto facile però è il decidere, se il
testo ohe noi possediamo debba credersi desunto da un più antico esemplare, ovvero dovuto ad un monaco che
sapeva a memoria il componimento, ma non abbastanza esattamente da poterlo ridurre in scritto nella sua inte-
grità. La prima ipotesi può trovare conferma in quegli errori che il codice offre, i quali si direbbero di lettura
piuttosto che di altro genere (cosi il ijuita del v. 15, il trobnjo del 55. ecc.). D' altra parte le lacune, numerose pur
troppo nel testo , son tali da renderci più proclivi ad accusare di labilità di memoria ohe di negligenza lo scrittore.
Forse le due ipotesi si potrebbero conciliare ove si supponesse che V amanuense nostro avesse dinnanzi a sé una
trascrizione fatta a memoria da uno scrittore più antico. Ad ogni modo io non riesco a vedere come si potrebbe
menare buona al Bohmer la sua opinione ohe fra la composizione del Ritmo e l' inserzione nel codice cassinese sia
corso un intervallo di tempo brevissimo. Le corruttele che presenta il componimento non sono tali che possano
nascere in pochi mesi, com' egli pretenderebbe , per opera di un solo scrittore; ma quali può soltanto produrle la
lunga permanenza d' un canto sulle bocche , o i frequenti suoi passiig;,'i d' uno in altro manoscritto.
— 376 —
poi non son pochi), ' trascritto con maggiore o minore esattezza di sul codice il com-
ponimento, pai've aver fatto assai; e, se a magnificarne 1' antichità veneranda non
risparmiarono parole , quando si trattò invece di mostrare che 1' avevano inteso e po-
tevano farlo intendere ad altri , ne furono sempre avarissimi. E nel numero pongo
senza scrupoli anche chi, non sgomentato dalla difficoltà dell'impresa, si sobbarcò
un giorno a dare del Ritmo una letterale versione, poiché questa può tutt'al più
fornire materia di riso per le gustose amenità di cui è bizzarramente infiorata, ma
lume ad intendere il testo , no davvero. '
Solii più recenti editori del Ritmo, il padre Rocchi, monaco basiliano," I. Giorgi
e G. Navone,* e, dopo di loro, E. Bòhmer, ' hanno tentato delle indagini storiche
per chiarire il significato del componiniento ed il suo fondamentale concetto. Ed è
delle ipotesi da essi formulate , che io intendo tenere discorso , prima di presentarne
una nuova, sulla quale invoco il giudizio degli studiosi.
Il padre Rocchi, per incominciare da lui, ha dettato intorno al Ritmo Cassinese
un copioso commentario, che, se può far fede della sua buona volontà ed anche per
certi rispetti della sua dottrina, non giova (mi spiace il dirlo) a mettere sotto troppo
favorevole luce le sue attitudini alle ricerche critiche. Fermato infatti il chiodo che
il Ritmo « non solamente fosse antico, ma tanto che non potesse riportarsi ad
» un'epoca posteriore alla fine del decimo secolo, » '' il Rocchi si è dato gran pen-
siero di raccogliere a conforto di codesta opinione argomenti d' ogni genere, di chia-
mare in suo aiuto presso che tutte le scienze: la paleografia, la linguistica, la me-
' La trascrizione che, primo, dette del Ritmo, il Fedekici (Degli antichi Duchi e Consoli o Ipati della CiUò
di Gaeta, Napoli, 1791, p. 121), è deturpata da errori di lettui'a cosi grossolani, da renderla quasi inintelligibile.
Eppure v' è qualche cosa che supera la trascrizione: la riduzione cioè dei primi diciassette versi «alla moderna
ortografia », che per utilità dei lettori ha soggiunta il buon Cassinese. Le edizioni curate in questi ultimi tempi dal
Tosti (Proleijonieni al cod. cassinese della D. Commedia, Monte Cassino, 1S64, p. xvi) e dal Caravita (I C'odici e le Arti
a 3Ionte Cassino, Monto Cassino, 1873, II, p. 59) sono di gran lunga più fedeli, ma non porgono del Ritmo veruna
illustrazione.
' Alludo alla versione che ne diede in un suo scritto, intitolato La Ungila italiana ed il volgare toscano {PrO'
pugnatore, a. VII, disp. IV, p. 39 e segg.), il conte Bal-di di Vesme. Il valentuomo assicura d' essere « dopo non lieve
studio e fatica, aiutato anche dal consiglio d'amici», riuscito a comprendere quasi nella sua interezza il Ritmo.
Ma che egli si illudesse, e molto, lo provano le strambe interpretazioni che dà dei luoghi più oscuri (cfr. v. 10, 12,
66), non indegne del Federici.
' Il ritmo italiano di Monte-Cassino del secolo decimo, studi di A. Hocchi, monaco basiliano della Badia di
Grotta Ferrata. Tipografia di Montecassino, 1875.
' Il Hitmo Cassinese: nella Riv. di Filol. Itom-, voi. II, pag. 91-110. Ambedue queste pubblicazioni sono arric-
chite di un eccellente facsimile.
'■ Ritmo Cassinese in Romanische Studien, X (Strassburg, Triibner, 1878), p. 143 e segg. Il Bohmer, persuaso, e
non certo a torto , che il senso generale e V andamento del pensiero nel Ritmo rimanevano ancora oscuri non
ostante le anteriori ricerche, ha voluto chiarirli tentando una restituzione critica del Ritmo, giustificata da una
parafrasi. Ma il tosto , che egli, separando, togliendo , aggiungendo parole, per ridurre tutti i versi alla medesima
misura, modificando la punteggiatura, ha presentato agli studiosi, so offre qua e là correzioni felici ed ingegnoso,
non si può salvare dalla taccia di arbitrario. Cosi pure della sua parafrasi è difficile dir molto bene; avendo egli
voluto sostenere che nel Ritmo, fatta eccezione per una di duo versi, non vi sono lacune, è stato costretto a ricor-
rere ad interpretazioni stiracchiate, e più d'una volta ad arrampicarsi jiropriamente sugli specchi. Si veda il giudi-
zio che su questo tentativo di restituzione pronunzia concisamente anche il Gasparv {Gcsch. der Ital. Liter., I, p. 4SI).
* Op. cit., p. VII.
— 377 —
trica, la storia; ' ma in pari tempo non si è punto preoccupato delle obbiezioni, che
i suoi ragionamenti non potevano a meno di sollevare. Eppure che queste obbie-
zioni fossero e numerose e -gravi, lo vedremo facilmente, ove, lasciate in disparte le
altre jDrove, prendiamo' ad esaminare i dati storici, sui quali il padre Rocchi ha
fondato la sua dimostrazione.
Il Ritmo Cassinese, egli scrive,' è un componimento satirico, che rinviene la
sua origine e la sua dichiarazione in taluni avvenimenti , dei quali la Badia di Monte
Cassino fa teatro nel secolo decimo. Ecco di che si tratta. S. Nilo, il famoso anacoreta
calabrese, fuggendo nel 980 da Rossano, sua patria, che stavano per desolare le inva-
sioni Saracene, aveva con alquanti compagni cercato asilo nel principato di Capua.
E qui Landolfo, che allora lo l'eggeva, accolse con ogni onore il Santo, ed assegno-
gli a dimora, dietro suo desiderio, il piccolo monastero di S. Angelo di Vallelucio,
vicinissimo al cenobio Cassinese, anzi da questo dipendente. L'austerità della vita
che menavano i Benedettini, divenuti così ospiti del santo calabrese, era nei primi
tempi della costui dimora oltre ogni dire grande e mirabile; ma essa scemò rapi-
damente, quando, morto l'Abate Aligerno, gli fu dato per successore Mansone. Que-
sti portò nel chiostro gusti ed abitudini tanto poco a monaco convenienti, che iiere
discordie ne nacquero fra i Cassinesi, de' quali alcuni, aborrendo dalle nuove e sre-
golate usanze, abbandonarono spontaneamente il chiostro, mentre i rimasti s'accon-
ciarono a seguire le orme dell'Abate loro. E così agevolmente vi riuscirono, che, re-
catosi un giorno S. Nilo a visitare Mansone, invano attesolo nel tempio e voltosi a
ricercarlo per il convento, lo rinvenne alla fine in refettorio, dove, seduto coi prin-
cipali monaci a mensa, si dilettava negli arpeggi d'un citaredo. A tal vista Nilo,
acceso di vivo sdegno, abbandonò frettoloso S. Germano, proferendo oonta'o il disso-
luto Abate profetiche minacele , che ebbero poco appresso pieno e spaventoso adem-
pimento.'— Ora, che ha desso a vedere tale episodio della vita di S. Nilo con il Rit-
mo? Moltissimo, ove col Rocchi' si consideri questo una satira, dettata da un
seguace di Mansone per deridere le austerità sovercliie del monaco basiliano. Il
quale sarebbe per l'appunto messo in scena sotto le spoglie del magmi, vir prudente ,
che, giunto dg^ie estreme parti d'Oriente, fa pompa delle sue rigidissime dottrine
con un monaco latino. E questi, mentre finge di ammirarle, se ne fa beffe , insinuando
che esse sono con l' umana fragilità incompatibili; tali che a seguirle farebbe d' uopo
essere non uomini, ma angeli.
L' opinione, così caldamente sostenuta dal padre Rocchi e divisa anche dal
' Op. cit., p. VI.
- Op. cit., p. XXII e segg.
' Quest'episodio ce lo narra il 3io? toO év iyiois itaTpòs NsiXou toD véou, opera di un discepolo del Santo, forse
il B. Bartolomeo, ricca di preziosi ragguagli per la storia del tempo. Edita la prima volta nel secolo XVII {Vita
S. Palrig Nili Jiinioris scripta olim Grasce a, contubernali cjics Discipulo , nunc latinitaU donata, interprete Jo. Matthaeo
Cartjophito Archiep. Iconienai, Jiomac, apud ìiaeredea B. Zanetti, 1621) è stata ristampata dai BoUandisti (Ada Sanctor.
Septembr.. VII, 283) e quindi dal Mione {Patrolog. Graeca, CXX, p. 1 e segg.). Intorno a S. Nilo è da vedersi, oltre
cbe la prefazione del Migne {Commcitt. praev., e. 11-13), l'opera di F. Rodotà, Dell' orinine , progresso e stato 2>resente
del Sito Greco in Italia ecc., Eoma, 1760, lib. II, p. 101 e segg.
' Op. cit., p. xsvn e segg.
4S
— 378 —
Bohmer, non è tale che si possa accogliere ad occhi cliiusi. Per far qnesto con-
verrebbe innanzi tutto acconsentire col EoccM nella credenza che il Ritmo sia stato
composto, se non proprio appena seguiti i fatti narrati, pochissimo tempo dopo:
quindi o nel 986, o, al più tardi, nel 996, anno in cui Mansone fu deposto. Ma che
il Ritmo Cassinese possa reputarsi opera del decimo secolo, non pare che alcun
critico sia per ora inclinato a concederlo: e certo per ragioni di molto peso. ' Ora,
quando si rifiuti di credere il componimento dettato ne' giorni in cui S. Nilo e Man-
sone vivevano, diviene molto difficile il persistere neìV opinione che proprio codesti
personaggi ne siano i protagonisti. Per passare infatti sopra 1' assurdità, alla quale
va incontro chi reputi scritta nel XII secolo e fors' anche nel XIII una satira, che
ha per oggetto fatti compiutisi dugento o trecent' anni innanzi, sarebbe di mestieri
che le allusioni a tali fatti fossero nel componimento chiare e patenti cosi da non
lasciare adito al più piccolo dubbio. Ciò avviene nel caso nostro? No davvero.
Quelle che si spacciano per allusioni a S. Nilo sono al contrario così vaghe, deboli,
incerte, e tanto palesi invece e grossolane le contraddizioni fra il Ritmo ed il rac-
conto del greco biografo del Santo," da costringere il Rocchi medesimo, non sol-
' Mentre il Eoceni si sbraccia a dimostrare ohe il Ritmo appartiene al secolo decimo, il Bohuek vorrelibe
ringiovanirlo nientemeno che di tre secoli, fissandone al 1293 la composizione; e ciò perchè egli ne sospetta autore
uno de' monaci cassinesi gettati allora in carcere da Celestino V, siccome renitenti ad accettare le riforme oh' ci
voleva introdurre nella loro regola. Ma quali rapporti corrano fra quesf avvenimento ed il contenuto del Ritmo
il B. non si dà la pena di dirlo, e noi in conseguenza potremo risparmiarci quella di combattere una congettura
campata in aria. Difatti giudici autorevoli, quali il Giokgi (op. cit., p. 9) ed il Monaci (ved. Morandi, OrU/. della lin-
gua italiana, p. 65) credono che la trascrizione del Ritmo risalga agli ultimi del secolo XII.
'- Sarà qui opportuno fare un cenno degli argomenti, che hanno indotto taluno a credere che nel Ritmo
.sia messo in scena S. Nilo. Il componimento si chiude con ima frase, che serve quasi di suggello al dialogo:
Auijeli de celti sete. Ora il biografo di .S. Nilo narra che costui, trovandosi un giorno a Monte Cassino ed essendo
dai Benedettini richiesto di dichiarar loro quale fosse il perfetto monaco, rispondesse: Mov^y/-; écttiv «yve'os
(MiONE, o. e, e. 128). Tale il raffronto, che si può dire la pietra angolare dell' edificio ; che il Bohmer giudica di
molto peso (o. e. p. 115), che il Giorgi chiama « singolarissimo » (o. e, p. 100). A me però, valga il vero, esso non
sembra né cosi notevole né cosi singolare da esserne sforzato a concludere ohe il Santo Calabrese sia proprio
uno degli attori del Dialogo. Ciò avverrebbe quando si potesse dimostrare che quella di paragonare alla angelica
la vita claustrale è una trovata di S. Nilo. E invece è facilissimo provare il contrario ; esser questa cioè consuetu-
dine comune di tutti gli scrittori ascetici. Nella Biografia stessa di S. Nilo succede più e più volte di veder costui
chiamato uomo di angelica apparenza (Miqne, o. c, c. Ili) ; vestito di angelico abito {rò àfr'-""'»' <'X'i('=^> o. e, col. 31),
III, 113), angelo incarnato ('vdjpxo? àrr^'-o?, o- e, e. 42) Nelle Constitutiones Monastica! ohe vanno sotto il nome di
S. BasiUo [S. P. Nostri Basilii C'aes. Capp. Archìep. Opp.Omnia, ed. Gaksier, Parigi, 1722, I, II, Cap. XVIII, p. 561),
noi troviamo pure i cenobiti paragonati agli angeli, perchè , secondo il loro esempio, vivono in perfetta concor-
dia; e questo ravvicinamento era neU'ordine Basiliano divenuto cosi abituale, che delle tre categorie di monaci,
in cui esso dividevasi, la più elevata si diceva Ae'\i.i-(a.tta-/T\\yn{, cioè di coloro che vestivano il grande abito, o
abito d' angelo (Ved. Moroni, Dizion. di Erud. Stor. Eccles., IV, p. 178). Mansit in celestibus adirne carne iectus Vite sita
celice celis iam invectas....; Fit in terris socius celicia et celis, dice di S. Brandano, fattosi monaco, il metrifioatore della
sua leggenda (E. Martin, Latein. Uebcrsetz. des Allfranz. Oed. aiif S. Brandan in Zeilsclir. fUr detitach. Alterth., s. p.,
IV, p. 2(X)); e dell'eremita S. Paolo, recte si porspiciat gestum viri qiiivis, Dici potcst angelus vel celestis cims (o. e.
p. 315). Ancora nel sec. XIV fra Giovanni dalle Celle, rivolgendosi ai Gesuati, li apostrofa cosi: Voi siete angeli
terrestri (Ved. Alcuni Trattati del B. Fra Jacopo da Todi, Modena, 1832, p. 37). Da questi esempi, che mi sarebbe
facile moltiplicare, consegue, a parer mio, ohe il rapporto tra l' epifonema che chiude il Ritmo e le parole pro-
nunziate in Monto Cassino da S. Nilo dovrebbe reputarsi accidentale, dato che realmente esistesse. Che esista
infatti si avrà forte ragione di dubitare quando meglio si esaminino le cose. S. Nilo dico che il monaco è un an-
gelo allora che angeliche sono le suo operazioni: è pacifico, misericordioso, fa perpetuo sagrificio di lode. Ma se
- 379 —
tanto a riconoscerne 1' esistenza , ma ad esprimere 1' opinione che il poeta abbia
lasciato libero il freno alla sua fantasia, e, contessendo nella satira « fatti, o sup-
posti, 0 già passati ed antichi », approfittato largamente della licenza, che Aristo-
tele prima e Orazio poi gli avevano concessa : quella di mentire ! ' Il rimedio , non
c'è che dire, è peggiore del male.
Questo adunque si può ritenere assodato: che non si ha alcun plausibile argo-
mento per credere che nel Ritmo sia rappresentato S. Nilo. Aggiungiamo adesso
che nulla permette di menare buona al Rocclii la sua supposizione che il compo-
nimento sia una satira; perchè, come ha già dimostrato il Giorgi,' in tal caso,
non solo non si ha più maniera di accordare l' una con 1' altra le due parti di cui
il Ritmo consta, il preambolo cioè con il dialogo; ma nemmeno di questo si ar-
riva più ad ottenere una ragionevole divisione. Distrutta anche questa credenza,
che non ha proprio verun fondamento, nell'indole satirica del Ritmo, è sottratto
l'ultimo puntello all'edificio già pericolante del Rocchi. E mentre esso crolla, noi
ci rivolgeremo ad esaminare la seconda proposta interpretazione, che amerebbe ri-
conoscere nel Ritmo un contrasto fra due personaggi, non reali, ma fittizi, non
storici , ma simbolici, che raffigurano cioè la regola basiliana messa a confronto con
la benedettina per giudicare quale delle due debba reputarsi migliore. ^
La congettura, che nel Ritmo Cassinese vengano chiamate a paragone le isti-
tuzioni monastiche dell' Oriente con le Occidentali, è, convien dirlo, a primo aspetto
attraenti ssima. Ed agevole riesce di vederne il motivo, ove si rifletta alla grande
importanza che le une e le altre assunsero nelle varie e dolorose vicende , alle quali
andò soggetta l' Italia meridionale nel Medio Evo.
al contrario è incredulo, invidioso, crudele, diventa albergo d'of;rni nequizia e si trasforma in demonio. Quando
alcuno infatti, conclude il Santo, veste l'abito monastico, esso non pitò più essere itomo, ma è angelo o demonio
(MioNE, o. e, e. Ii8). n paragone fra 1' angelo ed il monaco si fonda qui dunque unicamente sulla parte spirituale :
proprio al contrario di qirello cbe avviene nel Ritmo, dove solo argomento a paragonare l'Orientale ad un an-
gelo cava l'Occidentale dal fatto che esso vive senza soddisfare ai bisogni del corpo; il che è proprio delle cele-
sti inteUigenze. Fra i due passi non v'è adunque, se io non erro, rassomiglianza alcuna.
Quanto deboli e scarsi gli argomenti che coufortauo la tesi del Rocchi, altrettanto sono copiosi e gagliardi
quelli che la oppugnano. Dato che il poeta abbia voluto rappresentare un personaggio reale, alludere a fatti ve-
ramente avvenuti, come si spiega la strana noncuranza iu cui egli tiene la storia, le false e contraddittorie
circostanze con cui la avviluppa e travisa? S. Nilo era notissimo ai Cassinesi anche prima ohe ponesse stanza in
Valleluoio, ed il rimatore lo presenta come un ignoto? S. Nilo veniva da Rossano, dalla Calabria, ed il poeta lo
dice arrivato dall'Oriente, dall'estrema parte del mondo conosciuto, quasi quasi da un altro mondo {de, qidUii
mundii benyo, v. 29)? Poiché è facile capire che non si può sostenere sul serio, come il Roccm fa (o. e, p. xxii e xxvi)
che con le parole Oriente^ quiUu imcndu, un abitante del principato di Capua abbia voluto indicare la Calabria
perchè soggetta all' impero greco! Ma non basta. Il poeta intende di mettere in burla il rigido anacoreta, e per
disporre a ciò gli uditori fa loro dapprima un predicozzo e poscia dipinge l'uomo ohe vuole schernire come tale
che al solo vederlo incute riverenza e timore? (Rocchi, o. c, p. xxvni). Ed infine lo accusa di viver nell' ozio, aspet-
tando da Dio il vitto, quando e noto per testimonianze molteplici che S. Nilo fu del lavoro fautore caldissimo e
ne die egli stesso prova per tuttala vita? (Rocchi, o. c, p. 67). Chi abbia stomaco abbastanza robusto da di^-erire
queste ed altre assurdità (cfr. Giorgi, o. c, p. ICO) potrà sostenere che nel Ritmo è introdotto S.Nilo; anzi che esso
è un dialogo fra S. Nilo ed Aligerno! (Rocchi, o. c, p. lviii).
' Roccm, o. e, p. XXIX.
' Op. cit., p. 100.
' Cfr. Giorgi, o. c, yag. 'J9-100.
— 380 —
Quando le persecuzioni iconoclastiche del .secolo ottavo costrinsero ad abbando-
nare le antiche lor sedi molti fra quei monaci, ai quali San BasiKo aveva imposte ,
perfezionate e mitigate in parte, le austere discipline dei Padri del deserto, essi rin-
vennero quasi una seconda patria in quelle provincie della Italia inferiore, le quali
per la secolare diffusione della lingua, per costumi, per leggi, per governo, si po-
tevano dir semigreche. E ben tosto nell' Aquilano, nella Puglia, nella Lucania, in Ca-
labria, in Sicilia sorsero numerosi i cenobi basiliani, mentre fra i dirupi e nei luoghi
più deserti e selvaggi riparavano gli anacoreti a rinnovarvi que' prodigi di ascetica
virtù, onde andavano famose la Palestina e l' Egitto. Ben è vero che a rallen-
tare questo rapido sviluppo del monarchismo orientale sopraggiunsero quasi subito
due fatti di natura assai diversa, ma di pari efficacia: la rivalità dell' ordine be-
nedettino e le incursioni saracene che desolarono nel corso del nono e decimo
secolo il mezzogiorno della penisola. Ma né dall' una né dalle altre i Basiliani si
lasciarono abbattere; anzi, nelle tenebre di quelle età tristissime la loro fama parve
sfolgorare di luce più viva, ed i cronisti e gli agiografi vanno a gara nel celebrare i
nomi di molti fra loro che, dotati di virtù profetica, sorsero fra la atroce barbarie
apostoli indefessi ed eroici di civiltà e d' amore. ' Così , quando coHo stabilirsi della
monarchia normanna si pose un freno alle nefaste invasioni dei pagani ed il lungo
periodo di sconvolgimenti e di lutti si chiuse, primo a risentire i benefici della pace
riacquistata, della rinata prosperità, fu l'ordine basiliano. Protetto dai principi, ve-
nerato dai popoli, esso neE' undecime secolo ramificò per tutto il reame rigogliosis-
simo; la Calabria, la Sicilia, popolate di conventi, parvero ai contemporanei tramu-
tarsi in un secondo Egitto: altera Aegyptiis, sanctorum monacìiorum jìarens et nutrix. '
Il grado di popolarità e di floridezza, raggiunto verso il secolo XII dalla re-
gola basUiana, era dunque troppo grande perché non dovesse ingenerare gelosia e
timore negli altri istituti monastici. E fra questi uno sopratutto seguiva di mal occhio
l'incessante incremento del monachesimo orientale, quell'ordine cioè che S. Bene-
detto aveva stabilito, e che fino dalla culla si era al Basiliano contrapposto, contra-
standogli poi vigorosamente il primato sul teatro stesso delle sue maggiori vittorie. Né
avrebbe potuto essere altrimenti. Ambedue le regole miravano alla medesima mèta;
ma per i-aggiungerla battevano vie aifatto contrarie. Soverchia appariva ai Benedet-
tini la rigidezza dei Basiliani; questi alla lor volta accusavano gli avversari di ec-
cessiva mitezza. Soliti a dispregiare il corpo, vilissimo involucro dello spirito, anzi
peso odiato che lo incatenava alla terra, gli orientali biasimavano la regola latina
che concedeva ai monaci l'uso delle carni; i Benedettini mal tolleravano che i Ba-
siliani, mettendo in non cale gli infiniti vantaggi della vita cenobitica, consideras-
' Cfr. Rodotà , o. e, Gap. IV, p. 102, 103. Intorno ai Sunti basiliani, fioriti nel decimo e uell'nndeoimo secolo,
Kon da leggersi le belle pagine del Tocco {Veresia nel Stedio Evo, Lib. II, Cap. V), dove essi vengono acutamente
dimostrati veri precursori dell' Abate Gioacchino.
' Verso la metà del secolo undecimo nel Reame di Napoli si contavano mille conventi. l)asiliani; cinque-
cento ii(.Ua Sicilia; e si tace degli anacoreti, sparsi pei- i monti od i baschi. Ved. Rodotà, o, c, Cap. IV. p. SJ.
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sero invece la eremitica come il più sublime grado della perfezione monastica. '
Questi dissidi dovevano dar luogo a conteso non appena i due oi'dini si trovassei'o
di fronte; ed infatti anche nel secolo decimo, anche ai giorni di S. Nilo, giorni di
concordia e di pace in cui il monachismo greco trovò ricetto nella ròcca stessa del
rivale, in Monte Cassino," non si assopirono mai del tutto; ed il tempo, in luogo
di attenuarli , li rese ogni dì più profondi e vivaci. Che essi venissero quindi o prima
o poi a manifestarsi negli scritti, sarebbe da stimare credibile anche se ogni prova
mancasse. Ma ciò non avviene.'
Ora chi credesse il Ritmo Cassiuese un frutto dei dissensi che esistevano nel
secolo XII fra i due ordini e lo giudicasse animato da un intendimento polemico
ad un tempo ed apologetico: quello cioè di mostrare, confrontando colla regola ba-
siliana e le sue intense aspirazioni ad una perfezione agli uomini inconcessa, la bene-
dettina e r aurea discrezione dei suoi precetti , come questa fosse all' altra di gran
lunga superiore; chi supponesse ciò, si abbandonerebbe ad ipotesi avventate? Non
si direbbe certamente. Eppure, se noi ci accingiamo a giustificare tali congetture
con un diligente esame del Ritmo, saremo costretti a confessare che esse pure rie-
scono insufficienti a renderne chiaro lo scopo e il significato.
E le prime difficoltà ci si offrono nel preambolo. Questo, del quale l' intento
risulta manifestissimo quando si consideri il Ritmo come un'esortazione ai pecca-
tori, perchè, abbandonate le vie del vizio, si volgano al porto della salute, rimane
invece incomprensibile per chi giudichi animato l' autore da altre intenzioni. « Io ,
scrive egli infatti, se parlo domando la vostra attenzione; iìiterpello, chieggo conto
di questa vita e vi dò buone novelle dell' altra. Dall' altezza ov' io dimoro ,
addito altrui il cammino, e come la candela posta all'aperto, rischiara, ardendo sé
' Fra i precetti divulgati da Sant'Antonio, andava primo quello di non mangiar mai carni, divieto che, a
quanto attesta S. Girolamo (Epist. ad Emloch. XXII, in S. Eus. nUronimi Opp-, ed. Vali.absi, Verona, 1734, I, 117), i
padri del deserto osservavano nel modo più rigoroso. .S. Basilio, che pur temperò in qualche parte le rigide norme
degli asceti orientali, conservò intatta questa prescrizione; e non solo nelle Regole, ma in tutti i suoi scritti si
rinvengono caldissime lodi dell'astinenza, del digiuno, del quale aiizi egli dice simbolo la vita di Adamo nel pa-
radiso terrestre. (Ved. Opp., T. II, p. 3, p. 360, e singol.armente le due Omelie sul digiuno, T. III, p. 1 e segg.) Assai
presto però questa proibizione parve eccessiva; già Giovanni Cassiano, che pure ammira la stupenda astinenza
di quegli anticlii padri, di cui descrive le istituzioni, confessa che il digiuno è da adattare alla natura delle
persone (.Opp. omnia, cum comm. d. A. Gazaei, Francofurti, 1722, Libri de Instit. C'oenob. L. V, Gap. V). L' autore
delle gi.à ricordate C'onstitutiones Monastica: è anche più esplicito ; egli giunge ad affermare che chi mangia unica-
mente per sostentarsi non deve esser stimato inferiore a chi digiuna; e si scaglia anzi con efficaci parole contro
chi, credendo giovare allo spirito, estenua soverchiamente il corpo (Basilii Opp., T. Ili, p. 646, n. 4; e ofr. anche
p. 459 e 614). S. Benedetto non fece quindi che obbedire ad una vera necessità quando nella sua Regola raddoloi la
proibizione di mangiar cai'ne, concedendone 1' uso ai deboli e agli ammalati.
' Nei primi tempi del suo soggiorno a Sant' Angelo di Vallelucio S. Nilo ammirava a tal segno le istitu-
zioni benedettine, da anteporle alle greche, lldvu Si, scrive il suo biografo, noti a'jxòi iyauOsis km Tri sóraj'.? irs^ai-
ò'£u.uiv7| xaTOtaTJtaa ajrùv, xoi 9au(iicras tì aOrùv hnip rei -hiiùv (op. oit., e. 125). Egli scrisse allora un inno in lode di
S. Benedetto (BodotA, o. c, p. 49); ma ciò nondimeno ebbe anch' egli a difendere V abito ed il rito greco, attaccati
dai Cassinesi. Ved. Tocco, op. cit., p. 39",
' I due ordini vengono sempre contrapposti dagli scrittori. Un di loro anzi, Goffredo di Vendòme, ne fa ri-
saltare con un opportunissimo paragone la differenza. La Regola basiliana, egli dice, può rassomigliarsi al vec-
chio testamento; la benedettina al nuovo, come quella che è sancta, siiavis et ìems.... et ruatre virtutum, discretione
scilicet, piena. Ved. Rodotà, op; cit., p. 50.
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stessa, la via,' cosi io a voi faccio lume e vi iusegno quanto so. » Codeste intenzioni
che il poeta tanto apertamente manifesta, devono di necessità trovarsi giustificate
nel ritmo. Ma se questo contenesse invece che una apologia della vita spirituale,
una polemica suUa maggiore o minore bontà di due istituzioni , che per diverse vie
pur convergono al medesimo fine , come si potrebbe , a meno di tacciare 1' autore
' Non meno che il resto del componimento anche questo preambolo presenta difficoltà gravi; taluna anzi
addirittura insormontabile. Implorata nei primi quattro versi T attenzione degli uditori ed accennato lo scopo al
quale intende {de questa bita interpello e dell'altra bene spello), il poeta si volge poi a giustificare la sua libertà di
parola: Poik' enn alfa me 'ncastello ad altri bia renubello Em mehe cendo flagello. Questi tre versi sono stati oggetto di
svariate interpretazioni, e taluno ha creduto che l'autore vi faccia un'esplicita allusione alla sua condizione di
monaco di Monte Cassino (Navose, op. cit., p. 20); altri, interpretandole allegoricamente, vuole riferirle al castello,
al palagio della celeste sapienza (Bòhmer, op. cit., p. U4). Che il poeta parli metaforicamente, niun dubbio. Ma
piuttosto che all' elevatezza della sua dottrina io preferirei veder nelle sue parole un'allusione allo stato monastico
ch'egli aveva abbracciato. Non è raro infatti trovare paragonata la vita claustrale a quella di chi suole dimorare in
luogo elevato ed inaccessibile; il già citato poemetto latino su S- Brandano ce ne porge cosi acconcio esempio in
questi versi: Pasaer iste mìsticus et pusilli status Ad montanum evolat statura monachatus (op. cit., p. 290). Noterò poi, ri-
spetto airiKC(W(eHars(, che in documenti medievali si trova, benché raramente, usato un verbo C(i^(f!terc, che vale non
solo abitare in un castello, ma anche semplicemente dimorare in qualche lunqo (V. Du Gange, s. v.), e che in italiano la
voce, che niun dizionario registra, occorre anche in Fha Jacopone {C'untici, ed. Modio, IX, p. 36): Or pensa gli enca-
stellati Co so attenti al veghiare.Tl verso Em mebe cendo flagello è fra quelli che hanno sino a qui dato più da fare agli
interpreti: molti de' quali giudicarono doversi leggere £ mme be[n]cendo flagello, e di conseguenza spiegare: Me
vincendo flagello (Federici, Baudi di Ves.ue, Rocchi, Bohsiee). Ma questa congettura perde assai di valore ove
si rifletta esser ben più probabile ohe il poeta abbia scritto mebe ohe me (cfr. le altre forme pronominali tebe,
64, 66, sebe 5, vebe 7, non nuove nei dialetti del mezzogiorno), ed esser poco ammissibile quindi l'errore di scrittura
che dovrebbe darci il bencendo. Io sono quindi d'avviso che debba scriversi, come fa il Navone, em mebe
cendo flagello- Ma ohe sarà quel cendo? Certo non un verbo, poiché ne abbiamo già uno in flagello. Non sarebbe
forse fuori dì proposito il sospetto che nella seconda parte di cendo si nascondali solito ndc, ne, {mende, 8, diconde
ivi). Basterebbe supporre, come mi fa osservare il Rajna, che il copista nostro o il suo esemplare avessero dimen-
ticato di compiere Ve, aggiungendo il coronamento superiore. Ma la prima i^arte resterebbe pur sempre oscura;
poiché non si vede a che quel ce {Ice?) si riferisca, È quindi soltanto un po' arbitrariamente che si può spiegare cosi
il testo : poiché io sto in alto, rinnovo agli altri la via e mi flagello, cioè mi faccio del danno, come ne fa a se stessa la
candela, la quale consumandosi luce altrui. Tale infatti è il significato dei due versi che seguono. Et arde la candela
sebe libera Et altri mnstra bia dellìbera, dove è alquandp oscuramente espresso un paragone, caro agli scrittori
medievali, e pienamente dichiarato da queste parole di A. Neckam: Quid dicere opus est quod candela accensa lucet
aliis, aliis ntilis est, sedcumsni dispendio? Sic ìionnumquain scientia , fideliter auAitoribus impressa, ipsis non mediocrem
nmm affert, domino tamen proprio nullum allatura profectum. (De naturis rer., ed. Wkigiit, London, 1863, p. 58). La
similitudine é poi passata dagli ascetici ai poeti, ed avviene di rinvenirla presso i trovadori. Peire Baoion comin-
cia per r appunto con essa una canzone (Maun, Werke, I, p. 137): Atrcssi citm la candela Que si meteissa dcstrui Per
far clardut ad autrui, Chant, on 2>lus trac greu martire, Per plazer de V autra gen. Altrettanto fa in una graziosa
canzone, che si aggira tutta su codesto tema, Perein d' Akgecouet {Il covient qu'en la cliandoile; ved. Hist. Lift, de la
Fr., XXIII, 823, e Raynacd, Bibliogr. des Chans. Frane, des XIII et XIV siici, n, p. 62): Et alors a tei vertu De f aire
V antimi servise Tant qu'ele est arse et remise. Et Je sui touz en tei guise etc. Dalla lirica d' oltremonti il paragone, al
pari d'altri molti, è pa.ssato nella nostra (Navone, op. cit.,p. 109, Gaspauv, La scuola x>oet. sicil., p. 96). L'epiteto di
libera che dà però qui il poeta alla candela mi lascia sospettare che egli avesse pure a mente la celebre similitu-
dine di S. Maiteo {Evang. V, 34), divulgatissima nel Medio Evo. — Riprendendo 1» interpretazione data dal Fede-
Bici, il Rocchi ed il Bòumeb vedono nella frase muslra bia dellìbera, che essi leggono via del Libera, un'al-
lusione alla preghiera cosi chiamata che fa il sacerdote durante la messa. Credo che questa opinione si possa
sicuramente dir i&lsA. Dellìbera non può valere qui che libera, sgombra, tale che vi si può camminare con passo
franco, perchè si vede senza inciampi. — Et eo sence abbengo culpa iactio Por vebe luminaria factio Tuttabia mende
abbibatio E dìconde quello ke sactio.... e' alla scrittura bene platio.... Qui sorgono nuovi intoppi, a cagione di quel
sence abbengo culpa iactio che è addirittura inintelligibile. I più vecchi editori del Ritmo aveano letto Iactio e
spiegavano e io se bene abbia di colpa laccio (Baudi di Vesme); altri come il Federici, seguito dal Rocchi e dal
BciiiMKR, senza averci colpa; cosi che per gli uni il poeta si direbbe peccatore, per gli altri no. Il codice in realtà
legge iactio, non Iactio; ma questa nuova lezione non rischiara per nulla il verso, ohe io rinuncio a spiegare.
— 383 —
di stravagante incoerenza, trovare nel dialogo la esplicazione, la prova dei consigli
dati nel prologo ?
Né se, lasciato questo in disparte, ci volgeremo a studiare il dialogo, ci verrà
fatto di togliere di mezzo i nostri dubbi. Essi al contrario cresceranno rapidamente.
Due uomini, cosi comincia il racconto, movendo da diverse, anzi opposte, direzioni,
si incontrano, né è detto dove, sali' albeggiare e si chieggono reciprocamente noti-
zie dell' esser loro.
E qui ci si fa innanzi un primo intoppo. La seconda strofa , colla quale il dia-
logo aveva principio, è disgraziatamente così malconcia nel codice, che dei nove
versi di cui constava, soltanto sei ne rimangono, e senza legame fra di loro:
Qnillu (l'oriente pria altia l'occlu si llii spia
addemandaulu tuttabia corno ei-a corno già.
« Frate meu de quillu mundu bengo ,
loco sejo et ibi me combengo. > '
Questi due ultimi versi racchiudono, come è chiaro, una risposta. Chi la dà?
Il Baudi di Vesme pensa sia l'Occidentale," e con lui s'accordano nel crederlo il
Navone' ed il Bòhmer.' Ora, posto ciò, noi dovremo credere che col quillu del verso
seguente (Qtdllu, auditu stu respusu) sia indicato 1' Orientale, che, incoraggiato da
una benevola risposta {honu et cmiurusu), invita l'altro a fermarsi seco lui e lo sup-
plica a permettergli alcune interrogazioni. E l' Occidentale accondiscende non meno
graziosamente di quanto avesse già fatto.
Cosa volesse domandare l'Orientale, una disgraziatissima lacuna ci vieta ora di
saperlo. Ma probabilmente egli chiedeva ed otteneva ragguagli sulla vita che l'altro
conduceva nel paese donde era venuto; tanto infatti si deduce dai versi che seguono,
i quali contengono la conclusione che, uditi i racconti dell' Occidentale, ne traeva
l'Orientale. «Io credo, egli dice, a tiitto quanto mi hai raccontato intorno alia
vostra dignità. Adesso chiariscimi d'un' altra cosa. Poiché voi menate sì felice esi-
stenza, quali vivande mangiate? Sono esse così saporite, così gustose come le
nostre? » " L' Occidentale si adonta di tale richiesta. « Di quali scellerate vivande
parli tu? ei prorompe. Noi abbiamo vivanda purgata, una perfetta vigna, che sem-
pre dà frutto. In essa noi ritroviamo tutto ciò di cui abbiamo desiderio, e il solo
vedere ci sazia. »" L'Orientale a tal risposta trasecola. « 0 qualvita conducete voi,
se non mangiate né bevete? Io non so come un uomo che né mangia né beve, siman-
' Navoke, o. 0., p. 107.
' Op. cit., p. 41.
' Op. cit., p. 104.
' Op. cit., p. 144.
' vv. 43-48.
' vv. 49-56.
— 384 —
tenga in vita. » ' L' altro allora gli dà della sua meravigliosa asserzione una spiega-
zione anche più meravigliosa. «Noi non mangiamo ne beviamo, perchè, non ne
proviamo mai alcun bisogno. »" « In tal caso, osserva l'altro, voi non siete uomini,
ma angeli. » ' E il dialogo è terminato.
Ora, quando si distribuisca il dialogo fra 1' Orientale e 1' Occidentale come si
è fatto, resta possibile il riconoscere in esso un contrasto fra due monaci, uno
de' quali intende a far persuaso 1' altro che la regola da lui seguita è inferiore alla
propria? Niuno, pare a me, potrebbe affermarlo. Che se volesse farlo, vegga prima
a quali assurdità andrebbe incontro. Come! è il monaco Basiliano, il rappresentante
cioè di queir ordine che imponeva ai suoi adepti un tenore di vita rigidissima, che
considerava suprema lode nell'asceta l'astinenza da ogni cibo, il quale messo a tu
per tu con i;n benedettino , non si preoccupa quasi d' altro se non di chiedergli no-
tizie su quello che mangia, e per di più vuol sapere se si nutrisca di vivande tanto
delicate e gustose quanto quelle di cui egli è solito cibarsi?* E sarebbe un Benedet-
tino, il quale sta a raffigurare quella regola, che, mite fin dagli inizi, era andata
col volgere del tempo raddolcendosi a tal segno da essere non solo riguardata come
di tutte la più indulgente, ma da porgere amplissimo argomento a fieri rimbrotti; '
' vv. 56-62.
- Uomo ki fame unqua non sente Non è sitiente, dico qiii il testo; ed è sentenza ben strana, anzi addirittura
jiiiva di significato. Il Rocom però ha creduto non inutilmente spese due pagine a dimostrare che se la sentenza,
presa in maniera assoluta, è falsa, tuttavia, « interpretata giusta un senso spirituale », può reggere, perchè verrebbe
a dire « che chi può reprimere la fame potrà molto più facilmente la sete » (o. e, p. 63). Per quanto sottile l'argo-
mentazione del Roccm non persuade me, come non ha persuaso il Bòhmer, il quale, giudicando corrotto il testo.
cosi lo restituisce:
[Quìllu] homo ki [la] fame unqua non sente
[Ni ki unqua mai] non è sitiente
[di] qued a besonju, tebe saccente,
de manducare, de bib(o)re niente?
Il rimedio è, per verità, troppo violento; ed io preferisco togliere l'incongruenza avvertita con una modifi-
cazione del testo assai più lieve. Si supponga infatti che il oopi.sta abbia per orrore scritto non è in luogo di vim ?
(«è è: off. homo ki nini 6ciie,v.60). e basterà perchè il senso corra chiarissimo, e insieme col senso, soppressa la pausa
dopoiifiCKfe ed il punto fermo dopo bibere, anche il periodo:
Homo ki fame unqua non sente nim è sitiente
Qued a besonju, tebe saccente, de manducare, de bibere niente?
• ' vv. 63-72.
' Navone, pag. 104.
"■ Che ben grave fosse la corruzione in cui sullo scorcio del secolo XII ora caduto l'ordine di S. Bene-
dotto, ninna testimonianza, frale parecchie che si potrebbero citare, lo mostra meglio dello eloquenti in-
vettive di cui fa segno i suoi confratelli 1' Abate Gioacchino. AUquanta regule capitula , scrive egli in un passo
che credo utile riferire (fiomm. ad Apocal, Gap. 3, Text. 4, fol. 80, e. 3), ita absorta siint ac si non ea sanctus Benedicins
edideril, nt est precipue de opere manuum et de abstinentia ciborum acpotus; quod ideo accidisse cognoscitur, quia
dum divites esse voluerunt sub regala paupertatis, facti sunt dilicati et teneri; facti sunt invalidi et infirmi; facti
sunl quibus lacte opus sii, non solido cibo. Me mirum Quis enim miquam Inter divitins et delitias potuit tenere ino-
pem vitam et castitatis i)roj)OSitum ubi multi sunt cibif E poco appresso, accennati altri e peggiori vizi ai quali ì
monaci s' abbandonavano, riprende a battere sul chiodo del digixrno: Tunc sunt vere monachi, si de labore mammm
suariim vivant; quod omncs ab esu carnìum abslincri dcbeant, preter omnino debiles et egrotos ; qiwd duo imlmenta
coda quotidie patribus sufficere debeant.... quod sic vino, quod omnino monacliorum non est, liti liccat, ut nunquam
lamen usque ad ebrietatem et salietatem bibamus. E non meno corrotti degli italiani i monaci d'oltremente, so un
poeta popolare vi poteva schernire, come notoria, per bocca di Renart, la ghiottornia dei Benedettini: Il manjuent
fourmages motis Et poissons qui ont h-s gros cous: Saint Benoil le nons commandc Que ja n'aions pejor viande {Roman
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che pronuncierebbe il curioso predicozzo , da cui risulta che egli ed i suoi compagni
di nuli' altro si pascono che della vista di una vigna? Nò vi è modo di eludere la
difficoltà ricorrendo, come altri ha ingegnosamente tentato, all'allegoria e cavan-
done motivo di credere che il cibo, del quale si discorre, sia spirituale, non già cor-
poreo ; e che cosi 1' Orientale, chiedendo all' altro di quaU, vivande sia solito gustare , in-
tenda domandargli in simbolico linguaggio, con quali studi , con quali letture educhi
e nutra il suo intelletto.' Non si può, ripeto, reputare simboliche queste domande,
dal momento ohe 1' autore stesso ci ammonisce doversi interpi-etare alla lettera le
sue parole, quando, alla richiesta del primo interlocutore, « Ma se voi non mangiate,
come riuscite a mantenervi in vita? »; fa rispondere dall'altro con un discorso che
pretende offrire deUa cosa una luminosa ed irrefutabile dimostrazione: esser cioè fa-
cilissimo fare a meno di mangiare e di bere per chi di soddisfare a questi bisogni
della carne non prova mai la necessità. Strane parole, che, sia prese in senso alle-
gorico, sia letterale, conducono a conclusione più strana. Giacché, se noi le inten-
diamo figuratamente , udremo de' monaci confessare che di esercitare ed erudire con
pie letture la loro mente non si curano, perchè di farlo non hanno veriin bisogno:
se poi le spieghiamo letteralmente, sentiremo questi stessi monaci affermare che
essi erano avvezzi a vivere senza mangiare, perchè la vista di una vigna bastava a
saziarli. E se la prima conclusione è assurda, questa diviene addirittura ridicola.
Se, spaventati, ed a buon dritto, dalle conseguenze alle quali siani giunti, ci ri-
faremo sui nostri passi e tenteremo di distribuire in altra maniera il dialogo, evi-
teremo in parte le difficoltà che abbiamo incontrate, ma urteremo perù contempo-
raneamente in altre non meno gravi. Si provi infatti a vedere se, posti in bocca
all' Orientale, suonino meglio que' discorsi che sulle labbra dell' Occidentale riuscivano
tanto incongrui: si ammetta che primo ad introdurre il discorso sia questo, non
quello. ' Ed allora il dialogo parrà suUe prime assumere un andamento più logico e
naturale; giacché è assai più conveniente che colui il quale giunge da remoto e
misterioso paese sia interrogato sulla sua vita, le sue consuetudini, di quello che
de. Renart, ed. Martin, in, Sò'ì-òg); anzi le invettive ohe S. Bernardo e Guiot de Provins scagliano contro i Clunia-
censi (S. Beenaedo, Apol. de vita et morib. religios., in Opp-, II, p. 236 e segg.; Guiot de Peovins, Bible, in Méon, Scc.
de Cont. et Fabl., II, p. 304 e segg.) sono anche più virulente e più gravi di quelle dell'Abate Gioacchino. A qual
grado di abiezione fosse poi sceso verso il seo. XIII lo stesso ordine di S. Basilio, mostrano i fatti narrati dal Ko-
DOTi, 0. 0., p. 130 e segg.
' Così il Bohmek: Dar Orientale, der nicht merkt, dass dcr Andcrc in dem liohen Stiì, in dem cr angefangen halle
SII reden, von MitteJn geistigen Lebens spricht, uiid bcsonders an litterarische Kant denkt, gerillh in edle Bntriiatmig
Uber die Genussmcìd des Andern: « Was filr ein zmsinnigea Wort! • rufl er mis. « Wie toar das ilbel erdacM? Wo in
aXUr Welt lia^t du deine vermchte Kost geatccht? Wo liast du aie au/gespeichert? » Wir, iat die Antioort, haben rcine
Koat, die Benedici bereitet hai, einen volkommenen Weinberg eco. (o. e, p. 14i-15).
' Questo ha fatto il Rocchi, il quale induce l'Occidentale a muovere all' Orientale le domande intomo aUa
vita che esso conduce, ai cibi di cui fa uso, ecc. Ma egli cade poi in un cimoso controsenso, non evitato nem-
meno dal BònMEE, facendo rispondere l' Occidentale stesso alle domande che egli aveva fatte ! È curioso poi il
vedere come, mentre il Bohmer cerca di ridurre la menzione tanto dei cibi quanto della vigna ad un senso al-
legorico, il Roccm invece si affanni ad asserire che la pcr/ecta binja era una vigna vera e propria, dei frutti della
quale si nutrivano i Cassinosi, ed almanacchi per scoprire a quale fra i vigneti che il Cenobio possedeva nel sec. X
abbia potuto alludere il rimatore! (o. e, p. 52).
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iuterroghi egli stesso altrui. Ma ben tosto eccoci ricaduti nel solito inesplicabile con-
trosenso ; alla domanda infatti che gli vien mossa sulle vivande di cui fa uso, l' Orien-
tale si sdegna, e, rimproverando il suo curioso interlocutore, afferma che egli vive senza
toccar cibo. E l' asserzione , piu" trattandosi di un asceta orientale , non è per questo
meno bizzarra; poiché, se è certo che gli anacoreti della Tebaide o più tardi quelli
della Calabria seppero portare ad un grado mirabile veramente 1' astinenza ed il
digiuno , di nessuno di loro però gli agiografi anche più creduli riferitori di prodigi
hanno ardito affermare che sapesse mantenersi vivo senza mangiare mai né mai
bere. E del resto, dato anche che ad una così stravagante conclusione avesse voluto
venire 1' autore del Ritmo , non vi sarebbe mai modo di veder in questo una apologia
della regola benedettina. Al contrario , esso verrebbe a risolversi in un iperbolico
elogio della austerità del monachismo greco , in cui la parte meno onorevole la rap-
presenterebbe quel Benedettino, il quale osa parlare ad un uomo, dedito tutto allo
cose celesti, di godimenti, se ignobili per loro natura sempre, per lui ignobilissimi.
Ora è desso possibile un panegirico della regola basihana, che conchiude per suo-
nar biasimo alla latina, quando il Ritmo si attribuisca, come é probabile che vada
attribuito , ad un Cassinese ?
Da qualunque parte adunqiie si rivolga il passo, la via resta senza uscita; né
v' è maniera di sostenere più oltre la opinione già esposta. Non solo il Ritmo non
può stimarsi un contrasto fra due monaci appartenenti a diversi ordini; ma non si
può nemmeno ammettere che esso intenda ad esaltare le istituzioni benedettine.
Eppure, odo obbiettarmi, che di queste istituzioni si tratti, lo mostra un fatto,
che toglie valore e forza ad ogni dimostrazione in senso contrario. Dice uno dei per-
sonaggi di sé e de' compagni suoi: Bidand' ahemo purgata da henitiu preparata. Ora,
dove si può rinvenire una più chiara, aperta , precisa allusione allo stato monastico
di codesto interlocutore del componimento ? La vivanda preparata da. Benedetto che
altro sarà se non la regola claustrale da questo Santo istituita?
Che la frase da henitiu prepiarata sia da giudicar quella appunto che, rendendo
più fitte e più impenetrabili le tenebre che essi volevano diradare, ha maggior-
mente contribuito a mettere sopra una falsa strada tutti coloro che si sono fin qui
stillati il cervello intorno al Ritmo nostro, non può esser dubbio. E per essa soltanto
ohe si è ingenerata nell' animo dei più la persuasione che il componimento, o in
un modo o nell'altro, finisse per essere una apologia della regola benedettina. Ep-
pure in essa vi ha qualche cosa di così grave, di così inesplicabile, che avrebbe do-
vuto metterli sull' avviso.
Da henitiu preparata si deve intendere, così dicono tutti, preparata da Benedetto.
Ma in quale dei volgari italiani ed in qual tempo ed in qual modo, domanderò io,
può la parola henedictus essersi trasformata in un henitiu, forma che viola ed offende
ogni più nota legge di derivazione ? ' Che henedictus abbia dato henedìctu e quindi
' Il solo Rocchi ha avvertita la singólax'itii di questa l'orma. « Non ho alti-o volgai'ismo , cui riscontrare so
non che la voce Benito degli Spagntioli » egli scrivo (o. e, p. 52): ma da Benito a Benitiu co ne corre! Supposta an-
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hnnedittn nei dialetti meridionali è chiaro ; ma che no sia potuto in questi stessi dia-
letti uscir fuori un benitiu, è assurdo soltanto il supporlo.
Sotto questo mostruoso henit'm nou sarà duncpie celato un errore? 0, meglio,
non sarà il caso di credere che gli illustratori del Ritmo non hanno saputo interpre-
tare a dovere le parole da benitiu preparata ? Si badi al luogo che esse occupano nel
testo. Il poeta sta descrivendo una vigna, che ha proprietà meravigliose; è questa
2)ei'fecta binja piantata, de tuttu tenpu fructata, che offre la, j)urgata vivanda, della quale
si ciba uno dei protagonisti del componimento. 0 che in questo caso da benitiu pre-
parata debbasi scomporre e leggere, non da benitiu, ma bensì dab enitiu preparata;^
apparecchiata dal principio del mondo, ab initio mundi? Ci pensino i lettori; questa
vigna, che è perfetta, purgata, che in ogni stagione porta frutti, nella quale si rin-
viene quanto si brama, che pasce altrui della sola sua vista, nou può essere altra
cosa che la vigna del Signore, quella che simboleggia la vita eterna, il regno cele-
ste, che Iddio ha preparato fin dal principio del mondo per quegli eletti a cui tutto
concederà quanto vorranno domandargli. '
Eliminato cosi questo ostacolo, che pareva a primo aspetto insuperabile, noi
potremo adesso più francamente asserire che il Rimatore non ha mai pensato a met-
tere in scena de' monaci, i quali disputino fra di loro sulla bontà degli ordini a cui
appartengono o cospirino coi loro discorsi a fare l' apologia di una determinata isti-
tuzione. Basiliani come Benedettini qui non hanno davvero nulla a che vedere.
Ma in questo caso che mai ha voluto fare 1' Autore ? Vediamo adesso di sco-
prirlo: e dacché i sentieri fin qui battuti non hanno saputo condurci alla mèta, ten-
tiamo una via inesplorata. E forse il bandolo dell' intricata matassa , invano ricercato,
sipreseuterà spontaneo, quando, in luogo di ostinarci a vedere nel Ritmo un eco più o
che la caduta del d, qui neppur essa ammissibile, avremmo sempre Boieito, ad una notevole dist.anza da benito;
non mai benitiu.
' Nel codice la linea 33 termina colla sillaba da e con benitin comincia la 3i. Questa, se non m' inganno, è
forse stata la cagion prima che ha indotto gli editori tutti del Ritmo a ritener da benitiu due distinto parole. Sic-
come però il copista cassinese è solito spezzare in fine di linea le parole (ofr. linea 6, 13, 32, 89), cosi parmi lecito
supporre che egli abbia diviso anche dabenitiu, cedendo alle esigenze dullo spazio, non già perchè volesse indicare
che era da leggere piuttosto da benitiu che dab enitiu. Né mi pare che si possa trovar occasione a i-igettare la mia
congettura in quel dab, ohe è forma inusitata; giacché non è punto impossibile che nella preposizione nostra da,
la quale si ritiene comunemente risultare da de-\-ad, sia venuto anche a confluire anche de-\-ab. E del resto la
frase «6 initio, che ricorre tanto di sovente e sempre con un senso determinato ed uguale nelle sacre pagine
(cfr. poncELUNi, s. v.) potrebbe esser stata considerata dallo scrittore nostro come una sola parola e fatta quindi
precedere dalla preposizione da.
■ Venite, benedicti Fcdris mei; pos3idete regnum vobis paratimi a constitulione mundi. Matth., XXV, 34.
Omnia qucecumque petieritis. — Id. XXI, 22. È ben noto quanto ricorrano frequenti nelle saere carte le .lUegorie
tratte dalla vigna: e, per tacere dei molti passi della Bibbia ove la Chiesa di Dio si vuol raffigurata sotto Pimmagine
di una vigna piantata e coltivata dal Signore, basti citare quel celebre luogo di S. Giovanni (JSc. XV, 1): . Io sonla
vera vigna e mio padre S il vignaiuolo.... io sono la vigna e voi i tralci.... » I più antichi documenti della tradizione
ecclesiastica riproducono le medesime idee, e la vigna ricorre cosi in monumenti scritti come figurati a simboleg-
giare non solo la Chiesa, ma il Paradiso, la vera terra promessa, ed apche il mistero eucaristico. Ved. Mar-
TiGXY, Dict. des Antiq. Chréticnnes, Paris, 1877, p. 796 e anche W. Smith, Dici, of Clirist. Antiq., London, 1S80, II,
p. 2018. Nulla di più naturale quindi olie della trita allegoria si sian giovati anche i poeti volgari. Così un troviero
della Fiandra, Jran de Doui, ha composto un Sermone rimato. Li Dis de la Vigne, in cui paragona la coltivazione
della vigna alle cure che richìeile il servizio divino. {Hist. Littér., XXni, p. 252).
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meno fedele di fatti storici, o almanco reali, lo considereremo come una pura alle-
goria ed i suoi personaggi quali esseri fantastici, astratti, creati dal poeta per me-
glio dichiarare ai suoi uditori quelle dottrine, delle quali li aveva cliiamati a gu-
stare la salutare essenza.
Ed è appunto 1' autore che ci assicura esser questa la .via che si deve seguire ,
quando a quei versi del prologo, nei quali ha manifestate le cause che lo indussero
a scrivere, ne fa seguire altri che suonano cosi:
Aio nova dieta per fegura,
ke da materia no sse transfegura
e ccoir altra bene s' afi'egnra.
La figura desplanare ca poi lo bollo pria mustrare : '
Il discorso ha, manco a dirlo ! parecchio del sibillino. Tuttavia il concetto del
poeta si afferra abbastanza facilmente: egli afferma che ha da esporre nuovi detti,
i quali, sebbene siano da intendere figuratamente, pure non s' allontanano per que-
sto dalla materia presa a trattare, ma con essa bene si confanno. Ora, la materia
presa a trattare è la vanità di questa vita e la necessità di conseguire 1' altra; nel
componimento dunque il poeta svolgerà una narrazione allegorica, della quale
quindi verrà a dichiarare il significato. Questa dichiarazione però, questo desplanare
la figura, noi li cercheremmo invano nel Ritmo quale ci è giunto, poiché esso
termina bruscamente con il racconto, e nemmen questo forse è compiuto. Più che
probabilmente adunque alla lacune già avvertite nel Eitmo, è da aggiungerne
un' altra alla fine: nel codice cassinese il componimento è mutilo.
Ecco dunque come, a mio avviso, è da interpretare il Ritmo. Il poeta, che era
probabilmente un monaco, fors' anche un cassinese, e fioriva in iin'età, della quale
non si possono determinare con precisione i limiti, ma che deve credersi non ante-
riore all'undecime, non posteriore al secolo decimosecondo, desideroso di fare espe-
rimento del proprio ingegno, e nel tempo stesso riuscire giovevole agli altri, si è
accinto a dettare una esortazione a coloro che, immersi nel fango dei terrestri go-
dimenti, non sanno innalzare a più eccelsa mèta i loro sguardi, per indurli a scuo-
tersi dal torpoi'e ed assorgere, purificati, alla contemplazione delle gioie oltremondane.
E per rendere non solo più efficaci i suoi ammonimenti, ma anche più comprensibili
al o-rosso intelletto dei suoi rozzi uditori, ha stimato opportuno rivestirli di forme
concrete, direi quasi palpabili, e di coprirli della veste trasparente dell'apologo,
della allegoria. Perciò ha foggiati due personaggi, dei quali l'uno, vir magnu a pru-
dente, vestito forse delle lane monacali, ' sta a raffigurare 1' uomo dedito alla vita spi-
' Il GioKGi scrive lìcsplauare ; e per verità nel ood. fra Vn e l'it vi sono dello incertezze e facilmente imo
esser prosa una lettera per l'altra. Ma ohe qni si sia scritto desplauare non mi riesce credibile.
' Uso di una forma dubitativa, perchè, se mi pare ben probabile che r Autore dovesse considerare incarnata
nel monachismo la perfezione spirituale e quindi facesse un monaco del personaggio che la simboleggia, non trovo
però nel Eitmo indizio veruno cbo permetta di affermarlo con la sicurezza, di cui altri di\ prova. Erroneo è in-
fatti por chi abbia a mente l'uso larghissimo che si faceva nel Medio Evo del titolo ài fi-afelio, il vedere nel/j-n/c,
con cui più volte i due personaggi si apostrofano, un' allusione alla loro condizione (Rocchi, o. c, p. xxui). Ad ogni
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rituale; l'altro a simboleggiare quello che giace sotto l'impero dei sensi. Ed in
bocca al primo, che giunge da una regione ignota e misteriosa, anzi oltremonda-
na, ' ha posto parole che descrivono le gioie di una esistenza, sciolta da ogni lac-
cio terreno; gioie che dall'Occidentale, incapace di raffigurarsi altri godimenti che
non siano quelli a cui aspira, son riputate simili a quelle, di cui fruiscono in que-
sto mondo coloro che son detti felici; perciò egli chiede se anche le vivande laggiù
siano così saporite e gustose come qui. E quando ode rispondersi che di vivande
non fa bisogno in quel beato paese, accoglie con incredulità e stupore la xisposta e
protesta che il suo interlocutore, se vive senza cibarsi, non deve esser un uomo. E
cosi il dialogo non poteva terminare; ma l'Orientale probabilmente proseguiva ed
induceva con i suoi discorsi uell' animo dell' Occidentale un santo desiderio di co-
noscere egli pure, ripudiate le mondane e fallaci lusinghe, quella soprannaturale fe-
Kcità, di cui gli era dipinto Im tanto incantevole quadro. Ed a questo punto doveva
riprendere la parola lo stesso poeta, e, chiudendo il suo componimento, avvertire che
i due personaggi non erano che simboli, l' imo della vita terrena, l'altro della cele-
stiale, e che per conseguire il perpetuo possesso di questa, faceva mestieri dispre-
giare qidstu mundu gaudebele ke V iinu e W altru face mescredebele.
A chi ora mi domandasse se io creda che questo piano, se non molto artiiizioso
pure abbastanza bene architettato, sia uscito dalla mente del nostro Rimatore o non
piuttosto egli 1' abbia preso a prestito da altri, non saprei dare una categorica ri-
sposta. Argomenti infatti non mancano a favore cosi dell'una, come dell'altra sup-
posizione. In quella scrittura, ben due volte ricordata nel preambolo, alla quale il
poeta è lieto di accordarsi ed a cui vuole pongan mente gli uditori, taluno potrebbe
vedere indicata la fonte , della quale il Nostro si è giovato, fonte che egli cita come te-
stimonianza della veracità dei suoi racconti, a quel modo stesso che nei giullareschi
cantari, da cui egli ha certo tolta a prestito la formola con la quale, cominciando a par-
lare, chiede ai Signori che 1' attorniano attenzione e silenzio , viene ricordata a sazietà
la letre, il iivre, la storia. "" Si potrebbe in questo caso supporre che egli, avendo sot-
t' occhio uno di que' componimenti parenetici latini, de' quali era così doviziosa la
letteratura monastica del Medio Evo , siasi proposto di volgerlo nell' idioma del vol-
go, perchè questo pure potesse fruire delle salubri dottrine ai dotti soltanto acces-
sibili. Ma potrebbe anche darsi che la menzione del testo fosse presso il Nostro
modo, se è monaco l'Orientale, che si conviene coi suoi soci nella dimora donde è partito (iòi me combengo, v. 30), non
può esserlo certamente 1' Occidentale.
' Il contrasto fra quel mondo, quiìln mundu donde 1' Orientale giunge (v. 29) e questo , di cui si p.arla nel
Proemio, quistu mundu; le vivande celestiali e queste nostre (v. 48), è troppo chiaro ed aperto perchè non debba te-
nersene gran conto da noi.
• La formola d'introduzione è quella solita adoperarsi dai giullari, che troviamo usata anche dai poeti mo-
rali popolari; Ugucoione da Lodi (ed. Tobler, v. 235-2^9); gli autori della Passione di Gesù Cristo {Stud. di FU.
Eoiiu, II, 243) ; dell' Amore di Gesti, (Mussafia, 3Ion. ant. di dìaì. itah in Sitz. der ìc. Ak. der Wiss., XLVI, 158 , e infiniti
altri. Più comune l'uso di interpellare l'uditorio con il nome di (/ente o buona gente presso costoro; non mancano
però casi, in cui si trova adoperato quello di signori e magari unito all'altro: Signuri, bona gente. Fonate core e
mente Alte sauté pnroìe, scrive Buccio di Eanallo (Mussafia, Ziir Katliarinenìeìi-, Wien, 1883, p. 23).
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nuli' altro che uua gherminella, essa pure solitamente adoperata dai giullari, per
accrescere autorità alle proprie parole. Ad ogni modo, anche se il Rimatore non ha
ricorso ad una fonte determinata, non è però da escludersi che egli abbia fatto suo
prò di tradizioni e di racconti già ai tempi suoi divulgati. Se si raccolgono gli ele-
menti essenziali del suo allegorico racconto, sarà facile avvertire come essi manife-
stino singolari rapporti con quelle leggende, popolarissime nel Medio Evo, che
descrivevano sotto forme diverse sì, ma pur sempre strettamente collegate, quel beato
soggiorno, da cui l'umanità era stata bandita per il delitto del primo parente: il
paradiso terrestre.' Questo ideale paese, già sogno dell'antichità, nelle tradizioni
medioevali è quasi sempre descritto come una plaga deliziosa, collocata nell'estremo
oriente , ricca d' ogni tesoro , abitata e custodita dagli angeli , tale ancora quale Id-
dio la creò al principio del mondo. Chi giunge per avventura a scoprirla, a var-
carne la soglia vietata, non prova jjìù alcun bisogno, alcuna sofferenza; non la
fame, non la sete, non freddo, non sonno; né tristezza, né infermità veruna. Perde
ogni nozione del tempo; i secoli pajono giorni per lui che, giovane sempre, quan-
tunque gravato dalla spoglia corporea, diviene simile alle angeliche intelligenze. "
Ora, per quanto è lecito arguire dai frammenti che ne rimangono, press' a poco
uguale nelle linee principali era a queste la descrizione del soggiorno , donde uno
degli interlocutori del Ritmo proviene. ' Anche in questo ignoto paese, collocato,
' Ved. Maurt, Lt Paradis Terrestre in Notw. Enciclopédie (ed. Didot); A. Geap, La leggenda del Paradiso
Terrestre (Torino, 1875), E. Beautois, L'Elysée transatlantique de VEden Occidental (Paris, 1884).
■ Una deUe forme sotto le quali la leggenda è stata più popolare nel Medio Evo, devesi senza dubbio
ritenere quella cbe narra il viaggio del monaco irlandese Brandano alla Terra Repromissionis Sanctorura (Ved. Jcbi-
NAr,, La legende latine de S. Brendaines (Paris, 183"), Suoni er, Brandnns Se^ahrt, in Jìom. Stiid. I, 553 e segg., F. Mi-
chel, Le voyage merveilleux de S. Brandan (Paris, 1878), per tacer d' altri. Orbene, in questa leggenda il meraviglioso
paese è cosi descritto: Sicut vides modo, ita[ista insula] ab initio mundi permanet. Indiges aliquid cibi-aut potus aiit
vestimentif Ptr «imm enim annum es in hac insula et non gustasti de cibo atit de potu; nunquam fuisti oppressus sonino,
lìec nox te coopemit. Dics namque est sine ulta cediate tenebrarum hic. Nelle redazioni posteriori della Peregrinano
dive navigano Beati Brandani la terra promessa offre una profusione di tesori e dì gemme; particolari questi in
esso confluiti dalle descrizioni affini della Gerusalemme Celeste. Lo stesso regno dei cieli è dipinto dai SS. Padri
come un eterno verziere, dove i beati si inebbriano del profumo dei fiori. Inde per eximios paradisi regnai
odores Tempore continuo vernant uhi gramina rivis, dice una iscrizione cristiana dell V secolo, edita in De Bossi,
Inscr. C'hrist. Urbis liomae, I, p. 141, n. 817. E ofr. Maktignt, o. c, p. 674.
" Le gravi lacune che esistono nel Ritmo Cassinese ci vietano dì verificare quanto la dignitate, la gloria, il
disduUu, in cui vivono 1' Orientale ed i suoi compagni, risponda nei suoi particolari alla beatitudine, della quale ,
secondo le leggende ricordate, fruiscono nella terra promessa dei Santi o nel paradiso deliziano gli avventurati
che vi penetrano. Qualche raffronto tuttavia si può fare, e non senza interesse. Sì rammenti la mistica vigna,
dove vien fatto di ritrovare tutto quanto si desideri:
en quale cumqua causa delectamo
tutta quella binja lo trobaio.... (v. 55-56)
E si ofr. più oltre :
Quantnnqua dou petite tnttu lo 'm balia tenete (v. 70).
Orbene: l'adempimento d'ogni desiderio, non appena venga concepito, ò appunto uno de' più singolari privilegi,
de' quali godano gli abitanti del paradiso terrestre. « Ogni piacere che a noi dilettava, tutti gli avevamo a compi-
mento », dice S. Brandano nella leggenda italiana (Vu-lari, op. cit. p. 105); e nella francese si afferma altrettanto:
Chi ci estrat.... De tuz ses bovs anra plentet; <^'o que plus est sa voluntet, Cel ne pei'drnt, suurs en est; Tuz dis Vaurat et
truvrat presi (Micnioi. , op. cit., p. 85). Anclie nell' immaginario paradiso terrestre che Kenart descrive ad Isengrin
per indurlo a scendere nel ponzo, b questa una delle più lusinghiere attrattive: X'estovoit cele rien rover Qu'en ne
poilsl Hoc trover.... De toz biens ert li lius garnis. (Rom. de Ren. ed. Martin, vi. 619-'.ì0, e cfr. iv, ii6n.) La stessa vigna,
— 391 —
pare, nel!' estremo Oriontc , nella più remota parte del mondo , per non dire in un altro
mondo, regna etorna letizia; ogni bisogno vi si acqueta , ogni brama si appaga nella
contemplazione di una mirabile vigna, perpetuamente adorna di frutti. Io non diro
adesso che questa terra idoleggiata dalla fantasia del Rimatore sia proprio il Pa-
radiso Deliziano o la Terra promessa dei Santi; ma certo si è che fra queste rappre-
sentazioni e la nostra troppe e troppo -singolari rassomiglianze intercedono , perchè
non si debba inferirne che il nostro rimatore conosceva codeste creazioni già tradi-
zionali, e che, pur rifoggiandole ed elaborandole a modo suo, ne ha cavato partito.
E d' altronde il sentimento onde queste fantastiche narrazioni sono sgorgate, è
pur sempre il medesimo: quell'aspirazione all'annientamento pieno del corpo, al-
l'assoluta prevalenza dello spirito sulla materia, all' «Zto nichilitade, che è in tiitte
le religioni l' ideale sublime ed inafferrabile dell' ascetismo.
Quale valore possano avere le congetture che io sono venuto esponendo , altri
dovrà giudicarlo. A me basti soggiungere come non abbia con esse preteso di scio-
gliere vittoriosamente il problema ; di presentare del Eitmo Cassinese una interpre-
tazione atta a dileguare ogni incertezza, ogni dubbio. A tanto non potrebbe riuscire
se non chi conoscesse, per lo meno, nella sua integrità il componimento: non quindi
lacunoso e monco, quale lo possediamo. Ma se anche le mie indagini si riputassero
prive di risultati positivi, non per questo saranno del tutto infeconde. Se non ad
altro, esse avranno giovato a dimostrare come ninna delle interpretazioni sin qui
escogitate del Eitmo Cassinese regga alla prova di un accurato esame.
F. NOVATI.
de ttittu tempii /ruotata , appartiene alla classe di quelle meravigliose piante crescenti nella celestiale dimora, che
sono in ogni stagione cariche di frutti: Fructua in annos est, cum tempora nesciat anni, come scrive nel suo Hexaeme-
ron (I, 63) Dracokzio. E come nel Ritmo, da queste ragioni si è indotti a chiamare angelici gli abitanti in tutte
le leggende del Paradiso terrestre. Angelici cives meenia nostra tenent, dicono Enoch ed Elia ai naviganti bret-
toni, dei quali descrive il viaggio Goffredo da Viterbo (Pantheon, P. II, in PisTonius, Gcrmnn. Scrii)t. etc, Franco-
furti, 1.584, col. 80); e gli antichissimi Atti di S. Maclodio raccontano come questi movesse con S. Brandano verso
un'isola, in qua fama ferebatur coelicos cioes inhabitare {Acta S. Madodii citati dai Bollandisti negli Acta Sanctor.
Maii, III, 602). S. Brandano stesso, l'avventurato scopritore, ne ottiene nelle leggende pie del tempo il sopran-
nome d'Angelo (Rem S. Cartliagus prophetatus est ab Angelo S. Brandano qui int'enit terram Repromissionis Sancto-
ìtcm etc. — (Vita 5. Cartftaci, Bollano., t. cit., pag. 378),
' Io non mi arrischierò in conseguenza a ricercare quale di queste leggende più specialmente abbia
avuta presente alla memoria il nostro poeta; ma non posso però a meno di far notare come il nome famosissimo
per tutta Europa del monaco irlandese Brandano, dovesse suonare in Monte Cassino doppiamente caro e riverito,
perchè una antica ti-adizione lo diceva ascritto alla regola di S. Benedetto. 1 Bollandisti dubitano assai che questa
pretesa abbia buon fondamento ; ma ciò non toglie che nel catalogo dei Santi Benedettini fosse ascritto per tutto il
Medio Evo S. Brandano, e che ve lo lasciasse ancora il Tritemio (Bolland., t. cit., pag. 603). Di più, fra i codici scritti
in Monte Cassino sul cadere del sec. XII uno ve ne era ed ancor si conserva, che conteneva la Vita S. Brendnui
(Cabavita, op. cit. I, p. 283); e fra i propri scritti Pietro Diacono, l'operosissimo monaco iìorito nel secolo seguente,
ne registra uno intitolato De terra repromissionis Sanctoruni (CARAvrrA, op. cit., I, p. 288), che non sarebbe arditezza
soverchia stimare un rifacimento della Peregrinatio S. Brandani.
DELLA OUANTITA PER NAITRA
DELLE VOCALI IN POSIZIONE.
Si è fino a jeri insegnato in tutte le scuole di latino e s'insegna anche oggi in
molte, che la vocale può esser lunga o per natura o per posizione; e la Regia Par-
nassi nota con un identico segno l'una e l'altra lunghezza, scrivendo, poniamo,
viortuus come mótus e sim. Ma negli ultimi decenuii si è venuto maturando
nella mente di più dotti un concetto diverso ; secondo il quale la lunghezza per po-
sizione è propria della sillaba, non della vocale che ne fa parte, e la vocale per sé
stessa può esser ivi così breve come lunga, né più né meno che quando é fuori di
posizione. La quantità della vocale in posizione non avrà alcuna conseguenza pra-
tica nella versificazione, e la prima sillaba di mòrtuiis (cfr. mori) varrà nel verso
tanto quanto la prima di pròmptus (cfr. pròmcre), e così ci mancherà il più va-
lido dei mezzi onde accertare la quantità delle vocali in ogni singola parola. Ma
non per questo saremo in tutto privi di qualche scandaglio anche per le vocali in
posizione, e ad ogni modo , manchi o no a noi lo scandaglio , "fuor d' ogni dubbio
è che i Latini dovevano porre, ad es., tra Vo di mortuus e Vo di promptxos
queUa stessa differenza, qual ch'ella si fosse, che ponevano fra Vo di mori e 1' o
di promere.
Oramai questo concetto è divenuto abbastanza comune , ed accenna a voler
penetrare nelle scuole mezzane, come ce ne dà indizio soprattutto il Manualetto or
son circa due anni pubblicato dal Marx. '
È un concetto, ben inteso, che, se con fatica è tornato a galla nel secol no-
stro , pegli antichi Latini doveva essere affatto semplice e naturale. Quand' anche
non ne avessimo le prove dirette, bisognerebbe a priori affermare che Cicerone,
p. es., e Quintiliano, e tutti i loro contemporanei, avendo il senso vivo della lin-
gua, e pronunziando essi e sentendo pronunziar dagli altri Vo di mortuus diver-
samente dall' 0 di p rompi US e via via, avessero un'idea chiara del significato
ristretto che ha l'attribuzione dell'identico peso nel verso alla prima sillaba così
dell' una come dell' altra voce. Ed anche quando l' esatta distinzione qiiantitativa.
' HiilfsbUchUin fiir die Aussprache der latelHìSchen Voìcale in positioìislanijeii SiWcn von Anton Mai
Vonoort von Franz Buchelbb; Weidmanu, Berlin, 1883.
— 394 —
tra le vocali lunghe e le brevi, venuta meno nella parlata quotidiana, rimase sol-
tanto come una tradizione letteraria dei poeti, degli oratori e dei grammatici, è na-
turale che per gran pezzo codesta tradizione conservasse abbastanza fedelmente la
px'onunzia dei tempi classici; cosicché i grammatici, poniamo, del III o del IV sec.
d. C, non solo dovessero ricordare in complesso la possibilità che vocali in posizione
differissero tra loro per la quantità naturale , ma anche esser degni di fede quando,
echeggiando norme già formulate nei tempi aurei, prescrivono di pronunziare
lunga o breve la vocale di lina singola voce o serie di voci. Ma, allorché il divario
tra la pronunzia del latino vivo e quella del latino colto si fu fatto sempre più
profondo e inveterato, e la letteratura e la civiltà tutta si fu viepiù offuscata, e la
tradizione grammaticale fu divenuta più artificiale, più magra, più fiacca, il buon
concetto della quantità di posizione dovè a poco a poco tramontare e venirgli di
rincontro spuntando quello cosi goffo che è poi durato fino ai dì nostri. Pur piace-
rebbe sapere, se fosse possibile, in qixal secolo per 1' appunto quel brutto cambio
avvenisse.
Ma il rimpianto Thurot, il dotto meglio preparato in Europa ad appagare in
una qualche maniera codesta curiosità , non sa dirci nulla di molto preciso. "
In Mario Vittorino, grammatico del sec. IV, trova ancora il buon concetto antico che
altri dotti additano anche in Pompeo, grammatico, pare, del cader del sec. V; in
un manoscritto poi del sec. IX, ove è commentata l'Ars major di Donato, il Thurot
trova per la prima volta esposto il falso concetto seriore, che dopo ritrova in un
altro consimile manoscritto del sec. X e in due grammatici del sec. XII e via via.
Un'altra curiosità può pur sorgere. Nel Rinascimento, in tanto lume di dot-
trina antica rediviva , in tanta gara di acume nel restaurare l' immagine dell' anti-
chità, è possibile che nessuno s' accorgesse del segnalare che fanno alcuni antichi
in alcune voci la vocale lunga o breve per natura in sillaba di posizione, né di altri
indizia cosiffatti? è possibile che nessuna di quelle menti cosi operose, cosi divinatrici,
s' imbattesse una volta o l' altra nel giusto concetto della posizione , anche per sem-
plice intùito ? Certo che non ci accade mai di ritornare a quei nostri vecchi, senza
restar sorpresi ogni tanto della grande somiglianza fra le intuizioni, i ragionamenti,
i pronunziati loro e quelli della moderna filologia , si in ordine alla lingua e sì aUa
critica e all' ermeneutica dei testi, alla storia letteraria e civile, alle antichità, e via
dicendo. La continuità che si scorge tra essi e noi è tanta, da farci considerare i
secoli che da essi ci separano, specialmente per l'Italia, come un vero medioevo
filologico. Or bene, riguardo al soggetto di cui ci occupiamo, il medesimo Thurot
ha fatto le sue ricerche, ed ha trovato che uno di quei dotti, un solo, vi abbia fatto
cenno. Gherardo Vossio (1577-1649) nel De Arte grammatica II, 12, osserva la vo-
' V. De Vemploi tUs mota OéGn posinone tn pi-osodic , ueUa liei'uc de philolonie, IV, 92-97 (a. 1880); ristamiiato in
appendice alla Prosodie latine ooc. par Cn. Thdrot et E. Chatelain, 1882. Devo saper grado alla cortesia dell'Ascoli,
dell' Inama o del Paris, se ho potuto avere questo breve quanto erudito lavoro, e l'altro, clie più giù sarà ricor-
dato, dell' Havet.
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cale lunga per posizione poter esser breve per natura, e ricorda Xs^ctór. Ad ogni
modo questo cenno non ebbe séguito. Basta guardare il Portoreale !
Nel nostro secolo poi il concetto giusto doveva di necessità erompere da più parti.
Doveva in prima risultare dagli studi di alta filologia. Quei latinisti che non
si limitano a studiare la grammatica latina sui trattati moderni, ma risalgono alle
fonti antiche e sincrone, alle osservazioni linguistiche di Cicerone, di Quintiliano,
di Gellio, e poi dei grammatici veri e propri come Prisciano, Probo e gli altri,
non potevan fare a meno di badare una volta o l'altra o a certe definizioni ge-
neriche o a certi avvertimenti speciali, che implicano evidentemente il sottinteso
che la quantità naturale della vocale fosse indipendente dal numero delle con-
sonanti sussecutive. Bastava, a rigore, l'aver fatto attenzione al precetto che Ci-
cerone dà, di pronunziar lunga l'i di iiisaiius infelix, breve quella di indoctus,
o il solo aver letto in Gellio che actus lectus allungano la vocale del loro jDre-
sente indicativo e d ictus invece abbrevia quella del suo, o bastava semplice-
mente meditare un poco 1' ammonizione di Mario Plozio che dice essere un ' bar-
barismo' il pronunziare per nix con l'è lunga, per arrivare subito alle ultime
conseguenze; e tanto jdìù dovea bastare a ciò tutta la congerie di cosiffatte ammo-
nizioni che negli antichi si trovano. E chi nelle grafie delle iscrizioni latine ricerca
come un documento della genuina parlata romana, o anche senza questo proposito
studia in qualsivoglia modo le epigrafi, come poteva non esser colpito da grafie
come ACTis scbIpta dIsit deiserit accanto a pacato vIcvs veicvs? E consultando gli
storici greci delle cose romane o i greci che di cose romane toccano, quali Polibio,
Dionisio di Alicarnasso, Strabene, Flavio Giuseppe, Diodoro, Plutarco, Appiano,
Tolomeo, Ateneo, Dione Cassio, Lido, Suida, Stefano di Bizanzio, o guardando
qualche epigrafe greca che registri nomi latini, come non accorgersi del modo di-
verso onde per non dir altro l'è e l'o delle voci latine son trascritti in greco? come
non badare a Paivjrfja-qi; iiyivocop accanto ad Ataspvfvo? aoXs[xv;ov da una parte, accanto
a Kixépojv e B-^po? (Verus) dall'altra? o di Ilópxto? accanto a Twoxtc? da una parte e
accanto a Móosoro? e a Ispxcijp'.og dall'altra? — Ora, è bensì vero che codeste 'spie'
erano un po'a disposizione anche dei dotti del Rinascimento, come abbiamo noi stessi
osservato più su, ma è anche vero che dall' un lato il numero di tali spie s'è venuto
dal Rinascimento in poi grandemente aumentando per essersi venuti scoprendo
nuovi testi, o meglio fermando o più divulgando quelli già noti al Rinascimento, e
per essersi soprattutto accresciuto il tesoro epigrafico, e affinato il criterio nel va-
lutarlo,' e dall'altro lato che ogni giorno che passava rendeva sempre più impos-
sibile che non si badasse una buona volta a cose di tanta evidenza.
' P. es. i primi trascrittori delle epigrafi trascrivevano in caratteri minuscoli, non tenendo alcun conto né di
i longa , né di apici, né di punti, né di divisioni delle righe. Appena nel codice di Battista Brunellesclii (1513), e
meglio nella raccolta del Mazzocchi romano (1521), s' incomincia a trascrivere con più fedeltà. Inoltre, se apici ed
i longa non mancano e in monete della rei>ubblica e in epigrafi romane note al Rinascimento, nò essi però vi ca-
pitano spesso per vocali in posizione (in uno spoglio che ho qui a mia disposizione non trovo altro che un óefito
e uno scrIpta), né inostri vecchi si rendean ben conto del valore degli apici, che facilmente confondevano con
gli accenti. — Devo il detto spoglio e tutti codesti ragguagli al collega Uè Petra, alla cui dottrina, come alla cor-
tesia , non si ricorre mai invano.
— 396 —
Una seconda via, poi, doveva condurre alla scoperta del vei'o, la didattica. Ai
tempi nostri, principalmente in Germania, i trattati grammaticali delle lingue antiche,
anche cj[uando non hanno sentito l'afflato della glottologia, hanno mirato ad una
esattezza dottrinale e pratica che si pi;ò dire per molti rispetti nuova. Cosi, gram-
matici quali, p. es., lo Zumpt o il Madvig, si sono naturalmente presa la cura di fer-
mare anche le norme, onde si segnerebbero, se si segnassero, gli accenti sulle parole
latine. Per tal modo, essi sono stati condotti a proporsi il quesito se, p. es., dovesse
accentuarsi f/ihitis o géntis, dènte o dènte; che si riduce in sostanza ad argo-
mentare se Ve tonico di cotali voci fosse lungo o breve. Di certo, risolvendosi, come
essi han fatto, all'accentuazione col circonflesso, vale a dire a supporre lunga l'è,
ei si son lasciati frastornare dall'accentuazione del nominativo {gens dèns), al quale
han conformato indebitamente gli obliqui. ' Ma intanto quella trattazione scolastica
gli avea menati a riguardare, sebbene alla lontana, il nostro tema. Cosi pure lo
scrupolo che nelle scuole moderne è sorto, — soprattutto bensì per l'influsso del-
l' alta filologia e della glottologia, ma in parte anche per mei'o raffinamento peda-
gogico,— di insegnare a pronunziare il latino in modo più esatto, più conforme a
quella che si argomenta dover essere stata l'effettiva pronunzia dei Latini, a pro-
nunziarlo insomma latinamente non già anacronisticamente alla neolatina o barba-
ramente alla teutonica; quello scrupolo, dico, doveva pur condurre chi aveva, p. es.,
insegnato a profferire sólus con un o strascicato, sòlet con un o rapido, a doman-
darsi se mortem ei dovesse prescrivere di profferirlo con un o strascicato o con un
o rapido. M' affretto però a confessare che questa via didattica, piuttosto che guidare
presto alla scoperta del vero concetto della quantità di posizione, doveva menare
a far presto applicare quel concetto, nato che fosse in più alte sfere, a tutte le voci
latine. Un puro filologo può limitarsi a registrare che per testimonianza di Gelilo
Va di actus è lungo e l'i di d ictus è breve, e non sentire la necessità di liqui-
dare subito se in f actus p. es. e in Ictìis la vocale sia lunga come in quello o
breve come in questo. Ma un maestro, messa che voi gli abbiate quella pulce nel-
1' orecchio, non avrà requie finché non abbia concretato per ogni vocabolo un ' mo-
dum pronuntiandi ', e cosi si mette lui o fa che altri si metta a ricercare per ognun
d'essi gl'indizii che stieno prò o centra la lunghezza o la brevità.
V'era, in terzo luogo, la via glottologica; e intendo per ora la glottologia in
quanto studia il latino in sé medesimo o nei suoi rapporti col greco, col sanscrito e
con le altre favelle ariane. Già, prima di tutto, è disposizione naturale del glotto-
logo quella di distinguer bene 'lettera" da suono e di aspettarsi, come una delle
cose più ovvie, che una lingua rappresenti con un'identica lettera suoni diversi;
ed è un suo mestiere quello di strappar simili maschere, o di arrivare al sottosuolo
della favella effettiva removendo la crosta dell'alfabeto, la quale, se da un lato
conserva un idioma agli avvenire, dall' altro lo ricopre di una patina ing'annatrice.
La identità quindi della lettera che indica la vocale tonica di promptas <?, <iuelladi
' Veggasi ScnMiTz, a pag. 12 iloU' opera che sarà più in là ricordata.
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mortiius non poteva agli occhi suoi essere un ostacolo a 'ficcar lo viso in fondo" e
finir a discernervi due suoni diversi. E poi, chi quotidianamente notava come in
greco lo voci spYOv e '/jp/ov , pur contando nella poesia tutt' e due come trochaiche ,
differiscano però sempre nella quantità della vocale iniziale tanto che questa è ad-
dirittura rappresentata con segni diversi , e come in sanscrito sàrvàs e drttàs pur es-
sendo anch' esse trocaiche entrambe, hanno in prima sillaba due suoni la cui di-
versa quantità naturale è graficamente indicata; non poteva a lungo andare non
chiedersi se anche tra mortitus e 2})'om2)tus non corra lo stesso divario, nonostante
che la scrittura non si brighi di segnalarlo: come del resto non lo segnala nem-
meno fra ìiiori e pi'omi, dove pur il divario è attestato dalla poesia latina oltreché
arguito dall'etimologia. E badando alla prima vocale breve ài éizzà e di sàptàn, di
ciXTw e di àshtau, gli veniva molto naturalmente da pensare che breve fosse pure la
prima vocale di septem e di odo, e -ctYvwa/Cw e gànami gli doveano far intuire
molto semplicemente un nosco. La più elementare esperienza, poi, di tematologia,
gì' imponeva d' immaginarsi non altro che breve, poniamo, l'è di spectrum; e via
discorrendo.
Quarta via e in un certo senso più conducente di tutte, era quella della
glottologia romanza. La qual disciplina, studiando il latino nei varii idiomi che lo
riflettono, o vogliam dire ne' varii colori in cui il raggio del sole latino s'è decom-
posto attraverso il prisma dei secoli e delle mescolanze di razze, possiede lo stru-
mento per ricomporre spesso quel raggio o per analizzare di lontano con una specie
di 'analisi spettrale' gl'ingredienti della parola romana. Ora il neolatinista che ogni
giorno insegna come in sillaba aperta il riflesso dell' t diverga da quel dell'* e coin-
cida con quel dell' è (péro ptrus véro vèrus di fronte a miro miror) e quel dell' e {véro)
diverga da quel dell' e (sièro sériim) e il riflesso dell' it diverga da quel dell' m e
coincida con quel dell' 5 (góla giila sóla sola di f. a mula mula) e quel dell' o (sóla)
diverga da quel dell'o (scuòla scliòla) non poteva essere a lung' andare cosi stor-
dito da non vedere come la differenza tra esce e il sost. ésca e la coincidenza di
crésce con pésce e la divergenza tra fritto e détto conduca ad argomentare che le
basi latine fossero exit esca crSscit j^'tscis /rictus dictus, e come il coincider
che fa conósco con fosco divergendo dal sost. tòsco, e il diverger che fa rótto àa, frutto
meni a postulare nosco fuscus tóxicum ruptus friictus. E, ognun lo vede, un
procedimento logico semplicissimo, quel medesimo che è in fondo alla modesta 're-
gola del tre' che gli aritmetici insegnano. È poi notabile che il romanista, oltreché
a intuire l'idea complessiva della cosa, era spinto dal bisogno di dare un sicuro
fondamento alle sue larghe esemplificazioni e quasi completi inventarli di riflessi
romanzi, a sollecitare dagli altri e ad ajutare egli stesso la verificazione di quel-
r idea sopra quasi ogni singola voce latina. Non dico di tutte addirittura, perché
certe voci o forme son fuori della sua visuale : nulla p. es., gli può caler di sapere
se il latino profferisse gréx o gréx, o che dicesse jjés, dSns vidéns tàctus e cosi
via. Gli sarebbe perfino indifferente che fosse pensai anziché pensai, giacché a
lui basta ^pésat; se oramai non fosse noto a tutti che l'allungamento compensa-
— 398 —
tivo non è che un modo di dire e che il n ha prima allungata la vocale e poi è
sparita (cfr. Cuetius, Studien, ecc., II).
Naturalmente le quattro vie che abbiamo indicate non sono per così dire pa-
rallele e diritte senza alcuna comunicazione fra loro, bensì si avvolgono e s'interse-
cano qua e là. Abbiam già avvertito come i trattatisti di grammatica e i pedagoghi
risentano l'influsso e della indagine glottologica e, per lo meno, degli alti studii
filologici. S' aggiunge che a questi ultimi di continuo suol ricorrere il comparatore
delle favelle ariane ; e agli uni e all' altro debba appoggiarsi il romanista ; e come
questi venga sovente interrogato, soprattutto in questi ultimi anni, dallo stesso
ricercatore della parola ariana classica. Questi scambii frequenti tra i diversi indi-
rizzi han naturalmente reso il cammino più breve che se ogui studioso avesse do-
vuto batter la sua strada senza poter percorrere qualche tratto su quella degH al-
tri. Eppure, chi scorra tutto o quasi tutto quel che s'è scritto sul nostro tema,
vedrà come, salvo alcune più o meno notevoli 'contaminazioni', gh. scrittori si
possan veramente schierare in quella quadi-uplice linea che siamo venuti fin qui
come per semplice ragionamento tracciando.
Primi in ordine di tempo vengono i filologi, e primo di loro il Lachmann, che
nel suo commentario a Lucrezio, ' al v. 805 del lib. I, riferendo un luogo oggi fa-
moso di Gelilo (9,6; cfr. 9, 3) concernente la quantità naturale della vocal radi-
cale nel participio passato e ne' clienti suoi, supino e frequentativo, ne cavava
una regola, che oramai solo all'ingrosso può considerarsi come vera: che cioè il
participio passato mantenga inalterata la quantità della vocal radicale quando la
radice esce in consonante liquida o semivocale; la allunghi sempre, se non è già
lunga, quando la radice esce in esplosiva media; e quando invece esce in esplosiva
tenue, non solo mantenga la breve che quasi sempre è già nella radice, ma anche
abbrevi!, in taluni esemplari almeno, la lunga di questa, {clic tu s, dfictus); per non
dire di poche altre voci che non trovando posto in tali rubriche il Lachmann lascia
più o meno dubbiose. Secondo la sua regola adunque, non solo pone c«?'S!{s, jj«6Zs«<s
èmptus géstus, ecc., e promptus ùstus s umjjtus, ecc., scrlptus f rictus^ ecc., e
punctus tdctus réctus, ecc., jàctus càptus Jièxus fossus quàssiis, ecc., ma
ancora plstus jussus sctssus fossus spdrsus, ecc., pei quali oggi ei non
troverebbe molti che gli assentissero. Come si vede, il Lachmann non fece che
prestare attenzione alle parole d' iin antico , e generalizzarle con una induzione che
ha solo un leggerissimo sapore glottologico. Dopo di lui Guglielmo Schmitz, in
una tesi di laurea del 1853 e in una serie di articoletti inseriti quasi tutti nel Rhei-
nisches Museimi tra il 1853 e il 1857, e in un programma ginnasiale del 1860, "
trattò della lunghezza della vocale avanti ns nf, della brevità avanti )*/, e poi nei
' La prima edizione è del 1850; già in ossa si trova la chiosa a cui accenno.
' Tutto questo di^ecta membra furono poi per consiglio del Ritschl raccolte, insieme a molti svariatissimi ar-
ticoletti, nel volume Beìirìiijr. zur hitcunschcii Sprach- loid Lifi'i'atttrkimdc, presso il Teubner. Debbo al prof. Cocchia
l'aver potuto vedere questo libro; come gli altri, che saran ricordati appresso, del Seolmiinu e del Biinger.
— 309 —
suffissi -Srmis -ìirnus -endus -undus e lor derivati, e in -èstis '-exter -estua
-tistiis -esticus -estimus, e della lunghezza, per lo più, avanti gn e avanti j. '
Salvo r appellarsi che fa duo sole volte ad ovvie etimologie (pag. 14 e 17), e salvo
rjualche citazioncella di opere glottologiche, aggiunta, in parentesi quadre, nella
ristampa; del rimanente lo Schmitz non si giova se non di tre soli mezzi d'inda-
gine puramente filologici, che sono le attestazioni degli antichi grammatici, gli
apici e le ì longa delle epigrafi latine , e le trascrizioni greche. Non in tutto si può
oggi, credo, consentire con lui, ma bisogna riconoscere che con molta cautela e
retto giudizio adoprò quei mezzi, e nell' applicare, generalizzando, i risultati che ot-
teneva per alcune voci a tutte intere le serie rispettive, non trascese i giusti limiti.
Prima di andare innanzi in questa rassegna di scrittori, ci sia lecito soffer-
marci a fare un' osservazione. È già abbastanza singolare che avanti al 1850 non
vi fosse tra i cultori della scienza di Wolff e di Hermann o di quella di Bopp e di
Grimm alcuno che badasse a quello cui poi badarono il Lachmann e lo Schmitz.
Ma più singolare ancora è che le avvertenze di qixesti due non facessero, una volta
lanciate nel mondo erudito , l' effetto di un razzo che cada su un mucchio di mate-
rie combustibili. Ognuno immaginerebbe che al solo sentire cosi autorevolmente
affermare che fosse lunga 1' « in actus, breve in factns, o che crescèn.s suonasse
il nominativo, crèscèntis il genitivo e sim., subito filologi e glottologi si gettassero
con irrefrenabile ardore a scovare altre lunghe ed altre brevi, e a predicare come
il concetto volgare della posizione andasse radicalmente mutato. Invece non ne fu
nulla, e doverono passare di molti anni perchè la piccola favilla divampasse in
gran fiamma. L' essere il cenno del Lachmann seppellito in un libro dove nessuno
si aspetterebbe di trovarlo, 1' essere le Quaestiones ortlioejncae latine dello Schmitz
' Terenziano Mauro diceva in pejor Jejitnitim Troja la prima sillaba esser lunga so?to»(a per posizione
(che torna come dire breve per natura). Questo collima colla proposta di Cicerone di scrivere il J tra vocali con u
{Vompeìins, ì)eìior, ciìiis ec), a che Cesare aggiungeva che egli sì sarebbe spinto fino a scriver Pompcììi;
le quali cose sembrano provar che i due grandi Romani sentissero nely un suono intenso. Un suono capace dunque,
han concluso alcuni dotti odierni, di produr posizione, appunto come Terenziano afferma. Ma lo Schmitz con altri
dotti la intende diversamente. Sostiene con Corssen che in Pompejus e sim. 1' e è lunga per natura (e sia pure),
sostiene con Aufrecht che in major, piilej nm la vocale siasi allungata per compenso del g caduto (e sia anche
questo); ma per voci ove la vocale è inevitabilmente breve in sé, come in cjtts, hnjus, ec, spiega lui la lun-
ghezza della sillaba come effetto non già della posizione, bensì dello stemperarsi del J in un elemento vocalico che
aderìscaalla vocale precedente, formando con essa un dittongo, e in uno consonantico aderente alla seguente; come a
diredunque ei-jiis ec; e a questo crede accennino le grafie ciceroniane e cesaree. Cosi l'ha intesa poi anche il
Savelsberg, contro cui però vedi Corssen , Zur it. Sprarhlc. , pag. 382 segg. Inoltre già addusse il Corssen bìjugus e
suoi affini, di cui la prima sillaba è calcolata breve da' poeti, per provare clie il J non facesse posizione, e questo
esemplare sì può tirare a confermar il concetto dello Schmitz con l'avvertire che l'esser già i la vocale precedente
aiy poteva impedire il distemperamento dì questo in i-\-J. Sennonché si può tirarlo del pari al concetto degli alt»)
poiché appunto lo stesso esser ì' la vocale, può avere smorzata l' intensità del 7 e impedito che facesse posizione.
Anche oggi il romanesco pronunzia ilj molto intenso (mojje, paJja,fiJjo, ec), sebbene non stabilirei alcuna conti-
nuità storica col suono antico, nascendo oggi l'intensità daU'essei'ei; proveniente da (1)1J (cfr. tosa. JìijJio, pugl. yfi/-
gliio, ec); ma pure quando la vocale é i. si può avere un alleggerimento, come in 710 ohe si trova olive fijjo. Ad ogni
modo il divario tra il concetto dello Schmitz e quello degli altri sì riduce in fondo a jioca cosa; e il romanista in
ispecie può rimanere indifferente se sì tratti di péj-jr'o»' o dipc;-/oj', e quel che fa per lui è queir e che gli rende
perfettamente normali i riflessi romanzi {peggio, Iììtc) ,■ o\\o finora era costretto, per rannodarli al preteso pcjor, dì
supporre conformati ai riflessi di me li or o di spiegare con altri esiiedienti.
— 400 —
una semjDKce tesi di laurea , spiegano solo in parte il poco séguito sulle prime toc-
cato a quello e a queste. Il vero è che la storia così della nostra come di tutte le
altre discipline ricorda un gran numero di esempii consimili, di idee assai semplici
e chiare che hanno tardato di molto ad affacciarsi alla mente di alcuno, e che,
finalmente intravviste ed annunziate , hanno poi lungamente stentato a farsi strada
fra i dotti. Quali possan essere le ragioni psicologiche di un fenomeno così strano e
insieme cosi comune, è questione interessantissima, ma che non riguarda noi in
questo momento.
A notevole distanza di tempo , viene un terzo filologo , un Ritscheliano come il
secondo, lo Schoell, il quale in un lavoro dove raccoglie tutti i passi degli antichi
grammatici concei^nenti l'accento latino,' riesce insieme, poiché quegli antichi dice-
vano accento anche la quantità, a raccogliere pure i passi concernenti la quantità
in posizione. "
La ricerca filologica si vede innestata alle preoccupazioni didattiche in una serie
di lavori comparsi negli ultimi tre lustri. Già il dott. Loewe aveva inserito nella Mor-
fologia latina del dott. Perthes e nei due primi corsi di un ' trattato di latinità per il
Ginnasio' del medesimo alcuni ragguagli sulla quantità in posizione, quando il Per-
thes il 1874 nella prefazione a un altro corso del detto trattato prometteva di dare
altra volta la giustificazione scientifica di quei ragguagli.' La promessa non fu po-
tuta mantenere ; ma il 1876 comparve una lettera del Eitschl al Perthes ' sulla
odierna pronunzia del latino V' nella quale l'illustre uomo, già sul tramonto della
sua vita operosissima, dopo un piccolo accenno alla pronunzia delle consonanti, ve-
niva a mettere in rilievo, con quella sua vivacità un po' aggressiva, le molte gof-
faggini che si commettono rispetto alla quantità delle vocali e specialmente di quelle
in posizione. Enumerava gli scandagli che s' abbiano per indagare dove queste suo-
nassero lunghe e dove brevi : scandagli quasi in tutto filologici, s' intende, o tutt' al
più di una fonologia ovvia ed elementare, come dove stabilisce existimo amasse
nasse nOlle malie, in considerazione della loro genesi. ' Tra gli altri mezzi egli ri-
chiama 1' attenzione, il che ognuno troverà naturalissimo in lui, alla prosodia plau-
tina, dalla quale risultano iste ipse inde unde òmnis mar/ìstratiis e sim/' Alla re-
gola del Lachmann. non è propenso; accoglie invece senza riserva gli studii dello
Schmitz e dello Scholl, che riassume in fondo al suo scritto. — Il 1878 venne fuori a
Berlino un libro di Bocterwek e Tegge , ' inteso a promuovere sempre più la restau-
razione della genuina pronunzia del latino , e anche sulla quantità iu posizione dava
cenni, per singole voci o serie di voci. Non parvero essi sufficienti al dott. Wiggert,
' De accentu linq. lat. , nel tomo VI degli Ada Soc. pini Lips.
■ Vedi propriamente p.8:t, 85, 107, lOS ss.. 110, 112, 113, IIG, 117, ll'J, 11», 147. IIH.
' Rilevo tutto ciò dalla prefazione del Manualetto del Mar.N.
' Nel liheinisches Museiim , XXXI , 481-92; ristampata poi negli Opuscuht , IV, 766 segg.
^ Curioso però che egli voglia esse da edere.
" Su questo si può ora vedere anche il Cocchia nella Introduzione (p. xxxvi-xsxix) alla sua edizione dei
Captivi (Torino, Loescher, 18S6).
= Die alispraclilichc Orthoepie inid die i'j-axis. Conosco questo libro solo indirettamente.
_ .101 —
che volle trattar della cosa un po' più di proposito , e vi consacrò le prime pagine
d' un suo scritto inserito nel Programma del Ginnasio di Stargard. ' Egli badò so-
prattutto ai preteriti e ai supini. Considerata a ragione come breve la seconda vo-
cale in cucurri f efelli spopondi momordi ^'apandi tetendi sul tipo di cecini, ec. ,
riteneva per converso (ma non egualmente a ragione, credo io), come lunga la vo-
cale radicale di defendi offendi preliendi accendi mandi scandi prandi vertì.
verri velli solvi vaivi per uniformarli a cèpi veni, ecc. Quanto ai perfetti in -sì, li
faceva tutti con la vocal radicale lunga ; e propriamente : — allungata per compen-
sazione nelle radici brevi uscenti in un gruppo di consonanti di cui una si elida
avanti s, e cosi disi falsi tùrsi tórsi parsi flèxi, ecc. da àlgeo ecc.; — e lunga in-
vece ab origine nelle radici uscenti in unica consonante, v^le a dire non solo in
nùpsi scrlpsi da ntibo scriho, ma anche in rèxi tSxi tràxi sÉ)"ita;i, ecc. da presenti
originarli *règo *tràJio, ecc. (!). Dove osserviamo subito che per la prima serie
{disi ecc.) è da respingere non solo la spiegazione ma il fatto stesso (noi poniamo
àlsi ecc.) ,'" e per la seconda (rèxi ecc.) il fatto è certo oramai ma la spiegazione è as-
surda. Anche per i supini il Wiggert, opponendosi al Lacliraann, parte delle lunghe
volute da costui negava, parte spiegava col solito allungamento compensativo, parte
le riteneva legate alla quantità stessa del presente o del perfetto. Ma in tutti questi
procedimenti egli ha troppo l'aria dell'uomo di scuola, più intento a semplificare le
regole che a cercare la storica verosimiglianza, e troppo disposto ad appagarsi di
spiegazioni meccaniche. — Più cauto e più fino di lui apparisce il Biiuger , che nel
Programma del Ginnasio protestante di Strasburgo dell' a. 1880-81 ' ci ha dato un
quasi completo inventario delle voci con vocale in posizione. E per questo e per la
notizia che vi è trasfusa delle altrui ricerche, questo pregevolissimo lavoro potrebbe
considerarsi, se pochi anni dopo non fosse stato seguito dal manualetto già ricor-
dato del Marx, come la più piena trattazione dell' argomento. Le voci o serie latine
son passate a rassegna via via secondo i varii gruppi consonantici costituenti la po-
sizione; con qualche inclinazione a far troppo dipendere la brevità o lunghezza della
vocale dalla natura del gruppo che le succede, per una specie di 'affinità elettiva'
alla quale io non credo in questo caso se non molto di rado. Salvo qualche citazione
di opere linguistiche e qualche appello, per verità poco felice, alla fisiologia dei
suoni, in sostanza il Bunger si attiene allo Schmitz e agli altri, compiendo e svi-
luppando le note loro. Ai riflessi romanzi nessun accenno, sicché, per esempio,
dove per giuste analogie egli argomenta riìptus, ma ad asseverarlo prova qualche
esitazione per via di rupes, la sua mente non gli suggerisce punto di confermarlo
con rotto. '
' Studien zur lateinischen OHlioepie, 1880. Anche di questo non ho conoscenza se non indiretta.
'Naturalmente àrsi, che è da àrdeOt è fcutt* altra cosa.
' Ueber die lateiniache Qaaiititdt in positionslanrjen Silben. Sono 23 grandi pagine.
' Trovo citato anche un artiooletto sul nostro tema di SchottmOller nella Philologische Wochenschri/t, p. 208 e
seg.; ma non l'ho mai visto. E lo stesso dico della recensione del libro di Bouterwek e Tegge data da Habtel nella
Jtioista ginnasiale austriaca del 1879. Voglio poi ricordare che il Kuunek consacra al nostro soggetto una pagina (137)
della sua Ausfiikrl. Qramm. d. tat. Sj>r., Hannover 1877.
51
— 402 —
Se ora ci volgiamo ai comparatori indoeuropeisti, dovremo riconoscere che nel
soggetto di cui oggi ci occupiamo essi non si son fatto molto onore. Non vi hanno
avuto alcuna propria iniziativa,' e nemmeno hanno abboccato subito alle avvertenze
dei filologi, e per poco non le hanno lasciate addirittura cadere. Il Corssen, ancora
nella seconda edizione del suo classico libro (1868-1870), appone sì i segni di lunga
o di breve su vocali incarcerate tra le consonanti (p. es. milrmnr Marti), stabilisce
radici con vocale lunga che si perpetui anche nelle formazioni con suffissi incipienti
per consonante (p. es. llctor riconnesso con lic-ium), parla di incremento vocalico
anche in voci come Màrtem dalla rad. Mar, tra gli esempli epigrafici di apici indi-
canti vocale lunga adduce parole come constò Mdrtis o tra quelli di i longa parole
come fixa, ricorda Maarcus ec. , adduce il luogo di Cicerone su Infelix ecc. e di
Prisciano su llctor ecc., mostra per qual via fisiologica l'originario co/istiZ si fa-
cesse cSìisul, si appella anche alle trascrizioni greche, discute infine largamente il
concetto della posizione intendendo che la vocale v'abbia una quantità sua propria; '■
ma pure non consacra un apposito capitolo o apposite rubriche ai problemi che ci
riguardano e nulla aggiunge e molto anzi col silenzio sottrae a quanto altri avea
detto prima di lui.' Nel suo libro postumo appena si occupa, condottovi dalla ri-
stampa delle ricerche dello Schmitz, di qualche questione speciale, soprattutto per
negare che -gn- eserciti sulla vocale antecedente un' efficacia prolungativa : ' nega-
zione questa assai accetta ai romanisti. Appresso a lui linguisti più larghi di spirito
hanno con ben altro ardore atteso a simili questioni , però dopo aver risentita l' in-
fluenza dei romanisti; ai quali perciò ora passiamo per poi tornare a quelli.
Il DiEZ aveva considerata la vocale in posizione come una terza cosa dopo la
vocale lunga e la breve ; con la propensione a riguardarne i riflessi come coincidenti
le più volte con quei della breve. E se il vero non gli fosse lampeggiato per un
momento là dove osserva che avendo mille la lunga (cfr. mllia) è naturale che con-
servi Vi in tutte le favelle romanze, si dovrebbe dire che al maraviglioso suo
acume sfuggisse esso interamente. Fu il primo lo Schuchardt ad averne una fe-
lice intuizione, nel suo classico libro sul 'Vocalismo del latino volgare' (1866-8).
A proposito dello spagnolo liìerro vai. fier e sim. , e delle forme grigioni come ig (unto)
e sim., egli risalendo aférruvi e ad unctus e sim. intravvedeva con un'occhiata ra-
pida e penetrante tutta la serie di nuove percezioni a cui la nuova valutazione di
quegli esemplari avviava, e intanto ricordava il luogo di Gelilo, lo Schmitz e via
via. ' Non trovò egli subito eco in Germania ; ma ben 1' ebbe in Italia , dove l'AscoLi ,
' Tutt' al più si può avvertire elio il Benloew (_Dc l'accentuation da»s Ics langues indo-européennes iant aneienncs
que moderiies, Parigi 1817; cit. dal Pezzi, Orammaiica storico-comparativa della lint/ualatina, p. 102) avea già osservato
come la lunghezza di posizione riguardi la sillaba.
■ Veggasi Vokalisims, I, 19, 22, 23, 257-9, 396, J05-6, 447, 498-500, 654; II, 282, 613 e segg.; e passim.
' Gli fa di ciò rimprovero anche il Eitschl nello scritto citato.
' Zur italischen Sprachkundc , 278 e segg.
' Vedi 1,471 sgg.; Il, 192. — Mostrava però egli l'inclinazione ad ammetterò che nella posizione fosse più facile
il tralignamento della quantità della vocale. Vivo contrasto opijose sempre a ciò il Canello, e credo in un certo
senso a ragione.
— 403 —
che quando non è precursore geniale è almeno assecondatore pronto ed efficace, ac-
colse subito nell'^rcAtyio (1873) il criterio novello applicandolo con qualche insistenza
e al Ladino ' e al Siciliano. " Lo segiiiva tosto il Canello che andò rifrugando , con
r aspirazione a compierne un vero inventario , i riflessi dell' è ed e e dell' ì ed i, in
quei suoi ottimi Studii sull' t {Eiv. di fil. rofn., a. 1874) e sull' e {Zeitsclirift. f'nr rom.
]jhil., a. 1877), i quali lo resero tanto benemerito del vocalismo tonico italiano quanto
il Caix s'era fatto del vocalismo atouo. Dipoi il Fòestee, in un apposito articolo
(1878), ' rilevava 1' efficacia della indagine romanologica per la determinazione della
quantità latina là dove questa è mascherata dalla posizione o da altro , e registrava
molte acute considerazioni, se non tutte accettabili, tiitte però suggestive ed atte ad
eccitare riflessioni inquiete e feconde così negli studiosi delle cose classiche come in
quei delle romanze.
Non va dimenticato 1' Ulrich; il quale in una tesi di laurea sul participio pas-
sato romanzo ' premette alla rassegna degli esemplari neolatini (tutf altro che com-
pleta questa uè troppo felicemente ragionata) alcuni cenni sul participio latino ; ed
in questi, oltreché tocca con molta perplessità la questione del participio assibilato
nella quale ha poi visto tanto addentro il Cocchia (Rivista di Torino, Luglio-Ago-
.sto 1882), consacra anche due pagine alla norma Lachmanniana. Sopra un punto
egli insiste principalmente, quale cioè possa esser la ragione della lunga di actus
lèctus ecc., senza del resto venire ad alcuna affermazione. Respinge l'ipotesi del
Corssen, che ci vede un incremento vocalico (Vocalschteigerung); sembrandogli que-
sto reso improbabile dall' originario ossitonismo del tipo partecipiale (Xsxtóc, sscr.
uktds). Accenna di fuga all' ipotesi (che noi abbiam vista propugnata dal Wiggert),
che in antico s'avesse ^légo, sicché fosse lèctus da mandare insomma con 'ìsu^tó? e
sim. Neanche fa buon viso al supposto che àctus lèctus non faccian che seguitare
Sgi lègi, parendogli a ragione ch'ei sia formalmente smentito da, f àctus càptus
i-iijìtus e sim. di fronte a, feci cèpi rupi e sim. Gli arride per un momento l'idea
che r allungamento possa aver preso le mosse dal tipo pànsus, pCissus (!), ove 1' al-
lungamento sarebbe dovuto allo -ns-, e di lì essersi analogicamente esteso a altri
tipi; ma per fortuna se ne ritrae poi subito, sebbene in parte per una ragione in-
sussistente, che cioè m. panel la nasale sia già della radice e non del tema di pre-
sente. Scarta anche il concetto dell' Ebel , ' il quale , rimanendo stretto al fatto che
la radice di quei participii esce in consonante media, ascrive appunto alla media
r attitudine a produrre in quel caso 1' allungamento. Quando la media è seguita da
una tenue, si fa ipso facto tenue, dice l'Ulrich. Ma l'affermazione é arbitraria; e
il tedesco legtee sim. stando alla pronunzia classica, non alle degenerazioni spiranti
palatali o gutturali delle pronunzie locali odierne, e le profferenze vabto figto che
' Ai-oh., 1, 19n., 23n., 31, 3i-5, 38-8.
■ Arch. , II, 145-6. — Sbagliò chi disse essersi egli circoscritto in ciò al Ladino.
' Nel Bhein. Mus., XXXIII, 291 e segg., 639.
' Die formelle Entwickbmg des Partkipnim Praeteriti in den Bomauiscìien Hprachen; Winterthar, 1879; pp. 24.
Debbo alla pronta cortesia dello ScUuohardt 1' aver potato veder subito (luesto scritto.
' mue Jakrb. filr Phil. LXXIX, B08; Ktihn's Zeitscltrifl eoo. XIV, 246.
— 404 —
da alcuni sono asci'itte al portoghese e devon certo aver luogo in qualche zona di
questo, e V egsamen che si attribuisce alla Spagna (cito i fatti che ricordo io subito,
ma un'esperienza più larga della mia ne suggerirebbe certo degli altri), provano, quel
che del resto non ha bisogno di prova , che 1' assimilazione di grado delle due con-
sonanti attigue non è necessario avvenisse subito nel primo loro scontro. Ed è anzi
sommamente improbabile, se si bada a quello che il Cocchia (1. e.) ha dimostrato,
come cioè le radici uscenti in gutturale preceduta da liquida mantengano intatto il
suffisso participiale se la gutturale è tenue (fultus xiltus fartus refertus sartus
tnrfus) e lo assibilino se essa è media (alsufi, inulsus da vìulgeo, mersus spar-
sus tersiis); ' il che certo non avverrebbe se -gt- si fosse sin dal primo suo nascere
ridotto immediatamente a -cf-, e '^ spargtus fosse stato indiscernibile à.^, farctus.
Bisogna dunque andar molto adagio a negare ciò che il Lachmann constatò come
un fatto e l' Ebel affermò come un principio. Su un altro punto batte l' Ulrich , dove
se non dà, a parer mio, nel segno, concorda però con dotti ben autorevoli e ri-
chiama fatti degni di molta ponderazione. Avverte che l'it. Utto^ il h. lioint oint, il
fr. dit, accennano ad una quantità diversa da quella che sogliamo attribuire alle
loro basi latine. Ma gli è che codeste non sono se non deviazioni relativamente se-
riori prodotte da analogia morfologica. Lètto è rifatto su ìèggere; a quel modo che il
tose, ^^('sto (di contro allo sp. jmesto , napol. puostó) e pósi si sono , tralignando da
pusui pìjsitus^ rifatti su pórre piónere. Lo stesso più là diremo (^ ptoint e sim. E
anche dit, conio s^.-dlcho, è certo conformato al riflesso di dico dlxi; tanto è vero
che in Bénoit, are. Beneoit, e nel pg. Lèido benedetto Benedetto benedettino (cioè
"hnénto per *henétó); dove l'accezione participiale è obliterata, si ha il regolare ri-
flesso di dictus. Allo stesso modo il tose. sost. pòsta si è sottratto al tralignameuto
che è in pósto.
Quanti tra i romanisti abbiano dal 1880 in poi applicato il nuovo criterio,
sarebbe difficile dire senza cadere in omissioni : mi limito a ricordare ' honoris causa '
il Paris {Romania, a. 1881).
Certo che ora gli studiosi della degenerazione del latino si posson gloriare d'aver
insegnato qualcosa ai nobili indagatori della genesi del latino medesimo, giacché,
come s'è più sopra accennato, oggimai parecchi di costoro hanno dalla glottologia
romanza attinto voglia e lena di perscrutare la quaiitità delle vocali latine in posi-
zione , e ad essa domandano i pronunziati suoi o pigliano a prestito gli strumenti.
La considerazione dei riflessi romanzi è continita e sufficientemente accurata
nel Manualetto già ricordato del Marx, il quale dovrebbe ora trovarsi nelle mani
di tutti i romanisti. Sotto un certo rispetto questo libercolo è a rifar di pianta;"
ma ciò non detrae al merito di chi lo compose. Si apre con un proemio del Bììcheler,
' Lo formo, ohe paion far eccezione, in dnll.iis, iimlsiis dn mtitce.o, fnrsns, parxnrux. sono Kf.acciate
riconiazioni analogiche; o difatto non occorrono so non in scrittori pili o men t.ariliyi {Tertulliano, Apnlejo.... al
più Svetonio).
'Basti dire che vi è posta conio IiuiRa la vocale (tifi «sim o sim., di mnr.ins. S2>arsn.'ì e sim,, di ii hi i/ ij <ì a 1 a
di intera, di cippus, di flrmim, ecc.
— 405 -
che em;mera i varii mezzi che si hanno per questa indagine. Il Marx poi nella pre-
fazione sua ne aggiunge qualche altro , fa considerazioni critiche sopra essi tutti , ed
enumera alcuni dei suoi predecessori. Indi in una lunga introduzione fa una scorsa
sui suoni, sulle forme, sui suffissi della lingua latina sotto il rispetto dell'argomento
suo. Vien da ultimo il lessico, dove per molte parole sono anche enumerati gì' in-
dizii onde è cavata la quantità che loro si attribuisce; e al lessico è aggiunto un
elenco, che ne è estratto, delle -voci con vocale lunga. — Parecchi degli errori fon-
damentali del Marx e di alti-i si trovano ottimamente contraddetti dall' Osthoff in
un' appendice {Lat. -ss- und -s-) al suo libro sul Perfetto; ' nella quale mostra, larga-
mente adoprando i riflessi romanzi, come in ogni voce latina con -ss- bisogni porre
che fosse breve la vocale che lo precede, e come nei doppioni quali glutus gluttus,
litera littera, cupa cuppa e sim. , la vocale si debba essere sempre abbreviata nel
raddoppiarsi la consonante {litera littera). Non è che in ogni singolo suo concetto
o criterio io possa consentire con lui; e, p. es. , di quanto egli ragiona nello scorcio
di iin suo capitolo (p. 111-17) contro alla celebre norma Lachmanniana sui perfetti e
supini poco 0 nulla mi par da accogliere. " Ma è innegabile che l' acuto glottologo ha
anche sul nostro argomento gettato un bello sprazzo di luce. ' — L' ultimo ad occu-
' Zar GescJiìcMc des Per/ects im Itidogcmianischcn ecc. Strassburg;, 1884, p. 522-71.
"Non mi parcelle strtctus {lì fois' smahe plctus, ftcttis da /ijii/ej-e e m?ciM«t sebbene, mancando diretti
continuatori, romanzi manchi la spia), dia troppo forte scossa a quella norma. Si consideri, confrontandolo a
CI net US ecc., unctus ecc., che esso è privo della nasale e rappresenta quindi una fase storica diversa. Si direbbe
quasi che le radici in media abbiano il participio conia lunga in tre tipi: in /ìctus, sùctus ecc. da /7 i/o,
sugo ecc., ialè ct-tis, uctus ecc. da lì^'t/o, ago ecc., in clnctus. unctus ecc. da ctngo, ungo ecc.; e il participio
con la breve là dove invece la nasale è nel presente e perfetto e manca nel participio: stringo, strlnxi, st rictus
e sim. A ciò veramente contraddice la lunga che in tactus, fractus, 2)oc(KS (da ^jani/erc) sembra attestata se
non dai riflessi romanzi che per l' a nulla mai provano , dai composti intactus, compactiis ec. con Va non alte-
rato in e come lo sarebbe se fosse breve {recéptus ec.) Sennonché si tratta della formula -a «</- ohe può aver
avuta sorte diversa (com' ha diverso perfetto) dalla -ìng , comunqiio una tal differenza s'abbia asjiiegare. E tra le
altro cose potrebbe strictus ecc. essersi conformato a rlìctus. Colgo poi quest'occasione per far rilevare
come in un quinto tipo la radice in media mantenga la breve nel participio, quando cioè alla media preceda
una liquida e il suffisso participiale abbia quindi la degenerazione sibilante, vale a dire in aparsus (cfr. con-
spcrsus), viersus, morsus (cfr. tose, mòrso, nap. muorzo, sp. almuerzo) ecc. — Quanto poi al distaccare, che
r Osthoff fa (p. 606-7), l'it. vétta da vitta per rioonnettei-lo a evecta, postulando cosi uà ve et us contro al gelliano
vectus comunemente ricevuto, non mi par che egli faccia bene. Certo il ricorrer come fa all' e stretta dell' it.
vette 'leva' per mostrare lunga l' e di veetts è una ingenuità; che vette è un crudo latinismo, e se pure ha l'è stretta,
come dice il Fanfanì, ch*o ne dice poi d'ogni sorta, l'ha perchè una cosi inusitata parola sì conforma forse, quella
rara volta che si profferisce, all'usuale vétta, con cui se nulla ha di comune per il significato ha quasi piena iden-
tità per il suono.
"^ Tra le percezi oni felici dell' O. annovero anche V-tssimtis che egli sostituisce a V Tssimus comunemente
ammesso, e il considerare quindi come semidotto il superlativo romanzo. Io avvertirei che, se quest'ultima cosa
appare evidente, p. es. , nel portoghese e nel francese , non è strana neanche per l' italiano, se si considera che un
altro suffisso simile, quello del numerale ordinativo, vi è pure semidotto {-esimo = csimus). Richiamerei insieme
l'attenzione suW -essema di antichi testi meridionali; chi sa non siasi avuta in questa parte d'Italia la continuazione
popolare mancante altrove (altri ha già osservato lina consimile forma in testi di latino volgare : Seelmann, p. 99). —
Mi sia lecito fare, per incidenza, un' altra osservazione. L' O. si attiene alla vecchia equazione -issimHS=-*'isti-
taus, ascrivendo poi a influsso del suffisso numerale ordinativo l'alterazione, uscita oramai di moda, di -st- in
-ss-. Io preferisco Vipotesi del Cocchia, e mi fa specie che non sia piaciuta all' O. a cui veniva cosi bene in taglio.
Combinandole intuizioni dell'uno e dell'altro io porrei: -iss-i mus = ^-ls-imHS, cioè -ìs- (=-jos- suf comparat.)
-j- 1' -imus di inflmus e sim. ; e il mancato rotacismo (cfr. del resto nasus ecc., suU.a qual serie piacerebbe di ve-
der fatta una speciale ricerca) spiegherei con V influsso di -ensimiis, -e s imus.
— 40G —
parsi di esso argomento è stato il Seelmaun nel suo dotto e giudizioso libro suUa
pronunzia del latino. ' A lui perdonerei in ogni modo di avere, in fin di questo, espo-
sto e confutato cosi infelicemente il mio studio sui riflessi di viginfì ec. ; ma tanto
più di cuore rinunzio ad ogni lamento in quanto che vedo da lui trattato in modo
così egregio e con così pieno affiatamento co' romanisti la quantità naturale in po-
sizione.
Troppo lungo sarebbe enumerare le tante buone notizie ed osservazioni raccolte ,
nelle pagine che a questa consacra; e neppur vorrò insistere su tutti i punti in cui
non posso accordarmi con lui o su quelli in cui vedo che egli m'ha rubato le mosse;
bensì mi limito a poche spigolature. Giusta in complesso mi pare l' osservazione che
in certe voci composte la vocale seguita da -ns- -nf- siasi riabbreviata come per una
nuova ricomposizione, e così siasi riavuto ìnsimul ìnfans cottsi7i«tm, ecc.;ma più
che di vera ricomposizione si tratta almeno in casi come cdusilium, di cui il se-
condo elemento non era più perspicuo , di semplice influsso analogico delle tante voci
dove '4Jt- con- son seguite da altra consonante {induco e sim.). Comunque, cosi i ro-
manisti potranno ora spiegarsi l' inflat che sta a base di enfia enfle. ' A torto invece
mi par che voglia breve la vocal radicale in traxi vinxi duxi repsi (cfr. avvinsi con-
dussi); e lunga quella di jussi jussus, che certo non è provata, come ei pretende,
dall'are, iousit. Riconosce anche lui la serie delle coppie cupa cappa ecc., ma non
so comprendere come v'aggiunga un sOcitis soccius; giacché se anche vuol darsi
peso al soccius di due iscrizioni, esso non mena però a scrollare il sòcius cosi sal-
damente attestato dalla poesia latina. Vivamente anche contrasterei alla tendenza
che egli ha comune col Forster, a voler lunga la prima vocale di dies fui cui e sim.,
a veder nei riflessi romanzi la prova di ciò e insomma a considerar come una pura
convenzione dei poeti la norma "vocalis ante vocalem corripitur", se quest'altra
specie di vocale in posizione, cioè in iato, non fosse affatto diversa da quella onde
qui ci occupiamo, e se non avessimo già altrove, e in buona compagnia, fatto quel
contrasto. '
Quanto alla teorica che accoglie dall' Havet, che nel latino popolare finisse ad
abbreviarsi la vocale liinga seguita da Hq. + cons., ovvero ìi 4- cons. e così si spie-
ghino o/^re, lordo, ioint e sim., onze, once; di fronte a ìàridus, imdecim, iuncius
' Die Aussj'rache des Laieins, Heilbronn, 1885; p. 69-70, 77-109, 391
■ Invece terremo fermo constai (ofr. coàtcì malgrado l'ifc. còsta, che può aver seguitato còsta scosta con ne-
ròsta e sim. o altre voci in -òst-. Cfr. sòsta aìibstat. Viceversa //uiifia non esige ili necessità cTiii/laf, potenJo esso
appartenere alla numerosa serie, di cui altrove diremo, degli c5=o av. nas.-ì- cons., alla serie cioè di cónte comitem,
pómpa n'iimii eoo. Móstra e móstro accennano a mònstrat -um. — Tornando a in/lat cM consideri lo sp. lanchar
(invece liencUr tmplere) può esser tentato a vedervi riflesso Vinflat della fase ciceroniana e metter questo as-
sieme agli altri casi in cui la Spagna continua una latinità più classica di quella che è a base della rimanenti' ro-
manità.
' Solo richiamo ora di sfuggita l'attenzione sulla fiacchezza di certi argomenti. Che nella prosa si dicesse
uudXlt e sol nella poesia dudìit non mena a nulla, trattandosi di una 'forma' ossia di ima voce rattenuta dalle
altre con cui fa sistema. Che un grammatico attesti essersi 'arcaicamente' detto fa mèi, e nel perfetto annuii, di
ironte al pres. dnn Tt it, non prova punto che codeste voci non cedessero poi alla norma dell' abbreviazione, anzi
mosti-a il contrarlo.
— 407 —
e sim. ed a nltrn che sarebbe attestato dall'apice di ima iscrizione autorevolissima,
e ùncia che suolsi riconuettere a uiiicns; noi, pur riconoscendo in gran parte i
fatti sin un certo senso la sintesi che se ne fa, vorremmo una spiegazione un po' di-
versa. Intanto, noi stabiliamo anche classicamente ■Ancia di cui accettiamo la ricon-
nessione corssenia3ia con oy/.o; ; *liìrchts lo stimiamo una semplice assimilazione a
sicrdus iilrdus; e la base óndeci a cui s' attengono francese, spagnuolo,ecc., mentre
alla base undeci restan fedele toscano , milanese , ladino , ecc., sarà dovuta semplice-
mente all'influsso della lunga serie degli -Und- (Unda ùnde rotùndus, ecc.); e
tdtra se fu davvero lungo, s' abbreviò pure per assimilazione alla lunga serie degli
-flit- (;mi'dtus, ecc.); e la base gìonto onto ponto, a cui s'attiene, oltre il francese,
qualche altra parte della romanità (sanese, napolet., ecc.), può ben essere un'assi-
milazione seriore analogica, non latina ma romanza, sebbene come tale antica, del
participio al presente, gionijo := iiingo, ecc.
La rassegna è finita. Guardando all' indirizzo presente della ricerca, è bello il
vedere come latinisti e romanisti ' conjurant amice' a menarla avanti. Essi però risi-
cano talvolta di cader nel vizio di tutti i congiurati, di fidarsi troppo l'uno del-
l' altro. Ed è bene che il romanista si ricordi come non ogni etimologia che si trovi
anche nei più cauti indagatori della parola classica è certa; come non ogni precetto
di grammatico antico sia attendibile; non ogni iscrizione sia esatta nella nota-
zione degli apici e delle i longa, e anzi da certa epoca in poi le epigrafi sieno in ciò
assai mal fide; ' come lo stesso debba dirsi delle trascrizioni greche. E viceversa il
latinista deve stare in guardia contro alcuni pronunziati della glottologia romanza che
posano su incerte fondamenta; rammentare come ai monumentali lavori delDieznon
si possa ricorrere con la sicurezza che ogni particolare ne sia oggi accettabile; come
tra gli stessi romanisti più recenti alcuni non abbiano veduto chiaro in ogni cosa.
Neanche debbono con troppa disinvoltura adoprare da sé i procedimenti della
scienza del Diez, che in mano di estranei possono condurre a cose erronee o insi-
gnificanti. Certo un romanista, in ispecie se italiano, non piiò non sorridere a ve-
der addotto V i di delitto e derelitto come prova che 1' i di relictus sia lungo! o che
adusto e combusto confermino la lunga in nstus! o che ispido e afflitto valgano a
mostrare l' ì! ' Ed è un vero sbalordimento il leggere che vi sia un antico francese
froit che valga a far postulare /j'wcfes.'.' Eppure è giusto avvertire che l'autore di
quest' ultima trovata è stato poi il primo forse a notare che il pcp. fr. mis ant. sp.
miso non supponga un *misus, come qualche romanista ha voluto, bensì sia rifog-
giato sul perf. mis =; misi. ' Difficile è in molti casi il sentenziare perchè i varii criterii
' Si veggan le osservazioni di Corssen nei luoghi già citati del Ziir it. Spraclik. e del Seelmann. Quest' ultimo
fa anclie bene a ricordare che esiste un accento epigrafico che, quantunque più grande, somiglia all'apice e si
può scambiare con esso. L'Henzcn poi e lo Zangemeister hanno osservato che nel corsivo fu largamente usato l' i
longum a sproposito, sol perchè più perspicuo dell' i corto.
' È inutile dire che codeste voci italiane son tutte semidotte.
■' All' inverso del toscano popolare , che rifoggiò il perfetto (méssi) sul participio mésso = nussus.
onde si può scandagliare la quantità si trovino in coutradizione tra loro. Un pre-
cetto, per es., di Prisciano afferma la lunga, il riflesso romanzo esige la breve; e
così via. In tali casi il criterio più sicuro quando sia adoperato con tutte le cautele
è quello fornito dalla parola neolatina, poiché questa è un'attestazione 'nòiturale"
della cosa: è un testimone talora smemorato ma sempre sincero, ed è vivente e si ■
può riconsultare , mentre degli altri morti testimoni non abbiamo clie ' la deposi-
zione scritta. '
E la parola romanza può prestare anche qualche servigio a far ben compren-
dere che cosa sia in sé stessa la lunghezza di posizione nelle lingue classiche; come
mai cioè avvenga che in mòrtuus e sim. la prima sillaba pesi nel verso quanto la
prima di mòtus o ài 2}>'ómptus dove è una vocale lunga. E per una 'convenzione',
si dice; e questo volean intendere i Greci con (diati, contrapposto, come nella que-
•stione della origine del linguaggio e in altre, a tph-ji'.; e questo intesero pure i Latini
quando tradussero con 'positione' (cfr. il 'diritto positivo" contrapposto al 'natu-
rale'), sebbene dipoi il senso della voce tralignasse e finisse a significare la 'situa-
zione' della vocale avanti a più consonanti. ' Ma è una convenzione fondata sulla
natura, appunto come la legge positiva -pxiò esser fondata sull'equità naturale: que-
sto sostiene I'Havet in una bella Memoria ove, con quella sua larghezza di s^^irito
e di dottrina, schiarisce assai bene la natura della posizione in sanscrito, greco e
latino.' Il fondamento naturale é che quando si dice mor-tuus la prima sillaba im-
porta più tempo che non in viò-ri. Lasciamo stare quel viluppo matematico delle 'more"
e delle 'mezze more' in cui s'intricarono certi grammatici 'mauri' antichi e appresso
a loro alcuni moderni, quali il Corssen e il CaneUo, e dove oltre il resto manca so-
prattutto la matematica. ^ E neppure vorremo accogliere un' altra dottrina che in
forma più eccessiva è stata messa innanzi dal Baudry,' e sotto sembianze più miti
dall' Havet (1. cit.) e dall' Edon ; '' la quale consiste nel supporre che fra 1' /• e il * di
mòrtuus, fra il ^ e il < di càpUis e cosi via, vi sia una specie di sosta che distac-
cando l'una consonante dall'altra appesantisca le sillabe càp- mòv- e sim. Il Baudry,
ricordando i persiani che pronunziando il francese dicono quasi/eraficats oheject ecc.
e i selvaggi della Nuova Zelanda che chiaman Wìkitoria la regina d'Inghilterra,
immagina che un quissimile facessero i Latini ! L' Edon adducendo un gran numero
di forme epentetiche latino-volgari (p. es. mdtbihus per matribus) desunte dallo Schu-
chardt e dai manoscritti virgiliani , e affiancandoli con esempii tratti dal neo-proven-
zale, vuole egli pure che tra le due consonanti successive si avesse una 'pausa'. Ma
' n primo grammatico presso cui il Tliurot (1. cit.), a cui dobbiamo la storia di codesta terminologia, trovi il
senso tralignato , è Mario Vittorino del seo. IV.
' Mém. de la Soc. de Hnguist. , IV, 21-27. Di (inalche punto in cui l'autore non mi persuade del tutto tooclieró
ira poco. ,
» Con larga vena di ottime ragioni critica codesta infelice dottrina I'Edon nel suo libro Ecriture etprononcia-
tiondu latin savant et du latin popuìaire , Paris, 1882; p. 193-211.
' Ch-ammaire comparée , Paris 1866; p. 10-13.
'• Op. cit.,212'sog.
— 100 —
il fidarsi a quella babilonia di storpiature barbariche, di peculiarità provincialesche,
di sbadataggiui e «toltozze individuali che è il volgar latino , per ricomporre il latino
schietto e sano , mi par come voler cogli avanzi d' ixn teatro anatomico formare una
persona bella e viva ; mi riesce quasi tanto strano quanto il consultare il franco-per-
siano e r anglo-zelandese ! L' Havefc è ben più discreto : a lui basta che tra le due
consonanti vi sia una certa rèmora, un 'silenzio', che sommato con la consonante
antecedente costituisca com' un' altra 'mora' da sommare con quella della vocale
breve precedente. Ma qiianto, anche ridotta a codesti così discreti confini, la dot-
trina del distacco tra le due consonanti sia falsa, lo mostra se non altro il fatto che
la posizione ha luogo anche per una consonante raddoppiata {(jutta passus ecc.), la
quale è un proflferimento unico e non si saprebbe immaginare, massime se è esplo-
siva, divisa in due metà discontinue.
Eppur la cosa a me par semplicissima, e vedo con piacere che allo stesso modo
la intenda un altro studioso. ' Tra le due consonanti non vi è nessuna discontinuità,
ma è pur certo che la parola consta di successive articolazioni o sillabe. Ora, se ca-
pita una sola consonante tra due vocali essa si articola colla vocale successiva {mo-ri),
se le consonanti son due la prima s'abbarbica, s'addossa, alla vocale precedente
(mor-te, mul-tn, caii-tu., cam-jio, cos-ta, dic-to, cnp-to ...); e perfino quando non di
un gruppo di diverse consonanti ma si tratta di un' unica consonante intensamente
profferita e perciò rappresentata dalla scrittura con raddoppiato carattere, anche
allora una parte di essa si addossa alla vocale precedente , e la ortografia non men-
tisce quando prescrive che in fin di riga si spezzi gut-ta e sim., per quanto codesto
distacco preso troppo alla lettera menerebbe ad un profferimento assurdo. E vero che
consultando alla buona l' orecchio pare che la doppia consonante s' addossi tutta alla
seguente vocale, e così alcuni pedagogisti (Lambruschini, Casanova ....) han creduto
insegnar nelle prime scuole a spartire go-ccia passo e sim. ; ma un esperimento più
fino ci fa subito riconoscere c'he se almeno per le mute, 1' esplosione si addossa dav-
vero alla vocale successiva, il contatto però è già formato, 1' abbrivo alla pronunzia
della doppia muta è già dato, la consonante è già incoata, avanti che la prima ar-
ticolazione si compia ; e per le continue poi neanche 1' apparenza' della cosa ha
luogo , ed è evidente anche ad un fanciullo che dicendo carro metà del rr s' addossa
all' rt. Or la sillaba, avendo oltre la vocale breve un qualcos'altro di più, dura di
più e perciò la si considera come se avesse la vocale lunga: ecco tutto! Chi vedesse
in ciò, e non mancano indizii che qualcuno vi propenda, una mera convenzione, po-
trebbe essere redarguito anche con certi fenomeni neolatini. È risaputo che il fran-
cese dice char pas chasse marbré di fronte a cher nez chef, e goutte conte di f. a gueule
jletir , ed esso e il toscano dicono corpo corps di f. a cuore coeur, cervo ferro cerf fer
di f. a 2}iede fiero pied fier ; vale a dire che la degenerazione di « in e, "ài 6 in no U ecc.
non ha luogo quando v'è posizione, e che questa impedisce la schiusa o promuove il
' Gaklanda, Della lioigìwzsa di posizione ecc.; nella Rivistaci Torino, X, Febbraio-Marzo 1882. E uno scritto
limpido e pieno di buon senso.
— 410 —
riassorbimento (non è qui il momento di scegliere fra le due ipotesi) del dittongo
dell' o e dell' e. Or la fonetica popolare non adula, non conosce convenzioni: dando
tanta importanza alla posizione, attesta la naturalità di questa.
E che cos'è la 'positio debilis"? L'Havet e il Garlanda l'hanno ottimamente
spiegata. Quando il gruppo consonantico consiste in una muta seguita da una li-
quida, l'articolazione l'unisce tutto alla vocale successiva (j)à-tre vo-Iiì-cri ....), e
anche qui la cosa è splendidamente confermata dal neolatino. Già vi è ricorso l' Ha-
vet accennando a j^ère clièvre di f. a 2>a''i cliarte, e si può richiamare inetra pierre, in-
tiero entier ecc. di f. a aperto ouvert, verme ver ecc. ; le quali serie mostrano come per la
parlata latina Va di patre e capra^ l'è di pètra integro- si trovasse in sillaba
aperta non meno che in mare férus e sim. , ossia che la liquida abbarbicata alla
muta non impedisse a questa di articolarsi tutta con la vocal successiva,' né alla
vocal precedente di avere se era breve' l'evoluzione di breve. Or bene la poesia an-
tica, quando per comodo suo computava come facienti posizione anche i gruppi ^c
cr hi ecc., non faceva altro che artificialmente distaccare un pochino la muta dalla
sua saldatura colla liquida, e addossandola alla vocale precedente allungare cosi la
sillaba: diceva pai-i-e voluc-rì. Qui davvero si potrebbe quasi riconoscere ima mera
convenzione, ma è jDur sempre un di quegli artificii che hanno una base naturale come
silua per silva^ ^jajyeiiòiis '^ex parietihus , coscienza per coscienza e sim.: che in
fondo gli artificii della poesia a questo si riducono, a stiracchiare un po' la natura
non a violentarla. E a meglio mostrare come nel caso nostro non mancasse la base
naturale basta rammentare che quando la muta era finale di una parola e la liquida
iniziale della parola seguente, la posizione non era debole o facoltativa ma neces-
saria, come in nec rumor ec; appunto perchè qui il senso stesso portava al distacco.^
Computando mac-rum ec. non si faceva che estendere alla formula interna il com-
puto che era naturale in nec rumor ecc. Ma che il distacco importasse quasi una
vera e propria epentesi,'* fu un sospetto eccessivo del Canello, che pure aveva in-
tuito feKcemente la vera spiegazione della posizion fievole. '^
' Il che però non toglie clie il neolatino, schivo coni' è dal tollerare un gruppo consonantico postonico che
non succeda subito all'accento (rarissime le eccezioni come Tiiranto, mandorla, cìmberli oc, che sono o roba esotica
o bizzarrie gergali ec.) , richiami l' accento sulla penultima negli sdruccioli quando l' ultima s' apre con muta -f- li-
quida. Ognun ricorda intiero, coiilcunre, paìipicrc, tonncrrc, tinicblas, Vellclri eco. Ne han già toccato il Dakmeste-
TEB {Eomania,V, 147, n. 1") e meglio VHavet (Ibid.. VI, p. 43-3-6).
■ Giacché è superfluo l'avvertire che la vocale lunga per natura, anche se seguita da (r, cr ec. , non perdo
mai questa sua qualità, e involTicriiìn, salubre ec. son cosi saldi come volTunen e salTitcm. Non sou che er-
rori l' invòlucro e il salubre ohe alcuni Italiani dicono , sebbene abbian pure un fondamento analogico sali' ìntegro,
tenebre, fùnebre accanto alpoct. rntT'ffro ec, e sul letterario pàlpebra di alcuno Provincie italiane ae. al tose. 2^alpèbra.
^ IVHavefc (1. cit.) che ha altro belle considerazioni sulle aspirate e sul qu' rispetto alla posizione e sulla posi-
zione tra parola e parola, le quali ci duole uon poter riferire, stabilisce una specie di cronologia dei fenomeni della
posizione tra sanscrito, greco omerico, greco classico, latino .aroaico e latino augusteo, contro alla quale non ab-
biamo nulla a ridire in quanto è registrazione di fatti, ma che stentiamo molto ad accogliere come cronologia in-
trinseca o iirogressione naturale di quei fenomeni.
' Si potrebbe, por illustrare cotesto concetto, citare il modo come un dialetto meridionale, il beneventano,
pronunzia libro, sovra, ohe dice quasi *l'ihero, *si'iocra.
' Rivista di Torino, II, 2i6sgg. — E curioso davvero che l'epentesi, invocata senza necessità ma non a spropo-
sito dal Cauello porispiogara come la poesia potesse contar per lunga la prima sillaba di pàtri e sim., fosse ado-
— 411 —
E vorrei infine far risaltare la conferma che da codeste esplorazioni della quan-
tità naturale delle vocali in posiziono viene alle dottrine così dette neogrammaticlie.
Non è, si badi, che io abbia smania di far professioni di fede o vincolarmi con qual-
che legame settario che mi scemi la bella libertà di aprir le braccia al vero e di re-
spingere il falso da chiunque quello o questo muovano. D' altro lato , di tutta code-
sta letteratura neogrammatica e delle polemiche che si è attirate contro, io non ho
letto pur troppo se non una terza parte all' incirca ; e perfino i due ultimi scritti del
Curtius e dello Schuchardt, che ho qui come un caro pegno, non li ho potuti per-
correre ancora. Inoltre, uè sarebbe ora il momento che in coda a una trattazione
speciale dessi mano a una grave discussione di principii , né le mie idee son di molto
mutate da quelle che già espressi in una recensione dell' ottimo libro di Delbriick
(7iù\ di Torino, X). Io tengo e terrò sempre che i maestri della glottologia sieno
Bopp, Grimm, Pott, Sclheicher, Curtius, Diez, Zeuss, Miklosich, Ascoli, Burnouf
AVhitney, Flechia, Tobler, Schuchardt, Mussafia, Paris, , ed il migliore auo-urio
che per conto mio sappia fare ad Osthoff, a Brugmann, a Saussure, a Gustavo Meyer,
a Neumaun e ad altrettali uomini valentissimi, è che 1' avvenire ponga definitivamente
i loro nomi insieme a quelli più su ricordati o sottintesi. Ma confesso che la mia
simpatia pei metodi neogrammatici è oggi un po' più viva di quella che mostrai nella
detta recensione, e l' antipatia'per il tòno pretensioso onde essi furono talora annun-
ziati me la trovo oggi neutralizzata alquanto dall' impressione non in tutto piace-
vole che mi fa la riluttanza di alcuni dei così detti vecchi grammatici conti'o le più
ragionevoli e discrete esigenze della gi'ammatica nuova. Sfrondata questa delle aber-
razioni individuali, delle troppo precipitose applicazioni dei suoi principii, delle in-
coerenze anche e contravvenzioni ad essi , a che si riduce in fondo il suo credo ? A
ritenere che la legge fonetica , in quanto è puramente fonetica, non possa verificarsi
in alcune voci sì e in altre, senza alcuna ragione, no; bensì debba essersi verificata
sempre, salvochè dove o speciali condizioni foniche d'una voce o serie, o l'intervento
di processi psicologici non ne abbiano pertui-bata l' azione. Le eccezioni alla legge
fonetica sono innegabili, ma non sono arbitrarie, come la grammatica empirica cre-
deva e come la vecchia grammatica comparativa non ha abbastanza discreduto; non
sono spontanee e capricciose ribellioni alla norma, ma, poche o molte che sieno, de-
vono aver avuto una ragione sufficiente , un motivo determinante : ragione o motivo
che spesso si vede, spesso s' intravvede , talora dopo molto cercare si trova, tal' altra
si cerca faticosamente invano, ma ad ogni modo vi deve essere stato. Ora, codesto
concetto è così ragionevole in sé medesimo , é jjoi così cònsono all' indirizzo presente
di tutte le scienze morali sempre più intese a spiegare con leggi e con motivi i moti
perata da un altro dotto, ohe è nientemeno Giovanni Schmidt {Zar Geschichte dea indogerm, Vocal., 1, 101; II, 349),
per ispiegare il fatto precisamente opposto: come cioè ììatri e sim. , pur avendo due consonanti attigue, potesse
lasciar breve la prima sillaba e non la facesse lunga come parti. Il concetto fondamentale dell' illustre glottologo
e le contradizioni in cui egli cade svolgendolo sono già ben criticati dal Garlanda (1. cit.). Del resto, il ricorrere a
un *2)atcrt (kj\j—) per ispiegarsi la misura giambica ('^-) di patr i e cosi via, è cosa che riesce subito strana; né
meno specie fa il vedere addotti esempii di epentesi quali per mo' di dire ^-pareti pev parti per affiancare V ipo-
tesi del *pii.t(r i^pntri, mentre poi parti ha una 'posizione' che non è mai 'debole'!
- 412 —
della volontà iudivicluale o collettiva e a rinnegare il pnro ai'bitrio, risulta infine
così evidentemente dal successivo incremento della glottologia; che proprio non so
intendere come gli si possa ancora opporre resistenza. Ad ogni fonologo dovrebbe la
propria esperienza insegnare che più egli progredisce nel rischiarare il soggetto cui
egli attende, e più si trova d' avere spiegate anomalie e circoscritto il numero di
quelle eccezioni incomprensibili, chiuse, petulanti, che gli sono tante spine nel cuore,
come a un padre i figli traviati o ad un capo di polizia i ladruncoli su cui non riesce
a metter la mano. E vorrei che un mio bravo amico, colto e fino ingegno ma indo-
cile alle severità della analisi, scendesse un po' dalle nuvole, ove sembra avere sta-
bilito il si;o quartier generale, e venisse una buona volta alle prese con un soggetto
determinato e concreto : s' avvedrebbe allora anche lui come ogni passo che si riesce
a fare in questo sentiero della fonologia si riduce in sostanza a questo, che un' ecce-
zione capricciosa se ne sfuma e itu' eccezione motivata si acquista :
A battesimo suoni o a fuuei'ale,
Muore un brigante e nasce un liberale,
diceva il Giusti.'
Certamente, la parte sana del criterio neogrammatico non è se non uno svi-
luppo di abitudini metodiche , che erano già più o meno nella grammatica anziana ;
è un lumeggiamento nuovo e più intenso di una mira a cui anche prima si volgeva
r occhio. I romanisti in ispecie erano già tanto su codesta via che, quando giunse al
loro orecchio come una nuova glottologia proclamasse doversi badare a spiegare le
eccezioni , essi avrebbero potuto sentire l' impeto di esclamare qualcosa di simile al
M^'. Jourdaiu del Molière, allorcliè fu informato dal siio maestro di filosofia in che
consistesse la prosa. ' Facciam da tanto tempo della neogrammatica, e non lo sa-
pevamo ! — Egli è che la riforma neogrammatica altro non è in certi limiti se non
r applicazione alla glottologia classica di buone abitudini metodiche già vigenti
nella romanza (e nella germanica).
Sennonché appiinto 1' aver voluta quest' applicazione e 1' aver dato un assetto
sistematico e rigoroso a criterii metodici osservati per lo innanzi in modo inco-
stante, perplesso, quasi inconsapevole, da chi più da chi meno, in qual campo
meno in qual campo più, è il merito innegabile e grandissimo dei neogrammatici.
Per opera loro è divenuto impossibile il rimanersi contenti, come prima si faceva
talora , a registrare sic et simpliciter, quasi fossero non inverosimili alterazioni fo-
netiche , certe mutazioni che assolutamente reclamano una spiegazione d' altra na-
tura; alla quale sì anche prima non di rado si ricorreva, ma quasi ad libitum. Jli
' Il Delenda Carlhnyo , st. 2'^.
' « M' JouRD.: Il n'y a ([UO la prose on les ver.s? — Tjf. maitre: Xou, monsieur. To«t ce qui n'est point prose est
• vor.s, et tout ce (jui n'est point vers est prose. — M' Jourd.: Et comme l'on parie, qu'ost ce que c'est (Ione cela? —
• Le maitre: De la proso. — M' .Jourd.: Qnoi! quand je ilis: Nicole, apportoz-moi mes pantcuflos, et me dounez mon
• bonnet do nnit, c'est delajn-ose? —Lk maitre: Oui , monsioTir. — M' Jourd. ; Par mafoi, il y a plws ile quaranti-
• ans qne jo dis de la prose, sans quo j'en snsse rien; et je vous suis le plus obligò du mondo do m'avoir appris
■ cela. > — Le Dourgcois yentilUommc , a. II, so. tì".
— 113 —
sia lecito darne un piccolo esempio iit, anima vili Descrivendo aldini anni sono un
dialetto dell'Italia meiùdionale , io avvertivo come il -ss- vi si trovi (come del resto
in tutto il mezzogiorno e nella stessa Roma e nell' Umbria) riflesso una volta per
-zz- nelle sole voci del vei'bo 'potere' (pózzo = fiossum). ' Potrei ora dire che io in-
tesi semplicemente di additare codesto esemplare alle riflessioni degli studiosi, se
mai altri riuscisse a spiegarlo con 1' analogia o con altro mezzo consimile a me non
presentatosi; ma sarei poco sincero: lo misi innanzi come un vero fenomeno fo-
netico eccezionale, per quanto mi sembrasse strano. Ed aggiungo che sarebbe poco
sincero chi ora dicesse che questo fu un singolarissimo abbaglio mio, in cui niun
altro allora sarebbe caduto; quando il vero è che di concetti simili ne pullulavano
ogni giorno in mente ad ogni studioso di linguistica. Ed ecco . un illustre glottologo
mi fece subito osservare che 2JÒz~o non dev' esser altro che un poteo '* potlo per '^ poto
(cfr. caggio="cadjo, oltre cado), vale a dire la voce dell'indicativo presente rico-
niata come potere, ecc., sulla radice 2>ot- che risultava da potente, ecc., con un pro-
cesso in verso insomma a quello che ha avuto luogo in possente, ecc.; e cosi pózzo
=:^"2^oteo, al par di pózzo =:p)ute%isì' E chi era codesto mio cortese castigatore V
Era il Flechia, un grammatico pur troppo non giovanetto! E qviesta è una prova
che non e' era bisogno dei neogrammatici perchè si ricorresse ai processi analogici
per eliminare le anomalie fonetiche. Ma d' altra parte è pur vero che né io né altri
s'attenterebbe oggi a metter fuori quella strana equazione pòzzo^=possum, senza
prima averla investita da ogni lato con tale insistenza da doversi la spiegazione del
Flechia presentare di necessità anche a menti meno della sua acute, o almeno nes-
suno oggi la metterebbe fuori senza espressamente avvertirne la impossibilità fone-
tica. E questo scrupolo è effetto della riforma neogrammatica!
Orbene, lo scernimento che i romanisti han fatto tra le vocali brevi e le lun-
ghe per natura anche nella posizione, siccome ha condotto a giustificare e conci-
liare una gran quantità di riflessi romanzi che prima parevano vaganti e discordi,
non ha forse giovato così a confermare il rigore delle leggi fonetiche e quindi la
giustezza del criterio neogrammatico? Il Diez, per il quale, ad es., 1' n di Aiigustìis,
di curtus e sim. per nulla differiva da quello di justus, di furtìim e sim., che in-
terpretazione poteva dare al riflettersi che esso fa d'un rotodo in Agósto córto, ecc.,
d'un altvo in giusto furto , ecc.? 0 doveva dire che V n in posizione quando si ar-
rende a farsi ó e quando s'incoccia a rimaner u; ovvero, posta la regola che si
faccia ó, doveva insieme porre che in un gran numero di casi la mutazione, non
si sa perchè, non si verifichi: o nessuna legge dunque o una legge crivellata di
eccezioni. Noi invece, che vediamo in Agósto, ecc., riflesso regolarmente V u, in
giusto, ecc., continuato semplicemente l'« (cfr. jurls furls), troviamo regolarità ed
ordine dov' egli non poteva vedere se non anomalia e disordine.
Ne consegue che lo Schuchardt, p. es., avendo per il primo pensato a bipartire
' Ardi. G/.. IV, 167 (n» 130).
' Ardì. G!.,lV,im-'J.
— 414 —
o per così dire a pettinare il gruppo delle vocali in posizione, è stato così uno dei
promotori della nuova grammatica, uno dei dimostratori, me lo perdoni il mio
illustre e caro amico, di quella inesorabilità delle leggi fonetiche contro cui egli
si è recentemente scagliato. Del resto, non è la prima volta che e nella scienza e in
ogni altra parte della attività umana si rifiuti ad accoglier le conseguenze colui
appunto che ha il maggior merito nelF aver piantato le premesse. Ed il certo è che
fra le discordie degli scienziati la scienza intanto , la bella immortale , procede di-
ritta e sicura per la sua via. Essa trae partito così dalle audacie e persin dalle te-
merità degli uni come dalle cautele e sin dalle ostinazioni degli altri; e tutti in-
somma congiurano al progresso di lei: se non conjiiraut cimice, almeno conjurant
inimlce!
F. d' Ovidio.
P-S. — Arrivo appena in tempo ad aggiunger sulle bozze una notizia assai im-
portante, che debbo alla cortesia del prof. Teza. Avendo questi saputo com' io fa-
cessi ricerca di quanti abbiano studiata la quantità in posizione e come non avessi
trovato alcuno anteriore al Lachmann (1850), ha voluto guardare in un vecchio
libro divenuto raro oramai, V Elementari ehr e der lateinisclten Sbracile, dello Schneider,
e vi ha trovato più pagine (108-115) intorno al mio argomento, le quali egli lia avuto
la squisita cortesia di mandarmi trascritte. Di certo esse non disturbano punto il
mio ragionamento; tuttavia mi son giunte, lo confesso, assai inaspettate. Leo
Schneider fin dal 1819 trattava dunque questo tema con grande chiarezza d'idee,
finezza di criterio, e copia di fatti; e fa veramente stupore che a lui non si badasse,
e che poi quando il Lachmann ripigliava il soggetto non ricordasse lui, e che nes-
suno, ch'io sappia, dei dotti tedeschi che si misero sulla stessa via pensasse a to-
glierlo dall' immeritato oblio. Come è del pari strano che il Diez, che ebbe così fami-
liare il libro dello Schneider (lo cita, p. es., dove tratta di e tonico latino, di >i, di
y, di «e), non ne traesse alcuna ispirazione in quanto alle vocali di posizione. E sì
che la considerazione con. cui lo S. dà principio alla trattazione di queste, pareva
fatta apposta per metter sulla buona via il Diez. Sembra che sia generalmente sot-
tinteso, dice lo Schneider, che la vocale in posizione sia in sé stessa breve: eppure
questo è un errore, giacché, per molte voci se non altro, è provato che è lunga. E
qui incomincia coi grecismi, come apoi)lèxia àstJtma eclìpsis lèmma orchèstra
pléctrum scèptrum Cyclops Epaminoudas Hymèttus ecc., contrapponendoli a
Cecròps electrum ecc. Passa quindi alle voci prettamente latine, e ricorda il luogo
di Cicerone su infelìx ecc. e la conferma che ne fanno Gelilo, Diomede, Massimo
Vittorino, Sergio (del quale ultimo avverte come registri anche Infida e ìnsula);
richiama Gelilo per caléscit e per il dubbio intorno a quiescit; riferisce il luogo
di Gelilo sui participii e ne cava suppergiù lo stesso costrutto che poi ne cavò il
Lachmann; né dimentica il frequentativo Iccto messo innanzi dallo scoliasta ora-
— 115 —
■/Aa,no Porfirio. Richiama Prisclano per la norma dei nominativi in x elio lian lunga
la vocale quando è tale anche nel genitivo (audax ec), o non si lascia sfuggire la
bella distinzione di Festo tra inlèx inlègis e inlex iiilìcis. Lascia, pel momento,
dubbio ^y«a;,- registra mófis e sim. secondo Prisciano; e distingue, sulla scorta di
Festo e di itn altro grammatico ignoto, lustrum 'cubile ferai'um' da lustrum
quinquennium'; e dal solo Festo cava mùscerda quùicentum (are), e da Mario
Vittorino hUsternum. Da Asconio Pediano riferisce che nella frase poscunt ma-
jor ihus pocidls alcuni prendendo poscunt per incoativo di potare lo pronunziavano
con 0, mentre non è che poscunt, cioè provocant sese Invicem. Da Donato e
Servio trae èst éssem per edit éderem- Ragiona assai bene su un luogo di Vello
Longo, che in errasse ahjectsse ecc. pare connetta la lunghezza della vocale alla
geminazione della sibilante, e gli oppone essere già lunga la vocale in erràvisse
o in abjecì (né gii faremo carico che non abbia pensato che l'ultima fase fosse ahje-
cisse). Notevole è infine che l'acuto filologo già badasse al buon uso da potersi fare
delle trascrizioni greche (ricorda Kwvaravtìvo? aazirjVz ecc.), e non gli sfuggisse il jjeri-
colo dell' abuso là dove avverte non doversi da A^youcstoc e sim. argomentare falsa-
mente Augnstus e sim. All' etimologia, ovvia quasi sempre, ma quasi sempre anche
retta, guardò per parecchie voci, come v'ixi, rèjjsi, làrdum (Idridum), nndecim,
lillla intestino (da liìra), mille, narrare, Olla, Oscular, nnntius, nundinum ,
exlstlmo, malie, trfilla (egli aggiungerebbe anche hlsco per hiasco). Il viirtus
di una moneta di Galba non vale per lui a scuotere virtus, poiché egli non ignora
l'indebito sciupìo che fu fatto dell' t7. — Lo Schneider insomma avea già messo sulla
via regia la trattazione del nostro soggetto ; e clii vi ritornò più che trent' anni dopo,
la mise per viottoli.
F. d'O.
IL TRATTATO DI POETICA rOIITOGHESE
ESISTENTE NEL CANZONIERE COLOCCI-BRANCUTI.
La primitiva lirica del Portogallo ci vieu rappresentata siccome una figliazioue della lirica
provenzale, e infatti basta di dare uno sguardo alla nomenclatura die fu adattata ai suoi diversi
generi, ' perchè la cosa debba parere più clie verosimile. È peraltro vera ? Se ne potrà dubitare,
almeno fino a tanto cbe la Poetica storica portoghese non sia stata rifatta sopra documenti au-
tentici. Questi documenti sono, oltre alle note che accompagnano molte composizioni nel Canzo-
niere Vaticano e nel Canzoniere Colocci-Brancuti , 1° la nota- Lettera del marchese di Santillana
al Connestabile di Portogallo, edita la prima volta dal Sanchez nel voi. I delle Poesias Castel-
lanas anteriore» al siglo XV; 2" il trattato anonimo che si legge a capo del Codice Colocci-Bran-
cuti e che fu pubblicato dal povero Molteni nel voi. II delle mie Communìcasioni.
Di questi il secondo è certamente il più importante, siccome il più antico e il più ricco di no-
zioni tecniche. Ma esso è anche il meno accessibile per le difficoltà d'interpretazione che pre-
senta il testo. Il Molteni ne diede lina edizione diplomatica e fece quanto di meglio si poteva fare
nel caso suo : invero la sua trasci-izioue riusci esattissima e appena su qualche lettera un pedante
troverebbe da disputare. Senonchè il ms. medesimo era già tanto guasto, che la fedeltà della
trascrizione si risolve in questa sola guarentigia, che tutte le difficoltà proprie di quello si ritro-
vano nella copia a stampa. E tali difficoltà non sono poche. Evidentemente il Colocci ebbe
alla mano non un codice, ma dei brandelli di im codice; uno dei suoi amanuensi, alla meglio,
materialmente e senza capirci nulla, copiò sei colonne, e un'altra colonna e mezza, probabilmente
in peggiori condizioni, copiò di suo pugno il Colocci: onde, mentre la parte dovuta al Colocci,
benché scritta in corsivo, è decifrabile; l'altra parte poi dovuta all'amanuense, benché in let-
tera tondeggiante, riesce spesso oscurissima, non di rado tale da far disperare di cavarne un
senso. Forse da questo viene che, dopo sei anni, nessuno abbia ancora messo a profitto il pre-
zioso documento, e, se per ciò si aspetta una edizione critica, dubito che si dovrà aspettare an-
che di più. Quanto a me confesso di averne abbandonato il pensiero, e quel che offro qui non
pretende nemmeno di passare per una edizione provvisoria; è solamente l'estratto di quanto mi
riusci d'intendervi o di congetturarvi su, estratto che forse non sarà inutile per chi voglia pro-
varsi a un lavoro definitivo, e che frattanto sopperirà al bisogno di coloro che studiano la poe-
tica dei trovadori portoghesi. Nel far ciò, naturalmente , non riproduco i passi dai quali non
riuscii a cavare un senso. Quelli ognuno può trovarli nella edizione del Molteni e qui li ho so-
stituiti con dei puntini.
Ved. la Poetica historica poiiugueza nella Antologia portugucza del Braga, Porto , 1876.
- 418 —
In origine questo trattato doveva constare di sei sezioni, cliiamate Ccipitoli, ognuna delle quali
si suddivideva in altre sezioni minori, cliiamate Capitoli anch'esse. A distinguere le sezioni dalle
sottosezioni, in questi estratti chiamerò Capi le prime, Capitoli le seconde. Presentemente
mancano tutto il Capo I e il II,' nonché i Capitoli I-III del Capo III, e il trattato ora comincia par-
lando delle Cantigas il' amor e d'amiyo (Capit. IV), indi vi si parla delle Cantigas d'escarnho
(Capit. V) e de maldizer (Capit. VI), delle Tencòes (Capit. VII), delle Cantigas de vilao (Ca-
pit. Vili), del Seguir (Capit. IX).
Il Capo IV parla delle varie parti della Cantiga, Taìlios e Cobras (Capit. I), Fiindas (Ca-
pit. IV); di qualche particolar modo di collegamento, Palahras perdudas (Capit. II), Afafiindas
(Capit. Ili) ; e di altri artiiìzi ritmici , quali il Dobre (Capit. V) , il Mordobre (Capit. VI).
Il Capo V, composto di due CaiDitoli soltanto, tratta dell'uso dei tempi (Capit. I), delle rime,
delle loro specie e del modo di adoperarle (Capit. II). •
Finalmente il Capo VI, dopo di aver toccato degli errori in generale (Capit. I), passa a
specificarne due, consistenti nella cacofonia (Capit. II) e nell'iato (Capit. III).
Il trattato fu certamente composto mentre la poesia trovadorica era ancor viva : dei trova-
dori vi si parla in tempo presente, e la lingua ha forme grammaticali e lessicali che erano già
fuori d'uso nel seo. XV.
Lo Chabaneau ' crede che Fautore di questo trattato possa aver conosciuto le Li-yti d' amors.
Se cosi fu, diventeranno sempre più meritevoli di attenzione le molte divergenze che presentano
nelle teorie e nella nomenclatura queste due opere. Ma il coincidere di esse nella definizione e
noi divieto del cacenphaton e dell'iato forse è tropjso poca cosa per argomentare a possibili raj^-
porti fra loro; uè l'uno né l'altro di quei precetti erano singolarità delle Lcys, bensi apjiartene-
vano alla tradizione grammaticale di quasi tutte le scuole del medioevo.
E. Monaci.
CAPO III.
Capitolo IV. — E porqne algunas cantigas hy ha en
cjixe falam eles et elas outrossy, porem he bem de eutenderdes se som d' amor, se
d''amigo: porque sabede que, se eles falam na prima cobra et elas na outra [he
cantiga] d'amor, porqne se move a rrazom d'eie, corno vos ante dissemos; et se
elas falam na primeira cobra, he oiitrossy d'amigo; et se ambos falam em huma
cobra outrossy, he segundo qual d' eles fala na cobra primeiro.
Nel Canzoniere Vaticano si conferma questa distinzione fra le Cantigas d'amor e d'amigo;
ci. per esempio il titolo posto innanzi alla serie che comincia col n.° 156, e l'altro titolo posto in-
nanzi alla serie che comincia col n." G53. Le Cantigas d'amigo vi stanno sempre aggruppate se-
paratamente dalle Cantigas d'amor anche quando appartengono allo stesso autore.
Origine et Uahliasement desjeux flormix, par Oh. CnABANEiu. Toulouse, Privai, 1885, p. 3, n. 8.
— 419 —
Capitolo V. — Cantigas d'cscarneo som aquelas riuo os trobadores fazem d.mc caniigus
qnerendo dizer mal d' algueii em elas, efc dizeulho per palabras cubei'tas, que aiam
dous entoudymentos , para llielo non eufcenderem ligeyramcute; efc estas palavras
chamam os Clerigos equivocatio. E estas canfcigas se podom fazer outrossy de
maestria ou de rrefram. E, pero qua algiinms dizem que a hy algiimas cantigas de
ioguete derteyro, estas non som mais ca d'escarnlio, nem ham outro entendi-
mento. Pero er dizem que autras ha hy de rifaoelha: estas ou seeram d'escarnho
ou de maldizer; et chamanlhes asy, porque.... enda a vezes os homens. Mais non
som cousas em que sabedoria nem outro bem aia.
Pertanto la caratteristica della Cantiga d' escnrnho è l'equivoco ingenerato dal doppio senso
delle frasi. Poteva questa essere de meestria, ossia di genere aulico, e de rrefram, ossia di ge-
nere popolare. Quelle che alcuni chiamavamo de joguete derteiro,^ sono in sostanza null'altro che
cantigas d'escarnho, perchè hanno l'istesso scopo. Con le cantigas d'escarnho o de maldizer sono
pure identificate quelle che chiamavano de rifaoelha ,'- e doveva essere una maniera popolare
disdegnata dai trovadori.
Capitolo VI. — Canfcigas de maldizer son aquelas que fazem os fcrovadores dliio camigas
[querendo dizer mal d' alguem] descubertameute; et elas encerram palavras a quem
queren dizer mal, e non averam outro enteudimeiito se non aquel que querem
dizer. . . .
Non riesco a capire quel che segue; ma serahra che vi si accennasse ad un altro nome che
piar davasi a questa stessa specie di poesia, la quale differiva dalla precedente in ciò che vi man-
cava l'equivoco.
Esempi di Cantigas d'escarnho e de maldizer nel Canzoniere Vaticano v. ai nn. 907 e
seguenti.
Capitolo VII. — Outras cantigas fazem os trobadores que chamam Tencòes, Deiie Tomòos.
porque sou feyfcas por maneira de rrazon que huum aia coufcra outro, em que diga
aquel que por bem tever na prima cobra, et o outro rrespondalhe na outra dizendo
o contrayro. Estas se podem fazer d'amor ou d'amigo ou d'escarnho ou de mal-
dizer, pero que devem de seer de meestria. E d' estas podem fazer quantas cobras
quiserem, fazendo cadahuuma sua par. Se hy ouver d' aver fiinda, fazen ambos
seuhas, ou duas duas; ca non coiivem de fazer cadahuno mays cobras nen mays fiidas
que o outro.
La Tenzone era dunque un genere de meestria , ossia aulico , e poteva avere argomento sia
amoroso sia satirico. Il numero delle stanze era lihero, ma ogni stanza doveva avere la sua '
corrispondente. Non c'era ohbligo di porvi la fiinda o fiida, ossia ciò che noi chiamiamo com-
miato, e che i pi-ovenzali chiamavano tornada; ma nel caso, ognuno dei tenzonanti doveva
porne una o anche due, cosicché il loro numero fosse sempre uguale da ambo le parti.
Esempi di Tenzoni nel Canz. Vaticano v. sotto i nn. Id, 27, 55G, 78G, 826 ecc.
' Il ms. Ioguete; derteiro^^derroteiro (che devia) ? o ooit. d'arteiroì
' rifaoeVia (il ms. risaoelha) diminutivo di ri/rio , refrain ecc.
— 420 —
Capitolo Vili. — Oatrossy outras canticas fazem os trobadores a que chamam
devilàos Estas cantigas corno outras cautigas, podem as fazer de quautos
talhos [quiserem].
Non mi fu possibile di coglierne la definizione, che comincia eoa una lacuna e seguita con
una riga e mezza di parole, sconciate. Soltanto è cliiaro quel ohe vi è detto dopo : cioè che si può
farle di quanti faUios si voglia (cf. sui taUios, qui erroneamente feilos, il Capit. I del Capo IV).
Un esempio di Cantiya de viìrio v. nel Cauz. Vat. al n.» 1043.
Capitolo IX. — Oatra mauera ha hy em que trobam dois liomeus, et que
chamam Seguir, et chamamlhe asy porque couvem seguir cadahuuma outra can-
tiga a ssom, ou en palauras ou en todo. E este Seguir se pode fazer em tres ma-
neras: a huma filha et a ssom d' outra cantiga, et fazemlhe outras paLivras tam
iguaes corno as outras , para poder em elas caber aquel som meesmo ; e este Seguir
he de meestria et sabedoria, porque toma nada das palavras da cantiga que siegue.
Outra manera y ha de Seguir, a que chamam palavra por palavra; e porque con-
vem , o quem eu està manera quiser seguir, que faca a cantigas nas rrimas da outra
cantiga que segue, et seiam yguaes et de tantas sillabas humas corno as outras,
para poderem caber en a quel ssom meesmo .... E outra manera hy ha de Seguir
em que non segue as palavras. . . . [Os trovadores] fazen as das outras rimas iguaes
d' aquelas , para poderem caber no ssom mays outra d' aquela cantiga que seguem ;
ou devem de tomar outra maestria [para] fazer nele dar aquel entendimento meesmo
per outra m9,nera; et para mayor sabedoria podemlhe dar aquel [som] meesmo en
outro entendimento per aquelas palavras meesmas. Assy he a melhor manera de se-
guir, porque da ao rrefram outro entendimento per aquelas palavi'as meesmas et
tragem as palavras da cobra a concordax'em con el.
Il Seguir dunque, nella verseggiatm-a e nella musica, era qualcosa di simile al Serveutese
del provenzali, o si cf. la definizione che di questo danno lo Leys I, 3-18. Esomjii di Seguir nel
Cauz. Yatic. v. ai nn. 1043 e 10G2.
CAPO lY.
CAPITOLO I. — Os Talli OS das cantigas que dam os trobadores et
fazer eguaes et de quantas maueras quiserem et teverem por beni. Pero os niaj^s
dos talhos en que fazen as cantigas de meestria , som estos : a cobra de sinquo
palavras. Pero quem a (]uiser fazer de tanto que [seia] igual
E OS trobadores podem fazer as cantigas ou
de quatro, ou de seis, ou do oyto, ou de mays, se qiiiserem. Mays estos som os talhos
- 121 —
meesmos melliores, para seer mais. . . . ot non fazer enfadarem encle os homens. E
estas cobras poderam fazer de quaes tallios quiserera , corno vos ja dira
Di tutti questo è il capitolo i5ià oscuro. A quel che pare talho siguilloava quasi misura o
si applicava cosi al verso, corno alla cobra: cf. il compas (lolle Lcijn.
Capitolo II. — Alguuns trobadores, para mosfcrarem moor meesfcria, me- ',,u"^,amu",
terom en ssas cantigas que fezeron, huna palavra que non rrimasse ci;ni as outras,
et chamamllie Palavra perduda. E està palavra poda meter o trobador no co-
meco ou no meyo ou na cima da cobra, en qual logar quiser: pero, quem ' a meter en
huna cobra, deve a meter nas outras, en cadahuna d' elas en aquel lugar, e està
palavra deve seer de ' moor meestria; ou erpode meter senhas palavras en cada co-
bra que rrimen huuas outras, ou, se er quiser, en cada cobra. E oi^trossy podera
meter na cobra .1. Palabra perduda duas vezes por està manera. . . .
Cioè: per dare saggio di maggior maestria, misero talvolta un .verso che non rimasse
con gli altri, e lo chiamarono palavra perduda. Di queste palavras perd. s'ebbero più maniere: la
prima consisteva d' un verso di meestria moor che si metteva al principio o nel mezzo o alla fine
della cobra, ma in tutte le cobras allo stesso posto; la seconda consisteva nel mettere La una co-
bra un verso che rimasse soltanto col verso corrispondente dell' altra cobra , o nel mettere in cia-
scuna cobra delle rime singolari; la terza consisteva nel mettere non una sola ma due paìacras
perdudas in ciascuna cobra.
Capitolo III. — Outrossy fezeron or trobadores algunas cantigas a que dia- Deiie cantig
maron Atefiindas, et estas podeni seer tam bem de meestria tam come de rrefram.
E cliamaronllte Atafiindas, porque conven que a prestomeyra palavra da cobra non
acabe rrazon por fym, mais tem a prima palavra da outra cobra que vem apos eia
de entendimento , far a conclusào. E toda a cantiga asy deve d'yr ata a fiinda, et
aly deve d' encerrar et concludir o entendimento todo do que ante non acabou nas *
cobras.
Un esempio di questo genere di poesia è il n.° 2 del Canz. Vaticano. Lì infatti il senso di
ciascuna cobra si compie sempre con la prima parola della cobra seguente, e una conclusione si
ha soltanto nella fiinda.
Capitolo IV. — As Fiindas som cousa que os trobadores sempre Imsaron de dciu- fììh.i;
poer en acabamento das sas cantigas, "para concludirem et acabarem melhor en elas
as rrazones que disserom nas cantigas, chamandolhis Fiida, porque quer tanto dizer
come acabamento de rrazon. E està Fiinda podeni fazer de huma, ou de duas , on de
tres, ou de quatro palavras; e, se for a cantiga de meestria, deve a Fiida rrimar coni
a prestumeyra cobra; e, se for de rrefram, deve de rrimar cum o rrefram. E, comò
quer que digam,^ a cantiga deve d' aver huna d' eles, e taes hy ouve que Ihe fezeron
' Ms. qua se.
■ Ms. de seer.
' Ms. iì!ij(ùi.
422
duas ou tres, segando sa vooiitaJe de cadaliuum d'eles; e taes hy ouve que as fe-
zeron sem fiindas : pero a Fiida he maj's comjirimento.
Dui Doiire. CAPITOLO V. — Outrossy vos querenios mostrar que quer seer Dobre. Dobre é
dizer huma palavra cada cobra daas vezas ou mays. May devem-no meter na can-
tiga muy gardadamente; e covem, comò o meterera en huma das cobras, que asy o
metam nas outras todas. E se aquel Dobre que meterem nahuma, meterem nas ou-
tras, podem-no hy meter en outras palavras; pero sempre naquel talho et daquela
manera que o meterem uà prima; e outrossy o deve de meter uà fiinda per aqiiela
[meesma] manera.
Esempi di Dobre v. nel Cauz. Vaticano ai nn. 33, OS, 56G e nel Colocci-Brancuti ai nn. 22,
130, ecc.
Del M„i-,u.bi-e. Capitolc?* VI. — Mordobre é tanto come Dobre, quanto he no entendimento
das palavras; mays as palavras desvayranse, porqiie mudam os tenpos. E, comò
vos ja disi do Dobre , outrossy o Mordobre en aquela guisa et per aquela manera
que o meterem eu huma cobra, assy o devem meter nas outras et na fiinda para
seer mays comprimento.
Esempi di Mordobre sono nel Canz. Vaticano il n<> 5G7 e nel Canz. Colocci-Brancnti i nn. 185,
231, ecc.
CAPO V.
Capitolo I. — Os tempos chamam os trobadores quando falam nas cantigas
no tempo passado, ou no presente en que estam, ou no que ha de viir; ca cada-
huum destes tres tempos, ou os dous, ou todos tres no podem escusar os troba-
dores que non falem en elos na cantiga que fazerem; ca se falar centra sy ou cen-
tra outrem, convem de falar en alguum destes tempos. E porem, se en alguum deles
comecar a cantiga, non convem que depoys falem no outro em aquela rrazom nem
por aquel entendimento, se non se falar por outra rrazon ou en outro entendimento:
ca en outra guisa descordaria o entendimento da rrazon da cantiga. Pero , comò vus
ja dixi, poden o meter no Mordobre, porque dam en el cada tempo seu entendi-
mento.
Capitolo II. — Outrossy as cantigas convem desse fazerem em rimas longas,
cu breve s, ou en todas mesturadas. E por esto convem de vos mostrarmos quaes
ssom as rrimas longas ou breves; pero que todas non vos podemos mostrar com-
pridamente, porque ssom muytas e de muytas maneras: pero que todalas rrimas,
sse acabam en estas vogaes que seiam as prestumeiras, todas ssom longas; convem
a saber, as que sse acabam no A, ou no 0 apolo A, ou no O apolo E, ou qualquer
— 423 —
das oiitra^s vo^'aos quo ponliam en cabo da rima pola prestomeyra sillaba, eia per
sy. E as outras rriinas todas qne se acabam eu letras broves, todas sson ciirtas.
Porque conven que o trobador que'trobar quiser, se come9aen longas ou per curtas
syllabas, qne por ellas acabe: pero que podera meter na cobra das hunas et das ou-
tras, se quiser, a tanto que, por qual guisa as meter enhuna cobra, que por tal guisa
as meta nas outras. Pero conven que, corno as meter, que assy as faca rrimar lon-
gas com longas et curtas [com curtasj.
CAPO VI.
Capitolo I. — Os erros son tantos et de tantas maneras que os honiens podem Dugii errori.
fazer no trobar, que non posso falar em todos tam conpridamente. Pero conven
que vos conte ende alguuns.
Capitolo IL — Erro acharon os trobadores que era Imma palavra, a que cha- dci cacepiicton.
maro Cacefeton (que se non deve meter na cantiga), que he tanto corno palavra
fea, et sona mal na boca, e algunas vezes tange en eia cacoiriam ou lixo, que
non convem de seer metudo em boa cantiga.
Capitolo III. — Outrossy erro he meter a palavra vogai depos vogai. ... Se ^^^'^' i-'^'"-
entende vogai depos vogai , sse as vogaes som de senhas naturas. ' Mays ' non sse
deve meter duas vezes, huma apos outra, se huma vogai he [mayor]; '' mayormente
sse d'elas quiserem fazer [huma] sillaba. Pero alguuns as metem na cantiga, dando
AO, EO ...., et duas consonaucas a cadahuna destas vogaes; e assy podem meter
cadahuna duas vezes. Et non vos posso esto mays deolai-ar, se non comò.... cada-
huum filhar en seu entendimento. As letras vogaes son estas aqui escritas....
A, E,Y, 0, V.
Finis.
' Della stessa specie, ossia uguali.
■ Inoltre.
' mayor, cioè accentata, mentre V altra è senza accento (?).
DUE LETTERE GLOTTOLOGICHE
DI G. I. ASCOLI.
Di un filone italico, diverso dal romano, die si avverta nel campo neola-
tino.— Lettera a Napoleone Caix.
Milano, 6 settembre 1879.
Carissimo signore. — Le rendo grazie vivissime per la buona e coi'tese Sua let-
tera. Ma temo che EU' abbia preso troppo 'ad litteram' ciò che io Le diceva circa la
tendenza a etimologizzare e a trovar continuità di fenomeni tra i linguaggi paleoita-
lici, in quanto sien diversi dal solito latino, e i vernacoli odierni. Se io mi son fatto
lecito di mostrare qualche apprensione che in Lei questa doppia tendenza potesse
talvolta parer pronunziata più del bisogno , ora provo un po' di rimorso nel veder
eh' Ella propenda a concedermi assai più che io non chiedessi. Tempererò dunque
l'effetto delle nostre conversazioni, coli' offrirle un esempio di quello che vo cercando
io medesimo in un campo eh' Ella un giorno ha forse reputato più pronto a frut-
tare che in effetto egli non sia, ma che io non ho mai detto sterile, né ho mai desi-
derato che si negligesse dai pari Suoi. L' esempio, com' Ella vedrà, è scarso e appena
sbozzato, e viene a Lei dinanzi, non già come un saggio d'arte prelibata, ma
come un tentativo che la Sua perizia debba giudicare. Si tratta veramente di un' an-
tica idea, alla quale V Archivio doveva e dovrebbe dedicare uno studio ben più insi-
stente di quello che io non abbia in sino ad ora potuto; e oggi io non ci ritorno, se
non fugacemente, per l'occasione che me ne danno gli 'Allotropi' del nostro Ca-
nello. Ma chissà che non ci avvenga di ritrovarci, tra non molto, a insistervi in-
sieme tutti e tre! E si potrebbe anzi essere in quattro, poiché pure il D' Ovidio
or guarda, se non isbaglio, anche da questa parte.
Ella ricorda sicuramente , che il latino risponde per h a / di fase osca od um-
bra in mezzo di pai'ola, sia che si risalga all' aspirata labiale o sia alla dentale (p. e.
tibi allato all'umbro tefe; rubro- allato all'umbro rufro-); e che, secondo la
teoria ormai generalmente consentita, il latino stesso sarebbe passato a -h- per la
via di -/-. Ogni caso di/, in mezzo di parola usata dai Latini, e vuol dire ogni
5i
— 426 —
caso in cui non si mostri la normale alterazione latina di cotesto elemento paleoita-
lico, diventa cosi un problema di storia comparata della parola italiana; e viene in
specie da chiedere, se -/- vi sia un resto di latino preistorico o non piuttosto n segna-
colo cke la voce non sia schiettamente romana, ma rappresenti all'incontro un
filone lessicale, osco od umbro ecc., in cui era normale che stesse e restasse -/- di
contro al -h- propriamente laziare. Sarà difficile che oggi si trovi un linguista, il
quale piuttosto non istia per la seconda sentenza. Certo è, a ogni modo, che mal
potremmo ritrovare, sia nello stesso vocabolario dei Latini, sia nel vocabolario dei
Neolatini in confronto con quello dei Latini, una dissonanza o discrepanza più ca-
ratteristica e perspicua di quello che sia l' antitesi tra -/- e -h- , massime se ci accada
incontrare una stessa voce con un elemento e con 1' altro ; sicché dovrà parerci sin-
golare, che nessuno prima d'ora siasi fermato a questa avvertenza '. Per andare cauti,
chiamiamo intanto, se così Le piace, un fenomeno 'anti-latino' questo di /in mezzo
di parola. E gioverà sùbito soggiungere, che nell'eccetera, di cui pur dianzi accom-
pagnavo l' osco e r umbro , è pur compreso e anzi è specialmente compreso 1' etru-
sco; poiché nessuna giusta cautela può farci intanto dimenticare, che a qual razza
pur gli Etruschi appartenessero e donde pur fossero venuti, il sistema amplissimo
dei loro nomi proprj presenta un gran complesso lessicale e morfologico, il quale
s' incontra col tipo osco e con 1' umbro e tra le proprietà comuni ha appunto qiiella
dell'elemento di cui ora parliamo. Superfluo del resto avvertire, che non é 'antila-
tino' il caso di -/- che sia nel composto (con-fero, p. e., e non comlero). Nei com-
posti, è l' iniziale internata, che 1' evidenza etimologica riesce a serbare in quella
stessa condizione che le è propria quando si trovi all' infuori del composto. Avveni-
mento sempre però notevole anch'esso, in quanto la ragione ideale (la spinta, p. e.,
a mantener /e )-o, in conferò, tal quale egli è in condizione isolata) viene a fermare
la evoluzione fonetica. Anzi riuscirà a fermarla pure nel caso di composizione appa-
rente od illusoria; poiché altrimenti mal si spiegherebbe infero- (inferus ecc.), che
non é voce composta e dovrebbe latinamente dar hnhero-. La ragione o la illusione del
composto vale anche per f or f ex (cfr. forceps, senza dire di artifex ecc.), dove tut-
tavolta l' it. /o)"Z*ice, allato & forjice {fórfeze ecc. dei dialetti), accenna alla evoluzione
caratteristica delle voci scempie del latino. Un bel confronto per il composto che
perda la coscienza di sé, o, che è lo stesso, di -/- che nel composto passi in h, V ab-
biamo nel nome locale Confluentia Cofluentia, ridotto a quella pronunzia vol-
gare che si continua in Cohlenz (Ooblenza). Tra gli esempj in cui entrano le appa-
renze del composto, è forse da mettere anche vafer, che ha accanto a sé, com' Ella
' 1885. È però da vedere una annotazione dello Storsi in Mémoires de la Sociélé de LinriKisti<lue , II 113 (1875),
elio io non conosceva nello scriver qnesta lettera. E mentre ne correggo le bozze, la Ihble anali/tique della 'Ho-
mania' mi manda a un luogo (IV 609; 1CT5), in cui, toccandosi del BiiUeiìn de la Socictc de Lwguistique de Paris,
num. 13 (non in commercio e non da me posseduto, perchè anteriore alla mia ammissione) , si riferisce: 'p. slvij,
L. Havet, Mots romans tirés des dialectes italiques (siflìare, hiifaìo, tafano et autres mots analognes, cornaccMa
rattaché à un dimiuutif de l'ombrien curnuco).' Dì questa comunicazione, che pare limitarsi a una sola pagina
non vedo traccia nei Mémoires.
— 427 —
conosco, il molto notevole vabrum, varium, multiformo, delle glosse che dicono
isidoriane '.
Il caso principe per 1' oscillar dello stosso vocabolario latino tra -/- e -b-, è la
serie riifus riìfulus ecc., allato a rùber rùbeus rùbidus ecc. Voci piuttosto ru-
sticane e plebee, o, per dirla altrimenti, dei volghi soggiaciuti a Eoma e non bene
a lei assimilati, mi vogliono parere rùfus ecc. di contro a rùber (róbus) ecc., anche
per sentirsi in rufus piuttosto il 'rossastro', cioè il 'rosso brutto', che non il 'ver-
migKo '.' Pur nello spagnuolo sentirei che rufo si discosti similmente da riibio. Altro
antico documento per codesta oscillazione, come appunto ricorda il Canello
[Arch. Ili 382-3, cfr. Diez s. sifler; Loewe, Prodromus corporis glossarior. latinor.,
p. 422], è in sifilus sifilare allato a sibilus sibilare, dove pure hanno entrambe
le varietà i lor continuatori neolatini, e dove è opportuno insistere sulla 'viltà' di
cui Nonio marchiava quella col -/- [sifilare quod nos vilitatem verbi vitantes sibi-
lare dicimus; et est maledica vocis significatio, vel contumeliosa popularium, cum
sifilationibus quis exploditur]. Si aggiungerebbe nefrundines, nome che gli 'anti-
chi' davano, secondo Pesto, ai 'reni', e andi'ebbe col lanuvino nebrundines testi-
coli, preuestino nefroues id. (v. Pone., e Coessen Vok. V 147, Ital. sprachk. 594-5),
dove sarebbe, più che mai, la qualità della parola a mantenerci in uno strato lessi-
cale rusticano e pèggio.
Andranno poi considerate le voci con -/- , usate dai Latini , le quali non hanno
accanto a se la variante col -ò- o almeno non l'hanno in qualità di sinonimo. Qui
sta scrofa, con la sua corretta continuazione italiana, voce che sarà da dirsi un
equivalente plebeo o rusticano di sus in quanto è femina \ E conia scrofa vada il
bùfon-, specie di rana', che, per via del gracidar di notte, ci dà per avventura il
correlativo etimologico di bubon- barbagianni (cfr. Vanicek, s. vv.); dove soccorre
la glossa: bubo nomeu avis, quem quidam bufum dicunt (Loewe , o. e. 421). L'offa
(ofella), che sarebbe un caso di antico -ff-, la lasceremo per ora in disparte; e
quarto dalla breve serie venga tofus, per la 'italicità' della qual voce, che si vo-
leva altro non essere che un greco zózo^ " , parla anche il riflesso da vocal lunga che
' Tra le gì. v.atic., in Mai, VI 550: varha callidns vel artiflciosus.
■ Tufatus sanguine cruentatus, Mai VI 543, Vili 509.
' 1883 GioTerà annotare, dal gloss. vat. in Mai Vili 567: scropkota 'poi'carins subulous quia scropliosus dioi-
tur'.e dalle gì. vatio. ib. VI 544: scrufetarii 'viles adque oontempti vel gratarii' (cfr. Duo.: scriiferaru; e 'soro-
phina ' qui appresso). Lo scroplieia mi richiama poi , per la sua formazione , il pmieta 'panificus pistor panifex' clie
è nello stesso gloss. 474 (cfr. Duo. s. v.); derivazioni olio da un lato si direbbero rasentare le greche sullo stampo
di o>JJ.TiT-ri5 eoe, e Aa.\V altro le neolatine che alla lor volta paiou confondersi con le diminutive {-Ma eoo.) e pur si-
gnificano professione o mestiere; cfr. Arch. VII 434 n.
' Occorre in Virgilio; e il gloss. lat., edito dal Mai nel suo Vili voi., ne dà la traduzione francese , non regi-
strata uell' elenco dell'editore (pag. xra-iv): hufo verniis qui gallioe dioitur oarpodus, pag. SO. E di certo tra le più
antiche , se non la più antica testimonianza che s'abbia per crapaud; cfr. Ducange s. crapaldus, crapollus. Un'al-
tra voce di Francia, che ricorre in quel glossario e il Mai non rileva, è nell'articolo: 'colus conoilla', pag. 140
[quenouille]. E all'incontro dal Mai avvertita , ma sfuggita forse ai romanisti, la versione 'gallica' di vitellus
'rosso d'uovo': moillus (622; moidlus 597), ovi quod est medituUium; cfr. Diez s. moyeu. Finalmente: vanga 'besca
fossorinm' 627 [béche],
' 1885. Vedi ora S.vìlfeld , Teusaurus italograecus , s. v.
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è neir it. tufo (cfr. Ducange s. v.). Pur qui la qualità non rouicana o estra-urbaua
della parola sarà ammessa di leggieri '; ma è da aggiungere, che un altro carattere
antilatino, oltre quello del -/-, si può qui attribuire alla risposta italiana, per
r u = ò (cfr. CoBSS. Etr. spr. II 260 sgg.). Dove sovviene il doppio suggello antilatino
che vedrei nell' it. cruna, allotropo di corona (v. Ardi. Ili 323), cioè l' il it. ^ o e l' et-
tlissi dell' 0 protonico (cfr. etr. Tlamunus , Mlituns) ; ed è quanto dire , che cruna ,
la testa anulare dell'ago, sarebbe stato un termine portato tra i Latini da operaj
non bene latini. Si sbaglierà anzi di poco, io presumo, a conchiudere, che il Fioren-
tino, nel dir cruna, pronunzii l'equivalente etrusco di corona. E per la ci'wna passa
il refe, altro esempio problematico, che anch' egli potrà avere \m -f- antilatino!
Arriviamo alla serie in cui è -b- latino, e il neolatino, specie l'italiano, ha -/-,
o, in altri termini, rappresenta egli ancora la fase antilatina. Vero è che il Diez
pone che -ò- latino si possa ridurre a -/- neolatino (come egli ancora subordinava,
nella serie latina, rufus ecc. a rubeus ecc.);ma isuoiesempj vanno manifestamente
ri vagì iati e ristudiati. Vi formano un gruppo 'sui generis' quelli in cui si dee muo-
vere da vi vr h rv di fase immediatamente anteriore, cioè dal nesso di due continue
sonore, una delle quali si dissimila; il qual gruppo si compone di hefre sp. (bebrus;
voce, del resto, non bene latina, ma di quelle in cui si confondevano il sinonimo
latino e il germanico; cf. il Diez stesso nel less., e Ardi. II 412-13), fondèfle ant.
fr. (fundibalum), corfe rum. (corbis), bolfos rum. (bulbosus); testimonj che nulla
dunque provano per b in /tra vocali, cfr. p. es. Arch. I 198. Rimangono così, pel
caso nostro, gì' it. bifolco bubulcus, scarafaggio scarabaeus, tafano tabauus, e
lo sp. escofna scobina. L'ultimo esempio era veramente da attribuire anche all'ita-
liano, che ha scoffina e scuffina per 'lima raspa'.
Ora ognun vede, quanto già repugni, in tesi generale, il dichiarare codesto ri-
scontro fonetico al modo che il Maestro faceva, poiché va proprio contro la corrente
chi voglia senz'altro un elemento sordo italiano, spagnuolo ecc., tra vocali, per un
sonoro latino; né può qui derivare alcun conforto da qualche fenoìneno specifico dei
vernacoli dell'Italia australe". La serie, che parrebbe analoga, dei casi istituiti dal
Diez per/ neolat. da v lat., si risolverà in una mera illusione. In lìalafreno, para-
veredus, ritorniamo a vr di fase anteriore, senza dire che è voce trasformata per
-frido e -freno, cfr. Due; e in fiasco = vi asco vaso lo (che del rimanente ci riporta a/
iniziale) risaliremmo del pari al nesso vi. Restano: un it. bifferà bivira, che io con-
fesso di non sapere, ora che scrivo, donde sia ripescato, in quanto voce italiana,
' sia qui toccato anche del nome dello zolfo. Non dimentico, che oggi ancora il provenzale v' lia il -i)-
(soupre) e cosi par concordare col sulpur che è dato da buoni codici latini. Ma sulpur sarà un* alterazione, anti-
latina anch'essa (cfr Corss. Etr. spr. 1170-73), del pure antilatino siil/ar (cfr. p. e. umbro n//« = lat. alba). La
qual voce era italica, ma non latina, corno il minerale non era del Lazio, o si continua correttamente nelV it.
solfo ecc. A proposito delle quali continuazioni neolatine, non so se altri abbia avvertito, che come lo spiign. asiifre
(anticamente 2»/9'e) ha l'articolo arabo con la normale assimilazione del l {al-siifre n-asufre), cosi esso articolo,
pronunciato per el {el-aofre esso/re), ci porta al portogh. enxo/rc, secondo le analogie ristudiate noli' Arch., m
313 sgg. Cfr. sp. enxalma e Diez less. s. cnxcco axedrcz o axuar.
' 1885. Cfr. Arch. VIU 114.
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ma die mi è noto come vocabolo volgare, più o meno antico {hifera; Mai VI 511,
Grlossai-. ed. Thom. p. 5), il qnalelio creduto e credo attratto da biferus bifora (che
produce due volte); e V ìt. j^i'ofeuda, che non può essere providenda e sarà da noi
considerato tra i casi di -/- allato a -b- '. Che se vogliamo guardare anche più in là,
è manifesto che esempj come faticare leticare non provan nulla, perchè vi si
tratti dell'assimilazione di un pajo degli scarsi esemplari in -igare alla moltitu-
dine di quelli in -icare. Per la stessa ragione, gli antichi ci danno pur navicare casti-
care. Anche i supposti casi di nel in ut li abbiamo ormai eliminati ; Ardi. VII 140-42.
E ritornando alla nostra tesi speciale , la regola è , che b latino tra vocali altra alte-
razione non soffra se non quella per cui si riduce a v: hevere jìrovare cavallo rovo ivi
ove amava, ecc.
Non potremo dunque mai ammettere che scobina, da cui non avremmo avuto
se non scovina, ci desse scojìna o anzi scofflna: e questo dev'essere, all'incontro, il
correlativo antilatino di scobina (onde risaliamo a una forma radicale preitalica:
skobh-, che si riconferma per lo skob- slavo), così come lo era sif ilare, it. zufolare
zuffolare,ài sibilare". Lo stesso ragionamento si dovrà pur ripetere, come di neces-
sità, per r it. tafano rimpetto a tabanus'.
Ma il discorso si complica , e anche si fa di maggior momento , quando pas-
siamo a scaraf aggio. L'it. -aggio, del pari che ì' -aio -ai del termine spagnuolo e del
' .Sia lecito anche not.ire, che, prescindendosi dalle note voci greche,' le quali veramente costituiscono un
problema paleoitalico (trofeo ecc.; v. più in là), sono illusorj anche gli esempj di -/- neol. da -})• latino. Nei frane.
che/ ecc., è la continua sonora, diventata finale (chev ecc.), che si deve far sorda, così come nell' ant. fr. fre/=
trav:=trab- (cfr. y//" allato a vìve); e circa //'eisrtic praesaga, per toccar sùbito anche del supposto esempio di
/- da j)-, giova non dimenticare l'art, di Littré [Foitn, premic, d'après Ménage, qne oette forme conduit an latin
prcesaga avis, D'autres ont dit que ce noni venait d'une manière de fraise qu'il a autour du eou.|. Dei quali esempj
francesi duole veder fatto lan uso cosi temerario dal Roschek, De aspirationè apiid Homanos, in Curtius' Studien XI
153. L' it. soffice, finalmente, combinato col fi-nc. souple , non importa già un caso, davvero impossibile, dì.;/" da j^P
(supplex), ne una strana vicenda ideologica per cui si passi dal concetto morale al fisico ; ma d'altro non sì deve
trattare se non di un *suffles, che sorgeva allato a supplex, e con questo sì confondeva, promosso d.a
fleotere che stava allato a pleotere. — Del resto Ella conosce, ohe io sono affatto contrario anche all' aft'er-
mazione di v iniziale in /; e così come non credo , non ostante il Suo bello e proficuo articolo intorno a via
fiala ecc. [St. etim., p. 21-23J, che quelle due serie diverse abbiano una base identica, del pari non credo ai casi
proposti dal Diez per h sp. =/ da v. Uno dei tre glielo ho sottratto nell'Arch., IH 462-63 (bisca). Il secondo, 7ie.
ecco, eh' egli tiene per *M=vide ed è nella sua più antica forma: afe (ofr. gr. IP 466), mi conduce a ben altro.
Vi veggo io un' affermazione sacramentale che si è ridotta a mera espressione resolutiva o eccitativa (cfr. il lat.
hercle o l'it. gnffffe=:mia fé): affé che vengo =: eccomi pronto a venire. — Ancora mi lasci dire, poiché studiamo
di -/-, che io punto non credo alla riduzione di »-/ in n-li nello spagn. co/ihoHar, e meno ancora a quella di
n-f in n nel prov. conortar (cfr. Rime Genovesi, 94, 45); e x^inttosto crederò che qui s'incrocino cohortari e
confortare, sì da venirne un buon esempio per la Sua collezione di voci che sì fondano tra loro [v. già G. Pa-
Kis, Romania, I 310]. Nella quale, all'incontro, non ci lasceremo certo indurre (per grande che sia l'autorità
ch'Ella mi cita) ad accogliere il logud. ÌKVjare [scu.'sare], che altro non è se non sciis-i-are; cfr., per la fonetica,
Arch. n 142, e per la forma il pur logud. curiare curare, oltre l'Arch. II IDln, ecc. E a proposito del logudo-
rese, è ancora giustissimo ciò ch'Ella mi dice dell'antichità dell'ut di isculzu [scalzo], il quale anche ritorna
nel rum. descuh; cfr. Arch. I 545o, e Schuchardt III 87.
' 1885. Notevole anche scrofina (quoddam instrumentum carpentarii, quod haerendo scrobem l'aciat; Due.
u. V.) , che sta a scrobis come scofina a scobina. Queste ultime voci vanno poi, come ognun sa, con scabere, allato
alla qual forma noterò, per quello che v.alga: 'scobere fodere , ' Mai Vili 566.
■' 188.5. Se \V. Meter, non avendo presente se non il cenno che è in Diez s. tafano, dice che il ragguaglio
tabanus=toi;aHa« non po.ssa foneticamente andare, egli ha ragione. Ma io naturalmente ponevo; -tabanus =
*Ta?[aJvos.
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provenzale (escarabaio, escaravai), ci porta ad -ajo di fase anteriore; e il Diez
(I' 178-9) volea vederci esempio di-J- che limediasse all'iato, partendo egli da sca-
rabaeus. La qnaL forma non avrebbe veramente dovuto dare agli Italiani se non
scaravio. Il vero sarà all' incontro , che s' abbia a partire da un molto antico scara-
faio e veder nell' -aio quella forma paleoitalica del suffisso che tra i Latini vien ce-
dendo il posto ad -eio e che punto non si limitava alla formazione di nomi proprj
{Pomp-ai-ano- ecc.) , come in ispecie si vede dai temi feminili umbri pernaia antica ,
pustnaia postica (CoRSS. I" 303; Beéal, Tabi, eug., 9, 163-4, e 110-11: j^edaia liba-
mina). Io anzi spero di poter presentare un giorno a Vossignoria un' altra bestia non
bella, con la stessa coda antilatina; bestia grandemente curiosa, e tal che s'inconti'i
anche per altre ragioni grammaticali con lo scara/aio, né manchi essa pure di con-
tinuazioni viventi. Sarebbe l'ancora mal certa gulaia {testudo, quam vulgo golaiam
dicunt; v. Loewe, o. c. 417-8), con la variante golia; di che più Le noto qui accanto '.
Intanto il i^overo scarafaggio ci apparirebbe doppiamente prezioso, cioè da collocarsi,
cosi pel durarvi di -/-, come per 1' -ajo, tra gii 'scarabei' del nostro museo paleo-
italico. 0 veramente (veda Lei se io non trasmodi) egli ha anche xva. terzo pregio o
una terza nota antilatina, poiché la radice o il nome primario, che vi si contiene (scarf-,
scarfo-; cfr. l'it. scalfire), offre per avventura una di quelle intrusioni di vocali per
cui l'osco dà a cagion d'esempio aragetud = &r genito. L' antilatinità dell' -a/o resirl-
terà d' altronde anche da quella intolleranza che indusse alle varie trasformazioni
della parte suffissale di questo nome: napol. scarrafone, portogh. escaravelho , ecc.
Senonchè, ei può parere che qui s'incappi in una particolar difficoltà o che
s' entri in uno strato diverso, poiché scarabaeus passa per voce greca (ay-apa^aìo?
Gxapàpsw?), e, se così fosse, non avremmo più il caso di -/- dei Paleoitalici, che da
iin lato si mantenga e dall' altro passi regolarmente in -h- latino. Ma chi poi dice
che questa voce sia greca? U -aeus le ha fatto questa reputazione, e il vocabolario
greco non l'ha veramente se non come trascrizione dello scarabaeus di Plinio!
Era dunque una grecità illusoria , che lo scarafaggio ora disperde ". Il rapporto di -/-
autilat., -b- lat., = p gr. , parrebbe piuttosto reggersi per bufalo bubalus fioópaXo?:
il quale bufalo non appare nel Diez se non come una variante latina di bubalo-.
' Il Loewe, dopo avere giustamente ridotto, come sentimmo, la glossa ohe è in Mai VI p. B48b (golaiam),
annota; ' Idem vocabulum in libri glossarum codice Ambrosiano B 36 inf. ffuolaiam et (/olia scribitnr: qnao forma
probanda sit uescio. ' Nel Du Gange (ohe ha, in luogo di golaia , un t/olatia) si aggiungono a r/olia : golola e goìora,
sempre per 'testuggine'. Ci accostiamo cosi all'it. galniia, comune al veneziano, il quale però ci aggingne il suo
gagandra (gagiandra; gajandre del less. friul.), cioè ^xnga^iandra di fase anteriore, dove toi-na forse a balenare l'i"
di golia [mi ha furato le mosse il Muss., Beitr. s. gajandra]. Mal sì potranno staccare queste voci da xeS.wvyi ecc.; ma
d'altronde e manifesto, che una relazione dirotta tra yiXtd-'jT\ p. e. e l'it. galana, torna foneticamente impossi-
bile. Un tipo col nesso iniziale x' (ohe nel parallelo latino darebbe legittimamente gì, laddove x-f voc. non da-
rebbe nel parallelo latino se non A-f voc), variamente epentetizzato secondo le forme o parlate dìvoi'se, po-
trebbe conciliare lo voci italiche, sin qui trascurate, con le greche e le slave (cfr. Pott Et." II-2, p. So, Cdrt.
n. 187, FicK s. xelu grecoital.). La varietà di forme, che pur ritalia ci offre, conferma viemeglio che si tr.itti di
materia paesana.
' Anche lo anipagog, di cui il Diez tien conto, torna a venire da Plinio! Quanto poi valga pur xapagos,
in quanto gli fanno dii-e 'scarafaggio', co lo insegna nn confronto tra il Passow o lo Stefano (Dind.). La voce
greca por scarafaggio è sempre stata od è xivìapos.
— 431 -
ma è veramente la nostra forma vernacola, che ha la fortuna di comparire, sin dal
sesto secolo, in nn verso latino di Venanzio Fortunato (VII, 4, 21: sen validi bufali
ferit Inter cornua campum) '. Della 'italicità' che anche al nome del bufolo io iion
istenterei a attribuire, Le dirò qui appresso. Ma intanto si può chiedere: quando
fossimo costretti ad ammettere un riscontro che si determinerebbe per -/- antilati-
no, -h- latino, [5 greco, come avrebbe egli a dichiararsi? Dovremo forse dire, che
il "P" greco fosse variamente imitato nelle riproduzioni italiche , secondo che il di-
verso dialetto propendesse a -/- od a -6-? Qui ricorre al pensiero: trionfo ~ dfjiajj.po?,
che però passa attraverso a figure latine, le quali accennerebbero a 'f greco (triump-,
triumph-). Diverso è poi il caso della serie /=^;/ì=jj, in trofeo T(JÓ;ìa'.o- e altri con-
generi.
Prima di ritoccare del bufalo , che sarà nel parlare di bifolco , smaltiamo ancora
due esempj o tre. Vedevamo dianzi, che il Diez nella grammatica pone senz' altro
j;ro/eufZ« = providenda (ragguaglio affatto impossibile), e perciò tra gli esempj di
-V- in -/-; ma nel lessico dice egli più cautamente, che il frane, provende, it. pro-
fenda, si staccasse di& i^rabende (praebenda) per influenza di providere (part. pro-
videnda; cfr. less. s. viande). Meglio poi fanno il Littré e ora il Canello [Ardi. Ili
382], mandando senz' altro j^j-o/enda {prefenda) e iwovenda con praebenda; e resta
che si dichiari il rapporto tra -b- e -/-. Gli è che la profenda è la 'prebenda' del
mulo e d' altre cosi umili persone ; è la povera voce delle stalle , ed ha la fricativa
antilatina che le spetta. Praebenda, secondo il comune consenso, è *prae-hibenda
(prae -*- habeo) , e la ragione del i di habeo non è già quella che il Corssen suppo-
neva (6 da p) , ma ancora è quella dell' aspirata originaria. Il Bugge (Kuhn's Zeit-
schrift, XXII 449 sgg.) correttamente arrivava, per tutt' altra via, a stabilire che
fosse liafl-, il tema del verbo osco rispondente al lat. h ab ere; e io sempre ho cre-
duto che correttamente s' incontrassero l' liaf- italico (= ghabh) col sinonimo gab- del-
l' irlandese '. Onde si conchiude , che prefenda profenda (la prima delle quali varietà
è sacrilegamente passata dalla greppia del mulo alla mensa del canonico) sia pro-
prio etimologicamente il correlativo plebeo o antilatino di praebenda.
Nel lessico dieziano, alla voce truffe far-tufo, è ancora parlato di b in/, poiché
il termine latino sia tuber; ma insieme ivi occorrono altre due cose, che possono
parerci singolari. Vi si afferma imprima, per mera svista, che essa voce siuonima
abbia un u breve, il quale dovrebbe dare o ecc., non u, ai riflessi neolatini;
quando il vero è, che tuber, in quanto di'be tartufo ecc., ha 1' m lungo, e perciò il
rapporto deUe toniche è perfettamente regolare. Poi vi si congettura, che il -tufo di
tartufo (terrae-tuber) sia una riduzione di trufo. Ma la figura nominativo-accusativa
di tuber, o meglio dell' autilatino tufer (la schietta risposta etimologica del lat. tu-
ber, quando in questo nome si vegga, col Corssen, il suffisso che latinamente è
' 18B5. bufali è mantenuto anche nella edizione che di Venanzio ora è data (ISSI) da F. Leo nei 3Ion.
Germ. hiat., pur notandosi i codici che hanno hubaìi.
■ 1885. Vedi ora: Note Irlandesi, p. 53; Fboehde in Bezzenberger's Beitriige, Vili 16J.
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-ber), darebbe appuuio un it. tufe (tufo), cosi come sulfur dà sol/o; e il latineg-
giaute (e letterario) tubero, cioè la figura dativo-ablativa tubere, starebbe raorfo-
logicamente a -info covae solferò a solfo, marmorc a marmo, ecc.; v. Arch. II 426 sgg. '.
Dell' autilatino tufer-, c'è del resto una testimonianza relativamente antica, nel tu-
ferae di Antimo; cfr. Anth. ed. Rose, ind. s. v. ; e qui sovviene, per quello che val-
ga, ancbe ere/;Y(< = cribrat, Loewe, o. c. 421; ma più validamente, se io non erro,
sovviene il vultfaria, lacunae in quibus iumenta volutantur, delle Gloss. vet. ex
membr. bibl. vatic. (Mai VI 551''), cbe il Mai vorrebbe correggere per volutabra,
con la qual voce resteremmo veramente al latino classico, dove all'incontro par
manifesto che il glossatore voglia piuttosto volutafra; cfr. il campano Venafrum^'.
Arrivo per ultimo a bifolco, che è la parola dalla qiiale primamente fu attratta
la mia attenzione a questa serie lessicale.
Ella ricorda come il Corssen si desse ragione di bubulcus. Lo voleva derivato
dall'aggettivo bubulus, per mezzo del suffisso -co; e il secondo b di bubulus era
per lui un' alterazione del v etimologico di bóv-, promossa, per via di assimila-
zione, dal h iniziale. La stessa assimilazione ritrovava egli in bubile, inBubona,
la Dea dei buoi, e in Bubetii (ludi). Cfr. Vok. V 125-6, II' 134-5.
Ma come faceiam noi ad appagarci di tal dichiarazione? Non poteva, dall' un
canto, addurre il Corssen alciin altro esempio di v tra vocali alterato latinamente
in b; e d' altronde come mai qui ammettere la spinta assimilativa, quando appunto
era fermo e costante il bov- in bovis bovi bovem boves, senza dire di bovinus
bovile Bovianum ecc. ? Neil' ordine morfologico , poi , mi repugna una formazione
che sarebbe il correlativo di un *equinicus o di un ^ovinicus, per allevatore o con-
duttore di cavalli o di pecore^; senza dire, che già lo stesso bubulus resulta un
singoiar sinonimo di bovinus, poiché egli sarebbe il correlativo di equuliis e non
già di equinus. Se poi, alle difficoltà d'ordine propriamente latino, aggiungiamo
quella che bubulcus si rispecchii nell'it. bifolco, il quale accenna a un'antica fase
*buftdcus, l'ipotesi, sostenuta dal Corssen, tanto perde, se io non erro, di probabi-
lità, da doversi onninamente abbandonare.
Strano che al Corssen non sia balenata l' idea che una relazione potesse correre
tra codeste voci (bubulus Bubona ecc.), le quali si erano considerate ed egli medesimo
' 18&5. Circa la storia de'nontri, mi sia lecito qui aggiungere, a quanto ne dissi nell'articolo ora citato
e altrove (Aroli. Ili 460-7, IV 398-402, VH 439-42), i particolari seguenti: 1« obliquo del tipo in -us, nell'ant. fr.
viaure. viaurre m., vellus (Miser. d. B. d. M.; e la sooverta e di Mussafia); 2° l'obliquo del tipo in -us, in funzione
avverbiale, pur noU'ant. basso-eng. taimpr (da tuott tèmp tard é taimper, Camp. 31, 6; in 18, 20, all'incontro.
taimpcr mi par licenza poetica por <o(Hij)eO; 3" il pi. del tipo in -us, come fem. sng.: Hiin «(ercora, Ant. testi
lomb., Arch. IX 7, lin. 5.
' 1885. Nelle gloss. vat. è bofcr grossus. Mai VI 510, VII 552, e nel Icss. lat., ib. Vili 75: bafer grossus, turgi-
dus, ventricolosus (cfr. Ducange, e baser, agrestis, nel gloss. ed. Thom.). Ne potoa venire un ital. baffo (e chi sa che
il 'baffo' non sia il 'rigonfio'), e mal se ne staccherebbe la i«;;'(T. ' perna' ecc., cfr. Mcss. Beitr. 31. Quanto al man-
dare , con le voci ultimamente ricordate , il piem. br!/ra ecc., osta in i.specie 1' « del frc. bri/re. Ma bene , all' incon-
tro, va con esso il roveret. baffa, che è sinonimo di rcscina in quanto 'vescica' sia la 'glandola' delle piante, il
'gonfietto' del pane, ecc.; v. AzKolini.
Cfr. L. Meter II 501. Superfluo dire, ohe lo stesso muliouicus (mulion-ico-), 'apparteuento al mulat-
tiere', non farebbe, in verun modo, al caso del Corssen.
— 433 -
considerava come propaggini di bóv-, e la voce bubalus; né mai gli paresse di
toccar di subulcus nello studiare di bubulciis (v. all'incontro Pott, II-2, 1328-11) '.
Vero è che bubalus ha apparenze greche e che il bufalo non s'ha tra gli animali
dell' Italia antica (v. Hehn , Kulturpflanzen uud Haustliiere, Berlino 1870, p. 346 sgg.).
Ma qual pur sia l' età in cui l' Italia primamente albergasse l' animale che diciamo
bufalo, certo è che il nome bubalus era antico e anticamente popolare in Italia,
dicesse egli, o dovesse dire, il cervo o qualsia altro quadrupede (cfr. lat. dama cer-
vo, irl. dam bue), secondo il rimprovero che fa Plinio al volgo latino di affibbiare
la denominazione di bubalus agli uri di Germania [panca gignit Germania: insignìa
tamen boum ferorum genera, jubatos bisontes, excellentique vi et velocitate uros,
quibus imperitum vulgus bubalorum nomen imponit, cum id gignat Africa, vituli
potius cervique quadam similitudine; Hist. nat. Vili 15]. Ora, voce non diversa da
questo bubalus, che appare greco , sarà il meglio latino bubulus (cfr. vitulus ecc.,
e anche, se pur conti poco, l'it. bufolo accanto a bufalo) , in cui dovremo riconoscere
un sostantivo, piegatosi alla funziono di aggettivo (cfr. Curtius s. Jjoùc, e l'uso di
juvencus) l Questa denominazione, più o meno generica, sarà anche stata, per avven-
tura, non meno italica di quel che fosse greca (cfr. |jO'J|jaÀ'.;, specie africana di cervo
0 di gazzella) ; e la identica sua base , o almeno 1' effetto suo , anziché quello di bov- ,
noi a ogni modo vorremo vedere in bubile allato a bovile, o nella Dea Bubona,
che non c'è data, del resto, se non da S. Agostino. In bubile potrebbe anche avere
influito bubulcus, che io da più anni 'sento' come voce composta e mi risale a
bou-fulcus bu-fulcus, come pur subulcus non mi par foggiato servilmente sopra bu-
bulcus, ma anch' egli risolversi (subare non mi ferma) in su-fulcus.
Contrasta, so bene, a questa affermazione la brevità della prima sillaba di bu-
bulcus. Ma basteranno essi gli esempj, che di bubulcus abbiamo nel verso, per
impedire senz' altro un ragionamento etimologico che muova da *bu-fuIco-? La quan-
tità poteva facilmente qui oscillare, per effetto di attrazioni diverse. C era, a cagion
d'esempio, con legittima diversità di tempo, bilbulus allato a bovile (o anzi,
molto probabilmente, bubile e bubile allato a bovile). C'era il parallelo subul-
cus, al quale si dà la prima breve, certo per la ragione di su -bus di contro a
bù-bus. C era finalmente la sembianza di forma reduplicata, perla quale si entrava
nell' analogia delle prime brevi: cucullus cucurbita, sùsurrus, cùcurri tiitudi.
L'oscillazione tra ì' u (u cupo) e Va (u largo) può anche essere accennata dalla dop-
pia continuazione italiana, cioè dal contrasto che corre tra la prima sillaba del più
popolare o antilatino bifolco, bifolca misura di terreno, e quella del meglio latino
bobolca. Non è questo, di certo, un argomento di piena prova; ma è pin* vero, che
' Anche può parer singolare, ohe il Corssen non citi petulcus e hiulous,a proposito del modo suo di
sijìegare bubulcus.
° La sola continuazione neolatina ohe di bubulus io conosca, è bubulii, ohe lo Spano adduce da Biti nel
Logudoro. Non ne può venire alcun criterio circa la quantità deU'ff; ma ruso dei poeti (bclbulus) tanto è favo-
revole alla identificazione di bubulus con bubalos, quanto è contrario alla ipotesi di bub- da bov .
— 434 —
hifolco fa con ginejjvo il più saldo pajo per l' i (e) da « protouico (cfr. dial. zenévi-o
heolco); e entrambi sarebbero di u lungo.
Or se *.su-fulcus e *hu-fulcus son due composti (e tali composti di cui molto an-
ticamente si perdesse la coscienza; cfr. il già citato C'oò?efts= Coflueutia), che
haijino essi primamente significato ? Non altro che ' ingrassatore di majali , di buoi ',
onde poi senz'altro: "porcajo' 'mandriano'. Sarà questo -fidcus uno dei nomi della
formola 'radice--!- o', che tanto bene convengono all'uscita del composto latino (cfr.
pedi-sequus male-dicus uiii-vocus ecc.'}, e entrerebbe in famiglia col verbo fulcire.
Il qual verbo diceva 'sostentare', non solo nel senso di 'puntellare', ma ben anche
in quello di 'riempiere' 'rimpinzare'; e si tratterà di ben altro che di mera eleganza,
come dicono i vocabolarj, se Lucrezio p. e. scrive (II 114G-7):
Omnia debefc euim cibus integrare novainlo,
Et fulcire cibus; [cibus omnia sustentare];
gli era che fulcire diventava quasi sinonimo di farcire; e 1' àir/ens fullura di Ora-
zio ci conduce al nostro folto, che non è se non il participio di 'fulcire' o dice
'pieno'; e nello stesso latino vediamo in-fulcire che non dice diverso da in-far-
cire. Ij infolcire o anzi infoltiare, 'rimpinzare' 'imbottire' 'ficcar dentro', era pro-
priamente del popolo ; come ci mostrano il soprasilv. s-fulmr ent , alto-eng. s-fusUr ,
ficcar[si] dentro (cfr. Ardi. I 546 a) ; anzi si sarà avuto pure un falcare in-folcare ,
sempre con la stessa significazione; poiché a questa base, ben piuttosto che non a
'''fullicare, sarà da riportarsi il friul. /o?c« in-folcd, stipare, che appunto si dice del
rimpinzarsi di cibo ". Ne usciamo con fina significazione da ragguagliarsi a quella
del ted. masten; e su-fulcus bene perciò si renderebbe col ted. 'schwein-miister'.
Nessuno, credo, mi vorrà opporre la considerazione, che bubulcus piuttosto sia o
fosse l'aratore che non il pastore; poiché subulcus, che è in Varrone, o si fog-
giasse sopra bubulcus, o si costituisse indipendentemente da questo, attesta sem-
pre per l'antica significazione di 'pastore", 'allevatore'.
Ma io sento che Ella mi dice: bada ai fatti tuoi e non mi rubare il mestiere.
E io desisto sùbito, sebbene a malincuore. Solo ancora La prego, che mi consenta
di mettere in fila le principali testimonianze che si venivan raccogliendo per codesto
fenomeno antilatino (-/-) , tanto perchè vediamo vie meglio come esse vadano tra di
loro congiunte per una certa congruenza ideale. Sarebbero dunque: rufo- (e,
checché si dica, anche ruf-i-ano), sifilare; hifolco, prefenda, bufolo, scrofa (e prov-
veduta la scrofa del quasi sicuro volutafro ') , biifon-, tafano, scarafujo (accoppiato
' Non si vogliono citati, come se avessero xma particola!' convenienza , Io nd'OiìliiiMicua di Pianto o un 'ìiussc-
gmis bubulcus' ohe è in Mai VITI 80; ma ognuno sa aggiungerò: osaifi'nffiis, miMìloquus , cripritmilgm , licnevoliis; —
carnivoì'us,/iinambuJus, ed altri.
' Vedo in qualclio dizionario spngnuolo-iVancose, die l'ant. sp. fuJeir sia tradotto per 'nourrir'. Ha non
ne profitto e anzi non ci credo, parendomi che il 'nourrir' debba essere traduzione erronea del snsientar spa-
gnuolo, il quale era adoperato, in quanto dice 'puntellare', e non in quanto dico 'aliniontare', a dichiarazione
di fiilcir. Diventa però un equivoco ass.ai eloquente.
' 1885. Cui ora si aggiungerebbe la bafa di pag. 3S0 n.
— 435 —
a i;na gulaia, che speriamo legittima) ; scojliia, sulfur, tufo (cou 1' u it. = o lat., clie è
pur della cruna, la qnale ci portava al refe); e insomma tutte voci, — s'Ella mi
permette qualche altro ardimento prima di cacciarmi via , — tutte voci che piutto-
sto dovevano risonare nella popina, cioè nella stamberga popolare suUa qi;ale stava
r altro marchio autilatino del jj = ^y (cfr. p. e. umbro -jj)HWij;e = lat. -cunque), che
non nella più o meno ai'istocratica coquina '. E nella popina la gente si dava a
tqffiare (mangiare ingordamente) ; la qual voce , per essere anche toscana , non può rive-
nire a un *tavlare (tavolare talbulare) , e , per avere la riduzione di / in fj , mal può es-
sere moderna, cioè tedesca, ma deve, se Ella il permette [cfr. St. etim. uum. 620],
piuttosto risalire all' autilatino tajlare (umbro tajla =z tabula), come Flechia ha bella-
mente pensato; Arch. Ili 155-6". E tra i sifili del tafio, si pensava a farla ad-ùfo e
si giocava a, j^dr-au-cafo ,
Ma io scappo senza più , dopo averle stretto coixliabnente la mano.
' ISSÒ. Non intendo io bene ciò che il Fkoehdf. (Bezzenberger's Beifcr. Vili 166) voglia signiiicarc, quando
oppone elle coquina (=popina) abbia uno stampo in tutto latino. La distinzione si aggira intorno alla parte
sostanziale del vocabolo (coqv-, pop-; e l'elemento derivativo è all'incontro scliiettamente comune al latino,
all' osco ed all' umbro (cfr. p. e.: osco Sarinii, umbro Iluvinu). Unj)=2i) resulterebbe anche per lupus («-vlupus),
qu.indo veramente questa voce debba andare col gr. XOno?, got. wvlf-s, ecc.; e in altri termini vorrebbe dire, che
il 'lupo' sia voce non bene romana, cosi come scroffu È molto curiosa la scarsa romanità di tante bestie. Poiché
anche hos^ come già più volte fa notato , ha figura piuttosto osca od umbra, che non latina (il latino piuttosto vor-
rebbe vós = gi-os, cfr. ven-w, osco ed umbro bcìi'^ gven-)^ h'asino poi (non arino secondo la norma latina; cfr. p. e.
nmcrtis=^ ^nmeso-, ecc.), qui lasciamolo, per più ragioni, in disparte, salvo a ritornarci nel ristudiare dis originario
che si mantenga tra vocali in voci usate dai Latini; ohe è un tema parallelo a quello intorno a cui si aggira la pre-
sento lettera. Andrà allora ritoccato anche il tiaso , circa la qual voce mi sia lecito anticipare, che anch'io aveva
messo innanzi (in una lettera diretta , or son parecchi anni , a un altro amico onorandissimo, lo Schweizer-Sidler)
l'ipotesi di un itas-to di fase anteriore, alla quale ipotesi or viene pure il Bréal (Mém. d. 1. soc. d. ling., V341), valen-
domi io anche del nasta che è nel vocabolario sanscrito, e veramente vai poco, e d' altro ancora. Ma ci ho rinun-
ziato, perchè non è sostenibile la riduzione di s prim. -j- i in 5S o -s lat. Di che ora si vegga pur CoccntA, in lì/v.
difil. class., XI 28-34.
' A brevissima distanza da tafjìo , vedo che sotto taccuino [St. etim., num. 618], giustamente da Lei r.aggua-
gliato, come già da altri , all' arabo taqulm (il cui -Im si riduceva non difficilmente, anzi pressoché di necessità,
all'analogia d' -in ^inus), Elba si meraviglia che questa voce arabica non sia rimasta agli Spagnuoli o ai Porto-
ghesi. Ma è da considerare, che deve primamente essere stata voce dei dotti piuttosto che del volgo , e che la
storia delle scuole potrà cosi spiegarne la presenza o la permanenza tra i soli Italiani. L'arabo taqvJm per sé
non dice se non ' corretta disposizione '. Non vedo io a quale antichità ne risalga 1' uso tra i Musulmani, in
quanto dica la 'disposizione' dei mesi ecc., cioè il 'calendario'; ma di certo non è fortuito l'incontro tra gli
Orientali e gli Italiani in qiresta particolar significazione della paroliì, (oggi ancora, p. e. a Milano, iaccuino è
il calendario). Intanto è facile vedere, che i libri contenenti norme o istruzioni di arte medica s'intitolavano,
tra i medici della famosa scuola salernitana, tacuiid, da taqvlm elio era la prima parola del titolo arabico. Cfr.
De Benzi, Storia documentala della Scuola medica di Salerno, seo. ed., 1857, p. 518, alla qual opera mi rimandava
STEiNSciiNEroER in Virohow's Archiv, XXXIX 297 sgg. (tacuinus corporum, tacuini sauitatis, taouini
aegritudinum et morborum). Nel nuovo Du Gange è d'altronde il seguente articolo: ' tacouin' arabico,
productio, a verbo caieana, produeere, in Animadv. D. Falconet.' L'etimologia è sbagliata. — Noto poi, dacché
siamo sul campo semitico, ch'Ella pure lascia intentata, come già il Diez, la voce desmazalado, imposta da Cer-
vantes all' Academia spagnuola. Essa è veramente una delle cose accattate da Don Miguel alla 'juderia'; cioè il
correlativo 'judio' di des-dìcha-do , malavventurato (ebr. maiial .stella, destino), com' Ella vedrà che tradizional-
mente si provi in alcune uoterelle sulle ' Impronte semitiche nel Don Quijote'.
43G
II.
Del Neogrammatici. — Lettera al prof. Pietro Merlo.
Sommario.— Un esordio ohe s'aggiunge all' ultitn' ora. — La esplorazione delle lingue neola-
tine e i Neogrammatici (1). — La esplorazione delle liugne antiche e i Neogi'ammatici (2).
— I vecchi e i nuovi all' opera (3). — L' irlandese cétbaith (4). — Conclusione (3).
Milano, 10 settembre 1885.
Carissimo amico. — Le so grado veramente , eli' Ella desideri messe in carta le
cose che io ebbi 1' occasione, tanto piacevole per me, di farle sentire e di discutere
eoa Lei intorno ai 'Neogrammatici'. Ma fo poi bene a secondar l'invito cortese, che
la Sua amicizia mi rivolge? Altri amici molto autorevoli, e l'Inama in ispecie, più
volte m'hanno tentato, perchè, in un modo o nell'altro, io continuassi il discorso
che avevo frettolosamente iniziato nella Lettera glottologica del 1881 (alla cui versione
tedesca, fatta da un pezzo e con insigne abilitcà dal Giiterbock, io esito sempi'e ad
apporre 1' 'imprimatur'); e mi ci son dovuto ricusare per varie ragioni, che tutte
duran sempre. Dirimpetto a Lei, se ne aggiungerebbe una di più, e assai poderosa;
poiché Siam proprio al caso del ricco che insista per l'obolo del povero, ponendo
Lei in questi argomenti un' energia di studj che a me non è data. Se insomma può
parermi che non siano affatto inutili, o nell'ordine della dottrina o in quello della
giustizia distributiva, alcune delle osservazioni che sto per ripeterle, rimane sempre
che io rientri a malincuore in questa discussione, anche astrazion fatta dalle molte
angustie in cui ora mi affanno. Circa l'opportunità di pubblicare, o tutte o in qual-
siasi parte, queste righe che pur Le mando, criticate da Lei, che assai bene sarebbe,
0 non criticate, e di pubblicarle nella 'Miscellanea' o altrove, me ne rimetto io poi
assolutissimamente nel giudizio Suo e nella Sua volontà. Delle non infrequenti cita-
zioni o applicazioni di studj miei proprj, non mi sarebbe, io spero, in verun caso
fatto colpa dagli uomini discreti; ma giova intanto dichiarare, che io so bene come
più e più altri potrebbero ricorrere, e con miglior fortuiia , all' esempio della propria
loro persona.
Tra le ragioni, per cui ultimamente io non mi arrendeva a scrivere, era quella
che nel frattempo si fosse avuto l' opuscolo di Delbriick ', il quale mi pareva parlare
' [B. DelbrOck, Die iieueste sprachforachumj; Leipzig, 18S5.]
— 437 —
molto efficacemente per tutti, e con le cui argomentazioni io a ogni modo concordo
pressoché intieramente. Se in quelle limpide pagine mi poteva rincrescere che si
trascurasse una considerazione o anzi un principio, che a me par sempre essenziale
e al quale mi rallegra che Ella ora ritorni in sulla fine del Suo dotto articolo', io
mi confortava con ciò , che il Delbriick già ci avesse come in anticipazione rime-
diato, per via di una nota da lui apposta alla seconda edizione della bella sua E'm-
ìeltung'.
Ma dopo che già io aveva scritto, con la maggior fedeltà che sapessi, quello
che EU' aveva avuto la pazienza di ascoltare , io Le confesserò che stavo per man-
care addirittura alla parola ormai data, cioè per abolire senz' altro questa mìa 'Let-
tera', in séguito alla nuova e importante scrittura del Brugmann ; nella quale si leg-
gono le parole seguenti: « Per quanto mi concerne, ho io sempre reputato che le
» intuizioni recenti altro non sieno se non uno sviluppameuto organico e conse-
» guente degli studj anteriori; e questa mia sentenza si è via via raifermata d'anno
» in anno. »' Ora, data questa dichiarazione dalla parte, diremo cosi, avversaria,
non è punto assurdo il conchiudere che torni su^Dorfluo ogni altro discorso. Io del
resto devo aggiungere la confessione, che una dichiarazione di codesta specie me
l' aspettavo, di giorno in giorno, da mio spirito così eletto e così sicuro com' è quello
del Brugmann. E aggiungo sùbito un' altra confessione ancora ; la quale è , che non
mi par possibile che l'altro dei due corifei, l'Osthoff, non arrivi anch' egli a dichia-
razioni equivalenti. L' Osthoff ha iin naturale ruvido e pugnace; e le sue persuasioni
facilmente assumono e mantengono una superficie d' alterezza o di sdegno , un
po' incresciosa agii altri (non già nella conversazione, che riesce vivida e attraente,
ma più e più volte nello scritto) e non utile a lui. Ma in lui pure, non meno che
nel Brugmann, sempre s'agita, checché dicano talvolta le contrarie apparenze, non
altro che lo schietto desiderio e lo schietto culto del vero. D' altronde , le matte
offese agli anteriori conquisti del sapere non sono mai venute dai capiscuola; son
sempre partite da tristi imitatori o da qualche infelice solitario.
L' importanza principale del periodo del Brugmann che dianzi adducevo , sta
nella seconda sua parte. A ogni anno che passa, e vuol dire quanto più gli appare
feconda 1' opera propria , e viepiù egli si persuade che quest' opera altro non sia se
non il naturale portato dell' opera de' suoi predecessori. Abuserebbe nondimeno del-
l' onesta concessione, e mal la isolerebbe da quanto la circonda, chi ne volesse infe-
rire eh' essa in fondo escluda ogni presunzione di differenze intrinseche nei principj
0 nel metodo. Ma poiché mi accade aggiungere questa specie di prefazione a una
'Lettera' non più distruttibile, potrà parer lecita qualche applicazioncella prelimi-
' [P. Merlo, SiiHo «(aio j)reseK(c Mia grammatica ariana eac, iu 'Rivista di filologia classica', voi. XIV, p. 145-78.
Cfr. il § II della Leti, glotl. di G. I. A. , clie apre il X voi. della stessa 'Rivista'.]
' [B. DelbeOck, Einleitung in das spraclistudium; 2. anfl. ; Leipzig, 1884.]
' [K. Bbuomahn , Zmn lieutigen stand der spracldvissenschaft; Strassbiirg, ISS'i; p. 125: 'lolifilv meine Persoti
' liabe die neueieu Auschauungeu immer niu' fui' die organisclie und folgereclite Fortentwicklung der alteren Be-
' strebnngeu gelialten, xjiid diese Ansicht liat sich mir voii .Tahr zn .lalir mehr befostigt. ' ]
— 438 —
nare di avvertenze che più in là io Le ripresento, tendenti a illustrare la questione
dei principj e della preminenza cronologica o dei varj accorgimenti nel professarli.
Il Brugmauu, ritoccato com' egli ha di quegli antichi e dannosi spettri (non
mai entrati, veramente, neUa 'scuola' cisalpina), i quali erano il linguaggio, in
quanto egli avesse vita o realtà all' infuori o al di sopra dei loquenti, o le leggi di
qualsivoglia maniera in quanto si stimassero proprie al linguaggio in sé e per sé,
passa nuovamente a esaltare il grande e nuovo principio che sarebbe la normalità
necessaria di ogni trapasso fonetico e con ciò la esclusione dell'anomalia fonologica;
la quale normalità o esclusione avrebbe la sua ragione in ciò, che la profferenza al-
terativa di un dato suono riproducendosi necessariamente , nell' organo di uno stesso
individuo, per tutti quanti i casi dove il suono medesimo ritorna in una medesima
congiuntura, ne viene, che se il numero prevalente della comunità glottica riesca
affetto da una di codeste alterazioni e l' alterazione perciò si stabilisca nel linguaggio
della comunità, ogni eccezione, per la natura stessa della cosa, rimanga eliminata.
Ora, lasciamo noi andare, se il fatto e le conseguenze che cosi si descrivono,
possano passare per un principio' ; e lasciamo anche andare, che nessuna repu-
gnanza mai potrebbe trovare o aver trovato, in sé e per sé, un'affermazione di que-
sta maniera [v. Leti. ylottoL, p. 45-46J. Ma piuttosto pensiamo ad altre considerazioni
fondamentali, che di necessità riportano a affermazioni equivalenti, considerazioni
che da gran numero d' anni sono abituali nella 'scuola' nostra. La critica delle con-
siderazioni alle quali alludo, può qui dirsi affatto superflua, qui altro non si volendo
se non la prova o la persuasione d' illazioni identiche. Abbiamo dunque, in primo
luogo , qiiel gran fattore delle trasformazioni del linguaggio che è l' incrociamento
delle stirpi diverse. Se per esempio noi affermiamo (torno a ricordare, non andar qui
badato alla solidità, ma solo alla qualità dell'argomentazione e alle sue naturali con-
seguenze), che la formola ariana s+cons. repugni alla predisposizione orale degH ab-
origeni dell'India, i quah la snervano per due guise (facendone cioè h+co«s. , onde
cons.+s); quando noi affermiamo questo, e lo facciamo da vent' anni, ci è egli lecito
imaginare che la formola stessa abbia in alcuni esemplari, sempre di schietto lin-
guaggio di popolo, a rimanersi incolume, quasi per effetto di un capriccio o di una
convenzione? E se, procedendo a un'altra causa di trasformazioni, noi per esempio
diciamo: la schietta esplosiva sorda, che abbiamo a Milano e ancora a Firenze, già
all'incontro generalmente propende verso la souora quando siamo a Roma e più
quando a Napoli, dove p. es. il nesso nt diventa addirittura nd; e soggiungiamo che
nd per nt s' avi'ebbe ugualmente e nel greco e nell'albanese, e concludiamo che si
tratti di un'alterazione isotermica (Arch. glott. , Vili 113), o, in altri termini, delle
corde vocali più pronte a vibrare negli u.omini di date stirpi in date zone ; quando
noi affermiamo questo, correttamente o no, qui non importa, siamo o non siamo
nella persuasione che l' alterazione fonetica debba resultare costante ? La presunzione
poi di trovarci nel vero, generalmente parlando, allorché arriviamo ad affermazioni
di tal fatta, è quella che ci porta alla sentenza, non punto superba [Leti, glott, p. 6],
che circa la dichiarazione delle cause, non solo non udiamo alcun che di nuovo,
— 430 —
ma ci sentiamo di aver superata la fase, alla quale la 'nuova scuola' ci vorrebbe
circoscritti.
Quanto alle perturbazioni della regola, cioè alle incostanze della continuazione
fonetica per entro a una favella stessa e specie per entro a una lingua in cui si cro-
giuoli la storia d'una civiltà, sia qui lecito ricordare uno studio abbastanza 'antico"
(1867), in cui si tentava di regolare dialettologicamento il doppio riflesso (/- e /*-)
che paja avei'e nel latino iin identico elemento originale (gh-). Di certo, s' è fatto di
meglio, altrove e anche a Milano, dopo di quel saggio'; e anche i più fortiinati
possono in ogni tempo aver tentato indarno la Sfìnge della storia. Il merito sta nel-
r averla tentata razionalmente, e nel non illudersi circa la portata delle soluzioni
che alla Sfinge pur sieno finalmente strappate. Se per esempio la nuova 'scuola' af-
fermando essa pure , come tutti abbiam sempre affermato, che un j- di fase anteriore
si continui per 'spirito aspro' in ó[j,sìc e in r^Jiap e all'incontro si continui per C in
Cstà e in 'Oy(óv, soggiunge dal suo canto che i due diversi riflessi greci importino di
necessità due basi che fossero tra di loro sin dalle origini diverse, questa conclusione
si risolve assolutamente in una petizione di principio o in un arbitrio, insino a che
la testimonianza di tutte le altre lingue della famiglia stia per l' unità del suono
originale (lit. e got.jus, lat.jecur; Ut. jdvas, la.b.juguìn, ecc.)'. Che se veniamo alle re-
strizioni della regola in quanto sieno persuase da raziocinj veracemente istorici,
crede egli il Brugmann che le nove categorie di restrizione, da lui descritte [o. e,
p. 54-58], formino qualche cosa di nuovo o di diverso in confronto di quello che da
anni ed anni tenacemente s'insegna e espressamente si mostra, sia nella scuola, sia
per le stampe, e in numero influito di casi? Non par possibile eh' egli abbia bisogno
dell' ajuto altrui per disfarsi di una persuasione che sarebbe tanto erronea ; ma a
ogni modo slam tutti pronti a somministrargli tal copia di prove, che facciano ri-
credere, in un lampo, un così schietto amico d'ogni vero, com'egli è. Non ho io
ancora, del resto, intieramente capito, come e perchè Ella gii riduca il numero di
coteste categorie [1. e, 171-72=27-28] ; e a ogni modo io crederò che ne vadano ag-
giunte delle altre, senza mai però uscire da quel 'sistema d'analogie, geometrica-
mente perfette', alla cui antica descrizione io di certo nulla rimuto, o senza mai
rimutare quei principj e quel metodo che ci portavano a inscrivere , come se nulla
fosse, tra gli 'additamenti elementari' questo che segue: 'L'anomalia, o l'eccezione,
' son fantasmi del raziocinio ; e veramente si riducono a problemi storici , che la
' scienza odierna vien rapidamente risolvendo, per poi affrontare nuove serie di più
'ardui problemi, che scaturiscono dalle sue resoluzioni stesse'.''
Passando al 'principio' dell' analogia, einispecie a quell'attività continua delle
spinte analogiche, la qual si descrive col dire, che ogni alterazione fonetica possa
promuovere delle livellazioni, a restauro di quella simmetria che appunto da essa
' llnKulm'sZeitsclir., XVI330-253.|
' Questo dico, senza dimenticare Biìugmìns, Morp. unt. I i sg. n., né altri esempi olle parrebbero meglio
calzare; di che ritocco altrove con minore angustia.
° LIl Politecnico , ma,vzo 1867, = fSt. crii., II, 10; Ardi, rjlottol., I (sett. 1S72), p. Liir.l
— 440 —
alterazione andava turbata, io di certo non nego l' utilità delle dissertazioni larghe
e limjjide (come quelle del Paul) intorno a siifatte cose, sebbene talvolta mi prodii-
cano l'effetto di una 'elementarità' desolante, e molto meno ancora penso a negare
gli avanzamenti, sempre più rapidi, che anche per questa maniera di osservazioni
si conseguono; ma non so mai trattenere la maraviglia, quando ne leggo come di
un rinnovamento del sapere, o per la ragione teorica o per il modo e anche la mi-
sura delle dimostrazioni. Nella nostra 'scuola' si dice, per esempio, 'ab immemora-
bili', e sempre con intenzione sistematica: chiedete, anziché cliedéte come la norma
vorrebbe, è tirato sullo stampo di chiede chiedere (quserere) ecc.; vi si ha perciò una
livellazione, in quanto la metamorfosi, che è normale della vocal latina a formola
tonica, passa fuor della norma, o 'anorganicamente' come nella nostra modestia pur
diciamo, anche a formola atoua; ed è dunque il caso di un' alterazione fonetica,
analogicamente propagata. Similmente per le consonanti, dov' è facile esempio
un dialettale cresso cresco, tirato sopra eressi eresse, crescis -it [v. Kuhn's Zeitschr.,
XVI, con che si risale al 1867, e cfr. Arch. glott. VII 419]. E ugualmente ripetiamo,
da gran numero d' anni : 1' a latino, fuor di posizione, s'è fatto e nel francese, ma ie se
gli precedevano e ecc.; onde nell' antico francese i due tipi d'infinito di prima coniuga-
zione: frotiver chevauchier; ma il secondo tipo scompare nella fase moderna del fran-
cese (laddove aU' incontro le antitesi di questa specie si acuiscono viepiù e si per-
petuano nel francoprovenzale; v. Arch. gì. HI); ed è livellazione, in quanto le forme,
che organicamente portavano un' alterazion particolare della vocal latina, si riducono
al tipo delle forme prevalenti che non la pativano ; onde siamo alla serie che s' inti-
tola dell' alterazione fonetica, analogicamente soppressa. Ma veramente ab-
biamo sempre fatto anche di più, insistendo pur sulla serie, dove la livellazione si
ottiene per via dell'alterazione fonetica, analogicamente suscitata o di-
sciplinata. Nei nostri esco esci uscite ecc. (exire), vediamo dall' un canto [cfr. Arch.
gì. , IH 447] la serie organica '^eso esi ese che si livella o meglio si disliveUa sul tipo
frequente cresco cresi crese, finisco finisi, ecc.; e dall'altro una singolare alterazione,
proveniente da contaminazione lessicale {escita ecc., che si fanno uscita ecc., per via
di uscio), subordinarsi all'elemento incolume, secondo l' analogia dell' e che s'alterna
coir/i/, ecc. (esce uscite, di contro a siede sedete, odo udite, ecc.). L'avvicendamento or-
ganico di 0 e ie (=?«e), che era nel soprasUvano ziep zops zoppo, e tanti altri, finirà
per apprendersi anorganicamente al riflesso di ctecus: éieg coc-s. E sarebbe facile,
come ognuno può sapere, una continuazione infinita, con ogni maniera di ulteriori
distinzioni. Le quali cose tutte, abbiamo sempre atteso a discernere e illustrare,
senz' alcun preconcetto, che ci facesse piuttosto propendere aH"analogia' o piuttosto
rifuggù-ne, e anche senza mai dirla 1' 'ultimum refugium', come pur la nuova 'scuola'
consentirebbe di chiamarla (dichiarazione che io per vero non m' impegnerei di ben
combinare con tutto il resto delle affermazioni della. 'scuola'. stessa), e sempre tro-
vando che il 'principio' ora fosse attivo in proporzioni largliissime', ora in propor-
zioni più 0 meno modeste, secondo le diverse condizioni di cui più in là mi accade
Qui mi iiormettorci ricoi-diulo ijucl che si diceva uell'Arch. gì., VII 595,
— Ul -
ritoccarle. La diversità raeramente cronologica della fase glottica che si esplora, non
ci ha mai di certo trattenuto dal riconoscere alcun effetto di esso principio. Così
dadi' Accentuationssìjsteni del Bopp impoi, tutti hanno ammesso, cred' io, che i lat. Is
Itis rappresentino una 'livellazione', e ne sieno più 'organici' i gr. st; its, o i sscr.
disi ithd. E nessuno ha mai posto in dubbio che il lat. junctus sia tirato sopra jungo
e men genuino del gr. Cs'Jxto; e in ispecie del sscr. juktds. Se il sscr. offre mugdhd e
mudhd per muh-i^ta, non sarò io di certo quello che contraddirà a chi affermi dover
essere 'storica' una delle sue forme e 'analogica' 1' altra ; e se non sono pronto a ac-
cettare dichiarazioni 'analogistiche' di)?irti(//i« p. e. (non maiVta) rimpetto a ìn{h^=*mizh
[cfr. Lez. , 189] , ciò dipende da legittime incertezze circa le prime ragioni delle serie
gutturali e non dal solo fatto che il problema si riproduca pur nello zendo, o, in
altri termini, che il lavoro analogico si dovrebbe così rijjortare a iin' età più antica
che non sia la vita individua della favella indiana. L' attività analogica non e' è
punto ripugnato di supporla vivissima anche in età bene anteriori a quella che si
direbbe l' indo-iranica, quando p. e. si poneva che il movimento discendentale e
l'ascendentale producessero 'gamme' di vocali tra di loro coincidenti, sin dal pe-
riodo unitario ; di che pure mi accade rinnovarle più in là qualche cenno in questa
medesima lettera. Se Vau di drduati (dravati) si compendia, come io sempre ho cre-
duto, neir « di drutd, e all'incontro V au di dugas proviene, come pure sempre ho
credixto, da ?:, gli è come se una serie romanologica, rappresentata da diuls audis,
udir audire [cfr. Arch. glott. I 40], avesse, per la sua particolare insistenza nel
discorso, un'energia sufficiente a promuovere il tipo ascendentale urdr orare,
^duras oras.
Anche abbiamo badato, senza mai penfcircene, a quella ragione di analogia o di
congruenza che è la isometrica (isobarica); stimando, p. e., che il -xa di perfetto
greco o il -pa di causativo sanscrito, i quali esponenti in sé non portano alcuna si-
gnificazione 0 perfettiva o causale, ma s'alternavan primamente, con suffissi mera-
mente vocali, nella costituzione di temi verbali equivalenti, poi invalessero come
'formatori' presso le 'radici' in vocale o solo in -à, a rendere p. e. come 'di simil
peso' tra loro Tédvrjxs e aéarj;:; tétt,/.;, o ddpaja ebaudhaja'. E tutto si migliorerà e si
rivaglierà; né per certo a noi repugna, a cagion d'esempio, quella correlazione tra
il detrimento fonetico e la propagazione analogica, per cui un sXuaa perda prima
il a intervocalico e poi lo riacquisti per virtù di l'3='.4a ecc., sebbene qualche riserva
pur ci resti, e senza poi dire, che l' affermazione dell' f^v 'isterico' allato all' '^aav 'ana-
logico', va ormai tra le 'cose antiche'. Ma se per quanto concerne la novità dei prin-
cipj e del metodo, siamo in realtà alle condizioni che qui si sono brevemente addi-
tate, giova sùbito ripetere che . qualche differenza si determina per ciò, che i
'vecchi' non sanno seguire i 'giovani' in qualche esagerazione dei principj comuni. E
anche per questa parte è facile, se non erro, costruire qualche esempio, che qui parli
con molto chiara brevità. L'esponente di superlativo, che è -istd in figura indoeu-
' IMem. d. Ist. Ì0)!i6., 6 luglio 1865, § 15. J
— U2 —
ropea, e -iita iu figura iiidoii'anica, si fa -istha in figura indiana, soffrendo cioè altre
due alterazioni : l' esplosiva dentale clie si riduca a linguale e s' iuaspiri. Suppo-
niamo (l'ipotesi qui non si discute, ne importa che si discuta, trattandosi di una
considerazione meramente speculativa), supponiamo che questa, o per motivo etno-
logico 0 per un altro motivo qualunque, sia la regolare alterazione indiana di un
-{sta indoiranico; e vma conseguenza ne sarebbe, secondo la nuova 'scuola', che il
participio perf. pass, del verbo die (sscr. dista), la cui figura indoiranica è dista,
deve primamente essere stato distha nell'India, e poi aver perduto l'aspirazione,
cioè essersi in qualche maniera restaurato, per la virtù analogica dei tipi drstd
naUd, uktd ecc., non ostante dagdhd ecc. E sarebbe pressappoco quanto dire, che
il lat. anfractus, e anche in-fero, hanno prima dovuto essere (secondo la regola che
è rappresentata da ambo ecc.): ambractiis imbevo ecc., e poi restaurarsi, per virtù
degli isolati o altrimenti composti: frangere fero ecc. Orbene, noi confessiamo di
non saper credere questo; e di credere all'incontro, che l'evidenza etimologica,
sia d'ordine lessicale o sia d' ordine grammaticale, "possa, in determinati confini,
avere un effetto istintivo di preservazione 'antimetamorfotica' (scusi la brutta
parola, e consideri il secondo capoverso della 'Lettera al Caix').
Cosi è finito l'esordio, a cui d'improvviso mi induceva la bella scrittura del
Brugmann; ma, sen^a dire della sproporzione, che nel mio caso ci sarebbe tra l'esor-
dio e la predica, si tratta di un esordio, che rende più che mai superfluo tutto quanto
gli succede. Senonchè, la colpa non è mia; ed ecco dunque il resto.
1. Il nostro discorso partiva primamente dalla Introduzione alle Mdìjjliologische
untersìichungen e dall' effetto che in ispecie i romanologi ne avevano dovuto risentire.
Dicevamo , che di leggieri s' intendeva come taluni ti'a i continuatori o anche sem-
plici discepoli del Diaz fieramente s' indignassero e per la romorosa promulgazione
delle presunte novità e per gì' inconcepibili indugi a sanar con molto larghi penti-
menti una temerità così singolare'. Capitolo per capitolo, in ogni loro insegnamento,
avevano essi badato sempre alla distinzione più rigorosa tra forme 'istoriche' e for-
me 'analogiche', tra quelle cioè che altro non sieno se non la continuazione fonetica
di forme latine, e quelle, che in varia età e per varie spinte, il neolatino consegua in
quanto egli riplasmi la materia antica. E non ci fermavamo a raccogliere esempj,
perchè la intiera disciplina era un'esemplificazione continua; ma solo ricordavamo,
per discendere alla modestia dei proprj lavori, qualche esercitazione generale, come
è quella sui riducimenti della flessione del nome [Arch. gì., II].
Che dir poi del sentimento che tra i romanisti doveva produrre ogni ' quousque
tandem' in ordine alla tenacità delle norme fonetiche? La dimostrazione di questa
tenacità è stata sempre uno dei loro assunti più fermi e sicuri; ognuno di loro,
come ha contribuito alla costruzione di nuove categorie fonologiche, o non percepite
o appena percepite dal Diez, cosi ha contribuito a ridurre grandemente tutto quanto
' rCfr. ora Bruomann, o. c-, 35 n.]
— 443 —
neir opei-a del Maestro veniva a dare uu' apparenza di mera volubilità ai ' continua-
tori' fonetici ; locchè naturalmente non vuol dire che per essi non rimangano , pur
dopo eliminati i varj intrecci e incrociamenti, d'ordine variamente istorico o ormai
penetrati in varia misura dalla indagine ragionatrice, ancora di quelle oscillazioni
problematiche affatto, che a cagion d'esempio si rappresentano per gT it. (jnhhia rn-l-
dare (venez. ecc. col e- : cheha criar) allato a casa e crudo (onde in parte slam ricon-
dotti a problemi latini comò gloria allato a dm o graciUs allato a cracentes'). Ogni
spoglio fonetico fa vedere, da più decennj, al romanista, qual sia il riflesso nor-
male, cioè popolare, di una data base in una data favella; ed è superflua da nn pezzo
l'avvertenza, che tutti gii esemplari divergenti formino un mucchio di roba per di-
vei'se maniere confluita o intrusa, o in diversi gradi problematica [Arch. gì., I, lui].
Un esempio opportuno a illustrai-e le cose che testé si avvertivano, potrà parer
quello di h- spagn. =/- lat. (Iiierro ferro, liorca forca; ecc.), anche perchè insieme ci
riporti a considerazioni d'ordine etnologico e a quella presunta innovazione che sta-
rebbe nell' andar di là dalla ragion della 'lettera' e riconoscer nude e vere le ragioni
del 'suono'. Il Diez notava, con felicità geniale, come il fenomeno paresse collegarsi
con la particolare avversione che nel basco ricorre contro il suono /; e eh' egli fosse
comune al guascone, attiguo questo pare al basco, nell'altro versante; onde si di-
rebbe che il motivo ne vada cercato in una ' influenza che spiri dai Pirenei'. Il Mae-
stro (Maestro vero) non rinunziava a questa dichiarazione 'autottonica', perchè nel-
l'ordine letterario apparisse tarda e graduale, e non mai consumata per tutta la
serie, codesta alterazione spagnuola; anzi non ci rinunziava per nessun argomento
che le paresse sfavorevole; ma ne attenuava l' effetto , col soggiungere, che anche nel
rumeno, specie nel meridionale, questa alterazione invalesse (Jieru ferro ; ecc.) ; e che
pur sul terreno paleoitalico/ e h si toccassero : /«è« liaha; ecc. Né mai più, che io
sappia, s'è considerata con giusta attenzione questa concordanza guasco-ispana '". Ora,
' Per quanto ò aU' incontro di vigiliti allato a vicesimus ecc., vegga, se Le piace: Ardi. gì.. IX 105 n. E im-
plicitamente ho già cosi dichiarato, che mi ijajan dichiarazioni illusorie quelle che fanno p. e. dipendere il g di
gloria daUa nasale dell'accusativo proclitico, ondo il prisco latino avrebbe detto tovà clonzìà , ma tocàli-glonzìiim
(Thueseyses, Kuhn's Zeitschr. XXVI 314).
- Anche in questa 'Lettera' vengo io cosi ad esprimere più d'una volt.a la mia maraviglia per la scarsa impor-
tanza che ancora sia riconosciuta .ai motivi etnologici nelle alterazioni del linguaggio. Ma devo confessare insieme,
che una maraviglia più ancora singolare ha recentemente in me suscitato una lezione curiosa, che mi son visto
dare sul Jaliresbericht fdr classische alterthumswissenscliaft (xu voi. ?) , a proposito della ' Lettera glottologica ' del ISSI.
L'articolino è anonimo, o almeno appare anonimo nel quadrettino di carta stampata che io ho ricevuto; e non ho
io mai veduto il volume nel quale si dev' esser pubblicato. La importanza di quell' 'Annuario' mi fa però presumere
che il critico sia un uomo valoroso; e poiché (sia ciò detto senza irreverenza danno che devo ai libri tedeschi e alla
critica tedesca presso che tutto quel poco che egli sa ed è) poiché il cenno del JahresbericM mi sembra caratterizzare
le odierne condizioni di una certa parte della critica in Germania, io mi permetterò di qui parlarne. Non è dunque
avverso il nostro critico al principio di cui ora discorriamo ; tuttavolta, tocca egli a labbra aitiate del sagginolo
dì questo povero cisalpino ; e poi gl'insegna come davvero si pratichi l'arte, dicendo ciò che segue : 'Asc. wniidert
' sieh in dieser Abhandlung einm.al, warum lateinisches ij im ItaUenischen bald durch palatales gg , bald durch zz
' wiedergegeben wird; mezzo geht eben nicht auf mef?i«s, sondern &^xf metiiis zuinick, wie die Italiener nach dem
'Cedex Cavensis im achten Jahrhundert sprachen; so erklart sich auch das von Diez angefiihrte meda. Der deut-
'sche Einflnss ist dabei iTnverkennbar.' Orbene, quanto alla parte teorica si risponde, che la presunzione di un'in-
fluenza tedesca sul linguaggio italiano , della specie che sarebbe il ridurvi in voci popolari un elemento sonoro
— 444 -
la verità è poi resultata, che il fenomeno rumeno, o propriamente macedovalaco, di
/in /(, né sia sporadico, né stia in alcuna particolare attenenza col guasco-ispano ,
ma entri all'incontro in quell'amplissima serie di riduzioni, cui spetterebbero lo s
genov. o napolit. da, fj (=fl), e in ispecie il calabr. hj=fj [St. crit., I 32; II 184 u.].
poicliè d' altro veramente non si tratti nel macedovalaco se non che solo di hi da fi,
come un altro vero Maestro ha molto perspicuamente mostrato'. Non regge al con-
fronto neanche il singolo esempio francese e ladino: hors, or, poiché questo sia un
caso di fonopatema sintattico, o in altri termini di / primamente mediano (de-foris),
e perciò da confrontarsi, per la natura sua, col soprasilv. vari (da-vart) parte, e si-
mili (cfr. Arch. VII 517, s. biar), e per la particolare sua passione con Etienne Ste-
fano, vaiteli, biórc, fri. beórce, bi-furc-, Arch. I 62 517; onde a schietta formola
iniziale é/ incolume in four-voyer ecc. I contatti paleoitalici tra /e h vanno finalmente
suddistinti in due categorie diverse, secondo che l'uno o l'altro sia il continuator
più genuino del suono etimologico [v. St. crit., II 171 sgg.], e non istanno di certo,
come già il Maestro sentiva, in più diretta relazione col fenomeno guasco-ispano di
quello che non vi stia l'arm, h-= osset. /- = pers. p- (lihìg ^ fonz = 'pang , cinque; ecc.).
Per tal modo, nella tela storica della parola romana in Europa, riesce nitidamente
'autottonica' questa metallage guasco-ispana del/- di fa ec. in /(-; e non isbaglierà
chi la reputi già ben consumata quando ancora gli scribi latineggianti stentavano a
sancirla nelle carte loro ; né si troverà chi le voglia negare il carattere di intrinseca
normalità per tutte le voci di schietto linguaggio popolare. Se ne ottiene un caso
congenere a quello dell' il dei parlari galloitalici di contro allo schietto u deUe basi
romane {ti lungo latino ed u del dittongo uo = ò lat.), per la qual corrispondenza non
è mai stata imaginata, ned è imaginabile, alcuna eccezione. E una corrispondenza,
che va senza alcuna interruzione (poiché i legittimi succedanei non la interrompono)
dal Mincio all'Atlantico; e poiché le contrade, comprese in questa zona neolatina
dell' «, son romanizzate alla piena luce della storia e nessuno perciò oserebbe av^-en-
turare l' ipotesi che la propagazione del fenomeno s' abbia a ripetere o da migrazione
di popoli o da cause di civiltà e di cultura, ne viene, che la corografia del fenomeno,
estraneo al resto della romanità, basti, pur da sola a persuaderne il motivo etnolo-
gico ' ; ed è del resto una persuasione . che va da un pezzo , con l' ajuto di domened-
latino ad elemento sordo, parrà al dotto autore quella incredibile bizzarria obe dee parere a me, tosto eh' egli ab-
bia quarant'anni di studj intorno alla parola romana. Quanto poi al singolo esempio, mezzo ha lo zz sonoro (ié)
e non sordo. È viedso, se così al critico va meglio, e non 7netso.
' MiKLOsicii, Miimunische untersuclmnr/en {voi. XSXII delle Mem. dell' Academia viennese), 1-2, pp. 6, 88.
■ Il Paris, in un suo benevolo e beli' articolo sulla 'Lett. glottol.' del 1881 (Romania, XI 130 sgg,), mi faceva
due obiezioni circa 1' U (la cui 'oelticità' già del resto aveva avuto in lui stesso un molto strenuo propugnatore;
ib., IV 130). Una concerne l'estensione corografica dell'K = u, poiché io non riuscissi a mostrarlo nella regione
meridionale e occidentale del dominio tedesco. L' obiezione era ragionevole, come non poteva non essere venendo
da quel critico, ma pur non colpiva nel vero. Jju^=ii ò appunto anche in quella regione; e io non ne toccavo,
perchè già si vede dallo Stalder, senza dir delle comunicazioni tra i pochi 'adepti' (quello del Kigra in ispecie),
alle quali or si aggiunge la voce dello Scuuciiabdt, nell'acuta© robusta sua scrittura: Slm^o-deutsclics nìtd SJavo-
italieniechM , p. 126. L'altra osservazione del Paris verteva intorno alla mia presunzione che sul territorio gallo-
romano si facesse e dovesse farsi ugualmente a cosi V V di duro, come Vn dell' vo da o latino. L' « galloromano,
dice il Paris, non s'ha che di contro all' « latino. Wa io lo prego di considerare, elio il neolatino non conti-
— 445 —
<Uo, comuuicaudosi cou sufficiente rapidità, anclie tra i dottori dalle labbra affilate.
Il fatto che l' il ricorra anche altrove e altrimenti nell' universo del linguaggio , e
cosìp. e. tra i Tedeschi come 'umlaut' dell' u (A—i) o tra i Turchi, non infirma il va-
lore di codesta percezione etnofonica, più di quello che l'aversi h- arm. =/- osseto
non infirmi la percezione che si attiene al h- guasco-ispano = p; come del pari, per
passare ad altra e pur congenere categoria di fenomeni, il fatto, che il danese o
l' arameo mostrin variamente la posposizione dell' articolo , non infirma l' importanza
etnosintattica dell'articolo che in continuità corografica è posposto e nell'albanese e
nel rumeno e nel bulgaro. Ma ritornando alla fonetica e restando al rumeno, nessun
romanista di certo ha mai pensato che 1' e rum., per a lat. fuor d'acc, non rappre-
sentasse una regola costante ; e l' uomo che più d' ogni altro qui ha diritto di par-
lare, ne dava una dichiarazione etnologica '. Nessuno ugualmente ha mai creduto
che non fosse costante la norma per cui ai lat. ct cs il rumeno risponde per pi ps ;
e tutti, io credo, hanno sempre ritenuto e ritengono che questi riflessi rumeni si ab-
biano a dichiarare dal mancar che facessero nell'idioma aborigeno i nessi ct cs, o in
altri termini da una predisposizione orale che portasse l"Illirio' a pf ps come alla
imitazione per lui meno cattiva o men difficile dei lat. ct e cs. Il primo nucleo dei
romanizzati stabiliva laggiù questa riduzione, e natiiralmente v' aderivano man mano
tutti coloro nei quali il medesimo substrato aborigeno era sforzato dal latino '. Anche
di certi motivi, che insieme spettano alla fonologia generale e all'etnidiofonia, il
romanista dovea naturalmente riconoscere l'attività assolutamente continua e nor-
male. Così è, p. e., di quei frangimenti della vocal tonica per effetto di determinate
finali, effetto che investe duramente nel rumeno 1' antica dittongazione dell' e, e sof-
foca quella dell' o.
Allato ai movimenti fonetici, che vanno per estesi territori e troviamo o di-
ciamo di motivazione etnologica, come è p. e. quello dell' « da u, tutti sempre ne
hanno' riconoscitito di quelli , ristretti a scarso territorio e ugualmente affatto nor-
mali, che andassero piuttosto ripetuti da molto modeste e non molto antiche ragio-
ni, o anzi da ragioni individuali e recenti; e s' è anzi sempre riconosciuto, che la
differenza tra la serie di movimenti , intorno a cui prima s' aggii-ava il nostro di-
nuando le vocali romane secondo ragion di quantità, ma secondo ragion di qualità, V a galloromano è cosi
legìttimo parallelo dell' a it. di duro, come dell' «it. di nuovo; coi quali due esempj si rappresentano i soli due
'motivi' di schietto e limpido u ohe il Romano offriva alla ripercussione del Gallo, n Paris soggiunge, nello
stesso articolo, una correzione d'ordine 'etn-etìco'; e io la accetto, e ne lo ringrazio. Ma poiché sono a discor-
rere con questo valentuomo, e in questa 'Lettera' accade più volte di accennare alla distinzione tra quello che
è del linguaggio reale e quello che nella scrittura se ne vede, mi sia lecito ancora annotare, in relaziono a
quanto è affermato da lui in nota a p. 485 del IX voi. della Jiomania, che io sarei curioso di sapere come egli
si dichiari quelle forme che guizzano per tutto il territorio di Francia , e si compendiano , quasi per anelli estremi
della serie, tra i nll. di Provenza: Claira, Claìrac (allato a Clarac) e il dimin. frc. clairon chiarino, clarinetto,
cfr. ingl. Clarion. — Finalmente, senza più alludere all'illustre romanologo francese, vorrei qiii notato, come tra
le più antiche prove ohe della pronuncia i' u:=u si possan chiedere, andrà il tipo mesurier, in cui si propag-
gina un i come nel tipo tirìer.
' MiKLosicH, Die slaviscJten elemcnte im ruintiniscUen (1861), p. 7; cfr. Beifrafie sur lantl, dcv rum. àial.. Vo-
ltai. , I, introduz.
- Cfr. MiKLosicn, Beitr. s. lauti, d. rum. clial, Cons. , II, K, vi.
— 446 —
scorso , e l' altra cui ora alludiamo , si possa anclie risolvere in una mera differenza
neir ordine del tempo. Sia lecito chiarire con un esempio questa doppia affermazio-
ne. Per entro al gran tessuto dei parlari galloromaui, dove occorrono 1' « ecc., cioè
in una data listarella di quella sezione del tessuto che addomandiamo la 'franco-
provenzale", invale un fenomeno abbastanza curioso, che a prima vista può esser
creduto di mera epitesi di k (kj) dopo vocal tonica palatina o labiale, ma che in fondo
è cosa diversa; di che in questo luogo punto non e' importa. La listarella, che sta come
a cavalcioni delle Alpi, si stende, al versante settentrionale, per la Val d' Anniviers
e la Val d'Hérens: e nell'altro versante, in giusta prosecuzione longitudinale, per
lina breve orlatura della Valle d'x4.osta. Appunto da questa valle, cioè da Fenis, ho
raccolto io stesso gli esemplari che ora Le adduco: ze put'k io posso, ze uikj io yo-
gìio, pikj piede; lin'tlk lenzuolo, feihuk fagiuolo ; j w/c uovo; nuk nuovo {V abììk nuk);
crìikj crudo, vemìuk venduto '. Qualche affinità, come domestica, esisterà sicuramente
tra questi 'Alpigiani dell' -e/c -ik ->ik\ che scopriamo quasi attigui di qua e di là dal
Silvio; e la singolarità, come domestica, della loro pronuncia, andrà perduta, tosto
o tardi, sotto 1' onda delle civiltà divei'se che incalza ai due versanti la favella frau-
coprovenzale. Ma imaginiamo , all'incontro, questo scarso popoletto 'dell' -(Ve e del-
l' -uk' in un' Europa molto scarsamente abitata; imaginiamolo dotato di così robuste
qualità, da renderlo superiore, quasi per natura, ad altri popoletti che gli sieno
dattorno a maggiori o minori distanze; imaginiamo che egli produca taluno di que-
gli uomini che a buon dritto si dicono gì' istitutori delle nazioni; ed esso potreb-
be, nel corso dei secoli, estendere il suo dominio sopra larga parte del continente e
col dominio la favella. Che se, dopo un altro giro di secoli, la lingua diversa di una
diversa civiltà si venisse a sovrajDporre alla lingua ' dell' -/& e dell' -uk', e si risen-
tisse di codesto fenomeno della lingua a lei soggiaciuta , ne verrebbe pur senz' altro,
che la riazione esercitata dall' -//i- e dall' -?f/v fosse un'alterazione di 'motivo etno-
logico'.
Determinata accuratamente la costituzione istorica delle varietà neolatine, il
romanista s' era dato a rintracciare i varj modi dei loro più o meno larghi incrocia-
menti; e riconosceva, come le apparenti incongruenze fonetiche o i mutamenti che
apparivano fortuiti, andassero più volte sicuramente ripetuti da quest' ordine di
cause. Qualunque poi fosse il motivo di certe decKnazioni di pronuncia, come è
' A St.-Marcel [cfr. Arch. gì. , III 68] cosi aU' incontro sonerebbero le voci coi-rispondenti che mi fn dato
raccogliere: te più, ze ui, pi; lenifd, feizit; ju. S'aggiungono gli esempj in cui il -A" di Fenis può dai profani
scambiarsi per x\na gutturale antica: iilc (fera, vieìje) vecchio, ée«t ginocchio; fri'ltj freddo; St.-Marcel: viti, viflje,
zen (St.-Remy: ze6u). Le segno ora esempj dell' altro versante , prendendoli dal §11, nuni. 21, degli 'Schizzi fran-
co-provenzali', il quale non è mai stato tirato; e le fonti son quelle che adducevo nel luogo già citato in quest'an-
notazione, sotto 'Vallese'. Evolóna: avelc aveck avait (cfr. St.-Luo: avéye), deck doit, zevrek (Vétrpz: tzecrei)
chevreau, prek pris, pnhik pays, avouik entendu (-oui?), déjobehék désobéi, venouk venu , aperchouk aperta;
Saint-Luo: chék suia (Evol.: che; Sambranch.: saìs), partik parti, oii'c eut, volouk voulu, ìouk vu ; o dal libro
del Frobel: trovereic trouverez 188; vtiic veux 177 179, zientic gentil 177-8, proc assez (prou; cfr. prati countain,
parab. d' Evol.) 178, wnMC venu ib.; eoo. A formola interna avremmo gricses grises Frob. 184, vikoeinn vivant, pa-
rab. di Saint-Lue. Falsa apparenza di antichità in dek dìk doigt, moii j'amik, me clij'amik , mes amìs, delle para-
bole. — Rasentiamo in effetto il fenomeno sottosilvano e altengadino, che si rappresenta per fekl *feil filo, Iwkf
*bonv bove; Arch. gì. I 158 sgg. , 224 sgg.; di ohe Ella vede di più, se Le piace, nel citato S.
— 447 —
p. e. quella dello spagnuolo che ridurrebbe, se stiamo alle apparenze, in tempi non
punto antichi, lo s e lo z in y^, il romanista tentava di continuo il periodo o la du-
rata delle oscillazioni. Cosi egli notava, che anche ogni s di lingua zingarica, cioè
di una lingua importata in Ispagna nel XV secolo dell' èra volgare, si riduce in Ispa-
gna, tra gli Zingari stessi, in /. Or come si spiegherà questa congruenza? Non
certo da una ragione climatica, che volesse in quella contrada la riduzione di cui
tocchiamo. Ma certamente da ciò, che nelle voci spagnuole, dove era s di evoluzion
latina, come in ^^cA-e (= pesce), oscillandosi ancora nel XV secolo tra s e •/, anche
lo Zingaro, assimilatosi in Ispagna, molto più che non altrove, alle popolazioni tra
cui era venuto, riuscisse come indentato in quel movimento, e andasse oscillando,
p. e. nella sua voce per 'anno', tra bers e her/, e finisse per restare col solo bery
{ber/ è), come lo spagniiolo è iinito per rimanere, a cagion d'esempio, col solo ^^eyc.
Questo conguaglio zingaro-ispano , se da vm lato può servirci a mostrare quando
ancora oscillasse, e non di certo per un solo momento, la pronunzia che poi si de-
termina in •/_ spagnuolo, dall' altro ci dà tin'idea di quel che sia la condizione di iin
linguaggio mal vivo , com' era appunto quella dell' idioma zingarico sperdutosi per
le terre spagnuole. E per la ragion dei contrasti ci riporta ai conguagli in sé ope-
rati dagli idiomi ben vivi; i quali traducono ^ come per istinto, secondo le proprie ra-
gioni fonetiche, la parola che ioi'O provenga da idiomi affini, mantenendo cosi
1' equidistanza o 1' antitesi tra parlare e parlare, e cosi allargando, quasi per via
culturale, l'attività dell' etnidiofonia. E il caso di éleze, che il popolano della Ve-
nezia dirà per èlice, conguagliandolo a fórfeze ])ev fórjice ecc.
Sono a un dipresso così accennate le condizioni, in cui la romanologia si veniva
esercitando, allorché la tuba degli 'innovatori' dava primamente il suo squillo
eroico. E io le ho accennate alla meglio e per via pratica, incapace come io sono di
quella terribile profondità (Xó-p; paO'ì)? xal à;ió%p-/j[j.vo;), che ci saprebbe mettere
un amico transalpino di cui vorrei taciuto il nome, per non parere di rendere pan
per focaccia. Ora, è egli vero o no, che il romanista dovea stentare a credere ai
proprj occhi, quando leggeva la proclamazione dei 'nuovi principj", o, in altri ter-
mini, quando si sentiva predicare: badate al suono effettivo e non alla scrittiu-a; ba-
date all' attività analogica; badate alla costanza e al perchè della costanza che è nei
movimenti fonetici ? Se poi il romanista aguzzava 1' orecchio per sentir quali nuove
applicazioni venissero facendo i banditori dei principj che per lui erano vecchi,
egli sùbito si spauriva per la curiosa affermazione che il rumeno ciuci (dove il se-
condo e ha appunto un suo particolare 'motivo etnologico') fosse da proclamare,
per virtù de' nuovi principj, forma più genuina che non l'italiano cinqiie; e sùbito
si ribellava, squadernando le sue larghe ragioni. Alle quali non fu risposto.
'2. Potevano, per vero, attentarsi a dire, che la verità s'era manifestata, più o
meno largamente, sul campo del neolatino o dei linguaggi moderni in generale,
ma che restava di snebbiare gl'intelletti circa le differenze che la cecità dei 'vecchi'
presumeva di stabilire tra le vicissitudini delle lingue 'moderne" e le ragioni orga-
— 448 —
niche delle 'antiche', differenze clie punto non sussistevano, o anzi, se mai, or si
dovevano stabilire proprio a rovescio di prima. Senoncliè, ne risulterebbe intanto,
che non si trattava di 'principj nuovi', ma solo di una più larga applicazione di
principj riconosciuti da un pezzo. D' altronde , i romanologi , massime in Italia ,
potevano o dovevano avere insieme esplorato, pur nelF ordine comparativo, ben più
antiche o rimote fasi della parola ariana, che non fosse lo stesso latino. Era egli
possibile, che stimassero così intrinsecamente diversa la vita della parola ariana
secondo la diversa ragione del tempo, da stimare estranea alle antiche sue fasi
1' azione di quei principj che vedevano e descrivevano così ampia nella storia di-
scendeutale della parola latina? Quest'era manifestamente impossibile; ed anzi essi
insegnavano e stampavano, che luce grande veniva loro dallo studio delle fasi mo-
derne per tutto quanto si atteneva allo studio delle antiche. Dicevano per esem-
pio (1876): « Tutti conoscono i molti progressi, che ha fatto, negli scorsi decennj,
» la esplorazione scientifica delle lingue antiche e moderne. La osservazione meto-
» dica, sempre più insistente, favorita negli iiltimi temjpi anche dalle applicazioni
» della fisiologia allo studio storico della parola, venne a esercitarsi largamente, e
» con doppia utilità, pui'e intorno alle varietà dialettali tuttora pai-late. Le quali
» offrendo le prove positive, e facilmente accessibili, di singolari e importanti evo-
» luzioni, acuiscono e addestrano in singoiar modo la nostra facoltà percettiva, e
» così la rendono capace di ristudiare e ricomporre le fasi via via più antiche, con
» una energia ed una sicurezza che altrimenti non avrebbe mai conseguito. » '
Ma la concordia nelle idee direttive, se torna a escludere ogni innovazione
teorica, jjur qui non esclude che i 'vecchi' deplorino certe esagerazioni della 'giovane
scuola' e vedano con maraviglia come qixesta si circoscriva di soverchio, e trascuri
o non avverta distinzioni d' ogni maniera.
Poiché, in primo luogo, punto non si regge alcuna sentenza generale, in quanto
si affermino proporzioni identiche o consimili o di necessità maggiori o minori neUe
evoluzioni per cui le favelle vanno trasformate. Così s' hanno diversità molto note-
voli da un caso all'altro, sì per la quantità e si per la qualità delle alterazioni,
senza che la ragione della differenza possa andare senz' altro ripetuta dalla ragione
del tempo. Sono linguaggi coevi l' italiano , il francese e il rumeno ; e pure è tanto
men grande 1' alterazione che la parola latina subisce nel primo, di quello che non
soffra negli altri due. Il latino è coevo al greco e anche al sanscrito; e piir le di-
stanze che intercedono tra queste antiche lingue si possono abbastanza corretta-
mente rappresentare coli' accoppiar da una parte ahharanta epTieronto e metter fere-
bantur dall' altra. Che se all' incontro tentassimo il linguaggio dei Semiti , trove-
remmo tra i monumenti fenici e l'arabo anteislamico e le parlate dell' Arabia odierna
una così scarsa differenza per ogni parte dell' organismo, da dirla quasi trascurabile
a chi dall' alto consideri , come qui si fa , le vicissitudini meravigliose della parola.
Di certo, le spinte analogiche variamente attive ci daranno, alia lor volta, larga
' Atti del E, Istituto Lombardo , 20 luglio 1876.
- 44n —
pai'fce della ragiono per cui il gotico , a cagion d' esempio , riesce cosi disforme dal
greco, o il celtico dallo slavo. Ma resterà poi che si consideri il pei'chè le mede-
sime spinte non abbiano prodotto se non nn distacco di tanto minore , non dirò tra
zendo e sanscrito, ma tra sanscrito e greco.
Qui interviene quella considerazione fondamentale, per cui la nòstra 'scuola"
"[ione anzi maggiore, in buona parte, che non faccia la scuola nuova', la naturale
identità di cause nel movimento alterativo a cui la parola va incontro attraverso
tutti i tempi; poiché noi abbiam sempre 1' occhio fisso a quella che diciamo la po-
tissima delle cause alteratrici, cosi per le antiche età, come per le moderne. Già ho
a\'\'ertito che punto non ci repugnano e anzi ci riescano bene attraenti tutte le spe-
culazioni che tendono a ricostruire idealmente i patemi fonetici o morfologici nel
seno di un popoletto omogeneo e a persuaderci per cotal via dell' efficacia dei 'prin-
cipj'. Ma confesso, che la portata, che si vuol dare alle speculazioni di questa ma-
niera, mi ricorda talvolta la deduzione di quell' antropologo il quale affermava, che
se 1' uomo vien dalla scimia, anche la pedagogia va da capo a fondo rimutata; o la
scappatoja di quello scolaro, il quale, stretto a parlare con giusta precisione intorno
ai bacini di certi fiumi, rispondeva, che la geografia fisica e politica manca di salda
base e non sarà una disciplina rigorosa e per lui sufficiente, in sino a che vertano
ancora tante incertezze circa le ragioni prime della materia cosmica. L'uomo, qual
pur sia 1' origine sua, è 1' uomo da centinaja di migliaia d' anni, e questo vuole edu-
carsi ; come la terra , sia essa un conglomerato d' aeroliti o checché altro , è da lun-
ghe età il campo conteso tra la progenie del bipede implume ; e questo campo vuol
essere dal geografo descritto. Similmente é rimota per noi la costituzione dei primi
nuclei idiomatici; e la penetrazione isterica, massime quando s' eserciti intorno alle
lingue delle stirpi autrici e altri ci di larghe civiltà, mal può presumere di spingersi
in sino a tali giacimenti, che già non sieno il prodotto dell'incrociarsi di più filoni,
variamente tra di loro diversi. Nega essa la 'nuova scuola" il motivo etnologico
nelle trasformazioni della parola romana? Non è abbastanza eloquente , per codesta
'scuola', il contrasto che è, p. es., entro i confini geografici dell'Italia stessa, tra il
tipo toscano, o scliiettamente italiano, da una parte, e il galloromano dall'altra?
Non pare ad essa decisivo, che il tipo toscano si possa descrivere, per via negativa,
nel modo che segue [Arch. Vili 122]: non occorrervi, dall' un canto, nessuno di
quei fenomeni pei quali negli altri tipi dialettali dell' Italia maggiormente s' altera
la base latina, e non esistere, dall'altro, alcuna serie di alterazioni della base latina,
che a questo tipo sia peciiliare ' ? Sa essa imaginare e descrivere un' altra e fonda-
mentale ragione di cotali differenze , da quella infuori che noi mettiamo innanzi e
studiamo di continuo, e s'enuncia in queste poche parole [ib. 124]: da una parte
esser nativo, quel che nell' altra è imuipsso? E poiché, secondo che ormai fu a sazietà
ripetuto, non par possibile che vi sia chi voglia sottrarsi a tanta luce di cose, com' è
' Come il toscano è tanto più genuino nella fonia, che non il veneto, il lombardo ecc.. e cosi nelle forme;
onde letto e non leggiuto , f/rande ambigenere e non orando ghanda.
— 450 —
che coloro, i quali priucipalmente iutendouo a affermare un' egualità di vicissitudini
nei differenti periodi della vita del linguaggio, non pensano a inferir dal moderno
all' antico in favor di questo argomento storiale, che insieme dà la chiave palpabile
della normalità degli avvenimenti fonetici e della varia e indefinita azione delle
spinte analogiche? Studiar la prima genesi di una favella qualsiasi o dell' ariana in
ispecie, non è di certo cosa superflua, ed è anzi ben superfliio che ciò s'avverta-;
ma tanto e' entrano le speculazioni di questa maniera nella esplorazione delle vi-
cende a cui la parola ariana sottostà nel tempo e nello spazio, quanto c'entrerebbe
la storia della formazione del latino nell' indagine sulle sorti che il latino volgare
abbia patito in un dialetto rumeno. Dove arriviamo, o donde veramente partiamo,
quando intendiamo ricomporre la parola primitiva degli Arii, riducendo e spiegando
le sue trasformazioni? Noi afferriamo quell'organismo splendido, saldo e intiero,
che ancora si continua con robusta limpidezza nel sanscrito , nello zendo e nel greco,
e va poi incontro , anche nelle antiche età e sempre per la caiisa principale delle
infinite migrazioni e degli incrociamenti che ne conseguono, a scosse e a riduzioni
di ogni maniera, e anche tanto sovversive, quanto potremmo imaginare quelle del
volgar latino , se dopo aver vegetato alla Sava o al Danubio per dumil' anni ed es-
sersi ridotto a dire nm fost volt per 'ebbi voluto' (letteralmente: 'ho stato voluto'; e
vuol dire tre voci romane, tutte e tre morfologicamente scardinate, che rifanno un
costrutto slavo), passasse a vegetar per altri cento secoli sopra un territorio, dove
gli toccasse di succhiare abondantemente principj finnici o baschi.
Ma d'altronde, se il criterio del tempo non ha punto un valore assoluto per
quanto concerne le trasformazioni della parola e se !nei motivi delle trasformazioni
anzi è tra le antiche e le moderne età una miglior congruenza che alla nuova 'scuola'
non possa parei-e, è egli poi legittimo il trascurare le intrinseche e naturali diver-
sità che un organismo glottico presenta secondo i diversi periodi dell' esistenza sua ,
ed è egli in ispecie legittimo affermare che le li-\-ellazioni analogiche tanto devono
esser freqiienti nelle favelle antiche, quanto son nelle moderne, od anzi più in quelle
che non in queste? Dovremo noi riverire, come un apoftegma che rimuti l'arte,
quello che ci avverte che gli uomini , vale a dire i creatori e i trasformatori del lin-
guaggio, son sempre tutti passati, anche nei tempi antichi, per le stesse fasi della
vita che s'attraversano oggidì? Oh Iddio buono! Tutti, di certo, abbiamo creduto
sempre e crederemo, che ai tempi d'Omero o di Valmichi i fanciulli fossero fanciulli
come ai tempi di Caiiomagno o del Cid; ma resterà pur sempre vero, per dare in-
tanto qualche esempio nell'ordine dei suoni, che il sanscrito, il greco e il latino,
fedeli alle condizioni archetipe e all'unisono tra loro, riflettano costantemente per t
un t primordiale, stia egli al principio della parola o nel mezzo pur tra vocali («m-
tare, rotóc); laddove un t latino ben rimarrà incolume anche nello spagnuolo e nel
provenzale, se è al principio della parola, ma nel mezzo tra vocali si fa d {mudar ecc.)'.
' Pur quando la base vada incontro a un'alterazione cosi profonda com'è riiiolla ji. e. di -;)0- greco da -h'O-,
restiamo sempre aU'imisono, cioè a rosultanza sorda; non mai siamo al caso deìVnliim sardo, p. e, da n<jiia, il
quale muove da at/ua.
— 451 —
L<a elasticità o l' energia dell' apparato orale, si dice, può esser ben diversa da nn' età
all'altra della stessa persona, da uno a un altro individuo, o tra famiglia e famiglia,
vicinato e vicinato. Ah, lo sappiamo tutti! Ma il nesso pt, come s' ebbe dai primordj
nelle voci che latinamente suonano septen ajìttis, si mau tenne incolume per secoli
infiniti (rum. seapte), e l'assimilazione, com' è nell' it. sette, può dirsi, in rapporto a
cosi sterminate distese di tempo, un avvenimento affatto moderno. Ora, tra la livel-
lazione analogica, da un lato, la quale in fondo altro non è se non vm. adattamento
0 una riduzione nell'ordine delle forme, e le riduzioni o gli adattamenti nel mero e
diretto ordine de' suoni, dall'altro, corrono dei rapporti manifesti di congruenza na-
turale. Il ridurre a d, cioè a elemento sonoro, un t fx-a vocali, è un risparmio di va-
riazione (si mantengono le corde vocali, per il profferimento della consonante, in
quella stessa attitudine che è richiesta per la vocale che la precede e che la segue),
com' è un risparmio di variazione formale il dire ahhent almez in luogo di aiment
mnez, secondo che giustamente prima si diceva. Il ridurre come a un doppio tt l'an-
tico nesso 2}t o et, è un altro modo di risparmiare variazioni orali, pel quale s'ot-
tiene, a parlar per via di formole, che AB tramonti in BB; come è un altro modo
di risparmio nelle variazioni formali il venire alla conguagliauza dei due perfetti
italiani mossi (anziché '"mohhi) e scrissi, che pur si pirò dire un caso di AB che tra-
monta in BB. Ora, la maggiore o minore abondanza della doppia serie di adatta-
menti può dipendere da cause varie e complesse ; ma in tesi generale andrà pur sem-
pre affermato: che l'organismo originale (l'ariano, poniamo) tanto più s'alteri, per
adattamenti e riduzioni, quanto è più lunga la serie di secoli ch'egli è agitato nel-
r uso e quanto più si vengono moltiplicando gli incrociamenti di stirpe nelle genti
tra cui l'uso n' è agitato. Il latino ébhe junctns per *juctus, ma stette a vicfus allato
a vici, e anche Sbjìictus allato a pinxit. L'italiano si inoltrò a di-jnnto allato a di-pinsi,
e. anche volle vinto e vinsi. E venne pure a dolsi; ma non s' è mai spinto a cose che
somigliassero i sardi dolfcsi dolsi, dolfidu doluto, o il rum. dus ductus, tirato sopra
diisei duxi. Nessun ordine di patemi vorrà di certo esser tenuto estraneo ad alcuna
fase, per quanto antica, di qualsiasi linguaggio; ma non è lecito revocare in dubbio
le ragioni storiche dei varj limiti a cui il patema si estende. Non so che altri sia
andato più in là, di quello che noi sempre facemmo [cfr. Ardi, gì., I 3.5, Studj crit.,
II 519], affermando che il lat. hustus sia il prodotto di un'illusione, per cui combu-
rere pareva consistere di com e hicrere, alla guisa di com-hinare com-ponere ecc.; lad-
dove in effetto il substrato etimologico era *'co-amf-urere co-'mb-urere'; come anche
s'ebbe un popolare *co-anfr-urere '^co-'mhr-urere (cfr. osco amfr-, umbro amor-, nella
funzione del lat. ami-), onde *hrusto hrustiare hrustidare, che sono i veri fondamenti
dei neolat. brusare bruslare'. Né alcuno vuol negare, che la tela delle lingue antiche
non istandoei dinanzi cosi larga e intiera come quella delle seriori o moderne, ne
venga che non ci appaja in tutta la sua estensione e chiarezza l'attività che pure in
' Cosi anche Leo Meviìr, cfr. Ostiiofp Perfect 535-3 n. Circa le giuste obiezioni fonologiclie, mos.se dal-
l'Osthoff al Corssen, cfr. il 1. e. degli St. crit.
' Antica ugualmente tra noi l'affeniiazione di epentesi vocalica in ienebrca (tenfra), //ener (qcmro), soccr (socro).
— 452 —
quelle i diversi principj dovettero spiegare. Ma è ella così scarsa la suppellettile
greca o latina, di cui disponiamo, cosi scarsa e rada la serie delle famiglie lessicali,
o greche o latine, die ci è dato ricomporre, da lasciarci davvero in dubbio se un
movimento fonetico di tale entità com' è quello di Ulva leva, allato a alvàr levare
lAi'ch. gì., I li], 0 un atteggiamento morfologico di tale entità come è quello che
si rappresenta pei testé citati dolfido dus, vi si possa, o no, facilmente imputare?
0 parrebbe facile trovar nel latino delle voci greche, in condizioni da uguagliare
quelle dell' it. lottega da c/.^uoQ-q-A-q ? Noi vediamo, nell'Inghilterra, sfrondarsi in breve
giro di secoli la flessione del sassone assunto dai Celti ; e il sassone , ischeletrito ma
invalente, operare alla sua volta che la flessione ibernica, tanto florida ancora uel-
l' età carolingia , venga intristendo con rapidità singolare. C è egli qualcosa di si-
mile nei tre miUennj pei quali misuriamo la flessione greca? Tra il tempo, in cui
greco e sanscrito erano una cosa sola, e l'età che è rappresentata dal linguaggio
dell'antica letteratura indiana, corre di certo una gran distesa di secoli; ma la fles-
sione sanscrita si mantiene ancora così genuinamente alle condizioni originali, da
apparirvi come indifferenti, e per quantità e per qualità, le formazioni nuove. Al-
l'incontro, nello estendersi del sanscrito tra gii aboi'igeni del continente indiano, la
sua flessione va poi così malconcia, da doversene dire molto men distante il greco
moderno che non alcun parlare sanscritico dell'India d'oggidì. Altro che aforismi di
sempre uguale attività di principj ! Altro che principj nuovi o nuove e corrette ap-
plicazioni di vecchi principj ! Siamo alla vertigine dogmati(;a, contro la quale va in-
vocata la santità del senso comune.
3. Non vorrei parere paradossale o ostinato a chicchessia; ma io devo pur sem-
pre ritornare a questo: che appunto le molte benemerenze, per le quali vanno insi-
gni i ' Neogrammatici , tornano a indiretta conferma della insussistenza, non dirò di
una rivoluzione, ma pur di un qualsiasi innovamento sostanziale nei principj o nel
metodo; poiché sempre sien tali codeste benemerenze, che punto non si debbano ad
alcun peregrino argomento dottrinale e punto non dimostrino alcun' arte, prima
sconosciuta, o nell' indagare o nel provare. Non solamente c'è continuità assoluta
tra quanto s' era fatto prima e quanto col grande acume e 1' operosità grande riesce
ad essi di aggiungere; ma non è nemmeno il caso che 1' avanzamento graduale, per
quanto egli sia cospicuo, porti con sé, come per effetto naturale e necessario, che la
prospettiva d'improvviso si muti. Quando siamo sul campo della critica positiva,
avviene che i vecchi' debbano alla lor volta trovare accettevoli non poche delle
proposte che son formulate dai nuovi'; ma non per ciò i 'vecchi' son trasportati in
un ambiente diverso da quello in cui hanno sempre respirato, né si può credere che
nelle loro adesioni, più o meno larghe, alle cose nuove, c'entri, per poco o per
molto, quella forza persuasiva delle rivelazioni impensate, per la quale può parerci,
che un vero, nuovamente accolto, risiedesse pur sempre nella nostra coscienza. E
sia lecito pur qui soggiungei'e un tentativo di dimostrazione.
Incominciamo dalla fonologia. Lo Schleicher aveva grandemente promosso que-
— 453 —
sta parto della grammatica comparativa, così come d' ogni altra aveva fatto '. Ma
la fase di studj, che il suo 'Compendiura' magistralmente riassumeva, non riiisciva
ancora a disciplinare i continuatori delle aspirate, specie gli italici e gli indiani,
secondo le varie loro età, e i continuatori dei varj ordini di gutturali, o le duplici
parvenze nei continuatori greci di cons. -f-^, che quasi vuol dire tutto quanto impor-
tava estese complicazioni nella storia delle consonanti. Il lungo lavoro, mercè il
quale tanta parte di apparenti volubilità o incoerenze s'elimina da questo gran com-
plesso, 0, a parlare con rapidità più che algebrica, pel quale si vede intimamente
nella ragione di quei fatti che son rappresentati per via di questo doppio esempio : la-
ghii-s è-XoL'/j)-z sXdaawv iXàtrojv lev-i-s, paleoslv. lìgììkii; mih mìdha ò-[uy-im mingere meiere,
lit. miz-n, arni, miz-; questo lavoro che -sembra ben riuscito, per quanto io posso
vedere, anche ai Neogrammatici, vien dopo lo Schleicher e prima di loro". Or si
' Oggi si sente dire, che Sclileicher non la guardasse tanto nel sottile in fatto di rigore fonologico; ma
quanti ancora siamo, che studiavamo di grammatica comparata sui fascicoli del gran libro di Bopp prima che ne
fosse compita la prima edizione, abhiani la piena coscienza del 'rigor della prova' che lo Schleicher, rincarando
anche sul Pott, ci ha abituato a volere. Se lo Schleicher aveva irn difetto, era appunto quello di propendere al
dogmatismo. I ritocchi nelle successive edizioni del 'Compendium', ai quali lo schietto amore della verità pnr Io
portava, si risolvono, per buona parte, in contravvenzioni al fare assiomatico del primo suo getto (ed è un pro-
cedimento noologico, del quale è lecito profetizzare che si riprodurrà tr.a i Xeograramatìci pure). Non solo re-
pugnerebbe *.a priori' l'imputare a rana mente, come era quella dello Schleicher, che le convenisse l'idea di al-
cun che di eslege nelle vicissitudini fonetiche; ma è facile incontrare nelle auree scritture, che le dobbiamo,
delle frasi com' è questa (p. e. dove è contrapposto al primitivo k il lat. qu e il got. Jiv): 'non è ancora trovata la
legge, secondo la quale ciò accade, o per la quale questa serie si disciplini'. Appunto il suo fare, largo e siste-
matico, e la conseguente sua avversione per 1' 'etimologismo ', ohe voleva dire per tutto quanto dovesse tornar
discontinuo e problematico, caratterizzano gagliardamente lo Schleicher tra i legislatori della disciplina. [Men-
tre si stampa questa 'Lettera', sopraggiunge: Joh. Schmidt, ScJihichcrs auffitssuiìg der lautgesetze , in Kuhn's
Zeitsohr., XXVIII 303-12.|
" Io sono veramente grato a tutti quei colleghi, e .ai colleghi 'neogrammatici' in ispecie, che ricordano
quel che a me sia accaduto di trovare, specie in ordine alle 'serie gutturali'; e già ho toccato altrove della rico-
noscenza che particolarmente professo allo Schmidt, il mio onorandissimo collega delle 'catastrofi'. Ma spero di
non riuscire increscioso a nessuno, se qui soggiungo qualche altra parola per meglio tutelar le mie ragioni. — Io
dunque son naturalmente ben lungi dal credere, clie le mie percezioni intorno alle serie gutturali non fossero ca-
paci di ulteriori perfezionamenti o applicazioni, o che di tali perfezionaurenti già non ne sieno conseguiti o in-
travveduti. E cosi, a cagion d'esempio, è di certo ormai renduto ben perspicuo il motivo dell'avvicendarsi di t e
■rr in tì; allato a ttótìooc, il quale risiede nella diversità della vocale susseguente ed è operativo pur nella sezione
asiana. Dove però non è male avvertire, da una parte, il modo in cui io m'esprimeva, sin dal 187Q, intorno a co-
desti t («il fatto culminante, rispetto all'equazione t ^vecor=k!f prc-elleaico, è questo, che i pochi ma sicuri
» esempj, pei quali si afferma, trovino tutti, nella risposta indo-irana, lo k', vale a dire il prodotto della continua-
» zione asiatica \kj\ dello kn indo-europeo >; Lcs. § 21); e avvertir dall'altra, che il motivo del x è da molto tempo
attribuito alla vocale successiva; v. per es. Cuut.'' 486. Anch'io nelle lezioni orali da molti anni lo adduco, e anche
mi sono giovato dei seguenti due esempi neo-ciprioti: ripdraiv ^ -/.spdT.ov ^ Tspraé'f^y.v := xp'.ras/.Xiv = KpixiXhov;
V. Sakellarios, Kyprlaka, III 401. — Ma come può mai avvenire, che un qualche ulteriore discernimento conduca
a guardar tanto 'in iscorcio ' codeste percezioni 'cisalpine ', da fame la bella menzione che segue: «Zwar weiss
» man, dass das System Ascolis, derzuerst die Existenz mehrerer Gutturalreihen flir die Ursprache behauptet hat,
» nicht stichhaltig sei und dass die drei Eeihen, welche er annimmt, zu zweien zusammenfallen ", ecc. (Beksu, Die
gutturalen und ihre verbindimg mil v ini lateinischen, pp. 1-2)? Quale è dunque la verità vera? È molto sempKce-
meute questa: che dal periodo schleioheriano si usciva ancora incerti se fosse casuale o avesse ragion comune
l'esito sibilante della tenue (s di contro a k), il quale si avvertiva abbastanza concorde tra lituslavo da una
parte e iudoirano dall' altra; ma nessuno ancora avesse pur sognato che il fatto parallelo si riproducesse per la
eoiTente della media {ì di contro a y) e per quella della media aspirata (ih di contro a, gli); i quali paralleli erano
avvertiti e dimostrati nelle Lezioni di Fonologia, per guisa che ne irscisse saldo e perfetto un sistema, non mai
scosso, in cui è la doppia serie proetnica di ciascuno dei tre termini. Tutti i </' g' ecc., che or girano per il
mondo, tutti senz' alcun' eccezione provengono da quel sistema, e nessuno lo scuote. E non si trattava già, in esse
— 454 —
domanda , questa cosi larga operazione , la più larga elio nel!' ordine suo fosse mai
compita (ed era naturale che cosi fosse , perchè era stata preceduta da quanto occor-
reva per maturai-la) , importa essa o non importa tutta quell' arte metodologica che
or si vorrebbe, come d' improvviso, scoverta? C è egli mai, dall' un canto, in al-
cuna parte di tutta quest' operazione, un abuso qualsiasi di postulati primordiali, o
pur c'è, dall'altro canto, che vi si trascuri mai l'entità effettiva della evoluzione
fonetica, per un soverchio rispetto delle parvenze che assume la parola scritta? 0
e' è mai qui entrata qiialche incertezza circa la normalità delle vicende fonetiche ?
Od è comunque entrato a turbar codesto lavoro un qualche pregiudizio in favor
della preminenza isterica del termine sanscrito? 0 veramente, dove c'è mai stato,
dacché si ragiona di simili cose, clii potesse star dubbio circa il grado di miglior
conservazione, tra il lat. vedu-s^ per esempio (ammessi che pur sieno i sogni del
restauro!), e il sauscr. udha-s fdha-s?
La uTiova scuola vanta a buon dritto delle belle percezioni in ordine alla storia
delle vocali ; ma è una strana , uii' incredibile illusione quella di presumere che altre
sieno state le ragioni del metodo o delle esperienze sistematiche per le quali essi
ottenevano codeste resultanze rispetto alle vocali, e altre quelle che avevano prima
condotto a resultanze perfettamente analoghe rispetto alle consonanti. Nessuno , per
certo, saprebbe escogitare una ragione teorica, per la quale l'affermazione, che sin
dal periodo unitario abbiano esistito i tre a (a ci n), dovesse mai repugnare a chi
aveva trovato o accettato quelle storie delle consonanti a cui testé si alludeva. Per
ciò che mi concerne, io sempre ho accolto con la miglior persuasione tutto quanto
s' è venuto mostrando circa i germi primordiali dell' e e dell' o '. Il fatto che ne man-
Lezioni, pure per quanto conceine lo slavo ecc., eli indicazioni embrionali, ma bensi di affermazioni assolute
(ib. 193), di ragionamenti a cui nulla mancava (ib. 116 sgg.), e di esemplifloazioni continue, in oui da un l^to
stavano, per qui limitarci a poco : mKiéò o vczo con aino od viuku, e dall' altro : igo o snjegu con gora o il lit. angis
(ib. 113 sgg., 181 sgg.; cfr. St. Cr. II 26). Se il Miklosich, Alislovenische lautUltre, Vienna 1878, cita come fonte per co-
desti scernimenti una scrittura di Federigo Mììli.eh, io sono certissimo che esso Miiller punto non presume che
alcun merito a lui ne spetti; e se il WurrsEv, nella 6')-. sscr., .sembra attribuirli all'HiJBsenMASN (cfr. K. Z. XXIII
21), mi stimo io sicuro che in ciò non entri alcuna avversione dell'illustre Americano contro di me, come
nulla di simile pxiò entrarci nel caso del Miklosich, il più benevolo tra' miei mnestri. Ma a ogni modo a me è toc-
cato questo, di sentir ohe mi fosse minutamente descritta, e grandemente vantata, la ricostruzione di un irnaidìii.
(sscr. trnedhi), tal quale era fatta compiutissimamente nella nostra ' scuola ', e pur con la sua brava coda 'analo-
gistioa', da anni ed anni; v. St. Cr., II 373, eoe. Quanto poi al FicK, che suole esser citato con me per questa ma-
niera di percezioni e di certo non ha bisogno che alcuno gli accresca ricchez?.a con la roba d'altri, mi sia lecito
ripetere, ch'egli si è sempre limitato alla tenue, dove, per altro non dire., lo scernimento è sempre manifesto an-
che nella pronuncia e la scrittura deU' indiano (cfr. Schmidt , Jen. Literaturzeit., 1871, art. 201). — Finalmente, a
toccar d'altro, mi sia qui ancor concesso di notare, non per alcun vanto di priorità, che in questo caso sarebbe
cesa poggio che stolta, ma per accennare alle congruenze del lavoro progressivo, all' infuori di ogni ilsima di
nuovi principj, come la bella scovorta del Veknicr, circa lo apparenti eccezioni della 'lautverschiebung', si risolva,
quanto al principio, neU' affermare una di queUo alternazioni neUo stato della consonante, che dipendono dalla
ragione dell'accento, avvertite p. e. in Arch. glott. I Lii, e ncU' affermare insieme quella stessa evoluzione di una
fricativa di fase anteriore, che da quest' altra parte delle Alpi era posta nella descrizione dei continuatori latini
delle aspirate originarie.
Giorgio' Curtius, cui appunto si dovevano avvertimenti sistematici o preziosi intorno alla molta antichit;'i
dell' ri e dell' o, ha posto una tonacit.i singolare noli' oppugnarne l'ammissione per il periodo unitario. È forse tra
gli aitimi esercizi del suo pensiero, una lettera a me dirotta il 22 marzo del 1885; nella quale mi ripeteva questa
sua ripugnanza, e m'esortava a dirgli subito, anche in brevissime parole, quel che io no pensassi. Io gli rispon-
— 455 —
chi la diistinzione nella lingua e nella scrittura indiana, per qui limitarci a questa,
l'ho sempre comparato a (quello del l, che scarseggia nel Kigvoda (cfr. Lcp:. 23G) o
manca nelle antiche lingue dell' Irania, ma ha pur tanto di concordanze tra Europa
ed Asia in favor sno, che non 1' oseremmo escludere dal sistema fonetico dell'idioma
originale; e insieme l'ho paragonato, come ora vedo che fa anche il Brugmann, al
caso del g o del h del sanscrito , in ciascuno dei quali viene a confondersi più d' i;n
suono di fase anteriore ; nel primo dei quali riscontri (7) , l' irano vero e proprio ap-
pare la favella pivi rimota dalle condizioni europee, laddove l'ai-meno, cosi come
per l'è e l'o, la meno scosta; e nel secondo (rj ecc.) resulta assai offuscata la fase in-
diana in confronto dell' indo-irana e litu-slava.
Del rimanente, le percezioni della 'nuova scuola' rispetto alle vocali tanto sono
indipendenti dalla supposta novità dei principj o del metodo, che per buona parte
esse medesime già eran conseguite dalla scuola 'antica'! Da vent'anni noi soste-
niamo che ita {aj, i, andare) è nelle condizioni di krtd (kav kr, fare); o in alti-i ter-
mini, che la più genuina serie degli esempj, in civi i s' avvicenda con ai, e u con aii,
non offi-egiàun movimento ascendentale, ma bensì un discendentale (cioè di ai
in (■, ecc.), e che il primo (cioè di i in ai, ecc.), il quale pure largamente vige, si de-
termina 0 plasma, in via analogica, sopra il secondo. Senza ingombrar di troppo
ardue ricostruzioni l' insegnamento academico o correre il rischio di scambiar le
ipotesi con le cose dimostrabili, da gran numero d'anni pur s'espone tra noi, con
giusta abondanza d' esempj , e nella sezione meramente fonologica e nella morfolo-
gica, questo doppio movimento, e s'insiste sulla evidenza storica del più importante,
che è il discendentale. E anche per le stampe ne abbiamo incominciato a parlare che
.son più di vent'anni'; né occorre dire che in questo ventennio, riveduta com'era
di continuo, s'è intorno a parecchi punti modificata e ampliata la trattazione di
questo capitolo, rimanendone pur sempre ferma la concezione complessiva. La quale
naturalmente ci_ porta di là dai limiti, entro ai quali or vorrebbero costipata la que-
stione, come se trovasser lecito il rendere discontinua la storia o come se il ridurre
la verità fosse una razionale semplificazione delle tesi dottrinali. La nostra conce-
zione dunque importa, che il movimento discedentale si addimostri etimologica-
mente, poiché in effetto si tratti della serie ava av {àv) u u, aja af («/) * i. Sono,
deva immediatamente (25 marzo 1885): 'Parecchi anni or .sono, il D' Ovidio mi rivolse la stessa domanda ch'Ella
' ora mi fa. E io gli risiiosi, che io credeva fermamente, come sempre credo, essere per es. il latino eqvo- in tiitto
' e per tutto, e perciò anche nella varia determinazione delle sue vocali, più genuino che non il sanscrito at^va-.
' Confesso anche di avere più volte parlato in iscuola di qualche mia ipotesi embrionale, concernente le traccie
' delVo nel sanscrito; eco.' — E poiché accade che qui ci fermiamo, sia pur per contraddirgli, a questo indimenti-
cabile moderatore della nostra disciplina, voglia Ella accettare anche i miei ringraziamenti, come quelli di un
vecchio professore dell'Università italiana, per le affettuose e nobili parole ch'Ella dedicava alla memoria dì
Lui ("Riv. di filol., XIV, 218-23). Anche nel nostro campicello s'è pur troppo avuto lo spettacolo dell'adulazione
che s' alternasse coli' irreverenza, secondo che la lusinga delle clientele o della moda seco portasse. I vecchi sa-
lutano con antico orgoglio ogni nuovo documento che attesti come anche nella giovane Università italiana l'eser-
cizio del sapere non si converta in un'industria professionale, e come sempre vi si tenga che un'oncia di moralità.
Q anche di civiltà, valga più del sapere universo.
' Mem. dell'Ist. Lomb., 6 luglio 1365, § 14 ecc.; cfr. KxThn's Zeitschr. XVII 261 sgg. = St. crit. II 131-39.
— 456 —
se qui vogliamo rapidamente ricordare qualche esempio dimostrativo, sono isomorfi
tra di loro: sscr. dlid-ma-ti e dhd-va-ti egli soffia (per la significazione, vanno in
ispecie confrontati i riflessi slavi); e il secondo esemplare ci porterà a queste altre
figure indiane: perf. dudhdva, intens. davi-dhdva; prtc. dhu-ta dhu-ta; prs. dlm-nmi'ti
dhu-nau-ti; nel quale presente, se vogliamo dare per disteso il substrato etimologico
e prescindere per ora dalla genesi del 'carattere di classe', avremo: dha-va-ì-nu. Pa-
rimenti sono isomorfi: sscr. drd-ma-ti e drd-va-ti, egli corre, onde dudràva e dritta;
ssor. Ja-ìiia-ti e Jduti * ja.~Ya.-ti, egli costringe', \)Ytc. juta; sscr. na-ma-ti, gr. véosi,
lat. -ìiuit (che in figura indiana sarebbe navali), nùtus. Se il ptc. sscr. gru-ta {cru udire)
ha accanto a sé il perf cu-crava o l'astr. cravas, nonne sarà vocal fondamentale Vii,
o r w {eruditi ■id.bd-.), ma partiremo da craua- o anzi da *c[a]ra-va-, dov'è quel car che
normalmente si riduce (checché dica lo zendo) allo cr del pres. qr-naii-ti. Di simil
guisa, non è u od a la vocal fondamentale del sscr. c«-?i« rigonfio (cfr. gr. xuso)), ned
e un i nel fondamento di -Qvajant rigonfiantesi, ma si parte da gava- (cfr. l'astr. cavas),
che dall' un canto dà cu-na, come dJiava- diede dhu-ta, e dall'altro dà, per ulteriore
combinazione, q[a\va-ja, così come car diede c[a\ra-va. E l'i od l dei sscr. ksi-nau-ti egli
distrugge, maltratta, ksl-ja-tai egli è distrutto ecc., resulterà ugualmente base illuso-
ria dell' ai (nj) di uno kìajati o del ptc. caus. ksajita ; e il vero sarà che "ksa-Ja-ti sia
un isomorfo ài *ksa-na-ti {ksan offendere, ferire). Si potrebbe, com' Ella sa, indefini-
tamente continuare; ma per ora basti soggiungere, che siccome pur va (del pari
che av) si riduce ad u u, e cosi ja (del pari che qj) ad ~t i, ne viene che in realtà
sieno a uno stesso livello fonetico ed etimologico i quattro esemplari tipici uktd {vac),
istd (jag); drutd (drav), krfd (kar). Ma se poi accade, che I'm proveniente da va, o
Vi jproveniente da.ja, s'alternino con au ed ai, avremo allora un vero movimento
ascendentale; e così in angha (vah-, uh-), in haimanta yt'.'^'J. (allato a "^ìijama Mina;
cfr. St. crit., II 131 237; Lez.'178), o uell' inf. vaiddìmm trafiggere, da vidh-vjadh.
Medesimamente sarà ascendentale il movimento in tid taidajati toUit, o in sidh siiai-
dha nactus est, qual pur sia il preciso modo di raddurre tid al più organico "'tal o
sidh a sddh (cfr. Mem. Ist. Lomb. , 1. e, § 22). E pur qui si potrebbe indefinitamente
continuare ".
' Cho poi si rivedeva in jau-ga jug, ib'. § 16; ofr. jau-dlia judh, ib. § 21.
' Le percezioni, che in x)arte qui si ricordano, er.ino conseguite mercè un'indagine che s'aggirava intorno
al solo organismo ariano e son di continuo cimentate e allargate per la illustrazione speciale di codesto orga-
nismo. È vero tnttavolta, eh' esse trovarono applicazione anche in certe indagini, le quali vanno di là dal mio in-
segnamento academico e dai conilni dell'arianesimo. Di che non mi pento, e anzi è tutt' altro. Ma una partico-
lare soddisfazione mi viene, il confesso, da un consentimento curiosissimo, di cui 'por vìa tacita' mi rallegra, in
ordine agli ardimenti ' ariosemitiei ' un valoroso 'Neogrammatico', il Moei.lf.i: (in Paul's Beitr. ■/.. gesch. d. deutsch.
spr., Vn 492): 'Die nrspriingliche gestalt dor indogermanischen wurzel, d. li. natiirlich des indogermanischen wor-
' tes, genauer nomens, war die: dio wurzel war zwoisilbig mit innerem vooal a und auslaiitendem vocal a, nach
' den consonanten bilittei'al wie B'aRa triiger [dio aspiraten gelten als einfaehe consonanten, ebenso im anlant
' » -t- cons.; im semitiscben kann moglieherwoise ein in historischer zeit unerhortes alteres anlantendes si' .5« sp zu
' k t x> geworden sein;, oder trilitteral.... wie IhiUCa blicliend, VaWa sehond, DalVa ind DIaVa gliinzend, hinimd.
' DaMAa biindigend (diese trilitteralon waron noch friilicr drcisilbig, drci a enthaltend, garacn, rryada, dajani ). '
Cfr. p. e. St. crit., II 54 sgg.
— 457 —
Le considerazioni fonologiche già ci lianno cosi portato alla morfologia, e a que-
sta restiamo , toccando primamente del lavoro del Brugmanu , con cui s' apriva la
serie dello Morpliologische witersudumgen, concernente la costituzione dei verbi del tipo
che sanscritamente è miià prò, psà, e d' altri con la stessa uscita vocale, che per lui in
tutti codesti tipi è un suffisso a (inna, p. e., sarebbe mii da man,-j-a). Ora io vorrei
chiedere, qual novità qui s'abbia nel modo d'indagare o di provare; e credo per
certo, che l'egregio autore mi dovrebbe rispondere, non ce n'essere veruna. Ma s'ha
qui almeno una resultanza apodittica, o pure una di quelle dimostrazioni, che se
addirittura non persuadono, pajan tali tuttavolta, da non si poter facilmente impu-
gnare? Davvero, nemmeno questo, sebbene ognuno debba ammettere, che il lavoro
del Brugmann ha tutti i pregi e le attrattive di una bella esposizione metodica, e
resta perciò sempre utile, quando pur non convinca. Tra gli 'adepti' stessi, non è
punto ferma la fede in cotesto 'd di Brugmann' '; e io confesserò, che le mie nuove
fatiche intorno al problema che qui si tocca e va tra' più ardui, non mi dissuasero
ancora dall' antica credenza, secondo la quale d' altro non si tratta (per il tipo
mnà prci o psci, il solo, a ben vedere, onde sia questione) se non di antichi temi
sul tipo mana, che si contraggano, per ragioni accentuali, in miia pra ecc. (cfr.
"cava-ca in crava e simili, nelle basi di cui testé si ragionava; o il sscr. -ghia alla
fine dei composti, zendo (jìiua -glina, allato al verbo sscr. haìi=gììan), i quali mono-
sillabi in -a resultando alieni dal sistema generale dei temi verbali indoeuropei,
son proceduti alla nuova suffissione di un -a tematico, e cosi, pur formando una
categoria di temi legittimamente specifica, come per la particolare fermezza del-
l'« (-è ecc.) è sempre manifesto, son tuttavolta potuti ricadere in grembo all'ana-
logia estrinseca di ihd bhd-ti splende, pd pd-ti custodisce, va vati soffia (cioè origi-
nalmente bha-a ecc.) '. Ma naturalmente ci vuole altro posto per così ardue e scabre
discussioni.
Un altro studio morfologico, inserito dal Brugmann nello stesso volume (p. 187
sgg.), tendeva a provare che il passivo indo-irauo sia un denominativo del 'partici-
pium uecessitatis' in -Ja, e così, p. e., drgjdtal, è veduto, consti di dvi^a videndus,
visibilis , più r esponente personale. Qui può parere presunta o presumibile una certa
novità, per ciò che si rinunzii, in tesi generale, a cercar la significazione intrinseca
dei fattori morfologici, e si rinunzii, nella tesi speciale, a veder nel fattore del pas-
sivo un verbo che dica 'andare'. Senonchè, pur lo Schleicher non vedeva più un
verbo nel derivatore del passivo indoirano (né il Brugmann ciò dimentica), e di qua
dall'Alpi son più di vent' anni che s' oppugna largamente la tendenza a cercar nei
substrati morfologici la somma etimologica della significazione delle forme, soste-
nendosi all'incontro che il pensiero sia variamente condotto ad immettere in tali
substrati quel che la materia punto non darebbe. Ma per restare al passivo indoirano,
si domanda ancora, dopo aver negata la novità nell'ordine teorico, se qui v'abbia
' Cfr. HilBSCHMANN, ludog.vocals., 181 s<jg-.clie mi rispaimia di citare i luoghi del De Saussure e delI'Osthoff;
ma di quest'ultimo autore giova aggiungere; Perf. 622-23.
" Sia, per maggior chiarezza, segnato rapidamente un esempio: bbasa bd-psa-ti i)sa-a-ti.
— 458 —
almeno una vera scoverfca, qual pvir sia la ragione fondamentale da cui l'indagine
era promossa e diretta. E la risposta dovrà qui pure tornar negativa. È uno studio,
pur questo, ben nitido e cauto, anzi meticolo.so; e vi si riagita il dubbio singolare,
se le desinenze, che primamente spettarono al passivo iudoirano, fossero le attive o
le mediali. Ma come mai avviene, che il Brugmann non si fermi al fatto, che il J«
del passivo indoirano si limita al tema del presente, o anzi appena avverta (p. 205)
questo fatto decisivo':' Un perfetto passivo o un aoristo passivo dell' indoirano, privo
com'è del ja, non sarebbe mai realmente esistito, se non avesse avuto le desinenze
mediali. E la verità dovrà intanto per me assai naturalmente restare quella che da
più di vent' anni, da buon 'analogista', io vado insegnando, ed è: che la significa-
zione passiva era in origine portata dalle sole desinenze mediali, come sempre è nel
greco per l'intiera conjugazione e sempre per l' indoirano all' infuori delle formo pre-
senziali; che neir indoirano s'è analogicamente stabilita, in ordine al passivo, un'al-
ternazione categorica, tra il tema presenziale e quello delle altre parti della conju-
gazione, alternazione foggiatasi sopra quella dei verbi di quarta classe, perchè in
qiiesta emergevano dei verbi intransitivi, cioè di ragion rimota dall' attivo ; e che
r accentuazione del passivo (clrcjdtai) sia propriamente l'accentuazione originale della
quarta classe, la quale, se ora è rizotonica {òndh-ja-tai; ma sempre restano: mri-jd-Ud
dhri-Jd-iai), non deve cosi essere stata nelle origini, repugnando a quest'accentua-
zione lo stato della radice, ma deve avere assunto la sua attuale accentuazione per
il doppio stimolo dell' analogia prevalentissima della prima classe e della naturai ri-
pugnanza a mantener l'identità di forme non passive con le passive, agevolandosi
anche il trapasso dell'accento per virtù di coppie sinonime, come trdsati trd-yatij
bhrdmati hhràmjati '.
' Qui naturalmente si accenna con tutta brevità, e non si fauno vere esposizioni, né occorre farle. Superfluo
cosi soggiungere, che io non trascuro , p. e, il § 77 del lavoro di Benfey sul r. E solo per la storia della dottrina
a cui sempre m' attengo, e non già per contrapporre vecchi sbozzi a quanto ji. e. si trova nei limpidi e ricclii pa-
ragrafi della grammatica di Wuitney (759 a 775), mi farò lecito ripetere le righe in cui io presentava questa genesi
del passivo indoirano sin dalla ìlcmoria del 1865 (§ 20); dove è d'uopo ricordare, per l'inti-lligenza della terminolo-
gia, che in quel lavoro io tra l' altro attendeva a mostrare, come a fondamento dei ' tempi generali ' pur s' avesse
nelle origini un tema verbale del tipo baudlia- o tiuìa- (tipo di 'prima-sesta '); e che nn tipo corno d-jd-ti, egli
taglia, portava in qirello studio il nome di 'formazione primaria', quando all'incontro uno come as-Ja-ii (e cosi i
congeneri dello altre 'classi' sanscrite) vi portava il nome di * formazione secondaria'. Ora dr^nque la citazione:
•■ La storia che facemmo delj« di quarta, già disse al lettore che noi non vediamo in questo 'carattere' alcuna
,» originaria efficacia passiva. La quarta classe lo ha bensì comune col passivo, e non dimentichiamo come tra i
» verbi, che si attribuiscono alla quarta, abondino i neutri. Ma, all'evidenza della storia da noi descritta, vengono
>■ ad aggiungersi i fatti ohe seguono: 1" nei 'tempi generali' questo carattere manca, si alla 'quarta' e si al pas-
" sivo, e la significazione non se ne risente; — 2" nel greco s'ignora questo Ja di passivo, né potrà sostenersi che
» altrove si rivegga nell'Europa; — 3» un gran numero di transitivi eoi Ja (tra i 'primarj' in ispecic) viene a con-
.> testargli ogni valor passivo {ch-Ja-ii sciudit ; dha-Ja-ti bibit; slv-ja-fi suit....). — Conviene quindi concliiudore: che
'^ nel ijassivo sanscrito-zendico, cosi come nel greco, la signìficaztono passiva (o veramente riflessiva) stìasi unica-
f mente nelle desinenze personali; — che se il sanscrito ci offre nel suo passivo, con una uniformità che gli parve
- ntile o che il greco ci mostra non necessaria, un tipo di 'prima-sesta' nei 'generali' (tu-tuda-i), allato a quello
■ di 'quarta' cui riduce tutti i verbi negli 'speciali ' (tudja-i, badìija-i, ecc.), egli segue in questa innovazione l'.ina-
. logia di tutto lo 'formazioni secondarie'; —che la scelta del tipo tudja deve essere stata determinata dalla
<■ anteriore presenza di parecchi neutri, foggiati sullo stesso; — e che più tardi il Ja venne naturalmente a accompa-
> gnarsi a verbi neutri, e anche ringoi ad impartire la significazione neutrale. » — Qui poi facilmente si annode-
rebbero delle osservazioni abbastanza curiose, concernenti la storia dei 'portatori' del significato nello forme
— 45!) —
E per toccavo pur delle altre categorie di resultauze morfologiche, la serie delle
percezioni, nella quale entra la dichiarazione 'oi'raai antica del -n- che s' insinna in
genitivi plurali indoiraui come gatdnum ecc., hcn potrà essere indefinitamente pro-
lungata; ma non sarà di certo per virtù di alcun assioma, o nuovo o rinnovato. Lo
stesso dovrà manifestamente ognuno ripetere per l'accrescersi della serie dei temi
digradativi {-vas -us; ecc.). Nessuna rivelazione di teorie nuove è a noi parso impor-
tare la dichiarazione 'analogistica' dell'esponente greco -Tato, quando pur c'era ben
chiaro tutto qiianto seco portasse, anche nell'ordine generale delle cose, una dimo-
strazione di quella specie in una lingua com' è la greca e in un sistema quale è
quello della comparazione, dove son tutti limpidamente primitivi e -kdv e -lozo-- e
-rspo-c'. Che se finalmente vogliamo ancora dar cenno delle indagini 'glottogoniche',
le quali del resto già rasentammo nel cimentar le dottrine intorno al movimento
delle vocali, è chiaro che il volerle più o meno sobrie non è cosa che dipenda da
alcun principio 0 vecchio o nuovo, com'è chiaro, che nell'insegnamento academico
non se ne debbano istituire se non con grande parsimonia e solo in ordine a quegli
addentellati da cui penda manifestamente la intelligenza di fenomeni che son vitali
nel linguaggio come s'agita nella realtà della storia. Chiaro è del resto ancora, che
s'offende in varj modi il vero e il giusto, quando si trascurino o s'offuschino le di-
stinzioni, naturali e legittime, tra questa parte della disciplina, in sé e nelle possi-
bili sue esplicazioni o resultanze, e le altre x^arti e i progressi loro. Poiché, a cagion
d'esempio, ognun vede o dovrebbe vedere, che se intoxmo alla genesi delle due forme
che nel sanscrito suonano mahjam (mihi) e bharanti (ferunt) si può aver divagato o
mal ragionato e a ogni modo sussistano dei dubbj o screzj ben legittimi, la storia
all'incontro delle figure grandemente numerose e varie, che nel tempo e nello spa-
zio rispondono alla sostanza di quelle due forme, s'è rifatta e accertata per guisa da
entrar degnamente nel novero delle cose scientificamente acquisite; le quali cose,
sempre limitandosi il nostro discorso alla sola storia della parola ariana, si contano
ormai, è bene ripeterlo, e si contano da un pezzo, proprio a milioni, e formano la
suppellettile stupenda di una dottrina per molte gtiise mirabilmente efficace. Del ri-
manente, nessun vorrà negare, che in fatto di ricostruzioni, specie delle desinenze
personali, lo Schleicher e alcuni suoi seguaci procedessero davvero con singolare
grammaticali. Se cosi noi sosteniamo, clie nel^Vt indoirano non risedesse il valore passivo, ma bensi nelle desi
nonze mediali, avviene più tardi, che il pali o il pracrito riducondosi alle sole desinenze attive, ottengano il pas
sivo per il solo Jn, cioè per un elemento non passivo, e anzi, più e più volte , solo per l' effetto di mi Ja che è tra
montato , come p. e. in lahhhati labliài (St. crit., Il 330), dove è bbh = blij (sscr. lubhjatal). Data ima serie prevalente
con simili ositi della base antica, si potea venire, in iin idioma ariano, alla normale espressione del passivo per
mera gemin.azione di un 'suono radicale ',. e insomma a una flessione di ' maniera semitica', con questo di sopras
sello, che la causa della geminazione punto non importasse, nelle origini, alla esjiressione del passivo!
' So grado al Bruomann di aver cosi strenuamente difesa la mia dichiarazione, ìlorph. unicrs.. Ili 68 sg,
cfr. II2-19. Cosi a me, dopo quello che già accennai, per la parte celtica, in nota a p. 70 della Lelt. tjlott. del 1881
non resta da dire pressoché nulla contro 1' articolo di Bezzenbf.roer, e spero ormai sciolta ogni dubbiezza anche
per U-. Meter (Grieoh. gr., § 891). Mi permetterò piuttosto di avvertire , che la dichiarazione è ancora assai più
vecchia della scrittura in cui pubblicamente si mostrava (1876), poiché io ne parlava a Johannes ScHMmT (che
annuiva sùbito).... durante la sua luna di miele! Del resto, che ormai si abusi, in ordine tvl greco, delle spiegazioni
•morfosiucratiche', non mi par dubbio. Cosi G. Meiee avendo con molta cautela messa innanzi l'ipotesi che nel
— 460 —
dogmatismo. Ma è egli forse cosa niiova clie si discuta in questa parte o si rineglii
il Maestro? In iin sagginolo del 1864, noi qui a Milano volevamo, come vorremmo
ancora, riconosciuto un avverbio (aderente a un vocativo), anzicliè il pronome di se-
conda, nello -(//;/ -x)-'. d'imperativo indoirano e greco; e in uno del 1865 mettemmo
fuori l'ipotesi, die la terza del plurale altro non sia che un participio, ipotesi che
sempre vive ancora di buona vita .
4. Arrivato a questo punto il ragionamento che io aveva la soddisfazione di
tenere con Lei, m' accadeva di avvertire come fosse una parte molto incresciosa
questa del doversi fermare, quasi in ostilità negativa, contro la presunzione dei
rinnovamenti teorici che la nuova ' scuola ' abbia portato, quando pur sarebbe tanto
gradevole e proficuo 1' accompagnarne i maestri nelle buone resultanze o nelle inge-
gnose proposte che praticamente son da loro ammannite. Ma insieme accadeva, che
dovessimo avvertire \\ìi che di tumultuario o precipitoso pur nelle resultanze più o
meno mature o nelle loro applicazioni; onde viene, in più incontri, un vero sgo-
mento. Di certo si può dire, che sia un vizio generale e inevitabile questo di cui
ora tocchiamo, non punto circoscritto alla nostra disciplina, e derivante dalla lena
affannosa, dalle vertigini di una gara affollata ed aspi'a, con che oggi si procede
nelle esplorazioni d' ogni maniera. Tutta volta, 1' ' est modus in rebus ' non dovi'ebbe
poi andare addirittura sbandito; e le obiezioni, mossemi contro dall' Osthoff ', a pro-
posito del mio articoletto che s' intitolava dall'irlandese cétbaith, ci offriva fin' oc-
casione abbastanza buoira e abbastanza singolare per esaminar davviciuo questo
fare vorticoso, che talvolta ' ci spaura'.
Ecco brevemente l'antefatto. Della gran famiglia lessicale, cui appartengono il
sscr. (jnmati, il lai venit ecc., non s' era veduto nel celtico alcun riflesso o pressoché
nessuno. Nella quinta edizione dei ' Grundziige ' del Curtius (1879) , il "Windisch
non ha verun termine celtico da mandare con ^aivc» , mostrando egli cosi di non ac-
cettare in quella compagnia nemmeno un irl. héim, passo, che lo Stokes da qualche
anno gli veniva suggerendo. In una rapidissima nota, che stava a pie di pagina ed
ebbe poi la sorte di passar di punto in bianco alla condizione di un distinto artico-
letto % io usciva, alcuni anni dopo, a mostrar che [Baivio ecc. avevan larga parentela
pur nell'antico irlandese, dove però il verbo corrispondente era come assorbito dal-
l'ausiliare, e cosi si veniva a contessere, come in unica conjugazione, coi continua-
tori di bhava e di giva. Codesta corrispondenza celtica io riconosceva, a cagion
Tiv (li jvi-% Tcv--); ecc. s'abbia come fossilizzato nn antico accusativo *riv (Griecb. gramm. § 437). P Osthoff ne fa
poi gran caso (Morph. untei-s., IV ■23.5 sgg.), dimenticando ttttt' e due lo zendo cincm ecc. (ofr. p. es. Lez. di fon.
§ 21; e .anche Dutens, Essai sur l'origine des exposants casnels en sanscrit; Parigi 1S83, p. 90).
' Rendiconti dell' Ist. Lomb., 16 dicembre 186i (=Beitr. di Knlin e Scbleiolier, voi. V); Meni, cit., 5 22. Vedi
ora DE Saussure, Syst. primit. des voyelles, p. 190-91, Tuurneysen in Kuhu's Zoitschr., XXVU 180. Il Thurneysen oei'ca
inoltre, ib. 176, il pron. rifl. sva nella desinenza di 2" sng. imperat. med., e pure a ciò era pensato in quel mio sag-
ginolo del 64.
- Dasjod.pmesens von inilon. g'em, in Zur aeschiclde desper/ccts, Strassburg 1S8J. p. 505 sgg.
' Xote irlandesi, Milano 1883 (I. cétbaith, p. 3-14).
— 4(31 —
d'esempio, in dufórhan evBniat, allato alle voci correlative di perfetto, come daror-
lai iu'-ruthórbasa, o al passivo diiforlnithe veniretur; e cosi in cnt-chét-hanam consen-
timus, allato al sostantivo cJt-baith opinione (convenienza intellettuale ecc.).
L'accoglienza, che questa piccola ma curiosa scoperta ha lùscosso tra i celto-
logi, è stata molto biiona. Mi asterrò dal citar lettere, non destinate alla stampa.
Ma lo Zimmer (Kuhn' s "Zeitschrift, XXVII, pp. 469, 474) ha aderito senza ri-
serve. E lo Stokes andava molto più in là. Non solamente or si vedono, con mia
grandissima soddisfazione, nel suo 'Old-Irish Verb Substantive' ', cétbaith e cofchét-
òanam ecc., così collocati come le ' Note Irlandesi ' volevano, e cosi ancora tal quale
téssha'dh e cohaith e cuiòdins; ma si aggiunge, che forme come duforhaithe di passivo
(veniretur) o darorbai di perfetto attivo, e simili, vi si schierino con forme di pre-
sente e perfetto, allo stato semplice, nelle quali il radicale ba appaja senz' altro in
funzione ausiliare, come ha -b sit, o ba fui, e molto numerose altre.
Non moverò qui all'insigne celtologo qualche rispettosa osservazione, che m'è
suggerita dall' estensione che egli viene a dare alla prosapia irlandese di ba (= ori-
ginario avA-). Piuttosto aggiungerò qualche altro documento, a conferma di ciò che
s'è incominciato a vedere nelle 'Note Irlandesi'. Per la 'solidità relativa' dell'ai
di cétbaith, sia così mostrato il genitivo cetbada {aithirech cìidtbada MI. 98''5; ni aith-
recli cMtbada 98''2'') e insieme il derivato nepli-ceibatai 'privi di senso', ib. 130H,
che ben si combina col comchétbatti, gì. consentanea, di B. Carls. 34''6. Poi sia citato
il gruppo, sfuggito allo Stokes, e per noi, com' io credo, eloquentissimo, in cui il
prefisso è con la solita vicenda /rjss o frith. Vi abbiamo : /cesiejisoTO gì. medetur MI.
125' 4 {cfv. frismbia gì. cui mederi 1912, frisbia gì. medebitur 96''15); frepaid acc.
sng. remedium 123'3, dofrebaid gì. remedio 58''4, freptlii nom. pi. 123°4 (cfr. nepli-
repthae, cioè neph-frep-, gì. inmedicabile SS'^IT, nephreptaiiaigthe gì. inmedicabilem
76*17, arrufreptanaigthiisiur gì. medicatus sum 103'^6 '); dove affermerei, per il si-
gnificato, un 'obviam ire' = 'remediare' '.
Ora vediamo di ordinare, come si possa meglio, le obiezioni dell' Osthoff, e ve-
diamo come si possano rapidamente rintuzzare.
I. Ripugna, per incominciare 'ab imis fundamentis ', ripugna al nostro contrad-
dittore, che si presuma un nucleo g'a a fondamento comune di verbi come g"a-a
g'a-ma g'a-na (ire), poiché egli abbia già incominciato a dimostrare, e abbia il pro-
posito di compiutamente dimostrare in séguito, che tutto si spieghi dall' ixnica l'a-
dice g'ani (g'em). Veramente, come si vede meglio ai numeri II e IV, l'obiezione che
consiste nel negare 1' esistenza della 'radice' g'd (cioè gd del lessico sanscrito e dello
zendo) non ferisce in modo assai diretto le ragioni che noi sosteniamo; ma non è
tuttavolta superfluo lo spenderci intoi'no alcune parole. L' opinione dell' Osthoff è ,
' Kuhn's Zeitschr., XXVIII (1885), 55 sgg.
' Alle iiltirae due forme, sì ritorna in nota al num. IV.
' Non dimentico PrcTET in Kulin's Zeitsolir. V 4S, che a oa;ni modo rappresenta qui pnre, senza alcuna sua
oljia, una fase di studj ormai bene rimota. Il gen./i'ej)W(ft ap. WiNDisCB s. frepad, ci ricondurrà ancora a -pnid.
ìoè a tema in -/.
— 4G2 -
clie il sscr. gà altro non sia se non nno 'stato' di gam, in quanto la 'nasalis sonans",
a cui si riduceva Vani, fosse lunga, e perciò si l'isolvesse in «, cosi come si risol-
veva, quando era breve, in <ì. Se, per esempio, gaUi, andato, contiene un gm con m
breve, ìngàtù, movimento, spazio ecc., si conterrebbe all'incontro un^»i con »i lungo'.
Io, per verità, non mi sono ancora saputo coonestar fisiologicamente questa genesi
dell'» di gà ecc.; e la flessione del sscr. gà e i suoi paralleli lituani, cui ora aggiun-
geremmo i celtici, si oppongono, nell'ordine storico, a codesta dicliiarazione (cfr.
PoTT II-2, 16; HiiBSCHMANN vok. 50-51 94 137). Ma i 'vecchi', d'altronde, non si
son mai peritati a riconoscere 1' alternazione sanscrita di a con an {am) , com' è per
esempio in khajatai, passivo di khan, dove la lunghezza dell' a io per ora confesso di
ripeterla non da altro clie dall' analogia del tipo tràjatai. Ned è nuovo in gramma-
tica indiana , che p. e. gàtra , membro , si ripeta da gam (cfr. Benfey, vollst. gr. § 409).
A ogni modo però, se pur verrà tempo, — di che io dubito assai, — in cui il les-
sico indiano debba espugnerò il verbo gà, ciò punto non vorrà dire che la base ga
{g"a) cessi di stare a fondamento di più d' un verbo per 'andare'. Se, a cagion d'esem-
pio, così non esiste un tra 'tremare', ciò punto non toglie che tra sia la base co-
mune di tra-sa-ti sanscrito e tre-mi-t latino. E se dovesse andare espunto dal lessico
indiano, come può parere più o meno improbabile, il verbo Ica ' amare', non punto
inferito dal solo pai'ticipio kàjamdna, ciò non escluderebbe di certo che sia ka la
base comune di due verbi per 'desiderare, amare', uno dei qi;ali {kam) ci darà il
participio cakamand, e l'altro {kan) una voce d'imperfetto intensivo come ècàkunas.
Si fa presto a dire 'antiquata' questa o quella percezione; ma non si elimina alcuna
verità o difficoltà, per ciò solo che si chiudano gli occhi al suo cospetto.
II. Ma [iatvto e venio non permettono a ogni modo, secondo 1' Osthoff , che si
stabilisca uno g'ana, poiché veramente il verbo greco e il latino presentino il fe-
nomeno di nj da mj, e cos'i sempre ci mantengano a quel g"am che è nel «y'am indiano
0 nel gotico qam qiman. Avremmo cioè il tipo ^g"am-ja ridotto a gven-je ecc.
Il modo, col quale il nostro contradclittore annunzia e compie la dichiarazione
fisiologica di questo avvenimento , non può non causare una meraviglia grandissima
tra i veterani di questa maniera di studj. Poiché, insomma, altro a lui non toccava
significare se non questo, che anche il greco -e il latino abbiano ormai a entrare in
' Sia qui lecito annotare, che 1' affermazione dei quattro 'stati' Ji una radice, nou lia iu sé nulla di nuovo.
Cosi, per accennare a una raccolta ben larga e sistematica, il Corssen poneva, tra ^V iniiniti esempj, questo clic
segue:, /!« Jlu flou flou (vok. I' 365); tali e quali, cioè, i quattro 'stati' come ora i "Noogrammatici' porrebbero, ma
con la differenza teorica, già. di sopra toccata, che il Corssen sempre credesse al solo movimento ascendent.ale
(//ew ecc., day;»). K poi, come tutti sanno, tutt' altro che nuova l'affermazione, che le forme vocaliche tanto sieno
più ampie quanto più le rilevi o le rilevasse 1' accento; né alcuno ha mai potuto credere che non fosse atona la
vocale che si dileguava (j)(, p. es., fi&,])at)\ E circa allo schematizzare le diverso figure, per guisa che ?7j?, a cagion
d'esempio, s'abbia a dire di ' nebentonige tiefstufo' e Vip di 'unbetonte tiefstufe', ella 6 una novità, scio non isba-
glio , la quale , portata a sincere parole , direbbe questo : « fij) è più voluminoso di tip ; e la ragione della diversità,
" siccome per comune cons jnso ogni cosa deve pni-e avere una ragione, sarà qui anco; a nell' acconto o nella di-
>> pendenza accentuale, benché ciò, in realtà, più non appaja. > Ora, nulla potrebbe esser più alieno dal mio pen-
siero che il negare un'utilità molteplice alle statistiche più accurato e meglio r.agionate di quelle che il Corssen
o'imb.andiva. Ma quale effetto pur non devono produrre, in ogni pensatore spassionato, il vanto o il plauso della
' scoverta dei quattro stati e delle loro leggi'!
— 4G3 —
quel gran capitolo, nel quale sfilano, da un q\;arto di secolo, le fitte serie di cui
sono l'appresentanti notissimi, pei' limitarci al neolatino, l' istrorumeno mneh(,ma,ce-
dorum. mia, dacorum. mici = amneUu agnellus, il macedorum. dumi dormire, il na-
polet. sina simia; ecc. ecc.' Ora, egli è gran tempo che pur si parla, e anche a sa-
zietà, delle congruenze tra gli esiti clie i nessi della formola cons.+j presentan negli
itliomi neolatini e quelli che il greco ne mostra sin da antichi tempi (v. per es. Lez.
(li fon., p. 143); di guisa che punto non ripugna, 'a priori', l'ammetter nj da mj
\mv tra i Greci antichi; e [3aivw = *iemJo così il porremmo tutti facilmente allato a
qualche altro esempio che per questa riduzione si cita dal greco ", se appunto il
lat. venia non ce ne distogliesse. Poiché, senza qui insistere sulla diversità generale
che è tra greco e latino circa gli effetti del 7, dov' è mai un principio di dimostra-
zione per cui si legittimi nj latino da «y? L'Osthoff punto non ci dice come sia che
gli vada bene questo venio = ^'oemjo , quando pure abbiamo intatto il mi innanzi a
vocale in lamiae gremium cremici vindemia nimius ojjtimius Septimiìis simia ed altri.
Forse pensava che 1' -io di derivazione verbale avesse 1' / consonante e cosi non fosse
dell' -io di derivaziou nominale? Ma può egli mostrarci una differenza, nell'ordine
della 'siuizesi', tra il tipo cupio e il ii'^o imncipium'ì 0 darci una prova neolatina
della minor forza che avesse l' i per esempio di coriiun ciconia verecundia (cuojo cicoria
vergofut), in confronto di quello di morior fe«io=teneo o venio (ìnuojo teho -yeiJo)? E
àidormio che fa egli? Crede che il nesso rm impedisse la riduzione? Non dico nulla'';
e trascorre, che mi par peggio, a confortarsi con due casi latini, analoghi, secondo
il suo parere, a venio da vemjo, i quali sono quoniam da '"quom-iam e con-j da com-j in
con-jicio e simili. Ma che mai valgono questi esempj per 1' assunto suo? Son tali,
che ognuno di leggieri li ammette, perchè si tratti di composti latini, e perciò,
senza dire della condizion particolare del m, finale com' egli era del primo membro,
vi si contenga veramente un j iniziale. Nessuno ignora , come resulti diversa l' ener-
gia del j latino , secondo che egli sia iniziale (e interno tra vocali : majus ecc.) , o in-
terno dopo consonante in voce scempia. Può bensì avvenire, per determinati acci-
denti, che i due diversi j coincidano 0 pajan coincidere nelle continuazioni neolatine
(cfi'. p. e., nel veneziano, averzo aperio, allato a z'o^/o jocus); ma la differenza normale
è sempre quella che si manifesta nell' italiano, tra giuoco e simili, da una parte, e
scimmia 0 cicogna ecc. dall' altra.
Se così resulta che sia un'ipotesi infondata quella di venio da vemjo ', è poi del
' V. p. es. St. crii. I (1861) 5S-9 60 71 77. Arcli. glott. I num. 104; ma in ispecie: MrKLOsiCH, Bumun. lauti., M, II.
G, IV, Rumun. unters., I-ii, 6.
= Deve parere strano, del resto, che l'Ostlioff non si fermi a domandarsi oa spiegare al lettore, perchè
s'abbia noivós = ^ofjjos, ma all'incontro rimangano intatti'Jfiuio; eoe. La ragione pur di questa differenza vorrà
stare nell'accento, xiivó; contrapponendosi, per 1' ossitonia, alla solita accentuazione degli aggettivi in -; ; ofr. .St.
crit., II 383.
' Il m della formola mj-f- voc. esce incolume dal periodo latino, e tanto ù valido pur nelle età neolatine,
die .MJ vi produco mbj; cfr. Diez nel less.s. grembo. Anche la risoluzione francese, che è in ve ndancf e ecc., proviene da
un substrato col mbJ (vindembla ecc.); altrimenti saremmo a venrlnfiiie, cfr. virine.
' Valersi di Kuhx, Zeitschr. XI 31.5, è proprio un voler fare d' ogni erba fascio. — | Mentre si stampano queste
righe, mi è riparlato del tentativo di suffragar l' ipotesi venio = *eemJo mercè il jiaragone del lat. litniiire colle voci
— 464 —
tutto arbitrario l'aiFermare, come fa 1' Ostlioff, clie anche l'osco e l'umbro subissero
in questo medesimo verbo la riduzione di mj ili ni, benché l' i più non si vegga nel
loro ben-, e cosi l'infinito, osco od umbro, come esempio di voce presenziale, s'abbia
a porre '"beniuni. La verità vera è all' incontro, che « le verbe venio, en osque et en
» ombrien, a la forme òe}io », secondo che dice il Bréal, il quale insieme ricorda che
il latino ha i soggiuntivi convenat advenat e il sostantivo advena '. In queste voci la-
tine, così come nel perfetto veni, o nell'umbro hencs verrai (cfr. herìes vorrai), uel-
1' osco cebmist convenerint, ecc., 1' Osthoff vede la 'diffusione analogica' del n che V-io
del tema di presente aveva promosso, acquietandosi col paragone del greco y.a'.vco
^ "y.a]jjoj che dà xavcò l'xavov •nézova. Ma xaivco, ammesso pure eh' egU sia da "viy'ijw,
obbediva alle stringenti analogie di ^aivco ^avw è^àv/jv, [laivo^J-ac [iavo5[j.c.i è[j.avTjv,
ZTEivoi y.ivAo sxTavov; e come può mai reggersi il paragone di questo fatto con quello
di un veni per *vemi ecc. ? Il latino anzi si compiace dei contrasti che la evoluzione
fonetica produce tra presente e perfetto; e così pono (posuo), che anzi èva jmnio nel
linguaggio popolare (rum. ^mt«, ecc.), ha il perf. jsosut, e sevo ha sevi, ecc.; e se venio
doveva esorbitare, 1' attrazion più naturale sarebbe d' altronde pur stata quella di
jjunio. Sottriamoci dunque a tutti questi artifizj, e riconosciamo genuina la nasale
di ven-io (e di patvcu) e di ben- dell' osco e dell' umbro , cui appunto s' aggiunge il ben-
deir irlandese. Pure all' Asia è anzi probabile che s' abbia a rivendicare (/"ana allato
a gama; poiché la 'regola', secondo la quale il -m del verbo sscr. gam si ridurrebbe
a n in dgamna gdnvahi ecc., è veramente una regola che par fatta per questa sola serie
di forme; cfr. "Whitney gr. § 212 ". Il sanscrito ha i due verbi sinonimi )-rt?u- e raii-,
per 'adagiarsi, dilettarsi', entrambi esemplati pur nello'zendo; il primo dei quali,
giusta il Brugmann, generali secondo, per via di un ipotetico * rdm-ti ed altre
forme di congiuntura consimile, onde si veniva necessariamente a ^rdn-ti, che poi,
sull' analogia dei temi verbali in -«, diventava rdiìcifi (sscr. rancdi); e similmente
'''gdrn-ti, che diede il sscr. gdn-ti, a\Tebbe potuto, secondo lo stesso Brugmann, finire
in \in gemati^. Orbene, per tali vie si ottengono di certo molte cose; ma anche si
ottiene la congruenza dell'italico ben- col ben- irlandese!
III. C'è ancora dell'altro. Data, si dice, una formazione irlandese, che davvero
fosse la legittima sorella di gvem-io, o poniamo anche di g ven-io, essa dovrebbe so-
lìtuslave ohe rivengono a lem- (cfr. Pott, Wurzeiw., uum. 665, MiKLOsicrr, Efym. worterb. ci. si. spraclicn, 1SS6,
s. lem). Ma Uiniaì'C essendo un verbo denominativo, qui più clie mai fa opposizione la serie nominale col 7;w'4-voc.
intatto. Un *lamiuM non .si riduceva a laiìium; o avrebbe dato *himi<irc, come vindemia vùxUmìare. Senza poi dir
della differenza della vocale, e anche del significato, che è 'frangere, spezzare rumorosamente', nelle voci litu-
slave, e 'straziare' nelle latine.]
' Mém. de la Soc. de Linguist., IV (ISSI) 390; cfr. de Saussc-ue ib.. Ili iiliO u.
' Il Biihler, secondo che vedo riferito da Stokos (Colt. Verb Substaut., ed. ingl., p. 1 n.), appimto porrebbe le
due forme radicali sanscrite: gain e gan. Il povero et«, venne, dell'armeno (cfr. HyBsCH.M.«s, Armcn. stnd., I 2S 64),
lo lasceremo in pace, per ora. E gli arm. r/al venire (cui servo appunto d'aoristo eki ecc.), giial irò, ambulare
(aor. gnazi) , fermano di certo , per la loro struttura; ma in nessun modo si possono identificare con ija- gcina- di
tipo indiano ecc. Se ^ vi continua una gutturale originaria, questa sarebbe gli, e così si toccherebbe il got. gaggan eco.
(cfr. Bkdgm-vsx, Curtius' stud. VII 202-4; Scul'lze, in Kuhn's Zeitschr. XXVII l'.'ri, vos Finu.s-OEK, ib. 433): ma anche
questo incontro domanda particolari riserve.
' Kuhn's Zeitschr. XXIII aSl sgg. [Cfr. tuttavolta, Morph. unt. II 2S7].
— 465 —
nare "bimlu \'"hiìnini\, o poniamo anche "biniu [^binim]. Lasciando perciò la ragion
della nasale, viene a dirci 1' Osthoff, voi, che sostenete un -banim =-venio, incap-
pate in una doppia difficoltà, poiché dall' un canto non si vede in -banim l'effetto
che del 'carattere di classe ' (-io) dovrebbe vedersi, e, dall'altro, questo vostro -banim
ha una vocal di radice, che non si appaja bene con quella di venio.
La doppia obiezione non ha verun fondamento; e deve sinceramente rincrescere,
che un collega, al quale ci stringe tanta stima ed affezione, ci obblighi a confutare
argomenti di siffatta specie. Io naturalmente non mi sono mai sognato di dire, che
nel verbo irlandese si continui uno gvan-ja, ma ho sempre parlato, nel modo più
chiaro ed esclusivo, di gvaka, ed anzi ho posto i temi di fase preistorica: canta-
bana- ecc. (p. 10), e la prima di presente, in fase 'di età romana': catabanu (p. 13).
La differenza, in altri termini, che è tra il tema irlandese e il latino, riesce la stessa
che è tra il tema latino e quello che si ricava dall'osco e dall'umbro, o ancora la
stessa che intercede tra l' ipotetico goemjo e il sanscrito gama-ti. Nessun di certo ne-
gherà, che dato iin beno, osco od umbro, non debba egli tenersi per 'legittimo fratello'
del lat. venia, se pur nel tema presenziale se ne differenza. I fratelli, per quanto le-
gittimi, non sono già persone tra di loro identiche! Quanto poi all' «, gli è sempli-
cemente che nel caso nostro torna opportuna la esemplificazione per forme non ri-
zotoniche oppure enclitiche, le rizotoniche mancando pressoché affatto. Altrimenti,
la serie complessiva o teorica degli esempj si risolverebbe in una serie di tipi che
le nostre fonti non danno. Mal'« di cotcMtbanam concéitbani tésbanat ecc., non è punto
un a radicale; é non altro che un'espressione di quella vocale, più o meno incolora,
che la radice assume quand' è postonica ' , e sempre restiamo a un irl. ben- = ben-
osco ed umbro e voi- latino. Giova che lo stesso fenomeno sia sùbito mostrato in
quel verbo che meglio d'ogni altro si presta al paragone. E ben, pulsare: benar
gì. pulsetur MI. 93''16; ma in postonica lasse atadrhan cum eos impellat 65*14, nach-
amindarbanarsa gì. non subjiciar 56*22 , indrbana gì. excluditur 73'^20 (allato a atat-
dirbinedsu gì. te impellat 8610, indrhenlm Sg. 146''10). Non può essere stabilita con
assoluta sicurezza la vocal radicale di co-sn-aim contendo, ad-co-snaim (perf. adrucliois-
séni) peto, im-fre-sn-aim adversor; pure, nessun celtologo esiterà, io credo, a gii;di-
care ugualmente una ' irrazionale postonica' l' a di adcosantae gì. peteretur ]\I1. 115''13,
mandandola con Va del sost. imresan contentio e altrettali. Ma di più, in altra oc-
casione.
IV. Senonchè, siamo a un' altra obiezione, che può parer seria, e forse la più
seria! Voi volete, dice 1' Osthoff, che il -baith di cétbaifh, sia il parallelo di pàot-?;
ma, come il Fick, non vi accorgete che in paci? è rappresentata o continuata pur
la nasale della radice, non meno che nel sscr. gdti s o nel got. ga-qiimth-s; e se vo-
lete la stessa forma anche nell' irlandese [varrebbe questo discorso tanto per 1' ipo-
tesi di bem-, quanto per quella di ben-\, ve ne uscirà, non già un -baith, ma bensì
un béit (cioè *benti con t := ut, e 1' i introflesso).
' V. ZiMMEK, Keltische studien, II 136 segg. A pag. 91 della stessa scrittura, lo Zinimer contrappone, con
bella nitidezza, un rizotonico *cUbeìmin al non rizotonico ni cétbanam,
59
— 46*7 —
Ma qui pure è da rispondere in doppia maniera, non diversamente da quello
che prima ci accadeva per la supposta riduzione di *-òeniu. Poiché, dall' un cauto,
e' è da far le mai'aviglie per la imputazione che da noi si trascuri la dottrina se-
condo la quale [iiai-z è ^benti-s, quando è pur notorio che per la nostra 'scuola' sta
ben fermo, e da anni parecchi, non altro essere un -tato greco, a cagion d'esem-
pio, se non un -tento di fase anteriore; senza poi dire, che di -t- irlandese da un an-
tico -mt- o -nt- si citavano esempj nella stessa scrittura in cui era discorso di cétbaith
(p. 54, testo e nota), la quale anzi incominciava dalla considerazione di cat = cant\
Dall'altro canto, l'irlandese -haith vi era fatto perspicuamente risalire a non altro
che a -BATi (p. 5), e gli eran di continuo raccostate delle forme, in cui la radice do-
vrebbe anzi esser ridotta al solo -h- {fu-òe for-he ess-he clc-be, pp. 8 n., 12, 13)', senza
poi dire delle forme di passivo' e di perfetto. Era dunque affermato un ba allato a
ban[a], e la dimostrazione, sin dove si poteva, n'era data; sicché la obiezione di un
^benii, che dovesse dar ^bi'lt e non baifh , cade indarno per doppia ragione.
Poteva e potrebbe piuttosto andar discussa la ragion particolare dell' a di -baitJi,
dirimpetto alla vocale che s' accennava indistintamente per a nel teorico bati. Non
conosciamo questa voce allo stato isolato , cioè con proprio accento ; e le indagini
intorno alla vocale che si determini in postonica non sono ancora in generale tanto
inoltrate , da render qui facile una sicura sentenza. Il quesito si può formulare , per
via d' esempj, cosi: Se -baita portasse il suo accento, ci darebbe egli 1' analogo di
flaith potestas, o quello di cleith clith celatio? Già accennavo nella mia vecchia scrit-
tura (p. 5) alla notevole fermezza che Va di postonica avrebbe nel caso nostro; e
riprendendo il discorso intorno a cétbaith, ho ritoccato in questa Lettera di codesta
fermezza. Il mio pensiero, più intieramente confessato, è anzi questo: che tra i
Celti si alternassero i due 'stati radicali' bà e be, alla maniera che nel latino s'al-
ternano, a cagion d'esempio, sa e se (satus semen); e che lo 'stato' bè, secondo la
sua legittima riduzione irlandese (bì), si continui nel bith (=g-éti) di/o bith 'a mo-
tivo' (=per via, cfr. il ted. toegeìi e gli usi del sscr. gati)-, il qual tema irlandese ra-
' si aggiungono tor-he, elio v.i con for-he, e r aitli-he, di cui più iu là ritooohiamo. La ragion grammaticale
di codeste voci (dat./oc&n ecc.), le manda tra i temi in -io, cfr. Z. 761; e ritorna ostinatamento al pensiero il lat. clit-
hio-, che è però un 'frutto proibito' in tutta 1' estensione del termine. La grammatica suppone un antico toma,
spogliato legittimjmento della primitiva desinenza (p. e. */orb), il quale proceda a nuova formazione. Ma avverrà
forse che le ragioni storiche portino qualche modificazione a questa sentenza; cfr. crcJirc defectus, allato a »rin-
cìirinat deficìunt, e Windisch gr. p. v: e § 382. L' altro ben ferire, caedere [v. più in L'i] , dà similmente tóbe excjsio,
e qualche altro; e per chi pensasse a vedervi nn antico nome monosillabico, passato tal quale, più o meno tardi,
dalla condizione isolata alla composizione, sia avvertito che 1' 'hibern. vet. ben, be, oaesio' è inZ. 37 come un'enun-
ciazione ellittica, poiché in realtà non occorrono codeste due voci in condizione isoliita.
- La saldezza del b- di bith basterà a distogliere il pensiero dall' armor. eguit, Z. 690. — Allato a/o bith s' ha ,
nelle identiche funzioni, yit bU7iiìi (fo b-) , Z. 6B9, MI. Ili* 28, 129' 22, 139» 6, cfr. 591 9; onde s' ottiene, in ordine
alla formazione, una coppia com' è quella del lat. parti- (pars) allato a portion- (portio), o dir^ùuis allato a nòtion-
(notio), ecc. C è anzi, che importa non poco , il caso parallelo per lo stesso -haith , poiché por questa guisa si com-
binano il sost. frepaith e il tema verbale freptanaig- (frith-bth-[t]in-ig-), citati qui sopra, a p. 401. Vero è ohe
vorremmo, per la piena concordanza: fnpihanaìg-; ma è derivazione seriore, e ripeto il suo t, anziché ih, o dal-
l'illusione che tutto intiero il suffisso -Un (nomin. -tiu -iu) s'aggiungesse a -baith, o piuttosto dall'analogia degli
altri esemplari congeneri, in cui il t era legittimo {l.oltanaig 48'' 6, ecc., cfr. Z. 775). Cosi dal -baith, ohe riviene a
ben caedere, avremo nitidamente in aptìdn in perniciem Z. 800 {=\Vzb. ed. Zimm. p. 102, ed. Stok. p, 188), allato ad
aplu pernioics 74'' 11. — Cfr. hitli = guin , iu n. a. p. 468. — Auoora è da diro , cho ognuno facilmente pensa a portare
— 4G7 —
senti quello clie sta a fondamento del verbo latino, o meglio italico, lè-t-ero -bìtere\
Ma comunque di ciò sia, nella presente realtà del linguaggio è innegabile un con-
guagliamento di vocali tra i due temi verbali diversi (ban ba, ben he) ; coni' è inne-
gabile che i due temi tendessero a alternarsi tra loro sull'analogia dei verbi in cui
la nasale appartiene allo schietto carattere di classe. Così non ci occorre alcuna
forma di ben {-ban) di là dai confini del presente.
Or qui io devo fare un' altra confessione del mio pensiero , la quale non discon-
viene alla nostra anticritica, sebbene questa ormai si possa dire più che ricolma". Io credo
cioè fermamente, che il verbo irlandese ben.^ pulsare, caedere, risponda appieno alla
radice che è nel greco s-:cs-'fv-ov (e vuol dire a gh'an, insieme col sscr. han ghiant
e lo zendo </«»)'; o, in altri termini, ci'edo ch'egli abbia un -n di 'radice', benché
nella presento condizione del linguaggio egli noi móstri se non nelle forme presen-
ziali, così allineandosi coi verbi che rispondono al tipo latino cernere, e del -ji 'radi-
cale' più non s'abbia chiaro documento se non in béìm, colpo (=benmen), cui però
sembra aggiungersi, dall' ant. cimro, il part. perf. pass. plur. dubenetidon (Stokes,
Beitr., VII 404). Questa deviazione morfologica la stimo provocata dall' alternarsi
che tra di loro facevano le due forme radicali ben e he nel verbo che va con jjotivw ecc.
I due verbi coincidevano istericamente nelle forme presenziali ; e cosi p. e. in cotcliét-
banam (conveniamo) da una parte, e atadr-ban (egli li rincacci) dall'altra. Assicurata
com'era la differenza dei significati per la diversità dei prefissi, accadeva poi man
mano che la coincidenza si estendesse analogicamente anche alle altre formazioni.
Così è storico il perfetto in dorór-pai (vénit), e analogico in doar-bai (concìdit, Sg.
60'' 18) , o in nachimrindar-2tai-se (quod non me reppulit) ; storico l' astratto - baith , in
quanto vada con 'venire', analogico in quanto vada con 'caedere'; e via così per il
alla radice, di cui il testo ragiona, anche l'ir!, htth mondo, il quale sarebbe, se qui davvero spettasse, un pa-
rallelo ideologico del sscr. ijagat. Ma questo bith (tema in «)> che ha un i iberno-britannico , non potrebbe rivenire
allo 'stato' (/"e.
' Questo parallelo conghietturale sarebbe qui omesso, se appunto non avesse l'intenzione di opporsi indi-
rettamente a Osthoff, in Hiibsohmann, Indog. vocals. 190.
- Una confutazione dell'ipotesi messa innanzi dall' Osthoif, secondo la quale nel -bau- di tesbanat ecc. sa-
rebbe il correlativo del sscr. bhàt splendere, apparire, gr. qsa- ecc., venuto a conjugarsi, come nell'armeno, sul
tipo di nona classe indiana, parrà forse oggi superflua allo stesso suo autore, che del rimanente non le ha mai
dato certa importanza. Senza dire che Va di tesbau- ecc., è un a illusorio, secondo che prima ci accadeva di mo-
strare, rimarrebbero rigualmente enigmatici, in questa ipotesi, e il tipo/o?*/*;» e il tipo cltambctis. Che dir poi dei
saggi ' autocratici', per quaut' è dello siguific.izioni? L' O. traduce cét-beiiim per 'ioh verstehe ' (ma dice veramente
'sentio') , e la radice corrispondente a qj5- gli torna a meraviglia, per la testimonianza che gliene danno xaTa-^avvi?
(chiaro, visibile), ecc. Senza dubbio alcuno, un aggettivo, derivante da un verbo che significhi 'risplendere, ap-
parire', dirà naturalmente 'lucido, manifesto' ; ma come inferir da ciò, che il verbo 'risplendere, apparire, com-
parire', abbia a significar 'sentire' p 'intendere'? Poteva 1' 0. addirittura ricorrere al nostro sost. parere =' opi-
nione' (cioè: 'quel che pare a me, a te, ecc.'); onde però non viene che 'io pajo' o 'compajo', possa dire .'intendo'
o ' opino' ! E mi presumo dispensato da ulteriori 'cimenti semasio-logici' per foi'-benim fris-benim eco. — Del ri-
manente, il legittimo riflesso irlandese di blm ecc., o, a dir meglio, della combin.izione che è nel \aX. fti-t-eor, s'ha
nel -hat di cia-du-sn-ad-bat 135'» 5 ecc., come ha correttamente posto lo Zimmer; e lo scrupolo del Windisoh
(Curi.' 297) mal si regge; cfr. p. e. célfaid.
' Naturalmente io non dimentico Wisdisch, Kuhn's Zeitschr. , XXIII 202-3 209 237, J. Schmidt, ib. XXV
82 170-1. Ma il secondo fa rrn uso che non mi può parer cauto dell' o (u) di -yei/on-sa ecc.; né il primo ha presunto
di chiarirlo. L'originario gh'an deve aver d.ito all'irlandese cosi ben- come (/««-; le quali due forme stanno tra
di loro come p^vi a fgvti (gvana); di che altrove si riparla.
— 4GS —
resto". Una coincidenza isterica si sarebbe anche avuta nella forma nominale h(iim
(=beumen), clie dice 'colpo', secondo che testé si ricordava, in quanto deriva da
BEN pellere, caedere, e direbbe, secondo la chiosa d' O'Clery, 'passo', offrendo cosi
una derivazione dall'altro ben (gradior, gressus)'. Questa voce Se'»» , in una sua ap-
plicazioiie costante e curiosa, por la quale par che s'abbia a risalire a ben pellere,
ha accanto a sé il sinonimo aith-heiin^; e aitliheini ricorda, alla sua volta, la com-
posizione analoga che é in aifhhe, riflusso del mare. Già ci accadde toccare del -he
nominale (tobn), che s'ha pm- da ben pellere, caedere; e avverrebbe perciò di chie-
dere, se in questa composizione sia T'aqua repulsa' o non piuttosto la 'remeans'.
S'ha un aith-he {-hi), terza persona singolare, il quale, se è veramente di presente
indicativo, come Stokes vuole*, ci riporterebbe a ba, andare. Ma qui incappiamo
nella pai'ticolar complicazione delle forme che si dissero di 'aoristo'; circa le quali
è a ogni modo assai notevole, che la maggior parte ne rivenga a ben pellere, cae-
dere'. Andranno ora ristudiate codeste forme, con riguardo particolare alle loro
attinenze o coincidenze con le forme dell' ausiliare. Manda lo Stokes sotto ba anche
oc«-&e</«er contingetur, MI. 53'^ 17''; e di certo la 'contingenza' o il 'contatto' può
considerarsi come un 'incontro' più o meno brusco, dove i limiti ideologici si posson
rappresentare per aaiJ.j3aiyto e 'imbatto'. Ma \\n altro esempio, ocuhiat, non serve alla
miglior determinazione dei significati, e altri due ci porterebbero piuttosto a ben
' Quanto al part. pass, (foirbfhe; bitlic imili-blìie). si sa che ricade in quost' .analogia aiwhc fnr-rnnim doceo:
foircthe IS^ 4, 23'' 12, 111* 27, 111'- 19, foirctltì 68" 14, 132" 4.
- Notevole anche bith = guln (ferita) 0' CI., che verrebbe a coincidere col bith ili fobith, di cui dianzi si par-
lava. Cfr. la nota 2 di p. 466.
' AUudo alla combinazione bCimfomis (Z. 26S, Sg. 138" 7, MI. 131'- 14, Wind. s. forus), che deve dire pressap-
poco 'motivazione di sicura intelligenza', e per la quale in MI. 94'- 13 è aitlibeim forais j quasi 'nuova motivazio-
ne ecc.', e similmente; aitìtbeim forsindib ciaìlaib ecc. 56'* 37. S'aggiunge la combinazione antitetica béim foscdce
Sg. 63" 15 {cechiar ndi foleUk ceti béim foscdoì innalaiìl, che traduco: ciascuno dei due a parte, senza esser motivo di
oscurità in ordine all'altro). Finalmente considero il beim ccnelach ài Z. xli, che vorr,à dire 'motivazione (argomen-
tazione) generalo'. L" adinmentum ' o 'auxiliiim', per cui sì rende questo béim in Z. xi.i, 26S, dove provenire da
0'lleillj% ed è facile intendere come la 'motivazione' possa farsi o parere nn.i 'causa che agevoli'. Ma come no
iisciremmo in Sg. 63" 15 con un * ajuto d'ombra', o 'di oscurità'? Penso io dunque alla serie ideologica 'impulso,
motivazione, causa'; e anche si piiò forse partire da 'proiezione'; cfr. bithe gì. iecta 123c 17. Ma sempre rimarrà
molto curiosa la parificazione béim forais = céim forais, Stokes, gì. tvl 'Salt.air na rann', per la qu.ale ritorneremmo
a BES g^c.vul [Cfr. TnuRSEVSEx, Rev. celt., VI 109].
' Cai. of Ong., glossar, s. v., Kuhn's Zeitschr., XXVIII 74.
" Cfr. Z. 447 1090, Stokes, Old Irish-Verb, 14-15, e gì. al 'Saltair na rann', s. [biim], Windisch gr. § 310. Sieno
qui aggiunte le seguenti: ocabiat, cui tosto ritorniamo; ni lasse etirriuìib gì. ncque perimendo 123'' 10, nodufubi
gì. absoindet 93"7, dufubaitis 'abscindantur ' 92' 6.
" Circa l'ocii-, lo Stokes, che non disponeva se non di questa sola forma, viene a un' ipotesi che mal si regge.
Abbiamo un o-cu, die s'alterna con o-c«hì (o-cm), la .seconda delle quali figure occorre in esempio che avea l'ac-
cento suU'o. Al che aggiungendosi l'assimilazione m^=mb, si viene alla molto singolare distanza tra la forma 'en-
clitica' : nad ocmanatar (o-cum-banatar, 3. pi. pres. pass, cong.), e 1' 'ortotonica' ; ocbendar (1. ocbcntar, 3. pi. pres. ijass.
ind.), le quali occorrono una accanto all'altra: ni nisndet dd. airmdia he insti indi nad ocmanatar hoihrogaib achl il
ile iusti les indi ocubendar hoUirojiaih innati ingratnman eie, 'non espone Davide che sieno (fossero) giusti coloro i
quali non sien colpiti (tang.antur) da miserie, ma son giusti, jier lui, quelli ohe sono colpiti (tanguntur) dalle mi-
serio delle persecuzioni ecc., 54" li. Per 3. del cong. vorremmo , a rigore, -bantar; e -boitatar sarà veramente il
-banat deU' attivo, più V-ar. — Ma la prima partedoU' oca- di oeii-ben-, che è ella dunque? Di certo si tratta di una
combinazione o riduzione molto singolare. La costanza dell' o distoglie dal iionsare ad o- {ita-), senza dir della re-
pugnanza del significato e ilolla m.ancanza d' .altri osompj di o- elio si;i il primo tra duo prefìssi. Converrebbe, per
la significazione, oc-; ma ò una preposizione che non occorre nelle funzioni di prefìsso.
— 4G9 -
caedere'. Lo stesso for-òen-, che dn un lato ben si collega con duforhan eveniat ecc.
e coir ausiliare (foròia ecc. : cfr. duìulórbiimni gì. nos pervenire 105* 6) , si combina,
dall'altro, non solo per la forma, secondo che già il Thurneysen notava, ma pur nel
contenuto ideale, con ben pellere ecc. Si confronti, per esempio, la storia ideologica
di exitjere exaclus (esatto, perfetto, =foirhfhe).
5. Così venivamo tra noi cimentando le sentenze d'ordino teorico e parecchie
sentenze d'ordine positivo, che erano accampate dai 'Neogrammatici'. E conchiude-
vamo con varie considerazioni d'indole generale, le quali basta, se non è di troppo,
che qui sieno per sommi capi ricordate.
Negata poiché s' era alla 'nuova scuola' ogni reale novità, sia nei principj o sia
nel metodo, osavamo chiederci se in generale sia ammissibile una ragionata contro-
versia intorno al punto dei principj scientifici. Un principio scientifico, per superba
cosa eh' egli paja , non è se non la resultante di dimostrazioni indefinitamente mol-
tiplicate; e non può esistere alcun ragionatore, il quale per principio si ribelli a un
costrutto in cui collimi tutto il complesso delle prove. L'esperimento, via via piìi
attento e rigoroso, promuove i metodi via via più robusti e sicuri; e lo studio del-
l' intima ragione delle cose s' avvalora e si rialza per effetto di sintesi successive e
temporanee, che scaturiscono dai sistemi delle realtà appurate. Vere contraddizioni
di principio non se ne possono dare in una esplorazione scientifica, né vi possono
avvenire veri sbalzi. AH' opera complessiva , per la quale gì' incrementi della scienza
si maturano, contribuiscono poi, in "progressione continua, ma anche nei modi più
disparati, le varie forze o attitudini dei singoli lavoratori. V ha chi precorre col-
l'ardimento, chi assoda con giuste cautele, chi ammassa con abnegazione cosciente;
e. ognuno può essere disposto a trovare che la propria virtù sia quella di cui in un
dato momento più importi. Ma sono indistintamente efficaci tutti quanti lavorino
con piena scienza del lavoro altrui. A nessuna intemperanza indi^ddiiale dobbiamo,
d'altronde, badare più di quanto è strettamente necessario, né mai giova inferire
da singole persone a lina gente intiera. Può così dispiacere qualche balda scrittura
che vien di Germania; ma erano tedeschi anche lo Zeuss e l'Ebel, i quali nel più
modesto raccoglimento hanno maturato la pivi mirabile ricostruzione che la nostra
disciplina possa vantare; com'era tedesco il Diez, il quale nella prima pagina del
suo libro dava il vanto a Raynouard d' aver fondato la filologia neolatina.
Questi che si sogliono chiamare i 'Neogrammatici' (è bene ripeterlo) hanno un
doppio e gran merito. Hanno continuato con molto valore l'opera analitica e rico-
struttiva di coloro che li avevano preceduti o li venivano accompagnando ; e hanno
insieme afierrato e affermato qualche buona massima con un insolito vigore, che ne
ha di molto giovata la diffusione e l' osservanza. N'ed è un luogo comune il soggiun-
gere, che le loro stesse intemperanze tornaron di profitto, per una più acuta discus-
' oriihiiit, 12tì'' 12, 6 chiosa di un cont iiigueso.aut, elio veramente sta per conticescanl; gli altri due esempj
yon nella nota che qui precede.
— 470 —
sione delle teorie, che ne era insfcantemeute promossa. Andò incontro la 'nuova
scuola', com'era naturale, a esaltazioni irragionevoli e a sdegni eccessivi. Poicliè,
dall' un canto, la romorosa proclamazione de' principj accompagnandosi con la pre-
sunzione di resultanze che ripugnassero o contraddicessero a quanto in sino allora
s' era affermato o tentato (presunzione avvalorata da qualche resistenza poco prov-
vida), ne andavan facilmente sedotti i semiprofani o coloro che avevano prima do-
vuto navigare senza bussola (di che veramente non andavano incolpati qiielli che la
bussola pur già la usavano da un pezzo) ; senza dir di coloro che vogliono parer se-
dotti, in ogni caso consimile, per motivi che non è grato cercare o difSnire. Dal-
l'altro canto, per la singolare imperturbabilità con la quale i 'Neogrammatici' ap-
parivau sostenere il vanto delle innovazioni teoriche e dei loro effetti, e per la poca
0 nessuna cura che parevano darsi delle ragioni a loro opposte da cultori severi e
costanti della disciplina eh' essi reputavano innovare, era facile che taluni di questi
fossero indotti a prorompere acerbamente contro iiu' audacia che sembrava non voler
vedere a chi essa doveva il poter suo e non voler sentire chi le rinfacciava i debiti
antichi e le esorbitanze nuove. Ma ormai, come vedevamo, la maggior parte di tutto
ciò è rientrata per sempre nella storia antica'.
Restano, di certo, strani e non piacevoli ricordi. La magnificazione, per esem-
pio, che di qua dall'Alpi hanno potuto riscuotere i 'principj ti'asf ormatori', imjjanditi
in una Introduzione tanto poco felice; le presunte esagerazioni della 'scuola fonetica',
che i non iniziati intendevano proprio a z'ovescio di quello che i veri 'Neogramma-
tici' volevano; lo scetticismo che tra i non iniziati era promosso da screzj male esa-
gerati e mal compresi. E c'è o c'è stato sicuramente anche di peggio; ma peggio
di tutto per noi sarebbe, che a noi fosse mancato il giusto diritto di rivoltarci.
Qui seguivano , come a chiusa delle nostre conversazioni , alcuni pensieri sulle
particolari difficoltà che sono inerenti alla nostra disciplina e sulla singolarità della
' [18=6. — Questo io diceva 1' anno scorso, considerando in ispecie la dichiarazione del Bkugmann, riprodotta
neir esordio della presente Lettera. Più tardi, Ilo anche letto, tra gli spogli della Reme critique (18 jfennaio 1886).
unamite-e buona sentenza, che proverrebbe da un articolo dell' OsruorF, inserito nel num. 51 della Bcrliner
philologischewochenschrift del 1885: ma l'articolo non 1' ho ancora potuto vedere. Grandissima soddisfazione mi è
poi venuta dalla notizia, che nella stessa /Jcwwe cnù'jtie si conteneva (8 febbraio 1896), di alcune osssrva^oni.
scambiatesi tra il Brk.u. e il Paris, nella seduta dell' Academia d' Iscrizioni e Belle Lettere del 29 gennaio 18S6;
osservazioni, che, per quanto se ne può vedere, collimerebbero perfettamente con gli argomenti che sono svolti
nella mia Lettera (glottologica del 1881 e in questa che per la bontà degli amici ora si stampa. L' Henry viene egli
pure , nella detta Kevite, a conclusioni cortesi, che in ultima analisi annientano la controversia; ma ci arriva per
iin raziocinio che anclie a me dee parere 'arrovesciato' (lionni soit qui mal y pense), e fa dire allo Schuchardt
con molto giusto fondamento, so pur con qualche mordacità, (ib., 12 aprile 1886): « alors quelques-uns de nous
> auraient été des néo-grammairiens avant les nóo-grammairiens et nous le sorions toias à présent à notre insù;
» nous aurions les ceuvres sans la foi. Est-ce qu'on ne pouvrait pas aussi bien supposer quo les autres ont la foi
• sans les ceuvres? » — n vero è, ohe un esame spassionato, largo e approfondito dell' intiera controversia, fa pa-
rere impossibile eh' essa abbia mai esistito. Di questa convinzione ho io dovuto dare, per la mia povera parte, le
prove in qualche modo personali. Ma siami lecito ripetere la dichiarazione, che se i4 queste prove io molto ci
tengo, come a una argomontaziono che mi pare invincibile, ciò punto non implica alcuna ilhisiono o jn-esiinzione
circa l' importanza che a queste provo si possa attribuire come a fatiche spese per un qualche incremento della
disciplina a cui serviamo. E m' auguro di non dover più tornare a discorsi di questa maniera, come anche
m'auguro che gli amici non mi continuino a attribuire dei meriti che io non ho.]
— 471 —
condizione sua tra le discipline scientifiche, in quanto abbia per soggetto tal ma-
teria intorno alla quale i non iniziati rinunziano assai diificilmente a portare sen-
tenza. Possiede ormai anche la glottologia alcune opere riassuntive e quasi popolari,
meritamente celebrate ; ma 1' effetto loro , in quanto si produca di là dalla cerchia
degli iniziati, è ben diverso da quello che sogliono ottenere i libri congeneri, dedi-
cati ad altre maniere di studj. Nel nostro caso, il solito è che il libro popolare di-
venti, tra i non iniziati (qiialche eccezione geniale altro non fa se non confermare
la regola) , 1' ansa di elucubrazioni tanto più temerarie , in quanto ne è traveduta
lina legittimazione dottrinale. Pure, anche in quest'afflizione e' è un gran conforto;
e sta nel desiderio incoercibile che sempre vediamo ispirato dal subietto intorno al
quale la nostra vita si affatica.
E s' arrivava a riflessioni ancora più delicate e quasi intime , che non sono per
ora da ripetere neanche a guisa di sommario. Fo punto perciò ; m' auguro eh' Ella
accolga la parola scritta con la stessa benevolenza che ha concesso alla parola parlata,
e Le stringo affettuosamente la mano.
G. I. Ascoli.
FINE.
— 473
AGGIUNTE E CORREZIONI.
Ugo Angelo Canello, pag. iv, n. 3.
Se lo avessi conosciuto a tempo , avrei qui fatto cenno à' im articolo del Canello estratto dalla
Gazzetta di Treviso (1874), nel quale, a proposito di certa esortazione di G. Barozzi, Parroco di
Pianzano , diretta alla Gioventù trevigiana per indurla allo studio del dialetto patrio si trova ad-
ditato il metodo seriamente scientifico da seguire in siffatte indagini; e avrei aggiunta questa
alle pubblicazioni dell' anno 1874 nell' elenco delle opere che segue la biografia.
V. C.
Les Serments de Strasbourg , pag. 78, nota 2.
Les Serments se trouvent en effet non seulement dans la 3' ed. de Bodiu, comme le dit
aussi Moui-cin, mais déjà dans la 1"=, qui est de 1576, et dans la 2™«, qui est de 1577. Seulement,
au lieti de se trouver dans le 6" cbap. du V livre, ils ont été, dans les deux premières editions,
insérés dans le 8« chap. du livre premier, pages 117 et 118.
Quant à Fauchet, ce n'est pas seulement dans l'éd. de 1610 qu'on trouve les Serments. Voir
son livre « Declin de la Maison de Charlemagne , » 1602, ibi. 23, et encore son « Recueil de 1' ori-
gine de la langue et poesie francjoyse, ryme et romans, 1581, pag. 28, livre que Mourcin ne
cite pas.
Enfiu, pour ce qui regarde le mot « Schvvartz » que Mourcin (p. 10) accompagna de trois
points d'exclamation, ce n'est nuUement Fauchet qui l'a écrit; voir l'éd. de 1581. Mais ce n'est
pas tout. Les Serments sont imprimés deux fois dans l'éd. de 1610: non seulement au fol. 330 v',
mais encore, et plus correctement, au fol. 539 v», d'après le « Recueil de l'origine» etc.
PoiU' trouver l'auteur des fautes à tort imputées à Fauchet, il suffira de lire ce que dit —
au 3= fol. non-numéroté, r° — l'imiarimeur de l'ouvrage « Declin » etc. 1602, Jeremie Perier:
« Vous iouyrez de ce labeur que feu mòsieur le president Fauchet (qui était mort l'année
précédente) m'auoit commis à vous faire voir, où vous trouuerez que son intention a esté aussi
bien suyuie que s'il y eust esté present, ores que son escriture en soit vn peu dif-
ficile ».
Dans l'éd. de 1602 fol. 22 v' on a écrit Nitard, et non plus Gnytard.
Carl Wahlund.
Un testo drammatico spagnuolo , pag. 178, n. 2.
Si corregga, « V. a pag. 183, col. 1, primo verso dell' ultima strofa.
A. M.
— 474 —
Complainte provengale ecc., pag. 231 sgg.
La complainte sur la mort de Gregoire de Montelongo (pp. 231-6) était imprimée, lorsque
M. le Prof. Rajna a appris par M. A. Medin et m'a informe qu'elle était déjà publiée d'après le ms.
de ìlilan (il n'en existe pas d'autre pour cette pièce) dans les Monumenta Ecclesia Aqidlejensis....
auctore J. Fr. Bernardo Maria De Rlibei.s (Argentinse, 1740, in-fol.), col. 755-8. Celui qui a com-
muniqué la complainte à l'autenr des Monumeìita porte un nom connn, entra les érudits du siede
dernier. C'est le président de Mazaugues, qui possédait une belle bibliothèque dans laquelle flgu-
rait le ms. des troubadours qui est maintenant conserve à la Bodleienne (Oxford) dans le fond
Douce. Voici comment s'ex^n'ime De Rubeis :
Provinciali, ut ajunt, Carmine celebratum Gregorii fnnus, eximia no.s laumanitate admonuit Henricus-Jose-
plius TiioMAsiN DE Maz.augues, in supremo Provincise Galliche Senatu Prfeses. Desci-ipserat illud Illustrissimus Doctis-
simnsque Vir ex Codice AmbrosiansB bibliotliecEe uum. LXXI, litt. E. in 4", dum iter Italicum litterariae supel-
lectiiis augendce causa confìceret, ac Mediolani diversaretur: idemque Parisiis ad nos transmisit.
L'édition, soit par la fante du président, soit par celle de l'imprimeur, u'est pas exempte de
fautes; ainsi on lit vena pour veira (v. 21), lazia t^ovlv jazia (v. 45), ades pour a del (v. 67). Mais,
en égard au temps oìi la publication a étéfaite, il faut plutót s'étonner du degré de correotion
qu'elle présente.
A l'avant-dernier vers de la pièce latine (p. 236) il faut lire a gente et non agente.
P. M.
Una particolarità sintattica ecc., pag. 255 sgg.
Mi giunge jjur ora il secondo fascicolo della Romania 1885 ed a pag. 305 vi leggo a propo-
posito della Confessione latino-volgare pubUcata dal Flechia questa osservazione di Paolo Mej'er
a proposito dei molti periodi cbe incominciano: M' accuso (cfr. a pag. 258 di questo volume):
' Je lirais me et non m', car le manuscrit porte une m suivie d'un point. La leoture in' ne serait
légitime que si cette lettre était jointe au mot suivant. ' Il Meyer esprime cautamente la sua
opinione in forma dubitativa; ma poiché alla paleografia viene in soccorso la grammatica, po-
tremo ormai procedere più franchi ed affidarci di dire: la vera lezione è me. Così si toglie di
mezzo quell'eccezione, che per la vetustà del documento era atta a darci alcuna briga, non dissi-
pata interamente (lo confesso) dalla spiegazione che io aveva tentato di darne. Il periodo non
comincia adunque nemmeno qui col pronome enclitico ; quanto al ine potremo dubitare se la for-
mola latina Me accuso sia rimasta intatta o se abbiamo da fare con due voci italiane: nel secondo
caso il pronome, perchè in principio di proposizione, è di forma accentata; cfr. la nota seconda
alla pag. 258.
E poiché mi si porge occasione di ritornare sul mio breve studio, mi sia lecito rispondere ad
una obbiezione che un mio amico mi fece in via privata ed alti-i potrebbe farmi in pubblico. A
pag. 257, chiedendo perchè gli antichi non usassero l'enclisi in principio di proposizione, dissi che
essi rifuggivano dall'incominciare con un monosillabo atono e quindi di suono e di significato so-
verchiamente tenue. Ma allora, domanda l' amico mio , jierchè non s' astenevano dal cominciare
coU'articolo, colla preposizione? L'osservazione è giusta, e mi fa accorgere che avrei dovuto
spiegarmi meglio. Alti-a è la natura del pronome personale, altra quella di voci quali //,
Lo..., A.... ecc. Il primo ha un significato suo proprio, un'individualità bene spiccata; le seconde
sono mere voci grammaticali. Il primo ha due forme: l'una accentata, enfatica, che può starsene
anche da sé, e l'altra atona, che deve accompagnarsi sempre al verbo; le seconde sono sempre
atone, non possono giammai starsene isolate, formano quasi un tutto colla voce a cui spettano.
Non è quindi difficile comprendere che paresse ovvio incominciare un periodo coU'articolo — p. es.
il padre disse = pater dixit — ; ma che trattandosi di una parola significativa, com'è il pronome
— 475 —
personale, le lingue romanze nei loro primordii ripugnassero dall' usare la forma atona, che ne at-
tenua cosi il suono come il valore; e quindi o scegliendo l' atona (che è il caso di gran lunga più
frequente) la posponessero, o volendo incominciare dal pronome usassero la forma accentata ; tutto
ciò, non fa uopo dirlo, non per deliberato proposito, ma per un certo istinto, che senza predile-
zione per le cose antiche potremo chiamare felice. Del resto, questa spiegazione od altra che se
ne desse può, come ogni ragionamento soggettivo, essere erronea: la realtà del fatto rimane
inalterata.
Vienna, 29 ottobre 1833.
A. M.
La forma metrica del 'Commiato' ecc. pag. 357 sgg.
Il lettore si sarà avveduto che in due o tre luoghi manca una virgola.
A pag. 359, n. 4, liu. 4 è stampato Stesso Dante invece di stesso Dante. Nella stessa nota,
lin. ultima, invece di op. cit., si legga: Das Lében und die Lieder des Trobadors Peire Rogier,
Berlin, Reimer, 1883, e a questo titolo si sostituisca invece a pag. 371 n., op. cit.
A pag. 366 lo schema della canzone di Panuccio del Bagno Val. I, 341, va cosi corretto:
aBbO. aDdC : EeFfGG.
A pag. 371; lin. 13 da sotto e liu. 6 pure da sotto, invece di J7rt(/. 331 si legga: pa(/. 357.
L. B.
Une forme de l'article roumain: pag. 209-215.
Poco dopo eseguita la stampa di questo scritto, l'autore, a quel tempo primo segretario della
legazione di Romania presso il governò italiano, da Roma era trasferito ad Atene qual Ministro
plenipotenziario. V'era giunto appena, quando, il 21 luglio 1885, lo coglieva la morte, spegnendo
in lui un uomo di molto e svariato sapere, sommamente benemerito del paese suo, caldo amico
del nostro. Quanta stima egli si fosse guadagnato anche in Italia, quanta ne meritasse, disse in
un articolo necrologico il signor A. Parisotti nel giornale 1' Opinione (16 settembre).
INDICE.
PREFAZIONE Pag. v
P. ViLLAEi. — Napoleone Caix ix
P. Raxna. — Gli scritti del Caix xrv
V. Crescini. — Ugo Angelo Canello xxv
P. MiKLOSiCH. — Ueber die Nationalitàt der Bulgaren 1
E. Stenoel. — Ueber den lateinischen Urspruug der romanischen Funfzehnsilbner nnd
darnit verwandter weiterer Versarten 5
P. Meulo. — Problemi fonologici sul!' articolazione e sull' accento 11
I. Tentativo di classificare in un sistema unico di articolazioni le vocali
e le consonanti 13
IL Diverse gradazioni delle vocali toniche, e perdita o naturale rotazione
delle atone 30
G. GaoBEB. — Etymologien 59
(aiguille — ammiccare — andare — aiToser — astore — bleron — borraja — encre — jadis
— jassé, ancsé, desse — malvagio — morceau — nièce — patois — pièce — ruisseau).
G. B. Gandino. — Osservazioni sopra un vei-so del poema provenzale su Boezio 51
A. Gaspary. — Molière's Don Juan 57
A. ToBLEB. — Etymologisches 71
(butor — piaffer — forra — recrue — avertin — gerla).
G. Paris. — Las Serments de Strasbourg (Introduction à un Commentaire gram-
matica!) 77
C. Paoli. — Notizia di un codicetto fiorentino di Ricordi scritto in volgare nel se-
colo XIII 91
F. G. Fura. — Postille romanze:
I. Alt romanzo per o atono latino 95
II. Greggio, Grezzo 99
G. Meyer. — Der Einfluss des Lateinischen auf die albanesische Formenlehre 103
— 478 —
C. MiCHAELis DE Vasconcellos. — Studien zur hispanischen Wortdeutung Pag. 113
(ayamo — alcjapao — alinhavào — bagoa — birla — birlocha — bis[s]alho — bolor —
bugio — buir — caramunha — ceibo — cerniglo — derreter — dobar — eido — eiva —
encinta — estrece — fasca, fascas, hascas -- guinilla — leira — macho — madroiìo
— marcico — meigo — morango — mouco — non , nom , nao — pelmazo — pintasUgo
— pousalousa — quera, querado — quexigo — rellia- — sandeu, sandio — sarau, sarào
— senzido — sosegar — soturno — sovela — atordido , stordire — ter^ó — trinca —
ximbral — urze — vestigio — vinco — sato — xodreiro — yjada — zisme).
F. Neumaxn. — Die Entwiokelung von Consonant -!- iv im Pranzòsischen 167
A. MiOLA. — ■ Un testo drammatico si^agmiolo del XV secolo 175
B. WiESE. — Einige Dichtungen Lionardo Giustiniani's 191
G. Flechia. — Etimologie Sarde 199
(asselenare — attatare — battia — bénnere — chedda — chillru — elio — endiosare — fad-
dija — fitta — masone — upuale — medal.
M. ObÉDÉNAEE. — Une forme de l'article roumain qui se met devant les substantifs et
les adjectifs (Dialecte du Danube) 209
J. CoRXL". — Recherciies sur la conjugaison espagnole au XlIIe et XTV^ siècle 217
P. Meyeb. — Complainte provengale et Complainte latine sur la mort du patriarche
d'Aquilée Clrégoire de Montelongo 231
C. AvoLio. — La questione delle rime nei poeti Siciliani del secolo XIII 237
N. ZiNGAEELLi. — Un serventese di Ugo di Sain Gire 243
A. MussAFlA. — Una particolarità sintattica della lingua italiana dei primi secoli 255
J. Leite de Vascoxcellos. — Etymologias populares portuguesas 263
R. Reniee. — Un mazzetto di poesie musicali francesi 271
H. SucHiEE. — Uber die Tenzone Dante's mit Forese Donati 289
A. D' Ancona. — L' arte del dire in rima: Sonetti di Antonio Pucci 293
S. Pieei. — Il verbo aretino e lucchese 305
G. MoEOST. — L' odierno dialetto catalano di Alghero in Sardegna 313
M. Gaster. — Die rumaenischen Miracìes de Nòtre Dame 333
0. Salvioni. — Antichi testi dialettali chieresi 345
L. Biadene. — La forma metrica del 'Commiato' nella Canzone italiana dei se-
coli XIII e XIV 357
M. Mila y Fontanals. — Un' alba catalana 373
F. NovATi. — Il Ritmo Cassinese e le sue interpretazioni 375
F. d' OxiDio. — Della quantità per natura delle vocali in posizione 393
E. Monaci. — Il trattato di poetica Portoghese esistente nel Canzoniere Colocci-
Brancuti 417
G. I. Ascoli. — Due Lettere glottologiche :
I. Dì un filone italico, diverso dal romano, che si avverte nel campo
neolatino. — Lettera a Napoleone Caix 425
II. Dei Neogrammatici. — Lettera al prof. Pietro Merlo 436
Aggiunte e Correzioni 473
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