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Full text of "Miscellanea di filologia e linguistica: in memoria di Napoleone Caix e Ugo Angelo Canello"

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IN  3IEM0RIA 


NAPOLEONE  CAIX  e  UGO  ANGELO  CANELLO. 


MISCELLANEA 


FILOLOGIA    E    LINGUISTICA 


G.  I.  Ascoli  —  C.  Avolio — L.  Biadene  —  J.  Cornu — V.  Crescini 

A.  D'Ancona — F.  D'Ovidio  —  G.  Fi.echia — F.  Ct.  Fumi  —  G.  B.  Gandino 

A.  Gaspary — M.  Gaster  —  G.  Gròber  —  J.  Leite  Dk  Vasconceli.os  — P.  Merlo  —  G.  Meyek 

P.  Meyer — 0.  MicuAELis  De  Vasconcellos — F.  Miklosioh— M.  Miti  —  A.  Miola — E.  Monaci 

G.  Morosi  —  A.  Mussapia — F.  Neumann — F.  No  vati — M.  Obédénake  —  C.  Paoli—  G.  Paris 

S.  Pieri  —  P.  Eajna  —  R.  Renier — C.  Salvioni  —  E.Stenqel  —  H.  Suchier 

A.  ToBLER— P.  VlLLARI^B.  WlESE  —  ÌST.  ZlNUARELLI. 


FIRENZE. 

SUCCESSORI    LE    MONNIER. 


1886. 


Proprietà  degli  Editori. 


PREFAZION^E. 


Nel  maggio  del  1883  s' inviava  a  molti  cultori  degli  studi  neola- 
tini il  manifesto  seguente: 

«  È  sorto  in  Firenze,  tra  colleghi  e  amici  del  compianto  profes- 
»  sore  Napoleone  Caix,  il  pensiero  di  consacrare  alla  memoria  di  lui 
>■■  un  volume,  a  comporre  il  quale  concorrano  dotti  romanisti  italiani 
»   e  stranieri. 

»  Si  è  perciò  costituito  un  Comitato,  composto  dei  sottoscritti, 
»  il  quale  con  questo  manifesto  fa  appello  ai  più  valenti  cultori  degli 
»  studi  romanzi,  perchè  vogliano  con  qualche  loro  scritto  prender 
>    parte  a  questo  volume. 

»  L'  onoranza  che  si  vuol  fare  al  Caix  non  pretende  punto  di  pa- 
»  reggiarsi,  nell'  intento  e  nel  significato,  a  quelle  che  in  simil  maniera 
»  si  rendono,  come  per  filiale  rimpianto,  alla  memoria  di  grandi  mae- 
»  stri,  mancati  dopo  aver  tutta  percorsa  una  splendida  via  di  fatiche  e 
»  di  glorie;  bensì  essa  vorrebbe  esprimere  solo  il  compianto  per  la  fine 
»  immatiira  di  uno  studioso  valentissimo,  acuto,  ingegnoso,  laborioso, 
»  per  una  operosità  nobilissima  tronca  sul  più  bello  dalla  moi'te,  per 
»  una  speranza  dolorosamente  mancata.  —  Graziamo  Ascoli,  U.  A.  Ca- 
»  NELLO,  Giovanni  Flechia,  Ernesto  Monaci,  Giuseppe  Morosi,  Fran- 
»   CESCO  d'  Ovidio  ,  P.  Rajna. 

Un  mese  appena  era  scorso,  e  dei  sette  colleghi  che  s'erano  qui 
uniti  per  procacciare  onore  al  nome  dell'  amico  defunto,  uno,  e  dei  più 
giovani,  era  ancor  egli,  e  in  modo  tragico,  strappato  alla  vita.  Troppo 
naturale  che  i  due  lutti,  ugualmente  amari  e  inaspettati,  apparissero 


inseparabili  ai  superstiti,  e  che  U.  A.  Canello  si  volesse  associato  al- 
l' opera  pietosa  nel  solo  modo  che  rimaneva  possibile,  in  quanto  cioè 
il  volume  fosse  intitolato  a  lui  nella  maniera  stessa  che  al  Caix. 

Comunicata  anche  questa  idea  ai  compagni  di  studio,  essa  trovò 
la  medesima  accoglienza  simpatica  che  aveva  ricevuto  il  primo  invito. 
E  non  tardarono  a  giungere  scritti;  e  più  numerose  degli  scritti  s'  eb- 
bero care  promesse. 

Per  una  parte,  il  desiderio  che  queste  promesse  avessero  adempi- 
mento senza  troppo  scomodo  dei  gentili  da  cui  s'  erano  avute,  per  un'  al- 
tra, non  pochi  inciampi  d'ordine  materiale,  hanno  mandato  la  stampa 
molto  più  in  lungo  di  quel  che  si  sarebbe  voluto  e  dovuto.  Di  ciò  si 
chiede  scusa  ai  benevoli  collaboratori;  e  pur  troppo  non  si  può  più 
chiedere  a  tutti.  Non  si  può  chiedere  a  quel  valentissimo  che  fu  Ema- 
nuele ^lila  y  Fontanals,  dal  quale  s'  arrivò  appena  in  tempo  a  ricevere 
vma  piccola,  eppur  cara  offerta;  non  si  può  chiedere  a  Michele  Obé- 
dénare,  uomo  quanto  mai  stimabile,  come  per  altre  doti,  così  per 
l'amore  intenso  che  in  mezzo  alle  cure  diplomatiche  portava  agli  studi. 

Questa  nostra  Miscellanea,  potuta  pubblicarsi  grazie  al  disinteresse 
della  Società  Editrice  «  Successori  Le  Mounier  »,  è  riuscita  ricca  e  sva- 
riata, tanto  da  potersi  ben  dire  efficacissimo  testimonio  della  comu- 
nanza di  sentimenti  che  la  scienza  produce.  E  ancor  più  ricca  e  svariata 
sarebbe  riuscita  se  ostacoli  di  varia  natura  non  avessero  congiurato  a 
toglierle  vari  contributi. 

Carlo  Joret,  Wendelin  Foerster,  Enrico  Morf,  Paolo  Gellrich,  Fe- 
lice Bariola,  ed  altri  ancora,  non  appajono  nel  volume  per  cause  indi- 
pendenti dalla  loro  volontà. 

A  tutti  quanti  —  cosi  a  coloro  che  hanno  contribuito  come  a  quelli 
che  avrebl)er  voluto  e  non  poterono  —  siano  rese  grazie  di  cuore.  E 
grazie  particolarmente  agii  stranieri,  anche  a  nome,  se  non  è  troppo 
arrogarsi,  dell'  Italia  nostra,  cui  questo  largo  rimpianto  è  cagione  di 
conforto,  d'orgoglio,  e  di  fiducia  per  l'avvenire. 


NAPOLEONE  CAIX 


UGO  ANGELO  CANELLO. 


NAPOLEONE   CAIX/ 


La  morte  immatura  di  questo  giovane  filologo  fu  una  grave  perdita  per  la 
scienza  italiana,  una  sventura  irreparabile  per  gli  amici  che  conobbero  le  nobili 
qualità  dell'  animo  suo. 

Nato  a  Bozzolo,  provincia  di  Mantova,  il  17  agosto  1845,  fece  i  suoi  studii  secon- 
darli a  Cremona,  dove  insegnava  fra  gli  altri  il  professore  Trezza,  e  dimostrò  subito 
un  ardore  indomabile  nel  lavoro,  una  singolare  attitudine  alla  conoscenza  delle 
lingue.  Nel  1859  abbandonò  la  casa  paterna,  per  arruolarsi  volontario  nell'  esercito 
italiano;  ma  per  la  giovane  età  e  la  troppo  gracile  salute,  dopo  una  visita  medica, 
non  fu  accolto.  Dovè  quindi  tornarsene  a  casa  assai  sconfortato ,  non  solo  perchè 
gli  veniva  cosi  vietato  di  dar,  come  voleva,  il  suo  sangue  alla  patria;  ma  perchè 
questo  rifiuto  era  un  triste  presagio  a  lui,  che  aveva  già  visto  parecchi  della  sua  fa- 
miglia morire  di  tisi.  Una  vita  sempre  temperata  e  metodica,  costumi  sempre  in- 
tegerrimi e  purissimi  lo  fecero  per  molti  anni  vivere  sano,  senza  quasi  mai  amma- 
larsi. La  freschezza  del  suo  colorito  lo  avrebbe  anzi  fatto  credere  di  florida  salute, 
se  gli  occhi  infossati  e  mutabili,  ora  luminosi  e  vivaci,  ora  quasi  vitrei  e  spenti, 
non  avessero  destato  qualche  dubbio  in  chi  lo  avvicinava.  Era  eccessivamente  nervo- 
so: spesso  un  velo  di  mestizia  copriva  il  suo  volto  giovanile;  ma  non  pareva  del  re- 
sto che  alcun  male  lo  travagliasse. 


'  Queste  poche  parole,  salvo  alcune  modificazioni  qiii  necessarie,  furono  scritte  appena  che  giunse  in  Firenze 
l' annunzio  della  morte  immatura  del  prof.  Caix.  Con  animo  grato  accettai  1'  onore  ohe  mi  fu  fatto ,  quando  dal 
Comitato  che  presiede  alla  compilazione  di  questo  volume,  venne  proposto  di  ripubblicarle.  Ma  esso  non  preten- 
dono d'  essere  né  una  biografia  del  prof.  Caix,  né  molto  meno  un  esame  critico  delle  sue  opere,  che  sarà  qui  fatto 
da  un  professore  di  lingue  e  letterature  neo-latine.  Sono  la  espressione  del  dolore  che  colpì  allora  gli  amici,  una 
brevissima  commemorazione  scritta  da  chi  si  sentiva  allora  e  si  sente  adesso,  ijer  la  grave  perdita,  come  moral- 
mente mutilato.  Col  Caix  rimaneva  sepolta  una  parte  di  me  stesso.  La  sua  immagine  mi  ricorda  solo  una  lunga 
serie  Cd  fidati  colloqui!  e  d'  ore  felici,  che  non  torneranno  mai  iiiù.  Non  potrei  quindi  esser  né  un  biografo  né 
un  critico. 


Tornò  a  scuola  con  raddoppiato  ardore,  e  dopo  aver  compiuto  gli  sludii  liceali 
con  grandissima  lode,  venne  in  Pisa  per  concorrere  ad  un  posto  di  studio  nella 
Scuola  Normale  Superiore,  1'  anno  1862.  Fu  primo  tra  molli  valorosi  concorrenti. 
Fece  assai  buona  prova  nel  greco  e  nel  latino;  già  leggeva  libri  inglesi  e  tedeschi. 
Nella  Università,  dove  io  lo  ebbi  discepolo,  dimostrò  singolare  attitudine  ad  ogni 
disciplina  letteraria  o  filosofica;  ma  la  sua  passione  era  per  le  lingue,  che  appren- 
deva con  una  facilità  maravigliosa.  Continuò  lo  studio  del  greco,  del  latino,  del- 
l'italiano;  cominciò  ad  imparare  il  sanscrito,  l'arabo,  l'ebraico,  a  studiare  i 
monumenti  delle  antiche  lingue  italiche:  la  sera  si  esercitava  a  parlare  il  greco 
moderno  con  alcuni  studenti  delle  Isole  Ionie,  che  erano  colà.  Pareva  singolare 
che  in  cosi  giovane  età  non  avesse  altra  passione  che  lo  studio,  e  nella  vita  non 
conoscesse  altra  gioia  che  il  lavoro.  Di  questo  i  suoi  compagni  spesso  lo  canzona- 
vano, ed  egli  ne  rideva  ingenuamente. 

Ciò  che  dette  nel  giovane  Caix  la  prova  di  un  ingegno  assai  fuori  del  comune, 
fu  la  sua  tèsi  di  abilitazione  all'insegnamento,  presentata  nel  luglio  4865.  Educato 
alla  scuola  del  D' Ancona,  del  Comparetti,  del  Lasinio,  egli  scelse  a  tèma  del  suo  la- 
voro r  origine  della  lingua  italiana,  e  subito  dichiarò  che  a  questo  studio  avrebbe 
consacrato  la  sua  vita  intera.  Nominato  più  tardi  professore  di  greco  e  latino  nel  Liceo 
di  Parma,  la  tèsi  divenne  un  libro  sulla  Storia  della  Lingua  e  dei  Dialetti  d' Italia.  Il 
libro  non  fu  senza  difetti,  come  il  Caix  stesso  riconosceva  per  primo.  Pure  fu  notevole 
assai  che  sin  d'  allora  egli  vedesse  la  necessità  d' uno  studio  metodico  sulla  storia 
della  lingua  e  dei  dialetti  italiani,  per  rintracciare  le  origini  vere  della  nostra  poesia, 
e  fare  una  storia  nuova  della  nostra  letteratura.  Cosi  egli  fu  dei  primissimi  a  far 
parte  della  nuova  scuola  di  filologia  romanza  e  di  critica  letteraria,  come  fu  certo  il 
primo  che  ricercasse  con  metodo  scientifico  la  diversità  dei  varii  idiomi  toscani.  I 
pregi  del  suo  libro,  non  ostante  i  difetti,  riuscirono  perciò  tali,  che  i  professori 
deli'  Istituto  di  Studii  Superiori  in  Firenze  proposero  che  il  giovane  autore  venisse 
incaricato  dell'  insegnamento  della  dialettologia  italiana,  cattedra  che  venne  poi 
mutata  in  quella  di  lingue  romanze.  Fu  pel  Caix  un  grande  ed  inaspettato  incorag- 
giamento, ed  allora  incominciò  davvero  la  sua  operosità  scientifica. 

Di  questi  incoraggiamenti,  che  gli  dettero  e  gli  continuarono  sempre  i  col- 
leghi dell'  Istituto,  egh  aveva  proprio  bisogno.  Al  suo  cammino  nella  vita  c'era  in- 
fatti un  ostacolo  continuo,  piccolo  in  apparenza,  ma  in  realtà  grandissimo.  La  pas- 
sione dello  studio  lo  faceva  vivere  come  fuori  del  mondo,  quasi  in  una  continua 
astrazione;  ed  aveva  contratto  un  abito  singolare  di  esprimere  il  suo  giudizio  sugli 
uomini  e  sulle  cose  in  un  modo  assoluto,  come  se  si  trattasse  solo  e  sempre  di 
problemi  scientifici,  senza  tener  conto  alcuno  dell'effetto  che  le  sue  parole  pro- 
ducevano su  chi  le  ascollava.  Spesso  anche,  per  ridurre  a  formolo  scientifiche  il 
suo  pensiero ,  esagerava  nel  conversare  al  di  là  della  sua  intenzione.  A  chi  poco 


lo  conosceva,  sombrava  perciò  superbo,  anche  velenoso.  Ma  chi  poi  lo  avvicinava, 
doveva  subilo  accorgersi  che  in  lui  non  entrò  mai  goccia  di  fiele;  che  egli  poteva 
ingannarsi  o  esagerare  nell'  esprimersi;  ma  non  conosceva  nò  rancori,  né  gelosie, 
né  orgoglio.  Era  un  animo  nobilmente  devoto  al  culto  del  vero,  incapace  d'  alcuna 
bassezza,  d'alcuna  finzione.  La  stessa  sincera  onestà  che  poneva  nelle  sue  ricerche 
scientifiche,  guidava  la  sua  condotta  nella  vita.  E  la  prova  di  ciò  si  ha  nel  fatto,  che 
alcuni  di  coloro  che  più  s'  erano  irritati  contro  di  lui  alle  prime  apparenze,  furono 
poi  tra  quelli  che  più  lo  amarono,  quando  lo  conobbero  davvero.  Avvertilo  qualche 
volta  da' suoi  amici  della  durezza  delle  sue  parole,  egli  prima  rispondeva  improv- 
viso: —  Ma  è  vero  o  non  è  vero?  —  Poi  s'  affliggeva  d'  aver  recalo  dolore  a  qual- 
cuno, e  se  ne  affliggeva  tanto  e  cosi  lungamente,  che  faceva  passare  la  voglia  di 
ripetere  r  avvertimento.  Ma  tutto  questo,  massime  in  un  paese  cosi  pieno  di  ran- 
cori come  il  nostro,  gli  fece  grandissimo  danno.  E  continuamente  dovè  vedere  in- 
coraggiati, promossi  giovani  che  valevano  assai  meno  di  lui.  Non  fu  mai  geloso  di 
chi  aveva  un  vero  merito;  ma  spesso  ripeteva:  —  Non  so  perchè  anche  a  me 
non  si  possa  rendere  giustizia.  —  A  chi  gli  suggeriva  di  ricorrere  a  raccomandazioni 
d'  uomini  poUiici,  rispondeva:  —  Meglio  restar  come  sono.  —  Assolutamente  inca- 
pace di  farsi  strada  per  vie  traverse,  seppelliva  i  suoi  tristi  pensieri  sotto  uno 
studio  raddoppiato,  che  gli  recava  poi  danno  alla  salute. 

La  sua  venuta  in  Firenze,  sebbene  come  semphce  incaricato  della  cattedra, 
lo  aveva  tuttavia  messo  in  condizione  da  poter  lavorare  più  tranquillamente,  ed  in 
diversi  anni  die  fuori  una  serie  non  interrotta  di  Memorie  letterarie  o  filologiche 
sulla  storia  della  lingua  e  della  letteratura  italiana.  Sostenne  per  le  stampe  dispute 
vivaci,  nelle  quali  si  lasciò  qualche  volta  trascinare  ad  esagerare  un  po' troppo 
le  sue  idee.  Ma  il  prof.  F.  d'  Ovidio,  che  fu  uno  dei  suoi  più  acuti  edotti  contrad- 
dittori, con  vera  nobillà  d'animo  scriveva,  che  anche  allora  le  idee  del  Caix 
erano  «  come  un  lievito  per  le  idee  altrui,  o  come  un  reagente,  che  corrodeva  la 
parte  viziala  di  queste.  La  discordia  di  lui  era  feconda.  L'  opera  di  lui  era  utilis- 
sima anche  quando  pel  momento  ci  frastornava.  Negli  studii  della  filologia  italiana 
resterà  per  molli  anni  fra  noi  l'eco  del  suo  lavoro.  » 

Tutte  queste  ricerche  dimostravano  la  vastità  delle  sue  cognizioni  filologiche, 
l'acume  delle  sue  indagini,  e  gU  guadagnarono  ben  presto  la  stima  dei  dotti  ita- 
liani e  stranieri,  specialmente  dei  tedeschi,  che  parlavano  e  scrivevano  di  lui  con 
gran  lode.  Esse  erano  però  solo  apparecchio  ad  opere  di  maggior  mole,  che  da  lungo 
tempo  il  Caix  meditava.  Un  primo  saggio  se  ne  vide  ne'  suoi  Studi  di  etimologia 
italiana  e  romanza,  in  aggiunta  al  vocabolario  del  Diez  (Firenze,  4878),  che 
ebbero  molte  lodi,  non  però  senza  critiche.  Ma  il  prof,  d'  Ovidio,  pure  insistendo 
su  queste  critiche,  diceva  che  il  nuovo  lavoro  del  Caix  era  un  complemento  neces- 
sario al  gran  lessico  del  Diez ,  e  che  quasi  in  ogni  pagina  vi  si  trovava  qualche 


ingegnoso  trovato  o  qualche  nuova  notizia.  Il  Caix,  sempre  studiando,  sempre  mi- 
gliorando, proseguiva  instancabile  queste  sue  ricerche,  con  l'intendimento  di  com- 
pilare un  dizionario  etimologico  della  lingua  italiana.  Ma  1'  opera  di  magggior  mole 
che  potè  dare  alla  luce,  fu  quella  che  ha  per  titolo:  Delle  origini  della  lingua  poe- 
tica italiana  (1880).  Alla  vasta  raccolta  di  materiale  linguistico  in  essa  raccolto  e 
metodicamente  esaminalo,  doveva  essere  aggiunta  una  dissertazione  generale,  che 
non  potè  essere  scritta,  perchè  stringeva  il  tempo  prefisso  ad  un  concorso,  cui 
r  autore  voleva  presentarsi.  Con  un  lungo  studio  dei  dialetti,  con  un  esame  ac- 
curato dei  manoscritti  antichi,  egli  cercava  determinare  le  origini  e  l'indole  del  nostro 
linguaggio  poetico,  spiegare  le  ragioni  della  sua  diversità  dal  linguaggio  adoperato 
nella  prosa.  Io  mi  asterrò  dal  dare  qualunque  giudizio  sopra  uno  scritto,  del  quale, 
come  di  lutti  gli  altri,  sarà  nelle  pagine  che  seguono  determinalo  il  valore  scien- 
tifico. Dirò  solo  che,  se  la  novità  e  l'audacia  qualche  volta  eccessiva  delle  ricerche, 
qui  come  in  altri  lavori,  spinse  il  Caix  ad  affrontar  difficoltà  non  lutle  felice- 
mente superale,  egli  fece  concapire  di  sé  speranze  sempre  maggiori.  L'illu- 
stre prof.  Ascoli,  nell'Accademia  dei  Lincei,  non  tralasciando  di  .notare  i  di- 
fetti, fece  pure  amplissime  lodi  al  nuovo  scritto,  che  dichiarò  di  gran  lunga  il 
migliore  di  quanti  ne  aveva  fino  allora  pubblicali  il  giovane  e  già  chiaro  filologo.  Il 
premio  fondato  da  S.  M.  il  Re  Umberto  fu  vinto  dal  prof.  Rajna;  ma  il  Caix  ot- 
tenne r  Accessit  e  potè  esser  lieto  d'  avere  già  preso  un  posto  eminente  fra  i 
filologi  italiani.  Spronato  sempre  dallo  stesso  ardore,  si  pose  subilo  con  maggior 
zelo  ad  altri  lavori. 

Dopo  un  viaggio  nella  Rumenia,  egli  intraprese  a  Firenze  una  nuova  opera 
sulle  lingue  dei  popoli  balcanici  e  sulle  relazioni  che  esse  hanno  con  l' italiano. 
Quest'  opera,  almeno  in  parte  compiuta,  avrebbe  dovuto  trovarsi  fra  i  suoi  mano- 
scritti, insieme  col  materiale  raccolto  pel  Dizionario  etimologico;  ma  tutte  le  ri- 
cerche fatte  per  rinvenirla  riuscirono  vane.  Ad  essa  egli  aveva  di  certo  lavorato  la 
state  del  1881,  senza  posa,  con  uno  zelo  cosi  febbrile,  che  gli  amici  cominciarono 
a  temere  della  sua  salute. 

L'  ultimo  lavoro  che  ci  resti  di  lui  è  una  conferenza  letta  nel  Circolo  filolo- 
gico di  Firenze,  e  pubblicata  nella  Nuova  Antologia  (Aprile  1882).  Fece  allora  la 
storia  e  la  critica  del  Tartufo  del  Molière,  esaminando  i  precursori  del  grande 
comico  francese  e  le  fonti  del  suo  capolavoro.  Conchiudeva  con  un  paragone  fra 
Y Ipocrita  dell'Aretino  ed  il  Tartufo,  dicendo:  «  Qui  meglio  che  altrove  si  ri- 
vela la  distanza  tra  il  poeta  cinico,  a  cui  è  indifferente  la  qualità  morale  del  suo 
eroe,  pur  che  esso  serva  al  suo  scopo  di  for  divertire,  ed  il  poeta  che  ha  in  vista 
il  tempo  e  la  società  in  cui  vive,  che  si  appassiona  per  il  vero  e  per  la  giustizia, 
e  prende  viva  parte  alla  lotta  dei  pochi  onesti  e  ben  pensanti  contro  le  arti  della 
menzogna.  »  Queste  si  può  dir  che  siano  le  ultime  parole  scritte  dal  Caix,  quasi  il 


suo  leslamento;  ed  esse  ritraggono  al  vivo  il  suo  nobile  animo.  La  ricerca  del  vero 
era  per  lui  come  una  lotta  pel  trionfo  della  virtù.  Nò  alcuno  potrà  mai  descri- 
vere tutta  la  squisita  delicatezza  del  suo  sentire. 

Allora  il  Caix  era  stato  dai  suoi  colleglli  proposto  professore  ordinario.  Una 
serie  di  ritardi  imprevisti,  nei  quali  egli  vedeva  la  solita  avversità  della  sua  sorte, 
lo  afflissero  amaramente,  ed  al  solito  cercava  unico  sollievo  nel  lavoro  raddop- 
piato. Finalmente  la  Commissione  che  esaminò  i  suoi  titoli,  lo  propose  con  parole 
lusinghiere,  e  venne  il  decreto  di  nomina. 

Ma  il  suo  aspetto  intanto  diveniva  ogni  giorno  più  triste.  Assai  spesso  nell'inverno 
del  1882,  io  lo  vidi  verso  le  4  pom.  entrare  nel  mio  studio,  come  umiliato  per  non 
avere  potuto  protrarre  il  lavoro  fino  a  sera.  —  Vogliamo  fare  una  passeggiala?  —  egli 
diceva,  —  non  ho  più  la  forza  d'  una  volta.  —  E  si  andava.  Finalmente  lo  indussi  a 
consultare  un  medico,  che  gli  consigliò  una  cura  idropatica.  La  fece  nella  state, 
alla  Vena  d'  Oro  presso  Belluno,  e  gli  pareva  di  star  meglio.  Parti  poi  per  Vienna, 
l'Ungheria  e  la  Russia,  al  solito  con  uno  scopo  scientifico;  ma  giunto  a  Buda- 
Pesi,  non  si  semi  voglia  di  continuare:  gli  pareva  di  non  star  bene,  e  tornò  im- 
provvisamente a  casa.  Il  viaggio  fu  lungo  e  faticoso,  perchè  dovette  traversare  i 
paesi  inondati  del  Veneto;  arrivò  stanco  ed  abbattuto  a  Bozzolo;  ma  nulla  accen- 
nava ad  una  vicina  catastrofe.  Parve  anzi  riaversi  e  star  bene,  quando  cominciò 
inaspettatamente  a  sputar  sangue,  e  poi  lo  assali  una  febbre  violenta,  che  in  una 
settimana  lo  condusse  alla  tomba,  il  giorno  22  ottobre  1882,  in  età  di  37  anni. 
Non  aveva  ancora  dato  una  sola  lezione  come  professore  ordinario. 

Quando  per  la  prima  volta  la  sorte  sempre  avversa  gli  sorrideva,  quando  il 
suo  nome  era  già  divenuto  chiarissimo,  e  i  nuovi  lavori  che  aveva  apparecchiati 
gli  facevano  sperare  una  gloria  maggiore,  fu  immaturamente  rapito  ai  parenti, 
agli  amici  ed  alla  scienza.  Egli  combattè  tutta  la  vita  1'  onesta  battaglia  perla  con- 
quista del  vero,  e  cadde  come  un  prode  soldato  della  scienza.  I  suoi  costumi  fu- 
rono purissimi,  nobile  il  suo  animo,  elevalo  il  suo  carattere.  Il  suo  sguardo  era 
sempre  rivolto  alla  contemplazione  del  vero.  Pareva  che  le  cose  di  questo  basso  e 
torbido  mondo  assai  poco  1'  occupassero.  Perchè  le  parole  sono  impotenti  ad  espri- 
mere quello  che  si  sente,  tanto  più  impotenti  quanto  più  profondo  è  il  dolore  che 
ci  opprime? 

P.   VlLLARI. 


—  XIV  — 


GLI    SCRITTI. 


La  prima  volta  il  nome  del  Caix  si  mostrò  al  pubblico  letterato  nella  neonata 
Rivista  Bolognese  (febbraio  1867),  appiè  di  uno  scritto  SuW  origine  della  lingua 
italiana  e  sopra  la  dissertazione  di  Cesare  Canta  premiata  dall'  Accademia  Pon- 
taniana  (pag.  157-173).  Far  sentire  una  voce  meritamente  severa  intorno  a 
questa  dissertazione,  è  manifestamente  lo  scopo  dell'  articolo.  L'  autore  tuttavia 
non  ci  viene  che  all'ultimo,  dopo  essersi  trattenuto  lungamente  a  discorrere 
dello  stato  della  questione,  dando  prova  di  sodo  intelletto,  e  mostrando  di  aver 
familiare,  cosi  la  letteratura  speciale  dell'argomento,  come  la  letteratura  linguistica 
in  genere.  C'è,  se  si  vuole,  un  certo  sfoggio  in  quelle  pagine:  sfoggio  peraltro  non 
vano,  e  promettente  assai. 

Alcuni  mesi  dopo  il  Caix  discorreva  nel  Politecnico  (giugno  1867,  Parte  letter.- 
scientif.,  Serie  IV,  tora.  Ili,  pag.  661-67)  del  Cohelet,  a  proposito  della  traduzione, 
con  introduzione  e  note,  pubblicala  1' anno  innanzi  da  David  Castelli.  Appariva 
anche  in  questo  scritterello  elevatezza  di  pensiero  ed  ampiezza  di  coltura.  Se  il 
Caix  parlava  di  un  libro  ebraico,  quel  libro  egli  sapeva  leggerlo  nel  testo,  non  già 
nella  versione  soltanto.  Che  egli  non  conosceva  la  ciarlataneria  che  permette  di 
scriver  di  materie  in  cui  non  si  sia  addottrinati. 

L'  articolo  sul  Cohelet  era  un  portato  di  quella  fase  nello  svolgimento  del- 
l'ingegno  del  Caix,  che  potrebbe  dirsi  la  sua  «  Sturmperiode  »:  la  fase  in  cui 
dentro  all'  immenso  edificio  della  Filologia  e  della  Linguistica  egli  s'  andava  af- 
facciando con  curiosità  insaziabile  a  molte  e  molte  porte,  mai  non  contentandosi 
di  rimaner  sul  limitare.  Né  paga  ancora,  la  sua  mente,  assetata  di  idee  non  meno 
che  di  fatti,  correva  spesso  ad  abbeverarsi  di  sludi  filosofici. 

Queste  simpatie  speculative  associale  alla  svariatezza  del  sapere  si  sarebbe 
pensato  che  dovessero  portare  il  Caix  a  rivolgere  la  sua  attività  ad  argomenti 
quanto  mai  vasti.  Ma  in  lui,  insieme  col  desiderio  di  saper  molte  cose,  era  vivis- 
simo il  bisogno  del  saper  bene  e  dell'approfondire;  bastò  pertanto  l'essergli  ac- 


caduto  di  buon'ora  di  rivolgere  l'attenzione  ad  un  soggcllo  speciale  di  ricerca, 
perchè  il  viaggiatore  instancabile  si  convertisse  nel  più  pertinace  dei  minatori. 

Il  sog,"etlo,  come  già  s'è  udito  da  altra  bocca,  consisteva  nella  storia  della 
lingua  italiana;  ed  è  per  ciò  che  nella  questione  delle  origini  dì  questa  nostra  lin- 
gua il  Caix  aveva  osato  parlar  alto  contro  un  uomo  della  fama  e  dell'ingegno  di 
Cesare  Cantù.  Chi  scriveva  a  quel  modo  slava  allora  appunto  tormentando  la  sua 
lesi  di  abilitazione  per  ridurla  nella  forma  in  cui  vide  in  parte  la  luce  più  anni  dopo. 
S'  ebbe  cosi  nel  1872  il  Saggio  sulla  Storia  della  Lingua  e  dei  Dialetti  d' Italia, 
con  un  Introduzione  so-pra  l'  origine  delle  Lingue  neolatine  (Parma,  a  spese  del- 
l' autore). 

La  giudiziosa  e  lucida  Introduzione  fu  poi  lodata  dall'  Ascoli  {Arch.  GlottoL, 
II,  412).  Quanto  al  Saggio  vero  e  proprio,  era  una  prova  luminosa  d'ingegno,  di 
attitudini,  di  sludi;  conteneva  pagine  veramente  belle  di  considerazioni  compren- 
sive e  un  numero  non  piccolo  di  verità  spicciole  acutamente  trovate  e  osservale; 
per  il  primo  poi  il  Caix  concepiva  il  soggetto  con  tanta  larghezza,  abbracciando  in- 
sieme e  la  lingua  lelteraria,  e  i  dialetti  della  Toscana,  e  quelli  dell'  Italia  intera, 
col  proposilo  di  studiarne  e  chiarirne  i  rapporti.  In  pari  tempo  tuttavia  il  Saggio 
rivelava  un  fallo  deplorevole,  del  quale  il  Caix  sopportava  le  conseguenze  senza  che 
in  gran  parte  fosse  sua  la  colpa.  Si  rammentino  le  condizioni  poco  felici  in  cui  si 
trovavano  veni'  anni  fa  gli  studi  romanologici,  qui  da  noi  soprattutto.  Mancavano 
pressoché  dovunque  i  maestri ,  e  i  metodi  rigorosamente  scientifici  non  s'  erano 
ancora  divulgati.  L'esempio  e  l'impulso  potente  dell'Ascoli  non  avevano  ancor  co- 
minciato ad  agire  sui  lontani.  Il  Caix  s'  era  pertanto  messo  al  lavoro  senza  criteri 
ben  sicuri,  e  senza  neppure  la  coscienza  che  questi  criteri  gli  mancassero.  Non  so- 
spettava nemmeno  che  a  chi  aveva  tra  le  mani  le  opere  del  Diez,  del  Bopp,  del  Poti, 
di  Leone  Meyer,  e  su  quelle  aveva  vegliato  e  sudalo,  discepolo  devoto  e  singolar- 
mente perspicace,  potesse  nondimeno  accadere,  non  propriamente  di  sbagliar  di- 
rezione, ma  di  procedere  alquanto  a  sghimbescio,  per  altra  via  che  per  la  diritta. 
Sicché  accadde  un  poco  al  Caix  quel  che  suole  accadere  a  coloro,  che,  avendo  pur 
sortito  da  natura  disposizioni  mirabih  per  la  musica,  imparano  a  sonare  da  se  me- 
desimi. Ben  difficile  che  non  contraggan  difetti,  da  cui  non  si  libereranno  forse 
mai  più.  Nel  Caix  il  vizio  principale  consistette  nell'  attribuire  una  funzione  ecces- 
siva all'  etimologia,  e  nell'  abbandonarsi  alla  soluzione  dei  problemi  etimologici 
senza  il  freno  di  una  rigorosa  disciplina  fonetica.  Non  s'accorse  che  a  questo  modo 
dallo  sladio  del  Diez  e  dei  continuatori  suoi  si  lasciava  in  certo  modo  risospingere 
verso  quello  del  Muratori.  Cosi  per  una  parte  gli  riuscì  poi  difficile  di  coglier  nel 
loro  insieme  i  caratteri  distintivi  di  un  linguaggio  e  delle  sue  varietà;  per  un'altra 
gU  avvenne  di  convincersi  —  e  in  lui  le  convinzioni  mettevan  subito  radici  pro- 
fonde —  di  molte  derivazioni  fallaci,  le  quali,  oltre  al  costituire  altrettanti  errori 


isolali,  diventavano  esempio  e  prova  di  trapassi  di  suoni  tutt' altro  che  dimostrati 
e  legittimi,  servendo  così  di  punto  di  partenza  a  nuovi  traviamenti. 

Ed  anche  un'  altra  pecca  non  può  esser  taciuta.  Allorché  il  Gaix  componeva 
il  Saggio,  ancora  non  s'  era  reso  ben  familiare  il  metodo  storico  in  genere.  Da 
ciò,  se  non  erro,  l'aver  adottato  una  disposizione,  di  cui  non  si  capisce  bene  il 
congegno,  e  non  conforme  di  certo  alle  esigenze  dell'  argomento.  Da  una  disposi- 
zione non  buona  si  origina  sempre  una  proporzione  viziosa  ancor  essa;  e  quel 
eh' è  peggio,  ne  soffre  assai  il  rigore  logico,  sicché,  o  non  si  conchiude,  o  si  con- 
chiude in  modo  non  vero,  o  dicendo  pur  cose  vere  ci  si  trova  non  le  aver  di- 
mostrate. 

Difettosa  quanto  si  vuole,  1'  opera  del  giovane  linguista  conteneva  nondimeno 
tanto  di  buono,  che  la  continuazione  non  poteva  non  essere  assai  desiderata.  Ma  se 
la  desideravano  gli  altri,  il  Gaix,  sempre  meno  contento  del  lavoro  suo,  non  si  deci- 
deva a  darla  fuori;  e  cosi,  condusse  bensì  innanzi  la  stampa  per  un  buon  tratto 
ancora,  '  ma  poi  finì  per  lasciarla  in  tronco.  Si  fosse  deciso  a  compiere  il  lavoro, 
non  se  lo  sarebbe  più  lasciato  uscir  di  mano  altro  che  in  forma  ben  rimutata;  e 
allora  ne  sarebbe  andata  di  mezzo  1'  armonia  colla  parte  pubblicata  di  già.  Prima 
ancora  che  1'  Ascoli  le  pronunziasse,  egli  aveva  sentito  la  verità  di  quelle  sue  pa- 
role, che  «  le  esigenze  di  codesta  armonia  »  gli  si  dovevano  poi  rendere  «  per  sua 
fortuna  addirittura  moleste  »  nel  «  dettare  il  compimento  del  volume  »  {Arch. 
Glottol,  loc.  cit.). 

Nel  periodo  fiorentino,  il  primo  fatto  che  sia  a  notare  del  Gaix  è  la  feconda 
discussione  impegnatasi  tra  lui  e  lo  Storm  a  proposito  della  memoria  del  filologo 
norvego  «  Sur  les  Voyelles  atones  du  latin,  des  dialecles  italiques  et  de  l'italien  » 
[Mémoires  de  la  Società  de  Linguistique ,  tom.  II,  Parigi,  1873).  Il  Gaix  pubblicò 
neir  effimero  Ateneo  (tom.  I,  pag.  358-65, 15  maggio  1874)  una  recensione,  dove 
rimproverava  all'  autore  di  aver  trascurato  «  le  due  cause  che  in  italiano  determi- 
nano molto  spesso  di  per  sé  sole  le  modificazioni  della  vocale  «:  le  consonanti  in 
contatto,  e  il  posto  occupato  nel  corpo  della  parola.  Ne  nacque  una  polemica,  al- 
quanto aspra  sulle  prime,  ma  che  prese  poi  subito  il  tuono  di  una  pura  e  serena 
discussione  scientifica.  '  Si  venne  a  precisare  in  che  propriamente  consistesse  il 
dissenso:  lo  Storm  voleva  che  l'attuale  vocalismo  toscano  rappresentasse  un  ri- 
torno al  vocalismo  del  latino  classico,  seguilo  ad  un  periodo  in  cui   il  vocalismo 


'  Furono  tirati  perlomeno  sei  fogli  (pag.  161-25G),  tli  cui  bo  davanti  lan  esemplare  trovato  tra  le  carte  del 
Caix.  Contengono  il  termino  del  capitolo  5»;  un  capitolo  0'  (pag.  190),  che  è  come  una  seconda  parte  del  5»  e  che 
tratta  delle  <  Relazioni  fonetiche  >  tra  il  dialetto  .  toscano  e  gli  altri  dialetti  d' Italia  »,  e  per  ultimo  un  capitolo  T" 
(pag.  212),  mancante  della  fine,  intitolato  <  I  dialetti  toscani  e  la  favella  letteraria  ». 

'•  Nella  Mivista  Europea:  Storm,  anno  5',  t.  Ili,  pag.  592-596  (agosto,  1871);  Caix,  ib.,  pag.  598-599  ;  —  Storm, 
anno  6»,  1. 1,  pag.  178-1S2  (dicembre,  1S74);  Cai.x,  t.  cit.,  pag.  535-593  (febbraio,  1675). 


fosse  invece  quello  del  Ialino  arcaico  e  volgare,  che  gli  pareva  essersi  perpetualo 
senza  vicende  nei  dialetti  dell'  Alta  Italia;  il  Caix  invece  contesta  il  ritorno,  e  ri- 
pete immediatamente  dal  vocalismo  classico  il  vocalismo  toscano,  e  segnatamente 
il  fiorentino.  Una  Seconda  risposta  al  fdologo  scandinavo, dopo  aver  visto  la  luce  nella 
Rivista  Europea,  fu,  con  molti  ritocchi,  tirata  anche  à  parte  in  forma  di  opuscolo, 
ricevendo  il  titolo  di  Osservazioni  sul  Vocalismo  italiano  (Firenze,  1875):  osserva- 
zioni appoggiale  in  questo  caso  a  uno  studio  fonetico  assai  accurato,  e  atte  anche 
da  sole  a  mostrare  come  gli  errori  di  metodo  ripetessero  proprio  nel  Caix  la  loro 
origine  principalissima  da  abili  viziosi  e  da  difetto  di  istituzione,  non  dalla  natura 
dell'  ingegno  suo.  Bensì  è  da  ammettere  che  contribuisse  mollo  a  perpetuarli  la 
tenacia  del  carattere. 

Non  si  veniva  smentendo  frattanto  la  predilezione  del  Caix  per  l'indagine  eti- 
mologica; Studi  Etimologici  egli  cominciò  a  stampare  nel  già  ricordato  Ateneo 
(tom.  II,  pag.  14-20  e  264-268:  15  luglio  e  15  ottobre  1874),  continuandoli  piti 
tardi,  prima  nella  Rivista,  e  poi  nel  Giornale  di  Filologia  Romanza  {Riv.,  II, 
112-113,  173-176,  228-231;  Giorn.,  I,  48-50;  II,  pag.  71).  A  questa  medesima 
classe  di  lavori  appartengono  vari  altri  articoH:  una  recensione  del  Beitrag  fiìr 
Kundc  der  Norditalienischen  Mundartenim  XV.  Jahrhunderte  del  Mussafia  [Rivi- 
sta, II,  54-59);'  uno  scritto  intitolato  assai  impropriamente  SuW  Etimologia 
spagnuola  [Giornale,  II,  66-70),  che  è  una  serie  di  osservazioni  agli  Studien  zur 
Tornanischen  Wortscliopfung  della  Michaelis;le  'pagine  Sul  pronome  italiano  (ib.,  I, 
43-47);  inoltre.  Voci  nate  dalla  fusione  di  due  temi  [Zeitschrift  fiir  romanische 
Philologie,  I,  421-28),  dove  si  tratta  per  disteso  di  uno  dei  procedimenti  studiali 
in  una  dissertazioncina  che  ancor  essa  appartiene  qui  più  che  non  farebbe  sup- 
porre r  intitolazione,  Le  alterazioni  generali  nella  lingua  italiana  [Riv.  di  FU. 
rom.,  II,  71-81). 

Tutti  questi  scritti,  a  quel  modo  che  essi  medesimi  eran  come  sgorgati  dal 
Saggio  —  sia  da  quel  tanto  che  se  n'era  pubblicato,  sia  dalla  porzione  rimasta 
inedita  — rimaneggiati,  andarono  a  confluire  nel  volumetto  degli  Studi  di  Etimo- 
logia italiana  e  romanza  (Firenze,  Sansoni,  1878;  pag.  xxxv  e  213),  che  riesce 
davvero  allo  scopo  propostosi  dall'autore,  di  correggere  in  certe  parti,  di  accre- 
scere in  altre  il  Dizionario  Etimologico  del  Diez;"  e  lo  accresce  e  corregge  in  mi- 


'  Noterò  a  questo  iiroposito  ohe  è  manifestamente  del  Caix  anche  vina  breve  rassegna  firmata  C  intorno  al 
Zur  Eatliarinenlcgende  del  Mussafia  medesimo  nel  Gazzettino  bibliografico  della  Rivista  Europea,  anno  5",  t.  IV, 
pag.  178-179  (settembre  ,  1474).  E  la  Rivista  Europea  ebbe  da  hxi  altri  artiooletti  consimili,  non  difficili  a  riconoscere. 
Così  ne  ho  dinanzi  imo  {anno  6',  1. 1,  pag.  183-184  —  dicembre,  1871),  in  cui  si  rende  conto  dei  Precursori  di  Dante 
del  D'Ancona. 

■  Questo  doppio  intendimento  avevano  già  avuto  gli  Studi  cominciati  a  stampare  nell'Ateneo.  V.  le  parole 
d'introduzione  che  stanno  loro  in  fronte.  Ed  io  rammento  bene  come  fino  dal  1866,  ossia  fin  dall'  anno  successivo 
alla  laurea,  il  Caix  rivolgesse  in  Pisa  una  parte  della  sua  alacrità  a  tempestar  di  postille  xm  esemplare  del- 
l' opera  dieziana. 


sura  maggiore  forse  che  ancora  non  sia  seguilo  d'un  iratlo  per  opera  di  nessun  altro 
singolo  lavoratore.  Certo  le  spiegazioni  inaccettabili,  e  quelle  mollo  problematiche 
eppur  messe  innanzi  con  sicurezza,  vi  son  sempre  troppo  numerose;  riesce  strano 
che  anche  attraverso  a  ripetute  stacciature  sia  potuta  rimanere  nella  farina  del  Caix 
della  crusca  parecchia;  '  e  giustamente  fu  osservato  da  un  critico  (perchè  non  no- 
minerò io  il  d'Ovidio  se  anche  il  nome  non  si  legge  appiè  dell'articolo?)''  che  questi 
Stndi  peccano  pur  sempre,  e  per  il  poco  rispetto  alla  fonetica,  e  per  non  esser 
fondati  sopra  comparazioni  abbastanza  estese;  ma  il  critico  notava  altresì  nel  Caix 
degli  Studi  un  progresso  considerevole  di  fronte  a  quello  d'  altri  tempi  ;  e  un  pro- 
gresso ulteriore  non  sarebbe  nemmeno  stato  da  desiderare,  se  l'autore  avesse 
applicato  sempre  i  principii  sanissimi  esposti  e  propugnati  nella  bella  Introduzione. 

Li  avrebbe  applicati  con  maggior  rigore  se  la  sua  operosità  etimologica  avesse 
potuto  avere  quell'ultima  esplicazione  che  era  ne'  suoi  propositi:  se  cioè  gli  fosse 
stato  consentito  di  darci  quel  Vocabolario  Etimologico  italiano,  cui  stava  lavo- 
rando [Introd.,  pag.  xxxi).  Invece,  pur  troppo,  poc' altro  in  questo  genere  si  ebbe 
più  da  lui;  poco,  ma  di  natura  da  accrescere  ancora  il  rammarico  per  il  lavoro 
interrotto;  che  sono  articoli  eccellenti  quelli  su  Trippa  ed  altri  vocaboli  che  il  Caix 
giudica  di  origine  araba  {Rassegna  Settimanale,  tom.  IV,  pag.  108,  2°  sem.,  4879), 
e  Sul  nome  del  Caciocavallo  (ib.,  VII,  30, 1"  sem.,  1881).  '' 

Delle  scritture  enumerale  fin  qui,  alcune,  o  in  lutto  o  in  parte,  riguardano  la 
grammatica  storica  nei  vari  suoi  rami;  tali  sono  le  Osservazioni  sul  Vocalismo, 
il  Pronome,  le  Alterazioni  generali  nella  lingua  italiana.  Altri  contributi  prege- 
volissimi per  la  medesima  disciplina  sono  le  pagine  sull'  Articolo  italiano  {Giorn. 
di  FU.  rom.,  II,  1-9),  che  volevano  essere  prima  parte  di  uno  studio  non  prose- 
guito Sulla  declinazione  romanza,  e  che  mirano  a  confutare  l'idea  del  Groeber,  che 
?7  non  sia  forma  primitiva,  bensì  prodotto  secondario  di  lo;  poi,  la  nota  Sul  per- 
fetto debole  romanzo  (ib.,  I,  229-232),  o  più  esattamente  suU'  origine  di  certe  forme 
di  quel  perfetto  e  particolarmente  dell'uscita  -ò;  infine,  quella  più  ampia  Sull'  in- 
fluenza deir accento  nella  conjugazione  (ib.,  II,  10-18),  e  segnatamente  sulle  ano- 
malie dei  continuatori  di  Manducare  e  Adjutare:  specie  di  complemento  per  la 
parte  italiana  alle  cose  esposte  dal  Foerster,  dal  Cornu,  dal  Meyer,  nella  ZeifscJ/rift 
far  romanische  Philologie  e  nella  lìomania. 


'  Singolare,  per  esempio,  che  per  la  terza  volta  1'  antere  si  ostini  a  stampare  che  nella  frase  angarc  a' cani, 
cani  siano  i  capelli  canuti:  idea  messa  fuori  la  prima  volta  nella  parte  inedita  del  Sai/ifio,  pag.  186;'  una  seconda 
nella  Biv.  di  FU.  rom.,  II,  112:  e  finalmente  ripetuta  negli  Sludi  apag.  95.  Nella  Eivista  le  tien  compagnia  l'altra 
anche  più  strana  che  in  riveder  le  hncce ,  bucce  sia  pulci;  ma  questa  almeno ,  emanata  dal  Satjgio  essa  pui"e  (pag.  235), 
non  è  arrivata,  ch'io  veda,  fino  agli  Sludi;  d'onde  s'argomenta  che  l'autore  si  fosse  indotto  ad  abbandonarla,  o 
almeno  a  dubitarne  fortemente. 

'  lìasser/na  Settimanale,  III,  158,  (1°  semestre  1S79). 

'  Per  amor  di  compiutezza  registrerò  anche  una  noticina  intorno  n  Malato  e  Malattia  (ib.,  111,307;  1'  sen].lS79). 


Ma  il  Caix  non  apparteneva  alla  schiera  numerosa  di  coloro,  che,  tutli  intenti 
all'osservazione  minuta,  non  sanno  o  non  vogliono  levarsi  a  nulla  di  comprensivo. 
Mentre  scrutava  i  fatti  spiccioli,  continuava  a  meditare  sul  problema  generale  della 
storia  della  lingua;  e  la  Nuova  Antologia  del  settembre  e  ottobre  1874  (1-^  serie, 
lem.  XXVII,  pag.  35-60  e  288-309)  ebbe  un'  ampia  esposizione  delle  convin- 
zioni sue  intorno  alla  Formazione  degli  idiomi  letlerarii,  in  ispscie  dell'  italiano. 
Intendimento  del  Caix  era  di  combattere  la  teorica  manzoniana.  Mirava  a  provare 
come  r  italiano,  non  altrimenti  che  le  altre  lingue  colte,  di  cui  si  faceva  a  riassu- 
mer le  vicende,  non  si  fosse  identificato  in  antico,  non  potesse  identificarsi  attual- 
mente, con  uno  speciale  dialetto.  Gli  è,  in  altri  termini,  dei  principii  sostenuti  da 
Dante  nel  De  Vulgari  Eloquentia,  e  più  tardi  dagli  oppositori  della  Crusca,  che 
il  Caix  si  presenta  ardente  e  vigoroso  propugnatore.  Anche  la  storia  secolare  della 
questione,  indispensabile  a  conoscersi  da  chi  voglia  penetrare  bene  addentro  il 
problema,  ebbe  in  lui  un  narratore  diligente  e  sagace;  e  ciò  nel  terzo  volume 
deW  Italia  dell' Ilillebrand,  dove  si  legge  di  suo,  tradotta  in  tedesco,  «  La 
questione  della  lingua  italiana  »,  Die  Streit froge  uber  die  italienische  Sprache 
(pag.  121-154). 

Le  opinioni  del  Caix  avevano  specialmente  radice  negli  studi  eh'  egli  veniva 
facendo  intorno  alla  lingua  dei  nostri  antichi  scrittori,  e  dei  rimatori  soprattutto.  Un 
primo  saggio,  o  meglio  una  prima  applicazione  di  siffatti  suoi  studi,  si  vide  nella 
Rivista  Europea  (anno  VI,  toni.  I,  pag.  72-80:  dicembre  1874),  dove,  in  un 
articolo  intitolato  Di  un  antico  monumento  di  poesia  italiana,  egli  si  adoperò  a 
dimostrare  che  certi  sonetti  pubblicati  pur  allora  dal  Mussafia,  erano  da  attri- 
buirsi ad  un  poeta  aretino,  e  probabilmente  ad  un  contemporaneo  di  fra 
Guittone. 

Alle  peculiarità  degli  scrittori  aretini,  e  di  Guittone  in  particolar  modo,  il 
Caix  tenne  poi  sempre  1'  occhio  ben  fisso;  il  soggetto  tuttavia  che  maggiormente  lo 
preoccupò  in  questo  dominio  fu  il  linguaggio  della  scuola  sicula,  e  dentro  l'isola, 
e  fuori  dell'  isola.  Troppo  ovvio  pertanto  che  egli  fosse  tratto  a  considerare  con 
specialissima  attenzione  quello  che  allora  si  soleva  chiamare  il  Contrasto  di  Giulio 
d'  Alcamo.  Il  Caix  ne  studiò  accuratamente  la  lingua;  e  le  osservazioni  sue  espose 
in  una  recensione,  pubblicata  nella  Rivista  di  Filologia  romanza{ll,  177-191),  del 
poderoso  lavoro  che  intorno  a  quel  documento  ci  dette  il  D'  Ancona.  Vivacemente 
\i  si  contesta  la  sicilianità  dell'autore,  e  quella  più  ancora  della  sua  favella,  che, 
nonostante  certe  mescolanze,  di  cui  s'ammette  la  provenienza  sicula,  si  sostiene 
esser  pugliese  con  un  tal  quale  ripulimento  letterario.  Si  nega  in  pari  tempo  che 
nel  testo  pervenuto  a  noi  la  forma  abbia  subito  un  rimaneggiamento  che  1'  abbia 
ravvicinata  al  toscano:  essa,  secondo  il  Caix,  fu  su  per  giù  fin  dall'  origine  quale 
«  si  presenta  nel  codice  che  solo  ce  1'  ha  conservata.  » 


Nella  raenle  del  nostro  filologo  all'  indagine  intorno  al  linguaggio  del  Contrasto 
s'  era  accoppiala  la  considerazione  del  carattere  di  questa  composizione.  Essa  non 
gli  parve  essere  un  prodotto  popolare,  come  generalmente  si  giudicava,  bensì  l'opera 
di  un  poeta  d'arte;  e  in  lui  colai  persuasione  prese  un  aspetto  pariicolare  affatto. 
Gli  entrò  nell'  animo  il  convincimento  che  il  Contrasto  di  Ciullo  fosse  imitazione 
e  riflesso  di  un  genere  letterario  straniero,  cioè  della  Pastorella.  A  propugnar 
questa  tesi  intende  lo  scritto  Chdlo  iT  Alcamo  e  (jli  imitatori  delle  Romanze 
e  Pastorelle  provenzali  e  francesi  [Nuova  Antologia,  \^  serie,  lom.  XXX, 
pag.  477-52'2:  novembre  1875).  Manifestatasi  subito  una  viva  opposizione,  il 
Caix  non  lardò  a  ridiscendere  in  campo,  scrivendo  Ancora  del  Contrasto  di 
Ciullo  d' Alcamo  [Rivista  Europea,  anno  VII,  lom.  II,  pag.  547-558:  maggio  4876). 
Qualche  anno  dopo,  in  un  breve  ma  notevole  articolo  sulla  Scuola  poetica  sici- 
liana [Rass.  Sellim.,  1878,  2°  sem.,  pag.  357-59)  occasionato  dalla  Sicilianiscke 
Dichterschide  del  Gaspav)',  mentre  si  professava  concorde  in  molle  cose  col  valente 
critico  tedesco,  mosse  obbiezione  all'  idea  che  la  Rosa  fresca  sia  un  prodotto  giul- 
laresco e  però  qualcosa  di  mezzo  tra  l'aulico  e  il  popolare,  e  tornò  a  ribattere  il 
chiodo  della  derivazione  dalla  Pastorella.  Finalmente,  nel  1879,  credette  di  essere 
ari'ivato  a  scoprire  Chi  fosse  il  preteso  Ciullo  d' Alcamo  [Riv.  Europ.,  nuova  se- 
rie, lom.  XII,  pag.  231-251:  10  maggio);  e  con  argomenti  ingegnosi,  ma  poco 
0  punto  validi,  si  affannò  a  sostenere  che  il  Contrasto,  nonché  d'  un  Ciullo  d'  Al- 
camo, non  era  opera  nemmeno  d'  un  Cielo  dal  Canio,  bensì  aveva  avuto  per  au- 
tore Giacomino  Pugliese. 

Ciullo  e  il  Contrasto  erano  siali  un  semplice  episodio.  Mentre  attendeva  ad 
essi  il  Cai.\  continuava  a  maturare  le  idee  sue  intorno  alle  vicende  della  nostra  lin- 
gua letteraria.  S'  era  persuaso  da  tempo  che  1'  unità  si  fosse  operala  per  mezzo 
della  poesia,  e  che  di  li  si  fosse  propagala  agli  altri  usi,  cosi  del  paria-re,  come 
dello  scrivere  prosaico,  '  non  senza  conservare  le  tracce  dell'  origine  e  delle  fasi 
per  cui  la  lingua  era  passala.  E  la  lingua  poetica  egh  la  concepiva  fin  dal  princi- 
pio come  cosa  distinta,  non  solo  nel  lessico,  ma  nella  fonetica  stessa,  dalle  par- 
late locali:  come  a  Firenze  dal  volgare  fiorentino,  cosi  nella  Sicilia  dal  volgare 
siculo.  Il  suo  pensiero  a  questo  proposito  egli  non  lo  manifestò  forse  mai  cosi  net- 
tamente come  neir  articolelio  citato  dianzi  sulla  Scuola  poetica  siciliana,  dove, 
contro  ciò  che  egli  stesso,  entro  certi  limiti,  aveva  creduto  fino  a  pochi  anni  pri- 
ma," contestò,  non  per  il  Contrasto  solo  di  Ciullo,  ma  in  generale  per  tulle  le 
rime  della  nostra  prima  scuola  poetica,  l'ipotesi  di  una  trasformazione  subita  per 
opera  di  trascrittori,  e  mise  avanti  quattro  ragioni  per  impugnare,  o  almeno  per 


'  V.  La  Formazione  degl'idiomi  letterari,  Nuova  Antol.,  t.  cit.,  pag.  239,  300,  305. 
•  V.  ib.,  pag.  294.  Cfr.  tuttavia  la  pagina  seguente. 


mellere  gravemente  in  dubbio,  1' autenlicità  del  Libro  Siciliano  del  Barbieri  e  del 
famoso  frammento  di  Stefano  Protonotaro  o  del  nolaro  Stefano  di  Pronto.  Ciò  non 
toglieva  peraltro  che  elementi  siculi,  e  meridionali  in  genere,  la  lingua  poetica  non 
dovesse  anche  a  parer  suo  averne  contenuti  moltissimi;  e  non  contenuti  semplice- 
mente, credeva  egli,  nel  principio,  ma  ritenuti  altresì  nelle  fasi  successive. 

A  tutte  queste  cose  è  da  aver  bene  la  mente  se  si  vuol  rendersi  conto  di  quel 
che  venisse  a  importare  per  il  Caix  lo  studio  della  prima  lingua  poetica,  e  se  si 
vuole  intendere  come  cotale  studio  gli  paresse  dovere  in  sostanza  avere  per  oggetto  la 
lingua  che  ci  è  data  dai  codici  più  autorevoli,  fatta  la  debita  parte  alle  tendenze 
peculiari  di  ciascuno,  non  giù  qualcosa  di  ben  distinto  da  essa ,  cui  si  risalga  per  via 
di  semplici  ricostruzioni  ipotetiche.  Eccolo  dunque  a  sudare  sui  nostri  più  antichi 
canzonieri,  e  ad  analizzarne  le  forme  con  un'  accuratezza  mirabile.  Fruito  di  que- 
ste fatiche  lungamente  durate  con  gran  pertinacia,  fu  il  lavoro  più  cospicuo  del 
Caix:  Le  Origini  cioè  della  Lingua  poetica  italiana:  principii  di  grammatica  sto- 
rica italiana  ricavati  dallo  stìidio  dei  manoscritti:  con  una  introduzione  sulla  for- 
mazione degli  antichi  cantonieri  italiani  (Firenze,  coi  tipi  dei  Succ.  Le  Mou- 
nier, 4880;  pag.  284  in  8°  massimo). 

All'opera  si  rimproverò  l' intitolazione;  ed  a  ragione  di  certo,  se  essa  almeno 
s' intende  com'è  naturale  che  sia  intesa.  E  qui  non  si  può  a  meno  di  notare  che  il 
Caix  fu  abbastanza  spesso  poco  preciso  nella  scella  dei  titoli  suoi;  ciò  che  leggiamo 
addentrandoci  là  dove  si  legge  scritto  in  fronte  Sul  pronome  italiano,  Sul  perfetto 
debole  romanzo,  Sali'  etimologia  spagnuola,  è  meno  assai  di  sicuro,  e  talora  an- 
che qualcosa  di  diverso,  di  quel  che  ci  si  aspetterebbe  d' incontrare.  Nel  caso  no- 
stro peraltro  la  ragione  dell'  aver  rappresentato  sul  frontespizio  come  Le  Origini 
della  Lingua  poetica  ciò  che  realmente  non  sarebbe  se  non  La  Lingua  poetica 
del  periodo  delle  Origini,  ha  la  sua  ragion  d'  essere  nella  credenza  da  cui  il  Caix 
era  mosso,  che  la  lingua  poetica  delle  età  successive  fosse  molto  più  conforme  a 
quella  dei  primi  tempi  di  quanto  non  gli  apparisse  poi  dietro  un  esame  ben  attento. 
La  perpetuazione  di  alcune  forme  non  dittongate,  come  core,  mele  e  simili,  e  di 
alcuni  pochi  vocaboli,  aveva  prodotto  nella  sua  mente  una  vera  illusione;  si  di- 
rebbe che  quelle  voci  egh  le  vedesse  moltiplicate  e  ordinate  in  disegno  armonico 
dentro  ad  un  caleidoscopio.  Ma  si  può  facilmente  perdonare  questo  strascico  della 
concezione  primitiva  una  volta  che  essa  non  ha  per  nulla  affatto  indotto  il  Caix  a 
ritrarre  nella  sua  analisi  le  cose  diversamente  da  quel  che  fossero.  Le  forme  pecu- 
liari del  primo  periodo  son  da  lui  stesso,  ad  una  ad  una,  rimesse  dopo  una  breve 
dimora  fuor  della  soglia,  poche  sole  eccettuate.  Tenacissimo  delle  proprie  idee  il 
Caix  era  di  sicuro;  ma  appunto  per  ciò  riesce  tanto  più  nobile  in  lui  quel  pieno 
ossequio  alla  verità,  gli  riuscisse  grata  od  ingrata,  non  appena  fosse  giunto  a  co- 
noscerla. Nessun   pericolo  eh'  egli  volesse  fare  la  ben  che  minima  forza  alla  co- 


scienza.  E  diciamolo  pure  colla  certezza  di  non  c'ingannare:  se  al  bel  libro  manca 
una  sintesi,  di  cui  certo  non  basta  a  tener  luogo  qualche  pagina  di  Prefazione, 
scritta  per  soprappiù  incominciando,  non  già  licenziando  la  stampa,  non  è  dav- 
vero che  al  Caix  sapesse  agro  di  tirar  delle  somme  le  quali  vedeva  bene  dover  dar 
risultali  differenti  dalle  sue  previsioni.  La  colpa  fu  di  quelle  particolari  circostanze 
che  lo  spinsero  ad  affrettare  la  pubblicazione  del  libro. 

Io  non  so  se  la  fretta  sia  entrata  per  nulla  anche  neh'  avere  il  Caix  curato 
poco  la  parte  lessicale,  che  in  uno  studio  sulla  lingua  poetica  del  primo  pe- 
riodo avrebbe  dovuto  avere,  s' io  non  m' inganno,  un'  importanza  somma.  Egli  vor- 
rebbe come  persuaderci  che  siffatta  trattazione  non  fosse  a  posto  nel  lavoro  suo 
(pag.  247,  nota);  ma  riesce  semplicemente  a  mostrare  che  il  compito  era  arduo  e 
richiedeva  lunghe  ricerche.  Qualcosa  egli  ci  dà  bensì  anche  per  questa  parie:  in- 
cidentalmente, in  parecchi  luoghi  dell'opera,  e  poi  all'ultimo,  sotto  l'aspetto  im- 
proprio di  un  capitolo  sulla  Formazione  delle  parole.  Improprio,  dico:  poiché  in 
generale  non  si  traila  già  di  parole  che  si  vengan  fabbricando  coli'  appUcuzione  di 
questo  0  quel  suffisso,  bensì  di  vocàboli  che  si  prendon  belli  e  fatti  o  di  qua  o  di 
là.  Direi  tuttavia  che  sotto  un  altro  riguardo  non  ci  si  rammarica  troppo  di  vedere 
il  Caix  trascurare  i  vocaboli,  tutto  intento  a  lettere  e  suoni:  in  lui  il  peccato  è  se- 
gno di  un  ravvedimento. 

Astrazion  fatta  dalle  omissioni,  una  certa  qual  fretta  si  manifesta  anche  nelle 
parli  che  1'  autore  ebbe  propriamente  ad  elaborare.  0  per  dir  meglio,  1'  esecuzione 
non  fu  tanto  maturata  quanto  era  stata  maturata  la  preparazione.  Cosi  son  con- 
vinto che  se  il  Caix  avesse  tardalo  qualche  allro  poco  a  scrivere,  si  sarebbe  accorto 
della  necessità  di  mantener  sempre  una  spiccata  distinzione  tra  la  materialità  della 
grafia  e  la  fonetica  che  ci  s'  ha  da  vedere  attraverso;  e  noi  non  troveremmo  più, 
per  esempio,  schierato  a  pari  coi  paragrafi  che  ci  rappresentano  suoni  veri  e  pro- 
pri, un  paragrafo  sulla  lettera  H. 

Nonostante  queste  ed  altre  mende,  il  libro  del  Caix  ha  importanza  capitale. 
Un'  analisi  così  diligente  della  hngua  dei  nostri  amichi  poeti  quale  ci  è  data  dai 
codici,  nessuno,  nonché  tentata,  non  l'aveva  immaginata  neppure.  E  il  Caix  ha 
illustrato  li  dentro,  sia  con  falli  ed  osservazioni  messe  fuori  qui  per  la  prima  volta, 
sia  ritornando  su  cose  già  da  lui  dette  altrove,  parecchi  problemi  comuni  così  alla' 
lingua  della  poesia  come  a  quella  della  prosa.  Anche  la  conoscenza  delle  condi- 
zioni dialettali,  nella  Toscana  soprattutto,  al  secolo  XIII,  s'avvantaggia  non  poco 
dell'  opera  sua.  Né  è  solo  a  chi  vuol  indagare  la  storia  della  lingua  italiana,  non  è 
solo  al  linguista  e  al  grammatico,  che  il  libro  è  necessario:  chiunque  s'ingegni  di 
addentrarsi  nelle  nostre  origini  letterarie  mal  può  esimersi  dallo  studio,  per  quanto 
faticoso,  di  questo  volume.  E  cotale  studio  vorrà  poi  essere  raccomandato  calda- 
mente anche  agli  editori  di  antichi  testi.  Chi  in  particolare  prenda  a  darci  una 


nuova  edizione,  di  fra  Guiltone  si  troverà  appianala  la  via  dal  Caix,  risparmiala  da 
lui  non  poca  parie  della  falica. 

Al  lavoro  sulla  lingua  dei  rimatori  del  primo  periodo  il  Caix  si  proponeva  di 
farne  tener  dietro  un  altro  intorno  alla  «  lingua  dei  grandi  poeti  fiorentini  «  {Pref., 
pag.  4);  quindi  un  altro  ancora  «  sulla  formazione  della  prosa  «  e  insieme  sulla 
lingua  poetica  dopo  Dante,  che  gli  appariva  cosi  connessa  col  linguaggio  pro- 
saico, da  non  potersi  studiare  separatamente  [ibid.).  Disegni  bellissimi,  l'esecu- 
zione dei  quali  avrebbe,  credo,  finito  per  persuadere  1'  autore,  che,  se  la  lingua 
letteraria  non  era  tutta  fiorentina  di  certo,  era  peraltro  fiorentina  in  grado  mag- 
giore assai  eh'  egli  non  continuasse  a  supporre.  Ma  con  un  soffio  la  morte  dissipò 
ogni  cosa! 

L'  esecuzione  tuttavia  sarebbe  l'orse  slata  ad  ogni  modo  ritardata  più  o  meno 
dall'avere  il  Caix  negli  ultimi  anni  aperto  nuovi  sbocchi  alla  sua  alacrità.  S'era 
volto  al  dominio  rumeno  e  a  tutto  ciò  che  vi  si  connetteva;  e  aveva  preso  a  colti- 
varlo con  intenso  amore.  Così  già  noìV  Antolocjia  del  4°  aprile  1878  (2^  serie, 
lom.  Vili,  pag.  509-521)  egli  poteva  discorrere  da  uomo  che  ha  approfondito  le 
questioni  e  che  si  è  già  reso  familiare  e  la  lingua  e  la  letteratura  scientifica  del  sog- 
getto, intorno  alla  nazionalità  rumena  (7  Rumeni  e  le  stirpi  latine),  determinando 
con  retto  discernimento,  sulle  tracce  dei  migliori  e  fondandosi  specialmente  sulla 
favella,  fin  dove  sia  latino  e  fino  a  qual  grado  sia  frammisto  di  elementi  eterogenei 
quell'estremo  anello  orientale  della  grande  catena  delle  popolazioni  latine  e  latiniz- 
zate. Anche  1'  articolo  già  citato  sull'  etimologia  di  caciocavallo,  scritto  dopo  che  il 
Caix  aveva  visitalo  la  Rumenia  a  scopo  di  scienza,  è  un  prodotto  dell' allenzione 
da  lui  portata  sulla  penisola  dei  Balcani.  E  questi  non  erano  se  non  come  i  primi 
segnali  di  quei  lavori  maggiori  cui  veniva  attendendo. 

Ma  questi  nuovi  sfoghi  alla  singolare  sua  attività,  tutta  vòlta  agli  studi,  non 
bastarono  al  Caix,  che  parve  verso  la  fine  della  vita  aver  raddoppiato  quella  sua 
flessibilità  primitiva,  di  cui  per  un  certo  periodo  non  s'  eran  più  visti  i  segni  al  di 
fuori.  Nel  1879,  a  proposito  della  nuova  edizione  curala  dal  Deecke  degli  Etnischi 
di  C.  0.  Mùller,  stampò  nella  Rassegna  Settimanale  un  articolo  (III,  31-34),  eco 
di  antichi  e  caldi  amori.  E  l'articolo  dovette  avere  una  coda,  per  rispondere  alle 
obbiezioni  di  un  naturalista  (ib.,  pag.  117-118).  Più  tardi,  nella  stessa  Rasse- 
gna (VIII,  221-222:  2°  sem.,  1881)  il  Caix  narrò  la  Storia  di  un  verso  di  Dante 
—  «  Poi  eh'  ei  posato  un  poco  il  corpo  lasso  »  —  che  gli  editori  si  ostinano  a  leg- 
gere diversamenle  da  quel  che  voglia  l'autorità  dei  codici  e  la  critica.  Ma  una 
vera  e  propria  sorpresa  dovettero  provare  anche  gli  amici  più  inlimi,  allorché,  nel- 
r  inverno  che  precedette  la  morte,  essendo  egli  messo  alle  strette  perchè  tenesse 
al  Circolo  Filologico  fiorentino  una  conferenza,  videro  il  Caix  scegliere  un  sog- 
getto affatto  lontano,  a  quanto  pareva,  dai  suoi  territori:  Molière  e  il  suo  Tur- 


tufe.  '  Che  avendolo  scello,  lo  trattasse  da  pari  suo,  con  mollo  acume,  con  molta 
giustezza,  con  vero  garbo,  di  ciò  nessuno  poteva  dubitare.  E  come  ancora  non 
bastasse,  tra  le  carte  del  defunto  s'è  trovato  imperfetto  uno  scritto  sui  Goliardi, 
appartenente  esso  pure  agli  ultimi  tempi. 

Per  un  giovane  morto  a  trentasett' anni,  cagionevole  sempre,  che  aveva 
dovuto  in  molta  parte  cercarsi  la  sua  via  da  se  stesso,  è  ammirabile  davvero 
l'aver  potuto  dar  tanti  frutti.  E  nessuno  di  essi  fu  prodotto  senza  una  lunga 
preparazione;  che  il  Caix  era  del  numero  eletto  di  coloro  che  studiano,  cer- 
cano, pensano,  piìi  assai  che  non  scrivano.  Cosi  colla  sua  morte  egli  si  portò 
seco  la  più  faticata,  la  sola  completa  tra  le  sue  opere:  sé  stesso.  Tra  i  lavori  suoi 
non  ve  n'ha  alcuno  di  certo  che  basti  a  dar  la  misura  di  quel  che  il  Caix  propria- 
mente valesse.  Solo  abbracciandoli  tutti  insieme,  si  riesce  a  scorgere,  attraverso  ai 
difetti,  quali  doli  molteplici  egli  possedesse,  e  in  che  grado  elevato:  acutezza  rara 
di  mente  e  sodo  criterio;  svariatezza  di  coltura  e  profondità  di  dottrina;  pazienza 
inesauribile  nell'analisi  e  attitudine  alla  sintesi;  e  come  coronamento  d'  ogni  altra 
cosa,  una  disposizione  naturale,  affinata  dallo  studio,  a  vestire  le  idee  di  una 
forma  dignitosamente  corretta,  specchio  dell'essere  suo. 

Pio  Rajna. 


'  Il  lavoro  fa  pubblicato  poi  nella  Nuova  Antologia,  2"  serie,  t.  XXXII,  pag.  393-4U  (1  aprile  1882). 


UGO   ANGELO  CANELLO. 


«  Quante  mai  volte  1'  Edipo  umano,  menlre  si  crede  e  si  dice 

ó  Ttàat  /iXsivò?  Olòizon<; 

Sta  suir  orlo  dell'abisso  che  lo  deve  inghiottire!  « 

.  Povero  Canello!  cosi  scrisse,  °'  e  cosi  avvenne  di  lui,  che  sparve,  come  il  suo 
compagno  di  studi  e  di  sventura,  Napoleone  Caix,  quando  appena  era  suonata 
r  ora  attesa  della  fortuna. 

Morir  giovine!  Era  il  presagio,  che  gli  tornava  sulle  labbra;  presagio,  ch'egli, 
conscio  degli  effetti  ineluttabili  d' un' aspra  malattia  di  petto,  esprimeva  senza  sgo- 
mento, come  chi  è  abituato  a  interrogare  impavido  la  realtà  assoggettando  il  senti- 
mento al  rigido  e  forte  impero  della  ragione.  Pur  talora  lo  confortava  la  speranza 
di  campare  tanto  da  condurre  a  fine  le  opere  ideate:  vivrò  ancora,  io  credo,  quin- 
dici anni,  ricordo  eh'  egli  mi  disse  quando  ne  aveva  trenta.  Sfortunatissimo!  anche 
questa  povera  speranza  gli  andò  delusa:  chiedeva  quindici  anni  ancora  di  vita,  e  solo 
per  consacrarli  a  nobili  fatiche:  non  ne  visse  invece  che  cinque,  e  si  spense  nel  ri- 
goglio della  sua  poderosa  vita  scientifica,  quando  ormai  s'  avviava  sicuro  ad  occu- 
pare uno  de' luoghi  più  eminenti  fra  i  romanisti  d'Europa.  Esistenza  fuggevole  fu 
la  sua,  ma  tale  egli  la  visse,  che  il  solo  ridirla  con  la  schiettezza  da  lui  candida- 
mente amata  riesce,  per  quanto  imperito  sia  il  narratore,  il  miglior  segno  d'  ono- 
ranza, che  possa  venire  offerto  alla  sua  lacrimata  memoria. 

Il  Canello  nacque  il  21  giugno  1848  a  Guia,  antichissima  stanza  de' suoi,  sul 
confine  occidentale  del  Trevisano  col  Bellunese,  da  Alvise  e  da  Regina  Pinazza, 


'  Del  Canello  scrissero  fra  gli  altri  Giuseppe  Gueezoni  {Ugo  Angelo  Canello,  commemorazione  funebre  Ietta 
nell'Aula  Magna  della  B.  Università  di  Padova  il  3  febbraio  1884);  Pio  Bajna,  nella  Perseveranza,  13  giugno  18S3; 
Fkascesco  d'  Ovidio,  nel  Giornale  di  Filologia  Romanaa  n.  9;  Fbancesoo  Lobeszo  Pullé  nell'  Aleardo  Aleardi ,  26  giu- 
gno 1883. 

'  Storia  della  Lett,  italiana  nel  secolo  XVI,  pag.  102. 


UiLtora  viventi.  Modesta,  non  povera,  come  troppo  si  stampò,  era  la  famiglia  di 
Alvise  Canello,  il  quale  tuttavia,  vedendosi  crescere  intorno  numerosa  figliuolanza, 
a' redditi  del  patrimonio  avito  dovette  curare  di  aggiungere  altri  proventi,  che  trovò 
nel  commercio.  Cosi  provvide  alle  necessità  domestiche,  educò  i  figli,  e  fu  volta 
che  ben  tre  ne  mantenne  insieme  alla  scuola.  Non  dirò  miracoli  del  fanciulletto 
Angelo,  che  anzi  dapprincipio,  pur  mostrando  precoce  intelletto  e  sorprendente 
memoria,  non  parve  troppo  amico  de' libri;  e  solo  pose  amore  allo  studio  su' quat- 
tordici anni,  consacrandocisi  allora  tutto,  senza  smettere  più.  Compi  i  corsi  ginna- 
siali e  liceali  nel  Seminario,  in  quel  tempo  fiorentissimo,  di  Ceneda.  Verso  il  ter- 
mine del  Liceo,  ossequendo  al  padre,  vesti  1'  abito  del  prete;  ma  fu  per  poco.  Già 
allora  fiero,  libero,  tale  quale  fu  sempre  ,  repugnandogli  il  sacerdozio,  preferì  ob- 
bedire alla  voce  della  coscienza,  anzi  che  al  comando  paterno:  e  giltò  la  tonaca, 
alienandosi  il  padre,  e  avventurandosi  incontro  all'ignoto  avvenire  con  non 
altro  conforto  che  la  fede  in  se  stesso.  Né  si  poteva  attendere  diverso  partito  da 
lui  e  per  1'  animo  eh'  egli  aveva,  e  perchè  già  a  forti  ideali  di  libertà  lo  avea  tem- 
prato lo  studio  amoroso  del  Foscolo,  che  tanto  gli  piacque  e  lo  accese  fin  dalle 
scuole  d'umanità  da  indurlo  a  premettere  al  nome  proprio  quello  del  suo  poeta; 
onde  d'allora  in  poi  fu  Ugo  Angelo.  Nella  Università  patavina,  incerto  sulle  prime 
della  via  da  eleggere,  s'inscrisse  alla  facoltà  medica,  ma,  «  fiutala  appena  la  ta- 
vola anatomica  se  ne  dichiarò  soddisfatto»,  scrisse  briosamente  il  Guerzoni,-e 
dopo  un  mese,  docile  alla  sua  vera  vocazione,  passò  alla  scuola  di  filosofia  e  let- 
tere, onde  uscì  laureato  il  29  luglio  '69. 

Aspri  furono  questi  anni  passati  negli  studi  universitari,  durante  i  quali  il  Ca- 
nello ebbe  maestri  insigni,  come  lo  Zanella,  il  Canal,  il  De  Leva,  il  Ferraj;  ma 
efficacissimo  de'  maestri  gli  riusci  il  dolore;  il  dolore,  che  fa  pensare,  e  a  lui  affinò 
r  intelletto  e  fortificò  il  volere.  Irritato  il  padre  volle  che  pensasse  a  sé  stesso  il 
figlio  ribelle:  pietosi  frattanto,  ma,  senza  colpa,  non  sempre  sufficienti  giungevano 
i  soccorsi  della  madre  e  del  fratello  Don  Pietro,  sì  che  il  povero  Ugo  sofferse  le 
strette  del  bisogno.  Quanto  abbia  patito  in  quel  tempo  ricordo  che  confidava  egli 
stesso  più  tardi  a' suoi  intimi.  E  avvenne  per  giunta  che  gli  si  guastasse  anche  la 
salute,  perchè,  certa  volta  che  da  Padova,  in  un  periodo  di  ferie,  tornava  alla  sua 
Guia,  costretto  a  sostare  sulla  riva  del  Piave  ad  attendervi  il  battelliere,  che  lo 
tragittasse  alla  sponda  opposta,  intanto  che  soffiava  lungo  il  fiume  procelloso,  con 
r  usata  violenza,  il  vento  delle  Alpi,  fu  investito  dalle  raffiche  gelate,  mentre  era 
sudato,  e  accolse  i  germi  di  un  male,  che  non  lo  abbandonò  più.  Alto,  diritto,  po- 
deroso, pareva  un  uomo  formidabile;  ma  in  quel  povero  suo  petto  covava  perenne 
una  minaccia  di  morte.  Di  qui  una  lotta  senza  riposo  tra  lui,  il  disgraziato  Canello, 
pieno  di  fervido  desiderio  della  vita,  e  questo  occulto  nemico,  che  della  vita  gli 
avvelenava  le  fonti:  ond'egli,  già  inclinato  alla  fiera  solitudine  pensosa,  divenne  an- 


che  più  chiuso,  anche  più  roinilo.  Nullameno  e  l'abitudine  al  dolore,  e  la  natura 
sua,  schietta  troppo  e  forte  per  amare  la  falsità  degli  atteggiamenti  eroici  o  roman- 
zeschi, produssero  in  lui  un  concetto  obiettivo  della  vita,  che  gli  concesse  una  ras- 
segnazione nobilmente  serena  alle  leggi  immutabili,  verso  cui  son  vani  del  pari 
l'inno  e  la  bestemmia.  Nelle  ore  più  cupe  Sofocle  Io  innalzava  dalla  realtà  misera 
a  sfere  sublimi,  e  ricomponeva  il  suo  animo  in  una  calma  superiore.  Cosi  in  queste 
strette  egli  non  si  fiacca,  ma  s'  eleva,  e  s'  afforza,  e  s'  abitua  a  trovare  la  sola  vera 
gioia  negli  sludi  e  nella  meditazione. 

Ottenuto,  dopo  la  laurea,  all'Università  di  Padova  il  premio  Dante  inslituito 
dall'Austria  e  mantenuto  dal  governo  nazionale  affine  di  promuovere  gli  studi  dan- 
teschi, profittò  dello  stipendio  che  gliene  venne,  e  di  un  sussidio  ministeriale,  onde 
quello  stipendio  fu  ingrossato,  per  recarsi  a  Bonn  alla  scuola  gloriosa  di  Federico 
Diez.  «  Quest'uomo  (disse  egli  più  tardi  accennando  al  grande  suo  maestro)  io  ho 
avuto  il  bene  di  conoscerlo  dappresso,  di  sentirne  le  piane  ed  amene  lezioni  per 
lutto  un  anno;  e  le  opere  sue  io  le  ho  studiale  con  lungo  amore,  le  ho  lette,  ri- 
lette, irasunte.  »'  Prova  immediata  di  questo  studio  alacre  e  severo  fu  l'opuscolo 
«  Il  prof.  Fed.  Diez  e  la  filologia  romanza  nel  nostro  secolo  »  "  che  il  Ganello  pub- 
blicò poco  dopo  essere  tornato  di  Germania.  In  esso  non  è  ritessula  la  storia 
intera  della  disciplina,^  ma  si  espone  largo,  limpido  e  sicuro  il  quadro  delle  opere 
del  Diez  nel  triplice  dominio  storico-letterario,  esegetico,  glottologico,  quadro  in- 
cornicialo da  sommarie  indicazioni  de' lavori  anteriori  e  posleriori,  sì  da  rendere 
manifeste  le  condizioni  degli  sludi  romanzi  prima  del  Diez,  la  virtù  potente  del- 
l'opera  sua,  l'attività  meravigliosa  da  lui  promossa.  L'autore  ci  apparisce  un 
discepolo  intensamente  e  acutamente  studioso,  inleso  a  profittare  quanto  sa  e  può 
della  scienza  de' maestri,  disposto  ad  assimilarsela  facilmente,  e  insieme  già  ca- 
pace e  desideroso  di  discuterla,  di  correggerla,  di  fecondarla.  '  Questo  libretto  è 


'  Casello  ,  Saggi  di  Critica  Letteraria ,  pag.  247. 

'  Fu  pubblicato  nella  Rivista  Europea,  1  novembre  1371  —  1  febbraio  1S72.  — Non  può  Jirsi  questa  veramente 
la  prima  pubblicazione  del  Canello,  poiché  la  precedette  un  breve  volume  di  versi.  Il  futuro  romanista  cominciò 
anch'agli,  da  buon  italiano,  col  suo  fascetto  di  rime:  Ricordi  d'autunno,  Padova  Salmin,  1870.  Nulla  di  straordinario 
in  questi  versi;  ma  già  rivelano  nettamente  l'animo  forte,  sano  e  gentile  del  povero  Canello.  V  è  delicato  il  sen- 
timento; sciolta  e  sobria  la  forma:  e  sulla  varietà  de' tòni  domina  l'equilibrio  virile  del  suo  spirito  che  lo 
tenne  quasi  sempre  lontano  dagli  eccessi   della  passione. 

^  ^  Naturalmente,  scrisse  il  Canello,  non  può  essere  mio  intendimento  di  dare  una  storia  intera  della  filo- 
logia e  della  glottologia  romanza  in  questo  secolo,  e  meno  ancora  della  critica  storico-letteraria.  »  pag.  4.  Il  Mo- 
naci espresse  la  speranza  che  nella  II'^  ediz.  del  suo  libretto  il  Canello  colmasse  le  lacune  della  I*  {Riv,  di  FU. 
Romanza,  I,  pag.  62);  ma  questa  desiderata  ristampa  non  comparve. 

'  L'autore  avvertiva  che  alle  molte  reminiscenze  della  scuola  e  delle  fatto  letture  avrebbe  aggiunto  qualche 
nota  propria;  pag.  3.  Sulla  formazione  del  decasillabo,  a  pag.  16,  egli  e-spono  una  teoria  nuova,  che  mantenne 
sempre  come  può  vedersi  da  posteriori  pubblicazioni:  Saggi,  pag.  239-40;  Nuova  Antologia,  XXIX,  18S1,  pag.  529. 
Vedi  osservazioni,  non  sempre  corrette,  ad  illustrazione  del  Boezio  provenzale  a  pag.  32;  etimologie  diverse  da  ta- 
lune del  Diez  a  pag.  80-82. 


uno  de' segni  del  rinnovamento  scientifico  dell'Italia'  seguilo  al  rinnovamento 
civile:  più  direttamente  attesta  la  rigenerazione  degli  studi  romanzi  anche  fra 
noi  avviati  dall'indagine  fantastica,  che  aveva  suscitata  il  Raynouard,  all'indagine 
metodica  promossa  da'seguaci  del  Diez,  rigenerazione  avvenuta  per  l'influsso  della 
scienza  straniera,  e  per  1' opera  di  solenni,  per  quanto  pochi  ancora  e  solitari, 
maestri  nazionali.  Il  Canello  ha  egli  pure  il  suo  luogo  onorevole  in  questo  momento 
della  storia  della  filologia  e  della  critica  italiana.  Malgrado  1'  opera  larga  del  Diez 
e  de' suoi  scolari,  diceva  egli  chiudendo  il  suo  libretto,  resta  ancora  molto  a 
fare;  e  invitava  gì'  italiani  alla  nuova  palestra,  nella  quale  tosto  entrava  egli  stesso 
fra  i  primi.  La  Rivista  di  Filologia  Romanza,  comparsa  nel  '72,  s'apre  con  uno 
studio  del  Canello  già  annunciato  nell'opuscolo  sul  Diez,^  preparato  quindi,  in- 
sieme ad  un  saggio  sul  Trevigiano  rustico,'  quando  egli  era  poco  più  che  uno 
scolare:  il  che  ho  voluto  notare,  perchè  prova  che  il  Canello  sagacemente  aveva 
scorto  fin  dal  principio  de'  suoi  studi  di  filologia  romanza  ove  fossero  lacune  da 
riempiere  nell'  opera  del  Diez  e  de'  discepoli,  e  terreni  vergini  da  dissodare. 

Il  Canello  così  ci  si  presenta  dapprima  come  glottologo:  e  come  tale  lo  ve- 
diamo rivolgere  le  cure  sue  principali  alla  parie  della  nuova  disciplina,  che  più 
importava  in  Italia,  allo  studio  scientifico  della  lingua  nazionale.  Già  dal '72  trovo 
ch'egli  annuncia  e  promette  la  sua  Polimorfologia  italiana,''  che,  più  tardi, 
si  muterà  nell'eccellente  lavoro  degli  Allòtropi,  e  resterà^  degna  Aq\C  Archivio 
ascoliano,  il  miglior  segno  de' suoi  studi  glottologici,  e,  nel  complesso  delle  sue 
opere,  una  delle  più  preziose  testimonianze  del  suo  forte  e  acuto  intelletto,  e  di 
quanto,  se  cosi  presto  non  fosse  stato  rubato  alla  scienza,  egli  avrebbe  ancora  sa- 
puto fare.  E  1'  anno  successivo  nella  scuola  di  Padova,  ove,  dopo  essere  stato  il  pre- 
cedente'72  professore  del  Ginnasio  Comunale  di  Ravenna,  l'antico  discepolo  rien- 
trò quale  docente  privato  di  filologia  romanza,'"  matura  il  suo  Vocalismo  tonico 
italiano,  che  comincerà  a  comparire  agli  studiosi  nel  seguente  '74.  "  A  questo  punto 
debbo  notare  che  il  Canello,  sia  pure  nell'ufficio  modestissimo  di  privato  docente, 


'  G.  Pakis  lo  ha  definito  «  un  des  symptòmes  ile  l'introductiou  eu  Italie  des  bonnes  métliodes  scientiflques  »: 
lìomania,  I,  237. 

■■  «  Storia  di  alcuni  participii  nell'italiano  e  in  altre  lingue  romanze»  pagg.  9-19  del  I  voi.  della  ifà-.  del 
Monaci.  Vedi  a  questo  articolo  le  osservazioni  del  JIussafia  a  pagg.  91-97,  e  V  Appendice  del  Canello  stesso  a 
pagg.  188-191  dello  stesso  volume.  A  tali  suoi  studi  il  Canello  accennava  già  a  pag.  57,  n.  della  dissertazione 
sul  Diez. 

'  Questo  saggio  è  annunciato  nell'opera  sul  Diez  a  pag.  48,  n.  2  e  citato  indi  passim;  ma  non  fu,  cli'io 
sappia,  stampato.  Utile,  insieme  al  fratello  Don  Piero,  riuscì  il  Canello  all'Ascoli  nello  studio  del  Trevigiano 
rustico:  vedi  Ardi.  Glolt.  I,  pag.  416. 

'  Vedi  nella  Mivista  di  Filologia  Romansa,  I,  pag.  58, 1'  articolo  del  Canello  sulla  Grammatica  storica  del  Foe- 
KACiARi.  A  pag.  70  dello  stesso  volume  la  Polimorfoloyia  canelliana  è  annunciata  fra  le  prossime  pubblicazioni. 

'  Ebbe  tale  nomina  il  Canello  con  Decreto  5  dicembre  1872. 

"  Vedi  inviata  di  Filologia  Romania,  I.  pagg.  207-225,  in  cui  apparvero  i  primi  8  paragrafi  del  Vocalismo.  Si  sa 
chela  pubblicazione   fu  continuata,  ma  non  compiuta  nella  2c!(sc?»'yi  del  Groeber. 


fu  dei  primi  ad  insegnare  la  nuova  disciplina  fra  noi  ;  de'  giovani  romanisti  fu  anzi 
il  primo,  perchè  il  Rajna  non  cominciò  il  suo  insegnamento  all'Accademia  di  Mi- 
lano che  nell'anno  scolastico  1873-74.  Ai  contributi  scientifici  già  accennati  s'ac- 
compagnavano pubblicazioni  fatte,  come  il  libretto  sul  Diez ,  per  volgarizzare  gli 
studi  romanzi  fra  i  colti  italiani,  per  ispiegarne  ad  essi,  con  la  snella  chiarezza  e 
la  geniale  vivacità  che  gli  erano  proprie,  1'  essenza  ed  il  metodo:'  opera  questa  alla 
quale  il  Canello  presentava  attitudini  singolari.  Ma  e'  era  sempre  per  lui  un  pro- 
blema punto  glottologico  da  risolvere,  quello  del  pane  quotidiano,  ch'egli  potò  as- 
sicurarsi non  già  co'  poveri  compensi  della  docenza,  ma  co'  frutti  più  sicuri  del- 
l'insegnamento nel  collegio  padovano  Camerini,  ove  dal  direttore  prof.  Don  Domenico 
Barbaran  ebbe  sempre  ogni  maniera  di  gentili  soccorsi.  Conio  stesso  amore  s'ado- 
perava per  la  scuola  universitaria  e  per  la  scuola  Camerini,  per  uso  della  quale 
pensò  e  mise  insieme  il  Commento  a'  Sepolcri  del  suo  Foscolo,  pubblicato  nello 
stesso  anno  '73.  La  glottologia  dunque  non  escludeva  la  critica  letteraria:  nella 
mente  del  Canello  esse  trovavano  un'  armonia,  che  più  non  si  ruppe.  Di  questo 
Commento  dirò  solo  eh'  esso  fu  il  primo  analitico  e  compiuto,  che  fu  condotto  con 
criteri  originali,  che  non  poco  giovò  a' commentatori  successivi,  e  che  incontrò 
sorti  liete  cosi  da  arrivare  alla  terza  edizione. 

Ne' due  anni  seguenti,  '74  e  '75,  il  Canello  ci  dà  prova  anche  più  lumi- 
nosa della  larghezza  della  sua  coltura,  e  della  elasticità  giovenilmente  pronta  del 
suo  vivido  ingegno  presentandocisi  professore  di  lingua  e  di  letteratura  tedesca  alla 
Accademia  scientifico-letteraria  di  Milano,  ove  lo  propose  a  tale  insegnamento  un 
maestro  e  giudice  solenne,  l' AscoH,  che  lo  credette  degno  di  esso,  perchè  parlava 
e  scriveva  il  tedesco  con  una  facilità  ed  eleganza,  che  un  italiano  di  rado  consegue.  ' 
E  cosi  piacquero  le  sue  lezioni,  che  il  pubblico,  dapprincipio  poco  numeroso,  fini 
per  addensarsi  e  riempiere  la  vasta  sala  terrena  dell'  Accademia  milanese.  Ma  solo 
nel '76  il  Canello,  che  aveva  resistito  all' offerta  seducente  d' una  cattedra  stra- 
niera, ^  potè  ottenere  un  ufficio  conforme  a'  suoi  desiderii,  quando  ebbe  Y  incarico 
dell'  insegnamento  allora  instituito  della  Storia  comparata  delle  letterature  neola- 
tine presso  r  Università  di  Padova,  incarico  che  al  principio  del  successivo  anno 
scolastico  si  mutò  nello  straordinariato.  Le  riforme  bonghiane  de'  regolamenti  uni- 
versitarii  introducendo  nelle  nostre  scuole  di  lettere  l'invocata  filologia  neolatina 
rappresentata  fino  allora,  e  da  poco,  solo  ne'  due  principali  istituti  di  Milano  e  di 
Firenze,  resero  giustizia  a'  meriti  ed  alla  aspettazione  legittima  di  uomini,  quali  il 
Monaci,  il  Canello,  il  d'  Ovidio,  che  trovavano  il  compenso  debito  al  loro  amoroso 


'  Vedi  neir  elenco  bibliografico  sotto  l' anno  1873. 
Vedi  GoEEZONi,  oit.  discorso  pag.  10. 
'  Vedi  ibid.,  pag.  11.  Il  Mcssafia  offerse  al  Cauello  la  cattedra  di  Lingue  Romanze  all'Università  di  Gratz. 


apostolato  in  (livore  della  nuova  disciplina,  accolta  qui  nel  cuore  della  romanità  fra 
gli  insegnamenti  ufficiali  dopo  quasi  tutti  i  paesi  più  civili  d'Europa,  ma  finalmente 
accolta.  Il  Canello  null'allro  chiedeva  che  un  asilo  quieto,  ove,  cessate  le  angosciose  e 
dannose  incertezze  del  presente  e  dell'avvenire,  gli  fosse  concesso  di  darsi  intero  agli 
studi:  0  questo  asilo  lo  trovò  nella  sua  Padova,  della  quale  poteva  considerarsi  cit- 
tadino, e  in  cui  tra  le  compiacenze  della  scuola,  le  voluttà  sole  a  lui  care  dellavoro 
assiduo,  le  gioie  della  famiglia,  ch'egli,  austero  in  sembianti,  ma  intimamente  af- 
fettuoso, senti  il  bisogno  di  formarsi,  scorse  il  miglior  tempo  della  sua  breve  esi- 
stenza. 

Fino  al  '76  egli,  pur  dimostrando  intelletto  robusto,  sottile,  ardito,  co- 
stanza e  intensità  di  studi,  per  la  sua  giovinezza  non  aveva  potuto  mettere  insieme 
opera  tale,  che  gli  costituisse  un  nome:  non  era  che  una  sicura  e  lieta  speranza 
della  filologia  italiana:  ma  incomincia  tosto  il  periodo  importante  e  fecondo  della 
sua  operosità  scientifica.  Nel  '77  pubblica  i  Saggi  di  critica  letteraria:  poi  so- 
spende altro  lavoro,  di  cui  discorreremo  più  innanzi,  per  compire,  secondando  la 
giusta  insistenza  dell'Ascoli,  il  Polimorfismo  già  annunziato  da  parecchi  anni:  lo 
troviamo  ancora  qualche  tempo  appresso  tutto  inteso  all'  opera  stessa  ed  alla -S?or(« 
della  letteratura  italiana  nel  sec.  XVI,  che  ayewa  assunto  l' impegno  di  scrivere 
per  r  Italia  del  Vallardi.  Ma  1'  Ascoli  vuole  un  lavoro  degno  del  suo  Archivio  e 
delle  speranze  suscitate  dall'autore,  e  manda  a  rifare  più  volte  il  Polimorfi- 
smo :  e  il  Canello  rifa,  e  scrive  ad  un  amico  1'  11  gennaio  '79:  «  da  due  mesi  in 
qua  ho  lavoralo  e  rilavoralo  sotto  la  ferula  terribile  ma  utilissima  dell' Ascoh.  «  Come 
fu  contento,  lo  ricordo,  quando  il  grande  maestro  si  dichiarò  soddisfatto!  Urgeva 
mandare  bene  innanzi  il  Cinquecento,  che  ormai  lo  ebbe  tutto:  «  quanta  fatica, 
egli  scrive  a  proposito,  per  far  cosa  che  sarà  appena  tollerabile!  »  Insieme  però  si 
occupa  anche  de' Sepolcri  del  Foscolo,  e  ne  rifonde  il  conmiento.  Viene  l'ago- 
sto '80:  il  Cinquecento  è  ormai  compito  e  pubblicato:  ma  il  Canello  non  riposa: 
l'energia  intellettuale  cosi  esercitata  gli  si  afforza,  ed  egli  si  caccia,  per  usare  la 
sua  espressione,  in  un  laberinto  provenzale,  nientemeno  che  nell'impresa  dell'edi- 
zione critica  del  più  sibillino  de'  trovatori,  di  Arnaldo  Daniello.  L'anno  seguente  è 
lutto  accanitamente  inteso  a  interpretare  1'  oscurissimo  poeta  «  spendendovi  intorno 
moltissimo  tempo  e  non  poco  denaro,  per  darlo  gratis  (il  lavoro  suo)  a  un  editore 
tedesco.  »  Ma  non  gli  basta:  egli  pensa  di  provvedere  le  nostre  scuole  universitarie 
di  una  crestomazia  provenzale  diversa  da  quella  del  Bartsch,  e  lavora   intanto  su 


'  Per  queste  notizìu  mi  valgo,  oltre  che  della  memoria  mia,  di  lettere  del  Canello  ad  uno  de' pochi  dilettis- 
simi amici  suoi,  il  prof.  Luii;i  Sailor,  morto  or  è  poco.  Mi  è  assai  doloroso  dover  volgere  in  un  mesto  rimpianto  le 
attestai  oni  di  riconoscenza  che  avrei  inteso  dirigergli  por  1'  aiuto  eh'  egli,  sempre  cortese  e  buono,  aveva  voluto 
prostarmi. 


Peire  de  la  Cavarana:  '  insieme  vuole  dilTondere  la  conoscenza  e  il  gusto  della  li- 
rica irobadorica  fra  il  nostro  pubblico,  e  bianda  fuori  la  Fiorita  di  Liriche  pro- 
venzali tradotte,  a  cui  aggiunge,  collo  scopo  di  volgarizzare  anche  1'  epopea  fran- 
cese, saggi  di  versione  della  Chanson  de  Roland.  È  febbrile  il  lavoro  di  questi  anni: 
assedia  Daniello,  e  inniiagina  e  prepara  opere  nuove,  come  una  storia  della  lettera- 
tura provenzale,  una  raccolta  di  classici  italiani  per  le  scuole.  Finalmente  in 
principio  del  1883  esce  il  testo  critico  di  Arnaldo.  Nell'anno  stesso  pubblicansi 
altre  cose  sue  minori:  e  tosto  egli  ripensa  un  suo  vecchio  disegno,  una  Storia  della 
lingua  italiana,  messo  da  parte  nell'urgenza  di  altri  lavori,  e  adesso  ripreso  pacata- 
mente. Di  quest'  opera  aveva  già  dato  saggio  nella  stampa  e  nella  scuola;  ''  ma  ora 
egli  intendeva  compirla. 

Tanta  attività  ogni  giorno  crescente  concesse  al  Canello  di  mettere  insieme 
nel  breve  giro  di  poco  più  che  un  decennio  una  cospicua  serie  di  scritti,  i  piìi  im- 
portanti de' quali  furono:  i  Saggi  di  critica  letteraria;  gli  Allòtropi  italiani;  la 
Storia  della  letteratura  italiana  nel  secolo  XVI;  La  vita  e  le  opere  del  trovatore 
Arnaldo  Daniello.  Discepolo  e  amico  del  Canello,  io  non  assorgo  qui  all'ufficio 
severo  del  critico;  ma  restringo  anche  questa  parte  dell'  opera  mia  ne' limiti  mode- 
sti della  affettuosa  commemorazione. 

Fino  al  '77,  in  cui  uscirono  i  Saggi,  il  Canello  parve  in  ispecie  un  promet- 
tente indagatore  della  storia  della  parola;  la  pubblicazione  di  essi  rese  manifesto 
che  il  giovine  glottologo  indagava  e  meditava  anche  la  storia  delle  letterature;  che 
presso  il  linguista  e'  era  il  critico.  «  Intelletto  acuto  di  critico,  dottrina  multiforme 
di  filologo,  e  maturità  di  pensatore  che  risale  dai  fatti  alle  leggi  »  come  a  ragione 
fu  notato,  ■  dimostransi  in  questo  primo  volume,  nel  quale  1'  autore  espone  il  con- 
cetto della  vita  e  dell'arte,  eh'  ei  s'era  formato,  e  sotto  di  esso  ordina  e  armonizza  le 
tre  parti  del  libro:  Letteratura  generale;  Letterature  neolatine;  Letteratura  tedesca. 
Qual  è  questo  concetto?  Importa  rilevarlo  perchè  non  so  che  il  Canello  l'abbia  poi  mu- 
tato. Cresciuto  all'amore  dell'ellenismo  nella  scuola  del  Ferraj,  studioso  del  Lessing  e 
del  Goethe,  egli  vagheggiava,  come  supremo  ideale,  1'  armonia  intima  del  pensiero  e 
del  fatto,  e  trovava  che  questo  ideale  fu  realtà  nel  periodo  classico  ionico-ateniese, 


'  Il  Canello  voleva  scegliere  le  liriche  trobadoriche  migliori  in  ordine  all'importanza  storica  del  contenuto 
ed  ai  meriti  della  composizione,  e  sarebbero  state  le  stesse  che  formarono  la  Fiorita  tradotta.  Di  queste  avrebbe 
offerto  nella  sua  Crestomazia  i  testi  critici. 

■'  Son  saggio  di  quest'  opera  i  Diporti  Filologici,  per  i  quali  vedi  l'Elenco  bibliograiioo  agli  anni  1S76,  1877, 
1878;  e  l'articolo  Lingua  e  Dialetto  pubbl.  nel  Qiorn.  di  FU.  Romanza,  I,  pagg.  2-12.  Nella  scuola  rammento  un  corso 
sugli  inglesismi  e  su'  francesismi  nell'  italiano,  che  doveva  entrare  nell'opera,  fatto  il  1877-78,  e  ripetuto  nell'ul- 
timo anno  dell'insegnamento  del  C.inello,  1882-83.  Il  Guekzoni  pubblicò  a  pagg.  32-33  del  suo  Discorso  F Indica 
dell'  opera,  che  corrisponde  a  quello  comunicatomi  dal  prof.  Sailer,  a  cui  fu  inviato  dal  Canello  già  nel  '77.  Se  lo 
spazio  me  lo  consentisse  trarrei  dai  doei^menti  del  Sailer  anche  la  prefazione  nello  stosso  '77  preparata. 

"  G.  Teezza,  Sttidi  Critici,  1S78,  pag.  271. 


—   XSXII   — 


ed  animò  1'  arte  in  esso  prodotta,  la  più  bella,  che  abbia  rallegrato  il  mondo.  Que- 
sl' armonia  rappresenta  l'età  virile  dell'  umanità,  la  quale,  come  ciascuno  de'  suoi 
componenti,  corse  i  tre  stadi  della  vita,  ed  ebbe  la  sua  giovanile  acerbità,  la  maturità 
e  la  vecchiezza:  fu  giovine  nell'oriente  indiano  ed  ebraico,  ove  la  civiltà  s'arrestò  ad 
una  eterna  infanzia,  fu  matura,  lo  vedemmo,  nella  Grecia,  bamboleggiò  decrepila 
nell'alessandrinismo;  si  ravvivò  nell'  età  migliore  di  Roma  e  della  sua  letteratura  per 
ricadere  spossata  nella  senilità  bizantina,  mentre  ringiovanì  nel  medioevo  occiden- 
tale, e,  ritemprala,  riascese  1'  erta  faticosa  raccostandosi,  col  rinascimento  italiano, 
alla  somma  vetta  raggiunta  nell'Eliade;  fu  risospinta  da  influenze  avverse,  ma  potè 
mano  mano  riguadagnare  le  cime  perdute  ne' rinnovamenti  spagnuolo,  inglese, 
francese  e,  infine,  meglio  ancora  che  altrove,  nella  Germania  luminosa  del  Goethe, 
col  quale  rifiori  l'ideale  ellenico,  che,  vinte  le  estreme  resistenze  opposte  dal  ro- 
manticismo moderno,  ormai,  nella  rinnovazione  scientifica  e  morale  della  società 
europea,  ci  domina  e  e'  inspira.  La  virile  armonia  del  pensiero  e  del  fatto,  del- 
l' ideale  e  della  realtà,  s'  estrinseca  nell'  arte  classica;  la  disarmonia  infantile  o  se- 
nile del  volere  e  del  potere  s'  esprime  nell'  arte  romantica. 

Ora  questo  classicista,  com'egli  con  l'usata  franchezza  si  protestava,'  anzi 
che  volgersi  tutto  allo  studio  della  letteratura  ellenica  e  latina,  od  a  quello  della  ri- 
nascenza, consacrava  il  meglio  delle  sue  forze  e  del  suo  tempo  alla  investigazione 
della  civiltà  medievale  in  cui,  secondo  il  suo  pensiero,  il  romanticismo  era  sotten- 
tralo liberamente  e  vastamente  al  classicismo.  Come  si  spiega  questa  contraddizione? 
Perchè  egli  innamorato  di  Omero  e  di  Sofocle,  di  Virgilio  e  di  Orazio,  dell'  Ariosto 
e  di  Cervantes,  di  Shakespeare  e  di  Goethe  si  staccava  dalle  divinità  olimpiche  del 
suo  pensiero,  lasciava  le  raggianti  sfere  della  loro  poesia,  e  scendeva  nel  buio  del- 
l' età  di  mezzo?  Il  Canello  non  era  solo  un  critico  dell'  arte;  era  anche  un  critico 
della  storia;  e  se  l'arte  giudicava  dietro  la  guida  del  Lessing,  meditava  la  storia 
dietro  la  guida  del  Gervinus.  Ora,  la  storia  non  s' intende  se  si  rompe  in  fram- 
menti, ma  se  si  prosegue  nella  sua  maravigliosa  continuità,  nel  suo  svolgimento 
fatale.  Questa  necessità  d'  ordine  scientifico  conciliantesi  col  naturale  allettamento 
degli  studi  nuovi  e  con  ragioni  di  opportunità  materiale  trasse  il  Canello  dallo 
studio  de' periodi  virilmente  classici  a  quello  de' periodi  giovanilmente  romantici  ; 
dall'età  matura  della  storia  o  dell'arte  all'età  delle  origini.  Per  lui,  che  agli  studi 
romanzi  non  fu  condotto,  come  altri,  dalla  corrente  romantica,  il  medioevo  presenta 
un  interesse  essenzialmente  storico.  «  Bisogna  che  gli  uomini  e  le  nazioni,  scrisse 
egli,  arrivali  a  certi  punti  del  loro  svolgimento,  ripieghino  indietro  lo  sguardo,  e 
notino  le  vittorie  riportale,  e  le  soffcrle  sconfitte;  ricordino  onde  sono  parlili,  per 


Velli  Saggi  di  Crii,  Leti,,  pag.  119. 


sapere  ove  debbono  arrivare.  »  '  La  bontà  estetica  poi  dell'  arte  medievale  per  lui 
era  assai  relativa:  «  questa  poesia  medievale  si  studia,  non  per  l' interesse  artistico, 
ma  per  r  interesse  storico,  perchè  a  noi  piace  vedere  la  continuità  nella  storia  della 
cultura,  perchè  ci  piace  scoprire,  s'è  possibile,  le  origini  delle  cose  tutte,  e  in 
ispecie  della  poesia.  »  - 

Dalla  considerazione  del  pensiero  dominante  ne' 5a/7^i  del   Canello  non  pos- 
siamo ora  scendere  allo  studio  minuto  di  essi.  Vedemmo   quale  giudizio  ne  abbia 
dato  un  critico  eminente;  aggiungeremo  che  la-  parte  migliore  di  questi  scritti   è 
senza  dubbio  1'  ultima  sulla  letteratura  tedesca,  che  il  Canello  trasse  dalle  belle  le- 
zioni fatte  all' Accademia  scientifico-letteraria  di  Milano.  «  Lo  studio  su  Goethe, 
scrisse  già  il  Trezza,  è  uno  de'  più  compili  e  si   legge  fruttuosamente  anche  dopo 
la  monografìa  stupenda  del  Lewes.  «  '  Ma  1'  opera  di  lunga  lena,  in  cui  meglio  si 
spiegarono  le  attitudini  del  Canello  alla  forte  concezione  ed  al  largo  studio  della 
storia  letteraria,  fu  la  Storia  della    letteratura  italiana  nel  secolo  XVI.   Come 
ne"  Saggi,  e  come,  più  tardi,   nel  tentativo  di  Storia  letteraria  della  Provenza  pre- 
messo alla  Fiorita  di  liriche  trobadoriche,  il  Canello  considera  e  studia  anche  qui 
la  letteratura  quale  una  vera  e  propria  funzione  della  vita  evolutiva  della  società. 
«  Lo  studio  delle  forme  c'importa,  egli  avverte:  senza  conveniente  rappresentazione, 
nessun  contenuto  ha  valore;  e  la  forma  è  poi  generata  in  questo  o  in   quel  modo 
dalla  qualità  del  contenuto,  cosi  che  per  questa  intima  loro  connessione  non  si 
può  giudicare  dell'  uno  senza  tenere  stretto  conto  dell'  altra.  Ma  l' obbietto  primo 
della  nostra  ricerca  dovrà  pur  sempre  rimanere  il  contenuto,  vale  a  dire  gl'ideali 
e  le  idee  che  si  mostrano  nelle  forme  letterarie  del  cinquecento.  »  "  Questi  ideali 
e  queste  idee  sono  la  rifrazione  della  realtà  nella  fantasia  del  poeta  e  nel  pensiero 
dello  scienziato;  e  poiché,  vivendo  nella  fantasia  e  nella  mente  degli  uomini,  tendono 
necessariamente  ad  attuarsi,  riescono  fattori  potenti  della  vita  reale  presente  e   fu- 
tura: gì'  ideali  dunque  e  le  idee  fluiscono  dalla  realtà,  e  sovr'essa  influiscono.  Quale 
fu  la  vita  reale  pubblica  e  privata  del  cinquecento  in  Italia?  Data  quella  premessa, 
spunta  necessario  questo  quesito.  E  il  Canello  risponde  ad  esso  nei  due  primi  ca- 
pitoli della  sua  Storia,  a' quali  servono  di  complemento  e  d'illustrazione  nel  capitolo 
successivo  le  biografie  di  sei  fra  i  più  insigni  scrittori  del   tempo,  del  Machiavelli, 
del  Guicciardini,  dell'Ariosto,  del  Bembo,  del  Tasso,  del  Bruno.  Nella  vita  pub- 
blica, uscendo  dalla  disgregazione  barbarica  medievale,  si  eran  venuti  costituendo  e 
si  rassodavano  gli  Stati;  nella  vita  privata  si  formava  un'altra  unità,   la   famiglia. 
Queste  tendenze  e  questi  fatti  diventano  ideali  ed  idee  nella  testa  del  poeta  e  del 


'  Tedi  Saggi  di  Crii.  Lett,  pag.  154. 

■  Vedi  ibid.,  pag.  -243. 

^  Vedi  Trezza,  oj).  e  ?.  cit. 

'  Vedi  pag.  v-vi. 


pensatore:  e  nel  corso  dell'opera  l'autore  esamina  come  si  riflettano  nelle  forme 
letterarie,  nella  poesia  narrativa,  nella  lirica,  nella  drammatica,  nella  storiografia, 
ne'  discorsi,  ne'  dialoghi  e  ne'  trattati  scientifici.  Allo  studio  del  contenuto  della 
nostra  letteratura  del  cinquecento  segue  1'  esame  delle  teoriche  letterarie  e  delle 
questioni  linguistiche  allora  escogitate  e  dibattute.  Questo  il  quadro  offerto  dal  Ca- 
nello.  É  buono?  È  cattivo?  Censure  non  poche  possono  farsi  e  furono  fatte  a  que- 
st'opera; '  ma  certo  è,  e  da  tutti  fu  riconosciuto,  che,  senza  contare  la  bontà  di 
talune  parli,  1'  ordinamento  simmetrico  e  vigoroso  dell'  insieme  svela  qualità  supe- 
riori neir  ingegno  dell'autore,  e  che  d'uno  studio  comprensivo  della  letteratura  del 
nostro  cinquecento  fu  questo  il  primo  tentativo,  e  fu  tentativo  geniale  e  originale. 
Alcune  accuse,  del  resto,  prevenne  lo  stesso  autore  confessando  che  difetto  di  tempo 
e  di  mezzi  gli  tolse  di  condurre  l'opera  sua  come  avrebbe  voluto  e  potuto:  '  al  che 
aggiungo,  che  il  Canello,  con  la  tenacia  a  lui  propria,  rivedeva  il  suo  libro,  e  va- 
gheggiava, secondo  una  volta  mi  disse,  di  svolgere  largamente  coli' aiuto,  se  gli 
fosse  riuscito,  di  suoi  allievi,  gli  studi  avviali  sopra  un  soggetto  tanto  importante  e 
a  lui  cosi  caro. 

Egli  considerava  «  il  dugento  provenzale,  il  cinquecento  italiano  e  il  settecento 
tedesco,  i  tre  più  floridi  momenti  dell'  arte  moderna,  come  una  graduale  riprisli- 
nazione  della  vera  arte  antica.  »  '  Dell'  amor  suo  alla  letteratura  delle  ultime  due 
di  queste  epoche  conosciamo  ormai  le  prove;  resta  che  accenniamo  al  massimo  dei 
suoi  lavori  intorno  la  letteratura  provenzale,  tiW  Arnaldo  Daniello.  Il  linguista, 
che  della  sua  virtù  aveva  ormai  offerto  splendido  saggio  neg\ì  Allólropi,  e  il  critico 
qui  si  riunirono  per  superare  una  difficoltà  cercata  con  l'  ardimento  de'  forti.  Il 
Canello,  sdegnoso  delle  vie  comuni,  amava  affrontare  i  problemi  più  oscuri:  «  le 
cose  difficili  0  anzi  difficilissime,  scrisse  egli  slesso,  hanno  sempre  avuto  per  me 
una  particolare  attrattiva.  »  '  Cosi,  confidando  giustamente  nel  suo  acume  affinalo 
da  quotidiano  esercizio,  egli  si  pose  a  spiegare  un  poeta  arduo  a'  contemporanei  ed 
a'  migliori  provenzalisti  moderni.  Tornerebbe  superfluo  che  io  lungamente  insistessi 
a  discorrere  ùeW  Arnaldo  ;  esso  è  troppo  recente  e  troppo  conosciuto  da' romanisti. 
Questa  sudala  opera  non  solo  ha  il  merito  di  essere  il  primo  testo  critico  di  un 
trovatore  elaboralo  fra  noi,  ma  onora  in  genere  gli  sludi  romanzi,  poiché,  secondo 
disse  anche  il  Bartsch,  ^  tanto  studio  e  tanta  sollecitudine  non  erano  ancora  stati 
consacrati  a  nessuno  degli  antichi  poeti  ocitanici.  So  che  1'  enigma  forte  non  fu 


'  Vedi  D.  Gkoli,  Nuova  Antologia,  XXIV,  18S0,  pagg.  332-356;  G.  Koertixg,  Litcraturblati  fiir  germ.  und  rom. 
Pini.  1882,  nuiQ.  1,  col.  22-26;  F.  Tokbaca,  Giorn.  di  FU.  Romanza,  IV,  pagg.  117-122.  Non  mi  occupo  di  altre  recen- 
sioni meno  importanti. 

'  Vedi  pag.  vii  nella  Prefaz.  all'  opera. 

'  Vedi  Saggi  di  Orit.  Leti.,  pag.  119,  UT. 

'  Vedi  Arnaldo  Daniello  ,  pag.  ni. 

'■  Vedi  la  sua  recensione  dell'opera  del  C.inello  nella  Zcitschri/t  del  Groeber,  VII.  pag.  582. 


interamente  chiarito;  e  lo  presemi  il  Caneilo  stesso  nel  porsi  al  cimento:  «  fallirò 
anclie  nell'impresa,  egli  pensò;  ma  è  pur  sempre  sperabile  che  per  via  io  venga 
rimovendo  questo  e  quel!'  ostacolo,  cosicché  meno  disagevole  essa  abbia  a  riuscire 
a  chi  volesse  ritentarla  dipoi.»  '  Nell'impresa  egli  non  è  fallito,  ed  ha  fatto  ben  più 
che  rimuovere  questo  e  quell'ostacolo:  è  certo  che  se  per  ogni  parte  non  furono 
rese  diafane  le  caras  rhnas  d'  Arnaldo,  la  sua  poesia  nel  complesso  non  è  più  cosi 
densamente  problematica,  e  certo  è  del  pari  che  il  Caneilo  ha  dimostrala  una  cosi 
geniale  penetrazione,  e  diede  saggio  di  un  metodo  cosi  lucido  e  giusto  specialmente 
neir  ordinamento  del  materiale  usalo  per  l'edizione  e  nella  costituzione  del  testo  da 
recare  il  miglior  servigio  alla  scienza  ed  al  suo  nome. 

Tale  r  opera  scientifica  del  Caneilo.  Egli  fu  dunque  glottologo  e  critico;  ma  e 
come  glottologo  e  come  critico,  poiché  in  lui  dominava  la  tendenza  speculativa, 
causa  di  suoi  pregi  e  di  suoi  difetti,  ci  apparisce  anzi  tutto  un  pensatore.  Cercare 
e  ordinare  i  fatti  non  gli  bastava:  egli  voleva  scoprire  la  legge,  che  li  ha  prodotti  e 
li  governa.  A  questo  miriamo  tutti;  ma  è  necessario  possedere  la  serena  facoltà  di 
attendere  dal  numero  crescente  delle  prove  la  possibilità  di  stabilire  sicure  dottri- 
ne; altrimenti  la  legge  de' fatti  non  riesce  la  sintesi  positiva  o  più  probabile  delle 
indagini  particolari  obbiettive  e  minute,  ma  una  nostra  frettolosa  creazione  fanta- 
stica. Di  qui  la  coscienza  negli  studiosi  della  necessità  di  rendere  sempre  meglio 
perfetta  1'  analisi  de'  fatti ,  di  affinare  il  metodo  della  ricerca  per  poter  avere  così 
abbondanti,  così  certe,  così  ordinate  le  prove  da  ottenere  un  procedimento  critico 
preciso  e  conclusivo.  Il  Caneilo  invece  dalla  investigazione  dei  fatti  trascorreva 
talora  troppo  presto,  coli' amore  del  poeta  che  persegue  una  imagine  bella,  a  fer- 
mare la  teoria;  nò  sempre  sapeva  resistere  al  desiderio  di  supplire  colle  gagliarde 
sue  forze  ideative  al  difetto  di  materiale,  ricavandone  cosi  costruzioni  geniali,  in 
cui  il  filosofo  e  r  artista  si  confondevano,  ma  non  effettivamente  solide.  La  brama 
impaziente  del  nuovo  qualche  volta  lo  trasse  ad  abusare  delle  qualità  preziose  delia 
sua  intelligenza,  e  lo  illusero  le  parvenze  del  paradosso.  Ma  1'  armonia  dell'  ardi- 
mento e  della  prudenza  è  di  pochi  privilegiati:  forse  nella  maturità  piena  degli 
anni  e  degli  studi  il  Caneilo,  che  ad  essa  mirava,  sarebbe  riuscito  a  comporla  in 
sé  stesso  attenendo  per  tal  modo  le  splendide  promesse  del  suo  ingegno. 

E  quale  fu  egli  come  uomo?  Candido  operaio  della  scienza,  lungi  dalla  realtà 
volgare,  in  una  sfera  alta  cercava  le  gioie  pure  del  pensiero;  onde  la  sua  vita  fu 
tutta  raccolta  in  una  meditabonda  solitudine.  Figlio  de'  campi  serbò  intatte  la 
schiettezza  e  fierezza  native;  ebbe  sola  religione  la  verità.  Si  temprò  saldamente  nella 
lotta  ostinata  per  la  esistenza  :  fu  quindi  severo  e  pensoso.  Aborri  da  vanitosi  at- 
teggiamenti, sdegnò  facili  plausi;  ambi  solo,  intellettualmente  e  moralmente  aristo- 


'  Vedi  Prefazione  aW Arnaldo,  pag.  in. 


—    XXXVI   — 

cralico,  l'ardua  lode  de' sommi.  Come  tulli  i  forti  fu  semplice  e  buono:  non 
isprecò  tuttavia  i  tesori  del  suo  cuore  squisito,  ma  li  serbò  a  pochi  degni,  co' quali, 
e  nella  intimila  confidente  della  famiglia,  l'uomo  rigido  scioglievasi  a  festività  se- 
rena. Dopo  durissime  prove,  colle  sole  sue  forze,  era  giunto  a  procurarsi  lieto  e 
sicuro  l'avvenire.  Tutto  oramai  gli  arrideva:  gli  era  rinata  la  fede  nella  ribelle  sa- 
lute: r  ordinariato  e  il  premio  di  Montpellier'  meritamente  avevano  compensato  le 
sue  lunghe  fatiche.  Fuori  sonava  onorato  il  suo  nome  :  nella  casa  lo  beava  la  grazia 
ineffabile  del  crescente  figliuolo:  egh  potè  dirsi  finalmente  contento.'  Ma  questa 
frase  gli  parve  fatale;  non  doveva,  povero  Canello,  essere  felice.  Il  29  maggio  4883 
uscito  a  diporto,  inesperto  auriga  d'  una  rozza  bizzarra,  dalla  sua  casa  di  campa- 
<Tna,  fu  travolto  in  una  corsa  perigliosa,  balzò  di  carrozza  per  salvarsi,  ma,  ca- 
dendo, appuntellò  il  grave  corpo  sul  gomito  sinistro,  che  si  frantumò.  Vano  riuscì 
ogni  soccorso:  perchè  avesse  più  efficace  e  sollecita  assistenza  fu  tradotto  dalla  villa 
neir  ospitale  di  Padova;  ma  l' infezione  si  diffuse  irresistibile  nel  suo  organismo,  e 
sull'alba  de'  12  giugno  si  spense. 

Nur  der  verdicnt  sich  Freiheit  wie  das  Leben 
Der  taglici!  sie  erobern  muss. 

Con  l'opera  assidua  egli  s'era  conquistali  e  si  conquistava  ogni  giorno  questi 
due  beni  supremi:  la  libertà  e  lavila;  egli  dunque  se  li  meritava.  Invece  sparve  giù 
nell'  eterno  buio  a  irentacinque  anni,  e  non  vive  più,  povero  maestro,  povero  ami- 
co, se  non  nella  fama  delle  sue  opere,  nel  pianto  e  nel  desiderio  della  sua  vedova 
e  del  suo  orfano,  nella  memoria  degli  amici  devoli  e  de'  suoi  allievi. 

Vincenzo  Crescini. 


'  ottenne  la  promozione  ad  ordinano  con  E.  Decreto  9  novembre  1SS2.  —  È  noto  che  la  Società  per  lo 
sti'.dio  delle  lini/ue  roramizc  residente  a  Montpellier  gli  assegnò  per  VAniaìdo  Daniello  il  premio  'che  aveva  desti- 
nato ne'snoi  concorsi  del  1S83  «  au  meilleur  travail  de  pliilologie  romane  >  sia  nel  dominio  dell'oc  che  dell' 0(7. 
Vedi  Revue.  des  langues  romanes,  t.  XXIV,  pagg.  15-16. 

-  .  Ah!  Fanny,  •  esclamava  egli  la  mattina  del  20  maggio,  volgendosi  con  insolita  gaiezza  alla  mesta  com- 
pagna della  sua  vita,  «  Ah  Fanny,  ora  sono  contento  !  »•  Gceezoxi,  Disc.  pag.  4.  Poche  ore  appresso  avs-eniva  il 
funesto  accidente,  qui  sopra  accennato,  che  trasse  il  Canello  a  morire. 


XXXVII  — 


ELENCO  DELLE  OPERE  E  DEGLI  SCRITTI  VARI 

DI  UGO  ANGELO  CANELLO. 


1870.  —  Ricordi  ci'  Autunno.  Versi.  Padova,  Fratelli  Salmin. 

1871-72.  —  Il  prof.  Feci.  Diez  e  la  filologia  romanza  nel  nostro  secolo.  Rivista  Europea,  1  novembre 
1871  —  1  febbraio  1872. 

1872.  —  Storia  di  alcuni  participi  nelV  italiano  e  in  altre  lingue  romanze.  Rivista  di  Filologia  Ro- 

manza, Voi.  I.  p.  9-19. 

—  A  proposito  ci'  un  luogo  della  Vita  Nuova;  nota  filologica.  Ibid.  p.  46-51. 

—  FoRNAciARi.  Grammatica  Storica  della  lingua  italiana  estratta  e  compendicda  dalla  Gramm. 

romana  di  Fed.  Diez.  P.  I.  Morfologia.  —  De-Mattio.  Sintassi  della  lingua  italiana, 
con  riguardo  alle  pirincipali  attinenze  della  Sintassi  latina  e  greca.  Ibid.  p.  67-60. 
[L'estratto  di  questi  ultimi   tre  articoli  comparve  sotto  il  titolo:  «  Tre  studi  neola- 
tini »  Imola,  Galeati]. 

1873.  —  Del  Metodo  nello  Studio  delle  Lingue  Romanze.  Prelezione  tenuta  nella  R.  Università  di 

Padova.  Rivista  Europea,  1  febbraio  1873. 

—  Sidla  Storia  della  Lingua  Italiana.  Lezione  tenuta  nella  R.  Università  di  Padova.  Estratto 

dal  Corriere  Veneto  giornale  padovano. 

—  Dei  Sepolcri,  carme  di  Ugo  Foscolo  commentato  per  uso  delle  scuole.  Padova,   tip.  del 

Seminario,  M.  Bruniera. 

—  Recensione  del  I  Voi.  àeil'  Archivio  Glottologico  Italiano,  neW  Archivio  Veneto.  Tomo  YL. 

parte  I.  p.  139-49. 
1S14:.  —  Suir  origine  dell'unica  forma  flessionale  del  nome  itcdiano,  studio  di  Fr.  d'Ovidio,  Pisa 
1872.  Recensione  nella  Riv.  di  Filologia  Romanza ,  Voi.  I.  p.  129-33. 

—  Della  «  Positio  Dehilis  »  nel  latino.  Rivista  di  filologia  e  d'istruzione  classica,  Anno  li. 

p.  226-35. 

—  Appendice  alla  «  Storia  di  alcuni  paìiicipii.  »  Riv.  di  FU.  Romanza,  Voi.  I.  p.  188-91. 

—  TI  Vocalismo  tonico  italiano  :  §§  1-8.  Ibid.  p.  207-225. 

—  Recensione  del  II  Voi.  dell'  Archivio  Glott.  Italiano  Ibid.  p.  273-75. 

1875.  —  Etimologie.  Ibid.  Voi.  H.  p.  111-12. 

—  Il  GidnicelU  è  bolognese?  Ibid.  p.  116. 

1876.  —  La  Domenica  mattina,  daU'  alemannico  di  P.  Hebel.  Nel  Le  Prime  Letture  del  prof.  Luigi 

Sailer  (Milano),  Voi.  dell'anno  VII.  p.  31-32. 

—  Lingue  Sintetiche  Lingue  Analitiche.  Ibid.  p.  171-76. 

—  Le  Corti  cV  Amore:  I.  La  favola.  Ibid.  p.  286-88. 

—  »  »         II.  Origine  e  morale  della  favola.  Ibid.  p.  300-4. 

—  Diporti  filologici.  I.  A  tavola.  Ibid.  p.  345. 

—  Federico  Diez  e  le  lingue  neolatine.  Illustrazione  Italiana,,  20  agosto  1876,  p.  183. 

1S77.  —  P.  Rajna,  Fonti  dell'  Orlando  Furioso.  Recensione  nella  Zeitschrift  filr  Romanische  Phi- 
lologie.  T.  L  p.  125-30. 

—  Il  Vocalismo  tonico  italiano.  §§  9-11.  Ibid.  p.  610-22. 

—  Perder  V  erre.  Ibid.  p.  667. 

—  Saggi  di  Critica  Letteraria.  Bologna,  ZanicbeUi. 

—  Diporti  filologici.  II.  Abiti  esterni  ed  Abiti  inferni.  Nel  Le  Prime  Letture.  VIII.  p.  71-79. 


—    XXXVIIl    — 

lS~tl.  —  Diporti fiìoloffici.  III.  Divertimenti.  Nel  Le  Prime  Letture.  Vili.  p.  119-25. 
_        .  »  IV.  Vita  Pubblica.  Ibid.  p.  23440. 

_       :,  »  V.  Monete.  Ibid.  p.  286-88. 

—  !>  »  VI.  Industria  e  Commercio.  Ibid.  p.  326-33. 

1878.  —  Lingua  e  Dialetto.  Giornale  di  FU.  Romanza.  Voi.  I.  p.  2-12. 

—  Sopra  una  canzone  di  Gino  da  Pistoja.  Lettura  di  P.  Canal.  Recensione.  Ibid.  p.  57-58. 

—  a  Arrivare.  »  Le  Prime  Letture.  IX.  p.  26-28. 

—  «  Strada  e  Boute.  »  Ibid.  p.  44-48. 

—  «  Cieco,  Orbo  e  Aveugle  »  Ibid.  p.  58-60. 

—  «  Beccajo  e  Macéllajo.  »  Ibid.  p.  136-,S8. 

—  «  Olio  ed  Oglio.  >  Ibid.  p.  168-70. 

1879.  —  Die  Biographie  des  Trobadors   Guillem  de  Capestaing  und  ihr  historischer    Werth   von 

Emil  Beschnidt.  Recensione.  Giorn.  di  FU.  Romanza.  Voi.  II.  p.  75-79. 

—  Gli  Allòtropi  italiani.  Archivio  Glott.  italiano.  Voi.  III.  p.  285-419. 

1880.  —  Storia  della  Letteratura  italiana  nel  secolo  XVI.  Milano,  Vallardi. 

—  Dei  Sepolcri,  carme  di  Ugo  Foscolo  comm.  per  le  scuole.  II  ediz.  interamente  rifusa.  Pa- 

dova, Draghi. 
1880-81.  —  Peire  de  la  Cavarana  e  il  suo  serventese.  Giornale  di  FU.  Romanza.  Voi.  III.  p.  1-11. 

1881.  — Fiorita  di  Liriche  Provenzali  tradotte.  Bologna,  Zanichelli. 

—  Versioni  dalla  Chanson  de  Roland.  Per  nozze  Turazza-Ferraj. 

—  »  i>  »  »  Nuova  Antologia.  XXIX.  p.  529  sgg. 

1882.  —  Letteratura  e  Darwinismo.  Lezioni  Due.  Padova ,  Draghi. 

—  Dante  imitatore  dei  Provenzali.  Domenica  Letteraria.  Anno  I.  n.  34. 

1883.  —  La  Vita  e  le  Opere  del  Trovatore  Arnaldo  Daniello.  Edizione  critica,  corredata  delle  va- 

rianti di  tutti  i  manoscritti,  d' un' introduzione  storico-letteraria  e  di  versione,  note, 
rimario  e  glossario.  Halle ,  Max  Niemeyer. 

—  Due  versi  greci  nella  Divina  Commedia,  Convivio  (Siracusa)  Anno  I.  n.  1. 

—  <j  Ad  inveggiar  cotanto  paladino.  »  Ibid.  I.  3. 

—  Rapporto  sulla  «  Collezione  di  opere  inedite  o  rare  dei  primi  tre  secoli  della  lingua.  »  Li- 

teraturblatt  fiir  germanische  und  romanische  Philologie.  IV.  1. 

—  Rapporto  sugli  ultimi  volumi  della  Scelta  di  Curiosità  Letterarie.  Ibid.  IV.  6. 

—  Dei  Sepolcri  ecc.  Ediz.  Ili  interamente  rifusa  e  aumentata  d'una  introduzione.  Padova, 

Draghi. 

—  Della  obbiettività  nella  critica.  Lettura  fatta  alla  B.  Accademia  di  Scienze ,  lettere  ed  arti 

in  Padova,  e  pubblicata  nella  Rivista  Periodica  de' lavori  di  essa.  Trimestre  III  e 

IV  del  1883,  voi.  XXXIIL 

A  questo  Elenco  è  da  aggiungere  una  serie  di  articoli  bibliografici  pubblicati  nel  mi- 
lanese Corriere  della  Sera  e  firmati  Sylvanus. 

Il  Canello  lasciò  anche  scritti  inediti.  A  me  sgraziatamente  non  fu  concesso,  per 
quanto  abbia  tentato,  di  vederli;  dal  Guerzoni,  che  a  p.  31  del  suo  Discorso  ac- 
cenna a  «  tutta  la  congerie  del  materiale  inedito,  »  rilevo  unicamente  che  sono 
numerosi.  Lo  stesso  Guerzoni  mi  assicurò  che  l' opera  migliore  delle  postume 
è  il  Disegno  d' una  Storia  della  Lingua  Italiana.  Oltre  alle  Lezioni  sulla  Lettera- 
tura Provenzale  già  notate,  indico  qui,  sempre  valendomi  del  citato  Discorso  del 
Guerzoni,  p.  31.  n.  2,  una  traduzione  compiuta  delle  Affinità  Elettive  del  Goethe, 
una  versione  in  prosa  della  Chanson  de  Roland,  una  novella  originale  di  Sylva- 
nus. Aggiungo  per  mia  parte  che ,  secondo  quanto  ebbe  a  dirmi  certa  volta  il 
Canello  stesso,  devono  trovarsi  fra  le  sue  carte  i  capitoli  inediti  del  Vocalismo 
tonico  italiano. 

V.  C. 


MISCELLANEA 


FILOLOGIA  E  LINGUISTICA. 


UEBER  DIE  NATIONALITAT  DER  BULGAREN. 


In  der  zweiten  Halfte  des  siebenten  Jahrhunderts  unserer  Zeitrechnung  — 
einige  setzen  die  Begebeiiheit  in  die  Zeit  zwischen  660  und  668  —  eroberten  die  seit 
4^5  geschichtlich  bekannten  Biilgaren  das  von  dem  slavischen  Stamme  der  Slovenen 
bewohnte  Mòsien.  Schou  im  zehnten  Jahrhunderte  waren  die  Eroberer  in  der  Masse 
der  Slovenen  untergegangen  :  tò  twv  XdXojBsvòJv  -jévoi;  eiV  oóv  BouXYàfiwv.  Das  so 
entstandene  Volk  redete  die  slovenische  S^irache,  die  schon  friili  auch  die  bulga- 
rische  liiess  (Vita  Clementis  e.  2).  Dass  das  Volk  bald  ausscliliesslicli  das  biilgarische 
genannt  wtirde,  hat  in  dem  politischen  Uebergewichte  des  nichtslavischen  Bestand- 
theiles  des  Volkes  seinen  Grund.  Nicbt  die  Zahl,  sondern  die  staatliche  Bedeutung 
ist  bei  der  Namengebung  entscheidend ,  wie  die  Namén  Frauken,  Russen  u.  s.  w. 
deutlich  zeigen. 

Was  fur  eiA  Volk  waren  nuu  die  Bidgaren?  Dass  sie  keine  Slaven  waren,  darf 
als  unbestreitbar  angesehen  werden;  allein  in  der  Beantwortung  der  Frage,  welcher 
Vòlkergruppe  sie  zuzuweisen  seien,  gehen  die  Forscher  auseinander.  Zeuss  722 
meint,  dass  sie,  mit  den  Huunen  verwandt,  zum  grossen  Nomadengeschlechte  der 
Tlirken  gehòrten.  Safafik,  Sebrané  spisy  2.  176,  hàlt  sie  fur  eineu  Zweig  des  iin- 
nischen  Volkes.  Derselben  Ansicht  ist  Peschel  409.  Nach  Eòsler,  Romànische 
Studien  251 ,  259 ,  waren  die  Bulgaren  ein  Stamm  der  von  ihm  fiir  Ugrier  gehaltenen 
Samojeden  oder  diesen  zunàchst  verwandt,  wobei  namentlich  an  die  Juraken  nnd 
Ostjak-Samojeden  gedacht  wird.  P.  Hunfalvy,  der  Vàmbéry's  Behauptung  von  dem 
tiirkisclien  Ursprunge  der  Bulgaren  bekampft,  meint,  die  Bulgarensprache  sei 
keine  ausschliesslich  tiirkisclie,  sondern  vielmehr  eine  ugrische,  d.  i.  finnische, 
gewesen  (Vàmbéry's  Ursprung  der  Magyaren  15).  Die  Gelehrten  rechnen  demnach  die 
Bulgaren  theils  zu  den  Turken,  theils  zu  den  Finuen,  theils  endlich  zu  den  Sa- 
mojeden. Der  unbestimmte  Ausdruck  «  Altaier  »  ist  mit  Eecht  aufgegeben  worden. 

Indem  ich  nun  die  Streitfrage  priife,  mòchte  ich  vor  allem  die  Samojeden 
beseitigen  :  Ròsler's  Griinde  scheinen  mir  niclit  beweisend.  Was  jedoch  die  Turken 
und  die  Finnen  betrifft,  so  mochte'icb  beide  Volker  an  der  Bildung  der  bulgarischen 
Nationalitàt  Theil  nehmen  lassen,  die  ersteren  als  die  fuhrenden,  die  letzteren  als 

1 


ilie  folgendeu ,  folgsameu.  Mir  scheint  dies  mit  deu  in  der  Gescliiclite  hervortretenden 
Naturanlagen  beider  Vòlker  im  Einklange  zu  stehen.  In  welchem  Zahlenverhiiltnisse 
sie  an  der  Bildung  der  Nationalitàt  der  Bulgaren  Antheil  haben,  isfc  ein  Geh.eimniss 
und  wird  es  filr  alle  Zeiten  bleiben,  da  wir  hier  nicht  wie  bei  den  Magyaren  eine 
lebende  Sprache  befragen  kònnen.  Die  Sprachen  der  Drànger  und  derjenigen,  die 
ilmen  Heeresfolge  leisteten,  sind  verklungen.  Dass  in  alter  Zeit  eine  Ideine  Anzahl 
kraftvoUer  Fiihrer  ein  zahlreiches  Volk  wie  eine  Heerde  vor  sich  ber  nnd  in 
Schlachten  treiben  konnte ,  zeigfc  die  Geschickte  der  Wenden ,  wie  sie  uns  Fredegar 
aus  dem  siebenten  Jahrhundert  erzàhlt:  «  Winidi  Befulci  (Praefulci)  Chunis  fuerant 
jam  ab  antiquitus,  nfc  cum  Chuui  in  exercitu  centra  gentem  quamlibet  adgre- 
diebant,  Ckuni  prò  castris  adunato  illorum  exercitu  stabant,  Winidi  vero  pugna- 
bant.  Si  vero  ad  vincendum  praevalebant ,  tuno  Ckuni  praedas  capiendum  adgre- 
diebant;  sin  auteni  Winidi  superabautur,  Ckunorum  auxilio  fulti  vires  resumebant. 
Ideo  Befulci  (Praefulci)  vocabantur  a  Ckunis,  eo  quod  duplici  in  congressione 
certaminis  vestita  praelia  facieutes  ante  Ckunos  praecederent  ».  Nack  Zeuss  736 
entkalt  der  Scklusssatz  eine  misslungene  Etymologie:  bei  he  sckeint  an  his  gedackt 
worden  zu  sein.  AVer  praefurci  statt  praefulci  liest,  erhàlt  eine  Form,  dio  niclit 
nur  einen  altsloveniscken  préduborici  [Vorkampfer,  ;tpó[xay_o?]  so  genau  als  mòglick 
entsprickt,  sondern  auck  in  die  KStelle  vollkonimen  kineinpasst.  Nackweisbar  sind 
altslov.  borici  àYcavtarfji;  und  prédùborinikù  7Cfjó|j,ay_oc.  Daker  ist  die  Stelle  zu 
iibersetzen:  «  Die  Wenden  dienten  den  Hunnen  von  altersker  als  Vorkampfer  » 
u.s.w.  Bei  den  Ziigen  der  Magyaren  mogen  die  Tiirken  die  Eolle  der  ikneu 
stammverwandten  Hunnen ,  ^ie  weit  zablreickeren  Finnen  kingegen  die  der  Wen- 
den gespielt  kaben.  Das  Magyariscke  ist  eine  finnisoke  Spracke. 

Das  kier  dargestellte  Verkàltniss  ist  geeignet  das  Ràtksel  zu  lòsen,  wie 
es  kam,  dass  so  viele  gewaltige  Vòlker,  die  ganze  Liinder  mit  Sckrecken  erfullten, 
in  kurzer  Zeit  spurlos  aus  der  Gresckickte  versckwinden ,  wie  die  Avaren,  von 
denen  Nestor  sagt:  pogybosa  aky  Obre,  ikiize  néstì  plemeni  ni  naslèdinika.  So 
gingen  auck  macktige  deutscke  Vòlker  unter,  wie  die  Gotken,  Gepiden,  Sueven, 
Burgunden. 

Nodi  eine  Bemerkuug  sei  mir  gostattet  kier  anzuscklicssen.  Hinter  den  Slaven 
im  Osten  woknen  nicktariscke  Vòlker,  die  die  keutige  Etknograpkie  in  drei  Gruppeu 
zerfallt  und  zwar,  wenn  man  vom  Norden  gegen  Sùden  fortsckreitot,  Samojeden, 
Finnen  (UraUer)  und  Tiirken  (Altaier).  Von  diesen  Vòlkern  kaben  die  Tiirken 
zaklreicke  Eroberungsziige  gegen  Westen  unternommen,  bei  denen  ikneu  wohl 
mekr  als  einmal  Finnen  Heeresfolge  leisteten.  Sckon  der  tinilbertroflEene  Zeuss  kat 
die  Hunnen,  die  Bulgaren,  die  Avaren,  die  Ckazaren,  die  Petsckenegen  und  die 
Kumanen,  sowie  einige  miiider  bedeutende  Vòlkersckaften  als  Tiirken  erkannt. 
Damit  stimmen  neuere  Forsokungcn  iiborein  :  man  vergleicke  Golubovskij's  gelekrte 
Abliandlung:  Pecenégi,  Torki  i  Polovcy,iii  den  liiewer  Universitàtsberickteu,  1883, 
Màrz.  Die  Finnen  kaben  allein  wokl  nie  einen  Eroberungszug  unternommen. 

Dass  der  Name  Bulgaren  ein  tiirkisckes  Volk  bezeicknet,  ergiebt  sick  daraus, 


tlass  bis  ziim  lieutigen  Tag  die  turkisclieii  Bewohuer  des  Gouvernemeiits  Kazan 
sicli  eutweder  nach  dem  Glauben  Muselmauner,  oder  nach  der  Abstamniung 
Biilgaren  nenueu  (Ostroumov  10). 

Dass  die  Bezeichuungen  der  Aemter  uud  Wiirden  bei  deu  Bulgaren  aixs  der 
Sprache  des  herrscheudeii  Volkes  entlehnt  wiirden,  ist  natiirlich.  Von  diesen  Be- 
zeiolmuugen  %vill  ioli  hier  zwei  vorfiiliren,  von  denen  die  eine,  sanù,  nach  meiner 
Ansickt  unzweifelhaft,  die  andare,  boljarinu,  wahrscheinlich  tiirkisclien  Ursprungs  ist. 

Die  Sprache  der  pannonischen  Slovenen  war  in  der  zweiten  Hàlfte  des  neunten 
Jahrhunderts  Sprache  der  Kirche  geworden.  Sie  wurde  am  Ende  des  neunten  oder 
zu  Anfang  des  folgeuden  Jahrhunderts  mit  den  Kirchenbiichern  zu  den  Bulgaren 
gebracht.  Hier  wurde  eine  gròssere  Anzahl  von  Bùchern  verfasst,  theils  von 
unmittelbaren  Schùlern  Method's,  pannonischen,  theils  von  bulgarischen  Slovenen. 
Es  ist  natiirlich,  dass  in  diese  Biicher  aneli  Wcirter  Eingang  fanden,  die  den  panno- 
nischen Slovenen  unbekannt  waren.  Zu  diesen  Wortern  gehort  sanù  iind  wohl 
aneli  boljariiiii. 

I.  Tiirk.  san,  Ansehen;  sanie,  beriihmt;  sanmak,  dafiir  halten,  scliatzen.  Zenker 
493.  2;  563.  2.  Hindoglu  262.  269.  Nach  Pavet  342  ist  osttiirk.  sanamak,  compter, 
estimer;  nach  Ostroumov  iij.  bedeutet  san  Ehre.  Aus  dem  tiirk.  stammt  auch  das 
kurd.  san,  compte.  Fick's  Zusammenstellung  des  altslov.  sanii  mit  altind.  san 
1.  789.  ist  unrichtig.  --  Altslov.  sanii,  honor,  dignitas,  potestas:  sup.  50.  10.  contu- 
bernium  ist  wohl  falsch.  Von  sanii  stammen  sanovitìi,  sanovinilm,  sanoljubici 
u.  s.  w.  Das  Wort  liat  mit  den  Kirchenbuchern  Eingang  in  das  russ.  gefunden  : 
dasselbe  gilt  vom  kleinruss.  Die  heutige  Volkssprache  der  Serben,  wie  die  ubrigen 
lebenden  slavischen  Sprachen,  kennen  das  Wort  niclit.  In  die  iilteren  serbischen 
Denkmaler  ist  santi  aus  der  Kirchensprache  eingedrungen  :  man  vergleiche  Danicic 
rjecnik.  Sanovnik  in  den  von  Petranovic  lieransgegebenen  Volksliedern  3.  67.  zeugt 
fast  gegen  die  Echtheit  des  Liedes.  Mit  sanù  glaube  idi  samùcija,  samùcij  oly.ovófj-o? 
in  Verbindung  bringen  zu  sollen,  indem  idi  es  fùr  aus  sanùcija  eiitstanden  ansehe: 
san  mit  dem  tiirk.  Suffix  ce,  dze.  Mit  samùcija  hàngt  zusammen  aa[n[jfji;  Vita  Cle- 
mentis  e.  23:  oO-ev  xai  ite  BouX-i'àpoiv,  'E-/àTC'']C  trjv  xX'ijatv ,  aaiJ.(jj-i]<;  tò  à^iwjJ-a.  Unter 
den  Namen  der  Gesandten  des  Bulgarenherrschers,  welche  auf  dem  Concil  von 
Constantinopel  erschienen,  Mansi  16.  158,  findet  sich  das  Wort  scamphis,  das  Ròsler 
252  fùr  die  Bezeichnung  einer  Wiirde  lialt  und  sampsis  lesen  mochte.  Sanù  und 
die  damit  verwandten  Wòrter  siud  im  Codex  Suprasliensis  hàufig:  da  das  Wort 
nicht  pannonisch,  sondern  speciiisch  bulgarisch  ist,  so  glaube  ich  annehmen  zu 
diirfen,  dass  die  Schrift  in  Bulgarien  uud  zwar  von  einem  Schiller  des  Metliod'.s 
verfasst  wurde. 

II.  Schwieriger  ist  die  Deutuiig  vou  boljarinu,  boljari  ap/ow,  uzaioi;,  aoYitXrjnxóc; 
u.  s.  w.  Wenn  man  die  Ableitung  von  bolij  als  kaum  wahrscheinlich  aufgibt,  so 
bietet  sich  das  im  mittelgriechisclieu  vorkommende ,  wahrscheinlich  tùrkische 
PoXia?,  plur.  [joXtaSs?,  etwa  in  der  Form  bolija,  als  Thema  dar,  das  sich  zu  boljari 


—  4  — 

■wie  gospodi  zìi  gospodari  verhalt.  Das  Wort  ist  nicht  allgemein  slavisch:  altslov. 
boljarinù,  wolil  nicht  panuonisch;  bulg.  bolérin;  serb.  boljar  aus  dem  bulg.,  avis 
welcher  Sprache  das  Wort  auch  das  alb.  und  das  rumun.  entlehnt  haben:  bujar, 
bojer.  Wie  ist  jedoch  das  Wort  in  das  russ.  gerathen?  (bojarin)  Kaum  durcli 
Vennittelimg  der  Kirchensprache ,  da  es  ein  der  Volkssprache  allgemein  bekannter 
Ausdruck  ist.  Aus  dem  russ.  haben  das  Wort  die  Litauer  und  Letten  geborgt:  ba- 
joras,  bajàrs. 

Ich  beabsichtige  den  G-egenstand  welter  zu  verfolgen  und  hoffo  darzuthuu, 
dass  der  Anspruch  der  Tiirken  auf  die  Bildung  der  bulgarischen  Nationalitàt  auf 
festeren  Stutzen  ruht  als  der  der  Finuen:  die  fiir  diese  angefùhrten  Grùnde  sind 
nochmaliger  Priifung  bediirftig. 


Franz  Miklosich. 


UEBER  DEN  LATEINISCHEN  URSPRUNG 

1»KR    UOMANISCIIEN    F  LT  XFZEIiNSILBN  ER    UND    DAMIT    VERWANDTEK 
WEITERER    VERSARTEN. 


Im  Jahrbuch  fùr  rom.  und  engl.  Literatur  Bd  XII  und  in  der  Zeitschrift 
fùr  romanische  Philologie  Bd  II,  III,  IV,  476  hat  Bariseli  den  keltischen  Ui'sprung 
einiger  romanischen  Versarteu  verfochten  und  seine  Ansicht  trotz  der  dagegen  von 
Arhois  de  JulainviUe  und  G.  Paris  erhobenen  Einwendungen  aufrechterlialten.  Der 
Schwerpunkt  von  Bartsch's  Argumentation  beruht  uun  was  die  Herleitung  des 
provenzalischen  Vierzehn-  (Fiinfzehn-)  Silbners  aus  dem  Keltischen  statt  aus  dem 
Lateinischen  anlangt,  darin,  dass  ihm  die  mànnliche  Càsur  dieses  Verses  nach  der 
siebenten  Silbe  als  die  ursprungliche  erscheint,  und  zwar  weil  eine  Langzeile  von 
14  Silben  mit  einer  màmilichen  Càsur  nach  der  siebenten  Silbe  in  der  irisclien 
Poesie  eine  gauz  gelàufige  Form  sei.  Die  weibliche  Casur  dùrfe  daher  im  Proven- 
zalischen  nur  vertretungsweise  fur  die  mànnliche  eintreten.  Schon  das  scheide 
den  Vers  streng  vom  ròmischen  Tetrameter,  dem  die  weibliche  Càsur  nach  der 
achten  Silbe  unentbehrlich  ist  (Zeitschr.  II,  218).  Dieser  Auffassung  von  Bartsch 
kann  ich  ebeuso  wenig  wie  Gr.  Paris  (Romania  IX)  zustimmen.  Sie  basirt  meiner 
Ansicht  nach  insbesondere  sowohl  auf  einer  irrigen  Auffassung  von  der  romanischen 
Càsur  iiberhaupt,  wie  auf  einer  Verkennung  der  principiellen  Verwendung  der 
weiblichen  Càsur  in  zweien  der  drei  in  Frage  kommenden  Gedichte  Wilhelm's  IX. 
Unter  Càsur  haben  wir  nach  den  fur  mieli  iiberzeugenden  Ausfiihrungen  Westphals 
(in  der  Einleitung  zur  der  von  ihm  gemeinschaftlich  mit  Rossbaeh  verfassten 
griechischen  Metrik  2"  Aufl.  Leipzig  1868)  nicht  einen  willkiirlich  eingefiìhrten 
Verseinschnitt,  sondern  eine  mehr  und  mehr  verschwindende  Versnaht  zu  verstehen, 
d.  h.  alle  mit  einer  Càsur  versehenen  Verse  sind  als  Perioden  oder  Langzeilen 
anzusehen,  welche  durch  Zusammenfiigung  zweier  metrisclier  Reihen  oder  Kurzzeilen 
entstanden.  '  Der  trochàische  oder  jambische  Rhythmus  der  betreffenden  Verse  ^vird 
nur  scheinbar  unterbroehen,  wenn  die  Càsur  eine  mànnliche  ist,  da  die  ihr  folgende 

'  Nur  don  Aoht-SUbner  mit  Caesur  moohte  ich  als  oinfaclie  Reiho  aiizohen.  Dio  Hiinfizlteit  der  lyrisoben  und 
der  schwaclion  (d.  li.  n.aoh  der  fiinften  unbetonten  Silbe  eintretenden)  Caesur  und  die  Abneignng  vor  der  opisobon 
scheinen  mir  anzudeuten,  d.iss  die  Ciisur  hier  nur  durch  den  Ictus  der  vierten  Silbe  entstanden  ist.  Die  weniBon 
epischen  Gaesuren  diirfton  doni  Zohn-Silbner  ihr  Dasein  verdanken. 


Pause  iu  der  fur  recitirenden  Vortrag  bestimmteu  Poesie  sicherlich  deutlicli  in  die 
Ohren  fiel  und  somit  lange  geiiug  wàhrte  imi  den  Zeitintervall  der  unterdriickteu 
ictenlosen  Silben  auszufitllen.  Der  trochàische  Tonfali  specieU  des  Fiinfzelm-Silbners 
wnrde  also  niclit  verletzt,  wenn  nacli  der  sLebenten  betonten  Silbe  die  Casur  eintrat 
iind  damifc  der  Fiinfzehn-Silbner  zu  einem  Vierzehn-Silbuer  verkiirzt  wurde.  Will 
man  sich  aber  iiber  die  Entstehiing  dieses  Verses  Klarheifc  verschalfen ,  so  wird  man 
zweifelsohue  von  der  volleren  Form  desselben  ausgehen  miissen,  und  ebenso  ■ndrd 
man  bei  der  Erklàrung  der  so  volkstbumlichen  und  beliebten  romanisclien  Versart 
des  Zelmsilbners  (des  itaHenischen  endecasillabo)  zu  verfaliren  haben,  zumai  der 
geschiclitliclie  Verlauf  der  weiblichen  Càsur  hier  ergiebt,  dass  sie  anfangs  auch 
niamerisch  iiberwog  aber  dann  scimeli  mehr  und  mehr  von  der  mànnlichen  verdràugt 
■wiu'de.  (Man  vgl.  nur  Boethius,  Alexis,  Roland  und  Brun  de  la  Montagne.)  Wie 
solite  man  sicli  auch  die  voliere  Form  dieser  Verse  aus  der  kiirzeren  entstanden 
denken? 

Bartsch  hat  aber  auch  ferner  bei  seiuer  Beweisfuhrung  unberiicksichtigt 
gelassen,  dass  nur  in  einem  der  drei  Lieder  "VVilhelm's  IX,  welche  den  Vierzehn- 
respective  Fiinfzehn-Silbner  aufweisen,  die  màunliche  Càsur  verwandt  wird  und, 
dass  auch  in  diesem  neben  sieben  mànnlichen  zwei  weibliche  (B.  G.  183,  3  Z.  15. 
24)  vorkommeu,  wàhrend  -wir  in  den  beiden  anderen  Liedern  nur  weiblichen  Càsuren 
begegnen.  (183,  4  Z.  18  ist  verderbt  uberliefert;  ich  lese:  si  non  pot  aver  cavai,  donc 
ella  compra  falafrei.)  Auch  Marcabrun  verwendet  in  dem  vom  Bartsch  angezogenen 
Gredichte  die  mannUche  und  weibliche  Càsiir  nach  der  siebenten  Silbe.  Somit  musste 
jedenfalls  die  Melodie  auf  die  fiinfzehnsilbige  Form  der  Zeilen  eingerichtet  sein. 
Diese  Ausfiihrungen  dùrften  geuiigen  um  den  Aiisgangspunkt  der  Barfcschschen 
Ai'giimentation  zuriickzuweisen  und  damit  jeden  Anlass  zu  beseitigen  den  Ursprung 
unseres  Verses  statt  in  dem  accentuirenden  Tetrameter  der  ròmischeu  Volkspoesie 
in  dem  vierzehn-  (aber  auch  oft  genug  fiinfzehn-)  silbigen  Vers  der  Kelten  zu 
suchen.  Dass  sie  siimmtlich  aus  der  sechzehnsilbigen  Langzeile  der  Indoeitropaer 
hervorgegangen  sind,  wie  ja  auch  Bartsch  annimmt  (Zeitschr.  Ili,  363),  spricht 
sicher  nicht  gegen  den  rijmischen  Ursprung  des  romanisclien  Verses.  IJbrigens 
erstreckt  sich  die  Verwandtschaft  unseres  Fiinfzehn-Silbners  mit  dem  accentuirenden 
Tetrameter  nicht  nur  auf  die  gleiche  Silbenzahl  und  •  die  gleiche  Casur  nach  der 
acliteu  (siebenten  betonten)  Silbe,  sondern  auch  ausserdem  uoch  darauf,  dass  die 
dritte  und  elfte  Silbe  einen  durch  den  AVortton  deutlich  markirten  Ictus  erhalten, 
so  dass  wir  hier  also  einen  romauischen  Vers  mit  vier  festeii  Accenten  (3,  7,  11, 
15)  voruns  haben,  wàhrend  die  bekannteren  anderen  romanischen  Laugzeilen,  der 
Zehn-und  Zwolfsilbuer,  nur  zwei  solcher  Accente  aufzuweisen  haben.  _  Freilich  hat 
die  schlechte  ÙberUeferung  der  drei  in  Frage  kommendeu  Gedichte  Wilhelm's  IX 
in  dieser  Hinsicht  Aielfach  den  wahreu  Sachverhalt  verdunkelt,  doch  làsst  sich 
derselbe  nodi  durchweg  leicht  wieder  herstellen.  [183,  4,  Z.  6:  iant  l'us  {noill)  larga 
[noill]  l'estaca  que  [plus]  V  altres  (plus)  no  laill  ■pleJ.  Man  beachte  die  so  zu  Tage  tre- 
tende  deutliche    dreifache   Binnenassonauz   und    vgl.   Z.    3   cìainaJa  :  ganlaiflors)  — 


Z.  it:  lì  \froji\  meno  (troj/)  major  ìuiaza  qua  (In)  maiiiada  \fa\  (lei  rei —  F.  b):  n'om  In, 
loigiia  de  [jroeza  qu'aò  mal\eza\  ìioii  plaidei — 183,  5  Z.  15:  [en\  i  liaison,  wie  Bartsch 
Zoitsclir.  II,  196vorschlug— 183,  3  Z.  12:  Que  miels  for'  encavalguatz  de  nuill  home 
\el  ìnon\  viveii  —  Z.  15:  qne  de  bail[e]  si  defen  —  Z.  18:  ni  per  aur  ni  per  argon — Z.  21: 
qu'ieu  (lo)  tengites  [lo]  mais  de  cen]  Eine  eigentliche  Càsur  wie  nach  der  achteii  unbe- 
tonten,  ist  uatiirlich  nacli  der  vierten  iind  zwolften  Silbe  niclit  anzimelimen,  wohl 
aber  stellte  sich  wie  von  selbst  bei  der  oxytonirenden  Accentuation  der  meisten 
provenzalisclien  Worte  meisfc  nach  der  dritten  und  elften  Silbe  eine  scheinbare 
Càsur  eiu,  die  aber  nie  weiblioh  sein  kann  imd  schon  dadurch  von  der  eigentlichen 
Càsur  uacli  der  ackten  unbetonten  Silbe  deutlicli  unterschieden  ist.  Man  vgl.  z.  B. 
die  Zeile  in  Marcabrun's  Clediclit  : 

hclamcn  ah  solai::  ijen  ah  conort  de  fin  amor 

daneben  finden  sich  aber  ini  uàmlicheu  Gredichte  die  Zeilen  : 

c'amors  vairc~àl  meu  vejaire  a  l'uzalgéHl  trahidor 
seus  serta,  sim  volta,  ses  hau~ia  è  ses  errar. 

Ebenso  wie  der  Vierzehn-(Fiinlzehu-)  Silbner  ist  auch  der  Elf-Silbner  zu  erklàren, 
welchen  G.  Paris  gegenùber  Bartsch  mit  Itecht  als  eine  Verkllrzung  aus  dem 
ersteren  ansieht.  Aneli  der  Elfsilbner  hat  drei  feste  Icten  nàmlich  auf  der  dritten, 
siebenten  und  elften  Silbe.  [In  Zeile  2  von  Marcabruns  Lied  wird  sicher  wie  schon 
von  Bartsch  selbst  vorgeschlagen  worden,  zu  àndern  sein:  e  (per  lo)  \23el]  hroiìl 
naisso  [U\  foill.  Die  Ueberliefernng  von  Wilhelm's  IX  Licderii  làsst  auch  hier  viel  zu 
wiinschen  ubrig.  Ich  bessere  183,  3,  Z.  2:  et  aura  (i)  mais  [de]  foudatz  no  Uj)  a  de  sen  — 
Z.  13,  [Car]  l'uns  fo  dels  montanhiers  lo  plus  correa  —  Z.  20:  Pero  eu  retine  de  lei  tant  de 
coven —  183,  4  Z.  4:  diz  que  ges,  wie  P.  Meyer  in  seinem  Eecueil  liest —  Z.  8:  l'us 
es  gens  compìains  a  for  mandacarrei — Z.  16:  e  sii  ten{ez)  [om]  acarcat  lo  bon  conrei  — 
Z.  17:  [non]  adoba(s  d'aquel)  co  que  troba  viron  sei  —  Z.  20:  s'om  (li)  vedava  [li]  v in  fori 
per  malauei].  Die  Casur  fiillt  bisweilen  nach  der  achten  Silbe,  ist  also  weiblich,  dodi 
tritt  sie  meisfc  nach  der  siebenten  betonten  Silbe  ein,  und  Marcabrun  hebt  daher 
die  dritte  und  siebente  Silbe  durcli  Binnenreim  hervor;  allerdings  verwendet  er 
auch  hier  wie  bei  dem  Fùnfzehnsilbner  einige  weibliche  Reime,  sodass  sich  Einschnitte 
nach  der  vierten  und  achten  unbetonten  Silbe  einstellen.  Eine  Verkùi'zung  des 
Elfsilbners  zu  einem  Zehnsilbner  analog  der  des  Fiinfzehusilbners  zu  einem  Vier- 
zehnsilbner  làsst  sich  aber  uicht  beobachteii,  demi  183,  3  Z.  1  leso  idi:  companhs 
farai  un  vers  [molt]  covinen  und  Z.  5  o  dins  son  cor  roluntiers  [o]  no[n[  [l')  apren.  '  Es 
liegt  hiernach  ziemlich  nahe  den  Elfsilbner  aus  dem  Fiinfzehnsilbner  durch  Unter- 
druckung  eines  der  drei  viersilbigen  Glieder  entstanden  zu  denken  und  in  der  That 
hat  G.  Paris  sich  zu  dieser  AufFassung  bekannt.  Doch  hat  ihm  Bartsch  hierin  mit 

'  Dor  volksthtìmliche  Zehnsilbner  mit  Caesur  nacli  betonter  fiinfter  Silbe  diirfte  direkt  aus  dem  fùnfzehnsilb- 
ner mit  Unterdriiclinng  der  Senkiingen  naoli  den  drei  ersten  Hanptioten,  Sohwachung  der  zweiton  und  vierten 
Nebeuictus  zur  Senljung,  sowie  Vereinfaehimg  der  so  entstandenen  zwei  zweisilbigen  Senkungen  abzuleiten  sein. 


Eecht  widersprochen.  Demi  es  bleibt  dodi  vollig  dunkel,  was  die  Unterdriickung 
des  einen  viersilbigen  Gliedes  veranlassfc  haben  solite.  An  eine  willkùrliche  Verstùm- 
mlung,  wie  sie  wohl  ein  Knnstdichter  vornelimen  kann,  darf  bei  einer  volkstliitm- 
lichen  Versarfc,  als  welclie  der  Elfsilbner  unzweifelhaft  anzusehen  ist,  nicht  gedacht 
werden.  Ich  stelle  mir  daher  die  Verkiirzung  lieber  folgendermassen  vor:  Hinter 
zwei  der  vier  Haupticteii  des  Fùnfzehusilbners  wurde,  ahnlicli  wie  in  der  deutsclien 
und  altitalischen  Laugzeile,  der  syllabisclie  Ausdruck  der  Senkung  unterdrùckt 
uud  die  Zeile  dadurch  zu  einem  Dreizehnsilbner  verkùrzt.  Derartige  Verse,  die 
anfangs  nur  facultativ,  also  neben  voUstàndigen  Fiinfzehnsilbnern  verwandt  wiirden, 
mehrten  sich  jedoch  bei  gewissen  Diclituiigen  derart,  dass  sie  als  die  regelrecht 
gebauten  galteu  imd  deshalb  als  von  den  Fiiiifzehnsilbnern  verschieden  betrachtet 
wurden.  Sobald  man  danacli  die  die  Senkung  ersetzenden  Pausen  (und  die  Debnung 
der  voraufgehenden  Ictussilbe)  aufgab,  musste,  um  den  sonsfc  unverineidlichen 
doppelten  Zusammenstoss  zweier  Icten  und  die  damit  Hand  in  Hand  geliende 
Verletzung  des  trochaiscKen  E,hytmus  zu  vermeiden,  je  einer  der  beiden  Icten  zur 
Senkung  herabsinken.  Die  Meraus  sich  ergebende  nothwendige  weitere  Consequenz 
war  die  Verkiirzung  der  Zeile  um  je  einen  Tact  an  beiden  Stellen.  Die  Verkiirzung 
gab  sich  zuerst  uoch  dadurch  zu  erkenuen,  dass  in  den  zusammengezogeuen 
Tacten  die  Senkung  durch  zwei  Sii-  ben  ausgedriickt  war,  aber  die  Vereiiifacliung 
konnte  hier  nicht  lange  ausbleiben.  Ich  gebe  zur  Verdeutlichung  des  Vorganges 
folgendes  Schema: 

il  I  '-^ i  il  '  ^  !  "  1  ZA  \  '1\  W  L 1  \  ^J. 
i-  A  I  ^  1  II  Z  1  I  ^  'ZÌI  1  \\  L\  \  - 
Zll^l'IZlI  Z  ]  --  -  '  -  \  'i 
L\  \  'i\.  ''  L)l  \   '1    \  \         L     11        - 

Die  von  Wilhelm  IX  verwandte  Strophe  begegnet  man  auch  noch  —  und  das 
beweist  ihre  Volksthiimlichkeit  —  in  neufranzosischen  Volksliedern.  Man  vergleiche 
nur  das  von  Bartsch  Zeitschr.  Ili,  3(i8  angefiibrte  Volkslied 

Margoton  prend  son  pauier,  s'on  va-t-aux  meures, 

M'sieur  l'curé  s'en  va  après ,  lisant  ses  hcuros 

Margoton  attends  ino ,  atteuds  mo  Margoton ,  attends  mo  dono. 

Die  Verwandtschaft  zu  der  Strophe,  welche  die  von  Joh.  Schmidt  eiitdeckte 
und  in  Zacher's  Zeitschrift  fiir  deutsche  Philologie  XII,  333  veròffentlichte  lateinisch- 
provenzaUsche  Alba  aufweist,  ist  bereits  von  dem  Herausgeber  selbst  angedentet, 
doch  nur  mit  Bezug  auf  die  drei  darin  zu  einer  Strophe  verbundenen  lateinischen 
Elfsilbner  mit  regelrechter  Càsur  nach  dem  zweiten  Trochaus,  aber  nicht  auch  mit 
Bezug  auf  den  besonders  interessanten  provenzalischen  Refrain.  Ich  habe  naich 
hieriiber  schonkurz  in  meinem  Bericht  iiber  die  romanische  Philologie  von  1875- 
1883  ausgesprochen.  [Vgl.  Transactions  of  the  phUological  Society   1882-4  S.  138 


oder  Pàdagogisches  Arcliiv  vou  Krumiue  1883  S.  40.  Waruni  solite  ùbrigeus  poif 
nicht  =  poi  i  sein  kònneu?]  Der  Refrain  besteht  aus  21  Silbon ,  die  ich  iu  eiueu 
Neun-und  einen  Zwòlfsilbner  zerlege  : 

L'  alba  par  umct  mar  atra  sol 

Poy  pass'  a  bigil  mira  dar  tGncbras. 

Da  der  Neiinsilbner  in  drei  gleiche  dreisilbige  Abschnitte  mit  betonter  letzter  Silbe 
zerfallt ,  so  konnten  wir  es  in  ihm  mit  einem  derarfc  verkiirzten  Elfsilbner  zn  thun 
haben,  dass  die  der  dritfcen  wie  sechsfcen  Silbe  nrsprunglich  fblgende  iktenlose  Silbe 
nnterdriickt  wàre,  und  ebenso  liesse  sich  der  ZwolfsUbner ,  der  in  vier  gleiche 
Abschnitte  zerfallt  als  eine  ganz  analoge  Verkiirzung  des  Fiinfzehnsilbners  auffas- 
sen.  In  strophischer  Hinsicht  steht  unserer  Alba  zuniichst  die  anonyme,  welche 
Bartsch  ini  Grundviss  nuter  461,  113  auffuhrt,  der  in  ihr  begegnende  Neun-Silbner 
aber  entspricht  genan  dem  von  Bartsch  (Zeitschr.  Ili,  377)  ebenfalls  aus  einem  kel- 
tischen  Vers  abgeleiteten  der  spàteren  provenzalischen  iind  altfranzosischen  Poesie. 
Anch  der  Zwùlfsilbner  der  ^^ba  konnte  znr  Noth  dem  spatereu  Alexandriner 
entsprechen,  dodi  uiochte  ich  diesen  lieber  als  eine  secundiire  Erweiterung  des 
volksthiimlichen  Zehnsilbners  betrachten,  wie  ich  diesen  seinerseits  fur  eine  den 
eben  besprochenen  analoge  volksthiimliche  Verkiirzung  der  alten  indoeuropaischen 
Langzeile  und  speciell  des  jambischen  accentuirenden  Tetrameters  balte.  Auf  diesen 
selben  Vers  wird  ja  auch  der  lateinische  Saturnier  zuriickzufùhren  sein  (vgl.  dazu 
die  umfangreiche  Arbeit  Havet's  De  Saturnio,  Latinorum  versu,  Parisiis  1880). 
Abzusondern  von  dem  Zwòlfsilbner  der  Alba  und  dem  gewòhnliclien  Alexandriner 
ist  endlich  der  Zwòlfsilbner  mit  drei  festen  Icten  auf  der  vierten,  achten  und 
zwolften  Silbe,  auf  welchen  wir  kiirzlich  von  Thomas  und  Boucherie  aufmerksam 
gemacht  worden  sind  [vgl.  Rom.  XII,  131]  und  welcher  gleichfalls  sowohl  schon 
bei  Wilhelm  IX  begegnet,  wie  noch  in  dem  lieutigen  franzosischen  Volkslied 
verwandt  wird  und  von  hieraus  sogar  dem  alten  Alexandriner  in  der  heutigen 
Kunstpoesie  Gefahr  zu  bringen  droht.  Ihn  leite  ich  iu  folgeuder  AVeise  aus  dem 
alten  jambischen  Seclizehn-Silbner  ab: 


'  "  li 

\  / 

\  ^'  \ 

\   1 

\\  Il  \ 

\  /  1 

-  -    1 

\    1 

\  //  i 

1  ^  ' 

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\'i\ 

\  / 

\    //     1 

\    \ 

\  / 

\  v_ 

Il  II 

\  ^  '  \ 

\  ^-'i  \ 

\  /  1 

\    //    1 

\ 

-- 

\ 

" 

\  ^  ' 

\  // 

!     \    / 

1     ^   " 

E.  Stengel. 

PROBLEMI  FONOLOGICI 

SULL'ARTICOLAZIONE     E     SULL'ACCENTO. 


.  .  .  es  babou  ilocli  alle  cliese  spraeli- 
liohen  Dinge  nioht  viol  melir  Wni'th  als 
andere  Cxiriositaten,  so  lauge  es  nicht  ver- 
sucht  wird  sie  alti  die  Ergcbnisse  wirkender 
Krafte,  darzulsgen ,  in  iìirer  unendlichen 
Viclheit  die  Einhcit  zu  entdecken. 

SCHUCHARDT. 


L'  accento,  che  bene  fu  detto  l'anima  della  parola,  inquantochè  con  esso  si  do- 
vette in  origine  dare  ad  una  sillaba  maggior  rilievo  su  certe  altre,  creando  1'  unità 
nuova  di  un  vocabolo  composto,  facilmente  produsse  nella  vocale  della  sillaba  fa- 
vorita notevoli  incrementi ,  che  s'  accompagnavano  con  1'  affievolirsi  '  e  col  perdersi 
di  altre  vocali,  poste  nelle  sillabe  che  più  ne  erano  abbandonate.  Quegli  effetti 
Jìsici  continuarono  naturalmente,  anche  quando  la  predilezione  ideologica  che  ne  era 
stato  il  primo  motivo  venne  a  mancare.  E  con  essi  si  complicavano  di  necessità  al- 
tre alterazioni  molteplici  dovute  agK  impulsi  de'  suoni  vicini  ;  le  quali  si  potreb- 
bero chiamare  vicende  di  adattamento,  per  contrapporle  alle  prime  essenzialmente 
ereditarie.  Cotali  vicende  di  adattamento  sono  fatti  fisiologici,  dipendenti  da  quella 
legge  universale  del  massimo  risparmio  di  forza,  per  cui  gli  organi  della  favella 
tentano  di  agevolare  il  loro  lavoro  e  di  ottenere  combinazioni  sempre  più  facili 
degli  elementi  primi  delle  parole,  meglio  conciliando  o  meglio  equilibrando  le  suc- 
cessive articolazioni  della  laringe  e  della  bocca. 

Ma  alla  eredità  ed  allo  adattamento  si  aggiunge  sempre  la  legge  della  lotta  per  la 
esistenza,  o,  se  meglio  si  vuole,  della  maggiore  o  minore  vitalità,  che  vale  come  per 
tutte  le  altre  cose  anche  per  le  parole.  E  ben  può  accadere  che  1'  affinità  acustica  di 
suoni  tra  loro  geneticamente  diversi  trasporti  gii  uni  nell'  orbita  degli  altri  più 
numerosi  o  potenti  ;  come  nella  mente  parole  e  gruppi  di  forme  possono  la- 
sciarsi vincere  e  distruggere  da  altre  parole  o  forme  più  fortunate.  Così  i  corpi  ce- 
lesti non  obbediscono  solo  alle  forze  centrifuga  e  centripeta  del  loro  sistema  parti- 
colare, ma  da  corpi  stranieri  ad  esso  e  lontani  hanno  turbate  le  leggi  del  loro 
cammino. 


'  AVVERTENZA.  — 1,' KxAove,  che  aveva  prima  inviato  ano  studio  alquanto  largo  sulle  articolazioni  orali  e 
sui  contatti  che  haii  luogo  tra  le  vocali  e  le  consonanti,  invitato  ad  abbreviarlo,  ha  creduto  bene  di  tor  via  ogni  mi- 
nuta discussione  di  esempi  e  tutte  le  note  e  eli  presentare  più  nudamente,  ma  insieme  più  compiutamente  le  sue 
idee,  aggiungendo  alcune  osservazioni  anche  sugli  oftVtti  dell'«rc(ì«Yo  orale:  per  modo  che  questo  scritto  si  jmtesse 
considerare  quasi  come  una  introduzione  a  certi  natmi  fonolOHici,  a' quali  egli  attende  con  molto  amore,  sebbene 
con  poca  speranza  che  altri  li  abbia  ad  attendere  con  qualche  desiderio. 


—  12  — 

Né  basta  ancora.  Dopo  avere  notato  tntte  queste  cause  di  alterazioni ,  non 
bisogna  dimenticare  eh'  esse  non  operano  mai  in  un  solo  individuo,  ma  anzi  in 
tutti  qiielli  che  parlano  una  lingua:  che  ogni  linguaggio  insomma  è  sempre  iin 
fatto  sociale.  Perciò  anche  nello  studio  del  più  isolato  e  modesto  dialetto  bisogna 
essere  disposti  a  riconoscere  qualche  mischianza  di  voci  e  forme  esotiche  e  lettera- 
rie. Come  il  pensiero  ond'  è  strumento,  si  dilarga  necessariamente  la  lingua  nella 
società  e  nella  storia;  di  questo  suo  dilatarsi  serbando  le  traccie  in  ogni  sua  parte, 
ed  anche  nei  suoni. 

Ma  lasciando  stare  per  ora  le  mischianze  dialettali  e  storiche,  e  tornando  a  quelle 
tre  prime  cause  trasfiguratrici  delle  parole,  le  discordie  dei  glottologi  sono  ben  so- 
vente assai  gravi.  Nello  adoperarle,  per  ispiegare  gli  identici  fatti,  chi  mette  in 
prima  linea  l'efficacia  àeW  articolazione,  chi  quella  dell' occeHto,  chi  invece  quella 
dell'  analogia.  Si  direbbe  che  vi  sieno  sètte  diverse  e  che  ognuna  si  proponga  di  far 
prevalere  un  solo  de'  numi  della  Triade  a  scapito  degli  altri  due. 

A  me  giova  a  questo  proposito  e  in  questo  luogo  ricordare  di  preferenza  le 
belle  Osservazioni  sul  vocalismo  italiano  del  Caix  (Firenze,  1876).  Pensava  egli  che  ta- 
lora fosse  determinata  dalla  vocale  la  consonante:  p.  es.  in  muggine ,  jwrfido ,  anemolo; 
talora  invece  dalla  consonante  la  vocale,  come  in  rovaio,  dattero,  modano  (pag.  24). 
Lo  Storm,  che  aveva  dato  occasione  al  nostro  Caix  di  scrivere  quelle  osservazioni, 
credeva  invece  di  dover  esaminare  le  tendenze  delle  vocali  atone ,  quanto  fosse  pos- 
sibile ,  nella  loro  purezza.  Non  aveva  osato  negare  in  generale  gli  effetti  dovuti  alle 
consonanti  vicine;  ma  pare  che  dell'azione  di  queste  non  abbia  voluto  toccare, 
mancandogli  la  fiducia  di  poter  ben  domare  siffatta  materia,  troppo  ribelle  tutta- 
via ad  una  trattazione  scientifica.  E  qui  appunto  stava  il  divario  fra  i  due  valorosi 
campioni.  Secondo  il  Caix  erano  indubitabili  particolari  affinità  e  particolari  ripu- 
gnanze fra  talune  consonanti  e  talune  vocali;  ma,  se  non  esprimo  male  con  la  mia 
formola  il  pensiero  di  lui,  gli  effetti  àeW  atonismo  gli  parevano  assai  men  fidi  di 
quelli  dell'  articolazione. 

Questi  divari  di  opinioni,  tra  gli  studiosi  di  glottologia,  si  estendono  oltre  i 
confini  del  vocalismo  italiano,  nel  largo  campo  delle  lingue  ariane.  Né  deve  parere 
strano  ch'essi  vi  sieno,  perchè  nello  studio  di  fenomeni  complessi,  a  produrre  i 
quali  concorrono  più  forze  diverse,  è  sempre  molto  difficile  di  non  concedere  alla 
virtù  di  ciascuna  niente  di  più  e  niente  di  meno  di  quanto  le  sia  dovuto. 

Il  Curtius  ed  altri  glottologi  valorosi,  ebbero  già  ad  esprimere  più  volte  il 
desiderio  che  la  natura  e  le  leggi  fondamentali  dell' acce/ìfo ,  àelV  articolazione  e  del- 
l' analogia  si  indagassero  con  ricerche  larghe  e  metodiche  ;  ed  anch'  io  credo  che  la 
giusta  determinazione  del  valore  di  ognuna  di  queste  cause,  possa  promuovere  l' ar- 
monia e  la  forza  del  lavoro  comune.  Ma  poiché  della  causa  psicologica  si  è  molto 
ragionato  in  qiiesti  ultimi  anni,  ed  oserei  anzi  dire  che  non  abbia  per  avventura 
avuto  mai  tanti  e  tanto  ardenti  sacerdoti,  quanti  e  quali  oggi  ne  conta;  mi  pro- 
pongo di  studiare  con  qualche  diligenza  le  altre  due,  persuaso  che  neppur  esse 
meritino  plinto  men  fervido  culto. 


—  13 


TENTATIVO    DI    CLASSIFICARE    IN    UN    SISTEMA    UNICO    DI    ARTICOLAZIONI 
LE    VOCALI    E    LE    CONSONANTI. 


ÈCTTt,  xaì  TfviToy  TOÙTOV  SióXektos 
rn  Y>.uTT7i  Sióp^podic. 


Presuppongo,  come  già  accennai,  che  sieuo  valide  anche  per  gli  organi  vocali 
le  leggi  fisiologiche  onde  sono  retti  tutti  gli  altri  movimenti:  che  sia  dunque  su- 
prema quella  del  minimo  dispendio  di  forza,  cioè  della  sostituzione  de'  muscoli  più 
vicini  ai  più  lontani,  de' meno  stanchi  ai  più  stanchi  e  via  via.  Ed  escludendo  per 
ora  le  perturbazioni  acustiche,  ne  deduco  subito  che  le  mutazioni  delle  vocali  e 
delle  consonanti  devano  essere  mstmilazimii  per  ottenere  agevolezza  di  articolazione 
o  dissimilazioni  per  evitare  la  stanchezza  soverchia;  sicché  per  gli  incontri  de'  suoni 
devano  prevalere  le  prime  e  per  i  ritorni  men  prossimi  debbano  aversi  di  regola  le 
seconde.  Ma  è  chiaro  che  non  si  potranno  determinare  uè  le  une  né  le  altre,  senza 
ordinare  prima  tutte  le  voci  elementari  in  un  sistema  unico.  Come  può  infatti  il 
glottologo  trattare  compiutamente  delle  affinità  e  delle  ripugnanze  possibili  in  una 
o  in  più  sillabe  fra  le  consonanti  e  le  vocali,  s'egli  non  abbia  esatta  notizia  delle 
varie  articolazioni  di  lingua  e  di  labbra  che  occorrono  per  queste  e  per  quelle? 

E  intanto  uno  schema  ben  determinato  e  universalmente  riconosciuto  delle  so- 
miglianze di  articolazione,  che  stringono  insieme  le  vocali  con  le  diverse  consonanti, 
si  cerca  invano  ne'  migliori  trattati  di  fisiologia  delle  voci.  Di  siffatte  relazioni  non 
tutti  parlano  o  ne  parlano  brevemente  e  con  le  contraddizioni  più  gravi. 

Il  Brùcke,  ancora  nella  seconda  edizione  del  suo  classico  libro,  non  dubitava 
di  muovere  rimprovero  agli  antichi  grammatici  indiani,  perchè  essi  vollero  congiun- 
gere le  consonanti  e  le  vocali  in  uno  stesso  schema.  «  Non  è  ben  fatto,  egli  dice ,  di 
distribuire,  come  le  consonanti,  anche  le  vocali  secondo  luoghi  diversi  di  articola- 
zione, perchè  la  formazione  loro  dipende  da  principi  del  tutto  diversi;  ma  commesso 
una  volta  questo  errore ,  non  se  ne  commette  più  altri ,  ove  si  assegni ,  come  fecero 
gli  Indiani,  a  alla  gola,  i  al  palato,  u  alle  labbra.  »  (C.  IX,  pag.  100).  Ben  fu  costretto 


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dal  facile  e  freqiieute  passaggio  dell'  u  e  dell'  i  nelle  spii'anti  v,  J  a  scrivere  un  ca- 
pitolo ,  affine  di  determinare  que'  punti  di  sistema  delle  voci  dove  le  consonanti  e  le 
vocali  si  toccano  ;  ma  lasciando  stare  che  quel  passaggio  non  è  descritto  da  lui  con  la 
solita  perspicuità,  esso  gli  fece  inciampo  e  non  l'aiutò  punto  a  salire  alla  considera- 
zione di  una  serie  continua  e  intera  de'  contatti  di  articolazione  tra  le  consonanti  e 
le  vocali;  serie  che  mi  pare,  con  rapido  cenno,  affermata  meglio  che  da  ogni  al- 
tro dall'  Ascoli,  nelle  Lezioni  di  Fonologia  (a  pag.  43),  dove  parla  di  sviluppi  intermedj 
tra  vocali  e  consonanti  «  che  domandano  speciale  indagine  per  ogni  singola  con- 
giuntura. »  Secondo  il  Briicke  invece ,  solo  perchè  u  ed  i  sono  le  due  vocali  più  im- 
perfette ed  estreme  segnano  i  punti  di  confine;  e  que' punti  sono  i  due  soli  possi- 
bili, sicché  dimostrano,  meglio  che  gli  inizi  di  una  linea  continua  di  contatti  con  le 
consonanti,  la  separazione  delle  vocali  da  esse  (C.  Vili,  pag.  90). 

Il  Sievers,  in  quella  sua  opera  accuratissima  che  è  nelle  mani  di  tutti  gli  stu- 
diosi delle  lingue  ariane,  non  segue  una  teoria  molto  diversa  da  quella  del  Briicke. 
Egli  unisce  bensì  le  liquide  e  le  nasali  con  le  vocali  propriamente  dette;  ma  solo 
perchè  quelle  possono  anche  assumere  natura  veramente  vocalica  e  sostenere  l' ac- 
cento sillabico,  avendo  nella  loro  formazione  fisiologica  lo  stesso  carattere  di  sono- 
rità (reine  Stimmtonlaute).  Del  resto  tien  distinte,  anche  più  recisamente  che  non 
avesse  fatto  il  Briicke,  le  serie  delle  vocali  dalle  altre  voci,  da  tutte  le  consonanti 
propriamente  dette ,  le  quali  non  sono  altro  che  romori  {Gerauscldaide). 

E  lo  stesso  fa  ancora  il  Techmer,  nel  suo  recentissimo  lavoro  pubblicato  nel 
Periodico  Internazionale  per  la  Scienza  del  Linguaggio.  Si  contenta  di  notare  la  liquida  e 
la  nasale  sonanti,  e  di  porre  a  parte  le  due  semivocali  j ,  w.  Ma  scinde,  anch' egli, 
la  trattazione  delle  voci  in  due  sezioni:  di  quelle  che  richiedono  apertura  della 
bocca,  e  di  quelle  a  cui  occorre  una  forte  stretta  o  la  chiusura.  Questa  contrapposi- 
zione di  articolazioni  egli  pone  a  fondamento  del  suo  sistema  fisiologico  genetico 
delle  voci;  onde  appare  che  la  determinazione  dei  trapassi  fra  le  consonanti  e  le  vo- 
cali avrebbe  dovuto  riuscirgli  ben  facile.  Ma  egli  evita  anzi  le  denominazioni  di  vo- 
cali e  di  consonanti;  avvertendo  che  si  usano  dai  fonologi  in  significati  troppo 
diversi,  ora  in  senso  fisico-acustico,  per  indicare  suoni  o  romori;  ora  in  senso  fisio- 
logico-genetico  per  le  articolazioni  a  bocca  aperta  e  le  articolazioni  a  bocca  chiusa; 
{Mimdoffner-und  Schliesser);  ora,  -per  le  voci  principali  e  per  le  voci  secondarie  nelle  sil- 
labe. Quasi  gli  sfuggisse  l'armonia  che  v'  ha  fra  tutti  questi  caratteri,  i  quali  sono  pure 
stretti  insieme  da  legami  di  causa  e  di  effetto,  non  sente  l'opportunità  di  integrare 
la  trattazione  delle  voci  elementari  con  quelle  de'  loro  contatti  e  dei  complessi  sil- 
labici, sempre  seguendo  gli  stessi  criteri  direttivi.  E  cosi  la  classificazione  delle  voci 
riesce  anche  per  lui  propiziamente  acustica.  Anche  il  Techmer  insomma,  come  il 
Briicke  e  il  Sievers,  bada  anzitutto  a  ciò  che  avvenga  o  non  avvenga  nel  torace  e 
nella  trachea.  Io  non  intendo  sicuramente  di  oppugnare  siffatte  considerazioni.  Sta 
bene  che  si  cominci  con  esse,  perchè  non  si  riuscirebbe  altrimenti  ad  avere  una 
giusta  idea  della  diversa  origlile  delle  voci.  E  senza  dubbio  l' ignoranza  del  diverso 
accento  espiratorio,  il  trascurare  la  diversa  qualità  dei  rumori  o  de'  suoni  della  glot- 


tido,  il  coutouderli  con  i  romori  che  dall'aria  espulsa,  si  producono  uella  bocca  o 
con  le  varie  modificazioni  che  ivi  assumono  le  voci  laringee,  possono  essere  cause 
di  gravi  errori  anche  allo  storico  della  parola.  La  classificazione  acustica  è  necessaria 
non  solo  per  lo  studio  primo  degli  elementi  fonetici,  ma  si  deve  farne  gran  conto 
anche  per  quello  degli  spiriti  che  iniziano  o  tei-minano  le  vocali,  per  quello  delle 
sillabe,  per  quello  dell'accento  musicale,  della  declamazione  e  del  canto;  per  tutte 
lo  (piali  cose  la  tensione  dei  muscoli  d§l  torace,  delle  corde  vocali,  e  della  trachea 
ha  importanza  suprema.  Ma  dovrebb'  essere  anche  evidentissimo  che  per  bene  inten- 
dere la  ragione  delle  reciproche  influenze  delle  voci  elementari,  molto  più  che  ai 
fenomeni  della  stessa  glottide,  o  jier  dirla  cogli  antichi  indiani  al  baliìjajjrai/atua,  l'at- 
tenzione debba  rivolgersi  al  karana  ed  allo  sthCiua,  all'  atto  cioè  ed  al  luogo  di  arti- 
colazione delle  voci  nella  cavità  orale.  Bisogna  badare  attentamente  alla  varia  ener- 
gia della  mascella  inferiore  e  de'  suoi  muscoli ,  a'  movimenti  propri  delle  labbra  e 
della  lingua,  studiando  principalmente  gli  atteggiamenti  molteplici  di  quest'  ultimo 
organo  mobilissimo,  chi  voglia  ben  ordinare  la  serie  graduale  di  conformità  e  di 
difformità  ck'e  favoriscano  o  contrastino  l' unione  delle  vocali  e  delle  consonanti 
nelle  sillabe  e  nelle  parole.  E  poiché  le  mutazioni  fonetiche  dovute  al  diverso  ac- 
cento orale  ed  alle  affinità  o  ai  contrasti  delle  voci  elementari,  per  complessità  di 
fenomeni,  per  intensità  di  effetti,  per  frequenza  di  casi,  non  sono  certo  inferiori  alle 
alterazioni  prodotte  dal  variare  della  forza  espiratoria  e  dalla  diversa  musicalità, 
per  cosi  chiamarla,  dell'umano  linguaggio;  non  si  dovranno  punto  condannare, 
come  fece  il  Briicke,  i  grammatici  indiani  per  avere  volato  classificare  anche  le 
vocali  insieme  con  le  consonanti  secondo  lo  sthdiia  ed  il  kai-aaa.  Piuttosto  saranno  da 
biasimare  i  fisiologi  moderni ,  i  quali  nelle  loro  esposizioni  mostrarono  di  non  aver 
saputo  apprezzare  abbastanza  l' efficacia  capitalissima  che  hanno  per  le  vicende 
delle  parole  1'  articolazione  e  1'  accento  orale.  E  agli  antichi  indiani  si  dovrà  dar 
lode  tanto  più  viva,  inquantochè  dall'  indole  della  loro  lingua,  dove  non  meno  del- 
l' accento  orale  erano  efficaci  1'  accento  espiratorio  e  1'  accento  musicale ,  erano  per 
avventura  assai  più  di  noi  indotti  a  raccogliere  intorno  a  questi  ultimi  i  loro  studi. 

Qualche  accenno  alla  desiderata  classificazione  delle  vocali  e  delle  consonanti  se- 
condo un  unico  sistema,  fondato  sulle  attinenze  delle  articolazioni  orali,  non  manca, 
a  dire  il  vero,  nelF  opera  voluminosa  e  diligentissima  pubblicata  da  C.  L.  Merkel, 
fin  dall'anno  1852,  col  titolo  Antropofonica  ;  ma  sono  cenni  troppo  fuggevoli  ed  incerti. 

«  Noi  possiamo  (scriveva  il  Merkel,  a  pag.  772)  limitare  lo  spazio  fisiologico 
per  entro  al  quale  si  muovono  le  vocali,  o  per  parlare  più  esattamente  gli  organi  che 
le  formano,  fissando  tre  punti  estremi  ne'  quali  il  vocalismo  comincia  e  finisce.  Sono 
essi  H,  G  molle  e  W.  Presso  H  comincia  il  vocalismo  per  via  di  A,  presso  G 
qessa  con  I,  presso  W  si  chiude  con  U.  Fra  questi  tre  suoni  giace  tutto  quanto  il 
vocalismo  fisiologico  possibile.  »  E  più  innanzi  (a  pag.  832)  tornava  su  questo  ar- 
gomento e  dichiarava,  un  po'  più  compiutamente ,  il  suo  pensiero  con  le  parole  se- 
guenti: «  Il  consonantismo  comincia  dove  il  vocalismo  finisce....  e  termina  poi  esso- 
stesso  coUe  voci  esplosive,   ossia   coli' ammutire ,   coli' interrompersi  della  corrente 


—  IR  — 

dell'aria.  Con  H  comincia  la  serie  delle  voci  posteriori  o  palatali,  che  finisce  con  K; 
con  G  molle  la  serie  delle  voci  mediane  o  lingnali,  che  si  chiude  con  T;  con  W 
quelle  delle  voci  anteriori  o  labiali,  che  ammutiscono  in  P.  La  prima  serie  trova  la 
sua  vocale  affine  in  A,  la  seconda  in  I,  la  terza  in  U.  » 

Il  secondo  passo  è  forse  tanto  più  infelice,  quanto  è  meglio  determinato  ;  ma 
anche  nel  primo  si  nasconde  .un  peccato  capitale. 

Mentre  il  Brucke,  pur  consentendo  che  l'A  si  potesse  dire,  senza  grave  danno, 
affine  alle  consonanti  gutturali,  ammetteva  due  soli  punti  di  contatto  tra  le  conso- 
nanti e  le  vocali  e  li  segnava  con  le  vocali  più  sottili  U  ed  I,  vorrebbe  il  Merkel 
trovare  un  terzo  passaggio  nell'  A;  forse  perchè  mal  si  poteva  rassegnare  a  staccare 
una  delle  tre  serie  consonantiche  da  tutto  il  sistema  delle  voci,  lasciandola  senza 
principio  vocalico  di  fronte  alle  compagne.  Il  suo  scrupolo  era  ragionevolissimo  e 
il  difetto  di  una  classificazione  incompiuta,  come  quella  del  Briicke,  non  si  può  certo 
negare;  ma  il  rimedio  trovato  dal  Merkel  è  anche  peggiore  del  male.  Si  ricordi 
come  sia  necessario  per  la  formazione  di  tutte  le  consonanti,  toltene  solo  le  lab- 
biali,  le  interdentali  e  le  gutturali  posteriori,  che  la  lingua  si  sollevi  in  qualche 
punto  e  faccia  nella  parte  superiore  della  bocca  una  chiusura  che  dev'  essere  vinta 
dalla  corrente  dell'  aria  esplodendo  (e  sj^esso  anche  implodendo) ,  od  almeno  una 
stretta  cosi  angusta  che  possa  generarvisi  dalla  corrente  d'aria  mentre  la  trapassa  un 
rumore  fricativo.  Per  le  vocali  occorre  invece  che  il  romore  nella  bocca  non  sorga  o 
sia  minimo  e  sopraffatto  dal  suono  laringeo;  che  vi  sia,  come  ben  dicono  il  Merkel, 
il  Techmer  e  ogni  fisiologo ,  anziché  una  stretta,  un  allargamento  della  cavità  orale. 
Se  questo  è  vero,  chi  potrà  consentire  al  Merkel  che  si  ponga  a  pari  grado  con  V  u 
e  con  l' i  sui  confini  tra  il  vocalismo  ed  il  consonantismo,  e  peggio  che  si  collochi  a 
principio  di  tutte  le  palatali,  quella  vocale  appunto  a  cui  occorre  la  più  grande 
apertura  della  bocca,  maggiore  di  regola  che  non  sia  quella  richiesta  dall' e  e  dall' o, 
cui  non  verrebbe  certo  in  mente  a  nessuno  di  situare  sui  confini  del  consonantismo? 
Questa  difficoltà  dev'essere  stata  palese  al  Brucke,  il  quale  non  ha  punto  parlato  di 
contiguità  tra  1'  a  e  1'  /;.  Essa  è  veramente  una  difficoltà  insuperabile;  e  forse  la  in- 
travvide  lo  stesso  Merkel,  che  non  tentò  per  la  sua  classificazione  delle  consonanti 
una  rappresentazione  grafica,  dopo  averla  data  per  le  vocali.  E  infatti  difficile  im- 
maginare com'  egli  avrebbe  potuto  mostrarvi  le  relazioni  da  lui  ammesse  tra 
le  vocali  e  le  consonanti,  senza  rinunziare  alla  rappresentazione  piramidale  che 
adottò  per  le  prime.  Posto  V  a  al  vertice,  non  v'  era  più  modo  di  potergli  avvicinare 
nessuna  serie  di  consonanti,  le  quali  non  possono  certo  cominciare  entro  la  pira- 
mide vocalica,  ma  devono  apparire  sotto  la  base  di  essa.  Avrebbe  dovuto  proporre 
prima  di  tutto  anche  per  le  vocali  un  sistema  lineare,  quale  fu  veramente  adottato 
di  recente,  ma  forse  con  iscapito  anziché  con  vantaggio  della  fisiologia  delle  voci. 
Poste  infatti  sovra  una  stessa  linea  le  tre  vocali  principali  «,  i,  u,  ben  avrebbe  po- 
tuto il  Merkel  descrivere  con  tre  altre  Knee  parallele,  perpendicolari  a  quella  pri- 
ma, tre  serie  di  consonanti  che  dilungandosi  dalle  vocali  si  muovessero  sempre 
nello  stesso  senso,  per  modo  da  finire  con  le  tre  sorde  esplosive,  che  cosi  rimarreb- 


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bero  vicine  tra  loro.  Ma  qiial  posto  toccherebbe  all'  e  ed  all'  o  i  quale  resterebbe  alle 
vocali  miste?  E  perchè  solo  «,  m,  t,  dovrebbero  essere  iuizì  di  consonanti?  La  im- 
possibilità di  una  rappresentazione  grafica  conveniente  è  per  me  una  riprova  delle 
imperfezioni  di  tutta  la  teoria. 

Ma  i  difetti  della  teoria  Merk eliana,  come  dicevo,  appariscono  più  manifesti 
nel  secondo  passo  citato;  dove  si  ripete  che  H  gutturale  sia  principio  di  tutte  le 
palatali  (ohe  sarebbero  le  gutturali  piìi  anteriori).  Poi  si  aggiunge  che  in  G  molle 
(ossia  con  la  spirante  j-,  la  qiiale  richiede  il  sollevamento  dorsale  della  lingua)  co- 
mincia una  serie  di  consonanti  finita  da  quel  T  che  si  produce  per  la  chiusura 
fatta  dalla  punta  della  lingua  agii  alveoli  o  anzi  ai  denti.  La  spirante  imlatale  in- 
somma è  presentata  come  inizio  della  serie  dentale! 

Eppure  in  qiiesto  sixo  punto  di  veduta  si  mantiene  ancora  il  Merkel  uell'  altra 
sua  opera  posteriore  di  circa  un  decennio,  che  in  molti  luoghi  è  tanto  perfezionata: 
«  Se  noi  ci  proviamo,  egli  dice,  a  sviluppare  dalle  vocali  qualcosa  di  consonantico 
troviamo  che  il  tentativo  è  possibile  per  tre  sole  vocali....  Anche  a  passa  in  una 
consonante  e  propriamente  nel  eh  sonoro,  quando  nella  sua  articolazione  la  stretta 
si  impiccolisca  ancora  di  più.  Abbiamo  dunque  tre  punti  di  confine  nei  quali  il  vo- 
calismo tocca  il  consonantismo»  (pag.  80). 

Gli  si  può  facilmente  opporre  che  è  per  lo  meno  molto  improprio  il  parlare  di 
una  articolazione  della  lingua  per  Va  teorico,  il  quale  non  può  essere  puro  appena 
un'  articolazione  di  essa  cominci,  e  deve  subito  turbarsi  o  piegare  verso  l' una  o 
verso  1'  altra  delle  due  vocali  estreme.  Nondimeno  in  quelle  parole  «  quando  la 
stretta  si  impicciolisca  ancora  di  più  »  abbiamo  ben  formulato  il  principio  gene- 
rale, semplicissimo,  ma  non  per  questo  men  giusto,  di  ogni  distinzione 'orale  tra  le 
vocali  e  le  consonanti;  dal  quale  avrebbe  dovuto  il  Merkel  essere  condotto  a  con- 
chiudere che  le  une  sieno  prossime  alle  altre  non  in  due  né  in  tre  punti  soli,  ma 
lungo  una  linea  intera,  determinata  dalle  vocali  più  sottili  o  dalle  spiranti  più  tenui. 

Il  merito  d' aver  prima  d'  ogni  altro  tentato  di  tracciare  quella  linea  e  affer- 
mata risolutamente  la  necessità  di  non  fondare  suU'  azione  della  glottide  tutta 
la  classificazione  delle  voci  elementari,  deve  attribuirsi,  se  non  m'inganno,  a 
M.  Thausing;  al  quale  si  dovrebbero  lodi  ben  maggiori,  se  non  avesse  dimenticato 
quasi  del  tutto  l' accento  ed  esagerato  il  suo  nuovo  indirizzo ,  occupandosi  veramente 
troppo  poco  della  glottide ,  a  differenza  di  tutti  gh  altri  trattatisti  moderni.  Nel 
suo  volume,  uscito  nel  1863,  conosciuto,  citato  e  combattuto  spesso  dal  Merkel,  di- 
chiara egli  subito,  come  avea  fatto  Aristotele,  ohe  «  la  lingua  insieme  con  l'astuc- 
cio per  entro  al  quale  ella  si  muove  è  lo  strumento  proprio  della  formazione  delle 
voci,  l'organo  vero  dell'umano  linguaggio  (pag.  7)  «  e  nel  suono  laringeo  non  do- 
versi a  ogni  modo  vedere  altra  cosa  che  la  materia  o  il  sostrato  onde  si  formano 
le  voci,  per  1'  articolazione  delle  quali  è  apparecchio  essenziale  unicamente  la  ca- 
vità della  bocca  »  (pag.  12).  Ogni  suono  o  rumore  prodotto  più  addietro  di  questa, 
deve,  secondo  lui,  rimaner  fuori  del  sistema  naturale  delle  voci. 

Ciò  fatto,  tra  le  vocali  e  le  consonanti  il  Thausing  riconosce   solo  una  diffe- 


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renza  quantitativa:  epperò  vuole  estesa  pure  alle  consonanti  la  nota  rappresenta- 
zione piramidale  che  anch'  egli  adotta  per  le  vocali,  ponendo  al  vertice  1'  a,  che  è 
«  la  voce  più  vocale,  la  voce  delle  voci  {der  lauteste  Laid,  der  Laut  der  Laute),  quan- 
tunque non  soglia  apparire  nelle  lingue  senza  piccole  alterazioni  o  turbamenti  » 
(pag.  36).  Movendo  poscia  dall' a  e  cercando  come,  per  varie  disposizioni  della 
bocca  e  della  lingua,  possa  quella  voce  tramutarsi  in  tutte  le  altre  voci  elementari, 
trova  che  le  tre  categorie  delle  articolazioni  secondo  le  quab  gli  antichi  ritmici 
greci  distribuirono  le  nude  «  non  producono  queste  soltanto,  ma  tutte  veramente  le 
voci  semplici,  in  una  serie  continua  e  progressiva  di  oscuramenti  »  (pag.  31),  ohe 
avvengono  «  secondo  tre  divisioni  e  sono  sempre  di  sette  gradi,  »  sicché  risultano 
contando  nel  novero  anche  1'  a  «  22  voci  semplici  originarie  »  (pag.  38). 

A  questi  numeri  non  si  dia  troppa  importanza,  come  fece  il  Merkel,  che  se  uè 
valso  a  screditare  tutto  il  sistema  dell'avversario,  chiamando  con  immeritata  iro- 
nia magica  quella  divisione  e  il  tre  ed  il  sette  numeri  sacri  (pag.  253-254).  Lo  stesso 
Thausing  avvertiva  che  ogni  categoria  di  articolazione  si  muove  in  una  certa  esten- 
sione, sicché,  ogni  grado  di  oscuramento  dando  luogo  a  possibili  distinzioni  ulte- 
riori ,  «  teoreticamente  si  possono  ammettere  quanti  gradi  si  vogliono ,  anzi  infiniti  ; 
perchè  non  v'  ha  nulla  nell'  uomo  che  sia  più  individuale  della  lingua  e  si  può  af- 
fermare con  sicurezza  che  nessuno  articoli  le  sue  voci  perfettamente  come  un'  altra 
persona  »  (pag.  39).  Queste  parole,  a  dirlo  di  passata,  mi  paiono  piene  di  senno  e 
di  temperanza  e  molto  più  giuste  di  quelle  troppo  ardite  del  Bruche,  il  qiiale  non 
dubitò  di  scrivere  in  un  luogo  dell'  opera  citata  che  «  se  domani  si  scoprisse  una 
nuova  lingua,  che  come  le  indoeuropee  e  le  semitiche  si  valesse  esclusivamente 
della  fonazione  espiratoria,  tutte  le  sue  voci  elementari  dovrebbero  poter  essere 
classificate  secondo  il  suo  sistema  naturale,  senza  bisogno  non  pure  di  alterare  le  gra- 
dazioni fissate,  ma  nemmeno  di  introdurvene  delle  altre  »  (pag.  41).  E  aggiungeva  molto 
finamente  il  Thausing,  dover  scemare  la  possibilità  delle  gradazioni  intermedie 
quanto  più  forti  siano  gli  oscuramenti  dell'  a;  onde  le  differenze  sono  molto  maggiori 
per  le  vocali  che  per  le  consonanti.  Ma  vediamo  quali  sieno  le  sue  proposte  più  generali. 

Poiché  il  triangolo  simbolico  delle  vocali  deve  continuare  col  consonantismo, 
ei  fa  seguire  alle  vocali  più  sottili  le  consonanti  fricative  e  poi  le  mute;  ultime,  e 
dunque  alla  base,  vuole  che  si  trovino  e  chiudano  tutto  il  sistema  le  nasali,  come 
quelle  che  nella  loro  origine  si  allontanano  già  alquanto  dalla  pura  formazione 
delle  voci  »  (pag.  60).  Ed  ecco  intero  lo  schema  semplicissimo: 

mbpfwuoAeijchkgf 


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Esso  è  tanto  chiaro  per  se  medesimo ,  da  uon  richiedere  nessun'  altra  dichiara- 
zione. Basti  avvertire  che  il  y  rappresenta  la  nasale  gutturale  e  le  altre  lettere  il 
suono  tedesco. 

Anzi  tutto  ferma  1'  attenzione  la  posizione  delle  liquide  ^,  r,  che  per  la  prima 
volta  in  un  trattato  moderno  di  fisiologia  delle  voci,  son  poste  al  paro  con  le  vocali. 
Queste  liquide ,  riconosciute  insieme  con  le  nasali  come  capaci  di  sostenere  1'  ac- 
cento sillabico  e  di  divenire  perfettamente  sonanti,  dovevano  poi  aver  molta  fortuna 
ed  essere  fatte  risalire  fino  al  periodo  proetnico  delle  lingue  ariane.  Anche  per  que- 
sto perfezionamento  va  dunque  lodato  il  Thausing. 

Ma  notati  i  pregi,  devo  mettere  in  luce  i  difetti  che  mi  par  di  scorgere  nel- 
l'ingegnoso sistema. 

L' incongnienza  di  procedere  prima  dalle  consonanti  deboli  alle  forti  (w,  f;  j , 
eh;  s, /s)  e  di  tenere  poi  il  contrario  cammino  (p,  b;  k,  g;  t,  d),  sarebbe  cosa  ben 
lieve.  E  se  ne  scopre  subito  il  motivo.  Il  Thausing  volle  certamente  porre  accanto 
alle  vocali  ed  alle  nasali ,  perchè  più  affini  alle  une  ed  alle  altrq ,  le  consonanti  de- 
boli, che  sono  di  regola  sonore,  anziché  le  consonanti  forti  che  sono  sempre  sorde. 
Questa  affinità  maggiore  delle  consonanti  deboli  con  le  vocali  e  con  le  nasali  è  in- 
negabile ;  ma  la  sua  ragione  non  dipende  da  articolazione  orale  e  non  occorreva  perciò 
di  turbare  in  nulla  l' ordinamento  delle  serie.  Bisognava  notare  solo  le  consonanti  de- 
boli 0  solo  le  forti  che  per  articolazioni  orali  non  differiscono  tra  loro,  sibbene  per 
forza  orale  e  laringea,  avvertendo  il  trapasso  alla  risonanza  nasale. 

Anche  mòno  giustificabile  è  la  precedenza  data  alla  l  sulla  r  nella  serie  delle 
dentali.  Come  infatti  si  può  dire  più  vicina  la  prima  della  seconda  all' a  centrale? 
Nella  formazione  della  l,  oltreché  la  punta  della  lingua  si  spinge  innanzi  fino  a  toc- 
care i  denti  o  gii  alveoli  o  il  palato,  si  ha  sempre  xva.  rialzo  laterale  dei  lembi  di 
essa,  che  si  staccano  dai  denti  mascellari.  Si  potrebbe  piuttosto  dire  meno  lontana 
dall'  a  la  r,  per  la  qtiale  non  v'  ha  nessuno  di  que'  contatti  e  nessuna  articolazione  la- 
terale della  lingua;  e  ci  conforterebbe  ad  affermarlo  anche  il  facile  passaggio  dell'i- 
cacuminale  in  un  a,  che  avviene  p.  es.  in  inglese.  Ma  il  vero  è  che  per  la  r  e  per 
la  l  gli  atteggiamenti  della  lingua  sono  troppo  diversi  :  1'  articolazione  é  estrema  nel 
primo  caso  (non  parlo  qua  della  r  uvulare),  ed  é  doppia,  estrema  cioè  e  laterale,  nel 
secondo.  Il  porle  nella  serie  stessa,  anzi  che  in  due  serie  parallele,  è  dunque  un'in- 
frazione manifesta  della  legge  stabilita  di  ordinare  le  voci  in  ogni  serie  secondo  il 
grado  diverso  di  una  medesima  articolazione.  Anche  qui  siamo  costretti  ad  ammirare 
l' acume  dei  grammatici  indiani ,  dai  quaU  le  vocali  ;■ ,  l  furono  congiunte  con  due 
ordini  distinti  di  dentali,  con  il  cacuminale  e  con  l'alveolare:  quantunque  qualche 
riserva  s'avrebbe  pure  a  fare,  specialmente  per  laZ,  che  per  la  sua  doppia  articola- 
zione si  mostra  non  solo  affine  alle  dentali  (e  più  che  mai,  tra  queste,  all'ordine 
delle  interdentali) ,  ma  spesso  anche  meglio  alle  labbiali,  ciò  che  appare  manifesto 
nello  slavo. 

Ma  cerchiamo  più  da  vicino  le  ragioni  della  successione  delle  tre  serie  di  vo- 
cali e  di  consonanti,  quale  fu  ammessa  dal  Thausing.    • 


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Egli  non  ripete  gli  errori  del  Merkel.  Questi  avrebbe  segnato,  secondo  che  si 
vide,  assai  male  gl'inizi  vocaKci  per  due  serie;  cogKendo  il  vero  solo  a  proposito 
della  serie  più  facile  labbiale,  clie  muove  indubitatamente  dall' «. 

Il  Thansing  non  dice  che  la  spirante  j  palatale  sia  principio  delle  consonanti 
dentali,  ma  ci  insegna  che  queste  confinano  con  r,  l.  Basta,  come  osservai  dianzi, 
determinare  meglio  l' articolazione  delle  due  liquide ,  quella  sovra  tutto  della  l,  per- 
chè la  proposta  si  possa  accettare.  La  parentela  di  articolazione  tra  alcune  ma- 
niere di  r  ed  l  e  le  molteplici  dentali,  ed  anche  la  esistenza  di  un  r  e  di  un  l  so- 
nanti è  benissimo  assodata.  Ed  è  questo,  ripeto,  un  bel  progresso,  anzi  il  più 
difficile  per  avventura  che  si  potesse  fare  nel  nostro  argomento  ;  sicché  il  buono 
compensa  qui  ad  usura  il  piccolo  sbaglio  notato. 

Ma  rimangono  altre  obbiezioni  da  fare  alle  altre  parti  della  teoria.  E  scegliendo 
quelle  che  mi  paiono  più  poderose,  domando  subito  se  il  Thausin*  abbia  corretto 
ugualmente  bene  1'  altro  errore  commesso  dal  Merkel  nell'  ordinamento  delle  voci 
gutturali. 

Anche  qui  i  diie  fisiologi  si  contraddicono  fieramente,  perchè  il  primo  vuole 
che  l'inizio  sia  in  /  e  il  secondo  voleva  che  fosse  invece  in  a.  Ma  questa  volta  lo 
sbaglio  del  Thaiising  mi  par  molto  più  grave  di  quello  del  Merkel  e  veramente  ine- 
scusabile. 

Come  mai  potè  egli  immaginare  che  dall'  articolazione  dell'  i,  per  formare  il 
quale  si  solleva  fortemente  la  2Mrte  anteriore  della  lingua  verso  il  palato  anteriore  e 
verso  gli  alveoli,  si  debba  svolgere  via  via,  per  semplice  differenza  di  grado,  cioè  per 
articolazione  sempre  più  stretta  e  dunque  per  avvicinamento  sempre  maggiore  a 
quegli  alveoli,  la  serie  delle  guttiirali  _;,  eh,  g,  k  per  le  quali  occorre  invece  1'  innal- 
zamento della  j^arte  jjosteriore  della  lingua  verso  la  parte  mediana  del  palato  ?  La 
vocale  i  non  vuol  essere  disgiunta  dalle  palatali,  con  cui  la  vollero  già  unita  i 
grammatici  indiani:  e  ciò  fu  riconosciuto,  come  vedemmo,  sebbene  un  po' a  ma- 
lincuore, dallo  stesso  Briicke. 

Degli  studi  indiani  non  faceva  probabilmente  la  dovuta  stima  il  Thausing,  che 
volle  lanciare  contro  di  essi  una  frecciata  inconsulta,  quando  per  meglio  magnifi- 
care le  miniere,  certo  ricchissime,  dei  dialetti  viventi,  volle  deprimere,  a  quel  pa- 
ragone, i  tesori  favolosi  dell'  Oriente  {die  Fahelsclidtze  des  Orientu,  pag.  ix).  Egli,  che 
era  acceso  di  così  vivo  entusiasmo  per  quella  scienza  del  linguaggio  che  giudicava 
essere  «  la  più  bella  e  la  più  alta  parte  dello  studio  della  natura  »  (pag.  2)  non  av- 
vertiva che  essa  si  compie  veramente  solo  come  scienza  storica.  Sicuramente  non 
doveva  a  lui  fare  punto  scrupolo  lo  allontanarsi  dalle  teorie  antichissime  de'  Pràti- 
r/ikhyas.  E  poiché  si  contentò  di  tracciare  tre  serie  sole  di  consonanti  e  di  esaminarne 
in  modo  molto  superficiale  le  articolazioni  orali,  possiamo  comprendere  come  dovesse 
facilmente  cadere  nell'  errore  notato.  Non  credendo  di  dover  sempre  tenere  d'  occhio 
anche  la  posizione  della  lingua,  ma  badando  per  le  labbiali  a  quella  sola  delle  labbra, 
ragionò  di  sicuro  al  modo  seguente:  Al  varco  e  al  contatto  che  si  ottengono  con  le 
due  labbra,  succedono  prima  quelli  della  punta  della  lingiiaepoi  quelli  del  dorso  di 


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essa  colla  volta  superiore  della  bocca.  Si  devono  dunque  fissare  necessariamente  tre 
articolazioni  principali:  del^j  esterno,  del  t  mediano  e  del  k  interno.  Non  rifletteva  che 
mentre  l'articolazione  labbiale  ha  assai  poca  varietà  (accompagnandosi  con  essa  al 
più  al.  più  la  labiodentale),  il  dorso  della  lingua  per  la  sua  superficie  cosi  lunga  si 
presta  ad  articolazioni  diversissime,  che  vogliono  necessariamente  essere  suddi- 
stinte :  che  devono  pure  essere  suddistinte  le  articolazioni  della  punta  della  lingua , 
la  quale  si  può  recare  in  luoghi  assai  diversi  sulla  volta  della  cavità  orale. 

Fatte  queste  riserve,  per  le  quali  apparisce  che  la  classificazione  del  Thausing 
è  da  dii'6  imperfettissima,  si  può  in  certo  modo  giustificarla  alquanto,  e  dire  che 
non  abbia  altro  difetto  se  non  questo  di  poca  distinzione,  ponendo  essa  insieme  da 
una  parte  le  dentali  alveolari  con  le  cacuminali;  dall'  altra  anche  più  grossolanamente 
le  palatali  con  tutte  le  gutturali.  Così  u,  r,  i  rappresenterebbero  convenientemente  tre 
modiche  aperture  di  bocca  e  p,  t,  e  tre  diverse  chiusure  compiute,  segnando  un 
procedimento  continuo  e  sempre  regressivo  dall'  esterno  all'  interno  :  dalle  labbiaU 
alle  dentali  e  alle  palatali. 

Molto  meno  spiegabile  è  che  la  riuuuzia  a  tutte  le  squisitezze  della  classifica- 
zione indiana  sia  stata  fatta  anche  dal  Whitney  :  cioè  da  uno  dei  più  celebri  vedi- 
sti ,  da  uno  de'  pochi  dotti  a'  quali  le  sottili  dottrine  della  fonetica  sanscrita  devono 
essere  molto  famigliari,  avendo  egli  non  solo  curato  1'  edizione  di  uno  de'  Veda,  ma 
anche  quella  del  suo  Pràtiqàhliya. 

Volendo  pur  trovarla  una  ragione,  io  non  so  pensare  ad  altro  che  a  qualche 
punto  debole  della  teoria  indiana,  per  togliere  il  quale  non  deve  aver  dubitato  il 
Whitney  di  abbatterla  tutta  e  di  edificare  in  suo  luogo  un  altro  sistema,  che  con- 
corda quasi  pienamente  con  quello  testé  esaminato  del  Thausing  e  che  però 
merita,  a  mio  avviso,  più  gravi  censure  di  quello  indiano  che  volle  abbandonare. 
Il  punto  più  debole,  il  lettore  m'ha  già  capito,  era  la  posizione  dell' «  in  capo 
all'ordine  delle  gutturali,  della  quale  dovetti,  toccare  più  addietro.  Credo  allora 
d'  aver  messo  in  chiaro  come  quella  collocazione  sia  del  tutto  oppugnabile  ove  si  in- 
tenda di  parlare  delle  gutturali  anteriori  e  meno  profonde;  potendosi  ammettere 
una  certa  affinità  dell'  a  (non  mai  una  contiguità  vera)  soltanto  colle  gutturali  più 
interne,  per  le  quali  la  lingua  si  ritrae  veramente  alla  sua  radice  verso  il  palato 
molle,  senza  sollevare  punto  la  sua  parte  mobile  per  fare  nessuna  articolazione. 

E  se  le  gutturali  indiane  erano  appunto  le  gutturali  più  profonde  del  Bruche? 
In  questo  caso  la  classificazione  dei  grammatici  indiani,  fatta  qualche  lieve  riserva 
intorno  all'  oscuramento  gutturale  dell'  a,  che  non  pare  accennato  (il  sanwrta  ed  il 
nivrta  dell' a  breve  e  dell'  a  lunga,  dovendo  essere  stato  ben  altra  cosa),  si  dovrebbe 
approvare  interamente.  Ed  essi  avrebbero  poi  anche,  con  la  teoria  del  guna^  impli- 
citamente riconosciuta  la  maggioranza  dell'  a  sulle  vocali  estreme. 

Ma  prima  di  tutto  non  pare  che  si  possa  consentire,  sebbene  qui  non  sia  il 
luogo  di  provarlo,  che  le  gutturali  indiane  sieno  state  veramente  le  gutturali  più 
profonde.  Senza  negare  che  a  principio  le  lingue  ariane  abbiano  avuto  anche  que- 
ste, che  anzi  m' ingegnerò  altrove  di  portar  qualche  ragione  a  conforto   di  siffatta 


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tesi,  pare  assai  verosimile  che  le  gutturali  indiane  fossero  le  mediane  del  Briicke 
{h\  non  U').  E  ad  ogni  modo,  quando  pure  per  la  lingua  indiana  potesse  valere  per- 
fettamente la  teoria  indigena ,  rimarrebbe  sempre  a  cercare  l' inizio  vocalico  delle 
gutti;rali  più  avanzate;  non  potendo  il  fatto  indiano  valere  per  le  altre  lingue  man- 
canti di  gutturali  profonde. 

Questa  necessità  non  poteva  sfuggire  all'  acutissimo  "Wliitney;  il  quale  conside- 
rando che  le  gutturali  men  vere,  ma  più  comuni  per  noi,  che  sono  le  più  anteriori 
(fc'  del  Brucke)  hanno  stretta  aiSnità  con  le  palatali,  pone  anch' egli  a  principio 
delle  nostre  gutturali,  eh' ei  chiama  anzi  un  po' leggermente  palatali  senz'altro,  la 
vocale  i.  A  questa  contrappone  poi  la  vocale  u  onde  si  comincia  la  serie  labbiale.  E 
finalmente  tra  palatali  e  labbiali  inserisce  una  terza  serie  linguale  o  dentale,  avver- 
tendo che  essa  piglia  le  mosse  dall'i-  o  dall'?  vocalici.  Fa  insomma  quello  che  ve- 
demmo fare  al  Thausing. 

Ma  io  ripeto  contro  il  "Whitney,  come  contro  il  Thausing,  che  questa  succes- 
sione di  u,  r,  i  rappresenta  solo  la  situazione  delle  articolazioni,  trascurando  del 
tutto  per  la  vocale  ?t  la  posizione  della  lingua  e  che  perciò  è  incompiuta  ed  erronea. 
Si  viene  per  essa  allo  strano  risultato,  che  le  vocali  u  ed  i  siano  meno  vicine  tra 
loro,  di  qiianto  ciascuna  di  esse  sia  vicina  all'  r  vocale  (ed  alla  l)\ 

Basta,  credo  io,  enunziare  questa  conseguenza,  per  dimostrare  la  necessità  di 
modificare  le  premesse  e  di  modificarle  badando  principalmente  alle  articolazioni 
della  lingiia.  Non  e'  è  bisogno  di  addurre  le  troppo  facili  prove  del  passaggio  di  u 
in  t,  manifesto  per  tanti  fatti,  e  di  porle  in  bilancia  cogli  sviluppi  vari  di  a,  di  u, 
di  /  dalle  liquide. 

Ognuno  consentirà  senza  sforzo  che  la  natura  fisiologica  e  acustica  delle  vocali 
propriamente  dette  le  contrappone  tutte  insieme  alle  liquide,  come  a  vocali  meno 
perfette. 

Non  posso  sapere  se  il  "Wliitney  abbia  avuto  notizia  del  Sistema  naturale  del 
Thausing,  perchè  il  glottologo  americano,  avendo,  solo  due  anni  dopo  la  pubblica- 
zione di  quel  libro,  scritto  sulle  relazioni  delle  vocali  con  le  consonanti,  non  ricorda  in  nes- 
sun luogo  il  suo  predecessore;  almeno  nella  seconda  edizione  del  suo  lavoro,  uscito 
1'  anno  1874  nel  2"  volume  degli  Studi  orientali  e  linguistici,  che  soli  ebbi  sott'  occhio. 
Certo  la  concordanza  delle  due  teorie  è  grandissima,  come  apparirebbe  subito  dalla 
tabella  di  classificazione  dataci  dal  Whitney.  Ma  per  risparmio  di  spazio  non  voglio 
nemmeno  riportarla.  Potrò  bensì  chiamare  l' attenzione  del  lettore  suUe  poche  e  lievi 
differenze  dei  due  sistemi,  e  se  ne  vantaggerà  tutta  la  mia  trattazione. 

Un  miglioramento  è  innegabile,  sebbene  incompleto,  rispetto  alle  liquide,  le 
quali  sono  presentate  dal  "Whitney  senza  differenza  di  grado,  ma  non  ancora,  come 
pur  si  dovrebbe,  in  diverse  serie:  sicché  date  ivi  come  una  coppia  di  voci  gemelle, 
in  compagnia  di  tutte  le  altre  voci  semplici,  sono  una  stonatura.  Un'altra  differenza 
poteva  pur  riuscire  ad  un  vero  miglioramento;  ma  cosi  com'  è  bisogna  dirla  in- 
vece un  regresso.  Ed  è  insieme  tale  da  scoprirci  un'  altra  imperfezione  dell'  in- 
tero sistema  del  Whitney  e  insieme   di  quello  del  Thausing.  Questi  aveva,  come 


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notai,  commesso  un  piccolo  sbaglio  di  iucoerenza  nell'ordinamento  delle  esplosive, 
volendo  mettere  in  luce  la  sonorità  delle  nasali.  Il  Wliitney,  perchè  questa  qualità 
sia  anche  più  evidente,  non  colloca  le  nasali  in  fine  della  piramide,  dove  si  poteva 
pur  concedere  che  fossero  poste  le  vere  nasali,  per  la  chiusura  della  bocca  che  ad 
esse  è  veramente  necessaria;  ma  le  trasporta  più  in  sii  tra  le  semioocali  e  le  fricative, 
sicché  nonostante  la  loro  affinità  manifesta,  separa  crudamente  questi  due  ordini. 
Ma  del  luogo  che  spetta  alle  nasali  nella  classificazione  unica  delle  vocali  e  delle 
consonanti  dovrò  trattare  più  innanzi.  Qui,  come  dicevo,  m' importa  solo  di  notare 
che  il  Thausing,  oltre  ad  essere  più  esatto  nel  modo  suo  di  considerare  le  nasali,  ve- 
niva a  nascondere  meglio  un  altro  grave  difetto  del  suo  schema,  il  quale  in  quello 
del  Wliitney  diventa  troppo  palese,  ed  è  il  seguente: 

Entrambi  vengono  a  porre  tutto  il  vocalismo  come  un  gruppo  centrale  in  mezzo 
a  tre  correnti  di  consonanti,  le  quali  muovono  in  direzioni  diverse  e  si  separano  al- 
lontanandosi via  via  r  una  dall'  altra  sempre  più,  di  mano  in  mano  che  per  cia- 
scuna si  fa  maggiore  lo  stringimento  della  cavità  orale.  Si  avrebbe  dunque  questo 
strano  risultamento,  che  tra  nessun'  altra  voce  la  differenza  sia  più  forte  che  tra  le 
consonanti  esplosive  e  p.  es.  tra  j^,  t,  ek;  mentre  la  stòria  della  lingua  prova  che  per 
virtù  di  una  parassita  facilmente  possa  essere  sostituito  un  k  dal  j^  e  dal  t.  Nello 
schema  del  Thausing  1'  opposizione  rimane  più  coperta  dalla  vicinanza  delle  nasali, 
che  forse  indicava,  anche  nel  suo  pensiero,  una  certa  loro  parentela  latente  con  le 
consonanti  implosive  (esplosive)  e  per  così  dire  un  ritorno,  per  via  della  risonanza 
nasale,  alla  perfetta  sonorità  vocalica;  benché  egli  non  l'abbia  punto  accennato!  Ma 
nello  schema  del  Whitney  quelle  tre  voci  appaiono  remotissime  1'  una  dall'  altra  e 
rappresentano  i  tre  punti  di  massima  divergenza  dal  suono  fondamentale  e  naturale 
dell'  a. 

Se  non  erro,  la  principale  cagione  per  cui  furono  tanto  imperfetti  i  pochi  ten- 
tativi di  classificazione  unica  delle  voci ,  fu  1'  aver  badato  troppo  poco  alle  articola- 
zioni della  lingua,  prescindendo  del  tutto  dalla  posizione  normale  di  essa  per  la  forma- 
zione delle  labbiali.  E  si  aggiunse,  come  conseguenza  ed  occasione  di  nuovi  errori, 
la  poco  felice  rappresentazione  grafica  delle  diverse  voci ,  che  si  raffigurarono  quasi 
si  trovassero  in  rapporti  semplicissimi  di  linee  rette  su  di  una  superficie  piana; 
mentre,  a  mio  credere,  sarebbe  stata  molto  più  opportuna  una  rappresentazione 
di  linee  curve,  che  •  significassero  non  ricisi  e  duri  ma  dolci  e  continui  trapassi  dal- 
l' una  all'  altra  voce. 

Ed  ora  la  parte  positiva  del  mio  studio  potrà  essere  molto  breve;  avendo  io 
mirato  sempre  ad  essa  in  tutta  la  parte  precedente  storica  e  critica.  Ecco  dunque 
senz'altro  le  mie  considerazioni  più  generali.  Sopprimo  anche  quella  rappresentazione 
grafica  che  vorrei  proporre,  perchè  mi  richiederebbe  troppo  lunghe  dichiarazioni. 

Per  prima  cosa  le  nasali,  a  cui  occorre  sempre  un  maggiore  o  minore  abbassa- 
mento del  velo  palatino  e  la  vibrazione  dell'  aria  nella  cavità  del  naso,  dovranno  essere 
contrapposte  a  tutte  le  altre  voci  orali  jìure  per  le  quali  il  velo  palatino  sollevatosi 
impedisce  ogni  comunicazione  colle  narici,  sicché  la  risonanza  avviene  unicamente 


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nella  cavità  della  bocca.  E  a  mio  giudizio  un  grave  errore  lo  inserirle  tra  queste 
ultime,  in  questo  o  in  quel  punto,  teuend.o  conto  solamente  delle  articolazioni 
della  lingua  e  delle  labbra. 

La  diversità  del  tubo  di  risonanza  è  qui  certamente  il  carattere  supremo  :  opperò 
articolazione  essenziale  dev'  esser  detta  per  le  nasali  quella  del  velo  pendolo.  Secondo 
le  sole  articolazioni  della  lingua  e  delle  labbra  la  designazione  del  grado  che  esse 
devono  tenere  nella  serie  delle  voci  riuscirà  sempre  impossibile  o  sarà  sempre  ar- 
bitraria. E  vero  che,  per  la  chiusura  della  bocca ,  con  le  nasali  confinano  le  consonanti 
implosive  (esplosive)  che  sono  fra  tutte  le  più  opposte  alle  vocali.  Ma  non  è  men  vero 
che  le  nasali  anche  a  queste  danno  la  mano,  essendo  tutte  le  vocali,  quanto  più  si 
allontanano  dai  punti  estremi  della  serie ,  ossia  quanto  meno  sono  sottili  e  lontane  dal- 
l' rt,  facilmente  nasalizzaòili.  Vi  ha  dunque  come  un  circolo  continuo  e  compiuto. 
Per  le  nasali  perfette  il  velo  pendolo  lascia  del  tutto  libera  la  via  normale  della  re- 
spirazione ,.  che  è  quella  del  naso.  Esse  non  allontanano ,  a  questo  riguardo ,  dallo 
stato  d' inerzia  l' apparato  vocale,  che  veramente  produce  con  facilità  de'  suoni  na- 
sali, anche  nel  sonno;  e  sta  dunque  bene  che  sieno  poste  a  principio.  Ad  esse  si 
dovranno  far  seguire  primieramente  le  vocali  nasalizzate,  per  cui  il  velo  pendolo  già 
si  rialza  alqiiauto  e  la  voce  laringea  risuona  propriamente  nella  bocca.  La  via  del 
naso  si  chiude  del  tutto  per  le  vocali  pure  ;  trovando  per  queste  la  corrente  sonora 
dell'  aria  la  bocca  aperta  e  non  incontrandovi  ostacoli  veri ,  sebbene  vi  sia  varia- 
mente guidata.  Ma  gli  ostacoli  ricominciano  per  la  formazione  delle  consonanti  e  cre- 
scono più  e  più  fino  alla  chiusura  compiuta,  che  dà  luogo  ai  romori  implosivi  ed 
esplosivi.  Ove  questa  chiusura  continui  non  è  possibile  alla  voce  altra  uscita,  se  non 
mediante  il  riaprirsi  del  varco  del  naso:  ed  ecco  che  così  si  ritorna  alle  voci  nasali, 
da  cui  si  partiva. 

Questo  sistema  naturale  delle  voci  mi  pare  che  sia  bene  i-appresentato  dalla  sil- 
laba sacra  degli  indiani  arem,  che  ci  dà  i  due  punti  estremi  della  bocca  interamente 
aperta  e  della  bocca  interamente  chiusa  e  il  punto  intermedio  della  serie  labiale. 

Volendo  significare  anche  la  situazione  propria  delle  consonanti  esplosive  (implo- 
sive) in  cui  si  riesce  ad  un  vero  interrompimento  della  fonazione,  basterebbe  na- 
turalmente frapporre  tra  la  vocale  labbiale  o  la  nasale  labbiale  l' esplosiva  debole  o  forte 
dello  stesso  ordine,  scrivendo  auhn,  anpm.  Ma  nulla  vieterebbe  di  fare  analoghe  rap- 
presentazioni per  le  altre  serie:  per  la  dentalo  alveolare  p.  es.  ardn  od  artn,  per  la 
dentale  cacuminale  nrrZw,  artn,  per  la  palatale  aig'ri,  aic'n;  notando  naturalmente  che 
per  la  doppia  articolazione  propria  dell'  l  occorrano  diverse  formole. 

E  per  le  altre  serie?  Per  trovare  le  formole  convenienti  alle  diverse  gutturali, 
che  sono  le  principali  voci  non  ancora  classificate,  mi  è  necessario  di  ripigliai'c  il 
filo  delle  mie  considerazioni,  esaminando  più  accuratamente  le  varie  articolazioni 
della  lingua. 

Questa  ha  assai  minore  agio  e  spazio  di  muoversi  abbassando  la  punta,  che  pro- 
tendendosi o  ritraendosi  o  sollevandosi  verso  il  palato.  Un'inclinazione  ad  abbassare 
senz'  altro  la  punta  appare  specialmente  per  le  voci  labbiali ,  quasi  la  lingua  debba 


cedere  il  luogo  all'  azione  delle  labbra  cui  spetta  la  vera  articolazione.  Rispetto  alle 
labbiali  la  lingua  avrà  dunque  ben  poca  varietà  di  movimenti,  e  le  altre  serie  si  po- 
tranno contrapporre  ad  esse  come  più  propriamente  Unrjuali  nel  più  largo  senso 
della  parola;  saranno  naturalmente  molteplici  e  tanto  -^m.  bisognose  di  accurata 
distinzione,  quanto  più  diverse  possono  essere  le  loro  alterazioni. 

•  Ma  si  avverta  subito  come  le  articolazioni  anteriori  della  lingua,  rispetto  al 
punto  ove  avviene  il  contatto,  sieno  bensì  da  riconoscere  quali  mediane  tra  l'artico- 
lazione delle  labbra  e  le  articolazioni  posteriori  della  lingua;  ma  quanto  alla  natura 
stessa  dell'  articolazione  non  si  possa  punto  concedere  che  le  voci  dentali  serbino  lo 
stesso  rapporto  di  fronte  alle  labbiali  ed  alle  gutturaK.  V  ha  come  un  cerchio  conti- 
nuo cU  articolazioni  della  lingua,  sicché  la  situazione  mediana  è  di  tutte  le  serie  e 
•non  è  di  nessuna.  Piuttosto  che  alle  dentali  si  potrebbe  dire  che  il  posto  mediano 
sia  da  dare  alle  gutturali  od  anche  alle  labbiali,  che  meno  rimuovono  la  lingua  dallo 
stato  normale.  Le  dentali  sono  invece  le  articolazioni  più  energiche  ed  estreme.  In- 
fatti le  gutturali  hanno  comune  con  le  dentali  un  innalzamento  della  lingua  verso 
la  parte  superiore  della  bocca,  con  le  labbiali  l'abbassamento  della  punta.  Le  dentali 
e  le  labbiali,  sebbene  vicine  di  luogo,  non  concordano  per  nulla  nell'articolazione 
della  lingua  che  è  protesa  per  le  prime  e  sollevata ,  abbassata  e  invece  ritratta  per  le 
seconde;  sicché,  a  questo  riguardo,  sono  opposte  recisamente  le  une  alle  altre  e  piut- 
tosto per  via  delle  gutturali  si  avvicinano  e  in  esse  s'  incontrano.  Anziché  essere 
giusta  la  successione  apparente  u,  r,  i  delle  vocali  ovvero  quella  p,  t,  e  delle  con- 
sonanti, riescono  dunque  legittime  e  naturali  le  successioni  u,  i,  r;  p,  e,  t;  meglio 
ancora  :  u,  i,  r,  «.  Epperò  si  deve  conchiudere  che  male  sieno  messe  le  dentali  come 
voci  intermedie  e  più  affini  di  tutte  all'a  puro  nei  sistemi  del  Thausing  e  del  Whitney. 

Ma  non  s'  è  detto,  peranco,  con  queste  formole,  qual  posto  tocchi  alle  gutturali 
propriamente  dette:  si  è  segnato  piuttosto  quello  richiesto  dalle  palatali,  che  si  dissero 
già  gutturali  o  anche  dentali  imperfette,  come  quelle  che  sorgono  di  solito  dal  lo- 
goramento di  quelle  o  di  queste  anziché  essere  voci  native.  Queste  formole  triplici 
non  possono  dunque  bastare;  occorre  che  diventino  almeno  quadruplici  e  accolgano 
anche  le  gutturali ,  che  sono  più  semplici  e  schiette  delle  palatali. 

Sebbene  il  luogo  che  tocca  alle  gutturali  perfette  non  possa  rimanere  più  dubbio 
per  i  ragionamenti  fatti  dianzi,  che  misero  in  chiaro  l' affinità  di  esse  con  le  labbiali, 
riconosco  di  buon  grado  1'  opportunità  di  ristudiare  la  cosa  sotto  un  altro  aspetto. 

Esaminando  le  leggi  di  articolazione  delle  diverse  vocali  si  giungerà  anche  più 
facilmente  allo  stesso  risultamento. 

E  noto  come  alla  vocale  fondamentale ,  ossia  all'  a  teorico  puro ,  non  occorra 
la  Ungua  sia  tolta  da  quella  posizione  di  assoluta  inerzia  che  essa  ha  naturalmente 
quando ,  a  bocca  chiusa ,  riempie  quasi  del  tutto  la  cavità  orale.  Basta  a  quell'  « 
r  apertura  della  bocca  ;  e  il  suo  suono  si  fa  tanto  più  cliiaro  e  compiuto  quanto 
più  la  mascella  inferiore  si  scosti  dalla  superiore. 

Ma  la  lingua  si  muove  e,  coi  suoi  diversi  atteggiamenti  variando  la  forma  della 
cavità  orale,  altera  più  o  meno  il  timbro  di  quel  suono  fondamentale.  L'  u  si  pro- 

i 


—  26  — 

duce,  come  i  fisiologi  affermano  concordemente,  quando  la  lingua  si  solleva  alquanto 
nella  parte  posteriore  verso  il  mezzo  del  palato;  onde  avviene  che  la  punta  della 
lingua  si  abbassi  e  si  ritragga  ben  discosto  dai  denti  inferiori.  Per  contro  si  pro- 
duce l' i ,  quando  la  lingua  si  avanza  e  si  solleva  con  la  siia  parte  anteriore  verso  il 
palato  e  gli  alveoli.  Cosi  questi  suoni  estremi  della  serie  vocalica,  che  si  oppongono 
l' uno  all'  altro  anche  per  valore  acustico  (perchè  per  il  primo  il  suono  primitivo  la- 
ringeo viene  rinforzato  ne'  suoi  toni  complementari  più  bassi ,  laddove  per  il  secondo 
si  debbono  questi  ultimi  ammorzare  pigliando  invece  incremento  i  più  acuti),  sono 
in  reciso  contrasto.  Perciò  appunto  son  possibili  parecchie  vocali  intermedie,  che  si 
generano  per  altri  sollevamenti  della  lingua  fatti  colla  parte  centrale.  Io  mi  contento  di 
fissarne  una  sola,  l' il  (greco,  francese,  ec),  e  domando:  quale  serie  di  consonanti  sarà 
affine  per  articolazione  a  siffatta  vocale  frapposta  fra  l' te  e  Vi,  che  è  certo  sottilis- 
sima anch'  essa,  ossia  posta  nello  stesso  grado  di  lontananza  dalla  vocale  a  e  in- 
somma allo  stesso  punto  di  cammino  verso  il  consonantismo?  Poiché  la  punta  della 
lingua  per  tutta  la  serie  vocalica  dall' ì«  all' i  rimane  sempre  bassa,  l'ordine  delle 
consonanti  cercato  non  potrà  trovarsi  tra  quelle  dentali  che  vogliono  un  avvicina- 
mento o  un  contatto  coi  denti  superiori  o  cogli  alveoli.  Ma  quella  serie  richiede 
pure  un  sollevamento  dorsale  della  lingua;  il  quale  essendo  più  che  mai  posteriore 
per  1'  « ,  pili  che  mai  anteriore  per  l' i ,  per  la  vocale  ii  frapposta  sarà  naturalmente 
mediano.  Non  potrà  dunque  corrispondere  a  questo  il  la  serie  labiale  ond'  è  proprio 
il  massimo  abbassamento  della  punta;  e  neppure  la  serie  2>alatale ,  perchè  questa  ri- 
chiede mi  forte  sollevamento  del  dorso  anteriore.  Or  dopo  le  dentali,  le  labbiali  e 
le  palatali  si  giunge  finalmente,  per  esclusione  delle  altre  serie,  alla  quarta,  guttu- 
rale. Queste  gutturali,  che  congiungendo  veramente  con  un  certo  abbassamento  della 
punta  della  lingua  un  sollevamento  posteriore,  si  devono  collocare  necessariamente 
tra  le  labbiali  e  le  palatali ,  troveranno  il  loro  giusto  inizio  in  quella  vocale  m. 

Aggiungiamo  dunque  subito  alle  formole  date  più  sopra  anche  la  formola  delle 
gutturali  più  comuni,  che  sarà  aìig-f  ovvero  ailk-i.  E  inutile  avvertire  che  oltre  le  quat- 
tro serie  principali  che  furono  discusse,  rimarrà  sempre  possibile,  o  anzi  sarà  ne- 
cessaria, secondo  i  diversi  casi,  la  determinazione  di  altre  ed  altre  ancora,  che  si 
interpongano  fra  quelle;  e  che  per  farla  a  dovere  converrà  sempre  osservare  dili- 
gentemente le  articolazioni  della  lingua.  Le  dentali  cacuminali  si  verranno  a  porre,  per 
esempio,  accanto  alle  jialatali;  e  di  esse  si  potrà  dire  che  la  punta  vi  si  sostituisca 
alla  parte  anteriore  della  lingua  e  ne  faccia  le  veci.  Tra  le  labbiali  e  le  dentali  pro- 
priamente dette  staranno  le  interdentali,  per  cui  la  lingua  non  avrà  né  abbassamento 
né  innalzamento  della  punta,  ma  semplice  protensione.  E  a  questa  articolazione  se- 
nile (a  cui  giunge  p.  es.  nello  spagnolo,  per  massimo  abbandono  della  lingua,  la  si- 
bilante succeduta  ad  una  gutturale  antica),  si  opporrà  più  d'ogni  altra  quella  jji«. 
giovenile  di  tutte  delle  gutturali  del  tutto  interne,  che  soi'gono  per  ritiramento  della 
lingua  alle  sue  radici  e  non  trovano  veramente  il  loro  luogo  in  nessun  punto  del 
cerchio,  ma  son  centrali  rispetto  a  tutte  le  altre  serie. 

Ed  ora,  fissate  anche  siffatte  distinzioni  ulteriori,  che  potrebbero  essere  più 


minute,  troppo  mi  importa  di  avvertire  come,  secondo  le  migliori  descrizioni  dei 
fisiologi,  il  carattere  essenziale  delle  gutturali  più  comuni  o  anteriori  sia  vera- 
mente il  sollevamento  più  o  meno  centrale  della  lingua  verso  il  palato;  di  che 
oo-nuno  può  del  resto  persuadersi  con  facile  osservazione  sopra  so  medesimo  mediante 
un  semplice  specchio.  Or  si  può  anche  da  quel  carattere  derivare  immediatamente 
la  loro  situazione  mediana  tra  le  palatali  e  le  labbiali.  Per  poco  che  il  sollevamento 
si  avanzi  dovrà  tramutarsi  infatti  in  palatale;  per  poco  che  retroceda  dovrà  far 
luogo  al  forte  abbassamento  anteriore.  E  poiché  alle  labbiali  succedono  per  via  delle 
intordeutali  le  dentali  e  dall'  altro  lato  alle  palatali  son  prossime  le  dentali  cammi- 
nali e  dorsali,  ecco  riapparire  la  catena  che  ritorna  sovra  se  medesima,  a  cui  m'  av- 
venne di  paragonare  la  successione  dei  gradi  in  ciascuna  serie. 

Ma,  a  conforto  delle  considerazioni  fisiologiche  fatte  fin  qui,  credo  opportuno 
d' aggiungere  qualche  riprova  tolta  alla  glottologia  storica.  La  scelta  è  facile  perchè 
esse  abbondano. 

Prima  di  tutto ,  poiché  il  caposaldo  secondo  U  quale  ho  riordinato  tutto  il  sistema 
delle  voci  articolate ,  è  la  grande  affinità  delle  gutturali  comuni  con  le  labbiali ,  le 
quali  secondo  il  Thausing  e  il  Wliituey  avrebbero  invece  dovuto  giudicarsi  lonta- 
nissime da  quelle  e  separate  perla  serie  dentale  o  linguale, voglio  ricordare  la  esistenza 
di  consonanti  labiogutturali ,  che  darà  certo  uno  dei  più  forti  rincalzi  alla  mia  teoria. 
Io  lo  farò  citando  un  luogo  delle  Ricerche  Etimologiche  del  Pott:  «  Nel  linguaggio 
dei  Yorubi  si  trovano,  perfino  inizialmente,  unite  volentieri  ^&  ytjj,  due  strane  combi- 
nazioni ,  perchè  per  esse  si  deve  varcare  tutta  intera  la  distanza  che  è  dalla  gola  alle 
labbra.  »  A  noi  non  devono  parere  strane,  ma  legittime  e  naturalissime,  per  la  grande 
affinità  di  articolazione  della  lingua  onde  sono  stretti  insieme  i  due  elementi;  U 
Pott  le  giudicava,  anche  lui,  badando  solamente  al  luogo  del  contatto.  «  Eppure,  egli 
prosegue,  il  Crowther  {Yoruha  Gramm.)  descrive  queste  combinazioni  con  le  seguenti 
parole:  Gh  e  Kp  danno  ciascuno  un  suono  che  è  tra  Z»  e  </,  tra  2^  e  k;  perchè  tutti 
e  due  gli  elementi /«jmio  insieme  una  sola  consonante.  P  non  comincia  nessuna  parola 
per  sé  solo  (e  v'  hanno  lingue  ove  manca  affatto).  Esso  vi  si  trova  sempre  unito  col 
h:  cosi  lo  si  sente  in  kpakijork  unire,  mescolare.  Anche  la  lingua  Ève  conosce  1 
suoni  labiogutturali  fcp,  gh  ed  i  suoni  labiolinguali  e  gutturali  insieme  fcjs^,  ghl  » 
(Schlegel,  pag.  14).  Dopo  quello  che  s'è  detto  sull'articolazione  dell' Z  e  della  sua 
articolazione  laterale  essen^almente  posteriore ,  anche  questi  complessi  devono  parere 
appieno  giustificati.  Potrei  continuare  a  tradurre  il  Pott  che  ritrova  le  labioguttu- 
rali in  altre  lingvie,  degli  Haussa,  ào' Bullom,  ecc.  {Etym.  Forscli.  "11,  pag.  71);  ma  ba- 
sti aver  rimandato  ad  esso  il  lettore,  il  quale  nella  stessa  opera  troverà  un  altro 
passo  molto  importante  (pag.  63) ,  .ove  si  nota  che  anche  nel  massimo  numero  delle 
lingue  americane  (Kechua  eco.)  ha  prevalenza  il  gutturalismo. 

Onde  non  gli  parrà  forse  improbabile  che  abbia  predominato  il  gutturalismo 
nelle  lingue  più  antiche  e  che  si  serbino  queste  traccie  dello  stato  primitivo  nelle 
lingue  meno  perfezionate  de'  selvaggi.  Eecando  in  aiuto  delle  considerazioni  filoge- 
niche, ossia  della  specie,   quelle    degli  individui,  che  chiamano  ontogeniche,  non 


—  28  — 

lascerò  di  notare  che  nello  sviluppo  primo  della  facoltà  del  linguaggio  i  bambini 
cominciano  ad  emettere  dei  gridi  gutturali.  A  poco  a  poco  acquistano  le  varie  ar- 
ticolazioni della  lingua  e  imparano  a  muovere  senza  incertezza  quest'  organo  mobi- 
lissimo :  e  per  lungo  tempo  nelle  loro  voci  senti  spesso  commescersi  veramente  l'ele- 
mento guttiirale.  Senonchè  per  quanta  attrattiva  possano  avere  per  il  glottologo 
anche  siffatti  riscontri,  temo  che  ognuno  li  trovi  qua  troppo  fuori  di  luogo. 

Più  facilmente  mi  si  consentirà  di  addurre  un  argomento  tolto  alle  lingue  ro 
manze  e  più  propriamente  al  francese,  che  anche  dimostra  la  parentela  delle  guttu- 
rali con  la  serie  labbiale. 

Il  francese  avanti  alle  vocali  labbiali  {u  ed  o)  serba  di  regola  intatta  la  guttu- 
rale antica,  forte  o  debole  che  sia  ;  ma  davanti  alle  vocali  palatali  (/,  e)  ed  anche  da- 
vanti air  a  la  tramuta  variamente  in  sibilante.  Di  questo  vario  assibilantismo  si 
può  anche  trovar  le  ragioni,  come  tento  di  dimostrare  in  altro  lavoro.  Ma  intanto 
si  noti  subito  che  il  testimonio  del  francese  è  più  che  mai  valido  in  questo  caso; 
perchè  esso  avvicina  1'  m  labiale  all'  i  palatale,  assottigliandolo  appunto  in  quell'  il 
che  dimostrai  essere  naturale  inizio  delle  gutturali  anteriori. 

Ed  ora  da  questi  fatti  seriori ,  forniti  da  uno  degli  idiomi  viventi  della  famiglia 
ariana ,  senza  uscire  da  questa  si  risalga  a  fenomeni  che  appartengono  a'  periodi  più 
antichi.  E  si  considerino  alcuni  fenomeni  di  fonologia  sanscrita  che  sono  per  sé 
semplicissimi,  ma  che  invano  si  vorrebbero  spiegare  senz'  ammettere  uno  stretto 
accordo  delle  labiali  con  le  gutturali.  Esse  si  oppongono  subito  alle  altre  consonanti 
palatali,  cacuminali  o  dentali  per  la  mancanza  della  corrispondente  sibilante  che 
queste  tre  serie  posseggono.  E  noi  vediamo  che  tra  un  n  finale  ed  un  i,  un  |,  un  e 
iniziale  la  sibilante  analoga  si  introduce  o  serba  [s,  sh,  §)  occupando  l' intervallo  che 
è  necessario  tra  il  contatto  voluto  dalla  nasale  e  quello  che  occorre  alla  esplosiva. 
Basta  infatti  a  produrre  le  sibilanti  iin  movimento  anteriore  della  lingua,  che, 
ne' luoghi  appunto  ove  si  articolano  il  t,  il  t,  ed  il  e,  formi,  ritraendosi  alquanto,  una 
piccola  stretta,  dove  1'  aria  passi,  gettandosi  contro  i  denti  e  fischiando. 

Le  gutturali  e  le  labbiali  non  possono,  come  queste  tre  consonanti,  favorire  quella 
stretta,  perchè  richieggono  invece  un  sollevamento  della  parte  posteriore  della  lin- 
gua e  nella  parte  anteriore  della  bocca  piuttosto  un  gran  vuoto. 

Come  mancano  sole  di  propria  sibilante,  cosi  si  accompagnano  poi  ancora  nel 
consentire,  contrariamente  a  ciò  che  avviene  per  le  altre  consonanti,  la  tramuta- 
zione dell' ?t  dentale  in  n  cacuminale,  quando  esse  si  trovino  frapposte  tra  quell'» 
ed  f-,  r,  s,  tutte  cacuminali,  precedenti.  Le  consonanti  che  richiedono  per  sé  il 
lavoro  della  parte  anteriore  della  lingua  impediscono  dunque  il  lingualizzamento  : 
facilmente  lo  permettono  invece  le  gutturali  e  le  labbiali  che  lasciano  così  largo 
spazio  nella  parte  anteriore  della  bocca  e  liberissima  la  punta  della  lingua.  Al  qual' 
proposito  si  può  pur  ricordare  come  per  Vs  invece  non  provochi  quella  mutazione  1'  a 
che  non  richiedo  sollevamento  della  lingua:  ma  sì  lo  determinano  le  vocali  sottili 
u,  i  a  cui  occorre  una  stretta  della  bocca  e  che  sono  estreme  nella  serie  vocalica. 

Un  altro  fatto  analogo  è  la  persistenza  di  e',  y  palatine  nel  più  antico  loro  stato 


—  29  — 

di  gvitturali  quando  sieno  in  fine  di  temi ,  se  precedono  a  gutturali  od  a  labbiali.  Così 
occorre  spesso  nel  Eig  Veda  di  notare  che  avanti  ad  u ,  v  del  suffisso  si  abbia  la  gut- 
turale invece  della  palatale  {reìcu-  da  rie,  vankii-  da  vane).  E  lo  stesso  fatto  fu  notato 
per  1'  antico  battriano  {liikil-  rispetto  ad  hàecaya). 

Non  è  meno  chiara  un'  altra  legge  del  samdhi  indiano;  che  fa  pure  all'uopo  no- 
stro: quella  cioè  per  cui  si  converte  in  visarga  (in  jilivamùliya  ed  in  upadlimàniya) 
una  sibilante  finale ,  incontrandosi  in  una  sorda  gutturale  o  labbiale  che  cominci  la 
parola  seguente.  Qiiel  concorde  ammutire  della  sibilante  (e  dell' r)  innanzi  a  k,  kh, 
^>< ,  jj/i  riconferma  mirabilmente  la  speciale  natura  della  costoro  articolazione,  che 
meglio  appare  nella  energica  formazione  delle  sorde. 

A  questo  punto  ricorderò  ancora,  che  no'  sidri  di  Civa,  cioè  in  quell'  artificioso 
ordinamento  delle  lettere  dell'  alfabeto  sanscrito  in  14  gruppi  (pratyaharfis)  che  si 
trova  in  principio  della  grammatica  di  Panini  (ordinamento  che  non  fu  certamente 
fabbricato  a  priori,  ma  conquistato  con  pazientissima  induzione) ,  il  &  ed  il  p  sieno 
posti  insieme  e  vi  formino  da  soli  il  duodecimo  gruppo.  Anche  questa  mi  pare  una 
bella  conferma  della  tesi  da  me  sostenuta. 

Ed  oramai ,  sopprimendo  ogni  altro  argomento  che  potrei  arrecare  in  sostegno  di 
essa,  oserò  bene  di  soggiungere  che  da  siffatta  determinazione  delle  gutturali  comu- 
ni, le  quali  vengono  poste  quali  voci  molto  affini  alle  labbiali  ed  intermedie  tra  que- 
ste e  le  dentali,  debbano  derivare  corollari  di  molta  importanza  per  la  dichiarazione 
fisiologica  delle  alterazioni  prodotte  nelle  vocali  dalle  consonanti  vicine  o  in  queste 
da  quelle:  come  p.  es.  se  ne  spieghi  con  la  più  bella  evidenza  il  noto  palatalismo  (o 
dentalismo)  delle  gutturali  seguite  da  vocali  chiare  ed  il  labialismo  cui  vanno  sog- 
gette innanzi  alle  più  cupe.  Questi  fatti  importantissimi  riconfermano  pienamente 
la  mia  classificazione.  E  chiaro  infatti  che  se  fossero  per  articolazione  assolutamente 
intermedie  le  voci  dentali,  queste  piuttosto  dovrebbero  farsi  facilmente  e  labbiali  e 
gutturali;  od  almeno  dovremmo  trovare  che  le  gutturali  si  tramutassero  in  lab- 
biali soltanto  per  via  delle  dentali  frapposte. 

Si  potrà  dunque ,  correggendo  l' ordinamento  delle  vocali  e  delle  consonanti  che 
fu  proposto  dal  Thausing  e  dal  Whitney,  considerare  le  formole  trovate  per  gli 
oscuramenti  consonantici  delle  diverse  vocali  come  i  più  siciiri  criteri  generali  che 
possano  guidarci  nelle  spiegazioni  particolari  di  tutte  quelle  alterazioni  fonetiche, 
che  mi  piacque  in  principio  di  contrassegnare  col  nome  di  adattamenti  delle  artico- 
lazioni orali. 


—  so- 


li. 


DIVERSE  GRADAZIONI  DELLE  VOCALI  TONICHE 
E  PERDITA  O  NATURALE  ROTAZIONE  DELLE  ATONE. 


La  mascella  inferiore  è   il   primo ,  la 
mascella  superiore  è  il  secomlo ,  la  voce  ò 
1'  unione ,  la  lingua  il  mezzo  dell'  imioue. 
Prcitit^akhya  del  Riti   Veda. 


Al  compianto  Canello  si  deve  gran  lode  anche  per  avere  tentato  di  scoprire  le  ca- 
gioni fisiologiche  dei  fenomeni  che  si  osservano  nella  storia  delle  vocali  toniche.  Ubbi- 
diva il  valentuomo,  in  quella  sua  fatica,  all'incomparabile  ardore  che  sempre  lo  ani- 
mava nella  ricerca  del  vero,  al  bisogno  prepotente  del  suo  acuto  ingegno  che  si  chie- 
deva con  insistenza  le  ragioni  più  remote  di  ogni  cosa.  Ma  il  tentativo  falli  del 
tutto,  perchè  egli  aveva  troppo  frantesogli  insegnamenti  dei  fisiologi  sulla  formazione 
delle  vocali  e  non  era  riuscito  a  farsi  un  chiaro  concetto  della  natura  degli  accenti. 
Quella  trattazione  vuol  essere  ripresa  con  uguale  amore  e  posta  su  basi  più  salde. 

E  a  me  pare,  per  voler  dire  sùbito  il  mio  pensiero,  che  anche  per  1'  accento  ac- 
cada in  generale,  come  per  la  classificazione  delle  vocali  e  delle  consonanti,  che  si 
badi  troppo  esclusivamente  ai  fenomeni  della  trachea  e  dei  polmoni  e  si  dimentichino 
(juelli  deUa  cavità  orale.  Ce  lo  mostra  quella  stessa  divisione  degli  accenti  in  esj)/'- 
ratorlo  e  vitisicale  della  quale  oggi  si  fa  tanto  clamore.  Quasi  tutti  1'  accettano,  ma 
in  generale  con  troppa  indeterminatezza  di  definizioni,  che  non  accenna  a  sicura 
precisione  di  concetti. 

Anzi  tutto  è  ovvio  notare  che  senza  maggiore  impulso  espirntorio  non  si  debba 
avere  incremento  di  nessuna  maniera  di  accenti  :  che  perciò  contrapponendo  l' espira- 
zione alla  musicalità  si  viene  a  porre  malamente  accanto  al  genere  una  sua  specie  par- 
ticolare. Meglio  sarebbe  distinguere  forza ,  altezza  e  durata  dell'  accento  come  si  fa 
solitamente  in  acustica ,  e  come  già  facevano  gli  Indiani  e  i  Glreci. 

Non  si  dica  che  la  censura  sia  futile,  volendosi  con  accento  espiratorio  indicare 
appunto  la  forza  maggiore  e  con  accento  musicale  la  maggior  altezza  delle  voci,  sic- 
ché nel  secondo  caso  si  segnerebbe  un  incremento  di  tensione  nelle  corde  vocali,  che 
mancherebbe  nel  primo. 

Questa  giustificazione  non  basta.  L'  organo  vocale  umano  non  può  considerarsi 


—  31  — 

come  uuo  strumento  semplicissimo  a  linguetta,  ma  lia  un  tubo  di  risonanza  continua- 
mente variabile.  Questa  variabilità,  che  è  di  suprema  importanza  per  1'  articolazione 
delle  voci,  importa  pure  per  la  teoria  degU  accenti.  Bisogna  a  ogni  modo  tenerne 
conto,  cred'io,  ed  ammettere  anche  un  accento  orale  determinato  dalla  maggiore  o 
minore  apertura  della  bocca.  Né  è  difficile  provare  che  sia  necessario  distinguerlo 
dall'  accento  musicale. 

Gli  studi  felicissimi  dell' Helmholtz ,  e  quelli  di  parecchi  altri  fisici  e  fisiologi  che  lo 
precedettero  e  lo  seguirono,  hanno  posto  in  sodo  le  leggi  da-cui  sono  governate  nella 
loro  gradazione  musicale  le  diverse  vocali  :  dimostrando  che  la  varietà  di  esse  altro 
in  fondo  non  sia  se  non  vma  differenza  di  timbro,  cui  va  soggetto  il  suono  fondamentale 
laringeo.  Il  tubo  di  risonanza  si  accorcia  via  via  nella  serie  «....  i;  nella  serie  a....  u 
si  allunga  invece  più  e  più;  sicché  per  la  prima  si  ha  un  oscuramento  dei  sopra ttoni 
più  bassi  e  un  rinforzamento  dei  soprattoni  più  alti,  per  la  seconda  invece  tutto  il 
contrario,  avendo  incremento  i  toni  complementari  bassi  e  gli  alti  ammorzandosi.  Ora 
l'accorciamento  e  l'allungamento  della  bocca  non  si  possono  solamente  ottenere  per- 
chè le  labbra  si  ritraggano  o  si  protendano,  ovvero  perchè  la  lingua  con  moto  con- 
trario, ritraendosi  o  protendendosi,  venga  in  certo  modo  a  sostituirsi  alle  labbra. 
Oltreché  per  siffatte  articolazioni  delle  labbra  e  della  lingua ,  deve  prodursi  un  ac- 
corciamento od  un  allungamento,  che  può  essere  molto  sensibile,  anche  dalla  tensione 
■maggiore  o  minore  delle  corde  vocali,  quando  noi  alziamo  il  tono  della  voce;  perchè 
ad  essa  si  accompagna  naturalmente  anche  una  tensione  analoga  della  trachea;  né 
questa  avviene  senza  un  divario  nell'  innalzamento  della  epiglottide  verso  la  radice 
della  lingua,  che  viene  ad  essere  più  o  meno  spinta  avanti.  Quella  tensione  dimi- 
nuirà quanto  più  il  tono  si  abbassi;  ed  allora  anche  quell'  avanzamento  della  lingua 
dovrà  mancare.  Tutto  questo  si  dimostra  del  resto  anche  sperimentalmente,  peri'  im- 
possibilità di  pronunziare  l' u  nei  toni  più  alti  e  1'  i  nei  toni  più  bassi.  E  se  ne 
deve  deduri'e  che  l'accento  musicale,  per  sé  solo,  non  possa  crescere  senza  tendere 
a  portare  le  vocali  sempre  più  in  alto  nella  serie  u..  a...  i  e  deva,  mancando,  la- 
sciarle ricadere.  E  questa  è  infine  la  legge  del  Veruer. 

Ben  diversi  sono  gli  effetti  prodotti  dal  vario  accento  orale.  La  mascella  inferiore 
deve,  rimanendo  uguale  l'altezza  del  tono,  per  secondare  l'incremento  della  forza 
espiratoria  cresciuta,  allontanarsi  con  maggiore  energia  dalla  mascella  superiore. 
A  questo  fatto  non  si  suol  porre  attenzione.  Eppm-e  è  un  fatto  palese  all'osserva- 
zione più  volgare.  Io  non  mi  meraviglio  che  nei  canti  omerici  sia  notato  come  atto 
caratteristico  dell'  umano  parlare  appunto  lo  schiudersi  della  chiostra  de'  denti 
(spxo?  oScvtwv)  :  né  che  da  un  luogo  del  Praticàkhya  per  il  Eig  Veda  appaia  essere 
state  le  mascelle  anche  dagli  antichi  indiani  giudicate  fattori  principalissimi  della 
favella.  Certamente  il  solo  movimento  della  mascella  inferiore  lascia,  aprendo  la 
bocca,  libero  il  varco  alle  voci.  Essa  sola,  scostandosi  dalla  superiore  e  riavvicinan- 
dosi tosto,  distingue  di  regola  la  successione  delle  parole  nelle  varie  battute  che 
si  potrebbero  quasi  dire  costituite  dall'  andata  e  da'  ritorni  di  quella.  Ed  è  pure  un 
fatto  innegabile  il  forte  spalancare  della  bocca,  che  si  fa  da  chiunque  voglia  gri- 


—  32  — 

dare  è  farsi  sentire  da  lungi  o  cantare  o  spiccar  meglio  le  sillabe:  dovechè  abbas- 
sando la  voce  e  bisbigliando  il  movimento  mascellare  diventa  minimo. 

Or  bene  non  è  egli  manifesto  che  qiianto  agli  effetti  di  siffatto  spalancare  della 
bocca,  o  com'io  dico,  dell'accento  orale,  le  vocali  u  ed  *  non  possono  più  essere 
situate,  così  com'  erano  per  1'  accento  musicale,  una  sotto  e  l' altra  sopra  la  vocale  a, 
ma  che,  richiedendo  un'apertura  orale  minore,  entrambe  si  trovano  inferiori  di 
grado  rispetto  ad  essa? 

Tralascio  qua,  com'è  naturale,  la  maggiore  o  minore  energia  di  articolazione 
della  lingua  e  delle  labbra,  che  può  certo  unirsi  all'  accento  orale,  aiutando  anch'  essa 
o  contrastando ,  secondo  il  diverso  atteggiamento  fonetico  di  questo  o  di  quel  po- 
polo, le  tendenze  dell'accento  musicale  che  porta  le  vocali  verso  le  tonalità  più 
alte  o  più  basse. 

Riconosco  ben  volentieri  la  possibilità  di  siffatte  alterazioni;  ma  stimo  di  po- 
tere per  ora  prescindere  da  esse,  come  da  condizioni  d' ordine  subordinato  e  ulte- 
riore rispetto  al  movimento  mascellare  da  cui  sono  presupposte.  Basti  avvertire  che 
esse  potranno  turbare  gli  effetti  di  quest'ultimo  o  esagerandoli,  o  diminuendoli  se- 
condo i  diversi  casi. 

E  sempre  si  dovrà  affermare  che  l' accento  orale  per  uè  solo  non  possa  punto  cre- 
scere senza  portare  sempre  più  in  alto,  verso  l'a,  o  insomma  verso  il  vertice  della 
piramide  simbolica,  ogni  altra  vocale. 

Appunto  pensando  a  siffatta  necessità  di  far  conto  anche  dell'  accento  orale,  di- 
cevo pili  addietro  che  la  sostituzione  della  linea  alla  piramide  nella  rappresenta- 
zione grafica  delle  vocali  non  mi  pareva  un  utile  progresso.  La  rappresentazione  li- 
neare, che  si  deve  giudicare  anche  per  altre  ragioni  poco  felice,  fu  proposta  infatti 
da  chi  imaginò  falsamente  che  per  ciascvma  delle  vocali  1'  apertura  orale  fosse  di 
necessità  determinata,  e  sempre  costante,  epperò  volle  che  cogli  accenti  essa  non 
avesse  punto  che  fare. 

Lo  Scherer  a  cui  accenno ,  fu  indotto  in  errore  dalla  teoria  delle  vocaK  da  lui 
studiata  nel  Briicke:  il  quale  ebbe  forse  il  torto  di  esporla  senza  le  dovute  riserve, 
cioè  senza  tener  conto  dell'  accento  orale  :  che  è  del  resto  difetto  comune  di  lui  e 
di  parecchi  altri  trattatisti,  intesi  quasi  unicamente  a  studiare  la  genesi  delle  voci 
elementari  e  troppo  dimentichi  delle  sillabe  e  degli  accenti. 

La  teoria  del  Briicke  era  stata  accettata  dallo  Scherer  con  piena  fiducia,  non 
solo  come  vera  sostanzialmente,  ma  come  non  modificabile  da  nessuna  forza  pertur- 
batrice e  veramente  come  assoluta;  onde  abbattutosi  un  giorno  ad  un  libretto  nel 
quale  s' affermava  il  fatto  cosi  comune  ed  ovvio  del  maggiore  allargamento  di  bocca 
nelle  sillabe  accentate,  non  dubitò  di  rimproverarne  con  amare  parole  1'  autore  e 
di  rimandarlo  a  leggere  pazientemente  almeno  quelle  poche  pagine  del  Briicke  prima 
di  voler  dare  nessuna  spiegazione  fisiologica  di  fatti  fonetici.  {Ziir  -Gesch.  d.  d. 
Sprache,  pag.  40). 

Mi  par  questo  uno  dei  più  singolari  esempì  degli  errori  che  si  possono  commet- 
tere in  causa  d' un  dotto  pregiudizio. 


—  33  — 

Avrebbe  ben  potuto  lo  Scherei-  da  sé,  molto  facilmeute,  persuadersi  della  verità 
di  una  osservazione  cosi  semplice,  anziché  perfidiare  nel  negarla,  cedendo  alla 
inerzia  d'un  preconcetto  scientifico.  E  avrebbe  anche  potuto  vincerlo,  se  oltre  la 
teoria  del  Brtìcke  avesse  ben  ricordato  gli  insegnamenti  dati  dal  Merkel  nella  sua 
opera  maggiore. 

Non  si  trova  a  dir  vero  neppure  in  questa  nessuna  dichiarazione  esplicita  degli 
effetti  deli'  accento  orale  ;  ma  avrebbe  almeno  dovuto  lo  Scherer  riconoscerne  la  pos- 
sibilità, leggendovi  a  pag.  817  le  seguenti  paróle:  «  si  può,  sebbene  non  benissimo 
pur  distintamente,  pronunziare  tutte  e  cinque  le  vocali  mantenendo  la  stessa  aper- 
tura di  bocca;  purché  la  lingua  sola  entro  la  cavità  orale  eseguisca  i  movimenti 
necessari:  così  come  j^uò  1'  azione  della  lingua  scemare  alquanto  se  in  vece  di  essa 
lavorino  le  labbra,  sempre  ottenendosi  lo  stesso  effetto.  » 

Io  credo  che  molti  tralignamenti  fonetici  delle  vocali  si  devano  introdurre  a 
poco  a  poco  e  furtivamente,  appunto  per  il  diverso  intreccio  dei  loro  massimi  fat- 
tori, per  lo  squilibrio  cioè  dell'articolazione  e  dell'  accento. 

Questo  squilibrio  dev'  essere  frequente ,  e  solo  per  la  molta  elasticità  e  per  gli 
agevoli  accomodamenti  a  cui  si  prestano  le  articolazioni  orali,  nonne  risultano  alte- 
razioni repentine  e  pertui'batrici.  L'  accento  orale  può  essere  assunto  da  tutte  le  vocali 
indistintamente ,  anche  dalle  più  sottili ,  da  quelle  che  come  1'  u  e  V  i  richiedereb- 
bero per  sé  poca  apertura  di  bocca  ;  ma  devono  per  via  dell'  accento  essere  proffe- 
rite con  apertura  anche  maggiore  di  quella  che  nella  stessa  parola  sia  conceduta 
alle  sillabe  non  accentate ,  sebbene  si  ritrovino  in  queste  delle  vocali  naturalmente 
più  larghe,  come  Va,  Ve,  V  o.  Pronunziando  Attilio,  acidulo,  furano  e  altre  parole 
siffatte  ognuno  può  certificarsi  della  verità  di  quanto  asserisco.  In  queste  parole 
l'apertura  della  bocca  è  maggiore  per  le  tre  vocaili  accentate,  sebbene  siano  per  sé 
le  men  larghe  di  tutte  {i,  u). 

Ma  una  forza  latente  deve  pur  operare  di  continuo  contro  lo  squilibrio  notato 
6  favorire  uno  stato  più  normale  di  corrispondenza  dell'  accento  orale  più  forte  con 
le  più  larghe  articolazioni. 

E  dopo  aver  constatata  questa  forza,  non  dovrà  parere  strano  che,  succeduto  a 
poco  a  poco  nel  latino  volgare  e  nelle  lingue  romanze  l' accento  orale  in  luogo  del- 
l'accento  musicale  più  antico,  un  i  siasi  avvicinato  all' a  allargandosi  in  é;  ed  un  e 
già  molto  vicino  all'  a  abbia  potuto  allargarsi  ed  allungarsi  dittongandosi  anche 
per  aggiunta  di  ixna  vocale  più  aperta,  di  un  è  o  di  un  «  a  dirittiira.  Così  si  ebbe  éè 
(i'e)  nelle  lingue  romanze;  così  V  ea  dall' e  nel  rumeno. 

In  modo  analogo  si  spiegheranno,  nelle  stesse  lingue  romanze,  la  mutazione  di 
a  accentato  in  o  e  di  o  in  o'ò  {uo);  così  quella  di  oa  da  o  nel  rumeno.  / 

De'  quali  fatti  si  hanno  anche  fuori  del  campo  romanzo  bellissime  analogie  nelle 
lingue  germaniche,  nel  celtico  e  meglio  che  mai  nel  lituano. 

Mi  basti  per  quest'ultimo  riferire  poche  notizie  tolte  alla  grammatica  del 
Kiirschat  (pag.  19-20).  Egli  spiega  le  vocali  miste  re  ed  u  come  una  continuazione 
di   due    vocali  diverse    {ein  solcìier  Mischlaut  ist  eine  Lautbewegung)  e  avverte:  «  Non 


—  34  — 

sono  vocali  originarie,  ma  sono  nate  per  incremento  od  allungamento  organico.  E 
veramente  sorge  lo  ié  per  incremento  od  allungamento  di  ì  per  aggiunta  di  un  e 
(ovvero  anche  di  un  a)  e  1'  é  dall'  ?«  per  aggiunta  di  un  o  (o  di  a)  ;  lo  iè  è  dunque  un 
è  con  lieve  preposizione  di  ?,  ed  u  un  o  con  analoga  preposizione  di  u  ». 

Si  badi  che  Vi,  come  insegna  lo  stesso  Kurschat,  è  aperto  e  si  avvicina  alla 
vocale  e  (p.  es.  in  'wìrti  cuocere)  a  differenza  dell'  *  lungo  che  è  sempre  chiuso  (come 
p.  es.  in  sakyti,  dire). 

La  brevità  impostami  non  mi  concede  di  riferire  dallo  stesso  autore  altri  fatti 
preziosi,  e  specialmente  i  vari  riflessi  dialettali  de'  due  dittonghi.  E  per  le  analogie 
accennate  delle  altre  lingue,  dovrò  contentarmi  qui  di  ricordare  lo  studio  diligente 
e  acuto  di  H.  Moller  (Zeitschrift  di  Kuhn,  XXIV.  pag.  510).  Ma  il  cenno  dato  mi 
pare  che  basti  a  giustificare  la  mia  dichiarazione  fisiologica. 

Il  fenomeno  seguirà  sempre  a  questo  modo  :  la  mascella  inferiore  per  accentuare 
fortemente  una  vocale  essendo  costretta  a  valicare  d'  alquanto  i  limiti  che  sono 
normali  per  essa  e  ad  invadere  quelli  della,  più  larga  vocale  che  le  sia  prossima,  o 
la  trasporterà  insensibilmente  a  questo  grado  superiore,  cessando  ogni  compenso  di 
articolazione  orale,  ovvero,  insistendo  la  voce,  svilupperà  U.  dittongo. 

Questo  infatti  sarà  1'  effetto  necessario  dell'  accento  orale  sulle  vocali ,  eh'  esso 
le  allarghi  crescendo  e  diminuendo  le  ristringa.  Ma  si  accompagnerà  naturalmente 
all'  allargamento  e  al  restringimento  un  altro  fatto.  Poiché  la  maggiore  o  minore 
apertura  di  bocca  richiede  più  o  men  tempo,  dovranno  di  leggieri  le  vocali  allun- 
garsi anche  od  abbreviarsi;  e  cosi  la  contrapposizione  delle  vocali  complesse  alle  vo- 
cali sempKci  (intendendo  per  complesse  non  meno  le  vocali  lunghe  che  i  dittonghi) 
mal  si  potrà  dispaiare  da  quello  delle  vocali  toniche  ed  atone.  Indicando  con  0  1'  ac- 
cento orale,  con  A  1'  apertura  od  allargamento  della  vocale  e  con  L  la  lunghezza  o 
durata  si  potrà  ben  stabilire  la  formola  O^AL. 

E  qui  mi  pare  opportuno  di  trarre  una  conseguenza,  che  dovrebbe  avere  per 
sé  qualche  importanza  e  riconfermare  insieme  le  cose  dette. 

I  nostri  versi  sono  governati  appunto  dall'  accento  orale;  e  in  essi  meglio  che 
mai  si  notano  le  sue  leggi.  Vi  si  osserva,  anche  più  agevolmente  che  nella  prosa, 
come  per  1'  allargamento  maggiore  della  bocca  si  dia  maggiore  forza  e  maggiore 
lunghezza  alle  sillabe  accentate  rispetto  alle  altre,  le  quali  si  pronunziano  breve- 
mente e  spesso  quasi  fognate  e  nascoste  fra  1'  uno  e  1'  altro  dei  massimi  allontana- 
menti della  mascella  inferiore,  facendosi  quasi  sillabe  incompiute  e  talora  veramente 
trascurabili  a  piacere;  che  è  poi  il  fondamento  della  nuova  metrica  barbara...,  la  quale 
è  diinque  invece  uno  squisito  raffinamento  dei  poeti  colti. 

Or  se  questo  è  vero,  si  avrebbe  a  modificare  una  sentenza  comune,  che,  male 
intesa,  può  farsi  facile  eausa  di  errori.  Si  suol  dire  che  le  lingue  romanze  hanno 
perduta  la  quantità  e  serbato  1'  accento.  E  in  certo,  senso  si  può  dire  benissimo. 
Ma  sarebbe  forse  più  giusto,  in  altro  senso,  il  dichiarare  che  hanno  piuttosto  per- 
duto V  accento  e  .'serbato  la  quantità. 

Mi  spiego. 


—  35  — 

Esse  hanno  perduto  nella  parola,  serbandolo  solo  nella  frase,  1'  accento  musi- 
cale, che  è  l' accento  vero  (sTpoceoSw.),  1'  accento  per  eccellenza.  Noi  non  abbiamo  in- 
fatti altro  accento  che  1'  accento  orale,  il  quale  ha  natura  diversa  ed  effetti  quasi 
del  tutto  opposti:  perchè  laddove  l'accento  musicale  più  alto  abbreviava  le  vocali 
che  lo  sostenevano ,  aUungaudo  piuttosto  la  sillaba  vicina,  mal  può  crescere  1'  accento 
orale  senza  che  il  valore  quantitativo  della  sillaba  aumenti.  Le  lingue  romanze  in- 
somma non  hanno  vero  accento  musicale,  perchè  in  generale  le  parole  come  parole 
non  vi  si  cantano  più;  ma  hanno  certamente  ancora  sillabe  diverse  di  quantità,  ed 
è  assurdo  pensare  che  non  ne  abbiano. 

Ond'  io  direi  che  siano  in  fondo  identiche  le  leggi  della  ritmica  e  della  me- 
trica presso  gli  antichi  e  presso  i  moderni.  Né  per  noi  né  per  loro  riposarono  esse 
mai  su  diversità  di  accento  musicale  delle  varie  sillabe,  cioè  sulla  tensione  mag- 
giore o  minore  della  trachea  e  delle  corde  vocali.  Le  loro  leggi  furono  e  sono  sem- 
pre quelle  dell' ictus  o,  com' io  dico,  dell'accento  orale;  nella  poesia  dei  greci  e 
dei  romani  come  nella  nostra,  le  battute  furono  sempre  quelle  della  mascella  infe- 
rìore;  e  sempre  le  misuriamo  con  l'orecchio  e  le  valutiamo  con  le  dita:  legitùnumque 
soHum  digitis  callemus  et  aure. 

Né  è  forse  difficile,  almeno  in  complesso,  di  determinare  la  ragione  prima  per 
cui  1'  accento  passando  dalle  lingue  antiche  alle  moderne  dovette  mutar  natura. 

L'  accento  orale  è  mnemonico  e  niente  più.  L'  accento  musicale  è  invece  -patetico 
essenzialmente  :  e  noi  lo  serbiamo  bene  nella  proposizione  e  nel  periodo.  Si  può  dire 
che  sia  come  il  colorito  che  si  aggiunge  al  disegno  di  una  frase  intera,  e  presup- 
pone di  necessità  un  pensiero  compiuto. 

Non  è  dunque  sti'ano  che  esso  appaia  vigoroso  e  variatissimo  nelle  lingue 
monosillabiche  ed  agglutinanti.  Finché  non  v'  ha  altro  che  radici  e  proposizioni  e 
non  vi  sono  vere  parole,  1' accento  musicale  deve  rimanere  padrone  assoluto;  per- 
ché tutto  vi  è  attuale  e  vivo  e  non  vi  sono  ancora,  per  cosi  dire,  notizie  tesoreggiate 
dal  pensiero  ed  antiquate. 

Quando  sorsero  le  vere  parole,  che  si  staccarono  a  poco  a  poco  dalle  serie  ag- 
glutinate e  si  irrigidirono  in  forme  flessive,  è  naturale  che  non  perdessero  d'un 
tratto  tutta  la  nativa  freschezza,  che  serbassero  a  lungo  le  leggi  di  quelle  proposi- 
zioni dalle  quali  si  erano  divulse.  Ma  oscuratasi  col  tempo  sempre  più  ogni  consa- 
pevolezza etimologica  dei  vocaboli,  e  sulla  fantasia  e  sul  sentimento  prevalendo  via 
via  la  memoria  e  l'intelletto,  di  necessità  la  gamma  musicale  cedette  al  bisogno 
di  spiccare  fortemente  le  sillabe.  La  trachea  fu  vinta  dalla  bocca:  il  canto  dalla 
parola  vera. 

Gli  effetti  che  si  avevano  per  1'  accento  musicale  si  hanno  ora  in  gran  parte 
per  1'  atonismo. 

E  chiaro  che  crescendo  1'  accento  musicale  dovesse,  per  sempre  maggiore  di- 
spendio di  forza,  assottigliare  le  vocali  e  portarle  dall'  a  verso  l' i  e  cagionarne  anche 
la  perdita  compiuta.  Ma  ora  questo  digradamento  avviene  invece  per  mancanza  di 
accento  orale,  e  insomma  per  risparmio  di  forza  sempre  maggiore. 


—  36  — 

Indicando  sempre  con  0  1'  accento  orale ,  con  M  1'  accento  musicale ,  con  F  la 

forza  espiratoria,  avremo  infatti  la  formula:  F:=MO,  dalla  quale  scaturisce  l'altra 

F  ,         .  F 

M=-TT  e,  sostituiti  ad  0  i  suoi  fattori  dell'  allargamento  e  della  durata:  M  =  ^T)  • 

Stanno  dunque  1'  allargamento  e  la  durata  vocalica  in  ragione  inversa  rispetto  al- 
l' accento  musicale.  Ma  poiché  stanno  in  ragione  diretta  con  1'  accento  orale ,  con  1'  ato- 
nismo  orale  que'  fattori  staranno  anche  in  ragione  inversa.  Dovrà  1'  atonismo  necessa- 
riamente assottigliare  ed  abbreviare  le  vocali. 

Senonckè  1'  atonismo  nella  sua  opera  deleteria  trova  pure  degli  impedimenti;  o 
per  dir  meglio  trovano  contro  di  esso  le  vocali  qualche  riparo  e  sostegno. 

Anzitutto  la  favella  non  vive  tutta  in  un  individuo,  né  solo  nella  sua  bocca. 
Essa  è  fatta  per  il  sociale  commercio  e  per  1'  orecchio  che  la  raccoglie  e  la  dirige. 
Anche  le  illusioni  acustiche  possono  perciò  cagionare  alterazioni  nelle  parole.  E, 
come  dice  benissimo  lo  Scherer  {Zur  Gescli.  d.  d.  Sprache,  pag.  73):  «  La  lingua  si 
propaga  per  riproduzione  di  pronunzia  delle  voci  udite:  epperò  le  apparenze  diven- 
tano spesso  cosa  reale  ».  Quando  1'  orecchio  non  riesce  a  distinguere  bene  il  valore 
di  una  vocale  troppo  indebolita,  che  pur  non  giovi  sopprimere  del  tutto  per  la  spe- 
ciale condizione  in  cui  si  trovi,  permetterà  facilmente  agli  organi  orali  la  sostituzione 
di  una  vocale  più  normale,  e  spessissimo  p.  es.  quella  dell'  a  che  è  la  più  natiu-ale 
di  tutte.  Non  altrimenti  io  stimo  che  si  possa  rendere  ragione  di  quella  rotazione 
vocalica,  che  è  un  fatto  innegabile  e  frequentissimo  e  forse  merita  il  nome  di  rota- 
zione assai  meglio  del  tralignamento  germanico  delle  consonanti  mute,  per  le  quali 
non  avviene  punto  un  vero  corso  e  ricorso  come  per  le  vocali. 

Ma  anche  si  incrociano  con  gli  scadimenti  dell'  atonismo  e  coi  rinnovamenti 
acustici  le  spinte  delle  consonanti  e  delle  vocali  vicine,  di  cui  si  cercavano  le  norme  più 
generali  nella  prima  parte  di  questo  studio.  Potranno  esse  trovarsi  con  quelli  ora  in 
armonia  ora  in  contrasto.  E  si  vorrà  bene  ammettere,  anche  a  priori,  senza  bisogno  di 
prova,  che  siffatte  azioni  dell'ambiente  debbano  avere  maggior  presa  suUe  vocali 
atone  che  sulle  toniche  troppo  più  vigorose.  A  designare  le  complicazioni  di  tutti  que- 
sti effetti  può  valere  un  paragone  che  rappresenti  la  tonicità  come  una  forza  d' im- 
pulso e  r  atonismo  come  la  forza  contraria  di  gravità.  Si  potrebbe  cioè  dire  che  que- 
st'  ultima  faccia  precipitare  le  vocali  verso  la  linea  di  confine  con  le  consonanti; 
ma  che  toccata  questa  linea  rimbalzino  quasi  palla  elastica,  volendosi  mantenere 
vocali.  Lo  stesso  oscuramento  acustico  pei'metterebbe  quel  i-isorgere,  quel  rinvigo- 
rirsi dell'  articolazione  nelle  vocali.  Ma  per  costruire  il  parallelogramma  delle  forze 
e  determinare  esattamente  la  linea  della  discesa  e  quella  della  salita,  dicevo  che 
s'  avrebbe  sempre  a  tener  conto  delle  influenze  vicine;  perchè  nell'  una  e  nell'  al- 
tra, sebbene  mosse  da  forza  propria,  aderiscono  le  vocali  alle  consonanti  prossime 
e  ad  altre  vocali.  Sostenute  o  contrastate  da  queste  non  potranno  far  sempre  le 
atone  né  tutta  la  caduta  né  tutta  la  salita.  Prima  di  raggiungere  il  massimo  assot- 
tigliamento o  la  perfetta  rintegrazione  esse  saranno  ben  sovente  arrestate:  così  come 
i  corpi  lanciati  in  alto  o  cadenti  verso  terra  possono  capitare  sui  tetti  o  sui  muri 


—  37  — 

0  restare  impigliati  fra  i  rami  di  qualche  pianta.  Le  nasali ,  prescindendo  dall'  ar- 
ticolazione della  lingua,  dovranno,  per  il  solo  abbassamento  del  velo  palatino,  fer- 
marle ben  alto:  ad  una  altezza  discreta  le  labbiali  ed  anche  alcune  varietà  di  Z  e 
di  r;  ma  le  lasceranno  abbassare  più  che  mai  le  consonanti  dentali  t,  d,  s  che  vo- 
gliono esse  stesse,  come  vedemmo,  stringei-e  la  lingua  al  palato. 

Io  non  presumo  di  dar  qua  le  prove  sufScienti  di  tutte  le  fatte  considerazioni. 
Solo  per  mostrare,  un  po'  più  determinatamente,  quale  sia  il  mio  pensiero  soggiungo 
pochi  esempì:  e  devo,  sebbene  a  malincuore,  restringermi  al  vocalismo  italiano.  Per 
indicare  il  digradamento,  la,  perdita,  la  rotazione  e  l'adattamento  della  vocale  voglio 
che  mi  valgano  le  lettere  iniziali  di  queste  parole  appunto:  D,  P,  R,  A. 

E  avrò  dunque,  1"  per  la  vocale  a: 

D.  imbasciata,  an/tra; 

P.  'bottega,  'guglia; 

R.  anatra  ; 

A.  margherita,  comperai'e;  coyone,  do»iasco;  scandoto,  bufolo. 
2°  per  la  vocale  e: 

D.  signore,  pigione;  empito,  soccida;  lungi,  tardi; 

P.  'pitaffio,  'sciame;  ver'gogna,  s'cure;  asp'ro,  tor're; 

R.  avorio,  malinconia,    albergo,   asciugai'e,    asciolvere,  celabro,   tartufo; 
donare? 

A.  domandare,  dovere,  rovistare,  rojnito;  angioto,  risipola;  giovane? 
3°  per  la  vocale  /; 

P.  'nimico,  'zotico;  nobiltà,  vantare,  sentiero;  lindo,  so'do,  sozzo. 

R.  annaffiare,  salva tico,  zampogna,   marmocchio,  marmaglia;  Gerolamo, 
sindaco,  calonaco. 

A.  laberinto,  dattero;  gradevole. 
4°  per  la  vocale  o: 

D.  (orale)  («bbidire,  uffizio,  fucile,  ntgiada;  dimestico;  attimo. 

P.  'cagione,  'spedale; 

R.  prolago,  filosafo,  cravatta,  cavelle,  gracidare,  carola,  smaniglia; 

A.  albej'O,  valeroso. 
b°  per  la  vocale  «.- 

D.  (labbiale):  cotenna,  corsiere,  coltello; 

P.  'bubbola,  'bellico;  occhio,  specchio; 

R.  allocco,  gargozza,  drappello,  modano; 

A.  popolo,  capito/o,  donnola;  albera. 

In  questi -ultimi  esempì,  per  la  vocale  ti,  il  digradamento  notato  può  parere 
strano.  Si  aspetterebbe  altro ,  dopo  che  s' è  visto  l' o  indebolirsi  per  atonismo 
in  u;  e  rispetto  a  questo  1'  o  può  anzi  giudicarsi  un  rinforzamento.  Ma  non  è  altro 
che  una  contraddizione    apparente,   e    mi    dà  occasione    di   ripetere    che   resta  pur 


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sempre  un'altra  causa  di  divergenze,  per  le  vicende  delle  vocali  •atone,  che  nello 
studio  de' singoli  fatti  non  può  essere  dimenticata.  L' w  è  men  forte  di  o  per  arti- 
colazione della  mascella;  ma  o  è  men  forte  di  u  per  articolazione  labbiale.  E  nel- 
r  accento  orale  si  combinano  le  due  articolazioni;  e  si  possono  secondo  il  diverso  at- 
teggiamento normale  dei  parlatori  combinare  in  varia  proporzione.  Quantunque  la 
fisiologia  delle  voci  cerchi  di  porre  in  sodo  le  leggi  universali  delle  articolazioni 
orali ,  supponendo  che  tutti  gli  uomini  abbiano  organi  vocali  fatti  allo  stesso  modo, 
non  si  deve  per  questo  dire  che  gli  atteggiamenti  delle  corde  vocali  e  del  velo  pala- 
tino, della  lingua  e  delle  labbra  non  siano  facilmente  diverse  per  lunga  abitudine 
de'  diversi  popoli.  Queste  abitudini  etnologiche  bisognerà  indagarle  con  molta  dili- 
genza; e  vi  si  troveranno  le  cagioni  di  fenomeni,  che  le  leggi  più  generali  del- 
l' articolazione  e  dell'  accento  lascerebbero  inesplicate. 

E  evidente,  p.  es.,  che  un  popolo  il  quale  parlando  abbia  normalmente  una  forte 
protensione  di  labbra  od  una  retrazione  di  lingua ,  deva  spingere ,  rimanendo  uguale 
ogni  altra  condizione,  fino  all'  u  un  suono  che  altrove  raggiungerebbe  appena  l' o;  e 
da  un  a  per  modico  ristringimento  di  bocca  ricavi  un  o  invece  di  un  e  che  ne  sa- 
rebbe altrimenti  risultato.  Così  nel  provenzale  moderno,  ne' dialetti  mesolcini,  ecc. 
abbiamo  un  o  di  fronte  all'è  francese  per  a  fuori  d'accento  {campagno^  oumbro, 
ounglo;  migo;  Ardi.  Glott.  II.  i.  272). 

Queste  diversità  di  atteggiamenti  orali,  che  perle  lingue  neolatine  vorrei  ricercare 
ne'  miei  saggi  fonologici,  non  rendono  impossibile  la  determinazione  eh' è  stata  fatta 
delle  leggi  più  generali;  anzi  le  presuppongono.  Ma  esse  sole  spiegano  appieno  le 
evoluzioni  fonetiche  tanto  dissomiglianti  tra  lingua  e  lingua,  tra  dialetto  e  dialetto; 
mostrandoci  come  gli  uomini  degU  stessi  organi  vocali  abbiano  fatto  diverso  uso, 
moltiplicando  in  varietà  infinite  il  sistema  fonetico  teorico  e  fondamentale  : 

Opera  naturale  è  eh'  uom  favella  ; 
Ma,  cosi  o  cosi,  natura  lascia 
Poi  fare  a  voi  secondo  che  v' abietta. , 

Lo  diceva  già  1'  Alighieri,  intrawedendo  in  qualche  modo  la  selezion  naturale 
nella  vita  degli  umani  linguaggi. 

P.  Merlo. 


ETYMOLOGIEK 


1.    frz.    AlGUILLE 

{aig"iUe),  aiguiUqìi  {aig"illon)  behandelteu  ziiletzt  W.  Foerster  und  H.  Suchier 
Zeitschr.  f.  R.  Ph.  HI  515.  626.  Foerster  hielt  fiir  wahrscheinlich,  dass  die  singulare 
A^erwandlung  des  altren  iV  in  H  in  beiden  Wòrtern  in  einem  aquilens  statt  aculeus 
iliren  Grund  hàtte,  wàhrend  sie  nach  Suchier,  wie  bei  Bourguignon^  ihre  Erklàrung 
darin  findet,  dass  j,  «  sonantischer  »  sei  als  il;  s.  dazu  Gr.  Paris,  Romania  IX  391  £ 
lek  mòchte  die  Ursache  diesar  Lautanderung  darin  gegeben  glauben,  dass  1)  aiguille, 
als  das  einzige  Wort  der  Sj)rache  mit  dem  Ausgang  -inle{vioille  =  Ye\ii,fuile^folia, 
sind  òrtlicli  beschrànkte  Formen  :  Benoit,  Anglonormannisch),  und  danach  aigiiillon, 
Einwirkung  des  in  begrifEiclier  Bezieliung  zu  aiguille,  aiguMon  stehenden  aiginse  etc. 
von  aigtdsier  erfuliren,  worin  ein  Wortstamni  aigui-  vorzuliegen  schien,  der,  in 
aigié-le  substituirt,  aiguille  als  eine  Weiterbildung  von  aigui-  aigu-,  wie  die  Wort- 
stàmme  in  point-ille,  éjpont-ille,  coMr<-i7fe  auffassen  liess.  Dieselbe  Lautfolge  "«' war 
ausserdem  2)  in  dem  formverwandten  anguille  noch  vorhanden,  dessen  II  die  Mouil- 
lirung  durch  Einwirkung  der  Suffixwòrter  auf  -ille  erst  im  16.  Jahrhundert 
erhielt,  und  3)  musste  das  stammgleicke  Adj.  aigu  (acutus)  das  Subst.  (aigil'lle)  erst 
recht  in  die  Reihe  der  Derivata  a,nf->.lle  hineindrangen.  Picard,  agotdlle,  berry. 
aguéille  sind  wohl,  wie  wallon.  aw-é-ie,  rouchi  eiv-i-le  als  ag'^ille,  ag"'éille  zu  fassen; 
vgl.  anguilla  auf  picard.  auioille,  aingidlle,  wallon.  anvé-ie,  (wallon.  allgemein  -ille  zu 
-e-ie).  Der  Uebertritt  von  aiguille  in  die  Reihe  der  "Wòrter  auf  -ille  fiihrte  nicht  zur 
Viersilbigkeit  des  scheinbaren  Derivata  von  aigid-  (aigu-),  weil  -ui  auch  altfrz.  eine 
ausschliesslich  einsilbige  Vokalfolge  ist.  Die  Belege  fiir  aig"ille  seheinen  nicht 
ùber   das   13.   Jahrh.  zuriickzugehen. 

Bourg"ignon  ist  nach  Bourg"i.n(g)  zu  beurtheilen,  von  dem  es  ja  abgeleitet  ist 
(lat.  Burgundius,  vgl.  Burgundii  ueben  Burgundio-nem). 

2.  it.  Ammiccake, 
(nur  florentinisch?),  zu  sich  wiuken,  aus  admicare  (Castelvetro)  erscheint  Diaz,  11% 
niil  Recht  zu  pretios.  Ueberdies  làsst  dieses  Etymon  das  geminirte  e   (vgl.  replicare 


—  40  — 

implicm-e)  uncl  i  gegenuber  lat.  i  unerklart,  wofur  in  einem  volksublichen  Worte 
doch  e  (^/ie^9are=plicare)  zu  erwarten  steht;  das  Fehleii  eiues  Primitivs  im  Ital.  làsst 
sogar  auch  die  Betonung  ammicca  fiir  admicat  anomai  erscheinem.  Winken  heisst: 
zu  sich,  zu  mir  winken, /are  venire  a  mi  etc.  (wegen  mi  =  miì  s.  Blanc,  Gr.  S.  244). 
Ein  Wink  oder  Ruf  «  ammi  »  mit  unausgesprochenem ,  weil  durch  den  Gestus 
sich  verstehenden  Imperativ,  konnte  ein  Verbum  ammiccare,  «  zu  m,ir  winken, 
winken  »,  zur  Entwicklung  bringen,  wie  das  Franz,  z.  B.  in  tu-toyer,  das  Deutsche 
in  du-tzen  besitzt.  «  Quando  tu  vuoi  che  porti  le  -paste,  ammiccami.  »  Das  ableitende 
Element  -(i)care  tritt  hier  mit  ce  auf,  weil  hinter  betontem  Vokal  {ammi-cco, 
ammi-cchi,  ammi-cca,  ammi-ccano  etc.)  wenigstens  nach  der  in  der  Wortcomposition 
giltigen  Regel  (là-DDove ,  già-MMai ,  dà-Mui),  der  Suffixanlaut  sich  verdoppeln  musste. 
Eine  stricktere  Analogie  fiir  den  zu  erlàuternden  Fall  existirt  nicht,  da  das  Ital. 
keine  weitren  von  Oxytonis  gebildeten  Verba  besitzt.  Logisch  betrachtet,  sollten 
f'reilich  neben  ammiccare  auch  Bildungen  aus  den  librigen  Personalpronominibus 
{ti,  si  etc.)  bestehen.  Aber  ein  Ausdruck  wie  der  vorliegende  geht  naturgemass  von 
der  ersten  Person  aus  und  wird  auch  ohne  Vergessen  der  etymologischen  Grundlage 
auf  andre  Personen  libertragbar  in  Verbinduug  mit  dem  Gestus. 

3.  it.  And.'Uie, 
span.  port.  andar,  cat.  anar,  prov.  anar,  ohne  Riicksicht  auf  frz.  aller,  und  auf  eiu 
latein.  Wort  zurùckzufiihren,  legt  der  letzte  missgluckte  Versuch  mit  ambulare 
wiederum  nahe;  auf  ein  latein.  deshalb,  weil  das  Wort  keinen  Culturbegrilf  dar- 
stellt,  der  aus  der  Fremde  zu  entlehnen  war,  sondern  zu  den  uuentbehrliohen 
Benennungen  allgemein  menschlicher  Thàtigkeiten  gehòrt,  die  in  den  romanischen 
Sprachen  lateinischen  Ursprungs  sind,  und  weil  andare  sich  in  den  drei  Hauptgebie- 
ten  derselben  wiederfìndet,  italisch,  iberisch  und  gallisch  zugleich  ist.  Eine  Re- 
construction  des  Etymons  von  den  roman.  Formen  des  Verbums  andare  aus  fiihrt 
zunàchst  auf  andare  selbst,  fur  das  aber  im  lat.  Sprachschatz  jeder  Anhalt  fehlt.  Diez' 
hypothetisches  anditare  fiir  aditare  ist  formell  in  doppelter  Hinsicht  unannehmbar. 
1)  bleibt  zu  beweisen  ubrig,  dass  nd't  ital.  zu  nd  wird  und  2)  ist  fur  die  angenommene 
Einschaltung  des  n:  re-n-dere  keine  treifende  Analogie.  Denn  re-n-dere  erhielt  sein  n 
durch  Einwirkung  der  zahlreichen  Verba  aiif  -n-dere  (it.  prendere,  rispondere  etc),  mit 
denen  reddere  gleiches  Perfect  (it.  resi  wie  presi,  risposi;  frz.  rendi  wie  cendi, 
respondi),  gleiches  Particip  (it.  reso  -wì&  preso,  risposo  ;  ùz.  rendu  'wì&vendu,  respondu) 
und  andere  Formen  ùbereinstimmend  bildete  ;  it.  andito  =  lat.  aditus  aber  ist  Anbil- 
dung  an  andare.  Nach  welcher  Analogie  n  in  aditare  eingedrungen  ware,  ist  nicht 
abzusehen  ^^nd  einer  solchen  bedarf  es,  um  anditare  glaublich  zu  finden.  Derselbe 
Einwurf  ist  gegen  ad-dare caddero  zu  richten.  Zu  leicht  dagegen  hat  man  sich  mit 
*ambitare  abgefuuden.  Der  einzige  dagegen  vorgebrachte  Gruud,  m'f  ginge  nur  span. 
in  nd  tìber,  ist  nicht  stichhaltig;  dami  1)  handelt  es  sich  bei  ambitare  gar  nicht  um 
m't,  sondern  uni  mh't  und  2)  wird  auch  ràtor.  mb't  wie  m't  zu  nd  (vgl.  amita=anrfa  onda; 
sambata  aus  sabata  durch  samb'ta  zu  somda ,  sonda).  Auch  im  Prov.  und  Frz.  ergibt 


—  41  — 

h't:  d  (cubitus  wird  prov.  code  frz  coitela; *subifcamis  frz.  soudain);  und  so  wird  aucli  hier 
mb't:  nd,z.  B.  bombitare,  (s.  Georges'  Lat.  Wòrterbuch:  bombire  bombita-tor) ,  zu 
picard.  òondìV,  nprov.  èoMNDw,  nfrz.  òoNDtr;  (vgl.  Diez.  "W.  II"^  bandir),  t  assimilirt  sich 
also  an  b,  um  so  eher  an  zwe i  vorausgehende  tò nende  Laute  (mb).  Dass  diesa  Assimi- 
lirung  auch  im  Ital.  stattgefunden ,  wo  bt  b't  zu  tt,  subtus  zu  sotto,  debita  zu  detta 
wird,  ist  freilich  nicht  auf  eine  Lautregel  zu  griinden;  aber  nur  darum  nicht,  weU 
der  ital.  Wortschatz  kein  weitres  Wort  mit  ìnb't  oder  einer  analogen  Gruppe  {rb't)  auf- 
weist.  Das  Substrat  *ambitare  fùr  andare  etc.  liat  vor  den  andern  vorgeschlagenen. 
Etymologien  jedenfalls  deu  Vorzug  voraus,  dass  diesa  feststehende  Lautregelu 
verletzen,  wàhrend  fiir  das  allerdings  nicht  belegte  *ambitare  nur  keine  vielgesttìtzte 
Hegel  der  ital.  Lautlehre  geltend  gemacht  werden  kann.  Die  Substantiva  frz.  and-ain, 
Schritt,  Gang;  nprov.  and-ano,  span.  and-ana  (daher  port.  andaina?),  Schritt  des 
Màhers,  Eeihe;  it.  and-ana,  Seilerbahn,  sind  niclit  aus  andare  herleitbar;  denn  das 
Suffix  -anus  verbindet  sich  nur  mit  der  Nominalform.  Sia  setzen  daher  das  Substantiv 
ambitus  (romanisch:  andò,  ande,  vgl.  conto,  conte :=  co mputus)  voraus,  das  im  altfz. 
onde  (Rich.  le  bici)  vielleicht  noch  vorliegt  (s.  Zeitsch.  f.  E..  Phil.  Il  313;  cfr.  aber  Ro- 
mania 1878  S.  630)  ;  wegen  o  fiir  a  vgl.  rouchi  ondarne  =  frz.  andain.  Das  prov.  anar 
hat  festes  n,  also  hinter  a  eiuen  Consonanten  eingebusst,  und  zwar  einen  Dentai, 
da  Labiale  und  Gutturale  hinter  Nasal  im  Prov.  erhalten  bleiben,  die  .Gruppo  Na- 
sal  +  liq.  nicht  auf  n  reducirt  wird  und  n'm  zu  in ,  nicht  zu  n  wird.  AVer  also  nicht 
*annar{e)  ansetzen,  sondern  prov.  anar  mit  cat.  anar  ital.  andare  u.  s.  w.  vereinigen 
will,  wird  auf  andare  selbst  hingewiesen.  Das  Rathsel  der  Umbildung  von  nd  zu  n{nn) 
bleibt  freilich  hierbei  bestehen,  und  die  Muthmaassung ,  die  endungsbetonten  For- 
men  des  prov.  anar  seien  aus  den  stammbetonten  Formen  des  Conj.  Pras.  (an  ans 
an)  entstanden  ist  eine  ebenso  wohlfeile  Ausflucht  (der  Conjunctiv  man  =  mandet 
hat  kein  manar  neben  mandar  aufkommen  lassen)  wie  die  Annahme  der  Entlehnung 
des  "Wortes  aus  dem  Catalanischen ,  dàs  man  als  einflussiibend  auf  das  alte  Proven- 
zalisch  bisher  nicht  kennen  gelernt  hat.  Das  Rathsel  lasse  man  vorlaufig  nur  bestehen; 
wenigstens  solange  man  duroh  Anomalie  in  der  Entwickelung  gieichartiger  Laut- 
folgen  (vgl.  z.  B.  frz.  as  n  ont  =  lat.  habes  habet  habent  mit  ses  set  sevent  =  lat.  sapis 
sapit  sapiunt  u.  dgl.)  sich  nicht  bestimmen  lasst  an  den  sicher  stehenden  Etymis  zu 
zweifeln.  Da  kein  Thema  existiren  kann,  das  nach  ital.  Lautregel  nd,  nach  prov. 
n  ergabe,  so-  muss  die  Anomalie,  die  zwischen  ital.  andare  iiud  prov.  anar,  gegeniiber 
*ambitare  besteht ,  eben  aus  der  die  Anomalie  darbietenden  Sprache ,  hier  der  prov., 
zu  erklàren  versucht  werden,  wie  frz.  set  set  sevent  und  daneben  frz.  as  a  ont  nur  in 
der  franzòsischen  Sprachentwicklung  ihre  befriedigende  Erlàuterung  findeu.  Die 
Kiinste,  die  nòthig  sind  um  die  mannigfaltigen  Gestalten  des  Verbums  des 
Gehens  im  Ratoromanischen  unter  den  Hut  von  ambulare  zu  bringen  ware  es  ein 
Leichtes  mit  gleichem  Erfolge  mit  ambitare  nachzumachen.  Sie  miissen  viel  bes- 
ser  noch  analysirt  werden,  ehe  ihnen  bei  Bestimmung  des  Etymons  von  andare 
nàchst  den  Formen  so  durchsichtiger  Spraohen  wie  das  Italienische  iind  Spanische 
ein  entscheidendes  Wort  zu  sprechen  gestattet  werden  kann. 


—  42  — 

4.  frz.  Akroseb, 

prov.  arrosar  leitet  Diez  I  ì-os,  wie  spau.  rodar  aus  dem  Adj.  roscidus ,  Littré  s.  v. 
aus  einem  fictiven  Verbum  roser  ab.  Die  Gruppo  -scid-  kann  sich  im  Frz.  und  Prov. 
jedocli  nicht  auf  s  reduciren  und  Littrés  Annahme  ist  uberfliissig.  Frz.  arroser, 
prov.  arrosar  sind  verba  denominativa  vom  Subst.  ros  (prov.),  wie  al-lmn-er  aus  lum 
(lumen),  wie  a-cah-ar  aus  cab  (caput)  u.  dgl. 

5.  it.  Astore,  Habicht, 

aspan.  aztor,  span.  port.  azor,  cat.  astor,  prov.'  austor,  afrz.  ostor,  frz.  aidovr,  aus 
gutbezeugtem  acceptorem^accipiter  ist  nocli  vor  Kurzem,  Zeitsch.  f.  Rom.  Phil.  II 
166,  von  W.  Foerster  vertheidigt  worden,  der  auck  die  Regelmàssigkeit  des  Ueber- 
gangs  von  ak-  zu  au  im  Prov.  (au-stor)  zu  beweisen  sich  anheischig  maclite. 
Unbegreiflicii  ist,  wie  man  bei  dem  oft  citirtem  Etymon  die  Unmòglichkeit  einer 
Reduction  von  -ccept-  auf -s«-  tibersehen  konnte,  und  dass  man,  ehe  Horning,  Zeitschr. 
f.  Rom.  Phn..  VI  440,  die  altfr.  ImparisyRaba  genauer  beleuchtet  batte,  nicht 
an  dem  Fehlem  eines  altfr.  prov.  Nominativ.  Sglr.  *ostre,  *austre  neben  ostor,  aitstor 
Anstoss  genommen.  Das  Etymon  ist  lateinisches  astur,  von  Georges  1.  e.  s.  v.  belegt 
aus  dem  5.  Jahrh.  bei  dem  Astrologen  Firmiciis  Maternus,  der  V,  7  unter  andern. 
Raubvògelu  und  neben  den  accipitres  auch  die  astures  nennt.  Georges  setzt  astùr, 
astùres  an,  offenbar  nach  Analogie  von  vultùr,  turtùr.  Nach  turtùr:  it.  tórtore, 
tórtora,  prov.  tortre,  frz.  tourtre  erwartet  man  aus  astùr:  it.  astore,  prov.  austre,  frz. 
ostre;  aber  bei  der  Entwicklung  von  sichrem  vultùr  zu  it.  avoltóre,  prov.  voltór,  frz. 
vautour,  ist  auch  an  der  von  Georges  angesetzten  Quantitàt  nicht  Anstoss  zu  nehmen. 
Direkte  Grundlage  von  avoltore,  voltar,  vautour  kann  gleichwohl  schriftlateinisches 
vultùr  neben  it.  tórtore  etc.  aus  turtùr,  so.wenig  sein,  wie  astùr  fur  it.  astóre  u.  s.  w. 
Da  vulturius  it.  avoltojo  ergibt,  so  ist  auch  nicht  an  ein  *asturius  mehr  zu  denken. 
Einzige  Grundlage  des  roman.  -óre,  -ór,  -óur  ist  lat.  Órem.  Daher  sind  *ast-órem  und 
*vult-órem  als  vulgàrlateinische  Analogisiruugen  wie  acceptórem  neben  accipiter 
anzusehen,  und  als  die  direkten  Grundlagen  der  romanischen  Wòrter  anzusetzen.  Da 
aber  -orem  im  frz.  zu  eur  wird,  so  sind  frz.  aitTOUR  wie  vawsauR  aus  dem  Prov. 
entlehnt.  Der  Geier  ist  ein  Vogel  der  Siidens.  Die  hosturs  gehòren  im  Rolandslied  zu 
den  Thieren,  die  der  spanisclie  Sarrazene  dem  frànkischeu  Karl  als  werth volle 
Gesehenke  anbieten  kann  ;  die  Namen  éperoier,  hoube  u.  a.  mogen  fùr  den  im  nòrd- 
lichen  Frankreich  einheimischeu  falco  palumbaris  die  ublichen  Benennuugen  und 
vor  dem  Bekanntwerden  des  austor  daselbst  die  allein  volksublichen  gewesen  sein. 
Prov.  azt  =  a  in  austor  fasse  ich  als  Anbildung  au  sinnverwandte  Wòrter  wie  ausel, 
auzelar  u.  dgl.  Hehns  Versuch  (Kulturpflanzen  S.  526)  astore  aus  asterius  herzuleiten 
verbieten  Bedeutungs-  und  Formverschiedenheit. 

6.  afrz.  Blkbon,  Wasserhuhn, 

neben  bluire  (G.  de  la  Bignè) ,  blarie  (G.  de  Coiucy),  pikard.,  Seine-Iuf.  blarie,  blairie, 
bléry  (s.  Godefroy,  s.  v.  bleroii)  vom-  niederlànd.  blaar,  weisser  Fleck  auf  der  Stime, 


—  43  — 

«  Stirnblàsse  »,  die  clas  ina  Deutschen  danach  benannte  Blàsshuhn  oder  Wasserhuhn 
(lat.  fulica)  tragt.  Vgl.  lothring.  blèse  (Grloss.  dn  patois  Messiti,  Nancy  1876)  ==  dtsch. 
Blàsse,  d.  i.  Pferd  mit  -weissem  Stirnfleck.  Auch  das  frz.  hellèque,  Wasserliiihn,  isfc 
eine  deutsche  Benennting;  es  ist=ahd.  belihha  die  Belche,  oder  Wasserhuhn,  womit 
die  fiilica  atra,  deutsch  auch  Bellhenne  oder  Schwarztaucher,  bezeichnet  wird.  Ob 
ein  drittes  frz.  Wort  fiir  Wasserhuhn:  macroule,  macrole,  das  auch  die  macreuse  = 
Trauerente  (anas  nigra)  bezeichnet ,  die ,  wie  die  fulica  atra  als  Fastensj^eise 
empfohlen  war,  mit  macreuse  auf  dem  hollandischen  nieyrkoet,=rMeerhuhn 
basirt ,  soli  nicht  entschieden  werden,  —  das  Verhaltniss  der  Laute  ist  nicht  hinlàn- 
glich  klar.  Der  Name  des  Seevogels  wird  aber  -w-ohl  ebenfalls  den  germanischen 
Kustenbewohnern  entnommen  sein. 

7.  span.  BoREAJA,  Boretsch, 

prov.  barrage,  frz.  bourrache,  it.  borrace  neben  borrana,  rum.  boranfze,  (it.  borraggine 
port.  borragem  aus  dem  gelehrten  lat.  Terminus  borrago)  mòchte  Diez  aus  dem 
Sglr.  von  burrae,  Possen,  der  im  Romanischen  als  borra  u.  dgl.  =  Scheerwolle, 
fortlebt,  ableiten,  unter  Hin-weis  auf  die  haarichten  Blatter  der  Pflanze.  Littró 
dagegen,  das  frz.  Wort,  s.  v.  bourraclie  allein  betrachtend,  legt  ein  arab.  aboukach= 
pére  de  la  sueur,  zu  Grrunde,  von  dem  auch  das  mlat.  borrago  herstammen  soli.  Die 
romanischen  Worter  sind  jedoch  deutliche  Adjectivbilduugen  mit  -aticum ,  -aceum 
-acem,  -anum  und  lassen  pianta  als  hinzugedachten  Gattungsnamen  erganzen.  Diez', 
dem  augenfalligsten  Merkmal  der  Pflanze  gerecht  werdende  Herleitung  hàlt  auch 
Stand  vor  einer  andern,  scheinbar  sich  empfehlenden  Ableitung  aiis  dem  Lateini- 
schen.  Da  der  Boretsch  ausser  der  Stengel-,  und  Blattbehaarung  auch  die  Eigenschaft 
besitzt,  in  seinem  Safte  eine  blaue  Lackfarbe  zu  gewahren  und  den  Essig  blau 
zu  fàrben,  was,  da  Boretsch  namentlich  in  Italien  Gemuse-,  und  Salatpflanze  ist, 
(cfr.  Scelta  di  Curios.  lett.  N'^  40.  S.  4.  84)  allgemein  beobachtet  werden  konnte,  so 
kònnte  Zusammenhang  mit  lat.  burrus,  dunkelroth,  woher  it.  buio,  dunkel,  prov. 
biir-el,  braunroth,  frz.  bur-el,  Purpurschnecke,  vorhanden  zu  sein  scheinen,  um  so 
mehr,  als  burr-ancia  (scil.  potio)  schon  in  ròmischer  Zeit  ein  mit  Mostsaft  gefarbtes 
Getrànke  von  offenbar  dunkler  Farbung  bezeichnete  und  in  der  romischen  Volkspra- 
che  Worter  fiir  die  blaue  und  braune  Farbe  und  deren  Nuancen  nicht  bestanden 
zu  haben  scheinen.  Demnach  wiirde  der  Boretsch  von  seinem  Farbegehalt  als  Pflanze 
mit  dunklem  Safte  benannt  sein.  Allein  das  allgemein  romanische  u  in  den  roma- 
nischen Produkten  aus  burrus  setzt  ein  latein.  bùrrus  voraus,  wàhrend  burrae  mit 
seinem  Tonvokal  dem  allgemein  romanischen  o  (ou)  in  borraja  etc.  wiederum  gerecht 
wird.  Auch  aus  diesem  Grunde  ist  von  Diez'  Etymologie  nicht  abzugehen. 

8.  frz.  Encre, 

altfrz.  enque  und  encre  von  s-cx7.05tov  ,  woher  it.  inchiostro  (a.  Diez.  W.  I  inchiostro) , 
ist  eine  merkiirdiger  Weise  noch  immer  unbeanstandete  Ableitung,  die  aber  Diez 
selbst  durch  den  Beisatz  «  die  starkste  Abkiirzung,  die  in  dieser  (der  frz.)  Sprache 


-  44  — 

vorkommt  »  als  unhaltbar  characterisirt.  Die  bei  dieser  Ableitung  bestehendeu  laut- 
licken  Schwierigkeiten  erregen  jedenfalls  gròsseres  Bedenken  als ,  bei  unserer  man- 
gelhaften  Kenntaiss  spàtgriechiseher  Wortbedeutung,  die  Annahme  einer  nicht 
nacligwiesenen  Verwendung  des  enque  und  eìicre  durchaiis  entsprecliendeii  sYy.c.o[j.a  zu 
erwecken  vermag;  s-,'xau[j.a  und  sYxauatov  begegnea  sich  in  der  Bedeutung  des 
'Eingebrannten  ,  nicht  aber,  don  Lexicis  zu  Folge,  auch  in  der  der  'eingebraunter 
Fllissigkeit'.  Aus  eYZ,ao[i,a  entwickelt  sich  durch  *eìic'me  regulàr  encre,  vgl.  dia- 
cortus  und  diacRe  oder  pampiwus  und  pampRe;  der  Schwund  des  m  hat  seine  Paral- 
lele in  marcje,  vierge  a.  dergl.  Wòrfcern. 

9.  frz.  Jadis, 

'erklàrt  sich  aus  jamdiu'  (so  noch  W.  Foerster,  Aiol  s.  v.),  «  wie  tandis  aus  tamdiu  » 
(Diez  II  e.)  Aber  in  einem  latein.  Compositum  jamdiu  bàtte  m  nicht  spurlos  ver- 
scliwiuden  kònnep;  jadis  muss  daher  ein  franzòsisches  Compositum  sein.  Da  aber 
das  Franz,  diu  nicht  besitzt  {(juandiu,  nur  Leodegar  und  Boethius,  gehòrt  der 
gelehrten  Sprache  an),  kann  in  jadis,  wie  schon  Littré  dachte,  nur  lat.  dies  enthal- 
ten  sein,  wie  in  tozdis,  totdis;  tandis,  {taiiz  dis).  Aber  damit  ist  die  morphologische 
Seite  der  Frage  noch  nicht  erledigt.  Denn  wie  ist  ja-^dis  syntaktisch  zu  fassen? 
In  tozdis ,  tandis  liegen  regulàre  Casus  obliq.  in  adverbialer  Verwendung,  von  der  Art 
des  lat.  Ablat.  absol.  vor,  mit  dem,  hierbei  das  Substantiv  nothwendig  begleitenden 
und  congruirenden  Adiectiv.  Fine  solche  Verbindung  stellt  aber  die  in  gleichem 
Sinne  funktionirende  Vereinigung  von  ja  und  dis  nicht  dar;  sie  ist  unfranzòsisch , 
da  im  Frz.  sich  Adverbium  und  Substantiv  nicht  verbinden,  und  dis  nicht  selbst 
Adverbium  geworden  ist.  Daher  muss  jadis  cine  Verbindung  wie  j)ieq'a,,  d.  h.  aus 
ja  a  (habet)  dis  zusammengeschmolzen  sein.  —  Ein  wirkliches  Compositum  von 
ja,  mit  einem  Adverbium,  wie  sich  versteht,  ist  dagegen  altfrz.  jelmi,  gehui;  jìdmi, 
iewi,  ju{,^h.eute,  fiir  das  W.  Foerster,  Chev.  as  deus  esp.  S.  XLVI  Stellen  beibriugt 
(weitre  Besant  de  Dieu  3136;  so  statt  3156),  ohne  es  jedoch  zu  deuten.  Ich  fasse  es 
als  Ja  hd,  ein  verstàrktes  Imi;  jE-ui  a,xis  ja-ùi  erklàrt  sich,  wie  ge-usse  aus  ja-cuis- 
sem,  se-US  aus  sa-puisti,  e-us  aus  ha-buisti  u.  dgl.  Die  Umbildung  von  a  zu  e  wixrde 
naturlich  erst  moglich ,  dadurch  dass  ja  Compositiousglied  und  vortonige  Silbe  wurde. 
In  y[«]MÌ  ist  e  an  ui  assimUirt  (vgl.  Tristan  bei  Bartsch,  Chrest.  S.  106  jjUMSse3:=potuis- 
setis);  die  stets  2sLlbig  geltende  Schreibuug  jui  besonders  anglonorm.  Hss.  findet 
ihr  Seitenstiick  in  «ts^ii/is^habuissemus,  rec/iwsse =recepissem  der  Q.  L.  d.  E.,  etc. 

Bei  dieser  Gelegenheit  sei  auch  einmal  auf  den  oft  wiederholten  fehlerhaften 
Ansatz  von  frz.  déjaz=zde  jam  (trotz  ital.  di  già)  hingewiesen;  altfz.  desja,  wie 
nfrz.  dÉja,  zeigen  hinreichend  deutlich  die  Entstehung  aus  dès  (=-de  ex)  und  Ja  an 
(so  schon  Littré). 

10.  prov.  Jassè,  ancsé,  desse, 

bespricht  Diez  II*^  unter  se;  er  beschrànkt  sich  dort  jedoch  darauf  semper  als 
Etymon  zuruckzuweisen.  Man  hat  auszugehen  von  cZessc=:  alsobald,  desse  ^Me=sobald 


—  45  — 

als  d.  h.  zu  jener  Zeit,  von  der  Zeit  an,  da;  also  von  lat.  exin,  verkiirzfcem  exinde, 
das  mit  quiim  verbunden  spatlateinisch  genau  im  Sinne  von  desse  que  verwendefc 
wird.  Durch  de  erweiterfces  exin  {^desin;  vgl.  DEHirfe  oder  roman.  fZes=de4-ex  u.  dgl.) 
wurde  regelrecht  prov.  elesse;  j^(i^)-r- exin  verschmolz  ebenso  zu /asse  (vgl.  des  aiis 
dE  EX,  oder  (Zesai=dE  Eccehac)  und  erhielt  die  Bedeutung  «  bereits  von  da  an  »  d.  i. 
immer  (in  Zukunft).  Da  in  a»cse,  =immer,nichtder  Begriff  ununterbrochener  Dauer 
in  der  Vergangenheit  liegt,  so  ist  nicht  ante  exin  (*antexiu  durch  antosin  zu 
ancse  ist  uberdies  eine  nicht  beweisbare  Entwickehing)  bei  ancse  zu  Grunde  zu  legen, 
sondern  eine  Uebertragung  des  se  von  ja-sse  auf  das  synonyme  anc=je  anzu- 
uehmen,  also  eine  Erweiterung  von  anc  durch  se  nach  Analogie  von  jasse. 


11.  it.  Malvagio,-a, 
prov.  malvatz,  iem..  maluaiza  (s'p'àt),  afrz.  malvais,  fem.-se  fùhrte  Storm ,  Rom.  IV 
362,  unter  Zuriickweisung  von  Diez'  Etymon  balvavesi,  auf  ein  supponirtes  *malva- 
tius  zuriick,  das  von  einem  ebenfalls  vermutheten  *malvatus,  der  angeblichen  Grund- 
lage  von  span.  malvado,  prov.  malvat^  afrz.  malve,  gebildet  sein  soli.  Diese  letztren 
drei  Wòrter  darf  man  getrosfc  von  den  erstren  trennen,  auf  male  levatus.  wie 
bisher,  zuriickfiihren ,  und  so  der  mangelhaft  begriindeten  Hypothese  entsagen,  wo- 
nach  aus  Adj.  oder  Partic.  AdjectivbUdungen  auf  -ius  lateinisch  oder  romanisch 
mòglich  gewesen  wàren.  Das  fùr  malvagio  etc.  von  Storm  vorausgesetzte  Etymon 
wird  dadurch  nicht  unsichrer.  Denn  es  ist,  was  Storm  ubersehn,  vorhanden.  iliaZ- 
ya^io  ist^lat.  male-- vatius;  vatius  heisst  krumm,  eine  offenbar  volksiibliche  Benen- 
nung  (schon  den  Autoren  nach ,  die  sie  brauchten)  von  den  Gliedmassen  insbesondre 
gesagt,  z.  B.  crura  vatia,  krumme  Beine,  (bei  Varrò;  desgl.  homo  vatius  u.  dgl.); 
vatius  ist  synonym  mit  vatax.  Die  Correctheit  der  lautlichen  Entwicklung  von 
vatius  zu  it.  -vagio,  prov.  -vatz,  frz.,  -vals  zeigt  die  Vergleichung  mit  palatium  :  it.  pa- 
lagio, '^xoY.  palatz,  frz.  palais,  und  mit  *adsatiat:  afrz.  cessa ise  (vgl.  auch  Horning, 
Geschichte  des  lat.  e.  vor  e,  i,  S.  25),  Die  Bedeutungsentwicklung  vergleicht  sich 
mit  der  von  tortum  :  frz.  tori.  eto. ,  dem  Gegensatz  zu  directum  =  frz.  droit  etc.  Das 
gesetzlich  iind  moralisoh  Ungerade,  Krumme,  ist  das  gesetzKch  und  moralisch 
Verwerfliche,  Bòse;  mnl  verstàrkt  und  verdeutlicht  den  bildlichen  Begriff,  àhnlich 
wie  in  frz.  male  peste,  male  peur,  male  rage,  male  mori  oder  wie  in  mal-ingre ,  krankUch, 
wenn  male  +  aeger  zu  Grunde  liegt. 

—  Bei  der  Correctur  dieser  Stelle  kommt  mir  WoliSins  Archiv  1 ,  4  zu 
Handen,  worin  K.  Hofmann,  S.  592,  mauvais  auf  ein  *malvax  aus  malva.  Malve, 
zuriickfuhrt:  das  tertium  comparationis  zwischen  «  Malve  »  und  «  schlecht  »  sei  das 
«  Weiche  ».  Aus  dem  angesetzteu  malvax,  und  sebst  aus  dem  vorhandenen  Adj.  mal- 
vaceus  =.  malvenartig  ist  lautlich  jedoch  weder  frzos.  manvais,  -e,  noch  ital.  malva- 
gio, -a  zu  gewinnen  und  die  Bedeutung  zwingt  so  wenig  zur  Anerkennung  der  neuen 
Etymologie,  dass  sie  doppelt  unannehmbar  ist. 


—  46 


12.  frz.  MORCEAD, 

altfrz.  morcel ,  morsel,  nicht  aus  *morsellus  (it.  morsello  etc.)  iiuter  Vertauschung  von  s 
mit  e.  wie  Diez.  II<=  s.  v.  meint,  sondern  aiis  *morscellus ,  wie  vaisseau,  altfz.  «ameZ 
aus  vascellum,  arbrisseau,  altfz.  arhrissel  aus  arboriseellus  (s.  WòMflin,  Archiv  fiir 
Lat.  Lexikographie  I.  S.  242;  Horning,  Gesch.  des  lat.  e.  S.  4).  Dafiir  spricht  pikard. 
morclid  (vgl.  pikard.  vacìié  vascellum).  Auch  frz.  vincer  und  percer  sind  keine  Belege 
fiir  Vertauschung  von  s  mit  e;  denn  vincer  kommt  nicht  vom  dtsch.  hreinsa,  da  die 
altfrz.  Form  va-incier  lautet  und  percev  -wird  Niemand  mehr  &v£  pertusier  grunden; 
frz.  sauce,  altfrz.  salse  und  salce,  sausse  una  salice,  ist  allerdings  schon  Schreibart  des 
13.  Jahrh.;  das  "Wort  reimt  aber  immer  nur  mit  s,  z.  B.  mit  false  fausse  (vgl.  Cre- 
stien  de  Tr.  Chev.  au  lyon  4193  etc),  nicht  mit  chance  calceat  u.  dgl.,  solange  c+e  noch 
nicht  .s  war. 

13.  frz.  NiÈCE, 

prov.  netsa,  it  nesza  (Valentini),  bezeichnet  Diez,  II'',als  cine  auf  *neptia  beruhende 
Form,  «  die  sich  der  Franzose  mil  Hilfe  des  ableitenden  ì  in  uepti-s  verschaift  bàtte.  » 
Diese  Auffassung  ist  nicht  Mar ,  denn  der  '  Franzose  '  bewahrte  das  '  ableitende  i  ' 
nicht.  Vielmehr  ist  neptia  eine  lateinische,  den  latein.  Lexicis,  auch  Georges,  aller- 
dings fehlende  Bildung.  Das  Wort  steht  aber  z.  B.  auf  einer  Inschrifb  von  Aquileja, 
C.  I.  L.  V.  N"  2208.  Zur  Bildung  vergleicht  sich  lat.  acia,  Einfàdelfaden,  von  acus, 
Nadel;  suppetiae,  Hilfe,  zu  suppetere.  Zu  Grunde  liegt  nept-is,  das  auf  spanischem 
Boden  zu  *nepta  analogisirt,  span.  nieta  (dazu  Msc.  nieto),  catal.  neta  (Msc.  net),  prov. 
nepta  (neben  netsa),  picard.  en-nette  ergab;  auch  sardisch  nepta,  netta.  Der  Diphthong 
ie  im  frz.  Wort  erklart  sich  durch  Einfluss  des  Msc.  7t('es  =  lat.  nepos  (nicht  durch 
Einwirkung  des  Hiat-t,  wie  Horning,  Gesch.  der  lat.  e.  S.  22  meint);  s.  auch  u.  pièce. 

14.  frz.  Patois, 

kann ,  wie  in  andern  Sprachen  die  Bezeichnungen  fiir  ungebildete  Rede ,  nur  ein  Wort 
der  franzosischen  Sprache,  und,  wie  die  Endung  zeigt,  nur  ein  abgeleitetes  Wort 
sein.  Es  bedeutet  zwar  altfrz.  noch,  wie  latin,  die  fremde,  die  Individualsprache , 
die  nicht  allgemein  verstandene ,  im  Gegensatz  zur  allgemein  anerkannteu  Sprache , 
ohne  Betonung  des  Begriffs  der  ungebildeten  Rede,  ist  aber  auf  keine  Weise,  mit 
Diez  und  Littré,  aus  dem  gelehrten  iind  nicht-altfranzòsischem  jjatrte,  patria,  lautlich 
zu  entwickeln.  Es  ist  vielmehr  Ableitung  aus  patte,  Pfote,  das  die  Akademie  friiher 
noch  paté  schrieb.  Daraus  zog  die  Sprache  auch  pat-aud  im  Sinne  von  plump,  platt- 
fussig,  ungeschlachter  Mensch,  Bauernliimmel.  Einem  solchen  ist,  wie  plumpes 
Wesen  (Gegensatz:  courtois),  so  eine,  'plumpe"  Sprache  eigen,  die  mit  jjat-ois  figiirUch 
bezeichnet  wird,  auf  dieselbe  Art,  wie  mit  narqu-ois,  Rothwelsch,  die  Sprache  und 
das  abgefeimte  Wesen  des  Gauners,  wie  mit  altfrz.  clerqu-ois  das  gelehrte  Wesen 
und  Sprechen;  vgl.  noch  mat-ois,  verschmitzt,  von  mate,  griv-ois,  zotig,  von  grive. 


—  47  — 

Die  Bedeutung  'landschaftliche  Sprache  uugebildeter  Leu  te"  entwickelte  sioh  aus  der 
Bedeubuug  '  robe  Sprache'  mit  der  Herausbildung  der  frzòs.  Schriftsprache.  Vgl.  aucli 
deutsches  platt  =  frz.  patois,  plattdeutsch  u.  dgl. 

15.  frz.  Pièce, 
YiTov.^eza,  j}essa;  c&t.  pessa;  port.  2>eca;  span.  pieza,  it.  pezza,  pezzo.  Diez,   I  s.   v. 
2jezza,  weist  ein  petia,  petium  in  lat.  Urkunden  seit  dem  8.  Jahrh.  uach  und  erwàgt 
Zusammeiiliang   mit   span.    ped-azo,   Stiick,  mit   kymr.  peth,    Stùck,    oder  daraus 
gewonnenem  *petìiia  und,  da  hierbei    bedeutende    lautliche    (und  morphologische) 
Schwierigkeiten    bestehen,    mit   Tié'Qy.,    Fusssohle,    Fuss,    Unterstes.    BucHstàblicK 
entspricht  den  romanischen  Wortern  der  zweite  Theil  des  von  Sulpicius   Severus , 
Dialogi  II    1   4  (ed.   Halm)  gebrauchten    tri-peccia,   Dreibein(stuhl)  :    «  in  sellula 
rusticana,  ut  suut  istae  in  usibus  seruuolorum  quas   nos  eustici  Galli  tripeccias, 
nos  scholastici  aut  certe  tu,  qui  de  Graecia  venis,  tripodas  nuncupatis.  »  Fiir  tripec- 
cias (cod.  Veron.  7.  Jahrh.)  schreibt  der  cod.  Frising.,  X.  s.,  tripecias,  der  cod  Monac, 
XI.  s.,  tripetias.  Das  Originai  mag  immerhin  tripeccias  oder  tripecias  geschrieben 
haben;  der  bei  Sulpicius  Severus  das  rustike  Wort  gebrauchende  gemeine  Gallo- 
ròmer  mag  es  in  der  Weise  seiner  Zeit  ausgesprochen  haben  und  der  Sulpicius-Text 
es  in  dieser  Form  haben  wiedergeben  soUen.  Dann  ist  es  nur  ein  Zeugniss  mehr 
fiir  vulgàris    (c)ci   aus   tiVoc.   aus   dem  Ende  des   4.    Jahrh.!    Die  Form  tripetias, 
obwohl  in  einer  jùngeren  Hs.  ùberliefert,  darf  auf  keinen  Fall  verworfen  werden; 
denn  in  <»-ipeccias  liegt  nothwendig  der  Begriff  des  Fusses;  tri-pedas  aber  zeigt 
sich  stammverwandt  mit  lat  pet-iolus ,  Fiisschen,  Obstiel,  fiir  welches  Wort  Ausgaben 
des  Apicius  (cf.  ed.  Schuch  I  20)  andrerseits  peciolus  bieten,  und  auch  bei  diesem 
Wort   bestàtigt   Nouius,   p.   109,  petiolus   a  jjetZe    diminutive.    Auch  lat.   pet-ilus, 
spàrlich,   scheint  zu  diesem  p6t  =  Fuss  zu  gehòren.  Nicht   minder   verlangt  span. 
ped-azo,  Stiick,  ein  ^ei-  als  Grundlage.  Der  abstracte  Begriff  des  ^^ec^-azo  als  Stiick 
kann  aber  nur  ein  aus  eoncreter  Raumanschauung  abgeleiteter  sein,  und  ist  aus 
naheUegenden  Bedeutungen  von  pes=:  Fuss,  1)  =  der  vom  Fusse  bedeokte  Raum  2) 
kleine  Maasseinheit,   die    in   den    romanischen    Sprachen   sich    mit  pedem 
thatsachlich    verbinden,    sehr   wohl  zu  entwickeln.  Auch  das  span.  pieza,  das 
catal.  pjessa  =  spatium,    intervaUum,    bezeichnet   ja    neben    Stiick,  d.  i.   ein    der 
geringeten  Maasseinheit   entsprechendes  Ganze,    den   kleinen  Zeitraum  und  eiue 
geringe    òrtliche    Erstreckung.  In  jenem  bei  Sulpicius   Severus  erhaltenen  -petia 
mòchte  daher  das  Etymon  fiir  frz.  pièce  und  die  oben  angefiihrten  Wòrter  ebenso  zu 
suchen  sein ,  wie  in  pet  +  aceus  span.  pted-azo  scine  Grundlage  findet.  Die  Endung 
ia  in   tri-petia   zeigt  ein   Adjectiv,  also  pet  -|-  ius  =  '  fiissig "  an,  wie    es  x[À-tzooq, 
lat.  tripus  und  alle  àhnlichen  Composita  mit  tri  etc.  der  Bedeutung  oder  Bildung 
nach  urspriinglich  sind.  Zu  tri-pet-ia   ergànzt    man  leicht    '  sedes.  "  Daher  erklàrt 
sich  dann  auch  mlat.  pet-iww  und  it.  pezzo.  Der  Diphthong  te  im  span.  pieza  làsst 
sich  nicht  als  lautgesetzlich  begrùndet  erweisen,  da  analog  gebaute    Worter    dem 
volksthtimlichen  Sprachschatze  der  Spani er  abgehen;  jsrecio  =  prètium  ist  gelehrt. 


—  48  — 

Die  Wahrscheinlichkeit  der  Einwirkung  des  sinnverwandten  pie  =  pedem  aber  auf 
spaniseli  moglicherweise  regulàres  *2^eza,  die  bei  der  Sinnverwandtscliaft  von  jjje  und 
j)ieza  Niemand  beanstanden  wird,  ùberhebt  der  Mute,  auf  Umwegen  festzustellen , 
wie  in  volksmassiger  span.  Sprache  lat.  -ètj-  sich  darstellte.  Analogiscb  ist  siclier 
das  ie  im  frz.  ixièce  (das  weder  peccia  noch  pecia  erklaren);  denn  prétium  ergab  liier 
2}r>'s,  prètiat:  2jrise.  Aber  wie  obeu  «lÈce  durch  «ies,  so  wird  pmce  durch  jjieiì  =: 
pedem  verstàndlich.  Die  von  Horning,  1.  e.  S.  22,  aufgestellte  Vermutliung,  das 
Hiat-t  in  *peccia  oder  *petia  habe  e  bei  ie  erhalten,  kann  sich  demnach  vorlaufìg 
nur  noch  auf  das  dunkle  tiers  =  tertius  berufen,  worin  aber  ie  fiir  gedecktes  è  gegen 
die  Lautregel  ist.  Da  pièce  vind  Sippe  aus  latein.  Sprachgut  ableitbar  sind,  ist  es 
nicht  nòthig ,  das  Etymon  anderwàrts  zu  suchen.  Kymr.  Herkunft  lehnt  die  Ver- 
breitung  des  Wortes  auch  in  Spanien  ab  ;  die  keltischen  Wòrter  des  spanischen 
Sprachschatzes  stammen  aus  dem  Vulgàrlafcein  ròmischer  Zeit.  An  KéC,%  zu  denken 
verbietet  die  mlat.  Schreibung:  peJtum  pe^ja,  da  C  mlat.  wenn  auch  durch  ce,  nicht 
doch  durch  ti  (oder  ce?)  vertreten  zu  werden  pflegt. 

16.  nfrz.  RcissEAD, 
afrz.  ruicel,  russel  und  roissel,  roisseaus,  rossel,  (s.  W.  Foerster,  Ztsch.  f.  R.  Ph.  V 
96  f),  it.  ruscello,  mòchte  W.  Foerster  von  einem  Stamme  ni-,  in  altfrz.  rn,  ruz,  rus 
a.bleiten ,  den  er  in  lat.  Rù-mo  (Tiber)  etc.  zu  erkennen  meint.  Das  altfrz.  oi  neben . 
ni,  in  roissel  neben  ì-uissel,  verlangt  aber  6  -f-  i  als  Grundlage  und  weist  auf  mlat.  ro- 
gium  =  Bach,  das,  wie  exagium:  essai,  so  *rot  ergiebt,  und,  wie  hodie  neben  hoi  ein 
Imi  stellt ,  so  auch  rivi  werden  musste.  Aus  demselben  rogium  leitete  schon  Diez  II'' 
s.  V.  arroyo,  span.  a-rroy-ar,  iiberfliesseu,  iiberfluthen  (cfr.  span.  ejisat/e?' =  *exagiare, 
und  span.  a-rroyo,  Bach,  mlat.  arrogium  (Urkunde  vom  Jahre  775),  port.  arroio, 
Bach,  ab.  Altfrz.  roissel,  ruissel  ist  ebenso  gesetzmassig  aus  einem  Deminuti vum 
*rogi-scellum  zu  ziehen,  wie  frz.  arbri-sseau  aus  arbori-scellum  (s.  o.  morceau . 
Schwierigkeiten  wiirden  nur  bereiten  1)  afrz.  ru,  wenn  daneben  nicht  die  von  Diez 
1.  e.  angegebene  Nebenform  rui  existirte,  die  "W.  Foerster  1.  e.  beanstandet,  und  2)  it. 
ruscello,  das  von  Diez  1.  e.  als  franzòs.  Fremdwort  aufgefasst  wird  und  nach  ital. 
Lautregel  allerdings  nicht  aus  *rogiscellum  zxi  entwickeln  ist  (vgl.  it  vascello  =  vas- 
cellum;  ramoscello  zu  ramo;  arhuscello  stammt  nicht  von  arborisceUum ,  sondern  ist 
Deminutiv  zu  arbusculum).  Die  altfz.  Form  rui  gibt  Foerster  mit  Raynaud  im  Aiol , 
V.  4931,  selbst  zu.  Ebenso  steht  wie  dort  mit  Bezug  auf  fontaine,  Huou  de  Bord. 
5541:  ruis  und  in  dem  Parallelverse  5549  wechselt  mit  ruis:  ruisiaus.  Dann  diirfte  es 
aber  auch  an  andern  Stellen,  wo  vom  rui  de  la  fmiiaine  die  Rede  ist,  z.  B.  Munch. 
Brut.  3911,  Beuve  de  Com.  2360.  2952  (Scheler:  rin),  Durmarfc  2625  {rìu)  Mousket 
2420  {riu)  gelesen  werden,  wàhrend  ib.  7088:  del  sane  ki  partout  ceurt  a  uro:  (Griit), 
und  Adelleicht  auch  Mon.  de  Namur  II  2,  604  deleis  un  rin  (1.  riu),  da  wallonisch: 
riu,  riew,  besteht,  das  bekamite  r4M=rìvum.  vorliegen  mag.  Ein,  ì-iii  oder  rui  sichernder 
Reim  steht  mir  nicht  zur  Verfiigung.  Das  von  Contejean  im  Gloss.  du  pat.  de 
Montbóliard  prwahnte  Deminiitiv   ruij-of  (so  etwa  zu  schreiben   Bastart  d.  B.  320 


—  49  — 

statt  ì-uissoit  im  Reim  mit  -ot,  wo  Scheler  willkiirliche  Entstellung  von  ruisseau 
erblickt)  bietefc  keinen  sichern  Halt  fiir  rui,  weil  dieselbe  Mundart  daneben  das 
Wort  rti  besitzt,  das  im  ganzen  Osten  bis  ins  Elsass  hinein  (hiei"  auch  Ru])t^  aber 
ru  gesprochen)  verbreitet  ist.  Wie  ridt  (Champagne,  nach  Lorrain  Gloss.  ;  bei  Joinville  : 
rie)  aufznfassen  sei ,  ist  nicht  klar  ;  ist  t  stumm ,  so  liegt  die  gesuclite  Form  aber  auch 
hier  vor.  Die  Entscheidung  hàngt  von  einem  Reime  rui  mit  ui  ab.  Die  Form  ru  aber 
fiir  jiinger  als  rui  auzusehen,  berechtigen  die  ostfranzòsischeu  u  fiir  ui,  z.  B.  cestu,  celu= 
cestiti  celiti,  3.  Burguy  I  154,  Apfelstedt,  Lothr.  Psalt.  S.  XLIX  u.  XXXVI,  Poulet, 
Vocabulaire  du  Patois  de  Plancher-les-Mines  (Haute-Saòne) ,  S.  36:  fi-u  :^  fruii, 
jjechu  =  jjertuis  u.  dgl.  Das  it.  ruscello ,  schon  von  Dante  gebrancht  und  der 
Umgangssprache  angehòrig,  wird  man  trotz  alledem  ungern  als  franzos.  Fremdwort 
betrachten.  Alletn  es  fàllt  hierbei  ins  Gewicht  1)  dass  ruscello  ohne  Primitivum  im 
Ital.  dasteht,  wahrend  ein  solches  bei  den  iibrigen  Deminutiven  auf  -scello  vorhan- 
den  ist;  2)  wird  man  das  Etymon  von  ruscello  vom  frz.  ruisseau  nicht  trennen 
diirfen,  und  3)  ist  ein  latein.  Primitiv  zu  it.  ruscello  nicht  denkbar.  Nach  vascello 
(zu  vasculum)  arhuscello  (zu  arbusculum)  hatte  es  nur  rusculum,  oder  nach  (jungem) 
ramo-scello  etwa  *rù-um  lauten  miissen.  Letztres  Wort  aber  ware  unlateinisch , 
und  rusculum  fiele  mit  dem  Deminutiv  zu  rùs',  Land(-gut),  zusammen,  und  setzte 
denselben  Stamm  rus-  voraus,  der  sich  aber  weder  mit  Foersters  Wurzel  »•?<  vertragt, 
noch  in  der  erforder lichen  Bedeutung  iliessen  u.  dgl.  im  Latein  existirt. 

G.  Geòbee. 


088EMAZI0NI 

SOPRA    UN    VERSO   DEL   POEMA   PROVENZALE   SU   BOEZIO. 


Il  verso  26  del  Boezio  non  fu  ancora ,  eh'  io  sappia ,  interpretato  in  modo  sod- 
disfacente. La  frase  Non  i  mas  foiso  è  tradotta  dal  Eaynouard  {Choix,  II,  p.  9):  N'y 
mit  foisoìi;  il  Diez  {Altr.  Spraclid.  p.  50)  pensa,  non  però  senza  mostrar  qualche 
esitanza,  che  il  senso  possa  essere:  Er  setzte  es  niclit  dtirch,  cioè  non  ne  venne 
a  capo,  non  ottenne  il  suo  intento;  il  Bartsch  {Clirest.  Prov.)  segue  la  stessa  inter- 
pretazione del  Diez,  poiché  nel  suo  Glossario  fa  di  mes  un  perfetto  di  metre  (lat. 
mitteve)  e  attribuisce  a,  foiso  il  valore  di  effet,  Wlrkung.  In  sostanza,  tutti  e  tre  i  sul- 
lodati  interpreti  spiegano  mes  per  misit.  E  quanto  a  foiso ,  il  Raynouard  con  la  sua 
traduzione  letterale  non  lascia  intravvedere  '  il  senso  preciso  che  abbia  voluto 
dare  a  quel  vocabolo;  il  Diez,  osservando  che  nell'antico  francese  avoir  foison 
vale  aver  potenza,  aver  resistenza  {Macht,  Widerstand  haben),  suppone  che  metre  foiso 
possa  voler  dire  '  venir  a  capo  del  suo  intento  {etwas  durchsetzen) ,'  ossia  che  foiso  valga 
quanto  effetto;  il  Bartsch,  senza  darci,  come  il  Diez,  la  traduzione  completa  della 
frase,  assegna  esplicitamente,  come  s'  è  detto,  a,  foiso  il  valore  di  effetto. 

Ma,  in  primo  luogo,  anche  volendo  ammettere  che  avoiV /oi'soji  significasse  effet- 
tivamente nell'antico  francese,  secondo  che  opina  il  Diez,  aver  potenza,  aver  effi- 
cacia, non  basta  una  semplice  congettura,  senza  la  prova  dei  testi,  a  stabilire  che 
foison  abbia  ricevuto  lo  stesso  significato  nel  costrutto  provenzale  metre  foison;  poi- 
ché, a  parte  la  disparità  delle  lingue,  noi  vediamo  che  un  vocabolo,  unendosi  con 
altri  vocaboli  per  formare  ima  frase,  muta  bene  spesso  per  effetto  di  tale  unione  la 
sua  accezione  primitiva  ;  né  si  può  stabilire  a  priori ,  che  lo  stesso  vocabolo ,  tra- 
sportato in  altra  frase,  debba  neUa  nuova  unione  conservare  quel  particolar  signi- 
ficato che  aveva  assunto  nella  prima.  Secondariamente,  il  costrutto  metre  foiso,  pre- 
supposto dal  Diez  e  dal  Bartsch,  non  ha,  se  bene  ci  si  guarda,  un  saldo  fondamento 
nell'  analogia  romanza ,  poiché  l' italiano  non  dice  propriamente  '  metter  effetto  ad 
una  cosa,  '  ma  '  mettere  ad  effetto  una  cosa  (un  disegno,  un  affare);  '  né  il  francese 
mettre  effet,  ma  mettre  à  effet;  né  lo  spagnuolo  poner  efecto,  majjower  en  efecto.  Di  più, 
quand'  anche  si  voglia  menar  buono  il  costrutto  grammaticale  e  concedere  che  '  met- 
ter effetto  ad  una  cosa  '  sia  lo  stesso  che  '  metterla  ad  effetto ,  '  ossia  '  metter  effetto  ' 


—  52  — 

equivalga  a  '  dare  effetto ,  '  il  senso  che  uè  risulta  non  è  ancor  quello  eh'  è  voluto 
dal  Diez  e  dal  Bartsch,  e  che  del  resto  chiaramente  apparisce  dal  contesto,  cioè  che 
Boezio  col  predicar  la  fede  cristiana  non  venne  a  fine  del  suo  intento ,  non  ne  cavò 
costrutto.  Poiché  altro  è  mettere  ad  effetto  un  proponimento,  un  disegno,  ed  altro 
ottenerne  l' effetto  che  si  desidera. 

Bisogna  dunque  cercare  una  interpretazione  diversa  da  quella  che  è  stata  data 
sinora  della  frase  sopra  riferita  ;  un'  interpretazione  che  meglio  risponda  al  concetto 
e  alla  parola  dell'  originale. 

Ora  a  me  pare,  che  per  giungere  a  tale  resultato  bisogna  rinunziare  innanzi 
tutto  al  vedere  in  mes  un  perfetto  di  metre  (;mittere),  e  prenderlo  invece  per  un  per- 
fetto di  jntv^re,  meire,  lat.  métere,  it.  viietere;  ài -poi,  che  si  debba  lasciare  a /bi'so  il  suo 
significato  primitivo  e  naturale  di  abbondanza,  quantità  grande;  per  modo  che  Non 
i  mes  foiso  venga  a  dire  nel  latino  del  tempo  Non  ibi  messuit  fusionem  ;  in  latino 
schietto  Non  messuit  uberem  messem ,  non  ci  mietè  gran  cosa ,  non  ci  mietè  una  messe 
abbondante,  non  fece  gran  frutto. 

Discorriamo  brevemente  dei  due  termini  che  costituiscono  la  frase  in  questione, 
incominciando  dal  verbo. 

Il  latino  metere,  it.  mietere,  proV.  medre,  meire  (Rayn.  Lex.  IV,  p.  214),  ha  un 
perfetto  messivi,  di  cui  fanno  menzione  Carisio  (3,  1  p.  217),  Diomede  (1  p.  364), 
Servio  {Virg.  Georg.  4,  54  ed  Aen.  11,  68)  e  Prisciano  (10,  8,  47  p.  903).  Quest'ul- 
timo cita  demessuit  di  Catone,  demessuerunt  di  Cassio  Emina;  il  Kiihner  (Ausf. 
Gramm.  I  p.  566)  v'aggiunge  messuissent  di  Paulo  (Fest.  319,  2);  il  Neue  {Formenl.  der 
lat.  S2jr.  H,  p.  498)  demessuerint  di  Amobio  (5,  11),  messuit  e  me.ssuerunt  di  Ma- 
mertino  {Grat.  ad.  Jid.  22 ,  1 ,  2).  Son  questi  tutti  gli  esempi  a  noi  noti  del  perfetto 
messui ,  che  è  del  resto  una  formazione  irregolare ,  composta  molto  probabilmente  di 
-si  ed  -ui;  vedi  Schleicher  Conip.  §  301;  cf.  Kùhner  1.  e.  Se  non  che  Diomede,  pur 
registrando  nel  luogo  sopra  citato  questa  forma  di  perfetto ,  ne  avverte  che  alcuni 
grammatici  la.  mettevano  in  bando:  quod  quidam  exterminant ;  altrove  (1,  p.  375)  an- 
novera meto  tra  i  verbi  dei  quali  non  è  facile  trovare  un  perfetto.  Carisio,  mentre, 
come  s'  è  detto,  in  una  parte  della  sua  opera  riconosce  messui,  in  un'  altra  parte 
(3,  2  p.  222)  coniuga  il/e<o,  metebam,  metam,  messem  feci,  messem  feceram,  cioè  a  messui 
sostituisce  messem  feci ,  a.  messueram  messem  feceram.  Prisciano  (8,  11,  59  p.  817)  :  Bleto 
quidam  messui,  quidam  messem  feci,  sed  usus  vetustissimorum.  messui  comprohat.  Final- 
mente Foca  (9,  3  p.  1718)  esclude  ricisamente  messui:  Meto  messem  feci,  nam  al  iter 
■proferri  non  potest  (v.  Neue  1.  e).  Dall'  insieme  delle  quali  dichiarazioni  apparisce  in 
modo  non  dubbio,  che  messui,  già  contestato  dai  grammatici  anteriori  o  contempo- 
ranei a  Carisio  e  Diomede,  cioè  alla  seconda  metà  del  IV  secolo ,  non  era  più  in 
uso  nel  latino  popolare  dei  secoH  V  e  VI,  cioè  ai  tempi  di  Foca  e  di  Prisciano ,  poiché 
il  primo  nega  del  tutto  l'esistenza  di  tale  forma,  l'altro  ricorre,  per  legittimarla, 
all'uso  arcaico  {usus  vetustissimorum).  Or  questo  fatto  può  già  renderci  ragione, 
come  il  provenzale  non  abbia  dato  un  mese  che  potrebbe  sembrare  a  prima  giunta  il 
corrispondente  normale  del  latino  messiw.  Laddove ,  per  ispiegarci  la  forma  wes,  basta 


—  53  - 

considerare  che  il  perfetto  con  s  ha  avuto  una  grande  espansione  in  romanzo,  tanto 
da  cacciar  di  seggio  in  non  pochi  verbi  le  altre  maniere  di  flessione;  cfr.  in  particolare, 
per  lo  scambio  di  -ui,  -vi  con  -si,  prov.  somos  {siibmonui) ,  tevis,  tens  (tinmi),  sols  (solvi), 
vols  (volvi);  ùa,nc.  ant.  semons  {suhmonui) ,  creins  (trermii),  sols  (solvi),  vols  (vaivi;  anche 
volui  da  véll^;  ital.  apersi,  copersi  (aperta,  cooperui),  colse  (caluit),  discersi,  scersi  (discrevi), 
dolsi  (dolui),  mossi  (movi) ,  parsi  (parui),  assolsi,  risolsi  ecc.  (absolvi,  resolvi  etc),  valsi 
(valui),  volsi  (volvi),  e  tose,  volsi  (volui).  Ma  c'è  di  più.  Anche  data  la  sopravvivenza 
nel  latino  volgare  del  perfetto  messui,  si  può  tuttavia  affermare  con  sicurezza,  che 
il  suo  continuatore  provenzale  non  sarebbe  stato  mese  ma  mes,  poiché  si  vede  che 
tutti  indistintamente  i  perfetti  latini  con  s  davanti  a  -ui  si  risolvono  in  romanzo  in 
un  semplice  perfetto  sigmatico,  come  se  il. tipo  latino  non  fosse  -sui,  ma  si;  cfr.  it. 
connessi  (lat.  connexui);  it. posi,  sp.  puse,  sp.  ant.  ^ose,  prov.  jpos  (ìat. positi,  nelle  iscrizioni 
anche  post  ;cf.  Corp.  Inscr.  Lat.  3,  4415;  5. 1685;  e  vedi  Neue  II  p.  491);  frane,  ant.  re- 
puns  (lat.  reposui).  Lo  stesso  avviene  delle  forme  in  -s-i-vi;  cf.  it.  chiesi,  sp.  quise,  prov. 
quis,  ques,  fr.  ant.  quis  (lat.  quaesivi,  anche  quaesi  secondo  Prisciano  10,  8],  46  p.  902); 
it.  co Hg Misi  (lat.  conquisivi);  fr.  mod.  acquis,  requis  ecc.  (lat.  acquisivi,  requisivi  etc.  • 
vedi  Diez,  Gramm.  der  Bom.  Sjir.  II  p.  128  sg.).  Prove  più  dirette  per  stabilire  in 
modo  inconcusso  la  forma  genuina  in  questione  non  ne  posso  addurre;  poiché  del 
perfetto  di  medre,  meire  non  m'  é  riuscito  di  trovar  alcun  esempio  da  questo  infuori 
del  Boezio;  e  fra  le  altre  lingue  romanze,  l' italiana,  eh'  é  la  sola,  oltre  alla  proven- 
zale, che  ci  fornisca  iin  rappresentante  diretto  del  latino  metere  (il  moissonner  francese 
è  un  derivato  di  moisson,  lat.  messionem;  lo  spagnuolo  dice  segar,  recoger  las  mieses) 
forma  il  proprio  perfetto  alla  maniera  dei  verbi  deboli  (mietei).  Con  tutto  ciò  mi  par 
dimostrato  a  sufficienza,  che  mes  può  stare  per  messuit ,  né  v' è  necessità  alcuna  di 
riportarlo  a  misit. 

Quanto  a  foiso,  non  può  esser  dubbia  la  sua  provenienza  da,  fusionem.  Da.  fusio- 
nem  così  il  provenzale  ed  il  francese  come  l' italiano  han  dedotte  due  forme  paral- 
lele, 1' una  strettamente  conforme  al  tipo  latino,  l'altra  con  attrazione  o  con  caduta 
dell' ^.•  ■proY.  fusio  e  foiso,  fr.  fusion  e  foison,  it.  fusione  e  fusone,  quest'ultima  usata 
soltanto  nel  modo  avverbiale  antiquato  a  fusone:  Leggeri  d' arme,  con  balestri  e  dardi 
e  giavellotti  a  fusone  (Gr.  Vili.  8,  78,  4);  JE  oltre  a  questo,  pece,  olio  e  sapone  Sopra  lo 
stuol  gittavano  a  fusone  (Bocc.  Tes.  1,  52).  E  notevole  questo  fatto  comune  al  pro- 
venzale, al  francese  e  all'  italiano  dell'  aver  riprodotto  lo  stesso  vocabolo  latino  in 
due  diverse  maniere,  e  tanto  più  notevole  in  quanto  che  non  solo  le  due  forme  si 
sono  svolte  nelle  tre  lingue  con  procedimento  analogo ,  ma  vi  hanno  preso  ciascuna 
rispettivamente  il  medesimo  significato;  poiché  fusio,  fusion  e  fusione  denotano 
tutte  e  tre  l'atto  e  l'effetto  del  fondere,  mentre  foiso,  foison  e  fusone  valgono 
abbondanza,  quantità  grande.  '  E  poi  chiaro,  che  il  significato  di  abbondanza,  che 
s'  è  fissato  nelle  voci  della  seconda  maniera ,  non  è  che  un'  estensione   del   valore 


'  Noto  qui  una  svista  nel   Dizionario  del  Littrè,  ohe  sotto  foison  assegna  per  corrispondente  a  foison  fr. 
il  prov.  fusion,  mentre  avrebbe  dovuto  contrapporgli /oi50, /oì50h. 


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originario  del  latino /wsio,  spandimento,  versamento;  in  quanto  che  all'idea  dello 
spandere,  del  versare,  si  è  associata  quella  dello  spandere,  del  versare  con  profu- 
sione. Se  non  ohe  nella  frase  dell'  antico  francese,  allegata  dal  Diez,  avoir  foison, 
la  voce  foison  riceve  un'  ulteriore  modificazione  del  proprio  significato,  cioè  in 
vece  di  abbondanza,  di  quantità  o  misura  più  che  sufficiente,  denota  semplice- 
mente «  sufficienza,  »  e  auoir  foison  vale  propriamente  aver  in  sé  quanto  basta, 
esser  sufficiente,  come  avoir  besoin,  avoir  fante  ecc.,  esser  bisognoso,  mancare.  Che 
tale  sia  il  preciso  significato  di  avoir  foison  apparisce  chiaramente  da  tutti  gli 
esempi  a  noi  noti  della  detta  frase,  sia  da  quelli  citati  dal  Diez,  sia  da  quelli  re- 
gistrati dal  Lacurne  e  dal  Littré;  per  es.  Cantre  lor  cop  n'ait  nule  arme  foison  (Gerard 
de  Viano  v.  2813,  sec.  XIII),  contro  il  lor  colpo  niun' arme  è  sufficiente  (basta 
a  resistere,  può  reggere;  cf.  Virg.  Aen.  9,  810:  Nec  sufficit  umbo  ictibus);  Quanque 
lor  toil  ne  m'a  foison  (Roman  de  Partonopeus  de  Blois,  sec.  XIII),  qualunque 
cosa  tolgo  loro  non  mi  basta  (non  mi  sodisfa,  non  mi  fa  prò),  ecc.  Lo  stesso  dop- 
pio significato  di  abbondanza  e  di  sufficienza  si  riscontra,  del  resto,  nel  derivato 
foisonìier;  cf.  frane,  mod.  Cette  province  foisonne  (abbonda)  en  blés ,  foisonne  en  vins 
(Dict.  de  l'Académie)  ;  frane,  ant.  A^e  poreient  pas  foisonìier  les  vis  jjour  les  mors  en- 
ferrer  (Roman  de  Brut,  sec.  XII),  non  potrebbero  bastare  i  vivi  per  seppellire  i 
morti.  E  insomma  avvenuto,  rispetto  al  frane. /ofso?i ,  lo  stesso  scambio  d'accezione 
che  s'è  verificato,  sebbene  in  ordine  inverso,  nel  frane,  assez,  prov.  assatz,  it.  assai, 
che  in  origine  valsero  a  bastanza,  a  sufficienza  {ad  satis),  e  passarono  di  poi  a  signifi- 
care anche  molto.  '  Così  che  l' idea  fondamentale  espressa  da  foison,  anche  nell'  an- 
tico francese,  è  sempre  quella  di  quantità,  di  misura  più  o  meno  grande,  non  quella 
di  effetto;  e  manca  quindi  il  precipuo  fondamento  alla  supposta  locuzione  proven- 
zale metre  foiso  in  senso  di  conseguir  1'  effetto  che  si  desidera. 

Rimane  ad  esaminare  il  concetto  racchiuso  nell'  intera  frase  Kon  i  mes  foiso, 
così  come  la  intendo  io ,  cioè  Non  ci  mietè  una  messe  abbondante,  non  fece  gran  frutto 
(col  suo  sermonare).  A  me  pai'e,  che  tale  interpretazione  sia  avvalorata  non  poco 
dall'uso  frequente  nel  latino  popolare,  assai  più  frequente  che  nel  latino  classico,  di 
metere,  messis  in  senso  figu.rato;  come  si  può  scorgere  dal  modo  proverbiale  riferito 
da  Cicerone:  Ut  sementem  feceris  ita  vietes  (De  Or.  2,  64,  261),  al  quale  fa  riscontro 
Quae  seminaverit  homo,  liaec  et  metet  di  S.  Paolo  {ad  Gal.  6,7)  e  Di  mia  semenza  cotal 
paglia  mieto  di  Dante  {Purg.  14,  85);  e  non  meno  dai  seguenti  esempi  di  Plauto  :  Eoruvi 
(cioè  morum  malorum)  licei  iam  messem  metere  maximam  {Trin.  1,1,  11),  dove  messem. 
metere  maximam  equivale  perfettamente  al  prov.  medre  foiso;  Uberem  messem  mali  {Rud. 
3,  2,  23);  Pro  benefactis  cummali  messem  metas  {Epid.  5,  2,  53).  Più  aiuto  ancora  si 
ha  dal  linguaggio  delle  scritture  che  assomigliano  spesso  la  parola  di  Dio  alla  buona 


Lo  stesso  rapporto  ideologico  è  quello  clie  ha  servito  di  baso  alla  balzaua  etimologia  del  latino  oppido, 
per  valde ,  multavi ,  dataci  da  Paulo  (Fest.  184 ,  6):  Ortum  est  autem  hoc  verbum  ex  sermone  inter  se  co^fabulantium , 
quantum  quiaque  frugum  faceret,  utque  multitudo  signiflcaretur ,  saepe  respondebatur  «  Qaantnm  ve!  oppido  satis 
esset.  »  //ine  in  consuetudinem  venit,  ut  diceretur  oppido  pi-o  valde ,  multum. 


—  55  — 

sementa,  e  paragonano  il  frutto  che  se  ne  raccoglie  ai  prodotti  della  terra;  cf.  Matt., 
Gap.  XIII;  Marc,  Gap.  IV;  Lue,  Gap.  Vili;  Giov.,  Gap.  Ili,  36.  Per  ultimo,  non 
è  da  pretermettere  l' uso  che  Dante  fa  della  stessa  similitudine  laddove  {Farad.  XI , 
100)  tratteggiando  la  vita  di  S.  Francesco,  dopo  aver  detto  che  Nella  presenza 
del  Soldan  superba  Predicò  Cristo  e  gli  altri  che  il  seguirò ,  seguita  :  E  per  trovare  a 
conversione  acerba  Troppo  la  gente ,  per  non  stare  indarno,  Eeddissi  al  frutto  dell'  italica 
erba;  cioè  vedendo  di  non  poter  fare  più  frutto  in  quelle  parti,  si  dispose  di  ri- 
tornare tra  i  fedeli  d' Italia  per  adempiere  ivi  con  miglior  successo  la  sua  missione 
(cf.  Fioretti,  4). 


G-.  B.  Gandino. 


MOLIERE'S  DON  JUAN. 


Die  spanische  Sage  von  dem  Verfuhrer  Don  Juan  und  seinem  schrecklichen 
Ende,  welche  in  dem  grossartigen  Drama  Tirso's  de  Molina  ihre  poètische  Gestal- 
tung  erhalten  batte,  wtirde  in  Frankreich  zwischen  1658  und  1669  nicht  -weniger 
als  vier  Mal  fiir  die  BtOine  bearbeitet.  Die  italienischen  Schauspieler  stellten  einen 
Convitato  di  Pietra  in  der  Form  der  Commedia  dell'arte  auf  ilirem  Tbeater  im  Petit- 
Boiirbon  dar,  und  das  Publikum  fand  daran  so  viel  Gefallen,  dass  nun  jede  der 
franzòsischen  Truppen  ihren  Don  Juan  haben  wollte  (s.  Rosimonds  Vorrede).  Den 
Anfang  machten  die  Schauspieler  von  Mademoiselle ,  welche  1658  in  Lyon  das 
Stiick  Dorimonds  auffiihrten:  Le  Festin  de  Pierre  ou  le  Fils  Crìminel,  tragi-comédie, 
gedruckt  zuerst  in  Lyon  bei  Offray,  1659;  in  Paris  gaben  sie  es  seit  1661,  und  1665 
ward  es  daselbst  neu  gedruckt  unter  dem  Titel:  Le  Festin  de  Pierre  ou  l'Athée 
Foudroyé,  dami  noch  ofter,  auch  irrthiimlich  an  Stelle  von  Molière's  Don  Juan,  in 
den  Ausgaben  seiner  "Werke  von  Amsterdam,  1675,  1684,  1691;  die  erste  derselben 
(voi.  n)  habe  ich  benutzt  ;  ein  kiirzlicher  Neudruck  in  Schweitzers  Molière-Museum, 
Heft  2,  war  mir  nicht  zugànglich.  Der  Titel  Festin  de  Pierre,  welcher  fiir-  alle 
franzòsischen  Bearbeitungen  ilblich  wurde,  benihte  auf  einem  Missverstandnisse, 
nach  Mesnard  (Oeuvi'es  de  Molière,  V,  10)  keinem  so  schlimmen,  da  man  nach 
seiner  Ansicht  «  steinernes  Grastmahl  »  zu  verstehen  hàtte,  nicht  «  Gastmahl 
Peters  »  ;  freilich  miisste  dann  ein  ueues  Missverstàndniss  in  den  ersten  der  franzò- 
sischen Stiicke  dem  Comthur  gerade  diesen  Namen  verschafft  haben,  den  er  bei 
Tirso  (Gonzalo)  und  den  Italienern  nicht  fiihrt;  bei  Molière  ist  sein  Name  nirgend 
genannt,  wie  er  ja  hier  uberhaupt  eine  ganz  untergeorduete  Rolle  spielt.  Es  folgte 
De  Villiers'  Tragicomòdie,  1659  im  Hotel  de  Bourgogne  gegeben,  gedruckt  1660  unter 
dem  Titel:  Le  Festin  de  Pierre  ou  le  Fils  Criminel,  tragi-comédie,  traduit  de  Vltalien 
en  Francois,  neu  herausgeg.  von  W.  Knorich,  Heilbronn,  1881.  Molière's  Dom  Juan 
ou  le  Festin  de  Pierre  kam  am  15.  Febr.  1665  auf  die  Biihne;  den  Schluss  bildete 
das  Nouveau  Festin  de  Pierre  eu  l'Athée  Foudroyé,  tragi-com.  von  Rosimond,  im  Marais- 
Theater  Nov.  1669  aufgefllhrt,  gedr.  1670,  new  bei  Fournel,  Contemporains  de  Mo- 
lière, ni  (Paris,  1875),  p.  225  ff. 


—  58  — 

Die  Franzosen  haben  wenigstens  m  der  Hauptsache  deu  Stoff  uicht  aus  dem 
spanischeu  Originai  direkt  eutlehut,  sonderu  sie  Jialimen  ihn  von  den  Italienern 
heriiber;  darin  stimmen  alle  Zeugiiisse  iibei'ein;  De  Villiers  nemit  sein  Stiick  auf 
dem  Titel  aus  dem  Italienischen  iibersetzt;  Rosimond  sagt  in  seiner  Vorrede:  Les 
comédiens  italiens  l'ont  ajjporté  (le  siijet)  en  France,  et  il  a  fait  tant  de  hridt  chez  etix, 
que  toutes  les  troujjes  en  ont  voulu  régaler  le  jjidilic.  Sliadwell  in  der  Vorrede  seiues 
Libertine  (1676,  s.  Mesnard,  p.  13)  bemerkt,  von  den  Spaniern  hatten  den  StoiF  die 
italienischen  Schauspieler  erhalten,  und  von  diesen  wiederum  die  Franzosen. 
Molière  selbst  muss  sich  beztiglich  des  italienischen  Ursprungs  seiues  Stoffes 
geàussert  haben;  denn  das  Pamphlet  Rochemonts  "wirf't  ihm  vor  (bei  Mesnard, 
p.  224) :  Molière  a  très  mauvaise  raison  de  dire  quii  n'a  fait  que  traduire  tette  pièce  de 
l'italien  en  francois;  car  je  lui  jìourrois  repartir  que  ce  nest  point  là  notre  coutume  ni 
celle  de  VEglise.  L'Italie  a  des  vices  et  des  libertés  que  la  France  ignare. 

Das  Natllrlichste  wàre  hiernach  anzunehmen,  dass  das  Originai  der  franzòsischeu 
Stilcke  eben  jene  Commedia  dell'arte  gewesen  sei,  welche  die  Italiener  naoh  Paris 
gebracht  hatten,  und  welche  tiberhaupt  ja  die  Anregung  zu  ali  diesen  Produktionen 
gab.  Zu  voller  Gewàssheit  kann  man  freilich  hier  uicht  gelangen,  weil  eine  durch- 
gehende  Vergleichung  uumòglich  ist.  Das  scenario  des  italienischen  improvisirten 
Stilckes  ist  uns  nur  zum  Theil  tìberliefert,  und  zwar  ausfiihrKcher  nur  ftlr  die  Par- 
thieu,  in  denen  Arlecchino  eine  Rolle  spielte;  ja  auch  diese  Fragmente  stammen 
nicht  aus  der  ersten  Zeit  der  Auffiihrungen ,  sondern  aus  einer  weit  spàteren 
Aufzeiclmung,  haben  also  mòglicherweise  Ziige  aus  den  franzòsischeu  Stiicken  selbst 
aufgeuommeu  (vgl.  Moland,  Oeuvres  de  Molière,  III,  344.  Jenes  unvollstandige 
scenario  ist  abgedruckt,  ib.  p.  345  fF.  und  bei  Moland,  Molière  et  la  Comédie  Ita- 
liemie,  p.  192  fF.).  Ladessen  empfiehlt  sich  eine  solche  Annahme  betreffs  der  Quelle 
der  franzòsischeu  Drameu  auch  dadurch,  dass  sie  uns  am  einfachsten  ihre  gròssere 
und  geriugere  Uebereiustiinmung  mit  dem  Werke  Tirso's  de  Molina  erklàrt.  Mesnard 
hat  (p.  27  ff.)  gezeigt,  dass  die  Commedia  deU'  arte  aus  einer  literariseheu  italieni- 
schen Comòdie  geschòpft  ist,  nàmlich  dem  Convitato  di  Pietra  von  Cicognini;  die 
Uebereinstimmungen  sind  so  augenscheinlich ,  dass  man  nicht  daran  zweifeln  kann. 
Leider  sind  Mesnards  Angaben  llber  die  mir  uicht  zugàugliche  Comòdie  Cicoguini's 
(p.  22  ff.)  recht  mager;  doch  gelit  aus  ilmen  hervor,  dass  dieselbe  Tirso  de  Molina  am 
Aufange  und  am  Ende  sehr  uahe  blieb  ;  auch  die  Namen  der  Personen  werden  wohl 
die  nàmlicheu'  gewesen  sein;  wenigstens  hiess  der  Comthnr  noch  Oliola  (span.  UUoa). 
So  hat  denn  auch  die  Commedia  dell'  arte  noch  vielerlei  mit  Tirso  gemein,  was  die 
spàteren  Bearbeitungen  uicht  mehr  bieten.  Die  Toohter  des  Comthurs  heisst  hier 
noch  Donna  Anna;  ihr  Brautigam  tràgt  wenigstens  deu  Namen  der  einen  von 
Tirso's  Personen,  Ottavio;  Donna  Anna  sucht  beim  Kòuige  Gerechtigkeit ,  wie  die 
betrogenen  Màdcheu  im  Burlador  de  Sevilla.  Die  Fischerin  Rosalba  halt  wie  Tirso's 
Tisbea  den  vom  Schiffbruche  besinnungslosen  Don  Juan  in  ihren  Armeu,  wird  von 
ihm  durch  ein  Heirathsversprechen  verfiihrt,  stilrzt  sich  betrogeu  in  das  Meer,  wie 
Tisbea  es  zu  thuu  beabsiohtigt.  Don  Juan  sagt  zu  Rosalba:  Si  je  ne  vous  donne  pas 


—  59  — 

la  maiìi  d'un  époux,  je  ueux  ètre  tue  par  un  homme....  un  liomme  qui  soit  de  pierre,,  n'est-ce 
pas,  Arlequinì  tind  der  Don  Juan  Tirso's  zu  Aminta  (III,  7):  Me  de  imierte  un 
hombre....  (Muerto,  Que  vivo,  Dios  no  permita).  Arlecchino,  in  das  Grabgewolbe 
tretend,  bemerkt:  Il  faut  que  la  blanchisseuse  de  la  maison  soit  morte;  car  tout  est  hien 
noir  ici,  wie  Catalinon  (III,  21):  Mesa  de  Guinea  es  està.  Pues  f^  no  hay  por  alici  quien 
lave'?  Der  Don  Juan  der  Commedia:  Je  mangerais,  quand  tu  me  servirais  tous  les  ser- 
pents  d'enfer^  und  derjenige  Tirso's  (III,  21):  Comeré,  Si  me  dieres  dspid,  dspides 
Cuantos  el  infierno  tiene.  Wie  bei  Tirso  so  in  der  Comòdie  erschallen  in  dem  Grabge- 
wolbe traurige  Gesànge.  Es  fragt  si  eh,  ob  alle  diese  Einzelheiten  auch  bei  Cicognini 
vorhanden  sind,  oder  ob  der  Verfasser  des  scenario  hie  und  da  ax\i  das  spanische 
Originai  zuruckgegriffen  hat.  Von  Dorimond  und  De  Villiers  steht  der  erstere  dem 
scenario,  «oweit  es  iiberliefert  ist,  und  im  iibrigen  Tirso  de  Molina  bedeutend 
nàher.  Vor  allem  ist,  wie  Mahrenholtz  mit  Recht  bemerkt  (Archiv  £  das  Stud.  d. 
neueren  Sprachen,  63,  183),  '  Dorimonds  Don  Juan  nicht,  wie  der  De  Villiers', 
Athe'ist,  sondern  bei  aller  Simdhaftigkeit  glaubig  wie  der  Tirso's;  es  felilen  die 
Bravaden  gegen  die  Gòtter  in  der  Scene  mit  Alvaros  (I,  5),  und  dem  Geiste  gegen- 
iiber  erkennt  Don  Juan  ausdriicklich  die  AUmacht  Gottes  an;  der  Titel  l'Athée 
Foudroyé  passt  daher  gar  nicht  und  hat  sich  erst  nachtràglich  eingefunden.  Bei  De 
Villiers  trifft  Don  Juan  nach  dem  Schiffbruche  zwei  Schaferinnen  und  bemàchtigt 
sich  der  einen  mit  brutaler  Gewalt,  worauf  Philipin  der  anderen  die  Liste  der  von 
seinem  Herrn  Betrogenen  zeigt.  Bei  Dorimond  findet  Don  Juan  Amarante  allein 
und  gewinnt  sie  durch  Versprechen  der  Ehe,  wie  in  der  Commedia  und  bei  Tirso, 
und  ihr  sebst  zeigt  Briguelle  spater  die  Liste,  wie  Arlecchino  der  betrogenen  Ro- 
salba. Die  Entflihrung  bei  der  Bauernhochzeit  folgt  in  der  Commedia  und  bei  Do- 
rimond alsbald  auf  jene  Verfiihrung  der  Rosalba- Amarante  (nur  bei  Dorimond  vor 
der  Klage  des  Madchens,  in  der  Commedia  verstandiger  nach  dieser)  und  die  Scene 
vor  dem  Grabmal,  wàhrend  De  Villiers  die  Bauernhochzeit  in  den  5.  Akt  vor  den 
Besuch  im  Grabmale  des  Comthurs  setzt.  Dorimonds  Briguelle  weiss  von  Don  Juan 
die  Erlaubniss  zum  Beginnen  der  Mahlzeit  vor  Erscheinen  des  Gastes  zu  erhalten, 
indem  er  ihm  von  eiuer  Liebsehaft  redet,  und  wird  dann  von  ihm  bestandig  mit 
Fragen  unterbrochen ,  wie  Arlecchino;  auch  bei  De  Villiers  hat  eiu  solches  Fragen 
des  Herrn  statt,  aber  es  handelt  sich  dabei  nicht  um  Liebesangelegenheiten.  De 
Villiers  endet  damit,  dass  die  Bauern  Philipin  nach  Don  Juans  Untergang  am 
Boden  liegend  finden;  dagegen  bildet  bei  Dorimond,  nachdem  der  Himmel  den 
Gouverneur  geràcht  hat,  den  Schluss  die  Heirath  Amarille's  mit  Dom  Philippe, 
entsprechend  den  vier  Heirathen  am  Ende  des  Burlador.  Auch  hier  ist  wieder  zu 
fragen,  ob  Dorimond  Uebereinstimmuugen  mit  Tirso  bietet,  welche  die  Commedia 
dell'arte  nicht  ebenfalls  batte,  woriiber,  da  diese  nur  theilweise  bekannt  ist,  Cico- 


'  Dieser  Ruhm  bleibe  Malu-enholtz,  cler  wicli  im  iibrieren  iiin  den  Don  Juan  nicht  so  vie!  Verdienste  erworben 
hat,  wie  er  selber  glaubt;  die  meisten  anderen  Unterschiede,  welche  er  zwisclien  Dorimond  und  Do  Villiers  ent- 
deckte.  ergeben  sich  aus  einer  ganz  fehlerhaften  Analyse  von  dem  Stiicke  des  letzteren. 


—  60  — 

gnini's  Stilck  wenigstens  vermutkungsweise  belehreu  kònute  ;  hat  Dorimoud  etwas 
von  Tirso,  was  man  bei  Cicognini  vermisst,  so  mixsste  man  direkte  Beuutzung 
des  spauischen  Originals  annehmen  ;  im  andern  Falle  konnte  er  AUes ,  worin  er  von 
dem  italieuisclieu  Stlicke  abweioht,  selbst  dazu  erfunden  liaben.  De  Villiers 
seùierseits  kat  kauptsachlich  aus  Dorimonds  Werke  geschòpft;  von  da  ist  fast  der 
ganze  Gang  der  Handlung  und  sind  auch  die  wichtigsten  Namen  (ausser  dem  des 
Pliilipin)  entlehnt.  Von  seinen  Hauptànderungen  war  schon  die  Rede.  Weniges 
fìndet  sich,  was  er  direkt  aus  der  Commedia  dell'arte  haben  muss.  Es  ist  dies  der 
Fall  mit  dem  Gesange  Philipins  ver  dem  Schatten  bei  Don  Juans  Gastmabl.  Bei 
Tirso  de  Molina  (IH,  13)  wird  gesungen,  aber  hinter  der  Scene,  iind  ein  Lied  von 
der  Leichtfertigkeit  in  der  Liebe,  ohne  bestimmten  Bezug.  Catalinon  erinnert  hier 
an  die  betrogenen  Madchen,  und  als  er  auf  Doiìa  Ana  kommt,  gebietetiitm  Don 
Juan  zu  schweigen ,  weiL  es  den  Gast  verletze.  In  der  Commedia  dell'  arte  singt 
Arlecchino  und  bringt  eine  Gesundheit  auf  Donna  Anna  aus,  auf  seines  Herren 
Befekl;  der  Geist  verneigt  sich.  Bei  Dorimond  weigert  sich  Briguelle  zu  singen. 
Bei  De  Villiers  nun  tragt  Philipin  ein  Lied  allgemeinen  Inhalts  vor;  Don  Juan 
fordert  ihn  auf  von  Amarille  zu  singen,  indem  er  sich  (wider  die  Wahrheit)  des 
combat  ^«^«e  rtìhmt,  was  den  Schatten  verletzt.  Auch  mit  Tirso  stimmt  De  Villiers 
in  einer  Meinigkeit  gegen  Dorimond  iiberein;  Catalinon,  der  sich  weigert,  beim 
Esseu  mit  dem  Geist  Platz  zu  nehmen,  sagt  (HI,  13):  Seììoì-,  vive  Dios,  que  ìmelo 
mal,  und  Philipin  (V,  2):  Jiistes  Di.eux!  que  ferai-je?  L' Ombre  ou  moi  sentons  mal.  Steht 
das  bei  Cicognini?  Einen  solchen  Zug  liess  sich  Arlecchino  wohl  kaum  entgehen; 
die  Farce  wird  ihn  gehabt  haben. 

Danach  scheint  also  die  Genealogie  der  Stiicke  diese  zu  sein:  aus  Cicognini's 
Comodie  stammt  di  Harlekinade,  aus  dieser  Dorimonds  Festin,  und  aus  Dorimond 
und  Harlekinade  die  Tragicomodie  De  Villiers'.  AUein  gegen  eine  solche  Auffassung 
macht  man  die  Angabe  auf  dem  Titel  von  De  Villiers'  Stùck  geltend,  dass  es  aus 
dem  Italienischen  iibersetzt  sei.  Das  Originai  meint  man  somit  nicht  in  Dorimonds 
Stiicke  suchen  zu  dùrfen,  auch  nicht  in  der  Commedia  deU'  arte,  da  von  ihr  De 
Villiers  viel  zu  sehr  abweioht,  um  sie  iibersetzt  haben  zu  kònnen.  Aus  demselben 
Grande  ist  nicht  an  Cicognini's  Convitato  di  Pietra  .zu  denken.  Nun  hat  man  die 
Erwàhnung  eines  anderen  Convitato  di  Pietra  aufgefunden  von  einem  Onofrio  Gili- 
berti  aus  Solofra;  '  das  Stùck  ist  heut'  trotz  aller  Bemtihungen  nicht  mehr  aufzutrei- 
ben;  wie  es  beschaffen  gewesen,  weiss  man  nicht;  aber  um  nicht  noch  einen  dritten 
italienischen  Don  Juan  annehmen  zu  miissen,  von  dem  sich  gar  keine  Spur  fande, 
glaubt  man  jetzt  allgemein ,  dieses  Stiick  Giliberti's  sei  es,  welches  De  Villiers  liber- 
setzte;  und  da  Dorimonds  Werk  ihm  so  nahe  steht,  so  mtìsste  auch  er  jene  verschwun- 
dene  Comodie   als  seine  Hauptquelle   benutzt  haben.  Freilich  ware  es  auflPaUend, 

'  In  Allacci'?  Drammaturgia  und  noch  bei  Goldoni  in  dei-  Vorrode  zu  seinem  Don  Oiovanni  Tr.norio  (1736)  wo 
es  heisst:/a  in  italiano  tradotta  da  Giacinto  Andrea  Cicognini,  Fiorentino,  ed  anche  da  Onofrio  Oiliberto  Napoletano, 
pochiaaima  differenza  essendovi  fra  queste  due  traduzioni.  Darf  man  ihm  also  glauben,  so  untersohied  sich  Giliberti's 
Stiick  selli'  wenig  von  dem  Cicognini's,  und  dann  kSunto  das  De  Villiers' gar  nicht  desseu  Uebersetzung  sein. 


—  61  — 

dass,  nachdem  die  Italiener  den  G-egenstaud  nach  Frankreich  gebracht  hatten,  man 
in  den  Prodnktionen ,  welclie  sie  damit  hervorriefen ,  uicht  ihre  eigene  Anffiihrung 
nachahmte,  aucL  nicht  das  Stiick,  welches  ihnen  als  Originai  diente,  und  allgemei- 
ner  bekannt  war,  soudern  ein  auderes,  das  wahlgeringe  Verbreitung  gehabt  haben 
mnss ,  wenn  es  so  spurlos  verloren  gehen  konnte.  Ferner  wird  damit  das  Verhaltniss 
zu  den  anderen  Quellen  ein  verwickeltes.  Dorimond  batte  ausser  Giliberti  auch  die 
Commedia  dell'arte  und  Tirso  de  Molina  benutzt;  den  Charakter  des  Don  Juan 
bàtte  er  mit  einem  Geschicke  umgebUdet,  wie  man  es  bei  seiner  sonstigen  Plattlieit 
schwer  begreift,  und  bei  dieser  Umbildung  wàre  er,  wunderbarer  Weise,  gerade  wie- 
der  auf  den  Staudpunkt  Tirso's  zurilckgekehrt.  De  Vniiers  batte,  indem  er  llbersetzte, 
doeb  wieder  Dorimonds  Stiick  mitbenutzt.  Die  Sammlung  von  iibereinstimmenden 
Reimwor-ten,  welche  Kuoricb  (p.  XIII  f.)  giebt,  und  zu  der  sich  noch  Ausdriicke  in- 
nerhalb  des  Verses  fiigen  lassen,  ist  durcbaus  iiberzeugend  und  làsst  sich  nicht 
durch  blossen  Zufall  erklaren.  Auch  den  Namen  Amarille  fiir  die  Tochter  des  Com- 
thurs  kann,  wie  ich  glaube,  De  ViUiers  nur  von  Dorimond  haben  ;  ein  Italiener  koimte 
Amarilli  bòchsteiis  eine  der  Schaferinnen  nennen  (bei  Rosimond  heisst  Amarille  die 
Bauembraut  im  5.  Akte).  Und  andererseits ,  ist  demi  jenes  Raisonnemeut,  welches 
sich  einzig  und  allein  auf  das  traduit  de  l'ìtalien  des  Titelblattes  griindet,  ein  so 
unanfechtbares  ?  Man  hat  den  Ausdruck  traduit  ehedem  ofters  in  einer  Weise 
verwendet,  welche  uns  irre  fiihren  wiirde,  wemi  wir  es  damit  so  genau  nàhmen, 
theilweise  geradezu  um  zu  ttìuschen,  theilweise  in  weitem  Sinne  von  blosser 
Heriibernahme  des  Lihaltes  oder  Gegenstandes.  Die  Comédie  des  Comédìes  (1639) ,  in 
welcher  Balzac  verspottet  ward,  nannte  sich  traduit  de  Vitalien  und  war  es  dodi 
bestimmt  nicht.  Rochemont  wirft  Molière  vor,  sich  mit  Unrecht  der  Entschul- 
digung  zu  bedienen ,  qu'il  n'a  fait  que  traduire  cette  pièce  de  Vitalien  et  la  mettre, 
en  francois  (bei  Mesnard  p.  224).  Scarrons  Nouvelles  tragicomiques  nennen  sich  tra- 
duites  de  Vespagnol  und  sind  es  wenigstens  sicherlich  nicht  alle.  Auch  Goldoni  be- 
zeichuet  di  Stiicke  Cicoguini's  und  Giliberti's  als  Uebersetzungen  von  Tirso's  Dra- 
ma;  aber  wàre  De  ViUiers'  Stiick  wirklich  die  Uebersetzuug  einer  Uebersetzung  des 
letzteren  in  unserem  Sinne ,  wie  ganz  anders  miisste  es  aussehen  !  De  Villiers  ,• 
in  seiner  Widmung  an  Corneille,  redet  von  dem  peii,  d'invention,  welches  er 
aitf  den  Gegenstand  verwendet  habe;  mag  seine  Erfindung  gering  sein,  so  ist  sie 
doch  nicht  Nuli,  und  danacli  hat  er  nicht  bloss  tibersetzt  in  unserem  Sinne.  AUein, 
was  mehr  ist,  De  Villiers  hat  ebeudaselbst  ausdriicklich  Dorimonds  Stiick  und  das 
der  italienischen  Comòdianten  in  Paris  als  seine  Originale  bezeichnet,  in  der  so  oft 
citirtèu  und  stets  so  schlecht  erklàrten  Stelle:  Les  Frangois  à  la  campagne  (d.  h.  die 
Truppe  von  Mademoiselle  in  Lyon),  et  les  Italiens  à  Paris,  qui  en  ont  fait  tant  de  bruit, 
n'en  ont  jamais  fait  voir  qu'un  iniparfait  originai,  que  notre  copie  surpasse  infiniment. 
Mesnard  sagt  dazu  (p.  17):  «Gomme  il  s'exprime  d'ailleurs  modestement  sur  le  mo- 
rite de  son  ouvrage  (die  gewohnliche  falsche  Bescheidenheit  der  Widmungen) ,  il  est 
clair  qu'U  ne  se  iiatte  que  d'une  fidélité  de  traduction  plus  parfaite  que  celle  de 
Dorimond  et  des  Italiens  du  Petit-Bourbon.  »  Aber  wie  wunderlich  bàtte  sich  da 


De  Villiers  ausgedrilckt!  Er  batte  cloch  sageu  mlisseu:  ih  n'ont  jamait  fait  voir 
(ju'invparfaitement  l'originai  oder  une  cojiie  iviparfaite  de  l'originai;  denn  das  Originai 
ist  ja  nicht  voUkommen  oder  unvollkommen ,  je  nachdein  man  es  gut  oder  schlecht 
iibersetzt.  Vielmehr  sagt  De  Villiers  klar  iiud  deutlich,  dass  die  Stticke  Dorimonds 
imd  der  italieuischen  Schauspieler  das  Originai  seien,  welclies  er  vervollkommene, 
indem  er  es  nachahme,  gerade  wie  z.  B.  Corneille  seinen  Menteur  die  Copie  des  spa- 
nischen  Stiickes  nannte,  aus  dem  er  schòpfte.  Man  wendet  ein,  dass  ein  solches 
Plagiat  batte  Larm  macben  milsseu.  Aber  in  den  Dingen  des  Tbeaters  war  man 
damals  nicbt  so  empfindlicb;  man  denke,  wie  Gilbert  mit  der  Rodogune  Corneille's 
verfubr,  obne  dass  dieser  die  Sacbe  beacbtete;  Rosimond  bat  Molière's  Don  Jnan 
ftlr  den  seinen  sehr  stark  benutzt,  und  De  ViUiers  gestebt  dodi  eben  selbst,  dass 
er  copire.  ' 

Molière  mussten  natlirlicb  die  Stticke  seiner  Vorganger ,  welcbe  in  Paris  gege- 
ben  wurden,  bekannt  sein.  Ob  er  Cicognini's  Comòdie  benutzt  bat,  lasst  sicb  nicbt 
sagen;  denn  wir  wissen  nicht,  wie  viel  aus  jener  in  die  Commedia  dell'arte  iiberge- 
gangen  war ,  wie  sicb  denn  iii  beiden  der  Ausruf  des  Dieners  am  Ende  Ah,  mes  gages! 
findet,  den  Molière  seinem  Sganarelle  in  den  Mund  legt.  Aucb  ob  er  von  Tirso  de 
Molina  direkt  etwas  entlebnt  bat,  vermag  icb  nicbt  zu  entscbeiden.  Bei  jenem  sagt 
Don  Juan  (III,  13)  zum  Geiste  :  Aguarda,  irete  alumbrando,  und  Don  Gonzalo:  Ao  nlmn- 
hres ,  qii£.  en  grada  estoy,  wozu  MoHère's  Ende  des  4.  Aktes  stimmt  :  Don  Juan  zu  Sga- 
narelle: Prends  ce  flambeau.  Die  Statue:  On  n'a  pas  besoin  de  lumière,  quand  on  est 
conduit -par  le  ciel;  aber  abnlicbes  stebt  aucb  bei  Cicognini  (s.  Mesnard,  p.  24),  und 
vielleicbt  stand  es  in  der  Harlekinade,  wo  wir  die  Stelle  nicbt  baben.  Bei  Tirso 
(III,  21)  sagt  Don  Gonzalo:  Dame  esa  mano.  No  temas  la  mano  danne.  Don  Juan:  ^;  Eso 
dices?  yo  temor.  {le  da  la  mano.)  Que  me  abraso,  no  me  abrases  con  tu  f  nego.  Molière,  V,  6, 
die  Statue:  Donnez-moi  la  main.  Don  Juan:  La  voilà....  Don  Juan:  OCiel!  que  sens-je? 
Un  feti,  irrésistible  me  brille,  je  n'en  puis  plus,  et  tout  mon  corps  devient  un  brasier  ardent. 
Bei  Dorimond  fasst  der  Geist,  oline  zu  sprecben.  Don  Juan  bei  der  Hand,  und  aucb 
dieser  redet  nicbt;  De  Villiers  bat  nicbts  von  alledem.  Wie  ist  es  bei  Cicognini? 
Die  Aebnbcbkeiten,  welcbe  Mabrenboltz  (Franz.  Studien,  II,  176  f.)  auffubrt,  sind 
sehr  gering  und  beweisen  nicbts.  Bei  Tirso  scbwort  Don  Juan  der  Aminta ,  bei  Mo- 
Hèi-e  will  er  der  Charlotte  schwòren,  die  es  hindert;  aber,  wie  wir  salien,  bat  aucb 
die  Commedia  dell'  arte  den  Scbwur  und  sogar  mit  denselben  "Worteu  Tirso's.  Die 
Uebereinstimmung  in  dem,  was  Don  Juan  vor  dem  Grabmal  redet,  ist  ganz  ima- 
ginàr.  Aucb  dass  Don  Juan  das  Schwert  gegen  das  Gespenst  erbebt,  welches  vor 
der  Statue  erscheiut,  wie  Tirso's  Don  Juan  gegen  Don  Gonzalo  selbst,  ist  von 
keiner  Bedeutung;  dazu  zeigt  aucb  Dorimonds  Don  Juan  dem  Geiste  das  Schwert 
(V,  8)  und  sagt:  Guy,  cefer  armeroit  ma  main  cantre  un  tonnerre. 


'  Malrrenholtz,  Nfrz.  Ztschrt't.,  IV,  Helt  8,  p.  275  IT.  meint  .jetzt,  De  Villiers  werde  das  verlorene  Stiick  frei 
behandelt  und  vielleicht  auch  aus  Dorimond  und  der  Commedia  dell'arte  geschopft  haben.  Weshalb  brauoht  man 
da  aber  iiberhaupt  nocb  Giliberti's  Comodie  als  sein  Vorbild  anzusehen  ? 


—  63  — 

Indessen  gerade  flir  Molière  ist  hier  die  Erforschung  seiner  unmittelbaren  Quellen 
voli  geriugerem  Werthe  ;  denii  jedenfalls  hafc  er  deii  vorgef'undeuen  Stoff  init  der 
grossten  Freiheit  behandelt  iind  zuerst  seit  Tirso  de  Molina  aus  ihm  ein  originales 
Werk  geschalFen.  Tirso  de  Moliiia's  Burlador  de  Sevilla  y  Convidado  de  piedra  ist  ein 
Gemalde  von  diisterer  Grossartigkeit,  der  Grundgedanke  ein  streng  religioser.  Den 
Siinder ,  den  alle  Mahnungen  iind  Verwunschungen  nicht  von  seinem  verworfenen 
Treiben  haben  abbringeii  kòniien,  ereilt  plòtzlicli  die  furchtbare  tìtrafe  des  Himmels. 
Die  Erscheinniig  des  Todteu,  der  verspottet  von  dem  Verwegenen  die  Raclie  voll- 
streckt,  ist  von  dem  Dichter  mit  voller  Grlanbigkeit  dargestellt,  sie  ist  feierlich, 
grandios  und  scliauerlicli.  In  seiner  Art  ist  Tirso  von  keinem  seiner  Naclialimer  er- 
reicht  worden  ;  er  alleili  giebt  uns  den  wahrsten ,  tiefsten  Sinn  der  Sage,  und  dabei 
welche  Fiille  romantischen  Lebens  bietet  uns  sein  Drama  in  dem  bunten  Wechsel 
der  Scenen,  in  dieser  bestrickeuden ,  hochpoètisclien  Gestalt  des  Don  Juan  mit 
seiner  uuerschopilicheii  Leichtlebigkeit,  seiner  einsclimeichelnden  Verfilhrungskunst, 
mit  seiner  Unersclirockenlieit  bis  zum  letzteii  Momente ,  da  er  sich  verloren 
sieht!  ' 

Eine  solclie  poétische  Gestaltung  der  Tradition  war  damals  nur  in  Spanien 
mòglich,  inmitten  einer  Gesellschaft  von  starker  Glaubigkeit  und  erregbarer 
Phautasie.  Uudenkbar  war  dieser  tiefe  Ernst  in  der  Auffassung  des  Gegenstandes 
auf  der  italienischeu  Biihne.  Hier  fehlte  der  aufrichtige  Glaube  an  die  gòttliche 
Strafe  durch.  die  Riickkehr  eiues  Todten,  untj  es  wurde  umgekehrt  das  comische  Ele- 
ment  immer  starker  ausgebildet,  welches  ja  iu  dem  spanischen  Drama  nicht  mangeln 
durfte,  auch  im  Burlador  nicht  ganz  fehlte,  aber  doch  sehr  zuriickgedràngt  war.  Don 
Juaus  Diener  Catalinon  ist  ein  gracioso  von  seltener  Gesetztheit,  nicht  eigentlich 
possenhaft;  er  stellt  in  verniinftiger  Weise  seinem  Herru  sein  Unrecht  vor,  warnt 
ihn  vor  Gefahreii  und  Strafe,  thut  aber  stets  willig,  was  er  verlangt.  Er  ist  nicht 
eben  furchtsam,  nur  vor  dem  Geiste  hàlt  natlirlich  sein  Muth  nicht  Stand,  und  hier 
wird  auch  sein  Benehmen  ein  comisches;  es  scheint,  dass  er  sich  mit  seineu 
scherzhaften  Reden  und  Fragen  iiber  den  innerlichen  Schauder  hinweghelfen  will. 
Diese  Figur  trat  iu  den  spàteren  Bearbeitungen  weit  mehr  iu  den  Vordergruud, 
ward  ganz  zu  dem  Bedieuteu  der  italienischen  Comodie  mit  seiner  Dummheit, 
seinen  bestàndigen  Possenreissereien,  seiner  Feigheit,  seiner  Gefràssigkeit.  In  der 
italienischen  Commedia  dell'arte  iibten  neben  Maschinen  und  Decorationen ,  welche 
die  Schaulust  befriedigten,  nuumehr  die  Hauptanziehungskraft  die  Spasse  Arlecchi- 
no's,  seine  comische  Widerspenstigkeit,  sein  drolliges  Gebahren,  wenn  er,  von  sei- 
nem Herru  gezwuugen ,  alle  seine  tollen  Streiche  initmachen,  und  wider  Willen 
Gefahren  und  Schrecken  bestehen  muss,  seine  Moralisationen  und  die  Fusstritte, 


'  Auch  in  der  Charakteristik  des  Verfiìhrers  ist  Tirso  de  Molina  alien  seinen  Nachalimern  iiberlegen.  Bewun- 
dervmgswiii-dig  ist  z.  B.  der  von  keinem  anfgenommene  Zug  in  I,  12,  wo  Don  Juan,  eben  von  seinem  Diener  aus 
dem  Meere  gezogen,  besinnungslos  im  Soliosse  der  Fischerin  Tisbea  liegend,  kaum  die  Angen  aufschlagt,  und  als- 
bald  mit  einer  Liebeserklarung  beginnt. 


—  64  — 

die  er  dafiir  vou  seinem  Herrn  erhalt;  die  ehedein  so  furchtbai'e  Erscheinung  des 
Todteu  verlor  ihre  Bedeutung;  sie  ward  nur  die  Gelegenlieit  zu  neuen  Possen  fiir 
Arleccliino,  dar  alle  Aiifmerksamkeit  von  ihr  aiif  sich  lenkte.  Dennoch  haben  die 
ersten  franzosisohen  Bearbeiter  des  Stoffes  Dorimond  und  De  VtlLiers  an  dem  reli- 
giòseu  Grundgedanken,  der  Bestrafung  des  Silnders,  mit  ziemlicbem  Ernste  festge- 
halten,  wie  sie  ibre  Stiicke  auch  nicht  Comòdien,  sondern  Tragicomòdien  nannten. 
Dadurch  aber  entstand  eine  Zwiespaltigkeit  des  Eindruckes,  welohe  sich  noch 
vermehrte,  indem  sie  die  Gestalt  des  Slinders  in  immer  schwàrzeren  Farbeu  malten. 
Die  Impietat  Don  Juans  gegen  seinen  Vater  findet  sich  bei  Tirso  de  Molina  noch 
nicht,  und  nicht  bei  Cicognini,  wo  nach  Mesnard  (p.  23)  die  Eolie  des  Vaters  ganz 
fehlt;  anch  die  Commedia  dell'arte  kann  nicht  wohl  heftige  Sceuen  zwischen 
Vater  und  Sohn  gehabt  haben;  denn  in  ihnen  war  Arlecchino  am  Platze,  und  sie 
wàren  iiberliefert.  Diesen  Zug  hat  also  Dorimond  hineingebracht,  wie  denn  auch 
bei  ihm  der  zweite  Titel  le  fils  cnminel  zuerst  erscheint.  Hier  geht  der  Sohn  so  weit 
den  Vater  zu  schlagen,-'  und  der  Alte  stirbt  aus  Kummer,  so  dass  Don  Juan  zum 
Vatermòrder  wird.  De  Villiers  hat  das  noch  mehr  ilbertrieben;  und  er  macht  ihn 
immer  abscheuUcher;  er  lasst  ihn  auf  der  Biihne  einen  zweiten  Todtschlag  begehen, 
an  Don  Philippe.  Er  ist  auch  nicht  mehr  bloss  Verfilhrer  ;  er  nimmt  sich  nicht  die 
Miihe,  die  Màdchen  mit  Worten  zu  bethòren,  sondern  fàllt  iiber  sie  her  und  thut 
ihnen  Gewalt  an.  Endlich,  um  das  Mass  voli  zu  machen,  verwandelt  ihn  De  Vil- 
liers, wie  wir  sahen,  in  einen  Athe'isten. 

Anf  diesem  Wege,  den  Dorimond  und  De  Villiers  einschlugen,  war,  abgesehen 
von  der  kunstlerischen  Unfàhigkeit  der  Verfasser,  dem  Stoffe  nichts  abzugewinnen, 
nachdem  ihn  die  Italiener  schon  zu  sehr  in  das  Comische  gezogen  hatten.  Molière 
machte  ihn  wirklich  zur  Comòdie.  Er  konute  daher  den  Heldeu  nicht  in  gemeinen 
und  verbrecherischen  Handlungen  darstellen.  Er  befreit  Don  Juan  nicht  von  seinen 
Missethaten,  aber  er  verlegt  sie  in  die  Vergangenheit.  Den  Comthur  hat  er  bereits 
vor  sechs  Monaten  getòdtet;  zu  dieser  Anordnung  nòthigte  den  Dichter  freilich 
schon  die  Hegel  der  Zeiteinheit,  wenn  Don  Juan  das  Grabmal  des  Getòdteten 
errichtet  finden  solite;  aber  der  andere  Zweck  wird  zugleich  erreicht,  und  er 
behandelt  das  ganze  Ereigniss  in  einer  solchen  Weise,  dass  man  erkennt,  er  woUe 
es  nicht  recht  vor  unserem  Geiste  lebendig  werden  lassen.  Es  wird  nur  ganz 
flllchtig  angedevitet:  I,  2,  Sganarelle:  Et  n'ij  craignez-vous  rien,  Monsieur  (in  dieser 
Stadt),  de  la  mort  de  ce  commandeur  que  vous  tudtes  il  y  a  six  mois'ì  Don  Juan: 
Et  pourquoi  craindre?  Ne  l'ai-je  pas  bien  tuéf  Sganarelle:  Fort  bien,  le  mieux  du 
monde ^  et  il  aurait  tori  de  se  plaindre.  Don  Juan:  J'ai  eu  ma  grdce  de  cette  affaire. 
Sganarelle:  Oiii,  m,ais  cette  grdce  néteint  pan  peut-ètre  le  ressentiment  des parents  et  des 


'  Nicht,  erst  bei  De  Villiers,  wie  Mahrenholtz  ^Arcll.  63,  p.  183)  behanptet;   die  Angabe  der  Olu-feige  fehlt 
nur  im  Druoko  bei  Dorimond  an  der  rechten  Stelle;  aber  Don  Jnan  giebt  sie  dooh ;  denn  Briguelle  sagt,  lì,  5: 

(}ue  ne  me  /croit-iì ,  s^ìl  a  hattu  aon  pere? 


—  (55  — 

amis,  et....  Don  Juan:  Ah!  nallons  point  songer  au  mal  qui  nons  petit  arrìver....  Und 
das  ist  Alles.  Es  ist  eiue  abgethane  Greschichte,  und  Don  Juan  ist  begnadigt;  wer 
dieser  Comthur  war,  dass  er  der  Vater  einer  Dame  gewesen,  welche  Don  Juan 
betriigen  -woUte,  weshalb  und  unter  welcben  Umstanden  er  ihn  todtete,  davon 
erfàhrt  man  nichts.  Ebenso  liegt  sein  Vergehen  gegen  Done  Elvire  schon  in  der 
Vergangenheit;  er  hat  sie  bewogen,  das  Kloster  zu  verlassen,  hat  sie  geheirathet , 
■wie  viale  andere,  und  will  nun  nichts  melir  von  ihr  "wissen;  wir  sehen  also  docii 
liier  weuigsteus  nicht,  wie  er  sie  betrog.  Andererseits,  so  vielen  Mfidchen  er  nun 
nackstellt,  mit  keiner  kommt  er  an  das  gewuusclite  Ziel,  und  der  raffinirte 
Verfiibrer,  dem  seine  Kiinste  so  schlecbt  glùcken,  erscheint  damit  sogar  in  etwas 
seltsamem  Lichte.  Er  will  eine  Braut  bei  einer  "Wasserfabrt  entfiihren  und  fallt 
selbst  in  das  Wasser;  er  sucht  zwei  Landmadchen  zugleicb  zu  bethoren;  aber  die 
beiden  gerathen  an  einander,  -wollen  jede  ihre  Eechte  an  ilim  geltend  macben, 
und  inzwischen  nòthigt  ilm  eine  drohende  Gefahr,  die  Parthie  aufzugeben.  Liess 
3Iolière  seinen  Helden  nie  weiter  kommen,  so  that  er  es  freilich  schon  der 
Wohlanstàndigkeit  wegen,  die  er  auf  der  Buhne  sorgfàlfciger  beobachtete  als 
Dorimond  und  De  Villiers  (auch  Eosimond  hat  wieder  eine  voUfuhrfce  Gewaltthat); 
aber  immerhin  wird  dadurch  zugleich  der  Zuschauer  von  dem  Gefiihle  des  Mitleides 
mit  den  Opfern  befreit,  da  es  solche  nicht  giebt. 

Molière  zeichnet  also  die  Corruption  mehr  in  dem  Charakter  als  in  ihrer  un- 
mittelbar  verderbenbringenden  "Wirkung  auf  die  Mitmenschen,  welche  tragisch 
ware.  Und  sein  Don  Juan  ist  nicht  die  alte- halbphantastische  Gestalt  der  Sage,  son- 
deni  ein  Typus  der  Eealitàt,  der  Geséllschaft,  welche  den  Dichter  umgab.  Er  ist 
ein  junger  Cavalier  des  franzòsischen  Hofes,  ein  aristocratischer  Wlistling.  Den  Spa- 
nier  reisst  seine  Sinnlichkeit  mit  sich  fort,  lasst  die  Stimme  der  Vemunft  und  des 
Gewissens  nicht  laut  werden,  bis  es  zu  spat  ist.  Bei  Molièx-e's  Don  Juan  ist  eine 
solche  Stimme  gar  nicht  vorhanden;  er  sucht  das  Vergnligeu  mit  kalter  Ueberlegtheit, 
als  den  einzigen  Inhalt  des  Lebens,  es  ist  dieses  seine  Weltanschauuug.  Er  ist 
ohne  Glaiibe  und  Moral;  mit  geistreichem  Spotte  geht  er  llber  die  ernsten  Dingo 
hinweg,  blickt  verachtlich  auf  die  ihn  umgebende  "Welt,  welche  er  seinen  "VViinschen 
rùcksichtslos  dienstbar  macht;  die  Verfiìhrung  ist  ihra  eine  lustige  Zerstreuung, 
ein  Herz  bethòrt  zu  haben,  ein  Triumph,  mit  dem  er  sich  briìstet.  Dabei  besitzt  er 
die  eleganten,  gewinnenden  Manieren  des  grossen  Herrn,  die  ritterlichen  Eigen- 
schaften  des  Hofmannes;  er  folgt  den  Geboten  der  Ehre,  halt  sein  gegebenes  Wort, 
soweit  er  es  nicht  einer  Schonen  gegeben  hat.  Er  ist  tapfer  und  unerschrocken , 
ergreift  im  Kampfe  scimeli  die  Parthei  des  Unterliegenden ,  rettet  seinem  Feinde 
das  Leben  und  steht  unbewegt,  wo  sein  eigenes  bedroht  ist.  Auch  macht  Don  Carlos' 
edies  Benehmeu  auf  ihn  Eiudruck ,  er  bedauert  mit  ihm  Streit  zu  haben.  Aber  sein 
Vergntlgen  und  seine  Freilieit  will  er  nicht  opfern  ;  wo  dieso  in's  Spiel  kommen , 
bleibt  er  hart  und  kalt;  Done  Elvire's  Vorwilrfe  und  Bitten  erregen  nur  seinen  Spott. 

Diese  riihrende  Gestalt  der  Betrogenen,  welche  foi-tfàhrt,  ihren  Verfùhrer  zu 
lieben,  hat  Molière  geschaffen.  Sie  erscheint  vor  dem  Besuche  des  Geistes,  ilm  zu 


—  66  — 

wameii;  sie  bereut  i;ud  will  der  Welt  von  neuem  Lebewohl  sagen;  sie  zurnt  ihm 
nicht  mehr,  mit  ihrem  letzten  Schritte  will  sie  suchen ,  den  Uudankbaren  zti  retten, 
vor  der  Rache  des  Himmels  zu  bewahren.  Sganarelle  weint,  Don  Juan  bleibt 
stumm,  hòrt  ihre  Reden  an  und  bittet  sie  dann,  die  Nacbt  zu  bleiben.  Diese  ergrei- 
fende  Scene,  ihr  Schmerz,  ihre  Thrànen  liaben  iu  ihm  uur  eine  neiie  Eegung  der 
Sinnlichkeit  hervorgebracht;  es  scheintihm  pikant,  sie,  die  er  dem  Kloster  enti;issen 
hat,  bei  ihrer  Eùckkehr  in  dasselbe  noch  einmal  zu  gewinnen. 

Diese  Frivolitàt  ist  die  hervortreteude  Seite  von  Don  Juans  Charakter  ;  sie  zeigt 
sich  auch  in  dem  Benehmen  gegeu  seinen  Vater.  Eine  solclie  Rohheit  wie  der 
Don  Juan  Dorimonds  und  De  Villiers'  wird  sich  derjenige  Molière's  nicht  zu 
Schuiden  kommen  lassen.  Er  ist  hoflich,  beleidigt  Don  Louis  nicht  mit  Worten  oder 
gar  mit  Schlagen,  aber  er  verletzt  ilin  durch  seine  kiihle  Gleichgiiltigkeit  und 
Ironie.  Auf  seine  lange,  ernste  und  mirdevoUe  Mahnrede  erwidert  er  mit  dem  Er- 
suchen,  dock  einen  Stuhl  zu  nehmen,  damit  er  bequemer  sprechen  kònne.  Ein  mo- 
ralisches  Band  existirt  eben  fiìr  Don  Juan  nicht,  der  Alte  ist  ihm  iinbequem,  und 
er  wiinscht,  dass  er  ikm  Platz  niachen  mochte. 

Auf  dieser  Frivolitiit  bei'uht  auch  Don  Juans  Atheismus;  er  ist  kein  Philosoph, 
kein  rasonnirender  Freigeist;  es  ist  die  Skepsis  des  vornehmen  Herrn,  der  sich 
ùber  die  Meinungen  der  Menge  erhaben  fùhlt  ;  er  glaubt  nicht ,  was  er  nicht  sieht  : 
Je  crois  que  deux  et  deux  soni  quatre,  Sganarelle,  et  que  quatre  et  quatre  soni  liuit,  sagt 
er  (III,  1),  als  ihn  SganareEe  iiber  seine  religiosen  Ansichten  befragt.  So  unverhiillt 
war  der  Athe'ismtis  noch  nicht  auf  der  Btìline  erschienen;  De  Villiers  und  spàter 
wieder  Eosimond,  welche  Don  Juan  gleiclifalls  blasphemieren  liessen,  gebrauchten 
die  Vorsicht,  an  Stelle  Gottes  stets  von  den  Gottern  und  Jupiter  reden  zu  lassen, 
und  woUten  so  das  Anstossige  durch  einen  albernen  Anachronismus  beseitigen.  Mo- 
lière, der  die  lebendige  Realitàt  in  ihrer  Wahrheit  darstellt,  kann  das  natiirlich 
nicht;  immerhin  sagt  auch  sein  Don  Juan,  weun  er  spottet,  nie  Dieic,  sondern 
stets  le  del;  aber  das  war  ein  geringes  Zugestàndniss  fur  die  Àngstlichen.  Die 
Scene  mit  dem  Bettler,  den  Don  Juan  durch  Versprechen  eines  Goldstnckes  vergeb- 
lich  zum  Fluchen  veranlassen  will  (IH,  2),  schien  so  ktihu,  dass  sie  schon  nach 
der  ersten  Vorstellung  gestrichen  wurde,  und  doch  enthielt  gerade  sie,  wie  man  be- 
merkt  hat  (Augier) ,  ein  erbauliches  Beispiel  der  Tugend ,  welche  gegen  den  gottlosen 
Versucher  standhaft  bleibt  und  seine  Logik  besser  zu  nichte  macht  als  alle  Moral- 
predigt.  Die  ausserste  Verhohnung  des  Glaubens  ist  die  Heuchelei,  welche  die  Re- 
ligion  nicht  bloss  mit  Geringschàtzung  behandelt ,  sondern  sich  ihrer  selbst  als  einer 
leeren  Form,  als  eines  bequemen  Deckmantels  bedient,  um  Andere  zu  tàuscheu. 
Molière  lasst  seinen  Don  Juan  im  letzten  Akte  zum  Heitchler  werden.  Allerdings  ver- 
stellt  er  sich  momentan  auch  sonst,  bei  ihm  und  in  den  anderen  Bearbeitungen  des 
Stoifes ,  zum  Spotte  oder  zu  irgend  einem  bestimmten  Zwecke,  so  namentlich  in  der 
Scene  bei  Dorimond  und  De  Villiers,  wo  Don  Juan  als  Eremit  verkleidet  seinen  Gegner 
Dom  Philippe  betriigt,  indem  er  die  Miene  eines  heiligen  Manues  annimmt.  Von  hier 
mochte,  wie  Mesnard  (p.  19  f.)  bemerkt,  Molière  die  Idee  gekommen  sein,  seinen 


Dou  Juan  schliesslich  zum  Heucliler  -werden  zu  lassen.  '  Aber  nun  iibt  er  die  Kunst 
mit  Berechnung,  als  System,  und  damit  greift  dar  Dichter  auf  den  Gegenstand  zu- 
riick,  -welchen  er  in  seinem  vorhergehenden  Sttìcke,  dem  Tartuffe  behandelt  batte, 
und  den  man  ibn  verbinderte,  auf  die  Biibne  zubringen;  er  nimmt  Raobe  an  seinen 
Feinden  und  zeigt  den  Macbtigen ,  welcbe  ibn  bekàmpfen ,  weil  sie  sich  von  seiner 
Satire  getroffen  fiiblen,  ibr  Bild  von-  neuem  in  einer  anderen  Gestalt;  Don  Juan 
■\vird  zum  Tartuffe  im  Gewande  des  galanten  Cavaliers.  Und  es  ist  ein  Tartuffe ,  der 
vor  den  Augen  der  Zuscbaner  selbst  die  Maske  anlegt  und  seine  Grundsatze 
entwickelt.  Der  Athe'ist,  der  es  bisber  offen  war,  fast  mit  seinem  Unglauben  prablte, 
fròmmelt  nini,  verdreht  die  Augen,  stellt  sicb  im  Gespracbe  mit  seinem  Yater  reuig 
und  bekebrt,  so  dass  dieser  Gott  mit  Tbrànen  fitr  die  Umwandlung  dankt.  Er 
tbut  jetzt  seine  Scblecbtigkeiten  im  Namen  des  Himmels,  den  er  bestàndig  im  Munde 
fiibrt;  im  Namen  des  Himmels  verweigert  er  es  Don  Carlos,  ilim  Genugtbuung  zu 
geben  und  Done  Elvire  zu  beiratben.  Der  gute  Sganarelle  ist  ganz  erstaunt  und 
giiicklicb ,  als  er  die  beilsame  Verauderung  an  seinem  Herrn  wabrnimmt,  aber  dieser 
klàrt  ibn  auf;  es  ist  nur  Scbein;  er  bat  sicb  der  berrscbenden  Mode  anbequemt: 
l'hypocrisie  est  un  vice  à  la  mode,  et  tous  les  vices  à  la  mode  jjassent  pour  vertus....  l'iiypo- 
crisie  est  un  vice  privile'gié,  qui,  de  sa  main,  ferme  la  boucJie  à  tout  le  monde,  et  jouit  en 
repos  d'une  impunite  souveraine....  Diesen  letzten  Zug  zur  Vollendung  seiner  Figur 
bat  Molière  mit  ganz  besonderem  Nacbdrucke  ausgefiibrt,  weil  er  hier  das  grosste 
sociale  Uebel  seiner  Zeit  berùhrte. 

Indessen,  so  wenig  wie  die  Kunst  seiner  Verfiibrung  bat  die  von  Don  Juans 
Heucbelei  verderblicbe  Folgen  vor  den  Augen  der  Zuscbaner;  so  kommt  es,  dass 
die  Gestalt  keinen  Abscbeu  liervorruft.  Die  Scene  mit  Done  Elvire  im  4.  Akte 
erweckt  -wobl  voriibergebend  ludignation;  aber  dieser  eine  ti'agiscbe  Moment  ver- 
mag  niclit  die  Stimmung  des  Ganzen  zu  verandern.  Don  Juan  ist  sittenlos,  las- 
terbaft,  aber  nicbt  rob  nodi  gemein.  Und  andererseits  erregt  diese  Personlicbkeit 
Bewunderung,  diese  Gewandtbeit,  die  intellektuelle  Kraft  und  Ueberlegenbeit ,  wel- 
cbe die  Menscben  in  seinen  Kreis  bannt,  die  stolze  Sicberbeit  seiner  selbst.  Er  ver- 
einigt  die  Gorruption  und  die  glanzenden  Eigenscbaften  des  damaligen  franzòsi- 
scben  Edelmannes  in  seiner  Person.  Daber  war  aucb  die  Farcbtbarkeit  der  Strafe 
bier  nicbt  mebr  am  Platze.  Molière  konnte  die  Sage  vom  steinernen  Gaste  nicbt 
andern;  aber  er  bat  der  Erscbeinung  ibre  grandiose  Ernstbaftigkeit  genom- 
men.  Bei  Tirso  de  Mobna  ist  der  Geist  feierlicb  und  grauenvoll  ;  wabrend 
Don  Juans  Gastmabl  spricbt  er  fast  gar  nicbt,  bewegt  nur  das  Haupt  ;  mit  ibm  al- 
lein  geblieben  redet  er  wenige  "Worte;  bei  Don  Juans  Besucbe  im  Gral^mal  ist 
Alles,  was  er  siebt  und  bort,  voli  von  Scbrecknissen.  Bei  Dorimond  und  De  Vil- 


'  Dass  bei  Molière  Don  Juan  von  Anfang  an  Heuchlsr  sei,  wie  Mahvenholtz  beweisen  will  (Molière  in  Frz. 
Stud.  n,  p.  179  f.),  ist  nicht  wahr.  Es  geht  ja  gerade  gegen  die  Absicht  Molière's,  der  hier  eine  Wandiung,  eine  wei- 
tere  Steigerung  der  Corraption  zeigen  will.  Wie  kònnten  sonst  Dom  Louis  und  Sganarelle  iiber  die  Veranderung 
staunen?  Mahrenboltz  liat  eben  nur  Ironie  imd  Heucbelei  verwecbselt  ;  die  erstere  baben  wir  in  I,  3.  Mit  M.  Di- 
mancbe  heuebelt  Don  Juan  nicbt,  sondern  bat  ibn  zum  Besten. 


—  68  — 

liers  wircl  der  Todte  in  beiden  Begeguungeu  zum  seichten  Scliwàtzer  und  Moral- 
prediger.  Bei  Molière  kommt  und  verschwindet  er  schnell;  kaum  eingetreten, 
geht  er  wieder,  inderà  er  Don  Juan  zu  sicli  einladet;  in  seineni  Grabmal  liaben 
wir  nichts  von  den  Schauern  des  infernalisclien  Banketts;  er  fasst  Don  Juan 
bei  der  Hand,  und  der  Blitz  vernichtet  denselben.  Und  diese  rapide  Erscheinung 
wird  wirkungslos,  weil  sie  nicht  vorbereitet  und  mangelkaft  motivirt  ist,  mit  dem 
Charakter  des  Stilckes  in  keiner  Beziekuug  stelit;  der  Tod  des  Comthurs  liegt  ja 
ver  der  Handlung  desselben,  und  von  ikm  ist  kaum  die  Eede  gewesen;  so  endet 
denn  auck  das  Ganze  mit  den  Possen  Sgaiiarelle's ,  wie  bei  den  Italienern ,  und  der 
Eest  von  Ernst,  wenn  er  vorhanden  sein  solite,  wird  noch  zerstòrt.  Eockemout,  in 
seinem  Pampklete  gegen  das  Stiìck,  klagte  daker  Molière  au,  er  kabe  den  Siiuder 
okne  Strafe  gelassen ,  weil  diesen  Blitz  niemand  ernst  nekme.  Aber  \àelen  Anderen 
sckien  gerade  die  Strafe  nock  viel  zu  kart:  Il  devoit  du  moins,  sagt  die  «  Lettre  sur 
les  observations  d'une  comédie  du  sieur  de  Molière  »  (bei  Mesnard,  p.  246),  attirer 
le  foiidre  par  ce  peu  de  jj^roles^  c'ctoit  une  nécessité  absolue.  Et  la  moitié  de  Paris  a  douté 
quii  le  méritdt:  ce  ììest  jjoint  un  conte,  e  est  une  vérité  manifeste  et  connue  de  bien  des 
gens.  Das  Bòse  war  eben  bei  Don  Juan  mekr  in  der  Gesinnung;  etwas  eigentlick- 
Verbreckerisckes  katte  er  im  Laufe  des  Stiickes  kaum  getkan;  Skepsis,  Liebelei, 
moraliscke  Kàlte  und  Gleickgiiltigkeit  sckienen  dem  damaligen  Publikum  nickt 
ein  tragisckes  Ende  zu  verdienen.  War  aus  Don  Juan  eiu  Comòdienckarakter 
geworden,  wie  es  liier  gesckak,  so  musste  dieser  aus  der  Tradition  beibekaltene 
Sckluss  moglickst  fliicktig  bekandelt  werdeu. 

Sowie  die  Gestalt  Don  Juans  so  ist  auck  seine  Umgebung  bei  Mokère  dem 
wirklickeu  Leben  entnommen.  Sganarelle  ist  ein  gutmiitkiger,  furcktsamer,  gegen 
seinen  despotiscken  Herrn  unterwiirfiger  Burscke,  wenlger  possenkaft  als  bei  den 
Italienern  und  wieder  dem  Catalinon  naker  stekend.  Er  kat  einen  besckrankten , 
ekrlicken  Verstand,  die  einfàltige  Glaubigkeit  des  Volkes,  welcke  zum  Aberglauben 
neigt;  immer  von  neuem  suckt  er  Don  Juan  zu  warnen,  kàlt  ikm  erbaulicke  Reden, 
kat  aber  mit  seinen  sckwerfalligen  Eàsonnements  bei  dem  Spòtter  wenig  Gliick, 
weskalb  er  einlenkt,  sobald  er  merkt,  dass  es  jenem  zu  viel  wird,  und  ikm  zu  Munde 
redet.  Sein  aufricktiger  Eifer  fiir  das  Gute  liegt  in  einem  bestàndigen  comiscken 
Coniìikte  mit  seiner  Furclit  und  Gewinnsuckt.  Die  Sacke  des  Glaubens  und  der 
Tugend  kat  kier  keinen  Cleante  zum  Vertkeidiger,  sondern  ist  gerade  durck  die 
comisckè  Person  vertreten.  Molière's  Gegner  mackten  ikm  das  zum  Vorwurfe,  und 
sie  wllrden  freilick  Eeckt  kaben,  wenn  die  Comodie  immer  nur  moralisiren  solite, 
und  es  ikr  nickt,  auck  fiir  unsere  Belekrung,  geniigte,  die  "Wirklickkeit  widerzu- 
spiegeln,  die  Dinge  zu  sckildern,  wie  sie  sind. 

Dio  Landleute  waren  in  dem  Stiìcke  stets  in  idealer  Verkleidiing  aufgetreten. 
Tirso's  Tisbea  und  Aminta ,  mogen  sie  mit  ikren  rkotoriscken  Umsckweifen  weuig 
ikrem  Stando  gemass  sprecken,  sind  dock  bei  alle  dem  voli  Zartkeit  i^nd  Innigkeit. 
Tisbea's  Worte  :  Piega  a  Dios  que  no  mintais ,  mit  denen  sie  aknungsvoU  jede  ikrer 
Reden   zu  Don  Juan   sckliesst,  Aminta's   Striiuben  und   Zaudern,  bis  Don  Juan 


—  69  — 

schwijrt,  ^\-irken  wJihrhaft  ergreifend,  da  man  ihr  Scliicksal  vorhersieht.  Es  sind 
keiue  Landmadcheu,  aber  dock  poetische  Figuren.  Dorimond  und  DeVilliers  habeii 
aus  ihnen  triviale  Eclogengestalten  gemacht.  Molière  dagegen  zeigt  iiiis  wirkKche 
Bauern  und  Bauerinnen,  in  ihrem  tappischen  Gebahren,  mit  der  Na'ivetat  ikrer 
Empfindungsweise,  und  er  lasst  sie  ikre  eigene  Spracke  reden,  das  Patois  der  Land- 
lente  in  der  Gegend  von  Paris.  Es  war  das  erste  Mal,  dasis  er  den  Dialekt  auf  die 
Biikne  brackte,  nackdem  ikni  kierin  Cyrano  de  Bergerac  mit  seinem  Gareau  im  Féclant 
joué  vorangegangeu  war. 

Eine  der  alltaglicken  Wirklickkeit  entleknte  Gestalt  kaben  wir  endlich  auck 
in  M.  Dimancke,  dem  Gliiubiger  Don  Juans.  Es  ist  der  Pariser  Kaufmann,  der 
dem  vornekmen  Herrn  Geld  gelieken  kat,  und  vergeblick  sick  bemiikt,  es  wieder- 
zuerlangeu.  Der  vornekme  Herr,  anstatt  ikn  zu  bezaklen,  liebkost  und  kàtsckelt  ikn, 
versickert  ikn  leutselig  seiner  Preundsckaft ,  erkundigt  sick  nack  seiner  Frau ,  sei- 
nen  Kindern  und  seinem  Hunde,  ladet  ikn  zum  Essen  ein,  und  lasst  ikn  zuletzt 
kinausbegleiten,  okne  dass  er  sein  Anliegen  vorbringen  konnte,  eine  Scene  voli 
Humor  und  frisckem  Leben,  in  welcker  wirkungsvoll  die  Figur  des  uberlegenen 
Aristocraten  dem  verlegenen  und  unbekolfenen  Biirger  gegeniiber  gestellt  ist. 

Der  Eealismus  dieses  Stiicks  wird  auck  vermekrt  durck  die  Form;  es  ist,  was 
damals  fiir  eine  so  umfangreicke  Comòdie  nock  eine  Seltenkeit  war,  in  Prosa 
gesckrieben.  Molière  bediente  sick  der  letzteren  zunackst  vielleickt  aus  File,  um 
den  beliebten  Stoif  scknell  auf  die  Bùline  zu  bringen;  aber  scine  Darstellung  kat 
dadurck  nur  gewonnen,  erkàlt  einen  freieren,  ungezwungeneren  Gang. 

So  finden  wir  am  Anfangs-  und  Endpunkte  dieser  rapiden  Entwickelung  zwei 
Meisterwerke ,  welcke  geradezu  einen  Gegensatz  mit  einander  bilden.  Das  spaniscke 
Stiick  zeigt  den  Stoff  in  seiner  sagenkaften ,  pkantastiscken  Grosse ,  Molière  ver- 
wandelte  ikn  in  ein  realistisckes  Gemalde,  zu  welckem  er  die  Farben  aus  der  gleick- 
zeitigen  franzosiscken  Gesellsckaft  nakm,  und  driìngte  daker  das  dort  so  bedeutende 
pkantastiscke  Element  ganz  in  den  Hintergrund.  Scliou  deskalb  war  aber  das  Stiick 
geeignet,  in  seiner  Zeit  mekr  zu  verletzen;  bei  Dorimond  und  De  Villiers  feklte 
alle  Beziekung  zum  Leben;  bei  Molière  fiìklte  man  sick,  wie  gewoknlick,  gleick 
zur  Nutzanwenduug  getriebeu. 


A.  Gaspaey. 


ETYMOLOGISCHES. 


BCTOB 

hat  schon  altfranzosisch  aicht  anders  gelautet  als  beute;  sein  o  war  immer  ein 
offenes,  was  nicht  allein  aus  dem  Umstande  sicli  ergiebt,  dass  kein  eu  oder  ou  dafur 
eingetreten  ist,  sondern  durcli  haiifige  Reime  erwiesen  werden  kann,  die  keinem 
Zweifel  Eaum  lassen:  butor  und  das  flektierfce  butors  mit  escu  d'or,  Cleom.  11306, 
mit  l'eure  de  lors,  Barb.  u.  M.  IV  429,  80,  mit  plus  reluisans  que  ors,  Venus  211  d. 
Aucli  das  d  des  spat  abgeleiteten  butorderie  darf  beziiglich  der  G-estalt  des 
Stammwortes  nicht  irre  machen;  es  ist  dem  Stamm  angefiigt  untar  der  Einwir- 
kung  des  Bestehens  von  border,  abordev,  accorder,  nordique  u.  dgl.  neben  bord, 
abord,  accord ,  nord  mit  beute  unter  alien  Umstàuden  verstummendem  d,  ein 
Vorgang,  auf  den  uacb  A.  Darmesteter,  création  de  mots  nouv.  73  und  E.  "Weber 
im  Anliang  seiner  Dissertation  iiber  den  Gebraucb  von  devoir,  laissier  35  bier  ein- 
zutreten  nicbt  uot  tbut.  Aus  alterer  Zeit  ist  eine  Nebenform  zu  verzeicbnen;  wir 
kennen  sie  aus  dem  Bon  Berger  des  Jeban  de  Brie  (gegen  das  Ende  des  14. 
Jabrbunderts) ,  woselbst  S.  52  des  Neudrucks  von  1879  man  liest:  ung  aidtre  oyseau 
y  a,  quq  Von  nomine  hutor;  aidcuns  Vappellent  bbuitob.  Namensformen  aus  beutigeii 
Mundarten  stellt  Eugène  EoUand,  Faune  populaire  de  la  Franco,  II  376  zusam- 
men;  von  diesen  mag  siidfranzosiscb  bitor  mit  butor  nocb  geradezu  eins  sein, 
wS brand  von  buor,  bior,  buard,  bitar  nicbt  mebr  dasselbe  geltan  kann,  aucb  nprov. 
bruitier  bocbstens  nocb  als  verwandt  in  Betracbt  kommen  darf. 

Ist  bruitor  die  urspriinglicbe  Form,  wemi  sie  gleicb  aus  etwas  spaterer  Zeit 
zum  ersten  Male  nacbweislicb  ist  als  butor,  so  wird  man  das  Wort  als  ein  Compo- 
situm  mit  der  Badeutung  «  Larmstier  »  zu  batracbten  das  Eecbt  babau.  Es  mirde 
zu  dar  klainen  Grruppe  franzosiscber  Zusammensetzungen  gebòren,  von  der 
A.  Darmesteters  Bucb  libar  dia  franzòsiscban  Composita  S.  162  und  198  bandelt, 
in  welcber  das  erste  Elemant  Imperativ,  das  zwaite  Vokativ  ist,  oder,  um  es  vor- 
sicbtiger  auszudriicken,  das  an  zw eiter  Stelle  befindlicbe  Nomen  durcb  den  vorge- 
setzten  Stamm  eines  (cbaraktaristiscbes  Tbun  bezeicbnanden)  Verbums  eine  nàbere 
Bestimmung  erfàbrt  (z.  B.  caucliemar,  grlppe-minaud,  bSche-Lisette).   Es  kònnta  das  r 


—  72  — 

der  ersten  Silbe  iufolge  Dissimilation  geschwuuden  sein,  wie  bei  freilich  uicbfc 
gleicben  Verbaltnissen  in  afz.  penre  neben  jprenre^  querrai  neben  crerrai,  gaindres 
Joìifroi  537  nehen  fjrahuh'es  (und  graindes) ,  faindre  Joufroi  3045,  Aliscans  8  und  243 
neben  fraindre,  in  ufz.  titre  neben  afz.  fristm,  in  Pipriac  aus  Prisperiaca  (Quicberat, 
Noms  de  lieu  36).  xd  ware  in  der  tonlosen  Silbe  zu  u  geworden,  wie  in  charcutier, 
lutter,  lutin,  citrée  ;  es  batte  auch  i  wei'den  konnen,  wie  in  lamhrisser  aus  lamhruissier , 
hignet  aus  huignet  (s.  axicb  A.  Fucbs,  unregelm.  Zeitworter  S.  325  iiber  ì  fvir  xd  in 
der  Pariser  Mundart).  Die  Benennung  des  Vogels  als  «  Larmstiers  »  endlich  kann 
bei  der  grossen  Zahl  gleickbedeutender  Namen,  die  er  aixsserbalb  Frankreicks  erbal- 
ten  bat,  nickt  befremden  (zu  den  bei  EoUand  gesammelten  filgt  mir  Sckott  un- 
griscb  bolonibika,  d.  h.  «  Briillocbse  »  biuzu). 

Immerkin  wiirde  sick  auck  eine  andere  Deutung  fiir  den  ersten  Teil  des  Compo- 
situms  denken  lassen;  man  konnte  das  sonst  im  Altfranzosiscken  nickt  nackweisbare 
bruì  oder  èrit,  das  Stammwort  zu  bmyère,  darin  erkennen  woUen,  namentlick  mit 
Riicksickt  darauf,  dass  andere  Benennungen  des  Vogels  ilm  als  einen  das  Ried,  den 
Sumpf,  das  Rokr  bewoknenden  Stier  bezeicknen  (boeuf  d'emi,  de  marais,  taureau 
d'étang  bei  Rolland,  deutsok  Moskuk,  Mosstier,  Lorind  bei  L.  Tobler  in  der  Zts. 
f.  Volkerpsyckologie  XIV  75);  indessen  sind  dock  Haidekraut  und  Rokr  zweierlei, 
und  Zusammensetzungen  substantiviscker  Elemente  in  dem  syntaktiscken  Verkalt- 
nisse  das  kier  anzunekmen  ware,  sind  im  Franzòsiscken,  wenn  nickt  ganz  uuerkort, 
dock  selten  ;  s.  A.  Darmesteter,  Mots  comp.  S.  137.  Beiden  Erklarungen  stekt 
entgegen,  dass  die  Art  der  Dissimilation,  die  man  anznnekmen  kàtte,  nickt  vorzukom- 
men  sckeint,  und  dass  viel  leickter  ein  Ubergang  von  einem  teilweise  dunkeln 
butor  zu  einem  verstandlickeren  bridtor  denkbar  ist  als  der  umgekekrte.  Erinnern 
vnx  uns  denn,  dass  die  Stimmen  des  bMlo,  wie  der  lateiniscke  Name  des  butor 
lautet,  batìre  (oder  bubiré)  genannt  wird  in  der  Elegie  de  Pìdlomela:  Liqiie  pcdiuUferls 
bidio  buUt  aquis,  s.  Wackernagel,  Voces  varise  anim.  S.  57.  Eker  als  eins  der  zuvor  in 
Betrackt  gezogenen  wird  dieses  Wort  seineu  Stamm  als  ersten  Teil  der  Zusam- 
mensetzuug  in  Anspruck  zu  nekmen  kabeu. 

Einen  Entsckeid  wage  ick  gleickwokl  nickt;  ein  sizilianisckes  buturnu,  das  Rol- 
land  anfilkrt ,  kommt  kinzu  um  die  Sckwierigkeit  zu  mekren  ;  aber  ^vi6  ware  es  mit 
dem  altfranzosiscken  butov  zu  vereinigen  ? 

PlAPFER 

sckeint  mir  filr  "pleffer  zu  steken,  nud  dieses  kalte  ick  ftlr  eine  Ableitung  von  "pief^ 
einer  Nebenform  von  pied  oder  besser  pné,  zu  der  es  sick  verkalt  wie  fieffer  zu  fief, 
fié,  oder  wenn  Grober,  Zts.  f.  rom.  Pkil.  II  459  im  Reckte  sein  solite,  was  ick  mit 
Varnkagen,  Anzeiger  f.  deutsckes  Alter tum  IX  179  bezweifle,  fiir  gewonnen  aus 
pie  seit  der  Zeit,  da  fié  ein  fi(\ffer  neben  sick  katte.  Die  volkstumlicke  Ausspracke 
des  e  in  gescklossener  Silbe  als  a  ist  bekannt  ;  da  es  sick  kier  nm  ein  erst  ziemlick 
spilt  auftretendes  Wort  kandelt,  mag  es  genilgeu  auf  Tkurot,  Pronouc.  frano.  I  22 


—  73  — 

zu  verweisen.  Littré's  Bedenken  gegen  eine  Herleittinfv  von  pieci  sind  mir  nicht 
recht  verstàndlich.  Ist  sie  richtig,  so  hat  man  freilich  piaffe  al.s  aus  l'i'iffcr  gewon- 
nen  zu  befcracliten,  nicht  umgekehrt. 


Forra  it. 

(mit  gesclilossenem  o)  «  enge  Schlucht,  Spalto  zwisclieu  Bero-liohen  «  scheint  eins 
mit  «  Furre  »  f.,  einer  nicht  bloss  schweizerischen  Nebenform  von  «  Furche,  »  von 
welcher  das  Grimm'sche  Worterbuch  IV  la  788  handelt. 

Recrue , 

im  Franzosischen,  wie  es  nach  den  Worterbitchern  scheint,  noch  immer,  wenn 
gleich  nicht  einzig,  abstrakt  (Bezeichnung  des  Ergebnisses  einer  Handlung),  so- 
dann  auch  konkret  (das  dadurch  Herbeigesehafffce) ,  aber  kollektiv,  im  Spanischen 
{recluta  aus  recrue  mit  Dissimilation  der  beiden  r  und  mit  t  im  Anschluss  an  das 
franzòsische  Verbum)  ausserdem  (und  dann  mannlich)  und  im  Italienischen  (hier 
immer  weiblich)  Bezeichnung  des  Individitums ,  das  neu  ausgehoben  ist,  kann  man 
nicht  anders  denn  als  Partizipialbildung  von  recroistre  erklàren  wollen.  Dieses  ist 
in  Verwendungen ,  die  dem  Sinue  des  Substautivs  (Nachwuchg,  Nachschub)  entspre- 
chen,  leicht  nachzuweisen,  intransitivi  Vendemain  recrurent  d'ime  rote  de  serjanz  a 
cheval,  Villehard.  351,  transitivi  Nostre  sires,  qui  tout  donna,  Li  (dem  Freigebigen) 
recroìst  les  biens  eii  ses  mains,  Baudouin  de  Condé  239,  197;  un  hon  espreveteur,  en  la 
saison,  recroìst  d'espreveterie  neiif  chiens  et  trois  clievaidx,  se  il  veidt  hien  continuer  et  faire 
san  devoir  au  viestier,  Ménagier  II  280.  Das  Substantivum  recr'èue  ist  mir  in  entspre- 
chendem  Sinne  im  Altfranzòsischen  nicht  begegnet.  Oder  solite  es  in  dem  nicht 
selten  anftretenden  Ausdruck  corner  la  recr'èue  «  zum  Riickzug  blasen  »  (Rom.  de 
Troie  15622;  eb.  18317,  wo  come  statt  tome  stehen  mtiss;  eb.  18347;  Gaydon  74: 
Rom.  d'Alix.  103,  25;  Jean  de  Journi  2395;  Rutebeuf  II  59;  Jubinal,  Nouv. 
Ree.  II  26)  doch  vorliegen,  der  ursprungliche  Sinn  «  um  Zuzug,  Nachschub  bla- 
sen »  gewesen  sein  una  nur  infolge  des  Umstandes  eine  Verdunkelung  und  Wan- 
delung  erfahren  haben,  dass,  wer  den  Kampf  oline  Hilfe  fortzufahren  sioh  aus- 
ser  Stando  erklàrt,  ein  recriiu  (von  recroire)  ist?  Dies  ist  mir  deswegen  nicht 
unwahrscheinlich,  weil  mir  eine  Bildung  recreue  mit  dem  Sinne  «  Waffenstrecken  » 
von-  recroire  mit  dem  sonstigen  Verfahren  der  Sprache  nicht  iibereinstimmend 
vorkommt,  welche  in  diesem  Sinne  eher  eine  Ableitung  vom  Participium  des 
Priisens  wird  eintreten  lassen  (vgi.  Ce  li  samhleroit  ijrant  vitance ,  'S'on  li  fait  faire 
recreance,  Lyon.  Ysop.  236). 

Von  dem  Substantivum  recrue  hat  man,  in  spaterer  Zeit,  wie  sich  aus  den  bei 
Littró  beigebrachten  SteUen  ergiebt,  das  Verbum  recruter  abgeleitet,  welches  be- 
deutet  «  durch  Nachschub  vollzàlilig  erhalten  »  oder  «  zu  einem  Nachschub  anwer- 
ben  ».  Das  hinzugekommene  t   ist   keinesfalls  das   ursprungliche  partizipiale,  das 

10 


—  li  — 

ini  Siibstantiv  regelrecht  geschwmiden  ist,  sonderà  das  namliclie  imorganische, 
das  in  glulkr  Vogelleinabaum,  tissutier  Bandweber,  nach  E.  Weber  a.  a.  0.  36  in 
tutoìjer  imd  nacli  Darmesteter  a.  a.  0.  73  in  zalilreiohen  andern  Wortern  zwischen 
vokalischen  Aiislavit  des  Stammwortes  und  vokalischen  Anlaut  des  Suffixes  ge- 
treten  ist,  nicht  einfach  hiatustilgeud,  sondern  infolge  des  Umstandes,  dass  Worter 
niit  etymologiscli  gereclitferfcigtem ,  aber  im  Auslant  verstummtem  t  Derivata  oder 
sonst  nachstverwandte  Worter  mit  lautem  t  neben  sich  haben,  wie  déhid  deluder, 
fiìtf'utaille,  inst'dut  iìistìtuteur ,  rehid  rehider,  scdut  xahdaire,  tribid  tribidaire. 

Daraiif  ziiriickztikommen  war  vielleiclit  niobt  notwendig,  nachdem  altere  Ety- 
mologen  das  Richtige  in  der  Haiiptsaclie  bereits  gesagt  hatten;  jedoch  auch  nicht 
ganz  iiberfliissig,  seit  G.  Paris  im  Jahrbixch  fiir  romanische  und  englische  Litera- 
tur  XI  157,  einen  Gredanken  Carpentiers  (bei  Du  Gange  unter  reclutare)  aufneb- 
mend,  recnder  mit  dem  alten ,  durch  Mussafia  Zts.  f.  rom.  Pliil.  Ili  604  aneli  bei 
Chardri  hergestellten  rechder  «  flioken  »  fiir  eins  erklart  und  einer  kleinen  Familie 
zugewiesen  hat,  mit  der  es  dodi  sohwerlich  etwas  zu  tliun  liat.  Dass  spaniseli  re- 
didar  und  italienisoli  reclutare  Freradworter  (dieses  wolil  aus  dem  Spanisclien,  jenes 
aus  dem  Franzosiscben  geborgt)  sind,  wie  ibre  Vereiuzelung  in  den  beiden  Spra- 
chen,  ilir  spates  Auftreten  und  ihr  Lautbestand  zeigen;  dass  der  Ùbertritfc  vou 
recr...  in  recl...  im  Spanisclien  weit  leiehter  zu  begreifen  ist,  als  der  von  recl...  in 
recr...  es  im  Franzosiscben  sein  wiirde;  dass  recnder  von  recrue  zu  trenneu  bei  der 
Bescbaffenlieit  der  Bedeutungen  niclit  angelit ,  sclieiut  mir  der  Gelelirte ,  dem  wir 
so  manche  vortreffliche  und  sofort  einleuchtende  Etyniologie  verdanken,  vor  drei- 
zelin  Jahren  nicht  liinlauglicli  erwogen  zu  liaben. 

AVERTIN 

«  Tauniol;  Drehkranklieit  der  Schafe  »  sebo  icli  nirgends  anders,  denn  als  Ablei- 
tung  von  avertere  gedeutet.  Aber  dieses  Verbum  kennt  das  Franzòsische  nicht;  sein 
avertir  ist  advertere,  dessen  Bedeutung  widerstrebt;  und  von  lat.  avertere  giebt 
es  keine  Ableitung,  die  nach  Form  und  Sinn  Grundlage  von  avertin  sein  kònnte. 
—  Vertiginem  gab  vertin  wie  ccdiginem  chal'm  (s.  dieses  bei  Godefroy,  dessen  letzte 
Belegstelle  aber  nicht  hieher  gehort);  das  a  von  avertin  balte  icli  fiir  das  des  wei- 
bUchen  Artikels,  welches  falschlich  zum  Nomen  zu  ziehn  um  so  naher  lag,  als 
der  Ausgang  desselben  zu  mannlichem  Gebrauch  veiieiten  musste  (wie  denn  auch 
fiir  chalin  sich  nur  maunliclies  Geschleclit  nacbweisen  làsst);  also  l' avertin  fiir  la 
vertin.  Die  Form  oline  a  gewàhrt  ubrigens  der  Vocab.  duac.  184b  vertigo:  vier- 
tins,  ferner  Beaumanoir  61,6,  und  im  Codex  Digby  86  Blatt  21r.  hat  Stengel  o 
le  vert'UH  del  chef  gelesen.  Andererseits  fiiidet  sicli  esvertin,  Auc.  u.  Nicol.  11,  18 
und  Suchier  dazu,  Percev.  VI  S.  197,  mit  der  haufigen  Vertauschung  des  anlau- 
tenden  a  mit  es.  Der  hier  angenommene  Irrtum  des  sprechenden  Volkes  ist  die 
genaue  Umkehr  desjenigen,  durch  den  it.  l'avversiere  zu  la  versiera  geworden  ist, 
oder  dessen,  der   dem   Dichter   des  Gaufrey  moglich  gemacht  hat  S.  73  zu  sagen 


—  75  — 

Vous  m  cretis  en  li  ne  en  s'avenement  (odor  sa  uenementf)  '  von  anderen  Anomalien 
gai-  nicht  zu  reden,  die  der  enge  Zusammenhang  zwischen  Artikel  und  Nomen 
herbeigefiihrt  liat.  '  Schliesslick  sei  bemerkt,  dass  ich  geneigt  bin  das  prov.  hatùje^ 
das  Eaynouard  zu  kiilm  unter  batre  gestellt  und  mit  battenient  iibersetzt  hat, 
worin  ilim  Diez,  Bartscli  uud  Honnorat  gefolgt  sind  (Grammatik  II  317  und  Chrest. 
prov.  seit  der  ersten  Ausgabe)  fllr  oins  mit  vertige  zu  lialteu  oder  es  mit  diesem 
zu  vertausclien,  bis  batige  sicli  an  einer  zweiten  Stelle  findet. 


GrERLA  it. 

liat  Diez  oline  Zweifel  richtig  auf  gerida  zuriickgefuhrt  und  mit  altfranzosiscli  jarle 
(bei  Barbazan  und  Méon  III  16,  81  oder  Montaiglon  I  196)  als  eins  betraclitet, 
obschon  die  Bedeutungen  ziemlich  stark  auseinander  gehn,  das  itali enische  Wort 
den  auf  dem  Riicken  zu  tragenden  Korb  aus  Stàben,  das  altfranzosisohe  aller 
"Wahrsckeinliclikeit  nacli  einen  Zuber  bezeiclmet.  (gema,  das  Canello  im  Arch. 
glott.  Ili  349  als  allotrop  zu  jenem  anflilirt,  weist  eine  dritte  Bedeutung  auf.) 
Neufranzòsiscb.  gerlon,  Zuber  des  Papiermlillers ,  war  als  drittes  Glied  der  G-ruppe 
einzuverleiben.  Aber  gehòrt  nicht  aucli  jale  Mulde,  afz.  jalle,  das  Diez  davon 
sclieidet,  hieher?  Das  doppelte  l  sichern  die  Eeime,  mit  Challes  d.  h.  Charles 
bei  Guill.  Guiart  II  5487,  mit  palle  d.  h.  parie  im  Girart  de  Eossillon  234,  mit 
espalle  und  Charles  bei  Etienne  de  Foug.  861,  iind  die  Bedeutung  stimmt  durch- 
aus.  Die  Form  jaille,  welche  Diez  nacli  Du  Gange  anfiihrt,  ist  zwar  bei  Guiart, 
dem  dieser  sie  entnimmt,  nicht  zu  finden  (die  Stelle  ist  die  eben  zitierte),  da- 
gegeu  trifft  man  sie  in  dem  durch  K.  Hofmann  auszugsweise  fcekannten  Pa- 
riser  Glossar  7692  Zeile  473  als  eine  der  Ùbersetzungen  von  lagena.  Ist  sie 
fehlerlos,  so  muss  sie  von  jalle  getrennt  werden,  wie  Diez  schon  gesagt  h.a,t.  jalon 
hat  zu  oft  galon  neben  sich,  als  dass  ich  mir  getraute  es  zu  einem  Etymon  mit  gè 
im  Anlaut  zu-stellen,  und  jaloi ,  jaloie  (zu  denen  es  Nebeuformen  mit  g  gleichfalls 
giebt)  sind  nm  ihres  Ausgangs  willen,  der  das  bekaunte  franzosische  Suffix  doch 
nicht  sein  kann,  zu  trennen  (s.  ùber  sie  Hildebrand  im  Deutschen  Wòrterbuch 
unter  «  Gelte,  »  Sp.  3065).  Nooh  weniger  darf  afz.  geurle  mit  it.  gerla  verkniipft 
werden.  Die  einzige  von  Diez  angefiihrte  Stelle  sichert  die  Bedeutung  «  Geldbeutel,  » 
und  viele  andre  (s.  das  Glossar  zum  Auberi  unter  gourlel  und  P.  Meyer  zu  Guil- 
laume  le   Marechal  6792)  zeigen,    dass  dem  "Worte   im   Stamm  geschlossenes   o 


Dagegen  ist  mvoir  im  Théatre  fr?.  au.  m.  à.  70  nicht  in  a'avoir  zu  zerlegen,  sondern  heisst  «  Wissen.  <• 
'  Beilaufig  sei  hier  erwiihnt,  dass  afz.  ningremance  (aus  necromdntia  mit  der  bekannten  Einsohaltung  von 
M  vor  Gutturalis)  durch  Dissimilation  zunachst  linr/remance  geworden  ist,  xind  dieses  seinen  Anlaut  deswegen 
verloren  hat.  weil  er  als  Artikel  .lufgefasst  werdeu  konnte.  Dio  neben  den  haufig  begegnenden  Formen  ningve.- 
mance  und  ingremance  seltener  aufretende  Ihigremance  trifft  man  z.  B.  in  dem  Dit  de  Luqne,  Romania  Xn  225 
Z.  51,  WG  Raynaud  besser  gethan  haben  wiirde  za  schreiben  Qui  savoicnt  de,  lingromauce  (statt  de  l'ingr.),  da  in 
der  Redensart  savoir  d'aucune  rien  der  Name  der  Kunst  ohne  Artilcel  zu  stehen  pflegt:  mvoir  de  clergie,  de 
mecìne,  de  latin,  d'eschts  u.  dgl. 


—  76  — 

zukommt;  Meyer  sielit  darin  das  dentsclie  «  Gùrtel  »  (Romania  XI  60),  was  durcli 
die  Angabe  li  (jourliers:  der  gurdelmaker  des  romauisch-ilàmischen  Grespràchbiicli- 
leins  nalie  gelegt  wird.  Auch  hier  haben  wir  uebeu  den  Foruien  mit  ri  solche 
uiit  II;  Carpentier  belegt  gidle  aus  einer  Urkunde  des  14.  Jalu-liunderts  und  giebt 
damit  das  Mittel  die  Glosse  gubles  zu  marsupia  des  Joliannes  de  Garlandia  im 
Jahrbuch  f.  rom.  ii.engl.  Litt.  VI  '294  zu  berichtigen.  Was  aber  ist  von  gueille  zu 
halteu,  das  sidier  in  gleiclier  Bedeiitung  im  Cliaroi  de  Nymes  zweimal  steht,  Z.  1025 
und  1222? 

Adolf  Tobler. 


LES  SERMENT8  DE  STRASBOURG. 


(INTRODUCTION    A    UN    COMMENTAIRE    GRAMMATICAL.) 


Les  célèbres  formules  d'engagement  réciproque,  prononcées  en  roman  et  en 
allemand,  le  14  février  842,  à  Strasbourg,  par  Charles  de  France,  Louis  d'AUe- 
magne  et  leurs  principaux  fidèles,  sont,  dans  leiir  partie  romane,  les  plus  anciens 
textes  fraucais  qui  nous  aient  été  conservés.  Les  glossaires  du  VIP  et  du  VIIP 
siècle  où  des  mots  grecs,  allemands  et  latins  sont  interprétés  par  des  termes  d'une 
latinité  souvent  très  vulgaire  ne  présentent  encore  le  cachet  marquó  d'aucun 
dialecte;  les  mots  romans  du  giossaire  de  Cassel  n'appartiennent  probablement  pas 
au  domaine  francais.  Rien  ne  prouve  sans  doute  que  les  formules  de  842  soient  le 
premier  texte  francais  qu'on  ait  écrit;  il  est  au  contraire  très  vraisemblable  qu'à 
la  suite  des  prescriptions  qui  ordonnaient,  depuis  813,  de  traduire  «  en  langue 
romane  rustique  »  les  homélies  du  dimanche,  plus  d'un  prétre  a  aidé  sa  mémoire 
par  l'écriture  ;  il  est  à  croire  aussi  que  la  fantaisie  de  noter  quelqne  chanson,  quelqiie 
récit,  quelque  souvenir  dans  la  langue  des  laiques  sera  venne  à  plus  d'un  clero; 
mais  aucun  de  ces  essais  n'est  arrivé  jusqu'à  nous,  et  cela  se  comprend  facilement: 
tracés  sur  des  pages  volantes,  sur  des  bouts  de  ce  parchemin  précieux  qu'on 
ménageait  trop  pom-  en  employer  de  bonnes  feuilles  à  desfutilités,  le  plus  souvent 
sur  ces  tablettes  ciróes  qui  servirent  pendant  tout  le  moyen  àge  à  écrire  ce  qu'on 
ne  tenait  pas  à  conserver  longtemps,  ils  ont  dù  étre  dótruits  de  bonne  heure,  et 
n'avaient  aucune  chance  de  traverser  les  àges.  Le  fragment  d'homélie  sur  Jonas, 
du  X<^  siècle,  conserve  à  Valenciennes  n'a  subsisté  que  parce  qu'on  a  très  ancienne- 
ment  applique  sur  le  plat  d'une  reliure  la  page  où  il  était  note  ;  les  deux  poèmes 
de  Clermont  au  XI«,  le  fragment  d'imitation  du  Canti  que  des  Cantiques  au  com- 
mencement  du  XII'',  ont  été  transcrits  sur  les  blancs  de  manuscrits  plus  importants 


Ce  fragment,  écrit  il  y  a  plusieurs  amiées,  fait  partie  du  commentaire ,  non  aohevé,  qui  doit  accompagner 
l'album  héliograpliique  des  plus  anciens  monumentsde  la  langue  fran^aise,  pnblié  par  la  Société  des  anciens  textes 
frangais.  Depuia  qu'il  a  été  redige  ont  paru  les  éditions  des  Serments  de  MM.  Kosohwitz  {1879,  1880, 1884)  et  Stengel 
(ISSI);  je  m'y  suis  rèfèré  dans  les  notes  paléographiques  sui-  le  texte,  après  avoir  ajtentivement  collationné  le 


—  78  — 

aux  yeux  des  contemporains,  et  noiis  sont  parvenus  gràce  à  cette  iucorporation.  Dès 
le  X^  cependaut  ou  toiit  au  moins  dès  le  XP  siècle,  on  a  sans  doute  cousacré  à  des 
ouvrages  franeais  des  manuscrits  entiers,  mais  ils  ont  disparu  parca  quo  la  langue, 
rapidement  vieillie,  en  est  devenue  inintelligible  aux  àges  siiivants;  on  en  a  alors 
renouvelé  la  forme  eu  les  copiant  ou  ou  a  cesse  de  s'y  intéresser,  et  dans  les  deux 
cas  on  les  a  laissés  se  perdre.  Si  l'auteur  de  l'oeuvi'e  historique  où  sont  insérées  les 
formules  de  Strasbourg  avait  en  l'idée,  d'ailleurs  à  peu  près  inconcevable  à  son 
epoque,  d'écrire  tout  son  livre  en  franeais,  ce  livre  ne  serait  bien  probablement  pas 
venu  jusqu'à  nous.  Il  s'en  est  peu  fallu  d'ailleurs  que,  me  me  écrit  en  latin,  ce  pré- 
cieux  ouvrage  se  perdìt;  un  seul  manuscrit  l'a  conserve,  manuscrit  malheureusement 
bien  postérieur  à  la  rédaction  de  l'oeuvre.  C'est  de  ce  manuscrit  que  nous  devons 
parler  avant  d'aborder  l'étude  du  texte  en  lui-mème. 

Les  formules  de  Strasbourg  ont  été  insérées  par  Nithard  au  livre  III  de  l'ou^T:age 
en  quatre  livres  qu'il  a  consacré  à  l'histoire  de  son  temps;  le  manuscrit  unique  qui 
contieni  cet  ouvrage  appartenait  anciennement  aux  religieux  de  Saint-Magloire ,  ' 
transférés  depuis  1572  dans  un  couvent  situé  près  de  Saint- Jacques  du  Haut  Pas. 
Ce  fut  sans  doute  alors  qu'ils  vendirent  leurs  livres;  le  uotre  paraìt  avoir  appartenu 
quelque  temps  ensuite  à  Claude  Fauchet,  à  en  juger  par  ce  qu'en  dit  Bodin."  Il  passa 
dans  la  bibliothèque  de  Paul  Petau ,  et  les  livres  des  Petau  ayant  été  acquis  en 
grande  partie,  en  1650,  par  Is.  Voss,  pour  Christine  de  Suède,  il  fut  transféré  à 
Rome  en  1658  et  acheté  aux  hóritiers  de  la  Reine  en  1690  par  Alexandre  Vili, 
avec  tonte  sa  coUection  de  manuscrits.  Il  resta  au  Vatican  jusqu'au  temps  de 
Napoléon,  qui  le  fit  transporter  à  Paris;  mais  quand,  en  1815,  on  voulut  le  re- 
prendre  à  la  Bibliothèque  Royale,  il  ne  se  retrouva  pas.  La  tradition  de  la  Bi- 
bliothèque est  que  le  manuscrit  était  alors  prète  au  dehors,  et  il  est  eu  effet 
très  probable  qu'il  se  tronvait  entre  les  mains  de  Mourcin.  En  effet  ce  savant, 
dans  l'édition  des  Serments  de  Strasbourg  qu'il  donna  en  cette  méme  année,  de- 
signo le  manuscrit,  d'après  lequel  il  fit  soigneusement  revoir  le  fac-similé  emprunté 
par  lui  à  Roquefort,  comme  se  trouvant  à  la  Bibliothèque  du  Eoi  sous  le  n"  1964 
(en  réalité  il  avait  gardé  le  chiffre  1964  de  la  BibUothèque  du  Vatican),  et  d'au- 
tre  part  il  remercie  (p.  Ili)  les  conservateurs  de  la  Bibliothèque  du  Eoi,  qui  ont 
bien  voulu  lui  coniier  les  ouvrages  dont  il  avait  besoin  pour  son  travail.  Le  ma- 
nuscrit reviùt  bientot  sur  les  rayons  de  la  Bibliothèque,  mais  on  jugea  sans 
doute   dangereux  d'y  signaler   sa   préscnce:   en   1828,  quand  Pertz  voulut  publier 


'  Voy.  L.  Delisle ,  Le  Cabinet  des  Manmcrits,  t.  HI,  p.  266. 

'  «  Loilys  jur.a  le  premier  en  langue  Romande  les  parolles  qui  8'en.suiuent,  quo  M.  le  presidont  Fiiuchct, 
homme  bien  ontendu  et  mesmement  en  nos  antiquitez,  m'a  monstree  (sic)  en  Guytard  (sjc)  historion  et  Prinee  du 
.sang.  >  Lo  cliapitre  VI  du  livre  V  de  la  Rlpuhliqnc  do  Bodin,  où  se  trouve  ce  passago^n'est  pas  dans  la  première 
édition  (1577);  jo  n'ai  pas  vn  la  secondo,  qui  est  do  157S;  notro  passage  se  lit  à  la  i>.  605  de  la  troisicme,  également 
de  1578,  et  à  la  p.  8:21  do  la  quatrième  (1580).  Il  est  k  romarquor  quo  Fauchet,  qui  résumé  tout  lo  livre  de  Nitliard  et 
imprime  les  Sermonts  {(Eiwrea,  od.  1610,  fol.  :JTO  ìj),  no  dit  rien  du  manuscrit;  mais  son  toste  ne  proviont  ni  de  Bodin 
ni  de  Pitliou;  il  présente  les  fautes  les  plus  étrangos:  citous  seulomont  scìwvnrt::  pour  salvament. 


—  79  — 

Nithard  dans  les  Monumenta  Germaniae,  Guérard  lui  communiqua  ime  collation 
faite,  assurait-il,  sous  l'Empire,  par  un  paléographe  dont  il  garantissait  l'exactitude, 
mais  dout  il  ignorait  le  nom;  Pertz  ajoute  qua  le  manuscrit,  rendu  au  Vatican,  u'a 
pu  y  étre  retrouvó.  Encore  en  1853  Clievallet  avait  recours  à  de  semblables  pré- 
cautions:  «  J'ai  fait  l'aire,  dit-il,  il  y  a  plusieurs  annés,  avec  grand  soin,  un /ac-smt7e 
des  Serments ,  d'après  un  manuscrit  de  Nithard  provenant  de  la  Bibliotlièque 
du  Vatican ,  apportò  de  Eome  pendant  nos  guerres  de  l'Empire  et  depose  à  la  Bi- 
bliotlièque Nationale Depids    lors   ce  manuscrit    est  retourné   à  Rome  et   doit 

avoir  éte  reintegre  dans  la  Bibliothèque  du  Vatican.  '  »  Cependant  dès  1838  Gué- 
rard avait  montré  le  manuscrit  à  Pertz.  En  18G3  M.  L.  Delisle  l'enregistra  publi- 
quement  sous  le  n.  9768  du  fonds  latin,  qu'il  porte  encore,  dans  le  premier  des  In- 
ventaires  des  manuscrits  latins  non  compris  dans  l'ancien  catalogne  qu'il  a  succes- 
sivement  publiés  dans  la  Bibliothèque  de  l'Ecole  des  Chartes.  Depuis  lors  divers  sa-  , 
vants  l'ont  étudié,  et  la  Société  des  anciens  textes  francais  a  été  autorisée  a  faire 
faire  de  la  page  où  se  trouvent  les  Sermenti  la  reproduction  liéliograpliiqiie  qu'elle 
a  publiée  en  1875.  ' 

L'àge  du  manuscrit  qui  contieut  l'Histoire  de  Nitliard  a  été  autrefois  beaucoup 
trop  reculé.  On  l'attribuait  communément  au  IX®  siècle,,  les  plus  prudents,  comme 
Diez  et  Chevallet,  à  la  fin  de  ce  siècle  ou  au  commencement  du  suivant.  Un  jeune 
savant  allemand,  vouó  à  l'étude  de  notre  ancienne  littérature,  et  qui  tronva  la  mort 
à  vingt-six  ans  sur  le  champ  de  bataille  de  Gravelotte,  Jules  Brakelmann,  fut  le  pre- 
mier à  montrer  la  fausseté  de  cette  opinion  dans  un  article  qui  est  date  d'octobre 
1869,  mais  qui  ne  pàrut  qu'après  la  mort  de  l'auteur.  "  En  1870,  dans  un  appendice 
à  la  préface  de  la  seconde  édition  séparée  de  Nithard,  Pertz  fit  à  peu  près  les  mémes 
remar ques  que  Brakelmann.  Le  manuscrit  en  question  contient  en  elFet,  à  la  suite 
de  Nithard ,  et  de  la  mème  main ,  non  seulement  les  Annales  de  Flodoard,  qiii  vont 
jusqu'eu  966,  mais  une  continuation  anonyme,  qui  concerne  les  années  976-978, 
et  qui  ne  se  trouve  que  là.  C'est  d'après  ce  manuscrit  que  Pitliou  publia  en  1588, 
en  memo  temps  que  Nithard,  les  Annales  de  Flodoard  et  la  continuation  susdite.  ' 
Le  manuscrit  n'a  dono  pas  été  écrit  avant  cette  dernière  date;  mais  si  l'on 
considère,  comme  Brakelmann  le  fait  remarquer  avec  raison,  que  la  continuation 
dont  il  s'agit  est  loin  d'étre  l'originai,  que  la  transcription  contient  des  fautes  as- 
sez  nombreuses,  on  conclura  que  le  ms.  ne  peut  étre  antérieur  aux  dernières  années 
du  X«  siècle,  et  peut  fort  bien  n'étre  que  du  commencement  du  XP.  C'est  là  un 
point  qui  a   son  importauce  pour  la  critique  des  textes  qui  nous  ocoupent.    Ces 


'  Origine  ctfonnationde  la  languc  fmnqaise ,  1. 1,  p.  83. 

'  Voir  pour  ces  faits  la  préface  de  Pertz  à  la  2»  édition  de  Nithard  in  iisuin  scholamm  (1870),  et  l'artiole  de 
J.  Brakelmann  dont  il  sera  parlò  plus  loin. 

'  Zeitschriftfiir  deutsche  Philologie,  t.  Ili  (1871),  p.  85-95. 

'  Annalium  et  Bistoriae  Franeormn....  scriptores  coodanei  XII,  Pai-is,  158S.  Déjà  Bodin  avait  imprimé  dans  plu- 
sieni-s  editions  suooessives  de  sa  BSpuMique  le  texte  roman  des  Serments.  Je  ne  sais  par  quelle  confusion  M.  Stengel 
attnbue  la  première  impression  à  Vulcanius,  dont  le  De  literis  et  limjna  Getamvi  ne  parut  qu'en  1597  (à  Leide). 


—  80  — 

textes,  les  plus-  ancieus  qiie  nons  possécTions  comme  rédaction,  ne  sonfc  douc  pas 
les  plus  anciens  comme  transci-iptiou  :  ils  vieunent  à  cet  égard  après  la  Séquence 
de  salute  Eulalie  et  le  Fragmenfc  de  Valencienues ,  peut-étre  méme  après  les 
poèmes  de  Clermoufc;  mais  ils  doivent  à  leur  nature  particulière  de  uè  pas  avoir 
été  l'objet,  de  la  parfc  du  copiste  qm  les  a  transcrits;  d'un  remaniement  au  moins 
volontaire. 

Avant  de  les  étudier,  il  nons  faut  voir  dans  quelles  circonstances  ils  se  sont 
produits  et  nous  ont  été  transmis.  Je  n'ai  pas  à  raconter  ici  en  détail  la  triste  et 
fastidieuse  histoire  des  premières  disseusions  entre  les  fìls  de  Louis  le  Pieux; 
mais  il  faut  donner  un  résumé  des  événements  qui  précédèrent  immédiatement  l'en- 
trevue  de  Strasbourg.  En  839,  le  vieil  empereur,  avec  le  consentement  de  son  fils 
aìné  Lothaire,  avait  de  termine  ce  qiii  reviendrait  après  sa  mori  à  chacun  de  ses 
enfants.  Lothaire  devait  avoir,  avec  le  titre  d'empereur,  l'Italie,  et  tovite  la  région 
située  à  l'est  de  la  Mouse  et  au  nord  de  la  Bavière,  laissée  à  son  frère  Louis;  à 
Charles  était  assigné  tout  le  pays  compris  à  l'ouest  de  la  Mouse,  sauf  l'Aquitaine 
qui  restait  à  Pépiu.  Pépin  étant  mort,  l'empereur  voulut  accroìtre  de  son  royaume 
les  possessions  de  Charles ,  le  plus  jeune  et  le  plus  aimé  de  ses  fils ,  né  de  son  second 
mariage  avec  Judith.  Les  Aquitains  au  contraire  voulaient  pour  roi  le  jeiiue  Pépin, 
fils  de  celui  qui  venait  de  mourir.  Louis  marcha  contro  eux,  mais  sans  grand  siic- 
cès,  revint  ensuite  en  Aiistrasie,  d'où  il  alla  repousser  une  invasion  de  son  fils  Louis 
de  Bavière,  et  mourut,  au  retour,  près  de  Mayence,  le  20  juin  840;  Charles  se  trou- 
vait  alors  à  Bourges.  Lothaire,  qui  était  en  Italie,  chercha  aussitòt,  au  mépris  de 
tous  ses  engagements,  à  s'emparer  de  l'empire  entier.  Il  envoya  partout  des  émis- 
saires  chargés  de  gagner  les  évéques  et  les  comtes ,  passa  lui-méme  les  Alpes  à  la  tète 
d'une  armée,  conclut  près  de  Francfort  une  tròve  avec  Louis,  et  se  prepara  à  atta- 
quer  Charles.  Celui-ci,  accouru  d'abord  à  Quierci-sur-Oise  pour  y  recevoir  l'hom- 
mage  de  ses  sujets,  avait  été  brusquement  rappelé  enAquitaine,  où  son  neveu  Pé- 
pin menacait  de  près  Judith,  qiii  y  était  restée.  Lothaire  frauchit  la  Mense,  gagna 
à  son  parti  les  grands  du  pays  entre  Mense  et  Seine,  et,  pratiquant  les  mémes 
mancEuvres  au  delà  de  la  Seine,  s'avanca  jusqu'à  la  Loire.  A  Orléans,  il  rencontra 
Charles,  revenu  de  son  expédition  meridionale:  au  lieii  de  combattre,  les  deiix frères 
conclurent  une  convention  provisoire  qui  devait  se  changer  en  un  traité  défìnitif  à 
une  entrevue  qu'ils  aitraient  au  mois  de  mai  de  l'année  suivante  à  Attigni;  par 
cette  convention,  Charles  gardait  l'Aquitaine,  la  Septimanie,  la  Provence,  la  Bour- 
gogne  '  et  les  dix  comtés  entre  Seine  et  Loire;  Lothaire  lui  jurait  amitié  et  s'en- 
gageait  aussi  à  ne  pas  attaquer  Louis.  A  peine  conclu,  ce  pacte  fut  viole  par  les 
deux  frères.  Quand  Lothaire  so  fut  éloigné,  Charles  franchit  la  Seine  à  Rouen, 
malgré  la  résistance  des  partisans  de  Lothaire,  et  parcourut  le  pays  entre  Seine  et 
Mouse,  le  revendiquant  comme  sien  d'après  le  partage  fait  par  son  pére.    Lothaire 


'  Nithard  ne  la  nomme  pas;  mais  le  fait.  qu'ello  étaifc  còdée  à  Charles  parait  blen  résulter  de  ce  qui  suit. 


—  si- 
de son  coté  avait  attaquó  Louis  et  l'avait  contraint  à  la  fuite;  ayant  appris  la  mar- 
che de  Charles,  il  lui  fit  faire  des  re  presenta  tions,  que  celui-ci  recut  avec   hauteur. 
Au  mois  de  mai  841,  Charles  se  rendit  à  Attigni,  suivant  la  convention  de  l'année 
précédente;  il  n'y  fut  pas  rejoiut  par  Lothaire,  qui  se  tenait  à  Aix,  mais  il  y  recut 
des  envoyés  de  Louis,  qui  lui  offrait  de  venir  s'unir  à  lui  contre  leur  frère,  ce  que 
Charles  accepta  avec  joie.  Il  se  retira  eusuite  sur  Chàlons,  ori  sa  mère  arrivait  de 
son  coté  avec  les  Aquitains  dévoués  à  leur  parti.  Lothaire,  apprenaut  la  retraite  de 
Charles,  marcha  sur  lui,  et  l'atteignit  près  d'Auxerre,  mais   après  que  Loitis,   qui 
venait  de  battre  au  delà  du  Ehin  le  lieutenant  de  Lothaire,  avait  opere  sa  jonctiou 
avec  son  frère.  Lothaire  différa  la  bataille  de  quelques  jours,  parco  qu'U  attendait  de 
son  coté  les  renforts  que  son  neveu  Pépin  lui  amenait  d'Aquitaine:   ils   arrivèrent, 
et  le  25  juin  841  eut  lieu  à  Fontenoi  en  Puisaye  (Yonne)  '  la  sauglante  bataille  qui  se 
termina  au  désavantage  de  Lothaire,  mais  sans  amener  de  résultats  décisifs.  Louis 
retourna  en  Allemagne,  Charles  sur  la  Loire. -Il  revint  de  là  dans   la  Franco  du 
Nord,  où  il  trouva,  malgré  son  succès,  un  accueil  assez  froid.  Il  apprit  à  Eeims,  à 
la  fin  d'aoùt  841,   que  Louis  était  de  nouveau  attaquó  par  Lothaire,   et  se   dirigea 
par  Saint-Quentin  vers  Maestricht  pour  entrer  en  Austrasie  et  faire  une   diversion. 
n  réussit:   Lothaire,  laissant    Louis,   marcha  sur  Charles.  Celui-ci  se  retira  vers 
Paris;  Lothaire  y  vint  avec  son  armée,  mais,  n' ayant  pu  parvenir  à  passer  la  Seine, 
il  alla   à   Sens   retrouver  Pépin,   qui   venait  encoro   d'Aquitaine  avec  nue  armée. 
Charles,  apprenant  que  Louis,  qu'il  attendait  de  son  coté,  était  empèché  de  passer  le 
Ehin,  se  decida  à  marcher  à  sa  rencontre.  La  nouveUe  de  son  arrivée  en  Alsace  sufflt 
à  disperser  les  partisans  de  Lothaire  qui  gardaient  le  passage  du  ileuve.  «  Le  IG  des 
kalendes  de  mars  (14  février  842) ,  Louis  et  Charles  se  réunirent  dans  la  viUe  qui 
s'appelait  autrefois  Argentana  et  dont  le  nom  vulgaire  est  aujourd'hui  Strazburg.  Ils 
y  jurèrent,  Louis  en  langue  romane,  Charles  en  langue  tioise,  les  serments  qui  sont 
rapportés  ci-dessous.  Et  avant  le  serment  ils  haranguèrent   ainsi,   l'un  en  lanfue 
tioise,  l'autro  en  langue  romane,  le  peuple   assemblé  autour  d'eux.  Louis  parla  le 
premier,  parco  qu'U  était  l'aìné,  et  dit:   Vous  savez  comòien  de  fois,  dejmis  la  mori  de 
notre  ]}ère^  Lothaire  irUa  attaqué,  mol  et  mon  frère  que  voici,  essayant  de  noits  ruiner  et  de 
nous  détruire.  Ni  la  fraternité,  ni  les  sentiments  chrétiens,  ni  aucun   moyen  n'a  pti  faire 
que  la paix  s'établìt  entre  nous  jjar  la  justice.  A  la  fin,  contraints,   nous  aoons  remis  la 
décision   au  jugement  de  Dieu  fout-jnnssant ,  afin  qu'il  indiqudt  ce  qui  nous  revenait  à 
cliacun  et  ce  qui  devait  nous  suffire.  Votis  savez  que  dans  cette   épreìtve,  par  la  grdce  de 
Dieu,  nous  avons  été  vainqueurs;  lui,  vaincu,  il  s'est  retiré  oh  il  a  voulu  '  avec  les  siens; 
touchés  d'affection  fraternellc,  et  aussi  de  pitie  pour  le  peuple  chrétien,  notes   n  avons  pas 
votdu  jioursidvre  et  extenniner  les  fugitifs;  nous  avons  recommencé,  camme  aupar avant,  à 
dtmander  simplement  que  justice  fat  f aite  à  cliacun.  Mais  lui,  par  la   suite,  ne   s'est  pas 
soumis  au  jugement  divin;  il  ne  cesse  pa^  d'attaquer  à  main  armée  moi  et  mon  frère;   il 


'  Et  non  à  Fontenailles,  cornine  le  veut  Tabbé  Lebeut'. 
■  Le  ms.  a  valuit,  mais  soliùl  est  préfórable. 


.  —  82  — 

(lèsole  mon  j)euj)le  p^av  V'uicemlie,  le  inllage  et  le  nimrtre.  C'est  pour  cela  que,  coidraints 
par  la  nucessité,  nous  nous  sommes  réunis,  et  cornine  notis  craignons  que  vous  ne  cloutlez 
de  notre  fidélité  staile  et  de  notre  solide  fraternité,  nous  avons  résolu  de  jurer  entre 
nous,  à  votre  vue,  le  sennent  que  vous  allez  entendre.  A'^ous  n'agissons  pa^s  sous  l'empire 
d'une  injuste  convoitise,  mais  pour  assurer,  avec  la  grdce  de  Dieu  et  votre  aide,  la  paix 
et  le  profit  commun.  Si,  ce  qua  Dieu  ne  plaise,  je  venais  à  violo-  le  sermenf  que  je  vais 
jurer  à  mon  frère ,  je  delie  cliacun  de  vous  de  ma  sujétion  et  du  serment  que  vous  m'avez 
prète.  Charles  prononca  ces  mémes  paroles  en  langue  romane;  puis  Louis,  le  pre- 
mier, en  sa  qualité  d'aìné,  affirma  aiusi  qix'il  garderait  par  la  suite  ce  qui  était 
convenu  (suit  le  serment  roman  de  Louis).  Quand  il  eut  termine,  Charles  répéta 
la  mème  affirmation  en  langue  tioise  (suit  le  serment  de  Charles).  Quant  au  ser- 
ment que  les  deux  peuples  prètèrent,  chacun  daus  sa  propre  langue,  il  est  ainsi 
concu  en  langue  romane  (suit  le  serment  des  hommes  de  Charles)  et  en  langue  tioise 
(suit  le  serment  des  hommes  de  Louis)....  Ce  jour-là  il  tomba  beaucoup  de  neige, 
suivie  de  gelée.  »  Par  ces  deux  «  peuples  »  qui  prononcèrent  les  formules  du  serment, 
il  faut  óvidemment  entendre  les  principaux  personnages  de  chaque  coté.  La  for- 
mule mème  attesto  qti'il  s'agit  ici  des  comtes,  des  conseUlers  des  deux  rois:  Si, 
disent-ils,  notre  seigneur  viole  son  serment  et  que  nous  ne  puissions  pas  Tea  détourner.... 
Chacun  de  ces  fidèles,  comme  on  disait,  répéta-t-il  la  formule,  ou  deux  représen- 
tants  furent-ils  choisis?  C'est  ce  que  Nithard  ne  dit  pas;  la  première  hypothèse 
semble  appuyée  par  l'emploi  dans  la  formule  du  pronom  siugulier  de  la  première 
personne. 

L'historien  qui  nous  a  conserve  ces  précieux  textes  n'était  pas  le  premier  venu. 
Nithard  était  le  propre  petit-fils  de  Chaiiemagne,  étant  né,  comme  il  nous  l'apprend 
lui-méjne  (IV,  5),  de  sa  fìUe  Berte  et  d'Angilbert,  r«Homère»  de  l'Ecole  palatine, 
l'auteur  sinon  des  Annales  longtemps  attribuées  à  Eginhard,  '  au  moins  de  poèmes 
historiques  bien  connus.  A  la  fois  savant  et  guerrier,  comme  la  plupart  des  mem- 
bres  de  la  famille  du  grand  empereur,  Nithard  prit  une  part  personnelle  aux  événe- 
ments  dont  il  a  écrit  l'histoire.  Il  rappelle  à  Charles  le  Chauve,  son  cousiu  germain, 
sous  l'inspiration  duquel  U  écrit,  qu'il  a  été  emporté  à  ses  còtés  dans  le  tourbillon 
où  le  roi  a  vécu  pendant  les  deux  ans  qui  ont  suivi  la  mort  de  son  pére.  Eacontant  la 
bataille  de  Fontenoi,  il  dit  qu'avec  l'aide  de  Dieu  il  n'a  pas  été  d'un  petit  secours 
à  Adhelard,  qui  commandait  une  des  divisions  de  l'armée  (II,  10).  Investi  de  tonte 
la  confiance  de  Charles,  il  fut  employé  par  lui  à  d'importantes  missions:  il  fut  l'un 
des  messagers  députés  à  Lothaire  en  841  (II,  2)  et  l'un  des  douze  plénipotentiaires 
chargés  au  nom  de  Charles,  en  843,  derégler  entre  lui  et  son  frère  Louis  le  partage 
du  royaume  enlevé  à  Lothaire  (IV,  1).  Les  dernières  lignes  de  son  livre  ont  été 
écrites  au  mois  de  mars  oit  d'avril  843,  et  on  pourrait  croire  qu'à  partir  de  ce  mo- 
ment il  renonca  à  la  fois  et  à  l'histoii'e  et  à  la  vie  politique ,  mettaut  en  pratique 


Voy.  G.  Monod,  dans  la  Rev.  Crii.,  1873,  t.  II,  p.  261. 


—  83  — 

les  aspirations  à  la  retraite  qu'il  exprime  dans  le  pi-ologue  découragé  de  soii 
livre  IV,  si  une  notice  digue  de  foi  ne  nous  faisait  plutòt  croire  qu'il  périt  dans  un 
des  combats  de  cette  mème  auuée,  peut-étre  dans  ces  guerres  meurfcrières  qua 
Charles  livra  en  Aquitaine,  où  fut  tue  entre  autres  l'abbé  Hug,  fils  de  Charlemagne, 
et,  Gomme  Nithard,  dévoué  à  Charles  le  Chauve.  Son  pére  Angilbert  avait  été  le 
restaurateur  du  monastère  de  Centule  ou  Saint-Ri quier  en  Pontieu;  Nithard  en  était 
abbé.  Il  y  fut  enterré,  et  on  y  retrouva  au  XI"  siècle  son  corps,  conserve  dans  le 
sei,  et  enfermé  dans  un  cercueil  de  bois.  Le  moine  Hariulf,  qui  assistait  à  cette  dé- 
couverte,  l'a  rapportée  dans  sa  chronique,  et  il  ajoute  qu'on  voyait  encore  au  cràne 
la  blessure  qui  avait  cause  sa  mort:  in  cnjus  capite  videbatur  ilici  jjercussìira  qua 
eveiitu  prelii  full  occisus. 

La  situation  de  Nithard  auprès  de  Charles,  qui  donne  un  grand  poids  à  son 
témoignage  comme  liistorien,  iuspire  aussi  une  confiance  absolue  dans  l'authen- 
ticité  des  précieux  documents  qu'il  nous  a  transmis  à  l'occasion  de  l'entrevue 
de  842.  Ce  sont  de  véritables  Instruments  diplomatiques  dans  toute  l'acception  du 
mot,  et  ils  ouvrent  dignement  la  serie  des  monuments  d'une  langue  qui  devait 
étre  la  langue  diplomatique  par  excellence.  Dans  bien  d'autres  circonstances ,  sans 
doute,  des  actes  qui  ne  nous  ont  été  conservés  qu'en  latin  ont  été  prononcés  en 
langue  vulgaire.  En  860,  à  May  enee,  Louis  et  Charles  conclurent  un  pacte  fort 
semblable  à  celui  de  Strasbourg,  et  le  chroniqueur  qui  nous  en  a  transmis  la  for- 
mule latine  remarque  expressément  que  Louis  parla  en  allemand  et  Charles  en 
langue  romane  (à  l'inverse  de  ce  qui  eut  lieu  a  Strasbourg).  Pour  que  Nithard  n'ait 
pas  fait  comme  ce  chroniqueur,  comme  il  a  fait  lui  méme,  a  la  méme  page  de  son 
livre  en  traduisant  en  latin  le  discours  que  les  deux  frères  prononcèrent  l'un  après 
l'autre  en  allemand  et  en  francais,  il  faut  qu'il  ait  eu  une  raison  particulière.  Cette 
raison  paraìt  facile  à  deviner.  Les  formules  des  serments  des  deux  rois  et  de  leurs 
fidèles  ont  certainement  été  écrites  avant  d'étre  prononcées:  Louis,  Charles,  et  les 
représentants  de  leurs  deux  armées  les  ont  lues  à  haute  voix  d'après  les  feuilles  de 
parchemin  où  elles  avaient  été  transcrites,  sans  doute  à  la  suite  d'une  délibéra- 
tion  et  après  que  la  rédaction  en  avait  été  approuvée.  Nithard  dut  avoir  les  origi- 
naux  mèmes  entre  les  mains,  et  cette  circonstance  triompha  de  la  répugnance  com- 
mune  a  tous  les  clercs  à  écrire  le  patois  des  illettrés  :  il  les  inséra  tels  quels  dans 
son  texte  latin.  On  pourrait  aller  plus  loin,  et  se  demander  s'il  ne  fut  pas  lui-mème 
chargé  de  la  rédaction  des  formules,  et  si  l'intérét  qu'il  leur  a  trouvé  ne  vient  pas 
en  partie  de  ce  qu'il  eu  était  l'auteur.  La  supposition  n'a  rien  d'invraisemblable. 
D'une  part  nous  avons  vu  qu'il  avait  recu  à  plusieurs  reprises  des  missions  fort  ana- 
logues;  d'autre  part,  élévé  par  un  pére  fort  instriiit  à  l'école  du  Palais  et  à  Saint- 
Riquier,  il  devait  posseder  également,  sans  parler  du  latin,  le  fran9ais,  langue  des 
sujets  de  Charles,  langue  des  habitants  du  voisinage  de  Centule,  et  l' allemand, 
langue  de  toute  la  famille  imperiale  et  royale;  certaines  particularités  orthographi- 
ques  des  Serments  viendraient  mème  appuyer  cette  supposition:  pour  les  noms 
propres,   soit   allemands,   soit  fran9ais,   qui  sont  cités   dans  le  courant  du  texte 


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latin ,  Nithard  emploie  les  mème  procédés  de  notation  qiie  ceux  dii  texte  des  Ser- 
ments.  D'autres  traits,  à  la  vérité,  distingueut  la  graphie  des  Serments  de  celle  du 
texte  latin  de  l'Histoire;  mais  cette  différence  peut  fort  bien  tenir  à  la  différence 
de  la  langue,  et  je  n'y  verrais  pas  une  raison  pour  refnser  à  Nithard  la  composition, 
en  roman  et  en  tiois,  des  formtdes  qu'il  a  inserées  dans  son  livi'e. 

Il  resulto  clairement  de  la  rédaction  en  deus  langues  vulgaires  des  engage- 
ment pris  par  les  rois  et  leurs  fidèles  que  la  majorité  de  ceux-ci,  tout  au  moins,  ne 
comprenait  pas  le  "latin.  Les  sujets  de  Louis  ótaient  des  Bavarois,  des  Alemans,  des 
Saxons,  des  Austrasiens:  il  est  tout  naturel  qu'ils  n'entendissent  que  le  tiois.  Quant 
aux  grands  du  royaume  de  Charles  le  Chauve,  ils  devaient  appartenir  aux  parties 
les  plus  diverses  de  son  royaume.  Il  y  avait  dans  son  armée  des  Basques,  des  Bre- 
tons  (III,  6);  il  devait  y  avoir  des  Provencaux,  des  Aquitains,  des  Bourguignons ; 
un  noyau  considérable  provenait  des  comtés  entre  Seine  et  Loire;  un  autre,  peut- 
étre  le  plus  important,  de  la  région  entre  Seine  et  Mense.  Quand  Lothaire,  devant 
Paris,  quatre  ou  cinq  mois  avant  la  réunion  de  Strasbourg,  invitait  Charles  à  ac- 
cepter  la  Seine  comme  limite  de  son  royaume,  Charles  répondait  «  qu'il  ne  lui 
semblait  nuUement  conveuable  de  renoncer  au  pays  entre  Meuse  et  Seine,  que  son 
pére  lui  avait  donne,  surtout  à  cause  de  la  noblesse  de  ce  pays,  qui  l' avait  suivi  en 
si  grand  nombre,  et  qui  ne  devait  pas  étre  décue  dans  la  confiance  qu'eUe  avait 
mise  en  lui  »  (Nith.,  Ili,  3).  Sauf  les  contingents  bretons  et  basques,  tout  ce  monde 
parlait  «roman»;  déjà  sans  doute  bien  des  difFéi-ences  locales  se  faisaient  sentir, 
surtout  dans  la  prononciation;  mais  elles  n'empéchaient  pas  qu'on  ne  s'entendit,  et 
qii'un  texte  court  et  simple,  redige  d'après  une  des  manières  de  parler  usitées  en 
Gaule ,  ne  f ut  parfaitement  iutelligible  pour  tous.  Aucun  indice  externe  ne  ■  nous 
apprend  quel  fut  le  dialecte  qu'on  choisit  pour  la  rédaction  des  formu.les.  Si  cepen- 
dant  on  admet  que  Nithard  en  fut  l'atiteiir,  on  doit  croire  qu'il  écrivit  dans  la 
forme  de  langage  qui  lui  était  habituelle,  et  il  semble  que  cette  forme  doit  étre 
celle  du  Pontieu ,  c'est  à  dire  du  voisinage  de  l'abbaye  où  son  pére  avait  fini  ses 
jours,  où  il  avait  dù  étre  élevé,  et  à  la  té  te  de  laquelle  il  était  lui-méme;  c'était 
au  moins  une  forme  orientale  et  septentrionale.  Nous  verrons  si  l'étude  interne  des 
textes  confirme  cette  supposition. 

Il  est  intéressant  de  constatar  l'usage  exclusif  du  roman,  c'est  à  dire  du  fran- 
9ais ,  dès  la  première  moitió  du  IX®  siècle  ,  dans  les  plus  hautes  classes  de  la  société 
fran9aise.  Je  ne  sais  si  Charles  le  Chauve  le  parlait  lui-méme  hab^tuellement;  Louis, 
en  tout  cas,  Louis  l'AUemand,  ne  devait  pas  le  parler:  il  dut  lire  avec  une  exactitude 
mécanique  la  formule  francaise  qu'on  lui  donnait  à  réciter.  Mais  les  grands  du 
royaume  de  Charles  ne  comprenaient  pas  d'autre  langue:  malgré  leurs  noms  ger- 
maniques,  il  leur  fallait  entendre  le  roi  d'Allemagne  parler  francais  pour  savoir  ce 
qu'il  avait  à  leur  dire.  Ce  fait  paraìt  d'ailleurs  tout  naturel  à  l'historien;  il  ne  lui 
inspire  aucune  marque  d'étonnement:  il  était  dono  habituel  et  déjà  ancien.  Si  Fon 
songe  (jne  les  Serments  furent  prétés  vingt-huit  ans  après  la  mort  de  Charlemagne , 
ou  se  dit  que  plus  d'un ,  parmi  ceux  qui  les  répétèrent  ou  les  enteudirent,  avait 


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combatta  sous  le  grand  empereur,  avait  fait  parti©  de  sa  cour  ou  do  son  adminis- 
tration.  Aiusi  la  «  noblesse  »  de  ce  pays  qui ,  un  an  après ,  par  le  traité  de  Verdun , 
devait  commencer  à  s'appeler  la  France,  '  cotte  noblosse  de  sang,  d'esprit  et  de 
noms  germaniques,  était  depuis  longtemps  devenue  romane  de  langage,  comme  les 
populations  sur  lesquelles  elle  domiuait,  et  elle  était  tonte  prète,  rompant  ses  der- 
niers  liens  avec  le  pays  de  son  origine,  à  fonder  avec  ces  populatioias ,  sous  la 
direction  d'iine  royauté  sortie  de  son  sein,  la  nationalité  francaise. 

Les  Serments  de  842  se  composent  de  quatre  textes ,  deux  en  roman ,  deux  en 
allemand.  Il  y  a  lieu  de  se  demander  quel  est  le  rapport  de  ces  deux  rédactions. 
Diez  s'est  déjà  pose  cette  question.  Voici  ce  qu'il  en  dit  (p.  3):  «  Les  deux  rédactions 
ne  concordent  pas  exactement.  La  formule  romane  est  plus  précise  et  détaillée: 
Louis  nomme  ici  cliaque  fois  son  frère  par  son  nom ,  tandis  que,  dans  la  formule 
allemande,  Charles  ne  prononce  pas  le  nom  de  son  frère;  il  y  manque  aussi  les 
mots  qui  en  roman  précisent  salvar,  «  in  adiudha  et  in  cadJmna  cosa;  »  on  ne  trouve 
pas  non  plus  de  mot  allemand  qui  réponde  à  nunquam.  Je  ne  voudrais  pas  en  conclure 
que  Louis,  en  sa  qualité  de  frère  aìné,  a  fourni  l'originai,  d'après  lequel  aurait  été 
établie  une  rédaction  allemande  quelque  peu  imparfaite;  car  celle-ci  aussi,  au 
moins  à  un  endroit,  est  grammaticalement  plus  exacte  (voy.  la  remarque  sur  los 
taidt).  Ce  qu'il  y  avait  de  phis  naturel,  c'était  d'écrire  d'abord  les  serments  en 
latin,  puis  de  les  traduire  dans  les  deiix  langues  vulgaires.  C'est  ainsi  qu'on  s'expli- 
que  aussi  le  mieux  comment  le  texte  roman  se  rapproche  tant  de  l'usage  latin, 
comment  surtout  il  omet  l'articie ,  qua  la  langue  devait  posseder  depuis  longtemps.  » 
Pour  critiquer  cette  hypothèse ,  il  n'est  pas  mauvais  de  remettre  les  deux  formnles 
en  latin,  naturellement  dans  le  latin  usité  à  cette  epoque  pour  des  actes  et  dans 
des  circonstances  semblables.  Je  mets  en  italique  les  mots  qui  ne  sont  représentés 
qiie  dans  le  texte  francais,  entre  pareuthèses  les  passages  des  deux  textes  qui  di- 
vergent  de  celui  que  j'ai  adopté  pour  base  du  latin. 


Pro  Dei  amoro  et  prò  christiani  populi  et  nostro  communi  (aìì.  amborum)  salvamento,  de 
ista  die  in  antea,  in  quantum  Deus  nosse  et  posse  milii  donaverit  (fr.  et  ali.  donat),  sic  sal- 
vabo  ego  istnin  meum.  fratrom  Karlum  et  in  adjumento  et  in  unaquaqiie  re,  sicut  homo  per 
rectum  suum  ixaXxexa.  salvare  deb  et,  in  eo  quod  ille  mihi  (a?/,  me)  sic  faciat,  et  cum  Lodha- 
rio  nullum  placitum  nunquam  capiam  {ali.  in  nullum  placitum  ibo)  quod  mea  voluntate  isti  meo 
fratri  Karlo  [ali.  illi")  in  damno  sit. 


Francia  dans  Nithard  vont  diro  •  Austrasie  : 


—  86  — 


II. 


Si  Lodlìuìvim.t  {ali.  Karlus)  saci-amentum  qnod   suo    frati-i  Kavolo  juravit  conservat,   et 

Karlun  {aìl.  Lodliuwicus)  ineus  senior  de  sua  parte {aìl.  quod  illi  juravit  rumpit),  si 

ego  illuni  inde  avertere  non  possiim  (fr.  si  ego  avertere  non  illnm  inde  possum),  nec  ego  nec 
nullus  (aìl.  eorum  nullus)  quem  ego  inde  avertere  possum  in  niilìn  ftdjumento  contra  Lodlmim- 
Clini  non  illi  ibi  ero  {ali.  contra  Karlum  illi  in  adjumento  non  erit). 

Il  ne  mo  semble  pas  résulter  de  cette  restaiai'ation  la  conclusion  que  le  texte 
roman  soit  uue  traduction  du  latin.  On  ne  voit  pas  qne  l'expression  romane  soit  en 
rien  génée  par  le  latin.  La  construction  est  toiite  romane ,  et  à  un  endroit  il  a  été 
impossible  de  la  reproduire  exactement  en  latin.  Il  est  vrai  que  des  formules  lati- 
nes,  par  exemple  celles  des  serments  échangés  de  nonveau  entre  Louis  et  Charles 
en  860,  présentent  des  traits  fort  semblables  à  ceux  du  texte  qu'on  vient  de 
lire;  mais  ces  formules  sout  calquées  sur  le  roman,  précisément  comme  ce  texte. 
L'emploi  de  l'adverbe  sic  en  téte  de  la  proposition  principale  du  premier  serment, 
après  les  propositions  motivantes  ou  conditionnelles  du  début,  sic  salvaho,  est 
tont  à  faifc  roman,  et  ne  se  présente  pas  dans  les  actes  latins  semblables.  Si  d'atitre 
part  on  trouve  quelque  vraisemblance  à  regarder  Nitbard  comme  l'auteur  des  for- 
mules, il  les  aura  rédigées  au  point  de  vue  de  Charles;  il  aura  dono  fait  d'abord 
celle  du  serment  que  devait  prononcer  Louis,  et  il  l'aura  faite  aussi  précise  que 
possible;  le  texte  aUemand,  destine  à  étre  prononcé  par  Charles,  n'aura  été  qu'une 
traduction,  exéeutée  peut-étre  par  un  autre  que  Nithard.  L'objection  de  Diez  est  que 
dans  un  passage  le  texte  allemand  est  supérieur  au  francais;  cela  est  vrai,  mais  ne 
proiive  rien,  le  texte  francais,  comme  nous  le  verrons,  étant  gravement  altère  à 
cet  endroit.  Je  regarde  aussi  comme  due  au  copiste  l'omission  de  l'article ,  lequel 
n'avait  d'ailleurs  lieu  d'ètre  exprimé  qu'une  fois.  Enfin  je  ne  trouve  pas  que  le  texte 
francais  se  rapproche  du  latin  de  manière  à  se  faire  reconnaìtre  comme  en  étant 
traduit.  Je  crois  donc  que  le  texte  allemand  est  une  traduction  de  l'originai  francais, 
et  comme  tei  il  pourra  étre  d'un  certain  secours  à  l'iuterprètation.  Je  le  donne  ici, 
d'après  les  dernières  resti tutions  de  la  oriti  que. 


In  Godes  niinna  ind  in  thes  christianes  Iblches  ind  unser  bedhero.gchaUnissi,  l'ou  thosemo 
dage  irammordes ,  so  fram  so  iiiir  Got  gewizci  indi  mahd  furgibit,  so  lialdih  thesan  minan 
))ruodher,  soso  man  mit  relito  sinau  bruodher  scal,  in  tliiu  thaz  or  mig  so  sama  duo,  indi  mit 
Ludhcren  in   nohlieinin   tliing   ne  gegango,  the  minan  willon  imo  co  scadlìon  werdhen. 


—  87  - 


II. 


Oba  Karl  tlien  eid,  tlien  er  siuemo  bruodher  Ludhuwige  gesitor,  geleistit,  indi  Ludhuwig 
min  herro  then  er  imo  gesuor  fbrbrihliit ,  ob  ib.  inan  es  irwenden  ne  mag ,  noli  ib  nob  tlioro 
nohhein,  then  ih  es  irwenden  mag,  widhar  Karle  imo  ce  foUnsti  ne  wirdhit. 

Le  ms.  présente  quelqnes  lecons  fautives  qu'il  n'est  pas  inutile  de  relever: 
I.  1  gealtnissi,  2  niadh,  tesan^  3  s.  hrulier,  so  soma,  4  hiÀeren,  uuerhen;  II.  2  forbrihcliit. 
En  ontre  les  mots  sont  conpés  de  facon  à  prouver  que  le  copiste  n'entendait  absolu- 
ment  rien  à  ce  qu'il  transcrivait.  Dans  ce.s  conditious,  il  aurait  au  moins  dù  copier 
avec  line  fidélité  servile,  et  huit  fautes  en  quiuze  lignes  ne  témoignent  pas  en 
faveur  de  son  attention.  Il  ne  faut  donc  pas  nous  étonuer  s'il  se  rencontre  égale- 
ment  des  fautes  dans  le  texte  roman.  Toutefois  les  conditions  sont  ici  dififérentes. 
Le  copiste  était  sùrement  Fraucais,  car  d'une  part  il  n'entendait  pas  l'allemand, 
d'autre  part  il  a  transcrit  Nitliard,  partisan  du  roi  de  France,  et  Flodoard,  liisto- 
rien  d'un  intérét  exclusivement  national.  Aussi  paraìt-il  avoir  généralement  bien 
compris  le  texte  roman  des  Serments.  Ce  texte,  en  roman  aussi  bien  qu'en  allemand, 
devait  ètra  écrit  sans  séparationde  mots;  or  l'espace  entro  deux  motsromans  est  sou- 
vent  omis,  comme  il  arriva  d'ailleurs  dans  la  latin,  mais  les  syllabes  d'un  méme 
mot  ne  sont  pas  séparées  à  tort,  comme  dans  le  texte  allemand,  sauf  pour  ad  iudha 
cad  Imna,  et  on  trouve  quelques  exemples  du  méme  genra  dans  le  texte  latin.  Il  y  a 
cependant  des  fautes,  comme  lodhuuigs  pour  ìodlnamigs,  probablement  suo  pour  sua, 
et  certainement  lostanit.  Enfin  l'écrivain  s'est  corrige:  d'abord  las  daux  fois  où  il  a 
écrit  le  mot  aiudlia;  la  première  fois  il  avait  mis,  sous  l'inflixence  du  latin,  un  d  da 
trop  (adiudha),  qu'il  a  ensuite  exponctué,  c'est  à  dire  supprimé  en  placant  un  point 
au  dessous;  '  la  seconde  fois  il  avait  oublié  le  d  qui  appartieni  réeUamant  au  mot 
(aiuha),  et  il  l'a  rétabli;  enfin,  à  la  2"  ligne  du  premier  texte,  il  avait  d'abord  écrit 
en,  dont  il  a  fait  in.  Cotte  troisième  correction  est  fort  intéressante:  elle  montra  que 
ce  copista,  malgré  des  distractions,  s'efforcait  de  copier  exactement  ce  qu'il  avait 
sous  les  yeux.  Elle  nous  fait  voir  en  outre  combien  les  ckances  d'une  trauscriptiou 
infidèle  étaiant  plus  grandes  ici  que  pour  le  texte  allemand  :  en  copiant  ce  dernier, 
qu'il  ne  comprenait  pas,  le  scriba  ne  risquait  que  d'omettre  ou  da  mal  lire  des  lettres; 
mais  pour  le  francais  il  était  sujet  à  deux  influences  perturbatrices.  D'une  part,  le 
francais  de  Nithard  est  si  voisin  du  latin,  seule  langue  habituellement  écrite,  qu'il 
etait  tout  naturai  de  l'en  rapprocher  encore;  c'est  ce  qu'avait  déjà  fait  sans  doute 
le  premier  rédacteur  des  formules  et  ce  que  devait  faire  le  copiste:  c'est  à  catte  in- 


'  Voy.  SUI-  les  procédés  divers  employés  à  cet  effet  par  le  copis*-^  les  observations  de  Brakelmarm. 


fluence  qu'il  faut  attribuer  les  formes  nunquam,  1,7;  Karlus,  II,  2;  non,  II,  3,  sans 
parler  des  abréviations,  employées  en  latin  avec  une  valetir  autre  que  celle  qu'elles 
doivent  avoir  en  francais.  D'autre  part,  en  centcinquante  aus,  le  francais  s'était 
développé,  et  en  méme  temps  la  traditiou  orthograpliique  remontant  à  l'epoque  mé- 
rovingienne,  que  représentait  le  texte  originai  des  Serments,  avait  tout  à  fait 
disparu.  De  là  certaines  hésitations  et  contradictions  :  la  plus  sùre  porte  sur  le  mot 
in,  que  le  scribe,  coniprenant  bien  le  seus,  avait  note  en,  comme  on  prouoncait 
et  écrivait  de  son  temps,  et  qu'il  a  ensuite  corrige  en  in,  pour  se  conformer  à  l'ori- 
ginai, qui  le  donne  six  autres  fois;  on  peut  peut-étre  ranger  dans  la  méme  classe  io 
à  coté  de  eo,  Karle  à  coté  de  Karlo ,  fradre  à  còte  de  fradra,  et  méme  non  à  còte  de 
min.  D'aiUem-s,  s'il  a  généralement  compris  son  texte,  le  copiste  ne  s'est  pas  piqué 
de  l'enteudre  partout:  de  suo  part  II,  2,  en  est  un  indice,  et  nous  poiivons  afiirmer 
que  «0)1  lostanit  II,  2,  lui  était  aussi  iuintelligible  qu'à  nous.  Enfin,  à  ces  diverses 
oauses  d'erreurs,  il  faut  peut-étre  ajouter  les  intermédiaires  possibles  entro  l'originai 
et  la  copie,  postérieure  d'au  moins  un  siede  et  demi  ;  cependant  la  fidélité  generale 
est  si  grande,  notamment  dans  le  texte  allemand,  que  je  suis  porte  à  croii'e  notre 
texte  directement  transcrit  sur  l'autographe  de  Nitbard  ou  l'exemplaire  exécuté 
sous  ses  yeux. 

Je  donne  d'abord  la  reproductiou  absolument  diplomatique,  ligue  pour  Hgne, 
mot  pour  mot,  du  texte  tei  qu'il  est  dans  le  manuscrit.  En  la  comparant  au  fac-simiié, 
le  lecteiu:  pourra  lire  ce  deruier  sans  aucuue  peine. 


1.  Pro  dò  amur  &   pxpiau  poblo  &  uròcòinun 

2.  saluameut.  dist  di  (fn  auaut:  inquantds 

3.  sauir  &  podir  medunat.  sisaluaraieo 

4.  cist  meon  fradre  karlo.  &  in  ad  iudba 

5.  &  in  cad  huna  cosa,  sioù  om  p  dreit  son 

6.  fradra  saluar  dift.  Ino  quid  il  mialtre 

7.  si  faz&.  Et  abludher  nul  plaid  nùquà 

8.  prindrai  qui  meon  uol  cist  meon  fradre 

9.  karle  in  damno  sit. 


II. 


1.  Silodlm 

2.  uigs  sagramcnt.  que  son  fradre  karlo 
.S.  iurat  conseruat.  Et  karlus  meossendra 

4.  desuo  partn  lostanit.  si  ioreturnar  non 

5.  lint  pois,  neio  neneuls  cui  eo  returuar 

6.  iiit  pois,  in  nulla  a  iuha  centra  lodhu 

7.  uiiis  nunli  iuer.' 


-  8y  — 


En  voici  maintenant  une  transcriptiou  où  j'ai  introduit  la  juste  sóparation  des 
mots,  la  distinction  de  «.,  *  et  «,  j,  la  ponctuation  et  les  capitales,  mais  sans  rien 
chau^er  au  texte  méme  là  où  il  est  fautif  : 


Pro  Deo  amur  et  prò  Christian  poblo  et  nostro  commini 

salvament,  d'ist  di  in  avant,  in  quant  Deus 

savir  et  podir  me  dunat,  si  salvarai  eo 

cist  meon  fradre  Karlo,  et  in  aiudha 

et  in  cadhuna  cosa,  si  com  om  per  dreit  son 

fradra  salvar  dift,  in  o  quid  il  mi  altre 

si  fazet,  et  ab  Ludher  mal  plaid  nunquam 

prindrai  qui,  meon  voi,  cist  meon  fradre 

Karle  in  damno  sit. 


II. 

Si  Lodhu- 
vigs  sagrament  que  son  fradre  Karlo 
jurat  conservat ,  et  Karlus  meos  sendra 
de  suo  part  non  lo  stanit,  si  io  returnar  non 
l'int  pois,  ne  io  ne  neuls  cui  eo  returnar 
int  pois  in  nulla  aiudlia  contra  Lodhu- 
wig  nun  li  iu  er. 

Il  faudrait  avoir  exposé  l'étude  grammaticale  des  deux  textes  pour  en  présen- 
ter  une  forme  rectifiée,  rópondaut,  autant  que  possible,  à  la  forme  qu'ils  ont  du 
avoir  dans  la  bouche  de  ceux  qui  les  ont  prononcés.  C'est  une  tentativo  qui  trou- 
vera  sa  place  ailleiirs. 

G.  Paeis. 


NOTES    PALÉOGEAPHIQUES. 

I,  1.  LeMtulus  plaoé  sur  uro  se  trouve  rm  peu  en  arrière  de  l'o ,  ce  qn'on  n'a  pu  reproduire  typograpliiquement. 

>  2.  Aucune  édition  ne  reproduit  le  point  qui  se  Ut  après  saluament.  —  JX.  Koschwitz  (IS&l)  voit  un  point  sous  l'è 
de  eti  et  un  i  au  dessus;  mais  sur  le  procède  employé  par  le  soribe,  voy.  Brakelmann,  L  e,  p.  91.  —  Le 
doublé  accent  dont  M.  Koschwitz  munit  Va  d'auant  n'est  pas  dans  le  mauuscrit. 

.    6.  Koschivitz  et  Stengel  lisent  dùt,  mais  en  comparant  ce  mot  à  dist  de  la  1.  2  et  à  cist  des  1.  4  et  8,  il  me  semble 
bien  voir  derrière  la  baste  de  1'/  le  petit  trait  droit  qui  distingue  cette  lettre  de  Vs  ;  of.  P.  Meyer,  Roma- 
nia, rv,  455. 
n,  4.  M.  Stengel  voit  sous  Vs  de  lostanit  \m.  point  qui  l'annulerait.  L'ex  imen  attenti!'  du  ms.,  que  j'ai  fait  aveo 
M.  Omont ,  ne  confirme  pas  cette  lectitre. 


NOTIZIA 

DI  UN  CODICETTO  FIORENTINO  DI  RICORDI 

SCRITTO  IN    VOLGARE  NEL  SECOLO  XIII. 

(R.  Archivio  di  Stato  di  Firenze.  Diplomatico,  prov.  Biyallo,  quail.  membran.  an.  1255-1290.) 


Questo  codicetto,  che  può  annoverarsi  tra  i  più  antichi  e  preziosi  monumenti 
della  nostra  lingua ,  non  è  affatto  ignoto  agli  studiosi  :  l' esaminò  anni  fa  il  compianto 
prof.  Napoleone  Caix;  poi  l'hanno  veduto  anche  altri;  ma  non  so  se  ne  sia  stato  mai 
pubblicato  nulla.  Mi  pare  ora  opportuno  darne  un'esatta  notizia  descrittiva  per  co- 
modità degli  studiosi  futuri;  avvertendo  intanto  che  questo  codicetto,  finora  mal 
cucito  e  mal  designato  colla  data  del  l'273,  è  stato  oggi  ricomposto  e  rilegato,  e  as- 
segnategli le  date  degli  anni  1255-1290,  che  sono  le  due  estreme  dei  documenti  che 
vi  si  contengono. 

È  un  bastardelle  membranaceo,  lungo  0,30,  largo  0,11,  di  venti  carte,  divise  in 
due  quaderni  (I,  carte  1-12;  II,  carte  13-20).  La  carta  13,  che  finora  per  isbaglio  di 
cucitura  era  la  prima  del  libretto,  è  mutilata  da  capo  e  assai  macchiata  nel  resto;  da 
questa,  che  contiene  ricordi  dell'anno  1273,  erasi  finora  desunta  la  data  indicativa 
del  codice. 

La  scrittura  è  di  tre  mani: 

A,  che  incomincia  a  scrivere  nel  1255. 

B,  che  incomincia  nel  1257  e  seguita  interpolatamente  ad  A  fino  in  fondo. 

C,  di  cui  è  un  solo  ricordo  del  1290,  inserito  in  uno  spazio  lasciato  bianco 
in  fine  della  carta  8. 

Si  contengono  in  questo  codicetto  Ricordi  di  compre  di  terre  nella  corte  di  Pe- 
troio  nel  Valdarno  inferiore,  e  conteggi  di  dare  e  avere  relativi  alle  dette  compre 
degli  anni  1255-69,  1269-82,  1290.  Il  luogo  più  spesso  nominato  in  questi  Ricordi 
è  «  Aliana  de  la  Korte  di  Petroio  in  Grreti  »  ;  quivi  si  fanno  il  maggior  numero  degli 
acquisti  ;  e  da  più  luoghi  apparisce  che  li  fosse  l' abitazione  dei  compratori.  Si  no- 
minano'pure  Sovigliana,  CoUegonzi,  S.  Donato  in  Greti,  ed  altri  luoghi  della  valle 
che  si  stende  tra  Cerreto  Guidi  e  Empoli:  ciò  basterà  per  intendere  che  l' Agliana, 


—  92  — 

luogo  principale  di  questo  codicetto,  non  è  già  l' Agliaua  del  Montale  Pistoiese,  men- 
zionata dal  Eepetti,  ma  altro  luogo  omonimo  del  Valdarno  fiorentino  inferiore,  non 
registrato  in  quel  classico  Dizionario  topografico  della  Toscana. 

Tutti  i  Ricordi  sono  in  volgare.  Non  appariscono  mai  in  tutto  il  libretto  i  nomi 
degli  scriventi,  che  sono  i  compratori  delle  terre:  ma  molto  precisamente  è  notato 
in  ciascun  Ricordo  il  nome  del  venditore ,  la  topografia  del  luogo  comprato ,  la  carta 
notarile  dell'acquisto,  e  il  giorno  in  cui  questa  s' imbreviò.  Le  date  sono  espresse 
generalmente  a  mese  entrante  e  uscente;  cioè  in  ordine  diretto  dal  primo  del  mese 
fino  al  15,  e  in  ordine  inverso  dall'ultimo  del  mese  nella  seconda  quindicina;  qual- 
che volta  sono  nominate  le  calende,  come  dies  tre  anzi  kaleiide  magio  (1255)  ;  dies  qua- 
tro  anzi  kalende  agosto  (1256)  ec.  ;  e  il  Ricordo  del  1290  ka  la  data  del  giorno  del 
mese  al  modo  moderno. 

Ecco  ora  com'  è  diviso  il  codicetto  pagina  per  pagina  : 

a  e.  1  «  Quesste  le  chonpere  del  podere  da  Cliasalino  ».  Senza  data:  mano  B. 
E  verosimile  che  questa  pagina  come  guardia  esterna  del  libretto  fosse  dapprima 
lasciata  in  bianco ,  e  che  i  Ricordi  che  ora  vi  si  leggono  vi  siano  stati  scritti  dopo. 
Dico  questo,  perchè  il  principio  della  carta  1',  come  si,  vedrà,  ha  tiitti  i  caratteri 
d'un  principio  di  libro;  e  perchè  dai  Ricordi  contenuti  a  e.  14-14'  si  ricava  che  il 
detto  podere  di  Casalino  fu  comprato,  nel  1273. 

a  e.  1'  «  Al  nome  di  dio  ame,  ed  aci'escimento  di  bene.  MCCLv  ».  Mano  A, 
con  Ricordi  di  questa  mano  per  tutta  la  pagina.  Ma  nel  margine  superiore  la  mano  B 
ha  aggiunto  più  tardi:  «  di  quatro  intrante  aprile.  » 

a  e.  2-8.  Ricordi  degli  anni  1255-57:  mano  A. 

a  e.  8'  Ricordi  dell'anno  1257:  mano  A,  aggiuntovi  in  basso  dalla  mano  C  il 
Ricordo  d'una  compra  fatta  il  23  ottobi'e  1290,  che  è  il  più  recente  del  libro. 

a  e.  9.  Due  Ricordi  degli  anni  1257  e  1258:  mano  A,  con  un'aggiunta  interli- 
neare di  B  nel  primo  Ricordo. 

a  e.  9'-10.  Ricordi  dell'anno  1259:  mani  A  e  B  intercalate: 

a  e.  lO'-ll.  Ricordi  degli  anni  1269  e  1270:  mano  A. 

a  e.  ll'-20'.  Ricordi  degli  anni  1271-1282,  scritti  da  B;  se  non  che  a  e.  17'-18' 
sono  Ricordi  dell'anno  1277,  della  mano  A,  con  annotazioni  intercalate  di  B. 

A  pie  di  quasi  tutte  le  pagine  del  libretto  sono  le  somme,  scritte  da  B. 

Ecco  in  fine  un  saggio  delle  partite; 

a  e.  5',  au.  1255.  (mano  A): 

Venturello  e  Guido  f.  Bonaiuti  d'Agliana.  Auén  konperato  da  loro  le  due  parti  d'u  pezo  di 
tera  posta  ne  la  kosta  di  Petroio  a  rinpetto  a  la  kasa  nostra  e  l'atro  terzo  si  è  di  Kortinuova. 
Fece  la  karta  ser  Rolenzo,  ke  s'inbi-euò  dies  dieoe  osante  novenbre.  Dienne  avere  s.  xx  questo 
die.      §  Demo  a  TureUo  e  a  Guido  s.  xx  i  loro  mano. 

a  e.  12',  an.  1273.  (mano  B): 

Auén  chonperato  da  Manno  Paghanelli  un  pezzo  di  terra  possta  ne  la  valle  d'Aglana,  kes- 
siamo  noi  da  le  tre  latora  per  la  tera  ke  konperamo  da  Guido  Konsigli,  ke  kosta  s.  xl,  dies  sette 


-  93  — 

usscente  aghosto  al   settantatrè.   Fece   la   karta  sei-    Tommaso  :   inbreuossi   di  settenbre  al  set- 
tantati'è. 

a  e.  8',  an.  1290  (mano  C). 

Nel  MCCLxxxx  a  di  xxilij  d' ottobre  abbiamo  conperato  da  messer  Aldobi-andino  da  Pistoia 
l'ottavo  del  boscbo  per  non  diviso,  che  da  l'uno  lato  Vannello  f.  Boncristiaui  da  Suvigliana,  e 
dalle  due  latora  le  rede  di  messer  CLavalcha  e  noi  e  dal  terzo  dal  quarto. 

Chostò  Ib.  vij.  Avenne  oharta  per  mano  di  ser  Pelegrino  di  Boncristiano  da  Cliasalina,  ohe 
s'imbreuò  di  xxiiij  ottobre  nouanta. 

Cesare  Paoli. 


POSTILLE    ROMANZE. 


Ad  onorare  l&  memoria  degli  insigni  cultori  della  scienza,  quali  furono  i  pro- 
fessori Caix  e  Canello,  rapiti  nella  promettente  vigoria  degli  anni  e  degli  studj, 
vale  di  certo,  più  che  lo  sterile  rimpianto,  il  mostrare  d'aver  tratto  profitto  dal- 
l'opera loro  e  il  confermare,  attingendo  in  essa  motivi  e  stimoli  a  niiove  ricerclie, 
che  non  omnes  perierimt.  In  me ,  amico  ed  estimatore  d' entrambi ,  svegliarono  più 
viva  e  tenace  attenzione ,  com'  era  naturale,  quelli  fra  i  loro  scritti  svariati  che  sono 
essenzialmente  d'indole  glottologica,  del  primo,  cioè,  il  bel  libro  sulle  'Origini  della 
lingua  poetica  italiana,  Firenze  1880',  e  del  secondo  il  diligente  studio  sugli  'Allo- 
tropi italiani'  edito  nel  3'^  tomo  (285-419)  àoìS!  Archivio  glottologico  dell' Ascoli.  Di 
parecchie  postille,  che  l'esame  riflessivo  di  quelli  scritti  e  le  occasioni  della  scuola 
mi  suggerirono,  comunico  ora,  come  affrettato  e  modesto  contributo  a  questo  pio 
volume,  le  due  che,  trascrivendo,  si  lascian  racconciare  men  peggio  nei  limiti  as- 
segnati. Gli  Dei  Mani  dei  cari  estinti  gradiscano  almeno  l'intenzione! 


A.U  romanzo  per  o  atono  latino. 


Il  Caix  nei  §§  51  e  67-71  dell' o.  e.  accoglie  l'opinione  tradizionale,  che  l'o  lat. 
protonico,  specie  al  principio  di  parola,  siasi  talvolta  espanso  in  cm  nella  zona  pro- 
venzale, nella  gallo-italica  e  più  nella  veneta ,  nella  meridionale  italiana  e  soprat- 
tutto nella  sicula.  Gli  esempj  addotti  da  lui  tornano  alle  basi  latine  ole  re  olor 
odor,  occidere,  cognoscere,  lionor  honestus,  oliva,  oriens.  Orlon;  e 
r  accennata  divariazione  appare,  verbi  gr citici,  in  aulens  prov.,  ciuUre  aulente  delle 
antiche  poesie  italiane,  di  fronte  ad  olire  olente  delle  stesse  poesie.  Per  legge  fone- 
tica, nel  senso  rigoroso  della  parola,  non  è  giustificata  cosiffatta  espansione  spo- 
radica in  nessuno  degli  idiomi  neolatini:  e  quando  l'Autore  nel  §  45,  detto  che 
anche  l' o  atono  di  prima  sillaba  partecipa  della  generale  tendenza  all'  a ,  soggiunge 
ma  in    alcuni   luoghi  passa ,  con  ciltercizione  affatto  speciale ,  nel  dittongo  au  ',  egli 


—  96  — 

constata  e  non  spiega  plinto  la  speciale  alterazione;  ne  la  spiegano  gii  autori  cli'ei 
cita.  Infatti  il  Diez,  Grammaire,  I  366,  all'espansione  prov.  riavvicina  quella  del- 
l'ant.  it.  auccisa  aulente  e  del  lat.  ausculari.  L'Ascoli,  Arch.  glott.  I  {Saggi  ladini), 
a  p.  505  testo  e  n.  2,  parla  di  questa  espansione  in  qualche  ss.  ladino,  aulive  aulif 
allato  a  oliv  uliv  ecc.;  e  vede  in  aiiriane  un  ravvicinamento  ad  aur  oro.  Lo  Schu- 
CHABDT,  Vokalismus  d.  vidgàrlateins ,  Il  303-4,  riporta  ess.  latini  in  cui  au  sarebbe 
per  o  e  neW addenda  del  III  voi.,  p.  263,  ha  ess.  con  au  del  prov.  moderno. 

Badando  al  ravvicinamento  del  Diez  e  agli  ess.,  comecché  non  tutti  sicuri, 
riferiti  dallo  Schuchaedt,  potrebbe  ammettersi  una  continuità  storica  fra  quel  fe- 
nomeno neolatino  e  il  latino,  parte  arcaico,  parte  volgare,  e  allora  se  ne  avrebbe 
una  specie  di  giustificazione.  Infatti  fra  le  fasi  notissime,  che  il  dittongo  originario 
au  ebbe  nella  vita  del  latino  (cfr.  raudus  roudus  rodus  rùdus),  quella  in  cui 
si  restrinse  ad  ó,  coesistente  o  prevalente  alla  fase  intatta,  fu  la  più  stabile  e  la  più 
espansiva,  specialmente  nella  lingua  parlata.  Dalla  legittima  successione  dei  suoni 
au  0  (m),  e  più  ancora  dalla  convivenza  di  essi  in  parecchie  voci,  potè  ben  prodursi 
qualche  scambio  fallace ,  individuale  o  popolare,  di  o  etimologico  con  au.  L' esempio 
solenne  di  questo  equivoco  fonetico  è  ausculum  ausculari  di  Festo,  Prisciano  e 
Placido  di  contro  alla  forma  classica  osculum  ósculari:  vi  si  riattaccano  per 
l'identica  base  radicale  aureax  auriga,  aureae  ==oreae,  austia  =  ostia.  La 
base  radicale  è  5s  oris,  che  viene  eguagliata  generalmente  al  neutro  scr.  às  bocca 
(«sa  strumentale  vedico  col  senso  'in  cospetto,  c-ora-m'),  sostituito  in  qualche  caso 
dal  tema  ds-dn-  (p.  e.  àsn-é  dat)  e  nel  linguaggio  classico  dal  t.  ds-jà-  ;  e  la  radice 
sarà  la  stessa,  onde  venne  il  verbo  sostantivo,  sia  che  vi  si  legga  il  'respirare',  o 
lo  '  stare  ',  sia  che  vi  si  voglia  fantasticare  una  storia  ideologica  più  riposta.  Non 
si  può  mettere  in  dubbio  che  l'equazione  indo-latina,  a  cui  dà  sostegno  anche  il 
paleo-nordico  ós,  è  appunto  di  quelle  fatte  per  convincere  gli  increduli.  Ciò  non 
toglie  però  che  nel  lat.  aus-  per  ós-  si  possa  vedere,  più  che  uno  scambio  fonetico, 
una  confusione  (jjars  ijro  parte  o  pars  prò  tota)  coll'aus-  di  aus-culto  aur-i-s 
au-d-io,  in  quanto  ós  venne  a  dire  tutta  la  faccia  (e  Prometeo  ós  homini  sublime 
dedit,  Ovidio,  Metani.,  I  85).  Ed  è  anche  possibile  che  nel  prisco  latino  sia  esistito 
un  altro  aus-  ragguagliabile  all'Esichiano  ao?'  /tvsùaa  (cfr.  avjjj-t  aco,  scr.  vanii 
forse  per  *{a)v-d-mi  soffio  spiro  respiro,  e  i  greco-lat.  aura  aér):  questo  neutro 
*av-es-  'soffio,  spiracelo  labiale'  ci  spiegherebbe  per  la  facile  coincidenza  con 
5s  le  suddette  figure  divariate  ed  anche,  coli' intermezzo  del  basso-lat.  ustiariis, 
tutte  le  forme  romanze  del  tipo  ital.  uscio  (cfr.  tutto  e  le  figure  italiche  tonto-  tòto- 
tuto-  dalla  base  tau-to-).  Checché  si  giudichi  di  questo  tentativo  di  etimologia 
scientifica ,  nessuno  negherà  che  in  altri  ess.,  in  cui  si  tratta  persino  di  o  breve , 
abbiamo  dei  tentativi  o  raccostamenti  di  etimologia  popolare,  come  in  aurichal- 
cum  (aericalco)  =  òp£t-/_aXvto<;,  dove  risonò  aurum  (aér),  in  Bellausus  =  Bel- 
losa,  Castaurina  =Oastorina,  ove  influì  au  sus  e  taurus,  in  raustra  = 
rostra,  dove  giocò  l'analogia  di  plaustra  plostra,  claustrum  clostrum  etc, 
e  come  in  austrum  per  ostrum,  dove  si  pensò  ad  auster:  e  in  altri  del  volgar 


—  97  — 

latino  Vau.  pare,  o  tal  quale  V an  neolatino  (aucire  DC),  o  una  falsa  grafia  per 
0  dovuta  all'ingenua  pretesa  dei  semidotti,  che  sapevano  risanare  in  aurum  au- 
ricula  ecc.  i  popolani  orum  orici  a  ecc.  Insomma  non  è  punto  solido  il  ter- 
reno, siU.  quale  potremmo  cercare  i  fondamenti  storici  dell'eccezionale  espansione 
romanza,  di  cui  ci  occupiamo. 

Tornando  pertanto  al  fenomeno  specificamente  neolatino,  non  ci  è  dato  nem- 
meno ricorrere  ad  una  analogia  esercitata  dai  riflessi  dell'  o  tonico  latino.  È  su- 
perfluo ricordare  le  risposte  all'  6;  né  alcuno  vorrà  pensare,  per  ciò  che  concerne  le 
continuazioni  di  Ó,  a  forme  manifestamente  analogiche  come,  p.  e.,  dao  stao  del- 
l' antico  italiano ,  dau  estau(c)  del  prov. ,  dau  stau  del  rumeno  (sul  tipo  vno  vau{c) 
=  vado  ecc.).  L'unica  cosa  che  giova  rilevare  è  la  facilità,  con  cui  l'o,  special- 
mente lungo  o  in  posizione,  tonico  od  atono,  può  oscurarsi  in  io  non  solo  in  Pro- 
venza ,  in  Normandia  e  altrove ,  ma  anche  in  più  regioni  d' Italia.  Così  per  l' S  atono 
di  prima  sillaba  la  risposta  normale  e  generale  degli  idiomi  romanzi  secondo  le 
leggi  fonetiche  è  o  u,  eccezionalmente  a  per  la  nota  tendenza  a  tal  suono  delle 
vocali  protoniche;  la  qual  tendenza,  benché  siasi  estesa  ove  più,  ove  meno,  e, 
p.  e.,  abbia  avuto  scarso  sviluppo  in  Grallia,  ci  spiega  per  l' atonia  indotta  dalla 
proclisi  le  forme  prov.  vas^vers  ves  versus,  damnideus  accanto  a  domnideus  e  il  frc. 
dame  (passato  anche  in  prov.  ital.  ecc.)  domina. 

Ora,  se  applichiamo  queste  risultanze  al  caso  nostro  e  appunto  agli  ess.  addotti 
dal  Caix,  vediamo  che  le  risposte  italiane  rigorosamente  legittime  delle  citate  basi 
latine  sono  le  segg. :  olire  odore,  occidere  senese,  uccidere  comun  toscano,  conoscere, 
onore  onesto,  oliva  sen.,  uliva  com.  tose,  oriente,  Orione;  e  sparsamente  nei  volgari 
toscani  e  nei  meridionali,  quindi  anche  nelle  antiche  poesie,  alente  alore  {udore  e 
udore  chianino-siculo) ,  accidere  merid.,  canoscere  canoscenza  s-canoscente  id.,  anore  anesto 
chiauino-siculo  (ove  pur  si  sente  unore  unestó),  aliva,  ariente  siculo  (cfr.  offendo 
argoglio  ecc.  anch'  essi  comuni  al  chianino  e  al  siciliano).  Insieme  a  queste  forme 
quasi  tutte  esemplate  nei  vecchi  rimatori  occorrono ,  e  per  regola  non  si  riscontrano 
più  nei  viventi  dialetti,  anche  quelle,  di  cui  discorriamo,  con  au  ao,  giudicate  in 
gran  parte  di  fondo  meridionale,  cioè:  ardire  aidente  aidore  audore  aolimento  ecc., 
aucidere  ucciso  ecc.,  caiinoscere  cuonoscente,  aunore  uunesto  aonore  uonesto,  auliva  aoliva,^ 
auriente  aoriente.  Nel  territorio  gallico  basta  ricordare  il  v.  frc.  occire  =:  prov.  aucir 
e  le  forme  con  o  u  del  frc.  e  delle  varieté  lectiones  dei  canzonieri  occitanici,  di  fronte 
alV  aulens  ricordato,  ad  Anrion  che  alterna  con  Orion,  ai  limosini  haunoiir  audoar 
contro  al  comune  (ìi)onor  onrar  dei  trovatori  ecc.  (prov.  mod.  auhrur  aucusion  aiqn- 
nion  aidiv a  eoe),  per  giudicare  non  molto  dissimili  da  quelle  italiane  le  condizioni 
provenzali  della  divariazione  in  esame.  La  piccola  divergenza  da  un  canto  si  fonda 


'  Auliva  f  accanto  ad  aliva  oliva  uliva,  è  ancora  vivo  nel  siculo  (v.  Trajna),  e  però  cade  il  dubbio  dell'  Ascoli 
1.  e.  in  n.  suU'  esattezza  del  citato  di  Schuchardt  ;  il  sostegno  di  aggliinstru  '^aulja^tru  olivastro  luaò  essere  illusorio , 
percliè,  come  si  dice  alivaru  olivarii  V  olivo,  cosi  potè  dirsi  ^aljastrti   oleaster. 

13 


—  98  — 

sul  fatto  accennato  della  minore  tenacità  che  ebbe  in  Provenza  l' inclinazione  ad  a 
delle  atone  iniziali,  sicché  le  varianti  in  «  dei  nostri  ess.  sembrano  mancare;  dal- 
l' altro  si  spiega  un  certo  predominio  di  au ,  ove  le  forme  in  o  u  furon  divariate, 
colla  nota  simpatia  del  prov.  per  quel  dittongo  au,  raramente  ao,  non  mai  contratto 
in  0,  come  sempre  in  frc,  e  che  sostituì  talora  anche  eo  io  atoni  (Jaupart  leopardus, 
Daunis  Dionysius  ecc.). 

La  conclusione  a  cui  voglio  arrivare  si  è  che,  non  potendosi  spiegare  le  forme 
divariate  con  au  ao,  né  colla  fedele  trasmissione  d'un  fenomeno  latino  mal  sicuro, 
né  colle  normali  leggi  fonetiche  degli  idiomi  neolatini,  né  con  alterazioni  analoghe 
di  particolari  dialetti  o  di  lingue  estranee,  come  le  germaniche,  convien  pensare  a 
un  mero  processo  meccanico,  ad  una  associazione,  diciam  così,  mnemo -fonica,  per 
cui,  ad  es.,  dalle  forme  vive  in  più  volgari  italiani  occiclo  uccido  accido  venisse  dalla 
penna  d'un  poeta  o  sul  labbro  del  popolo,  fugacemente  o  permanentemente,  una 
forma  contaminata  aocido  aucido  (qui  l' incremento  vocalico  dovea  indurre  dapprima 
lo  scempiamento  del  ce  originario).  La  jjrefissione  dell' a  nel  terreno  italiano  fu  age- 
volata, tacendo  della  solita  tendenza  all'  a  iniziale  atono,  per  l'analogia  delle  tante 
forme,  quali  aocchiare  aoprare  ecc.,  auggiare  ausare  ecc.  =  adoccJiiave  aduggiare  ecc. 
(e  invero  il  Mussafia  riferiva  ad  adolens  il  prov.  it.  aidens  aidente  ecc.).  Cosiffatti 
compromessi,  o  immistioni,  o  concrezioni  di  due  forme  in  una  terza  si  possono 
ammettere  anche  senza  essere  analogisti  di  proposito  (cfr.  Caix,  Studj  di  etimologia 
romanza;  Firenze  1878,  passim),  e  tanto  più  nell'  arte  bambina  ed  eclettica  dei  primi 
rimatori,  ondeggianti  tra  la  lingita  viva  del  loro  paese  e  le  reminiscenze  latine  e  le 
imitazioni  d'altri  capiscuola,  o  provenzali,  o  toscani.  E  nemmeno  può  far  meraviglia 
che  qualcuno  di  questi  prodotti  si  sia  popolarizzato  e  generalizzato,  incontrando  in 
tal  caso  le  sòrti  fonetiche  dei  tipi  analoghi  nei  differenti  territorj.  Così  aoliva  auliva 
da  oliva  uliva  (diva,  divenuto  forma  popolare  nel  mezzogiorno,  incontrò  anche  lo 
sviluppo  fonico  di  ao  au  in  avo  avu,  qual  si  ebbe  in  dvotro  cdvudu  (per  autro  caudo 
=  altro-  cal'do-)  napol.-sicil.,  e  nei  toscani  cavolo  cauli,-  navolo  naulo-  Pav- 
{Pag-)olo  Paulo-;  e  così  fu  scritto  e  s'ode  tuttora  avoliva  avidiva.  Parimenti  la  forma 
mista  aucidere,  fattasi  più  comune  rielle  antiche  poesie  con  qualche  influenza  del 
pfov.  aucir,  riuscì  anche  ad  alcidere  nei  dialetti  gallo-italici  {alcidere  alcir)  e  nel 
fiorentino  (cfr.  aldace  laide  ecc.  accanto  ad  audace  laude  lode  ecc.);  e  con  nuova 
immistione,  la  quale  suffraga  a  capello  quella  da  me  supposta,  potè  venirne,  sul 
tipo  dei  fior,  aidtore  gaioldere  ecc.  nati  da  aidore  altare,  gaud-{godere)  galdere  ecc.,  un 
'''aulcidere,  che  spiega  le  varianti  settentrionali  olcidere  olcir  idcir.  Nella  zona  veneta 
poi  la  formola  al  ol  {aid)  si  risolveva  altresì  in  an  on  (cfr.  colsa  consa  causa,  polsar 
poìisar  pausare  ecc.),  onde  le  forme  ancider  ancir  onqir;  ed  è  quindi  ragionevole 
]'  idea  del  Caix,  che  ancidere  sia  venuto  al  toscano  dai  poemi  e  romanzi  cavallereschi 
veneti.  Osservo  tuttavia,  che  l'importato  ancidere  non  sarebbe  riuscito  a  supplantar 
quasi  l'indigeno  alcidere,  se  fosse  stato  repugnante  al  fonetismo  toscano  qualche 
mutamento  in  n  di  l  implicato;  ma  le  antiche  poesie  e  croniche  toscane  hanno 
A»cide  e  Alcide  (cfr.  nel  chianino  Anceste  amare  inzare  ecc.  per  Alcesfe  alzare  ecc.),  e 


99 


mungere  è  da  mulgere,  pantano  si  riattacca  probabilmente  a  palta  (pieni,  pauta), 
montone  è  dal  b.  lat.  niulton-(mutilus),  benché  v'  abbia  infinito  montare,  ecc. 


II.  —  Grreggio,    G-rezzo. 

Il  Canello  in  nna  lettera  compitissima  sulle  mie  'Note  giottologiclie,  I;  Pa- 
lermo 1882"  notava,  fra  le  altre  cose,  ette  la  congettura  sull'  allotropia  f/revio  greggio 
grezzo  da  me  accennata  nell'  annotazione  della  pag.  13,  benché  da  più  lati  sedu- 
cente, incappava  in  tre  difficoltà:  1.''  che  il  senso  speciale  di  greggio  grezzo,  oltre 
d' essere  estraneo  alle  altre  lingue  neolatine ,  non  s'  accordava  punto  con  quello  del 
lat.  gravis;  2.''  che  1'  armonia  delle  continuazioni  e  derivazioni  romanze  delle  basi 
*Ievius  *gra-  grevius  mostra  nei  significati  e  nelle  varianti  fonetiche  certi  di- 
stacchi, i  quali,  per  lo  meno,  dovrebbero  essere  spiegati;  3.'''  che  proponendo  una 
nuova  etimologia  sarebbe  stato  opportuno  dir  le  ragioni,  per  cui  rifiutavo  quella 
del  Caix  e  la  sua.  Non  intendo  ora  difendere  quella  che  diedi  come  una  ^probabilità 
e  non  altro.  Mi  sia  lecito  tuttavia  ricordare,  quanto  al  primo  appunto,  che,  p.  e.,  il 
nome  fem.  fra.  grège  'seta  greggia"  può,  a  riscontro  di  rengréger  'aggravare'  (v.  frc. 
aggréver),  non  essere  un  italianismo,  e  che  certi  usi  latini  di  gravis  non  disdicono 
alla  significazione  speciale,  a  cui  giunse  greggio  grezzo.  Infatti  aes,  argentum 
grave  significano  rame,  argento  grezzo,  non  lavorato,  non  coniato";  e  Forcellini 
dice:  qui  aes  rude  intelligunt  aeream  laminavi....  impolitam  ac  rudem...,  idque  ajunt  aes 
grave  aijpellari,  nobiscum  faciunt;  e  Servio  ad  Aen.  VI  862  interpreta:  aes  grave, 
idest  in  massis.  Riguardo  al  secondo  appunto,  mi  pare  che  1'  armonia  tra  le  famiglie 
di  *levius  (b.  lat.  leviare,  prov.  leujar)  e  di  *gravius  (b.  lat.  graviare),  atte- 
nuato per  imitazione  del  precedente  o  per  causa  di  composizione  in  *grevius 
(prov.  greujar) ,  risulti  bastevolmente  guardando  all'  insieme  di  questi  ess.  : 

levio-  :  alleviare  it.,  aliviar  sp.,  lebiu  sardo. 

lego-  :  leggio  -iero  alleggiare  ecc.  it.,  leujer  aleujar  prov.,  léger  alléger  frc.  ecc. 

grevio-  :  grevio  volg.  tose,  aggreviare  it.,  greviu  grevianza  sic. 

grego-  '.greggio  it. ,  agreujar  prov.,  rengréger  frc.  (le  forme  prov.  leujer  aleujar 
agreujar  mantengono  il  vocalismo  dei  semplici  leu  gì-eu  (anche  rumeno) 
levìs  gravis;  ma  nel  composto  engres,  onde  l'antico  it.  ingresso,  Vu 
par  fognato). 

Dallo  schema  qui  abbozzato  non  appajono  dunque  i  distacchi  oppostimi  dal 
Canello;  e  se  leggio,  ad  es.,  non  si  sostenne  o  non  ebbe  la  variante  lezzo  in  Toscana, 
si  capisce  senza  stento,  riflettendo  alla  concorrenza  del  più  sviluppato  leggiero 
(alleggerire)  e  di   lezzo,  che  venne  a  dir  1'  opposto  di  olezzo.  Così  grevio  non  riiiscì   a 


—  100  — 

soverchiare  in  Toscana  il  primitivo  grave  ;jreve,  ne  agr/reviare  divariò  sull'esem- 
pio di  alh(j(]iare  =  alleoiare,  perchè  aggreggiare  significò  'attruppare ,  imbrancare", 
e  aggrezzare  diceva  'agghiadare,  intirizzire";  ma  fu  tosto  vitale  l'allotropo  greggio 
grezzo,  quando  vi  si  fissò  una  particolare  significazione.  Del  resto  correr  dietro  ad 
un'  armonia  assoluta  in  simili  divariazioni  è  proprio  un  perder  di  vista  le  condi- 
zioni saltuarie  e  spesso  capricciose  del  lessico  di  qualsiasi  lingua. 

Il  terzo  appunto  è  più  giusto;  e,  non  avendo  creduto  conveniente  in  una  breve 
annotazione  dilungarmi  a  dire  perchè  non  mi  fossi  acquetato  ai  tentativi  etimolo- 
gici dei  miei  chiarissimi  colleglli ,  lo  farò  qui  colla  massima  concisione.  Il  Canello 
adunque  nella  bella  rassegna  citata  degli  'Allotropi  italiani",  a  p.  348,  sotto  la 
formola  GJ  in  gg  zz  ha:  'Grregio  (cfr.  e-grègius):  grezzo  grossolano,  e  si  dice  an- 
'  che  degli  uomini  ;  e  greggio  non  lavorato ,  solo  delle  cose  materiali.  Ad  una  base 
'  materialmente  identica  risale  anche  il  sost.  greggia  are.  greggio  armento.  L'  e  per  e 
'  da  un  é  lat.  sarà  dovuto  al  suono  palatile  che  segue,  in  grezzo  all'  analogia  di  greg- 
'  gio.'  Anzitutto  giova  rilevare  alcune  inesattezze,  che  in  parte  son  di  certo  meri  sbagli 
tipografici.  La  formola  vuole  zz  e  non  zz,  e  infatti  è  stampato  grezzo  (leggi  grezzo) 
in  nota  a  pag.  388;  del  pari  ciò  che  è  detto  dell' e  indotto  dal  suono  palatile  mostra 
che  greggio,  inaudito  in  Toscana,  è  per  errore  in  luogo  di  greggio.  Non  direi  nem- 
meno che  greggia  greggio  sostantivi  risalgano  alla  base  che  è  in  *gregio  e-grègius, 
cioè  ad  un  derivato  con  -io-,  dacché  le  specificazioni  popolari  di  nomi  di  3"  con  « 
fem.,  0  masch.,  son  cosi  ovvie  da  capirsi  benissimo  un  gregge  m.  e  anche  f.  ^gregj- 
fattosi  altresì  il  greggi-o  e  la  greggi-a.  Quanto  ai  significati,  senza  negare  che  greggio 
si  dica  di  preferenza  parlando  di  còse  materiali,  debbo  notare  che,  tutto  sommato, 
non  e'  è  fra  greggio  e  grezzo  negli  usi  letterari  ^  nel  toscano  (cfr.  Fanfani  s.  v.)  una 
intima  differenza,  ma  piuttosto  una  libera  scelta,  o  individuale  od  occasionale.  Ve- 
nendo alla  sostanza  dell'  etimo,  si  chiede  imprima,  se  il  Canello  alluda  ad  un 
*grég-iu-s  indipendente,  o  ad  una  estrazione  seriore  popolana  dal  composto 
é-grèg-iu-s.  Ammettere  il  primo  caso  sarà  difficile,  non  tanto  perchè  manca  quel- 
1'  aggettivo  nel  lessico  latino,  quanto  perchè  1'  ampliazione  per  -io-  è  affatto  estranea 
a  tutti  i  derivati  (cfr.  grèg-à-re  ad-  sé-  con-  ecc.,  gregàlis  gregàrius  grega- 
tim  ecc.),  salvo  appunto  §-grég-iu-s,  che  non  si  può  citare  a  pruova  senza  cadere 
in  un  circolo  vizioso.  Né  è  più  facile  supporre  il  secondo  caso,  poiché,  a  tacer  dello 
stento  d'  una  significazione  antitetica  ottenuta  col  sopprimere  la  prep.  è-,  vi  si  op- 
pone il  fatto,  garentito  anche  dall'atteggiamento  fonetico,  che  egregio  non  fu  mai 
voce  popolare  negli  idiomi  neolatini  su  su  fino  al  latino  volgare.  Dal  lato  concet- 
tuale è  pur  notevole,  che  e-gregius  (Exgregiae  in  Festo,  che  spiega  'e  grege 
lectus,  '  s^aipsTo?)  sia  tosto  passato  e  per  sempre  al  senso  metaforico  '  insigne  per 
virtù,  per  meriti,  per  grado",  talché  venne  più  tardi  adoprato  come  titolo,  mentre 
greggio  non  dice  mai  nel  senso  proprio  '  spettante  al  gregge,  comune  ai  più  ecc.,  " 
e  non  si  contrappone  nel  senso  traslato  all'  aggettivo  generatore  od  affine. 

L'anteriore  etimologia  del  Caix  è  al  N.°  39  dei  citati  '  Studj  d'  etim.  rom.,  "  dove 
è  data  per  primitiva  la  forma  grezzo  e  vien  riferita  ad  agrestis.  Non  insisterò  suUa 


—  101  — 

convenienza  dei  trapassi  significativi,  né  sulla  giustezza  di  dar  greggio  in  Toscana 
come  succedaneo  di  grezzo:  ammetterò,  con  un  po'  di  buona  volontà,  che  la  crasi  del- 
l'articolo femminile  abbia  prodotto  l'aferesi  dell' «  iniziale,  e  che  l'alterazione  av- 
veniita  in  *grest'„-  sia  passata  nella  solita  variante  aggettiva  di  1*  e  2*.  Ma 
il  mutamento  di  st  in  z,  e  per  di  più  sonoro  (tacendo  del  z  spagn.  affatto  particolare), 
è  uno  scoglio,  clie  non  ha  potuto  girare  nemmeno  il  Caix  coi  due  o  tre  ess.,  a  cui 
ricorre.  Intanto  ognuno  conosce  che  il  nesso  lat.  st,  specie  mediano  avanti  le  atone 
e  i,  o  resiste  nel  toscano,  o  per  assibilamento  di  j  (i  palatale)  giunge  talora  a  sé: 
angoscia  Itosela  tiscio  ecc.  angustia  postea  ostium  (ustiarius)  ecc.  Della  .supposta 
alterazione  eccezionale  sarebbero  ess.  tipici  inzigare,  che  il  Diez,  Gramm.,  I  214, 
eguaglia  a  instigare,  e  zambecco,  che  il  Càix  eguaglia  a  stambecco.  Noto  imprima, 
circa  quest'ultima  equazione,  che  lo  st  è  iniziale  avanti  vocal  forte:  in  secondo 
luogo,  che  non  è  sempre  prudente  cercar  ripruove  di  fatti  fonetici  d'una  data  lin- 
gua in  voci  esotiche ,  ove  si  frammette  spesso  l' arbitrio  dell'  etimologia  popolare  o 
dell'erronea  associazione;  e  per  ultimo,  che,  in  armonia  per  vero  della  qualità  del 
nesso  voluto  originario,  è  z  sordo  (mentre  in  grezzo  è  z)  quello  che  s'ode  nell'are- 
tino 'nzigare  e  tal  poteva  essere  in  zambecco  (cosi  in  Fanfani,  che  ha  però  zambecch'ino) 
'navicella,  filuca,'  se  è  la  voce  che  ho  sentito  a  Piombino  pronunziare  sam6ecco.  Nel 
significato  suo  proprio  dicono  anche  i  colti  Toscani  stambecco  (e  Fanfani-Eigutini 
registrano  la  voce,  come  di  lingua  parlata);  ma  sarà  parola  venuta  dall'Alta  Italia, 
ove  soltanto  è  conosciuta  la  capra  selvaggia  (Ibice,  Capra  ibex,  Steinbock  ecc.,  delle 
Alpi,  dei  Pirenei  e  del  Tauro  in  Asia);  e  se  in  Toscana  fu  detto  in  passato  anche 
zambecco,  forse  vi  si  volle  sentire  la  zuììijju,  lo  zampetto,  per  la  fama  dell'  agilità  a 
zebellare  (saltellare)  della  rupicapra  alpina.  Nulla  osta  però  che  si  riportino  alle  due 
varianti  così  pareggiate,  per  la  somiglianza  delle  qualità,  stambecchino  'arciere,  fan- 
taccino nel  300  '  {stamhecchini  anche  le  armi  e  arnesi  di  esso),  e  stambecco  zambecco 
nel  senso  di  nave  leggiera;  ma  sciabecco  (jabeque  spg.,  cliébec  frc,  schebecke  ted.,  xebec 
ingl.  ecc.),  forma  toscana  ancor  viva  in  tal  senso ,  permette  di  pensare  a  un  radicale 
diverso  (arabo?  o  il  sab....  di  sabulum  saburra  ecc.?  allora  starebbe  sa{m)becco 
[sciabecco]  a  £a(TO)iecco  come  sabbia  a  zaoorrd);  e  stambecco,  che  si  risente  qua  e  là,  può 
esser  ringiovanito  per  allusione  a  steam-boat,  steamer  ecc.  Quanto  a  inzigare,  mi  soccorre 
la  conoscenza  dei  volgari  della  mia  bassa  Toscana  per  ricordare  che  in  Valdichiana 
si  dice  2c\ic[xe izzigare  azzigare,  che  questi  verbi  significano  non  solo  'mettere  al  punto, 
spingere  alla  zuffa,  '  ma  talora  riflessivamente  '  venire  alle  mani,  azzuffarsi  '  («  Come 
la  lucilia  [scintilla,  favilla] /a' wyam^jare  'l  forno,  Accosì  li  'zzigò,  che  s' azzigòrno  »  da 
un  Bruscello  del  contado  poHziano),  e  che  in  certi  modi  di  dire  quasi  si  confondono 
con  inizzare  adizzare  aizzare.  Il  che,  se  non  erro ,  ci  conduce  a  dubitare  dell'  equazione 
del  Diez  inzigare  =  insti g3iV e,  sia  che  torniamo  con  lui  ad  izza  ecc.  di  stirpe  ger- 
manica {Etym.  Vórterb.,  IV  40),  sia  che  nei  nostri  verbi  supponiam  commisti  alcuni 
avanzi  di  inicere  (manus)  od  *ict-i-are.  In  ogni  modo,  anche  se  si  volesse 
concedere  la  eccezionale  mutazione  voluta  dal  Caix  in  (a)grestis,  *(a)grestius, 
non  potremmo  non  sorprenderci,  che  in  tutto  il  tesoro  della  lingua   e  dei  dialetti 


—  102  — 

italiani,  omettendo  gK  altri  idiomi  romanzi,  non  resti  veruna  traccia  della  muta- 
zione normale,  qual'è,  p.  e.,  in  crosciare  =  got.  krustian  o  nel  tose,  bescio  besso  *bé- 
stius  {biscia,  biscio  àcaro,  se  sono  da  béstia,  accennano  coU't  a  origine  meridio- 
nale o  sicula),  e  che  l'unica  forma  veramente  popolana,  poiché  agreste  è  letteraria, 
cioè  l'agg.  tose,  agresto  -a,  sost.  V agresto  'uva  immatiira,'  si  ampli,  ma  con  altra 
specifica  alterazione,  nel  chianino  agrèskjo  =  ^agrestio  (v.  le  citate  mie  '  Note,  "  p.  14). 


F.  G.  Fumi. 


DEE  EINFLUSS  DES  LA TEINISCHEN 


AUF   DIE   ALBANESrSCHE   FORMENLEHRE. 


Dass  ich  in  einer  Sammlung  von  Arbeiten,  welche  bestimmt  ist  das  Andenken 
zweier  hervorragender ,  der  Wissenscliaft  viel  zu  frtìh  eutrissener  Verfcreter  der  ro- 
manischen  Philologie  zu  ehren,  mir  erlaube  Fragen  der  albanesischen  Grammatik 
zur  Spraohe  zu  bringen,  wird  keinen  in  Erstaunen  setzen,  der  mit  dem  eigentiim- 
lichen  Zustande  der  albanesischen  Spraohe  einigermassen  bekannt  ist.  Die  Bezie- 
hungen  des  Albanesischen  zu  den  neulateinischen  Sprachen  sind  derartige  dass 
Schuchardt  bereits  1868  den  Satz  niederschreiben  konnte:  'Die  Bewohner  Illyriens 
sind  dem  Schicksal  ihrer  nordlichen  Stammesverwandten  romanisiert  zu  werden 
nur  mit  knapper  Mtìhe  entronnen  '  (Vocalismus  III  47).  Freilich  batte  kurz  vorher 
Herr  Miklosich  noch  gemeint,  dass  die  Aufnahme  zaklreicher  uud  auch  durcb  ihre 
Qualitàt  besonders  merkwiirdiger  lateinischer  Worte  in  den  Sprachschatz  der  Schki- 
petaren  die  einzige  Wirkung  der  romischen  Colonisation  in  diesen  Gegenden  gewesen 
sei:  '  die  romischen  Niederlassungen  an  der  Ostkliste  des  adriatischen  Meeres  schei- 
nen  nicht  so  zahlreich  gewesen  zu  sein,  um  den  Autochthonen  ròmische  Sprache 
aufzudringen:  das  sprachiiche  Eesultat  jener  Niederlassungen  besclirànkte  sich  viel- 
mehr  auf  die  Bereicherung  des  Sprachschatzes  der  Eingeborenen  mit  einer  aller- 
dings  nicht  unbedeutenden  Anzahl  ròmischer  Worte,  wobei  die  grammatische 
Form  ihrer  Sprache  unberlihrt  blieb'  (Die  slavischen  Elemente  im  Rumunischen 
S.  4).  Ein  genaueres  Studium  der  albanesischen  Grammatik  lasst  es  nothwendig 
erscheinen  diese  Anschauung  von  der  Ausdelinung  des  romischen  Einflusses 
wesentlich  zu  modificieren.  Und  in  diesem  Sinne  habe  ich  mich  1883  uber  das 
Verhaltniss  des  Albanesischen  zum  Lateinischen  in  dieser  Weise  ausgesprochen: 
'  Es  ist  nicht  zweifelhaft,  dass  die  albanesische  Sprache  um  ein  Haar  der  Eoma- 
nisirung  ganzlic^^rlegen  wàre,  nicht  anders  wie  das  Keltische  in  Frankreich. 
Nur  mit  schwerer  Schadigung  seines  Laut-,  "Wort-  und  Formenbestandes  ist 
es   aus  dieser    Periode    hervorgegangen.   Nicht    nur,    dass    eine    grosse   Meuge  la- 


—   lOi  — 

teiuischer  Lehnworter  alte  albauesische  Bezeiclinungen  ftìr  immer  vercTrtingt  hat, 
selbst  flir  Begriffe,  wo  sonst  fremder  Einfluss  gewohnlicla  machtlos  ist.  Aucli 
romanische  Lautneigungen  haben  zahlreich  den  alten  Formvorrat  alteriert,  imd 
selbst  die  Beugung  der  Wòrter  ist  nicht  ganz  unberiihrt  geblieben  von  romischer 
GewohnlLeit.  '  (Ùber  Sprache  imd  Literatur  der  Albanesen,  in  der  Zeitsclirift  '  Nord 
iind  Sud  '  XXIV  225). 

Die  folgenden  ZeUen  versuchen  einen  knrzen  Ueberblick  tiber  dasjenige  zìi 
geben,  was,  wie  mir  scheint,  in  der  albanesischeu  Grammatik  atif  romanischen 
Einfluss  zuriickgefulirt  werden  muss.  Vom  albanesischen  Lexikon  sehe  ich  hiebei 
im  Grossen  und  Ganzen  ab:  Herr  Miklosich  hat  bekanntlich  eine  reichhaltige 
Zusammenstellung  romanischer  Lehnworter  im  Albanesischen  gegeben,  und  wenn 
seine  Liste  auoh  weit  davon  entfernt  ist  vollsfcandig  zu  sein  (Schuchardt  und  ich 
haben  gelegentlich  schon  manchen  Nachtrag  dazu  geliefert' ,  so  geniigt  sie  dodi 
um  die  Ausdehnung  des  lateinischen  Einflusses  auf  diesem  Gebiete  vor  Augen  zu 
ftihren. 

In  der  Flexion  des  Nomens  habe  ich  im  ersteu  Hefte  meiner  'Albanesischen 
Studien'  ("Wien  1883)  eine'lateiuische  Form  nachgewiesen ,  namlich  die  Pluralbil- 
dung  der  M'asculina  auf  -*.  Es  scheint,  dass  die  echt  albanesische  Endung  der  manii- 
lichen  Themen  -e  gewesen  sei,  was  dem  -O'.  des  Griechischeu ,  dem  -ai  des  Nordeuro- 
paischen  entspricht:  -l  dagegen  ist  aus  dem  Lateinischen  eingedrungen.  Man  hat 
sich  diesen  Vorgang  natiirlich  so  zu  denken,  dass  zunachst  nur  lateinische  "Worter 
von  den  Albanesen  mit  dieser  Pluralendung  gesprochen  wurden  :  JìUi  '  die  Fei- 
gen'  ==  lat.  fid^  von^A;=  lat.  ficus.  Danach  bildete  man  z.  B.  auch  idki  'die  "Wolfe' 
von  dem  eiuheimischen  Worte  vXh  'der  Wolf. '  Es  gereicht  mir  zur  Freude,  dass 
diese  Erklàrung  die  Zustimmuug  von  Schuchardt  gefunden  hat  (Slawo-Deiatsches 
und  Slawo-Italienisches ,  S.  8). 

Der  Declination  des  Nomens  im  iilbanesischen  gibt  bekanntlich,  ebenso  wie 
im  iiumanischen,  der  Artikel  ein  sehr  eigentiìmliches  Geprage.  Man  hat  die 
Gebrauchsweisen  des  albanesischen  und  des  rumànischen  Artikels  schon  mehrfach 
einer  Vergleichung  unterzogen:  ich  nenne  ausser  den  bekannten  Abhandlun- 
gen  der  Herren  Hasdeu  (im  Archivio  glottologico  III  420-441  und  in  den  Càrtile 
poporane  ale  Romànilor  S.  609-687)  und  Cihac  (in  Boehmer's  Eomanischen 
Studien  IV  431  ff.)  die  Abhandlung  des  Herrn  Michael  Schuster  'Der  bestitnmte 
Artikel  im  Rumànischen  und  im  Albanesischen  '  im  Programme  des  Gymna- 
siiims  in  Hermannstadt  1883.  Dagegen  hat  man  noch  niemals  die  Frage  aufge- 
worfen,  ob  der  albanesische  Artikel  mit  dem  rumànischen  nicht  auch  f or  meli 
identisch  sein  kònne,  d.  h.  auf  lateinisches  'die  zurilckgefiihrt  werden  dùrfe.  Der 
Parallelismus  der  Nominative  mit  dem  bestiramten  Artikel  im  Rumànischen  und 
im  Albanesischen  ist  allerdings  ein  ganz  ùberraschender ,  besonders  wenn  man 
in  Erwagung  zieht,  dass  das  -l  der  mit  dem  Artikel  versehenen  Nominative  auf 
-ul  nur  historische  Orthographie  ist,  in  der  gesprochenen  Volkssprache  dagegen 
vollig    verstumnit    ist:   vgl.    Schuster    a.    a.    0.    S.   3    und    Obédénare,    '  L'article 


—  105  — 

dans  la  langue  ronmaine  '  iu  der  Revue   des  langues  romanes    1884  S.  139.  Man 
vergleiche  : 


rumanisch 

aniik 

'  Freund  ', 

amiku 

(geschrieben  amikuT)  '  der  Freund 

albanesisch 

mìk 

'  Freund \ 

miku 

'  der  Freund  ' 

rum. 

òiize 

'  Lijjpe  ', 

huza 

'  die  Lippe  ' 

alb. 

Imze 

'  Lippe  ', 

hu.za 

'  die  Lippe  ' 

rum. 

muiere 

'  Frau  ', 

muierea 

'  die  Frau  ' 

alb. 

mise 

'junge  Frau\ 

nuseja 

'  die  junge  Frau  ' 

folje      '  Nest',  folj^n     '  das  Nest'  Rada  Grammat.  p.  26. 

In  rum.  amikìi  ist  von  dem  Artikel  lat.  iUe  keine  Spur  mehr  iibrig,  denn  -/(. 
ist  der  Auslaiit  des  Stammes ,  der  vor  dem  -l  sich  erhalteu  batte  und  nun  seltsamer- 
weise  dazu  gekommen  ist  gegeniiber  dem  eigentlicb  damit  identisehen  amik  als 
Artikel  zìi  fungieren.  Dasselbe  ware  der  Fall,  wenn  wir  auf  alb.  miku  dieselbe 
Erklarung  anwendeten.  Indessen  darf  nicht  verscbwiegen  werden,  dass  die  Ueber- 
einstimmung  bei  naberer  Betrachtung  aufhort  eine  so  frappante  zu  sein.  Im  Alba- 
nesiscben  fuugiert  -?«  als  Artikel  nur  bei  den  Stàmmen  auf-fc,  ferner  bei  den  nicht 
sehr  zablreichen  auf  -a,  -e  und  -i:  ka  'Ochs'  kau  'der  Oobs',  Se  'Erde  '  3eu  'die 
Erde  ',  si  '  Eegen  '  sìic  '  der  Regen  '.  Die  iibrigen  haben  -i  als  Artikel.  Man  kònnte 
versucbt  sein  diesen  Unterschied  zwisclien  -u  und  -i  als  Artikel  mit  der  verschie- 
d.enen  Behandlung  des  lat.  iUe  im  Rumanischen  zu  vergleichen ,  die  dasselbe  erfàbrt, 
je  nachdem  es  an  unbestimmte  Nominative  auf  -ii  oder  an  solehe  auf  -e  tritt:  ui-sit 
(aus  ursul)  '  der  Bar  ',  aber  cdnele ,  gesprochen  canile  '  der  Hund  ',  von  cane  '  Hund  '. 
Dann  ware  alb.  -i  auch  zunacbst  an  Stammen  aitf  ursprlinglicli  -i  oder  -e  erwach- 
sen,  z.  B.  ken  aus  lat.  canem,  und  keni  '  der  Hund'  ware  unmittelbar  =rum.  canile, 
nur  dass  im  Albanesischen  das  -le  aiuoli  hier  geschwiinden  ware.  Dieser  so  entstan- 
dene  Unterscliied  ware  dann  in  der  historisch  berechtigten  Weise  nicbt  festgebalten 
worden,  sondern  in  einer  Weise  verwendet  worden,  die  liauptsaolilich  durch  lautphy- 
siologische  Rlicksicliten  bestimmt  wurde.  Indessen  lasst  die  Rllcksiclitnahme  auf 
eine  andere  Ersobeinung  der  albanesischen  Flexionslehre  noch  eine  andere  Erkla- 
rung als  moglich  erscheinen.  In  der  dritten  Person  Singular  des  erzahlenden 
Praeteritums  begegnet  uns  derselbe  "Wechsel  zwischen  -i  und  -u  und  zwar  ganz 
unter  den  nàmlichen  Bedingungen.  Wir  fìnden  dort  l'ioi  'ev  band'  von  l'if}  'icli 
binde',  aber  lagu  er  benetzte'  von  l'ak  ich  benetze';  und  ebenso  unter  den  vocaHscli 
auslautenden  Stammen  kenclol  'er  sang'  gegeniiber  von  Ucou'qy  weinte', /sjw  'er 
wischte  ab',  geJieu'ex  betrog'.  Wie  welter  unten  zur  Sprache  kommen  wird,  ist  es 
wahrscheinlich,  dass  Formen  wie  Jcendoi  '  ev  sang'  aus  lateinischem  cantavit  gera- 
dezu  entlehnt  sind.  Demnach  hatten  wir  in  der  Lautfolge  -vi  nach  vorhergehendem 
-0-  =  lat  -a-  das  -v-  geschwunden;  in  ureti  'er  schauderte'  =  lat.  *1iorrevit  fiir  hor- 
ridt,  in  dremiu,  'er  nickte  ein'  =  lat.  donnivit  wie  nach  -a-  (z.  B.  in  kau  'er  weinte") 
ist  dagegen  die  Lautfolge  -vi  in  -u  tibergegangen,  wol  auf  dem  Wege  -«t  -m,  wofiir 


—  106  — 

man  vielleiclit  die  von  Lecce  ilberlieferte  Form  serhea  aufiiliren  darf.  '  Mit  Bezug 
anf  die  verschiedene  Behandlung  des  perfectischen  -vit  kann  m.an  an  ital.  amau 
amò  atis  lat.  amav it  nehen  vendè  aus  *  v end  :vit,  partì  a,u.s  par t tv It  erinnern.  Erwàgt 
man  min,  dass  bei  mehreren  Nominalstammen  auf  -a  sicli  dar  ursprùngliche 
Ausgang  -nv  walarsclieinlicli  maolien  lasst  {tra  'Balken'  aus  lat.  trabem  ital.  trave;  sica 
skla  'Grieclie"  aus  sclavus;  ka  'Ochs'  vgl.  venetisch  ceva  'Kuh')  und  dass  die  auf -e 
und  -i  etymologisch  meist  dunkel  sind  (fiir  idiii  kann  man  an  lat.  oliva  erinnern) , 
so  erscheint  es  nicht  uumoglich,  dass  auch  das  «  des  Ai-tikels  aus  -ni  -vi  eutstauden 
ist.  Danach.  batte  ein  trahem  illam  (so!)  ein  *  travi  =  trau  ergeben,  ein  amicumi  ilhim 
ein  *mihui  =  miku;  die  Walilverwandtscbaft  des  k  zum  u  gab  liier  allerdings  auch. 
scbliesslich  den   Ausschlag,  denn  ein  statum  illum  wurde  zu  stati. 

Die  lautlicbe  Herleitung  von  -i  aus  Uh  oder  illi,  das  zunachst  zu  ile  ije  oder 
ili  iji  werden  musste,  macht  keine  Schwierigkeiten  ;  ebeuso  geht  ja  auf  {i)lla  la 
zuriick  und  hat  als  einsilbiges  Wort  dem  Uebergang  von  auslautendem  a  in  e 
ebenso  widerstanden  wie  im  Eumanischen.  Trotzdem  bin  ich  weit  davon  entfernt 
den  Ursprung  des  Artikels  i  {ic)  a  aus  ille  illa  fiir  sicher  bewiesen  auszugeben.  Die 
Annabme  verdankt  einem  Gresprache  mit  Schuchardt  ibre  Anregung.  Fiir  die  mit 
s-  nnd  t-  beginnenden  Formen  des  Artikels  wird  man  an  der  Erklarung  aus  altem 
albanesiscbem  Spracbgut  festbalten  mùssen.  Hiebei  bietet  sicli  fiir  den  neutralen 
und  pluralisclien  Artikel  te  zunachst  der  bulgariscbe  Artikel  zum  Vergleicb  dar. 
Und  icli  -will  niclit  ver  soli  weigen,  dass  man  bei  i  {j)a  leicbt  versucbt  sein  kònnte 
an  den  Pronominalstamm  ja-  zu  denken,  der  in  den  baltiscb-slawisclien  Spracben 
bekanntlicb  zur  Bildung  des  bestimmten  Adjectivums  verwendet  wird,  ein  Ge- 
brauch,  den  man  auch  in  den  eranischen  Sprachen,  ja  vereinzelt  im  vedischen 
Sanskrit  wiedererkannt  hat. 

Das  Gebiet  der  Pronomina,  in  welches  ja  auch  der  Artikel  gehòrt,  zahlt  in 
alien  indogermanischen  Sprachen  zu  den  am  meisten  dunklen  und  verwickelten 
und  stellt  liberali  diejenigen,  welche  es  mit  einer  rigorosen  Behandlung  der  Laut- 
gesetze  Ernst  nehmen,  auf  eine  harte  Probe.  Ich  bin  weit  davon  entfernt  alle  Rat- 
sei,  welche  die  albanesischen  Pronomina  aufgeben,  borei ts  gelost  zu  haben,  kann 
mich  aber  doch  der  Ansicht  nicht  verschliessen,  dass  auch  hier  der  lateinische  Eiu- 
fluss  nicht  ganz  machtlos  gewesen  ist.  So  liegt  es  nahe  in  dem  anlautenden  a-  von 
ai  ari  'er',  Acc.  até  'ihn',  Plur.  atd  'sie',  atip-e  'ihrer",  'ihnen',  Femin.  ajó  'sie", 
Plural  ató  'sia'  dasselbe  Element  zu  er'kennen,  das  im  rumànischen  atàél  'ille', 
aisést  'hic',  spanischem  aquese  aquel  'jener",  aqueste  'dieser',  portugiesischem  aquelle 
'jener',  aqueste  'dieser',  provenzalischem  aquel  aquest  vorliegt  iind,  soweit  ich  sehe, 
eine  befriedigende  Erklarung  noch  nicht  gefunden  hat.  Dtìrfen  wir  auch  hier  das 
-i  -n  von, «e  au  als  lateinisches  ille  auffassen,  so  werden  wir  in  dem  6  der  weiblichen 
Formen  ajó  ató   einen  deiktischen  Zusatz   (aus  lat.  hàc'ì)  erkenneu  diirfen,    wie  er 


'  In  den  geginclien  Mundarten  sohcint  in  der  e-  Conjugatiou  -i  das  gewohnliche  zu  sein:  Rossi  Sci,  Javnik 
lùejt  Juugg  kzei;  doch  fiigt  der  letztre  bei  '  alcuni  aggiungono  k'  p.  57. 


—  107  — 

dem  Romauisclieu  ebeufalls  uiclit  fremei  ist.  Fiir  kit  kuj  '  dieser\  weiblich  kejó  kjó 
'diese'  u.  s.  w.  wird  dann  auf  die  mit  dem  Guttural  gebildeten  romamsclien  Pro- 
nomina hingewiesen  werden  dilrfen,  der  auf  lat.  ecce  oder  eccum  zuriick  geht:  kuj 
ware  eccum  illiiìn,  kejó  etwa  ecce  illam  lidc.  Kiihner  erscheint  es  in  tìj  'seiner'  lat. 
istius  erkennen  zu  wollen,  obwol  der  Abfall  der  Anlautsilbe  is-  ein  Analogon  in 
dem  ZaUwort  tete  'aclit'  hat,  das  fiir  '^aste-te  steht,  wie  ich  in  meiner  Abhandlung 
iiber  die  albanesisclien  Zahlwòrter  (Albanesische  Skidieu,  II  66)  nacligewiesen 
habe.  Zweifellos  scheint  es  mir,  dass  das  lateinische  Fragepronomen  im  Albanesi- 
sclien Aufnahme  gefunden  hat:  der  Grenitiv  kuj  'wessen?'  (so  bei  Hahn  und  im 
sicilischen  Albanesisch  Camarda  I  212)  ist  lat.  cujtts);  '  aueh  die  adjectivische  Ver- 
wendung  voa  ciijus  cuja  cujimi  ist  dem  Albanesisclien  nicht  fremd:  i  kuji  este  mi 
kal'e  'wessen  ist  dies  Pferd?',  e  kuja  este  ajó  sfe^Ji  '  wessen  ist  dies  Hans?'  kiis  'wer?' 
kann  unmittelbar  gleich  lat.  quis  gesetzt  werden,  wobei  -u-  fiir  -i-  nach  dem  k-  hier 
um  so  "weniger  befremden  dtìrfte,  als  es  mit  durch  Einwirkung  des  Gen.  Dat.  kuj 
iiervorgerufen  sein  kònute.  Eine  solche  Einwirkung  wird  man  notwendig  im  Accu- 
sativ  Zce,  gegisch  ke  aus  lat.  quem  fiir  zu  erwartendes  ke  ke  annehmen  miissen  : 
das  aus  dem  Declinationsparadigma  losgelòste,  unflectirbare  tse  'was?';=lat.  quid 
setzt  ein  ^ke  voraus,  und  ebenso  ist  in  ke  ' dass' =  lat.  quod,  ital.  che,  franz.  que, 
rum.  ke   die  regelmassige  Erweichung  des  k-  eingetreten. 

Was  die  Flexion  des  Veeeums  betrifffc,  so  hat  man  schon  fruher  behauptet 
(Schuchardt,  Vocalismus  III  47.  51.  Miklosich,  Albanische  Forschungen  II  23), 
dass  die  3.  Singularperson  des  Hilfsverbums  jam  'ich  bin'  aus  dem  Lateinischen 
entlehnt  sei.  Dieselb^  lautet  im  Toskischen  nacli  Kristoforidhis  und  Dozon  este 
oder  e,  im  Gregischen  nach  alien  Qiiellen  mit  Nasalieruiig  àst  oder  a,  nur  Lecce 
hat  ast;  aste  bei  Blanchus  stellt  sich  schon  durch  s  fiir  s  als  ungenau  heraus;  welclie 
sonstige  Gewahr  iste  bei  von  Hahn  hat ,  weiss  ich  nicht.  Rada  gibt  aiis  Unteritalien 
est  oder  è,  Reinhold  aus  Griechenland  iste,  ich  habe  auch  dort  nur  est  oder  este 
gehort.  Schon  der  Umstand,  dass  sonst  die  Conjugation  des  Indicativ  Praesentis 
von  jam  'ich  bin'  mit  der  von  kam  'ich  habe"  so  genau  iibereinstimmt ,  dass  man 
eine  gegenseitige  Angleichung  anzunehmen  genòtigt  ist  (man  vergleiche  jam  je 
este  jemi  jini  jane  mit  kam  ke  ka  kemi  kini  kane) ,  làsst  die  aus  dem  Parallelismus 
aUein  herausfallende  3.  Pers.  Siug.  als  hòchst  auffallend  erscheiuen.  AUerdings  ist 
bei  sogenannten  TTnregelmàssigkeiteii  das  Praejudiz  meist  fiir  eine  Alter tiimlichkeit, 
die  sich  aus  irgend  einem  Grande  der  Uniformierung  entzogen  hat.  Dieser  Grund 
ist  mòglicher  "Weise  das  Zusammentreffen  mit  der  lateinischen  Form  gewesen: 
denn  das  indogermanische  esti  'ev  ist'  konnte  im  Albanesischen  nicht  anders  lauten 
als  est,  wozu  auch  ein  lateinisches  est  werden  musste.  Dass  keine  Diphthongierung 
des  betonten  e  zu  ie  je  statt  gefunden  hat  (vgl.  jam  'ich  bin'  aus  *jem  fiir  em  =  esmi, 
jcàte  fiir  "^jeste  vgl.  eks  u.  s.  w.) ,  ist  in  dem  einen  Falle  so  auifallend  wie  in  dem  andern; 


In  der  Form  kvjt  (bei  Dozon  und  Kristoforidhis)  ist  genitivisclies  -t  (tf  «i(  '  des  Hundes  ')  angetreten  wie  in 
krjit  neben  ieti  '  tqùtou'  (Kristoforidhis). 


—  108  — 

eiue  friiliere  Nasalierung  wiirde  das  é  in  der  Tonsilbe  am  besten  erklàren ,  vgl.  geg. 
«si,  wo  freilich  die  Nasalierung  e  ine  liysterogene  sein  konnte.  Die  kiirzere  Ne- 
benform  e  (à)  geht  wol  siclier  auf  romanischen  Einfluss  zuriick:  vgl.  ruman. 
je  neben  jeste. 

War  hier  sin  Zweifel  mogKch  und  berechtigt,  so  scheint  es  mir  dagegen  ganz 
siclier  zu  sein,  dass  zwei  lateiniscke  Verbalformen  ins  Albauesische  Eiugang  ge- 
funden  haben,  das  Imperfect  Indicativ  und  das  Plusquamperfect  Conjunctiv.  "Was 
zunàokst  das  erstere  betrifFt,  so  war  die  Aehnlickkeit  zmschen  alb.  Uendova  'ich 
sang'  und  ital.  cantava  schon  Bopp  aufgefallen,  der  sich  àusserte,  'dass  das  Albane- 
sische  in  dem  vorliegenden  Falle  uns  ganz  im  Lickte  einer  romanisclien  Sprache 
erscheint'  (Ueber  das  Albanesiscke  S.  74).  Trotzdem  war  er  mehr  geneigt  dies  Prae- 
teritum  auf  -va  als  urverwandt  mit  dem  lateiniscken  Perfectum  auf  -vi  zu  identifi- 
cieren.  Ich  kann  an  dieserà  Orte  die  Griinde  nicht  ausfilhrlick  darlegen,  welche  mich 
bestimmen  in  den  betreffenden  Formen  entlehnte  zu  sehen,  die  allerdings  in  ikren 
Endungen  (besonders  der  1.  u.  2.  Person  Singular)  durck  die  des  alteinheiniisclien 
Perfects  beeinflusst  zu  sein  scheinen;  fur  die  3.  Pers.  Sing.  kann  man,  was  oben 
angedeutet  wurde,  vielleicht  auch  Einmischung  von  cantavit  neben  cantahat  annehmen. 
Am  klarsten  spiegeln  die  Pluralformen  Uendilame  lienduate  Uenduane  lateinisches 
cantdbamuiì  cantdbatis  cantdhant  wieder.  lek  werde  die  Grunde  filr  meine  Annakme, 
ebenso  wie  verschiedene  hier  in  Betrackt  kommende  phonetische  Fragen  (z.  B.  das 
Verhiiltuiss  von  o  und  e  im  Singular  zu  uà  und  uè  im  Plural,  die  verschiedene 
Behaudlung  des  iulautenden  -b-  oder  -«-)  im  dritten  Hefte  meiner  'Albanesischen 
Studien'  eròrtern,  das  sich  mit  den  abgeleiteten  Verben  des  Albanesischen 
beschaftigen  soli.  Von  denjeuigen  abgeleiteten  Verben  namlich,  die  aus  der  latei- 
nischen  a-  und  e-  (2.  u.  3.)  Conjugation  eingedrungen  sind,  hat  dies  Praeteritum 
auf  -va  seinen  Ausgang  genommen  und  sich  von  dort  auch  auf  einige  andrò  ver- 
breitet.  Aus  der  lat.  a-  Conjugation  stammt  der  Grundstock  der  alb.  o-  Verba 
(Praesens  -óiì  oder  -ój);  Verba  der  dritten  Conjugation  haben  sich  ihnen  angeschlos- 
sen,  dazu  hat  man  aus  einheimischen  Mitteln  zahlreiche  gebildet.  Die  Zahl  der 
Verba  auf  -ón  ist  so  gross ,  dass  ich  mich  mit  wenigen  Beispielen  begnligen  muss. 
Aus  der  a-  Conjugation  stammen  z.  B.  deserova  =  desiderabam,  durava  =  durabam, 
kuitova  =  cogitabam,  kastigova  =  castigabam,  Uerkova  =  it.  cercava  usw.  Aus  der 
dritten  Conjugation  z.  B.  dergova  ich  schickte'  =  dirigebam^  gemova  =  gemebam, 
digova  'ich  hòrte'  =  intellig ebani,  skrova  =  scribebam,  rova  'ich  rasierte'  =  radebam 
(r  =  rd)  u.  s.  w.  Aus  einheimischen  Mitteln  sind  gebildet  z.  B.  hesoj  'ich  glaube' 
von  hese  'Glauben',  emnoj  'ich  nenne'  von  geg.  emen  Name'  usw.  Die  e-  Verba 
(Praesens  -éii  oder  -éj)  an  Zahl  viel  geringer,  tragen  zum  Teil  den  Ursprung  aus  der 
lat.  e-  Conjugation,  die  in  dem  Imperfect  auf  -ébam  mit  der  dritten  zusammen 
fìel,  noch  sehr  deutlich  zur  Schau.  Man  vergleiche  pel'Ueva  'ich  gefiel'  =  lat.  placèbam, 
ndejeva  'ich  verzieh^  =:indulgebaìn,  skandeva  'ich  schimmerte'  (Lecce)  =z  ex-candebam, 
vejeva  'ich  half  =  valebam,  ureva  'ich  hasste'  =  horrebam;  aus  der  dritten  Conju- 
gation/ejey  a  'ich  slindigte'  =fallebam,  ngeva  'ich  bestrich'  =  ungebam.  Hier  haben 


—  109  — 

sich.  Verba  der  a-  Conjugation  eingedràngt  :  kembén  'ich  wechsele',  vgl.  ital.  cambiare; 
gemii  =  ich  tausche',  vgl.  it.  in-gannare,  mlat.  gannat;  vie  mcetn  Blanchus  =  nodare; 
l'eri  leva  'ich  salbe,  salbte'  ist  aus  dein  Perfect  levi  zu  lino  gebildet.  Aus  dem  Slavi- 
schen  stammen  z.  B.  ìcetséu  ich  springe,  vgl.  serb.  skociti  'springen';  nderséj  'ich 
hetze  Hunde',  vgl.  serb.  drskati  'Hunde  hetzeii\  Andre  siud  etymologisch  dunkel. 
Von  Verben  der  i-  Coniugation  habe  ich  nur  eines  im  Albanesischen  als  i-  Verbum 
gefunden:  dremin    sommeiller'  Dozon,  dremiva  =  dormi{e)bam;  servire  ist  zu  serbén 


Das  Plusquamperfectum  Conjunctiv  erkenne  ich  in  dem  albanesischen  Optativ 
auf  -fsa  wieder.  Alb.  kendofsa  Jieiidófs  kendófse  Uendófsime  kendofsi  ìcendófsim  ent- 
sprechen  der  Reihe  nach  genau  —  bis  auf  die  von  andrer  Seite  her  beeinflussten  En- 
duugen  der  1.  Sing.  und  der.  2.  Plural.  —  lat.  cantdvissem  cantdvisses  cantdvisset  can- 
tdv(i)ssemus  cantdv{i)ssetis  cantdvissent.  Ueber  phonetische  Einzelheiten  werde  ich  eben- 
faUs  an  jenem  andern  Orte  Grelegenheit  haben  mich  naher  auszulassen.  Derselbe 
Ursprung  des  Lautcomplexes  -fs-  liegt  in  kafse  aus  lat.  causa  vor,  wàhrend  es  sonst 
auf  -cs-  zuriick  geht  (kofse  'Hlifte'  lat.  cocca,  menddfs  'Seide'  lat.  metaxa;  l'afse  'Vor- 
haut,  Hahnenkamm"  lat.  laxa  (cutis)?)  oder  in  etymologisch  dunklen  Wòrtern  steht 
{grifse  'Elster'  zu  friaid.  grip  ' spechtartiger  VogeF  Pirona?  kafsój  neben  kapsój 
'beisse';  kofste  neben  kojjst  'Garten';  ofs  'Zugwind';  anlautendes /s-  in  fsat  'Dorf" 
nebem  rum.  sai  "Dorf';/se7t  'ich  verberge';  fsin  ich  kehre',  fsese  'Besen',  neben 
psiìi  mesiìi).  Die  Form  auf  -fsa  hat  im  Albanesischen  eine  viel  grossere  Ausbrei- 
tung  gefunden  als  das  Praeteritum  auf  -va  (z.  B.  auch  kofsa  'ich  mòchte  sein'). 
Was  die  Bedeutung  betrifft,  so  braucht  wol  kaum  daran  erinaert  zu  werden,  dass 
der  Conjunctiv  des  Plusquamperfects  im  Eomanischen  iiberhaupt  aus  seiner  Zeit- 
sphare  in  die  des  Imperfects  iibergetreten  ist;  doch  muss  hervorgehoben  werden, 
dass  das  dem  Albanesischen  sonst  vielfach  so  nahe  stehende  Eumanisch  diesen 
Uebergang  nicht  mitgemacht  hat,  sondern  den  betreffenden  Formen  die  Bedeutung 
des  Indicativ  Plusqiiamperfecti  gegeben  hat. 

Aus  den  ùbrigen  Wortclassen  hebe  ich  an  dieser  Stelle  auch  noch  einige  her- 
vor,  obwol  diese  Entlehnungeu  eigentlich  in  das  Grebiet  des  Lexikons  gehòren. 
Indessen  schneiden  sie  doch  tiefer  in  den  Organismus  der  Sprache  ein,  als  sonst 
"Wortentlehnungen  zu  tun  pflegen.  Von  den  Zahlwortern  fiir  'hundert'  kint  und 
'tausend'  mije  war  es  làngst  bekannt,  dass  sie  dem  Lateinischen  entnommen  sind; 
auffaUiger,  wenn  auch  durchaus  nicht  ohne  Analogie  in  andern  Sprachen,  sind 
Entlehnungen  bei  kleineren  Zahlen,  und  ich  habe  es  im  zweiten  Hefte  meiner  'Al- 
banesischen Studien'  wahrscheinlich  zu  machen  gesucht,  dass  die  Bezeichnuugen 
fiir  'drei'  tre,  weiblich  tri,  und  fiir  'vier'  kater  entweder  aus  dem  Lateinischen 
stammen  oder  doch  wenigstens  unter  dem  Einfluss  der  entsprechenden  lateinischen 
Zahlworter  lautlich  modificiert  worden  sind. 

•  Aus  der  Reihe  der  Praepositionen  dùrfen  die  folgenden  mit  mehr  oder  weni- 
ger  Sicherheit  als  romanisch  in  Anspruch  genommen  werden:  per=  lat.  pe?-  und^wo 
(wie  ini  Italienischen  und  Rumilnischen),  nde  'in'  =lat.  intus,  nder  'zwischen"  =  lat. 


—  110  — 

iiiter,  siiìer  sipre  anf  =  lat.  super,  himdre  'gegen'^lat.  contra,  poste  'imter'  z=lat. 
post.  Auch  zusammengesetzte  Praepositionen  verwendet  das  Albanesische  in  aus- 
gedelinter  Weise  wie  die  romamschen  Sprachen:  vgl.  ndepér ,  permhi ,  perpós  m.  a. 
brenda  mhrencla  perhrenda  in,  innerhalb' scheint  \&i.  lìer-intus  mit  einem  angetre- 
tenen  Element  -a  zu  sein;  afer  'nahe  bei'  ist  vielleiclit  ad-foras  (dodi  vgl.  rum. 
afdre  'draussen');  das  Praefix  sfer-  tei--,  von  dem  bei  Kristoforidhis  S.  164  reichliche 
Beispiele  stehen ,  ist  =  ital.  stra- ,  riiman.  stre-;  die  rumanische  Gebrauchsweise  z.  B. 
in  strebun  '  Urgrossvater ',  strenepot  'Urenkel'  stinimt  durchaus  zu  der  albanesisclien 
in  stergus  '5rpó/:a:i7to?',  sternip  'Urenkel'. 

Von  den  Conjunctionen  ist  e  'ixnd'=:lat.  et,  ital.  e;  das  gleichbedeutende  eSe 
'und'  ist  damit  componiert,  der  zweite  Bestandteil,  der  in  der  Bedeutung  'aussi, 
meme'  auch  selbstandig  vorkommt,  wird  griecMsches  òs  sein,  wie  ja  auch  die 
iieugriechische  Praeposition  [j,é  'mit'  als  me  ins  Albanesische  Eingang  gefunden 
hat,  und  wie  as  vor  dem  Imperativ  ngr.  a?  =afBz  ist.  a  'oder'  ist  lat.  aut;  es  ver- 
hàlt  sich  zu  ruman.  au,  ital.  o  ebenso  wie  alb.  ar  'Grold'  zu  rumàn.  au?-,  ital.  oro. 
In  as  'nicht',  as-as  'weder-noch'  ist  dies  a  mit  der  Negation  s  zusammengesetzt 
(wie  in  mos  aus  mo,  urverwandt  mit  griech.  [iij,  und  s),  die  nach  Mildosich's  Nacli- 
weis  (Alb.  Forsch.  II  22)  aus  lat.  dis-  entstanden  ist.  Auch  die  Negation  nuke,  in 
Italien  nenke,  ist,  wie  Schuchardt  erkannt  hat,  lateinischen  Ursprungs:  nunquam; 
er  vergleicht  indoport.  nuca^nm.  Italienisches  ma  'aber'  ist,  wie  ins  Neugriechische, 
so  auch  ins  Albanesische  eingedrungen;  frllher  hat  lat.  -magis  als  me,  gegisch  ma 
beim  Oomparativ  (der  auch  im  Kumanischen  mit  mal  umschrieben  wird)  Aufnahme 
gefunden,  wie  ja  auch  die  Gradadverbia  sume  und  fort  'sehr',  pak  '  wenig'  lateini- 
schen Ursprungs  sind.  In  der  gewohnlichen  Adversativpartikel  pò  'aber',  wofilr 
Rossi  und  Kristoforidhis  die  Nebenform  por  bieten,  erkenne  ich  lat.  porro,  das  'zur 
Angabe  des  Fortschreitens  von  einem  Gedanken  zu  einem  andern,  selbst  zu  einem 
entgegengesetzten '  gebraucht  wird;  identisch  damit  ist  das  pò,  das  dem  Praesens 
und  Imperfectum  in  der  Bedeutung  'bestandig,  immerfort'  vorgesetzt  wird.  Dass 
Ice  'dass'  lat.  qiwd  oder  quidisi,  wie  im  Romanischen,  wurde  schon  oben  beruhrt; 
se  'dass'  ist,  wie  ruman.  se  'dass',  =  lat.  si.  Kur'waxai  ist  zunachst  mit  provenz. 
quora  quor  aus  qtia  liora  zusammen  zu  stellen. 

Zum  Schluss  werfe  ich  noch  eiuen  ililchtigen  Blick  in  die  Woetbildungslehke. 
Suffixe,  welche  nur  an  lateinischen  Lehnwòrtern  vorkommen  und  sich  nicht  leben- 
dig  genug  erwiesen  haben  die  einheimische  Wortbildung  zu  befruchten,  konnen  na- 
tiirlich  hier  nicht  berlicksichtigt  werden.  So  ist  -fe(  =  lat.  -iàtem  nur  an  lateinischen 
"VVorten  Qiutét,  pustét,  sendét,  vulndét,  vertét)  nachweisbar.  -ture  aus  lat.  -tura  hat 
wenigstens  einige  Neubildungen,  wenn  auch  nur  aus  romanischen  Elementen, 
aufzuweisen  {(jumture.i^juHctura,  undure  =  unctura,  feture-=factura,  neben  deture  = 
^debitura,  sembelture  semtur  ^* simìlatura);  mendure  aus  ital.  maniera  ist  solchen  Wòr- 
tern  angeglichen.  In  den  Kreis  der  vorliegenden  Studie  faUeu  aber  eigeutlich  nur 
solche  lateinische  Suffixe,  welche  auch  aus  albanesischen  Wortern  neue  BUdungen 
geschaffen  haben.  Von  ihnen  habe  ich  bereits  im  ersten  Hefte  meiner  '  Albanesischen 


—  Ili  — 

Studien  "  einigo  nachgewiesen.  So  -im  aus  lat.  -imen,  wie  rumali,  -ime,  Abstracta 
bildeiid  (S.  49),  -dr  aus  lat.  -àrius  (S.  58),  -titar  -tor  aus  lat  -tór  (S.  59),  -i  aus  ro- 
man.  -ia  (S.  71),  das  Femiiiiiia  bildende  -ese^rom.  -issa  (S.  82).  Ich  fiige  hinzu, 
dass  mir  die  Abstracta  auf  -fise,  von  denen  ebenda  (S.  81)  Beispiele  verzeichnet 
sind,  aus  deii  lat.  auf  -enfia  (Diez  II  384)  entstaudeii  zu  sein  sclieinen;  den  Beweis 
far  diese  Behauptung  eutliiilt  das  zweite  Heft  der  '  Alb.  Studien  '.  Auf  die  Ueber- 
einstimmung  der  ruinaiiischen  Adverbia  auf  -easte  mit  den  albanesischen  auf  -ist 
hat  bereits  Diez,  Grammatik  II  461  hingewiesen. 


Gustav  Meyeh. 


STUDIEN 

ZUR  HLSPANISCHEN  WORTDEUTUNG. 


1.  A(;amo. 

AgAMO  AgAiMO,  Port.:  Lederriemenzeug ,  welclies  ah  Maulkorh  dient  (fiir  Hunde, 
Frettchen,  junge  W'ólfe  etc).  Domingos  Vieira  erklàrt:  Cabrestilìio  ou  focmheira  que 
jorende  as  maxillas  fechadas  por  melo  de  urna  liga  de  correla  ou  camòa  afivelada  por  de- 
traz  das  orellias  do  animai  que  se  quer  impedir  que  morda.  Der  «  Maulkorb  »  wird  auf 
der  Halbinsel  eutweder  als  ein  Theil  des  Riemen-  und  Sattelzeuges  aufgefasst  iind 
«  Ziigel  »  oder  «  Zilgelchen  »  benannt,  (port.  freio  und  cahrestiUw ;  cast,  frenillo) 
oder  aber  als  «  Mundstiick  »  bezeiclmet  (cast,  bozal  port.  focinheira;  cfr.  frz.  museau;- 
ital.  museruola,  musoliera).  Welche  Anschauung  liegt  nun  dem  nooh  nicht  gedeiite- 
ten''  A(?AMO  zu  Grunde?  loh  glaube  die  erstere.  Doch  sehen  wir  zunachst  den 
Lautb  estand  des  "Wortes  an. 

Neben  dem  Substantiv  steht  das  Verbiim  acamar  acaimar  =  den  Maulkorb 
anlegen,  im  realen  Sinne,  so  wie  in  bildlicher  Verwendung  als  zugeln,  zdumen  und 
zàltmen.  '  Das  Zeitwort,  welches  heiitzutage  kèine  andere  Bedeutung  als  die  ange- 
gebene  bat,  j^ònnte  selbstverstandlich  sehr  wohl  veni  Hauptworte  abgeleitet  sein; 
doch  ist  auch.  das  Umgekehrte  inòglicb,  in  acamo  acaimo  ein  aus  aqamar  agaiviar 
gezogenes  Verbalsubstantiv  zu  erkennen.  Ob  letzeres  der  Fall,  ist  die  zweite  Frage 
die  beantwortet  werden  muss  ;  und  in  engem  Zusammenhange  damit  steht  die  dritte  : 
ob  eine,  und  welche,  von  den  Parallellformen  mit  ai  und  a  die  ursjjì-ungliche ,  frilhere, 
und  welche  die  spdtere,  abgeleitetc  ist;  oder  ob  wir  es  etwa  mit  Doppelungen  zu 
thun  haben,  die  in  keinem  genetischen  Verhaltnisse  zu  einander  stehen,  mit  Dou- 
bletten,  welche  sich  auf  verschiedenem  Wege  aus  ein  und  derselben  Urforni  ent- 
wickelt  haben. 

Die  Formen  mit  a  sind  seit  dem  16ten  Jahrhundert  die  in  der  Sclìnftspvaclie 


'  Die  hebràìsch-arabische  Herleitung  port.  Lexikographen  welche  auf  ein  Verbiun  kammalcainam=^biìiden 
be/esiigen  hinweisen,  diirfen  unberiioksichtigt  bleiben. 

'  A9AMAR,  A{iisiAK  erklSren  die  port.  Worterbiiclier  dni'ch  «  jju)-  agamo,  calresto,  fiscella  para  evitar  que  um 
animai  morda....  ou  coma  os  gommos  das  plantas....  ou  manie.  Fig.  contcr,  pOr  mordacia ,  fazer  calar,  ter  mao  na 
lin;/ua,  refreiar ,  domar  (a  ira,  a  iiiveja,  os  ventos," 

X5 


—  114  — 

ausscldiesslicli  ilbliclien,  welche  selbst  vou  den  volkstumlichen  Dichtern  Gii  Vi- 
cente ,  '  Jorge  Ferreira  de  Vasooncellos  und  von  Meudes  Finto  etc.  benutzt  wiirden. 
Die  Formeu  mit  ai  siiid  heute  in  der  Volkssprache  iiblich,  und  wiivden  bereits  von 
den  ersten  port.  Lexikographen  gesammelt,  von  den  Puristen  aber  als  fehlerliaft 
verdammt.  '  Dass  sie  gute  alte  Worte  sind ,  làsst  sicli  auf  historiscliem  Wege  nicht 
beweisen,  ist  jedocli  ohne  weiteres  auzunohmeu,  falls  ikr  ai  sich  lautgesetzlich 
entwickeln  lasst. 

Directer  Ubergang  von  a  zìi  «t,  oder  nmgekelurt  von  ai  zu  «,  ist  auf  port.  Bo- 
den  nicht  moglich:  a  an  Stelle  von  urspriiuglicliem  ai  kommt  iiberhaiipt  nicht  vor; 
WG  wir  aber  ai  an  Stelle  von  urspriinglichem  a  finden,  eutstand  es  ausnahmslos 
durch  Attraction.  Ich  erwahne  nur  einige  bis  heute  gar  liicht,  oder  schlecht,  gè-' 
deutete  Beispiele.  Aplainar  ist  plan-iare;  e.sfaimado  ist  ««-/(««-««cZo;  j^airar,  j^ctc-ifarc; 
saibro  ist  sabrio  fùr  sabro ,  lat.  sab(;ìf)lìiìn;  caibro  ist  cabrio  flir  und  neben  cabro, 
lat.  capulum;  aidro  geht  auf  atrium  zurllck,  wàhrend  adro  sein  i  eingebiisst  hat;  ''* 
aibro  neben  abro  ist  àj){e)rio  wie  caibo,  capio;  saibo  sapio  j  pairo,  pano  (von  paj-ere). 
Taimbo  neben  tambo;  caimbo  neben  cambo  und  gelehrtem  cambio;  caimbra  caimba 
neben  cambra,  camba;  caiso,  neben  caso  (Gr.  V.  I  137  ;  Miranda  ;  Damiào  de 
Goes  etc),  das  sich  zum  volksiiblichen  cajo  (G.  V.  Ili  134,  161)  welter  entwickelt 
hat,  und  viele  andere  archaische  und  populare  Wortformen  lassen  sich  auf  die- 
selbe  Weise  erklai'en,  '  —  durch  Einschub  eines  i  in  die  Endung,  das  hernach  vom 
Stammvokal  attrahirt  ward.  —  Falls  also  von  agamo  auszugehen ,  so  ware  acaimar 
wie  aplainar,  esfaimar ,  ijairar  zu  beurteilen;  acaimo  aber  ware  cine  postverbaU  Ami- 
logiebilduiuj. 

Es  bleibt  jedoch  eine  andere  Moglichkeit  zu  erwagen:  acaimar  und  a(;amar 
kònnen,  an  verschiedenen  Punkten  des  port.  Sprachgebietes ,  aus  ein  und  demselben 
àlteren  acalmar  entstanden  sein;  nachher  aber  diirften  sie  weitere  Verbreitung  ge- 
funden  haben.  In  Lat.  AL  +  iaò  {v  oder  m)  ware  einerseits  das  l  dem  niichstfolgenden 
Labial  assimiliert  worden,  wie  z.  B.  in  caveira  aus  ccdoeira  (calvaria,  cast,  calaoera) 
in  cavilha  aus  calvilha  filr  clavilha  (lat.  clavicida)  und  in  safo  filr  savo  aus  salvo  (?);  "* 


'  G.  V.  Ili  11.  361  iu  fig.  Torwendiuig: 

Af^amac  qualquer  ci-iado 
que  nSo  seja  (diz  a  grosa) 
mais  que  vós,  à  custa  vossa, 
adoiado. 
Die  sonstigen  Stollen  suclie  man  im  Worterbuche  der  Akademie,  Dom.  Vieira  etc. 
'  Francisco  José  Freiie,  Reflesòos  II  p.  3G,  Cand.  Lus. ,  und  andere. 

'  Saimùo  neben  samào  in  sino  samUo  =  Zeicheìi  Saìoìiiouìs ,  rentaiìmmma  geh'órcn  nicbt  hierher.  Sainuw  ist 
So.{l)imSo  ;  Samào  hingegen  Sa{ì)amào. 

'  Dnter  dasselbe  Gosetz  faUen  c/iKjwa  neben  cìmva,  aus  altem  cliimia  =pluviit  ;  wntuim;  Estiiii-as  Astidraa; 
cuìrar  neben  curar;  murmuiro;  coima=-comial  fiir  comc{d)al  ; /eira  —/(.rial,  und  vi  eie  andere  altport.und  dialektisclie 
Formen  in  denen  ai  (e;)  und  ui  Coi)  sclioinbar  einfaohem  a  (e)  und  ti  (o)  entsprechon.  Das  port.  Volk  begiinstigt  mit 
grosser,  sichtUcher,  VorUebe  die  Endungen  -io  -ia  und  vermeidet  einfaches  -o  -a,  wie  ioli  bereits  des  ofteron 
gesagt  [z.  B.  Zeitsclirift ,  voi.  VII  p.  H5|.  Zu  FMsia,  landria,  ìesmia,  ondia  fugo  ich  nun  vulgares  adubio,  acasio,  blusia, 
ìieria  invernio ,  irla,  mdmia,  (taigilia;  gali,  cirrio,  dmvia,  oslria,  quixilia,  midia,  urnia,  und  astur.  almia,  guardia, 
mttrio,  nervio,  sebia,  lujulia. 

'  Man  vorgleiohe  auoh  cast,  sax  caz  aus  salcc  calce  (neben  sauce  cavee),  lat.  salice  calice. 


—  115  - 

andererseits  aber  wàre  l  in  i  aufgelòst  worden,  Avie  z.  B.  in  aivado  neben  alvado  (Ab- 
leitungen  von  alvo  filr  alvio ,  lat.  alveum)  ;  aivào  neben  aloào  otc.  ' 

Acamar  und  acabnar  kònnen  also  auf  verscliiedenen,  dialektisch  abgegrenztenj 
Gebieten  erstandene  Vulgairformen  von  acalmar  sein ,  welches  fviiher  neben  beiden , 
jedocli  mit  abweichender ,  ursprilnglicherer  Bedeutung  bestand. 

Dies  aqalmar  nanilic}i  ist  ein  im  Altportugiesischen  (in  Documenten,  Gesetzbii- 
cliern  und  Chronikeu)  viel  gebrauclites  Wort,  welches  Fernào  Lopes,  Euy  de  Pina 
und  Azurara  verwenden.  Acalmar  —  aieben  dem  die  Hauptwòrfcer  aqalmo  und  ac^al- 
mamento  vorkommen  —  bedeutet  ausrusten,  Provicvnt  lierheischaffen ;  verproviantiren; 
mit  Munitioìi,  Kriec]smaterial,  Bpehe  und  Tranlc  versorgen.  Die  Belegstellen  sind  ùber- 
aus  zaMreich.  Einige  wenige  seien  angefiilirt: 

E  nào  tinlia  o    castello   de   Villarinho   agua   nenhua,    nem   almazera   nom   acalmamento 

nenlium.  (Doc.  vou  1370  boi  S.  Rosa  de  Viterbo). 
E  pois  a  cerca  da  villa  estava  bem  afortelezada  e  acalmada  e   percebuda  d'aquellas  cou- 

sas  qua  Ihis  comprem.  (ib.). 
Mas  nào  he  de  crer...,  qua   a  nom  leixassem  acalmada   pera  muyto   mais  tempo.    (lued. 

I  472). 
E  vendo  D.  Duarte  comò  uom  tinba  hi  acalmo  pera  ter  assi  aquella  fortaleza  (ib.  Ili  79). 
Agalmou  muy  bem  suas  fortalezas  (ib.  Ili  86). 

Fortalezas  agalmadas  de  qnantos  mantimentos  o  mostre  em  ellas  qnis  meter  (ib.  Ili  88). 
Por  elles  Ihe  darào  acalmo  com  que  se  possa  manter  (ib.  II  481). 
E  vendo  comò  nom  tinham  acalmo  pera  ter  alH  aquella  fortaleza  (ib.  II  623). 
Certo  seede  que  ella  està  agallmada  do  que  ha  master  pera  dez  annos  (Port.  Mon  Script. 

127). 
Repairou  todas  as  fortellezas  da  villa  e  acalmou  a  o  milhor  que  pode  (ib.  29). 
Vejam  os  nossos  castellos  corno  estào  acalmados  (Ord.  AfF.  I,  .5,  12). 

Als  Nebenform  von  acalmar,  das  bisweilen,  durch  leicht  erkliirliclie  Schreib- 
und  Druckfehler  zu  acalmar  entstellt  ward,  '  verzeiclinen  die  Worterbtìclier  (Moraes, 
Constancio  etc.)  ein  hocliwichtiges  snhnar,  das  mir,  weun  die  Erinnerung  uicht 
tausclit,  in  den  «  Livros  de  Linliagem  »  begegnefc  isfc.  Leider  kann  icli  die  Stelle 
nicbt  finden.  Indirect  wird  die  Existenz  der  Form  durch  ein  provinzielles ,  in  der 
Umgegend  von  Lissabon  tìbliches  salmejar  bestàtigt,  welches  den  Sinn  Lasten  in 
Kriegszeiten  an  helagerfe  Pldtzn  schaffen  zu  dem  besohriinkten  Spezialsinn  Getreide 
zur  Tenne  scldeppen  verandert  hat.  ' 

Angesichts  der  Formen  salmar  und  salmejar  darf  man  acalmar,  das  also  fiir 
asalmar  stando,  und  ferner  das  Zwillingspaar   acalmar  (warnar  aus  lat.  salmare  fiir 


Man  vergleiche  aueh  andai,  und  knbanisches  caicalar  aus  calcular;  vaiga  fiir  valga;  saiga  fiir  salga;  iatcon 
fiir  liidrmi  ;  aigo  fiir  alga;  und  ferner  port.  ni  aus  ul  in  multo,  Imitre,  cuitello,  escuitar.  Altport.  eigo  fiir  efgo,  und  eibi- 
tnir  aus  aihitrar  filr  arbitrar  gingen  durch  die  Zwischenformen  elgo  und  alhitrar. 

Està  terra  estava  muito  acalmada  de  muitos  toueinhos  e  lenBa  (F.  Lopes,  D.  .loào  I  cap.  18). 
E  acalmousc  de  lenhas  e  carnes  e  outras  cousas  que  pera  defensào  pertenciam  (ib.  cap.  101). 
E  pera  repairo  e  acalmamento  das  dìctas  artelharias  na  comarqua  da  Beira  mandou  novamente  fazer  a 
tarecena  da  Villa  do  Pinhel  (Ined.  II  80). 

'  Im  Cast,  bedeutet  salma  eine  Schiffslast  (von  20  Centnern). 


—  116  — 

sa(/niare*  von  sagma  (Isid.),  griech.  aàviia  =  Saiimsattel ,  deuten  (woher  sagmavius  = 
Saumtier,  Lasttier).''  Die  Prosthese  von  a  bedarf  keiuer  Erklaruug;  5  au  Stelle  von 
ani.  s,  besonders  nach  Vorsatz  des  a,  liat  gleiclifalls  niclits  nngewòhnliches.  Man 
vergleiche  acarUhado  neben  ensarilhado;  qafara  acafra  neben  safra;  celga  acelga,  arabi- 
sirtes  sicula;  acetre  accter  arabisirtes  situla;  acemite  neben  semite  etc.  In  acalmar 
konnte  das  Bediirfniss  nach  einem  ausserlichen  Unterscheidnugszeichen  von  salmo 
ensahnar  etc,  d.  h.  von  den  volkstiimliclien  Vertretern  uud  Derivaten  von  jjsahmts, 
das  ganzlicbe  Verschwinden  der  Form  asahnar  veranlassen. 

Was  die  Bedeutung  betriiìffc,  so  wàre  man  bei  aqalmar  von  dem  Begriffe  ehi 
Saumtier  zum  Ahmarsch  hereit  machen;  Sattelzeug  anlegen;  satteln^  r'ùsten  und  beladcn, 
zu  dem  speeialisirteren  gekommen;  die  vom  Saumtiere  in  Kriegszeiten  gescìdeppten 
Lasten,  d.  li.  Mimition  und  Proviant,  im  tueitesten  Sinne  gefasst,  an  iliren  Bestimmimgsort 
hringen;  verproviantiren.  '"  Bei  acaimar  acamar  bàtte  man  den  Begriff  des  Sattelns 
daliin  bescbrankt  dass  er  nur  das  Anlegen  eines  Teiles  des  gesannuten  Saumsattelzeuges, 
nilmlicb  des  Maulriemenzeuges,  bezeicbnete. 

Sagma  lebt  im  Neuport.  als  Simplex  nicht  welter.  Altport.  xalma  (gali,  xalma, 
aspan.  jalma"^  enjahna)  ist  bekannt.  In-sagmare"  ward  enxalmar,  woher  das  seltene 
Masculinum  exalmo,  "  neu  enxalmo  =1  Deche  ivelche  uher  den  Tragsattel,  die  sogenannfe 
«  alharda  » ,  gebreitet  wird. 

Die  Form  sauma,  welclie  im  Kast.  soma  somern  etc.  ergab,  liat  in  Portugal  keine 
Spuren  binterlassen.  Someiro  (arcliit.)  ist  daselbst  ein  dem  Spauiscben  entlelmtes 
Wort. 

Agaìiiar  auf  saumare ,  statt  auf  salmare  zuriickzufiibren  (wie  man  angesiclits 
von  agosto  agouro  ascuitar  versncht  sein  konnte  zu  tun)  geht  daher  nicht  wohl  an.  ' 

Zur  vollstilndigen  Sicherung  diesar  Herleitung  von  aqamar  agaimar  aus  acal- 
mar, und  von  agaimar  aus  salmare  fiir  sagmare,  miissten  im  Altport.  die  Formen 
asalmar  asahnar  asamar  gefunden  werden. 


'  Port.  Lexikographeu  lelten  ai,'Almo  von  einem  lat.  salmagum  ab. 

'  A941.MÌK:  prone?',  abastecer,  fortaìecer  coni  muni^òes  de  bocca  e  petreclios  de  guerra;  guarnecer,  fortificar  urna 
praga,  reparal-a,  e  i>rovel-a  de  lodo  o  preciso  para  o  tempo  da  guerra.  —  A^almo  ai;almamekto:  defenaào,  guarda, 
provimento ,  reparo. 

'  Jalma  nocli  in  Gruzman  de  Alf.  I  p.  81. 

'  S.  Rosasagt  exalmos=-cnxergaa.  —  Cfr.  Boav.  n  51.  E  eia  tomoti  os  ydolos,  escondeu-os  so  os  ex  almo  a  do  ca- 
mi'.lo  etc. 

^  Ein  seltener,  so  viel  ich  weiss .  noch  nicht  beachteter  Fall  von  aclieinbar  toniragendem  a  fìir  au  {ao)  liegt  im 
.^It-  nnd  vulgairport.  md  fiir  mau  vor,  um  so  beachtenawerter  als  daroli  die  Heruuterdriickung  von  au  zu  o  der 
geschleolitUohe  Untorschied  zwischeu  malus  (mau)  und  mala  (ma)  ganz  verwischt  wird.  Ich  denke  an  G.  V.  m  18,  wo 
ma  doairo,  ma  irentairo,  ma  vizinho,  ma  dado ,  mafado,  ma  prado;  TU  99  ma  pesar  (I  2G7  dieselbe  Formel)  in  schein- 
bar  ganz  willkiirlichem  Wecbsel  mit  stets  einsylbigem  mao  stebt,  z.  B.  in  mao  criado,  mao  mandado,  vtao  vigairo, 
mao  amigo,  vmo  abrigo.  Im  Volksmiinde  sind  beute  noch  Formein  wie  md-tipo  md-mez  etc.  gebriiachlich.  Ein 
Kinderrefm  beginnt  :  Oh  nii;o  de  md  pello,  de  md  casta  e  de  md  cabello.  Der  Fall  erklart  sicb  wohl  in  folgender 
Weise:  hiiufiger  gebrauchte  Wendungen  fallen  unter  cinen  Wortaccent;  Adjeotiv  und  Substantiv.verwaohsen  zu 
einem  Begriife  und  mau  wird  tonlos  ;  wiihrend  in  neugebildoten,  wenig  ùblichen  Formein  das  Adjectiv  seinen 
aelbstandigen  Accent  bewahrt  and  unveriindert  bloibt.  Wie  aber  ist  crasta—clnuslra  z«  beurteilen  ?  Hat  craslo  — 
caalrum  darauf  eingcwirkt,  tontragendes  au  zu  a  absohwiichond? 


—  117 


2.  Al^apào. 

Port.:  Klaj)j)e,  FaUtlìr,  ubertragen  Vogelfalle  mit  Klapi>tni:  Porta  ou  lampa  sabre 
urna  ahertura  feita  nwn  pavimento  para  o  communicar  com  o  qiie  Ihe  fica  por  haixo;  porta 
cm  plano  liorizontal  que  aire  de  haixo  para  cima.  Coelho  sagt  tìber  die  Herkunft  des 
"Wortes  in  seinem  noch  unvoUstandigen  etymologischen  "Wòrterbuche  :  de  al^ab;  o 
elemento  PÀo  e  assa2  escuro.  Anderweitige  Deutungsversuclie  kenne  ich  nicKt. 

Alqapao  ist  in  meinen  Augeu  niclits  anderes  als  ein  dem  port.  Volksmunde 
zngehòriges  alcn-jjòe,  d.  li.  es  bestelit  aus  den  Imperati ven  von  algar  und  jjòer  (heiite 
por),  bedeutet:  heh  auf  und  lege  nieder,  und  làsst  sich  neben  àhnliche  Bildimgen  wie 
vai-vem=Schaukelbeioegung  und  alqa-prema  =  Hehel  (kast.  aucli  aha-prim(ì)  stellen.  Man 
vergi eiche  atich  ganlia-perde,  kast.  ganaplerde=  Art  Kartenspiel  in  dem  geioinntioer  ei- 
gentlich  verlieren  m'dsste;  passe-passe  una  p>assa-passa^=  Taschen.spielerkunststilck,'  luze- 
liize  =  Leuchtkdfer  ;  mulhe-midke  =  feiner  Sprilhregen;  aport.  murde-fuge,  kast.  muerde- 
hiige;  tanje-tanje;  kast.  quita-pon  neben  quita-i-pon;  hulle-bidle;  tolle-tolle;  coj-coj;  gana- 
gana  etc.  etc,  denn  die  Reihe  der  volksiiblichen  Zusammensetzungen  diesar  Art  ist 
noch  lange  nickt  erscliopft.  Nebensachlich  ist,  fur  meinen  Zweck,  ob  in  alien  diesen 
Formen  tatsachlich,  oder  uur  im  nmdeutenden  Volksbewusstsein ,  ein  doppelter  Im- 
perativ  steckt,  wie  letzeres  z.  B.  in  chantepleure ,  port.  cantimplora  der  Fall  ist  (das 
nebenbei  gesagt  zìim  ersten  Male  in  den  «  Peregrinacoes  »  des  Portngiesen  Fernam 
Mendes  Pinto  erwàlint  wird),  und  in  dem  port.  Ortsnamen  Brite-ande. 

tjberraschend  bleibt  freilick  die  Verundeiitlichung  des  Begriffes  in  der  Ver- 
wandlung  von  alca-pòe  —  in  welchem  eine  characteristiche ,  vorziiglich  klare 
Bezeielinung  der  liier  zu  Lande  noch  beute  selir  liblichen  Art  von  Thiiren  steckt  — 
zu  dem  unverstàndlichen  alcapào.  Wie  haben  wir  uns  den  Vorgang  zu  denken? 
Zwei  Moglichkeiten  sind  vorhanden.  1")  Der  Plural  des  Wortes  hiess  friilier,  als 
alqa-pòe  noch  lebte,  und  heisst  auch  beute  noch,  alcapòes.  Die  ungeheure  Schaar 
der  port.  Substantive ,  deren  Plural  die  Endiing  òes  hat,  lautet  nun  bekanutlich 
im  Singular  auf  ào  aus,  gleichviel  ob  es  sich  um  lateinische  Urbilder  in  one  han- 
delt,  oder  um  germauische  Stàmnie,  oder  um  arabische  anklingende  Formen  {razào 
razòes;  halcào  balcSes;  limào  limòes).  Im  Gedanken  an  diese  Singulare  konnte  man 
aus  dem  Plural  alcapòes,  in  welchem  das  darin  ruhende  Bild  bereits  verdunkelt 
ist ,  einen  falschen  Singular  alcapào  abstrahiren.  2")  Oder  alqapòe  ward  zuerst  alcapoè, 
dann  algapovi;  von  alcapom  zu  alcapam,  alc^apào  aber  war  nur  ein  Schritt  und 
zwar  derselbe  Schritt  zu  tun,  welchen  die  Sprache  bei  jeglichem  Vertròter  von 
one  getan.  Fragt  man  nach  Beweisen,  nach  anderen  Fàllen,  in.  denen  5e  zu  oè,  ào 
ward ,  durch  die  nachzuweisende  Zwischenstufe  om ,  so  verweise  ich  auf  die  lange 
Reihe  der  portugiesischen  Reprasentanten  von  (und  Analogiebildungen  nach)  la- 
teinischen  Substantiven  mit  dem  SufSxe  -fudine  -tu{di)ne  -dune,  welchen  im  kasti- 
lianischen  das  lautlich  so  weit  abUegende  -dumbre  entspricht.  Aus  urspriiiiglichem 
didc'dòe  limpidòe  mansidòe  midtklde  escuridòe  ward  dulcidoè,  dann  dulcidom  und 
schliesslich  didcidào,  wie  Coruu  es  bereits  klargestellt  hat  (Rom.  IX,  97). 


118  — 


3.  Alinhavào. 

Alinhavo  alinhavào,  Porfc.:  Heftnaht. — Alinhavar  :  hef'ten,  mit  grossen  Sticlien  jillchtig 
niihen.  —  Angesichts  cles  span.  hilvan  Mlvanar,  des  frz.  fcmfiler  (vgl.  auch  morfil  = 
mori  fil)  kann  man  in  der  port.  Bezeichnung  der  Heftnaht  und  des  Heftens  nur 
die  Worte  a  liiiha  va  finden  d.  h.  falscher  uwudzer  e.itUr  ungiilfiger  Fachìi,  und  falsch 
d.  i.  unn'dtz  eitel  ungilltig  fadeln  oder  nciìien.  Das  Garn  mit  dem  man  nàht,  sowie  der 
einzelne  Faden  in  der  Nadel  heisst  im  port.  linha  d.  i.  linea  =  der  leinene ,  und  wird 
stets  da  verwendet  avo  der  Kastilianer  hìlo  gebraucht.  '  Das  anlautende  a  dùrfte  ohne 
Bedenken  als  prostlietisches  aufgefasst  werden,  doch  kònnte  es  auch  in  einer  Re- 
densart  wie  coser  oder  costura  a  linha  va  seinen  Ursprung  haben.  Die  alte  eìnzig 
richtige  Schreib-  und  Sprechweise  alinliavam  bietet  noch  Blutean.  '  Die  Entstellung 
zu  alinhavào  trat  also  spàt  ein,  und  zwar  weil  man  in  alinhavào  ein  Augmentativ 
von  alinhavo  zu  erkennen  glaubte,  wahrend  die  letzere  Form  die  jiingere,  erst  aus 
'alinhavam  abstrahierte  ist.  Von  alinhavo  leitete  man  das  Verbum  ab.  —  Cozer  em  ««ò, 
dar  pontos  em  vào  sind  beute  noch  llbliche  Schneiderausdriicke  und  entsprechen  dem 
deutschen  hohl  nahen,  eine  verlorene  Naht  nàhen. 

Fine  blosse  Ableitung  von  linha  vermittelst  der  Suffixanfiigung  ist  alinhavo 
alinhavào  also  nicht.  Ein  Suffix  avo  ist  nicht  nur  unubUch  im  Port.,  wie  Coelho 
sagt,  ■'  sondern  existirt  iiberhaupt.  nicht.  Wie  in  alqajjùo  haben  wir  es  also  auch 
hier  mit  einem  Missverstehen  verdunkelter  Flemente  zu  ti^u,  das  sicherlich  in  man- 
chem  schwer  zu  deutenden,  noch  unaufgeklàrtem  Worte  aller  romanischen  Spra- 
chen  eingetreten  ist. 

4.  Bagoa. 

Gali.:  Thràne  z.  B.  in  deu  «  Cautares  Gallegos  »  p.  96.  97.  151.  Kil.  Trotz  des 
im  Port.  Gali,  ungemein  haufigen  Wechsels  von  b  und  m  '  hat  bagoa  vagoa  nichts 
mit  port.  magoa  (lat.  macula)  zu  tun.  Es  ist  vielmehr  ein  Diminutiv  'Von  bacca, 
lateinisches  bac{c)ida  =  Ideine  Beer e,  Perlehen.  Einen  dicken  Thranentropfen  benennt 
auch  der  Portugiese  mit  einem  Derivate  von  bacca,  Beere,  namlich  mit  bagada,  der 
Gallizier  mit  einem  anderen:  bagnila  das  sich  zu  bacctda  verhiìlt  wie  betulla  (kast. 
abedid)  zu  betula  (port.  vidoìleiro).  Ein  Beispiel  stelit  in  den  «  FoUas  Novas  »  p.  145. 


'  Ob  der  in  alten  Zeiten  hocliberillunto  spricliwcirtliclio  hilo  portugucz  ein  Leinen-  oder  ein  Seiilenfadon  war, 
ist  noch  niclit  ermittelt. 

■  Ai-isiiAVAM.  Termo  de  Alfayate  :  Uolnr  um  alinhavào  vai  o  mcmio  quo  alinliavar. 

^  A  prcflxo  e  LiNiiA  ;  dcrivat^ao  insolita. 

'  Einige  weniger  bekannte  Formon  sind;  solivào  fiir  solimào  G.  V.  II  521;  abem  fiir  amem  II  502,  woriu  das 
Bediirfniss  das  Worfc  verstandlioher  zu  machen,  unverkeunbar  ist;  vulgport.:  borno=  marno;  husaraHhat=  musa- 
ranfia;  viorimundo  ^  moribundo  (vgl.  voAjammido  =  vagabnndo);  rcmcnencia  =  reverenda;  comenencìa  =  coveneneia 
fiir  cOHvenenela;  Maloina  neben  Balvina  Balbino  ;  maganno  fiir  altport.  t^aganao;  monvedro  nobon  nnd  fiir  Somvedro 
(d.  i.  bonus-veluìus);  melharuco  neben  und  aus  abelliarùco  eto. 


—  119  — 

5.    BlBLA. 

Kast.  arag.  Urla,  alfcsp.  bùio:  Kiì<jd;  port.  bilro  (gali,  vilrn):  Kagd.  und  Kloppd. 
Beiden  Holz-Drechslerarbeifcen  ward  der  Name  gegeben  in  Anbetracht  ihrer 
birnenformigen  Gestalt,  d.  li.  die  betrefFenden  Worfce  sind  nicbts  anderes  als 
\a.i.  pyrulum,  dimin.  von  pijrumz^zBirne.  —  Cfr.  -^oxi.  pelra  una  perla  iiiv  parola;  bulra 
neben  burla;  bolra  fiir  boria;  Calros  fiir  Carlos;  galrar  fiir  garlar  (lat.  garrulare);  palrar , 
von  frz.  parler  oder  aus  altem  parolar,  das  seinerseits  frz.  Urspruugs  ist;  gali. 
belriìia  fiir  berlina  berliiida;  melruza  fiir  merluza  (lat.  inaris  lucia);  escalrata  fiir  escar- 
lata;  cholrito  fiir  chorlito  ;  altporfc.  alrotar  von  arlote  etc. 

Fiir  die  Schwàcbung  des  anlautenden  jj  zu  b  (imd  im  Volksmunde  bis  zu  v) 
Beweise  beizubringen,  ist  eigentlioli  miissig.  Man  erinnere  sicb  au  bostela  aus 
pustella,  fiir  j)j(fs^«?«  ;  an  belliscar  neben  pelliscav  von  pelle;  an  begoaria  abegoaria 
von  pecus;  an  bispo  aus  {e)piscopus,  an  bodega  aus  {a)potlieca;  an  Beja  aus  Prtas 
/«Zia;  an  Badajoz  aus  Pcèìc  Augusta  und  vergieiohe  &?«>  (N°  10)  und  bolor  (N°  8). 
Die  Tennis  hat  sicli  iibrigens  in  einer  anderen  port.  Ableitung  von  pyridum 
erhalten:  in  p)ilriteiro  [pirllteiro  pielriteiro  perliteiro),  dem  Nameu  eines  dem  wilden 
Birnbaum  nalie  verwaudten  Laubbolzbaumes  port.  Wàlder  (Bussaco),  desseu  kleine 
làugliche  Friichtclieu  man  pirlito{s)  und  pilrito{s)  =  Birnchen  nannte.  Das  aucb  in 
spau.  Wòrterbiichern  umgebende,  daselbst  mit  Weissdom  iibersetzfce  Wort  felilt  in 
Colmeiro ,  Dice.  Bot.  —  Die  port.  Lexika  erldaren  :  pianta  da  familia  das  poma- 
ceas  Grafcoegus  oxyacantha,  tambem  chamada  estrepeiro ^  espiinlia  branca 
e  espinheiro  alvar  de  casca  verde. 

Pilrete  —  wie  ijilrito  Diminutivform  eines  in  diesar  Gestalt  niclit  melir  vorhan- 
denen  pilro  —  bezeiclinet  einen  seltr  kleincn  Menscìten  (Ideiner  Kegel,  kleine  Birne). 

G.    BlELOCHA. 

Kast.:  Papierner  Kinderdrache;  mail,  und  arag.  milocha;  kat.  m.ilnca;  valenc.  mi- 
loja.  Ich  kniipfe  meine  Deutung  an  die  nicht-kast.  Formen;  ist  sie  richtig,  so 
stelit  birlocha  fiir  bilocha  mit  seltner  Epeutliese  von  r  vor  l,  die  kaum  anders  als 
durch  Umdeutung,  durch  Anlelinung  an  Urlo  birla  zu  erklaren  ware,  falls  nicht  die 
Eeihenfolge  bilocha  bilochra  bil-r-ocha  birlocha  auzusetzen  ist.  Bilocha  milocha  miloca 
miloja  sind,  was  den  Stamm  ■mil-  betriift,  eins  und  identisch  mit  viil-ano  Hiihner- 
geier  (lat.  miluanus  von  miluus),  den  der  Spauier  wegen  seiner  oft  ausdriicklich 
als  vilz=iiiedrig  gebrandmarkten  Eigenschaften  auch  zu  vilano  umgedeutet  hat.' 
Das  characterlose  Suffix  amis  ist  in  den  Volksmundarten  der  Halbinsel  durch 
andere,  kràftiger  kliugende  vertrieben  worden;  in  den  oben  genannten  Formen 
durch   odia    oca  '   oja;   im  port.    wo     milhano   provinziell    noch    iiblich    ist,    durch 


Siehe  z.  B.  Cai.  e  Dym.  p.  22:  Et  otrosi  el  mil  ano,  maguer  que  C3  cerca  de  la  corte  del  rey,  non  le  rohdician 
nin  le  quercn,  mites  le  eclian  lucTie,  i>orque  es  o il  et  non  mliefacer  cosasiiion  mala  e  enojosa.  —  CCr.  Ib.  p.  30  etc. 
■  Im  Port.  ist.  JSIilocas  eine  Koseform  des  Namens  Emilia, 


—  120  — 

oto  in  mioto  und  minhoto  '  und  durch  afre  in  mllhafre ,  hiìhafre ,  hilhafrào  bidhafre;  ' 
im  Gali,  durch  ato  und  oto  in  minato  minoto.  —  Dass  der  Papierdrache  oft  Vogel- 
namen  tràgt,  ist  bekannt:  port.  papagaio;  afrz  écoufie;  kat.  fjrua;  span.  (gali.)  cer- 
nicalo  (Cfr.  Cerniglo  N°  13).  Sonst  fùhrt  er  auf  der  Halbiusel  auch  die  Bezeiclmung 
Steni  {eatrella  port.)  und  Komet  {cometa  kast.). 

7.  Bis[s]alho. 

Port.:  Sàckchen  Taschchen;  im  aport.  iiblich  (z.  B.  Cane,  da  Vaticana  932), 
dock  auch  heute  noch  vorhanden.  Ist  hissac{c)ulum.  Cfr.  malha  =^  maciila;  grallia  = 
gracula.  —  Dies  zu  Diez  I  70  bisaccia. 

8.  Bolge. 

Port.:  Schiinmel,  Moder.  Ableitungen  davou  siud  das  Verlìom  bolorecer ,  und 
das  Adjectiv,  òo/oroito;  dialektisch  (gali.)  balor  valor  barol  varol;  abarolecer  borolecer 
horelecer  bolorecer  bolerecer;  balorento  barolento  valorento  varolento.  Port.  Nebenform  ist 
boror  bei  Jorge  Ferreira  de  Vasconcellos,  Eufrosina  p.  118.  Idi  balte  das  Wort 
fiir  ideutiscli  mit  lat.  ^jaZ/or,  palloris.,  das  bekanntlick  bei  Vitruv,  Vergd,  Lucilius 
und  Columella  bereits  Moder  und  Sdiimmel  bedeutet.  ' 

B  an  Stelle  von  pj  wie  in  bilro  und  buir  (5  u.  10).  Protonisclies  o  au  Stelle 
von  a-  besonders  unter  Einwirkung  des  Labials  wde  hier,  ist  uicbt  auifiillig,  um 
so  weniger  als  in  unserem  Beispiel  auch  Assimilation  an  den  folgenden  toutra- 
gendeu  Vokal  eingetreten  ist.  (V.  Soturno  N'^  40). 

9.  Bugio. 

Port.:  Affé,  Meerkatze.  Von  Bugia  in  Nordafrika,  dem  Handelsplatze ,  welcher 
ehemals  Europa  mit  Kerzen,  und  mit  afrikanischen  Affensorten  und  Zibethkatzen 
versorgte.  Man  vgl.  Are.  de  Fita  311-361,  die  Geschichte  des  Don  Gimio ,  alcalde 
de  Biixia;  sowie  Cane.    Gen.    II    229  monos    de  Bugia.   Die  Kerzen,  frz.  bougies, 


'  Cfr.  G.  V.  1 101,  1«;  m  120  und  die  Kinderreime :  Minhoto  minhoto,  quc  Uvas  no  nolo?  und  Minhoto,  miDhoto 
faze  urna  rodinlta  que  m  te  darci  umapitinha,  —  Minh{oto)  konnte  avis  mìlh-(olo)  entetandon  sein  (vid.  milhafre_  etc.)  da 
Eintritt  von  m/j  fiir  Ih,  wie  umgekehrt  von  Ih  fiir  nk,  im  vulgport  niclit  zu  den  unmogliohen  LautontOTckelungen 
gehort  [enxidha-iuT  enxunha  d.  i.  enxundia  (axungia)  ;  calhama^o  fiir  canhamugo ,  cub.  niiillar  und  gmyar  fiir  gtiinar  etc. 
da  im  Cub.  Il  und  K  hiiufig  verwoohselt  werden].  Doch  ist  es  eben  so  gut  denlsbar  dass  miìthoto  sioh  aus  mioto 
(fiir  miloto)  entwiclselt  hat,  gloiohwie  ninho  aus  nio  {nidus)  minha  aus  viia  (mea)  minhoca  aus  mioca  (von  mina)  louvor 
minhar  aus  altera  hmvamiur  liervorgingen ,  woruber  spater  ausfiihrliches.  Dass  minhoto  jedooli  im  Volksmunde 
vorwiegondo,  ja  fast  aussohliessUclie  Geltung  gewonnen  bat,  mocbte  sioh  daraus  erldiiren  dass  minhoto  auch 
einen  Einwohner  dor  Provinz  Miiilio  bczeiohnet  und  der  Vogel  somit  scherzend  von  den  Proviuzialen  als  ibi- 
Landsmann  anerkannt  wird,  ein  boser  Landsmann  dem  sie  manches  Ilvihnchen  als  Tribut  zahlen  miisseu! 

■  Die  Endung  a/re  ist  mir  sonst  nur  aus  cs2»nafre  —  Spinai  (auch  spinascos  pinascos)  und  aus  cast,  golafre. 
bekannt.  Das  r  konnte  epenthetisoh  sein  wie  in  chefre  tabe/re  eto.  Afe  aber,  und  afo  afa  gehoren  auch  zu  den 
soltnen,  wenig  iìblicbon  Suffixen.  Bitafc  =  Spottname  ist  epitaphium;  mrrafo  mogUoherweise  eine  selbstiindige 
Bildung,  von  sarrctr  fiir  serrar. 

'  Coelho  verzeiohnot  bolor  ohne  etwelclien  Doulungs\ersucli. 


—  121  — 


nanuto  dor  Poitugiese  urspriinglich  lumes  de  bofjla,  Cane,  da  Vat.  807,  dami,  wohl 
um  sie  vou  deu  bugios  uud  òur/las  zu  unfcerscheiden ,  hufjeiya(s)  sp.  hugem{s).  Gr.  V. 
I  65  ;  III  123. 


10.  BuiB. 

DiEZ  II''  oline  Erlilarung.  —  Span.  port.:  glnften ,  polirm  srhurfen;  .sp.  =  acicalar 
aguzar;  T^ort.  ^=  pulir ,  allsar.  '  Im  Span.  veralfcet;  jedoch.  noch  von  Cervantes  beniitzt 
iva  D.  Qcix.  II  cap.  23:  un  punnl  buiclo,  mas  agudo  que  una  lezna.  Im  Port.  lieuto 
noch  iiblicli  in  der  an  die  Spitze  c;estellten  Form.  Vordem  stauden  neben  buir 
als  gleichwertige  Doppelformen  boir^poir  und  p>wir.  Der  j)  laut  ist  also  der  ursprting- 
liclie,  und  jwir  puir^  dessen  Heimat  Portugal  ist,  aus  lat  polire  dnrcli  Aiisfall 
von  l  entstanden  wie  sair  aus  salire,  soer  aus  solere  etc.  Buir  und  polir  siiid  dem- 
nacli  Scheideformen ,  die  erste  volkstumlichen ,  die  zweite  gelehrten  Ursprungs. 

Der  Kastilianer(?)  kennt  buidador,  der  Aragonese  huidador  und  buirador  fiir 
Gelbgiesser ,  Schwertfeger.  ~  Selbst  dio  kleineren  span.  "Wòrterbiicher  verzeichnen  das 
Wort,  dock  mifc  dem  Vermerk,  es  sei  eigentlich  ein  Provincialismus.  Vom  Partizi- 
pium  buido=:2)olirtj  gescldiffen,  gesclidrft  bildete  man  vermutlich  ein  neues  Partizi- 
pialverbum  buidm-*,  davon  aber  buidador,  welches  durch  Dissimilation  zu  buirador 
ward,  àhnlick  -wie  mentida  mentirà;  polvarera  polvareda;  muradar  muladar  ergab. 

Der  Gallizier  liat  die  altport.  Form  pidr  aufbewahrt,  dock  uur  im  Special- 
sinne  des  Fadengldttens  beivi  Abhaspeln.  Ouveiro  Pifiol  sagt:  fvir  =  alisar ,  pulir , 
siiaoizar  el  Mio  cuando  se  devana  por  medio  del  podoiro.  Podoiro  (d.  i.  poudoiro)  aber 
stekt  fiir  poidoiro  pulidoiro  u.  pulideiro,  -von.  pulir;  gleicksam  also  pulitorium.  Es 
beneunt  ein  Stuckchen  Tuch  oder  weichen  Leders,  dardi  ivelcJies  man  den  gesponneìien 
Faden  beim  Haspeln  oder  Spuhlen  gleiten  Idsst. 


11.  Caramunha. 

Coelko  erklart:  Termo  popular.  Cara  das  creancas  que  clioram.  Clioro  das  creanqas. 
Lamuria  affedada.  Agastamento.  Por  cara  mona.  —  Das  ware  also  Affengesidit.  Scbeint 
mir  unricktig.  Der  eckte  urspriingliche  Sinn  des  Wortes  kat  sick  in  der  sprickwòrt- 
licken  Pkrase  erkalten  :  fazer  o  mal  e  a  caramunha  =  das  Base  heimlidi  thun,  offentlidi 
aber  ein  Kkigelied  daraber  anstimmen.  Caramunha  fiir  queramunha  (wie  sarrar  fiir  ser- 
rar, libardade  fiir  liberdade  etc.)  und  dies  fiir  altport.  querhminha  aus  lat.  quwrimonia; 
-munha  aus  lat.  -mania  wie  in  testemunha  lat.  testimonia;  pop.   ceramunha  carmunha 


'  Im  Port.  wird  huido  aucli  benutzt  lun  clas  Abgebrauchte  Abgetragene  eines  Stoffes  zìi  bezeichnen,  der  schon 
zu  glanzen  anfangt.  Zuerst  mag  biiido  von  abgenutzten ,  iibersoharf  und  zweisohneidig  gewordenen  Messern 
und  Schwertklingen  gesagt  worden  sein. 

■-  Der  Wohnungsanzeiger  von  Madrid  kennt  das  Gewerbe  der  huidadorcs  nicht.  wolil  aber  der  von  Barcelona. 

16 


-  122  — 

iind  cirmonha  (Cane,  de  Res.)  aus  lat.  a'.rlmonia.  '  Caranmnhan  wurden  dann,  mit 
humoristischer  Ernstliaftigheit,  die  penetranten  Klagelieder  der  kleinen  Kinder, 
hernacli  aneli  das  nur  zum  Weinen  verzogene  Gesicht  derselben  genannt.  Cara- 
munha  im  letzeren  Falle  also  fiir  cara  de  caraimmlia.  Wohl  mòglich  dass  auch  die 
Eedensart  qiie  cara  tao  mona!  (toelcìi  hdssliches,  unfreundliches ,  loeinerUches  Gesicht!) 
zn  diesar  Begi'iffserweiterung  beigetragen  hat.  Die  von  Coelho  aufgestellte  Reilien- 
folge  der  Bedentiingen  isfc  nichts  als  Resnltat  seimìr  Dentnng;  die  hier  befiirwor- 
tete  von  Klayelled  zu  Klagecjesicht  naturgemass  Resultai  der  meinigen. 


12.  Ceibo. 

Gali.:  Hagestoh,  JiinggeseUe ,  unuerheirateter  Slami.  Diese  Bedeutung  sichert,  z.  B. 
folgende  Stelle  aus  den  «  FoUas  Novas  »  p.  200  : 

Poche!  meu  Santo  San  Fedro, 
que  ben  deixas  conocer 
qu'andiveclies  sempre  ceiba, 
que  nunca  foche»  casado, 
nin  na  terra  nin  no  ceo! 

Ceibo  durfte  vom  lat.  cadibe  d.  h.  von  ccelebs  kommen,  dessen  l  zwischen  Vokalen 
im  westlichen  Sprachgebiet  der  Halbinsel  ansfallen  musste ,  und  dessen  geschleclits- 
lose  Einfòrmigkeit  recht  wohl  nacli  dem  Typus  der  das  Genus  sondernden 
Adjectivklasse  us,  a  umgeiindert  werden  konnte.  Man  vergieiche  aspau.  und  aport. 
tristo  neben  triste;  rado  neben  rude. 

Ceibo  bedeutet  nnn  aber  aneli  ganz  allgeniein  los,  lose,  frei,  ungebunden,  ledig  ' 
und  liatini  Gallizisclien  wie  ini  nòrdlicheu  Portugiesiscli  (Minho)  ein  Verbuni  ceibar^ 
lóseii  loslassen^  erzeugt,  eine  Begriffsentwickelung  vom  Engen,  Beschrankten  zum 
Allgemeinen,  die  etwas  Uberrascliendes  liat,  und  derjenigen,  welche  im  gleiclibe- 
deutenden  span.  pori,  solteiro  salterò,  also  iin  Junggcsellen  der  Scliriftsprache  steckt, 
diametral  gegenuber  stelit.  In  solteiro  soltero  liat  man,  wie  im  deutsehen  ledig,  den 
Begriff'  des  Einsamen ,  Freien ,  Ungehemmten  zu  dem  BegriiFe  ehelos  specialisirt. 

Diesar  Deutungsversueh  ist  daher  selir  hj'pothetiscli  und  wird  liotfentlich  bald 
Begriindeterem  weichen  miissen. 


'  Das  Siiffìx  -monia  utouìit  anch  in  cachi  monin^  Sdì  ad  ni,  Kop/,  Vcratoiìd,  Ge/iin?,  (einerjonor  Jerbon  Mctajihern 
welche  Korporteilo  im  Eomanischon  bonennen;  denn  es  ist  eine  l'reie  Bildung  von  cacho  =  Scherhe) ,  imd  forner  im 
katal.  greximonia  =  tinto  de.  rana,  ungUmto  de  Mexico  (vulg-  e  joc),  von  '/i-cr,  kast.  tjrasa,  port.  grnixa  (lat.  crassia). 

'  Follas  Novas,  p.  201  Qu'ora  anda  ceiba  e  ben  ceiba  x^ara  meternos  no  inferno. 

'  Poi't.  Ceivab  =  soltar  oa  boia  do  jugo  ;  Gali.  (Cuv.  Piii.)  Ceibaiì  =  aoìlar,  deaatar,  dar  Ubertad ,  tanto  a  las  perao- 
naa  corno  al ijanado.  —  Ceibado:  suelto,  deaatado,  libre.—  Der  gallizische  Lexikograph  verzeiohnet  das  interessante 
ceibo  nicht  einmal,  und  giebt  somit  die,  moines  Eraohtens,  falsche  Auffassung  an  dio  Haud,  als  sei  ceibo  ein  soge- 
oanntes,  abgokiirztes  Partioip,  das  erst  von  urspriinglioliercm  Ceibado  hergoleitot  sei. 


—  123  — 


13.  Ceeniglo.* 

Das  Wort  cemigìo  wird  deu  Leseru  unbekauut  seiu ,  deun  es  ist  uichts  als  eine 
Conjectur  von  mir;  eine  Verbesserung  des  altspanischen  aita.i  XsYÓ|i.£voy  genniglo, 
welches  der  ErziDriester  in  folgender  Stelle  aufweist  : 

estr.  98'2  Niinoa  ilos  que  nasci  pasé  tan  grand  periglo 

do  trio  :  al  pie  del  puerto  falle  me  con  vestigio 
la  mas  grande  fantasma  que  vi  en  este  siglo: 
yeguarisa  trefuda,  talla  de  mal  cenniglo. 

Das  AVort  kann  nui-  so  viel  wie  Sclireckgespenst  bezeiehneu.  Die  Deutung  von  San- 
chez  aus  ceno  mit  der  Erklilrung  (josto  asjiecto  ist  falscli.  —  Ceviiiglo*  ist  in  meinen 
Augeu  der  in  altspauischen  Texten  oft  geuanute  Name  des  Ranbvogels  cemicaJo, 
saniìcfdo.  Dass  dieser  Vogelname  noch  beute,  provincieli  (bercianisch)  und  im 
familiaren  Verkehr ,  ein  Scheltwort  ist,  genaii  so  wie  das  begrifflich  ualie  verwandte 
tartarana  tantarana  (fiir  tatarana  (port.)  aus  catarana  vom  griecb.  lat.  catarades, 
wolier  auch  prov.  tartarassa),  ein  Scheltwort,  mit  dem  die  abstossend  hdssUche  dussere 
Erscheinung  einer  Person  gekennzeichnet  werden  soli,  habe  ich  bereits  friiher  ander- 
warts  gezeigt.  '  Doch.  konnte  ich  mir  damals  nicbt  erkliiren  wie  und  warum  der 
Name  der  beiden  Rauh-  und  Jagdvogel  diese  Bedeutung  angeuommen  habe.  Jetzt 
weiss  ich  es.  Sie  galten  fiir,  oder  sind  tatsachlich,  Aasrduher  und  wurden  also 
in  eine  Linie  mit  dem  Geier  gestellt,  der  ja  auch  ein  Sinubild  alles  Hasslichen 
geworden  ist  und  dessen  gefiirchtete ,  unschone  Grewohnheiten  immer  mit  Abscheu 
hervorgehoben  werden. 

Man  sehe  «  Castigos  »  p.  172'':  muclina  moscas  siguen  à  la  miei  é  muclios  cernicalos 
sigiien  à  los  cuerpos  muertos;  ferner  D.  Juan  Manuel,  Obras  p.  250;  und  Cai.  e  Dym. 
p.  30,  so  wie  die  iinter  birlocha  erwiihnte  Stelle  iiber  den  Hiihnergeier.  —  So  ward 
denn  «  Aasgeier,  Leichenvogd!  »  ein  in  der  uiederen  Komijdieusprache  vielbeuutzter 
Scheltname.  ' 

Der  Formwandel  bietet  noch  weniger  Schwierigkeiten  als  die  BegrifFsentwic- 
kelung.  Cernic{a)lum  durfte  cerniglo  werden  wie  peric{it)l'uin ,  periglo  (heute  jjeligró)] 
mirac{ti)lum.  miraglo   (heute  milagro).  Man  vergleiche  wèlter  unten   vestigio  (No  47). 


'  Pratica  de  tres  pastores,  Glossar  s.  v.  InUimnliào  faHnranliì>n.  TaHaranha  ^  Leichcnvogel  Schreckges- 
penst  wies  ioli  nach  in  G.  V.  HI  109,  in  :1SS  u.  in  dei-  Posse  <  A  madrasta  inaturavel  •  Ceniicalo  mit  gleicher  Be- 
deutung in  Poes.  Bere.  p.  56.  Daza  l'iige  man  folgende  Stelle  aus  Aut.  Prestes.  Autos  p.  .B98  està  tartaranha  ma 
que  arida  aqiii.  —  Der  Portagiese  nennt  den  cermcalo  auch  peneireiro  (von  penetra  =  Sieh)  im  Hinbliok  atif  seinen 
kreisenden  Flug.  —  Bei  Feststellnng  der  Species^  welcher  die  fartnranha  augehort,  mus.s  bcachtet  werden  Jorge 
Perreii-a  de  Vasconcellos,  Aulegraphia  p.  163  por  isto  snfro  mal  polhastros  desta  outonada  que  scndo  filhos  de  sacres 
ba/arls,  salicm  ogeus  oii  tartaranhas.  Herr  Baist,  der  so  vorzuglich  mit  allem  Bescheid  weiss,  was  .Tagd  und  .Tager- 
sprache  betrifft,  wird  iiber  die  Eigenart  der  beiden  Raubvogel  gewii!slicl]  weiteren  Aufsohluss  geben  kiinnen. 

'  Cnveiro  Pinol  verzeiohnet  ausser  cernTcalo  sarnìcaìo  noch  ein  familiares  sarmaila  mit  der  Erklarung:  la 
persona  pesada  y  targante;  tacaTio  y  avaro.  Vermutlioh  dasselbe  Wort. 


—  124  — 

Unti  stiinde  im  Mauuscripte  des  Erzpriesters  cermijìo,  so  wàre  alles  gut  und  schou. 
Ob  dies  der  Fall  ist,  das  aber  bleibt  noch  dabinsestellt.  ' 


14.  Derbeter. 

Zu  DiEZ  II".  —  Tatsachlich  derreter  fiir  de-reter  aus  de-terer{é).  Die  Versetzung 
der  Buclistabeii  t  und  ;•  hat  auch  das  mit  deterere  den  Sinn  schnelzen  teilende 
Simplex  terere  im  Altspanisclien  betrolFen.  Im  Caue.  Gen.  I  302'',  10  (ed.  1883)  sagfc 
Rodrigo  Gota: 

Yo  mostre  7'efir  en  piata, 

wofiir  eine  andere  Ausgabe  die  Tiesskvi  fiindir  bietet. —  Eeterer,  also  re-terere,  fìnde 
icb  im  Cane,  de  Baeua  I  157  (ed.  Leipzig):  si  ci  sol  retiere  el  plomo,  la  razon  es 
desatada.  Derreter  {derrite.  3  ps.  s.)  bereits  bei  Jvian  Manuel,  Obras  p.  262. 


15.    DOBAR. 

Port. :  ahliaspdn  aufs^nden;  dobadoura:  IIas2)el  Garnìoinde;  TiOBXTiKinA:  Hasjjhrin, 
Frau  welclie  Garn  windet.  —  Alt  dehar  (Ined.  V  588),  das  nodi  im  16'"  Jahrhuudert 
Sa  de  Miranda  anwendet,  «  Estrangeiros  »  II  1  :  Sào  obras  de  Amor  que  ja  fez  a  Her- 
cules, conquistador  do  mundo  Jtar  <&  dehar. — Dehar  fiir  debaar  dehàar  span.  devanar 
prov.  dehanar,  ìi.  dipanare ,  vom  lat.  pamis  =  B'ùschel  WoUe  zum  Spinnen. — Zu  Diez  I 
154  hinzuziifiigen. 


16.  EiDo. 

Eido  port.  gali.  Substantiv  (auch  heido  cito  und  heito).  Es  bedeutet  Vorraum  vor 
einem  Bauernhause  der  oft  als  Knchenrjarten ,  oft  als  Stali  fiir  das  Kleinoich  benutzt 
wird.  Das  Volk  sagt  beute  nocli  aido.  Gedruckt  stelit  diese  Form  in  Coelho,  Con- 
tos  p.  154,  Leite  de  Vasconcellos ,  Trad.  p.  175  (/iaicZo  geschrieben) ,  Braga,  Contos  I 
p.  38;  eidico  ebenda  p.  199;  heido  Leite  de  Vaso.  175. — Es  liegt  nalie  aido  als  aditum 
aufzufassen.  "  Begrifflicb  und  lautlich  steht  dieser  Deutung  niclits  entgegen.  Pedi- 
<«s  ward  im  port.  gali.  bere.  ^>eWo;  iur  credito  sagt  das  port.  Volk  cìxito  und  creta;  und 
neben  greta  (vou  crepitare)  steht  vulg.  greita. 


'  Cerkicai.o  kommt  auch  vor:  Libro  de  Cetreria,  p.  i&ì  (als  ce.rrcnicalo);  Zsclir.  T  235  u.  239  (Sprieliwort: 
Nunca  btien  gavilan  de  amicalo  que  viene  a  la  mano);  Lopo  do  Ruoda,  Caratula;  Torres  NaliaiTo,  Camila,  als  sorro- 
mUalo;  Picara  Justina,  p.  IS;  Baona  II  p.  31  etc.  —  Dass  ccrnicalo  aucli  Papierdrarhe  bedeutet  hat,  bevvoist  folgende 
Phraae  aus  Evangelista:  los  mucliachoa  se pagan  mucho  de/aselloa  (Zschr.  I  2S6,  i). 

'  Ein  Gegenstiick  zu  eido  ist  exido  {eia:ido  enxido  eìixidro  inxidro;  cast,  ejido;  cat.  exida),  welcbes  ur- 
spriinglioli  den  liaum  hintcr  dem  House  bezeichnote,  der  moisthin  al.s  Weidcpìatz,  aber  auch  als  VieìistaìL  uud 
als  Qarten  benutzt  wurde.  —  Eido  und  Eìixidro  sind  in  Portugal  und  Uallizien  auch  Ortsnamen  gevvordeu. 


—  125 


17.  EivA. 

DiEZ  EAV  II''  ohne  Erklàrung.  —  Port.  gali  eiòa  eioa  hedeutei  je(/licìie>i  h'òrperU- 
cheii  odo-  (jdstigen  Makel  oder  Fehler;  beim  Menschen  das  FeUeu  eines  Gliedes  oder 
Unhvauchharkeit  desselben,  Krììjjpelhaft'Kjkeit  so  wie  Geistessckwàche  tind  moralische 
Uìizidanglichkeiten;  auf  Glas  oder  Porzellan  angewandt  eineii  Bprung^  Riss  oder  Fh- 
ckea;  beim  Obste  das  Fkckigseiii,  der  Ansatz  zur  Fciulniss  etc.  '  Ableitung  davon 
ist  eioar-se,  besonders  iiblich  elucido,  im  Sinne  von  felherhuft,  ncliadhaft ,  defect  uach 
irgeud  einer  Kichtiing  bin.  An  Stelle  von  eivado  liabe  ich  alcado  im  Volksmunde 
gehòrt  (von  eiiiem  (/liedeìiakmeii  Mensdien  gesagt)  und  kann  diese  Form  aus  einem 
Drucke  nachweisen,  aus  der  Romanze  Os  dois  amantes  bei  Estacio  da  Veiga,  Rom. 
do  Algarve  p.  128,  wo  es  heisst: 

pelo  aivado  da  colméa 
logo  eu  quiz  desconfiar; 
pensei  que  eresiava  os  favos, 
nenhum  era  por  crestar  ! 
o  corfci<;o  ja  nào  tinha 
do  mei  que  eu  ia  provar.  " 

Elba  eiva^  stiinden  demnacli  tur  aiòa*  aiva^',  Formen,  welche  aus  einem.  àltereu 
laiba*  durch  Abwerfen  des  anlautenden  l  entstanden  sein  kònuten,  in  Folge  irrtùmli- 
cher  Auffassung  dieses  l,  das  man  fiir  den  Artikel  la  '  liielt.  In  alter  Zeit,  solauge 
der  port.  Artikel  noch  lo  la  lautete,  konnte  dieses  Verkennen  wohl  eintreten;  ein 
Gegenstiick  zur  Agglutination  des  Artikels  in  laira  leira  aus  la  area  (S.  N"  22).  ' 
Dies  hypothetische  laiba  laiva  nun  diirfte  lat.  labia*  fiir  labies*  statt  labes  =  Flecken 
Schandfleck  sein.  Und  gleichen  Ursprungs  ist  aller  Wahrscheinlichkeit  nacb  port. 
laivo  laibo,"  volkstiimlich  laibio,  welches  in  Bedeutung  und  Verwendung  genau  das- 
selbe  ist  wie  labes,  und  zu  eiva  wenigstens  in  verwandscliaftlicliem  Verhiiltuiss  steht. 


'  Defeilo  plìysico,falia  ou  macula  maral,  fallia  no  vidro  ou  vaso,  nodoasinlia  ou  toqtie  de  podridao  na  fmcta  eie. 

'  Die  Stelle  lasst  freilich  auch  eine  andare,  minder  ansprecheude  Deutunsf  zu.  Aivado  ware  Nebenform  voti 
aivado  welches  beliaiintlioh  den  Einyang  zum  Bienenkorbe,  bedeutet  und  mit  lat.  alveua  alveolus  in  Zusammenhang 
gebracht  wird.  Entwedor  also:  Die  Beschddigung ,  die  Scliadìmftigkeit  maclite  stutzig.  Wegen  des  Verletstseins  ward 
ich  misstrauisch!  Oder:  Gleich  das  Bienenloch  machie  mieli  stulzig? 

'  Altport.  cyba  z.  B.  Ord.  Alfons.  IV  p.  107  por  nenliTia  màlicia  nem  bvba  nem  doen^a  que  depois  em  ella  aeja  achada 
(im  verkanften  Stiiok  Viali).  —  Gali,  eiba:  falla  de  un  miembro.  eibado:  tullido;  eibak  tidlir  (Cnv.  Piiiol). 

'  Agglutination  und  Apbaresis  von  missverstandenem  l  sind  auf  der  iberisclien  Halbinsel  im  Grossen  und 
Ganzen  seltene  Ersolieinungen,  besonders  im  Westen.  ies(e  ist  gemeinromaniscb.  Sonst  wiisste  ich,  ausser  eiba 
und  laira,  nur  anzufiihren:  gali,  loyo  fiir  el  hoyo  =  Grube;  lajielde  fiir  apelde;  port.  oliecl  von  libellum;  licoriiio  nicor- 
nio  tiiv  olicoruio  &US  unicornio;  lameda  fiir  alameda;  betarda  iixv  abetarda^ ave-Iarda.  Interessant  ist  spanisch  £t 
Otero  fiir  Lutero.  Eine  Strasse  in  Salamanca,  die  friiher  calle  del  Otero  liiess,  wairde  durch  Studeutenwitz  in  calìe 
del  Otero  d.  i.  Lutero  umgetauft.  Dber  lumbral  siehe  unten  N°  45. 

'•  Moglicherweise  um  laiva  (leiva)  Flecken  von  aitem  laiva  {leivci)  Lippe  zu  tvennen.  Bies  letzere  Wort  hat 
sich,  meiner  Uberzeugung  nach,  mit  dem  Begriffe  Parche  aiifgewor/ener  Ei-de  zwischen  Feld  und  Feld,  oder  swi- 
scìien  Saatstrich  und  Saatstrich  auf  ein  und  demselben  Acker  im  modemen  Port.  erbalten.  Denn  mit  gleba  =  Scholle  kann 
leiva  nichts  zu  tun  haben  wie  die  altere  Form  laiva  ergiobt.  (Sie  konnte  die  juugere  sein,  da  im  Port.  Eintritt  von 
ai  fiir  ei  nicht  selten  ist,  doch  beweisen  die  Documento  das  Qegenteil). 

'■  Enlaiar  =  beschmutzen  konnte  fiir  enlaivar  stehen,  d.  h.  Derirat  von  laioo  sein.  Oder  ist  es  aus  enlaidar  = 
hdsslich  raachen  zu  ziehen? 


—  126  — 

Lahies  fiir  lahes,  iva.  Gedanken  an  rciLies  fahies  snnks.  Lahia  nebeii  luhies  wohl 
bereits  im  Vulgairlatein  in  Uebereinstimmung  mit  luxuria  materia  neben  luxuries 
materies  etc;  oder  erst  im  Eomauischen ,  imd  speziell  aiif  porfc.  Gebiete,  wo  wir 
sana  aus  sanies;  especia  aus  species;  facia  hacia  3,ns  facies;  reqvia  ai;s  requies  kennen. 
(Vgl.  aragon.  quera  d.  i  caria  aus  caries.  N°  33).  Lahia  ward  laiòa  laiva,  wie  raiva 
aXL3  rahia  fiir  rahies;  Paiva  aus  Pavia;  gaiva,  woher  gaivota,  aus  gavia.  Aus  laiha  laica 
ging  leitm  hervor,  wie  das  neuport.  seiva  aus  altera  saiba  salva  (kast.  sabia  savia  von 
lat.  sapia'^  far  sapa  =  Saft),  '  wie  eira  aus  aira  d.  i  area  etc. 

18.  Encinta. 

Es  ist  weder  iiicÌHcta^=:^umgurtet  nodi  in-cincta  =  ungeg'àrtet ^  sondern  das  im  La- 
teinischen  unedle  indente  von  inciens ,  das  im  Romanischen  salir  wohl  wieder  edlere , 
griecliisclie  Verwendung  gefunden  liaben  kann.  Findet  sicli  eiii  altspan.  enciente  —  und 
es  findet  sioh  vielleiclit,  icli  glaube  es  gelesen  zu  haben  —  so  ist  die  bis  jetzt  noch 
hypotlietische  Frage  entscbieden.  Aus  dem  in  Spanien  unverstàndliclien ,  zusam- 
menhangslosen  enciente  (das  noch  dazu  lautlich  mit  insciente  ^  unMmdig ,  niclit  wisseud 
und  mit  dem  alten  enciente  fiir  antecedente  zusammengefallen  ware),  entstand  wohl 
durch  Volksetymologie  en  cinta  (asp.)  '  und  spater  encinta  (neusjD.)  Mit  demselben 
guten  Rechte,  mit  dem  Baist  ceFio  aus  griech.  o/tóviov  ableitet,  darf  ich  auf  griech. 
x,u£(o  als  die  Quelle  von  encinta  hinweisen. 

19.  ESTRECE. 

Das  spali,  port.  Wort  esfrece  (dritte  Persoli  sing.  eines  praes.  iud.  2*"''  oder  B****' 
Conjugatiou) ,  ist  mir  uur  in  den  sprachlich  recht  interessanteu  Werken  des  Dichters 
Sa  de  Miranda  begegnet,  und  zwar  kommt  es  daselbst  ausschliesslich  in  der  Wen- 
dungwo  .se  estrece,  nào  se  estrece  vor.  Die  beziigliclien  Falle,  je  2  in  den  beiden 
Schwestersprachen ,  lauten  : 

103,  33G  a  suiclade  nào  se  estrece, 

103,    33  que  (isto)  ha  de  vir  o  nTin  se  estrece. 

im  Versausgang  und  E.eim  mit  acontece  parece  empecn  conlwce;  nnd 

111,  .382  no  se  estrece  que  no  viese  visiones. 

1.51,  5  i  HO  se  estrece  que  alguna  escura  sombra  te  asombró. 

Alle  bisherigen  Uebersetzungs  u.  Erklarungsversuclie  dioser  Siitze  sind,  mei- 
nes  Erachtens,  als  mislungen  zu  bezeichnen.  Andere  Belegstellen  aber  als  die 
obigen,   die  man  etwa  zur  bessereu  Deutung  der  fragliclien  Fomieln  lierbeizieheu 


'  Im  altport.  o.xistirt  eia  anderes  saiva  (Vatio.  1017)  mit  tontrngendem  i,  also  Veifcreter  von  lat.  saliva,  nnd 
nicht  von  9<ipì(i.  Der  Gallizler  kennt  heute  uoch  6atba  =  Speickel  Schlcim,  wiilirend  der  scbriftgelehrtero  Portagiesft 
das  Wort  wieder  zu  saliva  zuriicltbildete. 

•  Z.  B.  Conq.  de  Ultr.  p.  533. 


—  127  ^ 

konnte,  scheinen  zu  fcli'.eu.  Die  port.  Worterbiiclier  wpiiigstens  liielon  enUveder 
nur  die  zvvei,  oder  eiued  der  zwei  port.  Citate  ans  Mii-auda,  oder  sia  bescliràuken 
sich  darauf  das  Worfc  oline  Weiteres  mitzuteileii  luid  zu  denten,  beides  aber  stets 
unter  dera  liypothetisclieu ,  als  Stichwort  ausgegebenen  Infinitive  estrecer,  welchen 
sie  nacli  estrece  gebildet  habeu  —  wie  man  niclit  leugnen  hann,  mit  dem  Schei  ne 
vollsteu  Recktes.  Ioli  habe  S.  Rosa,  Blutean,  Moraes,  Constancio,  Caldas  Aulete, 
Domingos  Vieira,  Bòsclie,  nacligesclilagen;  und  auch  die  span.  Lexikographen  nm 
Rat  befi'agt,  diese  aber  ganz  fruchtlos.  Sie  scheinen  die  Werke  span.  schreibender 
Porfcugiesen  grundsatzlich  nicht  zn  beachten. 

S.  Rosa  de  Viterljo  sagt:  Estrecer:  estreitar  diminuir  rebater  apoucar  reduzir  a 
menos,  ohne  ein  Etymon  aixfzustellen.  —  Blutean,  dessen  Angaben  ich  durchweg  als 
genaue  iind  sorgsame  befunden  habe,  erwahnt  estrecer  gar  nicht:  das  einschlàgige 
Gedicht  von  Miranda  war  ihni  unbekannt  geblieben,  wie  ich  anderwilrts  zu  erlau- 
tei'u  Gelegenheit  gehabt  habe.  Das  Worterbnch  der  Akademie  reicht  wie  bekannt, 
nur  bis  azurrar,  schweigt  also  gleichfalls  iiber  das  fragliclie  Wort.  Moraes  erklàrt 
(3*"  Ausg.  von  1825)  wie  folgt  : 

Estrecer  v.  a.  refi.  Usado  passivamente.  —  Sa  Mir.  :  «  a  scinde  ou  saudade  nno 
se  estrece  »  i.  é.  nào  dimimie.;  ant.;  talvez  o  mesmo  que  aterecer-se. 

Die  jiingeren  Ùberarbeiter  des  Moraes  (ich  nehme  Bezug  auf  die  neueste  7*® 
Auflage)  haben  saude  zu  saudade  verbessert,  eine  genauere  Stellenangabe  aus  Mi- 
randa hinzugesetzt,  nm\  den  als  Moglichkeit  hingeworfenen  Deutungsversuch  aus 
aterecer  zu  eiuer  tatsachlichen  Gewissheit  umgemiinzt.  Sie  erklaren  den  obigen  Pas- 
sus  durch  nào  se  resfria,  und  behaupten  kurzweg  estrecer  sei  aterecer-se  und  synonym 
vaìi  agnar ^ perder  a  forca,  fcar  transido,  gelado  de  f rio.  —  Constancio  verwirft  diese 
Ansicht  und  schlàgt  eine  neue,  gleicli  willkiirliche  Etymologie  ver:  das  kast.  estre- 
char-se,  oder  frz.  e'tre'cir  und  iibersetzt  unser  Verbum  durch  estreitar ,  encolher  !  Seinen 
Spuren  folgen  Caldas- Aulete ,  (der  iiberdies  genaueres  iiber  die  Flexion  des  Zeitwor- 
tes  weiss,  da  er  als  Paradigma  ahastecer  angiebt),  und  Bòsche  der  sich  zwar  des 
Etymologisirens  enthalt,  estrecer-se  aber,  nach  freier  Benutzung  des  Constancio,  mit 
enger,  sckmdler  werdeii,  eiidaufeii,  eingehen(\)  wiedergiebt  und  auf  diminuir  und  min- 
guar  als  auf  gleichbedeutende  Verben  lùnweist. 

Bei  Moraes  haben  sich  die  Herausgeber  des  «Parnaso  Lusitano»  Rats  geholt; 
sie  schreiben  II  275  seine  Ei-klaruug,  sein  «  nào  dimiime  »  ab  und  legen  demgemass 
die  erste  der  Miranda-stellen  so  aus  als  wolle  sie  sageu:  die  Selinsuclit  Idsst  nicht 
nach,  hort  nicht  auf.  Selbstandiger  geht  Antonio  das  Neves  Pereira  zu  Werke. 
In  seinen  Aufsàtzen  iiber  port.  Philologie  (Mem.  de  Litt.  Porfc.  voi.  V) ,  '  in  denen 
"Wahres  und  Falsches  sich  misòhen,  kommt  er  drei  Mal  auf  estrecer  zu  sprechen. 
Zuersfc  p.  Ili  erklàrt  er  "   estrecer  mit  extinguir  und  rechnet  es  zu  den  gutenalten, 


£nsaio  sobre  a  filologia  portugueza  por  mcio  do  c.vinnc  e  compavncao  dn.  locncào  e  esiilo  dos  nossos  mais 
insignes  poettts  que  florecerào  no  sec.  XVI  und  Eiisaio  critico  sobre  quid  seja  o  uso  prudente  das  palaoras  de  que  se 
servirrw  os  nossos  hoiìs  cscritores  do  sec.  XV  e  XVI  e  deixarào  esquecer  os  que  depois  se  seguirSo. 

'-  Daselbst  stelit  das  bekannte  estruir  (destmir)  (Z.  B.  bei  G.  V.  HI  331)  sm  Stelle  von   estrecer.  ein  Verseben 
welclies  in  dei-    1""  Auflage  des  Moraes  s.  v.  estrecer  bereits  bericbtigt  worden  ist. 


—  128  — 

echi  natioualen  Worteu.  Dami,  p.  155,  preist  er  abermals  das  treffliche  uud  cha- 
racteristische  Wort,  iind  zuletzt  p.  170  meiut  er,  das  barbarische  im  Volksmunde 
iibliche  Verbnm  estrocer  (z.  B.  in  der  Phrase  estrocer  a  dòr)  sei  aus  dem  feineren 
estrecer  verderbt  worden. 

So  weit  die  portugiesisclien  Stimmen  nnd  Urteile  iiber  das  "Wort!  Das  letzte 
Urfceil,  die  Gleichstellung  des  populairen  estrocer  und  des  veralteten  estrecer  enthàlt, 
wie  mir  scheint  ilirem  Urlieber  unbewusst,  in  sich  den  Keim  zu  einer  neuen, 
vielleicht  der  richtigen  Etymologie.  Estrece  sfceht  fiir  estrncce  d.  h.  es  kommfc  von 
eiuem  Infinitiv  estrocer,  fiir  estorcer  lat.  extorquere.  In  diesem  Falle  wàre  Kastilien 
seine  Heimat. 

Nun,  diesen  Infinitiv  kennen  die  altsp.  Denkmaler  sehr  wohl  iind  verwenden 
ihn  iiberaus  oft.  Er  bedeutet  buchstablicli :  sich  herausininden  cms  etwas,  es  vermei- 
den,  entkonimen,  davonkommeii  und  wird  durchaus  korrekt  von  den  Herausgeberu 
der  altspan.  Texte,  Sanchez,  Grayangos,  Janer  eto.  uiit  evitar  evadir  escapar  librar 
nmschrieben  (port.  escusar).  Man  fasse  die  folgenden  dicliterischen  Stellen  ins  Auge  : 

Are.   de  Hita     12G  Segund  naturai  curso  non  se  2)uede  estorcer. 

767  pensando  los  peligros  podedes  estorcer. 
1646  De  aqueste  dolor  que  siento  tu  me  denna  estorcer. 
Alex.  716  per  qual  guisa  que  fiie  muclios  estorcioron. 

1255  veyen  que  de  la  muerte  non  podien  estorcer. 
Danza  16  querria  sy  pudiese  la  muerte  estorcer. 

Apoll.  70.  Si  estorcer  pudieres  seràs  bien  aventurado. 

Ili  de  los  omnes  uenguno  non  pudo  estorcer. 

152  ca  bien  entendieu  todos  donde  era  estor^ido. 

223  que  con  el  cuerpo  solo  estorció  de  la  mar. 

279  seremos  todos  muertos,  estorcer  non  podemos. 

335  dixoles  de  qual  guisa  estorció  tan  lazdrado. 

417  si  vos  daquesta  manya  pudierdes  estorcer. 

492  por  amor  de  furtar-me  de  muerte  me  estorcìeron. 

640  Gommo  omnes  qne  pudieron  de  car^ell  estorcer. 

und  vergleiclie  die  Prosa,  z.  B.  von  «  Calila  e  Dymna  »,  die  sicli  fortwàhrend  des 
Ausdrucks  bedieut: 

p.     17  estuerce  del  daiio  (=  entflielit  der  Weltlnst). 

26  estuerce  por  arte  (•=  kommt  mit  heiler  Haut  davon). 
»    salir  et  estorcer  de  aquello ,  cu  que  es  caldo. 

27  guisarà  corno  estuerza  de  ti. 
29  guisa  comò  estuerzas. 

80  estorceremos  todos. 

»    non  se  debe  home  meter  a  peligro  podiendo  estorcer. 
»    estorcerà. 
!>    de  guisa  que  e.'itorciese. 

33  logar  donde  non  puede  estorcer. 
»    estorceràs  asi  tan  quito  del  leon. 

34  non  estorcerla  del  leon. 


—  129  — 

36  non  cstoreeràs. 

»    has  esperanzas  de  estorcer  de  tan  grande  pecado. 

37  non  estorcer. 

»    tu  non  estorceràs. 

40  por  estorcer. 

41  non  estorcerà  de  la  mala  andanza. 
>    punnaban  por  estorcer. 

46  fuyendo  en  tal  manera  que  esforzamos  de  este  peligro. 

47  estorcieron  los  uuos  por  los  otros. 

»    estorcer  de  muy  grandes  tribulaciones. 

48  estorcer  de  grant  dano. 

»    el  que  feciere  mal  feoho  non  estuerza  la  pena. 
Cane,  de  Ees.  I  205        E.itorcendo  toda  ora 

Sem  conto  penar  sobejo, 
bradando  vou  :  oh  senhora  ! 

Die  alten  braucliten  also  estorcer  als  Verbum  intransitivum  oline  jegliche  Eec- 
tion;  oder  sie  sagteu  estorcer  alg.  e,  la  jiena,  la  vmerte,  dolores  etc.  odor  liessen  es  die 
Prapositiou  de  regieren  :  estorcer  de  alg.  e,  de  muerte^  dolor,  peligro  etc.  Und  das  port.  Volk 
bedient  sich  keiner  verderbten  und  barbarischen,  sondern  nur  einer  archa'ischen 
Formel  wenn  es  beute  sagfc:  estorcer  ìima  dar,  um  perigo  etc.  Genau  in  demselben 
Sinne,  durfte  Miranda  sagen  A  suidade  nào  se  estrece  d.  h.  7iào  se  póde  estorcer: 
die  Selinsucht  ist  tmvermeidlich,  que  ha  de  vir  e  nào  se  estrece:  sie  viuss  Jcommen, 
sie  Idsst  sich  nicht  vermeiden,  man  entgeht  ihr  niclit.  In  den  span.  Stellen  ist  no  se  estrece 
durcb.  eine  uupersonliche  Formel  wiederzugeben,  wie  etwa:  es  lassi  sichnicht  leugnen 
dass....  oder  es  ist  Mar  dass....,  Phrasen,  die  von  deni  (ledauken  es  ist  oder  ivar  unver- 
meidlich  nicht  allzuweit  abliegen. 

Sachlicli  scheint  daher  die  Zuriickfiilirnng  von  estrece  auf  estrocer  fiir  estorcer 
sebr  wold  niòglich.  Und  phonetisch? 

Dass  man  trocer  fiir  torcer,  also  auoh  estrocer  fiis  estorcer  sagen  konnte,  und  gesagt 
hat,  bedarf  des  Beweises  nicht.  Das  port.  Volk  zieht  die  Form  trocer  entschiedeu 
vor.  Wie  torcer  nun  tuerce,  contorcer  contuerce,  so  bildete  —  wie  die  obigen  Stellen 
es  zum  Ueberfluss  beweisen  —  aneli  estorcer  ein  regelrechtes  estuerce;  estrocer  also 
estì'uece. 

IJbergang  von  «e  zu  e,  besonders  in  unniittelbarer  Nahe  vou  r  und  /,  ist  oft 
besproclien  worden.  Gleichwie  a.ns  fruente ,  frente ;  aus  afruenta,  afrenta;  aus  estuerà, 
estera  ward;  aus  luerdo,  lerdo  (lurYi\dus);  aus  snerba,  serba  {serbum  sorba);  aus  culuebra, 
culebra  (colomba);  a,us  Jiueco ,  Jleco  {floccus);  aus  suerdo,  cerdo  {sord[id\us) ,  aus  seciiestro, 
secresto,  so  durfte  estruece  zu  estrece  werden.  '  Ein  Infinitiv  estrecer,  so  er  wirklich  exi- 
stirt,  ware  dann,  nachdem  die  Herkunft  von  es^rec«  sich  verdunkelt  batte  und  das 
Wort  ein  seltenes  war,  vom  Volke  aus  der  vereinzelten  iibrig  gebliebenen  Form 
abstrahirt  worden. 


'  Siehe  auch  pes  fiir  pues  lat.  i)Ost  im  ka,st.  i>escuezo  pespunte  pesponto,  port.  pescoso  pesponte,  j^ort.  pespegar ; 
astur.  atbedro  iur  albuedro  aus  lat.  arbutrum  fiir  arbutum ;  Tnaat.  careTia  fiir  curmna;  lejos  fiir  Unjos  {longiis);  viel- 
leicht  auch  combUzo  fiir  combluezo.  —  Vgl.  N"  30  pelmazo. 

n 


-   130  - 

Eine  andere  Auslegiing  als  die  oben  von  vniv  vorgesclilagene  ware  freilich 
noch  moglich  und  wird  manchem  vielleichfc  darum  vorziiglicher  ersclieinen,  weil 
sie  die  Heimat  der,  niir  in  den  Werken  eines  portugiesischen  Dichters  vorkom- 
menden  Form  estrecc  in  Portugal  suclit.  Estrece,  oder  in  dieserà  Falle  der  Infinitiv 
estrecer,  kònnte  fiir  estraecer  steheu.  Man  vergleiche  esquecer  von  cscaecer  ;  aquecer  ftir 
acaecer  von  calescere;  aquentar  fiir  acaentnr  von  acalentar,  und,  was  das  prostketische 
ex  betrifft,  espadecer  esmorecer  etc.  Estraecer,  buchsfcàblich  also^heraus  ziehen  wie 
estorcer  z=lierausunnden,  konnte  leicht  denSinn  annehmen  sìcli  einer  Saclie  entziehen , 
sie  vermeiden,  und  bat  ihn  wirklich,  z.  B.  im  Cane,  da  Vat.  N°  930,  21  :  '  ca  non 
■pod'  el  tal  morte  estraecer.  Das  alte  Liederbucli  kennt  iibrigens  auch  unser  estorcer.  ^ 

Welche  Deutung  ist  die  richtige?  Oder  sollten  gar  estraecer  und  estrocer  in 
estrece  zusammengefiossen  sein? 

Mit  aterir  terescer  aterecer  (span).  estar vescer  estnrrexer  (port.  gali.),  wober  uteri- 
miento  und  aterecimiento ^^  (und  wozu  wohl  aucli  ateritar  tirìtar  =zvor  Kdlte  zittern,  geho- 
ret)  einerseifcs,  und  andererseits  mit  estrecìiar  (span.),  étrécir  frz. ,  estrecier  afrz.  (von 
strictus  s<rtci*Ms)  hat  das  span.  port.  estrece  j e denfalls  niclits,  absolut  uichts  zu  tuu.' 


20.  Fasca  fascas  hascas. 

E.  W.'""  hascas:  hasta  casi.  —  Sanchez  Gloss.  zu  Berceo,  Alex.,  Fita:  faz  caso. — 
Zscbr.  VII  120,  Baist,  ohne  Erklarung.  Er  verwirft  einfach  beide  Etymologien.  — 
Die  Formen  mit  /  sind  an  die  Spitze  zu  stellen,  und  unter  ihnen  wiederum  die 
ohne  paragogisches  Schluss-s,  deun  diese  ist  die  urspriingUche ,  an  deren  Echtheit 
nicht  zu  zweifeln  ist.  Sie  findet  sich  im  Alex.  1413  : 

onde  vio  Tauron  qne  non  poclia  entrar, 
fasca  non  querie  menos  en  su  tienda  estar. 


'  TheophUo   Braga    verandert  in   der   iritischen   Ausgabe   des   Canoioneiro    stillschweigend    estraecer  zìi 
escaecer    wozu  kein  Grund  vorhanden  ist.  —  Fiir  entkommen  vermeiden  brauoht  G.  V.  I  248  estorvar.  Nào  se  póde 
eacitsar  a  pasiada  d'este  rio  nem  a  morte  a'estorvar. 
■  Lied  1096  begumt  in  der  Editio  Monaci: 

loiian  incbolas  (1.  Nicolas)  souhe  guarecer 
de  mort  im  liom  assy  per  sa  razou 
que  fuy  iulgad  a  foro  de  leon 
que  nò  denya  demo  castorcer. 
Braga  andort,  ziemlich  unbedacht,  que  non  devya  demo  cas  torcer.  Ich  wenigstens  verstehe  nicht.  Ich  schlage  vor 
zu  leson  que  non  devila  de  mort  estorcer.  Dieselbe  Phrase,  welcher  wir  im  Altspan.  begegneten,  und  die  das  port. 
Volk  beute  noch  kennt,  glaube  ich  deranaoh  im  Canoioneiro  zu  finden. 

'  Noch  weniger  mit  aiericia  atericiar  atiriciar  (von  hyctericia),  obwohl  der  zufiillige  Gleichlilang  schon  znr 
Aufstellung  dieser  ganz  vorkehrten  Gleichung  gefiihrt  hat. 

'  Noch  oinon  Punkt  mbchto  idi  beriihren.  In  den  <  Autos  >  dos  Ant.  Trestes  lese  ich  auf  p.  143  in  einer 
sohr  schwor  verstandlicheu ,  dem  Ansoheine  nach  ein  Wortspiel  in  sich  bergenden,  StoUe  die  Phrase  estrerfuir 
dùr.  Eatref/uir  ist  unbekannt.  Ich  vermuto  estronidr  oder  estrogir.  Konnon  diese  Formen  mit  estorcer  identisch 
sein  d.  h.  in  letztem  Sinue  von  lat.  extorquere  herstammen?  Vielleicht.  Edrogiiir  eslreijiiir  hiitten  den  Gnttural 
bewahrt  wie  das  voraltete  gali,  munr/uir  das  nehen  mungir,  jniigir  stoht,  von  miilgerc  (Saco  Arco  p.  294);  languir 
von  tangere  (ib.  210)  ;  kasfc.  crguir  ergtier  noben  ergir  erger  ercer. 


—  131    - 

2)  in  der  Conq.  de  Ultr.  p.  550. 

cabalgó  o  fuése  pora  su  hermano  el  omperador  faaca  por  razou  de  servir  é  guardar;' 

3)  ib.  p.  592. 

é  estos  le  enviaba  él  fasca  por  amor. 

Die  Formen  mit  s  sind  ungleich  haufiger.  Man  sehe  : 

Berceo.  Dom.     188  mas  era  de  tal  guisa  demudado  el  viento. 

que  fascas  non  avieu  ningun  sostenimieuto. 
ib.    443  avie  fanras  perdida  la  mano  de  dolor, 
ib.     539  ca  liascas  non  podie  corner  una  bocada. 
S.  Oria    162  lo  que  ella  comia  non  era  fascas  nada. 

Mil.    464  issio  confcra  la  claustra  hascas  sin  nul  sentido. 
Alex.  166  fallólo  que  iazia  fascas  amortecido. 

776  una  agua  de  grant  guisa,  fascas  semeia  mar. 
840  priso  en  aquel  banno  un  tal  destempramiento. 
que  cayó  fascas  muerto  sen  seso  e  sen  tiento. 
868  estauan  Ics  reys  ambos  fascas  en  un  taulero. 
966  mas  esto  a  lo  al  fascas  non  an  (?)  monta.  ' 
986  el  golpe  de  su  punno  valie  fascas  dun  ma90. 
1253  el  mismo  don  Alexandre  era  fascas  cansado. 
2373  (nicbt  2353)  se  entrando  non  fusse,  fascas  non  perdira  nada. 
2389  las  ondas  del  deluvio  tanto  querien  sovir. 
per  somo  de  Tyburio  fascas  querien  salir. 
Apoll.  514  quando  prenyada  .sseyo,  semeio  fascas  rana.  ^ 

Juan  Manuel,  Cast.  cap.  4  oa  fascas  tan  grave  cosa  es  vivir  home.... 

Fascas  que  ist  salir  selteii.  Icli    keime  iiiir  zwei  Beispiele  aus  deu  Werken  des 

Erzpriesters  : 

800  està  lleno  de  doblas ,  fascas  que  non  lo  entiendo. 
938  fascas  que  me  amenazaba. 

Die  JJehersetznng  fast,  beinahe  bietet  niiu  zwar  in  alien  Fàllen  einen  guten, 
verstandlichen  Sinn;  und  felilte  die  Form/asc«,  und  wàre  ferner  ein  eiuziger  Be- 
weis  dafùr  vorhanden  dass  man  fascas  betont  bat ,  So  kònnte  man  sich  vielleicbt  bei 
der  von  Sancbez  vorgeschlagenen  Efcymologie  aus/«,s  cas  fi\r  faz  caso,  '  mit  seltener 
Apocope  des  o,  beruhigen,  ^  obwohl  es  in  diesem  Falle  immerbin  befremden  musate 


'  G-ayangos  maclit  zu  dieser  Stelle  die  wnntlerliclie  Beraerkiing:  pasca  està  aquì  por  fascia  6  hacia  corno  si. 
dìjera  pora  hacia  el  Emperador. 

'  Morel-Fatio  (Bom.  IV)  sagt  mit  Rcclit,  (lev  Veis  sei  dunUel  und  verderbt.  Vielleioht  darf  man  lesen  non 
amonta  Qud  demgemass  ubersetzen:  dienes  jcdoch,  devi  ilbrigen  verglicken,  ist  scheìnbar  nichts  wert  uud  unbs- 
deutatd, 

'  So  Fidai;  Sanchez  ìleut  fastaa. 

'  Caso  que  oder  oinfaohes  caso  bedeutet  im  Falle  dass.  Unter  Fas  caso  que  daehte  Sanchez  sich  also  etwa  setse 
den  Fall,  dass....  Mit  Fazer  caso  hat  man  jedooh,  so  viel  ioh  weiss,  niemals  diesen  Sinn  vei-knupft.  Fazer  caso 
de  nh/.  e.  bedeutet  sicli  um  eine  Sache  kiimmern  oder  bekilmmern,  sie  fiir  wichtig  lialten;  nnd  die  Phraso  nUo  faz  ao 
caso  heisst  cs  Ud  nicìits,  scftadet  nichts ^n^o  importa.  —  Den  Fall  gesetzt,  angenommen  dass,  giebt  der  Hispanier  mit 
dado  0  caso  wieder. 

'  In  dei-  betreflenden  Phrase  batte  auf  caso  ein  starker  Hoohton  gelegen,  ware  also  ganz  anderen  Gesetzen 
nnterlegen  als  casa  in  ere  cas  de,  a  cas  de,  und  guisa  in  a  guis  de,  nnd /oro  in  a  for  de,  und  nome  in  era  nom,  de. 
Cfr.  N".  29. 


-   132  — 

dass  mir  zwei  Beispielen  fiir  fazcas  que  ueiinzelm  andere  oline  que  gegeniiber  stelien. 
Dass  die  Formel  faz  cas{o)  qua  sicli  zu  fasca  abgeschliffeu  liaben  solite  aber ,  sclieiut 
schier  immoglicb. 

So  wie  die  Saehen  stehen,  liat  man  die  Yovra  fasca  zu  erklaren  iinter  Bernck- 
sichtigung  von  fascas  als  Nebenform,  deren  s  angesiclits  von  quizds  neben  quizd, 
doncas  neben  dorica,  soncas  neben  sonca,  '  snmicas  neben  samica  etc.  etc.  nicht  schwer 
und  mit  ziemlicher  Sicherbeit  als  paragogischer  Znsatz  zu  deuten  ist.  ' 

Icli  sebo  va.  fasca  den  Imperativ  oder  die  3*"  Person  sing.  praes.  faz  von  fazer, 
nnd  die  Conjunction  ca  fiir  que.  i^asca  bedeutet  aìso:  nimman  dass....  glaube  dass,...  oder 
vielleicbt  aucb,  iinpersònlicli  und  nicht  als  Aufforderiing  verstanden,  es  titt  sicli  so  an 

als  oh....  es  sclwint  dass Man  kònnte  die  Formel  demnach  mit  dem  Anschein  nach, 

gleicìisam  als  oh....  scheinhar  ubersetzen  —  Pbrasen  die,  in  ihrer  bescbrànkenden,  in 
Zweifel  ^  stellenden  Bedeutung  in  Wahrbeit  sebr  nalie  an  fast,  beinahe  angrenzeu. 

Im  Portugiesischen  ist  die  Redensart  fdzque,  eine  der  Formeln  welclie  unter 
eme/i  Wortaccent  fallen;  sie  ist  nocb  beute  eine  durcbaus  iibliche,  tindso  klarund  ver- 
stàndlicb  dass  die  Wòrterbiicber  es  nicht  einmal  fiir  der  Milbe  wert  balten  Pbrasen 
vne  faz  qìie  nào  ouve,  faz  que  nào  ve,  faz  que  nào  quei;  zu  verzeiclinen.  Dieses  faz  que 
bedeutet  er  {sie,  es)  iut  als  oh;  es  scheint  als  oh  er  (sie,  es)  nicht  sdlie,  li'órte,  wolle  oder 
scheinhar  sieht,  h'órt,  lolll  er  nicht.  Aus  der  port.  Scbriftsprache  habe  ich  mir  kein  Bei- 
spiel  als  Belegstelle  notirt.  Ein  einziges  galliziscbes  ziebe  ich  aus  den  «  Cantares 
Gallegos  »  p.  109,  das  aber  sebr  cbaracteristich  ist: 

E  ti  rosa,  roxiùa, 
qu'os  pes  dos  homes  miras 
para  non  velie  a  cara, 
e  faz  que  non  entendes 
cando  d'amor  che  falan: 

Das  altspan.  fasca(s)  wiirde  bier,  und  iiberall,  die  Stelle  und  Rolle  von  faz  que 
vollkommen  adàquat  ausfiillen. 

Fragt  man  nacb  àbnlicben  -aus  eiuer  Verbalform  und  der  Konjuuktion  et  oder 
que  entstandenen  adverbiellen  E-edensarten,  so  bleibe  ich  die  Antwort  nicht  schuldig. 
Ich  kenne  erstens  das  gallizische,  auch  im  bercianischen  iibliche  seica  seique  =  ich 
tveiss  dass,  welches  mit  geiviss,  sicherlich,  manchmal  jedoch  nur  mit  vieilleicht,  mog- 
licherioeise  zu  iibersetzen  ist.  "Wer  die  Grammatik  von  Saco  Arce,  die  Gedichte 
von  Rosalia  de  Murguia  oder  die  berciauiscbe  Gedicht-Sammlung  zur  Hand  hat, 


'  Ubor  sonca  soncas,  samica  samicas  sielie  Groober,  Zsolir.  V  p.  G02  unti  S,1  do  Mii-an  la,  ed.  C.  M.  do  Vascon- 
cellos,  Glossar. 

'  Man  vergleiche  auch  gali,  dendes  fiir  dende;  nuncas  fiir  nunca;  somenles  fiir  somente;  indusqiie  fur  ùtda 
que;  port.  alìmrcs  alffures  und  nenhures  neben  alhur  algur  nenhitr  etc.  etc. 

'  Auch  der  P)eonasmu.s /a«  ca  que  bildet  kein  Hinderniss  fiir  meine  Etymologio,  da  sich  Z.  B.  aus  son  ca 
nnd  sonquc  d.  i.  auR  sino  que  ein  keineswegs  soUenos  soncas  que.  entwickelt  hat.  Siohe  G.  V.  123.  Die  Formeln  sonca 
que;  fasca  que  wird  man  schwerlioh  auffiuden,  da  sie  ihren  Ursprung  noch  ali  zu  deutlich  vorraten.  —  Bewiesen 
wird  durch  die  Esistenz  der  fraglichen  Bildungen  nur,  dasa  schon  vor  dem  1.5  ten  .lahrhundert  das  Bewusstsein 
von  ilirer  Entstehung  und  ihrem  eigentlichen  Sinn  abhanden  gekommen  war. 


—  133  — 

wird  sich  leiclit  von  der  Existenz  und  der  grossen  VolkstihnlichkGÌt  des  Ausdrucks 
uLerzeugen  konneu.  Hier  nur  drei  ausgewàhlte  Beispiele: 

Ros.    p.  142  e  seka  nou  faltou  queu  Ile  dixera.... 
Bere.  p.  227  o  crego  estuvo 

tentao  cou  Lucas  d'empreuder  a  paos, 

seique  porque  este  pouco  honesto  anduvo 

en  mirai'  a  pastora, 
ib.  p.  275  0  dar  lixeira  unlia  volta 

se  Ihe  caen  a  rapaza, 

seique  por  levala  solta. 

Zweiteus  kenue  icii  das  span.  port.  in  den  Dialekten  ùLeraus  gebrauchliche , 
und  in  Brasilien  zu  erweiterter  Verwendung  gekommene  dizque,  auch  disque  ==  der 
Suge  iiaclì,  ir /e  man  .so  sa/jt,  '  filr  dessen  Verwendung  ein  einziger  Beleg  gentìgt: 

Saoo  Arce  p.  309  Vicina  da  erguida  serra 

que  em  tempo  disque  abrigou 
mouro  de  condiciou  perra. 

Dritteus  creoque  =  so  v'iel  idi  weiss,  das  im  Gallizischen  mit  seica  und  dizque 
ziemlicli  gleichbedeutend,  doch.  weniger  iiblicli  isfc.  Saco  Arce  p.  212  —  durch  deu  ich 
es  kenne  —  neunt  es  un  verdadero  adverhio. 

Viertens  das  bercianische  jJOtZajiie  =  vielleicht,  Jioffentlich;  wortlicli  es  moge  kon- 
nen,  sein,  gescìiehen  dass  z.  B.  p.  164:  ya  podaque  todos  cuideis  qua.... 

Fiinftens  das  brasilianische  imrézque  fiir  parece  que  =  dem  Anscheiii  nach,  das 
genau  so  wie  disque  verwendet  wird.  " 

Ca  fiir  que  kann  der  Befùrwortung  entbehreuiindlìegt  ja  auch  im  oben  erwahn- 
ten  seica  vor.  Beispiele  filr  das  paragogiscli  zugefilgte  s  nannte  ich  schon.  Die 
Uebersetzung  scheinhar,  wahrscheinìicJi  genugt  in  alleiL  Stellen,  in  àenen  fasca  fascas 
luiscas  Verwendung  fanden.  Die  ausscldiessliche  Schreibnng  fas  hns  ist  freilich  auf- 
fallig;  die  Scbreibung  an  sicli  ist  es  nicht,  da  aucb  haser  vorkommt,  und  im  brasil. 
disque  derselbe  Wechsel  von  s  zu  s  eingetreten  ist.  Sonst  wiirde  die  hier  versuchte 
Deutuug  lautlich  ebensogut  wie  dem  Sinne  nach  befriedigen.  " 


'  Auf  dem  Pestlande  behauptet  dizque  nàmlicli  seiue  ursprtlngliche  Steìlnng  ani  Anfang  des  Satzes  und 
tragt  anf  {«e  einen  secundaren  Accent,  warend  der  Brasili.aner  die  Formel  an  das  Ende  des  Satzes  stelli  und  sie 
unter  einen  Accent  fallen  liisst. 

-  Bemerkt  sei  lùerbei  dass  die  alte  in  span.  Wórterbùcliern  umgebeude  Formel  pazqitc  statt  parece  que, 
welclie  Z.  B.  auch  Cuveiro  Piiiol  verzeiclinet,  sich  moglicherweise  noch  als  schlecht  gelesenes  abbreviirtes  pa- 
rezqne.  oder  als  fazqiie  d.  h.  als  unser  fascas  entpuppen  ìvird. —  Ich  kenne  sie  nur  aus  Tirso  de  Molina  p.  532.  Auch 
das  im  Kastilianischen  so  belìebte  penséqite  muss  erwàhnt  werden.  Der  Komòdientitel  £Z  castigo  del  penséque 
von  Tirso  de  Molina  ist  bekannt. 

'  Bei  G.  V.  I  13.5  ftndet  sich  das  Wort /oscns  in  folgendem  Passns:  Issohefoscas  mui  asinha  Por  me  metter 
rthentinìia,  Mas  perol  nào  t'hei  de  crer.  Der  ungefahi'e  Sinn  ist:  Das  sind  ìiòclist  wahrscheinlich  nur  Flauaen.  i?e- 
denaarten  die  micìi  drgern  sollen,  und  darum  i/erade  werde  ich  Dir  niehl  glauben.  Auch  Jorge  Ferreira  de  Vascon- 
cellos.  Eufrosina  p.  164  kennt  es;  er  sagt:  tado  isso  suo  foscas  foscas.  Steokt  in  diesem /oscas ,  welohes  von  den 
Wórterbiichem  als  port.  subst.  fem.  fosca  katalogisirt  wird ,  das  alte  fasca  ?  Kanm  !  Vermutlich  hat  man  es  mit 
dem  in  lasco  fusco  weiterlebenden  Adjeetiv /«sco /osco  zu  tun,  d.  h.  mit  lat. /«««(«. 


—  134  — 

21.  GuiNILLA. 

In  clen  spau.  Wòrterbiicheru  als  Proviucialismus  erwàlmt.  Ist  galliziscli  und 
bedeutet  PtqnUe,  Augapfel.  Gidnilla  entspricht  kast.  guindiì.la,  einem  Diminutiv  vou 
(/umda^:  Weichselkirsche.  Vgl.  esccma  nebeu  escanda,  penol  ueben lì&ndol.  J] eber  guinda 
und  quinja,  ])ovt.  giiija,  woher  auch  altspan.  yeuiUa,  frz.  guigne,  afrz.  guisne,  kat.  ginjol, 
frz.  giiujeole  siehe  Diez ,  E.  W.  1 445  unter  visciola.  Auf  der  Halbinsel  bàtte  das  Volk 
also  die  grossen  scbwarzen  i^ugapfel  seiner  Sòbne  und  Tòcliter  mit  den  dunklen 
Kirsclien  verglichen,  —  ein  Bild,  ahnlich  dem  welches  im  frz.  primelle=PflUumclimi 
.steckt  (span.  primela  ist  ein  Gallicismus).  Docli  hat  sich  das  treffende  Bikl  (spricht 
nicht  aneli  das  deutscbe  VolksKed  von  Kirschenaugen  ?)  in  der  Schriftsprache, 
gegeniiber  dem  klassischen  nina,  port.  menina  (lat.  inipilla,  griech.  v-óf-Tj)  nicht 
gehalten. 

22.  Leiea. 

E.  "VV.  II''  okne  ErkLarung.  —  Zsclir.  VII  102,  Baist;  von  cireM.  —  Das  port. 
Wort,  welches  auch  in  Gallizien  und  in  der  Landschaft  Bierzo  heimisch  ist,  habe 
auch  ich  schon  ver  langer  Zeit  fiir  eiue  Scheideform  von  eira=:DrescMenne  (bere,  noch 
beute  atra)  gehalten ,  d.  h.  fiir  lat.  area  mit  aiSgirtem  altport.  Artikel  la  (altport.  aiich 
taira).  '  Bereits  in  Dokumenten  von  870  liest  man  larea  und  laria  (Port.  Mon., 
Chartae  p.  4  u.  15).  Es  bedeutet  nicht  eigentlich  Beet,  -wenigstens  kein  Blumen- 
beet  ^  sondern  einfach  eine  Scholle  Erde,  cm  /Stiickchen  Grund  und  Boden,  einen 
Flecken  Landes,  off.  auch  einen  kleinen,  meist  langen  und  scJimalen  Erdstrich  der  zum 
Planzen  von  Koìd  und  anderem  Gemiìse  òenutzt  wird,  i;nd  den  man  ja  wohl  auch  Ge- 
museheet  neunen  kann  (friiher  aller  Wahrscheinlichkeit  nach,  wenu  die  Etimolo- 
gie richtig  ist,  von  bestimmtem  Flàcheniuhalt?). 

Zu  bemerken  ist  dass  neben  leira  ein  Maskulinum  leiro  existirt ,  meiues  Wissens 
nur  in  der  spanischen  Landschaft  Bierzo,  mit  vollkommen  gleicher  Bedeutung  wie 
leira.  Poes.  bere: 

]).  224  o  leiro  da  oorzapifia  y  o  prao  do  vai. 

302  as  foUas  das  patacas  se  esmureoian  nos  leiros. 

Und  dies  Nebeneinander  briugt  mich  zu  der  Frage,  ob  in  altspan.  ero  (das  einen 
von  era  deutlich  unterschiedenen  Sinn  hat,  da  es  Trager  des  Begriffes  Stììck  Landes, 
und  zwar  Ackerlandes  war,  wahrend  era  nur  Dreschtenne  war  und  ist)  ob  im  altspan. 
ero  nicht  auch  area  steckt,  das  man  als  substantivirtes  Adjektiv  ansehen  und  daher 
doppelgeschlechtig  machen  konnte.  "  Dass  ero  wirklich  Ackerìaud  benanute,  zeigen: 

Fita  1211  derraiiiar  la  simicntc  al  ero. 

720  lue  sembrar  canuainones  en  un  vicioso  ero. 
317  levólo  et  corniolo  a  mi  pesar  en  tal  ero. 


'  Siehe  oben  eiva  N.  17  wo  icli  bereits  auf  gali.  /oi/o  =  kast.  Iioyo,  port. /o^o,  lat. /oc  e  a  liiuwies. 

■  Das  Blumenbeet  heLsst  aUgrete. 

'  Vgl.  das  eben  genannte  hoyo  neben  /loi/rt  aus  fovea. 


-     135  — 
Dagegeu  ib.  12Gt): 

trigos  e  todas  mieses  en  las  eras  tendiendo. 

Der  Samen  wircl  in  deu  ero  gestreiit,  die  reife  Frucht  auf  dio  era.  Ero  kònnte 
freilich  aiich,  wie  altport.  aro  (E,om.  XI  81,  Cormi)  vou  agrum  kommen  (eine 
Efcymologie,  die  wie  idi  iiachtraglicli  bemerke,  vou  Baist,  Z.sclir.  VII,  p.  633  befiir- 
wortet  wird). 

Jedeufalls  aber  siud  von  ero  =  Arlcerland  iind  nicht  von  era^z  Tenne  die  Substan- 
tiva  erta  erial  und  erlazo  abzuleiten,  denn  anch  sie  bedeuten  Ackerland,  und  Diez  (IP) 
der  sie  aneli  als  nrsprimgliche  Adjektiva  ansieht,  irrt  wohl  wenn  er  sie  mit  temie- 
nartirj ,  ìcie  eine  Tenne  hescliaffen  (d.  h.  glattrasiert)  unanfjeòaut  wiedergiebt  (in  Uebe- 
reiustimmnng  mit  einer  modcrnen  Verwendnng  der  Worto  fiir  Bracliland  das  mit 
pousio  (port.)  vorziiglich  gut  gekennzeiclLuet  ist?). 

Man  sehe: 

Fita     721  comed  aquesta  semiente  de  aquestos  ertales  (=Felderu). 
124G  dà  primero  farina  a  bueyes  de  erias  (=Feldern). 
14G3  tal  homen  corno  este  non.  es  en  todas  eriax  (=  Landeii). 
1208  de  juglaros  van  llenas  cuestas  e  eriales  (=Hohen  u.  Ebenen?). 

Ero  era  leiro  leira  also ,  meiner  Ueberzengung  nach ,  lat.  area.  —  Gehort  dahin 
etwa  aneli  das  aragonesische  alerà:  llanura  en  que  se  hallan  las  eras?  (Borao  p.  Ili; 
das  Wort  steht  ancK  in  alien  span.  Worterbiichern)  Alerà  =  lera  *  mit  prostheti- 
schem  a ,  wie  aglera  =  glera  (lat.  glarea)  (da  die  Eeiheufolge  arca  aira  era  l'era  lera  la 
lera  l'alerà  zu  kiinstlich  nnd  seltsam  ist)?  Alerà  ist  ein  Streifeu  oder  Stilck  trocke- 
nen,  oder  von  der  Natur  mit  flachem  Gestein  versehenen  Landes  nnweit  der  Hànser, 
welches  als  Tenne  dieut.  Lera  diirften  wir  angesiclits  des  westlichen  leira  fiir  ge- 
sickert  anseken.  Dock  gebe  ioli  zn  bedenken  ob  alerà.,  und  selbst  laira  lera,  nickt  mit 
dem  eben  erwaknten  altspan.  glera  aglera ,  '  port.  gleira,  d.  k.  mit  lat.  glarea  eins  und 
identisck  sein  konnen*  Dasselbe  bezeicknet  bekanntlick  im  astur.  aleira  llera  «  ein 
trocknes  sandiges  oder  steiniges  ebenes  Stiick  Land  besouders  am  Meeresufer.  »  An- 
laiitendes  l  &\xs  gì  wie  in  liron  lirào  von  glire;  lande  landre  von  glande;  latir  von  glatir. 

Und  das  albori.  ler^Meerestrand  Strand  Kusten.stncli,'  gekòrt  es  zu  area  era  ero? 
glarea  glera  lera?  oder  ist  es  ein  ganz  auderes,  alt  einkeimisckes  Wort?  Der  Fragen 
viele  !  der  Antworten  wenige  !  dock  auck  das  Fragen  niitzt  ja  bisweilen. 

23.  Macho. 

Diez  II*"  und  Studien  p.  43. — Ob  span.  port.  macho  =  Mann,  mannlich  identisck 
ist  mit  macho  =z  Hammer ,  d.  li.  ob  es  auf  lat.  masctdus  oder  auf  »if«'c«Z«(s  zurilckweist, 


'  Poema  del  Cid  56.  2243..— Berceo ,  Mil.  442  674  :  hier  iiberaU  alerà ,  docli  kommt  aglera  vor.  -  Maria  Egypc, 
291  eglera  (?). 

-  Cane,  da  Vat.  N°.  246  Foy  eu  madre  veer  a.s  barcas  em  o  !er;  N».  710  foy  ham  dia  polo  veei-  a  santa  Marta 
em  o  ler;  N".  754  En  Lisboa  sobre  lo  ter  barcas  novas  maudey  fazer. 


—  136  — 

bleibe  dahingestellt,  obwohl  ich,  uugeachtet  der  laiitlichen  Schwierigkeit ,  fiir  das 
erstgenannte  Etymon  ganz  entschiedeii  eintrete,  imter  der  Annahme  das  si  zu  eh 
werdeu  konnte,  wie  idi  andereu  Orts  nachweisen  werde.  Pess'lare  von  pessulum 
ergab  nàmlioh  pechar  und  vielleiclit  aneli  fecliar;  penisla  d.  i.  peninsula  port.  Peniche; 
ass'la  d.  i.  assida  port.  acha  (nicbt  ascia  und  iiicht  astia);  Sixffix  is'luii  aus  isculus 
ergab  iclio. 

Hier  handelt  es  sicli  iim  span.  port.  maclio  =  Maultier  welches  weder  maixulus 
macìio,  noch  mascul'us  macho  ist.  loh  setze  Rìr  macho  :=  Maultier  ein  drittes  Etymon  an. 
Es  steht  fiir  moacho*  m.iiacho,  das  uns  z.  B.  iui  Cane,  da  Vat.  1109  und  im  Cane. 
Col.  109  begegnet  ;  dieses  aber  fiir  mulacho  welclies  ebendaselbst  zur  Bezeiehnung 
des  jungen  Maultieres  vorkommt  (Col.  409).  Macho  muacho  mulacho  ist  also  ein  Deri- 
vat  von  7nu  muu^  mulo,  lat.  mulus,  und  ist  idontiscli  mit  mulato,  welclien  Namen 
nodi  das  Cinquecento  fiir  Maultier  kennt  und  benutzt.  Man  sehe  Miranda  108,  280; 
G.  V.  II  227,  111232,233,  243.  Das  junge  mannliclie  Tier  wird  gleiclierweise 
dureh  die  Endungen  acJio  und  ato  bezeidinet,  welclie  also  in  diesem  Falle  dimi- 
nutive Bedeutung  liaben.  Man  erinnere  sieli  an  lehracho  lohacho  borracho,  und  aucli 
an  mochaeho  muchacho  und  riaclio,  andererseits  an  chibato  cercato  jabato'  corvato, 
lobato  und  lebrato.' 

Macho  fiir  muacho  "wie  callaclo  (gali.)  fiir  coalhado  {]port.)  =  coagulatus ;  port.  gali. 
cando  fiir  quando,  cai  fiir  qual,  calidad  fiir  qualidad,  Jani  fiir  Joam,  consante  fiii" 
coHsoante.  A  fiir  uà  gebort  dem  "westlieheu  Spracligebiet  an.  '' 

24.  Madroào. 

Einen  Namen  fiir  den  Erdbcer-  oder  Mecrkirschenhaum  iiberkamen  die  Lateiner 
den  Eomanen.  Es  ist  arbutus  (  arbutus  unèdo  bei  Linné.)  lek  habe  friiher  versueht 
nacbzuweisen  dass  das  astur.  albédro,  gali,  érvedo  hérvedohéròedo,  altp.  érvedo  érvodo, 
kast.  alborto,  alborzo,  bisk.  borio,  kat.  arbos  arbosser,  mail,  arbossa,  frz.  arbouse  ar- 
bousier,  arag.  albrocera  alborocera  zum  Teil  aus  arbétus  zum  Teil  aus  arbiitrum  (fiir 
arbfdrurn),  zum  Teil  aus  adjektivischem  arbuteus  hervorgegangeu  sind.  '  lek  liiitte 
noch  das  ital.  albatro  aus  arbùtriim  hinzufiigen  kònnen. 

Diese  alten  hispanisehen  Vertreter  des  lat.  arbutus  sind  lieutzutage  im  Munde 
des  gebildeten,  aber  nieht  fachmànuisdien  Spaniers  nicht  mekr  zu  finden.  Der 
Erdbeerbaiini  heisst  fiir  ikn  madroùera  span.,  madronheiro  gali.,  medronheiro  port., 
und  seine  Fruckt  madroho  (sckon  bei  Juan  Manuel,  Obras  p.  259)  madronho  medronho. 
Nur  als  Provinzialismen  leben  die  alten  Namen  weiter,  auf  hisp.  Gebiete  in 
Gallizien,  auf  port.  in  der   Proràiz  Beira,  welcke   beideu  Landschaften  reieli  an 


'  Muuz.  B.Hv.  de  Linli.  p.  186  u.  Viit.  1000,  im,  muaih.  517,  1109,  u.  Coli.  Br.  409,410;  »!«  boi  G.  V.  Ili  216,  218. 
'  AuBjavali  (aspan.  javalin,  vulgport.  javuUm)  dem  arabisohen  Adjektivo,  abstraliirto  man  fiilsclilich  den 
Stamm  jav. 

'  Siebe  auch  cegato  niTiato  novato  nabato  (rotw.)  und  nabaton. 

'  Was  ist  moacha  bei  G.  V.  z.  B.  II  81? 

'  Albédro  aus  albuedro  albodro  von  albulrum  fiir  urbuirum.  S.  Studicn,  jiag.  251. 


—  137  ~ 

Erdbeerbii,umen,  reicli  aneli  aii  Ortschaften  wie  Ervcdedo  Erbededo  Ervedeira  Ervedosn 
Ervedal  sind. 

Ein  Zusaminenhang  zwisclien  den  alten  iind  den  neuen  Bezeichnungen  ist 
nicht,  oder  nur  auf  das  allergewaltsamste  liei'zustelleu  mit  Hiilfe  des  bere,  mevodo 
das  ich  weiter  unten  ini  Artikel  ilber  morango  erwahne.  ' 

Nahe  liegt  es  vielmehr  in  madronlio  medronlw  ein  von  mnturun  vermittelst  des 
Snffixes  -oìieus  abgeleitetes  adjektivirtes  Substantiv  zn  snclien,  uuter  Berufnng 
darauf,  dass  die  Frucht  sehr  langsam  reift,  im  Zustande  der  Reife  aber  durch  ihre 
kostliclie  hoclirote  Purpnrfarbe  das  Sinnbild  aller  Eeife  sein  kann.  "  Madronlio  ware 
verniutlich  eine  westliclie  Bildung,  da  der  Westen  die  Endung  -onho  bevorzugt. 
Man  selle  medanho  tristoiiho  risonilo  enfadonlio  pediijonho  guardonlio  (Adjektiva)  und 
succedonho  vidonJio  "  (Substantiva).  Bei  kast.  Ursprunge  wiirde  man  -ueno  erwarten,  wie 
in  risueno  pedigueho  lialag'ùeho  viducno ,  oder  -uiia  wie  in  redruna  veduno. 

Das  kat.  maditxa  maduixa.,  maduxera  madiiixera,  welches  vorwiegend  die 
Erdbeere  (fresa)  aber  aneli  den  madrono  benennfc,  wird  von  diesem  Worfce  kaurn  zu 
trennen  sein.  Mcuhixa  filr  madruxa  von  einem  hypothetischen  matur-uceus.*  Zu  ver- 
gieiclien  wiiren  pori,  garducho  santucho  peqtierrucho  machucho  hnrlenguche. 

Eine  frlilier  versnclite  Deutung  von  madrono  ans  dem  Arab.  sclieint  mir 
misslungen.  Mathroniat  matharunlat  sind  niclits  als  Arabisirungen  der  span.  Form 
madrono  (inadruho*).  ' 

25.  Maecico. 

Obras  de  D.  Juan  Manuel,  p.  250''  Zeile  28  u.  57.  —  «  Vogelart,  welclie  gejagt 
wird,  aber  iiiclit  selber  jagt  und  sich  auf  festem  Lande  aufliàlfc  wie  Trappe, 
E.olirdommel  »  etc.  Vergleiclie  Baist,  Libro  de  Gaza  p.  168.  —  Aller  Walirsclieiulich- 
keit  nach.  derselbe  Vogel  welclien  der  Portugiese  macarico  oder  viassarlco  nennt 
{macarico  wolil  fiir  macrico  wie  mnssnroca  flir  massroca  span.  mazorca).  Hier  zu  Lande 
ist  er  jedermann  bekannt,  wenn  niclit  aus  eigener  Anscliauung  so  dock  von 
Horensagen,  durch  folgenden  Kinderreim: 

Pico,  pico,  massarìco , 

quem  te  deu  tamanho  bico? 

foi  nosso  senhor  Jesu  Christo  etc.'^ 


'  S.  unten  N».  27. 

'  Die  schamroten  Wangen  dei*  span.  Schbnen  werden  im  Liede  unendlich  oft  mifc  den  madroTios  vergli- 
ohen.  AugenbUcklicli  fallt  mir  nur  der  andai.  Vers  ein  :  En  dandole  una  gromita  A  cualquier  mosa  Pepilo ,  Lo  mesmo 
que  un  madroTiito  Se  pone  de  encarnada. 

^  Sanfonlta  aus  sympkonìa;  vergotika  aus  verecundia  (alt  auch  vergon^a);  peqonha  Umbildung  aus  altem  peQou 
sp.  pozon  von  polionem;  vesonha,  Umbildung  aus  veson  =  vision  ;  cegonha=  ciconla.  —  Woher  cnrantonha?  —  Bisonìio 
vom  it.  bisogno. 

'  S.  Colmeiro,  Dico.  Bot.  p.  115  und  das  von  Ihm  citiite  «libro  de  Agvioultura  de  Ebn-el-Awam,  trad.  del 
àrabe  y  anotado  por  Banqneri  »,  Paris,  1864. 

"  Mifc  demselben  Liedcben  wird  iibrigens  auch  noch  ein  anderer  Vogel  mit  langem  Schnabel  angesungen, 
falls,  was  sGlir  wohl  moglich  ist.  ein  und  derselbe  Sumpfvogel  nicht  zwei  Namen  getragen  hat.  Das  Liedcben 
lautet  namlich  auch  (bei  Q.  V.  Etl   22):   Qiiem   te   deu   tamanho   bico,  Eostinho   de  Ccrolico?   oder  Sirolico  tico  tico 

18 


—  138  — 

der  ilin  als  einen  Vogel  mit  sehr  '  langem  Schuabel  cliaracterisirt.  Nàheres  wussten 
die  Laien  der  Naturgescliickte  .mir  nidit  anziigeben;  die  einen  erklilrten  den 
mussar ico  filr  eine  Sclmepfensorte,  '  die  anderen  fiir  eine  Reiliersorte,  wieder  andere 
f'iir  einen  Kranicli  :  die  Auswalil  aber  fand  stets  im  Kreise  der  Sumpf  nnd  "Watvògel 
statt.  Die  Worterbiiclier  und  die  naturwissenschaftlichen  Handbilcher  besclireiben 
den  massarico  als  ave  aquatica  da  orclem  das  pernaltas  de  Meo  convprido  e  raho  ctirto  = 
Ardeola  marina,  strepsilas,  tringa  mterpres,  und  untersclieiden  den  malarico  redi 
=  numeni'us  phaeopus  ou  scoloj>ax  arquata;  malarico  das  r o chas :^^ actites  hypoleu- 
cits;  und   macarico  gallego  =r:  limosa  melanura,  scolopax  limosa. 

Das  Wort  zu  deuten  reiclien  meine  Kenntnisse  niclit  aus.  Mit  marzo  marziego 
Miirz  liat  es  uichts  zn  tun.  Die  Erklàrung,  welche  Gayangos  giebt,  ist  durcli  und 
durcli  falsch.  ' 

26.  Meigo. 

Zu  Zsclir.  VII  p.  113.  Auch  der  KastiLianer,  oder  sagen  wir  lieber  auch  die 
spanisclie  Schriffcspraclie,  die  wie  alle  Scliriftsprachen  den  verschiedensten  Provin- 
zen  Worte  entlehnt,  bedient  sick  des  Wortes  mega  im  Siune  von  Zaubrerin,  Hexe.  Die 
«  Picara  Justina  »,  die  wie  ich  schon  ofters  erwahnen  musste,  viele  Eigentiimlichkeiten 
der  niit  westlicken  Elementen  naturgemàss  reicklickst  gesattigten  Provinz  Leon 
entnimmt,  brauckt  das  Worfc  auf  p.  57  u.  202:  sirva  de  defenderse  una  persona  de 
hellacas  òrujas  sanguijuelas ,  que  asi  Uamaron  los  antiguos  a  las  lamias,  hrujas  y 
megas.  Graston  Paris,  Eom.  XII  p.  412  sckliigt  vor  an  Stelle  von  magius  die 
Form  magicus,  als  Etymon  anzusetzen ,  und  auck  Herr  Baist  sprack  mir  vor 
Zeiten  in  einem  Briefoken  dieselbe  Ansickt  aus.  Magicus  inalcus  maigo  meigo  kast. 
mego  entspracke  vom  zweiten  Gliede  an  genau  der  Entwickelung  von  Idicus  durck 
laigo  zu  leigo  kast.  lego.  Und  gegen  den  ersten  Sckritt,  Ausfall  von  g  zwiscken  Vocal 
und  Vocal  (a  +  i).  ware  auf  port.  Gebiete  nickts  einzuwenden.  Es  geniigt  an  mestre 
durck  meestre  aus  maistre  magister,  an  setta  durck  seetta  aus  saitta  fiir  sagitta,  an  hainha 
aus  vagina,  mais  aus  magis  zu  erinnern.  Was  mick  dakin  gebrackt,  die  Form  magius 
lieber  denn  magicus  als  Etymon  aufzustellen ,  an  die  ick  natiirlick  auck  gedackt, 


oder  Sirolico  lieo  tico  oder  Sorrobico  massarico)  Qiiem  te  deu  tamanho  Meo?  Und  dieser  ceroUco  sirolico  sorrobico 
heisst  feruer  seropico  soropico  soropicote.  und,  wie  der  Spottname  des  Dichters  Fernao  Eodrigues  Lobo  beweist, 
Soropìta  Sorapita  Surropita  Suropita  Zarapita.  Kast.  sarapico  und  zarapito  (Fila  987;  Cai.  y  Dim.  p.  74).  Der 
Katalane  nennt  das  Tier  (deu  numenius  pliacopus)  polii.  —  Cfr.  Hom.  VI  p.  54. 

'  loh  sago  sehr  lang  weil  der  Goldsohmied  sein  feines  Lothrolir  naoh  dem  Schuabel  des  massarico  ge- 
tauft  hat. 

'  Meiner  Moinung  naoh  das  Rtclilirje.  Ilier  kommt  der  massarico  bisweileu,  als  gixtes  Jagdstuck.  zuni 
Kaufe  auf  don  Markfc,  doch  ist  es  mir  noch  uiclit  gegliickt  die  Gelegenbeit  beim  Scliopfo  zu  fassen,  xind  den 
fragliehen  Vogol  zu  erwerbon. 

'  Die  betreffendon  Stollen  sind  Aufzahlungen  und  lauten:  et  los  alcaravanee,  et  los  marcìcos,  et  los  siso- 
nes  etc.  und  Ila  y  olras  qac  se  mantienen  sicmpre  cu  el  seco  asi  corno  lus  almfnrdas  et  ìos  cucrvos  caloos.  et  los 
alcaravanes,  el  los  mirlos  \el  los]  marcicos  el  las  ijamgas  etc  — Gayaugos  bemerkt  dazu,  sein  Augenmerk  einzig 
auf  dio  zwoito,  vordorbto  Stollo  richtend:  '  Marc  ico  adj.  apllcado  al  mirlo.  Diz-se  tambion  marziego  (!)  y  (luizà 
se  tome  del  mes  de  marso.  » 


—  139  — 

isfc  die  grosse  Zuneigung  der  nordlichen  und  nordwestKcheii  Dialekte  der  Halbin- 
sel  zur  Ersetziing  des  auslauteudou  o  und  a  diircli  io  i;nd  ia.  Ausser  den  bereits 
welter  obeu  untev  a^amo  erwahnten  Fàllen  seien  angeflihrt:  vulg.  port.  cifrìa,  (juapio 
morihuncUo  ouvidio  (Santo  Ouvidio  Schutzpatron  der  Ohrenkranken)  melenia  promes- 
sia rabio  escadia  und  altport.  (u.  vulgport.)  clmvia  und  chuiva,  venturia  und  venttdra, 
in  welchen  beiden  der  gleiche  Umsprung  des  i  aus  der  Endsilbe  in  den  eigentlichen 
Stamm  eiutrat  wie  in  maiga.  Vgl.  aucli  altport.  Astuiras  Estuiras  fiir  Asturias.  Dies  ist 
ein  kleiner  Beitrag  zu  der  zwischen  Baisi  und  Cornu  liin  und  ber  bewegten  Frage 
iiber  cudiar  cuidar. 

27.    MORANGO. 

Diaz,  "Wortschopfung  p.  59,  erwithnt  das  Worfc  irrtiimlicher  Weise  als  spanisch. 
Es  ist  portugiesisck.  Der  Spanier  nennt  die  Erdbeere  entweder  in  gelekrten  Krei- 
sen  fraga,  oder  im  gewohnlichen  Leben  des  Volkes /resa  [E.  W.  II''.  s.  y.  fi'aise], 
seltner  (prov.  ?)  mayotn  mayueta  mayeta  =  Maifrucht  [E.  W.  II''.  VergL  itak  mag- 
giostva].  Frilber  soli  er  sie  auck  mit  dem  nock  ungelosten  micsgo  (woker  amiesga 
miesgado  amiesgado  und  durck  Metatkese  miezdago)  bezeicknet  kaben.  '  Der  Portu- 
giese  kingegen  kennt  fiir  die  in  seinem  Boden,  wie  auf  der  ganzen  Halbinsel 
(Aranjuez!)  kerrlick  gedeikende  Fruckt  keine  andere  Bezeicknung  als  morango  fiir 
die  weisslicken  grossen,  moranga  fiir  die  kleineren  dunkelroten  Sorten.  Morangào 
morungal  morangueira  sind  Ableitungen  zur  Benennung  der  Pflanze  als  solcker,  und 
der  Beete  und  Felder  auf  denen  sie  wackst.  Die  Orts  ckaften  Moraho  und  Moran- 
gueiì'o  liegen  in  G-allizien. 

lek  zerlege  das  "Wort  in  den  Stamm  mor  und  das  Suffix  ango  (-anicios  ?),  das  frei- 
ck  zu  den  seltneren  geliort,  '  kalte  es  also  fiir  eine  auf  kispanisckem  Boden  gesckaf- 
fene  Neubildung,  fiir  welcke  kein  unmittelbares  Urbild  in  andereu  Spracken  (Lat. 
Deutsck,  Grieckisck  Arabisck)  zu  sucken  ist.  Nur  der  Stamm  ist  lateinisck,  ist  das 
bekannte  mórus  (grieck.  [xtìipov  und  j),ópov),  der  Name  also  fiir  Maulbeere  u.  Brom- 
beere,  der  auf  der  Halbinsel  diese  selben.  und  nock  andere  abweicbende  Beeren- 
friickte  bezeicknet,  als  da  sind  Himbeere  Erdbeere  und  die  eiues  eigenen  Namens 
entbekrende  Fruckt  des  Erdbeerbaumes  (arbutus  unèdo),  (der,  nebenbei  gesagt,  eiuer 
der  sckSnsten  Zierbiiume  des  slidlicken  "Waldes  ist). 


'Oolmeiro  p.  126  stellfc  miezdago  unter  die  ùblicben  Viilgaìrnamen  dei*  span.  Pflauzen.  Ob  mit  Recht?  Das 
brauclibare  Bucli  ist  niclit  immer  zuverlassig.  —  tjber  die  Etymologie  von  miezga  wage  Icli  nur  eiiiige,  vielleioht 
ganz  wertlose,  Vermutungen  zu  aussern.  Von  mies  (messis)  wird  es  kaum  kommen;  die  Bezeiclmung  Erntebeere  ver- 
stande  man  in  ilirem  Motive  niclit  reolit.  Eiier  vielleicht  lionnte  miesgo  das  lat.  vescus,  d.  h.  dem  Linnéschen //-a- 
f/arìa  vesca  entnommeu  sein.  Hierbei  sei  bemevkt  dass  Colmeiro  p.  231  unter  den  veralteten  Pflanzennamou  ein 
mir  gànzlicb  nnbekanntes  hiezf/o  fiir  sainbiicus  ebuliis  verzeiclinet.  Icb  vermute  dieses  biezgo  sei  Lesefebler  fiii-  yezgo 
(altes  yedgo),  Attich  Aditeìistaude  Actenbecre  (HoUunder),  fiir  den  savibucus  ebulus  also.  Dass  dies  .sjjan.  yezgo  unmòglich 
ebulmn  sein  kann,  wie  Diez  I"  p.  161  s.  v.  ebbio  sagt,  sondern  niohts  auderes  als  deficit»*  von  ade  grieoli  ixrii  fiir 
àuTsa  ist.  Bei  nebenbei  erwiilmt. 

-  Diez  Gr.  II  377  eiico  engo  ango =la,t.  inqulis  ;  ingo  engo  ango  =  deutsoii  ing  ling.  Vgl.  Foerster  Gr.  §  320  u.  322. 
Docli  sind  der  hispan.  Bildungen  in  anca  anco,  anga  ango,  ancro,  enga  engo  engtie,  eneo,  inga  ingo  ingitc,  inca.  onqo 
onga,onca,  unga  ungleich  melire  als  es  nacb  jenen  Uebersichten  den  Anschein  hat. 


—  140  — 

Morus  steckt  in  deu  peninsularen  Namen  ftìx 

1)  Brombeere:  span.  mora,  mora  de  esjjuio,  mora  de  zarza,  zarzamora,  port. 
gali,  mora,  amora,  amora  de  sìlveira,  amora  de  silva;  vai.  mora  de  zarzal.  ' 

2)  Maidheere,  span.  mora,  mora  de  mora!  od.  de  murerà;  port.  mora,  amora, 
amora  de  drvore;  gali,  amorote. 

3)  Eì'dbeere,  gali,  amorote  morote  morodo  morogo,  port.  morango. 

4)  Erdbeerbaumfrucht ,  Meerklrsche ,  gali,  morote  de  ervedo  und  amorodo.  Der 
Einwohner  von  Bierzo  neunt  sie  merodo  (aucli  morodoì),  ein  Wort.  welches  viel- 
leiclit  auderen  Ursprungs  ist,  vielleiclit  aber  auch  fiir  morodo  morote  stehen  kann." 

5)  Himbeere  sp.  mora  roja,  mora  de  zarza  troyana  ó  idea,  mora  de  zarzafraga, 
port.  amora  roxa  oder  vermelha.  DÌ6se  Bezeicliniiugen  siud  selten,  docli  volkstumlicli. 
Der  Grebildete  nennt  die  Frucht  [morum  idamm]  mit  dem  niederlandischen  Worte 
frambuesa,frambueso,  welches  das  Volk  sich  durch  Umbildung  zu  sanguesa  sanguéso 
(gleichsam  also  Blutbeere)  mundgereclit  gemaclifc  liat.  ' 

Das  altport.  benannte  zwei  hockrote  Beerenfriichte  mit  Derivaten  von  morus; 
mit  morèco  entweder  die  rote  Erdbeere  oder  die  Meerkirscbe ,  mit  amora  walirscliein- 
licb  die  Himbeere.  Man  lese  das  1062te  Lied  des  Cane,  da  Vat. ,  '  in  welcbem  die 
weinrote,  ins  Blaulicbrote  spielende  Nase  eiues  Bischofs  von  Viseu  mit  Tollapfeln, 
mit  Feigen,  mit  Scliarlach,  mit  Himbeerrosen  und  zuletzt  mit  der  Erdbeere,  wenn 
ich  morecescuro  richtig  dente,  und  mit  Himbeeren  amoras  maduras  verglichen  wird.' 


28.  Mouco. 

Port.:  sclmerhorlg.  —  Bei  Diez  E.  W.  II''.  oline  Erklarung. — Eom.  IV p.  367  von 
Bugge  aus  mucus*  griech.  jj-Oxcc  gedeatet.  Befriedigt  weder  lautlich  nocli  dem 
Sinne  nach.  —  Was  ich  hier  verzeichne  ist  nur  ein  Einfall;  vielleiclit  jedocli  der 
Einfall  einer  gliioklichen  Stunde. 

Dass  mouco  aus  manco  entstanden  sein  kann  wie  ouro  aus  aurum ,  pouco  aus 
IKiucus,  ronco  aus  raucxi,s  liisst  sich  nicht  leugnen.  Manco  aber  diirfte  auf'ein  urspriing- 


'  Der  Maulbeerbaiim  beisst  span.  moral,  inorerà,  port.  moral.  mnoreira,  der  Brombeerstrauch  {rubus)  dort 
zarza  zarzal,  auch  zarza-idea  nnd  selbst  moral  zarzal  (woher  zablreiche  Ortsuamen  wie  Morales  Moraleda,  ja  sogar 
Moralzarzal),  hier  silca  silveira. 

■  '■  Poes.  Bere.  p.  206  u.  245.  -  S.  oben  Madrono  N»  21. 

'  Blutbeere  nennt  der  Spanier  bekanutlioh  auch,  nach  alter  lateinischer  Sitte  (Plinius),  dio  Korm'Ikirsche 
mit  den  Worten  saiigueno  sangiùTiol  pg.  sanyuiiiha  zniigrhilio  (zaiKjrinheiro).  Friiher  beuutzten  beide  Sprachen 
htiufìger  cornizitelo  cornizolo. 

'  Bemerken  will  ich  dass  der  roten,  stellenweiso  ins  Blaiilichrote  hineiuspielenden  Naso  des  weinseligen 
Priilaten  auch  die  Parbenbezeichnung  cdrdeo  beigelegt  wird.  Ich  lese:  et  foi  feda  a  hum  bispo  de  Vi»eu,  naturai 
ìVAragom  qiie  era  cardeo  conio  cada  ima  d'estas  comas  que  contam  evi  està  cantiya,  ou  màis.,.,  Th.  Braga  iindert  auch 
hier  ohne  jeglichen  Grund  und  nicht  mit  gliiekiichem  Griffe.  Die  verglichenen  Gogenstande  .sind  bereniienlia , 
figos  i^ofeinoa,  escarlata  roxa,  rosa  bastarda,  morecesatro,  amoras  maduras. 

'  Mit  amoras  maduras  vergleiohe  man  das  kat.  maduixa  maduxa,  maduxar  maduxera  madiixera  und  das  span. 
port.  matiron/io.  —  Das  kat.  bietet  ùbrigens  fiir  die  hier  verzeichneten  Beerenfriichte  recht  abweichende  Namen. 
Die  Himbeere  heisst  </er»,  der  Himbeerstrauch  gerdera:  die  Bromboere  mora  deesbarser;  oder  e.war.w.r  der  Straucli 
esbarserar  oder  auch  rnmaguera  (^roma  nietli:  t'iir  moraf  odor  von  rubu.t,  da  an  rumex  dodi  nicht  gedaciit  werden 
kann  f)  ;  die  Kornelkii'sche  jordu. 


—  141  — 

liclies  midco  weiseu  ■wie  faida  aiif  falta.  '  Zuin  Uberfluss  seieu  uocli  Formen  er- 
wahnt,  in  denen  ein  port.  ou  aiis  lat.  id  eritstanden  ;  soido -.^  saltus ;  outeiro  ::=  altarius  ; 
ensoum  =  insaìsus;  bouca  =  balsa;  poupar  =  papar;  toupeira  von  talparia,  talpa. 
Malco  nun  ist  eiu  Eigenname,  ist  der  Name  jenes  berùhmten  Kriegskneehtes 
Malckus,  welcliem  Petrus  einst  das  rechte  Olir  absclilug  (Evang.  Joli.),  ihn  also  znm 
Einolir  machend.  Den  Schw&rhUrigen  und  den  sicli  ahdchtUclt  tauh  und  ohrenkrnnk 
stelleiiden  konute  man  sclierzhaft  selir  wohl  mit  den  Namen  des  sicheiiich  berillim- 
testen,  òftest —  in  der  Kirche  —  genanaten  aller  Eiuohre  rufen. 

Dass  eia  Eiuolir  tatsachlicli  einmal  ein  Malckus  genannt  worden  ist,  beweist 
zum  ilbrigen  z.  B.  Estebanillo  Gronzalez.  Er  erzalilt  (p.  27  der  ed.  Paris)  von  seinen 
Abenteuern  als  Barbierlehriiug  :  no  acordando-ine  que  tenia  orejas  y  pensando  que  todo 
d  distrito  que  cocjian  las  dos  lentpuis  aceradas,  era  madeja  de  Aòsaloii,  apreté  los  dedos 
y  dejélo  heclw  un  Malco. 

Matteo  Malcns  steht  also  iu  einer  Reilie  mit  fiicar  Fmjijer,  sencjo  Seneca,  payo 
Pelayo.  ' 

Was  die  Begriffsiibertragnng  von  Einohr  zu  Stummelokr,  schlechthorendes  Olir 
betrifft,  so  bietet  z.  B.  sard.  òisoyu,  frz.  louclie,  port.  zarolho  eiuen  iilinlichen  Ùber- 
gang,  von  schielend  zu  cindugig. 

Von  mouco  abgeleitet  sind  mouquice,  mouquidào,  moucarrào,  moucarrice,  lauter  gute 
alte  Formen  welclie  bereits  in  den  alten  Liederbiicliern  vorkommen  (z.  B.  Cane,  de 
Ees.  I  396.  414).  - 


29.  Non  nom  nào. 

Spau.  non  noni;  port.  noni  nào:  Name;  volgaire  Kurzuugen  des  altspan.  alt- 
und  neuport.  nome  (lat  nomine;  kast.  nonihre)  welclie  jedoch  nur  in  Schwurformeln 
vorkommen:  span.  voto  a  noni  de  dios  ( Valdivielso ,  Rem.  Esp.  p.  11)  a  non  de  dios 
(Tirso  de  Molina  p.  207);  port.  nào  de  deus  (G.  V.  Ili  15),  nào  de  san  (id.  II  498) 
nào  de  Sào  (id.  I  251).  —  Diese  Formeln  fallen  unter  einen  Accent;  die  Apocope  ist 
also  genau  so  aufzufassen  und  zu  beurteilen  wie  in  anderen  entsprechend  gebauten 
Formeln.  lek  meine  en  (de,  a)  cas  de....  (spanport.);  a  guis  de....  (Berceo,  Millan  414); 
afuer  de....  (Mir.  102,  781);  a  for  de  (G.  Y.  I  195);  a  cab  de  (Mir.  113,  401);  >'  da 
nemiga,  hi  de  perro,  hi  de  ruin  etc.  iiir  fjo  liijo  de;  gali,  nò  mais  fiir  nadamais;  aport. 
cdque  fiir  cadaque  (Mir.  35,  4,  dock  problematisck)  ;   port.  che-te  =  chega-te,  guar-te 


'  Dar  quince  e  faida  Ausdruck  des  Ballsiùels.  Span.  dar  quinse  y  falta. 

■  Pelayo,  der  astm-ische  Held  und  Konig,  heisst  in  den  port.  Genealogien  stetig  Palayo,  uud  fiilirt  immer  den 
Beinamen  <  o  montesiiilin  •■  S.  Liv.  de  Linh.  p.  231,  iHS.  Dass  ans  'Palayo  o  montcsiiiho  »  palayo  zuerst  den  Beige- 
sclimaok,  dann  ausschliesslioli  den  Sino  von  «  bàuerisch  «  annahm,  liann  nicht  Wunder  nekmen.  Die  Form  2mnyo  fili- 
Palayo  bieten  die  Liv.  de  Linli.  des  ofteren,  z.  B.  auf  p.  249,  wo  vom  heiligen  Pelagius  sam  paayo  die  Rede  ist; 
payo  aus  Pelagius  in  dem  bekannten  Namen  Sampaio.  Im  Kast.  blieb  payo  in  seiner  Entwickelung  steben  sobald  es 
den  Sinn  von  bduerisch  |«  agreste,  safio  »]  grob,  plump  angenommen  batte;  im  Port.  gieng  man  noch  einen  Sohritt 
welter;  vom  ausserlich  baueriscb  aussehenden,  plumpen,  knrzen,  untersetzten  Menschen  ging  das  Wort  dazu 
iiber,  eine  dicke  kurze  ÌVurst  zu  benennen.  —  Angedeutet  habe  ich  diese  Etimologie  bereits  in  meinen  «  Studien  >. 


—  142  — 

=  ffuarda-te ,  far-te  =  favta-te ,    cìpjìen-te  =  dejlende-te    (Sjmn.)  —  Dies    zu    Diez    II'' 
nombre. 

Nach  den  Gesetzen  der  Satzplionetik  wurden  auch  scnhor  senhora  iu  den  liispa- 
nischen  Sprachen  behandelt,  da  wo  sie  iu  der  Anrede  als  "Vocative,  iu  Begleitung 
eines  anderen  Wortes  auftreten,  welclies  den  Ton  tragt.  In  der  famiUaren  port. 
Sprache  liort  man  oft:  oh  seu  marroto!  [oh  sua  marota.']  uud  dhnliches.  Séu  séo  fiir 
séó  seló  aus  senyó  senhor.  Der  Andalusier  sagt  só^  der  Bogotaner  sió  [das  and.  Fem. 
kenne  icli  niclit,  bog.  lautet  es  sid  und  sena  nd.] 

30.  Pelmazo. 

Diez  EW.  IP:  grieck.  iTéXjia  Fussohlef — Sanchez,  Gloss.  Alex  986  :  jjZìHwazo ?  ' — 
Rom.  IV  48  Morel-Fatio:  flumhamtis.'  —  Zsckr.  V  241,  Baist:  pemma  (Backwerk). 

Ein  neuer  Versuch  das  schmerige  Wort  zu  losen,  sei  liier  verzeicknet.  Unbe- 
dingt  muss  vou  dem  Stammwort  ijdma  ^  und  von  der  Bedeutung  flach  zusammenge- 
presste,  klebende,  breiartige{?)  Masse  ausgegangeu  werden.  Weil  uun,  was  alle  meine 
Vorgiinger  ubersehen  haben,  im  Ladiuisckeu  (buch.  uud  grd.  und  auck  im  bresc.  Val 
di  Scalfe)  ein  vollig  gleicklautendes  Substantiv  jjeZm«  existiert,  niit  der  ausscUiessli- 
cken  Bedeutung  Honigfladeii  ;  da  ein  Fladen  aber  einmal  soviel  wie  eine  Honicjumbe , 
dann  aber  auck  ein  ]3lattes  flaches  Backwerk  ist;  weil  also  bei  voUkómmenem 
Grleicblaute  Àkulickkeit  der  Bedeutung  beider  Worte  vorHegt ,  so  darf  man  diesel- 
ben  nickt  getrennt  von  einander  erklàren  wollen;  und  muss  ikr  Etymon  im  lat. 
Sprackfonds  gesuckt  werdeu. 

Honigjladm,  Honigwaben  und  Waffeln  werden  von  alien  Etymologen  als  zellenfor- 
mige  Backwerke  ckaracterisirt,  mit  voUem  Reckte.  '  Und  da  meine  ick  denn,  die 
VorsteUung  welcke  den  betrelFenden  Backwaaren  im  Romaniscken  den  Namen  gab, 
konno  sekr  woki  die  eines  ZusammengefUgten  sein.  Das  von  Sckneller  ^  vorgescklagene 


'  Auch  der  Erzpriesfcer  verwendet  das  Worfc,  was  bislier  nirgends  angomerkt  ward,  und  zwar  im  Sìmie  von 
Langiveiligerj  Làstiger,  Scinvcr/dlliger  tMensch)  oder  aucli  vou  Langwclligkeìi,  Widcrwdrtigìceit,  Idstigc  Sache.  Fita  718; 
Este  vos  tirarla  de  todos  esos  pòbnasos, 
de  pleytos,  o  de  afruentas,  de  verguenzas,  e  de  i^lasos. 
muclios  disen  qua  coydan  parar-vos  tales  lasos 
fasta  que  non  vos  dexen  en  las  pnertas  Uumasos. 
■  Lluma.w  ist  der  hisp.  Vertreter  vom  lat.  plttmbaccus,  port.  alt  cJiumba^o,  chiima(;o;  lettere  Form  vertritt 
auch  plumaceua  und  bedeutet  Fedtrkissen  ;  indma-o  noben  plumazo  =  Federkissen  z.  B.  Port.  Mon. ,  Chartae  p.  44.  — 
TJeber  den  genairen  Sinn  von  pdmazo  im  Alexanderliedo  ist  es  scliwer  vorlaufig  zu  ontsclieiden.  Zum  Scliutze 
gogen    die   Schljige   des   grimmen    Megasar  (Megusar   Legusar   Nogusar)    konnte    obensowobl   ein  Waffenstiick 
aus  Eisen  als  ein  gepolstertes  wattirtes  Wams  dienen:  es  kommt  eben  nur  darauf  an  womit  jener  scine  Scbljige 
austeilte.  Spricht  das   GedicUt  von  Faust-   oder  Keulensohliigeu  oder  von  Lanzensticben  ?  Cfr.  S77  und  Q9i  agebó 
canna  Jieafra  mano  una  fiera  plomada.  Der  Kiimpfor  verwimdete  scine  Gegner  an  Brust  und  Schulter  und  im  Kreuze. 
'  Ist  es  wirlilich  ein  andalusiscbes  iind  nur  ein  andalusisobes  Wort?  In  den  mìr  bekannten  and.  Texten  kommt 
es  nicht  vor.  Und  das  Worterbuoh  der  AUademie  sagt,  wie  viele  andore  guto  Wortcrbucher,  oinfaob:  «  Pclma  1/  pel- 
mazo :  lo  que  eald  aplastado.  Met.  El  siijeto  tardo  6  pcsado.  »  —  Aucli  kommen  apclmazar  apelmazado  haufig  genng  vor  : 
z.  B.  cahello  apdmazado  bei  Lue.  Bodriguez  p.  258;  letrafcrmosa  que  non  se  apelma-ae  im  Cane,  do  Baena  II  p.  136. 
'  Cfr.  Diez  nii  oro!i/"re  ;  Weigand  s.  v.  ìVabe   ÌVaffel;  etc. 
'  Schneller,  Sudtirol.  p.  243. 


_  143  — 

Etymon  lai.  jiegma  gr.  ;:Yj7;j.a  befriedigfc  also  saohlicli.  '  Und  lautlich.  gleicherweise; 
denn  aus  griech.  lab.  </  luifc  uamittelbar  darauf  folgender  Consonanz  (m  und  d)  ist 
im  Span.  melir  denn  ein  Mal  ein  l  geworden.  Salma  aus  sagma,  gr.  aàY[j,a;  esmeralda 
aus  smaragdus,  gr.  a[j.àfja-cSoc;  altsp.  Baldac  fiir  Bagdad;'  ehenàsih.QV  haldoque;^ 
ueuspan.  im  Volksmunde  Maldehurgo  fiir  Magdeburg. 

Einen  anderen,  friiiier,  von  niir  versuchten  Deutungsversuch  lasse  ich  ange- 
sichts  der  oben  verzeichneten  Auifassung  ebenso  leicht  fallen  -«de  die  vier  àlteren. 
Er  -woWie  pelmazo  (durcli  puelmazo*  polmazo*)  aus  einem  ìiy \ìOÌ\\eiisc\\Qn  polmaceus* 
erkliiren,  d.  h.  ilin  als  ein  Derivat  des  port.  poIme  =  Brei\''  anselien,  gestiìtzt  auf 
zahli-eiolie  span.  port.  Eedewendungen,  -welche  den  Tragen  und  Pblegmatikus  als 
Breisack  (deutsch  Melilsack!)  bezeichnen. 


31.    PlNTASILGO. 

Diez  II''  :  pidus  passcrculuii.  —  Zschr.  V  239  u.  VII  121  :  inctns{?)syìic,us.  Der  Por- 
tugiese  sagt  keutzutage  j>i«<rts%o  wie  der  Spanier;  friiher  waren  vorwiegend,  wenn 
auch  nielli  aiisscbiiesclilich,  Formen  mit  rg  in  Gebrauch.  Pintasirgo  linde  ich  z.  B. 
in  Diogo  Bernardes,  Bona  Jesus  p.  148,  pintisirgo  bei  G.  V.  II  433;  auch  pintaxirgo 
isfc  mir  begegnet.  Man  verstebt  darunter  gemeinhin  unseren  Stieglitz  oder  Di- 
sielQ.Tik.=  f ring illa  carduelis,  welclier  hier  allerorten  —  und  sehr  gern  —  geselien  ist, 
besonders  als  Stuben-  und  Singvogel;  das  fein  geputzte  Herrcben  also,  iiber  dessen 
buntes  Galakleid  den  Kindern  manches  Gescbichtchen  erzàhlt  wird.  Eichtig  ist 
dass  der  Spanier  den  Vogel  meisthin  xilguero  nennt,  nebenbei  aber  auch  noch 
pintad'dlo  n. pecliicolorado  im  Hinblick  auf  seine  bunte  Farbung,  und  cardelìna  carda- 
lina  (frz.  chardonneret)  nach  seiner  Lieblingskost,  den  Samen  der  Distel. 

In  cilgo  silgo  sirgo  xirgo  vermutete  auch  ich  seit  làngerer  Zeit  eine  Farbenbe- 
zeichnung;  und  das  von  Baist  vorgeschlagene  syricus  ==  hochrot  ''  scheint  mir  gut  ge- 


'  Dass  palma  im  Span.  ein  Baclaoerk  bezeichnet,  ist  freilioh  zunaohst  nnr  Hypothese.  Eine  Zwischenstufe 
zwischen  der  ladinisolien  Bedeutiing  und  der  span.  in  pdma  und  pelmazo  steckenden  glaube  ich  jodooh  gefunden 
zu  haben.  Beroeo  bietet  namlioh  ein  Wort  pemazo  im  Sinne  von  kleisferaftige  klebeiide  Masse,  vieUeicht  von  M'aclis- 
kuchen  d.  h.  von  dem  nach  Auspresmtng  des  Honigs  zuruckbleibendem  Wachsbestand  f 
Dom.  6S7:  En  medio  de  Ics  labros  pusoli  vm  pedazo 

de  un  engrut  miiy  negro,  semeiaba  pemazo. 
Isfc  Ai&s pcmnzo  Druckfehler  fiir,  oder  Nebenform  von  pelmazo?  Eines  von  boiden  gewiss.  Sanohez  erkliirt  diesmal 
mit  Vorsicht:  Parece  especie  de  cerate.  —  Im  Cane,  de  Baena  II  97  scheint  pelmaso  so  vie!  wie  Fhlerjma  zu  bedeuten.  — 

-  Conq.  de  Ultr.  504. 

"  Conq.  de  Ultr.  26S  und  Cren.  Rim.  928. 

'  Bei  der  Gestaltung  desport,  ijoime  haben  vioh\  polline  (von  poli  en  miàpol.lis)=feines  Mehl,  nnà  pulmentum^ 
Speise  (wofiir  piilmen  im  Volksmunde  eintreten  konnte)  zusammengewirkt?  Palme  aus  polmen  ptilmen,  wie  nome 
aus  namen,  home  aus  homen  età.  Polmàa,  aport.  polmeira  (Vat.  993  u.  D.  Duarte,  Iieal.  Cons.  p.  118)  bezeichnet  eine 
Geschwidst,  ein  Geschwiir,  einen  vlice««.  —  Moglioherweise  ist  bei  der  Enstehung  von  palme  auch  pulmo(ne)  nioht 
ohne  Einwirkung  geblieben  ,  da  dem  Bomanen  in  den  Lungeu  besonders  das  «  Sohwammichte,  Leichte  »  auffallt 
(Sp.  livianos,  alt  lei:es,  port.  bofes). 

»  Eot  ist  die  Farbe  aller  Farben;  und  der  hoohrote  Pleck  des  Stieglitz  fallt  in  die  Augen.  —  Botwein  nennt 
der  Portugiese  nie  anders  als  vinlio  tinta;  span.  Colorado,  port.  corado,  ist  ebeu  rat. 


—  144  — 

fnnden  uncl  wird  wohl  das  Etymou  aneli  fiir  xilguero,  alt  xirguero,  xirgan,  sirgucrn 
(gali,  xilgaro  Ros.  Caut.  p.  128)  sein.  ' 

Was  aber  ist  1)1111(1  imitif  Baisi  spricht  sicli  dariiber  niclit  aus,  hat  sich  also 
vermutlich  mit  der  von  Cabrerà  und  Diez  befùrworteten  Eetroversion  zu  pidus 
begnilgt.  Ein  Kompositum  pidus  sijricus  im  Sinne  von  rotfjnfdrU  rotfnrhig  oder 
bunt  und  rot  (Part. +Adj.)  ist  selir  unwahrsclieinlich  und  stiinde  keineswegs  auf 
einer  Linie  mit  Zusammensetzungen  wie  acpidulce ,  vcrdinegro  (Adj.  -r-  Adj),  oder  wie 
plntipaì-ado.  (Part. -r- Part),  oder  -wie  Pintaflor  (Eigenname;  Part.-h  Subst.). 

Eber  kònnte  jìinta  pinti  das  Substantiv  j;i«frt  sein  (von  pidus,  pida^  oder  Ver- 
balsubst.  Yon.  pintar?)  welches  auf  der  ganzen  Halbinsel  einen  Farhenfleck  bezeichnet. 
Pintasllgo  ware  also  liotlifledc.  Dock  scheint  mir  die  folgende  Deutung  vorznziehen. 

Pinti  ist  eine  durck  naheliegende  Volksetymologie  kervorgernfene  UmbildiTng 
aus  pitiz=pedus^  Brust.  Und  zwar  glaube  ick  das,  obwohl  die  Form  pitisilgo  nickt 
nackgewiesen  ist,  weil  in  zaklreiclien  anderen  Zusammensetzungen  des  peninsula- 
ren  Sprackfonds,  welclie  rotbriìstige  Tiei-e,  so  Vogai  als  Fische,  benennen ,  als 
erstes  Glied  j;eh"  piiti  pinti  pinto  pinta  und  pecho  aus  pedus  vorkommen.  Pintasilgo 
also  i?o<&)'«sf,  ein  aus  Subst.-r-x4dj  zusammeugefugtes  Wort  wie  nlcdtlanco  pRclnplanco 
carilargo  etc.  Peti  piti  ward  pinti  pinto  pinta,  mit  welcken  Formen  sick  naturgemàss 
der  Gedanke  an  pinto  jnnta^=FarbenJlecJc  verkntlpfeu  mnsste.  Dass  sick  beim  Stieg- 
litz  der  kockrote  Fleck,  welcker  ihn  ziert,  eigentlick  nickt  auf  Brust  oder  Kelile, 
sondern  am  Scknabelgrunde  befindet,  ist  freikck  wakr;  dock  dass  man  es  mit  der 
Ortsangabe  des  Fleckeus  nickt  allzugenau  genommen,  beweist  das  span.  pcchicolo- 
rado,  in  dem.  jyecho  nickt  miszuversteken  ist. 

Zum  Vergleicke  kabe  ick  kerangezogen 

1)  jiort.  gali,  pintaroxo  pintorroxo.  Dasselbe  soli  zwei  Vogelarten  benennen, 
beide  aus  der  Familie  der  Finken ,  gleickwie  der  Stieglitz;  erstens  unseren  rot- 
brustigen  Dompfaifen,  fringilla  rubridlla,  welcken  der  Kastilianer  auck  mit  dem 
Namen  des  StiegKtz  2><i<^hicolorado ,  sonst  aber  auck  camadiuelo  und  ferner  pardillo 
nennt;  zweitens  unser  Rotkkelilcken,  sylvia  riòecula,  die  den  Namen  «  Eotbrust  » 
gewiss  verdient.  ' 

2)  kast.  pitirojo,  pitlorroxo^  (it.  pettorosso)  worunter  das  ebeu  genaunte 
Eotkciddien  verstanden  wird. 

3)  kast.  pintarroja  pintaroxa  petirrojo  pechirojo ,  (kat.  pitros<)  lauter  Namen 
fiir  einen  rotbriistigen  Fisck  (oder  fiir  mekrere  ?).  Die  Portugiesen  keunen  nur  den 
Namen  ruivo  fiir  denselben.  ^ 


'  Sirgo  xirgo  wo  es  im  Altspan.  vmd  altport.  als  Simplex  auftritt,  bedeutet  freilicli  immer  soviel  wie  se.rìcua  = 
Seide  und  seidig  {Q.  V.  1 84  und  ol't).  Und  pinio  airgo  =  Seidcnhrnst  wiire  eine  keineswegs  umnogliche  Bildung.  Es 
fiagt  sich  nui'  ob  das  Bruslgefleder  des  Stieglitz  wirkUcli  mehr  Seidenglanz  uud  Seidenweichheit  hat  als  das  an- 
dorer  ouropiiischer  Singvogel. 

■  Conocimiento  de  las  diez  aves  menores  de  jaula.  Madrid  1614. 

"  Pito-nù  heisst  im  port.  Volltsmiihvchen  oine  Eulenart.  S.  Braga,  Contos,  voi.  I  p.  152.  —  Auch  im  kat. 
giebt  es  einen  Vogeli)i(ros  =  Rolhhrust;  welcher  cs  ist,  kanu  ich  uicht  sagen.  Den  RothsptcM  nennt  der  Gallizier 
jìilurei  pctorei.  —  Ein  gali.  Kinderreim,  der  vermutlich  dom  Buntspeclit  gewidmot  ist,  beginnt:  rito  pito  colorilo, 
quem  che  deu  lamano  bica?  (Rora.  VI  54).  S.  obcn  N»  25,  Anm.  1. 


145 


32.   POUSALODSA. 

Diez  EW.  Il'  s.  V.  mariposa.  —  Rom.  V.  180  Storm.  —  Zschr.  V  246  Baist. 

Den  Sclimetterling  nennt  der  Portugiese  borboleta,  vulgar  (wie  auch  galliziscL. 
II.  bercianisch)  barbureta  uud  balbureta,  seltner  boas-novas  (weil  die  haufigeren  hellfar- 
bigen  buuten  «  Sommervogel  »  als  Vorboten.  guter  Naclirichten  angesehen  werden; 
die  scliwarzen  gelten  hingegen  fiir  Tràger  von  Todesbotschaften,  die  gelben  sind 
Geldbrief-melder)  ;  selir  selten  mariposa.  Das  poetiseli  kliugende  jpottsaZoMsa,  welches 
Diez  mit:  setze  dich  auf  den  Grabstein!  iibersetzen  wollte,  hat  bis  haute  noch  kei- 
ner  von  ali  den  Portugiesen  gekanut,  die  icli  darnach  gefragt,  weder  Kinder  des 
Volkes,  nodi  Gebildete  von  den  oberen  Zehntansend.  An  seiner  Existenz  zweifle  ich 
nicht;  dock  ist  niir  unbekannt  wolier  Bento  Pereii-a  es  genommen.  Seiner  «  Proso- 
dia» entlelmten  es  alle  spateren  Lexikograplien.  "Walirscheinlicli  iiat  er  das,  bes- 
cliranktem  Gebiete  angehorige  Worfc  direkt  aus  dem  Volksmunde  aufgelesen.  Den 
Ursprung  desselben  glaube  ich  gefunden  zu  haben. 

Pausar  heisst  niedersitzen  und  wird  von  Vogeln  und  Insekten  oft  gebraucht. 
Die  Ubersetzung  setze  dich  die  man  pousa  gegeben ,  ist  also  die  rechte.  Lousa  ist  der 
flache  Stein,  besonders  ScMeferstein,  Schiefertafel.  Grabstein  bedeutet  das  Wort  nicht.  ' 
Eine  Bildung  pousa  a  lousa  ist  ganz  nnmoglich.  Setz  diali  auf  den  Stein  ware 
pousa  na  lousa  oder  soòre  a  lousa.  Die  W^òi'tev  p)otisa=sitznieder,  und  lotisa^=  Stein  sind 
schlechthin  ohue  jegliche  bindende  Partikel  neben  einander  gestellt  vvorden,  und 
zwar  einzig  und  allein  aus  dem  Grunde  weil  sie  reimen ,  reimen  auch  in  einem 
Verschen  welches  die  Kinderwelt  Portugals  (und  walirscheinlich  auch  gewisser 
spanischer  Gebiete)  alien  oder  einigen  summenden,  schwirrenden ,  schwebenden 
Insecten  ensgegensingt  um  sie  zur  Eulie  einzuladen. 

Dass  der  Portiigiese  Eeimformeln  oder  wie  Eeimformeln  Idingende  Wortab- 
leitungen  liebt,  versteht  sicli  eigentlich  von  selbst.  Cegarrega  (fiir  cigarra),  tengo- 
meìigo,  luscqfusco,  trouxemouxe ,  gigajoga,  antecoante,  terolero,  tiravira,  alhaspalhas, 
choldabolda,  trincolhosbiincolhos  sind  einige  wenige  Beispiele.  ""  Auch  dass  er  zu 
gewissen  oft  wiederkehreuden  Phrasen  eine  ganz  sinnlose  Eeimformel  hinzufligt, 
einzig  und  allein  aus  Freude  am  Eeimgeklingel,  ist  ein  Zug,  der  sich  in  alien  rom. 
Sprachen,  wenu  nicht  in  alien  Sprachen  iiberhaupt,  wiederfindet.  Z.  B.  zu  Bem  o 
digo  eu  fiigt  der  Redende  oder  der  Hòrende  hinzu  E'  a  Maria  d'Abreu  ;  zu  Que  é 
aquillo?,  que  é  aquillo?  ein  Sani  Joào  a  cacar  um  grillo! — Nào  é  nada,  nào  é  nada.  Sam 
Joào  a  corner  pescada.  —  Nào  é  mui{iì)to ,  nào  é  mui{iì)to.  Sam  Joào  a  corner  presunto  ! 
oder  Basta,  abasta,  Maria  da  casta.  —  Deixe  deixe,  Maria  do  peixe  etc. 


'  Ein  Schmetterliug  auf  Grabsteinen  in  Spanien  oder  Portugal?  Wer  je  einen  Kii'chliof  der  Halbinsel  betre- 
ten,  wird  ibn  daselbst  nicht  mehr  suchen. 

'  Vergi,  eira  nem  beira;  reira  e  baceira;  de  cabo  a  rabo  (altspau.  de  colodriello  a  tobiello);  sem  Milìio  nem 
vcncllho. 

19 


—  146  — 

Der  Kinderreim  uim.  um  clen  es  sicli  hier  handelt,  lautet: 

Apouxa,  ojìoìisa  oder  Pausa,  ponsa 
Maria  da  lousa.^ 

Das  Màdclien,  welches  ilm  meinem  Kleinen  vorsang,  war  aiis  S.  Joào  da 
Madeira  bei  Ovar,  und  behauptet  in  den  Dorfem  und  Stadtclieu  der  Umgegend, 
Oliveira  d'Azemeis  etc,  kenne  ilin  jedes  Kind;  auf  den  Schmetterling  liabe  sie  ihn 
nie  anwenden  lioren,  wohl  aber  auf  den  Hirschkàfer,  die  vacca  loura  oder  carócha,^ 
wenn  dieselbe  im  Finge  summend  angetroifen  werde  '  nnd ,  irre  sie  nicht ,  aneli 
auf  das  Mavienwiirmchen.  Dass  der  Kafer  der  gesnngenen  Aufforderung  stets 
Folge  leistet,  niedersitzt  und  schweigt,  versteht  sich  von  selbst.  Dass  man  denselben 
Vers  anderwàrts  auf  andere  Insecten  anwendet,  wusste  meine  Gewàlirsmannin 
ubrigens;  dass  mit  demselben  auch  das  beliebteste,  verbreifcetste  und  augenfàlligste 
aller  Insekten,  der  bunte  Sckmetterling ,  zur  Euhe  eingeladen  "wird,  ist  meine  Ver- 
mutung,  welcke  die  emsigen  port.  und  span.  Folkloristen  koffentlich  bald  bestati- 
gen  werden. 

Meine  Meiunug  besckritnkt  sick  nnn  uickt  darauf  poiisa  lousa  aus  jenem 
Kinderreim  kerzuleiten;  auck  mariposa  soli  gleicken  Ursprnngs  sein;  und  existirte 
Marilousa,  ick  wurde  nickt  ansteken,  auck  diese  dritte  Form  darin  gegriindet 
zu  seken. 

Mariposa  (ein  gutes  altspan.  Wort  das  z.  B.  Juau  Manuel,  Obras  248  kennt) 
worin  ick  ricktig,  wie  Storm,  den  Namen  Maria  und  den  Imperativ  posa  vermutete, 
ward  somit  nickt  erst  aus  altem  man  y  posa  umgedeutet ,  wie  ick  annakm.  Das 
sardiniscke  maniposa  muss  vielmekr  eine  jùngere  Volksetymologie  sein. 

Den  Namen  Maria  ftikren  iibrigens  weder  im  Port.  nock  im  Span.  Schmetter- 
ling und  Hirschkàfer  ;  in  Portugal  ist  nickt  einmal  das  Marienwiirmcken ,  das  Son- 
nenkafercken,  der  Mutter  Gottes  geweilit:  es  keisst  Joanninha  (gali,  jedock  Mariquina, 
kast.  Mariquita,  kat.  Marieta).  Wolil  aber  kann  und  -wird  mit  dem  Namen  Maria  anf 
der  Halbinsel  jede  beliebige  weiblicke  Gestalt  angerufen ,  deren  Namen  man  nickt 
kennt;  '  jedes  Wesen  an  dem  eine  ckaracteristiscke  Gestalt  kervorgekoben  werden 
soli,  jede  Personificati on  von  Naturersckeinuugen. 

'  Doch  aucli  mit  geschlossencm  o  Laute  ApOsa  apusa  Maria  da  Iòsa. 

'  C'aroclia  ist  anderwàrts  ein  Name  der  barata,  unserer  Scliabe  (Schwalie).  Vgl.  Leito  de  Vasconcellos.  Trad., 
N«.  367,  370. 

■'  Die  Jugend  pflegt  den  Kiifer  Ijoim  Horn  zu  fassen,  eineu  Faden  daran  zu  befestigon,  ilin  damitpendeln  zu 

lassen  und  dazu  zu  singen: 

Zipiquéj  zipicó 

dd-ìa  mosca  no  billió , 

cai  de  cima ,  cai  de  baixo. 

Pica  pica 

na  ban'iga 

Die  Verse  sind  eine  Aufforderung  zum  Fliegon.  Weder  diosor  noch  der  obige  Reim  sind  bis  jetzt  von  dou  Folklo- 
risten gebucbt  worden.  Sie  haben  nocli  eine  Uberreiclio  NacMese  bier  zu  Lande  zu  balten. 

'  V"!.  Picara  Justina  48:  A^o  liay  hucspcd  que  no  llamc  Maria  a  loia  moza  de  mcson  und  sielio  Borao,  Dice,  de 
Vozos  Arag.  p.  199  Mari-  mariprisas,  marienredos,  mariapuros. 


—  147  — 

Nichi  nm*  class  jeder  Mamiol  seine  Maria  hat  wie  bei  uns  jeder  Ilansi  seine 
Liese,  das  Volk  kennt  ferner  eine  Maria  das  pernas  compridas  oder  de  bons  pés  :=  deu 
Regen;  eine  Maria  Parda  als  Trinkerin;  q\\\q  Maria  da  manta,'  eine  verkappte  mit 
der  hassiichen  altiDort.  ca/m  verhiillte  Frauengestalt,  ein  Schreckgespenst;  eine 
Maria  Marcella,  eine  mythisclie  Figur,  ùber  die  ich  nichts  nalieres  weiss;  eine  Mana 
Gou-Gou,  desgleichen;  eine  Mari  Castanhas,  die  Verkòrperung  der  fernsten  Vergan- 
genlieit.  In  Spauien  haben  wir  dieselbe  Maricastahas ,  haben  dieselbe  marimanta 
uud  ferner  eine  marimoreiia  mariperez  maritornes  marizapalos  marisahidilla  marima- 
ricas  (Justina  193)  manforzada  (ib.  194),  eine  Marifea,  Mariangel,  Mariseca,  Mari- 
corta,  Mavimanclia,  Marinstiena  (Luis  Milan,  Cortesano  p.  13,  254,  236,  334,  876, 
388);  eine  marica  =  Elster,  eine  Marinica  del  cascajal  (Kieselstein)  etc.  "  Bei  fast 
alien  abergliiubischen  Branchen  der  Sankt-Johaunisnacht  muss  die  Handelnde 
eine  Jungfrau  uud  Maria  sein.  Drei  Sterne  fiilireu  den  Namen  o.y  tres  Marias. 
Tres  e  tria  disse  Marta  a  Maria  und  dergleichen  mehr. — Ein  altes  Wort  mit  der 
Bedeutung  «  Schmetterling  »  kann  ich  in  ^osa  nicht  finden  ;  den  Ursprung  von 
lousa  suche  icli  wie  Mahn  im  Celtischen.  ^ 


33.    QUEEA    QtJEHADO. 

Borao,  Voces  Arag.  p.  225:  «  quera=carcoma,  querar  =  car corner.  »  Wohl  aus 
caira  fiir  caria  an  Stelle  von  lat.  caries.''  Caria  fiir  caries,  wie  rabia  fiir  rabies,  satiia 
fur  sanies.  S.  ob.  Eiva  N°.  17. 


34.  QuExiGO. 

Diez  II"':  «  Quexigo  grline  Eiche;  nicht  aus  quercus  abgeleitet,  da  dem  Spanier 
keiu  Suffix  igo  zu  Gebote  steht.  » 

Ist  das  vermeintliche  Fehlen  des  Suffixes  Igo  der  einzige  Gl-rund ,  welcher  daran 
hindert,  quex{igo)  von  quercus  oder  richtiger  von  einem  Thenia  querci  abzuleiten, 
d.  h.  bleibt  die  Mògliclikeit  des  Eutstehens  von  quex  aus  quess  fùr  qiierc  unange- 
fochten  —  was  mieli  Wunder  nehmen  solite  —  so  kann  ich  die  Etymologie  quexigo 
von  querc{i\us  ziemlich  sicher  stellen. 

Vorausschicken  muss  ich  dass  man  sich  im  Allgemeinen  der  Annahme  viel  zu 
schroff  und  spròde  gegenliberstellt  als  konnten  Worter  westlichen  Ursprungs  in  den 
kast.   Sprachschatz  u.   in  die  Schriftsprache   des  span.  Volkes   Aufnalime  gefunden 


'  Das  kast.  marimanta  gebrauolit  Quevedo  im  Sinne  von  «  alte  .Tnngfer.  »  (Poesias,  p.  154,  cfr.  p.  a-JS).  Diese 
Stelle  (quedarnn  por  marimaiitas  y  a  tu  ìiiz  por  mariposa)  ist  interessant,  weil  sie  zeigt  dass  3fari  in  marimanta  nnd 
mariposa  im  Bewusstein  des  Dichters  ein  und  dasselbe  bedeuteten. 

'  Von  Pflanzen  nnd  Tiernamen  zu  scliweigen  in  denen  Maria  und  Maìi  hUxiiìg  sind. 

°  Die  jungsthin  von  Baist  vergesclilagene  Erkliirung  aus  laxa  befriedigt  nicht. 

*  Ist  caries  iiberhaiipt  einmal  in  die  romanische  Volksprache  iibergegangen,  so  diirfte  ancb  fiir  das  kast. 
carcomer,  welches  ich  friiher  bebandelte  (.Jabrb.  XIII,  zu  Diez  ni>i  ,  eine  neue  dritte  Dentung  aus  carie  comedere  in 
Betraclit  gezogen  werden. 


—  148  — 

haben.  Als  ob  in  Spanien  sicli  niclifc  wie  allerwarts  die  Seliriftsprache  je  nach  dem 
Heimatorte  der  verschiedenen  Schriftsteller ,  mundartlicli  farbte ,  wenn  aucli  nodi 
so  leise!  Als  ob  die  kast.  Spraclie  nicht  aus  dem  Wortschatz  der  Volksmundarten 
geschopt  hatte  ;  als  ob  nicht  manclies  leonesische ,  asturische,  aragonesische,  andalu- 
sische  Wort  Heimatrecht  in  ihr  gefunden.  Warum  nun  gerade  kein  portugiesisck- 
gallizisclies  ?  Hat  man  vergessen  wie  eng  der  Znsammenhang  beider  Staaten  bis 
1640  gewesen?  Und  solite  eine  Periode  wie  die  der  alten  galliziscben  Troubadour- 
poesie  voriibergegangen  sein  okne  in  der  Sprache  irgend  welche  Spur  zurùckzulas- 
sen?  '  Wie  mrgo,  wie  sarao,  wie  chero,  wie  broa  saudade  huir  vigiar  etc,  balte  icli  auch 
quexifjo  fiir  ein  port.  "Wort. 

Denn  der  mit  diesem  Namen  benannte  Baiim  ist  eine  portugiesisclie  Eiclienart, 
quercus  lusitanlca  (v.  Colmeiro),  eine  kleine  kurzstiimmige  Sorte  ;  wo  eine  Sache  hei- 
misch  ist,  pflegt  aber  aneli  das  Wort  zu  Hause  zu  sein,  welclies  sie  benennt;  und 
was  wesentlioli  ist,  das  Suffix  Igo,  welclies  in  dem  Worte  steckt,  ist  ein  j^ortugiesi- 
schfis,  wie  ich  gleich  zeigen  werde.  Von  Wichtigkeit  ist  auch'dass  eine  andare  Ablei- 
tung  vom  lat.  quercus,  dass  cerquinho  in  carvalho  cerquinho,  gleichfalls  dem  Westen 
angehort,  der  liberaus  reicb.  an  Eiclienarten  ist,  die  alle  ihren  besondereii  Namen 
haben. 

Ich  wiederhole  dass  mir  nicht  ganz  klar  ist,  warum  aus  quercL...  nicht  querc, 
sondern  queix  qnex  ward  (der  Grallizier  sagt  qiudxigo).  Gesetzt  aber,  es  sei  entstan- 
den,  so  konute  das  Simplex  nicht  geniigen  weil  es  mit  drei  anderen  gleichlautenden, 
doch  vòllig  verschiedenen  Stàmmen  zusammengefallen  ware.  Erstens  mit  quexo  = 
Klage  (altsp.  fllr  modernes  quexa,  port.  queìxd),  von  quaestium;  zweitens  mit 
g'!tea:;o(aspan.)  qiieixo  (port.)  =  Kinnlade,  (aspan.  auch  quexada,  neusp.  quijada)  aus 
capsus;  drittens  mit  quexo  (aspan.)  queijo  (port.),  neusp.  (2«e.90  =  A'asc,  aus  caseus.  Ge- 
nùgte  das  Simplex  nicht,  so  war  Erweiterung  desselben  durch  Diminutivsylbeu 
leicht  an  die  Hand  gegeben:  wie  man  ovicula  und  nicht  ovis,  apicida  und  nicht 
apla,  auricida  und  nicht  auris  sagte,  so  konute  man  auf  hispaniscliem  Boden  sehr 
wohl  quercicida  brauchen.  Aus  ovicida  apicida  auricida  ward  freilich  ovelha  abelha 
orelha,  span.  oveja  abeja  oreja;  aber  aus  lat.  -iculum  ward  in  Portugal  auch  igoo  igo. 
Und  so  gut  wie  lìericulum  perigoo  jjerigo  ward,  articidum  aHìgoo  artigo,  aus  umb{{li)- 
culum  timhigo,  konnte  querciculum  (durch  quessicidum  queixigoo)  quexigo,  und  hesticidum 
(von  bestia)  vestigo  *  werden.  Nach  Analogie  dieser  Formen  konnten  Neubildungen 
in  Igo  entstehen  und  entstanden  tatsilchlich ,  was  um  so  leichter  war  als  eine  En- 
dung  igo  dem  Hispanier  auch  aus   amigo  enemigo  mendigo  postigo   entgegentònte.  ' 


'  Man  vergisst  oft  auch  —  beim  Etymologisiron  wenigstens  —  dass  der  gomeinsaraen  Vorwandtscliaftszuge 
welche  den  altspan.  und  den  altport.  Mondarteli  auhaften ,  viel  mehr  waren  als  hente  zwisohen  der  kast.  und  der 
port.  Schriftsprache  bestehon.  Der  Zusammenliang  zwisohen  port.  gali,  tmd  asturisch  u.  loonesisch  ist  ein  viel  in- 
nigerer  als  man  gemoinhin  glaubt. 

■  Siche  nnten  N°.  4S  vestigio  und  oben  Cernirlo  N".  13,  zwei  Artikel  aus  denen  orhellt  dass  port.  (170  alt  iijoo,  aus 
lat.  iciilum,  dem  Itast.  ij)lo  ontsprioht. 

"  Igo  auch  im  aspan.  pdcigo  (Berceo,  Mil.  240}  fùr  pdizgo  pcUtzco^  Ein  ganz  andores,  durch  Einfiigung  von 
hiatustilgendem  g,  aus  io  entstandones  7.70  Itennt  das  asturische,  welches  die  3ps.  sing.  perf.  der  Verben  3  Couj. 
statt  in  io  in  Igo  bildet  :  Vigo  scntigo  eto.  —  Man  vergi,  vulg.  port.  /atiga  fiìrfatia. 


—  149  — 

Dass  es  sich  in  beideu  Reilieu  nm  ursprimglich  ganz  verscliiedene  Sufìixe  handelt, 
weiss  und  empfindet  das  Volk  eben  niclifc.  Die  mir  bekannten  Noubildungen ,  zu 
denen  man  meinethalben  auch  qnexigo  und  vestigo  rechnen  mag,  sinà  jazitjo  =:  Be- 
grdbnisstiitte,'  pascigo=Weideplatz^  tapigo  =  Hecke  Zcmn,  hodigo  ^:  Brodòrocken  und 
Kuchen,'  rahigo  adj.=  scJiioanzelnd  und  geschtocinzt.^ 

Jazigo  '  hodigo  und  unser  quexigo  sind  westwàrts  oder  von  Nordwesteu  nach  Ka- 
stilien  binilbergewandert.  Besonders  in  der  Gegend  von  Avila  und  Cadalso  fiilirten 
ehedeui  Eiclieuwaldstrecken ,  mit  ergiebiger  Biirenjagd,  Nanien  wie  Quexigar 
Qiiexigoso    Quexigosillo.  Cfr.  Monteria  120,  120,  161.  ' 

35.  E.ELHA. 

Diez  EW  I:  «  Relìm  pg.  pr.,  raille  altf'r.  ;  reja  S]).;  jjflugscJiar;  von  rcgulti  ^lattei  » 
—  Wolil  kaum;  die  Begriffsentwiokelung  stort  und  port.  regoa  re</ra,  sp.  regla^  etc, 
widersprechen.  —  Warum  niclit  von  lat.  rallia^  rnllium*  fiir  ralla  rallum,  welclies 
ja  PJiugschar  bedeutet?  —  Fiir  Ausdriicke,  welche  der  Ackerwirtschaft  angeho- 
ren,  sind  die  Spanier  dem  Kòmer  meist  direkt  zu  Dank  verpfiiclitefc. 

36.  Sakdeu  sandìo. 

Man  kann  das  port.  span.  Wort  mit  seinen  Ableitungen  sandece  samlice,  sande- 
cer  eììsandecer,  sandejar  (port.)  °  auifassen  entweder  als  bestehend  aus  einem  Stararne 
sand  und  dem  Sufìixe  io{eu)  {inacio ,  nadio  sadiu  — •  judeu)  oder  als  ein  Compositum 
von  san  und  deu^  dìo.  "Welche  Auffassung  der  Wahrheit  entspriclLt.  wage  icli  nicht 
zu  entscheiden:  die  Acten  ùber  das  Alter,  die  ursprtìngliclie  Bedeutung  und 
Verwendung  und  damit  iiber  den  Ursprung  des  Wortes  sind  noch  nicht  geschlossen. 
Bis  beute  ist  meines  Wissens  nur  ein  ernster  Versuch  ■  gemacht  worden  sandéu  zu 
deuten,  ein  sehr  ansprechender  Versuch,  und  zwar  von  Diez  selbst  (EW.  II'')  unter- 
nommen,  und  neuerdings  von  Baist  Zschr.  VII  p.  633  gutgeheissen. 


'.  Neben  jazigo  und  pascigo  bestanden  im  Altport.  die  niinmebr  erstorbenen  Formen  i«s!(!o  una  pascido.  Ich 
glanbe  nicht  dass  sie  selbstandige ,  von  den  iibliclieren  unabhangige  Bildungen  sind.  Vielmehr  fasse  ich  sie  so  ani 
als  ob  das  Bestreben ,  das  immerhin  Beitene  Sufflx  ìgo  dui'ch  das  nngleich  brauchliohere  ido  zu  ersetzen  sie  ins 
Leben  gerufen;  ein  Leben  von  kiirzer  Daner.  Man  vgl.  scnzido  N^.  38.  Cfr.  aport.  taiìjuda  neben  tanjuga. 

'  Altspan.,  Fita  USO.  Gaìlofas  e  bodigos  lieva  y  condesados. 

^  TH&fonniga  rabiga  spielt  in  einem  port.  Vollksmahrchen  cine  Eolie.  Coelho,  Conto  N°.  IH. 

'  Da  neben  altspan.  yacigo  auch  yaclja  besteht  (Zschr.  I  2i'2),  im  Altport.  aber  jazigoo  vorkommt,  darf  auf 
eine  (3rvujiàiorm.jacicHlum  geschlossen  werden. 

'■  Ich  habe  mir  die  Form  cair.igo  fiir  queixigo  als  der  alten  Landsohaft  Ribagorza  angehorig  notirt,  doch 
ohne  QueUenangabe,  weshalb  icU  sie  unberiicksiohtigt  lasse.  —  oi  fiir  ei,  eine  im  Port.  haufige  Erscheinnng, 
ist  auch  auf  span.  Boden  zu  finden,  freilioh  nur  in  Fiillen,  in  denen  ei  (an  Stelle  von  zu  erwartendem  kast  e)  auf 
westliche  Beeinflussung  schliessen  liisst.  Man  denke  an  taimado  fiir  teimado  temado ,  von  thema. 

'  G.  V.  I  264. 

'  Dmstellnng  aus  einem  Part.  aanido  von  sanir  fiir  insanir  wird  Niemand  ernstlich  befiii'worten,  um  so  weni- 
ger  als  man  die  Etymologie  saTìa  aus  insania  neuerdings  aufgegebén.  Herkunft  aus  «««72a  =  Zahnefletschen,  welche 
Diez  gleichfalls  fragend  erwahnt  und  die,  wenn  ich  nicht  irro,  bereits  im  «  Dialogo  de  las  Lenguas  >  vermutet 
warde,  ist  ebenso  imwahrscheinlich. 


—  150  — 

Diez  siehfc  iu  sainUo  ein  Compositum  sancte  deus,  und  meiut,  derjenige  welclier 
dieseu  Ausruf  gar  zu  oft  im  Munde  gefùhrfc,  sei  sandeu  (p.)  samlio  (sp.)  genannt 
worden.  Besticht  auf  den  ersten  Blick!  Denkt  man  aber  etwas  scharfer  nach,  so 
stellen  sich  gewisse  Bedenken  ein.  Ziigegeben  dass  wer  ùber  alles  staunt,  ein 
Dummkopf,  meiuethalben  auch  ein  Narr  ist,  nach  dem  Grundsatz  nihil  admirari,  so 
glaube  ich  doch  dass  in  einem  Lande,  wo  das  Sich-bekreuzen ,  das  Anrufen  Grottes 
nnd  aller  HeiLigen  bei  dem  geringsten  Gegenstande  des  Staunens,  so  sehr  an  dar 
Tagesordnung  ist  wie  in  Spanien  und  Portugal,  das  Uebermass  davon  kaiim  als 
ein  Zeiclien  von  Narrheit  angesehen  werden  mirde,  eker  vielleicht  als  ein  Zeichen 
von  Fròmmelei  und  Scheinheiligkeit.  Ist  der  Gedanke  im  Grande  richtig,  so  wilre 
san{cte)dei(,  elier  derjenige,  ob  dessen  Dummheit  das  Volk  mit  einem  kraftigen 
santo  deus!  die  Hàude  iiber  dem  Kopfe  zusammenschlagt,  gerade  so  wie  ein 
Aijesus!  aijesusinho!  der  Liebling  des  Volkes  ist ,  iiber  dessen  Schònheit,  Klug- 
lieit  nnd  Liebenswiirdigkeit  es  sick  vor  Verwunderung  nicht  zu  fassen  weiss.  Was 
aber  besonders  gegen  die  Etymologie  spricht ,  ist  dass  die  aitaste  Form  des  Wortes 
—  im  Fuero  Juzgo  und  bei  Berceo ,  Mil.  646  —  nicht  sandio  sondern  sendiu  lautet. 

Obwohl  ich  ein  eutsprechendes  altport.  sendeu  oder  semdeti  noch  nicht  aufge- 
funden  habe,  glaube  ich  doch  dass  man  von  der  Form  mit  e  ausgehen  muss,  da 
der  Ubargang  von  semdiu  zu  sandio,  bei  der  bekannten  Vorliebe  des  Romanischen 
fiir  a  statt  e  in  protonischer  Anfangssilbe ,  wahrscheinlicher  ist,  als  der  umgekehrte, 
noch  dazu  die  Badentung  verdunkelnde  von  sandio  zu  sendio. 

Betrachtete  man  den  Einfaltigen,  den  Geistlosen  und  den  Geisteskranken  vielleicht 
alseinen  Gottverlassenen und  nannte  ihn  ainen  Ohne-Gott,  sen-diu,  sem-deu*?  Formeln 
wie  sem  deus  e  seni  dereito ,  setn  deus  e  seni  razào  waren  und  sind  viel  gebrauchte.  Ein 
altes  Baispial  steht  in  den  Livr.  de  Linh.  p.  268.  Volkstiimliche  Zusammensetzun- 
gen  mit  lat.  sine  bieten  alle  Romanischen  Sprache  und  Mundarten.  Der  Spanier 
kennt  sinjin  sinigual  shijusticia  sinnumero  sinrazon  sinsabor,  asp.  auch  sinsaber,  der 
Portugiese  semfim  semnumero  semrazào  semsahor  semsahorào  senisal  senipar  semsegundo 
semnome  semceremonia  etc.  Und  Span.  sen  fìir  sin  ist  iu  der  alten  Sprache  ganz 
gewòhnlich  (s.  z.  B.  Alex.  840.  B18),  im  Port.  sem  von  jeher  die  einzig  iibliche 
Form.  San  fiir  sen  in  tonloser  Sylbe  ist  wie  gesagt  jadenfalls  moglich;  es  sei  auch 
an  it.  sanza,  frz.  sans  erinnert. 

Sandeu  scheiut  bereits  in  den  Livros  de  Linh.  und  im  Cane,  da  Vat.  die  aus- 
schliesslich  angewandte  Form  zu  seiu;  ihre  Bedeutung  stets  narriseli;  besonders 
hàufig  ist  die  Verbindung  lonco  e  sandeu ,  auch  span.  loco  y  sandio  und  necio  sandio; 
in  der  stereotypen  Formel  morreo  sandeo  e  seni  semel  kònnte  es  einen  etwas 
abweichenden  Sinn  tragen  (Linh.  p.  195,  205,  260  und  oft). 

Ich  selbst  messe  diesar  Deutung  nur  den  Wert  einer  Hypothese  bei,  und  ver- 
suche  personlich  noch  weitere  zwei  Erklàrungsvorsuche ,  oline  von  dcnselben  be- 
friedigt  zu  sein. 

Sandeu  port.  (doch  auch  von  Spaniern  iu  der  gallizischcn  Liederpoesie  gebraucht, 
sandeo  z.  B.  im  Cane,  de  Baena,  I,  31)  kliugt,  wie  Diez  bereits  heworgehoben,  auf- 


—  151  — 

fàllig  mit  seiuem  suffixartigen  -eii.  aii  jadeu  (pori.  u.  altspan.)  an ,  (nensp.  jndio  wie 
sandki;  \>oxt.  sandcu  sandia,  wie  judeo  jad/'a);  fiilirt  also  auf  lat.  -ams.  —  Buy  da 
Saade  nun  war  ein  altport.  dem  13ten  oder  ].4ten(?)  Jahrhundert  angehòriger  «  Lie- 
besuarr,  Liebeswahnsinniger  »  (doudo  de  amor),  der  noch  im  IGten  Jahrhundert 
sprichwòrtlich  genaunt  ward.'  Von  ihm  sprechen  unter  anderen  Francisco  de  Moraes, 
Dial.  p.  17  aqid  nào  chega  Raij  de  Hande;  Camòes,  Filodemo  p.  30  Com  essas  finezas 
de  iianiovado  mmca  chegareis  onde  chegoic  Riuj  de  Samle;  Jorge  Ferreira  de  Vascon- 
cellos  Eufrosina  p.  190  aqui  nào  chegou  Ruy  de  Scinde;  id.,  Ulys.  p.  224  dasselbe. 
A.ndere  uennen  ihn  als  Geistesbruder  des  Macias.  Stammt  er  aus  Zeiten  die  vor 
die  Siete  Partidas,  das  Fuero  Juzgo  etc.  falleri,  so  batte  man  den  welcher  vor 
Liebe  den  Verstand  verloren  —  was  in  Portugal  ja  nicht  selten  geschehen  —  einen 
SaudcBus  ■■=  scmdeu  nennen  kònnen,  im  Gedanken  an  die  vielen  in  a'.m  endenden 
Volksnamen  wie  fariseo  philisteo  judeo  hebreo  ccddeo  etc.  —  Ein  Einfall  der  angesichts 
des  altsp.  sendiu  nicht  Stich  hàlt. 

Noch  weniger  Wahrscheinlichkeit  hat  fiir  sich  dass  sp.  sandin  sendiu  mit  sandia^= 
Wassermelone  etwas  zu  tun  hat.  Scmdia,  auch  sandria  und  sendria  sendria  acendria.,  kat. 
cindria,  sùidria  —  die  kast.  und  kat.  Nameu  der  port.  melancia  —  hàtten  um  ihrer  wàs- 
serigen  unsubstantiellen  Beschaifenheit  wegen,  wohl  ein  Epitheton  fiir  saft-  und 
kraftlose  Menschen  hergeben  kounen.  Nennt  doch  der  Portugiese  eine  schlaffe 
weichliche  schlafmiitzige  Person  banana  und  eine  gedunseue  phlegmatische  ahohora 
(Klirbis).  Ehe  man  jedoch  zu  diesem  Vergleich  zwischen  sandio  Narr  und  sandia 
Wassermelone  schritte,  musste  man  ùber  die  Herkuuft  des  letzeren  Wortes  etwas 
genaueres  wissen.  ° 

Gii  Vicente ,  III ,  250 ,  kennt  ein  Wort  snndia  "  dass  sich  soust  iiirgends  findet. 
Ob  es  mehr  als  ein  Druckfehler,  ob  es  eine  Nebeuform  von  sandia  sendia  ist? 


'  Im  Cane,  general  (1557)  findet  sioh  auf  il.  89  das  Gedicht  eines  Portugiesen  Antonio  do  Velasco,  betitelt: 
....  tcslamanlo  que  hlzo  ere  nombre  de  un  portugiiéa  ìlamado  Buy  de  Sonde.  Mir  ist  niclit  Mar  ob  das  burleske  Te- 
stament  zum  Scherzo  im  Namen  eines  liingst  Verstorbenen,  in  der  Erinnerung  der  Nacbkommen  aber  Lebendigen 
verfasst  ward,  oder  ob  Velasco  und  Sande  Zeitgenossen,  Angehorige  des  loten  .Jahrhunderta  sind.  [Cane.  gen. 
ed.  1883  voi.  II  N°.  207].  Ein  Euy  de  Sande  war  um  1480  Gesandtschaftsecretair  am  Hofo  der  katholischen  Konige 
(Sousa,  Hist.  Geneal.  IH  p.  1D4).  Sande,  ist  ein  port.  Stadtolien  (Beira;  imweit  von  Lamego).  Alfons  VI  scliuf  das 
Marqoisat  Sande. 

'  Wie  populàr  sandcu  im  Port.  war  beweist  die  grosse  Keihe  von  Spricliwòrtern  welclie  dem  <  Narren  > 
gewidmet  sind: 

O  sandeu  trata  do  alheo,  doixando  o  seu. 

Quem  pedo  ser  todo  seu,  em  ser  d'outrem  he  sandcu. 

Mais  sabe  o  sandeii  (<  o  telo  »,  oder  «  o  ignorante  ■)  no  seu  quo  o  sesudo  no  alheo. 

Muito  pode  o  sandeu,  mas  mais  o  he  quem  Ihe  dà  o  seu. 

Espada  na  mSo  do  sandeu,  perigo  de  quem  Iha  deu. 

Quando  o  sandeu  se  perdeu,  o  sisudo  aviso  colheu. 

Donde  o  sandeu  so  perdeu,  o  bom  siso  aviso  colheu. 

Quem  de  sandìce  adoece,  tarde  ou  nunca  guarece. 
Sandicc  crasnia^àa,s  <  Lob  der  Narrheit  »  des  Erasmiis. 
^  E  teu  pae  he  tao  cniel 

e  tua  mae  tao  sundia^^  semsaborona. 


—  1-52 


37.  Saeau  Serào. 

Sarau  sarao  bedeutet  im  heutigen  Leben  Portugals  etwelche  AbendunterhaUung , 
besonclers  aber  ein  nachtliches  Fest ,  dessen  Hauptvergnugen  im  Tanze  besteht.  Pas- 
satempo nocturìio,  funccào;  halle  nocturno  entre  pessoas  nohres.  Der  tibliche  Plural 
lautet  saraus;   das  Wort  folgt   also    der  Analogie   von  mau  pau  vau  nau  degrau. 

Serào  —  in  alter  Schreibung  seram  '  —  bezeichnet  die  Abendzeit  besonders  die 
langen  Wintermichte  iind  vor  allem.  die  in  denselhen  nacli  Sonnemmtergang  verricMete 
Arheit.^0  tempo  desde  a  bocca  da  noite  até  ds  10  lioras;  o  traballio  que  se  faz  depois 
do  sol  posto  ;  tarefa  nocturna  das  criadas,  nas  primeiras  tres  lioras  da  noite,  comecando 
do  lìrincipio  do  mez  de  Outubro  até  o  Entrudo  ou  Paschoa  ;  traballio  nocturno.  Die  ubliche 
Pluralform  isfc  seròes,  nach  Analogie  der  ùbergrossen  Schaar  derjenigen  "Worter  in 
ào,  welche  auf  lat.  onem  znrilckweisen,  oder  aiaf  port.  Boden  selbstandig  dnrch  dies 
zum  Augmentativsuffixe  gewordene  on  vergròssert  wurden  {verào  von  ver)  iind  vie- 
ler  anderer  von  nicht  lat.  Herkunft.  (Cfr.  N'^.  2  AtgAPÀo  u.  N".  3  Alinhavào.) 

Bedeutung,  Verwendiing,  iind  Flexion  beider  Worte  sind  also  liente  durchaus 
verschiedene.  Solite  das  friiher  uiclit  anders  gewesen  sein?  mnss  man  sich  jedoch 
fragen,  da  ein  Beruhruugspunkt  zwischen  beiden  vorhanden  ist,  das  ndclit- 
liclie.  Ob  sich  als  urspriingiicher  Sinu  beider  "Worte  nicht  Naclitzeit,  ndchtliche  Be- 
schdftigung  ergeben  wiirde?  d.  h.  ob  nicht  in  sarao  und  serào  ein  und  derselbe  Stamm 
steckt  welcher  Ahend  bedeutet.  Dass  e  vor  r  geme  in  tonloser  Sylbe  zu  a  wird, 
beweisen  iins  ja  port.  sarrnr  sarralli/iiro  Thareza  Tareija  libardade  misaravel  impa- 
rador,  etc.  etc. 

Und  tatsachlich  war  das  Verhaltniss  friiher  ein  anderes.  Was  beute  Scheideform 
ist,  war  ehedem  Doppelform.  Beliebig  liess  man  die  Formen  in  «o  mit  denen  in  ào 
wechseln:  sowohl  sarao  serao  (denn  serao  existìrt)  als  serào  sardo  (denn  auch  sardo 
kommt  vor)  konnten  ein  lùìfisclies  Ball/est,  cine  Hofgesellschaft  benennen.  Und  alle 
vier  Formen  bedeuteten  urspriinglich  Abend  Abendzeit;  dann  ndchtliche  Besclidftigtmg , 
ani  spàten  Abend  ausgeubte  Tàtigkeit ,  gleichviel  ob  diese  nun  Arbeit  oder  Vergnll- 
gen  war  —  zwei  Begriffe ,  zwischen  denen  ja  iiberhaupt  eine  recht  bewegliche 
Grrenzscheide  steht.  "  Die  Scheidung  zwischen  sarao  und  serào  ist  erst  im  Laufe  des 
17'"'  Jahrhunderts  eingetreten.  Was  mancher  beute  als  sej-òes  litterarios:=litter arisene 
Abendarbeiten,  auffasst,  beurteilt  ein  anderer  als  saraus  litterarios=litterarisclte  Abend- 
nnterhaltungen. 

Aeltere  portugiesische  Lexikographen  haben  in  ihren  "Wórterbiichern  sarao 
und  serào  zu  deuten  versucht,  deren  Einheit,  was  den  Stamm,  das  Etymon  be- 
trifft,  ihnen  mehr  oder  woniger  warscheinlich  schien.  Der  eine   schlug   ein   hebrà- 


'  Im  Cane,  da  Vat.,  Cane,  de  Bos.,  etc. 

'  Zahlreiclie  SteUen  aus  Resendo,  S»  do  Jliranda,  Barros,  Bemardes,  Nrnies  do  LoSo  etc.  beweisen  os  zuv 
Geniige.  Abend  bedeutet  aerào  z.  B.  iu  Sa  de  Miranda  107,  277  i  alto  o  serào:  «  es  ist  spat  am  Abend.  »  Scrùcs  und 
seraos  im  Sinno  cines  h'Ofiachen  Festea  benutzt  obondorsolbe  JDichter  109,  127. 


—  153  — 

isches  Etymon  si/r  vor,  der  andere  ein  persisches  xire,  der  dritto  ein  arabisches  sar- 
hoiiz^  vigilia;  wieder  andere,  niinder  orieutalisch  angehaiichte,  glanbten  ini  afrz. 
serée,  oder  im  neufz.  soirée,  oder  im  ital.  sera,  oder  im  lat.  seruni  das  Vorbild  gefnn- 
den  zu  haben.  Die  letzeren  haben  RecKt.  IJber  die  Art  und  Weise  der  Ableitung, 
ùber  das  Suffix,  sucht  man  bei  ihnen  natilrlich  umsonst  nahere  Aiiskunft.  —  Diez 
erwahnt  die  Worte  gar  nicht;  ebensowenig  Coelho. 

Ich  naunte  sarao  und  serào  bereits  oben  ein  Scheidepaar.  Um  dies  zu  bewahrhei- 
ten  muss  icli  erweisen  dass  ao  und  ào  ein  und  dasselbo  Suffix  sind,  was  leicht  ge- 
lingen  wird.  Nur  wenn  man  serào  seròes  und  saran  saraus  getrennt  betrachtet,  ma- 
chen  sie  Schwierigkeiten  iind  filgen  sich  nicht  in  ein  e  Musterform.  In  ào-òes  sucht 
man  dann  o-onis,  d.  h.  ein  Augmentativ,  sevo  seronis;  und  aus  sarau  weiss  man 
uichts  zu  machen,  da  wohl  Worte  in  au  vorhanden  sind,  ein  Suffix  au  mit  schòpfe- 
rischer  Lebenskraft,  das  also  als  Suffijx  empfunden  wiirde,  aber  nicht.  Selbst  fllr 
viele  Portugiesen  hat  sarau  fremdartigen  Klang,  maurische  Farbung. 

Das  Nebeneinander  von  au  und  ào,  gerade  klart  auf — mit  einem  Schlage  und 
mit  unfehlbarer  Sicherheit.  Das  Suffix  welches  an  lat.  serum  gefiigt  ward,  ist  das 
echt  lat.  in  alle  rom.  Sprachen  iibergegangene  anus.  "Wie  der  Portugiese  das  kurz- 
stammige  ver  zu  verano  machte,  so  ser..,  zu  serano;  ano  aber  konnte  ebeuso  gut  ào 
wie  ao  werden,  und  zu  den  beiden  Vertretern  des  Suffixes,  gelehrtem  ano  und  volks- 
tiimKchem  ào,  mkss  als  dritter,  vereinzelter ,  impotenter,  die  nur  im  archaischen 
Port. ,  im  Volksmunde  und  in  den  Norddialekten  [Minho  iind  Gallizien]  erhaltene 
Bildung  ao  gefiigt  werden. 

Hier  einige  Beispiele.  1°  Aus  enanus  =  Zwerg  ward  einerseits  das  schriftmàssige 
anào,  andererseits  ein  populaires  anao^^Knirps,  dessen  heutiger  Vertreter  anaio  heisst  ; 
und  drittens  ein  beute  veraltetes  nano  in  paro  nano  =  Zioerghirne.  2°  Germanus  ward 
irmào;  dass  jedoch  nicht  allerwarts  Nasalisatiou  eintrat,  beweist  das  mirandesische 
armano  und  stiirker  noch  (denn  im  Mir.  konnte  man  span.  Einfluss  vermuten)  das 
veraltete  port.  irmao,  welches  Sa  de  Miranda  116,  417  aufweist,  im  Versausgang 
als  E,eim  zu  mau,  (malus).  3°  Neben  argào  existii't  gleichberechtigt  argao,  zwei  For- 
men,  die,  wenn  nicht  in  Wahrheit,  so  doch  im  Volksbewusstsein  auf  organmn  zu- 
riickweisen.  4°  Neben  quartào  steht  quartati  ;  neben  rahào  rahano  und  rabao.  Doch 
welter!  der  Gallizier  stellt  beute  noch  irmau  neben  irman;  tahau  neben  taban 
{tabanus);  vrau  neben  bran  vran  [veranus);  chati  neben  chan  (planus);  Cibrau  neben 
Cibran  {Cypr{i)anus);  ìiviau  neben  livian  {levianus)  etc,  (um  mit  Wortern  Mar 
erkennbaren  Ursprungs  zu  beginnen  in  denen  ohne  jeglichen  Zweifel  lat.  anus 
steckt).  Durch  Anlehnung  an  diese  Gebilde  entstaud  dann  auch  neben  bacallao 
z.  B.  ein  unmotivirtes  bacallan,  gleichwie  im  Port.  neben  alacrào  lacrau,  neben 
girào  girau,  neben  babau  babào.  '  Auch  im  Bercianischen  wiederholt  sich  der  gleiche 
Vorgang:  neben  cercau  steht  cercano. 


'  Das  port.  solau,  naoh  dossen  Sinn  u.  Ursijrung  vielfach  gesuclit  worclen  ist,  wird  kaiini  etwas  anderes  als 
soìanus  sein  (gali,  soao) ,  also  eine  Sclieideform  von  aiiao  {vento  sudo). 


—  154  — 

Entsclieiclend  fùr  diese  Etymologie  ist  dass  der  Gallizier  den  Ahend  noch  beute 
seran  nennt,  dock  niclit  o  seran,  sondern  weiblicli  nacL  Analogie  von  a  tarde  und  a 
manhan,  a  seran;  Murguia,  Foli.  Nov.  p.  77  u.  218.  Nebeuformen  sind  sera  und  sa- 
ran);  enfcscheidend  aucb  dass  der  Portugiese  die  Pluralform  seràos  gekannt  hat.  Siehe 
z.  B.  Cane,  de  Ees.  I  256.  467  etc: 

Là  lograe  vossos  seraos, 
vossas  damas  e  privaii9as 
cos  cortesàos; 

mas  bom  par  de  bois  iias  m  aos 
vai  seis  pares  d'esperan9as. 

Im  Kastilianischen  ist  snrao  Balìfest  ein  Lebnwort,  welcbes  dem.  port.  Sprach- 
fonds  entnommen  ward. 

Zum  Scblusse  frage  icb  nocb,  ob  das  span.  sereno  =r  Nachtivcichter ,  nebst  frz.  sc- 
rein^  neap.  serena,  it.  serenata  nicbt  doch  aiif  seranus  bindeutet,  wie  Diez  annabm? 
Bekanntlich  hat  Storm,  Rom.  V  182  dem  widersprochen.  Durchgang  von  seranus 
durcb  Frankreich,  wo  serain  zu  serein  ge-vvorden  wilre,  liesse  sicb  zur  Net  ja  annebmen. 
Eutstand  das  Wort  in  Spanien,  so  konnte  aus  einem  bypotbetisoben  seraneus  seranio 
seraiìio  sereno  geworden  sein. 

Im  asp.  ist.  sereno  die  feucJde,  ungesìiiide  Kachtluft,  ver  welcher  in  den  Jagd- 
blicbern  so  oft  naclidrllcklicb  gewarnt  wird. 

38.  Senzido. 

Altspan.  z.  B.  bei  Berceo,  Millan,  389: 

Piegò  aSant  Fagimt. ,  qncmó  una  partida, 
fue  cerca  de  la  media  de  Carrioa  ardida; 
por  poco  fuera  toda  Fromesta  consmnida  , 
Castro  entre  las  otras  non  remaso  senzkla. 
undMil.  2: 

un  prado 

Verde  o  bieu  sencidn ,  de  flores  bien  poblado. 

Im  ersten  Falle  kann  senzido  nichts  anderes  bedeuten  als  ganz,  unverschrt, 
verschont,  imhetreten;  im  zweiten  dlirfte  es  wobl  unserem  schmuck,  sauber,  tinversehrt 
gleichstehen;  eine  Wiese  aber  bleibt  schmuck  und  sauber  nur  solange  sie  von 
menschlicben  und  tierisehen  Ftissen  verschont,  also  unbetreten  bleibt. 

Das  Glossar  von  Sanchez  erldart  ganz  ungenau  und  willkurlich,  wie  so  oft,  die 
beiden  Filile  durch  adornado ,  hermoseado.  '  Wunderbar  dass  der  geborene  Spanier 
sich  nioht  des  modernen  (provinciellen?  seltenen?  volkstumlichen  ?)  Vcrtreters  des 
aspan.  senzido,  des  Wortchens  cencido  erinnert  hat,  welches;  nur  auf  Wiese  und 
Weideland  bezogen,  unhetreten,  mit  frischem.  nicht  niedergetretenem  Grase  hedeckt  be- 
deutet.  Acad.:  la  tierra,  yerha  etc.  quenoestd  hollada.  Salva:  e.  se  dit  d'un  pdturage  doni 


'  Sencido,  da.  Pareoe  adornado,  hermoseado.  Milag.  2. —  Senzido,  da.  Lo  mismo  qvio scncido,  S.  Mill.  3S0. 


—  155  — 

Vherhc  ri  est  point  foidée.  Das  unbetretene  Weideland  ist  gleichzeitig  ein  unnlifczes, 
iinbestelltes  Ackerland,  daher  cencido  deun  auch  %nangehaut,  und  mit  erweitertem 
Sinne  —  im  Gegensatze  zu  tierra  lahrada  —  die  tierra  inculta  bezeiciinet.  Die  aus 
Originalwerken  abgeleiteten  Wòrterbucher  [SeckendorfF,  Franceson  etc]  gebeu 
diesen  abgeleiteten  Sinu  duroh  Worte  wie  ode  vnlst  nicht  ganz  treffend  wieder,  und 
manche  erwahnen  leider  nur  diesen  (dem  ioli  NB.  in  Druckwerken  nocli  niclit  be- 
gegnet  bin). 

Sens-  senc-oàev  cenc-ido.  Einen  Stamm  cene-  iinde  ich.  im  kast.  cchc-gììo  wieder; 
sene-,  in  sencillo.  Cenceno  bedeutet  beute  schlank  dilnn  zart  (von  Ì/Lensoh  und  Thier), 
bedeutete 'aber  frllher  vorzugsweise  rein,  unvermischt,  umerfàlsclit,  redlich,  ohm  Fcdach, 
aufricMig,  und  vom  Brode  gesagt  mujesimert.  Sencillo  bedeutet  rein  unverfàlscht  auf- 
ricJitig,  einfidtig,  einfach.  Die  von  Diez  vorgesclilagene  Deutung  dieses  Wortes  aus 
simjilicellus  ist  abzuweisen  (wie  ioli  anderwarts  ausfilhrlich  getan.)  Es  ist  vom  port. 
siuyello  nicht  zu  trennen  und  aus  gleichbedeutendem  lat.  sùtgillus  zu  erkliiren.  Der  im 
lat.  siiicenis  u.  singulus  steckende  Stamm  (indogerm.  sania=ganz)  ist  es,  aus  dem 
ich  sene-ilio,  sing-ello,  senc-ido,  cenc-eno  ableite,  und  ferner  uoch  port.  sinc-el  sinc-elo. 
Siìic-eì-us  bedeutete  integer  =:z  ganz ,  unverletzt,  und  aufriclitig ,  oline  Falscli,  rein 
fleckenlos.  (Siete  die  mittellat.  Grlossen).  Die  Bedeutung  ganz  bewahrte  es  z.  B.  im 
altkat.  sancer  mail,  sencer.  Tirant  lo  Blanch  p.  14  lo  qual  aneli  era  fet  ah  tal  artifici 
gues  departia  pel  mig  restant  cascuna  pari  aneli  sancer.  Weitere  volkstumliche  Vertreter 
des  Wortes  sind  nicht  vorhanden  :  als  mot  savant  lebt  es  unverandert  mit  der  Be- 
deutung aufrichtig  luahrhaftig  in  alien  romanischen  Sprachen  weiter. 

Aus  sing-illus,  Diminutiv  von  sing-ulus,  entstand  zweifelsohne  das  port.  sing-eUo 
adj.  einfach  schlicM,  und  auch  sp.  sene-ilio.  Sincel  sincelo  =Eis,  gefrorener  Schnee  (prov. 
Douro ,  Villareal)  ist  dagegen  kaum  als  Scheideform  aufzufasseu.  Es  lasst  sich  besser 
aiis  sincerus  =  rein  fieckenlos  deuten ,  dessen  ero  zu  elo  el  werden  konnte. 

Im  kast.  senz-ido  nun  und  in  cenc-eno  (s.  ob.)  sencer  und  sene-ilio  ware  Suffìxver- 
tauschung  eingetreten.  Der  Ausgang  zu  derjenigen  welche  in  senz-ido  vorliegt,  konnte 
ein  laiitlicher  Process  sein.  Sencero  durfte  im  Munde  des  Spaniers  sencedo  werden;  ' 
das  in  Adjektiven  ungewohnte  Suffix  edo  aber ,  welches  im  Kreise  der  Substantive 
seinen  bestimnt  abgegrenzten  Wirkungskreis  hat,  wurde  mit  dem  Participialsuffix 
ido  vertauscht. 


39.    SOSEGAE. 

Diez  II''  und  Anhang,  nach  Rom.  V  p.  184  Storni.  —  Sosegar  ist  weder  subcequare 
noch  suhsidere  noch  suhsedicare;  das  Praefix  sìib  steckt  liberhaupt  nicht  darin.  Die 
altesten  Formen,  in  welchen  uns  das  Wort  auf  der  Halbiusel    begegnet,   im   Port. 


'  Der,  im  Grossen  und  Ganzen  nicht  liaufige  Ubergang  von  V+r-h  Fzu  V-i-di- V  liegt  vor  in  secadal  se- 
quedal  fiir  secaral;  panadizo  fixv  panaricio;  polvareda  fùr  polvarera  (Dissim.)  ;  pclarc-la  iiir  peladela  (Beimformel). 
S.  Stndien  p.  235  u.  332. 


—  156  — 

ebenso  hilufig  wie  im  Span.,  kenneu  cleri  o  Laut  der  ersten  Sylbe  niclit.  Derselbe  ist 
erst  spater  in  die  tonlose  Sylbe  eingescbmiiggelt  worden ,  in  Nachabmung  der  vielen 
Bildnngen  mit  so:=s2tb  welclie  der  Halbinsel  eigentiimlich  sind.  Dass  sub  jemals  zu 
se  geworden  wàre,  ist  niir  iinbekannt:  als  so  zo  sa  za  son  sol  zom  san  zam  sai  ist  es 
mir  begegnet;  niemals  als  se.  Hingegen  ist  ein  iirsprùngliclies  se,  das  die  erste  Stelle 
im  Wortkòrper  einnahm,  mebrfach  in  so  iimgedentet  worden,  z.  B.  im  altport. 
socrestar  fiir  sequestrar  (segar  sohcrestar  kommt  vor);  ferner  im  span-port.  sopultura 
fiir  sepoltura  tind  im  kast.  soholUr  zabulUr  fiir  sepelire. 

Die  altport.  Dokumente  kennen  nur  sessegar  und  assesseijar  assessego  assessega- 
mento  etc.  Man  sehe  z.  B.  die  von  Santa  Eosa  de  Viterbo  mitgeteilten  Stellen, 
welche  sich  verzehnfaclien  liessen.  Bis  zur  Neige  des  lo""  Jahrhunderts  hat  es 
bestanden;  im  Cane,  de  Eesende  kommt  es  noch  oft  geni;g  vor,  z.  B.  I  84  sospirar 
nunca  sessega.  I  64,  162,  256  etc.  Ebenso  ist  im  Altspan.  die  Form  {a)sessegar  die 
iiberwiegende.  Aiis  den  einschlagigen  Stellen,  von  denen  ich  einige  wenige  mitteile, 
gebt  deutlich  hervor  dass  es  urspriinglick  niedersìtzen,  sich  setzen,  sich  niederlassen, 
cine  Stellung  einnehnen,  zum  Stillstand  komnien  oder  hringen,  einsetzen  bedeutet: 

Conq.  de  Ultr.  p.  490  pues   que  tobieron  cercada  la  villa  e  la  hueste  asesetjada  fioieron 

armar  los  engennos  (=  aufgestellt). 
ib.  p.  503.  Mas  despues  que  el  rey  Amauric  hobo  eoliado  de  Egipto  à  Siracon  é 

asesegado  en  ella  à  Senar  el  Soldan  (^eingesetzt). 
ib.  p.  503.  mas  non  se  le  asesegaba  la  voluntad  de  creer  de  tod  en  todo  que  el 

Rey  le  vinia  ayudar  (=  Seiii  Sinn  war  nicht  fest  in  dem  Glauben....). 
ib.  p.  583.  E  Sal.adin  dejó  los  bien  asesegar  e  comer  e  tnmar  de  las  viandas  a. 

su  voluntad. 

Von  gesetzt  zu  rìihig  ist  nnr  ein  Schritt.  Man  sehe  Conq.  p.  493  : 

«  E  deque  el  Rey  caso  con  su  mujer,  dexó  todas  malas  costumbres....  e  fué  asesegado ,  de 
buenas  costumbres.  » 

Ein  Land  beruhigen,  Frieden  darin  hcrstellen  bedeutet  es  dann  in  iibertragenem 
Sinne,  z.  B.  p.  607,  587,  586,  581  etc;  und  spiiter  allgemein  beruhigen. 

toh.  leite  dies  sessegar,  aus  dem  wie  gesagt  sosegar  sosiego  (pg.  socego)  und  sosegar 
somegar  sonsiego  ward  (Cane,  de  Baena  I  p.  200,  201,  202,  289  etc.)  durch  Ein- 
sckwàrzung  des  Prafixes  sub,  von  einem  hypothetisckeu,  dock  kochst  wakrsckeinHcken, 
mittellat.  sessicare  ab  [S.  Du  Gange  sessoniun  sessura  sessiva  etc.)  das  aus  sessum,  part. 
von  sedere,  entstand;  '  und  weise,  ein  lat.  sessiì....  z.  B.  auch  im  port.  adj.  ressésego, 
ressécego,  rececego  =  altbacken ,  abgestanden^  nacli,  und  im  gali,  srssigas  =  asiento  de  las 
losas  en  que  se  coloca  el  pie  del  molino. 

Im  altport.  haben  wir  ferner  scsega  séssega  ■=  assento  ou  terrado  nào  so  de  qual- 
quer  edificio,  mas  tamhem  das  arvores;  sesega  bezeicknete  auck  eine  Ahgabe  fiir  irgend 
ein  auf  fremdem  Grund  und  Boden  wurzelndes  Besitztum,  Baum,  "Weinstock, 
Miihle  etc.  Dass  gali,  sessiga  ist  ein  Sprossling  des  altport. 


'  Prov.  it.  assestar  kann  nur  lat.  scss-itarc  sein. 

'  Bluteau ,  Suppl.  II 504:  rececego  ^=seidii;o  oii  de  muito  tempo. 


—  157  — 

40.  SOTUENO. 

Port.  Adjektiv  :  ^«sfe;-,  uìifreuwlUch,  m'ùmsch,  fjriesgrum'uj.  Wohl  niclits  anderes 
als  Saturilo,  der  finstere  Gotb  und  ungllustige  unheilbringende  Planet  (grave  sidus, 
stella  ìiocens,  sidus  triste  und  sogar  bugne  dio  del  —  bei  Victor  Hugo),  im  Gegensatze 
zu  Jupiter,  dem  jovialen  Gotte,  und  glixckspendenden  Planeten.'  Also  ein  adjecti- 
"virtes  Substantiv,  und  zwar  adjectivirter  Eigenname,  wie  der  Portugiese  deren 
mehre  kennt.  Sengo  =  sjìruchiveise,  narcizo  =  eitelschon,  marialva  =  geckenlmft,jusimino=^ 
liebKcIddnend,  fucar  =z  steiiireich ,  sandeio  ^  liebestoll ,  nsihm.  er  von  den  Eio-ennamen 
Seneca,  Narcino,  Marialva,  Josquim  des  Prés,  Fugger,  Sande  [f  Siehe  oben  N.  36). 

AVas  deuWaudel  von  a  zu  o  vor  der  Tonsilbe  betrifFt,  so  sei,  um  auf  port.  Grund 
und  Boden  i;nd  daselbst  im  Bereiche  der  Scliriftsprache  zu  bleiben ,  nur  an  bolor  aus 
pallorem  (S.  ob.  N.  8.),  an  bogalho  ftìr  bagalho  von  bacca  erinnert,  und  an  Monfreu 
ftìr  Manfred,  Domas  fui'  Damasco,  Wolistan  fiir  Wallenstein  (Cfr.  Eom.  X  p.  336-345). 
Dass  der  Wandel  aber  im  Eigennamen  Saturno  tatsachlich  vor  sick  gegangen, 
beweist  die  Form  Saturno,  welohe  z.  B.  im  Cane,  de  Baeua  I  265  u  267  vorkommt 
und  gern  als  Reim  zu  noturno  =  nàchtlich  finster  verwendet  wird ,  im  Gegensatze 
zu  vorausgegangenem  diurno. 

41.  So VELA. 

Port.,  span.  subilla,  aspan.  sobiella  (Alex.  2009).  "VVie  ital.  subbia  vom  lat.  suhùla. 
Dock  ersetzten  die  span.  Spracken  das  Suffix  ùla  durch  diminuti ves,  toutragendes 
illa;  also  von  subilla.*  — Cfr.  hebilla  Jivela  von  fibula;  postilla  bostella  von  pustula; 
lucillo  vou  loculus;  pestillo  von  pestuluin  fiir  pessulum. 

42.  Atordido  sp.,  STORDraE  it. 

Diez  I  stordire. — Zsckr.  II  86  Foerster. — Zsckr,  VI  119  Baist. — lek  mockte  die 
Kerleitung  aus  turdus  dock  nickt  abweisen.  Der  unleugbare  Anldang  des  Drossel- 
namens  turdus  an  rom.  turb'dus  torv'dus  trop'dus,  also  an  turbidus  torvidus  torpidus, 
—  Bezeicknungen  fiir  unriddg  wirr  Starr  betdìibt  —  konnte  den  Glauben  an  eine  tatsack- 
lick  gar  nickt  (?)  oder  in  geringem  Grade  vorkandene,  zeitweilige  Starrkeit  und 
Betaubtkeit  der  Drossel  erwecken.  Einmal  vorkanden  musste  er  sick  in  allerkaud 
Fabeln  "  Makrckeu  Sprickwòrtern  Kinderreimen  dokumentiren.  Diese  musste  man 
sammeln,  um  zu  erfakren  ob  der  Glaube  oder  Aberglaube  wirklick  in  romaniscken 
Landen  vorkanden,   wie   mir   wakrsckeinlick  vorkommt.  lek  kabe  mekrfack  sagen 


'  Cane.  Gen.  II  p.  301  spricht  D.  Francisco  de  Castilla  vom  «  Saturnischen  Melancholiker  ■  Saturnino  me- 
lancólico. 

'-  Die  eine  Fabel,  dass  namlicli  die  Drossel  sicli  selbst  den  ToJ  bereite,  ist  bekannt.  (Comenius  §  157.)  — 
Was  aber  wiU  das  Sprichwort  sagen:  TaTtc  el  esqiiiloii-  y  dnermeii  los  tordos  al  soii?  Wer  Haller  oder  Sbarbi  zur 
Hancl  hat,  weiss  es  vielleicbt;  icb  nicbt.  —  Was  bedeutet  nascer  de  las  tejas  abaj'o  corno  tordof  — 


—  158  — 

lioren,  die  Drosselscliwàrme,  welclie  im  Friilijahr  uacli  Europa  lieruberkommen, 
fìelen  nach  dem  langen  Finge  wie  betaiibt  zu  Bodeii,  was  geméinhin  von  dar  schwer- 
fàlligeren  Waclitel  gilt.  Die  statUiclaeu  gesclilossenen  schwarzen  Ziige  der  Drosseln 
gaben  jedenfalls  eia  Bild  und  Gleichniss  her,  iiuter  dem  man  Scliaaren  hereiubre- 
cbender  Feinde  oder  ausgesandter  Pfeile  etc.  betrachtete.  '  At-tordire  und  ex-tordire  ' 
konnten  daher  reclit  wohl  ein  plotzliches  iìber-raschen,  ersclireckeu ,  erstarren,  betàuhen 
bezeiclinen  {bedrosselnf  Cfr.  heluchsen  u.  sp.  amilaiiar;  amilaiiamienlo  =  Furàttsamhéit). 

43.  TERgó. 

Der  Spanier  nennt  das  Augenlidgeschwur  wie  der  Deutsclie,  ein  Gerstenkorn, 
oder  richtiger  ein  Gerstenkdrnclien:=orzudo.  Dasselbe  tun  Italiener  iind  Franzosen,  d.  li. 
sie  alle  bezeicliuen  die  AugeuUdentziuulung  mit  Worfcern  welohe  auf  lat.  hordeolmn 
von  hordeum  zurtickweisen:  it.  Oì-zajuolo  =  hordeariolus,  frz.  orgelet  orgeolet  =  hordeolum 
mit  Anfllgung  der  Diminutivsylbe  et.  Der  Porfcngiese,  welclier,  mit  dem  Spanier, 
auch  das  Simplex  hordeum  einbnsste  uud  es  durcli  ceuada  sp.  cebada  ersetzte,  betrach- 
tet  das  Gerstenkorn  als  ein  Weizenkornclien ,  denn  die  mannichfaltigen  port.  For- 
men  tressó  '  tressol  treqol  terqó  tercól  tersol  trecouro  tregougo  ticouro  treqòlho  iind  sogar 
torcào,  die  man  sammtlicli  im  Volksmunde  hòrt  und  zum  Teil  auch  gedruckt 
findet,  weisen,  mitsammt  dem  gali,  ttrizó  tirisol,  naturlioh  auf  ein  ursprungliches 
triqól  und  tricóo,  Parallellbildungen  aus  lat.  triticeohim  *  vom  Adjektiv  tritlceum. 
Sie  entstanden  unter  euplionischem  Ausfall  der  zweiten  Sylbe,  deren  Gleicliklang 
mit  der  ersten  misfiel. 

Port.  (c)ó^  diiViS  {t)lolum  fur  [tjeolum  in  lencól,  kast.  lenzuelo=^Unteolum;  anzol  an- 
zuelo  aus  und{ni)olus ,  wie  ioli  anderwiirts  zeige.  —  Man  vergleiche  auch  port.  nraHoL= 
araìiuelo,  crisol  =  crisuelo ;  und  port.  Neubilduugen  wie  reinól. 

Port.  óo  neben  Bildungen  in  ol  liegen  vor  z.  B.  in  feijoa  (haute  feijào,)  aus 
phasiolus  (span. /(r)jsMefo)  ;  ferner  in  tercóo  tergo  tregó  prov.  tersól,  afrz.  terciol,  kat. 
tersol,  spau.  terzuelo  torzueh,  it.  terzuoìo  =  lat.  tertiolus  Habiclit  (kat.  astor  tergól); 
linhó  neben  linhol  etc.  — ■  Viele  Ortsnamen  in  oo  od.  ó  wie  Figneiró,  Griju  etc.  mogen 
auf  ursprungliches  olus  lohis  hindeuten. 

44.  Trinca. 

Diez  II''  und  Anhaug,  nach  Rom.  V.  p.  186  Aum.  —  Das  span.  port.  cafrinca 
quatrinca=  Vierheit  Vierzahl,  welches  mir  z.  B.  in   einem   Prosabriefe   von  Camòes 


'  Oonq.  do  Ulfcr.  p.  346  tan  eapesos  comò  banda  de  tordos  p.  412  tan  espesamente  que  parescien  mCbada  de  tordos. 

'■  Eslordido  z.  B.  tei  Fita  741  n.  952.  Esloriecido  im  Amadis  I  oap.  XIII.  Atordido  (niolit  aturdido)  ist  die  gute 
alte,  aach  heute  nooh  volksùbliolie  Form,  die  jedem  Romanisten  oft  begegnet  sein  muss.  (Z.  B.  Cane.  Gen.  II  45; 
Valdivielso,  Cane.  Esp.  p.  29;  Basna  I  131.  Amadis  etc.).  —  Der  Port.  kennt  aucli  alordar  und  atordoar. 

"  Cfr.  Leite  de  Vasconcellos,  Tradi(?oes,  N"  22.  Qiiem  tiver  um  tert^ol,  ou  corno  o  povo  Vie  chama  um  tres  sóy 
vae  ao  campo  antea  do  despontar  da  manlià ,  e  collocando  sobre  o  olito  atacado  a  mào  contraria,  dìz  tres  veses:  Sol 
toma  Id  tressó  (nicht  treasólf),  e  era  pouco  desappareoe  o  mal.  N"  85  Para  curar  um  ten;ol,  é  costume  l'azer  uma 
casinha  peqaena  com  cinco  pedraa,  accender  lume  Id  dentro,  deitar-lhe  sai  e  largar  afiigir  dicendo:  Aquedelrei  quem 
acodc  ao  fogo  na  cata  do  tercOgo  (j;  hiatustilgend  zwiacben  vo). 


—  159  - 

begegnet  in  der  Plirase:  òeijo  es.ms  màos  urna  quatrinca  de  vezes,  spriclit  daf'ur 
dass  man  uach  dein  Master  vou  unus  luiicus  aus  trinus  eiu  triìiicus,'ii,us  quattuor  aber 
quattrinicits  gebildet  hat.  Im  port.  ist  trinca  nur  im  Kartenspiel  ilblich  wo  es 
drei  gleiclie  Karten  bedeutefc,  wie  catrinca  deren  vicr. 

45.  Umbral. 

Zsclir.  VII  124. —  Baist  erkliirt  daselbst  das  span.  Wortfiir  Schwdh  aiis  dem  lat. 
luminar  e  ^=  Fenster,  gestiitzt  anf  die  alte,  seltne,  mir  in  kasfc.  Texten  nie  begegnete 
Form  lumhral,  ■welcbe  die  Wòrterbiicher  verzeicknen,  vaia,  die,  nebenbei  gesagt,  noch 
im  Grallizischen  weiterlebt,  was  fiir  ihre  Existenz  im  Altsp.  spricht.  '  Das  anlau- 
tende  l  von  lumbral  ware  also  als  Artikel  anfgefasst,  iind  vom  Wortkorper  ge- 
trennt  worden,  wie  in  afril  ans  latril  fiir  letril.  Lautliclie  Scliwierigkeiten  sind  also 
nicht  vorhanden,  und  sachliche  aiich  nicht,  weun  man  zugiebt  dass  der  Name  des 
Tiirfensterchens  auf  dessen  Stixtzbalken  d.  li.  auf  die  Oberscliwelle  und  von  dort 
auf  die  Unterschwelle,  die  eigentliclie  Schwelle,  llbertragen  werden  konnte.  Der 
zweite  Ubergang  ist  walirscbeinlicli ,  der  erste  bei  der  Durchscbauliclikeit  aller 
Ableitungen  vom  lat.  lumen  niciit.  Darum  befriedigt  mieli  die  vorgescHagene  E±y- 
mologie  niclit  ganz.  Die  Untersucliung  Baist's  ist  aiich  keine  voUstandige. 

Fiir  Oberscliwelle,  das  iiher  der  OherschweUe  angebrachte  Fenster  und  die  verti- 
calen  Pfosten  icelclie  die  Ohersclurelle  tragen,  d.  h.  fiir  die  Eiuzelteile  des  Tiirralimens , 
bieteu  die  Sprachen  der  Halbinsel  eine  ziemlicli  bedentende  Eeihe  von  Ausdriicken, 
deren  lateinisclie  Etyma  —  als  da  sind  1°  luminare  von  lumen;  2°  liminare  von  limen; 
3"  Immeralis  von  humerus  uud  4"  limitar is  von  limes  —  zufallig  zu  mancben  sich  ahnli- 
clien  und  einigen  fast  ganz  gleiclilautenden  Hispanisirungen  gefiibrt  haben,  deren 
Specialsinn,  eigentliclie  Bedeutung  und  ursprùnglicbe  Verwenduug  fiir  einen  be- 
stimmteu  Teil  des  Tiirgesimses ,  wie  mir  sclieint,  in  und  durcli  einander  gegan- 
gen  and  verweckselt  worden  sind,  so  dass  in  den  Einzelfàllen  die  Entsclieidung  fiir 
oder  wider  dies  oder  jenes  Etymon  iiiclit  ganz  leiclit  zu  treifen  ist. 

Umbral  aus  lumbral  d.  h.  aus  luminare  abzuleiteu,  obne  Rucksicht  zu  nehmen 
auf  das  aspan.  limnar,  port.  liminar  und  limiar,  aport.  limiar,  lemear  und  himear  lo- 
onear,  altgall.  lumiar,  neugall.  lwmial{es),  aspan.  lumnar  und  auf.  port.  gali,  lumieiro  lu- 
mieira,  so  wie  auf  umbreira  ombreira  liombreira  Immbreira  (port.)  und  auf  die  port. 
Sckreibweise  Immbral,  und  ferner  auf  die  span.  port.  Ableitungen  von  limite 
(namlicli  lintel  dintel  lendel  und  vielleiclit  gar  aledaììo,  port.  lindeira  prov.  lindar 
frz.  linteau,  latinisirt  Untellum)  scheint  mir  gewagt  und  misslich.  Selien  wir  die 
A^erschiedenen  Gruppen  ulilier  an. 

rt)  Die  Derivata  von  limen  liminare,  d.  h..  das  aspan.  limnar  (Berceo,  Saorif.  163) 
mit  dem  neuport.  limiar  (und  liminar,  gelelirten  Ursprungs)  liaben   sclieinbar  stets 


'  Sonst  konnte  man  glauben,  die  Lesikographen  hatten  aus  ellumbral  eines  alten  Textes  irrtilmlicli  (statt 
cìl  ambral)  ci  lumbral  gezogen. 


—  160  — 

Scluvelle  bedeutefc,  liaufiger  die  Unterschwelle,  aber  wolil  aiich,   wie  schon  im.  Lat., 
dell  oberen  horizontalen  Querhalken  ocler  Ohersturz. 

h)  Die  Derivata  von  lumen  rr:  luminare  luminaria  (neutr.  pi.)  kòniien  urspiiiiiglicli, 
Direr  Mar  erkenubaren  Lichtbedeutuug  gemiìss,  iiur  das  «  Turfenster  iiber  der 
Oberschwelle  »  bezeiclinet  liaben.  Es  sind  aport.  lomear  lomiar  lumiar  lumear  gali,  lu- 
miar  n.  lumial;  port.  lumieiro  gali,  lumieira,  aspan.  lumnera,  '  uud  vielleiclit  eben  auch 
sin  bypotlietisclies  aspan.  lumnar*  lumnal,*  Avoraus  lumhral  uiid  spiiter  durch  Auffas- 
simg  des  l  als  ware  es  der  Artikel,  das  moderne  span.  umhral  port.  hnmbral  entstan- 
den  sein  konnte.  Solange  lumnal  lumbral  das  Turfensterclien  bedeutete,  ware  das 
freilich  eiiie  kaum  zu  erwartende  Verundeutlicliung  des  Begriffes  gewesen. 

Die  grosse  Aluilichkeit  zwisclien  limiar  und  lomiar  lumiar  im  Port.,  nnd  zwisclien 
limnar  und  lumnar  *  im  Kast.  konnte  dami  sehr  wolil  eine  Verweclislung  der  beiden 
Begriffe  und  die  Verwendung  von  lumiar  lumnar  zur  Benennung  erst  der  Ober-  und 
Unterschwelle  und  dami  vorwiegend  der  Unterschivelle  liervorgerufen  haben,  und  liat 
es  getan.  Fiir  port.  lumieiro  und  gali,  lumieira  '  bestand  soldi  eiii  Grund  zur  Ùber- 
tragung  der  Begriffe  nicht,  weslialb  beide  Worte  denn  aucli  lieute  nocli  ausschliess- 
licli  die  Bedeutnng  Fensterchen  bewaliren.  Und  da  im  Kast.  neben  limnar  kein  limnal 
existirt  zu  liaben  scheint,  war  auch  fiir  das,  in  Bezug  auf  Tiirrahmeuteile  ganz 
hypotlietische,  lumnal  aus  lumnar  die  Gefahr  der  Verwecliselung  niclit  vorlianden, 
was  gegen  eine  sachliche  Identifìcirung  der  Begriife  Turfenster  und  Oher-  Untersturz, 
also  gegen  die  Etymologie  umbral  aus  limnal  unter  Anlelinung  an  lumnal  spricht. 

e)  Wie  steht  es  nun  mit  den  vermeintlichen  Ableitungen  von  humerus  ?  mit 
dell  port.  span.  Repriisentanten  von  humerale  humeralia?  Im  Lat.  und  Mittellat. 
haben  die  A¥orte  niemals  «  einen  Teil  des  Tiirralimens  »  bezeiclmet.  Der  Vergleicli  der 
vertikalen  Tilrpfosten  (mit  der  Oberschwelle  u.  ohne  diese)  mit  lasttragenden  Schul- 
terstiicken,  wenii  anders  er  ilberhaupt  existirt,  ist  von  den  Hispaniern  vorgenom- 
meii  worden.  Ist  er  ein  trefFender,  oder  ein  schiefer,  falscher  verkehrter?  Darf  man 
die  im  Port.  ilbliclisteii  Worte  fiir  Tilrpfosten  und  Obersturs,  darf  man  {h)umbreira 
{lijombreira  '  von  humerus  ableiten  ?  Sie  sind  ohne  Frage  Zwilliugsgeschwister  des 
gleichbedeutenden  und  gleich  ùblichen  {h)umhral,''  welches  wiederum  von  kast.  gali. 
umbral  lumhral  nicht  zu  trennen  ist.  Entweder  stammen  sie  alle,  wie  Baist  fiir  die 
kast.  Form  ansetzt,  von  luminare,  respective  luminaria  ab,  oder  sie  sind  alle  mit 
humerale  humeralia  zu  identificiren.  El  lumbral  stiinde  in  letzterem  Falle  fiir  altes 
eli  umbral.  Im  ersten  Falle  hatte  spàterhin  wenigstens  Umdeutuug  unter  Anlehuung 


'  Span.  lumbrera  =  Dachfenster  KeUerfenster  ist  oher  oino  selbstiindigo  Ableitung  vou  liimbre  als  welter 
entwickeltes  lumnera.  Diesos  fiadet  sich  z.  B.  im  Alex.  UG6;  Mil.  280  u.  710  als  Licht  Leuchte.  Das  gleiche  cilt  von 
lumieira  lumbcirada  (gali.)  als  Triiger  des  Sinnes  Herdfeuer. 

'  Pequena  abcriura  esireita  e  comprida  sobre  urna  porta  ou  janella  para  dar  luz  e  ar. 

"  Humbreiba:  1»  parte  complcmentar  de  qualquer  especie  de  vestimento  correapondente  aos  hombros.  2»  cada  urna 
das  duas  pedras  ou  pe<;as  de  madeira  compridas....  que  postas  perpendicularmcnte  suatentam  a  verga  ou  os  aaimeis  da 
porta  ou  portai.  3"  limiar,  cntrada. 

'  HuMBBAL  :  humbreira  da  porta  ;  porta ,  entrada ,  limiar. 


s  _  161  _ 

an  humems  stattgefunclen.  '  Filr /»HHemZ(rt  spricht,  meines  Erachfcens,  dass  sowolil 
umhreira  als  auch  umbral,  mici  zwar  im  Span.  wie  im  Porfc.,  aucli  wenn  sie 
SckweUe  bedeuten,  im  Plaral  gebrauclit  werden.  Man  denke  z.  B.  an  los  umhrales  de 
la  muerte,  gali,  os  lumialcs  da  morte  ^  port.  os  humhraes  da  eternidade.'  Bekanutlich 
stehen  aber  gerade  die  Namen  von  am  Kòrper  doppelt  vorkommenden  Teilen  gern 
in  diesem  Numerus  {faces,  mejillas,  nalgas,  hombros  etc).  Doppelt  aber  sind  am  Tilr- 
ralimen  niir  die  verticalen  Pfosten;  und  von  alien  moglichen  Vorbildern  der  be- 
treffenden  "Worte  greift  nur  das  von  mir  vorgeschlagene  humeralia  liumerale  in  das 
Bereich  des  menschliclien  Kòrpers  hinein.  ^  Dass  im  Port.  eira  der  Vorzug  vor  al 
gegeben  ward,  entspricbt  nur  seluer  ausgesprochenen  Vorliebe  far  die  volltonenderen 
Derivata  in  eira,  die  sich  aneli  in  den  Ableitnngen  von  limite  limitaris  limitaria  zeigt. 

d)  Dem  spaniscliem  dintel  lintel,  prov.  lindar,  fr.  linteau  lintel  entspriclit  im  Port. 
niclit,  wie  zu  erwarten,  lindar,  sondern  lindeira:  verga  suferior  da.  j)orta  ou  janella 
que  serve  para  firmar  e  unir  o  pé  direito  ou  as  umhreiras  entre  si.  Lindeira  ist  librigens 
ein  wenig  gebrauclites  Wort,  welcbes  bei  einigen  Lexikographen  (Bento  Pereira) 
nur  mit  ornato  nas  ombreiras  da  porta  gedeutet  wird.  Die  niclit  port.  "Worte  bezeicli- 
nen  manchmal  die  Oberschwelle,  welclie  als  Grenze  des  Tiirralimens  anfgefasst  ward, 
dodi  meistens  die  UnterschweUe ,  welclie  als  Grenzrain  zwischen  Zimmer  und  Zim- 
mer  gilt. 

Zum  Schlusse  sei  nocli  angemerkt,  dass  in  slidliclien  Hansern,  wo  man  Ver- 
bindungstiiren  gern  auskebt,  die  Unterscliwellen  meist,  wenn  niclit  immer,  feMen 
—  liier  in  Portugal  wenigstens.  Oberschwelle  und  Vertikalpfosten  kònnen  nie  f'ehlen, 
selten  fehlt  aneli  das  Fensterchen  :  die  Namen  fiir  diesa  Teile  waren  also  unentbelir- 
licher  als  die  fiir  die  Schwelle.  * 

Nur  ein  sorgsamer  Vergieich  aller  alten  Stellen,  in  denen  die  einschlagigen 
Worter  Verwendung  gefunden  haben,  wird  die  entscheidende  Antwort  auf  die 
Frage  nach  dem  Etymou  von  umbral  geben. 

46.  Urze. 

Diez  II'':  von  erice.  —  Zschr.  V  556,  Baist:  von  idice. — Da  nicht  einzusehen, 
warum  aus  der  hypothetischen  Form  erice*  erica*,  statt  erze  erga,  ìi.rze  urga,  mit 
ganz  unmotivirtem,  phonetisch  unmoglickem  Ubergange  eines  tontragenden  S  io.  u 
geworden  ware,  dieser  wLaut  aber  in  idice  vorhanden  ist,  darf  man  der  letzt  vorge- 


'  Die  Sohreibung  mit  h  an  sicli  Tjeweist  gar  niohts.  Sie  konnte  auf  t'alscher  Etymologie  Vieruhen.—  Verlust 
des  ani.  l  ist  im  Port.  selten  dooh  liommt  er  vor.  Siehe  oben  N°  17. 

'  Àlinliche  Redewendnngen  sind  haiifig.  Das  erste  Beispiel  das  icli  finde,  stelit  in  der  Pie.  Just.  p.  209. 

'  Plionetisohe  Schwierigkeitea  sind  niclit  vorliandon.  Hoclistens  konnte  man  sich  darùber  wundern  dass 
kein  kast.  hombral  ombi-al  vorliandcn  ist.  Jl/ftr  —  Ersatz  fiir  lat.  me  — halt  Diez,  Gr.  I  303  fiir  eine  echte  port. 
Lautverbindung.  Ob  mit  Recht?  Sind  nicbt  alle  port.  Worte  in  ambre  imbre  umbre  etc.  Hispanismen?  Fiir  den 
vorliegenden  Fall  ist  die  Entscheidung  der  Frage  wertlos,  denn  hiitte  das  Port.  den  Namen  fiir  den  Tili-pfosten 
dem  Kast.  entlelmt,  so  milsste  er  daselbst  mit  gleicher  Bedeutung  vorbauden  gewesen  sein. 

'  Die  Bautischler  nennen  hente  die  holzerne  Unterscbwelle  soleira  (von  sobim  Boden),  die  steinerne  cou- 
ceìra  {^=  a  pedra  do  baixo  .  em  quo  assentito  as  onibreii-as  ou  pedi'as  lateraes  da  porta)  von  coiice  =  calce ,  also 
eigeutlicU  calcearia  =  Feraen  odor  Fusstilck;  die  Pfosten  umbreiras,  die  Obersobwelle  pavicira  odor  xìadieira. 

81 


—  102  — 

schlagenen  Etymologie  wohl  zustimmen,  obwolil  dasjenige  Heidekraut  welches  alt- 
span.  urga  '  lieisst,  kast.  uree,  port.  terze  urge  (vulgair  auch  ttrgem)  urgueira,  gali.  bere. 
tiz  (welches  in  der  doppelten  Schreibung  uz  und  hus  mifc  etwas  abweichender  Be- 
deutung  ins  Kasfcilianische  Aufnahme  gefunden  bat'),  tatsàcblicb  die  rotblùbende 
Erika  {Erica  arborea)  benennt.  Ob  mit  lat.  ulice  bereits  dieser  Sinu  verkuilpft  ward , 
isfc  unbekaniit;  die  Stelle  in  Plinius  entscheidetnicht:  einen  rosmarinarfcigen  Strauch 
hann  man  die  Erika  allenfalls  nennen,  obwohl  der  Vergleich  stark  liiukt.  Es  konn- 
ten  auf  der  Halbinsel  hj'pothetisches  erze  nnd  hypotbetisches  tdze  "'  zu  dem  einen 
"Worte  urze  zusammengeschweisst  worden  sein ,  da  beide  Worte  Heideki-aiitarten, 
vielleicht  gar  ein  und  dieselbe  Art  bezeiobneten. 

Uz  konnte  aus  urze  entstanden  sein,  wie  z.  B.  uvaduz,  uva  de  usso  fiir  uva  de 
urso,  uva  ursi  =:  Bdrentraidie  stebt;  konnte  aber  auch  aus  verlorenem  gali,  nlze 
hervorgegaugen  sein,  wie  duz  dtis,  aspan,  *  gaU.  und  bere,  aus  lat.  didce  (Man  vergi. 
ducaina);  entspreehend  kast.  saz  aus  salze  (salice\  caz  aus  calce  (calice).  Den  G-rund 
warum  filr  idze  nun  wze,  fiir  ulga  urga  steht,  fiir  ulguelra  urgueira  (tdicaria)  kenne 
ich,  wie  schon  gesagt,  nicht.  Pulice  ergab  pidga;  ilice,  eie...  cncina;  filice  felgu,..eira; 
salice  salgu..eiro.  —  Eine  einzige  Bildung  kenne  ich,  in  der  lat  Z-j-&  im  span.  zu 
rgi  geworden ,  sarga  =  salix  alba.  Gehòren  sarga  und  urga  (in  tirgueira)  demselben 
Dialecte  an?  Und  welchem?  ' 

47.  Vestiglo. 

Span.:  Ungetiim,  Untier,  schreekhaftes  Gespenst,  Scheusal,  Brache;  kurzum  ein  derbes 
Schimpfworfc,  mit  dem  ein  menschUehes  "Wesen  den  nicht  sprachbegabten  Tieren 
gleichgestellt,  als  dumme  Bestie  oder,  gut  berlinisch,  als  dummes  Biest  behandelt 
wird.  Damit  konnte  ich  eigentlich  schliessen,  doch  will  ich  mich  niilier  erklareu. 
Der  Leser  sehe  freundlichst  die  unter  N.  13  mitgeteilte  Strophe  982  des  Erzpriesters 
noch  einmal  an.  Ich  stelle  vestiglo  neben  die  daselbst  gebrauchten  ReimM^orte  siglo  = 
saeculum;  per  iglò  ^:  per  iculum;  ce[r]uiglo=:cernicalum,  vergleiche  das  vulgairport.    be- 


'  Urga  z.  B.  in  dar  Conq.  de  Ultramar  p.  329.  3i2.  343. 

'  Uz  bedeutet  im  Bercianisohen ,  wie  tirse  ira.  Span.  Port. ,  die  friache  rolbWiende  Erika ,  welche  aiif  dem 
westlichen  Teile  der  Halbinsel,  und,  sowol  ich  weiss,  anoh  im  Norden,  ganzer  Borge  einziges  dauerhaftes,  rosi- 
ges  Klcid  ist,  ani"  dem  die  Bienenscliwarine  sich  gern  niederlassen.  —  S.  Poes.  Bere.  z.  B.  p.  3;}l>  uceSj  cantrozos  e 
hrezoa,  womit  also  drei  verscliìedeue  Heidekriiater  bezeichnet  worden,  der  gewòlinliclien  Annalime  entgegen, 
welcbo  urz&  und  brczo  fiir  ganz  gleichbedeutend  ansielit.  —  Dies  Heidekraut  wii'd  in  Gallizien  —  wie  im  Portu- 
giesischen  der  carqueijfi  genannte  Heidestrauch  —  dazu  verwendet  um  das  eigentliolie  Brennmaterial  anzuisiinden, 
bedeutet  also  selhst  klcines  Brennmaterial.  Ein  Sinn  mit  dem  allein  es  im  Kast.  auftritt.  Das  Scbeidepaar  «irsc  uz, 
verzeichnete  icb  daber  scbon  in  meìnen  «  Studien  ».  —  Uz  Uzes  Urgueira  sind  biiufige  Ortsnamen  in  Gallizien  und 
Leon. — Dio  Etymologie  w«  aus  ulice  batto  Monaci  bereits  im  Manual,  p.  55  aut'gestellt,  was  Baist  ùbersoben  bat. 

'  Der  Ortsnamo  Ulztira  kommt  in  Gallizien  ver.  —  lu  Kastiìiou  u.  in  Portugal  giebt  es  mebrere  Stadtcbon 
Eris  Brize(C)ra. 

'  Fita  107.  106. 

'  Ob  wirklioh  jeder  Zusammenbaug  zwisohen  erice  erica  otc.  und  brizo  brezo  brcza  bene  (gali.)  bres 
!>Uzo  brega  eto.  etc.  ausgescblosson  ist?  Konnte  brizo  nicbt  {e)ricius  mit  prostbetischem  b  sein  wie  brusco  =  ruscus; 
bronco ^=  ronco;  broca  =  rueca  eto.?  J3/t;o  bezeichnet  allgomein  alle  Ueidekriiutcr,  im  besoudoron  aber  gleicb  urze 
cine  Erìkasorte. 


_  ifìs  — 

stilo,  vestiijo  '  (alt  besUfjm  hestigoo),  welches  geuau  so  viel  wie  dimmes  hasdiches  Vleli 
bedeutet,  denke  uebenbei  an  spaii.  ctUmana,  das  ahnliclie  Verweiidung  findet  imd  stehe 
uicht  liinger  au ,  vestigio  iind  vestigo  auf  ein  hypothetisches  òesticulum  zuriickzufù- 
hren,  d.  h.  es  fiir  ein  volltònouderes  òestius  zu  ei'klareu.  Cfr.  N.  13  uud  34  wo  ùber 
das  Suffix  igo  gesprochen  ward.  " 

Folgende  Stelleu  werdeu  meiuer  Ausicht  zur  Stùtze  dienen: 

Cane,  de  Baena  I  p.     8  Prologo.  Leones  e  osos  e  puercos  e    ciervos  e  otros  muchos  venados 
e  animalias  e  vestyglos  bravos  e  muy  espantable-s. 
Cai.  e  Dym.  p.  7.5  de  leon  e  de  otros  vestiglos. 

70  Dicen  qua   unos  homes  fueron  al  monte  e  cavaron  y  una  lobera  para 

tornar  los  vestiglos. 

71  et  él  le  conto  todo  cuanto  le   acaesciera  con  los  vi'stìg!os  (als  da  sind: 

Affé  Dachs  und  Otter  ximio,  tasugo,  culebra). 
57  dicen  que  en  una  tierra  habia  un  arbol....  et  al  pie  del  habia  muchos 
vestiglos  (mur,  gate,  liron,  bulio). 
Cane.   Gen.   I  45.  Tu  que  eres  el  Seilor 
de  los  siglos  ; 
d'animales  y  vestiglos 
hazedor. 
117  Tricipides  sierpes  y  bravos  vestiglos'. 
124  por  do  fué  muerto  con  duros  colmillos 

del  bravo  vestigio  de  tierra  de  Oneo. 
420  Porqu'el  muy  feo  vestigio 
no  me  traiga  mal  saiiudo. 
II  305  Tres  fieros  vestiglos,  sobervios  gigantes 
Contrarios  perpetuos  del  bien  operar, 
Salieron  senora,  con  vos  a  lidiar  etc. 

48.  Vinco. 

Diez  11'^  ohne  Erklarung.  —  Die  IJbersetzung  Folte ,  Geleise  des  Wagens  klart  un- 
genugend  iiber  den  waliren  Sinn  des  Wortes  auf.  Vinco  bezeiclinet  «  den  Eindruck 
oder  Einschnitt,  welchen  ein  Band  oder  Biudfaden,  stramm  angezogen,  auf  eiiiem 
Packete  binterlàsst ,  die  Rinne  welcke  ein  Rad  in  den  Boden  drlickt,  den  KniflP 
der  in  Papier,  Zeug  etc.  bleibt,  wo  es  gefaltet  worden  war.  »  ^  Provinziell  benennt  das 
Wort  auch  «  eine  Nasenklemme  aus  Draht ,  welche  dem  Schwein  aufgesetzt  wird  um 
es  am  Wùhlen  etc.  zu  liindern.  »  Vinco  kann  nichts  anderes  als  lat.  vincidum  sein,  in- 


'  Siete  z.  B.  G.  V.  I  262:  mentis  comò  bcstiyo,  salvanor,  (d.  li.  mit  Verlaub  zu  sagen  wie  der  hofliche  Portu- 
giese  beute  noch  hinzufugt,  wenn  er  Worte  wie  beata  burro  porco  in  den  Mund  nimmt).  Sielie  auch  Cane,  de  Bes. 
Ili  p.  i9H  porque  me  vi  muy  cercado  |  de  bestiguos  |  de  minha  Vida  imignos,  |  e  eu  por  foijyr  lìeriguos  \  foi  /orgado  \  em 
hitma  arvor  ser  trepado. 

'  Das  span.  Diminutiv  Jitslimga  (Pio.  Just.  p.  2S)  dtìrfte  nach  port.  Weise  far  Jnstinigua  atehen  d.  h.  Justi- 
nicula  sein.  Man  bedenlie  immer  dass  der  ganze  Roman  in  Leon  spielt  am  Zeafliisschen ,  und  dass  geistig  wie 
.sprachlicli  port.  gali.  Elemente  darin  naclizuweisen  sind.  Ob  igo  aucb  in  dem  humoristisch  gebrauchten  Adjektive 
Xtrincipiantigas  steckt ,  weiss  icb  nioht.  Mòglicberweise  ist  es  priiicipidntigas. 

'  «  Signal  que  fica  em  cousa  que  se  dobrou,  ou  na  parte  de  um  coii)o  apertado  com  fìta,  oti  finalmente  em 
sitio  por  onde  passou  roda,  >  —  Aviucar  a  testa  =  die  Stìrii  kraus  oder  in  Falten  zieJiev. 


—  164  — 

dem  der  Name  des  Ursachliclien  (des  Bandes,  des  Strickes,  der  Fessel)  auf  die 
hervorgebrachte  Folge  und  "Wirkung  (den  Einschnitt,  das  Geleise)  iibertragen  ward. 
Fineo  aus  vincoo  fiir  vinculum,  mifc  syiicopirtem  Z  wie  in  magoa  aus  macula,  hago 
aus  haculum,  perigo  aus  periculum,  dialo  aus  diahulmn,  orago  aus  oraculum,  povo  aus 
pojndum  etc. 

Vinco  vaxà  vincido  sind  also  Sclieideformeu.  Die  erste  Form  ist  die  natiouale 
volkstiimliclie,  die  zweite  die  Idassische,  dem  Lateiuischen  entlelinte. 

49.  Xato. 

Diez  IP  193  weisfc  nur  die  arab.  Etymologie  ab.  —  Baist,  Zschr.  VII  p.  124 
halt  das  kast.  Wort  fiir  identisch  mit  span.  port.  kat.  chato  (xato)  =rjjZa<t  Man  hiitte 
das  Kalb,  welclies  sonst  auf  der  Halbinsel  vom  lat.  vitellus,  -a  seinen  Namen  hat 
(port.  vitello,  -a,  kat.  vadell,  mallork.  vedell),  oder  mit  Ableitungen  von  tener  z=zart, 
■  und  noviis^=jung  benannt  wird  (im  and.  kast.  vai.  temerò,  -a;  kast.  novillo,  -a)  alsjilatt- 
ndsiges  Tier  bezeicbnet.  Ansprecliend,  obwolil  der  Spanier  fiir  plattnasig  ein  be- 
sonderes  Wort  batte,  romo  port.  rombo. 

Gresichert  ist  die  Etymologie  iibrigens  keiueswegs.  Feruan  Nimez  citirt  namlich 
ein  Sprichwort,  welcbes  lautet:  Jado  de  noviella  y  pjotro  de  yegnn  vieìla,  und  erklàrt 
jado  durch  hezerro  de  bezerra,  also  in  Ùbereinstimmung  mit  der  modernen  Verwen- 
dung  von  xato.  Sonst  bin  ich  dieser  Form  nocb  nicht  begegnet  weder  in  alten,  noch 
in  neuen,  noch  in  dialektischen  Texten,  so  dass  es  sich  ja  moglicker  Weise  um 
einen  DruckfeKler  fiir  jato  handeLn  konnte. 

Zu  bemerken  habe  ich  noch,  erstens  dass  xato  das  Kalbchen  nur  bis  zum  Alter 
von  6  Monateu  bezeichnet  (spater  heisst  es  im  Asturischen  moseo,  jahrig,  und  Mm- 
bon,  2  jahrig,  Vergleiche  port.  phnpào  =  schmuck).  Zweitens  dass  das  Wort  nicht  im 
Nordosten  zu  Hause  ist,  sondern  im  Nordwesten.  Gerade  der  Asturier,  der  Gallizier 
und  der  Einwohner  von  Bierzo  benutzen  es.  ' 

50.  XODEEIEO. 

Die  Wòrterbiicher  verzeichnen  ein  port.  Wort  xodreiro  nicht.  Ich  keune  es  aus 
Sa  de  Miranda  164,  338  wo  es  als  Beiwort  von  porco  ^auftritt  uud  soviel  wie  im 
Scìdamme  wuhlend,  schmutzlieòend,  schmutzig  bedeuten  muss.  '  Sichergestellt  wird  das 
Wort  mit  dem  angegebenen  Inhal^  durch  das  alte  Sprichwort  :  Janeyro  porcos  em 
xodreyro  (Nunez),  im  welchem  es  also  als  Hauptwort  auftritt  und  Pf'ùtze,  Schlamm- 
was.^er  besagt.  Ein  solches  kenuen  die  Lexika  denn  auch,  in  der  Form  enxodreiro 
enxurdeiro  =  lamaqal  lodagal.  '  Sie  keunen  ferner  enxurdar-se  =  sich  ini  Scìdamme  loiil- 


'  Poes.  Astur.  p.  36;  Bere.  p.  179.  308,  GaU.  Cuv.  Pinol  s.  v.  jato. 

'  Acliou  d' eia  (da  agna  de  maio)  inda  que  farle,  E  corno  porco  xudreìro,  Ben  cnmUo  d'  ùa  parte ,  Deu  a  volta 
ó  corpo  enteìro. 

'  S.  Rosa  bietet:  Éiucadreiro  ^eslrumeira,  Ittgar  de  immundicias ,  lodagal.  —  Aneli  als  Orfcsname  kommt  Enxu- 
dreiro  vor.  (Vielleioht  eine  Verdrehvmg  von  Inxidreirof) 


-  1G5  - 

zen,  und  chHvilo^scInnntdg  '  In  xiivdo  .vordo  xodro  erkenue  ioli  das  lat.  sordidus. 
Porcus  sordidus  liat  walirlich  niclits  befremdeiides.  Indirekfc  wird  durcli  diese  vul- 
gair  porfcugiesisclien  Vertreter  des  lateinisclieii  Eigenschaftswortes  auch  die  Her- 
kunft  des  kast.  cerdo  (serdo  smrdó)  aus  sordidus  bestàtigt.  "' 

Mòglicherweise  stammt  vou  xordo  auch  das  port.  Substantiv  cholda,  choldra  ab, 
oder  isfc  eins  damit.  Es  bildet  einen  Bestandteil  der  Reimformel  clioldaholda  choldra- 
boldra,  mit  welcher  ein  sclimutziges  unordentliclies  Gemengsel  von  allerlei  Diìujen ,  dann 
Wirrwarr,  Unordmmg,  und  ein  Haufe  roller  Mensclien  benannt  wird. 
Xodreiro  z=  sordidarius  %•  xurdo  =  sordidus. 

51.  Y.TADA. 

Rabbi  Santob,  153  Quien  vestir  non  quisiere 

sy  ■a.on  piel  syn  yjada. 
162  Non  ay  piel  syn  yjada. 
604  Syn  taohas  son  falladas 

dos  costunbi-es  senneras, 

dos  pieles  syn  yjadas, 

que  non  han  conpauneras. 

Das  Glossar  giebt  keine  Aiifklaruug.  Yjada  muss  liier  so  viel  wie  Ungeziefer, 
(Laus  oder  Floli)  bezeichnen.  Docb  kanu  ioli  dem  Ursprung  und  den  Verwandten 
des  Worfces  durchaus  niclit  auf  die  Spur  kommen ,  weslialb  ich  es  hier  nur  fiir  an- 
dere  glùcldicliere  Forscher  hervorhebeu  will.  Yjada  =  Injada  von  hijar,  Eierlegen  i  Eiu 
Ausdruck  «  ein  Nest  voUer  Eier  »  scheint  jedoch  eine  fiir  den  Juden  von  Carrion 
zu  -wenig  realistische  Ausdrucksweise  ?  Im  Port.  freilich  wiirde  Jedermann  verstehen 
was  eine  felle  sem  ninliada  bedeutet.  Ich  glaube ,  es  existirt  auf  der  Halbinsel  ein 
Sprichwort,  des  Inhalts  «  es  gabe  keine  Rose  ohne  Dornen  und  keinen  Pelz  ohne 
Ungeziefer  » ,  doch  finde  ich  den  Wortlaut  nicht  wieder.  HaUer  und  Sbarbi  geben 
mògUcher  Weise  Aufschluss. 

52.  ZlSME. 

Altspan.,  bei  Juan  Manuel,  Obras  p.  249.  Et  otrosi  ha  y  otra  manera  de  bestias 
que  son  muy  enojosas  et  sehaladamente  d  los  caballeros  cuando  acaecen  que  andari  arma- 
dos  en  las  guerras,  asi  corno  los  piojos,  et  las  jndgas,  las  zismes  et  las  formigas  et  sos  se- 
mejantes.  Grayaugos  erklart  im  Glossar,  zismes  musse  in  zinifes  umgewandelt  werden 
denn  es  seien  i^^i'e^eu  darunter  zu  vestehen!  {zinifes  que  san  moscas!)  Wunderbar! 
noch  wunderbarer  aber  dass  Baist  diese  Auslegung  nicht  nur  unangefochten  lasst, 
sondern  sie  sogar  ausdriicklich  gutheisst  (Gaza  p.  166). 


'  Cìiurdo^=villào  ruiiiij  mìseravel;  lan  churda^^sitja  de  guarda,  corno  sahe'das  ovelhas). 

'  Ein  Naclitrag  zu  dem,  meìnen  «  Sfcudien  •   eingefiigten  Exkurs  iiber  die  romanischen  Eigenscbaftswoi-ter 
in  ulits,  den  icli  mit  manchem  intereasanten  Beispìele  bereicliem  kònnte.  —  Ctr.  Zscbr.  Vili  228, 


-   166  — 

Vou  Fltei/eu  war  sclion  vier  Zeilen  hòher  bei  Juan  Manuel  die  Reda:  Et  ha 
y  otros  que  son'entre  maìiera  de  hestias  et  de  aves  asi  corno  morciellac/os  et  mariposas  et 
abejas ,  et  ahispas  et  todas  las  maneras  de  las  moscas.  Zu  den  Fliegen  liat  der 
Verfasser  aber  hochst  wahrscheinlich  aneli  die  Mùcken  gerechnet,  was  cùiife  doch 
ist.  Die  ZusammeusteUung  «  Lause  und  Flohe,  Mùcken  und  Ameisen  »,  gìnge  ja  recht 
gut  an,  dodi  schemfc  mir  man  milsse  lesen  los  piojos,  las  prdgas  et  las  zismes,  et  las 
formigas  d.  h.  die  drei  erstgenannten  Quiilgeister  zusamnienstellen ,  und  den  vier- 
ten  viel  unschuldigeren  alleili  lassen. 

Floh  Laus  und  Miicke  bildeu  freilicb  uun  kein  bekanntes  Dreiblatt;  man 
erwartet  Floli ,  Laus  und  Wanze ,  —  und  findet  es  auch  wenn  man  ricbtig  liest. 

Zisme  ist  lat  chnice,  und  steht  fiir  zùnce  [cliinclie.)  Wer  es  nicht  glaubfc  vergleiche 
aporfc.  chimse!  (bask.  cìiimetch,  romagn.  zemsa,  mail,  scimes,  ital.  cimice,  veuez.  cimese, 
sard.  diimiglie,  albanes.  Taiftsx)  Einport.  chinche,  wie  Diez  irrtilmlich  angiebt,  existirt 
nicht,  und  liat  uie  existirt.  Das  abstossende  Tier  heisst  hier  zu  Lande  lyersevejo 
«  der  Verfolger,  der  Verfolgungsfrohe  »  (alt  j^ersovejo  porsovejo  porseve  perseve  fùr 
persegue  vou  perseguir). 

Dies  zu  Diez  IP  chinche  und  zu  den  Eeicbenauer  Glossen  14  scinifes  cincellas, 
131  ciìnex  cimcella,  welclie  vielleicht  eiue  andere  Erklarung  als  die  vou  Diez  p.  22 
gegebene  zulassen.  '  Fùr  das  Volk  kounten  die  verschiedenen ,  im  Sùdeu  jedoch 
durcli  ihre  Sfciclie  gleicli  lastigeu  lusecten  wolil  ein  und  denselben  Namen  (cimcella) 
tragen,  so  dass  auch  im  aspan.  zisme  beide  Arten  inbegriffen  waren.  Lautlich  aber 
ist  zisme,  wie  bemerkt,  durcli  zim,se  (die  Vorstufe  von  chinche)  aus  cimice  entstan- 
deu.  Man  vgl.  hrizna  neben  brinza,  gozne  neben  gonze,  hrozno  und  hvonze,  hizna  und 
liiaza;  trezna  und  trenza  tranza. 

C'inif e  =  Miicke  ist  im  Span.,  obwohl  vielgebrauchfc,  gelehrteu  Urspruugs.  ' 


'  Icli  wiirde  cimex  cimcella  unangetastet  stehen  lassen. 

'  Im  altport.  Te.stamente  (Boaventura  II  p.  101,  Exodus  Vili  16)  wird  das  sciniphes  der  Vulgata,  in  Ermange- 
lung  eines  entsprecbenden  Wortes,  durcli  moscas  wiedergegeben.  Modem  mosquito. 


Carolina  Michaelis  de  Vasconcellos. 


DIE  ENTAVICKELUNG  VON  C0N80NANT+W' 

IM   FRANZOSISCHEN. 


Aus  eineni  Hiatus-^  eutwickelt  sich  bekanntlicli  schon  friihzeitig  im  Lateini- 
schen  eiu  consonantisclies  u  (ir):  ich  erinnere  hier  nur  au  die  eine  Thatsache,  dass 
Wòrter  wie  temds  u.  dgl.  bei  ròmischen  Diclitern  wie  Grammatikern  bald  di-eisilbig 
(d.  i.  te-nu-ù)j  baki  zweisilbig  (d.  i.  ten-iois)  gerechnet  werden,  an  die  Vorschrifteii  in 
Probi  App.  vacua  non  vaqua,  u.  s.  w.  Man  vgL  kieriiber  jetzfc  E.  Seelmann,  Die 
Ausspracke  des  Latein  nach  physioL-kistor.  Grrundsatzen  (Heilbronn,  1885)  S.  231  ff. 
Was  nun  die  Weiterentwickelung  eines  solchen  aus  Hiat-w  entstandenen  w  beim 
Znsammenstoss  mit  andern  Consonanten  im  Franzòsischen  anbetrifft ,  so  beobachtet 
man  hier  die  auf  den  ersten  Blick  uberraschende  Tliatsacke,  dass  in  einigen  sonst 
ganz  gleichgearteten  Fàllen  eine  trotzdem  verschiedene  Bekandelung  des  w  sich 
eingestellt  hat.  So  ergibt  die  Grappe  itgjuWa -r- w  in  einigen  Wortern  LigMtVZa-j- y, 
wahrend  in  andern  Wortern  mit  denselben  etymologischen  Voranssetzungen  das  io 
ganzlich  schwindet:  man  vergleiche  z.  B.  Jaimarius  :  ^Jemoarius  '.jenYter,  aiinualis  : 
*anwalis:aTi^el^  etc.  roìt voluisti:*volwistì:vo'LÌs ^  teimisti  :  *tenwisti:  teixis.  Die  Wahi'neh- 
mnng  dieser  zwiefachen  Behandekmgsweise  veranlasste  mich  schon  vor  langer  Zeifc 
einmal  alle  FaUe  von  inkxutendem  consonantiscken  u  (tv)  naker  zu  untersuchen:  die 
Gesetze,  welche  sick  als  Resultai  dieser  Untersuchung  ergaben,  habe  ich  in  Kurze 
bereits  Zs.  fùr  rom.  Phik  Vili  S.  371  Anm.  und  S.  406  Anm.  mitgetheilt.  És  sei 
mir  gestattet,  das  dort  in  anderm  Zusammenhange  nur  kurz  augedeutete  hier  an 
dieser  Stelle  etwas  welter  atiszufiihren  und  zugleich  in  einem  Punkte  zu  bericktigen. 
Es  ergeben  sich  folgende  Lautregeln. 

I.  Kurze  Muta  (b  p  v  g  g  d  t)'  -ì-  io:  in  diesen  Gruppen  geht  die  Muta  stets  in 
Assimilation  an  das  folgende  consonantische  u  (w)  unter;  es  entsteht  jeweils  aus  Muta 
-f-  w  zunachst  wic,   das  alsdanu .  wie  jeglicke  lateiniscke  Consonanten-Gemination 


'  Da  andere  Zeiclien  in  der  Druckerei  uiclit  vorbanden  siud,  bezetchne  icb  mit  w  consonautisches  f. ,  mit  j 
consonautisches  i. 

-  Thurneysen,  das  Verbum  Hrc  und  die  franzosische  Conjugation  (HaUe  1SS2)  S.  U  sin-icht  mit  Unreoht 
nur  von  b  p  e  d  g. 


—  168  — 

franzòsisch  friihzeitig  zu  einfacher  Consouanz  ubergiug,  zu  io  reduziert  wurde.  Ùber 
die  weitern  Schicksale  dieses  aus  Muta  -f-  te  entsfcandenen  w  ist  von  mir  Zs.  f.  rom. 
Pliii.  Vili,  S.  371  f.  S.  386  f.  u.  sonst  ziemlich  eingeliend  gehandelt:  1)  InIìAUTend 
INTEBVOKALISOH  ist  IO  erhalten ,  sobald  es  voe  bem  Accent  steht  und  der  Vokal  a  oder 
e  vorausgeht  (in  der  Schrift  gewohnlich  diirch  deu  Buchstaben  w  dargestellt),  vgl. 
imter  den  folgenden  Beispielen  als  kierher  geborend  Falle  wie  aìois,  sawis,  plawis, 
deiois.,  etc;  geht  dagegen  der  Vokal  u  voraus,  so  ist  tv  gefallen,  vgl.  niuis,  nuis, 
comds  (S.  Zs.  VTII,  S.  378);  nber  pois  =2^oticisfi  s,  u.  I,  7,  Anm.  2)  Nach  dem  Ac- 
cent dagegen  liat  ?i'  in  derselben  Stellung  (inlantend  intervokalisch)  uv  beziehungs- 
weise  V  ergeben,  vgl.  vidwa  :  *veivwa  :  véuve,  véve  und  das  welter  unten  hiezu  be- 
merkte.  3)  Inlautend  voe.  folqendem  Consonanten  wurde  w  zu  vokaUschem  u,  das 
mit  vorausgekenden  a  o  und  i  zum  Dipktkong  versckmilzt,  dagegen  bei  vorlier- 
gekendem  ìi  in  Assimilation  an  dieses  fàllt,  vgl.  unten  die  Perfect-Formen  mit,  saut 
jdaut,  liout  {xìbev  pot  porent  s.  Zs.  Vili,  374)  diut  etc,  atirent,  saurent,  plaurent,  j)ou- 
1-ent,  diurent,  etc;  dagegen  mwi,  mit,  conut,  plut,  murent,  nurent,  conurent.  4)  In 
den  Auslaot  geteeten  wandelte  sich  tv  ebenfalls  zu  vokaHsckem  «t,  auf  einem  Wege, 
den  ich  vor  alien  a.  a.  0.  S.  386  naker  bescluieben  habe;  dies  u  verschmilzt  mit  vo- 
rausgekendem  a  o  e  i  wieder  zum  Dipktkong,  fiillt  aber  bei  vorausgekendem  ti;  vgl. 
von  den  unten  stekenden  Beispielen  die  Perfectformen  aii,  sau,  plau,  j)ou,  diu,  etc, 
dagegen  mu,  nn,'conu,  jj^u.  Beispiele,  welcke  das  kier  fiir  die  Entwickelung  der 
Grruppe:  Kurze  Muta -f- ««  aufgestellte  Gesetz  bestiitigen,  liefert  besonders  zaklrei- 
cke  und  instructive  die  Klasse  der'  starken  ?tt-Perfecta;  vgl.  fiir  die  in  Betrackt 
kommenden  Einzelkeiten ,  auf  die  lek  an  diesar  Stelle  nickt  wieder  eingekn  kann , 
Suchier's  bekannte  trefflicke  Abkandlung  Zs.  f.  rom.  Pkil.  Il  S.  255  ff.  sowie  Neu- 
maun ,  ebenda  Vili  S.  369  ff.  Uber  die  sonstigen  kier  folgenden  und  fiir  unser  Gesetz 
beweisenden  Beispiele  findet  man  das  Nakere  von  mir  Zs.  Vili  S.  381  ff.  ausgefiikrt. 
lek  lasse  jetzt  die  Belege  fiir  die  aufgestellte  Lautregel  folgen,  deren  Allgemeingiil- 
tigkeit  sick  dabei  kerausstellen  wird. 

1)  b~i-iv:io.  Vgl.  ]iabwi:*awwi:"aw[i]:  nordosiir.  aii;  '  hahwisti:*awwisti:'^awisti  : 
nordostfr.  airis;  ebenso  entstanden  aut,  awimes,  atvistes,  aurent,  aioisse,  età.  aus  habioit, 
*habiciìnus,  hahwistis,  ^lidbicerunt ,  liabioissem,  etc;  vgl.  ferner  *bibwi,  %ibwisti,  etc.  zu 
*biw[i\,  *bkvisti,  etc.  :  biii,  bewis,  etc;  dehioi,  debwìsti,  etc.  :  *deio[i],  ^dewisti,  etc.  : 
diu,  dewis,  etc;  desgleicken  *se&M-^°''-  :  ^sebio-  :  *seio-  :  seu  (s.  Zs.  Vili,  S.  399).' 

2)  p  -^w.w.  Vgl.  sapwi ,  sapwtsti,  etc.  :  *s«(«[t] ,  ^saivisti,  etc.  :  sau,  snwis,  etc; 
^recipwi,   '*re,dpu-isti,   etc  :  *reci('.-[*] ,  *reciwlsfi,  otc.  ■.reciu,   receu'ls,  etc;  desgleicken 


'  Ich  teschriinie  mieli,  xim  niclit  ziiviel  Eaum  in  Ansprnoh  eu  nehmen,  bei  don  Formen  von  iu-Perfeoten 
auf  Angabo  ilei-  nordostfranzbsiscben  Gestaltunp;.  Wie  aus  einem  *aioi  etc.  sich  die  gemeinfranz.  Form  ot  etc. 
entwickelte,  ist  von  mir  a.  a.  O.  eingobend  dargolegt  wordon. 

■■  Die  nahere  Begrilndung  der  oben  dos  bosohriinkten  Eaumes  wegen  n\ar  kurz  angedeutetcn  Entwicke- 
lungsreiho,  der  gemass  wir  in  seu  (wie  in  einor  Eeiho  von  weitern  Fiillen)  ■^erallgomeinerung  einer  in  der  spezieUen 
Stellung  vor  folgcndem  vokal.  Anlaut  eingetretonen  und  duroh  diese  Stellung  bedingten  Gestaltung  zu  erblicken 
haben,  ist  von  mir  a.  a.  0.  Zs.  Vili;  Heft  2  und  3,  besonders  S.  381  ff.  gegebon. 


—  1(19  — 

*ca^jM-™^'-  :  *capw-  :  *caw  :  *cau ,  woraus  danu  iu  der  Zs.  Vili ,  S.  399  beschriebenen 
Weise  kieu,  keu  bervorgiug. 

3)  0  -h  IO  :  w.  Vgl.  ^pavioi,  ^j^avwisft,  ete.  :  *j>)aw[('J ,  ''■^jnwUti,  etc.  :  jjrtft,  pawis,  etc; 
*crevwi,  *crevioisti,  etc.  :*cr'ei«[ij,  ^crewisti,  etc.  :  cj-im,  creiois,  etc;  *movwi,  *'movivisti,  etc: 
*»iOR'[i|  ,  ^rmwisti ,  etc  :  mw  ,  »mws,  etc.  ;  *cognovxoi  ,  ^cognovwisti ,  etc.  :  "*co»ìOM'[t] , 
*conowist{,  etc.  :  conw,  conuis,  etc;  '^jilovioit  :  *pZo«6'[i]<  :pZ«f.  Desgleiclien  die  Adjectiven- 
dung  -um-^-"'^-  :  '^-imu-  :  *-iw  :  -iu  (s.  Zs.  Vili,  S.  397  f.);  *blavu-^o^-  :  %lavio-  :  *blmo 
:  biau,  blou  (s.  ebenda)  ;  clavu-^°^-  :  '^eluvio-  :  *claw  :  clau,  clou  (s.  ébenda);  das  Suffix 
-avu-"''°^-  (z.  B.  Pictavum,  etc.)  :  '*-avio-  :  *-aw  :  ou  {Peitou,  etc,  s.  a.  a.  0.  S.  398). 

4)  ^  _f_  w  :  IO.  Vgl.  *legwi,  ^legwisti,  etc  :  *lew[i],  Heioisti  :  Un,  lewis,  etc.  Desgleiclien 
traugu-^°^-  :  Hraugw-  :  Hrqio  :  trou  (s.  Zs.  Vili,  S.  388);  fagu-^"^-  :  *fagw-  :  *faw  :  fau  , 
fon,  etc  (s.  Zs.  Vili,  S.  390);  '^sclagu-^"^-  :  *esclagio-  :  *esdaw  :  cgclau-,  csdo  (s.  ebenda); 
g^Qvok.  .  «g^,y  .  *g,,y  .  gjj  ^g_  ebenda ,  S.  392). 

5)  c-+-w:w.  Y  ^.  placwi ,  placwisti  ^  etc.  :*j)law[i\^*i]lawisti^  eie  :  pimi ,  plaiois ,  eie; 
tacici,  tacwisti,  etc.  :  *<a(('[*] ,  *taivisti,  etc.  :  tot,  taiois,  etc;  "jecwi,  *jacioisti,  etc.  :  *jew[i] , 
*jewisti,  etc.  :jiu.,jewis,  etc;  liciuit  :  *fò«[i]<  :  liut;  nocioi,  nocwisti,  etc.  :  *notoi,  ^nmoisti,  etc. 
■.mi,  nuis.  Desgleichen  focu-'^°^-,  locu-^°^-,  jocu-^°^-,  cocu-^°^- :  *fociu,  *loctv,  *jocw, 
*cocio  :  */'o(o,  How,  *joio,  *cow  :fou,  lou,jou,  cou  (a.  Zs.  Vili,  S.  386  &)\  paucu-^°^- , 
baucu-^"^-  :  *pauao ,  *bauciv  :  *pauw,  *hauw  :  pou,  bou,  etc.  (s.  ebenda  S.  388  flp.)  ; 
graecu-"^"^- ,  caecu-''°^-  :  *graecw,  *caecio  :  *  greto ,  *cew  :  greu,  ceu,  etc.  (s.  ebenda  S.  394). 

In  der  Entwickeliingsgeschicbte  der  Gruppen  g  -{-  io  tind  c-+-  w  ist  noch  ganz 
besonders  der  Umstand  zu  beachten,  dass  die  Gutturalis  in  dem  Assimilationspro- 
cess  vòLLiG  iintergebi,  walirend  in  der  allerdings  keineswegs  gleich  gearteteu,  aber 
dodi  verwandten  Gruppe  cv  (qu)  von  der  Gutturalis  eine  Spur  in  einem  parasitischen 
i  zuriickbleibt  :  vgl.  z.  B.  aiwe  aus  aqua,  sivve  (=  *siei«re)  aus  *sequere,  ive  aus  equa 
u.  s.  w.  Der  vollstandige  Untergang  von  e  und  g  in  den  Gruppen  cto  und  gw  batte 
wohl  seinen  Grund  in  dem  Umstande,  dass  w  seiner  eigenen  Articulation  geniàss 
eine  grossere  Assimilirungskraft  besass  als  das  in  seiner  Articulation  von  w  unter- 
schiedene  v  von  qu. 

6)  cZ  -f-  ?y  :  io.  Vgl.  ^credici,  *credwisti,  etc.  :  *c»'e?«[i],  ^creivisti,  etc.  :  criu,  creiois,  etc. 
Desgleichen  vado^°^-  :  *vadio  :  *vaw  :  *vau  :  vo[is]  (S.  Zs.  Vili,  S.  395).  Hierber  gekò- 
ren  aucb  die  frz.  Reflexe  von  lat.  viduns,  vidua.  Vidua  wurde  durch  vidwa,  vedwa, 
veiowe,  vewe  bindurcb  zu  altfr.  ve^oe,  veuve  (dialectisch  auch  veve  cf.  Pbil.  Mousket 
2760).  Nach  dem  Accent  ergibt  w  (bezw.  wio)  hier  uv,  dessen  u  mit  dem  be- 
tonten  Stammvokal  verschmilzt,  '  wàhrend  vor  dem  Accent,  wie  wir  salieu,  io  als 
solcbes  (ir)  beharrte  {awis,  etc).  Gegen  diesen  Wandel  von  w  nach  dem  Accent  zu 
uv  spricht  durchaus  nicht  das  io  der  bekannten  pikardischen  Femininformen  von  lat. 
Adjektiven  omì  ivus  :  ententiwe,  hastiwe ,  tardiwe,  etc.  (S.  ìiber  dieselben  das  Nàhere 
bei  Suchier,  Zs.  II,  S.  298  und  meine  Ausfuhruugeu  ebenda  Vili,  397).  Dies  w  ist 


'  Vgl.  damit  den  gmfr.  Wandel  von  *aifi  (walii'scheinlich  dnrch  Gin  a"wi  hindurch)  :  ^'Oivi  :  ol,  *claiv  {:*cla"ic) 
^cìow.clou  etc,  worùber  ich  Zs.  Vili,  s.  371  u.  sonst  geljandelt  liabe. 


—  170  — 

ganz  anderer  Provenienz  als  das  tcv  von  veuve  und  zndem,  wie  ich  glaube,  auch 
welter  niclits,  als  eiu  Zeicheii  f'iir  uv.  Lat.  Inteiitioa,  tardiva,  hastiva  ergaben  zvinàclist 
franz.  eìdentìve,  tardive,  hastive;  aiif  diese  Formen  wurde  alsdann  das  iio  der  Mascu- 
linformen  ententiu,  tardiri,,  hastiu,  dereu.  Entstehungsgeschichte  von  mir  a.  a.  0. 
dargelegt  ist,  aualogisch  llbertragen ,  und  so  entstanden  die  Formen  ententiuve 
(geschrieben  ententiwe),  tarditcve  (g.  tardiwe),  hastiuve  (g.  hastitoé)  n.  s.  w.  Das  d  der 
z.  B.  in  den  Quatre  Livres  des  Kois  (ed.  Le  Roux  de  Lincy)  S.  197,  Zeile  11,  Ges. 
Wilhelms  des  Eroberers  9,  Thom.  le  mart.  120  stehenden  Form  vedve  darf  wolil 
als  bloss  etymologisierende  Schreibung  angesehen  werden,  an  der  ersten  der  ange- 
fiìhrten  SteUen  besonders  noch  durch  ein  in  der  lat.  Vorlage  steliendes  vidtdtate  ver- 
aulasst.  Solite  dagegen  das  d  wirklich  gesproclien  worden  sein,  was  positiv  zu 
entsckeiden  nns  die  Hilfsmittel  fehleu ,  so  kann  vedve  im  Hiublick  anf  die  sonst  in 
Erbwòrtern  beobachtete  Eeduction  von  Muta  {d)-i-w  :  io  nicht  Erbwort  sein,  sondern 
muss  als  fremdwortliclie  Gestaltung  von  lat.  vidua  betracbtet  werden.  Vgl.  dazu  die 
atich  in  andern  romanischen  Spracben  eigenartige  Beliandlung  grade  dieses  Wortes: 
prov.  vezoa,  ital.  vedova  u.  s.  w.  Unregelmàssig  und  daher  einer  Erklaruug  bediirftig 
ist  aneli  die  Form  des  Masculinums  mit/;  ^'Ci(/(bezw.  vef)  =  vidmmi.  Wie  z.  B.  po<!« 
AvLvah polivi *poioi ,  *])ow\i]  hindurcli  zupow  wird  (s.  Zs.  Vili,  s.  379),  so  solite  viduum 
durch  vidwum,  *vedwum,  *veivum,  *veto[mn]  (um  fiillt  unter  derWirkung  der  Auslauts- 
gesetze)  zn  '"veu  sicli  gestalten,  viduus  anf  demselben  Wege  zu  veus.  Das/  von  veuf 
beruht  auf  analogischer  Neubildung:  wie  man  zu  rive  etc.  ein  masculines  vif  batte, 
so  schuf  man  zu  veuve  ein  veuf.  —  Dass  vuit ,  vuide,  vuidier  nicht  hierher  gehoren  und 
mit  viduum,  vidua,  viduare  nichts  gemein  haben,  bedarf  wohl  hier  nicht  der  Eròrte- 
rung  (vgl.  Thomsen,  Rom. ,  IV,  257). 

7)  t-}-w.io.  Vgl.  potivi,  potwisti,  etc:   *pow\i],  '''powisti,  etc:  pou,  pois,^  etc; 
*stetwi,  *stetwisti,  etc  :  *sfeM'[«J,  *stewisti,  etc.  :  estiu,  estewis,  etc 


'  Diese  Form  pois  (ebenso  natiu-licli  po'imcs  pdisUs,  ferner  dei"  Conj.  2>oisse  etc.)  bietet  nocla  eine  bislier  un- 
geloste  Schwierigkeit.  Erwarten  soUte  man  als  altere  lautgesetzliche  Entwickelnngsform  ein  *pou'ìS  etc.  (—crciris, 
estetcia,  awis  etc.)  Suchier  ist  entscbiedon  im  Uni'echt,  wenn  er  als  die  altre  Form,  aus  welcber  jjoì's  entstanden 
sei,  eiu  ^jyodis  ansetzt:  so  gut  (nacli  Svichier)  xyotwl  sein  t  verliert  in  don  woitern  Entwickelungstiifen 
^pow[i\  ipouj  musste  auch  in  potwtsti  etc.  t  untergehen  nnd  '-^powisii  '^^powis  entstebn.  Was  die  einzige  belegte 
Form  mit  d  {pollisi  des  Jonasfragmentes)  anlangt,  auf  die  S.  sìoli  stiitzt,  so  mochte  ich  dodi  Freund,  iiber  die 
Verhalfle.\ion  der  iilteston  franz.  Sprachdeukmiiler,  Reclifc  geben,  der  diese  Form  S.  22  mit  dem  aus  den  Strass- 
burger  Eidcn  hor  bckannten  Infinitiv  podir  in  Vcrbinduug  bi'ingt,  womit  aber  durcbaus  nicht  gesagt  sein  soli, 
dass  dio  naohhcrigon  Formen  pois  cto.  poissc  otc.  obonfalls  zum  Inlinitiv  poir  gehoren:  dies  goht  nicht  an  aus 
Qrunden,  welche  Suchier  a.  a.  O.  S.  270  Aum.  3  (Sohluss)  angibt.  Oder  aber:  podist  des  Jouasfragm.  kann  sogar 
als  jilngere  Gestaltung  aus  Xìoist  hervorgogangen  sein ,  indem  auf  letzteres  von  Formon  mit  damals  noch  erhalte- 
ncm  d  (()  wie  poduns  podra  etc.  d  analogisch  iibertragen  wurde.  Wie  cntsteht  nun  aus  altem  *poivis  etc. 
*i)0ì«i«se  etc.  jiingeres  iJOis  età.,  po'isse  i^tc,  mit  andern  Worton,  wie  erldart  sich  hier  der  Schwund  von  w? 
Das  ist  mciner  Moinung  nach  die  Frage,  wcloho  zur  Bcantwortung  steht.  Ich  glaube,  dass  w  hier  gefallen  ist 
"wegen  des  vorausgehondcn  o,  ganz  "wio  in  mn'is,  iiu'is,  coinìis  (s.  o.)  w  wogeu  des  vorangehcnden  u  iìol,  wahrend 
w  nach  a  e  von  Bòstand  war  (awis,  dcwis  cto.)  Diesor  Auflassung  steht  nicht  entgogen,  dass  in  poti  poni  ponrent 
{die  Formen  pot  i>orent  siud  Zs.  Vili,  374  besprochen)  das  w  als  u  im  Gegensatz  zu  i)oì>  otc.  ekbalten  erscheint , 
wiihrond  io  in  den  ontsproohendcn  Formen  imi  miUmiirent,  nu  nul  nunnt,  conu  comit  conunnt,  phd  glcichfalls 
und  nEBEREiNSTiMMEND  mit  «iKi»  kkìs  cOBMi's  GEFALt.E.-j  ist:  in  poii  poiit  pourcnt  ist  w  als  u  geblieben,  weil  das  letztre 
hier  cine  der  franzos.  Spraohe  geliiufige  Dipbthougvorbiudung  (oh)  cingolm  konnto,  wahrend  das  ungowohnliehe 
iiu  von  *mau  *nUu  etc.  (s.  Zs.  Vili,  S.  378)  nicht  als  Diphthong  von  Bostaud  war,  sondern  zum  Monophthong  ver- 


—  171  — 

Das  Proveuzalische  stimmi  —  was  Iiier  uebenbei  bemerkt  sein  mòge  —  mit  cler 
durck  die  vorstelieuden  Thatsaclien  fiir  das  Frauzòsische  erwieseuen  Behandlung  vou 
Muta  +  IO  bis  aiif  eineu  Fall  uberein.  Vgl.  fili'  h  -+■  w  Perfectformen  wie  oc  aguist,  ' 
bec  begidst,  dee  deguist,  fiiv  v -+-w  ])ac  ]](iguist,  crec  creguist,  moc  mogidst,  conoc  cono- 
guiiit,  fiir  e  -f-  lu  plac  plaguist,'  jac  jaguist,  noe  noguist,  lec,  desgleichen  *facó^°^-  :  *facw  : 
*J'aw  :  fau  (Zs.  Vili ,  S.  391) ,  anncu-"'°^-  :  *amicw-  :  ^arniw  :  amm  (ebenda  S.  394) ,  fiir 
(j  4-  w  fagu-''°^-  :  *fagiu  :  *faw  :  fau  (s.  o.),  ebenso  esclaio  (s.  o.),  fiir  d-h  w  sec,  vado'"'^-  : 
*vadw  :  *vaw  :  vau  (s.  o.),  ebenso  gradu-"'°^-  :  grau^  nidu-""^-  :  niu  (Zs.  Vili,  S.  396), 
fiir  t  -(-  IO  poc^  2)ognist,  etc.  —  Eine  noch  nicht  erkliirte  Ausnalimestellung  nimmt  im 
Provenzalischen  die  Gruppe  p>  +  w  ein  :  wàhrend  im  Franzosischen  sich  aus  ^j  +  w 
ebeufalls  wie  in  den  andern  Filllen  mit  Untergang  der  lab.  Tennis  w  entwickelt, 
widersteht  im  Provenzalischen  das  p  der  Assimilatiou  an  iv ,  dergesfcalt,  dass  sapm 
ein  saup,  saptcisti  ein  saubist  u.  s.  w.  ergibt. 

II.  Lange  Consonanz  (Muta + Muta,  Liquida + Muta,  Muta + Liquida  etc.) +w. 
In  diesen  Gruppen  widersteht  die  Muta  vor  w  der  Assimilation  und  das  w  geht 
unter.  Vgl.  batlwo,  *bdttwere,  ^  battwalia  :  bat^  battre,  bataille;  quattwor  :  quatre;  conswo, 
*cónswere  :  coms,  cousdre;  sangiois  :  sane;  lingiva  :  leng(ti)e,  exstingivere,  etc.  :  esteindre; 
ungiuere,  etc.  :  oiadre;  febrwarius  -.febrarius  (App.  des  Probus)  ■.fevrier;  vgl.  auch  mortus 
fiir  mortwus  schon  bei  Cicero  u.  s.  w. 

IIL  Liquida  +  w.  Hier  sind  zwei  Falle  zu  unterscheiden  : 

1)  Wenn  Iw  und  nw  (diese  zwei  kommen  nur  in  Betracht)  in  franzosischer 
Lautentwickelung  mit  einem  folgeuden  deitten  Consonanten  zusammenstossen ,  so 
schwindet  in  dieser  dreifachen  Consouanz  der  mittlere,  das  w;'*  so  werden  Iwt  mot 


schmolz.  Vgl.  als  eìne  dem  Schwund  von  iutervokalem  w  nach  ;/. ,  o  verwandte  Ersclieìnuug  den  Ausfall  von  iu- 
tervokalem  v  (6  pf)  vor  and  uach  labiaben  Vokalen  :  Inette,  oeille,  paon,  paor  u.  s.  w.  S.  Thvirueysen  a.  a.  O.  S.  30  f. 
Zs.  VUI,  S.  382  f. 

'  ìiahwisti:  ^awisti:  agulst  mit  Wandel  des  io  :  gii,  ebenso  placioiaii  :  *pìawìsti  :  plaguìst,  pottvisti  :  *pQwisti: 
poguisl  u.  s.  w.  S.  Zs.  Vili,  S.  372  Anmerk.  aacb  Sucbier  Zs.  II  S.  268. 

'  Dass  e,  gii  hier  niolit  Eeflexe  d6.s  stammhaften  e  sind,  bedarf  wohl  kaum  der  Erwabmuig:  s.  Z.s.  VIII, 
S.  372  Amn.  und  S.  391  f. 

\        '  Oeber  dio  Aoeeutversotznng  s.  Zs.  VIII,  S.  408  Aum.;  iiber  battre,  cousdre  vgl.  auch  Grober  im  Archiv  f.  lat. 
Lexikographie  I,  249  und  553. 

'  Auch  sonst  beobachtet  mandieRegel,  dass  in  dreifacher  Consonanzder  mittlere  Bestandtheil  fallt,  wenn 
derselbe  eine  Laiiialis  und  der  erste  Consonant  keine  Muta  ist.  Mit  der  Kediiction  von  lim'  :  Ir  (Idr)  lasst  sich  direct 
vergleichen  dar  Wandel  von  lor  :  Ir  ^Idr)  :  z.  B.  solvere  :  solre  (pik.  saure),  soldre;  pulv'rem  :  polve,  poldre;  vgl.  fer- 
ner  die;  Uebergange  Ibn  zu  ht  :  galb'nus  znjalne,  Jaunisse;  Ips  zìi  Is  :  colps  zu  cols;  mps  zu  ms  :  tcmps  zu  tems, 
camps  zu  cams,  redempsi  zu  raems  etc;  mpt  zu  ìit  :  comp[u]tiis  zu  conte;  mbs  zu  vis  :  amb's  zu  ams;  mbt  zu  nd  : 
bomb[i]tare  zu  bandir,  amb\i]tus  +  anus  zu  and-ain  (vielleicht  auch  in  afr.  oude  =  amb{i]tiis  vgl.  Zs.  f.  rom.  Phil.  II, 
S.  313  ;  dagegen  Rom.  VII  S.  630)  ;  rvc  zu  rg  :  verv\e]caTius  zu  bergier;  rvs  zu  ra  :  serv's  zu  sers,  cerv's  zu  cers;  rfc,  zu 
r<ì:forf\i\cem  zu.  force;  rps  zu  rsicorp's  zu  cors;  [rbl  zu  ri;  parabolare  z\i parler ;]  rmt  zu  ri  :  dorm[i\toriuìn  zu  dortoir, 
firm[i]tatem  zu  ferie  frete  Eich.  1.  b.  1042,  1062,  (fermete  und  fermte  sind  Premdworter),  coiìfirm\e.]t  zu  conferì;  rms 
zu  rs  :  infirm's  zu  enfers,  verm[i]s  zu  vers  (s.  Suohier,  norm.  Reimpredigt  S.  XXXVIII);  spc  zu  se  :  susp[i]care  zu 
soschier  (cf.  suscherent  =  suspioati  sunt  Q.  Livi-es  des  Kois,  ed.  Le  Eoux  de  Lincy  S.  338,  Z.  18;  sospicier  ist  Fremd- 
wort,  ebenso  wohl  sospe<;on,  wenn  man  nicht  vorzieht,  dasselbe  mit  Horning  Zs.  VI,  S.  435  t.  =  suspectionem  zu 
setzen);  apt  zu  3t  :  hospli]talem  zu  Jiostol;  spd  zu  sd  :  hisp[iìdus  zu  hisde,  hisp[ildosus  zu  liisdos;  spi  zu  si  :  mesp[ì]li(m 
zu  ìnesle  (O.  de  Serres  656  :  XVI.  Jh.  ;  neu-norm.  mele ,  pik.  mesle  merle,  bcrr.  mèle  ;  mesjile,  meple,  mespe  sind  Fremd- 
worter);  sbt  zu  st  :  presb[y]ter  zu  prestre;  sfm  zu  sm  :  blasfie]mare  zu  blasmer.~In  der  eineu  Gruppe  rmu  liei  der 
dritte  Consonant  n  :  terìn[i]niim  zu  afr.  terme  {termine  ist  fremdwortlich).  —  Erhalten  ersoheint  interoonsonantische 


—  172  — 

Iwr  nwr  zu  It  ni  Ir  (bzw.  Idr)  w  (bzw.  ndr)  :  volw[i]t  :  volt,  tenw[i]t:  tint,  "venw[i]t:viiit, 
*vólw[e]ruiit  :  volreut  voldrent,  *téiiw[e]runt  :  tinrent  tindrent,  *vénw[e\runt  :  vinrent  vindrent. 
Ebenso  werden  Iwj  und  nwj  zu  Ij  (weiterHn  l  l)  und  nj  (weiterhin  n  n).  Beispiele  : 
*volwj  *tenwj  *vemoj  (z^  volwi^°^- tenwi''°^- *venwl''°'^-)  '  :  *voIj  *tenj  *venj  :  voti  Un  vin, 
deren  l  und  n  dann  nach  Analogìe  von  volt  tint  vint  (s.  o.)  zu  l  n  ùbergehn:  voil 
tin  vin. 

2)  Wenn  auf  inlaut.  ho  mo  ein  Vokal  folgt,  so  bleibt  w  als  v  erhalten.  Beispie- 
le: tenuem  :  tenwem  :  tenve;  januarius  :  jemoarius  :  genvier;  annualis  :  amoalis  :  anvel. 
Danach  soUten  wir  aus  Genua  nicht  das  bekannte  fr.  Gènes  sondern  ein  Genve  entwic- 
kelt  erwarten.  AUein  dieser  Ausnahmefall  dilrfte  kaum  im  Stande  sein  die  Allgemein- 
giiltigkeit  der  obigen  Lautregel  in  Frage  zu  sfcellen:  Eigennamen  participiren,  wie 
zahllose  Beispiele  beweisen,  nicht  immer  an  deujenigen  Lautgesetzen ,  nach  denen 
sich  sonst  die  lautliolien  Wandlungen  des  volksthumlichen  Wortscliatzes  regeln ,  und 
unterliegen  oft  der  Wirkung  von  ansserhalb  der  Laufcgesetze  stehenden  und  z. 
Th.  nicht  mehr  erkennbaren  Faktoren  (Volksetymologie  u.  dgl.) ,  zumai  wenn  es  sich 
lina  Namen  aus  einei'  fremden  Sprache  handelt.  Fur  den  vorliegenden  Fall  beachte 
man  wohl,  dass  im  Dialekte  der  Genuesen  der  Name  ihrer  Stadt  ZeNa  lautet. 
Gewichtigere  Bedenken  kòunten  jedoch  gegen  unser  Gesetz  von  Seiten  gewisser 
franz.  Verbalformen  erstehn.  Nach  der  aufgestellten  Lautregel  sollteu  aus  einem 
lat.  tenwisti  *vemuisti  volwisti  natiirlicherweise  als  altfranz.  lautgesetzliche  Formen 
*teniois  *venwis  *voliois  und  weiterhin  *tenvis,  *venvis,  *volv{s  (ebenso  *tenvimes, 
*tenvistes,  *tenvisse,   etc,   *venvimes ,    *venvistes,   *venvisse,  etc,    *volvimes,   *volvistes, 


Labialìs  nxix  wenn  sie  uingeben  ist  von  r~r  {vgl.  arbre  marbré  purpre  etc),  oder  s-r  {vcsjrre),  oder  ?»-?*  (vgl.  rompre 
pampre),  oder  ii-Jt  w-'  (vgl.  embler^^  involare,  ambler^=  ambulare,  nomhles  simple).  Man  beachte,  dass,  wie  zwischen 
m-r  und  m-l  die  Labialis  sich  erhiilt,  ebenso  andrerseits  die  Gruppen  vir  mi  fr.  ein  b  als  UeborgangslaiTt  annehmen 
nnd  zu  mbr,  mbl  werden  (mit  Ausnahme  bekanntlicb  des  pik.  Dialektes):  vgl.  nombre,  cocotnbre,  membrer,  chambre, 
raembre  etc.  (in  giendre  =■  gcm[e]re,  priendre=::prcm\e\re,  crnindre  =  trem[e]re  ist  nicht  etwa  mr  ausnahmsweise  zu 
7j(Zr  geworden ,  sondern  es  ging  das  -m-  des  Infinitivs  nach  Analogie  von  Voriaen-wìe  gieiis  giait,  prieìis  prient, 
crìens  crìent,  in  denen  m  sich  an  das  dent.  s,  t  assimilìrte  undjautgesetzlicli  zu  n  wurde,  ebenfalls  zu  n  iiber,  und 
in  der  so  entstandenen  Gruppe  n-r  stellt  sich  naturgemiiss  d  als  Uebergangslaut  ein;  so  stellt  sich  neben  gkKT, 
prienT,  crieNT  ein  ///cndre,  ^jr/eNOKE,  creìsDRE,  wie  man  zu  prewv  ein  prcNoRE,  plaiUT  ein  iJiaiNORE  etc.  batte) ,  ferner 
sembler,  combler,  humble,  trembler  etc. 

'  S.  Zs.  Vili,  S.  2S9.  Wie  fiir  tin  vin  wegen  des  Uinlauts  von  stammliaftem  e  zu  i  von  einem  *(fi??.[!«];'«ok.  *t)enr«iy«nk. 
auszugehn  ist,  so  muss  erst  recht  voil  wegen  seines  parasitischen  i  vor  l  als  Verallgemeinerung  der  Entwickelung 
von  «otojvok-  angesehn  werden.  Nui'  das  sich  in  dieser  Stellung  einstellende  *voliiiì,  *volJ  (Hiat-i  :  j)  mit  der  Gruppe 
Ij  kann  parasitisches  i  vor  l  entwiekeln,  wahrcnd  sich  aus  einem  v  -Zw^ons.  mit  stets  vokalischem  und  dann  unter 
der  Wirkung  dea  Auslautsgesetz  abfallenden  ausi,  i  nie  cine  Gestaltung  mit  parasitischem  i  vor  l  ergeben  konnte. 
—  Aehnlich  ist  —  was  hier  zu  Zs.  Vili  S.  26:i  ff.  uachgetragcn  sein  niag —  das  mouillirte  l  [III)  in  prov.  jì«/A  noben  ttul, 
belìi  neben  bel  etc.  zu  orkliiren.  Auszugehn  ist  von  dor  Form  des  Noni.  Plur.  nulli,  belli.  Die  beiden  mussten  bei  vo- 
kalischem Anlant  dea  folgenden  Wortea  zu  nnHj'^"'^  beHj'"^  werden,  woraus  dann  ganz  regelrecht  mit  dem 
bekannten  Uebergang  von  Ij  :1  (Ih)  nulli,  nnd  belìi  entstanden,  wiihrend  nulli  '''""■  belli  <-'»"=•,  da  in  dieser  Stellung 
ausi,  i  stets  vokalisch  blieb  und  dann  fiel,  ein  nul  bel  entwiekeln.  Von  jenen  nulìi  und  belìi  aus  wurde  Ih  dann  aiich 
auf  andere  Forraen  derselbon  Worter  (z.  B.  Ca».  obi.  Sgl.  nulli  belli  neben  dem  laxitgesetzlich  nur  moglichon  nul 
bel)  analogisch  ttbertragen,  gleiohwio  nach  Analogie  von  ilìi  cilìi  (=  illi  'ok  )  auch  andorc  Formen  dieses  Prono- 
mens  (z.  B.  Gas. .obi.  Sgl.  celli)  das  III  annahmen  (S.  a.  a.  O.  S.  '264).  Die  Annahme,  wonach  in  Formen  wie  belìi  nulli  II 
im  Gogensatz  zu  der  sonst  bolegten  Lautregel  statt  zu  l  ausnahmsweise  auch  einmal  zu  III  entwickelt  sei,  steht, 
solange  man  aicb  nicht  hemùht  die  Griinde  dieser  Doppolgestaltunp;  kines  und  dessolben  Lautes  klarzulcgen, 
mit  den  Principien  der  Spraohgesohiohte  im  Widerspruch. 


—  173  — 

*volvisse,  etc.)  entstandeu  sein.  Diese  Formen  sind  jfidoeli,  wie  bekannt,  niclit 
belegt,  sondern  wir  treffen  dafiir  von  Anfang  an  nur  t.e>m,  venis ,  volis,  u.  s.  w.  rnit 
Scliwund  des  consonantischen  u{w).  Allein  wenn  auf  der  einen  Seite  bloss  Formen 
von  Verben  stehn ,  welche  oft  imd  leicht  allerlei  Systemzwang  und  Aualogiewirkung 
unterworfen  sind,  auf  dee  andern  Seite  dagegen  Wòrter  wie  tenve,  etc,  die 
ziemlich  isoliert  im  Worfcschatz  dastehn  und  daher  keiuerlei  Systemzwang  ausge- 
setzt  sind,  so  kann  man  stets  sicher  gehn,  dass  die  isolierten  Worter  das 
regelmasslge,  gesetzmassige  repriisentieren  und  im  vorliegeuden  Falle  das  Gesetz 
des  Wandels  von  Iw,  nw  :  lo,  nv  garantieleisten,  dergestalfc,  dass  jene  Falle  tenis , 
venis,  volis  nicht  lautgesetzlich  sein  konnen,  sondern  ilire  Erklàrung  ausserhalb 
des  Gesetzes  finden  milssen.  Wir  haben  es  in  der  That  in  diesem  Schwund  des 
w(y)  mit  einem  analogischen  Vorgang  zu  thun:  nach  dem  Muster  von  voil,  volt, 
voldrent ;  tin ,  tint ,  tindrent ;  vin,  vint,  vindrent,  in  denen  das  w  der  Grtippen  ho,  nw, 
wie  wir  unter  ITE,  1  sahn,  lautgesetzlich  fiel,  ist  auch  in  den  Formen  *temvis, 
*vemv{s,  *volwis,  etc,  friih  Iw  (Iv),  nw  (nv)  zu  l,  n  reduziert  worden,  so  dass  tenis , 
venis,'  volis,  entstehn.  Durch.  die  Annahme,  dass  nur  in  voil,  volt,  tin,  tint,  vin, 
vini,  etc  LAUTGESETZLiCHEE  ScHWTJNB  des  mittleren  Consonanten  tv  einer  Dreiconsonanz, 
in  tenis,  venis,  volis  aber  analogischer  Schwund  vorligt,  stehe  ich  in  Gregensatz  zu 
Suchier's.  Zs.  II,  s.  270,  Anm.  1  ausgesprochener  Ansicht,  wonach  Iw,  nw  durch  Assi- 
milation  zu  II  l,  nn  n  geworden  sein  kònnte:  ich  glaube,  dass  Suchier  fùr  tenis, 
venis,  volis  die  richtigere  Erklàrung  oben  auf  derselben  Seite  270  getroifen  batte. — 
Wenn  aber  auch  alti,  von  Anfang  an  in  den  Literaturdenkmàlern  nur  tenis,  venis, 
volis,  etc.  angetroffen  werden,  so  haben  wir  doch  (wie  ich  schon  Zs.  Vili,  406  Anm. 
angedeutet  habe)  sichere  Anzeichen  dafiir,  dass  jene  lautgesetzlich en  Formen  *volvis, 
"tenvis,  *venvis,  etc.  einmal  —  wenn  auch  vielleicht  nur  kurze  Zeit  —  in  der  leben- 
digen  franzòs.  Sprache  existiert  haben  miissen.  Die  von  Suchier  a.  a.  0.  S.  263, 
besprochenen  dialektischen  Formen  tinvet,  vinvet  fur  tint,  vint,  die  man  bislang  ent- 
weder  garnicht  erklarte  oder  doch  nur  in  sehr  gezwungener  und  den  sonst  erkann- 
ten  Lautgesetzen  widersprechender  Weise  zu  deuten  vermochte,  finden,  wie  ich 
glaube,  ihre  ungezwungene  Erklàrung  in  der  Annahme,  dass  sie  zur  Zeit,  als  jene 
*tenvis  *venvis,  etc.  nodi  existierten,  durch  Analogiewirkuug  dieser  Formen  ihr  nv 
fiir  n  erhielten,  wie  umgekehrt  nach  dem  oben  eròrterten  *tenvis  *venvis,  etc.  nach 
Analogie  von  tint  vint  etc.  ihr  v  (w)  verloren  und  zu  tenis  venis  wurden.  Vgl.  fiir  diesen 
in  zwiefacher  und  dazu  grade  entgegengesetzer  Richtung  eingetretenen  analogischen 
Ausgleich  bei  denselben  Formen  u.  a.  afr.  pri-proions,  wofiir  einerseits  pri-prions 
mit  analogischer  Verallgemeinerung  des  Vokals  der  stammbetonten  Formen ,  ander- 
seits  proi-proions  mit  analog.  Verallgemeinerung  des  Vokals  der  endungsbetonten 
Formen  eintrat.  (vgl.   Behrens,  Franz.   Stud.   Ili,    6   S.   35  ff.)  Was  endlich  die 


*  Das  frz.  venis  direct  auf  das  lat.  venisti  zuruckzufiibreu.  "widerriith.  wie  Suchier  Zs.  II,  270  richtig  bemerkt, 
das  entsiirechende  provenz.  vcnguisl,  woi-in  das  gu  dem  tv  (von  *ccuioisfi)  eiitspricht. 


—  174  — 

Aunalime  einer  Analogiebildung  nach  iii;r  erschlosseueu  Formeu  anlangt,  so  stelin 
derselbeu  keiuerlei  Bedenken  entgegen.  Deiin  wie  die  pik.  Neubildung  mi[e]ue  in 
bisher  nie  angezweifelter  Weise  die  eiumalige  Existeuz  eiues  afr.  nicht  belegten  *mieus 
bestàtigfc,  so  legen  die  Neubiklungen  tlnvet  vinvet  von  der  friiheren  Existenz  der 
nicht  belegbaren,  aber  auf  Grund  sonsfc  erkannter  Lautgesetze  erschliessbaren  For- 
men  *tenvis  *venvis,  etc.  ein,  wie  ich  meine,  gleich  unwiderlegliclies  Zeugniss  ab. 


Fritz  Nedmann. 


UN  TESTO  DRAMMATICO  SPAGNUOLO  DEL  XY  SECOLO 


PUBBLICATO    PER   LA    PRIMA    VOLTA 


I3.A.    .A-LFOlSrSO    lSj!LI01^ A.. 


Il  testo  che  vien  pubblicato  qui  appresso  si  trova  nel  primo  dei  due  volumi  cartacei  in  8" 
d' una  raccolta  manoscritta  di  poesie  e  prose,  latine  o  italiane  quasi  tutte,  appartenuta  al 
marchese  De  Sterlich,  e  venduta  dai  costui  eredi  nel  1871  alla  Biblioteca  Nazionale  di 
Napoli,  dove  ora  si  conserva.  Questo  volume,  segnato  XIII.  CI.  42,  contiene  in  primo  luogo, 
come  si  legge  nell'indice  di  mano  moderna,  che  gli  sta  innanzi: 

Elegia  Paridis  Stratae....  in  laudem  Colantonii  Calai-di. 

Tragedia  del  Giudizio  Universale  di  Colantonio  Galardo.  (1584) 

Canzonetta  Spagnuola  in  decima  runa  con  sua  prefazione,  d' incerto  autore. 

Con  quest'ultimo  titolo  sono  indicate  talune  decime  contenute  in  un  quaderno  di  8  carte, 
scritto,  come  pare,  alla  fine  del  XV  secolo.  Esse  son  precedute  da  una  lettera  dedicatoria 
senza  sottoscrizione,  che  comincia: 

«  Muy  alta  y  L.'""  ex."   » 

«  Los  que  mcresgieron  en  las  tales  causas  escrevir  de  qualro  virtudes  deuen  ser  guarne- 
cidos....  » 

Seguono  le  strofe,  le  quali  sono  in  lode  della  Duchessa  di  Ferrara  e  delle  sue  damigelle: 
la  prima  comincia  : 

«  Soys  duquena  tan  Real 

en  f erara  tan  querida 

qu  el  bueno  i  el  comunal 

de  todos  en  general 

soys  amada  soys  temida....  » 

Dopo  di  esse  ho  rinvenuto  l'anonimo  testo  che  do  alla  luce,  sfuggito  al  compilatore  del- 
l'indice, o  da  lui  confuso  col  precedente. 

Molti  altri  scritti  vengono  in  seguito,  e  primi  fra  essi  una 

Egloga  di  Nicola  Bonifacio. 

Il  Fedro,  ovvero  il  Dialogo  detto  Carrafe.sco  composto  dal  N.''  Ovidio  Dava  di  Miner- 
vino (1576),  etc.  etc. 

La  maggior  parte  son  cose  del  XVI  secolo,  ed  ajipartengono  ad  autori  pugliesi,  in  par- 
ticolare  di    Bitouto    e   di    Minervino,  o  hanno  alti-imente  rapporto  con  quei  luoghi.  Ma  la 


—  176  — 

coesistenza  dei  due  manoscritti  spagniioli  e  delle  dette  scritture  nello  stesso  volume  io  la 
credo  puramente  fortuita.  Forse  non  rimonta  più  in  là  della  fine  del  secolo  XVIII,  quando 
questa  miscellanea  fu  rilegata  e  furonvi  aggiunti  il  frontespizio,  l'indice  e  nuovi  numeri 
alle  carte. 

Il  nostro  testo  è  racchiuso  in  un  quaderno  di  10  carte,  che  portano  i  numeri  132-141 
della  nuova  numerazione.  Il  carattere  in  cui  è  scritto  mi  pare  della  prima  metà  del  XVI  se- 
colo: appartiene  a  quel  genere  che  gli  Spagnuoli  chiamano  bastardo  o  italico. '^  Manca,  forse 
per  lo  smarrimento  di  una  o  più  carte,  sì  il  titolo  del  componimento  e  il  nome  dell'autore, 
che  qualunque  altra  indicazione  di  età  o  di  provenienza. 

A  me  occorreva  sapere,  ritrovato  che  ebbi  questo  testo  e  vistane  l'importanza,  se  fosse 
edito  o  noto  almeno,  prima  di  accingermi  a  darlo  fuori.  Senza  aver  jiotuto  rintracciare,  per 
quanto  mi  fossi  dato  da  fare ,  '  notizia  alcuna  di  esso ,  non  tardai  ad  accorgermi  che  nel  fondo 
questo  piccolo  dramma  aveva  molto  di  comune  col  celebrato  Diàlogo  entre  el  Amai-  y  un  Viejo, 
composto  da  Rodi-igo  Cota  alla  fine  del  XV  secolo.  Il  quale  dialogo,  pubblicato  la  prima 
volta  nel  Cancionero  general  di  Hernando  del  Castillo  ^  {impreso  en  Valencia  por  Cristohal 
Hoffman,  aiio  de  1511)  fu  ristampato  in  Medina  del  Campo  l'anno  1569  col  titolo:  Dialogo 
hecho  por  el  famoso  autor  Rodrigo  de  Cota,  el  Tio,''  nattiral  de  Toledo,  el  cuoi  compuso  la 
ègloga  de  Mingo  Revulgo,  etc.  Da  quest'ultima  indicazione,  ora  non  più  ritenuta  per  vera,  ■ 
il  Moratin ,  nelle  sue  Origenes  del  Teatro  Espaiiol,  "  dice  che  si  può  inferire  esser  vissuto 
Rodrigo  Cota  sotto  i  re  Giovanni  II  ed  Enrico  IV,  essendo  l'Egloga  cosi  detta  di  Mingo 
Revulgo  una  satira  contro  il  re  Enrico,  fatta  da  un  contemporaneo.  Il  De  la  Barrerà  può 
affermare  con  sicurezza  ciò  che  suppone  il  Moratin;  ma  fondato  sopra  un  fatto  diverso  e 
certissimo,  cioè  l'essere  stato  il  Cota  contemporaneo  del  poeta  Anton  de  Monterò,  che  visse 
realmente  a  tempo  di  quei  sovrani,  e  scrisse  contro  di  lui  taluni  versi. 

Il  detto  dialogo  di  Rodrigo  Cota  è  stato  ristampato  pure  altre  volte,  cioè  insieme  alle 
Coplas  di  Jorge  Manrique  in  varie  antiche  edizioni;  "  separatamente  in  una  edizione  senza 
data  né  luogo  di  stampa,  citata  da  B.  J.  Gallardo;  '  ma  che  apparisce  fatta  da  J.  A.  de  Pa- 
dilla  al  principio  del  XVIII  secolo;  ed  in  fine  delle  due  edizioni  della  Celestina,  (1822-1835) 
per  cura  di  Leon  Amarita.  *  Io  intanto  non  ho  potuto  aver  presente  che  il  testo  mancante  di 
circa  una  terza  parte,  quale  si  legge  nella  collezione  di  drammi  anteriori  a  Lope  de  Vega, 
che  aggiunse  il  Moratin  alla  citata  sua  opera.  Quindi  m'  è  impedito  di  fare  un'  esposizione 
parallela  dei  due  testi,  cioè  del  Cota  e  del  mio  Anonimo,  per  stabilirne  i  rapporti.  Non  mi 
credo  però  dispensato  dal  dirne  alcuna  cosa,  e  comincio  per  mettere  innanzi  la  quistione: 
quale  è  il  più  antico  dei  due  componimenti?  Parrebbe,  a  piuma  vista,  il  Dialogo;  poiché  figu- 


'  Veggasi  il  saggio  a,  facsimile ,  olie  ne  do  in  fine. 

'  Fra  le  opere  che  in  primo  luogo  ho  consultate  citerò  il  Cafalocfo  hiblloijrnjico  /j  hioffrafico  del  teatro  nntigito 
espaTtol  (lesile  sus  ori(jenea  haata  mediado  del  siglo  XVIII  por  D.  Cayetano  Alberto  de  la  Barrerà  y  Leirado.  Madrid 
(Rivadencyra)  1860,  in-4. 

"  De  la  Barrerà,  op.  oit.  pag.  106.  Il  suddetto  Canzoniere  si  è  ristampato  ultimamente  a  cura  de' Bibliójìlos 
EspaTioles. 

'  È  detto  eltio,  ossia  il  vecchio,  il  seniore,  per  distinguerlo  forse  da  un  suo  parente  più  giovano  che  portò 
lo  stesso  nome.  Il  De  la  Barrerà  lo  chiama  Rodrigo  Cola,  de  Uagnaque,  e  dice  che  fu  di  razza  israelita. 

'  Biblioteca  de  Autores  EspaTioles,  edita  dal  Rivadeiieyra,  Tom.  II,  pag.  179. 

"  De  la  Barrerà,  1.  e. 

'  Ensayo  de  una  Biblioteca  EapaHola  de  libros  raros  y  curiosos,  Madrid  (Bivadeneyra)  1856.  Tom.  II,  col.  016. 

'  Do  la  Barrerà ,  1.  e. 


—  177  — 

rando  in  esso  solamente  due  personaggi,  dovrebbe  così  avvicinarsi  di  più  al  Contrasto,  che 
apparisce  nelle  nostre  letterature  come  la  forma  primitiva  donde  poi  è  derivato  il  dramma. 

Come  in  tutte  le  letterature  neolatine,  abbondano  nella  spagnuola  i  Dialoghi  e  i  Contrasti, 
di  cui  parecchi,  scritti  nel  XV  secolo,  e  che  precedono  quindi  di  poco  l'apparizione  del 
dramma,  son  citati  dall' Amador  de  los  Rios  nella  sua  Historia  Critica  de  la  Literatuva 
Espaùola.  '  In  alcuni  di  essi  vediamo  aggiunti  ai  due  primi  interlocutori  altri  personaggi,  e 
ciò  veramente  accade  anche  in  tempi  anteriori  a  quello,  in  cui  fu  scritto  il  Diàlogo  entre  el 
Amor  y  un  Viejo;  sicché  1'  esserci  nel  nostro  dramma  un  terzo  personaggio  non  sarebbe  ima 
ragione  sufficiente  onde  accordare  la  precedenza  al  Diàlogo. 

Ci  sono  altre  ragioni  invece ,  le  quali  farebbero  supporre  che  dall'  anonimo  dramma  sia 
piuttosto  derivato  il  Diàlogo.  Di  fatti  in  esso,  quantunque  non  manchi  l'azione,  e  tutto  ciò 
che  costituisce  un  vero  dramma  fatto  per  essere  rappresentato  ;  ^  quel  che  maggiormente  pre- 
domina è  il  Contrasto,  eontienda,  come  l'Amore  chiama  due  volte  il  lungo  ragionamento  fra 
lui  e  il  Vecchio  :  il  che  manifesterebbe  una  più  immediata  attinenza  con  le  antiche  forme.  Ma 
d'altra  parte  qui  il  Contrasto  non  ha  nulla  dell'aridità  primitiva.  I  personaggi,  mentre  qui- 
stionano  sottilmente,  spiegano  un  carattere  tutto  proprio  ed  hanno  una  particolare  fisonomia 
che  li  distingue;  e  ciò  è  indizio  di  un'arte  già  abbastanza  provetta,  della  quale  è  pur  segno 
un  certo  che  di  compiuto  che  si  avverte  in  tutto:  nell'orditura  e  nello  svolgimento  della 
favola,  nella  squisita  venustà  dei  concetti  e  delle  frasi,  nell'espressione  dei  sentimenti  la  più 
vivace  e  naturale ,  senza  che  vi  s' incontri  pur  una  bassezza. 

Queste  doti,  o  altre  simiglianti,  hanno  attribuite  i  critici  anche  a  quei  primi  saggi  del 
genio  drammatico  spagnuolo,  che  aprirono  la  via  al  vero  dramma;  e  fra  tutti  è  specialmente 
ammirato  e  lodato  il  Diàlogo  di  Rodrigo  Cota.  Il  Moratin  '  dice  che  quel  dialogo  è  una  vera 
rappresentazione  drammatica,  con  azione,  intreccio  e  svolgimento.  Il  Ticknor  aggiunge  che 
esso  senza  dubbio  preparò  la  via  al  dramma,  cominciato  più  tardi  col  genere  pastorale;  e 
nota  la  somiglianza  d'  un'  Egloga  di  Juan  del  Encina  col  detto  dialogo.  L' Amador  de  los 
Rios  afferma  °  che  basterebbero  solo  i  due  dialoghi  di  Mingo  Revulgo  e  dell'  Amore  e  un 
Vecchio ,  per  scovrirci  entro  l' impronta  caratteristica  dell'  ingegno  spagnuolo  nella  rappre- 
sentazione viva  degli  affetti  e  dei  costumi,  che  trovano  nell'arte  drammatica  il  loro  centro. 

Eppure,  di  fronte  al  nostro  ignorato  testo  quanto  non  risulta  inferiore  il  Diàlogo  del 
Cota!  Le  accennate  qualità,  per  quanto  mi  è  dato  giudicarne  dalla  mutila  edizione  del  Moratin , 
si  fanno  in  esso  intravedere  senza  esplicarsi  pienamente.  L'azione  è  più  rapida,  vi  è  meno 
disputa;  ma  lo  scioglimento  arriva  non  preparato;  i  caratteri  non  sono  abbastanza  determi- 
nati; tutto  divien  vago  e  scolorito  in  quel  dialogo  quando  si  ponga  a  confronto  con  questa 
vera  e  perfetta  poesia  drammatica  che  ci  sta  innanzi. 

Tornando  ora  alla  quistione  circa  la  priorità  dell'  un  testo  o  dell'  altro  :  si  può  dopo  ciò 
che  ho  detto,  risolverla?  A  me  è  sembrato  di  vedere,  e  l'ho  manifestato,  ragioni  a  favore 


'  Tom.  VII.  Madrid,  1865,  pag.  481. 

'  I  seguenti  luoghi,  e  qualche  altro,  fan  presupporre  necessariamente  gli  spettatori: 
«  ....  corno  aveys  visto  aqui  todos  » 
«  ....  pues  delante  vuestros  ojos.  » 
(V.  a  pag.  188,  col.  1 ,  str.  2  e  col.  2 ,  str.  2.  —  V.  ancora  a  pag.  182,  col.  2,  str.  2  e  3.) 
"  Op.  e  1.  cit. 

'  Hiatoire  de  la  littératiire  espagnole ,  traduite  par  .J.-G.  Magnabal ,  avec  les  notes  et  additions  de  P.  De  Gayangos 
et  H.  De  Vedia  1«'  Periodo.  Paris  (Durand)  1864,  a  pag.  241. 
'  Op.  e  voi.  cit.  pag.  482. 


—  178  — 

di  entrambi:  ritengo,  per  altro,  senza   saperlo  precisamente   dimostrare,   che   debba  essere 
più  antico,  ma  non  di  molto,  il  Dialogo.  Non  di  molto,  perchè  se  esso  fu  scritto  verso  il  1470, 
anche  il  nostro  Anonimo  dovette  scrivere  j^rima  del  1500. 

Il  nostro  manoscritto,  che  è  una  copia,  come  ho  detto  innanzi-,  della  prima  metà  del 
XVI  secolo,  fu  tratto  certamente  da  un  più  antico  esemplare,  di  cui  il  copista  si  studia  se- 
guii'e  la  grafia,  che  non  è  più  quella  del  suo  tempo.  Una  volta  comincia  a  scrivere  hom.... 
e  poi  cancella  quelle  lettere ,  e  scrive  onhres  per  essere  fedele  al  suo  originale.  ' 

Per  parte  mia  ho  anch'  io  fedelmente  esemplato  il  manoscritto  eh'  ho  avuto  presente  ; 
tranne  l'aver  separate  le  parole  fra  loro  imite  e  avvicinate  le  sillabe  divise,  introdotto  la 
punteggiatura  e  gli  accenti,  reso  costante  l'uso  degli  altri  segni  ortografici.  Di  più  mi  son 
permesso  di  emendare  taluni  luoghi  del  testo,  che  ho  trovato  errati,  ed  in  tal  caso  ho  se- 
gnato in  nota  la  lezione  del  manoscritto.  Il  copista  corregge  pur  egli  qualcuno  degli  sbagli 
che  commette  per  distrazione  o  fretta;  ma  altre  volte  mi  pare  ch'egli  cada  in  errore  anche 
per  imperizia  neU' intendere  i  caratteri  che  trascrive.  ^ 


Alfonso  Miola. 


'  Questa  data,  ohe  vien  fissata  dalMoratin.  non  può  essere  che  approssimativa. 

-  V.  a  pag.  121,  col.  1,  ultimo  verso. 

"  Per  essere  sicuro,  prima  di  darlo  alle  stampe,  che  questo  testo  fosse  veramente  inedito,  ne  diedi  notizia 
all'  illustre  prof.  D.  Marcolino  Menendez  y  Pelayo ,  della  cui  amicizia  assai  m'  onoro  ;  chiedendogli  se  nulla  no  sa- 
pesse. La  risposta,  teste  arrivatami,  è  una  conferma,  e  la  più  autorevole  che  ci  possa  essere,  del  risultato  negativo 
delle  mie  ricerche.  77e  nicorrido,  mi  scrive  il  Menendez ,  nuestros  niitiijuos  Caiicioneros  y  imestras  antigiins  piezas  dra- 
mdticas  sin  encontrar  rostro  ni  vestigio  de  la  comitosicion  que  Vd.  ha  desmbierto....  Mis  amitjos  tampoco  conocen  el  dialo- 
go, y  esto  aumenta  la  importancia  del  desciibrimienlo  de  Vd.... 


/Oi- 


l^fi- 


'Tr.v.rl.cu^u.,  S^-^    ^t  <x»...-MuUrcppfU-p 


oT^mci^ 


'fa 

(o  Q  f^oT  n^iias  ora  y<7<z5 


'bttffis 


qu<zi  lo  <Sx)ntde.i  a^^(<:S 
fo  alio':  //^lias  cIcK^i 

'       ■ *'     tJi  7110S    tna(<i5 

IO  (V  <i atiqarìas 


ìtmn-vio 


y  <xmac(ò 


ll}i<i.n  Q  ^'^^    ^^itXfJii.-moS 


Z oìnan  fajjiiQrc/c  /ordii ci 
h  Q.J cTlatiQ-no.  ìiteir  /^:t< 
<z^   ari  nuacfo   tkyiTiléla. 
<zr  Ipv  jjQjiofo   rtiyeracio 

(/<ZfijO    cO!fisf>Q7<ie{o 

y  QnU-izkrìtsL  J/hito-jiKz^ci 


^oìamas  ffoj^  coi? /fan fa 
'\}n  -momcTì/o   ao.TiArìofo 
J/fl-ryoT  czjfo   /^  ftQriTtS. 
aindrr  Jq  hi  pkzti  /^  c^tfix. 
at/a  al-frn   711  Uy  7)7ns  fx'ofo 

clahi^  jpToiTTc/èfS  hi^^»A% 
iUnos  ci*  TZ Iterai  y  crrrtHS 


nryvciy 


—  179  — 


INTERLOCUTORES  SENEX  ET  AMOR  MULIERQUE  PULCRA  FORMA. 


S.  \0  muudo,  dime  quién  eros, 
qué  es  lo  que  puedes,  qué  vales, 
con  qué  nos  lleuas,  dò  quieres, 
siendo  el  fin  de  tus  plazeres 
principio  de  nuestros  males! 
^Qué  es  el  99110  con  que  enganas 
nuestra  mudablo  aficion? 
que  con  engaùosas  maùas, 
al  tiempo  que  tu  te  ensanas 
dexas  preso  el  coracon. 

l  Con  qué  nos  buelues  y  tratas , 

abaxas  y  fauoreces  ? 

l  Con  qué  nos  sueltas  y  atas  ? 

(^  Con  qué  nos  sanas  y  matas , 

nos  alegras  y  eutristeces  ? 

^  Qué.es  el  secreto  ascondido, 

tras  quien  todos  nos  perdemos  ? 

^Quiei-es,  '  mtindo  entristecido, 

que  haga  ser  cono9Ìdo  ' 

el  bien  que  de  ti  atendemos? 

Es  Tua  esperan9a  vana, 
do  jamas  falta  querella; 
que  quien  la  pierde  la  gana , 
y  él  que  la  tiene  mas  sana 
està  en  miedo  de  perdella: 
es  vn  penoso  cuydado, 
vna  rrauia  lastimei'a, 


Ms.  queres. 
■  Ms.  concido. 


desco  desesperado 

en  los  huesos  sepultado 

y  en  la  frente  escrito  fuera. 

Do  jamas  no  se  consiente 
"VTi  momento  de  reposo; 
y  si  por  caso  se  siente 
quien  de  tti  bien  se  contente, 
queda  al  fin  muy  mas  quexoso; 
que  lo  que  mas  alcau9amos 
de  tus  promesas  liuianas, 
es  que  quando  nos  guardamos 
sin  pensarlo  nos  hallamos 
llenos  de  rrugas  y  canas. 

Estos  son  tus  benefi9Ìos, 
tus  mas  crecidas  mercedes, 
con  que  pagas  los  seruicios 
de  los  que  a  olor  de  tus  VÌ9Ì0S 
van  a  caer  en  tus  rredes: 
y  despues  que  con  tus  galas 
has  preso  los  que  eran  sueltos , 
con  ligero  batir  de  alas 
comò  anguilla  te  resualas, 
y  ellos  se  quedan  rebueltos. 

Yo  hablo  comò  quien  sabe 
todas  tus  faltas  y  sobras: 
he  visto  lo  que  en  ti  cabe; 
y  si  quieres  que  te  alabe, 
muda  condÌ9Ìon  y  obras, 


—  180 


que  del  bien  tan  prosperado 
de  que  me  heziste  contento, 
tus  mudancas  me  an  dexado 
solamente  està  cayado, 
con  que  mi  vejez  susteuto. 

A.  ^Quiéu  sta  en  casa?  S.  ^,Quiéu  llama? 

A.  Abre.  S.  ^Qmén  eres?  A.  Amor. 

S.  i  Qué  qiiieres  ?  A.  A  tu  vida  y  fama. 

S.  Va  con  dios  que  ya  tu  llama 
no  me  causa  mas  dolor. 
^No  sabes  que  ha  muchos  anos 
que  de  ti  me  hallo  lexo? 
por  que  tus  dulces  engaùos 
me  han  fecho  no  meno  danos 
que  el  mundo  de  quien  me  quexo. 

A.  Desplazeme  tu  porfia, 
no  consiento  tal  oluido; 
que  no  cabe  en  cortesia 
desazer  la  compania, 
despues  que  es  el  pan  comido. 
Y  pues  eres  bien  criado 
no  sigas  villanos  modos  : 
abreme,  y  despues  a  entrado 
quexa  el  mal  que  te  e  causado , 
que  jusiiicia  ay  para  todos. 

S.  Conozco  tu  condicion, 
sonme  claras  tus  cautelas, 
sé  que  centra  tu  pasion 
la  justicia  y  la  rrazon 
muchas  vezes  calan  velas: 
no  me  engaiìa  el  sobreescrito , 
110  tu  ciencia,  no  tu  arte; 
avnque,  comò  los  de  Egito, 
halagas  el  apetito 
por  Imrtar  por  otra  parte. 

A.  Sin  rrazon  vsas  comigo, 
tratasme  corno  adversai'io; 
y  sabes  bien  que  yo  contigo 


siempre  vsé  cosas  de  amigo, 
sieudo  en  mi  mano  el  contrario. 
'Ya  tu  llamaste  a  mi  piierta 
quando  estimauas  mi  gloria  : 
fuéte  sin  tardar  abierta; 
bien  lo  sabes,  si  no  es  muerta 
con  los  anos  la  memoria. 

jNo  seas  desgradecido,  ' 
pon  a  tu  sana  algun  freno! 
y  si  estàs  endurecido , 
mira  que  de  onbre  sabido 
es  seguir  cousejo  ajeno. 
S.  Quiero  querer  lo  que  quieres , 
por  que  des  fin  a  tus  quexos; 
mas  despues  que  dentro  fueres, 
por  que  conozco  quien  eres , 
saludame  desde  lexos. 

Que  corno,  tocando,  Mida 
conuertia  '  en  oro  luego , 
asi  tu  mano  enyendida 
quanto  toca  en  està  \T.da 
haze  conbertir  en  fuego. 
Pues  si  a  mi  no  as  de  llegar, 
entra  si  entrar  te  plaze, 
y  sey  breue  en  el  hablar, 
por  que  el  mucho  dilatar 
es  cosa  que  me  desplaze. 

A.  Saluete  Dios,  buen  senor, 
biuas  de  Aestor  los  aùos 
sin  saber  que  sea  dolor. 
Publiquese  tu  loor 
entre  los  pueblos  straùos: 
los  daùos  de  senetud 
y  su  cansacio  te  huya: 
tórnete  la  jouentud 
con  mas  perfeta  virtud, 
que  quando  mas  era  tuya. 


'  Ms.  desffradecio. 
'-  Ms  conuertida. 


181 


S.  Falsa  cara  de  alacrau, 
cierto  daùo  que  atormenta , 
ya  sé  bien  corno  se  dan 
las  zarazas  eii  el  pau, 
por  que  el  gusto  no  las  sienta. 
Estas  bendi  ciones  tantas 
no  las  quiero  ^,claro  babloy 
por  que  con  ellas  encantas, 
corno  quien  con  cosas  santas 
quiere  inuocar  al  diablo. 

No  te  cale  roncearme, 

que  soy  viejo  aoncliillado: 

que  tvi  querrias  remocarme, 

para  tornar  a  mancarme, 

el  camino  traes  errado; 

por  que  es  '  la  pasion  tan  fiera 

que  causas,  que  quiero  mas 

beuir  en  està  manera, 

que  debaxo  tu  bandera 

la  mejor  vida  que  das. 

A.  Pues  que  me  diste  licencia 
para  entrar  donde  te  veo, 
con  algo  mas  de  pacientia 
te  plaga  prestarme  audientia; 
por  que  sepas  mi  deseo. 
Soy  venido  a  consolarte 
por  mostrarte  mi  afficion, 
no  con  gana  de  enojarte, 
ma  por  que  senti  quexarte 
del  mundo  no  sin  rrazon. 

Y  agora,  segun  pare9e, 
sin  justa  causa  mouido 
tu  furor  se  ensoberue9e 
centra  quien  no  lo  merece, 
poniendo  el  mundo  en  oluido  : 
quiero  estar  contigo  a  cuenta 
si  te  plazera  escucharme. 


'  Ms.  por  que  la.... 


S.  Desde  alla  haz  que  te  sienta, 
que  tu  allento  me  escalieuta 
tanto  que  temo  abrusarme. 

A.  Soy  contento ,  pues  te  plaze  : 
quiero  en  todo  obedecerte; 
pero,  si  no  te  desplaze, 
dime  ^qué  causa  te  haze 
vltrajarme  de  tal  suerte? 

S.  ^  Quieres  que  claro  lo  diga  ? 

A.  Dilo  sin  ningun  recelo. 

S.  No  me  muestres  enemiga 
por  ningun  mal  que  te  sigua, 
mostrando  tu  desconsuelo. 

A.  Stando  quedas  las  manos, 
poco  temo  de  la  lengua. 

S.  jO  carcel  de  los  hiimanos, 
ya  muestras  por  dichos  llanos 
no  stimar  honrra  ni  mengua! 
Tii  te  abaxas,  tu  te  enxalcas, 
tu  te  alteras  y  te  mudas, 
tu  con  presunciones  altas 
pieusas  encobrir  tus  faltas, 
y  dexaslas  mas  desnudas. 

Eres  vn  fuego  ascondido, 
que  las  entranas  abrasa: 
eres  tan  entremetido, 
que,  sin  ser  mas  conocido, 
te  azes  seiìor  de  casa  : 
eres  sabroso  venino," 
àmago  dulce  y  suaue, 
fiebre,  frio  de  contino, 
piloto  que  sin  mas  tino 
Ueua  do  quiere  la  naiie. 

Es  tu  pena  tanto  fuerte, 
que  qualquier  otra  se  oliaida: 
atormentas  de  tal  suerte. 


—  182 


que,  siendo  qiiieai  es  la  muerte, 
la  hazes  tornar  por  vida: 
es  tu  Reyno  vna  galea, 
do  biue  tan  tristemente 
quien  mas  seruir  te  desea, 
que  no  ay  onbre  que  lo  crea, 
sino  el  triste  que  lo  siente. 

Alli  son  los  coracones, 
galeotes  de  por  fuerca, 
rreman  con  las  afficiones, 
liiereslos  con  las  pasiones 
por  poco  que  el  rremo  tuerta: 
lo  que  deseclian  los  ojos 
es  lo  que  la  boca  gusta  ; 
cuytas,  mudancas,  antojos, 
sospiros,  9elos  y  enojos 
son  la  xar9Ìa  desta  fusta. 

No  bablo  corno  enemigo, 
no  con  cautelas  y  artes: 
de  todo  quanto  aqui  digo 
tu  presencia  es  buen  testigo: 
si  se  notan  bien  tus  partes, 
siendo  moco,  pobre  y  9Ìego 
^  qué  es  lo  que  de  ti  se  espera  ? 
El  bolar  es  tu  sosiego, 
llamas  son  de  biuo  fuego 
lo  que  està  en  tu  liujauera. 

De  los  tuyos  mas  de  dos, 

por  colorar  tu  locura, 

te  pusieron  nonbre  dios; 

mas  lo  cierto  es  que  entre  nos 

eres  mortai  desuentura: 

que  si  fuesses  quien  te  llamas, 

dexarias  de  ser  quien  eres: 

la  lena  para  tus  llamas 

no  serian  vidas  ni  famas, 

de  quien  sigue  tus  plazeres. 

Asi  que  es  la  conclusion 


que  dire,  avnque  te  enojes, 

que,  pues  mata  tu  pasion, 

ó  mtides  la  condicion, 

ó  del  nonbre  te  despojes. 
A.  (_  Y  tan  presto  as  acabado? 
S.  No  ay  acabo  en  tu  tormento. 
A.  i  Pues  ?  S.  Dexolo  de  causado. 
A.  jDespues  qiie  me  as  desonrrado, 

te  falta,  viejo,  el  allento! 

No  pienses  con  tus  furores 

quitarme  desta  contienda: 

mas  lo  que  me  da  dolores, 

que  entre  tantos  amadores 

no  ay  vn  '  que  me  defienda, 

no  ay  quien  responda  ^  A  quien  digo? 

Todos  abaxays  las  cejas: 

solo  Dios  me  sea  testigo 

que  a  quien  fuere  mas  mi  amigo 

cerare  mas  las  orejas. 

Con  lagrimas  y  gemidos 

en  vuestras  necessidades 

suplicays  ser  socorridos; 

mas  cierranse  los  oydos 

para  mis  aduersidades. 
S.  ^Quién  a  de  tornar  por  ti, 

siendo  tirano  tan  diiroV 
A.  lA.  quién!  Quantos  estan  aqui. 
S.  i  Y  en  esos  pones  a  mi  V 
A.  El  primero.  S.  Yo  lo  dudo. 

A.  No  dudaràs"  quando  vieres 

los  bienes  que  en  mi  se  encierrau. 

S.  \  Ha  ha  ha!  A.  Oye,  si  quieres, 
y  veràs  que  mis  plazeres 
vuestros  pesares  destieran. 

«S'.  Gata,  que  a  mucho  te  obligas. 

A.  ^  Qué  diràs,  si  lo  ago  cierto? 

S.  Que,  por  mucho  que  me  digas, 

'  Ms.  vno. 
'  Ms.  duras. 


183 


son  tus  obras  enemigas 
de  plazer  y  de  concierto. 

A.  Aora  escuclia,  por  que  veas 
comò  biues  engaùado. 

S.  (^  Engaùado  !  No  lo  creas. 

A.  No  me  turbes,  si  deseas 
ser  dello  certificado. 
Comienca  del  alto  polo 
basta  el  pentro  del  iufierno, 
y  veràs  comò  yo  solo 
a  Jovie,  Pluto  y  Apolo 
mando,  gonierno  y  rebueluo. 

Destos  particnlarmente 
es  mi  enemiga  contarte: 
bàstete  que  el  mas  potente 
he  fecho  ser  mas  obediente, 
mas  por  fuerca  que  por  arte. 
Las  aues  libres  del  cielo 
a  mi  mando  son  sujetas: 
los  peces  andan  en  celo, 
y  sienten  debaxo  el  yelo 
las  Uamas  de  mis  saetas. 

A  los  animales  torno 
fieros,  que  con  mi  centella 
de  mansedumbre  los  orno: 
es  testigo  el  vnicornio, 
qual  se  vmilla  a  la  donzella. 
Las  plantas  inanimadas 
tanpoco  se  me  defìenden: 
con  tal  fuerca  estàn  liguadas, 
que  sino  estàn  aparejadas  ' 
ay  algunas  "  que  no  prenden. 

De  los  onbres  y  muieres; 
pues  eres  tu  deste  cuento, 
si  coufesarlo  quisieres, 
bien  diràs  que  mis  plazeres 


'  /Sic  =  apai'eacla6. 
'  Ms.  alguna. 


sigue  quien  a  sentimiento: 
y  tanbien  por  esperiencia 
deues  tener  conocido, 
que  si  alguno  à  mi  potencia 
quiere  azer  resistencia 
aquel  queda  mas  vencido. 

Los  que  estan  en  religion, 
y  los  que  nel  miindo  biuen 
de  qualquiera  condicion, 
con  deseo  y  aficion 
en  mi  esperan  y  a  mi  siruen; 
asi  que  bien  me  conviene 
este  nonbre  dios  de  amor; 
pues  si  el  mundo  plazer  tiene 
yo  lo  causo  y  de  mi  ■viene, 
y  sin  mi  todo  es  dolor. 

Si  no,  dime  sin  pasiones, 
ya  acabo  :  '  no  te  alborotés  : 
,;  quién  haze  las  inuintiones, 
las  musioas  y  canciones, 
los  donayres  y  los  motes, 
las  demandas  y  respuestas, 
y  las  sontuosas  salas? 
^  las  personas  bien  dispuestas , 
las  justas  y  rricas  fiestas , 
las  bordaduras  y  galas  V 

^_  Quién  los  suaues  olores, 

los  perfum.es,  los  azeytes, 

y  quién  los  dulces  sabores, 

las  agradables  colores, 

los  deKcados  afeytes  ? 

l  Quién  las  fìnas  alconzillas ,  ' 

y  las  aguas  estiladas  ? 

,;  Quién  las  mudas  y  cerillas  ? 

^  Quién  encubre  las  manziUas 

en  los  gestos  asentadas  ? 


Ms.  acalo. 
Ms.  alconzilla. 


184  — 


Las  fuercas  de  mis  efetos 
los  defetos  naturales 
tornan  en  actos  perfetos: 
liazen  de  torpes  discretos, 
y  de  aiiaros  liberales: 
los  couardes  esforcados, 
los  soberuios  miiy  vmanos, 
los  glotones  temperados,  ' 
los  inetos  prouechados 
y  plazibles  los  tirauos. 

En  los  viejos  encogidos 
resu9Ìto  la  virtud: 
tornan  linpios  y  polidos, 
y  en  plazeres  detenidos 
les  conseruo  la  salud: 
causa  proueclios  sin  cimento 
que  dezirlos  seria  afrenta. 
S.  Verdad  es  ;  ^  mas  el  tormento , 
que  traspasa  el  sentimiento, 
no  se  escriue  en  està  cuenta  ? 

Creo  que  auias  oluidado  " 

que  hablas  con  quien  te  entiende. 

,;  No  sabes  que  yo  e  prouado 

que  es  aziuar  coufitado 

lo  que  en  tu  tienda  se  vende? 

0  no  alcanca  mi  saber, 

ó  tu  alabas  gloria  ajena; 

pues  en  la  tuya,  a  mi  ver, 

no  ay  momento  de  plazer 

qua  no  cueste  mas  de  pena. 

A.  Nunca  muclio  costò  poco, 
ni  jamas  lo  bueno  es  caro: 
mira  bien  lo  que  te  toco; 
que  es  sentencia ,  y  no  de  loco , 
ser  prepiado  lo  que  es  rraro: 
todas  las  cosas  criadas 
tienen  està  condicion. 


'  Ms.  temperarle. 


que  facilmente  alcaucadas, 
facilmente  son  dexadas 
sin  mirar' mas  lo  que  son. 

De  la  cosa  mas  compuesta 
si  el  precio  quieres  saber, 
veràs  conforme  respuesta: 
tanto  vale  quanto  onesta, 
sea  qualquiera  sa  valer; 
pues  siendo  qual  es  mi  gloria, 
por  que  no  venga  en  oluido, 
no  es  justo  que  aya  memoria 
el  que  consiguie  viteria 
del  mal  por  ella  cofrido. 

^,  Has  visto  los  que  coubaten  ? 

Si  veen  ganaucia  al  ojo, 

no  temen  que  los  maltraten, 

y  coren  donde  les  maten 

por  codÌ9Ìa  del  despojo: 

daquesta  misma  manera 

es  quien  sigue  mi  querer; 

por  que  el  &i  que  en  mi  se  espera 

es  tan  dulce,  que  quienquiera 

a  el  trabajo  por  plazer. 

S.  Puede  ser  que  en  tantos  dias 

ayas  mudado  costunbre; 

mas  quando  tu  me  regias, 

yo  sé  bien  que  ser  solias 

vna  amarga  seruidunbre. 
A.  Hallaràs  gran  difFeren9Ìa 

de  lo  de  eston9es  agora, 

y  veràs  por  esperiencia 

de  gratitud  y  clementia 

mi  condicion  se  decora. 

S.  Pues  si,  comò  dizes,  eres 
y  tus  obras  son  tan  fieles, 
ese  arco  con  que  hieres, 
dime:  ^para  quo  lo  quieres? 

A.  Solo  para  los  rebeles. 


—  185  — 


S.  rt  Y  a  los  que  leales  fueroii , 

qné  galardones  les  dan  ? 
A.  Queridos  comò  qiierran 

seràn,  y  mientra  binieren 

no  sabràn  qné  sea  pesar. 

S.  En  el  prometei"  sin  rrienda 

he  visto  siempre  tu  lengua. 
A.  (_  Quieres  desto  alguna  prenda"? 
S.  i  Que  al  partir  de  la  azienda 

no  recibas  daiìo  y  mengua! 
A.  Yo  sé  bien  lo  que  prometo, 

y  sé  que  podré  gardarlo. 
S.  ;  Mira  que  ande  el  juego  neto! 
A.  Si  quieres  ser  mi  sujeto 

comencaràs  a  prouarlo. 

S.  Temo  de  tu  sujecion; 

por  que  fuy  en  vn  tiempo  tuyo ,  ' 
y  sé  quàn  contra  rrazon 
va  la  ley  de  tu  pasion: 
•mas  ni  por  eso  la  buyo, 
que  avnque  tu  ley  enemiga 
de  sosiego  y  de  alegria, 
es  tan  naturai  y  antigua , 
que  es  por  fuerca  que  se  sigua 
si  por  as  sino  por  tria. 

A.  i  Luego  ya  quieres  seguirme? 
S.  No  sé  si  diga  de  si. 
A.  i  Qué  temes  ?  S.  Que  no  eres  firme. 
A.  i  Con  qué  quieres  que  confirme 

la  promesa  que  te  di? 
S.  Con  la  obra.  A.  So  contento:    ' 

dexame  poner  la  mano 

do  tengo  hazer  asiento; 

y  veràste  en  vn  momento 

derecho,  fresco,  locano. 

S.  Dime  primero  en  qué  parte.' 

'  Ms,  por  que  yafuy.,.. 
'  Ms.  memento^ 


A.  Aqui  sobre  el  cora9on. 

S.  He  miedo  no  andes  '  con  arte, 
por  que  siempre  oy  loarte 
por  vn  famoso  ladron  : 
y  avn  dire ,  sino  te  ensanas , 
que  te  comparan  al  rrayo; 
por  que  con  sotiles  manas 
nos  arrancas  las  entranas 
sin  liora  darnos  eusayo.' 

Pues,  si  me  quieres  tocar 
para  sin  vida  dexarme, 
so  color  de  me  sanar, 
mas  me  quiero  enfermo  star  ' 
que  no  acabar  de  matarme. 
A.  Demasiadas  porfias 
vsas  en  està  contienda: 
proprio  es  de  onbre  de  tus  dias; 
y  pues  de  mi  no  te  fias, 
busca  quien  menos  te  ofenda. 

S.  ^  Como  !  Y  jiizgas  a  locura, 
si  el  que  espera  acometer 
sus  bienes  a  la  ventura , 
con  diligen9Ìa  procura 
lo  que  puede  suceder? 

A.  i  No  mas  di  !  No  es  escusado , 
y  avn  sellai  de  onbre  ingrato: 
siendo  ya  ^ertificado 
del  bien  que  està  aparejado, 
busca  cince  piés  al  gato. 

S.  Ya  te  entiendo ,  bien  te  ueo  : 
mi  dolencia  es  tu  salud: 
satisfaz  a  tu^  desco , 
que  azer  cunple,  segun  creo, 
de  ne9esidat  virtud: 
pon  '  la  mano  do  dexiste: 
toma  posesion  entera 


'  Ms.  0  andas. 
'-  Ms.  el  sano. 
^  Ms,  por. 


186 


desta  casa  que  elegiste. 
A.  Dime:  ^,  agora  quo  sentiste  ? 
S.  Vna  llaga  clulce  y  fiera, 

Pena  cierta  incorregida, 
vn  sabor  que  al  gusto  plaze, 
con  que  salud  se  oluida; 
vn  morir  que  ha  nonbre  vida, 
deseo  que  me  desplaze: 
el  plazer  que  agora  siento 
veesle  aqui  luego  de  mano. 
A.  iBiue  alegre,  està  contento! 
que  si  el  principio  es  tormento, 
medio  y  fin  te  sera  llano. 

S.  Ya  te  he  hecho  sacrificio 

de  mi  antigua  libertad; 

mi  deseo  es  tu  seruitio; 

quanto  al  dar  del  beneficio 

cunplase  tu  voluntad. 
A.  Endreca  tu  persona , 

coupon  tu  Gabello  y  gesto, 

tus  vestiduras  adorna; 

que,  avnque  jouentud  no  torna, 

plaze  el  viejo  bien  dispuesto.  ' 

S.  Ya  que  estoy  atauiado, 
dime:  ^  qué  quieres  hazer? 

A.  Quiero  te  azer  namorado, 
y  el  mas  bien  auenturado 
que  jamas  pensaste  ser. 

*S'.  Querria  que  me  mirases 
todo  todo  en  deredor, 
y  si  ay  mal  que  le  emendases. 

A.  Si  9Ìnquenta  aùos  dexases 
no  podrias  estar  mejor. 

Mas  tal  es  mi  propiedad, 
que  do  quiera  que  yo  llego 
no  ay  respeto  a  autoridad, 


'  Ms.  riaze  el  bien  el  vicjo  disjmes. 


a  linaje,  ni  a  edad: 

por  eso  me  pintau  ciego. 
S.  Hora  pues  ^  quando  querràs 

meterme  en  està  conquista? 
A.  Buelue  el  ojo  aqui  de  tras, 

qtie  soy  cierto  que  veràs 

cosa  jamas  por  ti  vista. 

Mas  no  te  mudes,  ni  alter  es, 
que  es  cosa  de  onbre  indiscreto: 
di  pues  por  seruir  la  miijeres, 
quando  con  ella  fueres, 
que  te  acete  por  sujeto. 

*Si.  (,  Y  tu  no  estaràs  eomigo  ? 

A.  No.  S.  iPor  que?  ^1. Por  '  que  yo  quiero 
que  tengas  solo  contigo 
el  secreto,  buen  testigo 
del  amor  que  es  verdadero  : 

Mas  aqui,  tras  està  pnerta, 
estaré  donde  te  sienta 
con  oreja  bien  dispuesta: 
tu,  despues  de  echa  tu  of'erta, 
con  ser  suyo  te  contenta. 
jOye,  oye!  antes  que  vayas: 
por  evitar  '  desconcierto, 
cata  que,  por  mal  que  ayas, 
nunca  muestres  que  desmayas 
de  ser  suyo  bino  y  muerto. 

S.  \0  diuinal  hermosura, 

ante  quien  el  mundo  es  feo , 
ymagen,  cuya  pintura 
pintó  Dios  a  su  figura, 
yo  te  veo ,  y  no  lo  creo  ! 
Tales  dos  contrarios  siento 
en  contenplar  tu  e9elen9Ìa; 
que  entre  plazer  y  tormento 
detenido  el  sentimiento 
no  conozco  tu  presen9Ìa. 

'  Ms.  j^fo. 
'  Ms.  avitar. 


—  187  — 


;  Descanso  de  mi  memoria, 
de  mi  cuydado  Consuelo, 
de  mis  plazeres  istoria, 
causa  de  toda  mi  gloria, 
sefiora  de  mi,  en  el  suelo 
suplicote!  pues  mi  suerte, 
por  hazer  mi  pena  cierta, 
piiso  en  ti  mi  vida  y  muerte , 
que  tu  virtud  desconcierte  ' 
lo  que  en  mi  mas  se  congierta. 

i  Cousieuta  tu  merecer , 
no  por  rruego  '  conpeUda, 
mas  por  solo  tu  valer, 
que  te  sima  mi  querer 
mientra  durare  està  vida! 
y  si  me  culpas,  por  que 
en  pedir  merced  excedo, 
rrazon  tienes,  bien  lo  sé; 
mas  tu  virtud  y  mi  fé 
me  ponen  nueuo  deuuedo. 

j  0  aiìos  mal  enpleados, 
o  vejez  '  mal  conocida, 
o  pensamientos  danados, 
o  deseos  mal  hallados, 
o  verguen9a  bien  perdida! 
M.  Uiue  en  seso,  viejo,  en  dias 
que  te  espera  el  cementerio: 
dexate  destas  pórfias; 
pues  con  mas  razon  debrias 
meterte  en  \Ta  mouesterio. 

jMira,  mira  tu  cabeca 

que  es  '  vn  recuesto  ueiiado! 

Mirate  pieca  por  pieca; 

y  si  el  juzgar  no  eutropieca , 

hallaràste  ''  enbalsamado. 


'  Ms.  desconcierta. 

-  Ms.  rrugo. 

"  Ms.  vezes. 

'  Ms.  pues. 

°  Ms.  hallarteas. 


(,  No  vees  la  freute  arugada, 
y  los  ojos  a  la  sonbra? 
^  La  mexilla  descarnada, 
la  nariz  luenga  afilada, 
y  la  boca  que  me  asonbra  ? 

l,  Y  esos  dientes  carcomidos  ' 
que  ya  no  puedes  mouerlos, 
con  los  labrios  bien  fronzidos 
y  los  onbros  tan  saUdos, 
a  quién  no  espanta  en  verlos  ? 
Y  en  te ,  caduco  cimiento , 
do  fuerca  ninguna  mora, 
^,  no  te  trae  al  pensamiento 
que  deuieras  ser  contento 
con  tener  de  vida  vn  ora? 

i  0  viejo  descon9ertado  ! 
^no  ves  que  es  cosa  escusada, 
presumir  de  enamorado; 
pues  quando  estàs  mas  penado 
te  viena  el  dolor  de  hijada  ? 
Torna,  torna  en  tu  sentido, 
que  can9as  ya  de  viejo; 
y  este  mal  sobreveuido 
podràs  poner  en  oluido, 
siguiendo  mejor  consejo. 

S.  Pues  que  tu  beldad  me  daùa, 
tu  piedat ,  senora , inuoco : 
i  eese  contra  mi  tu  sana, 
no  te  muestres  tau  estraiìa! 
M.  ;  Tirate  alla ,  viejo  loco  ! 

S.  ;A!  ^nno  sabes  qUe  soy  tuyo? 
M.  Mio  no,  mas  de  la  tierra. 

S.  Tuyo,  digo,  y  no  te  huyo. 

M.  Presto  veràs  que  eres  suyo, 
si  mi  juyzio  no  yerra. 

i  No  toques,  viejo,  mis  paiìos! 


Ms.  caramìdos. 


Dexame,  que  estoy  nojada; 
que  si  estouieses  mil  anos 
quexando  siempre  tus  danos, 
annca  me  verias  mudada. 
S.  Yo  tengo  mi  merecido, 
y  es  en  mi  bien  enpleado  ; 
pues,  estando  ya  guarido, 
quise  tornar  al  rruydo , 
do  me  aviau  de  escalabrado. 

Este  es  pago  verdàdero, 
que  suelen  aver  los  tristes 
sometidos  '  a  quel  fiero, 
crudo,  falso,  lisonjero, 
ciego  y  pobre  que  aqui  vistes: 
aquel  que,  por  enganarme, 
vsó  tan  diversos"  modos, 
que  sin  "  poder  remediarme 
fué  forcado  sojuzgarme , 
comò  aveys  visto  aqui  todos. 

Cuyas  promesas  juradas, 
causa  de  mi  perdimiento, 
muy  mas  presto  son  mudadas 
que  las  hojas  meneadas, 
quando  corre  rezio  viento.  ' 
Bien  estaua  en  mi  sentir 
quando  no  queria  abrir, 
aunque  "  viejo  porfiado  : 
mas  ^quién  puede  resistir 
al  furor  de  aquel  malnado, 

Que  conpuesto  en  falso  afeyte 
no  entra  sin  enbaraco? 
Y  asi  cunde  su  deleyte, 
que  comò  mancha  de  azeyte 
no  sale  sin  el  pedaco: 


'  Ms.  sometido. 
'  Ms.  diuefso. 
'  Ma.  ai. 

'  Ms.  rezo  vieniento. 
'  Ms.  auque. 


y  pues  vedes  comò  abrasa, 
huid  desa  compaùia; 
que ,  vna  vez  entrada  '  en  casa , 
no  se  amortigua  su  brasa 
basta  dexalla  vazia. 

Huid  de  sus  ciertos  enojos, 
apartaos  de  sus  desdenes;  ' 
pues  delante  vuestros  ojos 
aveys  visto  los  abrojos, 
que  se  cojen  con  sus  bienes 
castiga  en  cabeca  ajena; 
pues  mi  tormento  os  amuestra 
a  salir  desta  cadeua: 
y  sin  OS  dude  mi  pena 
esperad  ^  y  vereys  la  vuestra. 

VXLLANgiCO. 

Quien  de  amor  mas  se  confia 
menos  tenga  de  esperanca; 
pues  su  fé  toda  es  mudanca. 

No  deuen  ser  estimadas 
sus  promessas  infinitas, 
que  en  el  agua  son  escritas 
y  con  el  viento  selladas: 
facilmente  son  tratadas 
y  el  biuir  queda  en  balan9a. 

Es  su  gloria  mas  entera 
engaiìar  nuestro  apetito, 
y  so  falso  sobrescrito 
poner  pena  verdadera; 
por  que  necessario  muera 
quien  de  su  fé  mas  alcanca. 

Su  enganosa  condi^ion 
en  ausen9Ìa  da  denuedo, 


'  Ms.  entra. 
■  Ms.  deade'nes. 
'  Ms.  esperà. 


189 


y  en  presensia  pone  miedo, 
por  que  cresca  la  pasiou  : 
su  mas  cierto  galardon 
es  perder  la  confianca. 

Muy  mayor  es  el  cnydado 
que  el  plazer  que  da  su  gloria, 
pues  descausa  la  memoria 
qiiando  piensa  en  el  pasado; 
comò  quien  de  mar  turbado 
se  siente  puesto  en  balan^a. 


Pues  vemos  '  corno  ofende 

su  gloria  quando  es  mas  llena, 

liuyamos  desta  serena, 

que  con  el  canto  nos  prende: 

cuyo  engano  si  se  en9Ìende 

poco  a  poco  ha  tal  pujanca, 

que  nos  trae  en  mal  andanca; 

Pues  su  fé  toda  es  mudauca. 


EINIGE  DICHTUNGEN  LIONAEDO  GIUSTINIANI'S. 


Geme  bin  ioli  der  Einladung  dar  Freunde  und  Collegen  des  verstorbenen 
Prof.  N.  Caix  gefolgt,  fiir  den  Band,  der  dem  Gedàchtniss  des  Dahingeschiedenen 
gewidmet  werden  soli,  einen  Beitrag  zu  lieferii.  Herr  Prof.  Caix  ist  mir  wàhrend 
meines  Aufeiithaltes  in  Florenz  im  Sommer  1881  ein  treuer  Berather  meiner  Studien 
gewesen.  Auf  seine  Anregnng  habe  ich  eine  Ausgabe  des  Tesoretto  nnd  FavoleUo 
unternommen,  er  hat  mieli  auf  die  Bearbeitung  der  Lieder  Giustiniani's  hingewie- 
sen.  Die  Nachrichfc  von  seinem  Tode,  welche  mieli  imerwartet  traf,  riihrte  mich 
seKr;  sein  Andeiiken  wird  bei  mir  ein  bleibendes  sein. 

Diese  kleine  Arbeit  bringt  einige  weitere  Notizen  ilber  die  Gedichte  Lionardo 
Giustiniani's  und  am  Scliluss  einige  Texte  aus  dem  cod.  mare.  CV.  ci.  IX  it. 
sec.  XV.  (M).  ' 

Kurz  naclidem  meine  Ausgabe  der  im  cod.  pai.  E.  5.  7.  47.  entlialteuen  Lieder 
erschienen  war,  '  kam  in  der  Biblioteca  di  Letteratura  Popolare  Italiana  im  2.  Bd. 
duroli  S.  Morpiirgo  ein  venez.  msc.  mit  «  Canzonette  e  Strambotti  »  zum  Abdruck. 
Morpurgo  hat  mit  Eeclit  ftìr  dieselben  die  Autorschaft  Giustiniani's  geltend 
gemacht.  Die  Canzonetten  finden  sicli  sammtlicli  in  dem  cod.  pai.  wieder  ;  Morpurgo 
konnte  dies  nur  von  12  nacliweisen ,  weil  er  nur  die  Anfànge  der  im  cod.  pai.  voU- 
standia;  erbalteuen  Lieder  kanute.  ' 


'  Urspriinglich  liatto  icli  noch  die  in  der  Neuzeifc  imedierten  Lieder  aus  den  Druoken  mit  Bemerbungen  hin- 
zugefiigt;  da  die  Arbeit  aber  zu  lang  war,  liess  ich  dieselben  weg  und  werde  sie  gelegentlioh  an  andi'er  SteUe 
veroffentlichen. 

■  Als  Dispensa  CXCTII  der  8cdta  Di  Curiosità  Letterarie  Inedite  oRare  Dal  Secolo  XIII  Al  XVII,  Bologna,  Ro- 
magnoli. 1883. 

"  Die  Inhaltsangaben  des  cod.  pai.,  des  Druckes  und  des  ood.  ricc,  welohe,  von  Herrn  Vittorio  Fiorini 
verfertigt,  in  einem  Anhaug  zu  Morpui'go's  Einleitung  (pag.  10  ff.)  stehen,  sind  sehr  ungenau.  Der  cod.  pai.  entliàlt 
jetzt  noch  81  (nach  Fiorini's  Rechnung  82) ,  nicht  79  G-edichte.  Das  von  mir  unter  VI  piiblicierte  Gediclit  zerlegt 
F.  in  zwei  Gedichte.  Es  isfc  das  ganze  ein  Contrast  zwischen  amante  und  madonna,  wie  es  deren  so  viele  giebt. 
AUerdings  beginnt  die  Rode  des  Amante  mit  eiuer  neuen  Ripresa,  sodass  wir  formell  zwei  Balladen  haben.  Vom 
Schreiber  ist  nicht  die  mindeste  Liicke  oder  ein  Raum  fiir  eine  Majuskel  gelassen,  welclio  letztere  F.  vermisst. 
Sonst  steht  im  cod.  stets  am  Anfang  jedes  ganz   erhaltenen  Gedichtes  eine  Majuskel  und  an  seinem   Schluss: 


—  192  — 

Ich  stelle  die  ZifFeru  zusammeu,  unter  denen  sicli  das  gleiche  Gedicht  in  den 
beiden  Ausgaben  (S.  und  W.)  befindet. 

S.  I  =  W.  IV  S.  X  =  W.  XLIX 

S.  II  =  W.  LIX  S.  XI  =  W.  XVII 

s.  ni  =  w.  Lvm  s.  xiii^w.  xxxi 

S.  IV  =  W.  XV  S.  XIV  =  W.  XLII 

S.  V  =  W.  LVII  S.  XV  =  W.  XIV 

S.  VI  =  W.  LIV  S.  XVn  =  "W.  XLV 

s.  VII  (XVI)  =  w.  I  s.  xvm  =  w.  Lxxvn 

S.  vili  =  W.  XLIII  S.  XX  =  W.  VII 

S.  IX  =  W.  XXIII  S.  XXI  =  W.  XVIII 

S.  V  liefert  den  Schluss  zu  \V.  LVII,  der  im  cod.  pai.  feklt,  und  S.  VI  den 
Anfang  zu  "W.  LIV;  S.  VI  endet  jedoch  schon  mit  W.  v.  88,  làsst  es  also 
iinvollendet. 

Als  Beweis  der  Volksthumliclikeit  der  Lieder  Giustiniani's  ftìhrt  Morpurgo 
an,  dass  einige  von  ihnen  in  Lauden  parodierfc  und  nacli  der  Melodie  anderer 
Lauden  gesungen  wurden.  Auf  letztere  Tatsache  kabe  icli  gleiclifalls  liingedeutet 
und  gebe  hier  noch  einige  Nachweise. 

Das  Lied  W.  XVIII  (S.  XXI):  «  Piango^  meschino,  l'  asjiem  mia  fortuita,  »  ist 
\àelleiclit  parodiert  in  der  Lauda,  die  sick  im  Druck  Venedig  1474  als  die  48te 
findet  und  beginnt: 

Piango  misp.hino  1'  aspra  passione 
de  yesu  xpo  figliol  de  maria. 

und  ebenso  W.  LXIX: 

O  Qoueneta  bella 
piena  de  zentilezza. 

in  der  Lauda  im  Druck  Venedig  148.3  : 

"  Verzeneta  bella 
Piena  de  oaritade. 

lek  habe  mir  nur  die  je  zwei  ersten  Verse  der  Lauden  notiert,  und  kann  meine 
Vermutkung  daher  nicbt  welter  verfolgen.  Das  Ged.  W.  LIX  ist  in  den  Lauden- 


Finis,  iind  ist  vor  Begìnn  jedes  neuen  Gedichtes  ein  Spatium  gelassen;  dies  Lied  wiirde  die  einzige  Ausnalime 
machen.  Kach  15  seiiier  Zahlung  iibersielit  F.  das  Fehien  des  Fol.  41  und  damit  die  von  mir  unter  XV  publicierte 
Ballata.  So  kommen  vvir  in  der  Ztihlung  wieder  iiberein  bis  67.  Hinter  67  ist  das  Fehien  des  Fol.  172  nicht  bemerkt 
nnd  das  von  mir  unter  LXVIII  edierte  Fragment  als  Scliluss  von  67  angesehen.  Endlicli  ist  nach  LXXV  (Fiorini  74) 
das  Fehien  des  Fol.  192  iibersehen  und  daher  das  boi  mir  unter  LXXVI  herausgegebene  Fragment  unbemerkt 
geblieben.  Im  ood.  rico.  1001  steht  das  von  Fiorini  unter  7  erwiihnte  Gedicht  (es  ist  nur  ein  Fragment  von  15  vv.) 
anonym  (of.  meine  Anmerkung  zu  LXXV  pag.  iillO).  Es  folgt  im  ood.  dem  unter  6  (W  XIV)  auCgefiihrten  Gedicht 
mit  Spatium  fùr  eine  Ubersohrift.  Kndiicli  enthiilt  der  Druck  30  (nicht  bloss  29)  Gediohte.  Das  von  Fiorini  unter  28 
citierto  Lied  enthalt  nur  9  vv;  am  Schluss  fehlt  allerdings  das  •  Finis,  >  dooh  mit  dem  Vers:  Rosa  mia  gintile  > 
(nach  V.  9)  beginnt  das  W.  XXVII  publicierte  Gedicht.  Ganz  abgesehen  davon ,  dass  die  voraufgegangenen  9  Verse 
im  Vorsmass  gar  nicht  zu  dem  Folgenden  passeu,  zoigt  schon  das  Fehien  der  Majuskel  (O)  in  dem  Druck,  dass 
hier  ein  neues  Lied  beginnt. 


—  193  — 

sammlungen  von  1480,  1485  und  1512  erwàhnt.  Das  Gedicht  W.  XLV  ist  im  cod. 
corsili.  Col.  43.  C.  33,  der  ^us  dem  15.  Jhd.  ist  und  Lauden  enthàlt,  erwàh.nt.  Es 
steht  daselbst:  «  Echantasi  ahnodo  chinò  a  prounto  amore.  »  In  dem  Druck  und  in  dem 
von  Morpurgo  edierten  cod.  (S.  XVII)  beginnt  di©  Canzonette  mit  zwei  Stroplien, 
die  im  cod.  pai.  fehlen.  Die  Erwahnung  in  dem  cod.  corsin.  scheint  den  Beweis  zu 
liefeni,  dass  diese  zwei  Stroplien  erst  spater  hinzugefiigt  sind  und  vielleiokt 
urspriinglich  zu  einem  anderen  Gediclite  geliorten.  Im  cod.  cors.  sind  von  den  in 
meiner  Ausgabe  bereits  als  in  Laudensammlungen  vorkommend  nachgewiesenen 
Anfàngen  folgende  gleiclifalls  erwahut:  W.'  n,  TV,  XV,  XXVII,  XLIII,  LVIII, 
LXXV. 

Ich  habe  bei  dieser  Ausgabe  iusoferu  ein  anderes  Verfahren  als  bei  der  des 
cod.  pai.  eingeschlagen,  als  ich  die  Verse  auf  das  riclitige  Mass  gebracht  habe. 

Der  erwahnte  cod.  mare,  ist  zuerst  in  dem  Aufsatz  D'  Ancona  s  im  Giornale  di 
fi.  rom.  Il  179  ff.  erwàhnt.  Es  enthtìlt  die  reichhaltige  Gedichtsammlung  dieses 
cod.  5  Gedichte  mit  der  Ùberschrift.  D.  L.  I.  =  Di  Lionardo  Justiniani.  Es  sind 
dies  die  unter  I  und  II  publicierten  Gedichte;  ferner  das  Gedicht  W.  LVIII  ' 
{Io  aedo  ben  eh'  amore  è  traditore) ,  welches  auch  E,  und  die  Drucke  unter  Giustiniani's 
Namen  haben  (cf.  auch  Morpurgo  pag.  5  oben). 

M  hat  nach  v.  181  acht  Verse,  die  nicht  in  P  stehen,  dieselbeu,  welche  die 
Drucke  haben  mit  Ausnahme  des  ersten  Verses  (cf.  in  meiner  Ausgabe  pag.  303). 
Ferner  in  M  mit  der  tjberschrift  D.  L.  I.  das  Gedicht  W.  LXI  {Ay  me  meschino,  ay 
me,  che  dizo  fare?)  fur  welches  nodi  kein  Beweis  fiir  die  Autorschaft  Giustiniani's 
beigebracht  war.  Nach  W.  LXI  120  schiebt  M  folgende  vier  Verse  ein: 

Meglio  seria  per  me  certo ,  di'  io  more , 
ma  per  non  far  più  grani  i  suo' lamenti, 
meglio  è,  eh'  io  uiua  e  stenti 
e  siecho  pianga  il  suo  nouelo  affano. 

Die  Stroplie  157-160  ist  in  P  dem  Metrum  nach  verdorbeu;  in  M  lautet  sie 
richtig  : 

Hio  uoglio  ,  per  mio  amor,  che  '1  cor  tu  piegi 

a  tuor  dal  tuo  dolor  rimedio  e  pace; 

uedi,  oh'  el  si  disface 

la  tua  tenera  uita  in  ste  tristece. 

V.  160  fehlt  in  M  natiirlich.  Endlich  W.  LXVIII,  fur  welches  wir  also  die  Autor- 
schaft Giustiniani's  und  den  Anfang  des  Liedes  erfahren;  diesen  publiciere  ich 
unter  III.  Der  Schluss  stimmt  mit  P,  abgesehen  von  Lesartvarianten. 


'  In  meiner  Ausgabe  ist  unter  XV,  XXXI,  XLIX,  LVIII,  LXXV  in  den  Anmerlcungen  die  .Tahreszahl  1512 
stati  1510  zu  lesen  und  XXXI  einmal  1512  statt  1501. 

'  Ich  selle  davon  ab,  die  Varianten  zwisolien  P  \md  il/ mitznteilen ,  docb  bedeutendere  Abweichungen  fuhre 
ich  auf  und  gebe  die  Vervollstandigungen ,  welche  die  Ausgabe  von  P  durcb  M  erfahren  kann. 


—  194  — 

Auonym  stelit  iu  M:  W.  LXXI.  Statt  v.  54-5G  hat  M  folgende  Verse,  welche 
aneli  vollig  lùneinpassen  : 

qual  porti  belo  hornato  di  chostumi, 

quei  chiari  e  uiui  lumi 

anoi  due  stelle  o  un  sol,  che  si  riluce. 

Tu  sei  mia  dea,  mia  ninpha  e  sola  luce 

a  st'  alma  e  al  tristo  chor,  che  amando  sjiera; 

la  tua  legiadra  ciera 

mi  tie  sugieto  a  amor  sempre  sperando. 

Am  Schhiss  hat  M  (nach  v.  68)  deu  Vers:  «  Posache  di  me  solla  regina  sei,  »  der 
vielleiclifc  dahin  gehort.  Ferner  anonyxa  in  M:  W.  LXXII,  welches  Lied,  abgeseheu 
von  Lesartvarianten ,  in  der  Anordnnng  und  Verszahl  mit  dem  in  P  stimmt. 
Endlich  W.  LXXIV,  mit  dem  es  sich  genau  so  verhàlt.  Das  Gedich.t  W.  LXVII  ist 
in  M  ilberschrieben.  «  D.  Jacohus  sanguinacius.  »  Es  ist  in  P  Fragment,  wir  erfahren 
also  den  Scliluss;  doch  die  Fassung  in  M  ist  wesentlich  von  der  in  P  abweicheud; 
ich.  gebe  daher  das  Gediclit  unter  IV  gauz  nach  M.  In  den  Stùcken  lòst  die 
Cursivschrift  die  Abre-\daturen  des  cod.  auf. 

Rostock  vM.  Aìif/iist  J883. 

Berthold  Wiese. 


I.  —  (Cod.  M.  Fol.  29  V.) 

D.  L.  I. 


V_^He  debio  più  sperar  al  mio  languire? 

amor,  che  uer  me  regni  ogni  dureza, 

doue  è  tua  zentileza, 

poiché  chonsenti  di  farmi  morire? 

Omè  fatiche ,  aimè  fidel  seruire , 

o  uan  pensier,  chi  spera  in  tua  mercede! 

ahi  ohi  chon  le  tue  rede 

tu  allacci,  eh'  el  non  pò  giamai  fugire! 

Amanti,  che  uedete  el  mio  languire, 

fugite  amor,  che  si  pò  dir  amaro  , 

e  fate  hogni  riparo 

a  sue  perchosse  tanto  accerbe  e  dure. 

Fateui  intorno  al  cor  le  forte  mure 

e  non  credete  a  sue  luxingo  blande, 

sichome  di  fuor  spande 


I.  V.  7  hi  chi. 


nel  proprio  guardo,  che  par  tanto  humile. 

Che ,  se  prouate  sue  mortai  fauile , 

mai  non  sperate  auer  alchun  chonforto , 

dapoi  che  a  tanto  torto 

mi  sforzai  sempre  amar  honestamente. 

O  mixer  me,  ho  specchio  a  tuta  gicnte, 

in  chui  ueder  si  pò  ciò  che  pò  amore  ! 

e  ciaschun  gientil  chore 

pianga  chon  mecho  il  mio  tempo  perduto , 

E  quel  che  per  amor  ho  sostenuto , 

uedendomi  a  tal  modo  meritato , 

dolente  e  suenturato , 

che  per  mia  pace  sempre  ebi  tormento. 

Ciascun  mirate  il  mio  grane  lamento, 

prima  che  tal  desio  u'  entri  nel  chore, 

che  mai  da  nesun'  ore 

ebbi  piacer  per  mia  fiera  fortuna. 

O  cieli,  o  terra,  o  stele,  o  sol,  ho  luna, 

chome  assentite  a  tante  crudeltade, 

eh'  ol  non  uenga  pietade 

a  chui  del  uiuer  mio  è  gran  chaxone  ? 

Aimo  crudel ,  ho  false  openionc , 

o  miseri  mortai,  in  che  sperate, 

che  chussl  chonsumate 


—  195  — 


nostre  speranze,  non  chogliendo  il  fruoto  ? 

Et  hio ,  ohe  innanci  non  ho  chonosuto 

pcj"  tropo  fede  il  mio  misero  fino, 

mille  pongiente  spine 

mi  passa  il  pecto ,  e  sempre  grido  ,  omei  ! 

Pietà  uenga  a  ciasohun  di  suspir  mei, 

poich'  i'  o  pfrduta  ogni  dolce  faticha, 

che  mia  giouenil  spicha 

ho  chonsumata  in  accerbo  doloro. 

E  non  posso  ritrarmi  de  sto  ardore , 

onde  me  stesso  strinsi  chetai  nodo, 

che  mai  per  alchun  modo 

altri  che  morte  soluer  noi  potria. 

Ma  pur  per  ben  seruir  si  doueria 

uolzer  i  sasi  e  uolzer  oiaschun  monte, 

uedendo  tanta  fonte 

di  lacrime ,  eh'  io  spargo  e  giusti  priegi. 

E  tu,  non  so  per  qual  chagion  deniegi 

la  gratia  tua  a  chui  chotanto  t'  ama , 

che  in  sì  ardente  fiama 

lasi  fenir  suo  ulta,  aimè,  crudele! 

Non  sa'  tu  ben,  s' io  ti  son  sta  fìdele? 

non  sa'  tu  quanto  hio  t'  ò  anchor  riuerita, 

et  se  sempre  scorpita 

nel  clior  m'  e  stata  tua  zcntil  figui-aV 

O  mondo  ciecho  ,  o  mia  disauentura , 

ho  destinato  giorno  quando  nacqui, 

dapo'  eh'  io  sempre  spiacqui 

a  chui  per  ben  seruir  noi  pur  eh'  io  mora. 

Almen  mi  fosti  stata  una  sol  hora 

chon  tuo  guardo  gientil  un  poche  pia, 

acciò  che  in  ulta  mia 

da  te  auesse  auuto  qualche  gratia. 

Ma  uedo  ben  che  ancor  tu  non  sei  satia 

di  creser  penne  a  me  iìdel  semente 

et  non  ti  churi  niente 

de  mei  amari  e  lacrimoxi  uersi. 

Ho ,  foss'  io  morto  quando  gli  oclii  apersi 

per  risguardar  le  tue  tante  ballece 

e  polite  factece , 

che,  quanto  penso  più,  mi  creso  pejma. 

Certo  hio  non  ò  polso,  neruo  ne  uena, 

per  ogni  modo  eh'  io  non  abi  onfexo  ; 

ben  so,  eh'  io  son  inteso, 

siche  per  me  oiaschun  fuza  tal  uarclio. 

Non  ui  sottometeti  a  tanto  charcho 

per  uoler  adimpir  nostro  dixio , 

mirate  il  dolor  mio 

e  la  mia  grane  doglia  e  grani  affani. 

Vedete  chome  ho  perso  i  giorni  e  gli  anni 

sul  nobel  fior  dela  mia  uerde  etade, 

e  la  mia  libertado 

ho  data  a  chui  di  me  giamai  non  chura. 

O  morte,  perchè  sei  chotanto  dura 

chontra  chui  del  bon  chor  chotanto  t'  ama? 

e  chui  il  uiuer  brama, 

tu  gli  uà'  seguitando  in  hogni  lato  ? 

V.  81  Per  certo  hio. 
V.  90  fiore. 


De,  uiejnii  ornai,  per  dio,  fami  boato, 
po'  oh'  io  dexio  il  tuo  pongiente  strale, 
eh'  assai  mi  fia  raen  male 
morir  oh'  esser  al  mondo  sconsolato. 

FINIS. 


II.  —  (Cod.  M.  Fol.  51  r.) 

D.  L.   I. 


o 


Misera  mia  uita ,  ho  cor  mio  afflicto , 
ho  alma  sconsolata  in  .tanti  guai , 
aimè,  non  criti  mai 
esser  topin  d'  amor  ehusi  tradito. 
O  traditor  amor,  sia  maledite 
el  giorno ,  che  porgiesti  agli  echi  mei 
la  domna ,  eh'  io  uorei 
non  auer  uista  mai  per  più  mia  pace  ! 
El  cor  si  strugie  e  1'  alma  si  disface , 
non  trouo  alchun  rimedio  al  mio  penare; 
ognor  chon  lacrimare 
non  biastomando  amor  e  rea  fortuna. 
Biastemo  el  ciel,  le  stele,  el  sol,  la  luna, 
biastemo  ogni  pianeto  e  '1  mondo  tuto  ; 
biastemo  afflicto  e  struto 
il  tempo  perso  e  '1  mio  uanno  soruire. 
Aimè,  por  biastemar  né  maledire 
non  trouo  alchun  chonforto  al  tristo  pecto  ; 
perduto  ho  il  mio  dilecto , 
perduta  ho  la  mia  dea  e  '1  mio  sol  bene! 
E  tu ,  rezina  mia,  di  sto  mie  penne 
se'  la  chagion,  colandomi  il  bel  uixo; 
tu  sei  mio  paradiso, 

per  dio,  non  mi  fuzir ,  non  far  oh'  io  mora  ! 
Tu  m'  ai  bandito ,  tu  m'  ai  posto  fora 
dil  tuo  perfeoto  amor  dolce  e  suaue, 
questa  è  la  doglia  graue , 
che  mi  chonsuma  e  strugie  in  graui  affanni. 
A  !  mei  dolci  pensier  uedo  esser  uanni , 
le  mie  dolce  fatiche  alfin  perdute , 
et  le  sperance  tute 

manchate,  meschinel,  chon  gran  dolore! 
Vedomi  amor  nemicho  e  traditore, 
uedome  il  ciel  chontrario  et  ogni  stela, 
e  tu  se'  solla  quela 
che  stata  sei  chagion  di  tanto  errore. 
Hio  moro  e  me  disfazo  per  tuo  amore , 
Tu  non  ti  chure  e  lasime  morire  ; 
aimè  non  chonsentire , 

V.  100  che  uiuer. 
II.  V.  5  maledeto. 


196  — 


porgi  qualche  souegno  al  tuo  fìdele  ! 

Pensa  quel  che  ti  gioua  esser  crudele 

uer  me ,  che  t'  amo  in  doloroxe  stente  ! 

non  so  ,  chome  chonsente 

1'  abisso,  che  non  s'  apre  a  far  uendeta! 

Aimè ,  chome  esser  pò ,  che  una  augioleta 

ahi  sì  duro  il  chor,  sì  accerbo  e  fiero! 

aimè,  eh'  io  mi  dispiero, 

e  mille  uolte  il  dì  chiedo  la  morte  ! 

Credo,  che  '1  ciel  ti  fece  per  mia  sorte 

legiadra,  pelegrina,  onesta  e  bela, 

umile  in  tua  fauela 

e  negli  efecti  poi  superba  e  fiera. 

Tu  par  suaue  e  dolce  in  tua  maniera , 

benigna  nel  bel  guardo,  humil  e  piano, 

e  questo  fu  1'  ingano , 

che  mi  chonduse  al'  amoroxo  lazo. 

E  poiché  per  tuo  amor  m'  ardo  e  disfazo , 

per  dio,  succhori  a  st'  alma  topinela; 

tu  non  serai  men  bela, 

né  men  d'  ouor  seràti  esser  chortese. 

Quanto  hio  t'  amo ,  pur  tul  sai  palese  ; 

uo'  tu,  che  tanto  amor  mio  sia  perduto? 

uo'  tu,  eh'  io  mora  al  tuto? 

uoglio  morir  per  te  pur  s'  el  ti  piace. 

O  tu  mi  cecidi ,  o  tu  dij  qualche  pace  ; 

chonforti  il  tristo  chor  di  doglia  pieno  ; 

fami  sta  gratia  almenno , 

poscia  che  '1  mio  sperar  uedo  falare  ! 

FINIS. 


III.  —  (W.  LXVIII) 


i>'XOro  d'  amore,  aimè  laso,  eh'  io  moro! 

duo  begli  ochi  gentil  sì  me  disface  ; 

altro  più  non  mi  piace , 

se  non  el  mio  dolce  et  charo  tesoro. 

Altro  non  amo ,  altro  più  non  adoro , 

ogn'  altra  dona  amor  m'  à  posto  in  bando  ; 

hio  me  nutricho  ardando , 

struzom'  e  godo  uiuo  in  dolce  fiaxmia. 

Duo  begli  ochi  gentU  1'  alma  me  'nfiamma, 

anci  due  stele  chiare  più  che  '1  giorno, 

et  un  bel  uis'  adorno 

che  di  bellece  auanza  ogn'  altro  uolto. 

O  belece  gientil,  che  '1  cor  m'  à  tolto, 

o  solla  dona  senija  alchun  diffecto  , 

V.  40  suegno. 
V.  60  me. 
III.  V.  14  senca. 


o  seno ,  o  intelecto , 

parole  dolce  e  modi  acchorti  e  beli! 

Non  nidi  d'  oro  mai  più  bei  chapeli  ; 

o  fronte,  o  naso,  o  bocha,  o  lapri  rossi, 

credo  ben ,  che  uuj  fosi 

facti  SI  adorni  per  farmi  languire  !  i 

Aier  benigno  più  eh'  io  non  so  dire, 

achorto  guardo ,  angielicha  maniera , 

donesoha  e  lieta  ciera 

da  far  sentir  d'  amor  le  pietre  e  i  sasi  ! 

Or  sapi  ben,  or  sapi,  che  tu  pasi  i 

quante  done  legiadre  eii  soto  il  solle; 

uiue  rose  e  uioUe , 

bianchi  e  uermigli  son  li  tuo  cholori. 

Eiso  suaue,  uolto  jnen  di  fiori, 

chandida  gola  ,  o  pecto ,  oue  i-iposa  '• 

quel'  una  e  1"  altra  rosa, 

le  qual  porti  nel  tuo  bel  senno  ascose. 

Spale  legiadre,  o  membra  si  formose, 

o  brace ,  o  man  gientU,  che  mi  disfanno  , 

sia  benedeto  1'  anno 

e  '1  mese  e  '1  giorno  eh'  io  m'  inamorai! 

Adorne  ueste  più  non  nidi  mai 

tanto  pulite  al  suo  legiadro  dosso; 

aimè,  che  dir  non  posso 

de  mille  parte  una  di  quel  eh'  io  credo. 

e  1'  altre  tuo  belece  ,  eh'  io  non  uedo, 

che  son  choperte  chon  la  bela  uesta; 

ho  dio,  chon  quanta  festa  (W.  LXVIII v.  1.) 

di  quele  penso,  beuch'  io  non  le  ueda! 


JN.  —  (W.  Jaxni) 


D.  .Tacobns  sanguinaeius. 


Ui 


'  Euuta  è  1'  ora  e  '1  dispietato  ponto 
che  partir  mi  chonuien  chontra  mia  uoglia, 
chon  tanta  amara  doglia, 
che  di  mia  ulta  ormai  più  non  fo  chonto. 
Ma  poiché  la  fortuna  m'  à  chongionto 
a  tal  partito  uenenoso  assai, 
che  poss' io  far  ormai, 
se  non  riohomandarmi  al  signor  mio  ? 
O  mondo  senza  fede,  falso  e  rio,  (TF.  v.  15.) 
chome  esser  pò  eh'  io  degia  dipartirmi 
da  chui  sentia  nutrirmi 
chon  un  sol  guardo  e  chon  un  dolce  riso  ? 
Come  esser  pò  che  da  quel  chiaro  uiso 
hio  degia  lontanarmi,  ai  meschinelo? 


V.  29  suaue  ohol. 
V.  41  L'  altre  bolece  tuo. 
IV.  V.    6  a  si  duro. 


—  197  — 


questo  piacer  si  bello  15 

chome  esser  pò  eh'  io  degia  abandonarlo? 

Aimè,  che  in  uanno  mi  lamento  e  parlo, 

che  quel  che  uol  fortuna  esser  chonuienne  ; 

falita  è  la  mia  spenne , 

chussl  hor  faliscon  tuti  i  pensior  mei.  20 

Priegoti  adonque  per  li  sacri  dei , 

tu,  che  sei  mia  regina  e  mio  signore, 

che  sempre  nel  tuo  chore 

ti  stia  il  mio  nome  et  la  mia  pura  fede. 

Piangiendo  i'  me  ne  uon  cliomo  si  uede ,  25 

e  r  alma  mia  riman  nelle  tue  force. 

de,  fa,  che  non  si  asmorce 

per  tua  chagion  la  nostra  dolce  fiama! 

Vedi ,  eh'  altra  cha  te  mio  chor  non  chiama; 

te  solla  piangie  e  d' altra  non  fa  chura  ;  30 

tu  sei  quela  figura , 

che  sempre  alberga  in  mezo  del  mio  pecto. 

De,  fa,  madona,  che  '1  tuo  bon  sugieto 

non  sia  per  altri  amanti  abandonato , 

acciò  che  disperato  35 

non  ardi  sempre  nel  focho  eternalle  ! 

Et  se  pur  far  uolesti  tanto  malie, 

priega  Neptuno  e  gli  chontrarij  uenti , 

che  chon  mortai  tormenti 

guide  mia  naue  a  più  teribil  scoglio.  40 

Ohe  questo  mi  seria  menor  chordoglio 

cha  s' io  uedesse  d'  auerti  perduta; 

però  che  anchor  pentuta 

seresti  auer  chomisso  tanto  fallo. 

Ma  se  tu  pensi  quanto  buon  uassallo  45 

hio  ti  son  stato  e  serò  sempre  mai, 

certo  tu  non  uorai 

priuarmi  sì  aspramente  di  sta  ulta. 

E  benché  da  te  i'fazi  tal  partita, 


V.  32  nel. 
V.  42  allerti. 


tu  sai  quel  che  mi  sforza  e  mi  chondajina.       50 

ma  so  '1  ciel  non  m'  ingajina, 

tu  solla  sei  che  mi  poi  far  tornare. 

Ond' io  ti  uoglio,  cliar  signor,  pregare, 

che  chon  tuo  dolce  e  angieliche  parole 

tu  priegi  r  alto  solle ,  55 

che  gir  mi  faci  e  '1  mio  tornar  sichuro. 

Dapoi  per  la  tua  luce  ti  scongiuro , 

che  '1  mio  chore  ,  che  tieni  in  tua  balia, 

ricomandato  sia 

ad  la  tua  excelsa  et  alta  gientileza.  60 

Hio  ti  scongiuro  per  tua  gran  belleza 

che  di  me  ti  richordi  qualche  uolta, 

però  che  mai  distolta 

non  fia  da  me  la  so«tma  tua  uirtute. 

Dio  sa  che  mai  non  sporo  chon  salute  65 

posser  tornar  dalla  tua  legiadria, 

ma  sempre  oue  mi  sia 

arò  in  bocha  il  tuo  gratioxo  nome.  {W.  v.  60) 

I  tuo  begli  ochi  e  le  adornate  chionìme 

mi  staran  sempre  fiti  nella  mente ,  70 

e  chome  bon  seruente 

mi  sforcerò  di  farti  sempre  honore. 

A  dio  ti  lasso  donque,  char  signore  , 

che  tiecho  più  non  posso  far  dimora  ; 

questo  partir  m'  aohora ,  75 

ma  chussl  uà,  chui  uiue  jn  seruitute. 

Aimè ,  che  le  mie  rime  ormai  son  mute , 

ne  dir  pon  altro  se  non  slatti  a  dio  ! 

lassoui  il  spirto  mio , 

e  uomene ,  piangiendo  il  partir  mio.  80 

FINIS. 


V.  53  charo  (e/,  char  v.  73). 
V.  61  la  tua  gran  belleza. 

V,  69  hornate;  die  urspriingliche  Lesart  wird,  wie 
P  hot,  deaurate  seiv. 


ETIMOLOGIE  SAUDE." 


«  AssKLENAKE  V.  n.  log.  mitigare,  diminuire.  Lat.  Serenus,  cangiato  r  in  l.  » 
Nulla  di  più  comune  ohe  r  mutato  in  l;  ciò  non  di  meno  dubito  assai  di  questa  eti- 
mologia, e  non  ne  dubito  tanto  per  la  modificazione  del  significato,  che  non 
avrebbe  nulla  di  troppo  forte,  quanto  perchè  il  latino  somministra  un  aggettivo 
più  acconcio  al  senso  àìasselenare;  e  questo  è  lenis.  Insieme  con  asselenare  lo  Spano  re- 
gistra pure  un  equivalente  assulenare.  Ora  egli  è  chiaro  che  questi  due  verbi  non  pos- 
sono etimologicamente  separarsi;  e  siccome  il  sardo  conosce  anche  un  aggettivo  std- 
lemi,  lento,  temperato,  così  egli  è  pur  chiaro  che  da  questo  fecesi  suUenare,  indi  per  via 
del  prefisso  ad  *assuUenare,  assulenare,  asselenare.  Sullenu  non  può  venire  d'altronde 
che  da  ^suòleiiis,  '^sullenis,  specie  di  diminutivo  che  varrebbe  aliquantulum  lenis,  fog- 
giato alla  maniera  di  suhalhus,  suhdulcis,  subdurus,  suhgravis,  ecc.  Un  verbo  del  tutto 
analogo  a  questo  in  quanto  ai  due  prefissi  lo  trovo  pur  nel  sardo  assuabbare,  inu- 
midire, bagnare,  che  risponderebbe  ad  un  organico  ad-sub-aquare  (cf.  sardo  abba  = 
aqua)  e  del  quale  lo  Spano  non  cerca  punto  l'origine.  Quanto  al  trovarsi  la  doppia 
l  in  sullenu  e  non  nel  verbo  derivato,  noterò  come  il  primo  appartenga  alla  varietà 
meridionale,  mentre  il  verbo  è  della  logudorese.  D'altra  parte  lo  scempiamente 
della  consonante  è  sempre  più  naturale,  com'è  noto,  ne' vocaboli  di  forma  più  am- 
pliata ,  secondo  che  appunto  viene  qui  ad  essere  il  verbo.  Aggiugnerò  ancora  come 
contro  cotesta  etimologia  da  sereno  faccia  pure  lo  stesso  verbo  asserenare,  vivo  nel 
logudorese  col  suo  proprio  significato  di  rasserenare  e  rasserenarsi;  e  come  finalmente 
il  passaggio  di  asselenare  in  assulenare  presenterebbe  nell'  e  trasformato  in  u  x\n  fe- 
nomeno qui  poco  verosimile,  mentre  assulenare  (da  ad-sub-lenare)  presenta  nell'jt  atono 
mutato  in  e  un  fenomeno  d'assimilazione  vocalica  dovuta  all'  e  seguente,  assai  comune 
nel  sardo.  Si  noti  in  ultimo  che  dallo  stesso  ^sidlenis  viene  l'it.  sollenare,  allenire, 
degli  antichi  nostri  scrittori. 


'  Sono  ben  circa  vent'  anni  che  mi  vennero  scritte  alcune  decine"  di  note  o  postille  intorno  ad  etimologie 
elle  dava  lo  Spano  nel  suo  Vocabolario  sardo-italiaii'^.  Mirando  la  più  parte  di  tali  postille  a  rettiiicare  quelli  clie 
a  me  parvero  errori  etimologici,  m'astenni  dal  pubblicarle  per  riguardi  meritamente  dovuti  al  canonico  Spano, 
tanto  benemerito  degli  studj  sardeschi  d'ogni  maniera;  e  solo  alcuni  anni  dopo  io  dava  fuori,  con  qiialclie  più 


—  200  — 

«  Attataee  (aftattai-e) ,  ^  saziare,  ecc.  voc.  arab.  »  Donde  si  derivi  questo  verbo 
non  è  detto,  ma  esso  è  dato  per  vocabolo  d'origine  araba.  Ora  io  nego  questa  origine 
e  affermo  senza  più  che  attatare  viene,  insieme  con  attattare,  e  lattare  significanti  lo 
stesso,  dal  lat.  satiare;  e  la  fonologia  lo  dimostra  con  evidenza, matematica.  Queste 
varie  forme  d'uno  stesso  verbo  appartengono  al  logudorese.  Ora  è  da  sapere  che 
questo  dialetto  cambia  non  di  rado  la  sibilante  iniziale  in  t,  onde  per  esempio  da 
siliqua  fa  tiliba,  dall'arabo  sokkar,  lat.  saccarum,  fa  tuccaru,  dall'arabo  zdfardn  fa  taf- 
faranu,  tanfaranu;  per  zoppo,  zoppicare  (dal  ted.  schupfen)  il  log.  ha  toppa,  toppigare; 
inoltre  il  tj  (ti,  te)  interno  è  dal  logudorese  assai  spesso  converso  in  tt,  onde  tittone 
da  titione,  tizzone,  jiiatta  às.  platia,  pilatea,  mattolu  da  matiolu  {mateolo;  cf.  lat.  nia- 
teola,  it.  mazzuola) ,  ^jaifo  da  patior;  quindi  agli  ocelli  della  critica  glottologica  tattare 
=  satiare  e  col  pref.  ad  attattare  ^  ad-satiare ,  it.  saziare,  ant.  assaziare. 

«  Battìa,  s.  f.  log.  sett.,  vedova.  Voc.  ar.  òaddha  (sola,  separata).  »  Anche  qui  la 
fonologia,  come  assai  spesso,  basta  per  giugner  subito  alla  vera  etimologia  di  questo 
vocabolo,  senza  che  punto  accada  di  abbandonare  il  campo  neolatino  per  trovarla. 
Già  vedemmo  come  nel  sardo  il  b  iniziale  nasca  spesso  da  g  (e)  ;  '  fenomeno  più  o  meno 
comune  a  tutti  i  dialetti  italiani  è  il  dileguo  di  v  tra  vocali,  onde  verbigrazia,  per 
tenermi  solo  nel  logudorese,  istiu  —  estivo,  olia-=  oliva,  ecc.  e  perciò  battia  —  gattiva, 
cattiva,  captiva.  Chi  ne  potesse  ancora  aver  qualche  dubbio  non  ha  che  da  ricorrere 
al  siciliano  e  troverà  che  anche  in  questo  dialetto  la  vedova  dicesi  cattiva;  e  come 
battia  la  vedova ,  cosi  pur  battiu  (sic.  cattivu)  il  vedovo.  Qui  il  nome  cattivo  significante 
vedovo,  vedova  è  manifestamente  nome  di  compassione  e  vale  quindi  misero,  lasso, 
meschino,  come  appunto  negli  antichi  nostri  scrittori  cattivo  e  cattivello;  e  come 
anche  il  prov.  caitiu,  l'ant.  fr.  caitifs,  caitive,  e  l'odierno  fr.  clietif,  chetive. 

«  Bénnebe,  log.  venire,  ecc....  Dal  greco  [Batvto,  eo  o  dal  lat.  venio.  »  Quando  in 
logudorese  il  passaggio  di  v  iniziale  in  Z»  è  fenomeno  regolare;  quando  verbi  della 
quarta  passano  indubitatamente  nella  terza,  come  p.  e.  apperrere,  aperire,  e  gli  stessi 
verbi  convenire,  prevenire,  suonano  nel  log.  ciimbènnere,  prevénnere,  come  potrebbe 
rimaner  dubbio  che  bennere  non  venga  dal  lat.  venire,  non  avendo  punto  a  che  fare 
col  gr.  fjaivw,  se  già  non  fosse  in  quanto  il  verbo  greco  e  il  latino  procedono  noto- 
riamente entrambi  dallo  stesso  fonte  indoeuropeo? 

«  Chedda,  f.  log.  quantità,  stormo,  gran  fatta.  Maudigare  lina  bona  cliedda,  man- 


larghezza,  che  originariamente  non  avesse,  una  mia  postilla  Dell'  origine  della  voce  sarda  Nueaohe,  contrari»  al- 
l' etimo  che  (li  tale  voce  dava  lo  Spano  (Atti  della  H.  Accademia  delle  Scienze  di  Torino;  voi.  VII,  869-881).  Pubbli- 
cando ora  qui  alcune  di  quelle  postille  senza  punto  farvi  mutazioni,  non  posso  dissimularmi  ohe  dopo  vcnt'anni  di 
studj  e  lavori  fattisi  nel  campo  delle  lingue  neolatine,  scritte  oggidi  esso  dovrebbero  talvolta  riuscii-e  alquanto 
diverse  d'economia  e  di  forma,  la  qual  cosa  avvertiranno  di  certo  i  compagni  di  studio.  Le  poche  giuuterelle  che 
v'ho  fatto  di  poi  sono  tra  pjvrentesi  quadre. 

'  Lo  Spano  registra  nel  voc.  sardo-it.  attatare  e  tattare,  non  attattare;  ma  questa  forma  adopera  poi  nel  Voc. 
it.-sardo  sotto  'saziare  *,  e  nell'  Ori.  sarda,  I,  183;  e  s'incontra  anche  p.  e.  nelle  Vanz.  pop.  App.  p.  162;  sicché  pare 
la  si  debba  aver©  per  la  più  corrotta  e  genuina. 

•  [Qui  lo  scritto  si  riferisco  ad  etimologie  precedenti,  dove  si  trattava  di  questo  fenomeno.  Meglio  ora  riman- 
dare ad  Ascoi,!,  Corsi  di  glott.  §  27]. 


—  201  — 

giare  una  quantità  di  cose.  V.  fen.  Ghad,  cumulus.  A  cheddas ,  a  mucchi.  »  La  parola 
cìiedda  lo»'.  <xdda  mer.  foneticamente  verrebbero  ad  essere  nel  sardo  una  risultanza 
regolare  del  lat.  cella,  dispensa,  guardaroba,  conserva.  Dice  Cicerone  (Verr.  IV,  2) 
che  Catone  aveva  chiamata  la  Sicilia  celiavi  jjenariam.,  una  dispensa  di  vettovaglie. 
Quantunque  qui  non  si  possa  ancor  dire  che  la  parola  cella  sia  adoperata  in  senso 
figurato,  pure  si  sente  che  ben  vi  s'accosta;  e  che  cella  può  significarvi  una  gran 
provvisione  o  gran  quantità  in  genere.  Ora  io  non  dubito  che  la  parola  cella,  in 
quanto  significò  dispensa,  non  sia  venuta  ad  aver  nel  sardo  questo  significato  tra- 
slato e  generale  di  quantità,  mucchio  e  quindi  anche  di  stormo,  branco  d'animali. 
L' esempio  stesso  che  lo  Spano  arreca  di  mandigare  una  bona  cìiedda  raccosta  ancora 
d'assai  la  parola  cella  al  primo  suo  significato  di  dispensa.  Per  trapassi  analoghi  di 
significato  cf.  il  sardo  Meda  p.  207  seg. 

«  Chiiìeu,  m.  log.  sett.  crivello,  vaglio.  V.  gr.  xtXiCco  (sic).  »  Impossibile  etimo- 
logia. Chiliru  viene  dall'  equivalente  lat.  cribrimi.  Nacquero  primamente  ckiribrio,  cìii- 
riru;  poi  per  dissimilazione  chiliru.  Tutti  i  fenomeni  occorsi  in  questa  trasformazione 
hanno  riscontri  vari  che  li  confermano.  Quanto  a  crt-diventato  cMri-sì  confrontino 
Ghirigoro  per  Grigorio,  schiribi  per  scribi  {Tao.  rot.  I,  465)  ecc.  In  calabrone  da  crabro- 
nem,  oltre  ad  un'epentesi  perfettamente  analoga  nell'a  inserto  in  cr,  abbiamo  il  pas- 
saggio del  primo  ?-,  pur  per  dissimilazione,  in  l,  fenomeno  che  s'incontra  ancora  in 
più  altri  vocaboli  come  p.  e.  io.  pellegrino  da  peregrinus,  celabro  da  cerebrum,  pilatro 
da  pyrethrum,  veltro  da  vertragus,  jìalafreno  da  paraveredus ,  ecc.  Quanto  al  b  fogna- 
tosi immediatamente  dinanzi  a  r,  oltre  al  log.  lara  da  labra,  log.  e  setti,  colora  da 
colubro,  ne  abbiamo  anche  riscontro  in  lira  da  libra  e  nell'antico  senese  Uro,  allirare 
per  libro,  allibrare.  L'eqiùvalente  merid.  ciliru,  ciidiru,  che  ha  la  medesima  origine, 
viene  dal  Porru  derivato  dal  gr.  y.uXiCoJ,  donde  probabilmente  la  citata  forma  di 
y.iXtCw  recata  dallo  Spano. 

«  Ello  avv.  log.,  ellu  mer.  dunque,  certamente:  elio  gasi,  dunque  così.  Dal  gr. 
sXXw  (sic),  affirmo.  »  Io  non  dubito  punto  che  qui  non  ci  sia  il  pron.  ille,  preso  nella 
forma  dell'  abl.,  secondo  che  lo  proverebbe  Vo  finale  della  forma  logudorese;  e  quale 
si  ha  pur  nel  latino  pel  pron.  is,  nella  seconda  parte  del  composto  id-eo.  Cf.  perciò, 
però  (per  hoc) ,  ecc.  Anche  qui  cotesto  gr.  £/.).to  era  già  stato  messo  avanti  dal  Porru. 

«  Endiosaee,  AD0,  V.  n.  log.  invaghirsi,  elettrizzarsi,  divinizzarsi.  Dal  gr.  enthei 
(sic)  che  vale  immedesimarsi  con  Dio,  da  cui  la  voce  italiana  entusiasmo.  »  Qui  il 
greco  non  ha  punto  che  fare.  Endiosare  è  d'origine  spagnuola;  e  Vendiosar  spagnuolo, 
significante  deificare,  indiare  e  al  riflessivo  inorgoglirsi,  andar  in  estasi,  viene  mani- 
festamente da  dios  che ,  com'  è  noto ,  è  la  forma  spagnuola  improntatasi  dal  nomina- 
tivo latino  deus.  Come  Dante  da  dio  fece  indiare,  indiarsi,  cosi  gli  spagnuoli  da  dios 
derivarono  endiosar,  endiosarse.  L'it.  entusiasmo  ^^oi  è,  come  la  corrispondente  voce  di 
tutte  le  odierne  lingue  europee,  il  gr.  =vì>0DO'.7.aij,ói;  (lat.  enthusiasmus)  connesso  col  verbo 
svtì-o'joiàCa) ,  essere  ispirato,  invaso  da  divino  furore,  il  quale  verbo  si  derivò  assai 
verisimilmente  da  sv&gd?  (svasso?) ,  ispirato ,  mimine  afflatus.  Un'  altra  forma  sarda ,  pur 
logudorese,  dello  stesso  verbo  è  endeosare  collo  stesso  significato  e  coUa  stessa  ori- 


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gine.  Cf.  ven.  inanzolao  o  inaazolà  =  viaii(jelato,  p.  e.  siestu  laanzolao,  che  tu  sia  be- 
nedetto. 

«  Faddija,  f.  log.  focolare.  Cenere  accesa  e  viva.  Lat.  fax  viva  o  da  favilla.  » 
Non  da,  fax  viva,  che  foneticamente  sarebbe  impossibile,  ma  piuttosto  da  favilla, 
per  mezzo  della  forma  ^favillicula  che  sincopata  in  faviUicla,  perdendo  v  e  con- 
traendo,  dà  regolarmente  faddija  (cf.  p.  e.  log.  caddu  =  caballo ,  orija  =  arida,  ecc.). 

«Fitta,  fr.  log.  fetta,  pezzo,  ecc.  toc.  fen.  phat,  pliet,  frustulum.  »  Fitta  sardo 
ha  comune  coli'  it.  fetta,  come  il  significato,  così  anche  l'origine.  Non  saremmo  però 
per  ammettere  come  verisimile  un'origine  fenicia  p)er  questa  voce  così  viva  e,  sto 
per  dire,  italiana.  Il  Diez  vorrebbe  dare  a  questa  voce  una  provenienza  germanica, 
connettendola  coll'ant.  alto  tedesco  ^za,  nastro,  filo,  nuovo  alto  ted. /efee;i,  straccio; 
dichiarando  men  verisimile  l'origine  che  alcim.i  gli  vollero  dare  dal  lat.  vitta,  e  ciò 
per  la  rarità  della  mtitazione  di  v  iniziale  in  /  e  perchè  da  vitta  V  it.  ha  vetta,  e  lo 
sp.  e  il  prov.  hanno  veta.  Senza  volere  assolutamente  escludere  una  tale  derivazione 
non  saremmo  neppur  disposti  a  rigettare  l'etimologia  di  vitta;  perocché  il  v  iniziale, 
mutato  in  /,  non  è  poi  tanto  raro  da  toglier  verisimiglianza  a  questa  origine.  Il 
sic.  vitta  viene  a  significare  a  un  di  presso  quello  che  l' it.  fetta;  ed  ha  per  fettuccia 
il  diim..  fittidda.  Il  nap. /«&,  fetta,  mostra  nascere  da  una  forma  sincopata  del  dim. 
fittula  {vittida,  cf.  spalla =sijatula.  Il  significato  proprio  del  latino  vitta  si  manterrebbe 
più  vivamente  sensibile  nel  dim.  fettuccia,  sardo  fittichedda  {*fetticella). 

«  Masone,  m.  log.  Olii  sett.,  branco,  gregge,  armento  di  grosse  bestie.  Voce  fen. 
viason  (alimentum,  pastus).  »  Anche  qui  credo  s'abbia  a  ricorrere  non  al  fenicio, 
ma  sì  al  latino,  non  potendo  essere  altro  cotesto  masone  se  non  il  lat.  mansione,  it. 
magione;  non  ostante  il  genere  mascolino  che  venne  qiii  a  prendere  questo  nome  in 
sardo.  Quantunque  il  latino  mansione  non  abbia  lasciato  nei  volgari  odierni  della 
Sardegna,  quanto  a  questa  sua  forma  positiva,  altra  testimonianza  che  questa  di 
masone,  in  senso  di  gregge,  ecc.,  pure  è  indubitato  che  questo  nome  era  in  quel- 
r  isola  molto  usitato  ne'  secoli  di  mezzo;  e  basta  volgere  un'  occhiata  agli  antichi  do- 
cumenti sardi,  così  latini  come  volgari,  per  restarne  capaci.  Fra  i  molti  esempj 
ch'io  potrei  citare  e  dal  latino  e  dal  volgare  di  que' tempi,  mi  ristringerò  a  due 
soli.  L'uno,  parte  in  latino  e  parte  in  volgare,  in  cui  leggesi  ripetutamente,  per 
la  parte  latina,  mansionem  e  per  la  parte  volgare  musoni,  a  quanto  pare,  in  senso 
di  casa,  è  l'atto  di  donazione  fatto  alla  chiesa  pisana  da  Torgotore  o  Torgo to- 
rio, giudice  di  Cagliari,  intomo  all'anno  1070,  pubblicato  dal  Muratori  (Antiqu. 
Medii  ^vi,  II,  fol.  1053-55);  l'altro,  pure  un  atto  di  donazione,  tutto  in  volgare, 
fatto  alla  chiesa  di  S.  Maria  di  Lozzorai  dal  giudice  Salusio  di  Lacon,  del  sec.  XII, 
pubblicato  dallo  stesso  Spano  {Ort.  sarda,  11,  89),  dove  leggesi  et  dau  illoL...  duas  ma- 
sonis  de  cabras  et  una  masoni  de  jporcus,  cioè  :  e  dogli....  due  branchi  o  greggi  di  capre  e 
un  branco  o  gregge  di  porci;  esempio  notevolissimo  in  quanto  qui  masoni  ha  già  preso 
il  valore  di  branco  o  gregge,  ma  viene  ancora  adoperato  come  femminino  quale  è  il 
corrispondente  latino  mansione.  Dovrò  io  ancora  aggiugnere  che  la  forma  del  voca- 
bolo è  per  l' appunto  quale  la  richiede  la  grammatica  storica  del  dialetto  sardo ,  cioè 


—  203  — 

che  come  v.  gr.  prensione  (da  preliensionè)  ha  dato  al  sardo  presone  (log.)  presoni  (me- 
rid.  e  sett.),  pressioni  (gali.),  ìt.  jprigione,  cosi  pure  da  mansione  sono  rispettivamente 
venuti  masone,  viasoni,  masgioni,  magione. 

Tre  notevoli  nomi  di  forma  derivata,  etimologicamente  connessi  col  lat.  man- 
sione, ha  ancora  il  sardo  in  masnatingu,  masonada  e  masonza. 

La  glossa  masnatingu,  che  lo  Spano  registra  nel  suo  Voc.  col  significato  di 
«masnadiere»  senza  cercar  punto  d'accennarne  l'origine,  si  trova  nello  Statuto 
sassarese  del  sec.  XIX  (V.  Tola,  Codice  degli  Statuti  della  RepuhUica  di  Sassari,  I,  7) 
dove  è  detto:  sergentes  over  masnatingos  che  risponde  a,  servientes  aut  armigeros  del  testo 
latino.  Questo  vocabolo  accenna  manifesto  alla  forma  fondamentale  di  *mansionatingo, 
come  l'it.  (tose.)  masnadiero  a  quella  di  mansionatario  e  vengono  entrambi  da  *mahsio- 
nata  (masnada)  ohe  è  come  l'astratto  di  mansione  o  piuttosto  il  collettivo  di  cose  at- 
tinenti a  mansione.  Una  forma  rispondente  come  il  sardo  masnatingu  ad  un  organico 
^mansionatingo,  ma  più  profondamente  alterata,  secondo  esigeva  la  fonetica  regionale, 
si  trova  nella  glossa  pedemontana  masnengo ,  servitore ,  famiglio ,  che  s' incontra  in 
più  documenti  medievali  e  che  al  femminile  registrata  nel  Ducange  (Gloss.  m.  lat., 
s.  masnengo)  viene  erroneamente  interpretata  per  familia,  in  liiogo  di  serva ,  famula.  ' 
Questa  forma  in  ingo  (engo)  che  nell'ambiente  pedemontano  è  al  tutto  ovvia  e  natu- 
rale, nel  dialetto  sardo  riesce  piuttosto  singolare,  perocché  il  suffisso  ingo  (engo), 
d'origine  germanica  ed  essenzialmente  proprio  dell'  Italia  superiore,  è  comparativa- 
mente rado  nella  Toscana  e  quindi  nella  lingua  comune ,  e  si  può  dir  quasi  ignoto 
all'  Italia  meridionale  e  quindi  alle  sue  isole.  " 

L'altra  forma- sarda  derivata  da  mansione,  come  s'è  detto,  è  masonada,  viva  nel 
sardo  logudorese  e  nel  settentrionale,  col  significato  di  famiglia,  figliolanza,  quantità, 
o,  come  si  esprime  lo  Spano  con  modo  tolto  dal  Malmantile,  gerla  di  ragazzi.  Questa 
voce,  rispondente  al  già  toccato  latino  mansionata,  è  notevole  non  solo  in  quanto  si 
connette  etimologicamente  e  formalmente  aU'it.  masnada,  che  si  trova  ancora  usato 
dagli  antichi  nel  significato  suo  proprio  di  famiglia,  ma  a  molte  voci  più  o  meno 
analoghe  di  forma  e  significato,  proprie  dei  dialetti  italiani  e  francesi.  Comincierò 
dal  notare  l' ant.  genovese  »irts«àa  delle  Rime  storiche  d' anonimo,  scritti  d'intorno  al  1.300 
(1270-1320)  dov'è  detto:  tal  maire  e  tal  masnaa,  tal  madre  e  tal  famiglia  {Ardi.  Stor. 
It.  App.,  n.  18,  p.  1^),^  fiioi  aveva  tai  e  tanti,  masnà  de  servi  e  de  fanti,  figliuoli  aveva 


'  Nel  Ducange,  ed.  di  Didot,  si  legge;  «  Masnenga,  ut  maìsnada,  familia.  Statuta  astens.  coli.  4,  cap.  1"  p.  16.... 
ncc  raasnengas  alicuius  vel  aliunde  ortas  quam  de  civitati  astensi.  Hinc  masnengonus,  vel  masnengus,  etc.  >>  È 
troppo  chiaro  che  qui  si  parla  di  servo  anche  non  nate  in  Asti,  E  già  s'intende  che  masnenijus  non  può  venire, 
come  qui  si  direbbe,  da  masnenga  che  non  può  essere  altro  che  il  suo  femminile.  Quanto  al  masnengonus,  citato  dagli 
Statuti  vere,  lib.  V,  fol.  122,  V,  credo  si  debba  avere  pei-  errata  lezione,  trovandosi  preceduta  di  tre  linee  da  masnengo 
e  seguita  di  due  da  masnengiim,  tutti  e  tre  d'un  perfettamente  identico  significato.  D'altronde  sarebbe  forma  mor- 
fologicamente inverisimile. 

■  La  sola  parola  ch'io  sappia  di  qiiesta  forma  in  Sicilia  è  il  nome  locale  di  Sperlinga,  che  sola  nel  famoso 
vespro  non  volle  insorgere  contro  i  Francesi.  Sarebbe  curioso  il  vedere  se  questa  forma  sia  dovuta  alla  stessa 
causa moi-fologica  (che  in  parte  s'avrebbe  a  dire  etnica),  a  cui  sono  da  recarsi  i  tanti  nomi  locali  in-engo  dell'  Ita- 
lia superiore. 

'  [Le  antiche  rime  genovesi,  donde  son  cavati  quaesti  esempi,  furono  poi  pubblicate  interamente  dal  Lago- 
maggiore  nelVArch.  glott.  it,  II,  16Ì-312  e  sono  annotate  dallo  scrivente.  Vili,  IX,] 


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tali  e  tanti ,  masnada  (famiglia)  di  servi  e  di  fanti  (o.  e.  p.  20) ,  dove  si  vede  masnàa 
adoperato  primamente  in  senso  di  figliolanza,  poi  in  un  senso  non  più  tanto  dome- 
stico, ma  tra  quello  di  famiglia  e  quello  che  ebbe  dipoi  l' it.  masnada.  L'antico  pro- 
venzale conosce  anch'esso  la  parola  mamada,  maynada  (oggi  meinà,  fanciullo,  meinado, 
famiglia)  in  senso  di  famiglia,  séguito  di  famigli,  ecc.,  onde  p.  es.  los  paures  son 
maynada  j^etita  de  Dieu,  i  poveri  sono  la  piccola  famiglia  di  Dio  (Rayn.,  Lex. 
rom.  IV,  149);  tal  selinor,  tal  maynada,  quale  il  padrone  e  tali  i  servitori;  e  l'antico 
francese  ha  questo  vocabolo  sotto  le  varie  forme  di  maignyè,  maigniè  maignée ,  mai- 
snée,  ìuesgnée,  ecc.  pure  in  senso  di  famiglia,  onde  per  es.  Voyant  trop  grievement 
cliargée,  Sa  maison  de  trop  de  maignée,  Mist  sa  jìlle  en  religion  (Remi  Belleac,  t.  II, 
p.  154).  L'odierno  maisonnée,  che  metterebbe  capo  ad  uno  stesso  tipo  morfologico, 
è  una  forma  comparativamente  recente,  e  sta  alle  antiche,  quale  sarebbe  per  es. 
un  it.  *magionata  dirimpetto  a  masnada.  Anche  lo  spagnuolo  ha  masnada,  mesnada 
nel  senso  più  comune  dell'  it.  masnada.  Il  piemontese  conserva  vivissima  la  parola 
masnà  (var.  dial.  maina,  magna,  meinà);  ma  di  nome  collettivo  ne  fece  uno  di 
significato  personale;  sicché  masnà  al  singolare  significa  bambino,  ragazzo  e  bisogna 
il  plurale  per  avere  il  senso  di  bambini,  figliolanza.  Questo  significato  individuale  fu 
verisimilmente  causa,  che  questa  voce,  massime  in  quanto  applicata  a  bambino  ma- 
schio, si  facesse  anche  di  genere  maschile  onde  masnà  venne  poi  ad  usarsi  promis- 
scuamente  ne'  due  generi  senza  riguardo  al  sesso.  Il  Diz.  ven.  del  Boerio  ha  masnada 
0  masenada  in  senso  dell' it.  masnada,  brigata  e  reca  masnada  de  fioi  per  molta  figliolanza. 

Viene  in  ultimo  la  citata  parola  masonza  che  vale  p)orchetti  colla  scrofa  (Spano, 
Voc.  sardo,  s.  v.)  cioè  propriamente  branco  (masone)  di  porcellini  insieme  colla  madre  e 
mette  capo  a  *masonia  (=  mansionea),  presentando  nella  desinenza  il  fenomeno  fo- 
netico p.  e.  di  vinza  da  vinea,  ranzolu  da  araneolo  [Cf.  Ascoli,  Ardi,  gioii,  it.,  II,  140]. 
Morfologicamente,  in  quanto  s'appunterebbe  in  '^mansionea,  da,  mansione,  il  sardo  ma- 
sonza cade  nella  categoria  in  cui  gl'italiani  gramigna  =  graminea  da  gramen,  stamigna 
=  staminea  da  stamen,  carogna  =■  caronea  da  caron-  (gen.  carnis  da  *carinis),  ecc. 

E  poiché  già  tanto  mi  sono  esteso  a  toccar  della  storia  di  mansione  e  de'  suoi 
derivati,  giovi,  per  più  compimento  d'un  inventario,  dirò  cosi,  genealogico  della 
discendenza  di  tal  vocabolo,  dire  ancora  di  qualche  sua  derivazione,  quantunque  il 
sardo  di  per  sé  non  ne  porga  occasione.  Notevolissimo  é  tra  i  nomi  di  questa  fami- 
glia il  fr.  menage  (antico  maisnage  meisnage,  ecc.),  rispondente  ad  un  basso  latino  man- 
sionaticìim;  la  qual  parola  significando  propriamente  il  complesso  delle  cose  relative 
alla  casa  {mansione),  il  governo  della  famiglia,  ecc.,  in  qualche  dialetto  francese,  con 
trapasso  anche  più  ardito  che  non  nel  piem.  masnd,  venne  pure  a  significar  bam- 
bino, figliuolo;  onde  un  poeta  limosino  dice:  Se;  so  fenno,  soù  trei  meinagei-Toà  bravo 
gen  e  toù  bien  sagei-Que  de  irei  jour  n'óvian  minja-Semblòvan  chi  rat  eicurja;  vale  a  dire: 
lui,  sua  moglie,  suoi  tre  figliuoli,  tutti  brava  gente  e  tutti  molto  saggi,  che  da  tre 
giorni  non  avean  mangiato,  sembravano  cinque  topi  scorticati.  (Faucadd,  Poésies  en 
patois  limousin,  Paris,  1866,  pag.  13).  Il  piemontese  ha  anch'esso  cotesto  nome  nella 
varia  forma  di  mainagi,   meinagi,  menagi,  prossimi  di  forma  al  prov.  mainagi,   dal 


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quale  forse  è  venuta  la  parola  piemontese;  dico  forse;  giaccliè  non  è  improbabile  che 
sia  di  fondo  proprio  come  si  potrebbe  anche  congetturare  dal  meynatium  degli  sta- 
tuti di  Torino  {Mon.  liist.  patr.,  voi.  I ,  p.  706). 

Notisi  ancora  come  il  napolitano  abbia  il  verbo  ammasonarese  in  senso  di  riti- 
rarsi in  casa,  andare  a  dormire,  coricarsi,  ajjpollajarsi,  accovacciarsi,  rintanarsi; 
ed  ammasonaturo ,  pollaio ,  al  qual  proposito  è  da  notare  come  ne'  dialetti  lombardi 
m«son  valga  appunto  poUajo,  onde  ancld  a  mason,  andare  a  poUajo,  appollajarsi.  Il 
siciliano  aveva  pixre  anticamente  ammasunu,  pollajo,  e  insieme  con  masunata,  fa- 
miglia, ha  ancora  Aìnmascinni,  nome  d'un  antica  chiesa  di  Palermo  (v.  Pasqu.  Voc. 
sic,  s.  V.).  Magione,  Moscioni,  Musone,  Masona,  Mason,  Masuni  mannu  (sardo,  già  ma- 
schile) e  le  forme  derivate  Masonaje,  Masonazza,  Masonera  sono  parte  della  toponi- 
mia italiana  (cf.  Diz.  geogr.  postale,  s.  w.). 

«  Upuale,  m.  log.  secchia,  lat.  aquale.  »  Questa  etimologia  si  rende  problematica 
non  solo  dal  lato  fonetico  inquanto,  venendo  da  acqua  (log.  alba),  dovrebb' essere  ah- 
hale  e  non  upuale,  ma  anche  e  specialmente  per  l'esistenza  d'una  parola  log.  upu, 
significante  attignitojo,  e  che  sarebbe  impossibile  derivare  da  aqua,  anche  pel  signi- 
ficato, e  da  cui  non  si  può  etimologicamente  staccare  upuale.  Se  poi  upu  e  upuale 
abbiano  qualche  connessione  d'origine  con  umpire  log.,  tmipriri  mer.,  umpì,  sett.,  at- 
tingere, empiere,  e  umpiolu,  log.,  secchia,  non  oserei  né  affermare,  né  negare.  Osser- 
verò solo  come  nel  verbo  s'abbia  manifestamente  un'alterazione  del  lat.  implere,  che 
anche  nel  catalano  è  venuto  a  sonare  umpUr;  e  come  per  conseguente,  quando  upu, 
upuale  vi  si  connettessero  etimologicamente,  il  proprio  loro  senso  sarebbe  come  dir 
riempitojo  che  ben  si  confonde  con  quello  di  secchia,  attignitojo.  Il  log.  umpiolu  ac- 
cenna abbastanza  chiaro  ad  una  base  *impleolo;  ma  l'assenza  della  nasale  e  la  singo- 
larità morfologica  à!upu  e  upuale  renderebbero  pur  sempre  incerta  la  connessione  di 
questi  vocaboli  con  implere.  E  incerta  pur  tornerebbe  la  connessione  etimologica 
à' upuale  con  un  jjMfeafe,  poiché  jjwfeo  sonando  j^ufu  nel  logudorese,  puteale  dovrebbe 
d.sxYÌ putale.  Né  credo  valgano  a  tor  l'incertezza,  dal  lato  fonologico,  \\  pou^=puteo 
e  la  frequente  vocale  prostetica  del  meridionale,  né  dal  lato  logico  e  morfologico  lo 
spagnuolo  posai,  vas  puteale,  e  il  piem.  putzaj  {puteale),  secchia,  proprio  d'al- 
cuni dialetti  monregalesi. 

«  Meda,  aw.  log.  mer.  molto,  assai;  agg.  molto,  molta,  meda  forza,  molta  forza. 
In  plur.  di  genere  comune:  medas  homines,  medas  feminas,  molti  uomini,  molte  donne. 
Meda  meda,  assaissimo.  Voce  ebr.  meod  (nimis).  »  Il  sardo,  così  tenace  dell'elemento 
latino,  non  ha  serbato  la  tradizione  del  nome  multus,  né  dell' aw.  viultum,  e  adoj)era 
in  loro  vece  la  parola  meda,  che  vale  come  avverbio,  e  come  aggettivo  fa  per  ambo 
i  generi  al  sing.  meda,  al  plur.  medas.  Ma  è  da  avvertire  che  il  dialetto  meridionale 
adopera  meda  eziandio  con  significato  di  gran  copia,  il  qual  senso,  non  recato  nel  vo- 
cabolario dello  Spano,  viene  però  registrato  in  quello  del  Porru;  é  importa  assai 
che  si  noti  al  nostro  proposito.  Cotesta  voce  e  per  la  si;a  singolarità  etimologica  e 
per  l'importanza  che  ha  nel  dialetto  sardo,  ben  merita  di  essere  chiarita,  per 
quanto  é  possibile,  nella  sua  origine. 


—  -206  — 

Lo  Spano,  per  quella  sua  troppa  tendenza  alle  origini  semitiche  delle  voci 
sarde  d'etimo  alquanto  oscuro,  identifica  il  sardo  meda  coli' ebraico  nieod,  nimis.  Ora 
noi  vedremo  come  la  critica  glottologica  possa  senza  il  minimo  sforzo  rivendicar 
questa  voce  alla  giurisdizione  latina. 

Meda,  nell'ambiente  sardo,  accenna  a  primo  aspetto  ad  un  organico  meta,  verso 
cui  esso  sta  come  per  es.  fedu  (it.  feto)  a  fetiis,  seda  a  seta,  ecc.  Del  resto  è  principio 
elementare  di  grammatica  storica  il  digradarsi  della  tenue  in  media,  che  principal- 
mente fra  due  vocali  ha  luogo  in  volgari  della  famiglia  italica,  anzi  neolatina,  e  se- 
gnatamente nel  sardo,  dove  noi  abbiamo  verbigrazia  roda  =  rota,  vida  =  vita,  code 
:^cote,  nebode  =z  nepote ,  ecc.  Adunque  la  relazione  formale  o  materiale  che  dir  vo- 
gliamo tra  meda  sardo  e  meta  latino  sarebbe  quale  appunto  s'aspetterebbe  di  trovar- 
vela  chiunque  abbia  anche  solo  una  conoscenza  elementare  o  superficiale  delle  leggi 
di  trasformazione  della  parola  latina  presso  la  gente  sarda.  Ma  v'ha  di  più.  L'ori- 
ginaria forma  latina  si  mantiene  ancora  intatta  negli  antichi  documenti  della  lin- 
gua sarda  ;  e  io  non  citerò  se  non  l' esempio  d' afti-ros  meta  te.stes  (altri  molti  testimonj) 
che  leggesi  ben  due  volte  in  una  carta  del  1173,  pubblicata  dallo  stesso  Spano 
{Ort.  sarda,  II,  89),  dove  la  dentale  tenue,  come  in  moltissime  altre  forme  dell'epoca 
stessa,  non  è  per  anche  surrogata  dalla  media. 

Vediamo  ora  se  come  meda  sardo  s'identifica  materialmente  con  meta  latino, 
cosi  le  due  voci  anche  logicamente  si  possano  connettere  fra  di  loro. 

Presso  i  Latini  la  parola  meta  dinotava  principalmente,  come  ognun  sa,  quelle 
tre  pietre  o  colonne  di  forma  conica  o  piramidale,  rizzate  ai  confini  del  circo,  in- 
torno a  cui  giravano  i  carri.  Ma  un  altro  uffizio  assai  frequente  di  questo  vocabolo 
fu  poi  quello  di  significare  un  oggetto  qualunque  che,  poggiato  sopra  più  o  men 
larga  base  circolare,  s'alzasse  gradatamente  restringendosi  a  foggia  di  cono.  Quindi 
è  che  troviamo  i  Latini  aver  detto  ìneta  ligìiorum,  m.  /ceni,  vi.  lactis,  m.  sacchari,  ecc. 
cioè  meta  ossia  ammasso  di  legna,  di  fieno,  di  latte  (rappigliato .  ben  s'intende),  di 
zucchei'o,  ecc.  per  dinotare  cotesti  oggetti  rispettivamente  ammucchiati,  accatastati, 
foggiati  a  guisa  di  cono.  E  questo  è  appunto  il  significato  che  può  dirsi  essersi  man- 
tentito  più  o  men  vivo  nel  romano  volgare,  trasmesso  senza  interruzione  a  buon 
numero  degli  odierni  dialetti  della  famiglia  neolatina. 

E  cosi  nel  nap.  s' incontra  la  parola  ìueta  significante  pagliajo,  legnaja,  bica,  barca, 
cioè  quello  che  presso  i  latini  era  meta  foeni,  ecc.  in  quanto  che  non  solo  i  Napolitani, 
ma  in  genere  i  popoli  dell'  Italia  media  e  meridionale  rizzano  i  loro  pagliaj  a  foggia 
di  cono  o  cupola  intorno  ad  uno  stile  od  antenna  che  i  Toscani  dicono  anima  del 
pagliajo  e  con  nome  speciale  stollo,  barcile,  metnle  o  mitule.  '  Pei  Romagnoli  meda  im- 


'  Quasi  superfluo  notare  ohe  l'aretino  metiiU  o  mitiiU  viene  da  meta,pvir  proprio  dei  Toscani  in  senso  di  pa- 
gliajo (Cfr.  GrireRAKoisi ,  Siippl.  ai  Voc.  it.  s.  v.).  Trovo  la  prima  di  queste  forme  in  un  vocabolario  lat.-volg.  ms.  di 
Domenico  d'Arezzo  che  fa  venir  questa  voce  da  non  so  quale  meditulum !  la  seconda  nel  Voc.  ar.  pur  ms.  del  Redi, 
dicliiarata  per  '  lungo  legno  od  antenna  che  si  mette  noi  mezzo  del  pagliaio.  '  Sono  derivazioni  morfologicamente 
a.na.logìie  a  pedule,  gam'iide,  grembiule  ecc.,  e  di  questa  forma  in  iile  è  come  deviazione  o  varietali  meliillo  perugino. 


—  207  — 

porta  catasta,  quindi  «iVZè  (*rnedér,  *mefcare),  accatastare,  abbarcare,  abbicare.  Nei 
dialetti  lombardi  ed  emiliani  la  parola  meda  (ferr.  miccia)  viene  usata  a  significar 
catasta  di  legni,  di  fascine,  mucckio  di  letame,  barca  di  fieno,  paglia  e  presso  i  Pia- 
centini massa  di  lino  ammucchiata,  perchè  soggiaccia  alla  fermentazione,  e  anche  nel 
retoromanzo  la  voce  meida  (cfr.  seida  =  seta)  importa  gran  massa  di  fieno  fittamente 
ammontato.  Nel  trentino  mea^meta,  vale  muccMo,  e  i  derivati  medi  ^  *metatto  (cf. 
scout ^ scopatto ,  granatino)  muccMo  di  fieno,  smeaz^*smetaccio,  lo  stesso;  e  da  meat 
meattar  =  *metattare,  ammuccliiare. 

Meta,  in  quanto  è  venuto  a  significare  mucchio  di  paglia  o  di  fieno ,  ha  pure  i 
suoi  riflessi  così  nella  lingua  come  in  qualche  dialetto  di  Francia.  La  voce  meule  di- 
notante lo  strumento  delmuguajo  e  dell'arrotino  risponde  alla  mola  del  latino  e  del- 
l' italiano,  ma  in  quanto  dice  mucchio  di  fieno  o  di  paglia,  etimologicamente  non 
ha  più  che  fare  né  con  mala  né,  come  alcuni  vorrebbero,  con  moles,  ma  sibbene  col- 
l'equivalente  latino  meta,  di  cui  rende  però  la  forma  diminutiva,  metida,  venuta  qui 
a  rappresentare  il  positivo,  secondo  che  ciò  si  trova  avere  avuto  luogo  assai  spesso 
nella  formazione  delle  lingue  neolatine.  Circa  l'attinenza  formale  tra  meule  e  metida 
si  possono  confrontare  p.  e.  l'ant.  fr.  seide  con  seculum,  reide  con  regida,  onde  l'ingl. 
rìde.  Il  primitivo  meta  è  rappresentato  dall' ant.  fr.  moie,  ancor  vivo  oggidì  in  qualche 
dialetto  come  p.  e.  nel  piccardo  e  nel  vallone  (cf.  Diez,  Et  w.  686,  s.  meule).  Anche 
lo  spagnuolo  e  il  portoghese  hanno  meda  in  senso  di  mucchio,  castata,  covone,  e  il 
primo  ne  deriva  il  verbo  medar,  accatastare,  ammucchiare,  come  pur  medano  o  medano, 
per  miicchio  d'arena  nel  mare,  e  il  portoghese  medào,  per  gran  mucchio.  Da  questo 
raffronto  risulta,  parmi,  assai  chiaro  come  il  latino  meta  nel  senso  di  cumulo  coni- 
forme  dovesse  essere  assai  vivo  ed  esteso  nel  romano  volgare  e  come  vi  si  sia  gene- 
ralmente conservato  sì  col  senso  originario  e  sì  con  quello  più  generale  di  muc- 
chio, quantità,  quale  ho  già  notato  essere  nel  meda  del  sardo  meridionale,  preso  nel 
valore  di  un  sostantivo  importante  gran  quantità  {grandu  cantidadi,  Poebu,  Diz.  s. 
meda);  appunto  quale  suona  anche  per  estensione  in  alcuni  altri  dialetti  che  l'ado- 
perano più  particolarmente  nei  sensi  sovra  indicati,  verbigrazia  nel  milanese  che 
usa  meda  anche  come  semplice  equivalente  di  mucc,  monton  (v.  Banfi,  Voc.  mil.  s.  meda). 

Ammesso  dunque  il  nome  meta  significante  mucchio,  quantità,  come  ne' volgari 
continentali,  così  pure  in  quello  della  Sardegna,  non  sapremmo  vedere  il  pei'chò  da 
tale  significato  esso  non  abbia  potuto  prendervi  il  valore  di  molto ,  tanto  come  av- 
verbio, quanto  come  aggettivo.  E  qui  pure  un  raffronto  di  qualche  voce  di  signifi- 
cato originariamente  analogo,  passata  a  nuova  significazione  analoga,  gioverà  a  ren- 
dere anche  più  verisimile  la  fortuna  a  cui  soggiacque  la  parola  meta  presso  i  sardi. 
E  sia  la  prima  di  queste  voci  massa  che  significando  originariamente  pasta,  poi 
pezzo  di  cacio ,  di  metallo ,  di  vetro ,  di  marmo ,  venne  finalmente  a  significar  princi- 


n  berg.  e  frinì,  medil  é  analogo  al  sinonimo  harcile  da  barca.  Con  meta  in  senso  di  pagliajo  si  connettono  più  nomi 
locali:  Meta,  Mutola,  Meda,  Meida,  Medola,  Medile,  Metila  ecc.,  fr.  Meule.  Una  trentina  di  nomi  locali  abbiamo  da  Pa- 
gliaja,  Pagliara,  Pagliero  ecc.;  e  circa  novanta  da  Fenile,  Feniletto,  ecc. 


—  208  — 

palmente  una  quantità  di  qualsiasi  materia  riunita,  e  formante  per  cosi  dire  un  corpo 
solo.  Or  bene,  la  parola  massa  venne  appunto  ad  avere  un'  analoga  applicazione  in 
senso  particolarmente  di  avverbio  significante  molto ,  troppo ,  cosi  nel  provenzale  e 
nel  catalano,  come  in  alcuni  dialetti  italiani  e  segnatamente  nel  veneto,  nel  friulano 
e  nel  trentino.  Abbiamo  quindi  nel  provenzale:  ricxrhom  que  massa  voi  U-aire,  ricco 
uomo  che  troppo  vuole  accumulare:  massa parlatz.,  parlate  troppo;  ab  massa  d'aiitres 
encombriers ,  con  molti  altri  impacci  (v.  Ratnouabd,  Lex.  Bom.  s.  v.).  Ne' dialetti  ve- 
neti, nel  friulano  e  nel  trentino,  massa  (friul.  masse)  ha  valore  d'avverbio  e  significa 
molto,  troppo,  fuor  di  misura.  Questa  voce,  in  cotal  senso,  era  già  stata  notata  nel 
dialetto  veronese  da  Fazio  degli  liberti  il  quale  nel  Dittamondo  (1.  Yl,  e.  13,  t.  31) 
diceva:  Similmente  Eliseo  ancor  trajjassa  —  Giordan  col  suo  mantello  che  attor  era,  — Al 
modo  veronese,  grosso  massa.  Al  modo  veronese,  cioè  per  dirla  come  farebbero  i  Vero- 
nesi. '  Adunque  grosso  massa,  massa  grosso  (che  oggi  i  Mantovani  direbbero  con  tra- 
sposizione d'accento  massa  gross),  è  un'espressione  perfettamente  analoga  al  meda 
grussìi  o  russu  dei  Sardi.  Ho  già  notato  l'esempio  di  atteros  vieta  testes  (altri  molti  te- 
stimonj),  dove,  oltre  la  conservazione  deUa  dentale  forte,  è  ancora  da  avvertire  l'in- 
declinabilità di  meta,  equivalente  all'aggettivo  plurale  molti;  che  oggi  direbbesi 
medas  testes.  Cotesto  antico  costrutto  viene  ad  essere  del  tutto  analogo  a  quello, 
ancor  vivo  oggidì  nel  francese,  del  sost.  force,  adoprato  nel  senso  di  molti  e  di  molte, 
onde  non  solo  force  gens,  force  monde,  ma  anche  force  sots,  force  moutons,  force  témoins 
(meta  testes);  il  quale /orce  viene  poi  anche  usato  come  avverbio  col  valore  di  molto, 
come  per  es.  in /orce  bien,  molto  bene,  valde  bene. 

G.  Flechia. 


'  n  Nannncci  pone  massa,  in  quanto  viene  adoperato  da  Fazio  dei!li  Dberti  col  significato  di  molto ,  tra  le 
voci  e  locuzioni  ìlaliane.  derivate  dalla  lingua  provenzale,  ecc.s.v.,  osservando  clie,  sebbene  egli  (Fazio)  dicaesservoce 
de' Veronesi ,  tuttavia  fu  prima  de'Provenzali  ;  quasiché  per  andar  da  Eoma  a  Verona  s' abbia  da  passar  prima  in 
Provenza.  E  il  Boerio  nel  Diz.  veti,  [e  poi  il  Pirona  nel  l'oc,  friul]  mostra  credere  ohe  massa  [mosse],  "  troppo  ',  possa 
venire  dallo  sp.  mas  che  non  ha  punto  a  che  tare  con  massa ,  ne  pel  significato  né  per  l' etimologia,  volendo  dire 
'  pili  ',  '  mai  '  '  ma  '  e  venendo  insieme  colle  due  ultime  voci  italiane  dal  lat.  magis. 


UNE  FORME  DE  L'ARTICLE  EOUMAIN 

QUI    SE  MET  DEVANT   LES    SUBSTANTIFS    ET   LES    ADJECTIFS. 

\  (DiALECTE    DU    DaNDBE). 


L'article  a,  dans  la  langue  roiimaiue,  trois  formes: 

P''<^  forme.  Artide  qui  est  mis  à  la  fin  des  substantifs  et  des  adjectifs:  lii, 
l,  le,  pluriel  i,  pour  le  genre  masculin;  a,  pluriel  le  pour  le  féminiii. 

Il'-  forme.  Artide  qui  est  mis  devant  les  pronoms  possessifs:  al,  pluriel  ai 
pour  le  genre  masculin;  a  pluriel  alle  pour  le  féminin. 

HI"  forme.  Artide  qui  est  mis  devant  les  substantifs  et  les  adjectifs:  al,  plu- 
riel ài,  pour  le  genre  masculin;  a,  pluriel  alle  pour  le  féminin. 

On  connaìt  généralement  les  deux  premières  formes;  mais  on  connaìt  bien  peu 
la  troisième,  surtout  à  l'étranger.  Celle-ci  ne  se  trouve  pas  dans  la  langue  ócrite, 
mais  seulement  dans  la  langue  parlée  des  villages. 

Les  éléments  ethniques  étrangers  (Bulgares,  Grecs,  Albanais)  ont  tellement 
abondé  dans  les  villes,  que  certaines  formes  de  langage,  l'article  mis  avant  les 
substantifs,  par  exemple,  ont  presque  disparu  du  parler  des  gens  de  la  ville. 

Nous  devons  ajouter  toutefois  que,  méme  dans  les  villes  et  dans  la  langue 
écrite,  l'article  de  la  première  forme  est  placò  devant  les  substantifs,  mais  seule- 
ment qtiand  il  s'agit  du  génitif  et  du  datif  des  noms  propres  masculins.  Ex.:  casa 
luì  lon,  la  maison  de  Jean,  disseì  lui  Petre,  je  dis  à  Pierre. 

Les  formes  que  nous  allons  signaler  sont  usitées  par  la  population  des  villages 
situés  entre  Bucarest  et  le  Danube,  dans  le  triangle  forme  par  Bucarest,  Giurgévo 
et  Oltenita. 

Disons  d'abord  quelques  mots  de  l'article  que  l'on  emploie  devant  les  pronoms 
possessifs  {IP  forme).  C'est-à-dii-e :  al,  pluriel  ai,  pour  le  genre  masculin;  a,  pluriel 
alle  pour  le  féminin. 

Al  meù,  le  mien;  al  tei,  les  tiens;  a  nòstra,  la  nòtre;  alle  vòstre,  les  vòtres. 

Cet  article  apparaìt  dans  le  langage  parie,  comme  dans  les  li\'res,  dans  les  cam- 
pagnes  comme  dans  les  villes. 


—  210  — 

Le  langage  écrit  se  sert  aussi  du  datif  de  cet  article:  si  disse  allor  sei.  et  il  dit 
aux  siens.  Mais  ce  cas  est  peu  usité ,  méme  dans  les  livres. 

Voici  le  tableau  de  la  IIP  forme  d' article  précédemment  signalée: 

(  singrd-ier  «/,  génitif  et  datif  àV.ui, 
Mascimu   .     ,     .  ,  .  .„       n   ,.„  „„ 

'  pmriel  «ì,  genitii  et  datii  allor, 

.    .      (  singulier  «,  génitif  et  datif  allei  ou  àllii, 

'   pluriel  alle,  génitif  et  datif  àllor. 

Cette  troisième  forme  est  placée:  a)  devant  les  substantifs,  et  to)  devant  les 
adjectifs. 

L'article  place  devant  les  adjectifs  est  usité  dans  les  villes  et  dans  les  campa- 
gnes,  mais  non  pas  dans  les  livres. 

L'article  place  devant  les  substantifs  n'est  guère  usité  que  dans  les  campagnes , 
comme  nous  l'avons  déjà  dit. 


a)  L'aeticle  place  devant  les  substantifs. 

Exemples:  et  vede  tu  candii  te  o  i^'inde  al  vier,  tu  verras  [ce  qui  t'arriverà] 
lorsque  t'attrapera  le  vigneron;  —  muiere,  dà  'mi  a  sapà,  femme,  donne-moi  la  pio- 
che,  —  ce  s'a  fàcut  Marini — Sa  dus  in  ài  munti  mari,  qu'est  devenu  Marin?  — Il 
s'est  en  aUé  dans  les  grandes  montagnes;  —  unde  'ti  sùnt  cai?  —  Mi  'i  a  mdncat  ài 
lupi,  où  sont  tes  chevaux?  • — Les  loups  me  les  ont  mangés;  —  OrU  mai  lucra  si  alle 
fete,  les  fìUes  travailleront  aussi  (ou:  on  fera  travaiUer  les  fìlles  aussi). 

n  est  à  remarquer  que  l'on  contraete  les  preposi tions  cu,  in,  de,  avec  l'article 
de  la  III®  forme.  A  in  si ,  de  cu  et  al,  il  resulto  cu-àl,  et  si  la  prononciatiou  est  ra- 
pide, on  entend  col;  de  hi  et  ài  il  résulte  'nài;  '  de  de  et  ài  il  resulto  d'ai;  de  cu  et  ài 
il  résulte  cu-ài,  et  si  l'on  parie  rapidement,  on  entend  col. 

Ces  diverses  contractious  rappellent  les  col,  nel,  coi,  nei,  dal,  dai  de  la  langue 
itaUenne. 

Exemples:  am  f osta  cu  ài  militar  (prononcé  rapidement  col  militar),  j'ai  été  avec 
le  militaire;  — fugi  'n  ài  munti  mari  (prononcé  rapidement  'nài  munfi)  ,  il  s'est  enfui 
dans  les  grandes  montagnes;  —  vorbimù  d'ai  -macellar,  nous  parlons  du  boucher;  — 
se  dusse  cu  ài  berbeci  (prononcé  rapidement  coi  berbed) ,  il  s'est  en  alle  avec  les  mou- 
tons;  —  cu  alle  oi  (prononcé  rapidement  còlle  ci),  avec  les  brebis. 

Hàtons-nous  de  dire  que  àl^  ài,  a,  alle  jouent  aussi  le  ròle  de  démonstratif 
et  correspondent  à  l'italien  quel,  quei,  quella,  quelle.  Il  en  est  de  méme  de  l'allemand 
der,  die,  das  et  du  languedocien  lou.  Aìnsi  ce  dernier  idiome  dit:  lou  pastre,  le 
berger;  —  lou  qu'es  vengut.  celui  qui  est  venu;  —  lous  d'Erepio,  ceux  d'Hérépian,  etc. 


'  Ceci   serait   plutót  une    alliauce    de    deux    inots    avec  oliute   de   la    voyelle  initiale    da  premier,  qii'nne 
contractioD. 


—  211  — 

H  n'en  saurait  étre  autrement,  car  l'article  roumain  qui  se  met  à  la  fin  des 
substantifs  (P''^  forme)  tó,  l,  le,  i,  a,  le,  derive,  ou,  si  l'on  aime  mieux,  correspond 
au  démonstratif  latin  ille,  illa,  illud,  ce  qiù  est  reconnu  mème  pour  l'article  itali eu 
il,  lo,  i,  la,  le  et  pour  l'article  provencal,  fran9ais,  etc. 

_I1  n'en  est  pas  moins  vrai  que  dans  les  exemples  cités  plus  haut....  candii  te  o 
prinde  ed  vier....  dà  'mi  a  sapà,  etc,  al,  a,  ai,  alle  sont  des  articles,  et  non  des  dé- 
monstratifs,  comme  l'imaginent  certaines  personnes  qui  n'ont  entendu  que  le  lan- 
gage  des  villes. 

Ce  ne  sont  pas  des  démonstratifs,  par  cette  raisou  que,  dans  les  exemples  don- 
nés  plus  haut,  les  substantifs  précédés  de  l'article,  les  personnes  et  les  objets  dont 
on  parie,  ne  sont  pas  montrés,  indiqués,  ne  sont  ni  présents  ni  visibles. 

Ainsi,  dans  l'exemple:  muiere,  dà  'rm  a  sapà,  l'homme  qui  demandala  pioche  à 
sa  femme,  ne  mentre  l'instrument  ni  de  près  ni  de  loiu;  il  demanda  simplement 
«  la  pioche,  »  la  piocha  qu'il  a,  et  que  sa  femme  connaìt. 

Lorsque  l'homme  raconte  que  ses  chevaux  ont  été  mangés  par  les  loups ,  il  ne 
montre  les  loups  ni  de  près  ni  de  loin;  il  n'indiqua  pas  quels  sont  les  loups  qui  ont 
mango  les  chevaux. 

Dans  le  langage  des  campagnards  de  la  ragion  dont  nous  nous  occupons,  cette 
troisième  forme  d'article  a  absolument  la  méme  valeur  que  l'article  francais  le,  la, 
les,  que  l'article  italien  il,  lo,  la,  i,  le,  etc. 

Dans  les  phrases  roumaines  citées  plus  haut,  l'intantion  de  l'interlocuteur  est 
bien  de  se  servir  de  l'article.  S'il  s'agit  d'employer  les  démonstratifs,  on  dit  :  am  fostfi 
cu  militaru  alla,  j'ai  été  avec  ce  militaire-là,  avec  le  militaire  que  vous  savez;  — 
fugì  in  munti  àia  mari,  il  s'est  enfui  dans  ces  grandes  montagnes  de  là-bas  ;  —  vorbi- 
mù  de  viàcellaru  alla,  nous  parlons  de  ce  boucher-là,  de  ce  boucher  que  vous  savez; 
—  mi''i  a  mdncat  lupi  àia  care  a  venit  ast'  nópte,  ces  loups  qui  sont  venus  cette  uuit  me 
les  ont  mangés;  —  dà  'mi  sapa  aia  de  colo,  donne-moi  cette  pioche  qui  est  là;  —  dà 
'mi  sapa  aia  care  sa  rupté  ien,  donne-moi  cette  pioche  qui  s'est  cassée  hier;  —  Care 
vierf  —  ài  care  s'a  ìnsurat  acnm,  quel  vigneron?  — Celui  qui  s'est  marie  maintenant. 

Nous  devons  dire  aussi ,  que ,  dans  le  langage  des  gens  de  la  campagne ,  l'emploi 
de  l'article  devant  les  substantifs,  donne  beaucoup  d'energie  au  discours;  et  c'est 
surtout  en  cas  de  dispute,  de  contestation  et  de  querelle  que  l'on  a  recours  à  cette 
troisième  forme  d'article.  En  conséquence,  il  est  moins  usité  dans  le  récit  que  dans 
l'action  et  la  couversation  animéa. 


b)  L'article  place  devant  les  adjectifs. 

Dans  la  langue  parlée,  ou  dit:  al  Imi,  la  bon;  —  a  rea,  la  mauvaise,  laméchante; 
—  ài  vecM,  les  vieux;  —  alle  verdi,  les  vertes;  — àlluì  mie,  au  petit;  —  allei  grasse,  à  la 
grasse;  —  aliar  ràpedì,  aux  rapides; — cu  al  negru  (prononcé  rapidement  col  negru), 
avec  le  noir;  —  Il  versa  'n  al  rosiu,  il  le  verse  dans  le  rouge;  —  se  approprie  d'àl  calde, 
il  s'approche  du  chaud;  —  cu  a  rtdósà,  avec  la  galeuse,  la  rogneuse; — pune-uà  'n  a 


—  212  — 

fece,  mets-là  dans  la  froide;  — a  venit  cu  ài  neyri  (prouoncé  rapidement  coi  negri),  il 
est  venu  avec  les  noirs;  — a  tnceput  cu  alle  albe  (pronoucé  rapidement  còlle  albe),  il 
a  commerce  avec  les  blanches; — -  intrd  'n  alle  noni,  il  entra  dans  les  nouvelles. 

Nous  le  répétons ,  c'est  cette  forme  d'article  qu'ou  met  devant  les  adjectifs  qua- 
lificatifs ,  dans  la  langue  parlée  de  la  Vallachie. 

Dans  la  langue  écrite,  on  emploie  au  contraire,  une  forme  usitée  dans  quel- 
ques  districts  de  la  Moldavie,  mais  qui  en  Vallachie,  semble  quelque  peu  factice;  on 
se  sert  de  l'article  cel,  cea,  cel,  celle,  qui  correspond  à  l'italien  quel,  quello,  quella, 
et  au  languedocien  aquel  (provencal  aqueu). 

On  écrit  dono:  cel  mare,  le  grand;  —  cea  grossa,  la  grosse;  —  cel  albi,  le  blancs  ; 
—  celle  frumóse,  les  belles  ;  —  cu  cel  naltù,  avec  le  baut;  —  in  cea  déssà,  dans 
l'épaisse  ;  etc. 

Voici  le  tableau  de  cette  forme  d'article: 

(  singuUer  cel,  génitif  et  datif  cellui, 

\  pluriel  ed,  génitif  et  datif  celiar, 

i  singulier  cea,  génitif  et  datif  celici  cu  ccllil, 

{  pluriel  celle,  génitif  et  datif  celiar. 

Au  parlement,  au  tbéàtre,  devant  les  tribunaux,  quand  on  fait  des  phrases 
déclamatoires ,  on  emploie  cette  forme  d'article  devant  les  adjectifs;  mais  on 
sent  bien  que  c'est  empesé,  guindé,  serre  dans  le  corset,  génant. 

Et  comme  dans  les  écoles  on  n'admet  pas  l'empiei  de  l'article  ài,  ai,  a,  alle  de- 
vant les  substantifs  et  les  adjectifs,  un  professeur  de  grammaire  de  Bucarest  diete 
aux  élèves  des  phrases  comme  celles-ci;  Stefan  cel  mare;  Etienne  le  grand....  —  cu  cel 
neqru,  avec  le  noir....  —  cea  antica,  l'ancienne....  etc. 

Mais  suivons  le  méme  professeur  chez  lui.  Sa  femme  lui  demando  :  «  Avec  quel 
paletot  sortiras-tu  demain?  »  Et  le  mari  répond:  cu  al  vecliiù  (prononcé  rapidement 
colvechiù),  avec  le  vieux. 

Il  ne  dit  pas:  «  cu  cel  vecìnù,  »,  car  sa  femme  le  regarderait  avec  étonnement.  Et 
s'ils  continuent  leur  conversation  familière,  nous  leur  entendrons  dire  :  «  A  venit  fe- 
cioru  popi. —  Careì  —  al  mare.  Le  fils  du  prétre  est  venu  — Lequel?  —  le  grand, 
(l'aìné).  » 

Ainsi,  le  professeur  dira  comme  tout  le  monde:  al  mare,  a  negra,  ài  verdi,  alle 
rosii,  et  non  pas  cel  mare,  cea  negra,  cel  verdi,  celle  rosil,  le  grand,  la  noire,  les  verts, 
les  rouges,  etc. 

Il  en  est  de  méme  pour  l'adjectif  alta,  autre. 

Dans  le  langage  parie,  on  dit: 

(  singulier  àl-lalt&,  génitif  et  datif  àlìm-lalta, 
{  pluriel  ài-lai  fi,  génitif  et  datif  àllor-laM, 

.'  singulier  a-laltà  ou  al-laltà,  génitif  et  àa,tìf  àUel-lalte  ou  àllii-lalie, 
^  '  pluriel  alle-lalte,  génitif  et  datif  àllor-lalte. 


—  213  — 
Et  dans  les  livres,  on  écrit: 

cel-laìtu,  gónitif  et  datif  cellm-lalta,, 
pluriel  cel-laìtì,  génitif  et  datif  cellor-lalti, 
féininiu  singulier  cea-laltà,  gónitif  et  datif  celleì-lalte , 
fémiuin  pluriel  celle-lalte^  génitif  et  datif  cellor-lalte. 

Est-il  plus  euphonique  d'employer  devant  les  adjectifs  l'article  du  langage  parie 
de  la  Vallachie  al,  ài,  a,  alle,  ou  bien  l'article  adopté  dans  la  langue  écrite:  cel,  ceì, 
cea,  celle?... 

Nous  allons  apporter  encore  un  élément  au  débat. 

On  a  vu  plus  haut,  que  al,  dì,  a,  alle  ont  aussi  le  ròle  de  pronom  demonstratif. 
Dans  le  langage  écrit,  nous  trouvons  naturellement  cel,  cei,  etc. 

Pour  rendre  la  phrase  «  celui  qui  est  veuu  hier,  »  on  dit  en  langage  parie:  ài 
care  a  venit  ieri,  et  dans  le  langage  écrit:  cel  ce  a  venit  ieri. 

On  avouera  qu'il  n'y  a  rien  d'euphonique  dans  cette  rópétition  de  la  syl- 
labe  CE. 

On  rencontre  dans  les  livres,  des  phrases  corame  les  suivantes,  où  la  syllabe  ce 
est  encore  plus  fréquemment  répétée:  cel  ce  a  fàcut  cervi  si  pàmìntid,  celui  qui  a  fait 
le  ciel  et  la  terre;  — cel  ce  cercetédà,  celui  qui  reclierche,  qtù  esamine;  — cel  ce  pen- 
tru  Urrà  mi  scie  se  mòra  (Bolintineanu) ,  celui  qui  ne  sait  pas  mourir  pour  le  pays. 

Dans  le  langage  parie,  on  dirait:  al  care  a  fàcut  centi  si  pàniìnUd,  ài  care  cercetédà, 
cine  ijentru  tèrra  nu  scie  se  mòra. 

On  avouera  que  le  demonstratif  et  l'article  de  la  langue  parlée  sont  plus  eupho- 
niques  que  le  demonstratif  et  l'article  adoptés  jusqu'à  ce  jour  dans  les  livres. 

Encore  une  fois,  l'étranger  qui  étudie  la  langue  roumaine  dans  les  livres,  ne 
rencontre  que  cel,  ceì,  cea,  celle  devant  les  adjectifs;  il  ne  peut  donc  faire  la  connais- 
sance  de  l'article  ài,  ài,  a,  alle. 

Nous  avons  voulu  lui  servir  de  cicerone  et  l'aider  dans  cette  excursion  philo- 
logique. 

On  sait  que  les  verbes  ont  en  roumain  deus  formes  d'infinitifs,  l'une  terminée 
en  re,  et  l'autre  sans  re;  aiusi,  laudare  et  lenidà,  louer;  vedere  et  vede,  voir;  simtire  et 
simù,  sentir,  etc. 

On  sait  encore  qu'en  italien  on  trouve  lodare,  vedere,  sentire,  etc,  et  que  le  dia- 
lecte  moderne  du  Latium  (lingua  romanesca)  nous  mentre  les  iufinitifs  vede,  sentì, 
magna,  etc. 

Dans  les  temps  des  verbes  qui,  en  roumain,  sont  composés  d'un  ausiliaire  et  de 
l'infinitif,  ■  on  trouve  tantòt  une  forme  de  l'infinitif,  tantót  l'autre.  Esemples:  7ndn- 
car  'ai  foc!  puisses-tu  manger  du  feu!  candii  Si  manca,  quand  tu  mangeras. 

En  roumain,  les  infinitifs  sont  très-fréquemmeut  pris  comme  substantifs  ;  en  pa- 
reli cas,  le  substantif  est  féminin,  et  non  pas  masculin,  comme  en  fran9ais  et  en 
itaUen. 


—  214  — 

Aùisi,  on  dit  en  roumain:  cu  venirea  mea,  avec  mon  arrivée,  à  l'occasion  de  mon 
arrivée  (littéralement  avec  mon  venir);  —  la  f acerea  cassi,  lors  de  la  construction  de  la 
maison  {littéralement  au  faire  de  la  maison);  — jjunerea  pietre-lor.  la  pose  des  pierres 
(littéralement  le  poser  des  pierres). 

'K  la  fin  de  ces  infinitifs  pris  coinme  substautifs,  ou  a  ajouté  l'article  féminin  de 
la  première  forme  a. 

On  peut  se  demandar  maintenant  si  l'article  féminin  a  est  place  quelquefois 
devant  l'iufinitif,  au  méme  titre  qua  devant  les  substantifs  proprement  dits,  les 
adjectifs  qualificatifs  et  les  pronoms  possessifs. 

Nous  avons  entendn,  — -très-rarement,  il  est  vi'ai,  —  des  phrases  comma  celle-ci: 
Apol  cu  a  venire  a  Dumitalle  écà  ce  ai  fàcut!  Mais  avec  votre  arrivée  {littéralement  avec 
le  venir  de  ta  seigneurie),  voilà  ce  que  vous  avez  fait! 

Demandons-nous  encore:  «  Devant  l'antre  forme  de  l'infinitif,  ne  met-on  pas 
l'article  «A..  Ne  dit-on  jamais  a  veni,  a  vede,  a  dice,  venir,  voir,  dire?...  » 

On  trouve,  en  effet,  en  roumain  le  verbe  à  l'infinitif  dépourvu  de  la  finale  re, 
et  précède  d'un  a;  ainsi,  on  dit:  pentru  a  vede,  pour  voir;  —  pentru  a  ])uté  dice,  pour 
pouvoir  dire;  et  l'on  considère  cet  a  comme  une  préposition. 

Mais  examinons  un  peu  la  phrase  a  cumperà  un  cai  nu  e  lucru  greii,  acheter  un 
cheval  n'est  pas  ciiose  diificile;  (en  italien,  il  comprar  un  cavallo  non  è  cosa  difficile). 

Il  semblerait  que  «  est  l'article  féminin  mis  devant  l'infinitif;  a  tieudrait  ici  la 
place  de  l'italien  il  qui  précède  le  verbe:  Il  comprar  tm  cavallo.... 

Nous  troiivons  cet  emploi  de  l'article  devant  l'infinitif  italien  dès  le  XIII^  sie- 
de. Ainsi  nous  lisons  :  «  Più  utile  è  l'acquistare  degli  amici  che  reame.  »  (  Volgarizzamenti 
del  libro  di  Catone,  Milano  1829,  pag.  96). 

«  Che  'l  nominarsi  V  uomo  savio  è  vizio  di  grande  arroganza.  »  (Brunetto  Latini,  Ma- 
nuale del  Nannucci,  2''  ediz.,  t.  II,  p.  301-2). 

«  L'avere  nelle  miserie  comjjagni  suole  essere  grande  alleviamento  di  quelle  [miserie],  » 
(Boccaccio,  Lettere). 

Comme  on  le  voit,  il  est  permis  de  se  demander  si,  en  roumain,  on  ne  pourrait 
pas  considerar  Va  comme  étant  l'article  féminin  de  la  troisième  forme  mis  devant 
l'infinitif. 

Lors  que  l'infinitif  a  sa  terminaison  en  re,  il  est  facile  de  le  compléter  au 
moyen  de  l'article  final;  vinderea  unùì  cai,  la  vente  d'un  cheval. 

Mais  lorsque  cet  infinitif  a  perdu  sa  finale  re,  l'oreille  ne  lui  permet  plus  de 
prendre  l'article  à  la  fin;  on  ne  pourrait  pas  dire  cumpèràa  un  ccd,  acheter  un  che- 
vai;  on  éprouve  donc  le  besoin  de  piacer  l'article  devant  l'infinitif,  et  de  dire  a 
cumperà  un  cai. 

L'article  a  joue,  dans  ce  cas,  en  roumain,  le  méme  róle  que  l'article  italien  il. 
—  A  cumperà  un  ccd...  en  italien,  il  comprar  un  cavedio... 

Le  premier  article  peut  ótre  suivi  d'un  second  article;  ce  dernier  mis  à  l'ac- 
cusatif.  Dans  ce  cas,  en  italien,  le  second  article  est  mis  à  la  suite  de  l'infinitif; 
et  en  roumain,  il  est  mis  après  le  premier  article.  Ainsi,  on  dit:  Il  comprarlo,  non 


—  215  — 

sarehhe  difficile,  »  et  en  roumain,  <^  A'I  cunvpérà,  nu  ar  fi  greti,  »  —  «  L'acheter  ne 
serait  pas  difficile,  »  ou  «  il  ne  serait  pas  difficile  de  l'acheter.  » 

Nous  avons  dit  plus  haut  que  cu  al  contraete  et  prononcé  rapidemeut  de- 
vient  col. 

Dans  d'autres  circonstances  aussi,  w  suivi  d'a  produit,  en  roumain,  le  son  o,  sur- 
tout  si  les  deux  lettres  sont  prononcées  rapidement.  Omu  alla,  cet  homme-là,  se 
prononcé  en  réalité  om  olla;  —  locu  alla,  ce  lieu-là,  se  prononcé  he  olla;  —  Itiàmù, 
nous  prenons  (le  verloe  est  luare,  derive  de  levare),  se  prononcé  rapidement  lomii. 

Dans  una,  une,  Vn  ayant  disparu,  il  est  reste  M,  que  l'on  fait  encore  sonner  en  o. 


Obédénabe 

Membre  correspondant  de  l'Académie  roumaìne, 
Membre  de  la  Société  pour  Tétnde  des  Laugues  Romanes 
de  Montpellier. 


RECHERCHES  SUR  LiV  CONJUGAISON  ESPAGNOLE 


AU  XII^'  ET  XIV'^  SIECLE. 


Le  futur  et  le  conditionnel. 

La  cliute  de  la  voyelle  protonique  clans  ces  cleux  teiiips  est  régulière  en  ancien 
espagnol ,  tandis  qua  de  nos  jours  l'infinitif  n'apparaìt  mutile  qua  dans  liabre 
liabria,  cabré  ca'bria,  haré  haria,  podré  podria,  pondré  pondria, 
qiierré  querria,  sabre  sabria,  tendré  tendria,  valdré  valdria,  dire  di- 
ria,  saldré  saldria  etvendré  vendria. 

Conjugaison  en  -er. 

aver  aber  :  avré  abré,  avrie  abrie. 

arder  :  ardrà  Signos  21. 

beber  :  bevràs  Alex.  862;  bevràn  Alex.  2202;  bebrien  S.  Millan  245;  bevrien 
Alex.  1986. 

e  aber  :  cabré  cabrie. 

cader  :  cadré  Milagros  764;  cadrà  Alex.  1B12,  2195;  cadràn  Cid  3622;  cadria  S. 
Oria  121;  cadrias  S.  Dom.  429;  cadriamos  Loores  217;  cadrian  Loores  83; 
carria  Alex.  81. 

coger  :  codremos  S.  Laur.  69. 

corner  :  combré  Cid  1021;  combràs  JR.  1137, 1138;  corabredes  S.  Dom.  376,  459,  JR. 
751;  combràn  Ditelo  53;  combrie  «Si.  Dom.  355,  Apol.  66,  JR.  89;  combrian 
JR.  755. 

conte  e  er  :  contezria  Loores  27. 

contender  :  contendra  Alex.  2195;  contendremos  »S'.  Dom.  288;  contendredes  Mi- 
lagros 716. 

crecer  :  cre9rà  Cid  1905,  cre9renios  Cid  688,  1883,  2198. 

defender  :  defendrà  Alex.  628. 

dever  :  debria  Milagros  760;  devries  S.  Laur.  66;  devrias  Alex.  467;  debria  Loo- 
res 73;  devria  Apol.  536,  Alex.  210;  devrie  Apol.  293,  Alex.  617,  FG.hM; 
devryemos  FG.  204  ;  debrien  JR.  104. 

28 


—  218  — 

entender  :  eutendrà  Milagros  180,  Alex.   2344;  enteudremos    Loores  142,  Milagros 

498;  entendredes  Milagros  431,  432,  Apol.  182,  372;  entendràu  Sacrlf.  58, 

Signos  66,  Alex.  69;  entendries  S.  Doni.  431,  J.j>oL  497;  entendrie   Milagros 

420,  ^poZ.  146. 

esconder  :  escondrie  S.  Millan  240. 

fer  :  fere  ferie  dam  le  P.  <ln  Cid  (fare  108,  819,  2227,  3479);  dans  les  autres  textes 

toujoiirs  fare  farla  '. 
merecer  :  merezria  S.  Oria  200. 
in  e  ter  :  metré  3fE.  p.   311  a,  Alex.  369,  924,  926;  JR.  1064;  metrà  Sacrif.  206, 

Milagros  765  ;   metràn  Signos  42  ;  metrie  S.  Dom.  200 ,  Milagros  467 ,  Apol. 

19;  metria  Apol.  28;  metrien  S.  Millan  413. 
moler  :  moldrie  S.  Boni.  659. 
mover  :  movrà  Ajwl.  100. 

parecer  :  parezré  Loores  176;  pare9rà  Cid  1126. 
pender  :  despendràs  ME.  p.  312  a,  espendremos  S.  Dom.  487. 
perder  :  perdràs  Ajwl.   583;    perdredes   Sacrif.  297,  S.  Oria  74;  perdrias  S.   Oria 

158;  perdria  Sacrif.  210;  perdrie  Milagros  14;  perdrian  Loores  15. 
plazer  :  plazrà  Milagros  215,  ^Ze*.  56;  ^jlazrie  S.  Dom.  680. 
poder  :  podré  podrie. 
pener  :  pondi'àn  Cid.  1666;  porre  Milagros  658;  porràs  *S'.   Millan  87;  comporrian 

Duelo  171  ;  porne  xlZea;.  2283,  JR.  552  ;  poma  S.  Dom.  722,  xlfe.  739;  por- 

nemos  Alex.  189;  pornàn  Alex.  2173;  pornie  Alex.  1089. 
prender  :  iDrendré  Duelo  106,  Cid  503,  J.^o/.  12,  388,  ME.  p.  318  b;  aprendx-é  Alex. 

4A;  prendràs  Milagros  479,  609,  Alex.  50,  547;  preudrà  Cid  386,  Apol.  319, 

390;  aprendrà  aS.  Millan  2,   .4Zea;.  3,  prendremos  Milagros  54;  prendràn  ^. 

-Dowt.  501,  Loores  64,    Signos   43,   Milagros  794,  ^?ea;.    69;  prendrie  &  i>om. 

582,  Milagros  89;  prendria  il£B.  p.  .SCS»  a. 
querer  :  querré  querria. 
rremaner  :  rremandràn  Cid  2223. 
rrender  :  rrendré  Cid  2582  ;  rendriedes  ^S'.  Millan  402. 
responder  :  respondrà  Loores  186;  respondremos  S.  Laur.  35. 
roer  :  rodré  JR.  1405. 
saber  :  sabre  sabrie. 
seer  :  sere  serie, 
tanner  :  tandrà  Cid  318. 
tener:  tenrrie  S.  Laur.  105;  terre  Milagros  46;  terràs  S.  Dom.  237,  S.  Laur.  72, 

S.  Oria  135;  terrà  S.  Millan  117;  terredes  Milagros  1;  terrie  ,S'.  Dom.  676; 

terria  /S.  Dom.  17(5,  205,  /S".  Zaier.  13,  41,  Alex.  42;  terriedes  S.  Dom.  510; 

terne  ;S.  Dom.  146,  760,  CwZ  450,  3049,  Apol.  357,  ^Zea-.  5,  205,  377,  JR  552, 


'  Ce  futnret  06  oonditionnel  ne  sont  pas  des  comiiosós  do  fazer,  mais   de  far=dar  et  ostar.  Fer   a  in- 
fliiencé  deràn  (UE.  p.  3t'i  a),  qui  n'est  pas  nccessairoment  une  forme  coriompue. 


—  219  — 

M.  des  rois  mages  19  ';  terna  Signos  15;  ternedes  Alex.  725;  tcrnàn  Signos  59, 
Alex.  649,  1290,  18()5;  temie  S.  Doni.  661,  ApoL  526,  Alex.  248,  864; 
tevnia.  S.  Dom.  742,  Signos  34,  J/e.«.  133,  2091,  FG.  594,  .//^.  717;  ter- 
nian  FG.  202. 

toller  :  tolrey  Alex.  791;  tolrrie  Alex.  1714;  toldria  4^jo/.  526;  toldrie  Alex.  1073. 

treverse  :  me  trevi'ia  Milagros  45. 

valer  :  valdré  valdiie;  valrria  Alex.  62. 

veer  :  vere  verie. 

ven9er  :  vencremos  Cid  2330;  venzrien  S.  Millan  412. 

yazer  :  yazràs  S.  Oria  128;  yazrà  S.  Dom.  723;  yazremos  Loores  185;  iazredes  Cid 
2635;  yazràn  Loores  183;  iazrie  S.  Dom.  318,  622,  Milagros  366;  iazria  Mila- 
gros 815,  827;  iazdrie  Milagros  203;  yaria  .4?ea3.  2094. 


Les  exceptious  suivantes  s'expliquent  par  l'eupliouie  qui  a  voulu  éviter  l'accu- 
mulation  des  r: 

acorrerà  Alex.  689  ";  correràn  Signos  22  ;  acorreryas  FG.  544. 

cresceràn  S.  Dom.  755  ';  descreceràn  Loores  183. 

creerà  ifi/a^j-os  534;  creeremos  Milagros  'Òli;  creeràu  Sacrif.  53;  creeria  Milagros 

643,  Alex.  629;  creyeria  A^ol.  221. 
morreredes  Alex.  492  et  morrerieu  Alex.  910  sont  des  formes  introduites  par  l'un 

des  copistes  du  poeme. 
perdere  Cid  1022,  JB.   165,  166,  566;  perderàs  Cid  632,  633,  JR.  1227;  perderà 

Cid  1389,  Apol.  466,  JR.  663  ;  perder edes  Cid  1530,  i^6*.  443;  perderàu  Alex. 

1182,  1290,  FG.  242,  Ji?.  p.  226  6;  perderle  Cid  27;  perderla  i^G.  539,  JR. 

662,  734;  perderiemos  Cid  45  '. 
prenderas  ifi?.  p.  312  a,  Alex.  735;  prenderedes  FG.  (330;  apreudei-ia  4?ea;.   18, 

mais  pent-étre  que  l'origiual  portait:  elli  mas  aprendria. 
romper ien  Alex.  930,  2176. 
estorcerien  Alex.  1854- 

traeré  JR.  692,  905;  traeràs  S.  Millan  268;  trayeràs  ME.  p.  316  b;  traerà  i^<7.  407. 
tremerà  Signos  15;  tremeràn  Signos  63,  ME.  p.  314  a. 
[me]  treveria  Milagros  787. 
volveràs  JR.  1138  et  volverie  xlfex'.  901,  s'expliquent  également  par  une  raison 

d'euphonie. 


'  Gite  d'après  la  réimpression  de  K.  A.  Martin  Hartmann  .  Ueber  das  altapanische  Drtik'ónigsapiel ,  Bautzen  1879. 
-  Le  vers  est  corroinpu.  Au  lieu  de    Enton(;;es   nos    acorijerà,    1.  Entonz    acorrerà. 
^  E    crescerai!    cutiano. 

*  Aussi  est-ìl peut-étre  permis  de  lire  perderemos  au  lieu  de  perdremos,  .S'.  Lanr.  68,  quoique  Berceo  ait 
ailleui'S  les  formes  abrégées.  Mais  il  vaut  mieux  lire  :  |E]    nos    non    lo[sJ    perdremos. 


—  220  — 

Il  ne  reste  cl'exceptions  réelles  qua  les  suivantes  qui  prouvent  qne  qnelqnes 
luies  des  formes  modernes  remontent  déjà  au  treizième  siècle: 

averà  liois  mnges  101;  averliiau  Alex.  2255'. 

aborreceràn  JR.  p.  226  b. 

asconderian  FG.  668. 

caeràs  Milagros  261;  cayeràs  Apol.  409;  caeredes  Alex.  768;  caevia  S.  Mìllan  419. 

descogerà  JR.  p.  226  h;  escogera  JR.  574. 

fales9erias  FG.  398. 

gradesceria  FG.  285. 

mere  e  era  ME.  p.  307  h. 

ofreceremos  Roh  magcs  70.  Le  vers  exige  cefcfce  forme:  Oro,  mira  i  acenso  a  el 

ofrec[e]remos. 
pertenecerà  Rois  mages  74. 
planyeré  A^wl.  444. 

quet[e]rà  Rois  mages  71.  Le  vers  exige  cette  forme. 
sab[e]remos  Rois  mages  G9 ,  mais  sabre  10,  29. 
temerà  S.  Dom.  161. 
venceràs  FG.  404,  JR.  492:  ven(;eremos  Alex.  800,  1283,  2111;  venceredes  Alex. 

1917,  daus  des  hémistiches  corrects. 

Les  copistes  cut  souvent  remplaeé  les  formes  syneopées  par  celles  qui  leiir 
étaient  plus  familières,  de  manière  qu'un  grand  nombre  de  passages  doivent  étre 
corrigés: 

Alli  lo  eiitenderemos  (/.  entendremos)  que  tiene  mala  manna,  <S'.  Ihm.  96. 
Guaresceré  (l.  guarezré)  por  el  ruego  de  los  tns  paladares,  8.  Dom.  776. 
Cansariemos  en  medio,  perderiemos  [l.  perdriemos)  la  soldada,  Sacrif.  136. 
Estonce  conosceriamos  (Z.  conozriamos)  eom(mo)  somos  engannados,  Loores  188. 
En  el  segundo  dia  parescerà  (/.  parezrà)  affondado,  Signos  7. 
Averau  (/.  avràn)  fambre  e  frio,  temblor  e  callentura,  Signos  88. 
Entre  sus  corazones  averàn  (l.  avràn)  niuy  granfe  ardura,  Signos  38. 
Contecerà  (l.  contecrà)  eso  mismo  a  los  malos  merinos,  Signos  45. 
El  cuerpo  y  el  alma  yaceràn  (/.  yazràn)  en  refrigerio,  Signos  53. 
Aberàn  (/.  abràn)  vida  sin  termino ,  nnnca  an  de  morir ,  Signos  54. 
Paresceràn  (/.  parezràn)  las  paredes  que  fueron  mal  tapiadas,  Signos  71. 
Los  dias  son  non  grandes,  anoche^erà  (l.  anoehezrà)  privado,  S.  Oria  10. 
Pei'deràs  (Z.  perdràs)  està  tristicia  e  està  crueldat,  Aj)ol.  Ali. 
Que.  XXIII,  lobos  comerian  (combrian?)  un  moton,  Alex.  100. 


'  Ij»  vers  exige  octte  formo  qui  sans  doutu  peiit.  étre  corrompilo.  Gomme  averi 
jecrois.  perpiis  de  lire  averàn  au  lìeu  de  avrtln.  AU.r.  165B. 


—  221  — 

Perderà  (Z.  perdrà)  toda  braveza  quand(o)  yo  en  al  soviere,  Alex.  102. 

Non  me  venzeria  {l.  venzria?)  por  armas  nin  por  cavalleria,  Alex.  642. 

Mientre  ombres  ovier,  non  caerà  {l.  carrà,  cf.  81)  en  olvido,  Alex.  674. 

Quando  esfco  viessen,  perderien  {l.  perdrien)  seso  e  tiento,  Alex.  698. 

Quienquier  los  connoscerie  (l.  connozrie)  qite  eran  companneros,  Alex.  808. 

Verien  quales  a  quales  conuoeerien  (l.  connozrien)  meioria,  Alex.  887. 

Ant(e)  perderien  (l.  perdrien)  las  cabecas  que  non  los  coracones,  Alex.  930. 

Et  se  a  otre  la  diesse  que  parecerie  (/.  parecrie)  mal,  Alex.  108B. 

Et  ques  perderien  [l.  perdrien)  los  suyos  que  eran  por  llegar,  Alex.  1275. 

A  duro  entenderie  {l.  entendrie)  la  lengua  de  Yconia,  Alex.  1355. 

Que  por  nengmia  guisa  de  muert  non  estorcerien  (/.  estorcrien),  Alex.  1425. 

(Ne)  nacioron  ne  naceràn  {l.  uazràn),  cuydo  dezir  verdat,  Alex.  1858. 

Que  non  entenderie  (l.  entendrie)  omne  do  furan  aiuntados,  Alex.  1962. 

Quienquier  lo  entendei-ia  (l.  enteudria)  que  lo  avien  a  veras,  Alex.  2025. 

A  mi  faredes  proe,  vos  non  perderedes  (/.  perdredes)  nada,  Alex.  2509. 

Sy  querian  yr  a  ellos  o  sy  los  atendeiian  (Z.  atendrian),  FG.  202. 

Venzeremos  (/.  venzremos)  los  poderes  del  rrey  Almocorre,  FG.  223. 

Que  venceremos  (l.  vencremos  syn  duda  el  moro  AlmoQorre,  FG.  225. 

Venceràs  {l.  vencràs)  todo  el  poder  del  moro  Almocorre,  FG.  238. 

Conosceredes  (l.  conocredes)  a  donde  diestes  (el)  vuestro  ospedado,  FG.  247. 

De  tus  buenas  conpanuas  muclias  ay  perderàs  (l.  jjerdràs),  FG.  404. 

(Los)  Moros  quando  nos  veyeren,  perderàn  (/.  perdràn)  el  coracon,  FG.  407. 

Venceremos  sy  esto  tii  faces  {l.  vencremos  si  lo  faces)  a  est(e)  bravo  leon,  FG.  414. 

Antes  averàn  {l.  avràn)  de  mi  los  moros  mal  mercado,  FG.  546. 

Meteredes  (l.  metredes)  grandes  duelos  en  vuestras  ve9Ìndades,  J^G*.  555. 
*Sy  yo  fuese  rey  commo  tu,  ya  vengado  lo  averya  (l.  avria),  FG.  578. 
"Fablarian  e  prometeryan  lo  que  por  bien  toviesen,  FG.  581. 

Porend(e)  non  nos  perderemos  {l.  perdremos)  amos  en  el  coudado,  FG.  644. 

Los  cuerdos  con  buen  seso  entenderàn  {l.  entendràn)  la  cordura,  .JF.  57. 

Et  non  perdere  (/.  perdré)  a  Dios  nin  n  su  paraiso,  JR.  163. 

Diziendole  de  mis  coj^tas,  entenderà  (l.  entendrà)  [la]  mi  rencura,  JF.  626: 

Usando  oyr  mi  pena,  entenderedes  (l.  entendredes)  mi  quexura,  JR.  649. 

Yo  entenderé  {l.  entendré)  de  vos  algo,  (et)  oyredes  las  mis  razoues,  JR.  651. 

Que  qual  es  el  buen  amigo  por  las  obras  parescerà  (l.  parezrà),  JR.  657. 

Mas  est(e)  vos  defenderà  {l.  defendrà)  de  toda  està  conti enda,  JR.  729. 

Vos  cantad  en  voz  alta,  responderàn  (l,  respondràn)  los  cantores,  JR.  745. 

Ofreceremos  (l.  ofrecremos)  cabritos  los  mas  e  los  meiores,  JR.  745. 

Casamiento  que  vos  venga  por  esto  non  lo  perderedes  (/.  perdredes),  JR.  853. 

Ca  tu  entenderàs  (/.  entendràs)  uno,  e  el  liblo  dice  al,  JR.  960. 

Beberia  (/.  bebria)  en  pocos  dias  cabdal  de  buhon  rico,  JR.  987. 

El  tercio  de  tu  pan  comeràs  (l.  combràs)  o  las  dos  partes,  JR.  1139. 

Por  la  tu  grand  loxuria  comeràs  (/.  combràs)  muy  pocas  desas,  JR.  1140. 


_  222  

El  viernes  pan  e  agua  comeràs  (/.  combràs)  e  non  cozina.  JB.  1142. 

Por  tu  envidia  mucha  pescado  non  comeràs  {l.  combràs) ,  JR.  1143. 

Non  te  nos  defenderàs  {l.  defendràs)  en  castillo  nin(en)  miiro,  JR.  1166. 

Dezian  a  la  Quaresma:  Do  te  asconderàs  (/.  ascondràs),  cativa?,  JR.  1172. 

Diz:  asim(e)  contesceria  (Z.  contezria)  con  tu  conseio  vano,  JR.  1321. 

Al  que  el  estiercol  cubre  mucho  resplandeceria  (Z.  resplandecria) ,  JR.  1363. 

Non  temerle  (/.  tembrie)  tu  venida  la  carne  humanal,  JR.  1527. 

Venceremos  {l.  vencrenios)  a  avaricia  con  la  grada  spiritual,  JR.  1565. 

Con  esto  venceremos  (Z.  vencremos)  ira,  et  habremos  de  Dios  querencia,  JR.  loGO. 

Conjugaison  en  -ir. 

comedir  :  se  comidràn  Cid  3578. 

conquerir  :  conquerrà  Alex.  13. 

dizir  :  dizré  S.  Doni.  136,  Frammento  3';  maldizré  Fragmento  25;  dizremos  S.  Mi- 
limi  377,  401,  Rois  mages  78',  92;  dizredes  S.  Dom.  335,  S.  Millan  365,  Mi- 
lagros  606;  dizràn  Milagros  773;  dizrie  8.  Dom.  55,  Milagros  181,  627; 
dizria  S.  Millan  71,  Milagros  224,  583;  dizrien  S.  Dom.  232;  dirà  S.  Oria  204; 
diràn  Loores  116,  Sacrif.  42,  Signos  14,  42;  diriamos  S.  Dom.  752;  diriades 
S.  Dom.  759.  Dans  les  autres  textes  dire,  dirle  (deredes=  diredes  Alex.  130; 
deria  =  dirla  FG.  474). 

ennadir  :  enadràn  Cid  1112,  en[a]dró  Alex.  925;  enyadrie  Apol.  398. 

fallir  :  faldrà  Ajjol.  417;faldràs  Alex.  358,  mais  le  vers  est  corrompu,  cf.  vv.  262,  379: 
l.:  Quanto  en  el  juyzio  sé  que  non  falliràs  ou  fallecràs;  faldrie  S.  Millan  195. 

ferir  :  ferredes  Cid  1131;  ferràn  Alex.  61;  ferria  .4Zea;.  638. 

guarir  :  guarrie  S.  Dom.  295;  guarria  8.  Oria  155. 

issir:iztremos  8.  Millan  327,  8.  Lanr.  92;  istrie  8.  Millan  209,  Milagros  337. 

mentir  :  mintré  8.  Oria  154,  Apol.  232,  cf.  mintroso;  mentrie  Alex.  775. 

morir  :  morré  Milagros  634,  752,  FG.  546,  595;  morràs  8.  Millan  287,  JR.  1432; 
morrà  Apol.  305,  Alex.  629,  JR.  121;  morremos  8.  Dom.  755,  Cid  2795; 
morredes  FG.  631,  JR.  811,  1505, 1551  ;  morràn  8ignos  20;  morria  JR.  667,922. 

odir  :  odredes  Cid  70,  138,  684,  1024,  3353;  ondredes  Cid  3292. 

oir  :  oiràs  8.  Orla  150  (Oria,  abre  los  oios,  e  oiràs  buen  mandado)  ;  oyrà  Loores  214 
(Filo  lo  às  e  padre,  oyrà  los  [tus]  clamores),  JR.  1170  (Si  muy  sorda  non 
fuere,  oirà  nuestro  apellido);  oyremos  Loores  103  Oyremos  tales  nuevas  con 
que  nos  gozaremos),  JR.  1165  (Oyremos  la  pasiou,  pues  (qua)  valdios  esta- 
mos);  oyredes  FG.  372  (Oyredes  Io  que  fico   al   conde   tolosano),  JR  1155 


'  t'raijmeiito  de,  un  ]>oema  caslcUano  iiutigiio  publié  par  Octavio  uè  Tolkdo,  Xeitschrifl  fin-  roiii.  l'hilologie  1878. 
p.  60-62. 

'  Lo  teste  porte  dizoremos,  mais  le  vers  exige  dizremos. 


—  223  — 

(Vos  oyredes  [la]  misa,  yo  rezaré  rais  salmos);  oyriedes  Sacnf.  107  (oyrie- 
des  razones  que  vos  faràn  piacer);  oyrian  FG.  310  (Non  oyrian  otra  voz 
sy  non  astas  quebrar)  '. 

partir  :  partremos  Milagros  393. 

pedir  :  pidré  JR.  561;  pedrie  Alex.  ll'iCi. 

recibir  :  reoibré  Apol.  253;  recibràs  S.  Millan  89,  Apol.  389;  rccibrà  S.  Doni.  731  ', 
Milagros  257;  re9Ìbremos  Apol.  G51 ,  Alex.  2062;  recibredes  Svjnos  32;  reci- 
bràu  ME.  p.  307  a;  recibrie  S.  Doni.  21,  Mihujros  94;  recibria  Apjol.  471. 

reir  :  reirian  JR  855  (Non  la  colgarian  en  (la)  plaza,  nin  reirian  do  lo  que  diz). 

repentirse  :  so  repintrà  Cid  1079;  nos  repentremos  Alex.  685. 

salir  :  saldré,  saldria;  salrria  JR.  662. 

seguir  :  conssigrà  Cid  1465;  sigremos  Alex.  2131. 

sentir  :  consintré  JR.  654;  consintrà  J"i?.539;  consintràn  Cid  668;  sintrie  ^S'.  Doni.  610, 
Milagros  152,  Duelo  59;  conseutria  JR.  1384. 

subir  :  subria  Loores  97,  S.  Oria  50. 

venir  :  nos  avendremos  Cid  3166;  vendràn  Alex.  72;  venrràn  Ajjol.  101;  verrà  Mila- 
gros 390;  verria  Loores  14;  verné  Milagros  737,  JR.  841;  averne  JR.  552; 
vernàs  Cid  2622;  verna  Loores  133,  170,  Signos  13,  14,  26,  Cid  532, 
2987,  Aj)ol.  515,  581,  Alex.  1286,  JR.  657;  vernemos  Loores  170;  vernàn 
aST.  Doni.  243,  %)ios  3,  16,  24,  Milagros  169,  Cic^  1280,  i^G.  407;  vernie 
S.  Doni.  207,  Cid  1944,  J^w?.  369;  vernia  ioores  34,  JR.  567,  1035;  vernien 
^te.  900,  1297. 

vivir:  vivré  Milagros  297,  Alex.  41,  bivràs  JjjoZ.  102;  vivràs  JR.  234;  vivremds 
Loores  185,  ^Zecc.  232;  vivredes  Signos  30;  vivrie  /S.  Dom.  172;  vibria  S.  Mi- 
llan 43;  vivria  Alex.  1770,  2214  ';  vivrian  Alex.  2184. 


Des  verbes  tels  qiie  abriré,  cubriré,  conipliré,  sufriré,  étaient  de  leur 
nature  incapables  de  perdre  la  voyelle  protonique.  Dans  les  suivants  c'est  l'eupbo- 
nie  qui  a  maintenii  l' i  : 

,destru|iran  S.  Millan  287;  destro|yràn  Alex.  1689. 
escarniremos  Cid  2551,  2555. 
gradirà  Milagros  189. 

partire  ME.  p.  311  a;  partirà  Cid  1106;  partiremos  Cid  1055,  2716,  Reyes  de  Or. 
p.  320  a;  departiràn  Cid  2729. 


'  Oyrà  paraìt  compter  pour  trois  syllabes,  Alex.  1218,  mais  avec  ce  mot  le  passage  ii"a  pas  de  seiis: 
Veerà  dolor  doblado  qual  nunca  fue  oydo, 

Qual  oyra  (I.  probablement  oviera)  de  ti  la  quo  te  ovo  paride. 
Je  ne  crois  pas  non  plus  que  oyra  soit  le  plus-que-parfait. 

■'  Au  lieu  de  r  ei;.  ibr  a  mal  g  alar  don  1.  peut-étre  avrà  m.  g. 

*  Le  vers  est  fautif;  1.  La    una    sen    la    otra    ya    [mas]    nunca    vyvria. 


224  

primirien  Ml/u<jr<it<  242. 

servire  ME.  p.  HU  a;  serviremos  Cid  622;  sirvirie  JR.  1403. 

Les  exceptions  sont  : 

fallire  Alex.  362;  fallirian  Alex.  379;  falliràs  semble  devoir  étre  rétabli  dans  le 

vers  suivant  de  VAlex.  (358):  Quanto  en  el  juyzio  sé  que  non  faldràs. 
fu|yran  Loores  183. 
ixiria  S.  Boni.  101;  exirie  Alex.  2030. 
morirle  Carta  1. 
salirà  JR.  485. 
seguiràn  JR.  1671. 
subirà  iSignos  5. 
vanirà  FG.  625. 

Il  y  en  a  d'autres  très  nombreuses  dans  les  vers  suivants  dans  les  qnels  les  for- 
mes  syncopées  sont  à  rétablir  : 

EUos  con  el  tu  filo  partiràn  (l.  partràn)  los  gualardones ,  Loores  165. 
Allis(e)  partirà  (l.  partrà)  por  siempre  mentii-a  de  verdat,  Loores  170. 
E  dissoli  por  nuevas  que  paiirie  {l.  parrie)  a  Messia,  Milagros  53. 
Mas  vivré  con  rancura,  morire  {l.  morré)  con  repentenca,  Alex.  41. 
Exirà  {l,  Istrà)  Grecia  de  premia,  tu  ficaràs  ondrado,  Alex.  74. 
Exirien  [?]  del  cavallo  los  que  serien  encerrados,  Alex.  697. 
Salvaredes  a  Grecia,  el  muudo  conquiriredes  (/.  conquirredes) ,  Alex.  725. 
Ante  morrerien  {l.  morrien)  todos  fasta[e]l  postremero,  Alex.  910. 
Morreredes  {l.  morredes)  de  tal  mano  que  vos  deve  plazer,  Alex.  1207. 
Nunca  sentirà  {l.  sentrà)  beudez  qui  la  ovies  tannida,  Alex.  1323. 
Dizerté  quet(e)  contyrà  (/.  contrà)  sem(e)  non  quisieres  (/.  quieres)  creer,  Alex.  1764. 
*A1  menos  XXX  cavalleros  de  mas  [yo]  non  mentirla  (/.  mentria) ,  Alex.  1814. 
Mentiriemos  {l.  mentriemos)  se  dixiessemos  que  non  avie  dolor,  Alex.  1930. 
Non  ferirle  {l.  ferrie)  mas  apriessa  pedrisco  en  taulado,  Alex.  2066. 
Que  non  morirla  (Z.  morria)  por  esso  ante  del  posto  dia,  Alex.  2088. 
Mas  destaiado  era  que  en  mar  non  morirla  {l.  morria),  Alex.  2146. 
Nunca  sentirà  (/.  sentrà)  teniebra,  fnen)  frio  nen  calentura,  Alex.  2174. 
Matartàn  traedores,  morreràs  [l.  morràs)  apoconado,  Alex.  2327. 
Sennor,  los  tus  criados  aora  nos  partiremos  {l.  partremos),  Alex.  2485. 
Non  avràn  ningun  miedo,  visquiràn  {l.  vivràn)  en  tus  posadas,  FG.  62. 
Visquiran  {l.  vivràn)  por  està  guisa  seguros  [e|  en  paz,  FG.  66. 
Que  gela  conquereryan  {l.  conquirrian) ,  mas  non  lo  bien  asmavan,  FG.  133. 
Caer  o  levantar,  ay  lo  departiremos  (/.  departremos) ,  FG.  222. 
Non  me  partyré  (/.  partré)  de  ti  en  todos  los  mis  dias,  FG.  398. 


—  225  — 

Moriredes  (l.  morredes)  commo  malos,  la  terra  perderedes,  FG.  443. 
Et  que  partirias  (/.  partrias)  con  pobles  et  non  farias  fallen9Ìa,  JR.  240. 
Non  la  consintirà  (l.  consintrà)  fablar  contigo  en  poridad,  JR.  617. 
Coracon,  por  tu  culpa  vivìràs  {l.  vivràs)  vida  penada,  JR.  760. 
Bien  sentina  (l.  sintria)  tu  cabeza  que  son  viga  (de)  lagar,  JR.  992. 
Perdonastes  mi  vida,  e  vos  por  mi  viviredes  (l.  vivredes),  JR.  1406. 


Remarque. 

Lors  méme  qu'il  arrivo  assez  fréquemment  que  un  ou  deux  pronoms  aéparent 
l'inflnitif  et  l'auxiliaire  comme  dans  fer  lo  lié,  facer  lo  he,  dezir  te  lo  lié, 
dezir  vos  é  etc. ,  on  peut  dire  que  la  composition  ou  l'union  de  l'infinitif  avec 
l'auxiliaire  est  parfaite.  Mais  il  y  a  des  cas  où  la  composition  ne  s'opère  pas,  c'est 
quand  l'auxiliaire  précède  l'infinitif  ou  qu'il  est  à  un  autre  temps  que  le  présent 
ou  l'imparfait.  En  latin,  comme  on  sait,  la  place  des  deux  éléments  n'était  pas 
fixée.  Dans  les  écrivains  classi ques  et  dans  ceux  de  la  décadence  habeo  suit  ou 
précède  indifféremment  l'infinitif,  ainsi  que  le  montrent  les  exemples  de  R.  Kùhner, 
Ausfiilirlicbe  Grammatik  der  lat.  Spraclie,  II,  p.  496,  et  ceux  de  Eònsch,  Itala 
und  Vulgata,  p.  447-449.  La  méme  liberté  se  retrouve  dans  les  exemples  bas-latins 
cités  par  Diez,  Gramm.,  Ili  p.  237.  De  cette  construction  nous  en  avons  des  dé- 
bris  en  ancien  portugais,  et  je  crois  devoir  l'admettre  aussi  dans  les  passages  sui- 
vants  et  dans  d'autres  qui  se  corrigent  le  plus  aisément  en  la  rétablissant. 

Mucho  de  mayor  precio  a  seer  el  tu  manto 

Que  non  sera  el  nuestro,  esto  yo  te  lo  canto,  S.  Laur.  70. 

Por  el  tu  guyonage  avemos  arrivar 

Et  de  aquellas  ondas  tan  fuertes  escapar,  Loores  197'. 

El  Campeador  a  los  que  han  lidiar  tan  bien  los  castigò ,  Cid  3623. 

Oy  a  seer  el  dia  que  lo  às  de  provar,  Alex.  1526. 

Qual  galardon  espera,  en  cabo  ha  (de)  recebir. 
Se  mala  vida  faz,  mala  la  ha  padir,  Alex.  1651. 

Cuntan  las  escrituras  un  [muy]  sabido  canto 

Porque  an  los  infiernos  prender  muy  grant  espanto.  Alex,  l'ili . 

Prophetaba  la  cosa  que  avenir  avie.  S.  Doni.  284. 


'  Quoique  je  regarde  cet  exemple  comme  assuré,  je  dois  sigualer  la  possibilité    de   lire    ar 
Milagros  ^Sì  e   ribadas    S.  Oria  43. 


—  226  — 

Todos  avian  el  cuerpo  de  Christo  rescebir,  Sacri/.  285. 

Cnenio  fazer  avieu,  estavan  ya  faladoa,  Alex.  1537. 

Cuemo  es  la  natura  de  los  omnes  carnales, 

Que  ante  de  la  mnert  sienten  puntas  mortales, 

Ovo  el  Sancto  padre  sentir  iinas  atales,  S.  Doni.  490. 

Sii  passò  0  sii  plogo ,  triste  e  desmedrido , 

Ovo  del  pleito  todo  venir  desconnocido,  Milagros  696. 

Un  ricombre  que  mal  sieglo  pueda  alcancar 
Ovos  de  la  reyna  tanto  enamorar ,  Alex.  148. 

Pero  tanto  ovioron  contender  e  buscar 

Fasta  que  lo  ovioron  en  cabo  a  fallar,  Alex.  2082. 

Hobe  con  la  grand  coita  rogar  a  la  mi  vieja,  JR  903. 

Gommo  se  nos  ovyera  todo  esto  olvidar,  FG  221. 

Siempre  faz  con  conseio  quanto  que  ter  ovieres,  Alex.  48. 

Oviessen  Iiy  las  pasciias  por  siempre  celebrar,  Alex.  1949. 

Lo  que  yo  non  querria  abré(lo)aqui  passar,  S.  Dom.  51. 

La  méme  construction  me  parait  devoir  étre  rétablie  dans  d'autres  passages 
modifiés  par  les  copistes  pour  qui  elle  était  vieiUie.  C'est  du  moins  la  correction  la 
plus  aisée  et  la  plus  vraisemblable  dans  les  vers  que  voici  : 

Lo  que  debia  él  dar,  (viene)  de  mi  a  recebir,  Loores  44. 

Si  às(a)  enflaquecer  (mais  onpourrait  lire  enflaquir),  mas  te  valrria  morrer, 
Alex.  62. 

El  bien  d'aqueste  muudo  todolo  à(a)  perder,  Alex.  726. 

Cuemo  omnes  que  tal  cosa,  ciertamiente  an(a)  ganar,  Alex.  744. 

Quanto  gana  el  omue,  todo  lo  ha  (de)  dexar,  Alex.  1646. 

pues  non  as(de)  pelear?  FG.  51. 

AUi  lo  avian(a)  aloar,  non  en  otro  lugar,  Alex.  176. 

Quando  primieramiente  venist(i)  en  est(e)  logar, 

Non  te  paguesti  delli,  ovistilo  (a)  dessar,  S.  Millan  114. 


227  

Ovo  quando  les  quiso  el  Criador  (a)  prestar,  Alex.  691. 

Ovo  està  fazienda  XV  dias  (a)  durar,  Alex.  1903. 

Onde  ovioron  (a)  caor  enna  su  maldicion,  Alex.  1944. 

Vuscandol(o)  por  Espanna,  ovyeron  lo(de)  fallar,  FG  30. 

E  ovyeron  por  tanto  las  Asturias  (a)  linear  FG  82. 

Ovyeron  le  entrramos  al  traydor  (de)  matar,  FG  649. 

Esas  oras  (1.  Essora)  ovo  el  conde  centra  Leon  (de)  mover,  FG  726. 


Tableau  des  conjugaisons  en  ancien  espagnol. 

Indicatif  présent. 


canto 

vendo 

meresco 

parto 

cantas 

vendes 

mereces 

partes 

canta 

vende 

merece 

parte 

cantamos 

vendemos 

marecemos 

partimos 

cantades 

vendedes 

merecedes 

partides 

cantan 

venden 

merecen 

parten 

I?.rPÉEATIF. 

canta 

vendi  -e 

parti  -e 

cantad  -at 

vended  -et 

partid  -it 

SUBJONCTIF 

PEÉSENT. 

cante 

venda 

meresca 

parta 

cantes 

vendas 

partas 

cante 

venda 

pa.rta 

cantemos 

vendamos 

partamos 

cantedes 

vendades 

partades 

canten 

vendan 

partan 

Imparfait. 

cantaba 

vendie  -ia 

partie  -ia 

cantabas 

vendies  -ias 

parties  -ias 

cantaba 

vendie  -ia 

partie  -ia 

cantàbamos 

vendiemos 

-iamos 

partiemos  -iamos 

cantàbades 

vendiedes  ■ 

-iades 

partiedes  -iades 

cantaban 

vendien  -ian 

partien  -ian 

228 


cantando 


cantant  -e 


Géeondif. 
vendiendo 

Paeticipe  peésent. 
vendient  -e 


partiendo 


partient  -e 


cante 

cantesti  -este  -est 

cantò 

cantamos 

cantastes 

cantaron 


Prétérit. 

vendi 

vendisti  -iste  -ist 

vendió 

vendiemos 

vendiestes 

vendieron 


Plus-que-paefait  (Conditionnel). 

cantara  vendiera 

cantaras  vendieras 

cantara  vendiera 

cantàramos  vendiéramos 

cantàrades  vendiérades 

cantaran  vendieran 


parti 

partisti  -iste  -ist 

partió 

partiemos 

partiestes 

partieron 


partiera 

partieras 

partiera 

partiéramos 

partiérades 


partieran 


cantaro  -àr  -are 
cantares 
cantare  -àr 
cantàremos  -armos 
cantàrades  -ardes 
cantaren 


FUTDE. 

vendiero  -iér  -iere 
vendieres 
vendiere  -iér 
vendiéremos  -iermos 
vendiéredes  -ierdes 
vendieren 


partiero  -iér  -iere 
partieres 
partiere  -iér 
patiéremos  -iermos 
partiéredes  -ierdes 
partieren 


Plds-qce-pabfait  du  Subjonctif  (Imparfait). 


cantasse  -às 

cantasses 

cantasse  -às 

cantàssemos 

cantàssedes 

cantassen 


vendiesse  -iés 

vendiesses 

vendiesse  -iés 

veudiéssemos 

vendiéssedes 

vendiessen 


partiesse  -iés 

partiesses 

partiesse  -iés 

partiéssemos 

partiéssedes 

partiessen 


229 


cantado  -a 


Paeticipe  passe. 

vendido  -a 
vendiido  -a 


partido  -a 


cantar 


Infinitif. 
vender 

Fdtue. 


partir 


cantare 

veudró         merecré 

partré 

cantaràs 

vendràs 

partràs 

cantarà 

vendrà 

partrà 

cantaremos 

vendremos 

partremos 

cantaredes 

vendredes 

partredes 

cantaràn 

vendràn 

CONDITIONNEL. 

partràn 

cantarie  -ia 

vendrie  -ia 

partrie  -ia 

cantaries  -ias 

vendries  -ias 

partries  -ias 

cantarie  -ia 

vendrie  -ia 

partrie  -ia 

cantariemos  -iamos 

vendriemos  -iamos 

partriemos  -iamos 

cantariedes  -iades 

vendriedes  -iades 

partriedes  -iades 

cantarien  -ian 

vendrieu  -ian 

partrien  -ian 

J.    COEND. 

COMPLAINTE  PROVENGALE  ET  COMPLAINTE  LATINE 


SUR   LA   MORT  DII   PATRIARCHE   D  AQUILEE 


GREGOIRE    DE   MONTELONGO. 


Ces  deux  pièces  ont  été  écrites  au  XIV*»  siècle  sur  l'avant-clernier  feuillet  (fol.  143)  du 
chansonnier  provencal  de  l'Ambrosienne  (R.  71  sup.).  Elles  ont  été  signalées  par  M.  Bartsch', 
qui  en  a  indiqué  le  sujet  et  reconnu  l'intérèt,  mais,  à  ma  connaissance  du  moins,  elles  n'ont 
pas  encore  été  publiées.  II  m'a  paru  que  l'éloge  funebre  d'un  bomme  qui  fut  en  son  temps 
l'une  des  gloires  de  l'Italie,  ne  serait  pas  déplacé  dans  le  recueil  qui  doit  perpétuer  la  mé- 
moire  des  deux  savants  dont  les  études  italiennes  déplorent  la  perte. 

Il  serait  superflu  de  dire  ici  ce  que  fut  Grégoire  de  Montelongo.  Tous  les  livres  qui  trai- 
tent  de  la  Ligue  lombarde,  des  Guelfes  et  des  GhibeUns,  toutes  les  histoires  d'Italie,  ont  ra- 
conté,  avec  plus  on  moins  de  détails,  les  actes  du  célèbre  légat  pontificai,  qui  fut  plus  guerrier 
qu'ecclésiastique ,  et  ont  notamment  célèbre  l'energie  dont  il  fit  preuve  lors  du  siège  de  Parme 
par  Fréderic  II  (1248-9) ^  Grégoire,  patriarche  d'Aquilée  depuis  1251,  mourut  le  8  septem- 
bre  1269.  Le  planh  qui  lui  fut  consacré  par  un  poète  certainement  Lombard  ou  Vénitien, 
dont  nous  i^orons  le  nom ,  appartient  dono  aux  derniers  temps  de  la  poesie  proven9ale  en 
Italie.  C'est  proprement  l'epoque  où  composaient  le  vénitien  Barthélemi  Zorzi  et  le  génois 
Boniface  Calvo,  mais  je  ne  vois  pas  de  raison  pour  attribuer  notre  planh  à  l'un  ni  à  l'autre 
de  ces  deux  troubadours.  La  pièce  proven9ale  se  recommande  par  une  grande  simplicité  de 
fond  et  de  forme.  Elle  est  pleine  de  bons  sentiments,  mais  d'ailleurs  ne  se  distingue  pas  par 
des  mérites  bien  saillants.  Elle  n'est  pas  non  plus  écrite  en  une  langue  très  pure:  predon,  v.  39, 
est  italien  bien  plutòt  que  provenfal;  et  on  en  peut  dire  autant  de  l'emploi  de  rancor  au  v.  39. 
Ailleurs  l'auteur  semble  mèler  le  fran9ais  et  le  proven9al.  Le  nom  mème  qu'il  donne  à  sa 
complainte,  chanplor  (vv.  7,  64)  est  le  fran9ais  chantepleure.  Puis  il  ne  s'aper90Ìt  pas  que 
la  finale  aire,  correspondant  au  lat.  arius,  dans  contraire  (6),  essemplaire  (25),  aver  saire  (35), 
luminaire  (49)  est  fran9aise  et  non  proven9ale.  Enfin  il  crée,  par  une  fausse  analogie,  les  for- 
mes  2}erdaii-e  (11),  deffendaire  (45)  au  lieu  de  perdeire,  deffendeire.  Mais  ces  irrégularités 
mémes  ont  de  l'intérèt  pour  l'histoire  de  la  culture  du  proven9al  en  Italie.  La  forme  est  celle 


'  Jahrbuchf.  engl.  u.  roman.  Literaiur,  XI,  3  (1870). 

'  Voy.  par  ex.  de  Cherrier,  Uistoire  de  la  tutte  des  papes  et  des  empereurs,  2.'  ed. ,  11,336  et  suiv. 


—  232  — 

d'un  couplet  de  huit  vers  a  rimes  enchainées  où  les  quatre  derniers  vers  offrent  les  mèmes 
rimes  que  les  quatre  premiers,  mais  en  ordre  inverse:  ahah ,  babà.  Cette  disposition,  fort 
élémentaire,  ne  paraìt  pas  avoir  été  très  usitée.  On  la  retrouve  dans  une  pièce  d'ajiparence 
assez  jjopulaire,  de  Guillem  de  la  Tor:  Una,  doa,  tres  e  quatre. 

La  pièce  latine  oifre  une  forme  rechercliée  sinon  rare.  Elle  est  en  liexamètres  associés 
deux  à  deux  par  deux  rimes,  l'uue  à  la  cesure  du  troisième  pied,  l'autre  à  la  fin  du  vers.  Le 
vers  se  trouve  ainsi  divise  par  la  rime  en  deux  hémistiches.  Mais  la  disposition  n'est-  pas 
semblable  d'un  bout  à  Fautre  de  la  pièce.  Les  vingt  premiers  vers  forment  dix  couplets  ayant 
chacun  deux  rimes ,  l'une  pour  le  premier  hémisticlie  de  chaque  vers  l'autre  pour  le  second. 
Les  vers  21  à  32  forment  six  couplets  ayant  chacun  une  seule  rime  qui  se  reproduit  à  la  fin 
de  chaque  liémistiche ,  par  conséquent  quatre  fois  par  couplet.  Enfin  les  vers  33  et  suivants 
ne  forment  pour  ainsi  dire  qu'une  strophe  où  tous  les  vers  riment  en  ori  tant  au  milieu  qu'à 
la  fin.  Ce  sont  des  variétés  de  ce  que  les  Leys  d'amors  (I,  172  et  246)  appellent  rims  mul- 
tiplicatius. 

La  pièce  provengale  et  la  pièce  latine  sont  de  deux  écritures  bien  distinctes  et  très 
sensiblement  différentes.  Mais  il  paraìt  que  le  scribe  de  la  pièce  provengale  a  revu  la  copie 
de  la  pièce  latine,  car  il  l'a  corrigée  en  deux  endroits  ;  au  v.  42  parciY  est  ajouté  de  sa 
main,  et  au  v.  43  il  a  écrit  en  iuterligne,  au  dessus  à^injyefatori,  la  syllabe  du,  la  le^on  cor- 
recte  devant  étre  induperatori. 

Paul  Meyeb. 


233  — 


PLANCTUS. 


I.  Eli  cliaiitan  m'aveii  a  retraire 
Ma  gran  ira  e  ma  greu  dolor. 
Non  chan  ges  con  autre  chantaire 

Que  clianta  de  jois  e  d' amor  :  4 

S'eu  chan  de  boca,  de  cor  plor, 

C'a  chantar  m'es  razos  contraire; 

Per  que  mos  cliaiiz  a  noni  chanplor, 

Que  chanz  noni  pot  de  plor  estraire.  8 

II.  Ben  deu  cel  plorar  e  dol  faire 
Que  pert  amie  ni  bon  segnor, 
Ni  ja  om,  tro  qu'en  es  perdaire, 

Non  saura  d'amie  sa  valor.  12 

La  morz  m'a  fait  conossedor 

De  mon  damnage  non  a  gaire  : 

Tuit  cil  c'amon  prez  ni  valor 

Devon  doler  d'aquest  afaire.  16 

III.  Morz  nos  a  tolt  lo  debonaire , 
Lo  prò  patriarcha  Gregor, 
On  avian  fait  lo[r]  rejsaire 

Tuit  li  bon  aib  e  li  mellor.  20 

Qui  veira  mais  tal  guidador 

Tan  prò,  tan  frane,  tan  lare  donaire! 

Passat  avia  de  largor 

Alixandre  que  venquet  Daire.  24 


11-2.  Cf.  Hugues  de  Saint-Cirq: 

Nuls  lioin  non  sap  tVamic,  tro  l'a  perdut. 
So  que  l'amics  li  valia  denant. 

22-i.  Cf.  Gaucelm  Faidit.  daiis  le  plaiili  sur  la  mort  de  Richard  Co?iir-de 
Xant  larcs  ,  tan  pros,  tan  arditz  tals  dnnaire 
Qu'Aiisandres,  lo  re.ys  que  venquet  Daire, 
No  ore  quo  tan  dones  ni  tan  s 


—  234  — 

IV.  De  lui  fes  valors  essemplaii'e 
E  lialtaz  Castel  e  tor. 

Als  bos  fo  francs  e  mercejaire, 

Plen  d'umiltat  e  d'aleg[r]ox-.  28 

Los  crois  teni'  en  tal  rancor 

Per  re  non  li  podion  plaire. 

Aras  sabron  gran  e  menor 

Que  peri  lo  filz  can  mor  lo  paire.  32 

V.  Assaz  podon  cridar  e  braire 
Friolan  el  veizin  d'entor, 
Car  be  savon  lor  aversaire 

Qu'il  an  perdut  lo  ben  pastor  36 

Qui  los  deffendia  d'error 

Els  crois  fazia  arreras  traire. 

Lairon,  predon  e  raubador 

An  jois,  car  manz  en  fes  desfaire.  40 

VI.  Dieus  non  fes  rei  ni  enperaire 
Dels  crois  tal  justiziador, 

Tal  guerrier  ni  tal  deffendaire 

Dels  sieus  ni  ab  tan  de  "^dgor,  44 

Que  lai  on  jazia  en  langor, 

Que  greu  si  podia  sostraire, 

N'avion  li  croi  tal  paor 

Que  non  a.usavou  vezer  l'aire.  48 

VII.  Laissus  en  son  sant  lumiuaire, 
O  son  martir  e  confessor, 
Meta  s'arma  lo  ver  Salvaire 

E  la  deffende  de  tristor,  52 

Car  s'anc  nulz  om  per  gentili  cor. 

Per  lialtat  ni  per  maltraire 

Deu  iutrar  el  palais  auchor, 

Gregor  de  Montlonc  en  es  fraire.  56 

Vili.    Mon  chanplor  tram  et  a  la  maire 
De  Jesuci'ist  lo  Salvador, 


28.  Je  corrige  aleg'rlor,  doat  il  y  a  un  ex.  dans  Raynouard,  Lex.  rom.,  IV,  53;  à  la  rigneur  oiiiiou 
da  (pour  de)  legar,  dont  le  sens  tontefois  oonviendrait  moins. 
31.  Sabron  t  il  faadrait  sffftrnH. 
48.  Ce  vers  n'est  pas  clair  pour  moi.  Y  a-t-il  une  laute  ? 


—  235  — 

E  qnier  li  coin  umil  pecaire 

Que  prec  son  filz  per  sa  dolzoi*  60 

Qu'en  la  celestial  baudor 

On  son  li  patriarche  maire 

Meta  l'arma  d'aquest  ab  lor, 

Toz  om  en  deu  esser  pregaire.  64 

IX.       A  l'archediaqne  t'en  cor , 

Chanplors,  que  te  sia  gardaire: 

Car  a  del  lignage  la  fior , 

Be  deu  al  bon  oucle  retraire.  68 


Flebilis  est  obitus  toti  mundo  patriarche 

Cujus  sit  positus  celesti  sj)iritus  arce. 

Ut  mater  sterilis  plores,  Aquilegia  tris  ti  s  ; 

Non  dabitur  similis  patriarcha  diebus  in  istis.  4 

Tutor  erat  legis,  inopum  tutella,  reorum 

Pena,  lucerna  gregis,  cleri  via,  vita  bonorum. 

Flet  Juliense  Forum,  Campania  luget  alumpna: 

Hujus  erat  lorum,  dux  illius  atque  columpua.  8 

Sacra  tibi  sedes  luctus  patuit  Jeremie: 

Quomodo  sola  sedes,  dans  materias  yronie! 

Dum  leo  rugierat  patriarcha  Gregorius  ille. 

Si  tunc  hostis  erat  uuus  tibi,  sunt  modo  mille.  12 

Jam  te  predones  circumdant  atque  tiranni, 

Sciavi  latrones ,  spoliatores  Alemani. 

Hoc  vivente  viro  latebris  latuere  latrones. 

Qui  nunc  in  giro  ponunt  tibi  seditiones.  16 

0  que  tristi tia,  quis  luctus,  quale  periclum! 

Jam  vacat  ecclesia,  fidei  titubat  redimiclum. 

Luctus  causa  datur  dempto  pastore  fidali  ; 

Mundus  tristatur,  exultat  curia  celi.  20 

Ecclesie  clipeus  hic  alter  erat  Machabeus. 

Tu  sibi  parce.  Deus,  comitetur  eum  Galileus. 

Copia  virtutum  si  frangere  mortis  acutum 

Posset,  erat  tutum  sibi  non  penetrabile  scntum.  24 

Huic  non  discordet  quisquam,  quia  vivere  sordet; 

Nemo  sibi  cor  det:  vite  mors  omnia  mordet. 

Mortis  ad  adventus  fit  morsus  ubique  cruentus, 


—  236  — 

Labitnr  ut  ventiis  prudentia,  forma,  Juventus.  '28 

Tantus  gerarcha  fidei,  tantus  patriarcha 

Finali  parcba  modica  tumulatur  iu  archa. 

Spii'itui  parce,  pie  Clu'iste,  pii  patriarclie, 

A  penis  arce  summaque  locetur  in  arce.  32 

Mente  tenere  mori  memori,  patriarcha  Gregori. 

Suades,  nec  decori  confidere  sive  decori, 

Vatum  nempe  chori ,  juvenes  fortesve  decori 

Cultoresque  fori  moriuntur  et  ere  sonori.  36 

Ve  tibi  raptori  cui  mundus  habetur  amori! 

Credas  doctori,  nimium  ne  crede  colori. 

Est  homo  par  fiori  qui  mane  stat  aptus  odori , 

Vespere  fetori  cedit,  velut  umbra  vapori.  40 

Ergo  creatori  non  sit  servire  labori; 

Crede  relatori:  mors  nulli  parcit  honori. 

Induperatori  Victoria  vieta  pudori 

Cessit  victori ,  qui  nunc  latet  ede  minori.  44 

Hujus  lectori  dictu  mens  consonet  ori. 

Te  Salvatori  placet  pia  Virgo ,  Gregori. 

Amen. 

Quando  ruit  disce  per  legis  tempora  prisce: 
M  semel  et  bis  e,  bis  x,  Ij  rotro  misce; 
Hac  agente  die  colitur  natale  Marie, 
Septembri  mense  communi  corruit  ense. 


LA  aTJESTT<)NE  DELLE  RIME 

NEI    POETI    SICILIANI    DEL    SECOLO    XTII. 


Adolfo  Gaspary ,  nel  suo  importante  libro  La  scuola  poetica  siciliana  del  sec.  XIII, 
al  cap.  La  lingua,  dopo  aver  fatto  la  storia  della  vecchia  e  contrastata  questione 
sulle  origini  del  nostro  volgare  letterario,  con  singolare  dottrina  espone  vari  dubbi 
intorno  all'opinione  sostenuta  da  una  scelta  schiera  di  filologi  italiani,  che,  cioè,  i 
componimenti  dei  poeti  siciliani  ci  siano  pervenuti  tradotti  in  toscano.  Fra  gli  altri 
il  dotto  professore  aggiunge  anche  questo  (pag.  203  della  traduzione  italiana  di 
S.  FriedmaiLn):  «  Senonchè  con  qiiesta  quistione,  se  le  rime  siciliane  si  trovino  esclu- 
sivamente nei  poeti  del  mezzogiorno,  non  era  ancor  fatto  tutto;  rimaneva  1'  altra, 
se  cioè  per  avventura,  ritraducendo  le  poesie  nel  dialetto  siciliano,  non  verrebbero 
per  inverso  distrutte  certe  rime:  che  è  quanto  dire,  se  attualmente  non  si  trovino 
in  rima  parole  che  recate  in  siciliano  non  consuonan  più.  Toscanamente  o,  o  ed  au 
lat.  diventarono  in  egual  modo  o,  con  pronunzia  diversa,  ma  indifferente  per  la 
rima;  sicilianamente  invece  0  divenne  n,  ii  ed  au  divennero  o,  ovvero  restò  V  mi.  Da 
ciò  segue  che  la  maggior  parte  delle  rime  di  ò  toscano  aperto  con  6  chiuso,  sicilia- 
namente cesseranno  d' essere  rime.  E  tali  casi  trovansi  difatti  persino  in  poesie  che 
senza  contrasto  sono  attribuiti  a  siciliani.  » 

Queste  rime  sarebbero,  secondo  il  Gaspary, /óre,  core,  mòre  con  amóre,  tenóre, 
servidóre ,  fióre ,  inizadóre,  meglióre,  ardóre,  signóre;  suona  con  dona,  abbandona,  coróna; 
còsa  con  amorósa.  In  siciliano,  egli  aggiunge,  non  rimano  macchiòne  e  sodisfazi/me, 
ora  (sostantivo)  con  ancora.  E  non  rimano  pure  merzedc- acede ,  freno-fino ,  jjlcno-peno, 
rifino ,  indi  ino-mino. 

L'  argomento  in  vero  è  stringente ,  e  quantunque  non  decisivo ,  anche  a  detta 
del  chiarissimo  autore,  sarebbe  senza  dubbio  grave,  se  non  ci  fosse  modo  di 
provare  0.  contrario.  Sennonché  esso  è  fondato  sul  siciliano  mbderno,  anzi  sul  sici- 
liano offerto  dai  vocabolaristi  ai  cultori  di  filologia;  e  non  si  è  fatto  conto  del  sici- 
liano antico,  il  siciliano  dei  secoli  XIII,  XIV,  XV  e  XVI,  il  quale  differiva  non 
poco  dal  moderno. 

I  dizionari  siciliani,  non  escluso  quello  del  Ti'aina,  che  ha  accolto  molte  voci  da 
tutte  le  parti  dell'  isola  (senza  però  indicarne  la  provenienza)   ed  è    certamente  il 


—  238  — 

migliore  per  molti  riguardi,  rappresentano  il  siciliano  di  Palermo,  che  è  il  dialetto 
letterario  moderno  del  Veneziano,  del  Meli  e  di  chiunque  voglia  scrivere  oggi  in 
vernacolo.  Ma  essi  non  registrano  il  materiale  lessicale  di  tutta  l' isola ,  e  molto 
meno  si  curano  della  fonetica  delle  città  mediterranee,  specialmente  delle  più  in- 
terne non  rimescolate  dal  commercio,  dove,  com'è  naturale,  le  forme  e  i  suoni  ar- 
caici sono  conservati  o  meno  alterati.  Quando  un  siciliano  di  questi  paesi  scrive  in 
dialetto,  schiva  di  usare  le  maniere  e  la  pronunzia  nativa,  messe  in  canzonatura 
nelle  grosse  città  marittime ,  e  si  sforza  di  scrivere  nel  dialetto  letteraiio ,  quello  che 
si  parla  a  Palermo,  Messina,  Catania,  Trapani  ecc.  E  che  debba  farsi  cosi  e  non 
altrimenti,  basterà  dir  questo,  che  quando  pubblicai  i  canti  popolari  di  Noto,  per 
essermi  attenuto,  nella  trascrizione,  alla  fonetica  notigiana,  ne  ebbi  censura  nelle 
Nuove  Effemeridi,  siciliane  da  uno  dei  più  bravi  cultori  di  letteratura  popolare,  dal 
Pitré,  che  nomino  per  cagione  di  stima. 

Dai  dizionari  siciliani  adunque  non  si  vede  che  in  una  zona  dialettale  del- 
l' isola  liavvi  un  suono  che  ha  dell'  o  e  dell' m  (Ennese  orientale),  e-  altrove  un  altro 
che  ha  dell' e  e  dell'  i  (Militello,  Sortino).  '  I  vocabolaristi  non  dicono  che  in  talune 
parlate  dell'  interno  le  terminazioni  caratteristiche  del  siciliano  in-w  e  ìn-i,  finali 
atone,  fanno  o  ed  e,  come  in  toscano;  che  mh  e  nd,  oggi  modificate  in  quasi  tutta 
l'isola  per  assimilazione  in  mia  e  ait,  sono  ancor  vivi  nella  pronunzia  di  alcune  po- 
polazioni dell'isola  (il  primo  in  Brente,  il  secondo  nel  messinese);  non  dicono  che 
i  riflessi  del  Ij  sono  j  in  qualche  parlata  dell'  ennese  (,/yi(-filius).  Il  nel  geracese  {Jìl- 
lu),  Il  nel  linguaglossese  (JìHk),  g  nel  chiaramontauo  {fign),  l  in  tutto  1'  ennese  {filu), 
oltre  del  glij  (Jìghju)  rafforzamento  àij{fi.gìdu)  come  si  pronunziava  nel  secolo  scorso 
da  tutti  i  siciliani  che  oggi  dicono  fi.gghju.  (V.  il  Dizionario  siciliano  di  Dei-Bono). 
Lo  stesso  dicasi  del  Ij  implicato  il  quale  ci  dà  una  serie  parallela  che  va  dall'  /' 
al  kj  da  una  parte,  e  al  e  n  al  g  dall'  altra.  Un  altro  suono  caratteristico  del  mo- 
derno siciliano  è.  il  dd,  =  U;  ma  nel  brontese  si  dice  caoallu  ecc.,  non  cavaddu  come 
nel  resto  dell'isola. 

Or  tutte  queste  specialità  fonetiche  che  si  trovano  qua  e  là  in  Sicilia,  in  eerti 
punti  limitate  a  pochi  comuni,  in  certi  altri  estese  a  grossi  distx'etti,  costituiscono 
appunto  la  differenza  tra  1'  antico  siciliano  e  il  nuovo.  Sicché  quello  che  ora  è  par- 
ticolare ad  alcune  parlate  o  ad  iin  intero  sottodialetto,  u.u  tempo  era  generale  in 
tutti  e  costituì  la  lingua  scritta  fino  al  secolo  XVI  e  anche  ai  primi  anni  del  se- 
colo XVII,  così  come  la  troviamo  ugualmente  nei  codici,  a  Palermo,  a  Messina,  a 
Catania,  a  Noto.  Essa  rappresenta  senza  dubbio  una  fase  dialettale  del  siciliano, 
che  restò  fissata  nelle  scritture  anche  quando,  per  lo  svolgimento  interno  del  dia- 
letto e  per  gl'influssi  stranieri,  il  segno  grafico  non  corrispondeva  più  dappertutto 
al  suono  parlato. 

'Por  chi  sospetta  che  Vti  siciliano  provenga  dal  dialetto  delle  colonie  subalpine  dette  ìomlmnli' ,  i-am- 
manto ohe  nel  pedemontano  esso  ò  riflesso  solo  deU'ò,  non  dell' o  e  dell' o  in  posizione  (cfr.  .\scoIi,  Ardi, 
r/lott.  pag.  117-118,  voi.  Il)  ;  o  avverto  che  lo  riscontriamo  in  bocca  di  popolazioni  alle  quali  non  si  pnó  attri- 
buire neanche  da  lontano  la  parentela  piemontese;  oltreché,  come  vedremo,  questo  suono  appartenea  a  tutto  il 
vecchio  siciliano. 


—  239  — 

Ma  non  tutti  i  suoni  del  vecchio  dialetto  avevano  una  rappresentazione  grafica, 
6  spesso  nn  solo  segno  serviva  a  figurarne  parecchi.  Questa  povertà  di  elementi  al- 
fabetici è  tanto  più  avvertita,  quanto  più  si  va  indietro  nelle  scritture,  ed  ebbi  al- 
trove occasione  di  dimostrarlo  (Iiitrod.  allo  studio  del  siciliano;  Noto,  1882,  pag.  128). 
Del  resto  non  avverrebbe  diversamente,  se  un  siciliano  di  Piazza  o  di  altre  località 
dell' enuese  orientale  volesse  scrivere  divoxiniti,  se  un  sortinese  o  un  militellese  vo- 
lesse scvìveve  fégghjti  (filius),  se  un  ennese  occidentale  volesse  scrivere  ìiavi  o  ìianu 
(clavis,  planus);  ed  è  nota  la  controversia,  non  risoluta  in  un  congresso  di  letterati 
siciliani,  sul  modo  di  rendere  graficamente  il  e  di  cumi  (flumen)  ecc.,  per  distinguerlo 
dal  s  di  cam  (it.  cassa) ,  di  sefjghjri  (it.  scegliere)  ecc.  Cogli  elementi  dell'  alfabeto 
ch'essi  posseggono,  che  è  l'alfabeto  italiano,  scriverebbero  or  divoziimi  ed  or  divo- 
zioni, or  fiyghju  ed  ov  fcgghiu,  or  juvi  ed  or  liinvi,  o  j/iifly;',  come  appunto  fa  il  Traina 
nel  suo  vocabolario.  ' 

Questo  disagio  era  pure  sentito  dagli  scrittori  del  vecchio  dialetto,  e  lo  argo- 
mentiamo dalla  incertezza  nella  trascrizione  di  certe  parole. 

Lo  Scobar  ora  scrive  apparickiari ,  incumharij  aHckellu,fiirtickellu,  ed  ora,  appja- 
richari,  iuchumbari,  aiichellu,  furticliellu.  —  Una  volta  scrive  aimJd,  un'altra  aurichi, 
e  poi  altrove  troviamo  pure  aurechi.  —  Amunifitini,  cimcessiuni,  cunfirmaUnni,  cun- 
fusiuni,  cimsidaciuni,  difinsiuni,  distrnciuni  ecc.  ecc.,  accanto  ad  ainunitioni,  cuncessioni, 
cunfirmationi ,  confusioni,  cunsidacioni,  difinsioni,  distrucioni.  Scrive  cnntra  e  contra,  cur- 
chula  e  corchula  (*cochlula) ,  cuncavu  e  concavu,  culunna  e  culonna,  coma  e  cuma,jurnn 
ejormi,,  demuniu  e  demoniu,  dipusitae  dipositu,  disiirdini  e  disordini,  feruchi  e,  f crochi, 
cusa  e  cosa  (anche  nelle  Costituzioni  benedettine  e'  è  un  cu7n  zo  sia  cusa  kl  e  nella 
Conquesta,  dui  cusi,  al  cap.  XXVI),  pampa  e  pompa,  ricugliri  e  ricogliri,  riturnu  e 
ritornu,  returchiri  e  retorchiri,  purfa  e  porta ,  spiujla  e  spogla,  stumacu  e  stomacu ,  tu- 
nica e  tonica,  vutu  e  votu  ecc. — Andriotta  Rapi  scrive  umini  (387),  cnnfortl  (385);  e 
Scobar,  homu  e  cuHfurti;le  Costit.  bened.  virgogna,  lo  Scobar  vergugna;  in  un  atto  no- 
tarile   del  sec.  XVI  j^aglalora,  lo  Scobar  lìaglalura  ecc.  ecc. 

E  giova  avvertire  subito  che  è  ben  difficile  non  riscontrare  queste  voci  nelle 
varie  parlate  dell'isola,  pronunziate  in  un  modo  o  nell'altro,  non  dico  già  nelle  po- 
polazioni dove  persistono  i  siioni  ù  ed  é,  ma  anche  dove  l'è  si  fissò  in  i  e  Vfi  in  o, 
per  influsso  principalmente  del  toscano  che  nei  prinoipj  del  sec.  XVII,  divenuta  la 
Sicilia  provincia  spagnuola  insieme  col  Napolitano  e  col  Milanese,  sostituì  nel  lin- 
guaggio ufiiciale  il  vecchio  siciliano  adoperato  fino  a  quell'epoca. 

Or  se  cusa  per  cosa  lo  abbiamo  nel  vecchio  dialetto,  se  il  normale  riflesso  dell'o, 


Al  dottor  Eugenio  Paiiselle  {ì^hcr  Aie  spracliformen  der  allesien  sio'ìianìschen  rliroiiiken.  Halle  a  S.  18S3, 
pag.  27,  n.)  pare  innaturale  che  il  vecchio  siciliano  avesse  questa  gutturale  sorda,  j>crc1w  in  nessuna  parte  deì- 
Vìsolay  el  dice,  Ofjgi  trovasi  esistente.  Un'indagine  più  estesa  mi  permette  ora  di  confermare  la  pronunzia  aspi- 
rata del  eh  nel  vecchio  siciliano;  e  se  per  ammetterla  la  difficoltà  è  solo  questa,  gioverà  sapere  che  il  suono  // 
trovasi  vivo  In  molte  parlate  dell'  ennese,  e  il  Traina  non  potè  trascurarlo  nella  seconda  edizione  del  .'ìuo  Voca- 
bolario Siciliano  (Torino  1877),  dove  alla  lettera  H  si  legge:  »  Questa  lettera  servirebbe  per  esprimere  la  pronun- 
zia aspirata  di  alcuni  sottodialetti,  simile  alla  x  greca  equivalente  a  e,  cìi,  e  se;  che  i  nostri  antichi  scrivevano  x 
(e  qui  sbaglia)  e  io  secondo  la  pronunzia  più  forte  di  altri  paesi,  scriverei  anche  Jhi.  » 


—  240  — 

da  qualunque  base  latina  provenga,  fa  ù  in  una  parte  dell'isola  e  iacea  anche  h  nel 
vecchio  siciliano,  possono  benissimo  rimare  fra  loro,  quando  si  voglia  ritraduvli, 
cosa  e  amorosa,  fare,  core  e  amóre,  valóre  (un  curi  scusso  scusso  lo  abbiamo  in  un  canto 
popolare  di  Messina,  rs.  Vigo,  Raccolta  ampi,  al  n.  2706);  e  rimeranno  suona  con 
abbandona  e  coróna;  dappoiché  la  diversità  tra  ù  ed  n  è  tanto  poco  sentita  da  riuscire 
indifferente  per  la  rima.  Lo  stesso  si  dica  per  óra-aiicóra,  che  fanno  ura-ancùra  nel- 
■l'ennese  orientale. 

Non  ci  fermiamo  molto  alle  rime  phno-meno,  mino- rifino -incliino.  Intorno  al  la- 
tinismo pieno  che  in  Sicilia  fa  hjnu  per  il  normale  riflesso  è-i,  oltre  dell'esemjsio  ci- 
tato dal  Gaspary,  tratto  dalla  Conquesta  di  Fra  Simone  da  Lentini,  eccone  un  altro, 
più  recente  (sec.  XVI):  plenu  di  rabbia  e  di  rancuri,  nella  Vita  di  S.  Corrado  piacen- 
tino del  notigiano  Girolamo  Puglisi,  III-97;  e  un  altro  ancora:  Videnda  la  ligiji 
piena,  nei  Canti  pop.  del  Vigo  al  n.  3438,  dove  è  in  rima  con  cena. 

j\[inu  è  ancor  vivo  nel  siciliano  d'oggi  (cfr.  il  Vocabolario  del  Traina);  e  nell'an- 
tico non  ricordo  d'aver  trovato  mai  menu.  E  siccome  mino-rijino,  mina-inchino  tosca- 
namente non  sarebbero  in  rima  e  lo  sono  invece  sicilianamente,  così  essi  anziché 
indebolire,  rafforzano  la  tesi  del  D'Ancona,  del  Comparetti,  del  D'0\idio,  ecc. 

Occorre  però  giiistificare  merzede- acede,  freno -fino.  Nello  Scobar  e  nel  Traina 
mercedem  dà  merci  e  merzi;  ma  il  Del  Bono  nel  suo  Dizionario  siciliano,  Palermo  1752, 
registra  mercedi  e  merceduzza;  e  sono  comuni  in  Sicilia:  S.  Maria  di  la  Mircedi,  Mo- 
nacu  di  la  Mircedi,  Cresia  di  la  Mircedi.  Può  essere  che  sia  un  latinismo,  ma  non  deve 
sorprendere  che  questo  ed  altri  siano  stati  usati  dai  poeti  siciliani  del  sec.  XIII, 
come  non  sorprendono  gl'italianismi  frequentissimi  del  Meli, 

Fremi  è  una  delle  eccezioni  al  riflesso  siciliano  i  per  e  cliiuso  originario.  Non  è 
solo;  noto  fra  gli  altri  esempi:  agéa  (beta),  velu,  vela,  auena,  bestemia,  sirena,  Cresia, 
fiéhili,  daveru,  cera  e  ««(/«jfa^sedia),  debuli,  Jcjericu,  premiu,  tirrenu,  né,  Maddalena,  Mu- 
séu,  ruvetn,  ecc.  Ma,  or  nelle  vecchie  scrittiire,  or  nell'interno  dell'isola,  leggiamo  e 
udiamo:  aita,  vilu,  vita,  aina,  j astima,  sirinu,  Chisia,  sividi,  dammiru,  sidia,  fjividi,  chi- 
ricii,  primiu,  tirrinu,  ni,  Maddalina,  Musiu,  rucitu.  Migliori  indagini  ci  potranno  of- 
frire l'occasione  d' imbatterci  in  un  frinu.  Ma  ancorché  non  si  trovi,  potea  benissimo 
in  siciliano /re«it  rimare  con  fenu  (fin-;  cfr.  Diez,  Et.  W'òrt.  s.  'fino");  e  può  anche 
trovarsi  in  qualche  parlata /ems  pev  finn,  così  come  c'è  venu  e  vinu  (vlnum),  renu  e 
riiìiu  (orlganum). 

Non  so  se  si  possano  ugualmente  giustificare  le  rime  imperfette  dei  poeti  to- 
scani classificati  nella  scuola  poetica  siciliana  del  sec.  XIII;  ma  per  ciò  che  si  rife- 
risce ai  poeti  siciliani,  non  dubito  che  l' argomento  delle  rime  non  abbia  ancora  il 
suo  valore  dimostrativo  in  favore  dell'opinione  per  la  quale  si  vogliono  quei  compo- 
nimenti scritti  prima  nel  dialetto  dell'  isola  e  poi  tradotti  in  toscano. 

A  mio  avviso  però  la  stessa  tesi  non  può  essere  sostenuta  per  la  Tenzone  di 
Cinllo  o  Cielo  d'Alcamo.  Per  le  rime  non  già,  che  esse  possono  ridui'si,  ma  per  certe 
forme  e  per  alquanto  costruzioni  sintattiche  ignorate  dal  siciliano  moderno  e  non 
riscontrate  nell'antico.  Gosi  per  peri,  (piaci,  pareAo,  oitama,  carama,  casata,  perderà,  to- 


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cara,  mo.sfira,  degnava,  poterà,  percazare,  teve,  mene,  disdotto,  podestà  (di  cui  alcune  si 
leggono  nel  Keijimen  annitatis  (poesia  in  vecchio  napolitano  pubblicata  e  illustrata 
dottamente  e  da  par  suo  dal  Mussafia)  non  sono  foi-me  siciliano.  Nò  lo  sono  questo 
costruzioni:  Poi  tanto  trahagliasti  (verso  66  )  che  fa  riscontro  con  simili  maniere  del 
Regimcn  sanitatis  ai  versi  294,  313,  649;  follia  lo  ti  fa  fare  (verso  6  );  piM-  di  repentere 
(v.  5").  Il  21",  Se  n  tuoi  parenti  trovanmi  e  che  mi  pozon  fare?  dovrebbe  tradursi:  Se  li 
toi parenti  trovanmi  et  hi  mi  poczou  fari?,  e  così  la  misura  non  viene.  Se  poi  facciamo: 
Se  i  toi  parenti  ecc.,  sarà  siciliano  moderno,  ma  non  antico,  dove  non  ho  mai  visto  i 
adoperato  per  li.  Ed  è  notevole  anche  questo ,  che  oggi  nelle  canzoni  popolari  il 
poeta  siciliano  preferisce  li  ad  /,  quantunque  poi  in  prosa  dica  sempre  i. 

Potrei  portare  altri  esempi,  ma  non  mi  par  questo  il  luogo  di  parlarne  più  a 
lungo.  Aggiungo  solo  che,  provatomi  a  tradurre  in  vecchio  siciliano  una  dozzina  di 
strofe  della  Tenzone,  il  componimento  ha  conservato  un'aria  napolitana  spicca- 
tissima. 

E  poiché  il  discorso  «^.  caduto  sulla  Tenzone,  non  sarà  forse  inopportuno  di  fare 
qualche  osservazione  sul  nome  del  suo  autore,  a  soddisfazione  d'.uu  desiderio  del 
D'Ovidio  {K.  Antologia,  marzo,  1882).  Celi,  Ciido  o  Ciullo  sono  nomi  che  s'incon- 
trano nelle  scritture  del  vecchio  siciliano,  fin  negli  atti  dei  notaj  del  secolo  XVL 
Cheli  (pronunziato  Keli  e  poi  celi)  è  accorciativo  di  Micheli.  Oggi  in  Sicilia  si  dice 
Mikeli,  ma  è  neologismo  ;  e  abbiamo,  a  testimonianza  dell'antica  fase  fonetica,  Borgo 
S.  Miceli  in  provincia  di  Galtaidsetta,  Porta  S.  Miceli  a  Morreale  e  il  cognome  Miceli 
molto  diffuso  nell'isola. 

Per  Ciulo  o  Ciidlo,  esso  non  potrebbe  essere  il  diminutivo  di  Vincenzo,  come  da 
alcuni  si  volle  ;  che  avremmo  avuto  Czullo,  se  mai.  Chula  invece  comparisce  in  qual- 
che atto  notarile  del  sec.  XVI  qtial  diminutivo  di  Lucilia.  E  che  Clmla  potè  anche 
pronunziarsi  Ch'ulla  lo  desumo  dal  cognome  siciliano  P>i  Ciulla,  foggiato  come  gli 
altri  cognomi  Di  Maria,  D'Anna,  D'Agata,  D'Antona,  Di  Chiara,  Di  Lucia,  ecc.,  comu- 
nissimi nell'onomastica  siciliana. 

Noto,  2  aprile  18S5. 

COERADO    AvOLIO. 


UN  8EEVENTESE  DI  UGO  DI  8AIN  CIRC. 


Ugo  di  Sain  Gire,  come  altri  trovatoi-i  in  Italia,  non  soltanto  cantò  di  amore, 
ma  s'  interessò  anche  alle  cose  nostre.  E  questo  egli  fece  per  lo  più  nella  Marca  Tri- 
vigiana,  paese  ove  stette  di  preferenza,  ben  accolto  da  Alberico  da  Romano,  fra- 
tello di  Ezzelino.  Noi  qui  non  vogliamo  studiare  queste  relazioni  del  trovatore  con 
uno  o  con  entrambi  i  fratelli  da  Romano,  ma  prendere  in  esame  il  più  importante 
serventese  eh'  ei  ci  abbia  lasciato.  '  E  una  poesia  che  non  splende  per  grandi  bellez- 
ze, e  certo  non  è  delle  più  belle  che  la  passione  politica  de'  trovatori  abbia  prodotte; 
ma  ha  interessato  sinora  per  le  allusioni  storiche,  e  interesse  ancor  maggiore  desterà 
quando  verrà  dimostrato  che  essa  viene  anzi  a  supplire  a'  documenti  storici  ed  è  uu 
documento  essa  stessa. 

Vogliam  parlare  della  poesia  che  comincia:  Un  siroeiites  vueill  /aire  eii  aquest  son 
cl'en  Gui.  Essa  ci  trasporta  in  un  momento  della  lotta  di  Federigo  II  contro  le  città 
dell'Alta  Italia  e  il  Papa,  lotta  che  non  si  chiude  ne' confini  tra  cui  si  svolge,  ma 
di  tutta  Europa  mantien  sospesi  gli  animi,  e  assume  quasi  perfino  il  carattere  di 
crociata. 

Però,  come  il  papa  ed  i  guelfi,  anche  Ugo  di  Sain  Gire  voleva  che  tutta  Europa 
si  movesse  contro  Federico  II.  Egli  che  in  patria  aveva  assistito  alla  distruzione 
degli  Albigesi ,  all'  umiliazione  de'  conti  di  Tolosa ,  agi'  interventi  de'  re  di  Francia 
e  d'Aragona,  alla  morte  di  quest'ultimo,  vedeva  come  l'ipetersi  in  questa  lotta  la 
guerra  contro  quegli  eretici,  e  riteneva  che  l'ira  di  Dio,  come  su  costoro,  sa- 
rebbe certamente  piombata  anche  sul  potente  imperatore.  Gosì  pensava  Ugo  col 
suo  spirito  di  chierico,  che  egli  portò  dal  seminario  di  MonpelHer,  che  le  scene  di 


'  Ne  parlò  già  il  Diez,  Leben  aììd  Werk'e  310  s».,  ponendolo  innanzi  al  1217.  Il  Gaspury,  Gescliichte  d.  iUiUe- 
nìschen  Litcraiur ,  p.  53  e  nota  in  appendice,  lia  corretto  il  ragionamento  del  Diez,  assegnando  il  serventese  ad  un 
torno  di  tempo ,  che  è  il  giusto.  Noi  dopo  indagini  fatto  di  proposito  e  sorretti  poi  nella  nostra  persuasione 
dalla  lezione  del  codice  estense,  possiamo  dare  l'epoca  precisa  in  cui  fa  scritto,  la  quale  ditferisce  di  pochi 
anni  da  quella  del  traspary,  che  lo  credè  composto  dopo  il  1246. 

Quel  che  è  detto  del  nostro  serventese  nella  Bistoire  Litiéraire  de  la  France. ,  voi.  XIX.  è  affatto  privo 
d'interesse.  Senza  interesse  e  scorretto  è  ciò  che  dice  il  Brinckmeier.  Die  provenzalische  Troubadours  als 
lyriaclie  und.  polUiscìie  Dicliter ,  Gottingen  1882,  p.  265,  a  proposito  di  questo  serventese  e  di  altre  poesie  poli- 
tiche del  nostro. 


—  244  — 

terror'e  seguite  nelle  sue  coutrade  gli  raffoi'zarono ,  e  cke  certo  contribuì  a  ringa- 
gliardirgli il  soggiorno  nell' Alta  Italia ,  in  mezzo  ai  furori  del  gi;elfismo,  sotto 
r  impressione  degli  avvenimenti  straordinarii  cke  si  andavano  svolgendo. 

Il  trovatore  manda  il  suo  serventese  a  Faenza  al  signor  Guglielmino,  al  conte 
Guido  Guerra,  ai  signori  Michele  Morosino,  Bernai'do  del  Fosco,  a  Ser  Ugolino  ed 
agli  altri  di  là  dentro;  v.  1-8.  Si  tratta  manifestamente  dell'assedio  di  Faenza,  in- 
trapreso da  Federico  II  alla  iine  di  agosto  del  1240,  e  durato  sino  al  13  di  aprile 
del  1241.  '  La  nobile  città  resistette  otto  mesi,  mentre  l' imperatore  credeva  dovervi 
spendere  poco  tempo  e  fatica.  Nelle  lettere  datate  dall'assedio  di  Faenza  egli  cer- 
ca,va  dissimulare  1'  acei'bo  disinganno  che  gli  faceva  provai-e  quella  valida  resistenza; 
e  aggiungeva  eli'  era  aff'ar  di  giorni,  ma  che  infine  se  ne  sarebbe  sbrigato  presto.  " 
Gli  avversarli  però  vi  vedevano  l'impotenza  dell'imperatore,  e  il  trionfo  della  loro 
causa  giusta;  Ugo  di  Sain  Gire  sente  partir  dell'animo  il  suo  serventese,  e:  «  quale 
che  sia  il  vostro  stato  lì  dentro,  egli  dice  agli  assediati,  sappiate  che  la  vostra  fer- 
mezza, e  il  bel  nome,  e  il  pregio,  e  la  lode  che  la  gente  dice  di  voi,  vi  coronano 
di  onore!  sol  che  facciate  buona  fine!  » 

Notissimo  fra  que'  personaggi  è  il  conte  Guido  Guerra.  Egli  tenne  lungamente 
la  parte  della  Chiesa  contro  l'imperatore,  e  con  forte  nerbo  di  combattenti  corse  in 
aiuto  di  Faenza,  mentre  altri  mille  soldati  bolognesi  e  veneziani  venivano  pure  ac- 
colti nella  città.  '  E  quanto  notevole  fosse  la  parte  del  conte  Guido  in  queste  lotte , 
mostra  anche  una  lettera  che  il  26  ottobre  del  '43  papa  Innocenzo  TV  gì'  inviava 
per  mostrargli  tutta  la  sua  gratitudine,  '  e  le  trattative  che  Federico  stesso  inizia 
per  riaverlo  tra'  suoi  fautori.  '"  Un  altro  personaggio  noto  è  Michele  Morosino  (piut- 
tosto che  Aloresino,  come  dice  il  serventese),  veneto,  potestà  di  Faenza  appunto  in 
quell'  anno ,  ''  e  ricordato  come  valoroso  duce  e  combattente  :  esso  si  nasconde  sotto 
la  forma  greca  Maaroceno  nella  Cronaca  del  Dandolo.  '  Ser  Ugolino  potrebbe  essere 
Ugolino  Giuliano  di  Parma,  creato  conte  di  Romagna  nell'  agosto  del  1220  dal  le- 
gato dell'imperatore,  Corrado  vescovo  di  Spira  e  di  Metz,  ma  che  per  ordine 
espresso  di  Federico  II  fu  nel  giugno  1221  sostituito  da  Goffredo  di  Biandrate:  ' 
egli  adunque  avea  ben  ragione  di  mantenersi  avverso  a  Federico  19  anni  dopo,  e  di 
continu.are  ad  aizzare  le  Romagne  contro  di  lui.  Su  GugHelmino  esprimiamo  sem- 
plicemente la  congettura  che  possa  essere  Guglielmo  di  Camposampiero,  fuggito  da 
Verona  poco  prima  dell'assedio  di  Faenza,  temendo  l'ira  dei  fautori  di  Ezzelino  e 


'  Muratori ,  ^Kjirt/i  d*  Italia,  voi.  Vii.  Notizie  sull'assedio  di  Faenza  si  cercano  invano  nel  Cantinelli, 
Clironicon  Faucntimim,  ap.  Mittarelli,  Ad  rerum  itnlic.  script,  accessioties. 

'  Huillard-Bréholles,  IJistoria  diplomatica  Prìdertci  //,  t.  V,  "J  nelle  lettore  datate  da  Faenza  ì>a-?.'iim. 
Schirnnachei-,  Kalner  Fi-idcricli  der  Zweite,  III,  169. 

'  Aiinales  Piacentini  (libellini,  in  Pollastrelli  Clironica  Iria  Piacentina.  181.  Schirrmacher,  I.  e.  168. 

'  Huillard-BrélioUes,  ib.,  VI,  1.16. 

'■  Huillard-Biéliolles,  ih.,  137. 

"  .Schirnnaeher,  1.  e.  168.  Gli  Annalea  Piacentini  dicono  che  era  veneto.  I.  e. 

'  Chrunicon,  in  Muratori.  ìì..  1.  S.,  XII ,  352. 

"  Huillard-BréhoUe.^,  ib.,  IntrodKclion ,  paff.  CDLX-^vn. 


—  245  — 

dell'  imperatore,  e  ricoveratosi  nel  suo  castello  di  Treville.  '  Di  Bernardo  del  Fosco 
non  ho  rinvenuto  notizia,  né  è  difficile  che  non  ve  ne  siano.  ' 

Ma  i  difensori  di  Faenza  hanno  maggior  significato  per  Ugo  di  Sain  Gire 
come  difensori  della  Chiesa  e  della  religione ,  «  contro  colui  che  non  crede  in  Dio  e 
nella  Chiesa  e  si  fa  lecito  ogni  delitto  »  ;  v.  9  sg.  Federico  II  in  quel  tempo  era  di- 
pinto co' caratteri  più  neri  nella  fantasia  de' credenti:  tutti  parlavano  della  sua 
vita  affatto  oi'ientale ,  dell'  harem  in  Lucerà ,  tutti  sapevano  riferire  le  sue  parole 
ingiuriose  e  le  bestemmie  contro  le  cose  sante;  e  papa  Gregorio  IX  il  20  marzo 
del  1239  r  avea  scomunicato  dal  Laterano ,  lanciando  contro  di  lui  le  più  acerbe 
accuse,  fra  le  quali  che  Federico  fosse  1'  autore  del  libro  de  trihus  impostoribus :  ^  ciò 
che  lo  faceva  simile  all'  anticristo.  Pare  quindi  che  Ugo  sia  mosso  dalla  propria 
coscienza  a  scagliare  1'  amaro  serventese  contro  «  colui  che  non  crede  né  alla  Chiesa 
né  a  Dio,  né  all'  alti-a  vita  dopo  morte  né  al  paradiso,  e  dice  che  1'  uomo  è  niente 
poi  che  perde  lo  spiro  ».  Parole  nelle  quali  il  trovatore  appare  come  schietta  eco  del 
popolo;  e  cosi  quando  dice  che  Federico  non  s'  astiene  da  crudelttà  e  da  delitti  egli 
accennerà  pure  a  certi  fatti,  come  tradimenti  ed  avvelenamenti,  che  si  facevano  pe- 
sare sulla  coscienza  dell'imperatore:  il  quale  nell'assedio  di  Brescia  del  1238  avea 
rinnovata  1'  opera  di  Federico  I  attaccando  alle  sue  macchine  di  guerra  i  prigionieri 
bresciani.  ' 

Subito  accanto  a  Federico,  viene  il  conte  Raimondo  VII  di  Tolosa,  che  per  Ugo 
di  Sain  Ciré  ha  molti  punti  di  contatto  con  l'imperatore  de'  Romani;  v.  17  sgg.  E 
«  se  il  conte  Raimondo  lo  sostiene,  guardi  che  faccia  suo  prò  »,  egli  dice,  perchè 
di  questo  ricalcitrare  al  papa  ed  alla  Chiesa,  ei  doveva  sentirne  gli  effetti  più  di  tutti. 
Riacquistati  appena  i  suoi  dominj ,  perduti  dal  padre  Raimondo  VI  nella  guerra 
degli  Albigesi,  egli  li  avea  riperduti  affatto,  dopoché  il  29  gennaio  del  1226  il  car- 
dinale di  Sant'Angelo,  legato  del  papa,  lo  scomunicò  e  lo  dichiarò  eretico,  e  Lu- 
dovico Vili  s'incaricò  di  fargli  la  guerra,  e  s'impadronì  di  tutte  le  città  e  castella 
di  Linguadoca,  sino  a  quattro  leghe  da  Tolosa.  '  Parte  ne  ricuperò  nel  trattato  di 
pace  con  Luigi  IX  il  1229;''  parte  più  tai-di  e  anche  per  benevolenza  di  papa  Gre- 
gorio; altri  non  riebbe  mai  più,  come  Avignone,  Nìmes,  Uzès  e  Gourdon.  Fatto  é 
eh' ei  perdette  tanta  parte  de'dominii  aviti  per  causa  del  papa,  dice  Ugo;  e  il  re 
Pietro  d'Aragona,  del  quale  egli  avea  sposata  la  sorella  Sancia,  ripudiata  nel  1241,  ' 
morì  per  sostenere  la  causa  di  lui  e  di  suo  padre.  Ora  parea  proprio  che  Raimondo 
dovesse  pigliar  parte   attiva  a  favore  di  Federico.  Già  verso  la  fine  di   settembre 


'  Schirrmacher .  1.  e.  167. 

"  Si  potrebbe  pensare  ad  un  orroro  del  manoscritto  per  Bernardo  de  Rosso  (o  de  Rossi)  da  Parma  che 
nel  1238  si  volse  alla  parte  della  Chiesa,  ofr.  Ann.  Piacentini  Gihel-,  153.  Sarebbe  andato  in  Faenza  con  Guido 
Guerra  e  coi  Bolognesi  e  Veneziani. 

^  Muratori,  Annali ,  VII.  Alberìcus  monacus  triuni  fontium,  in  Script,  rerum  frane,  t.  XXI,  623  so-g-.  Huillard- 
Bréholles ,  ib.  Introduction  cdlxsxvu. 

*  Muratori,  Annali,  VII,  241. 

^  Art  de  vérijier  le3  dates ,  artic.  Raimondo  VII. 

'  Histoire  generale  de  Langiiedoc,  IH,  preuves  329  sgg. 

"  Art.  de  vérijier  les  dates,  ibid.  •■ 


—  246  — 

del  1239,  Federico  gli  scrive  ringraziandolo  dell'essere  con  Ini  e  contro  la  Chiesa,  ' 
nell'  anno  dell'  assedio  di  Faenza  lo  esorta  a  marciare  contro  il  conte  di  Provenza, 
Berengario  IV,  messo  al  bando  dell'Impero,  e  Raimondo  va  con  le  sue  truppe 
per  impadronirsi  della  Provenza.  '  Sennonché  al  principio  del  1241  Raimondo  avea 
cambiato  parere,  ^  e  nel  marzo  scrive  a  papa  Gregorio  ch'egli  è  deciso  ad  aiutarlo 
contro  Federico.  *  Ugo  finisce  coli'  ammonire  il  conte  che  non  abbia  un'  altra  volta 
a  soffrire  la  signoria  di  un  altro.  E  questi  era  il  re  di  Francia:  Raimondo,  dopo 
il  trattato  di  pace  il  1229,  era  stato  sei  settimane  prigione  nel  Louvre.  ' 

E  il  trovatore  si  volge  al  re  di  Francia;  v.  25  sgg.  Dopo  che  Filippo  Augusto 
ricuperò  in  Francia  tutti  i  dominj  dei  re  d'Ingliil terra,  questi  tentarono  più  volte 
di  rifarsi.  Ed  Enrico  III  il  1231  dovè  tornarsene  inglorioso  da  un'impresa  fallita 
per  ricuperare  la  Brettagna  e  gli  altri  dominj  continentali ,  e  fu  costretto  alla  pace 
da  Luigi  IX.  "  Ora  Enrico  III,  la  cui  sorella  Isabella  era  sposata  a  Federico  II  e 
mori  nel  decembre  del  1241,  era  ben  naturale  che  dovesse  sperare  appoggio  in  Fe- 
derico, che  essendo  nemico  del  papa,  lo  sarebbe  dovuto  essere  anche  del  re  di  Fran- 
cia. Certo  è  ohe  nel  1238  egli  mandò  in  Italia  un  buon  numero  di  soldati  con  Enrico 
di  Trubeville  per  aiiitare  Federico  contro  le  città  lombarde.  '  Dall'altra  parte  il  re 
di  Francia  non  corrispose  alle  speranze  del  papa,  che  vedeva  in  lui ,  come  già  ne'  suoi 
predecessori,  il  suo  difensore.  Né  saran  mancate  insinuazioni  e  pressioni  di  ogni 
sorta  per  scuotere  quell'animo  retto  di  Luigi  IX,  e  muoverlo  a  sostenere  una  causa, 
dove  gì'  interessi  della  curia  romana  erano  tutto.  Ma  se  la  promessa  di  cui  parla  Ugo 
di  Sain  Circ  sia  stata  realmente  fatta  balenare  ad  Enrico  III  da  Federico,  o  se  fosse 
soltanto  una  manovra  di  papa  Gregorio,  noi  non  sappiamo.  Quel  che  si  sa  di  sicuro 
è  che  appunto  durante  l' assedio  di  Faenza  ha  luogo  da  parte  di  Gregorio  IX  l' of- 
ferta della  corona  imperiale  a  Roberto  d'Artois,  fratello  di  re  Luigi.  ' 

La  conclusione  che  Ugo  tira  da' suoi  ammonimenti  è  che  la  Francia  debba  aiu- 
tare la  Chiesa  contro  Federico  e  tutte  due  sostenere  i  Milanesi  e  il  signor  Alberic 
que  tolc  qite  lai  passatz  non  es.  Qui  si  accenna  ad  Alberico  da  Romano,  e  all'ultima 
campagna  di  Federico  contro  i  Milanesi  sullo  scorcio  del  1239.  Già  dal  mese  di 
maggio  di  quest'anno  Alberico  si  staccò  dal  fratello  Ezzelino  e  prese  le  armi  contro 
Federico,  e  avea  occi^pato  Treviso  imprigionando  i  fautori  dell'imperatore,  tra  cui 
la  moglie  del  podestà  Jacopo  de  Morra,  pugliese,  che  era  fuggito  a  stento  ;  e  rendendo 
vano  l'assedio  che  vi  pose  Federico  subito  dopo."  Di  ciò  fu  lietissimo  il  papa,  e  si 


'  Huillard-BiL-hoUes,  1.  e.  V,  405. 

■  Histoire  generale  de  Languedoc,  IH,  420. 

^  Hìsloire  gcnér.  d.  Lang.,  iXL,  42.3. 

'  Huillard-Brèholles,  I.  e,  V,  1101. 

^  Art.  de  vé.rifier  les  dates ,  ibid. 

'  Matthaeu»  Paria ,  in  lìer.  Britaun.  Script.,  voi.  II. 

•  Matthaeus  Paris,  Ilistoria  Anglorum,  1»  ediz.  London  1571,  pag.  413. 

"  HuiUard-BróhoUes,  1.  e.  Introduction ,  eoe  sg.  Soliirrmacher ,  1.  o.  171  sgg. 

'  Kolandino,  in  Muratori,  /f.  /.  S.  Vili,  223;  Eicoardo  di  S.  Germano,  Muratori.  R.  I.  S.  VII,  1042.  Il  Mo- 
naco padovano.  Muratori,  ib.,  Vili,  678.  E  ofr.  Veroi,  .Storia  degli  jEccelini,  li.  178  sg.;  e  Mmatori,  Annali  VII, 
247  sg. 


—  247  — 

affrettò  a  scrivergli,  il  7  giugno,  per  tributargli  grandissime  lodi:  continuò  poi  a 
scrivergli  sempre,  scorgendo  in  lui  il  principale  suo  sostegno  nella  Marca.  '  Che  Al- 
berico pigliasse  parte  coi  Milanesi  e  col  cardinale  Gregorio  di  Montelongo  nella 
successiva  campagna,  che  si  distingue  per  l'inondazione  del  Lodigiano,  operata  col 
far  scorrere  le  acque  del  Lambro  nell'Adda,  '  non  ci  è  attestato  da  nessmi  cronista, 
per  quanto  io  sappia.  Ma  niente  mi  par  più  probabile.  Che  anzi,  subito  al  princi- 
pio del  '40  troviamo  Alberico  col  cardinale  di  Montelongo  all'assedio  di  Ferrara.  '  Lo 
proverebbe  anche  la  grande  ira  che  mostrò  sempre  l'imperatore  contro  di  lui,  il 
proditor  noster;  e  un  anno  dopo,  il  13  settembre.  Federico  scrivendo  al  re  d'Inghil- 
terra si  lamentava  che  il  papa  avesse  invitato  al  concilio  per  la  pace  il  suo  tradi- 
tore Alberico.  '  L' imperatore  dopo  essersi  presa  la  soddisfazione  di  devastare  alcune 
località  presso  Milano,  dovette  retrocedere,  e  andò  a  Pisa.'  Cosi  adunque  ci  appare 
giustificato  quel  che  Ugo  dice  al  principio  della  strofa  seguente,  ch'egli  sarebbe 
passato  oltre  se  ne  avesse  avuto  il  potere. 

Quando  Federico  riprese  le  ostilità,  si  rivolse  alle  Romagne,  e  assediò  prima 
Ravenna  e  poi  Faenza.  Ed  animato  dal  buon  risultato  della  campagna  del  '39  e  dalla 
valida  resistenza  di  Faenza,  Ugo  esclama:  «  la  Chiesa  e  il  Re  di  Francia  provve- 
dano, mandino  la  crociata,  ed  andiamo  là  in  Puglia  a  conquistare  il  regno,  perchè 
chi  non  crede  in  Dio  non  deve  tener  terra!»  La  crociata!  Già  papa  Gregorio  l'avea 
proclamata  nelle  vie  di  Roma  il  22  febbraio  del  1240,  e  poi  l'aveva  annunziata  per 
tutta  Italia  ed  Europa,  e  vi  lavorava  "  con  tiitto  il  fuoco  che  bolliva  nella  sua  anima, 
non  accasciata  da  circa  un  secolo  di  vita! 

Degli  ultimi  due  versi  Ugo  si  serve  per  dire  che  Fiandre  né  Savoia  non  devono 
sostenere  Federico,  tanto  deve  loro  rincrescere  dell'eletto  di  Valensa!  Questi  era 
Guglielmo  I  di  Savoja,  fratello  del  conte  Amedeo,  e  di  Tommaso  di  Savoja,  conte 
delle  Fiandre  per  aver  sposata,  il  1237,  Giovanna  di  Fiandra,  che  mori  nel  principio 
del  1245.  '  La  storia  degli  ultimi  due  anni  di  Guglielmo  I  ci  è  arrivata  sparsa  in 
cronache  di  paesi  diversi ,  quindi  ha  bisogno  di  una  vera  ricostruzione.  Guglielmo  I 
nel  giugno  del  1238  fu  eletto  vescovo  di  Valensa,  '  l'antica  Valentia  alla  riva  sini- 
stra del  Rodano  ;  non  chiese  la  consecrazione ,  ma  fu  e  volle  soltanto  essere  detto,  ciò 
che  lo  distingue  da' suoi  consanguinei  successori  nel  vescovato  di  Valensa,''  l'uno 
Bonifacio  di  Savoja,  che  fu  solo  administrator  episcopatus,  ed  electus  di  Belluy,  poscia 
trasferito  a  Canterbury,  l'altro  Filippo  di  Savoja,  che  fu  procurator,  ma  nel  1267 
lasciò  la  cattedra,  si  ammogliò  e  successe  nel  1278  nella  contea  di  Savoja  a  Pietro 


'  Huillard-BréhoUes,  1.  e.  V,  317  e  nota;  cfr.  pure  Verci,  1.  o.  183  sg. 

'  Schirrmacliar,  1.  e.  Ili,  147  sgff. 

'  Muratori ,  Annali  VII. 

'  Huillard-Bréhclles ,  1.  e.  V,  10B7. 

*  Galvano  Fiamma,  ax).  Muratori,  Annali  VII;  e  Schirrmacher ,  1.  e. 

'  Muratori,  Annali  Vn,  251.  Huillard-BrélioUes,  1.  e.  voi.  V,  lettera  del  papa  della  fine  di  febbraio  1240. 

'  AH  de  vérifler  les  date»,  artic.  Jeanne   de    Fiandre s. 

**  Gallia  Christiana^  t.  XVI. 

'  Gama,  Series  episcoporum  ecclesiae  catholicaCj  Ratisbouae,  1876;  artic.  V  alene  e. 


—  248  — 

detto  il  piccolo  Carlomagno-  '  G-nglielmo  I  era  un  uomo  bellicoso,  sanguir/no  come  lo 
chiamavano  i  monaci  di  Wincliester.  '  Era  amatissimo  da  Enrico  III  d'Ingliilterra, 
tanto  da  suscitare  la  gelosia  de' magnati;  e  nel  1238  egli  seguì  in  Italia  Enrico  di 
Trubexdlle  co'  soldati  inglesi.  '  Venne  in  Italia  e  si  accostò  a  Federico  :  nel  settembre 
del  '38  egli  è  con  l'imperatore  all'assedio  di  Brescia,  '  e  nel  novembre  in  Cremona, 
dove  si  fa  dare  dii-itti  di  sovranità  immediata  sopra  i  sudditi  di  Valensa.  '  E  presso 
Cremona  egli  voUe  dar  prova  all'  imperatore  del  come  gli  stesse  in  mano  meglio  la 
spada  che  il  pastorale,  battendo,  in  unione  col  marchese  Lanza,  i  Piacentini,  e  fa- 
cendo molti  cavalieri  e  fanti  prigioni,  che  portò  in  Cremona.  '  Sennonché  accomo- 
date le  sue  faccende,  con  Cesai'e,  il  furbo  Guglielmo  va  nell'anno  seguente  dal  papa, 
presso  cui  si  era  fatto  dare  da  San  Luigi  l'incarico  di  trattare  la  pace  tra  la  Chiesa 
e  l'imperatore;  '  e  Federico  medesimo,  voglioso  com'era  di  nn  accomodamento,  gliene 
dovette^ dare  anch'agli  speciale  incarico.  Invece  l'eletto  di  Valensa  tratta  altre  fac- 
cende col  papa,  e  gli  si  offre  di  capitanare  iin  esercito  contro  l' imperatore, '^  in  cam- 
bio dell'elezione  al  vescovato  di  Liegi  e  della  procura  del  vescovato  di  Winchester: 
«  ut  in  episcopatum  Leodiensem  eligeretur  electus  manens  Valentinus  et  episcopa- 
tum  Wintoniensem  optineret  ut  procurator,  manens  electus  Leodiensis  »  dice  Matteo 
Paris.  "  Ottenuto  ciò,  si  accinse  a  tornare;  ma  il  3  ottobre  del  1239  morì  presso  Vi- 
terbo, e  corse  voce  che  fosse  stato  avvelenato.  La  colpa  si  fé'  cadere  sopra  un  povero 
maestro  Lorenzo  di  San  Martino,  amico  di  Guglielmo,  e  che  non  dovette  far  molto 
per  scolparsi  ;  '"  ma  quanto  sarebbe  stato  più  giusto  il  cercarla  nella  fazione  parti- 
giana di  Federico,  irritata  dalla  condotta  che  il  vescovo  avea  tenuto  negli  ultimi 
mesi,  e  dal  tradimento  patente!  La  notizia  di  questa  morte  scosse  Enrico  III,  ne 
meno  i  due  fratelli  Amedeo  e  Tommaso.  Amedeo  avea  fatte  festosissime  accoglienze 
a  Federico  il  1238,  quando  qiiesti  passava  per  Torino  tornando  dalla  Germania: 
l'imperatore  ne  fu  compiaciuto  al  segno  che  eresse  in  ducato  il  paese  da  Chablais 
ad  Aosta.  Tommaso  al  contrario  era  nemico  di  Federico,  e  verso  la  metà  del  1240 
rinunziò  a  continuare  una  lotta  in  citì  avea  sacrificato  tanto  del  suo;  e  a  ciò  lo 
spinse  anche  il  dolore  della  morte  del  fratello  Guglielmo.  "  Ma  se  Ugo  poteva  temere 
che  Amedeo  soccorresse  Federico,  non  pare  che  avesse  potuto  aver  tali  timori  an- 
che per  Tommaso,  aperto  nemico.  Pure  negli  ultimi  mesi  del  1240,  durante  l'assedio 
di  Faenza  può  esser  successo  qualche  cosa  che  noi  non  sappiamo,  devono  esserci 
stati  de'  sospetti  che  anche  il  fratello  di  Amedeo  in  fine,  dopo  aver  cessate  le  osti- 

'  Art  de  vérijier  les  daics ,  ili,  artic.  Philippe    do    Savoye. 

•  Matthacus  Paiis,  1.  e.  2"  odiz.  Londra  IMO,  p.  473.  Mi  si  perdoni  1'  aver  citato  questa  storia  dii  dirt'erenti 
edizioni.  Come  la  cosa  sia  successa,  è  inutile  il  dirlo. 
'  Mat.tliaeus  Paris,  1.  e,  1»  ediz.  pag.  397  sg. 
'  QaUia  Chrialitma,  ib.  HuilIard-BrélaoUe.s,  1.  e.  V,  232,  235. 
'  Gallia  Christiana,  ib.  Huillard-BréhoUes,   V,  247,  261  sg. 
'  Amai,  Piacerli.  Gibei.,  ib.,  pag.  153. 
'  Chronicon  Aiberici  mott,  irium  foniimn ,  ib.  pag.  623. 
'  Matthaeus  Paris,  1°  ediz.  pag.  413. 
»  In  Rer.  Brilati.  Script.  II,  427. 
'"  Ibid. 
"  Matthaeus  Paris,  1*  ediz.  pag.  47;t. 


-  249  - 

lità,  potesse  anche  mettersi  dalla  parte  di  Federico.  Ugo  di  Sain  Gire  rammenta  ad 
entrambi  la  morte  del  congiunto,  e  questo  deve  bastare,  secondo  lui,  perchè  né 
Fiandre  né  Savoja  ajutino  il  cattivo  soggetto. 

Cosi  siamo  arrivati  alla  fine  del  serventese.  Secondo  tutte  le  probabilità,  esso 
cade  precisamente  tra  la  fine  del  1240  e  il  principio  dell'  anno  seguente,  forse  non 
oltre  il  febbraio,  quando  Faenza  si  sosteneva  già  da  im  pezzo,  rinchiusa  nella  città 
di  legno  che  Federico  neU'  ottobre  le  avea  fatta  costruire  all'  intorno;  '  Raimondo  VII 
non  avea  ancora  apertamente  lasciato  Federico,  ciò  che  fece  il  primo  di  marzo; 
e  Tommaso  di  Savoja  avea  smesse  da  qualche  tempo  le  ostilità.  E  se  è  permesso  di 
circoscrivere  ancor  più  questa  data,  noi  pensiamo  che  il  serventese  fu  scritto  nel 
novembre  del  l'240,  quando  inclinando  i  difensori  di  Faenza  alla  resa,  da  ogni 
parte  s' insinuavano  ihessaggi  del  papa,  sotto  le  spoglie  di  monaci  questuanti,  inco- 
raggiandoli alla  resistenza;  ciò  che  conseguirono  pienamente.  '  E  supporre  che  an- 
che il  serventese  di  Ugo  sia  penetrato  ad  infiammare  gli  animi  degli  assediati,  è  fare 
semplicemente  una  probabile  congettura. 

Il  serventese  trovasi  nella  prima  parte  del  codice  estense ,  D  (segnatura  Bartsch), 
e  in  due  codici  parigini  (secondo  Bartsch,  Grundriss,  457,  42).  Il  Millot  ne  dette  una 
versione,  di  cui  si  giovò  il  Diez  non  conoscendone  alcun  testo  quando  pubblicò 
Le  vite  e  le  opere  de  trovatori.  Il  Raynouard,  Lexique  Roman,  I,  417,  lo  pubblicò  la 
prima  volta;  e  questo  testo  riprodusse  il  Mahn,  Wm-ke  der  Trouhadours,  II,  151.  Noi 
lo  ripubblichiamo,  giovandoci  principalmente  della  lezione  dell'estense.'   ■ 

Riguardo  alla  sua  fattura,  esso  si  compone  di  sei  strofe  monorime  di  otto  versi 
e  di  altri  due  versi  di  congedo.  Le  strofe  sono  le  così  dette  coblas  capfinidas,  ognuna 
cioè  comincia  con  l'ultima  parola  della  strofa  precedente:  su  di  ciò  vedi  Bartsch, 
in  Jahrhich  fiir  romanisclis  und  englische  Literatur,  I,  181.  I  versi  sono  dodecasillabi, 
alessandrini,  con  la  solita  cesura,  qualche  volta  femminile,  al  mezzo:  metro  piuttosto 
frequente  nei  serventesi  e  nelle  coble  di  questo  periodo,  per  quanto  scarso  era  prima. 

E  detto  nel  primo  verso  che  il  serventese  è  fatto  en  aquest  son  d'cn  Già:  si  tratta 
di  una  poesia  di  Grui  de  Cavaillon.  Tra  le  poche  poesie  pervenuteci  di  questo  tro- 
vatore, abbiamo  una  tenzone  con  Peire  Bremon.  Questi  dice:  Un  vers  voil  co- 
mensar  el  son  de  ser  Giti,  Pos  Guis  ina  dit  mal  eu  lo  dirai  attressi;  e  G-ui  risponde: 
Ben  avetz  auzit  quen  Eicas  Novas  ditz  de  mi;  Herrig,  Ardi.  34,  410  sg.  Tra  le  poesie 
di  Grui  deve  essercene  "dunque  stata  una,  non  pervenutaci,  nel  medesimo  metro  di 
queste,  '  e  monorime  come  esse,  da  cui  Peire  Bremon  avrebbe  preso   occasione  al 


'  Schii'rmacher ,  1.  e.  pag.  169. 

"  Scliirrmacher ,  1.  e.  pag.  170. 

'  Ci  è  stata  fornita,  insieme  ad  altre  cose  inedite  dell'estense,  dalla  gentilezza  del  signor  Giuseppe  Van- 
delli,  modenese,  alunno  deU' Istituto  fiorentino  di  Studi  Superiori.  Gliene  rendiamo  grazie  sentite. 

*  Veramente  la  lezione  dei  versi  qui  citati  è  corrotta,  cosicché  l'alessandrino  non  si  vede  più;  i  versi  se- 
guenti però  sono  di  misura  giusta;  cosi  il  terzo  verso  della  prima  cobla,  Qii'en  son  alberc  raubet  Eaimon  de  Saint 
Marti,  ecc.  Più  innanzi  diciamo  che  queste  coble  son  di  quattordici  versi  l'una;  più  esattamente,  la  prima  è  di 
tredici;  potrei  da  ciò  lasciarmi  ingannare,  e  dire  che  questa  disuguaglianza  nel  numero  de' versi  in  queste  due 
coble  è  a  favor  della  mia  ipotesi  ;  ma  mi  par  molto  probabile  che  sia  caduto  un  verso  nella  prima;  mentre,  d'al- 
tra parte,  lo  stato  del  testo  della  2"  è  si  deplorevole  che  non  permette  ci  si  fondi  troppo. 


—  250  — 

suo  vcrs.  Nello  stesso  suono  avrebbe  Ugo  di  Saiu  Ciro  composto  il  suo  serventese, 
come  ha  osservato  già  il  Bartsch.  in  una  giunta  alla  seconda  edizione  della  Poesie 
dei-  Troubadours  del  Diez,  p.  75  sg.  Non  fa  difficoltà  a  ciò  che  le  coble  di  Peire 
Bremon  e  di  Gui  siano  di  quattordici  versi  l'una,  o  che  la  poesia  perduta  potesse 
avere  più  coble  e  ancor  più  lunghe.  Ugo  non  ha  preso  che  il  suono,  e  ognuno  di 
questi  versi  lunghi  sta  da  se.  Si  ricordi  a  questo  proposito  che  Guglielmo  di  Tudela 
fa  la  sua  canzone  degli  Albigesi  con  lo  stesso  metro  e  nel  suono,  dice  egli  stesso, 
della  canzone  di  Antiochia;  ma,  com'  è  natixrale,  il  numero  di  versi  di  ciascuna  serie 
non  ne  è  punto  vincolato. 

TJn  sirventes  vueill  faire  en  aquest  son  d'en  Gui, 
Que  farai  a  Faiensa  mandar  an  Guillelmi, 
Et  al  comte  Gui  Guerra  en  Miquel  Moresi, 
Et  an  Bemart  de  Fosc  et  a  siqr  Ugoli ,  '  4 

Et  als  autres  que  son  lains  de  lor  vesi; 
E  sapohan ,  com  e'  a  lor  de  laintre  esti , 
Quel  sens,  el  uoms,  el  pretz,  el  laus  e'  om  de  lor  di, 
Los  coronan  d'  cuor,  sol  fassan  bona  fi.  8 

Bona  fin  deu  ben  far,  e  dieiis  li  deu  far  be, 
Qui  franquez'  e  dreitura  e  la  gleisa  mante 
Con  tra  cel  que  non  a  en  dieu  ni  en  leis  fé. 
Ni  vida  apres  mort  ni  paradis  non  ere:  12 

E  dis  e'  om  es  nienz  despueis  que  pert  1'  ale  ; 
E  crueltaz  1'  a  tolta  pietat  o  merce. 
Ni  tem  laida  faillida  faire  de  nuilla  re 
E  totz  bons  fatz  deshonra  e  baiss'  e  deschapte.  16 

Sii  chaptel  coms  Raimons  gart  quen  fassa  son  pron; 
Qu'eu  vi  quel  papal  tolc  Ai-gens' e  Avignon, 
E  Nemz'e  Carpentras,  Vennasqu'e  Cavaillon, 
Uzetge  e  Melguer,  Rodes  e  Boazon,  20 

Tolzan  et  Agenes  e  Caortz  e  Gordon , 
En  mori  sos  coingnatz,  lo  bons  reis  d'Arragon; 
E  s'el  torn'a  la  preza  per  aitai  ocaizon, 
Encar  l'er  a  portar  el  man  l'altrui  falcon.  24 


VARIANTI. 

1  li  vuelh,    JJ  vuoili.  JJ  a(iuBs.  —  -^  D  affiiienza,  B  a  falhensa.  Jl   Guillami.  —  i  J) ,  li  Morezi.  —  5  li  layns. 
n  dol.  J3,  ti,  f esi  —  6/1;  cum ,  D  con.  I) ,  li  caler.  1)   del.  —  TKcì  laus  |  manca  el.  R  qu'.  —  8  li  corona.  —  9  li  iì.  ~ 

10  D  Que.  R  franqueza   et.  f>  glioiza,  li  gleyza.  —  11  D  deu.  —  IS  D  dea  puoie,  ij  depueis.  —  15  li  layda.  li  fayre. 

11  nulla.  — 16  D  toz.  li  boa.  Il  faitz  dosonra.  li  e  manca,  li  baysa.  Il  desoapte.  —  17  jB  Beimons.  Il  qu'en.  D  fassan. 
Il  prò.  —  18  li  Qu'ieu.  Il  Avinho.  -  li)  J)  manca  per  intero.  Il  Cavalho.  —  20  li  Boazo.  —  21  II  Caors.  li  Guordo, 
—  I)  coingnaz,  R  coynhatz.  D  bon.  li  Arago.  —  23  iì  torna.  R  ocliiazo.  —  24  D  lor.  Il  autrui.  R  falco. 


—  251  — 

Lo  falcons,  fils  de  l'aigla,  qiiez  es  reis  dels  Franses, 
Sapcha  que  Frederics  a  promes  als  Engles 
Qu'el  lor  rendra  Bretaingna,  Anjou  e  Toarces, 
E  Peitau  e  Saintonje,  Limonge  et  Engolmes,  28 

Toroinn'  e  Normandia  e  Gruien'  el  Paes 
E  venjara  Tolzau,  Bezers  e  Carcasses: 
Doncs  besoingna  qua  Fransa  manteingna  Milanes 
E  nAlbaric,  que  tolc  quo  lai  passatz  non  es.  32 

Passatz  lai  fora  ben  s'el  n'agues  lo  poder  ; 
Qtie  de  ren  als  non  a  desirier  ni  voler 
Mas  com  Trans'  e  la  gleisa  el  pogues  decazer, 
E  la  soa  crezensa  e  sa  lei  far  tener;  3<i 

Doncs  la  gleisa  el  reis  i  devon  pervezer, 
Queus  manden  la  crozada  ens  veingnan  mantener: 
Et  anem  lai  eu  Poilla  lo  regne  conquerer, 
Car  cel  qu'en  dieu  non  ere  non  deu  terra  tener.  40 

Gres  Flaudres  ni  Sayoia  noi  devon  mantener, 
Tant  Ipr  deii  de  l'eleg  de  Valensa  doler.  42 


VARIANTI. 

25  R  fai  003.  E  que.  B  reys.  —  26  E  Fredericx.  —  27/2  Bretanha.  D  aniou.  —  23  R  Peytau.  D  santonie,  R 
SajTQtonge.  R  Lemotges.  i?  et]  manca.  —  29  D  Totoinne,  E  Tolonj'.  R  Gniana  e'I.  -  30  D  besers.  D  Caroassers. 
—  31  R  besonh  a.  D  Franzia.  R  mantenlia.  —  32  72  E'N.  R  lay.  —  33  ii  s'ilh.  —  34  X>  dezerier  —  35  R  cum.  D  franpe. 
Il  resto  del  verso  e  tutto  il  3(;  manca  in  D.  R  gleysa.  —  36  ij  ley.  =  37  E  don.  X)  glieza.  R  reys  y  denhon,  D  de- 
vom.  —  38R  mandon.  E  venlian.  —  39  R  Polla.  —  iO  E  selh,  D  sei.  =  il  E  Savoya.  D  d'avom,  E  denhon.  =  42  R 
Tan.  R  Del  elieg.  D  ualenza. 


-  252 


ANNOTAZIONI   AL   SERVENTESE. 


2.  Faiensa,  Faenza.  L'i  mediano  sta  qui  a  togliere  l'iato  prodottosi  dalla  scomparsa  di  -v-.  Il 
francese  fattnce,  majolica  è  in  origine  Faenza,  e  ci  conserva  dunque  questo  i.  Pure  in  Donatz  proen- 
sals,  ed.  Stengel,  52,  %  faenlis,  faventinus. 

4.  Sier,  titolo  s"pecialmente  de' notai,  com'è  noto;  ma  che  si  trova  anche  dato  ad  altri,  come: 
«  un  mercadier  de  Genoa  que  ao  nom  sier  Amfos  »  (biograf.  di  Folchetto  di  Marsiglia)  ;  «  sier  Peire 
de  Fraisse,  vuelh  jutje  notre  dig.  »  (G-muAnT  Eiquiee  Aras  s'esfors)  ;  tutti  e  due,  insieme  al  nostro,  ci- 
tati dallo  Stimming,  Bert.  d.  Barn,  nota  a  poesia  4.  Può  aggiungersi:  «  un  vers  vuelh  comensar  el  son 
de  ser  Gui.  »  (Peire  Brkmok).  In  una  colla  inedita  di  Ugo  di  Sain  Ciro,  Antan  feti  colla  d'una  hordeliera, 
Amerigo  di  Pegulhan  è  chiamato  Sei-  Aimeric.  Non  pare  un  notajo  il  ser  ArdiQons  (Albric  [da  Romano]) 
in  Suchier,  Denkmaler  I,  320.  Lo  Stimming,  1.  e.  ha  pure  «lo  sier  Salamos  que  tant  fon  sapiens  », 
Peihe  de  Gorbiac  ,  Trtsor,  386;  ma  questa  lezione  è  giustamente,  sospetta  al  prof.  Tobler,  anche  per  la 
ran-ione  che  è  strano  vedere  quel  titolo  di  siec i:ireceduto  dall'  articolo;  sarà  da  leggere  lo  reis  Salamos, 
come  vuole  il  Tobler. 

5.  vesi,  vicini.  Contrariamente  al  sibillino /est  che  leggono  1'  estense  o  il  Raynouard,  noi  abbiamo 
adottato  vesi;  congettura  che  per  motivi  paleografici  avevamo  respinta  appena  ci  venne  in  pensiero,  ma 
che  poi  abbiamo  finalmente  adottata  sentendocela  proporre  dal  prof.  TobleS.  Il  verso  va  dunque  inter- 
pretato: «  ed  agli  altri  che  son  loro  vicini  là  dentro  ».  Non  si  dimentichi  che  Ugo  parla  a'  difensori  ac- 
corsi in  aiuto  di  Faenza;  dunque,  que'  che  sono  accanto  a  loro,  l'i  dentro. 

8.  sol  fassan,  sol  que  f.,  cfr.  it.  sol  che,  e  Diez,  Gr.  III,  358. 
10.  franqueza;  potrebbe  intendersi  franchigia,  libertà,  come  inBartsch,  Ohr.  *  99,37;  e  così  dreitura 
per  giustizia,  Donatz  proensals,  ed.  Stengel  6,  15.  Ma  qui  Ugo  loda  lo  spirito  cavalleresco  de'  difensori 
di  Faenza,  e  secondo  l'uso  generale  intenderemo /ranguezo,  lealtà,  generosità,  (cfr.  franca ,  curialis  , 
Donatz  proens.  3,  35),  e  dreitura,  rettitudine.  È  a  proposito  il  seguente  esempio  iaX  planh  di  Daspol 
perS.Luigi,  P.  Meyer,  Les  derniers  troubadours ,  in Bibl.  d.  fècole  d.  Chart.,  XXX, 285:  «Quel  era  francs 
e  fis  et  amoros,  E  lials  reys  e  drechuriers  e  pros.»  Insomma,  franqueza  e  dreitura  non  sono  ideali  sociali 
qui,  ma  qualità  cavalleresche.  —  E  così  quest'  unione  «  qui  franqueza  e  dreitura  e  la  gleisa  mante  » 
ricorda  Aimeric  de  Pegulhan,  Mahn,  Ged.  83:  «Lo  pros  Gugliems  Malespina  soste  Don  e  dompnei  e 
cortesia  e  me.  » 

15.  faillida;  falhir,  delinquere  in  Donatz  proens.  37,  11  e  53,  21. 

16.  coma  Raimons.  Anche  Sordello  accenna  alle  perdite  di  Raimondo  VII  nel  planh  per  Blaeatz: 
«  al  conte  di  Tolosa  è  uopo  ben  ne  mangi,  se  gli  sovviene  ciò  che  possedette  di  già  e  ciò  che  possiede  !  » 

18.  quel  jiapal  tolc.  Similmente,  Gui  de  Cavalho  nella  tenzone  con  Raimondo  VII  gli  domanda 
s'  egli  aspetta  le  grazie  del  papa  o  vuol  riconquistare  da  so  i  dominj  perduti  ;  Herrig,  ArcUiv  34,  407.  — 
Argens'',  «  Argence,  dipart.  Calvados,  arrondis.  Caeu,  »  Raimondo  nel  31  Maggio  1241,  dopo  cioè  che 
fa  scritto  il  serventese ,  riceve  l' investitura  della  terra  di  Argence,  cfr.  Hist.  gén.  de  Languedoc  III,  425. 

19.  Nemz',  cioè  Nemze,  fr.  Nìmes ,  Nismes ,  lat.  Nemausws,  dipart.  del  Gard.  Nel  1229  si  sottomise 
al  re  di  Francia  e  non  tornò  più  al  conte  di  Tolosa,  cfr.  Hist.  gén.  d.  Langu.  Ili,  355. —  Oarpentras, 
dipart.  di  Valchiusa,  fa  omaggio  a  Raimondo  il  15  Maggio  1239;  Hist.  gén.  d.  Langu.  Ili,  339  sg.  —  Vcn- 
nasque.  Quando  Innocenzo  III  assegnale  terre  a  Simon  de  Monfort  nel  concilio  latei-anense  del  1215, 
gli  dà  dal  Rodano  sino  al  Porto.  P.  Meyer,  in  Chanson  d.  1.  oroisade  eontre  les  Albigeois,  voi.  II,  182, 
n.,  domanda  se  il  Porto  è  Saint-J'ean-Pied-de-Port  ovvero  il  Port  de  Venasque.  Contribuirebbe  la  no- 
stra poesia  a  risolvere  il  dubbio?  —  Cavaillon,  dipart.  di  Valchiusa,  avrondiss.  Avignone;  apparteneva 
alla  contea  di  Venaissin,  quindi  segui  la  sorte  di  Carpentras. 

20.  Uzetge,  Uzès  (Ocetia) ,  dipart.  del  Gard,  riunita  alla  corona  di  Francia  nel  trattato  del  1229; 
Hist.  gén.  d.  Langu.  Ili,  375.  —  Melguer  1.  raed.  Melgorias ,  fr.  Melgueil,  l'ipresa  da  Raimondo  VII  il 
1223;  Hist.  gén.  de  Langu.  111,334.  —  Rodes,  dipart.  Aveyron  (già  prov.  Rouergue) ,  riacquistata  da 
Raimondo  il  1228;  Hist.  gén.  d.  lang.  Ili,  369.  —  Boazon,  Boissezon,  lat.  med.  Boisazone,  castellò  nel- 


—  253  — 

l'Albigese,  proso  nel  Maggio  del  1221;  Hist.  <jén.  ci.  Langu.  Ili,  j^rcwi'cs  IH.  Non  conosco  altro  passo  di 
autore  provenzale  in  cui  trovisi  la  forma  Boazo,  che  di  regola  è  Boisazo,  Bosazo;  e  forse  dunque  sarà 
da  correggere  il  nostro  testo.  Thomas,  in  Dictionnaire  to2>oi/rapfiìque  de  l'JIérault,  registrando  questo 
castello  Boissezon,  che  è  propriamente  nel  comune  di  Vieussan,  cantone  di  Olargues,  arrondiss.  Saint 
Pons  ,  non  dà  nessuna  forma  antica.  Ricorro  però  oltre  che  al  luogo  citato  qui  su,  anche  nella  biografia 
di  Kaimon  di  Miraval.  Esso  è  diverso  dall'altro  castello,  nello  stesso  dipartimento  Boisseron,  che  pur 
deriva  da  Boiscdono,  Buxodone,  e  che  perciò  poteva  dari'i  anche  la  formOf  Boissezon  ;  cfr.  P,  Meyer,  in 
Romania ,  IV  ,  189. 

21.  Tolzan,  contea  di  Tolosa;  ritorna  a  Kaimondo  il  1229;  Ilisl.  Ili,  371.  — Agenes,  Agenois,  nella 
Guienna,  ricuperata  già  nel  1229;  Hist.  Ili  ^jreuves  329  sgg.  —  Caortz,  Cahors ,  capitale  del  Querei.  La 
città  di  Cahors  rimase  al  re  di  Francia,  mentre  il  Querei  fu  reso  a  Raimondo  ;  Hist.  Ili,  371,  876,  preit- 
ves,  329  sgg.  —  Gordo ,  Gordon ,  castello  nel  Querei. 

22.  Pietro  II  morto  il  1218  alla  battaglia  di  Muret  ;  cognato  così  di  Raimondo  VII  come  del  pa- 
dre Raimondo  VI.  È  iierciò  che  il  JDiez  pose  il  serventese  j^rima  del  1217;  cfr.  Gaspara/,  I.  e.  —  Lo 
bos  rels  è  chiamato  Pietro  lineila  canzone  degli  Albigesi;  le  diverse  redazioni  della  biografia  proven- 
zale di  Ugo  di  Saiu  Gire  ci  dicono  oh'  egli  è  stato  presso  il  re  Pietro  d'  Aragona. 

23.  Es'eltorn'a  la  preza,  se,  cioè,  un'alti'a  volta  vorrà  riprendere  il  perduto,  profittando  di  que- 
sta occasione;  allusione  alla  guerra  contro  Berengario  IV  conte  di  Provenza,  della  quale  Federico 
avea  incaricato  Raimondo. 

24.  el  man;  di  mano  usato  come  maschile  altri  esempj  presso  Stimming ,  Bertran  de  Born, 
Anmrkg.,  254. 

25.  Lo  falcons  ecc.  Non  pare  si  abbia  in  queste  pai-ole  alcuna  reale  allusione  storica.  Certo 
S.  Luigi  era  un  re  valoroso,  e  sua  madre.  Bianca,  sotto  la  cui  reggenza  egli  stette  negli  anni  di  mi- 
norità, donna  a  cui  l'appellativo  di  aquila  potrebbe  star  bene,  come  al  suo  sposo  Luigi  Vili  stava 
bene  quello  di  Leone;  ma  io  qui  non  so  vedervi  altro  che  soggettive  allusioni  del  poeta  ;  a  cui  ha  con- 
tribuito Wfalcon  della  strofa  precedente,  che  ora  gli  occorreva  per  cominciare  la  seguente. 

27.  Toarces,  il  paese  di  Toartz.  E  l' attuale  Touars ,  nel  dipartimento  delle  Deus-Sèvres,  viscontea 
nel  Poitou. 

29.  Toroinn''  ;  è  1'  odierna  Touraine,  che  nel  lat.  med.  è  Turonia,  Turoina.  Questa  lezione  la  dob- 
biamo al  prof.  Tobler;  ed  è  incontestabilmente  l'originaria,  mentre  il  Tofoinne  dell'  estense  è  un  vero 
sbaglio  ortografico ,  e  il  Tolonf  del  Raynouard  è  lo  sbaglio  elevato  a  terza  potenza.  Si  sa  che  la  Tou- 
raine è  tra  le  provinole  che  tolse  Filippo  Augusto  al  dominio  degl'  Inglesi  sino  al  1204. 

—  Paes,  il  Pays-Charfrain,  nella  Francia  centrale,  oapit.  Chartres. 

30.  Accenno  alle  stragi  avvenute  in  questi  luoghi  per  opera  de'  Francesi,  nella  crociata  contro  gli 
Albigesi. 

32.  Albaric.  Alberico  da  Romano  è  nominato  da  Ugo  anche  nel  serventese  «  Messonget  un  sir- 
ventes  »,  Mahn,  Werke  II,  150.  Esiste  inoltre  una  colla  con  cui  Ugo  fa  una  domanda  ad  Alberico  e 
un' altra  che  contiene  la  risposta  di  quest' ultimo  ,  presso  Suchier,  Denkmaler ,  I,  320-  ne  toccò  il 
Grober,  in  Bohmer,  Romanisohe  Studien  2,  495. 

34.  desirier  ni  voler,  tornano  spesso  accoppiate ,  similmente  ad  altre  note  ripetizioni  quasi  tauto- 
logiche ,  come  sen  e  saher,  planhs  e  plors  eco.  In  questa  stessa  poesia  posson  citarsi  anche ,  non  come 
equivalenti  alle  prime,  ma  dello  stesso  conio,  dovute  alla  medesima  tendenza,  sens  e  noms ,  e  pretz  e 
laus,  pìetat  e  merce,  franquez'e  dreitura,  baiss'e  descapte. 

35.  decazer,  avvilire,  far  decadere.  Il  neutro  decazer,  descazerha  preso  significato  causativo,  fatti- 
tivo. Cosi  nel  pugliese  scadere. 

38-42.  Da  questa  ultima  strofa  si  vede  con  quanto  fervore  Ugo  abbracciasse  la  causa  delle  città 
nemiche  dell'imperatore:  egli  è  qui  animato  dalguelfismo  più  schietto,  e  con  tanta  passione  che  i  suoi 
versi  ci  paiono  belli,  non  indegni  di  altri,  assai  più  grandi,  trovatori.  Ci  è  qualche  cosa  di  originale 
nell'intera  poesia,  ohe  si  riflette  anche  nella  forma  :  il  congedo,  per  esempio,  è  al  principio,  e  ne'  due 
versi  di  congedo  si  continua  invece  1'  argomento  ;  e  poi  un'  intonazione  epica  manifesta ,  una  robu- 
stezza sempre  sensibile,  quella  nota  di  forte  credente  medioevale,  a  cui  si  unisce  la  schietta  espressione 
popolare,  fanno  di  questo  serventese  la  più  bella  poesia  ohe  abbia  composta  Ugo  di  Sain  Ciro,  il  quale 
si  è  poi  tanto  dilettato  di  poetare  a  freddo. 

N.    ZlNGAEELLI. 


UNA  PARTICOLAEITA  SINTATOCA 

DELLA  LINGUA  ITALIANA  DEI  PRIMI  SEGOLI. 


I  pronomi  personali  obliqui  atoni  mi,  ti,  si,  ecc.  e  le  particelle  pronominali  atone 
ci,  vi,  ne,  o  precedono  il  verbo  di  forma  finita  (proclisi)  o  gli  tengono  dietro,  formando 
con  esso  una  parola  sola  (enclisi):  Mi  dai.  Dammi.  Esaminando  le  fritture  dei  primi 
secoli,  non  tardiamo  ad  accorgerci  di  questa  particolarità:  che  quando  il  veebo  sta 

IN  PRINCIPIO  DELLA  PROPOSIZIONE  PRINCIPALE,   LA  PROCLISI  È  ESCLUSA.    NoÌ  diciamO  :   Lo 

vidi;  gli  antichi  dicevano:  Vidilo.  Noi:  Mi  pare  o,  volendo,  Farmi;  gli  anticlii  non 
adoperavano  che  la  seconda  collocazione.  Chi  direbbe  oggi:  Dicerolti  molto  breve?  o 
(colla  forma  attuale  Dirò  e  colla  disposizione  dei  pronomi  ora  usata)  Dirottelo?  E 
Dante  non  avrebbe  mai  usato  :  Lo  ti  dicerò.  Così  pure  nelle  proposizioni  interroga- 
tive. Noi:  Gli  destila  Ietterai,  T'ho  io  mai  ingiurato ì;  nei  primi  secoli  non  si  sarebbe 
mai  detto  altrimenti  che  Destigli  la  l.ì,  Hotti  io  mai  ing.f  Colla  seconda  persona  sin- 
golare e  plurale  e  colla  prima  plurale  dell'imperativo  anche  a  noi  l'enclisi  è  d'ob- 
bligo (unico  rimasuglio  dell'antico  uso):  Dimmi,  Ditemi,  Diciamogli;  ma  colla  terza 
singolare  e  plurale  (che  in  fondo  sono  forme  del  modo  congiuntivo)  preponiamo  di 
solito  il  pronome:  Ti  piaccia.  Se  ne  rimangano;  mentre  agli  antichi  anche  in  questo 
caso  la  proclisi  era  ignota:  Piacciati,  Riméngansene.  E  quasi  superfluo  avvertire  che, 
quando  precede  un  vocativo,  poiché  questo  non  forma  parte  della  proposizione,  ma 
se  ne  sta  da  sé,  a  modo  di  proposizione  ellittica,  l'uso  antico  non  ne  é  alterato  :  Amico 
mio,  pregoti  che...;  A.  m.,  hotti  io  mai  ing.ì;  A.  m.,  piacciati  di  ascoltarmi.  Negli  esempii 
fin  qui  recati,  la  proposizione  principale  é  la  prima  del  periodo  ;  l' enclisi  presso  gli 
antichi  è  d'obbligo  anche  quando  la  proposizione  principale,  cominciante  col  verbo, 
ricorre  per  entro  il  periodo,  coordinata  asindeticamente  ad  altra  o  ad  altre  che  la  pre- 
cedono: Andai  da  tuo  fratello,  diedigli  la  lettera,  pregailo  di...,  non:  gli  diedi,  lo  pregai. 
Io  non  ho  percorso  per  intero  la  letteratura  del  dugento  e  del  trecento  coli' at- 
tenzione rivolta  a  questo  punto  microscopico  di  grammatica  ;  ma  pure  ho  esaminato 
tutta  la  Divina  Commedia  e  tutte  le  liriche  del  Petrarca;  poi  risalendo  nell'ordine 
dei  tempi  ho  letto  un  centinaio  di  componimenti  nelle  Rime  volgari  pubblicate  dal 
D'Ancona  e  dal  Compare tti,  ed  il  primo  volume  del  Nannucci;  e  nei  casi  suindicati 


—  256  — 

trovai  costantemente  l'enclisi.  E  poiché  i  risultati  ottenuti  dall'esame  di  poesie 
non  mi  parevano  sufficientemente  conclusivi,  perchè  la  collocazione  del  j^ronome 
potrebbe  dipendere  da  esigenze  ritmiche  ',  percorsi  il  secondo  volume  del  Nannucci 
ed  altre  scritture  in  prosa  dei  primi  due  secoli  e  vi  trovai  confermata  l'osservazione 
esposta  di  sopra.  Ora,  se  ad  ulteriori  ricerche  non  riuscirà  (e  dubito  assai  che  riesca) 
trovare  un  numero  sufficiente  di  passi,  che  contengano  la  proclisi  in  principio  di 
proposizione,  la  sintassi  storica  della  lingua  italiana  dovrà  registrare  questo  fatto. 
Il  quale,  benché  molto  tenue  in  sé,  può  nondimeno  avere  qualche  utilità  allorché  si 
tratti  di  giudicare  non  dirò  dell'autenticità  d'una  scrittura  (che  sarebbe  troppo)  \  ma 
dell'accettabilità  d'una  lezione,  d' un'interpunzione,  d' un' interpretazione,  d'un' emen- 
dazione. Ed  a  questo  proposito  mi  giova  recare  alcuni  esempii.  Al  §  XII  della  Vita 
Nuova  il  Giuliani  nella  sua  edizione  del  '03  leggeva:  Avvenne....  che  mi  parea  vedere 
nella  mia  camera  lungo  me  .sedere  un  giovane  vestito  dì  bianchissime  vestimentaj  e  pensando 
molto,  quanto  alla  vista  sua.  Mi  riguardava  là  ov'io  giaceva....  Poi  mutò  pensiero  e  cosi 
egli  come  gli  editori  posteriori  mettono  una  virgola  dopo  sua.  Le  ragioni,  che  con- 
ducono a  leggere  così,  appartengono  ad  un  ordine  più  alto  d' idee,  e  sono  giustissime  ; 
sarà  però  lecito  alla  grammatica  notare  ch'essa  pure  dal  suo  lato  rifiuta  l'interpun- 
zione del  '6.3,  perchè  se  Dante  avesse  voluto  incominciare  un  nuovo  periodo  col  verbo 
riguardare,  egìi  senza,  dul)bio  avrebbe  scritto  Riguardavami.  —  Sono  note  le  ingegnose 
argomentazioni,  colle  quali  al  v.  89  del  XXV  del  Paradiso  si  volle  interpungere  ed 
esso:  Lo  mi  addita,  considerando  il  verbo  qual  di  seconda  persona  dell'imperativo.  I 
commentatori  fanno  lunghissime  note  per  ribattere  cotali  argomenti  e  difendere 
l'opinione,  che  dice  il  verbo  essere  di  terza  persona  dell'indicativo;  il  grammatico 
prende  la  via  più  spiccia  e  ricorda  che  il  periodo  non  potendo  cominciare  da  pro- 
nomi proclitici,  l'imperativo  è  escluso.  "  —  Al  capitolo  XIX  del  quarto  trattato  del 
Convito  tutte  le  edizioni  da  me  esaminate  leggono:  Che  cosa  è  l'uomo,  che  tu  Iddio 
lo  visiti?  L' hai  fatto  poco  minore  che  gli  angeli.  Non  potendomi  persuadere  che  Dante 
scrivesse  cosi,  pregai  1' amico  Rajna  di  consultare  i  codici;  ora  egli  trovò  che  di 
dieci  manoscritti  fiorentini  sei  leggono   Tu  V  (Tu  Ilo)  ài  fatto  e  quattro  o  fu  ài  fatto 

'  In  Suppemi  l'alto  sonno  nella  testa  diremo  ohe  il  ritmo  richieda  imperiosamente  rendisi?  Non  sarebbe 
altrettanto  giusto  il  verso  Mi  ruppe  V  dito  sónno  collo  stesso  movimento  giambico  che  in  Poi  dì  ri  posato  un  pòco. ^ 
Si  risponderà:  giusto  si,  ma  non  del  pari  armonioso.  Se  non  che  è  possibile  che  se  a  noi  sonerebbe  men  bene 
Mi  ruppe,  ciò  non  dipenda  già  da  motivi  ritmici,  ma  in  parte  dall'abitudine  che  abbiamo  presa  di  udire  questo 
verso  di  Dante  così  com'  egli  lo  dettò ,  in  parte  (e  forse  più)  da  un  sentimento  quasi  istintivo ,  il  quale  ci  dice  che 
in  una  scrittura  antica  (anche  di  prosa)  quella  collocazione  del  pronome  sarebbe  insolita  affatto.  Dicasi  lo  stesso 
di  Fecemi  la  divina  potatale ,  ove  si  potrebbe  perfino  diro  che  lo  quattro  sillabe  atonc  fra  la  prima  e  la  sesta  accen- 
tate (tutt'al  più  al  la,  quale  prima  sillaba  del  nesso  ladivina,  si  potrebbe  attribuire  un  accento  secondario) 
danno  suono  alquanto  meno  grato  che  non  darebbe  Mi  fece. 

■  Nondimeno  sarà  utile  porre  in  rilievo  che  nello  pseudo-Spinello  si  legge  :  Me  venne  proposito ,  Me  disse  ecc. 

"  E  ciò  si  sarebbe  potuto  dire  (o  tòrse  si  alletto)  anche  prima  che  si  fosse  posto  in  chiaro  il  fatto  che  qui  ci 
occupa  ;  giacché  l' uso  di  posporre  il  pronome  air  i  mi>erativo  di  seconda  persona  è  durato  sempre  nell.i  lingua.  Che 
se  altri  obbiettasse  essersi  qui  Dante  scostato  dall'uso  comune  in  grazia  della  rima,  si  risponderebbe  facilmente;  . 
1"  che  ciò  potrebbe  ammettersi  quando  il  caso  fosse  indubbio ,  ma  che  il  supporre  un'  eccezione ,  la  quale  sarebbe 
unica,  nonché  nel  poema,  in  tutta  la  letteratura  antica  per  sostenere  un'interpretazione  molto  discutibile,  è  un 
procedere  contrario  alla  sana  critica;  •2"  che  se  Dante  avesse  proprio  voluto  usare  l' imperativo,  egli,  senza  scapito 
del  verso  e  della  sintassi,  avrebbe  dotto:  Or  lo  m'  adilita. 


—  -lol   — 


lai  o  Tu  lui  ài  fatto;  nessuno  aduncj^ue  ha  il  pronome  obliquo  atono  in  principio 
della  proposizione.  —  Nel  Novellino  ''  qui  conta  d' uno  martore  di  villa  ecc.  '  (Gualt.  95, 
Borgh.  1)3)  neir  edizione  di  Milano  1825 ,  che  a  detta  del  Biagi  è  '  un'  accurata  ri- 
stampa del  testo  gualteruzziano  ' ,  verso  la  fine  si  legge  :  '  Li  altri  discepoli  furono  in- 
tenti colle  correggie.  Lo  scoparo  per  tutta  la  contrada;"  mentre  la  stampa  del  Borgtini 
(1572)  ed  altre  che  ne  derivano  (p.  es.  1724,  1778,  1804)  hanno  e  scoparlo.  I  tre  co- 
dici del  XIV  secolo  qui  non  ci  possono  dare  ajuto,  perchè  in  nessuno  di  essi  è  con- 
tenuta la  nostra  novella;  e  che  quegli  del  XVI  non  hanno  sufficiente  autorità,  s'in- 
tende da  sé;  giacché  un  copista  anche  diligentissimo  può  avere  involontariamente 
introdotto  una  così  lieve  modificazione.  Ad  ogni  modo  si  noti  che  il  panciaticliiano 
ha  et  ischoparolo;  non  sarebbe  inutile  esaminare  come  abbiano  gli  altri,  special- 
mente il  vaticano  (che  certamente  ha  stretta  affinità  col  testo  gualteruzziano),  per 
certificarsi  se  l' infrazione  dell'  uso  sintattico  antico  sia  stata  commessa  da  un  ama- 
nuense o  dal  primo  editore.  Che  se  il  Borghini  ha  la  lezione ,  che  abbiamo  diritto  di 
supporre  genuina,  non  è  impossibile,  a  dir  vero,  che  egli  l'attingesse  ad  alcun  ma- 
noscritto; molto  più  probabile  si  è  che  egli  abbia  mutata  la  dicitura  della  prima 
stampa  per  quella  fine  conoscenza  che  aveva  dell'uso  antico,  al  quale  egli  stesso 
si  atteneva  nelle  sue  scritture.  —  E  poiché  ho  citato  il  Novellino,  noterò  nell'edi- 
zione che  il  Biagi  fece  del  cod.  gaddiano  (pag.  229):  Et  quella  disse:  Il  presi  pmr  co  le 
forcelle.  La  grammatica  esige  che  si  stampi  T  'l. 

Quando  cominciò  a  modificarsi  l'uso  antico?  vale  a  dire  quando  appariscono  i 
primi  esempii  di  proclisi  in  principio  di  una  proposizione?  Io  non  lo  so  dire.  Sup- 
pongo che  nel  corso  del  quattrocento.  L'Ariosto  ha  già  I  77  V odia,  II  10  ne  geme; 
componimenti  in  prosa  del  cinquecento  ci  danno  ancora  molti  esempii  dell'uso  an- 
tico, ma  altrettanti,  e  forse  più,  del  moderno.  Più  ci  avviciniamo  all'età  nostra  e 
più  comune  si  fa  la  proclisi  (ad  eccezione,  s'intende,  dell'imperativo  di  prima  o  se- 
conda persona),  non  mancando  tuttora  esempii  d'enclisi,  specialmente  in  quegli 
scrittori  che  hanno  fatto  l'orecchio  alle  movenze  della  lingua  antica.  Ai  giorni  no- 
stri nessuno,  credo,  userebbe:  Sailo'ì  Sollo,  Meravigliomi;  solo  ai  riflessivi  di  terza 
persona  con  valore  passivo  {Dicesi,  Trovansi)  '  ed  agi'  impersonali  (Havvi)  viene  non 
di  rado  posposto  il  pronome. 

Il  perché  dell'uso  degli  antichi  scrittoli  è  facile  riconoscere;  era  un  fine  senti- 
mento che  li  faceva  rifuggire  dall'  incominciare  la  proposizione  (che  nei  più  casi  è 
quanto  dire  il  periodo)  con  un  monosillabo  privo  di  proprio  accento,  e  quindi  di 
suono  e  di  significato  soverchiamente  tenue.  Questo  sentimento  si  venne  sempre  più 
affievolendo  ;  ond'  é  che  a  mano  a  mano  si  rese  generale  quella  collocazione  che  ricor- 
reva quando  il  verbo  si  trovava  per  entro  alla  proposizione,  vale  a  dire  nel  numero 
di  casi  di  gran  lunga  maggiore.  Che  se  nell'  imperativo  rimase  —  almeno  in  parte  — 
'l'antica  disposizione  dei  due  elementi,  anche  ciò  si  capisce  molto  bene;  alla  vibra- 


Cfr.  la  Sintassi  del  Fornaciari,  pag.  456. 


—  258  — 

tezza  del  comando  giova  enunciare  prima  di  ogni  altra  la  voce  più  significativa,  il 
verbo. 

Non  è  senza  interesse  risconti'are  il  medesimo  uso  nel  francese  antico.  '  Ora  si 
dice  :  Afe  vois  tu  ?;  in  antico  o  :  Vois  me  tu  ì  o  :  Moi  vois  hi  "ì;  vale  a  dire,  per  evitare  il 
pronome  atono  in  principio  di  periodo,  adoperavano  l'accentato,  ancorché  il  signifi- 
cato non  esigesse  punto  che  s'appoggiasse  con  forza  particolare  sul  pronome:  l'en- 
fasi in  questo  caso  è  non  rettorica,  ma  grammaticale.  "  Si  dica  lo  stesso  del  proven- 
zale. ■'  Anche  nel  francese  rimase  l'antica  collocazione  nell'imperativo:  Donnez-m'en. 

Ho  detto  che  nelle  mie  letture  trovai  costantemente  confermate  le  mie  osserva- 
zioni. Aggiungerò  ora  che  altri  potrebbe  supporre  un'eccezione  nell'uso  di  mi  disse, 
gli  rispose  ecc.  per  entro  ad  un'orazione  diretta  (p.  es.,  Inf.  V53).  Se  non  che,  a  ben 
vedere,  l' eccezione  non  ò  che  apparente  ;  in  questo  caso  l' orazione  diretta  rappre- 
senta l'oggetto  del  verbum  dicendi;  e  poiché  il  periodo  comincia  da  questo  oggetto, 
cessa  l'obbligo  dell'enclisi.  3fi  disse:  'Chi  sei  tuf  contradirebbe  alla  teorica,  e  non 
se  ne  trovano  esempii;  in  'Chi  sei  tu'P  mi  disse  la  proclisi  é  concessa.  Ma  pure 
un'eccezione  la  c'è  nella  canzone  del  Petrarca  Nel  dolce  tempo,  ove  alla  st.  Vili,  si 
legge:  Spirto  doglioso  errante  [mi  rimembra)  per  siielonclie  j)iansi,  ove  la  proposizione 
incidente  è  del  tutto  isolata.  Invero  scritture  in  prosa  ci  danno  in  simili  casi  l'en- 
clisi, p.  es.,  Io  sono,  sullo  Iddio,  innocente.  Eccezione  adunque,  ma  colla  circostanza 
mitigante  (a  non  dire  della  rima)  che  almeno  il  pronome  atono  non  incomincia  il 
periodo.  Notevole  però  é  quanto  segue.  Nella  Confessione  latino-volgare  che  il  Flechia 
pubblicò  nelVArch.  glott.  VII  121  —  documento,  a  cui  il  cauto  editore  assegnò  limiti 
molto  vasti  (1000-1200),  ma  che  ad  ogni  modo  va  fra  i  più  vetusti  monumenti  di 
prosa  italiana  ^ — si  legge  una  serie  di  periodi  che  incominciano:  31' accuso.  Dell'au- 
tenticità, s'intende,  non  é  da  dubitare.  Or  come  spiegheremo  noi  questo  fatto?  Di- 
remo che  il  rifiutare  la  proclisi  in  principio  di  periodo  non  sia  uso  originariamente 
italiano,  ma  si  sia  introdotto  per  imitazione  del  provenzale  e  del  francese?  Ciò  mi 
pare  molto  inverisimile,  chi  badi  che  si  tratta  d'un  uso  costante,  confermato  da 
scritture  d' indole  del  tutto  popolare.  Diremo  piuttosto  che  qui  si  ricalchi  parola  per 
parola  il  latino  e  che  quindi  non  vi  si  debbano  ricercare  le  ragioni  sintattiche  della 
lineua  schiettamente  italiana. 


'  Ciò  iLL  avvertito  or  sono  iiiolii  anni  dull' illustre  romanologo  Adolfo  Tobler;  e  dal  vedere  cosLauLemeiiLe 
osservata  la  regola  sintattica  nel  fi'ancese  antico  io  tolsi  occasione  ad  esaminare  come  stessero  le  cose  in  italiano. 
■  In  italiano  questo  spediente  non  fu  issato  se  non  di  rado.  Citerò  a  questo  proposito  un  altro  passo  del  Xovet- 
lino  (Grualter.  74 ,  Bergli.  73),  ohe  in  tutto  le  stampe  suona  uniformemente:  Domine,  ti  lodo.  Mail  ti  in  principio  di 
proposizione  è  del  tutto  insolito.  Per  mala  ventura  anche  questa  novella  manca  nei  codici  del  trecento;  giova  però 
osservare  che  il  panciatichiano  legge  te  lodo.  Ora  io  non  negherò  che  te  possa  venir  considerato  qual  mera  variante 
fonetica  di  (/,  nel  qual  caso  sarebbe  anch'  esso  una  forma  atoua;  ma  (se  1'  amore  alla  mia  teorica  non  mi  preoc- 
cupa soverchiamente)  io  credo  che  sì  debba  piuttosto  interpretarlo  qual  forma  accentuata;  a  quel  modo  che  in 
francese  antico  si  sarebbe  detto:  Dea.?,  toi  loje. 
I  '  Cfr.  la  dissertazione  del  dr.  Pape:  Die  WortstclUinq  in  der  prove nqalisclien  rrosa-Literatar  des  Xll.  nnd  XII f. 

.Tahrhunderfs.  Jena  ISSH. 


—  -259  — 


II. 


Se  la  proposizione  non  incomincia  col  verbo,  1' enclisi  non  è  a  dir  vero  del 
tutto  esclusa,  specialmente  nelle  scritture  metriche  (cfr.  qui  appresso,  al  n.  V) ,  ma  in 
tesi  generale  si  può  dii'e  che  al  verbo  collocato  per  entro  alla  proposizione  il  pro- 
nome va  preposto:  Io  lo  vidi,  Non  lo  vidi,  Or  t'ho  io  detto?  ecc.  Ne  risulta  che  quando 
una  proposizione  principale  si  collega  sindeticamente  ad  altra  precedente ,  la  prima 
voce  della  proposizione  coordinata  essendo  la  congiunzione ,  vi  ha  luogo  la  proclisi  : 
Io  l' amo  ;  perciò  lo  punisco.  Fa  eccezione  anzi  tutto  la  copulativa  e;  il  suono  ed  il 
significato  ne  sono  così  esili,  che  agli  antichi  era  ov\'io  il  considerare  una  proposi- 
zione incominciante  da  e  qual  asindetica;  ed  usavano  anche  in  questo  caso  l'enclisi. 
Dante  ha  un  grandissimo  numero  di  passi  sul  tipo:  V  ombra  si  tacque  e  riguardommi  e 
soli  sette  sul  tipo  :  si  volge  al  grido  e  si  protende.  L'  enclisi  non  è  quindi  di  rigore , 
come  sarebbe  se  la  proposizione  incominciasse  col  solo  pronome  atono  ;  non  di  meno 
prepondera  assai.  E  la  proporzione  degli  esempii  cresce  di  molto  più  a  favore  del- 
l' enclisi  nelle  scritture  in  prosa ,  che  sono  sempre  le  più  atte  a  dimostrarci  il  vero 
uso,  libero  da  riguardi  metrici;  ad  ogni  pagina  troveremo  esempii  quale:  Venne  e 
dissemi;  molto  raramente  ci  avverremo  in  passi  quale:  Venne  e  mi  disse.  Anche  la 
congiunzione  ma  promuove  efficacemente  l'enclisi.  Dante  non  ha  verun  esempio  di 
ma-j~  pron.  atono  -f-  verbo;  ne  ha  parecchi  da  confrontarsi  a  Malvolentier  tei  dico,  ma 
sforzami  la  tua  chiara  favella  (ini.  XVIII,  52).  È  possibile  che  in  tutti  l'enclisi  sia 
voluta  dal  ritmo  o  dalla  rima;  ma  si  può  dubitarne,  quando  si  osservi  che  le  scrit- 
ture in  prosa  abbondano  di  esempii  del  pronome  posposto  e  ce  ne  danno  pochissimi 
di  preposto.  Anche  nella  prosa  provenzale  la  formola  e  +  verbo  -ì-  pron.  atono  può 
considerarsi  come  la  normale;  non  m' è  noto  quale  sia  l'uso  dopo  m.as.  In  francese 
antico  all'incontro  la  proclisi  è  costante:  vint  e  li  dist. 

III. 

Quando  la  proposizione  principale  forma  l' apodosi  di  una  dipendente ,  quale 
posto  davano  gii  antichi  al  pronome?  Dicevano:  Quando  m.i  vide,  si  nascose  dietro  una 
colonna  o:  nascosesi?!  testi  ci  presentano  un  continuo  ondeggiare.  La  Divina  Commedia 
ha  quasi  sempre  1'  enclisi  (p.  es.  Quando  tu  sarai  nel  dolce  mondo,  pregoti);  in  tutto 
ventun  passo  e  solo  due  volte  la  proclisi:  Da  poi  che  Carlo  tuo....  m' ebbe  chiarito,  mi 
narrò  gl'inganni  (Par.  IX,  2);  se  tanto  scendi,  gli  potrai  vedere  (Inf.  VI,  87).  Nella 
prosa  della  Vita  Nuova  la  prochsi  è  frequente:  e  poicliè  fu  meco  a  ragionare,  mi  pregò 
(§  XXXni);  quando  li  vidi,  mi  levai  (§  XXXIV).  Ma  poiché  esempii  di  enclisi  nella 
Vita  Nuova  non  mancano  ed  in  altre  scritture  sono  ancora  più  frequenti,  e  poiché, 
come  diremo  al  n.  V,  nella  pi-osa  antica  il  pronome  di  rado  si  pospone  senza  che 


—  260  — 

ce  ne  sia  uua  speciale  cagione ,  a  spiegai'ci  il  vacillare  dell'  uso  nell'  apodosi  varrà  la 
doppia  natura  sintattica  della  protasi.  La  quale  si  può  considerare  o  qual  proposi- 
zione che  stia  da  sé,  o  qual  complemento  avverbiale  della  principale  {allorché  mi  vide 
r=  al  vedermi  =  alla  mia  vista).  Nel  primo  caso  la  proposizione  principale  comincia 
col  verbo,  quindi  enclisi;  nel  secondo  essa  comincia  col  complemento  avverbiale  ed 
il  verbo  si  trova  per  entro  alla  proposizione ,  quindi  proclisi. 

IV. 

Poiché  le  proposizioni  dipendenti  incominciano  sempre  con  un  pronome  od  un  av- 
vei'bio  relativo  o  con  una  congiunzione,  è  naturale  che  il  verbo ,  non  più  in  cima  della 
proposizione,  prenda  il  pronome  dinanzi  a  sé:  L'uomo  che  t' ama,  Desidero  che  ti p-e- 
jjari,  Se  te  ne  volessi  andare.  Or  bene,  quando  una  proposizione  dipendente  è  coordi- 
nata asiudeticamente  ad  altra  o  ad  altre  che  la  precedono ,  senza  che  si  ripeta  il  pro- 
nome o  r  avverbio  o  la  congiunzione,  essa  simula  in  certo  modo  le  apparenze  di 
proposizione  principale,  ed  ha  luogo  l'enclisi.  Vedasi  Decani.  VII:  Vogliono  che  voi 
empiate...,  fidiate...,  siate...,  perdoniate  le  ingiurie,  guardiatevi  dal  mal  dire.  Il  Boccaccio 
non  avrebbe  per  certo  detto  :  Vogliono  che  guardiatevi  e  quindi  nemmeno  :  V.  che  voi 
emp.,  chefid.,che  siate,  che  perdoniate  le  ingiurie,  che  guardiatevi.  Ed  anche  qui  le  coor- 
dinate colle  congiunzioni  e,  ma  si  comportano  allo  stesso  modo  che  le  asindetiche; 
io  fui  quelli  che  vinsi  li  re  e  scacciaili  da  voi  (Nann.  II,  128)  —  e  die  li  scacciai;  come  fa 
l'uovi  che  non  s'  affligge,  ma  vassi  (Purg.  XXV,  5);  se  egli  sapesse  lavorar  l'  orto  e  vo- 
lesseci  rimanere  (Bocc.  nella  novella  di  Masetto),  il  qual  ultimo  esempio  è  il  più  con- 
chiusivo,  perchè  essendo  il  verbo  al  congiuntivo,  meno  spontanea  doveva  offrirsi 
l'analogia  colle  proposizioni  principali. 

V. 

Abbiamo  fin  qui  trovato:  a)  enclisi  costante  in  principio  di  periodo  o  di  propo- 
sizione principale  asindetica;  b)  quasi  costante  in  principale  coordinata  con  e,  ma; 
e)  concorrente  colla  proclisi  in  principale  formante  apodosi;  d)  usata  per  analogia, 
e  quindi  non  di  rigore ,  nelle  dipendenti  coordinate  asindeticamente  o  per  mezzo  di 
e,  ma  senza  ripetizione  del  pronome  ecc.  Tutte  e  quattro  le  formole  hanno  questo  di 
comune,  che  il  verbo  sta  a  capo  della  proposizione  o  è  tutt' al  più  preceduto  da  e, 
ma.  Dal  fin  qui  detto  risulta  che  nella  lingua  antica  v'ha  un  caso  (formola  a),  in 
cui  la  proclisi  è  esclusa;  aggiungiamo  ora  che  non  ve  ne  ha  nessuno,  in  cui  l'enclisi 
sia  assolutamente  vietata.  Giacché,  sebbene  in  tutte  le  costrazioni  non  spettanti  alle 
quattro  formole  succitate  a  —  d  la  proclisi  sin.  la  collocazione  normale,  nondimeno 
l'enclisi  è  permessa.  Lo  huon  maestro  mi  cominciò  a  dire  era  ed  è  il  modo  più  comune; 
ma  nulla  vietò  a  Dante  dire  cominciommi,  che  solo  gli  cadeva  bene  nel  verso.  Nondi- 
meno giova  notare  che  di  cotal  enclisi  facoltativa  gli  antichi  poeti  fecero  uso  molto 


—  261  — 

parcamente,  e  pei'  lo  più  stretti  dalla  necessità  del  verso,  e  gli  scrittori  in  prosa 
(fra  questi  anche  il  Boccaccio,  che  fu  pur  così  studioso  dalla  varietà  e  del  numero) 
non  r  adoperarono  che  molto  di  rado.  Appena  più  tardi  cominciò  a  parere  elegante 
il  posporre  il  pronome  al  verbo.  Ai  giorni  nostri  alcuni  scrittori  si  piacciono  ancora 
di  un  tale  vezzo;  '  i  più  1'  hanno  smesso  o  del  tutto  o  quasi. 

La  tendenza  degli  antichi  a  preferire  la  proclisi  per  entro  alla  proposizione  si 
manifesta  chiara  all' imperativo.  Dicevano,  come  sappiamo:  AjiUatemij  ma  nori  appena 
al  verbo  stava  innanzi  alcuna  parola  (anche  monosillaba)  preferivano  di  gran  lunga 
la  proclisi:  Con  ■plaìujare  e  con  lutto  ti  rimani,  Un  jìoco  mi  favella,  Or  m  ajutate,  tu.  ' 
ne  conduci.^  Tutti  esempii  tolti  alla  Divina  Commedia,  che  ne  ha  una  cinquantina, 
di  fronte  ad  uno  solo  coli' enclisi  facoltativa:  senza  scorta  andianci  soli  (Lai.  XXI, 
128).  Né  altrimenti  in  prosa.  Quando  poi  l' uso  antico  si  venne  modificando ,  a  quel 
modo  che  da  un  lato  F  enclisi  obbligatoria  cedette  il  campo  alla  proclisi  nelle  frasi 
affermative,  interrogative,  imperative  di  terza  persona  {Lo  vidi.  T'ho  io...?,  Ti  piac- 
cia) cosi  dall'  altro  allargò  i  suoi  confini  nelle  imperative  col  verbo  di  prima  o  se- 
conda persona;  noi  usiamo  non  solo  Ditemi,  ma  altresì:  Or  ditemi.  Un  rudere  però 
dell'uso  antico  l'abbiamo  ancora  quando  la  negativa  non  precede  il  verbo;  gli  an- 
tichi dicevano:  Non  lo  fy'iftofe per  quello  stesso  motivo  per  cui  dicevano:  Orlo  ajutate; 
più  tardi  la  collocazione  del  pronome  si  conformò  nel  secondo  caso  a  quella  di  Aiu- 
tatelo; nel  primo  resistette  all'  analogia  e  si  mantenne  fedele  all'  antico  uso. 

Ho  finito;  e  mi  resta  solo  di  chiedere  se  alcuno  prima  di  me  abbia  fatto  le  me- 
desime osservazioni  rispetto  all'  italiano.  In  tal  caso  mi  devo  rassegnare  a  sentirmi 
dire:  Sapevamcelo  (che,  per  finire  come  s'è  cominciato,  ci  rappresenta  l'antica  en- 
clisi obbligatoria  in  luogo  del  Ce  lo  sapevamo  moderno). 

A.  Mdssapia. 


'  Ed  è  facile  oaserv.are  che  anche  qui,  come  in  principio  di  proposizione.  Tuso  delF  enclisi  si  ristringe  al 
pronome  riflessivo. 

'  Qui  tu  non  è  vocativo  ,  ma  nominativo. 

■'Non  è  tropo  dire  che  e,  ma  non  solo  consentono,  ma  prediligono  e  forse  esigono  l'enclisi:  e  dimìni, 
ma  dimmi. 


ETYMOLOdIAS  POPULARES  PORTUGUESAS. 


Milito  se  tem  escrito  jà  sobre  etijmologias  pojyulares,  porque  este  processo  en- 
contra-se  era  todos  os  tempos  e  eni  todas  as  lingoas,  cultas  e  selvagens.  Dispensando- 
me  de  fazer  urna  reseuha  bibliograpliica  do.  que  conhe9o  directa  e  indirecfcamente  a 
respeito  de  outros  joaises,  basta  que,  pelo  que  se  refere  a  Portugal,  mencione  o  im- 
portante traballio  do  sr.  F.  Adolpho  Coelho,  Questòns  da  UmjHa  porùifjucza  (Porto  e 
Braga,  1874),  onde,  de  pag.  109  a  126,  se  reimem  varios  exemplos  portugueses  (e 
extrangeiros).A  mina  porém  é  tao  vasta,  que  nào  póde  ser  explorada  de  urna  so  vez. 
Eis  o  que  me  levou  a  accumular  aqui  mais  alguns  materiaes. 

A  cti/mologia  popular  funda-se  numa  analogia ,  proxima  ou  remota ,  de  som  entre 
a  palavra  dada  e  outra  que  se  conhece  melhor.  Umas  vezes  a  palavra  primi- 
tiva desappareceii  completamente  e  aclia-se  substituida  pela  que  se  Ihe  aproxima 
(vid.  §43,  etc);  outras  vezes  a  palavra  ou  phrase  nova  tem  apenas  um  sentido  iro- 
nico e  coexiste  com  a  primeira  (§  1,  etc);  outras  vezes  ainda,  a  expressào  inno- 
vada  existe  unicamente  corno  explicaoào  da  primitiva,  o  que  acontece  com  a  inter- 
pretacào  do  grito  dos  animaes  (§  39,  etc.)  e  com  a  de  alguns  nomes  de  terras  (§  28,  etc); 
finalmente  o  desejo  de  evitar  urna  palavra,  ou  porque  sòa  mal,  ou  porque  a  sua 
pronuncia  se  liga  superstipào,  faz  usar  outra  (§  61).  '  0  processo  funda-se  frequen- 
temente tambem  na  decomposicào  do  nome  em  elementos  que  podem  ter  indepen- 
dencia  (§  30 ,  etc).  Nelle  se  baseia  em  parte  a  existencia  dos  trocadilhos ,  das  cliara- 
das  e  ainda  de  algumas  adivinhas  populares;'  os  trocadilhos  podem  resultar  tambem 
de  uma  agglutinacào  de  fórmas.  Usào-se  actualmente,  comò  pseudonymos  de  aucto- 
res,  palavras  decompostas  da  mesma  maneira,  por  exemplo  Victor  no  ar  (=  Victor 
noir).  Tambem  jà  tenho  \isto  escrito  inconscientemeute  Santo  Me  [=  S.  Thomé). 

Em  vista  d'isto ,  sou  levado  a  dividir  o  meu  traballio  em  dois  capitulos  corre- 
spondentes  aos  graus  em  que  creio  se  divido  naturalmente  o  processo  da  etymolo- 
gia  popular: 

I.  Efymologias  pojndares  do  primeiro  gran.  Comprehendo  as  palavras  ou  phrases 
em  que  o  sentido  actual  se  nào  obscureceu  ainda ,  em  que  a  formacào  è  perfeitamente 


'  Notare!  de   passagem  que  na  explicanao  do  onomastico  entrilo    de   ordinario  reis  ou   altos   personagens 
(§  29,  etc.).  E'  que  o.s  povos,  conio  os  individuos,  procurao  sempre  remontar-se  a  uma  origem  nobre. 
'  Cfr.  està  adivinha  ijopular  de  Rezende: 

No  rochedo  bate  o  mar;  \ 

A  cabra  no  monto  diz:  me; 

O  musico  na  solfa  diz:  h7 ; 

O  pobre  c'o  pau  nas  pedrasdiz:  da. 


marmelaila. 


—  264  — 

consciente.  Sub  divide- se  em  varios  grupos,  conforme  o  sentido  se  toma  em  boa  cu 
em  ma  parte; 

II.  Etymologias  ^^ojndarfs  do  segundo  (jynu.  Compreliende  as  palavras  ou  plirases 
em  que  o  sentido  se  perdeu,  em  que  a  formaoào  é,  ou  pelo  menos  se  revela  lioje,' 
perfeitamente  inconsciente. 

0  primeiro  caso  póde  por  ventura  às  vezes  ser  a  causa  da  existencia  do  segundo. 

Quando  se  follieiào  os  auctores  que  se  occupàrào  da  chorographia  portuguesa, 
a  cada  passo  se  encontrào  etymologias  que  se  baseiào  no  mesmo  processo  da  ety- 
mologia  popular.  Por  exemplo:  um  explica  Guimaràes  por  via  maris,  porque  a  fórma 
archaica  é  Vimaranes;  outro  explica  Laboveiro  por  lahor  (mas  a  fórma  archaica  é  Le- 
ioreiro,  que  assenta  no  lat.  lepovarium)\  outro  explica  Avellada  por  «  ave,  leda!  »,  mas 
a  verdadeira  etymologia  é  *  avellanda,  por"  avellanetum,  de  avellana;  entro  explica 
Covellas  por  covas  beUas,  quando  a  etymologia  é  so  covas  (Covellas  é  um  deminutivo). 
Podiào  multi plicar-se  os  exemplos.  Estas  explicacòes  sào  puramente  eruditas,  nào  se 
transmittirào  ao  povo.  A's  vezes  poi'émo  processo  em  questào  gauhou  raizes  profundas: 
assim  o  brasào  d  armas  da  villa  de  Chai:es  è  um  escudo  com  chaves,  corno  se  o  nome 
viesse  do  substautivo  commum,  quando  elle  vem  de  ^[(juae  Flavlae,  que  é  a  fórma 
archaica. 

Foi  a  proposito  do  segundo  capitulo  que  o  sr.  F.  A.  Coelho  escreveu  no  seu 
precitado  livro.  0  primeiro  caso  nào  està  aiuda  estudado,  coni  especialidade  o  que 
respeita  às  expressòes  tomadas  a  ma  parte:  por  isso  o  meu  traballio  offerecerà  al- 
guma  no\ddade  aos  leitores. 

I. 

Etymologias  do  primeiro  grau. 

A.  —  Palavras  e  expressòes  ironicas,  od  por  simples  ch.alai;'a. 

1)  Cura-cestas  por  coracào] 

2)  Ouvi  a  tins  rapazes  no  Porto  «  na  minlia  stdva-cestas  »  por  «  na  minha 
salvacelo  »,  que  é  a  fòrmula  usual.de  uma  jura; 

2')  Tanibem  se  diz  Conceicsstas  (com-seis-cestas)  por  Coitcekào.  A  termina^ào 
-cào  è  nas  etymologias  populares  substituida  por  cestas. 

3)  «  Vou-me  em  hotas  »  por  «  vou-ine  embora.  »  Tambem,  por  extensilo,  se  diz 
às  vezes:  «  vou-me  em  butes.  » 

4)  Na  Beira-Alla,  na  occasiào  dos  leilòes  que  se  fazeni  para  arranjar  dinheiro 
para  as  fostas,  o  leiloeiro,  que  ó  de  ordinario  uni  homem  folgasào,  diz:  «  jà  dào 
■vinte  ciscu.f!  »  ,  em  vez  de  «  jà  dào  vinte  ciuco  [reis]!  » 

5)  Tambem  às  vezes  se  diz  «  pois  cinco  »  em  vez  de  «  pois  cim.  » 

li)  <•  Minhas  manan»  por  «  minlias  inàos.  »  Aqui  ha  talvez  influencia  do 
latim  vianun. 

7)  Os  palha90s,  quando  entrào  om  scena,  nas  comedias,  saùdào  os  expectadores 
dizendo:  «  Meus  cebolos  e  minhas  ceholas  »  em  vez  de  scnhorcs  e  ncnhoras  (Beira-Alta). 


—  265  — 

8)  No  Alemtejo:  scm  ceronins  por  siiìi  scnhor. 

9)  Em  comprimentos :  «  pastou  bem?  »  em  vez  de  «  passou  bem?  ». 

10)  De  alg'uem  que  sabc  latim  diz-se  que  «  sabe  latir.  » 

11)  Em  Elvas: 

Nào  facja  cachaco, 
Que  tudo  é  pescoso. 

Aqui  cachago  representa  caso. 

12)  Burros  assados  em  vez  de  rebugados,  porque  a  fórma  popular  de  rebugados 
é  algures  burrugados. 

13)  Testa  de  burra  por  testemunJia. 

14)  Vossa  insolencia  por  vosi^n  excellencia:  em  tractamento. 

15)  Nas  aulas  de  historia  os  estudantes  dizem  por  graca  Zé  da  véstia  em  vez 
de  Zend-Avcsta.  A  expressao  Zé  da  véstia  (  =  José  da  véstia)  é  multo  vulgar  para 
escarnecer  de  alguem  que  é  um  fraca  figura,  etc; 

16)  A's  vezes  a  analogia  ó  so  na  terminacào^como  em  ni  Jasuhas!  (-uvas)  por 
ai  Jesus!  A  fórma  popular  de  Jesus  é  Jasus  e  de  tivas  é  ubas. — Tambem  ;S.  Bhiula- 
'niego  (etym.  do  2'^  gran)  por  S.  Bartholomeu.  Lamego  è  urna  cidade;  na  primeira  parte, 
porém,  d'ésta  riltima  póde  entrar  Berto  (=  Alberto). 

17)  Nas  reparticòes  diz-se  saca-trapo  por  secretano  (Beira-Alta). 

18)  Ao  Diario  do  Governo.,  que  ó  a  foiba  officiai,  chama-se  Diabo  do  Governo. 

19)  A  phrase  do  Evangelbo  jjarabolam  itane  é  traduzida  por  jìaremos  aqui. 

20)  Outra  phrase  do  Evangelbo  cunctis  diebus  traduz-se:  com  toclos  os  diabos. 

21)  A  expressao  de  Cicero  «  0  tempora!  o  mores!  »  traduz-se  assim:  «  ó  tempo 
das  amo  ras!  ». 

22)  A  expressao  de  Vergilio  arma  virumque  cerno  alguem  a  traduziu  por  armo, 
de  vareta  e  cano. 

23)  A  urna  apostilla  os  estudantes  cbamào  pastilha  (Porto). 

24)  0  escriptor  C.  Castello-Branco  escreveu  um  livro  A  pirinceza  Eatazana, 
onde  o  nome  provém  de  Rateizzi  (por  causa  de  urna  questSo  que  andou  na  im- 
prensa). 

25)  A  plirase  da  ladainha  fidelis  arca  é  interpretada  por  féde-lhe  nas  ancas. 

26)  Os  empregados  de  um  lyceu  cliamavào  por  graca  aula  do  Gregorio  a  aula 
de  grego. 

27)  Diz-se:  '^  Alma  até  Ahneida  »  por:  «  é  preciso  ter  animo!».  Almeida  é 
uma  praca.  —  Ha  aqui  influencia  de  rima  allitterante. 

27)  No  AJemtejo:  dorme  no  esterco  por  Dominus  tecum. 

B.  —  ExPLICAgÒES  DE  NOMES  DE    TEREAS. 

Apezar  de  talvez  poitcas  terras  haver,  de  cujos  nomes  o  povo  nào  de  uma  expli- 
cacào ,  raros  exemplos  posso  aqui  reiinir  : 

28)  0  nome  Briteande  (Beira-Alta)  explica-se  assim  :  Era  uma  vez  um  rei  que 
passou  por  um  sitio   na    occasiào  em  que    um    lavrador  andava    a    varejar   uma 


—  266  - 

nogueira.  O  pobre  homem  offereceu  nozes  a  urti  dos  da  comitiva  real,  e,  corno  este 
acceitasse,  o  rei  disse-Ihe: 

—  Conde,  Brite  e  anele  (Briteande).  —  D'aqui  o  nome  da  povoacào. 

29)  0  nome  de  Crescido  (Beira-Alta)  explica-se  d'este  modo:  Um  rei,  visitando 
um  certo  iidalgo,  exclamou  ao  reparar  no  desenvolvimento  physico  de  nm  filho  do 
fidalgo: — Ah!  està  crescici». 

BO)  Ancéde.  0  nome  d'està  terra  é  explicado  assim:  0  rei  D.  Alfonso  I  disse: 
«  Supposto  que  os  conegos  hào  sede,  mudem  o  mosteiro  »  (Apud  Chorogr.  Port.  do 
Padre  Carvallo,  pag.  359,  voi.  I,  2*  ed.).  Està  explicacào  é  ainda  dada,  pouco  mais 
ou  menos,  pelos  habitantes  da  loealidade;  por  isso  a  incluo  aqui.  Em  todo  o  caso,  a 
etymologia  verdadeira  parece  ser  o  lat.  anicetum.  Sào  multo  numerosos  os  nomes  ti- 
rados  da  flora. 

31)  Cammello.  E'  explicado  por  cào  coni  pelo.  A  verdadeira  etym.  é  campo,  de 
que  Campello  é  um  deminutivo. 

32)  Penajoia.  Tem  duas  explicacòes,  urna  populnr,  nutra  erudita.  A  popular 
diz  :  «  Passou  uma  vez  naquelles  sitios  uma  rainha  a  cavallo ,  e  deixou  cahir  ao 
chào  uma  joia;  um  dos  da  comitiva  disse  entào:  —  0  cavallo  tem  o  pé  na  jóia  ».  A 
erudita  explica  o  nome  pelo  lat.  paene:  Penajoia  seria  pois  quasi  uma  joia.  A  verda- 
deira etymologia  é  obsoura. 

33)  Alijó.  Ha  uma  lenda  em  que  se  diz  «  Alli  Job  » ,  o  que  explica  entre  o 
povo  o  nome.  A  etymologia  verdadeira  nào.é  està  evidentemente.  Alijó  parece  ser 
um  deminutivo,  comò  grande  numero  de  nomes  terminados  em  o  e  ó;  os  em  o  sào 
geralmente  femininos,  os  em  ó  masculinos.  Ha  outras  fórmas,  verosimilmente  vizi- 
nhas  do  nome  em  questào,  taes  corno  Lajó,  Alijóla  e  Lijó.  A  arvore  genealogica  póde 
reconstruir-s6  assim  : 


Laja 

ì 

1 
*Lajola 

r 
'Alajola 

*  Lajóa 

'l 

'  Alaijola 

1 

1 
Lajó 

1 

l. 

'Aleijola 

1 

) 
~  Laijó 

i 

'Alejola 

1 

1 
*Leijó 
"l 

Alijóla 

'  1 

1  _ 
*  Lejó 
'l 

1 
'  Alijóa 

1 

1 
Lijó 

1 
Alijó 

E  certo  que  Lijó  tanto  póde  provir  de  Lajó,  por  um  desenvolvimento  phone- 
tico,  comò  do  Alijó  por  apherese,  poisque  a  apherese  e  a  prosthese  do  «  sào  vulgares 
nos  nomes  de  terras.  Em  vez  de  laja,  podemos  tambem  admittir  laija  (fómia  pò- 


—  267  — 

pulai"  nos  dialectos  do  Norte)  para  Alijóla,  AUjó  e  Lijó,  vindo  laja  apenas  a  ser  o 
etymon  de  Lajó;  mas  nào  vale  a  pena  entrar  em  minuciosidades. 

34)  0  nomo  de  urna  quinta  Filhadella  explica-se  popiilarmente  por  urna 
landa  em  que  entra,  Jìlha  d'ella;  mas  aqnelle  nome  é  um  demiuutivo  do  port.  ardi. 
filhada. 

35)  0  nome  de  terra  S.  Fedro  de  Rates  é  explicado  por  i\ma  lenda  popnlar, 
segando  a  qual  appareceu  na  cabeca  de  S.  Fedro ,  quando  morto ,  um  ninho  de  ratos. 
Vid.  o  meu  livro  Tradigòes  pop.  de  Portugal,  §  ICA. 

36)  Alemquer.  Como  a  respeito  de  Cìiaves,  as  armas  da  villa  de  Alemquer  rela- 
cionào-se  com  a  etymologia  popnlar.  Diz  o  P.''  Carvalho:  «  ....  tem  por  armas  as 
reaes  com  kum  cào  pardo  ao  pé,  que  chamavào  Alào,  o  qual  vigiava  a  villa  no 
tempo  que  os  Mouros  erào  senhores  della,  &  quando  os  Christàos  a  tomàrào  (de  que 
ha  tradicào  ser  em  Imma  manhàa  de  S.  Joào,  indo-se  elles  banliar  ao  Tejo,  &  fazer 
suas  correiias)  o  dito  cào  se  calou,  &  fez  tanta  festa,  que  disse  El-Rey  D.  Affonso 
Henriques:  «  0  Alào  quer»;  donde  com  pouca  corrupcào  tomou  a  Villa  o  nome  » 
Corografia  port..!  Ili,  39).  Segundo  o  costume  nas  leudas  mouriscas,  a  accào  passa-se 
na  epocha  do  S.  Joào. 

37)  Adrào,  povo  no  Alto-Minho,  tira,  segundo  o  povo,  o  nome  de  um  ladrào 
que  em  eras  remotas  alli  viveu.  Vid.  o  meu  opusculo  Urna  exmrsào  ao  Soajo,  pag.  17. 

38)  Soajo,  povo  no  Alto-Minho,  chama-se  assim,  conforme  a  lenda,  por  ser 
so  em  tudo,isto  é,  por  ter  sido  fundado  sòsinho,  e  porque,  quando  elle  nào  dà 
fructos,  tambem  as  outras  localidades  os  nào  dào.  Vid.  o  cit.  op.,  pag.  9. 

C.  —  iNTEEPRETAgÀO  DO  GEITO  DOS  ANIMAES. 

Nas  minhas  Tradigòes  p)opulares  de  Portugal  reuni  varios  exemplos.   Vou  para 
aqui  transcrever  alguns,  apenas  para  abrir  o  quadro,  e  nào  para  o  preencher. 

39)  Quando  Christo  naseeu,  o  gallo  disse:  Jesus-Christo  é  na....a....d....do  (nado) 
D'aqui  a  siia  lingoagem.  —  Outros  explicào  a  lingoagem  do  gallo ,  dizendo  que  elle 
disse  de  Christo:  Coroado! 

40)  0  grito  da  codorniz  provém  de  que  ella  disse  uma  vez  ao  sapo:  fem-te  la! 
tem-te  la! 

41)  0  grito  do  corvo  jirovém  de  que  elle  disse  uma  vez:  scala!  scaha! 

42)  Quando  Cain  matou  Abel,  o  cao  foi  pelo  mundo  fora  a  dizer:  Cain....  Cain.... 
D'aqui  o  seu  grito,  quando  Ihe  batem,  grito  que  na  Beira  se  chama  cainhar  (do  lat. 
caninus). 

Segundo  a  crenca  popular  portugueza,  estes  factos  succedérào  no  principio  do 
mundo,  quando  tudo  fallava. 


268  — 


II. 


ETYMOLOGIAS  DO  SEGUNDO  GRAD. 


43)  0  uome  Santo  Ovidio  é  traduzido  por  Santo  Ouhldo.  0  povo  accrescenta 
que  Santo  Oubido  é  advogado  das  dòres  nos  otibidos  (ouvidos). 

44)  Tenho  ouvido  vàrias  vezes  dizer  Villa-menhà  por  Villa-Meà.  Póde  haver 
aqiii  um  phenomeno  de  etymologia  popular,  poisque  diz-se  algures  menhà  evo.  vez  de 
manlià.  Jà  F.  Manoel  de  Mello,  Apologos  Dialogaes,  ed.  de  1721,  pag.  28,  etc. ,  teni 
menhàa.  A  mesma  fórma  a^^parece  noutros  A. A. 

45)  0  povo  diz  sempre  Migalhada  em  vez  de  Mealhada,  por  influèucia  de  mi- 
gallia.  Egualmente  se  diz,  e  às  vezes  se  escreve,  migalheiro  por  mealheiro. 

46)  Ha  urna  siipersticào  em  que  entra  urna  mào  dejlnado;  o  povo  cliama-lhe 
mào  finada  e  mào  refinada.  Vid.  as  minlias  Trad.  pop.  de  Pori. ,  §  342-cM,  etc. 

47)  Ha  no  Porto  uma  rua  chamada  do  Paco  Episcopal;  o  povo  diz  Fisco  Paulo, 
corno  tenho  ouvido  às  vezes. 

48)  O  povo  diz  se-me-sugas  em  vez  de  sanguesugas.  Numa  cantiga  popular  do 
Minho  entra  por  exemplo  essa  palavra: 

O'meu  amor,  binho!  binho! 
Q'  eu  augua  num  sei  bnber: 

A-i-augua  tem  se-vie-sugas, 
Tenlio  niedo  de  moi-rer.... 

49)  E'  multo  vulgar  Beijamim  (beija-mim)  por  Benjamim. 

50)  Diz-se  dedo  menino  por  dedo  mendinho  on  minimo. 

51)  Em  Entre-Donro-e-Mlnho  diz-se  Mangalona  (mauga-lona)  em  logar  de 
Magalona.  Tambem  na  Beira-Alta. 

52)  Na  Beira  usa-se  multo  cristà  por  questào.  Parece  haver  aqul  uma  Influen- 
cia  de  christà. 

53)  Ne  portugués  do  Brazil  diz-se  tres-só  por  trecd  ou  tì^ecó.  Cfr.  as  minhas 
Trad.  jioj).  de  Pori.,  %  22.  — •  Na  Beira  diz-se  tressólho  {-6lho)\  cfr.  §  16. 

54)  No  Compendio  de  Orthografia  do  P.«  Monte  Carmelo,  Lisboa  1767,  dào-se 
a  pag.  516,  Aitar  do  cham  e  Altarpedrùso  comò  as  fórmas  populares  de  Alter  do  Cimo 
e  Alter  Pedroso.  Ha  influencia  de  aitar. 

55)  0  mesmo  auctor  traz  hrutcsca  por  grutesca:  pag.  88.  Ha  influencia  de  bruto. 
Assim  comò  a  analogia  póde  ser  no  firn  (§  16),  tambem,  comò  aqui,  póde  ser  so 
no  principio. 

56)  E'  vulgarissimo  sanchristào  (sa  christào)  por  sachristào.  D.  Francisco  Ma- 
noel de  Mello,  Ajml.  Dialog.,  ed.  1721,  pag.  6,  tem  sanchristào.  —  Cfr.  tambem  F.  José 
Freire,  Refiexòes  sobre  a  linq.  ptort.  Lisboa,  1842,  pag.  136  (sancristia^  sancristào). 


—  269  — 

57)  No  Cadaval  (Extremaclura)  cliz-se  Suiitauds  por  Satcmaz.  Ha  influencia  de 
santa  ou  talvez  santo  Ands. 

58)  No  dialecto  brazileiro  existe  alinstas  pòi'  alvicaras.  Influencia  de  vistas. 

59)  Ao  resar  a  ladaiuha  diz-se  inconscientemente  ju  nu'  ha  ceù  {=  ja  nào  ha 
ceu)  por  janua  codi.  Em  andaluz  dà-se  o  mesmo  phenomeno. 

60)  Diz-se  fillio  faminto  por  filho-familia. 

GÌ)  Por  eupliemismo  diz-se  Demontes  (de  montesj  em  vez  de  J)iaùo,  o  jjuxa  em 
vez  de  urna  palavra  obscena.  Na  iiltima  palavra,  que  so  oiivi,  mas  a  mnita  gente, 
no  Cadaval,  ha  talvez  ainda  consciencia  da  substituicào. 

Fora-me  impossivel  rennir  aqui  todos  os  casos  que  tenho  observado  de  etymo- 
logias  populares.  EUes  sào  multo  numerosos. 

Vè-se  que  as  fòrcas  da  lingoagem  estào  constantemente  em  accào ,  e  que  aquillo 
que,  a  primeira  inspeccào,  se  afigura  uma  simples  curiosidade,  ou  um  facto  inexpli- 
cavel,  é,  em  ùltima  anàlyse,  mais  uma  demonstracào  fecunda  da  regularidade  das 
leis  a  que  obedece  o  cérebro  do  homem. 


J.  Leite  de  Vasconcellos. 


UN  MAZZETTO  DI  POESIE  MUSICALI  ERANCESI. 


Nella  biblioteca  comunale  di  Cortona,  coi  numeri  95-96,  si  conservano  due  codicetti  mem- 
branacei entrati  in  quella  libreria  solo  nel  1879.  Essi  contengono  64  pezzi  di  musica,  con  la 
notazione  sovrapposta  alle  parole.  L'uno  dei  due  codici  (il  96)  è  per  voce  di  soprano;  l'altro 
(il  95)  per  voce  di  contralto.  Ne  diede  notizia  Girolamo  Mancini  '  con  quella  scrupolosa  esat- 
tezza e  quella  critica  illuminata  cbe  è  propria  a  tutti  i  suoi  lavori. 

Occupandomi  io  da  qualche  tempo  delle  intavolature  musicali  anticbe  a  stampa  e  manoscritte 
(intorno  alle  quali  darò  quandochessia  un  lavoro  cbe  mi  lusingo  possa  riuscire  vantaggioso) 
ebbi  vaghezza  di  conoscere  più  da  vicino  1  due  codicetti  di  Cortona,  ed  il  signor  Mancini,  con 
cortesia  squisitissima,  me  ne  mandò  senz'  altro  la  copia  eh'  ei  ne  avea  tratta.  Più  tardi,  mi  recai 
io  medesimo  a  Cortona  e  potei  esaminare  personalmente  i  manoscritti.  Dei  quali  non  credo 
inutile  il  riferire  qui  la  parte  più  rilevante,  le  canzonette  francesi,  che  vi  sono  numerose. 
Prima  peraltro  che  io  dica  di  esse  qualche  parola,  mi  si  conceda  di  intrattenermi  brevemente 
nella  descrizione  dei  due  codici  e  sulle  poesie  non  francesi  che  in  essi  si  trovano. 


I  volumetti  hanno  la  dimensione  122X175.  Quello  per  soprano  ha  due  carte  con  l'in- 
dice, non  numerate,  74  scritte  e  14  coi  righi  musicali  senza  note  né  scritto.  L'  altro  codice 
ha  pure  due  carte  non  numerate  con  l' indice,  77  numerate  con  scritto  e  note  musicali  e  13 
coi  righi  musicali  senza  parole  né  note.  Nel  libretto  del  soprano  si  vedono  a  e.  38  e  60  due 
iniziali  miniate  ben  grandi,  la  prima  con  lo  stemma  della  famiglia  Medici  di  Firenze;  la  se- 
conda con  un  cane  disteso  e  legato  ad  un  albero  con  la  scritta  costante.  lu  capo  al  libretto 
vi  è  miniata  una  iniziale  alquanto  più  piccola  delle  due  descritte,  ma  maggiore  delle  altre  69 
iniziali  miniate  sulle  carte  del  libro.  Lo  stesso  si  osserva  nel  libretto  del  contralto. 

Delle  64  composizioni  musicali  alcune  compaiono,  con  le  jjarole,  solo  in  uno  dei  due  libretti 
e  puramente  con  la  musica  nel!' altro;  di  due,  che  citerò,  si  leggono  semplicemente  i  capo- 
versi, e  sono  francesi;  *  di  altre  due'  si  hanno  le  prime  parole;  di  una  la  semplice  iniziale  /,  ' 


'   /  manoscritti  della  libreria  del  Comune  e  dell'  Accademia  Elrusca  di  Cortona,  Cortona ,  Bimbi,  18S4 ,  pag.  53-51. 

N'.  XXII  e  XXXIV,  secondo  la  numerazione  continua  dei  componimenti. 
"  N'.  XXXV  e  XL. 
'  N°.  XXVI. 


di  un'altra  infine  le  note  musicali  soltanto,  senza  parola  né  lettera  alcuna.  Una  buona  parte 
di  queste  composizioni  è  in  lingua  francese:  sono  28  canzonette,  intere  o  frammentarie,  più  le 
due  menzionate,  di  cui  ci  è  indicato  solo  il  capoverso.  Delle  altre,  cinque  sono  in  italiano  e  26 
in  latino. 

Delle  26  poesie  latine,  il  più  gran  numero  ha  carattere  religioso.  Sono  inni  sacri  o  ver- 
setti dei  salmi  e  dei  vangeli.  Due  delle  poesie  latine  che  non  hanno  soggetto  sacro  piangono 
la  morte  di  Lorenzo  de' Medici,  una  con  versi  di  Seneca,  l'altra  (ed  è  cosa  notevole)  con 
quelli  del  Poliziano  Quis  dàbit  capiti  meo  aquam.  '  Un'  altra  nenia  lamenta  la  morte  di  una  re- 
gina Anna  che  la  Britannia  piange  e  la  Francia,  cioè  senza  dubbio  Anna  di  Brettagna,  moglie 
in  prime  nozze  di  Carlo  Vili  re  di  Francia  e  in  seconde  nozze  di  Luigi  XII,  pure  di  Fran- 
cia. Anna  mori  il  9  gennaio  1514;  quindi  i  due  codici  sono  certamente  posteriori  a  questo 
anno.  Se  questo  è  il  termine  a  quo,  non  è  difficile  lo  stabilire  anche  il  termine  ad  q7iem , giac- 
che i  due  stemmi  medicei  ci  mostrano  essere  stati  scritti  i  due  codici  prima  che  quella  fami- 
glia, divenuta  signora  di  Firenze,  fregiasse  la  sua  arme  della  corona  ducale.  Non  andremo 
dunque  certo  molto  lungi  dal  vero  ponendo  col  Mancini  la  composizione  di  questi  codici  verso 
il  1520,  0  poco  dopo. 

Le  cinque  canzonette  italiane  non  sono  da  trascurarsi.  Di  una  (la  XL  nella  serie  generale 
di  queste  poesie)  si  leggono  qui  solo  due  parole  Palle,  palle.  Ma  queste  due  parole  ci  bastano 
l^er  farci  ravvisare  in  essa  la  canzone  Palle  palle,  viva,  viva,'\  Grida  il  mar,  la  terra, il  cielo, 
che  da  un  raro  libercoletto  antico  trasse  il  D'  Ancona.  ''  La  XIX  della  raccolta  ha  qui  solo 
questi  quattro  versi: 

Fortuna  disperata, 

iniqua  et  maladeota , 
che  di  tal  donna  electa 
la  fé'  m'  bai  dinegata. 

È  una  delle  canzoni  sulla  cui  aria  solevansi  cantare  le  laudi,"  ed  è  notevole  il  trovarla  ade- 
spota in  un  codice  del  Museo  Britannico ,  che  contiene  le  rime  del  Poliziano.  ''  —  Quattro 
versi  soli  compaiono  qui  pure  della  XXIX: 

Che  fa  la  ramanzina , 

dell  che  fa  che  la  non  vien  ; 

o  car  amor, 

deh  che  fa  che  la  non  vien. 

Questa  ricorre  nel  Libro   quarto  degli  Stramhotti,  ode,  frottole  del  Petrucci  (1505)  e  nel  Li- 


•    '  N».  LXI. 

-  Vedi  Mancini,  Op.  e  loc.  cit.  Cfr.  Del  Lungo,  Prose  volgari  inedite  e  poesie  latine  e  greche  edite  ed  inedite  del 
Poliziano,  Firenze,  1867,  pag.  274. 

'  N".  LIX.  La  nenia  fu  dal  Mancini  riprodotta  intera. 

'  La  poesia  pop.  italiana,  Livorno ,  1878,  pag.  55. 

'  Cfr.  D'Ancona,  Op.  cit.,  pag.  -1336  Alvisi,  Canzonette  anticìie,  Firenze,  18^,  pag.  92.  È  noto  come  i  primi  a 
raccogliere  i  capoversi  dello  canzoni  popolari  sulla  cui  aria  si  cantavano  le  laudi  siano  stati,  inilipendentomente 
credo,  il  Settembrini  nelle  Lezioni  (cfr.  7"  ediz.,  Napoli  1881, 1,  303),  e  il  D'  Ancona,  prima"  nella  lìivista  ili  Fi7'e7ize, 
e  poi  nella  Rivista  contemporanea ,  XXX,  387  7i.  Quindi  uscì  la  prima  tavola  del  D'  Ancona  nella  Poesia  popolare  e 
finalmente  quella  dell' Alvisi.  Ma  per  questa,  come  per  tutte  le  altro  pertinenze  della  poesia  antica  popolare,  c'è 
ancora  da  faro  moltissimo.  Lode,  ciò  non  ostante,  sempre  agli  iniziatori. 

'  Ms.  16439  del  Museo  Britannico,  già  Chigiano  M.  IV.  81.  Canzonetta  intonata  antica  è  ivi  chiamata  dalla  dida- 


—  273  — 

hro  nono  delle  Frottole,  del  medesimo  Petrucci  .(1508).'  —  La  XXI  è  un  contrasto,  su 
motivo  molto  amato  dal  popolo  : 

Donna,  di  dentro  dalla  tua  casa 
sou  rose,  gigli  et  iìori; 
tutto  uomo  che  1'  annasa 
ne  sente  ghusto  al  core. 
Fortuna  d'  un  gran  tempo , 
dammi  una  rosa. 
—  Totela,  o  perla  preziosa. 
Dammene  un  poco 
di  quella  mazacroclia 
0  non  me  ne  dar  troppa, 
dammene  un  poco 
et  dammela  ben  chotta. 

Altrove  questa  canzone  non  vidi,  ma  che  essa  generalmente  si  chiamasse  la  canzone  della 
mazzacrocca,  parmi  poterlo  arguire  dal  trovarsi  rammentata  nel  centone  bolognese  pubblicato 
dal  Ferrari  '"   e  anche  in  nn  principio  di  centone   che   costituisce   la   XX   poesia   dei  codici 

cortonesi  : 

Vidi  la  forosetta  in  un  bosclietto. 

Cile  mangierà  la  sposa  una  fagiana  grigia. 
Ghiere,  ghiere,  ballate  ciascherc. 
Levantcus,  donna  Johanna, 
Levanteus  a  far  del  pan. 
Fardandiruudina,  se  1'  orso  non  ritorna. 
Dammene  un  poco  di  quella  mazaoroca. 


soalia.  Vedi  Casini,  Opere  volgari  di  M.  Angelo  Ambrogiiii  rolizinno,  Firenze,  ]88;5,  pag.  xii.  Il  jirincipio  di  questa 
canzone  trovasi  pare  nei  ood.  musicale  G.  20  della  bibl.  comunale  di  Perugia,  del  quale  avrò  a  discorrere  in  altro 
luogo.  E  a  e.  91  ?',  ed  ecco  quello  che  ne  è  riferito  molto  corrottamente: 

Fortuna  disperata 

iniqua  et  maledecta 

che  datai  domna  electa 

la  fama  ai  denegata 

fortuna  disperata. 
O  morte  di.spietata 

iniqua  et  crudele 

che  alta  più  che  stella 

ma  siahassata 

meschina  et  des^iletata 

ben  piangere  possomay 

et  descoprire  li  mei  guay. 

Quantunque  siano  uniti  nella  intavolatura,  sembrerebbero  principi  di  due  canzoni  diverse;  ma  e  da  osservare  che 
in  questo  caso  la  seconda  non  avrebbe  nulla  a  che  fare  con  la  canzonetta  0  morte  dispieiaia^  sulla  cui  aria  sì 
intonava  una  laude  (Alvisi ,  Canzonette,  pag.  106)  e  che  il  D'Ancona  {Poesia  pop.,  pag.  87)  riferisce  intera. 

'  Cfr.  le  tavole  di  queste  rarissime  stampo  musicali,  pubblicate  con  ottimo  pensiei-o  dal  Vernarecci,  Otta- 
viano de'  Petrucci  da  Fossombrone  inventore  dei  tipi  mobili  metallici  fusi  della  musica',  Bologna,  1872,  pag.  256,  f.  SO  e 
pag.  267,  f.  39.  —  V  è  anche  la  canzone  Fortuna  disperala;  cfr.  pag.  241,  f.  69  e  pag.  243,  f.  127. 

"  Chi  vuol  spazar  camin ,  la  viazacroca,  dice  il  prezioso  centone  della  Universitaria  di  Bologna.  E  il  Ferrari 
nota:  <  Mazacroca  è  un  vocabolo,  credo,  zingaresco,  di  cui  non  so  il  vero  valore.  Lo  trovo  ancora  in  un  sonetto  del 
»  Pistoia.  >  (V.  Docum.  per  servire  all'  istoria  dellapoesia  semipopolare  cittadina  in  Italia,  nel  Propugnai.,  XIII,  I,  445). 
Il  Pistoia  (secondo  l' unico  testo  modenese)  dice  di  un  eavallo  che/a  la  massacrocca  2>er  la  strada  (ediz.  Cappelli- Fer- 
rari, pag.  115)  e  qui  confesso  che  proprio  non  ci  capisco  nulla.  Per  trovare  il  significato  della  parola  mazzacrocca  io 
feci  lunghe  ricerche.  Con  1' aiuto  del  mio  amico  marchese  Adriano  Colocci,  che  con  molto  profitto  si  occupa  dei 
gerghi  zingareschi,  cercai  prima  se  fra  gli  attuali  zingari  d'Italia  vi  fosse  nulla  di  simile.  Ciò  senza  alcun  risultato, 

35. 


274 


Che  questo  sia  un  brano  di   centone,    come  la    poesia   popolare  ne  ebbe    in  tutte   le   parti 
d'Europa,  non  mi  pare  possa  mettersi  in  dubbio.  Delle  sei  canzoni  qui  rammentate,  l'ultima 


Poi  mi  rivolsi  all'  antica  lingua  furbesca,  intorno  alla  quale  scarseggiano  tanto  i  docunaenti,  e  avrei  forse  speso 
inutilmente  il  mio  tempo  anche  in  queste  ricerche,  se  per  un  caso  non  venivo  a  sapere  dal  conte  Ferraguti  che  la 
voce  mazzacrocca  è  ancor  viva  nelP  Appennino  marchigiano  e  vale  quello  che  più  comunemente  dicesi  mazzarella, 
cioè  la  verga  usata  dai  jiastori  o  vergavi.  La  mazzacrocca  è  un  bastone  di  quercia,  foggiato  a  pera  da  un'  estremità, 
e  del  vocabolo  si  spiega  facilmente  la  formazione,  poiché  crocea,  e  più  comunemente  incrocca,  vien  detta  in  tutte 
le  Marche  quella  specie  di  ghiandola,  con  cui  termina  il  fuso.  Dato  ciò,  il  canto  del  cod.  Cortonese  sarebbe  perfet- 
tamente spiegato ,  giacche  non  v'  è  dubbio,  a  me  sembra,  che  quel  contrasto  abbia  significato  osceno,  e  mentre 
r  uomo  chiede  alla  donna  la  7'osa ,  questa  gli  domanda  un  poco  di  quella  mazzacrocca  (anche  mazzafrusto  e  mazza- 
picchio ebbero  significato  osceno;  cfr.  Sacchetti,  nov.  157  o  82).  Mazzacocca  e  mazzaclocca  esistono  anche  nel- 
l'Abruzzo, come  si  impara  dal  Vocab.  dell"  uso  abritzzese  del  Finamore  e  dalla  Gramm.  e  lessico  del  dialetto  Tera- 
mano del  Savini.  Io  non  ho  trascurato  di  fare  indagini  nelle  Marche  e  nell'  Umbria;  ma  ho  dovuto  persuadermi  che 
la  voce  deve  essere  colà  di  uso  antiquato  o  assai  raro ,  poiché  è  ignota  non  solo  ai  più,  ma  perfino  ad  uno  dei  mi- 
gliori conoscitori  di  quei  dialetti,  quale  è  il  prof.  Gianaudi'ea.  Nuovi  dubbi  sul  significato  preciso  della  parola  mi 
sopravvennero  quando  trovai,  tra  le  poesie  inedite  del  Pistoia,  che  si  conservano  nel  prezioso  cod.  Trivulziano  979, 
il  seguente  sonetto  .  che  vi  ha  il  mini.  197: 

Se  amor  la  sua  balestra  al  mondo  scocca 

tra  rustici  animali  nel  porcile, 

perde  la  forza  e  fugge  in  campanile 

quando  sente  gridar  la  mazzacrocca. 
Vede  il  villan  col  j>iffaro  a  la  bocca 

e  Vener  ritornarsi  al  suo  cubile, 

stima  ogni  amante  senza  senno  e  vile 

che  mena  il  ballo  e  pur  zara  a  chi  tocca. 
A  colui  che  compose  la  dauzetta 

gli  doveva  piacer  quando  sognava 

veder  giocar  la  simia  a  la  civetta. 
Dicono  alcun  che  un  rustico  da  Pava 

1'  imparò  su  'n  un  manico  di  cetta 

da  un  greco  di  là  che  indovinava. 

Tanto  dolce  cantava 

che  per  la  invidia  che  n'  ebbe  un  alocco 

fu  da  li  dei  converso  in  mazzacrocco. 

Qui  pare  che  mazzacrocca  {fem.  di  mazzacrocco)  sia  un  uccello;  non  saprei  precisamente  quale .  a  meno  non  si  possa 
identificare  con  quello  che  in  Toscana  chiamano  oggi  croccolane  {ficolupax  major).  Cfr.  Savi,  Ornitolofjia  toscana, 
Pisa,  1829,  n,  309.  —  Comunque  sia  di  ciò ,  non  dubito  che  la  canzone  popolare  accennata  nel  centone  bolognese 
sia  precisamente  quella  che  ho  riferita.  Essa  viene  indicata  insieme  ad  uu'  altra,  che  pure  ho  rinvenuta  e  che  an- 
ch' essa  ha  significato  osceno,  Chi  vuolspazar  caini».  La  riferisco  da  ima  ignota  stampa  di  Villotte  alla  padoa,na ,  Ve- 
nezia, Rampazetto,  15G6,  che  verrà  quanto  prima  illustrata: 

O  spazza  camin, 
chi  vuol  belle  madon'  spazza'  '1  carni. 
Coi  nostri  mucegù, 
curt  e  gros  d'  ogni  rasù 
v'  intrarem  su  la  colmegna, 
spazzaren  da  paladi. 
Gnie  volen  de  vos  quatri, 
gnie  da  biver,  gnle  magna, 
sol  pensen  a  ben  spazza 
tucchi  la  canna  del  carni; 
.  sol  pensem  a  ben  spazza 

tucchi  la  canna  del  carni. 
O  spazza  carni. 

(Cfr.  il  Canto  degli  spazzacamini  nei  Carnascialeschi,  Cosmopoli ,  1750,  I,  100).  Né  deve  far  meraviglia  1"  uso  di  acceu- 


—  275 


si  identifica  col  contrasto  sopra  citato,  mentre  delle  altre  non  so  esser  nota  se  non  la  prima 
che  si  legge  nel  codice  Riccardiano  2871,  e  di  cui  si  ha  il  capoverso  nel  Chigiauo  L.  VII. 
26G,  già  577.  *  Il  secondo  capoverso  può  rammentare  il  Canto  del  foijiano  nei  Carnasciale' 
scht\  pieno  di  doppi  sensi  osceni. 


IL 


Noi  abbiamo  molte  testimonianze  della  difFusione  immensa  di  cui  le  canzonette  musicali 
francesi  godettero  in  Italia.  Una  gran  parte  dei  codici  di  poesie  popolari,  con  o  senza  intavo- 
latura, ne  contengono.  Cosi  il  celebre  Magliabechiano  strozziano  ci.  VII,  1040  ^  del  secolo 
XIV  e  XV,  ne  ha  33,  che  furono  recentemente  messe  in  luce.  *  H  568  della  Palatina  di  Mo- 
dena, scritto  in  sulla  fine  del  XIV  secolo  o  nel  principio  del  successivo,  ne  ha  undici    ^   ed 


nare  ad  un  canto  popolare  noto  con  la  parola  più  caratteristica  di  esso.  Ne  abbiamo  moltissimi  esempi.  Per  citarne 
uno  poco  o  punto  avvertito,  il  Folengo  nel  Baldo  (II,  29,  ed.  Portioli)  fa  cantare  a  Cingar  Gamhettam,  hroccam, 
passandoque per  na  rigiolam.  L'  ultima  di  queste  canzoni  non  conosco ,  ma  la  seconda  è  probabile  sia  queUa  clie  nel 
centone  bolognese  è  accennata  cosi:  Ttntina  oime  la  brocca  o  fai  ìlei  a  e  che  ho  rinvenuta  nel  Zlbaìdoncino  musicale 
della  Marucelliana  (pag.  345  della  num.  a  mano)  : 

Tintinami  la  brocha . 

chio  sento  mal  d"  amore  —  vita  mia  dolce. 

Se  la  brocha  si  rompe 

io  te  la  pagarò  —  vita  mia  dolce. 

Se  li  danar  son  falsi 

io  te  li  cambiarò  —  vita  mia  dolce. 

Su  su  a  la  montagna 

a  far  ci  bastion  —  vita  mia  dolce. 

Questa  canzone  interamente  popolare  trovasi  rimaneggiata  in  una  notevole  pastorella,  che  è  in  nn' altra  stampa 
del  sunnominato  Zibaldoncino  musicale  (pag.  305  num.  a  mano;  com.  Et  servo  che  te  adora).  La  prima  delle  can- 
zoni menzionate  dal  Folengo  si  può  identificare  con  un  contrasto  finora  ignoto  tra  la  madre  e  la  figlia,  tema  co- 
munissimo, come  ognun  sa,  della  nostra  antica  letteratura  popolare,  di  cui  v' è  il  principio  nelle  citate  VìllotU 
alla  padoana: 

—  Sentomila  formicula 

su  la  gambetta, 
madonna  mare , 
sentomi  la, 
la  fa  li  le  la. 

—  £  se  la  senti,  fia, 

deh  sping'  e  para 
che  la  gh'  andarà. 

'  Alvisi,  C'anzon.  ani  ,  pag.  122. 
'  Cfr.  Canti  carnasc,  Cosmopoli,  1750,  I,  113. 

'  Pubbl.  nella  parte  ital.  dal  Carducci,  Canili,  e  hall.;  e  dal  Ferrari,  Bibliof.  di  leti. pop.,  I,  68  segg. 
*  Da  A.  Stickney,  nella  Romania,  Vili.  73  seg;?. 

^  Pubbl.  dal  Cappelli,  Poesie  nmsi'caZirfeificc.  XIV,  XV  e  XVI  tratte  da  vari  codici,  Bologna.  18(38,  che  dà  am- 
pia notìzia  del  ms. 


—  276  — 

umane  ha  il  Laureiiziano  mediceo  palatino  87,'  e  parecchie'  il  Parigino  it.  568,'  ambedue 
scritti  nel  secolo  XV.  E  siccome  fu  antico  costume  1'  applicare  le  arie  di  canzoni  profane  a 
canti  sacri,  '  cosi  avvenne  che  molte  volte  le  nostre  laudi  si  cantassero  sulla  musica  delle  can- 
zonette francesi.  Diverse  ne  sono  registrate  nelle  tavole  del  D'  Ancona  e  dell'  Alvisi.  Ma  sicu- 
ramente i  più  ricchi  repertori  di  canzonette  francesi  sono  ancora  certe  antiche  stampe  musi- 
cali, tra  le  quali  vanno  segnalate  quelle  celebri  del  Petrucci  e  di  Andrea  Antico  da  Montona. 

Non  v'ha  dubbio,  a  parer  mio,  che  di  queste  canzonette  francesi  divenute  popolari  fra 
noi,  il  popolo  intendesse  il  senso  molto  approssimativamente.  Ciò  che  più  gli  importava  era 
r  aria;  tanto  è  vero  che  dalle  antiche  intavolature  ci  risulta  essere  state  popolari  eziandio 
alcune  canzonette  tedesche,  delle  quali  certo  volgarmente  non  si  poteva  avere  alcuna  intelli- 
genza. Questa  osservazione  spiega  assai  bene  come  e  perchè  di  solito  queste  canzonette  ol- 
tramontane giungessero  sino  a  noi  a  brandelli,  storpiate,  malconcio  in  ogni  maniera  dai  can- 
tori prima,  poi  dai  copisti  e  dai  tipografi.  Il  più  delle  volte  se  ne  hanno  solo  le  prime  strofe, 
ovvero  una  canzone  entra  in  un'altra,  ovvero  vi  si  introducono  tali  e  tante  modificazioni,  che 
riesce  malagevole  il  ricavarne  un  senso  qualsiasi.  Ciò  non  toglie  che  questi  singolari  documenti 
letterari  meritino  di  essere  raccolti  e  pubblicati,  giacché  in  seguito,  col  raffronto  dei  testi,  non 
sarà  impossibile  richiamarli  a  forma  completa  ed  a  lezione  corretta. 

Le  canzoni  fi'ancesi  dei  codici  di  Cortona,  che  io  qui  offro  ai  lettori,  hanno  tutte  le 
traccie  del  lavorio  di  decomposizione  cui  solevano  andare  soggette  queste  poesie  in  terra 
straniei-a.  Di  due,  come  ho  già  accennato,  non  vi  sono  nei  nostri  libretti  se  non  i  capoversi, 
l'uno  dei  quali  suona  Entré  ye  sui's  en  gran  j^ensier,  e  l'altro  Elogeron  nous  seans  hostesse. 
Queste  poesie  erano  forse  cosi^note,  che  non  si  credeva  opportuno  il  riferirle.  Di  altre,  che 
io  pubblico,  abbiamo  solo  i  primi  versi  o  la  prima  strofe:  poche  danno  indizio  di  essere 
intere. 

Io  ho  cercato  in  tutti  i  modi  di  identificarle  con  canzoni  già  conosciute,  e  in  alcuni 
casi  ci  sono  riuscito.  Anzitutto  va  avvertito  che  noi  troviamo  una  diversità  notevolissima  fra 


'  Non  due,  come  asserì  il  Carducci,  Studi  UH.,  Livorno,  1S74,  pag.  .376,   giacché  l'unica  poesia  La  dotice  fere 
d'unfier  animai  vi  è  ripetuta  due  volte  (e.  101  ti.  e  102  r.).  D'un' altra  canzonetta  francese  vi  sono  unicamente  i 
primi  versi  (o.  161  v.)  e  cominciano  Adiu  adiu  dous  dame  iohj.  Ma  se  si  prendo  in  considerazione  questa,  non  si 
dovrà  neppure  trascurare  la  rilevante  poesia  trilingue,  che  si  logge  nel  cod.  a  e.  95  v.,  101  v.  e  105  r.- 
La  fiera  testa  che  duman  si  ciba 
ponnis  auratis  volitum  perquirit; 
so vr' ogni  'talian  questa  preliba, 
alba  sub  ventre  palla  decoratur, 
per  che  del  mondo  signoria  richiede 
velut  eius  aspectu  demonstratur. 
Cist  fier  cymiers  et  la  fiamma  che  mart 
sofrìr  mestoyt  che  son  fior  leopart. 
Delle  molto  poesie  musicali  italiane  di  questo  cod.  diedero  replicate  volte  dei  saggi  il  Bilancioui,  il  Cappelli,  il 
Ferrato.  Cfr.  Zambrini,  Op.  v.  a  st',  48-49,  125-26  e  823-24. 

■  Diciassette  secontio  il  Carducci,  Op.  cit.,  pag.  375;  ma  so  dice  vero  una  gentile  comunìcazioiio  avuta  dal 
sig.  G.  Raynaiid,  non  sarebbero  tante,  be  non  che  il  vedere  nella  tavol.i  dello  poesie  italiane  del  cod.  favoritami 
dal  dottor  Mazzatinti  qualche  capoverso  francese  sfuggito  al  Raynand,  mi  fa  sospettare  che  egli  abbia  scorso  il  ms. 
troppo  frettolosamente. 

"  È  r  antico  Siippl.  535  ,  descritto  dal  Marsand ,  .lAs.,  1 ,  57  I  e  utilizzato  dal  Trucchi ,  Poesie ,  II .  142  seg. 
'  Cfr.  Lavo!?:,  La  munique  ansicele  de  S.  Louis,  in  Raynaud,  Ileciieil  de  mote.ts  frnnrnia ,  Paris,  18«.'-8i,  II,  264-G7. 
È  noto  come  uno  dei  più  antichi  e  notevoli  esempi  di  questa  applicazione  sia  nel  mistero  provenzale  di  Sant'Agne- 
se. Cfr.  l'.artsch,  Saiicla  Ar/nea,  Berlin,  1S89,  pag.  xi.t-xxx. 


lo  più  antiche  poesie  musicali  francesi,  quelle  del  sec.  XII  e  XIII,  e  le  posteriori.  Appena 
qualche  motivo  dei  motets  e  dei  rondemix  antichi  *  sopravvive  nelle  canzonette  francesi  del 
sec.  XV  e  XW.  Quindi  le  poesie  del  famoso  codice  di  Montpellier  segnalato  e  illustrato  dal 
Coussemaker,  "  pubblicato  integralmente  dal  Raynand,  ''  e  le  altre  simili  che  da  parecchi 
codici  mise  insieme  lo  stesso  Raynaud,  hanno  ben  poco  a  che  fare  con  le  canzonette  dei 
codici  di  Cortona. 

Riscontri  invece  osservabili  possiamo  trovare  studiando  il  manoscritto  francese  12744  della 
Nazionale  di  Parigi,  pubblicato  da  Gaston  Paris.*  Ivi  leggiamo  intera  "  la  canzone  Lordault 
di  cui  nel  codice  di  Cortona  vi  è  solo  un  piccolo  frammento  (n".  VI),  e  della  cui  diffusione  in  Italia 
può  esserci  testimonio  il  trovarla  nei  Canti  B.  ninnerò  cinquanta  del  Petrucci."  Di  là  rileviamo 
come  il  n".  X  di  Cortona  sia  una  contaminazione  di  due  motivi  diversi,  ambedue  appartenenti 
ad  un  gruppo  speciale  di  canzonette  francesi ,  quello  degli  avventurieri.  ^  E  là  pure  troviamo 
nella  seconda  strofe  della  canzone  La  nuit,  lejour  je  snis  en  painne ,  quel  componimento  Entré 
je  sidx  en  grani  pensée,  di  cui  nei  codici  cortonesi  vi  è  solo  il  capoverso.  '  Altri  riscontri  non 
trovai.  Noterò  qui  solo  che  il  principio  della  nostra  canzone  XXIV,  Vray  Dieii  que  pene 
m'esse'  è  comunissimo  nelle  antiche  canzonette  francesi,  in  cui  si  invoca  per  solito  il  rray 
dieu  d'amour, ■'"  che  la  XXVIII  tra  le  nostre  canzonette  riproduce  un  motivo  frequente 
nella  poesia  popolare  in  genere  e  nella  francese  in  ispecie,  il  lamento  dell'amatore  o  della 
amatrice  abbandonati;  "  che  la  XXIII  non  è  se  non  il  principio  di  una  pastoi'ella  cui  suol  esser 
convenzionale  quel  prew(fere  per  la  mano  bianca,  sopravvissuto  anche  nelle  più  tarde  can- 
zoni francesi.  '"  Questa  poesia,  del  resto,  trovasi  anche  nei  Canti  C.  del  Petrucci. '^ 

Nelle  intavolature  del  Petrucci  si  rinviene  anche  la  I,''  che  trova  riscontro  nel  motivo 


'  Per  il  significato  musicale  e  letterario  di  queste  x^arole  vedi  Coussemaker,  V  art  ìtarmnnìqne  nnx  XII^  et 
XIII'  siècles,  Paris,  1865.  pag.  59-65. 

-  Vedine  la  tavola  in  Op.  cit,  pag.  257-G8. 

'  Nel  Itccaeil  de  motets  frangals  sopra  citato.  Il  cod.  di  Montpellier  ha  ormai  una  intera  letteratura. 

'  Cliansoìis  da  XV  siede,  Paris,  1875. 

*  A  pag.  69. 

'  Vernarecci,  Op.  cit..  pag.  258,  f.  8. 

'  Cfr.  pag.  127  e  pag.  143  della  raccolta  Paris.  I  canti  antichi  dei  soldati  di  ventura  francesi  sopravvivono  mo- 
dificati in  una  intera  serie  di  canti  popolari  d'  oggigiorno,  cho  è  accuratamente  esamin.ata  in  un'  apposita  sezione 
deir  opera  recente  di  W.  SchetHer,  Die  frmizusische  VolksilicUung  nnd  Sane,  Leipzig  1885,  voi.  Il,  pag.  3  segg.  Cfr. 
spec.  pag.  47-50. 

'  Cfr.  Paris,  pag.  141.  Una  canzone  con  principio  .simile,  Entrée  Je  siiis  en  gniiit  tnrment,  è  a  pag.  80. 

'  £sse  per  est  ce.  Cfr.  Paris,  Oj).  cit.,  pag.  29. 

°  Cfr.  Paris,  pag.  9,  27,  44,  121,  122-125.  La  canzone  Vray  Dieu  d'amor  qui  me  conforterà,  ohe  nel  Paris  è  a 
pag.  122,  ricorre  anche  in  un  codicetto  Campori,  non  ancora  catalogato,  di  cui  ho  la  tavola  da  V.  Gian,  che  ne  ha 
detto  per  primo  qualcosa  nel  Gior.  st.  della  leti.  Hai.,  IV ,  22  ».  La  citata  è  1'  unica  canzonetta  francese  che  si  trovi  in 
quel  ms.  La  si  rinviene  pure  nei  Canti  B  del  Petrucci  (Vern.,  pag.  238,  f.  7)  e  forse  è  ripetuta  nei  Canti  C.  num.  cento- 
cinquanta (Vern.,  pag.  242,  f.  96), 

"  Cfr.  nella  race.  Paris,  pag.  91,  104,  103,183,  e  più  particolarmente  le  bellissime  poesie  su  questo  motivo, 
che  sono  nella  raccolta  Haupt-Tobler,  Franziisische  Volkslieder ,  Leipzig,  1877,  pag.  2, 10-18,  130.  Vedi  anche  la  bella 
e  serrata  esposizione  dei  principali  motivi  che  ricorrono  nella  poesia  popolare  francese  in  Bartsch,  Alte  franz'ù- 
Bische  Volkslieder  uebersetzt ,  Heidelberg,  1882,  pag.  xxv. 

"  Vedine  riscontri  in  altre  pastorelle  guastate  :  Paris,  pag.  52.  Je  la prins par  sa  maiii  qui  blanclioiie ,  pag.  54, 
Je  la  prins  par  sa  main  bianche.  E  cosi  pure  in  poesie  popolari  di  genere  diverso:  race,  cit.,  pag.  115,  e  Haupt-Tobler, 
Op.  cit.,  pag.  84, 142.  Per  le  nuove  forme  che  hanno  assunto  lo  antiche  pastorelle  neWa,  poesia  popolare  francese  con- 
teaipor.anea,  vedi  ScheiBer ,  Op.  cit.,  I,  132  segg. 

"  Vernarecci,  pag.  241,  f.  65. 

"  Vera.,  pag.  212,  t  94. 


—  278  — 

della  canzone  En  mes  amours  ie  nay  quo  dispìaisìr  d'  una  antica  raccolta.  '  E  nel  Petnicci 
vi  ha  pure  la  III,'  e  la  V,  '  e  la  VH,  '  e  la  Vili,  ''  e  la  IX,  ''  e  la  XI,'  e  la  XVn,  '  e 
la  XIX,  "  la  cui  aria  sembra  entrasse  anche  in  qualche  messa.  '"  La  XXV  ha  l'andatura  della 
celebre  canzone  della  bella  Alice,  il  cui  motivo  ricorre  in  Erancia  come  in  Italia.  "  La  XIV, 
molto  lubrica,  se  da  una  parte  si  collega  per  il  principio  a  quella  Hor  oires  une  chanson 
che  ha  il  Petrucci,'"  sembra  per  altro  lato  richiamare  nel  contenuto  una  delle  molte  canzo- 
nette di  cui  dà  il  principio  il  Rabelais,  Mon  con  est  devenu  sargent.'*  La  seconda,  il  cui 
motivo  è  in  una  delle  canzonette  pubblicate  dal  Paris,  '^  e  che  troviamo  ricorrere  nel  Pe- 
trucci,'^  ed  è  illustrata  nel  Liher  quindecim  missarum  di  Andrea  Antico,"  leggesi  con  buona 
lezione  nei  Mottetti  novi  et  chanzoni  franciose  a  quatro  sopra  dai  inseriti  nel  Zibaldoncino 
mvsicale  della  Marucelliana,  del  quale  avrò  a  discorrere  in  altra  occasione.  Eccola  secondo 
quel  testo  :   ' 

Baises  moy ,  ma  doulce  auiyo  , 

par  amour,  je  vous  en  prie. 

—  Non  seray  —  Et  pour  quoy  ?  —  Si 

je  faisoye  la  folye , 

ma  mere  en  seroit  marrye, 

vela  de  quoy ,  vela  de  quoy. 


III. 


Quanto  ho  detto  sinora  -spiegherà  perchè  io  qui  pubblichi  le  canzonette  dei  codici  Corto- 
nesi  senza  tentarne  veruna  correzione,  neppure  là  dove  sarebbe  agevolissima  e  consigliata 
dai  riscontri.  E  mia  ferma  convinzione  che  anzitutto  le  canzonette  straniere  come  le  italiane, 
che  si  trovano  nei  nostri  codici  musicali,  debbano  essere  riprodotte  cosi  come  sono,  con  tutte 
le  storpiature  e  le  mutilazioni  dovute  all'uso,  alla  musica,  alla  poca  intelligenza  dei  testi. 
In   seguito,  allorché   questa  via,  nella  quale  sono  fra  i  jiriml   ad  entrare,    sarà   ampiamente 


'  Lafleur  dcs  cluiiiS07i8,  reimpressione  moderna  a  facsimile,  fatta  a  Ganti  o  Parigi  s.  d.,  di  una  stampa  antica 
che  si  giudica  del  1530.  La  canzone  da  me  nienzionata  è  la  12'»  di  questo  volumetto. 
'  Vera.,  pag.  210,  f.  10. 
'  Vern  ,  pag.  239,  f.  26. 
'  Vera.,  pag.  236,  f.  46. 
'  Vern.,  pag.  212,  f.  82. 
'  Veni.,  pag.  239,  f.  li. 
'  Vern.,  pag.  236,  f.  28. 
'  Vern.,  pag.  211 ,  f.  35. 
"  Vern.,  pag.  210,  f.  5,  6.  24;  241 ,  f  .")2. 

'"  Cfr.  Zenatti,  Andrea  Antico  da  Montana,  in  Ardi.  il.  per  Trieste ,  ec,  I,  1S7,  n.  3. 
"  Vedi  D'.\ncona,  Poesia  pop.,  pag.  90-98. 
'•  Vern.,  pag.  235,  f.  ». 
"  Pantatiruel,  V,  34. 

"  Cfr.  pag.  r.i,  nella  canz.  Vec>i  venir  la  i/elh'e. 
"  Vern.,  pag.  239,  f.  38,  40. 
'"  Vedi  Zenatti,  Op.  cit.,  pag.  1S:1. 
'*  A  pag.  575  della  numerazione  progressiva  a  mano. 


—  279  — 

percorsa,  in  seguito  si  potrà  e  si  dovrà  sui  testi  molteplici  e  vari  ricostruire  la  vera  lezione 
primitiva  e  studiare  le  trasformazioni  subite  da  quei  motivi,  sempre  giovani  nella  bocca  del 
popolo.  Il  farlo  prima  sarebbe  cosa,  non  solo  imprudente,  ma,  quel  eh' è  peggio,  inutile. 

A  base  del  mio  testo  è  messo  il  libretto  del  soprano ,  che  è  il  più  ricco.  Ho  sempre 
indicato  i  luoghi  in  cui  il  testo  riferito  nel  codicetto  del  contralto  presenta  delle  varianti  di 
qualche  entità.  Nei  casi  in  cui  le  parole  che  si  trovano  nel  libretto  del  contralto  fossero  de- 
cisamente da  preferirsi  a  quelle  date  nel  libretto  del  soprano,  le  ho  introdotte  nel  testo 
in  corsivo.  Ho  pure  introdotto  nel  testo  i  versi  che  mancano  nel  libro  del  soprano  e  si  leg- 
gono nell'altro,  spazieggiandoli. 

Rodolfo  Renier. 


280  - 


Je  n'ay  dueil  que  de  vous  ne  TÌegne, 
mais  quelque  mal  que  ie  soustiegne 
j'ay  trop  plus  cher  vivre  eu  doleur, 
que  soufFrir  que  mon  pouvre  cueur 
a  ung  aullire  que  vous  se  tie)ì<jne; 
car  Dieu  voulut  tant  pour  vous  taire, 
qui  n'est  cueur  qui  n'eust  trop  a  taire  ' 
de  vous  grant  bieus  a  droit  louer. 
Son  plaisir  fust  de  vous  complaire 
et  plus  eu  vous  qu'eu  aultres  a  faire  ' 
dont  ung  chacun  vous  doibt  amer. 

II. 

—  Base  moy  pour  amor, 

je  vous  am  prie.  ' 

—  [J]e  non  fere  —  E  por  quoy?  — 

—  Ma  mere  en  saroet  marie , 

vela  de  quoy. 

III. 

Une  plaisaut  figlefcte 
au  mattin  .se  leva, 
apris  sa  ciemisette 
a  hote  voes  crie: 
entro  dos  huis 
que  m'est  il  avenu? 
—  Par  Dieu  ne  plores  plus.  — 
Ma  cinture  cliorte 


Cont.  :  Qui:  il  n'esl.  nid. 
'  Cont.:  J'2  plus  de  bitns. 
'  Cont.:  Base,  moy,  hcn/se  moii  douìx  amie. 


-  281  — 

e  o  le  ventre  me  creu.  9 

—  Or  vous  tases  la  belle; 

si  c'est  un  enfant,  male, 

il  porterà  le  schu  ;  12 

si  c'est  nne  fillette, 

ella  ioiira  dn  chu  ' 

entre  dos  huis.  15 

IV. 

Jouli  marinar,  passe  moy  sena. 
L'altre  ior  j'estoit  sur  Sene 
rencontre  d'un  capitene.  3 

n  moit  apella  villeyna;  ' 
yoly  marinar,  je  ne  sui  passe  villeina; 
youli  mariner,  passe  moy  sena.  6 

Se  le  fi  du  roy  non  m'ame, 
yoly  mariner  passe  moy  sena. 

V. 

Veci  la  danse  bai'bari. 

En  Barbari  avint  l'altrier 

une  grant  aventure  3 

de  troes  filles  d'un  borgioes 

chi  yoent  a  la  verdure. 

Disoet  la  plus  yone  de  troes  :  6 

je  suis  la  plus  fendue, 

de  puis  le  cui  jusch'a  nonbril.  ' 

Veci  la  danse  barbari.  9 

VI. 

Lordault,  lordault,  garde  que  tu  feras, 
car  si  tu  te  marie,  tu  t'en  repentiras. 
Si  tu  prens  yone  femme,  yalous  tu  en  seras;        3 
lordault,  lordault,  garde  que  tu  feras. 


Cont.:  cimi. 
■  Cont.:  apellc. 
'  Cosi  cont.  —  Sopr.  più  corrottamente  ire  chanon  brìi. 


-  282 


VII. 


Vostre  bargeronette ,  m'amiette, 
vostre  bargeronette  m'a  nouri. 
Mon  pere  m'a  doné  mari; 
la  premier  nuit 
qiiant  je  cliucie  o  luj', 
vostre  bargeronette,  m'amiette, 
vostre  bargeronette  m'a  nouri. 

Vili. 

Et  leves  vous,  o  Guigliermette , 
et  leves  vous  car  il  est  jor  : 
vestre  ciamisette  apretee, 
se  mon  biau  pellicon  je  n'ay; 
iron  faire  la  tourte 
et  cleliez  no  vache. 
Quant  Guiglielmet  entendit, 
si  respont  a  grant  bate: 
et  point  je  ne  mi  leverò. 

IX. 

Je  suis  amie  du  fourrier  Oralez 
et  mignonne  a  ces  gendarmes. 
Je  fus  prise  en  uug  village 
au  mattin  a  dezlogier  Oralez. 
Se  mon  pere  me  donne  Orales, 
cent  escus  en  mariage, 
je  n'usse  pas  fet  Voutrage 
de  mon  cors  abandoner  Orales. 

X. 

Gentil  galans  de  Frauce, 
qui  alla  guerra  alez, 
je  vous  pri  que  vous  plaise 


—  283  — 

mou  ami  salues. 

Et  nous  ne  porteroii  plus  d'esjiee 

plus  que  le  roy  nous  acasses  6 

et  nous  a  rogne  nosode. 

XI. 

Alon  fere  uos  barbes, 
alons ,  gentil  galans  ; 

la  barbiere  les  mogie  3 

sovent  deux  a  la  foiz. 
Il  trove   ses   mignons 
quant  son  mari  revient  6 

de  fere  sa  besogne 
qui  luy  font  vigle  come 
disant:  coment  va,  9 

coment  fet  vostre  femme 
fet  elle  plus  cela? 

Et  on  la  troveroye  12 

la  femme  0  petit  con.^, 
don  don  don  don. 

Trover  ne  la  saroie,  15 

je  né  bien  trové  une , 
qui  dit  que  l'a  petit; 

par  Dieu  ye  buteroie  18 

Paris,  Bruges  et  Gant 
de  daus,  de  daus, 
et  Troye,  si  je  voloye.  21 

xn. 

Tambieu  mi  son  pensada, 
mari,  se  mi  bates, 

a  l'ami  m'en  ire.  3 

•  —  Helas  la  mi  moglere 
cbe  con  selas  aghut 

io  te  tenir  ondrade  6 

chon  l'aigle  d'un  duoli , 
non  ch'ai  partir  de  cliase 
por  aver  ton  deghut  9 

e  mescliin  con  feray. 


—  284  — 


XIII. 


Tambur,  tambur,  tambiir, 

tamburelaridou ,  tamburelaridena , 
le  roy  a  fet  crier 
par  villes  et  fabors 
que  le  ^oieHte'mesfcier 
soet  inantenu  toitiors. 


XIV. 

Voles  oir  tiue  cbanson  de  chons, 

qui  mal  en  dit  il  ne  pas  gentilz  lions. 
Se  bien  en  vient  le  solaset  le  yoye, 
a  dos  genos  on  luy  baigle  sa  proye; 
le  ehon  ne  craint  bombarde  ne  chauon 
chortot,  chogliarfc,  passevolant. 
Flecie  ne  vei'eton  ' 
n'e  rien  si  fort  que  contre  luy  ne  ploye. 

XV. 

Si  je  fet  ung  cop  apres 

no  en  doie  estre  blasmee. 
Si  m'u  fet  mal  j'usse  dit  ho. 
L'altri er  quant  ciemynoye 
mon  cieniin  to  droet  a  Paris, 
j'é  rencontré  la  belle 
antre  le  bras  de  son  amy; 
cela  sans  plus  et  piuz  boia. 

XVI. 

Si  je  vous  avoye  pomte  hdas  dandriglon 

da  me  belle  gente  tros  fois  de  mon  aguglon, 


Cont.:  vintton. 


—  285  — 

vous  n'en  series  quo,  plus  gentil  hellas  dandriglon; 
0  qiiant  vous  viendres  a  nostre  maison, 
vous  choucieres  avec  moy,  hostesse. 
—  Helas  ami.,  cela  ne  fere  pas, 
helas  ami,  ne  choucieres  avec  my. 
E  darion  la  mi  fa  lo  re  daridon  daridon 
fa  lo  re  la  ri  la  mi  fa  lo  ri  darion 
■  mariou  farion  farion  miredon  farionde. 


XVII. 

Chascun  me  arie,  marie  toy,  marie. 

Helas  je  n'ose,  tam  sitiz  bon  conpagnon. 

La  jillette  qid  m'ara  n'ara  pas  tous  ses  ayses  3 

de  ver  le  vespre,  luy  doblera  la  feste 

de  sur  sa  teste  quatre  cops  de  baton. 

Qunnt  fesfoye  a  marier  si  tres  yoìi/e  i  estoye  6 

ch'on  ne  m'ut  donne  img  bochet. 

Ciascun  me  crie,  marie  toy,  marie. 

Helas  je  n'ose  tan  suiz  bon  conpagnon.  9 

Certe  si  vous  maries  vous  ferez  grant  follie, 

je  me  reprenz  de  Vavoir  fet, 

or  suis  je  pris  outre  buciet.  12 

-     XVIII. 

Fille,  vous  aves  mal  gardé  le  pan  davant. 

—  Mere,  je  ne  puis  amander,  c'est  par  le  temps. 

—  E  figle,  ma  tre  duoìce  iiUe  3 
e  n'ames  vous  home  qui  vive? 

—  Mere ,  trop  tart  le  m'aves  dit 

et  parles  bas,  tousior  de  celle  me  souvient  G 

qui  a  la  teste  enveloppa  d'un  crovercier 
eusafrana  la  marende,  je  l'ame  bien  bin  bin. 

XIX. 

Eorselleinent  Fatante  che  je  more, 
en  mon  cor  nul  espoir  ne  demore, 


—  286  — 

car  mon  malhor  si  tres  fort  me  tormente 
ch'il  n'est  dolor  que  par  vous  ne  sente 
porca  che  suis  de  vous  perdre  bieu  sore. 

XX. 

Il  estoit  ung  bon  home  qui  venoit  de  Liou , 
il  avoit  une  lille  de  tan  belle  facon, 
fa  re  la  mi  sol  ut, 
de  si  belle  fasson; 

il  l'a  mis  a  l'escole  aupres  de  sa  meson 
fa  re  la,  etc. 


XXI. 

L'amor  de  moi  il  est  ondose, 

sy  est  enclose  eu  ung  si  plaisaut  jardinet, 
ou  croit  la  rose  et  le  mughet 
et  aussy  fet  la  passe  rose. 

XXII. 

Maìi-e  de  Die 

tant  caude  soy  piene  d'ordure , 
vous  es  mege  naturai, 
sans  fere  mal  prenes  ma  cure. 
Je  son  mege  naturai 
que  cognoisse  l'orinai, 
plaga  mortai  ioux  la  senture 
a  ung  pan  pres  du  nonbril 
a  gran  perii  prenez  ma  cure. 

XXXIII. 


L'aulire  jor  je  cievalcioie 
l'ombre  d'un  pont 
son  gabiUiondou. 
Je  trovei  una  bargiere 
en  l'ombre  d'un  pont. 


—  287  — 

Nous  dansaron  sans  vous  soner; 
je  la  pris  par  sa  man  bianco 
en  l'ombre  d'ung  pout. 
Nons  dansaron  sans  vous  soner. 


XXIV. 

Vray  Dieu  que  pene  m'esse 
che  d'estre  presonier. 

Ye  vis  en  gran  tristesse  3 

et  an  tres  grant  dangier. 
La  dolor  ehi  ne  cesse 

mi  fet  lo  color  cangier;  6 

ye  n'ay  bien  ne  liesse 
por  mes  manlx  alegier.  ' 

XXV. 

Je  me  levei  l'anitre  nuyt 

un  bien  petit  devant  le  jor, 

j'oi  canter  en  une  tour  3 

une  figle  gaye  et  jolie 

disant  ansi: 

et  portant  se  je  suis  6 

jonette,  gaiette, 

fraschette,  bellette,  brunette, 

s'est  afin  que  mon  corps  playse  9 

a  mon  ami. 

Volé  vous  point  une  amoreus 

si  n'a  la  cemise  fronsee,  12 

vous  m'aves  bel  attendre, 

vous  m'aves  bel  attendre  vous." 

XXVI. 

Sardonnes  moy  se  je  faloye, 
verdin  verdingoye, 
l'on  ne  s'en  doibt  esmerveiller ,  3 


'  Nel  libretto  del  contralto  sono  scritte  solo  le  parole  Vray  dieu. 
Nel  libretto  del  contralto  non  v'  è  ohe  la  iniz.  J, 


—  288  — 

por  verdinguer, 

car  plus  sage  qtie  mon  foloye 

et  verdingoye. 

Ung  falconier  tousiors  se  ioye 

quant  il  voit  son  oyseau  voler, 

gay,  gay,  gay; 

mais  qu'il  ne  perde  point  sa  prole 

et  verdin  verdingoye. 

XXVII. 

Vele  e?/,  vele  la,  ma  mere. 

Vele  ci,  vele  la  le  gorriere  mignon. 

Quant  j'estoie  jonette  petitte  garsillon , 

on  m'envoiet  a  l'erbe  garder  mes  agnellons. 

Fainon,  fiUette. 

Le  godon,  ma  mere,  vele  cy,  vele  la, 

le  gorriere  mignon. 

XXVIII. 

/Sej'ay  perdu  mon  amy 

je  n'ay  pas  cause  de  rire;  ' 
je  l'ay  si  long  temps  amé, 
vrai  Dieu  que  volé  vous  dire. 
Il  y  a  cinque  ans  et  demy 
qu'a  mon  gre  l'avrie  clioysy 
et  morte  suis  se  je  ne  l'ay, 
que  volé  vous  dire  de  mon  amy. 


Cont.  :  Jc  n'ay  point. 


UBER  DIE  TENZONE  DANTE'S  MIT  E0RE8E  DONATI. 


Isidoro  Del  Lungo  hat  das  Vei-dienst,  das  von  dem  Anonimo  Fiorentino  zu 
Purgatorio  XXIII.  erwàhnte  Sonett  Dante's  an  Forese  Jiom,ii:  Ben  ti  faranno  il 
nodo  Salamone  ans  Licht  gezogen  una  damit  dem  Streite  um  die  Echtheit  der  ge- 
sammten  aus  fiinf  Sonetten  bestehenden  Tenzone,  die  freilicli  mehr  eines  Villon  als 
eines  Dante  wiirdig  scheint,  wohl  fiir  immer  ein  Ende  gemacht  zu  haben.  Seiner 
Ausgabe  der  fiinf  Sonette  {Dino  Comjjagni  e  la  sua  Cronica.  Florenz  1879.  II,  610-24) 
ist  ein  Kommentar  beigefùgt,  der,  wenn  man  Gaspary's  und  Renier's  Anmerkun- 
gen  '  hinzunimmt,  kaum  noch  Dunkelheiten  iibrig  lasst. 

Indessen  liegt  eine  solche  vor  in  dem  Schluss  des  erwàhnten  Sonettes ,  wo  Dante 
dem  diirch  seine  Schlemmerei  lieruntergekommenen  Forese  den  Rath  gibt,  eine 
Kuust  zn  iiben,  auf  die  er  sicli  bereits  verstehe:  dieselbe  sei  in  der  Zeit  gebràuclilich, 
in  der  man  Sclieu  vor  dem  Fleische  habe;  Forese  branche  dazu  nicht  einmal  von 
seinen  sonstigen  Beschàftigungeu  abzugehen.  — Del  Lungo  bemerkt  hierzu:  «  Quale 
1'  arte  da  quaresima  e  lucrativa ,  con  la  quale  il  poeta  consiglia  ironicamente  Forese 
a  rifarsi  de' suoi  scialacquamenti  e  stravizi,  e  quale  il  morso  in  cotesta  ironia  con- 
tenuto, non  saprei  dire.  » 

Ich  glaube  dass  Dante  ilim  empfielilt  sicli  des  elielichen  Verkehrs  zu  enthalten. 
Dass  diese  Kunst  dem  Forese  geliiufig  ist,  liat  Dante  auch.  im  Soiiett  Chi  tidisse 
ausgefiilirt  und  ani  Schluss  des  Souetts  Bicci  angedeutet.  Der  Ausdruck  carne  in 
dem  den  Begriif  der  Fasten  {quaresima)  umsohi-eibenden  Verse 

E  fassi  a  temilo  eli'  è  téma  di  carne 

ist  doppelsinnig.  Dass  man  sicli  wahreud  der  Fasten  des  Beischlafs  enthalten  soli, 
schreiben  die  Bussordnungen  des  Mittelalters  vor,  von  denen  icli  nur  zwei  aiifiihren 
will:  eine  aus  England  und  eine  aus  Italien. 

«  Qui  in  quadragesima  ante  pascha  cognoscet  mulierem  suam,  noluit  abstiuere  : 


'  Gaspary,  ■  CfescfticMc    der    Italienischen  Literaluy  1,  516.    Eenier   im    Mocimeiito  letterario    italiano.  Taiin, 
September  1880. 

37 


—  290  — 

annum  peniteat  vel  suum  pretium  recldat  ad  ecclesiam  vel  pauperibus  dividat 
aut  XX  et  sex  solidos  reddat.  »  Pmnitenticde  Egberti  VII,  4.  (Die  Bussordnungnn  der 
abendlundischeìi  Klrclie  lierausgegehen  von  Wasserscklebeu.  Halle  1851.  S.  238). 

«  Si  abnsus  fuisti  uxore  tua ,  vel  in  die  domiuico  vel  in  aliis  festivitatibus  sancto- 
rum  coucubuisti  cum  ea  vel  in  quadi-agesima  :  VII  diebus  peniteas.  »  Fmdtentiah  Ci- 
vitateiise  e.  XVIII  {Bassordnungeii.  S.  690). 

Beilàufig  sei  darauf  liingewiesen  dass  in  dem  Altfranzòsischen  Roman  von  der 
Manekine  (V.  6621  fg.)  der  Konig  von  Schottlaud  und  die  Manekine  wahrend  der 
Passionszeit  solche  Enthaltsamkeit  uben. 

Icli  moclite  aber  nodi  auf  einen  andern  Umstand  die  Aufmerksamkeit  lenken. 
Die  f'iinf  Sonette  bei  Del  Lungo  beginueu  mit  folgeuden  Versen: 


Dante: 
Forese: 

Dante  : 

Dante: 

Forese  : 


CHI  UDISSE  tossir  la  mal  fatata 
L' ALTRA  notte  mi  venne  una  gran  tosse. 
BEN  TI  faranno  il  nodo  Salamene. 
BICCI  Novel,  figlinol  di  non  so  cui. 
BEN  SO  che  fosti  figliuol  d' Allaghieri. 


Ich  citiere  die  Sonette  mit  deu  in  Majuskel  gedruckten  Anfangsworten. 

Bis  vor  kurzem  waren  nur  vier  dieser  Sonette  bekanut  (Chi  udisse,  L' altra,  Bicci, 
Ben  so) ,  welche  in  dieser  Reihenfolge  in  dem  s.  g.  Quinterno  und  in  einer  Chigi- 
Handsohrift  erhalten  und  nach  jenem  von  Palermo  (J  Manoscritti  Palatini  di  Firenze, 
II,  1860.  S.  719,  vgl.  S.  614),  nach  dieser  von  Monaci  (im  Projmgnafore ,  X,  346) 
herausgegeben  worden  sind.  Der  Sammler  des  14.  Jalirhunderts  —  nach  Palermo 
wàre  es  Petrarca  geweseu  —  kannte  also  vier  Sonette  :  das  funfte,  von  dem  Ano- 
nimo' Fiorentino  citierte  und  von  Del  Lungo  herausgegebene  war  ihm  unbekannt. 
Ftigen  wir  nodi  liinzu  dass  die  beiden  Sonette  Bicci  und  Ben  so  in  Ilandschriften 
und  alten  Drucken  fiir  sich  allein  iiberliefert  werden,  so  wird  folgender  Schluss 
bei'echtigt  sein:  Dante  und  Forese  haben  sich  nicht  darum  bemiiht,  die  Sonette  der 
Nachwelt  ■  zu  iiberliefer3i ,  die  wahrscheinlich  sogar  gegen  den  AVunsch  der  Bethei- 
ligten,  sicher  gegen  Dante's  W^unsch,  auf  uns  gekommen  sind.  Die  Sonette  hatten 
als  Gelegenheitsgedichte  von  vertraulichem ,  nicht  literarischem  Character  nur  im 
engern  Freundeskreise  circuliert,  und  erst  der  Sammler  des  14.  Jahrhunderts  wird 
sie  unter  Dante's  lyrisclie  Dichtungen  aufgenommen  und  ihre  Reihenfolge  be- 
stimmt  haben. 

Von  dieser  Reihenfolge  ist  unzweifelhaft  dass  das  Sonett  Ben  so  die  Antwort 
auf  das  Sonetto  Bicci  bildet.  Schon  der  erste  Vers  Ben  so  che  fosti  Jìgliuol  d'Allaghieri 


—  291  — 

autwortet  anf  deii  ersten  Vers  Bicci  Novel,  JìyUtiol  di  non.  .su  cui.  Del  Limgo  liess  die 
Reihenfolge  des  Quinterno  besteheu  und  schob  uur  das  ■  von  ihm  entdeckte  Sonett 
Ben  ti  hinter  dem  Sonett  L'  altra  ein  :  mit  vollem  Rechte ,  da  schon  der  erste  Vers 
von  Ben  ti  eine  "Wendnng  aiis  dem  Sonett  L'  altra  wieder  aufnimmt.  Del  Lungo  liat 
jedoch  iiberselien  dass  in  Folge  dieses  Einschnbs  nunmelir  zwei  Sonette  Dante's 
uumittelbar  anf  einander  folgen,  wodnrch  zwei  Tenzonen  gleichen  Tones  nnd  glei- 
chen  Inhaltes  entstehen,  dio  beide  von  Dante  ausgelien.  Das  ist  hoclist  unwahr- 
scheinlich:  die  Sonette  werden  eine  einzige  Eeihe  gebildet  haben,  in  der  je  ein  So- 
nett Dante's  mit  einem  Sonette  Forese's  abwechselte.  Ich  balte  daher  tur  die  nrsprilng- 
liohe  Reiheufolee  diese: 


Dante  : 

Bicci. 

Forese  : 

Ben  so. 

Dante  : 

Chi  adisse. 

Forese  : 

i'  altra. 

Dante  : 

Ben  ti. 

Das  dem  Quinterno  fehlende  Sonett  war  also  das  letzte  der  Reihe.  Einige  Stellen 
kommen  erst  bei  dieser  Auordnung  in  das  rechte  Licht.  So  L  cdtra  V.  6  und  7, 
wo  Forese  auf  das  Sonett  Z?«cct  anspielt,  in  welchem  Dante  ihm  vorgeworfen  batte, 
er  vergreife  sich  an  andrer  Lente  Gut.  Dante  wirft  ihm  in  den  drei  Sonetten  Eanb- 
lust  {Bicci),  Versaiimnis  der  ehelichen  Pflichten  {('lii  udisse),  Gefrassigkeit  {Ben  ti) 
vor,  hat  aber  schon  im  ersten  Sonett  alle  drei  Liebenswiirdigkeiten  angedeutet. 
Dante  spricht  in  deu  ersten  beiden  Sonetten  von  Forese  in  der  dritten  Person, 
geht  dami  aber  in  Ben  ti  zur  direcfcen  Anrede  iiber,  ein  Moment  das  gieichfalls  flir 
die  Richtigkeit  der  hier  vorgeschlagenen  Reihenfolge  in  die  Wagschale  fallt. 

Halle  (Saale). 

Hermann  Sochiee. 


L'ARTE  DEL  DIRE  IN  RIMA. 


SONETTI  DI  ANTONIO  PUCCI. 


L'  arte  del  dire  in  rima  del  Pucci  non  è  —  si  capisce  bene  —  né  poteva  essere ,  nulla  di 
simile  all'  Epistola  di  Orazio  o  alle  poetiche  del  Menzini  e  del  Boileau.  11  Pucci  dà  soltanto 
qualche  ammaestramento  pratico  sulla  struttura  del  Sonetto:  e  delle  varie  fogge  di  questo 
componimento  consiglia  quella  sola  delle  quartine  a  rima  baciata  e  delle  terzine  con  due 
rime  alternate,  quasi  non  avesse  altri  tipi  da  proporre  ad  esempio,  e  Dante  stesso,  dei  Ciri 
sonetti  raccomanda  lo  studio,  non  glie  ne  offrisse:  ed  egli  stesso  non  apponesse  ai  suoi  la 
coda,  di  che  tace  affatto.  Si  diffonde  quindi,  dal  VI  sonetto  in  poi,  in  precetti,  appropriati 
cosi  a  questa  come  ad  ogni  altra  maniera  di  componimenti  in  poesia,  od  anche  in  prosa.  Se  non 
che,  il  povero  tromba  non  cava  questa  farina  dal  suo  sacco,  ma  dall'  altrui,  compendiando  il 
Tesoro  di  Ser  Brunetto,  che,  a  sua  volta,  nei  capitoli  del  libro  VII  che  a  tal  materia  si  ri- 
feriscono, riproduce  Albertano.  Ma  che  1'  esemplare  del  Pucci  fosse  proprio  il  Tesoro,  lo  dice 
chiaro  un  attento  confronto  dei  due  testi.  Ad  es.  il  v.  12  del  son.  IX  riferisce  una  aggiunta  del 
retore  fiorentino  ai  precetti  del  bresciano.  , 

Il  testo  onde  sono  tolti  questi  sonetti  è  un  codice  di  rime  antiche  della  Comunale  di 
Udine,  probabilmente  scritto  nel  sec.  XV  dal  poeta  Giorgio  Sommari  va.  Evidentemente  egli, 
od  altri  che  lo  precede,  travesti  alquanto  il  dettato  fiorentino  del  Pucci,  come  apparisce  ben 
chiaro  e  subito  dal  titolo,  che  abbiamo  conservato  quale  il  manoscritto  ce  l'offriva.  Né  le  ricer- 
che fatte  avendoci  somministrato  altro  testo  migliore  e  più  compiuto ,  ci  siamo  dovuti  conten- 
tare dell'  utinense,  correggendo  soltanto  laddove  era  possibile  congetturare  la  forma  originale 
dalla  seconda.  Ma  alle  lacune  di  versi  interi  ci  è  stato  impossibile  rimediare. 

Offriamo  adunque  agli  studiosi  questa  corona  di  sonetti  pucciani,  cosi  com'  è.   Essa   con- 
fermerà sempre  più  che  il  modesto  quanto  fecondo  improvvisatore  popolare  aveva,  come  altre 
prove  ne  dà  il  suo  Zibaldone,  un  sufficiente  possesso  dello  scibile  de'  suoi  tempi,  e  che  dalla  , 
notizia  di  cose  diverse  e  disparate  traeva  egli  materia  al  canto ,  col  fine  di  rendere  maggior- 
mente comuue  fra  le  plebi  la  dottrina  da  lui  pian  jnano  e  non  senza  fatica  accumulata. 

Alessandro  D'  Ancon.\. 


-  294 


Autoiiij  Pncio  ad  un  fiol  de  mi  chavalero  podestà  iu  Fiorenza  che  reqiiirl  gè 
insignasse  l' arte  de  dir  in  rima.  E  lui  a  sua  risposta  li  scrisse  dodexe  Sonati  in 
tal  guixa. 


Ben  che  non  sia  maestro  di  trovare, 

po'  che  tu  pur  mi  preghi  che  t'insegni, 
mostrar  ti  voglio  mie'  piccol'  ingegni , 
onde  talor  parole  so  rimai'e. 

La  tema  ti  conviene  imaginare 

prima  che  a  cominciar  sonetto  vegiii, 

e  dal  pensare  fa  che  non  isdegni 

se  in  corto  tempo  tu  vogli  imparare.  8 

E  tutta  V  a  b  e  vien  bischizzando 

quando  tu  sei  dal  tema  ['n]  rima  ei-raute 
per  trovar  quella  che  tu  vien  cercando. 

Ma  d'  una  cosa  t'  aniaestro  avante  : 

che  tu  [ti]  vegue  spesso  spermentaudo 

sopr'  a'  sonetti  che  furon  di  Dante.  14 

Se  ti  correggi  pe'  sonetti  suoi 

per  nulla  guisa  mai  fallire  puoi.  IG 

2  me  predi inzcgiiì.  —  5  convien.  —  7  pensar.  —  8  curto.  —  9  ?«  6  beschizamìo.  —  1-  ta  maestro. 


205  — 


II. 


Fammi  eli  piò  quattordici  il  sonetto, 

che  '1  primo  rime  cV  una  condizione, 

al  secondo  e  '1  terzo  [a]  una  ragione, 

e  '1  quarto  sì  risponda  al  primo  detto. 
El  quinto  dir  col  quarto  sia  coi'retLo; 

dal  sesto  al  sette  non  sia  jurgione, 

a'  duo  secondi  faccian  responsione; 

r  ottavo  dir  col  quarto  sia  perfetto.  8 

Il  nono  rimi  d'  altra  mainerà, 

decimo  d'  altra  clie  svari  da  quella, 

l'undici  serva  la  nona  ma  tara; 
Duodecimo  col  decimo  novella, 

il  tredici  coU'  undici  sia  spera, 

quattordici  con  dodici  suggella.  14 

Undici  sdlabe  esser  vuol  la  rima: 

qual  fusse  più  o  man,  rendi  con  lima.  16 

1  fa  meci  pie  quatordice.  —  2  condtclone.  —  G  tptrfjionc.  —  la  dai. —  10  d'nn  aìira.  —  11  vuìuUct  maltiera, 

13  tredecì vundeci.  —  14  qiiattordecì  con  dodcci.  —  15  Viidcci.  —  Iti  tendi. 

in. 

Se  tu  divari  la  comune  usanza, 

rima  in  diece  sillabe  si  vale 

se  una  sola  lettera  vocale 

perfettamente  fa  la  consonanza. 
Se  d'undici  vuoi  far  senza  fallanza, 

fa  che  ogni  verso  sia  di  piedi  uguale: 

due  lettere  vocal'  tien  per  segnale 

coli'  altre  che  fra  lor  fan  dimoranza.  8 

Se  'n  dodici  facesse  recaduta , 

tre  lettere  vocal'  similemente 

tien  pel  secondo  modo  provvedute. 
Si  che  ciascuna,  sia  nel  dir  corrente, 

che  quando  per  altrui  saran  vedute 

ti  porti  pregio  di  rimar  la  gente.  14 

Disputa  con  color  che  son  più  savi , 

a  ciò  che  ciaschedun  d'  error  ti  cavi.  16 

2  dece.  —  5  de  vndeci  voi.  —  6  de,  p.  —  7  Doi  ìctre....  siijnaU.  —  9  duodcci.  —  10  letre  ...  aimelmente.  -  lli>er  lo  s.  ■ 
12  ziaschaduna.  —  15  qiielor.  —  16  zaachadan  de. 


296  — 


IV. 


Perchè  cV  imprender  veggio  eh'  ài  desio 
a  me  diletta  molto  d' insegnarti 

mostrandoti  lo  stii  che  ne  tengo  io. 

S'  è  per  li  temporali  ovver  di  Dio, 

di  dire  «  te  »  e  «  voi  »  qiianto  puoi  guarti: 
se  dal  seguir  la  proposta  ti  parti, 
non  puoi  un  fallo  far  che  sia  più  rio. 

Ancor  se  vói  tener  diritto  stile, 
del  femminile  non  far  mascolino, 
né  del  mascolin  verbo  femminile. 

Se  fai  risposta  [a]  alcun,  con  bel  latino 


14 


vinci  che  1'  usa  a  te  con  cortesia.  1<3 

I  delelta iiìsìgnaiii.  —  3  Manca  nel  ms.  —  5  de  d.  —  (i  Di  lìhij  ti  et  coi.  —  9  tniii-  ilrito  stille   —  10  Dil  feme- 

.  mascuUiio.  —  11  mnsculino feininille.  —  12  cum  b.—  13-5  Mancano  nel  ms. 


V. 

E  non  entrare,  amico,  troppo  fiero 

nel  voler  apparar  a  dir  per  rima, 

eh'  egli  è  fatica  grande  senza  stima, 

accupamento  d'  ogni  altro  pensiero. 
Ben  che  '1  principio  ti  parrà  leggiero , 

egli  è  più  grave  a  salir  nella  cima 

come  t' ò  detto ,  a  far  bon  magistero.  8 

Non  dico  questo  per  isconfortare 

il  tuo  'ntelletto  di  così  beli'  arte , 

ma  perch'  ella  vuol  dolce  cominciare , 
Pulendo  ben  per  sé  catuna  parte; 

e  tutte  insieme  pi-ima  concordare 

che  '1  dir  si  metta  per  compiuto  in  carte.  14 

Che  molti  fanno  pai'ole  rimate , 

che  molto  men  che  in  prosa  anno  bontate.  Itì 

lintrar.  —  S  Chelgie.  —  b  te  p.  ifV/iVro.  —  7  Manca  nel  ms.  —  iO  tuonceìhlo cussi.  —  U  doìze  comcnzare. 

12  cliadauna.  —  14  se.  —  15  rimadc.  —  16  boutade. 


297  - 


VI. 


Sai  coni'  se  fa?  che  pensi  innanzi  tratto 

se  tu  non  vói  nel  tuo  parlar  fallire , 

chò  si  convien  sì  le  parole  ordire 

che  gli  auditori  non  ti  taguan  matto. 
La  prima ,  chi  tu  sei  che  viene  all'  atto , 

6  la  seconda ,  quel  che  tu  vuo'  dire , 

la  terza,  pensa  chi  ti  sta  a  iidù'e, 

la  quarta,  che  cagion  t'induce  al  fatto.  8 

La  quinta,  ti  convien  pensare  il  come 

tu  dichi,  sì  che  non  ti  sia  vergogna, 

ma  nasca  del  tuo  dir  fruttifer  pome. 
Sesta,  pensa  di  tempo  che  bisogna: 

[che]  ben  che  tutti  i  tempi  abbiano  iin  nome , 

non  si  conviene  a  tutti  la  sanpogna.  14 

Or  ti  dirò  di  ciascheduna  cosa 

che  buone  son  per  rima,  e  più  per  prosa.  16 

1  Scie  con  se  fa.  —  3  se.  e.  —  a  tit  sceche  vien  allato.  —  7  che  te.  —  S  qtie  e.  te.  —  9  x>ensar  el  e.  —  10  te  s.  — 
11  frutier.  —  12  La  seta.  —  H  convien  —  15  de  zaschaduna.  —  16  sun  per. 


1-14.  Misura  le  jjarole,  che  sicome  dell'opere,  che  sono  slahilile  per  viriudi,  così  [segue  iJericolo]  del 
parlare  quando  non  è  secondo  ordine  di  ragione.  E  però  innanzi  che  tu  dichi,  tu  dei  considerare  principal- 
mente sei  cose;  Chi  tu  se' :  Che  tu  vuoti  dire;  A  cui  tu  di';  e  Perchè,  e  Come,  e  Quando:  B.  Latini,  Tesoro, 
volg.  da  B.  Giamboni,  Bologna,  Eomagnoli,  1880,  lib.  VII;  e.  13,  voi.  Ili,  pag.  250.  Cfr.  con  Albertani, 
Ars  loquendi  et  tacendi,  in  Sundby  ,  Della  vita  ed  op.  di  B.  Latini,  trad.  Renier,  Firenze,  Successori 
LeMonnier,  1881,  pag.  479:  Versiculus  hic  est:  Quis,  quid,  cui  dicas,  cur,  quomodo,  quando  requiras. 


—  298 


VII. 


Pensato  chi  tu  se'  in  quella  stagione , 

guarda  se  in  tuo  bon  senno  esser  ti  pare; 

e  non  ti  vegua  voglia  di  parlare 

si  che  tu  non  consenta  alla  ragione. 
Se  d'  alcun  vizio  biasimi  persone , 

guarda  ch'in  te  non  si  possa  trovare, 

però  che  quei  che  fossono  a  'scoltare 

di  te  farebber  beffe  e  diligi  one.  8 

E  guarda  che  tu  sappi  chiaro  e  scorto 

quel  che  tu  'ntendi  dir,  eh'  è  villania 

spregiar  altrui,  e  maggiormente  a  torto. 
E  sopra  ogni  cosa  che  si  sia, 

fa  che  consideri  1'  ultimo  porto 

che  nascer  può  della  tua  diceria.  14 

E  questo  basti  alla  parte  di  pria.  15 

1  clic,  —  2  tìilo  bon  servo  esser.  —  3  nierjnn.  —  4  consenti  la  r.  —  5  biasenti.  —  7  fosseno  ascoltare.  —  8  fareòbe. 
10  tu  tendi.  —  12  die  ti  s.  —  14  di  la  l.  dicaria.  —  15  de. 


1-2.  Innanzi  che  tu  dica  parola ,  considera  nel  luo  cuore  chi  lu  se' che  vuoti  rfirc  :  B..  Latini,  pag.  250. 
Cfr.  Albert.,  pag.  481. 

4.  Guarda  che  tu  non  sia  corrente  per  desiderio   di  parlare,  in  tal  maniera  che  Ina  voluntale   non 
consenta  a  ragione:  Id.,  pag.  252.  Cfr.  Albert.,  pag.  482. 

5-8.  Seta  voli  biasimare  o  riprendere  altrui,  guarda  die  tu  non  sia  inagagnalo  di  i/uello  tizio  mede- 
simo, chk  istrania  cosa  è  di  vedere  il  busco  ncW altrui  occhio ,  e  nei  suoi  non  veder  lo  trave  :  Id.  ,2b'ò.  Cfr. 
Albert.  ,  pag.  483. 

9-10.  Appresso ,  guarda  ciò  che  tu  vuoi  dire,  se  tu  7  sai  o  no,  che  altrimenti  non  lo  potresti  tu  ben 
dire:  Id.,  pag.  254.  Cfr.  Albert.,  pag.  481. 

12-14.  A^ìpresso ,  pensa  tuo  ditto  e  quello  die  ne  piiotc  addivenire ,  chk  molle  cose  hanno  simìglianza  di 
esser  buone  nel  principio,  die  hanno  mala  fine:  Id.,  pag.  254.  Cfr.  Albert.,  pag.  484, 


—  299  — 


Vili. 


Pensato  quello  che  vói  dir,  ancora 

non  dir  s'  egli  è  con  tra  la  veritade  ; 

nou  dir  parole  senza  utilitade, 

e  con  ragione  ogni  tuo  dir  lavora. 
Non  parlar  aspro ,  ma  dolce  d'  ogn'  ora 

fa  el  tuo  dir,  bello  e  pieno  di  bontade, 

e  non  usar  alcuna  oscuritade: 

non  disservir,  ma  tutta  gente  onora.  8 

Nou  ischernire  e  non  gabbare  alcuno, 

e  guardati  da  far  male  parole  ; 

da  orgoglio  e  da  superbia  sta  digiuno. 
Contr'  a'  costumi  bòn,  dir  non  si  vole: 

pensa  i  tuo'  detti,  cké  di  ciascheduno 

renderai  po'  ragione  all'  alto  sole.  14 

Della  seconda  non  ti  fo  più  scole.  15 

1  che  te  uoy.  —  3-1  Sono  trasposti  nel  ms.  —  5  dolze.  —7  alguna.  —  S  deseri'ir zente.  —  9  ischerinii- gabar 

algmw.  —  11  sojìerbia dettino.  —  l:i  si;  volle.  —  13  i  to  dite zaschaduiw.  —  14  raggion.  —  15  te  so. 


1-2.  Tutto  quello  che  tu  voli  dire,  considera  se  è  vero  o  menzogna:  B.  Latini,  pag.  256.  Cfr.  Albert., 
pag.  4Si. 

3-4.  Ajìpresso ,  ijuarda  che  le  tue  parole  nonsieno  frioole ,  però  che  nullo  non  dee  dire  parole  che  non  sieno 
profittevoli  in  alcuna  parte:  Io.,  pag.  259.  Cfr.  Albert.,  pag.  48G. 

4.  Appresso ,  guarda  se  le  tue  parole  sono  per  rar/ione  o  senza  ragione  :  Id.  ,  pag.  259.  Cfr.  Albert.  , 
pag.  48G. 

5.  Appresso,  guarda  che  il  tuo  detto  non  sia  aspro,  anzi  sia  dolce  e  òz/oHct  «ria.*  Id.,  pag.  260.  Cfr. 
Albert.,  pag.  487. 

6.  Appresso,  guarda  die  la  tua  parola  sia  bella  e  huona  ,  e  non  laida  né  ria:  lu.,  pag.  260.  Cfr. 
Albert.,  pag.  487. 

7.  Appresso,  guarda  che  tu  non  dica  oscure  pirole ,  ma  bene  intendevoli:  Id.,  pag.  261.  Cfr.  Al- 
bert., pag.  438. 

8.  Appresso,  guarda  che  le  lue  parole  non  sieno  sofistiche,  cioè  non  abbiano  sollo  alcun  male  in- 
gegno da  disservire:  Id.,  pag.  262.  Cfr.  Albert.,  pag.  488. 

9.  Appresso,  ti  guarda  che  in  tuo  detto  non  ti  gabbi  malamente  né  di  tuo  amico  né  di  tuo  nimico  né 
di  nullo:  Id.,  pag.  264.  Cfr.  Albert.,  pag.  489-90. 

IO.  Appresso,  guarda  che  tu  non  dica  maliziosi  motti:  Id.,  pag.  265.  Cfr.  Albert.,  pag.  490. 

12.  Di  ciò  che  peggiora  V  onore  di  noi,  e  che  sia  contro  buono  costume,  nullo  non  dee  dire  laide 
parole,  né  metterle  in  opera:  Id.,  pag.  266.  Cfr.  Albert.,  pag.  491. 

14.  Alla  fine,  guarda  che  le  tue  parole  nen  sieno  oziose,  di' egli  te  ne  converrà  rendere  ragione: 
Id.,  pag.  266.  Cfr.  Albert.,  pag.  491. 


300 


IX. 


Pensato  a  cui  tu  parli,  si  pertene 

molto  guardar  s'  egli  è  o  non  tuo  amico, 

che  pòi  dir  con  fidanza  :  e  col  nemico 

non  parlar  troppo,  clié  non  si  conviene. 
Con  folle  non  parlar,  che  non  è  bene, 

né  con  ischernitore;  ancor  ti  dico 

se  '1  mio  dir  tieni  a  capitale  un  fico . 

che  più  lo  fugga,  che  di  morte  pene.  8 

Non  parlar,  [non]  usar  con  maldicente; 

a  ubriaco  non  dir  tuo  secreto; 

e  dove  parli,  guarda  primamente. 
Oh'  altro  bisogna  in  chiesa,  altro  nel  geto; 

se  parli  con  signor,  sie  reverente. 

rendendogli  ragion  come  discreto.  14 

Di  questa  terza  parte  mi  racqueto.  15 

1  ]jarle  se.  —  2  to.  —  6  ischenliore.  —  "i  cupital.—  8p(«  Unfiicga  —  9  Non  purlur  iwar.  —  10  Aobrico.  —  11  doni 
.  narda.  —  12  Cke  giexia nel  ijictto.  —  13  seffiior. 


1-3.  Or  il  (lei guardare  a  cui  parli,  s'  egli  i'è  amico  o  no,  clih  col  tuo  amico  tu  puoi  parlare  bene  e 
diritlamente ,  jperh  che  non  è  si  dolce  cosa  al  mondo,  come  avere  uno  amico,  a  cui  tu  2^ossi  parlare  altresì 
come  a  te:  ma  non  dir  cosa  che  non  debba  esser  saputa ,  s'egli  ti  diventasse  nemico  :  B.  Latini,  pag.  267.  Cfr. 
Aliìkiìt.  ,  jiag.  492. 

3-1.  Apiìresso,  guarda  che  tu  ìinn  parli  troppo  a  tuo  nemico,  clic  in  lui  non  2'^^o''  etere  nulla 
ficlaiv:a ,  ne  ancora  s'  egli  fosse  pacificalo  teca:  Id.,  pag.  269.  Cfr.  At.bkkt.  ,  pag.  493. 

5.  Appresso,  ti  guarda  che  a  folle  tu  non  parli:  Id.,  pag.  270.  Cfr.  Ai.iikrt.  ,  pag.  494. 

6.  Appresso ,  gìiardali  die  tu  non  parli  ad  uomo  lusingritore  e  pieno  di  discordie:  Id.  ,  Jiag.  271. 
Cfr.  .\i,EEUT.,  pag.  404. 

10.  Appresso,  guarda  che  il  tuo  segreto  tu  non  parli  a  ubriaco:  Id.,  pag.  272.  Cfr.  Albkiìt.,  pag.  495. 

11.  Ed,  in  somma,  ti  guarda  sempre  dinnanzi  cui  tu  se'  e  mollo  bene  considera  lo  luogo,  che  è  me- 
stiere di  dire  altre  cose  a  corte  ed  altre  a  nozze,  ed  altre  cose  al  dolore  ed  altre  a  magione,  ed  altre  cose  con 
compagni  con  cui  tu  sei  o  in  piazza:  Id.,  pag.  272. 

18.  Appresso,  guarda  se  tu  parli  al  signore,  die  tu  l'onori  e  rieerisci  secondo  la  sua  dignitti: 
Id.  ,  pag.  273. 


301  — 


X. 


Pensata  la  cagion  che  a  dir  ti  move 

(che  nuUa  senza  cagion  si  fu  mai) 

vù  che  tu  pensi  che  le  sono  assai, 

come  da  parte  qui  ti  farò  prove. 
Altro  si  convien  dir  pel  sommo  Giove 

che  'n  servizio  degli  uomini,  e  tu  '1  sai; 

altra  part'  è  che  per  altrui  dirai 

se  procaccio  farai  di  cose  nove.  8 

Fa  che  '1  procaccio  tiio  non  sia  villano , 

ma  sia  bello,  onorevole  et  onesto, 

e  non  far  male  altrui  per  far  te  sano. 
Se  per  1'  amico  parli ,  ancor  fa  questo  : 

movi  per  bene ,  e  non  per  altro  danno , 

che  prima  a  Dio  che  a  te  fia  manifesto.  14 

Di  questa  quarta  non  t'  è  più  richiesto.  1.5 

1  clte  de  te.  —  3  son.  —  i  de te.  —  5  se  summo  .Jone.  —  6  seruicio  deli  homeni.  —  8  proccatio  tuo  unii  farai 

(l'aggiunta  del  tuo  non  è  uuo  scorso  di  penna  del  collista  prodotto  dalla  somiglianza  dol  v.  seguente).  —  10  hoiw- 
reuollo  e  honesto.  —  11  vial.  —  15  recJiiesto. 


1.  Appresso,  dei  tu  r/uardare  perchè  tu  2iarli,  cioè  a  dire,  la  cagione  del  tuo  detto  :  B.  Latini,  pag.  274. 
Cfr.  Albert.  ,  pag.  496. 

2.  Cassiodoro  dice  che  nulla  cosa  paote  esser  fatta  senza  cagione  :  Id.,  pag.  274.  Cfr.  Albert.,  pag.  49f). 
4-10.  E  tu  dei  guardare  per  cui  tu  dì,  che  altrinientl  del  parlare  per  lo  servizio  di  Dio  che  per  lo 

servizio  degli  uomini,  ed  altrimenti  per  tuo  prò,  ma  guarda  che  lo  tuo  guadagno  sia  hello  e  coneenevole ,  che 
la  legge  vieta  il  laido  guadagno  :  Id.  ,  pag.  274.  Cfr.  Albeiit.  ,  pag.  496-7. 

11.  La  legge  dice  eh'  egli  è  dritto  di  natura  che  nullo  arricchisce  di  altrui  danno;  lu.,  pag.  275.  Cfr. 
Albert.,  pag.  497. 

12.  E  per  cagione  del  tuo  amico  dèi  tu  bene  dire,  ma  che  ciò  sia  buono:  Id.,  pag.  276.  Cfr.  Albkrt. , 
pag.  497. 


302  — 


XI. 


Pensato  come  parlar  dèi,  inteudi 

eh'  ogni  cosa  à  sua  manèra  e  misura: 

ogni  superchio  è  vizio:  e  qui  procura, 

né  solo  nel  parlar  modo  conprendi; 
Ma  in  buon  portamento  e  in  bel  t'arrendi: 

non  far  parole  né  sentenzia  oscura, 

tra  r  alto  e  '1  basso  sempre  abbi  cura  : 

piano  incomincia,  e  '1  mezzo  e  '1  fine  accendi.  S 

Queste  mainerò  muta  con  ingegno 

secondo  il  loco,  il  tempo,  e  '1  movimento, 

e  in  qua!  si  mostra  amore,  in  qual  disdegno. 
E  '1  suono ,  e  la  parola ,  e  '1  portamento 

colla  materia  ti  lega  in  un  segno , 

e  tien  tra  1'  alto  e  '1  basso  il  viso  attento.  14 

1  corno.  —  3  vicio.  —  5  le  ar.  —  6  sententia  ohs.  —  8  incomema ti  fin.  —  IO  c(.  —  11  £  hcn  qual.  —  13  Cola 

materia  tilagarium.  —  14  eì. 


1-4.  Or  ti  conviene  considerare  come  tu  parli,  cìic  non  e  nulla  cosa  che  non  abbia  mestiero  di  sua  ma- 
niera e  di  sua  misura,  e  in  ciò  eh'  è  dismisura  e  male,  e  tutto  ciò  eh'  è  sopra  misura ,  torna  a  noia:  B.  La- 
tini, pag.  277.  Cfr.  Albert.,  pag.  493. 

5.  Parlatura  è  la  dignità  de!  motto  e  la  porta/lira  del  corpo,  secondo  che  materia  richiede.... 
Tullio  dice....  che....  se  tu  'Iproferai  {il  tuo  detto)  gentilmente  e  di  bella  maniera  e  di  bel  p>ortamento,  sì  sarà 
etjli  lodato  :  lo. ,  pag.  278.  Cfr.  Albert.  ,  pag.  498. 

7-14.  E  però  dèi  tu  tenere  e  temperare  tua  bocce  tuo  spirito,  tutto  il  movimento  del  corpo  e  della 
lingua,  ed  ammendare  le  parole  all'  uscire  di  tua  bocca,  in  tal  maniera  eh' elle  non  sieno  enfiate  nh  dicassate 
alpalato,  ni  troppo  risonanti  di  fiera  boee,  né  aspre  alla  levata  delle  labbra,  ma  sieno  intendevoli  e  sonanti 
per  bella  proferenza  soave  e  chiara ,  si  che  ciascuna  lettera  abbia  suo  suono  e  ciascuno  motto  suo  accento ,  e  sia 
tra  alto  e  basso,  e  non  per  tanto  tu  dèi  cominciare  pilt.  basao  clic  alla  fine;  ma  tutlolcib  ti  è  mesticro  movere 
secondo  il  movimento  del  luogo,  delle  cose,  della  cagione  e  del  tempo  :  che  una  cosa  dee  l'  uomo  contare  sempli- 
cemente, alcuna  dolcemente,  V  altra  a  disdegno,  V  altra  per  pietà  :  in  tal  maniera  che  tua  boce  e  tuo  detto  e  tuo 
pensamento  sia  .sempre  aceordevole  alla  materia.  E  in  tua  portatura  guarda  che  segua  tua  faccia  diritta  e 
non  alta,  né  occhi  fitti  in  terra;  non  torcere  le  labbra  laidamente ,  non  aggrottare  le  so^ìr  acciglia,  e  non  le- 
vare le  mani,  nèfia  in  te  nullo  portamento  biasimevole:  Td.,  pag.  278-80.  Cfr.  Ai.iiekt.,  pag.  499-500. 


—  303 


XII. 


Pensato  ch'ai  il  tempo,  tanto  taci 

che  riposatamente  tu  sia  inteso, 

e  di  risponder  non  essere  acceso, 

però  che  agli  auditori  molto  spiace. 
Che  se  facessi  com'  altri  fallaci, 

saresti  poi  biasimato  e  ripreso: 

finita  la  domanda,  abbi  compreso, 

e  po'  rispondi  con  sermou  veraci.  8 

Non  dimenar  le  meubra,  e  fa  buon  viso, 

e  '1  tuo  dir  fa  che  non  sia  troppo  lungo, 

e  sia  senza  gridare  e  senza  riso. 
E  per  conclusion  tanto  t'  aggiungo, 

che  s' tu  non  fussi  ingegnoso  e  provviso , 

ciò  che  t'  ó  scritto  non  varrebbe  un  fungo.  14 

Ornai  più  non  ti  pungo 

di  questa  sesta  parte,  perdi' è  intera: 

e  Tullio  prova  sì  fatta  manera.  17 


3  de esser.  —  4  Fo  cìie  ali  alditori  m.  piace.  — 5  co  altri.  —  6i>uoi  hiasemnlo.  —  8  ferace.  —  9  la  menbra Iwn.  — 

10  loìtgo.  —  11  Gridar.  —  12  te  aiongo.  —  Id  fusti.  —  14  ^io font/o.  —  lo  pongo.  —  16  De. 


1.  Altresì  (IH  i/uardar  tempo  come  tu  voli  parlare:  B.  Latini,  pag.  283.  Cfr.  Ai.iìkkt.,  pag.  503. 

2.  Lo  maestro  dice  :  Tu  dèi  tanto  tacere,  cìie  gli  altri  odano  tua  parola:  Id.,  pag.  283.  Cfr.  Albert., 
pag.  503. 

3.  Anche  non  dei  tu  rispondere  anzi  che  la  dimanda  sia  finita:  In.,  pag.  283.  Cfr.  Albert.,  pag.  503. 

4.  Salomone  dice:  che  quello  che  risponde  innanzi  di'  er/li  abbia  udito,  si  è  folle:  Id.,  pag.  283.   Cfr. 
Albert.  ,  pag.  504. 

10.  En  la  quantità  di  tuo  detto,  dèi  sopratutle  cose  guardare  di  troppo  parlare ,  che   non  è  nitma  cosa 
che  tanto  dispiaccia  quanto  lungo  parlare  e  stolto:  Id.,  pag.  281.  Cfr.  Albert.,  pag.  502. 

11.  Dì  dunque  huone parole ,  liete  e  oneste  e  chiare,  seviplici  e  hene  ordinate,    a  piena   bocca,   lo  viso 
chiaro,  senza  troppo  ridere  e  senza  trojipia  ira  :  Id.  ,  pag.  282.  Cfr.  Albert.  ,  pag.  502. 


IL  VERBO  AREimO  E  LUCCHESE." 


Quanto  alla  morfologia,  i  dialetti  toscani  si  scostano  dal  tipo  lettei'ario  spe- 
cialmente nel  verbo ,  e  però  non  sarà  mal  fatto  d' indicare  le  singole  differenze  di 
flessione  dell'aretino,  alle  quali  aggiungo  di  mano  in  mano  le  forme  più  notevoli 
del  lucckese.  Spesso  per  non  moltiplicare  fastidiosamente  gli  esempi,  mi  servo 
d'un  sol  testo;  ma,  quando  non  è  avvertito  il  contralio,  s'intende  che  la  tendenza 
è  generale. 

Indicativo. —  Presente,  Ipers.  plur.  Desin.  -iéno  ^ii.  -lamo:  -arosjiiétio  da,  *&yvo- 
spare,  arraspare  B.  84.21;  pigliéiw  ib.  23;  faciéno  94.22;  vuliéno  114.27;  Gruad.  sieiio  VI, 
5,  eco.  Per  altro  non  mancano  esempi,  dove  1'  m  si  conserva.  Circa  la  probabile  ori- 
gine di  questa  forma  della  prima  plur.  con  m,  cfr.  Ascoli,  Ai-ch.  II,  452.53.  —  II  pers. 
Sono  notevoli  alcune  forme  del  torniese  dove  si  perde  il  t  del  finimento  te  in  verbi  di 
tutte  e  tre  le  coniugazioni.  0.  aée  avete  Q2.11]  pensée  ib.  13;/enii«e  69.7  con  persi- 
stenza del  a  tonico  fuori  di  posizione;  parvi  parete  76.23  con  passaggio  del  tema 
verbale  dalla  seconda  alla  terza  coniugazione;  sape  94.22,  ecc. — III  pers.  Nel  chia- 
naiolo,  pei  verbi  della  prima  coniug.,  desin.  -oko  =  it.  -roto,  fenomeno  d'assimilia- 
zione  già  notato  e  qui  non  senza  virtù  d'espansione  analogica  di  questa  desin.  pro- 
pizia delle  altre  coniugazioni  B.  pigliono  74.12;  pescando)  88.17;  aritornono  98.14;  ariz- 
zoìio  ib.  15;  arpeìismi{o)  104.30;  garbon{o)  118.11,  ecc.  Questa  forma  che  il  Perticar! 
credè  propria  soltanto  dell'antico  fiorentino  {Scritt.  del  Trec.  lib.  I,  cap.  10)  è  di 
tutto  l'antico  italiano  e  d'altro  lingue  romanze.  Cfr.  Naunucoi.  Anal.  crit.  de  verbi 


'  Queste  pagine  son  parto  della  fonetica  dell' aretino,  che  fra  breve  uscirà  in  fisa  pei  tipi  del  Nistri. 
L'autore  sta  ora  riordinando  i  materiali  per  la  fonetica  del  lucchese,  altra  i)arte  d'  un  lavoro  più  generale 
sulla  fonetica  comparata  dei  dialetti  toscani. 

I  testi  che  cito  sono  i  seguenti:  1)  B.  ;  Poesie  giocose  di  Raffaele  Luigi  Billi;  Arozzo,  1870;  2)  C;  L'ita  gior- 
nata di  Tornia,  commedia  in  tre  atti  di  Mariangiolone  Cerro ,  nel  lunario  La  castagna;  Roma,  1870;  3)  Guad.;  Menco 
da  Cadecio  idillio  d'Antonio  Guadaguoli,  nelle  Poesie;  Lugano  ,  1858;  4)  Pap.;  Traduzione  in  aretino  d'  una  novella 
del  Decameron  (Ir9),  ne  I parlari  italiani  in  Certaldo  ecc.,  di  Giovanni  Papanti;  Livorno,  187^;  5)  Zucc;  Traduzione 
in  cortonese  d'un  dialogo  fra  padrone  e  servitore,  in  Raccolta  di  dialetti  italiani  di  Attilio  Zuccagni  Orlandini;  Fi- 
renze, 1864;  6)  Na.,  Nb;  Due  poesie  in  ottava  rima  mss.  presso  di  me,  ima  delle  quali  attribuita  a  Giuseppe  Giusti. 
Sono  in  dialetto  del  contado.  Per  ciascuna  citazione  il  x^rimo  numero  o  il  numero  romano  indica  la  pagina  o  la 
stanza,  il  secondo  numero  la  linea  od  il  verso. 


—  306  — 

ital.  pag.  118  e  segg.  Il  resto  dell'aretino  fermasi  all'assimilazione  imperfetta  e 
quindi  desinenza  -etto=:it.  -uno.  Guad.  troven(o)  XII,  1;  lasceno  ib.  2;  C.  vmgneno 
89.23;  sciujjcno  ib.  26,  ecc.  *NeI  lucchese  è  normale  la  sostituzione,  diremo  cosi,  della 
terza  pli;r.  del  pres.  congiuntivo,  desin.  -ùw  -ano,  alla  terza  plur.  del  pres.  indicativo 
desin.  -ano,  -ano.  Es.:  cantino  cantano;  vedano  vedono;  credano  credono;  sentano 
sentono.  Il  fenomeno,  per  la  prima  coniug.,  è  peculiare  al  lucch.,  ma  per  le  altre  è  di 
tutto  il  toscano,  e  dell' ant.  italiano.  Cfr.  Nannucci,  Op.  cit.,  pag.  126.27.  Nel  luc- 
chese vivono  anche  le  forme  analoghe  pei  verbi  della  seconda  e  terza  coniug.:  ve- 
deno  e  vedino;  credeno  e  credulo;  senteno  e  sentino  ;  soffrano  e  soffrine;  delle  quali  quella 
in  e  mi  pare  usata  maggiormente.  Notevoli:  B.  seno  8.32  e  C.  51.29;  hèn{o)  22.26  e 
C.  57.12  ;  fènio)  84.23  e  0.  55.9  ;  dèn{o)  48.24;  vhio  5.15  e  C.  63.1  ;  stèn(o)  51.6  e  C.  48. 
11  ecc.  *Confronta  nel  lucch.  sano,  hano,  fano,  dano,  vano,  stano. 

Imperfetto.  —  I  pers.  sing.  Pei  verbi  della  prima  coniug.,  desinenza  -evo  ed  -co, 
col  normale  passaggio  d'«  tonico  in  e  largo.  Il  chian.  par  che  abbia  soltanto  -èo, 
unica  uscita  che  indica  il  B.  nel  siio  «  quadro  sinottico  »:  Guad.  smettevo  II,  3;  pen- 
séo  V,  4,  ecc.  *Una  forma  analoga,  con  e  stretto,  si  riscontra  nel  lucch.;  ma  sol- 
tanto in  devo  da  dare,  andevo  e  stevo,  per  le  singole  voci  dell' imperf.  Il  montalese, 
vernacolo  del  pistoiese,  oflPre  andea  (Nerucci,  Saggio,  p.  33)  com' esemjjio  illusorio  del 
passaggio  d'fl  tonica  in  e.  Nella  seconda  coniug.,  desinenza  -io  per  espansione  analo- 
gica dalla  terza:  B.  vidio  6.23,  cridio  8.29;  sajrio  32.1;  aio  128.8;  avidio  118.16.  0. 
pudio  potevo  67.29,  ecc.;  ma  nel  torniese  più  spesso  le  forme  in  -eo,  senza  muta- 
mento di  coniug.,  e  quindi  credéo  54.14;  eo  avevo  65.22;  dovéo  81.15,  ecc.  Nella  terza 
coniug.,  desinenza  -io  =  it.  -ivo,  -io.  B.  sintio  20.30;  discurrio  da  discurrire  26.35.  La  per- 
dita del  V  ha  luogo  per  tutte  e  ti'e  le  coniug.,  ma  non  di  regola,  occorrendo  spesso  le 
forme  piene.  *I1  lucch.  non  comporta  mai  la  caduta  del  v  in  -avo,  ossia  in  verbi 
della  prima  coniug.  (sempre  amavo,  giocavo,  e  non  amao,  giocao,  ecc.),  spesso  bensì  la 
comporta  in  -evo  (faceo,  diceo,  ecc.)  e  qualche  volta  in  ivo  (Jinio,  sentio,  ecc.)  Predo- 
minano per  altro  spiccatamente  le  forme  intere.  —  III  persona.  Nella  prima  coniug. 
termina  in  -èa,  -èva  (=it.  -ava).  In  -èa:  figUèa  figliava  32.15;  crocqmlèa  croc- 
colava ib.  1.6;  fnighèa  34.3;  andèa  40.33;  sonèa  44.26;  Nb.  campiia  X,  1;  andèa  X,  3; 
stuzzecìiki  ib.  5,  ecc.  G.filèa  59.18;  aspensèa  65.21;  accennèa  76.9,  ecc.  In  -èva:  B.  toc- 
chèva  34.6;  cantèva  60.9.  Anche  in  -ia,  per  successiva  analogia  della  terza  coniug.,  ma 
quest'uscita  è  soltanto  del  cortonese.  Zucc:  tagliia  (sic)  tagliava  260;  costìa  co- 
stava 262,  aspettia  263;  Pap.  'ngullia  ingollava  91.  Nella  seconda  coniug.,  desinenza 
-iva  ed  -ia,  per  espansione  analogica  dalla  terza,  come  sopra.  B.  aia  10.18  ed 
aiva  104.25;/acza  18.19  e/aciVa  88.18;par8a  18.11;  spariva  92.8,  ecc.  Guad.  avial,  3; 
putia  poteva  II,  7;  cridiva  III,  1;  paria  III,  3;  dicia  VII,  1,  e  Nb.  diciva  II,  3; 
Uggia  IX,  8. — III  pers.  plur.  Desin.  -iono  (^it.  -evano,  -eano)  pei  verbi  della  se- 
conda coniug.,  per  espansione  analogica,  come  sopra.  B.  cridiono-  90.31  ;  dicion{o)  108.4; 
vidion(o)  ib.;  ridiono  118.9;  faciono  ih.  15.  Nel  vernacolo  di  Tornia  non  è  costante  il 
passaggio  del  tema  verbale  dalla  seconda  alla  terza  coniug.,  e  quindi  presso  a  di- 
scurrion{o)  58.12;  viono  76.12,  ecc.;  troviamo  aéono  avevano  60.40;  féono  61.5;  paréono 


—  307  — 

64.21 ,  ecc.  Parallele  a  queste  sono  le  forme  ' ìitoppdono  60.13,  squilléon(o)  «  sguisciavano  » 
ib.;  arlc'oiio  61.4,  ecc.  di  verbi  della  prima,  col  normale  passaggio  à'  a  tonica  in  e. 
*Quanto  al  plurale  di  questo  tempo ,  nel  luccli.  è  senza  eccezione  il  passaggio  d'  a 
in  l;  onde  gridavimo,  credevlmo,  sentivimo  alla  prima  persona;  gn'davite,  credente ,  sen- 
tiuite  alla  seconda;  gridavùio,  credevino,  sentioino  alla  terza.  Il  fenomeno  forse  cominciò 
nella  terza  coniug.,  dove  la  sua  ragione  fonetica  è  chiara:  l'assimilazione  d'  a  posto- 
nica ad  i  tonico;  e  quindi  per  analogia  s'estese  alle  altre  due.  Del  resto  la  preferenza 
che  mostra  il  lucch.,  in  voci  sdrucciole,  per  im,  it,  in  sopra  am,  at,  aii  è  sufficiente 
spiegazione.  Tanto  le  forme  in  a  della  lingua  colta,  quanto  le  forme  in  i  del  volgo, 
sono  nel  lucch.  proparossitone  anche  alla  prima  e  seconda  persona;  e  il  farle,  pro- 
nunciando, paressi tone,  non  è  senz'affettazione.  Anche  quest'uscita  è  propria  del- 
l'ant.  italiano,  e  specialmente  del  fiorentino,  e  ha  riscontro  in  altre  lingue  romanze. 
Cfr.  Nannucci,  Op.  cit.,  pag.  149  e  segg. 

Perfetto.  —  I  pers.  sing.  Desin.  -è  largo  =  it.  -ai,  ne'  verbi  della  prima  coniuga- 
zione. Parrebbe  da  principio ,  che  dovessimo  spiegare  questa  forma  supponendo  la 
caduta  del  secondo  elemento  del  dittongo,  e  il  passaggio,  normale  in  questo  verna- 
colo ,  dell'  a  tonica  in  è  largo.  Se  non  che  bisogna  osservare  che  a  tonica  in  parola  ossi- 
tona ,  quando  non  sia  un  monosillabo  (quale  :  B.  he  hai  22.1  ;  de'  dai  30.16;  C.  fé  55.2; 
Guad.  sé  XII,  6,  ecc.)  persiste  senz'eccezione,  e  quindi  più  agevolmente  suppor- 
remo la  contrazione  in  è  à^ ài.  B.  auettè  montai  6.21;  stroppè  strappai  6.26;  andè  ib.; 
'nconfrè  20.26;  salute  547;  aloggè  58.26,  ec.  Giiaà.  fadighè  II,  2;  zazzichè  «  ricercai  mi- 
nutamente »  V,  2,  ecc.  Qualche  volta  trovasi  anche  la  forma  non  contratta;  p.  es.  Na. 
provei  II ,  8 ,  ecc.  —  III  pers.  sing.  Desin.  -ètte  (=  it.  -ò)  pei  verbi  della  prima  coniug. 
0.  glievètte  60.10;  scordètte  82.2;  fondette  85.17;  arizzètte,  ib.;  Na.  manchette  I,  3;  an- 
dette  XII,  2;  Pap.  'nvogliètte  invogliò  90;  varchètte  ysltcÒ,  ih.,  soeghiètte,  91;  agumincètte 
cominciò,  ib.  *Questa  forma,  dovuta  ad  analogia  delle  organiche  dette  stette,  si  trova 
pure  nel  lucch.,  ma  solo  per  alcuni  verbi.  In  andette,  (il  lucch.  ha  pure  andiede)  dob- 
biamo riconoscere  l'influenza  diretta  di  dette,  essendosi  considerato  andare  qual  com- 
.  posto  di  dare  (Cfr.  Diez,  Gramm.  II,  pag.  139  della  versione  francese).  Si  può  du- 
bitare se  in  queste  forme  non  si.  debba  riconoscere  iin  avanzo  del  t  latino  del 
finimento  -«[«iji ,  sostenuto  dall'  e  epitetica  e  raddoppiato  per  l' intensità  della  vo- 
cal  tonica,  che  regolarmente  qui  passa  in  è.  Ecco  ciò  che  1'  Ascoli  altra  volta  ebbe 
occasione  di  dire  :  «  M'  è  sempre  parso  singolare ,  che  i  romanologi  non  si  fermas- 
sero all'»  che  è  nel  frane,  chanta  (ant.  chantat)  e  accenna  a  posizione,  e  ho  sempre 
creduto  che  un  popolare  canta vt  (cantadt)  dovesse  spiegare  a  un  tempo  !'«« 
sicil.,  ecc.  ipurtau,  ecc.),  l'oital.  e  spagn.,  e  Va  francese  {Ardi.,  IV,  175  n.)  ».  Certo, 
la  spiegazione  che  dà  il  Diez  {Gramm.,  II,  pag.  137-8),  supponendo  la  paragoge  d'  un 
o  e  la  successiva  contrazione,  onde  ca?itoo  e  poi  cantò,  non  finisce  di  persuadere, 
sebben  questa,  se  si  ha  da  dir  paragoge,  si  trovi  anche  alla  stessa  persona  e  nu- 
mero, nei  perfetti  della  terza  coniugaz.,  onde  Jinio  finì,  sentio  sentì,  ecc.,  forme  oramai 
rimaste  aliasela  poesia,  ma  altra  volta  popolari.  Per  altro,  nel  caso  nostro,  volendo 
derivar  1'  -ètte  dall'  -av[i]t,  si  troverebbe  poi  difficile  a  spiegare  il  passaggio  in  è  del- 


—  308  — 

Va  tonico  in  posizione,  benché  questo  non  sia,  come  fu  notato,  senz'esempi  spo- 
radici. Una  forma,  per  quanto  pare,  preziosa  è  V  artornè  ritornò,  Pap.  86,  paral- 
lelo al  frane,  clianta,  e  cke  rimonta  di  certo  ad  -a[mt\ ,  e  sembra  perciò  confermare 
il  processo  di  derivazione  indicato  sopra.  —  *Notevole  il  lucch.,  che  ha  costante- 
mente un'uscita  in  -itte  pure  aUa  terza  del  perf.  nei  verbi  della  terza  coniug.,  e 
quindi /juìfe,  seutiUe,  cojnitte,  ecc.,  dove  sembra  si  debba  pur  riconoscere  il  t  finale, 
conservatosi  nella  maniera  di  cui  sopra,  del  lat.  -ivit.  Questa  forma  mal  si  po- 
trebbe ripetere  dall'analogia  de' verbi  della  seconda  coniug.,  ostandovi  la  diversità 
della  vocal  tonica,  onde  -itte  di  contro  ad  -ette. 

Congiuntivo.  —  Imperfetto,  II  pers.  plur.  *Nel  lucchese  la  seconda  persona  plurale 
termina  in  -assite,  -essite,  -issite;  quindi  amassite,pensassite;  volessite,  credessite;  sentissite, 
morissite.  L'accento,  sulla  penultima  in  latino,  è  retrocesso  suUa  terzultima,  come  nella 
prima  e  seconda  plurale  dell'imperfetto  indicativo.  Accanto  a  questa  forma,  esiste 
l'altra  in  -assi,  -essi,  -issi,  coUa  caduta  dell'ultima  sillaba,  ed  è  propria  di  tutto  il  toscano 
e  dell'antico  italiano.  Cfr.  Nannucci,  Op.  cit.,  pag.  30.5-6.  —Ili  pers.  plur.  1)  Desin. 
-ono  (=it.  mod.  -ero):  B.  volassono  106.18;  'njìlassono  ib.  20;  aessono  108.6 ,  éc.  G.  arpic- 
cJiiessono  bl.32;  parlassono  70.b  ;  fesson{o)  facessero  81.21;  fussouo  97.27,  ecc.  2)  Desin. 
-eno  (=it.  mod.,  come  sopra).  C.  'aesseno  60.26;  vogliesseno  81.1;  arivesseno  ib.  18;  las- 
sesseno  97.28.  Il  chianaiolo  di  Castiglion-Fiorentino  non  presenta  che  le  forme  in  -ono, 
col  noto  fenomeno  d'assimilazione.  Il  vernacolo  torniese  e  quello  del  contado  mo- 
strano una  specie  d' oscillazione  tra  le  forme  in  -ono  e  quelle  in  -eno.  Ofr.  Nannucci, 
Oj).  cit.,  pag.  306  e  segg.  *Nel  lucchese  la  terza  pers.  plur.  ha  le  desinenze  -eno  ed  -ino, 
che  ricorrono  anche  spesso  nell'ant.  italiano;  e  quindi  trovassmo  -ino;  potesseno  -ino; 
sentisseno  -ino,  eco. 

Imperativo.  —  II  pers.  sing.  Neil'  aretino  -a  passa  in  e  pei  verbi  della  prima,  se 
seguono  suffissi  i  pronomi  lo,  la,  li,  le,  me,  ce,  te,  ne.  B.  souela  18.7;  acquétete  28.4; 
ajjródete  44.11;  lasceme  64.21;  domandelo  72.32;  contentete  80.29;  scolteme  84.5,  ecc.  C. 
fermete  62.22;  amireme  65.17;  a.pvovece  66.32,  ecc.  Guad.  lasceme  I,  1,  ecc.  *Ugual- 
mente  nel  lucch.,  dove,  quando  seguono  i  pron.  mi,  ti,  ci,  si,  li,  ha  luogo  1'  assimila- 
zione perfetta;  onde  cantimi,  guarditi,  jìortici,  ecc.  Per  contrario,  ne' verbi  della  se- 
conda, si  continua  l'è  latino,  e  pur  ne' verbi  della  terza  e,  per  analogia;  onde  credemi, 
scriveli,  ecc.,  ed  apreti,  senteci,  ecc.  —  I  pers.  plur.  1)  Desin.  -ieno  {=\i.  -iamo)  come 
neir  indie,  e  nel  congiunt.  B.  varchiéno  30.29;  ajen{o)  ib.;  vediéii{o)  32.8;  facién{o)  34,37 
cantiéno  38.22;  òeyVuoib. 29;  andiéìi{o]  40.32;  svegghiéno  ib.38,  ecc.  2)  Desin.  -iemo  {=^ìt. 
-iamo).  B.  lasciém{o)  32.17;  vediém{o)  44.19;  diémigli  42.6;  diciemla  114.27;  Na.  la- 
sciemo,  YI,  ec.  3)  Desin.  -emo  (=it.  -iamo).  G.perdemo  64.8;  vedemo  55.28;  levemo  61-31- 
soleccetemo  70.29;  pensemo  71.9;  magnemo  76.1;  aprovemmese  97.1 ,  ec.  —  Ed  -eno.  Zucc. 
penséno  263,  ec.  —  L'  o  della  desinenza  -emo  s' assimila,  se  non  s'  elide,  alla  vocale  del 
pronome  suffisso.  Ad.  i:  B.  diémigli  42.5;  ad  e:  B.  figuriemece  36.40;  G.  femmela, 
facciamola  56.31.  Assim.  imperf.  in  arrizzemece  arrizziamoci  81.32,  ec.  4)  Desin. 
-imo  (=it.  -iamo).  C.  sintimo  67.20;  vimo  da  «  vire,  gire  »  80.17,  ec.  Ed  -ino  in 
Zucc.  sentino  sentiamo  259.  —  II  pers.  plurale.  Si  noti  1'  assimilazione  d'  e  ad  i  quando 


—  309  — 

seguono  suffisso  le  particelle  pron.  mi,  ci,  vi.  B.  traventètigli  scaraventategli  70.7; 
fìti(jli  80.35.  Anche  qui  il  toruiese,  come  nella  seconda  pers.  del  pres.  indie,  lascia 
cadere  l' ultima  sillaba.  C.  tini  tenete  65.31  ;  merìi  mirate  76.4,  ma  merète  95.24.  *  Lo 
stesso  nel  lucch.  che  offre  per  es.  andatimi,  gridatigli;  leggetici,  credetici;  apritivi,  ec. 
Per  altro  sono  possibili  anche  le  forme  senza  quest'assimilazione. 

Futuro. — Le  forme  con  sincope  della  vocal  protonica,  come  andrai,  vedrai,  go- 
drai e  simili,  molto  usitate  nell'italiano,  non  si  trovano  quasi  mai  nell'aretino,  e 
nel  lucchese  occorron  solo  di  rado.  —  II  pers.  sing.  Desin.  -è  (=  it.  -ai).  Ha  luogo 
come  al  perfetto  la  contrazione  in  è  de'  due  elementi  del  dittongo  ai.  B.  fare  10.22  ; 
diri:  26.8;  stare  ib.lO;  hatfarìi  ib.ll;  sintivìi  ib.l9;  are  42.25;  pensare,  112.21;  C.  ve- 
cZrtJ'e  54.21  ;  sire  93.3,  ec.  —  I  pers.  plur.  1)  Desin.  -iéno  (=it.  -emo).  B.  dariéno  dare- 
mo, 38.4;  arvedariéno  AO.^Q;  fariéno  42.21;  scompiartiriéno  ib.28;  ariéno  88.21;  siriéno 
112.14,  ec.  Guad.  arparlariéiw  VI.l  ;  vedariéno  ib.3;  Nb.  'npiparicno  impiperemo 
vb.  riflesso  III.8.  2)  Desin.  -hio  (=it.  -emo).  B.  arestarèno  38.12,  resteremo;  ver- 
rino 64.11;  darèno  86.28;  C.  cavarèno  b8.29;  f areno  ib.31;  siriino  59.32;  aren{o)  64.25; 
virano  65.9;  dirhi{o)  70.22;  toccarono  ib.30,  ec.  Na.  sapreno  III.2;  Nb.  sireno  IX.2. — 
Circa  la  prima  plur.  in  -no,  che  deriva  probabilmente  da  -mo  coli'  apocope,  onde 
per  es.  facciamo,  facciam,  vedi  Ascoli,  Arch.  II.  397  e  453. 

Condizionale.  I  pers.  sing.—  1)  Desin.  -i  (  =  it.  -ei)  con  contrazione  de' due  ele- 
menti del  dittongo.  B.  sperar!  10.31  ;  cadavi  22.14  ;/«?•«  26.13;  arhattarì  ib.26;  amaz- 
zart  28.16;  asucenari  da  asucenère  «applicare,  menare»  e  dicesi  de' pugni,  ib.  23; 
'ntarsarl  da  antarsère  «mettere  a  traverso»,  ib.  25,  ec.  C.  diri  66.19;  siri  70.1, 
vurrì  ib.  16;  ari  101.  13.  — 2)  Anche  desin.  -ihhi  (=  it.  -ei,  are.  -ebbi).  Pap.  daribbi  86.24; 
Na.  scommettaribbi  IV.  8;  Nb.  pensaribbi  IV.  8;  C.  siribb'io  85.13;  credaribbe  86.23.  Di 
questa  seconda  uscita  non  trovo  esempi  nel  Billi,  e  quindi  sarà  poco  o  nulla  in  uso 
a  Castiglion-Fiorentino.  È  del  resto  foneticamente  la  più  organica,  derivando  dal 
perf.  forte  ebbi,  succedaneo  del  lat.  liabui,  mentre  l' uscita  in  -ei  è  dal  perf.  de- 
bole avei,  di  formazione  al  tutto  romanza.  Cfr.  Nannucci,  Op.  cit.,  pag.  312  e  seg.; 
e  pag.  497.  *Ne]  lucch.  -ebbi^-ei.  Es.  canf erebbi,  penserebbi;  2ìoterebbi,  crederebbi;  sen- 
tirebbi,  jjatirebbi.  E  la  sola  forma  d'uso  nel  contado,  non  conoscendosi  affatto  l'al- 
tra in  -e/.  —  3)  Desin.  -aria  (=it.  [poetico]  -erta).  C.  scommettaria  76.3;  giurarla  78.17. 
Non  se  ne  trovano  esempi,  mi  sembra,  che  nel  torniese,  e  anche  qui  sono  scarsi;  il 
che  prova  che  questa  forma  è  d' importazione ,  e  devesi  all'  influenza  de'  dialetti  li- 
mitrofi. '  Cfr.  Nannucci,  Op.  cit.,  pag.  317  e  segg.  e  pag.  495.  — II  pers.  sing.  e  plu- 


'  n  D'Ovidio  {Saggi  critici,  pag.  523  e  segg.)  dimostra  egregi.\meufce,  che  quest'uscita  del  condizionale  avrebbe 
potato  essai-  propria  anche  del  toscano.  Ma  forse  non  ha  del  tutto  ragione,  quiindo  fa  appunto  al  C'aix  d'essere  stato 
troppo  corrivo  ad  affermare  che  nel  toscano  non  e' e.  Convengo  che  molto  resti  ancora  da  fare,  per  la  pubblicazione 
e  la  revisione  degli  antichi  mss.  del  daganto;  ma  quando  si  tratta  d'una  forma  verbale  che  deve  ricorrer  si  spesso, 
se  non  venne  fuori  fin  qui,  a  me  sembra  si  possa  senz'  altro  escludere.  Una  forma  verbale,  quand'è  veramente 
indigena,  node  una  vita  florida,  e  quindi  compare  spesso  in  ogni  scrittura;  e  non  solo  qua  e  là,  e  solo  una  volta  o 
un'altra,  come  per  caso.  Ora  vedi  anche,  dello  stesso  Caix,  Le  orig.  d.  lingua  2>oet.  it,  pag.  231. 


—  310  — 

rale.  Nel  cliian.  si  trova  per  assimilazione  i-i  da  é-i.  B.  movaristi  8.5;  trappiaristi 
ib.6,  da  trappière  «  il  filtrar  dell' acc[ua,  penetrare  »;  amprestaristi  impresteresti 
ib.7;  peìisai-iatl  26.5;  faristi  ib.25;  mirtlristi  ib.34  ;.  urristi  vorresti  28.5;  ai-isti 
30.17,  ec.  Guad.  putristi  X,  4,  ec.  *I1  mutamento  dell' e  finale  in  i  nella  seconda 
plurale,  e  perciò  1' agguagliamento  di  questa  colla  seconda  singolare,  lia  luogo, 
quantunque  non  di  regola,  pur  nel  lucchese.  —  III  pers.  sing.  Desin.  -iòbe  (=  it.  ebbe). 
E  costante  la  dissimilazione  {-e  da  é-e:  B.  bisognaribbe  6.16  ]portaribha  10.24;  arincrescia- 
rlbbe  63.8;  bastaribbe  70.1;  sirviribbe  ib.3,  ec.  G.seribbe,  siribhe  52.2,  ib.ll;  an'&ieib.l9; 
vurribbe  57.19;  giribbe  87.7,  ec.  Na.  saribbe  I,  7;  Nb.  andaribbe  II,  4;  aribhe  X,  6,  ec. 
Troviamo  per  altro  che  prevale  l'uscita  in  i.  B.  pnov  10.6;  potavi  34.11;  armarri 
rimarrebbe,  ib.l4;  andari  ib.l8;  acommedart,  30.18;  siri  ib.l9;  fari  ib.21;  aringrd- 
ziarì  ib.23;  C.  ari  65.2;  'gnari  68.14;  sia»-*  74.28;  guardari  ib.28,  ec.  E  in  tal  caso  la 
terza  persona  non  differisce  dalla  prima.  A  questa  forma  corrispondono  1'  amare,  te- 
mere, udire,  forma  del  toscano  antico,  viva  tuttora  in  alcuni  luoghi.  Cfr.  Nannucci, 
Op.  cit.,  pag.  314.  — I  pers.  plur.  Desin.  -immo  (=it.  -emmo)  con  passaggio  d'  é-o  ad  i-o, 
dove  r  i  è  dovuto,  come  nelle  precedenti  persone,  all'influenza  che  esercitò  la  vocal 
tonica  della  prima  sing.  B.  arimmo  32.24;  vurrimmo  94^.12;  farimmo  120.18.  C.  .sarimmo 
87.7;  Nb.  dovarimmo  V,  3.*  Nel  lucch.  è  notevole  l' uscita  -ebbimo.  Es.  canterebbimo,  ande- 
rebbimo;  vedrebbimo ,  averebbimo ,  crederebbimo ,  coglierebbimo  ;  sentirebbimo ,  dormir  ebbimo. 
È  uscita  regolare  da  -ebbimo  del  perf.  forte  d'avere.  Cfr.  Nannucci,  Ojj.  cit.  pag.  185 
e  449.  —  II  pers.  sing.  e  plur.  Anco  i-e  da  é-e.  C.  diriste  53.9;  corbellariste  64.19;  ari- 
ste 67.1  ;  dariste  75.27,  vurrìste  98.16,  ec.  Notisi  a  questo  luogo  che,  mentre  nel 
chian.  esiste  la  tendenza  ad  uguagliare  la  seconda  plur.  alla  seconda  singolare  (onde 
p.  es.  enti  =^  aveste,  cong.  10.6;  nascesti  18.11,  ec.)  nel  tornisse  è  manifesta  la  contra- 
ria tendenza  all'  uscita  in  e  della  seconda  pers.  sing.,  come  fu  notato.  —  III  pers. 
phir.  Desin.  -inno  (=it.  -ebbero).  B.  vurriimo  34.35;  arestarinno  76.8;  rinversciarinno 
ib.9,  ec.  C.  arinno  55.16,  ec.  *Nel  lucch.  troviamo  -emio.  Es.  canterenno,  anderenno; 
vederemio,  averenno,  crederenno,  coglierenno  ;  sentirenno ,  dormirenno,  ec.  —  Nel  lucch. 
altra  uscita,  e  molto  più  frequente,  è  -ebbe)io ,  con  passaggio  d' r  ad  n,  che  spesso  scade 
poi  ad  -ebbiiio.Ea.  canterebbeno  -ino;  anderebbeno  -ino;  vederebbeno  -ino;  averebbeno  -ino; 
crederebbeno  -ino;  coglierebbeno  -ino;  sentirebbeno  -ino;  dorniirebbeno  -ino,  ec.  Cfr.  Nan- 
nucci, Op>.  cit.,  pag.  316-17. 

Infinito.  —  È  quasi  superfluo  l'avvertire  che  1' ;•  finale  dell' iuf.  tronco  è  assi- 
milato alle  particelle  pron.  suffisse  me,  te,  ce,  se,  ve  e  ad  a,  lo,  la,  li,  le;  del  che  non 
mancano  esempi  alla  lingua  letteraria.  Inoltre  è  assimilato  sempre  alla  consonante 
iniziale  della  parola  seguente.  *  Lo  stesso  avviene  nel  lucchese.  —  Pei  verbi  della 
seconda  coniugazione  in  -ere  postonico  (terza  coniug.  latina),  non  ha  luogo  all'infinito 
1'  assimilazione  d'  /•  alla  consonante  de'pronomi  suffissi,  ma  il  finimento  re  cade  tutto 
intero;  e  così  B.  rompeme  rompermi  26.21;  rompece  66.22,  ec.  C.  gniscondete  nascon- 
derti 60.10;  mettece  metterci;  73.15;  cuoceglie  cuocerli  77.25;  armettela  51.7.  Zucc.  cno- 
cese  cuocersi  262;  Pap.  mettese  mettersi  88;  pugnelo  pungerlo  ib.;  smuovelo  smuo- 
verlo 91,  ec.  *Lo  stesso  avviene  nel  lucch.,  dove  per  altro  accanto  alle  forme  colla 


—  311  — 

caduta  di  tutto   il  fiuimento  re  si  trovano  anche  quelle  con   assimilazione  dell' ;•, 
onde  crcdemi  e  credemmi,  perdeci  e  perdecci.,  rovìpevi  e  roììqjevvi,  ec. 

Participio.  —  È  frequente  la  forma  accorciata  del  participio  nei  verbi  della 
prima  coniugazione.  B.  l' asti  scorda  scordata  (di  strumento  musicale)  10.6  ;  la 
notte  varca  24.17;  ì'«ìy  stroppo  strappato  bG.12;  gli  hai  chèvo  saìigue  ib.26;  im  mete 
parlo  58.2;  s  era  ardormento  90.7;  m' hèro  a(jrappo  aggrappato  ib.l8;  nun  me  fvssi 
aderizzo  106.3;  Pap.  avv' arquisto  86.'ò;  fadiga  butta  ib.V),  ec.  Eichiamo  qui  ciò  che 
dice  l'Ascoli,  Arch.,  II,  451-2.  «Se  fra  gl'idiomi  letterarj  questa  elegante  proprietà 
è  pressoché  un  privilegio  dell'italiano  (cfr.  Diez. ,  Gramm.,  IV,  152.3),  si  troverà  poi 
difficilmente  alcun  vernacolo  dell'  Italia,  o  pur  della  Toscana,  in  cui  essa  resulti  più 
cospicua  di  quello  che  è  nell'aretino.  Duole,  a  ogni  modo,  che  manchi  ogni  studio 
intorno  alla  geografia  e  alla  statistica  di  questo  fenomeno....  Anche  dal  versante 
Adriatico  potè  il  Mussafia  addurci  dei  belli  esemplari  Eomagn.  Ilund.,  §  256,  faent. 
l'ha  ciap  «ha  chiappato»;  Ve  scap  ì  ho  «  sono  scappati  i  buoi»,  e  altri,  che  giova 
aver  qui  rammentato.  ■»  E  segue  adducendo  una  lunga  filza  d'  esempi,  dove  sono 
compresi  anche  quelli  testé  riferiti.  ' 

Silvio    Pieri. 


'  la  nota  l'Ascoli  aggiunge:  •  Forse  il  senese  e  il  lucchese  .si  potranno  misurare  coli' aretino,  o  anche  supe- 
rarlo. •  Ora  io,  turante  al  lucchese,  non  ho  in  mente  nessun  participio  passato  di  prima  coniug.  d'uso  schiettamente 
popolare,  che  non  presenti  la  forma  ridotta.  Basti  che  di  tutti  gli  esempì  che  reca  l'Ascoli,  si  nel  testo  e  si  nella 
nota,  da  diversi  vernacoli,  non  mancano  al  lucchese  che  due,  Vaìxòlco  del  Lappoli,  e  il  varco  70.29  del  Billi, perchè 
di  verbi  non  usati.  Riesce  per  altro  difficile  a  stabilire  tutti  i  casi,  ove  la  forma  ridotta  trovasi  da  sola,  senza  fare 
un  doppione  con  quella  intera.  L' esistenza  poi  di  questa  in  canti  popolari  non  vuol  dir  nulla,  jiorchè  anche  in  To- 
scana è  notevole  la  tendenza  ad  un  certo  ideale  linguistico  per  la  poesia,  che  induce  i  campagnoli  a  modificare ,  più 
o  meno,  la  loro  lingua  d'uso.  E  quando,  per  servire  a  quest'ideale,  il  contadino  adopera  un  verbo  che  non  è  del 
suo  linguaggio  comune,  allora  egli  non  si  permette  quasi  mai  la  forma  accorciata;  cosi  pel  verbo  amare  (nel  lin- 
guaggio comune,  volé  bbeìic^fà  aW  aìnorc)  adopera  sempre  amato  (O  Dio  de' Dei!  —  Armnuco  s'un  t'avessi  amato  ifliai! 
—  Ir  sangue  delle  vene  paijlierei).  Cosi  del  verbo  andare,  il  cui  participio  non  è  del  linguaggio  comune,  sxipplendosi 
questo  con  ito,  adopera  per  imitazione  letteraria  sempre  la  forma  intera  andato  e  mai  andò.  E  anche  è  difficile  il  de- 
terminare quanto  nelle  varie  località  l'uso  di  persone-colte  influisca  sull'uso  popolare  e  valga  a  infrenare  questa 
tendenza  fonetica.  Del  resto  ,  pur  in  canti  popolari,  si  trova  spesso  la  forma  tronca,  com'cbbi  occasione  altra  volta 
di  avvertire  {Propugn.,  a.  XIII,  P.  II ,  pag.  157,  nota  2). 


L'ODIERNO  DIALETTO   CATALANO 

DI   ALGHERO    IN    SARDEGNA. 


Invece  di  respingermi  a  prendere  nota  de' soli  punti,  non  molti  (come  si  vedrà)  uè  es- 
senziali, in  cui  1' algherese  divaria  dal  linguaggio  presentemente  parlato  ne' paesi  ove  il  cata- 
lano è  indigeno,  mi  è  parso  opjiortuno  di  abbozzare  uno  schema  complessivo  del  dialetto 
-medesimo;  dal  quale  facilmente  si  possa  desumere  quanto  del  patrimonio  linguistico  della  co- 
lonia catalana  resti  ad  Alghero  intatto  e  quanto  siasi  alterato  e  dove  abbia  esso  ceduto  al 
sardo  clie  da  ogni  parte  lo  stringe.  Tanto  più  mi  è  parso  opportuno  questo  compito,  clie  di 
nessun  odierno  dialetto  catalano,  per  quanto  io  sappia,  si  è  fatto  uno  studio  metodico  e  com- 
piuto. Il  materiale  per  il  presente  studio  (comjDresi  i  proverbi,  i  modi  di  dire  proverbiali  e  le 
similitudini  cbe  pubblico  in  appendice  al  medesimo)  è  dovuto  alla  cortesia  del  eh.  prof.  Giu- 
seppe Frank,  nato  e  dimorante  in  Alghero,  amoroso  e  intelligente  cultore  dell'idioma  avito. 
E  questo  materiale  mi  è  stato  possibile  di  accertarlo  e  accrescerlo  coli'  interrogare  personal- 
mente qui  a  Firenze  un  giovane  egregio  del  luogo.  Ebbi  pure  sott'  occhio  la  traduzione  al- 
gherese della  novella  IX  della  giornata  I  del  Decameron  di  G.  Boccaccio  edita  in  Papanti, 
I  parlavi  italiani  in  Certaldo  ecc.,  Livoi'no,  1875,  pag.  43G-37. 


i.  —  APPUNTI    FONETICI. 

Vocali  toniche.  A.  —  Ecco  qui  tutti  i  casi  in  cui,  por  qualsiasi  ragione,  in  luogo 
cleU' A  originario  si  ha  un'altra  vocale.  1.  Un  e  :  a)  nella  risposta  ad  -amo  :  ganc  efrahé 
januario-  e  febr.,  tare  tei.,  grane,  guljé  (agorajo),  jxe/y'c,  acer  (acciajo),  dane[ì]  den.,- 
imme{r\  e  terce\r];  cubate  (calzolajo),  carnigé  (macellajo);  gutera  (grondaja)  'gattaria', 
caldera,  culjera  (cucchiajo),  las  idjcras  (gli  occhiali),  cacera  (caccia)  'captiaria'  e  così 
massera  (messe);  pirera  (pero)  e  analogamente  clrera  —  cfr.  prov.  ceceù-rt  —  in  luogo  di 
dreseraì  (ciliegio  e  ciliegia) ;/«^«e)-a  forn.,  dona  finestrera  (donna  che  passa  il  suo  tempo 
alla  finestra);  allato  a  campanar  (-ile),  uUvar  (olivete),  nutar  not.,  e  alle  voci  d'ori- 
gine sa.vda.  frailargu  ('fabrilario-'  magnano;  cfr.  Arclt.  Glottol.  Ital.,  II,  p.  139),  ìnu- 
rinargu  molinario-  e  simili.  —  p)  greu.,  ali.  ad  agrdvi ,  e  Ijepa  lappa  (cfr.  Diez,  Et. 

10 


—  314  — 

Wort.,  I,  s.  'lappare').  —  7)  e' ai'  habeo,  se  'sai'  sapio,  trec  treus  'trajo  -is'  =  traho  -is; 
bes  basio-  e  fes  fascio-; /cr  'faire'  facere  (e  affer  affare, /eiYW  facevano,  fenll  facen- 
dogli), j;?tì<  (litigio)  placito-,  mes  ma[g]is,  menò  (mangio);  —  ò)  fet  'faito'  facto-  e  Ijct 
lacte.  —  2.  Un  0  :  opr  apro. 

E  lungo  —  3.  i:Jir(i  (fiera)  fèria,  muìiadi  monasterio-,  rahim  racemo-,  e,  non 
ostante  la  posizione  antica  e  moderna,  cris  créaco. —  4.  e  piuttosto  chiuso:  tera  tela, 
ayhé  avere,  ecc.,  curezma  quadrages;  carena  cat.,  tarré  terr.,  »are' veneno-,  varema  vin- 
dèmia,  biirét  (fungo)  boleto-,  seu  sebo-;  e  meza  mensa,  mes  mense-,  frances,  ecc. — 
E  breve  — 5.  e  :  deu  deus  e  deu  decem,  gel,  era  eram  erat,  feula  teg.,  jjedra  e  jjera 
petra,  peii  pede-,  ÌJeòra  lep[o]re-.  —  6.  /  :  air  beri,  cariru  (sedia)  cathedra,  sic  seqiior.  — 
E  in  posizione  —  7.  e  in  velj  (vecchio)  e  meja  medico-,  in  posizione  moderna;  aiielj 
anello-  e  simi  i;  terra,  pvessac  persico-,  'nvelii  (inverno),  pelt  perdit,  erba,  despa  vespa 

—  8.  e  (e  chiuso)  davanti  a  n  +  conson. :  parmit^  veni,  dent,  plur.  parents  ecc.;  ventra 
ventre-,  teins  tempus,  setembra  sept.  ;  e  anzi  vmc  vendo  e  pirènc  prehendo.  —  9.  i  :  viiic 
venio ,  tinc  teneo  (2"-  pers.  vins,  tiiis),  allato  alla  S*  pers.  ve,  te;  Ijic  quasi  'legio'=légo 
(cfr.  ijigis  legis) ,  mie  mi<jd  medio  -a  ;  is  exeo ,  tiis  texo.  Inoltre  :  sis  sex  ;  e  Ijit  lecto- 
e  pit  pectus  (ali.  a  d.vct  directo-).  L'  i  di  drumiid,  fiiijint,  santiiit  dormicndo,  ecc.  (ali.  a 
bajent  bibendo,  antaiient  intend.)  continuerà  quello  dell'infinito  drumir,  ecc. 

I  lungo  — 10.  (■  :  vili,  vivo-,  istm  (estate)  [tempore]  aestivo-,  bisid  (pisello)  'pisulo-', 
ytZma  '  vinjma  '  vimine-,  uluidan  obliano,  marit.  I  riflessi  di  ^cato-  e  frigido-  sono 
fetja  e  fret,  secondo  il  num.  13.  —  I  breve.  —  11.  i  :  si  sino-  e  .s*  sic,  IJc  ligo,  dit 
digito-,  vidra  vitro.  — 12.  Ma  di  solito,  «  -.jm'I,  ìwìi  nive-,  firn,  fimo-,  scxMWrt  simula , 
aiisems  s'unuì,  f ree  frico  ,  2'i'cc  plico,  ^iega  (pece),  net  nitido-, /e  fide-,  veii  videt,  pebra  pi- 
pere. —  I  in  posizione. — 13.  n  :  maraveljn,  ceìja  cilio-,  iirelja  auric[u]la,  ìivclja 
ovic[u]la,  jj«)-e/y'  (coppia)  paric[u]lo-,  iiiens  minus,  aiivega  invidia;  eJJ  elja  ilio  -a,  cabelj 
capillo-;  [ìiielca  (milza)],  velt  viride-, ^jes  pisce-,  mestra  magistro-.  —  13"^'^.  e  davanti  a 
n-i- conson  :  cendra  cinere-,  dimienga  [dies]  domiuica,  cuìiienc  (comincio);  ÌJeiogua  lin- 
gua, trenta  (ma,  per  influenza  dell'  antico  -i,  vini  viginti),  entr  intro.  —  14.  u  in  mifl 
inflo  e  «;//^>/ impleo.  (E  n, ','  =  /=  é  s'ha  in/*-asJ«Mì«  blasphemia  e /)-«s^/»i  blasphemo). 

O  lungo. —  15.  u  in  nu  nodo-;  e  0  piuttosto  chiuso  in  «ossole-  e  solo-,  ora  hora, 
la  pastora  e  liis  pastors,  manrjarora  (-atoja)  tizoras  (forbici)  tonsorias,  tions  (tizzoni), 
com  quomodo,poj)!«s,  nabot  e  nabora  nep.,  tot  e  plur.  tots.  — 15*^'^.  0  in  viiljó  Qpigó  meliore- 
6  pejore-,  cacavo  (cacciatore),  razó  (rasojo),  raM  ratione-,  tió  sing.  di  tions,  e  simili. 

—  K).  Altri  riflessi,  ma  sporadici  :  ara  ('ora",  avverbio)  e  ancara;  —  veu  voce-  (cfr. 
cren  cruce-  del  num.  22),  ciwìé.s  cognosco.  —  0  breve. —  17.  0  in  yo^ 'volet'  vult 
(2"  pers.  voh),  vora  volat,  sora  solea,  mar,  cor,  non  novem,  bo  bona,  orna  homo,  ìjoc 
loco-, /oc,  coura  coquere,  pot  pot[est]  (2"'  pers.  pots),  a  prop  (vicino)  ad-prope. — 
18.  Il  :  j/((c  jocor,  |pMcpossnm];  buit  da  'bilit'  (vuoto,  agg.  e  verbo),  se  qiiesta  e  la  voce 
congenero  delle  altre  romanze  è  (vedi  Ardi.  Glottol.  Ital,  IV,  p.  370-1)  da  *  vòcito-  = 
'■'  vacito-  (*vacuito-?) evacuo.  —  0  in  posizione. —  11).  0  :  solt  (sciolto),  dolm  dormio, 
poh  porco-,  moU  mortuo- ,  oidi  hordeo-.  —  20.  o  (cioè  0  chixiso  in  analogia  col  num.  8) 
=0  susseguito  da  n-i- conson.  lasjjouf/aspongia,  adanwìi  'a  monte' sopra,  cQnt  computo. 


—  315  — 

rmpnnc  respondeo.  — 20'''*'.  n  :  fui)  folio-,  vulj  (voglio)  ali.  a  voi  e  vols  del  mim.  17; 
adj  ('coglio'  colgo),  nlj  'ocljo-'  oculo-,  Ijìin  longe,  vui.  avnj  hodie,  tramuga  trimodia; 
mussic  morsico. —  Per  cusa  coxa,  vii/'t  (da  ' vint  )  octo  o  vit  (da  ' imit'  da  'itì'iit')  nocte-, 
cfr.  num.  0. 

U  lungo. — 21.  u'.puca  ptilice-,  mìo-,  cuzidura,  ìjunn,  ai ac  exsuco,  'nnit ,  aufj tu' 
inglat[i]o  (ma,  dietro  all'analogia  del  nnm.  seguente,  cìoura  clfidere).  —  U  breve.  — 
22.  0  in  :  iirou  pluit,  dos  ómans  ' àwQ  uonaini'  (allato  a  duas  dunas)^  gora  gula,  nora 
*uuria  =  nurns,  r/oya  juvene-,  ^jj-oma  piuma,  nou  nuce-  (cfr.  pou-^puc-''  pnteo-;  ma 
creu  cruce-),  IJop  (ingordo)  lupo-?,  coznr  cubito-.  — U  in  posizione.  — 2.3.  Di  rado 
Il  :  migra  nngula,  jjuìtt  puncto-;  e  anche  asutt  exsucto-  e  fi-ui't  (da  'fnìit')  fructo-  (ali. 
a  trota  tructa,  dal  sardo)  ove  trattasi  di  originario  u.  —  24.  o  :  {/anplj  'genuc[u]lo-", 
fanglj  fenuc[u]lo;  (e  anzi  agulja  acuc[u]la). —  25.  o  :  sofra  sulphur ,  po?,s  pulsus  e  pul- 
vis,  dolc  dulce-,  ascoU,  sangrot  singulto-,  solt  surdo,  rot  xuciw- .,  gota  gutta,  sota  subta, 
ma  (cfr.  num.  20),  gnca  lincia,  songa  axungia,  mgn  mundo-. 

M,  OE.  —  2G.  cel,  ffM  (brutto)  foedo-.  —  AU.  —  27.  o  :  col  caule-,  ^joc, proba  pau- 
pere,  eoa  cauda. —^ Quanto  all'AU  secondario,  allato  a  coca  —  cfr.  prov.  caiisaa — (calcio) 
e  a^gc  sciacquo^'  asau&  (cfr.  cdgiia  =  augua^?iq\\^) ,  trovo  crau  davo-  e  par  aula  para- 
bola. —  28.  Esempi  ài  y  in  e  :  mella  amygd-  ;  pto.ra; pape  -yro;  — 20.  di  //  in  n  :  multa 
(catal.-com.  mm-tra)  uxjvto- e  grida  crypta.  Del  resto  hgssa  byrsa,  frof:  num.  Ili,  ecc. 

Vocali  atone.  —  30.  L' a  sola,  di  regola,  è  intatta.  E  ritorna  Fa  che  in  accento 
si  era  alterata,  come  si  vede  p.  e.  in  hazdr  e  mangdr  infìn.  di  hes  o  mene.  E  prende 
volentieri  il  posto  anche  delle  altre  o  direttamente  o  dopo  la  loro  caduta:  ma  veus 
me  vides,  ta  voi  te  vult,  désama  laxa  me;  fZa  =:  de  in  composiz.  {dama  de-mane),  ^>«- 
rUj  periculo-,  dascrt,  prazó  pre[h6]nsiono-,  masura  mens.,  vanir,  vare  xeneno-,  fa melj a 
femella ,  ^jaiii  appet.,  cragi'tt  (creduto) ,  maraciiia  medie,  nabot  nep.  ;  capaljd  (cappel- 
lano), dascus  (io  scucio),  dastac  (io  distacco)  ecc.;  vangut  e  tangnt  pep.  di  vanir  ve- 
nire e  trenda  tenere,  ma  pant/té  mi  pento,  ecc.;  essa;-,  ciniiUar ; pjara  mara  frara  patre- 
niatre-  fratre- ;pro&a  paupere-;  edura  cadere,  béura  bibere,  e  cosi  tutti  gli  altri  verbi 
in  -ÈRE.  Analogamente:  orna  (pi.  omuns),  mastra  magistro-,  mega  medico-,  Ijadra 
latro  (pi.  Jjadras),  miracra  -aculo-  ecc.,  che  rispondono  a'  catal.-com.  home,  ìnestre,  ecc. 

—  S' intende  che  s'  ha  a  =  e  prostetico  catal.-com.  del  num.  lOS  :  ascala. ,  ecc.  —  a  =  i  : 
rtwae/ii'in-eccu-hic',  analjd  'in-eccn-iLlac',  anvega  invidia,  au  casa,  nnganar  (ingann.), 
antcramols  ('interra-morti'  sepoltore),  anter  integro-;  manut,  vagada  (fiata)  *vicata, 
ascidtagar  (ali.  ad  ascurgar)  excortic,  garhalj  cribello-,  bagid  (bevuto),  e  pascar, 
sangrot  singulto-,  Ijancol  linteolo-,  ma  vandieliéé;  [varmia  vindemia];  pressae  persi- 
co-, ecc. —  «.  =  o  :  falnes  (fornisco,  col  senso  di  'finisco').  —  31.  Conservato  l'i  dinanzi 
a  vocale  in  cristid,  viaga  (viaggio),  diacra,  niara  (nidiata),  rlcA-a  ridebam,  diiiré  (dirò), 
siidetdr  sibilare,  eardiiil  'qualcuno'  (da  cui  sarà  determinato  l'i  di  uingu  'nessuno'); 

—  in  grazia  della  vicinanza  di  voc.  o  conson.  palatale,  in  :  ascriclr  scribere,  astrimr 
stringere,  simic  (somiglio),  cristid,  camice  nnm.  1; — inoltre  in  r?i-//«)is  lunedì,  di-mcds 
martedì,  ecc.,  e  in  miracra  e  mirai/  (ali.  a  marauelja),  fmdr  finire,  vinagra,  primér, 
dirai  dit.  ;  anima ,  maniga.  —  L' i  è  anzi  talvolta  sostituito  ad  e  che  si  trovi  dinanzi 


—  31G  — 

a  vocale  o  attiguo  a  suono  palat.  :  criatura,  girerà  nnm.  1;  istm  uum-.  10;  miljó  e  j^igó 
num.  15  e  tindó  (cfr.  tis  num.  9).  Inoltre  in  dina  (desinare)  clecoen-,  e  in  diners  de- 
na.rii,JtHestreì'a  num.  1,  viiighé  e  tingile  S^  pers.  perf.  di  vanir  e  trenda  (cfr.  vinc,  tino 
ni:m.  9),  allato  a'  -pc^.vangutytangut;  e  in  tisoras  num.  15  =:  catal.-com.  [es]tesc)ras. — 
E  sempre  i  è  la  vocale  di  flessione  del  pres.  sogg.:  sa  desi  (si  lasci),  ddsisa  (lascisi), 
currin  (corrano),  ecc.  — 32.  Normale  ((^o  :  vuhr,  hurét  num.  3,  muri  (molino),  mu- 
rir,  uveJja  ovella,  muiéin  movemus,  nuvemhra,  cuncsar;  dimienga,  pudér;  adjera 
num.  1;  druinir  dorm.,  ecc.  (Forse  unica  eccez.  :  noranta  nonagiuta).  —  33.  Casi  spo- 
radici di  ((.  =L  a,  e  ed  i,  solitamente  per  influsso  di  labiale  attìgna.  :  avidut  tu- 
multo (cat.-com.  aval-),  munti  (mast.),  cidtat  civit-,  inoltre:  Ijwjd  (leggiero).  Da 
ragioni   speciali    dipenderà    Vu  di  curezma   quadragesima,  siuletar  sibilare,  curigd 

chirurgiano';  e  di  hastunaga  pastinaca,  ove  probabilmente  ka  influito  'bastone' 
(per  unfldr  e  umplir  vedi  unjl  e  um^il  num.  14). 

Consonanti.  J.  —  34.  In  g  (e  all' viscita)  :?/««(/ num.  1 ,  (jim  juuio-,  gugar  judic, 
digóus  (giovedì),  drujA  (digiuno),  mnó  niajo-  (ma  ajut).  —  35.  LJ  :  muljér,  miljó, 
jìijora  filiola;  alj,  2>nIJa,  celja  cìlio-,f  IJ  (ma  plur.  fls).  —  30.  EJ  :  astoni  storca,  ecc. 
Dal  sardo:  frailargu  e  murinargu  num.  1.  —  37.  VJ  :  gahia  cavea.  —  38.  SJ  :  ca- 
m.iza,  hes  num.  1.  —  39.  NJ  :  castana,  vina,  gun.  Dal  sardo:  carcanzu  calcagno.  — 
40.  MJ  :  varema  vindemia.  —  41.  CJ  :  faci  faciat,  calqa  'la  calza'  (e  enea  'il  calcio' 
num.  27);  hrac  bracliio-.  — 42.  TJ  :  jirana  platea,  (cnceca  num.  1  e  cacarónnva.  15^'^), 
Ijancol  linteolo-,  cancó,comenG  (comincio);  allato  a  ralió  ratione-,  tió  titione-  (astazó 

stagione'  può  essere  dal  sd.  stazóni'.  —  Il  tj  finale  si  è  risoluto  in  u  :  palau  palatio-, 
ji^oif  puteo-  (cfr.  num.  7G,  77).  —  43.  DJ  :  anvegar  (invidiare),  desigar  (desiderare  ' — 
vedi  Diez,  Et.  Wort.  I,  s.  'disio-");  vac  'vadio'  vado,  ca  vagi  'vadiat'  vadat,  anvega 
invidia,  mie  miga  medio  -a,  desiò  (desiderio),  tramùga  'trimodia'  (ma  rajjremej,  avt/J 
bodie).  —  44.  BJ:  roc  roga  rubeo  -a  (ma  rahia  rabie-  e  robia  rubia).  —  45.  E  passino 
qui  gli  esiti,  sebbene  forse  non  tutti  riducibili  ad  una  medesima  causa ,  della  formula 
atona  -ico  preceduta  da  n,  nd,  d,  t,  :  dumenga  [dies]  dominica,  eanonga,  monga  (ali.  a 
manie  e  maniga);  mene  'mandico'  (mangio);  msga  medico-  (per  guga  'giudice'  cfr. 
gugar  num.  34);  viaga,  furiuaga,  fega  'fitico-'  =  ficato-,  scurgdr  excortic.  {polcu  por- 
tico è  il  sd.  porcii). 

L.  —  46.  L-  :  IJana,  liadra,  Iji  lino,  Jjit  num.  9,  Ijoc  (e  anche  iioc)  loco-,  Ijuna. 
Davanti  ad  i  è  però  sì  debole  da  ridursi  talvolta  a  J,  p.  e.  nel  riflesso  di  'lego,  le- 
gis',  che  propriamente  suona  jió,  jigis  piuttosto  che  Ijié  ijigis.  — 47.  'L''  '-firà,  vurd 
voi.,  tare  telarlo-,  hurét  num.  3,  marincunia,  mitrt  (molino),  scaì-ons  (scalini);  ara, 
scara,  mar  a  Jìijora  mala  filiola,  caria  calice-,  saric  salice-;  tera,  candera,  fira,  vira 

vila'  =  villa,  sora  sola  (aggett.)  e  solea,  vor  volo,  vórah  (vogliono),  gora  gula;  tuura 
tabida,  téura  teg.,  dcchira  aquila,  furmigiira,  niivura  (inoltre  piudura  ^=  catal.-com. 
pind,ola,  spagu.  pildora).  —  48.  Scambio  sporadico  di  1  con  n  in  gunivelt  (prezze- 
molo) :=  catal.-com.  julivert.  —  49.  LL  :  valjana  avell.,  galjina;  gàlj,  anelj,  helj  orna, 
belja  cara  bella  cera,  seija,  colj,  ecc.  —  50.  L -i- conson.  :  lus  animals,  lus  cabels,  viils 
mille,  j;io/.s-  mini.  25,  tu  vols  (tu  vuoi),  ealca  e  dascalc  scalzo,  carchiu  (qualciuio),  meìca 


—  317  — 

num.  13,  multò  (montone),  ascólt,  polp  polypo-,  arha  ;  ali.  a  .sam  e  pam,  pi.  sams  ecc.,  (salmo 
e  palmo),  coca  mxm.  27,  doc  dora  dulce-,  j^iga  pul'ce-,  che  presuppongono  saum., 
saums,  ecc.,  cioè  la  risoluzione  in  m.  (Quanto  a  sou  sol'do-,  si  può  dubitare  se  continui 
souD-  o  non  piuttosto  sod-,  conforme  al  num.  90). 

CL ,  TL.  —  51.  cr  (d  intatto  solo  se  la  parola  contenga  un  altro  ;•)  :  dar,  cran 
clave-  e  davo-,  amascrà  (mescolare),  a-areJJ  (catal.-com.  davclj)  caryopliyllo-,  [escrat 
schiatto];  i(j res ia  eccl.,  rt;ìcr«.3'a=  catal.-com.  eiidusa  (incudine),  dóura  elùdere  —  Spo- 
radico Ijoca  (chioccia),  eh' è  catal.-com.  —  In  postonica  cr  solo  in  mlracra  e  mascra=^niì- 
rac[u]lo-  e  masc[u]lo-.  In  tutti  gli  altri  casi  domina  Ij  (=  -clj-  =  -ci-)  :  miralj  (specchio), 
pnriilj  n.x\xa.  13,  veìj  (vecchio),  urdja,  umbrilj  'umbiliculo-',  idj  oculo-  (ma  pi.  lus  tds); 
(janolj  '  genuculo-  ' ,  poìj  '  peducolo-  '  (ma  pi.  foh) ,  acjidja  '  acucula.  '  —  Nel  riflesso  di  '  len- 
ticula'  si  è  affilato  a  J  e  per  questa  via  dileguato:  Ijantia  {cfv.jic,  ecc.  del  num.  40). 
—  52.  GL.  (jlara,  sanrjrut  num.  23  (ma  aagiìr,  angiirti-,  invece  di  angriir,  ecc.,  inglu- 
tio  -ire),  Migra.  —  53.  FL  :  frama ,  Jlor ,  nnflar.  —  54.  PL  :  j^jraca  platea , ^j/rtr/«  e  praga, 
aéprafja  spiaggia;  j^jrancm'planulare'  (piallare), ^;ira)tfrt,  pratt; pr e prena '^leno-  -a,  pdcc 
plico  (non  prec ,  per  evitar  confusione  con  prec  precor) ,  pht  e  pret  placito-,  jìlor,  plou  e 
prou,  pluit,  2)rom  plumho-;  ampra  (distesa  d'acqua  stagnante).  —  55.  'B'L-:hran 
'biavo'  bleu,  hraiic  e  hrancaria,  ecc.;  e,  per  BL  secondario,  brera  'bleta'='betula'  (cfr. 
ital.  bietola)  beta,  umhilj  umb[i]liculo-.  (Ma  vedi  frashhna  e  frastgm  num.  14  be- 
stemmia, ecc.). 

E.  —  56.  Tra  vocali,  così  sottile  che  poco  o  punto  differisce  da  L  :  la  risposta 
a  'moriebar'  p.  e.  è  piuttosto  midiva  che  muriva. — ^Ed  è  di  regola  l  davanti  a  con- 
son.  :  calli,  salment,  IJnlg  largo-,  ?«  faW«  (la  sera),  calvelj  cerv.,  anvel[n]  (inverno),  malcat 
mere,  velt  viride-,  poUu  num.  45,  moli,  tolt,  scidtar/ar  num.  30,  fohi  e  fulnera  fur- 
no-,  ecc.  — Affatto  sporadico  il  ijl  di  rjloc  (giallo),  che  è  il  sd.  r/rogu  croco.  —  57.  Sop- 
presso in  abra  (ali.  ad  arhra)  arbore-  e  )»«6;-rt 'marbra"  = 'marmbra' =  mai'more; 
in  sastra  sarto,  catal.-com.  e  spagn.  sastre,  cioè  'sarstre' =  sarcitor,  e  in  curi/jd  del 
num.  33.  —  58.  All'  uscita  cade  quando  non  sussegua  parola  incominciante  per  vo- 
cale: -a  -e  -«' =  -are,  ecc.  degli  infin.  ;  pe  o  pa  per  (p.  e.  pe  la  primera  vagada  per  la 
prima  fiata),  calo  calore,  cacadó  cacciatore-,  ecc.  —  5'J.  Il  r  di  US  si  conserva  solo  col 
mutar  di  posto  (p.  e.  pressac  persico);  del  resto,  si  assimila  a  s  (p.  e.  miissic  num.  20 
e  bassa  num.  28). 

V.  —  (30.  Inizialo,  di  solito  intatto.  Raramente  sale  a  b  :  barrina  (trivella),  se  è 
.  da  'veru";  buitia.\\.va..  18.  —  Solitario  tZas^ja  vespa.  —  GÌ.  Tra  vocali  :  trabalj  (*trav-,  cfr. 
Diez,  Et.  W'órt.,  s.  'travaglio"),  gabia;  allato  a  prto  pavone-,  por  pavore-.  —  62.  Al- 
l'uscita :  cran  num.  òl,neu  nive-, istiu  num.  10,  bou  bove-,  oii,  ovo-,  digous  (giovedì), 
moli,  movet ,  jjj-oìt  'pluvit'  pluit. 

S.  —  63.  Notevole  :  asi  così.  —  64.  Il  riflesso  di  NS  è  z  (s  all'  uscita)  :  mcza 
mensa,  cuzir  {cus  cousno),  2>razó  pre[he]usioue-.  (Per  il  -s  di  flessione,  vedi  num.  117 
e  num.  123).  —  SS.  —  65.  bas.  —  SC.  —  t>C\  nas  (nasce  e  nasco),  pes  pisce-,  «wie.v 
(conosce  e  conosco),  e  crii  num.  4  allato  a  pese  (io  pesco) ,  ecc. 

N.  —  67.  Tra  vocali  —  in  l:vdma   num.    10; — in   r  (poi  tramite  di  Z)  :  ìtorrt/ì^j 


—  318  — 

nonaginta,  ;•«;•«'  veueno-  e  ranm-i  =vau-  viii-  viiin-  viiulomLa;  dincra  diacono.  —  G8.  Fi- 
nale, di  regola  cade  (salvo  nel  riflesso  del  proclit.  'in',  che  è  sempre  en  o  an)  :  ma,2)a, 
cryva//«' cappelL,  tan-e  terr.,  Se,  vi,  ho,  tió  mim.  42,  k,  mlchiiL  —  Riappare  però  il  n  in 
certi  casi  di  cui  do  gli  esempi  ch.e  seguono:  bon  anfan,  hnn  vi,  hon  fros  (buon  tozzo); 
jyaiis  e  tions  (mai  j;as  e  tios)  pi.  di  jja  e  tió;  tiiis  tenes,  allato  a  te  tenet.  (Per  ND  vedi 
num.  113).  —  69.  Il  riflesso  di  'lingua'  è  IJehga.  Cfr.  num.  104.—  NN.  —  70.  Jotizzato 
come  LL  :  nn,  ahada  anara  annata,  [rata]pinada  -pinnata  (pipistrello),  angnn  (in- 
ganno).—  71.  Cosi  anche  cZ«m  =  danno  ^  damno-.  —  Di  solito  però  il  doppio  n  da 
MN  sfugge  a  questa  alterazione:  dona  =  'donna' =  domina,  so)«  =  'sonno-'  somno-. 
(Por  lo  scempiamento  del  doppio  N,  vedi  num.  103).  —  72.  Dell'assimilazione  di  n 
a  M  unico  es.  sumiéc  [ego]  somnio.  —  72'''''.  M  in  ò  :  harandr  cioè  hì-an-  rahran- 
m  remar  {— ii&l.  merendare,  ecc.);  cfr.  Mussafia,  pag.  14,  nota  5  dell'opera  che  si 
citerà  più  sotto. 

C.  —  73.  Iniziale,  intatto  :  cu  cane,  coi-,  cult  cocto-,  ecc.  —  74.  Tra  vocali,  in 
(j  :  plerjil  plicare,  fjugdjoc,  si  guijìiéssin  (se  giuocassero) ,  scultagd,  vagada  *vicata  (fiata), 
sagur  secuxo-, plagAt  (piaciuto);  cngu  cceco-,  paga  'pica'=:pice-,  figa  (fico),  digiti  dicam 
(ma  die  dico,  perchè  qui  il  e  riesciva  finale);  maniga.  —  Cosi  dopo  di  r  :  margant'  ama- 
ricante' amaro,  cargd  e  cnrga  cario-;  e  aggruppato  a  l  e  u  :  igresia  eceì.,  magra,  ri- 
nagra,  sogra  (suocera).  — In  garhelj  non  vedverao  un  esempio  di  </ ^  e  din.  a  voc,  ma 
gnrhz=g)'alt-  emù-  cribello-.  —  74^'*'.  Il  nome  proprio  ./«m«  risponde  a  J((cm-=JacoJjo 
(cfr.  num.  7^).  — C.  75.  cel,  galcelj ,  cera,  cehha  caepa,  cod,  docens  (duecento),  celja  cilio-, 
(qÌiic  quinque,  curigd  num.  38);  faci  faciat,  cinca  cimice.  —  Così  dopo  leu:  calcina, 
jniqa  pulice-;  ances  accenso-,  vinc  vincere.  —  E  regolare  è  z  nei  casi  di  maizina  (ali.  a 
marac.  num.  30)  med[i]ciua  e  onza  undecim,  dgza,  ecc.  —  76.  Al  C  tra  vocali  solo  per 
rara  eccezione  si  risponde  con  e,  p.  e.  in  deqeniljra  e  suceit  (succeduto).  La  regola  si 
è  che  il  e  si  affili  in  una  leggiera  aspirazione  e  quindi  anche  dilegui  affatto;  veld 
vicino-,  rahim  racemo-,  praltc  e  piv(yV' piacere,  recnt  e  r^tìif  (lavo)  *recento,  reep  e  ri-p 
l'ecipio,  \auaa  coquina].  Cfr.  rahó  e  tió  num.  42.  —  Quanto  a  rfrY//f/;irt.s- (radici,  ramo- 
lacci), è  dal  sd.  ruiga.  —  77.  Salvo  in  voci  jn'oparossitone  (p.  e.  sdric^  salice-,  carie 
calice-,  indec  indice-)  il  e  riuscito  finale  si  vocalizza  in  u  :  ])aw^^.cQ-,  prau  placet, 
iIcH  decem,  din,  dicit,  pardÀu  perdrice-,  vcu  voce-,  {cóus,  cou,  cóure  coquis,  eco),  creu 
cruce-.  Cfr.  falau  e  ^Jo;^  num.  42;  e  -au  -eu  -Ht  =  -at[ijs,  ecc.  dei  verbi  nella  2'  plur.  : 
mangau,  crajfìu,  muriu  (ali.  a  pots  potes,  [cJmaii.^]  amdts  [uomini]  amati,  e  .simili). — 
CS.  78.  éisanta  (ali.  a  siss  sex),  aiiic  ahUt  exsuco,  ecc.,  tis  texo,  cum  coxa,  bus  buxo-. 
Ma  «ùnga  axungia.  —  CT.  79.  Ijet  lacte-,  e  cosi  f et;  Ijit  num.  9  ali.  a  dret;  viu'f  odo, 
cult  cocto-,  ìiitwoctQ-,  fruii  ali.  ad  ahUt  su  cit.  e  a  rot  ruoto-.  —  QU.  — 80.  casi  casi, 
carchiu  num.  31,  curezma  num.  33;  ma  cual  e  cuant,  (jiianfas  dOiuis,  qiicdra  quatuor,  e 
algua  aqua.  Per  QUI,  al  solito,  di  contro  a  <}Ìhc  quinque,  si  ha  cliinza  quindecim  e 
dcchira  aquila;  e,  per  QUI  di  seconda  mano,  anachi  num.  30. 

G.  — 81.  Sempre  intatto,  .anche  tra  vocali,  salvo  in  fra id a  e  tuida.  — 82.  (Jf  :  {idiiolj 
num.  51 ,  gannd  germano-,  ecc.  —  Per  ir  a  cui  preceda  n  ho  :  asponga  sp.,  songa  num.  78, 
«)(;/((/.«  angeli;  allato  ad  astrifùr  stringere.  ìjit'i  lunge. — 82'*'^  Es.  dia'  dil(>guato  :  (oltre 


—  sin  — 

il  solito  dlt  digito-)  ganlvns  gingivas.  Verranno  dallo  spagn.  lej  lege-,  vej  rege. — 
88.  CtN.  Sempre  h  :  Ijen  Ugno-,  pim^  ecc.  —  SI.  GU  :  JJeùfjua,  ma  sahc. 

T. 85.  Intatto  solo  all'  nscita  :  cannt,  beltat,  caritat  veritate-,  huntl  num.  3,  dit, 

jiot  pot-est,  nahiit  nepotc-,  buit  num.  18. — Forse  nnica  eccezione  anrjur  'inglnt[i]o' 
(ali.  a  siuti/rof  singulto-).  —  SG.  Tra  vocali  è  riflesso  per  d  :  Xadal,  cadeiia,  imdéin 
'potenio'  ^possiamo),  radali  (gomitolo)  =  catal.-com.  retol,  cuzidora  (cucitrice),  ti'èidó 
(tessitore),  madùr;  seda,  erba  ruda,  pudo  putor.  Forse  unica  eccezione:  mates  num.  98. 
[siuletar  del  num.  31  è  dal  nome  siulct  'fischietto').  —Il  più  delle  volte  però  questo 
d  presso  il  volgo  suona  r  :  A7tr«^,  earena,  puréìii,  cuzirura,  tisiró,  sera,  erba  rura.  Altri 
esempi  :  e? tVrt'i!  (ali.  a  <//^  num.  85),  piirar  putare,  IJaram  laetamen,  ^j«re//rt  patella, 
burelj  hoteWo- ,  farà  (strega)  'fata',  niara  (nidiata),  «««ra  (andata)  e  «yjrérrj  (anitra) 
'anàta',  9ii' rt^/ivtra  (mi  aggrada^  brura  num.  IS,  far  ira  (ferita),  indiora  e.  huira  fenim. 
di  nabot  num.  85  e  Imit  num.  18,  rora  rota,  salura  (saluta).  Di  ulteriore  alterazione 
(di  t  in  d,  in  r,  in  I)  ci  sarà  esempio  malassa  (matassa).  —  87.  Dopo  di  n  e  massime 
tra  N  e  s  il  T  è  assai  debole  e  facilmente,  ma  non  sempre,  dilegua  :  anfan  infante-, 
adamgii  num.  20;  cuntens  e  deus,  più  ovvii  di  cunteiits  e  dents.  ■ — 87'"'*.  Es.  singolare 
è  cin^thio-  (zio).  —  88.  Il  nesso  TR  perde  il  R  -.iiara,  mara,  frara  fnel  senso  di 
'monaco'),  arara,  Pera  Petro-,  ararera  'ad-de-retro';  o  mostra  il  T  assimilato  al 
il  :  Jjarra  latro,  pnjerra  pullitro-,  e  anche  ^yerra  e  virra  {\ni\  comuni  di  pedra  petra 
e  di  vidra  vitro-).  —  Poi  rilicsso  di  T  -f-  S  vedi  num.  77. 

D.  —  8'J.  Iniziale,  intatto.  Tra  vocali  e  in  protonica  è  /•  in  ararera.  del  num.  preced., 
nr/HS  =  catal.-com.  dins,  curi  (codino),  prarlcdr  praed-;  in  poston  :  entra.,  nura,  ecc. 
—  90.  Ma  il  più  delle  volte  dilegua  :  suAr,  nidra  (nidiata) ,  jj^wrff/ra  pod.,  rieva  e  cajeim 
rid-  cadebam,  banaitt  e  ìimraitt  Lenod.  maledicto-,  cja  cauda. —  90'-'"'.  E  cade  il  D 
del  nesso  DR  in  carira  num.  (3.  —  91.  Finale  (o  anche  susseguito  da  -s)  si  risolve  in 
u  :  eaus  cau  cadis  cadit;  aem  seit  sodes  sedet;  ria:^  riti  rides  ridet;  donde  gli  iniìn. 
cdura,  se'ura,  riura,  ecc.;  [dau  dado];  j;eì(  pede-,  plur.  pPAis;  feti  (brutto)  foedo-;  imi, 
[broli  brodo].  —  92.  Caduto  affatto  in/e  fide- ,  crii  e  mi  (ali.  a  crura  e  mira  num.  89),  mi 
nodo-,  tebl  tepido;  e  caduto  o  assimilato  a  n  in  canta n  -andò,  mon  mundo-,  ecc.  (cfr. 
num.  87ì.  —  93.  Sporadico  il  l  (pel  tramite  di  r.'  cfr.  num.  86)  di  calavra  cadavere-. 

P.  —  94  P-  in  b  in  basi  unni/a  num.  33,  bi.'^ul  num.  10,  bisba  episcopo-  (ove  no- 
tisi pure  il  i  =  p  della  seconda  sillabai;  del  resto,  è  intatto.  —  95.  'P"  di  regola  in 
b  :  arrihdr,  sahér,  ubiilt  (aperto),  cabélj  capillo-,  ahélja  apicula,  nabót;  acdba  ('accapa', 
termina),  rebut  (ricevuto),  ^"'oba  paupere-;  crabba  capra,  e  crahhiól  (ali.  a  crabits  ca- 
pretti), e  cabba  caepa.  — 9(3.  Perduto  in  iems.  —97.  Quanto  al  nesso  PR,  ho  da  un 
lato  brd  aprile  e  JJebhra  lép[o]re-,  dall' altro ^JOJ'cayj-w  (cinghiale)  'porco-api'O-';  inoltre 
rtscj'rtmcuifrt)' 'exp[e]rim-\  In  ogni  altro  caso,  nessuna  alterazione;  salvo  che  all'uscita 
il  p  è  piuttosto  debole,  sicché  per  'rumpit'  p.  e.  si  sente  rovi  piuttosto  che  l'onij}. — 
98.  PS.  casa,  mates  'met-ipso-",  y/us  gypso-. — ■  98'''*'.  PT.  Normale  l'assimilazione  :  set 
(da's'-'M)  septem,  ecc.  Il  riflesso  però  di 'male  -apto-"  è  maralt  o  malart,  che  pre- 
suppone 'malauto-'. 

B. — 99.   Iniziale,  intatto.  — 99'"*'.  'B"  in   e  :  a.serivit  '  .scribito"  =  scripto-;   in 


—  320  — 

m  :  cdiiam  cannabi-;  assimilato  a  t  in  dlssatta  dies  sal)ati;'clel  resto,  intatto.  —  100.  Ei- 
soluto  in  u  in  se«  sebo-,  deu  debet,  Leu.  bibit,  ascriu  scribit;  /;««•«  libra.  — Dileguato 
in  .mdetdr  Tiuva..  31,  sf««c  sabuco-,  tdula,  imrdula;  néula,  déuta  debito-,  —  101.  Si 
ha  2^11'Oìn  da  ' i)romp''  =  plumbo-  in  analogia  coi  num.  87  e  !I7. 

Accidenti  generali.  —  102.  Poco  da  osservare  in  quanto  all'  accento ,  p.  es.  pan- 
tiii  pectine.  (In  carréc  'io  carico'  avrà  influito  l'analogia  della  numerosa  classe 
de' verbi  in  -ce;  cfr.  num.  125).  —103.  Normale  lo  scempiarsi  di  consonanti  doppie, 
specie  di  tenui  e  in  voci  terminanti  in  vocale  :  f  rama -B..,  vaca,  òoca  hucca,,  gota  gutta; 
astopa  stuppa;  e  cosi  dona  dom'na,  sota  'subta',  rpmta  crypta.  — 104.  Di  regola  ha 
suono  sordo  la  sonora  clie  riesca  finale  e  riappare  in  tale  congiuntura  la  sorda  che 
tra  vocali  era  divenuta  sonora  o  anche  s' era  dileguata  :  Ijlc  ligo  (infin.  Ijigar) ,  sane 
sangue-, /;-rf  frigido-  (fem.  fredu), -ant -eitt  -inf  = -&nào  -endo  del  gerundio,  cuant 
quando,  da-rmt  de-unde,  oì-jj  orbo-;  cus  (inf.  cuz'u-),  mes  (dos  mezos),  ascrif  (ascrivir), 
(juc  (gicgar),  mene  {mangar),  sangrót  (sangrudar  o  sangrurar)  singult.,  ojìr  (uhrir).  — 
105.  Richiamerò  qui  anche  la  debolezza  della  seconda  consonante  dei  nessi  NC,  NG, 
NTjND,  MP,  MB  :  tmii  (tronco),  san  allato  a  sane  del  num.  83,  aiifan  num.  87, 
moH  unm.  02,  rom  num.  97,p;-omnum.  101. — ^103.  Dileguo  di  vocali  :  ualjana  avell., 
mdla  amygd.,  hr'd  apr. ;  sainana  se'ptim.  Determinato  da  dileguo  di  consonanti 
in  :  rep  recipio,  diluir  decoenare,  racdr  recit.,  raufdr  (lavare)  *  recent.  —  Altri  esempi  di 
Dileguo  di  consonanti  :  angi'tr  nnm..  52;  aòra, ecc. ,ni\m..  57;  m.rt;</)-rt/ia  =  'margr.  malgr.' 
(melagrana),  fZò'mecr«s=r'dimercras'  (mercoledì). —  Non  dipenderanno  da  semplici 
cause  fonetiche  IJama  lamina  e  IJema  =  catal.-com.  IJemana  (lendine).  —  107.  Accenno 
qui  a' riflessi  delle  formole  -io  (-eo)  e  -ine-,  ecc.,  di  postonica  :  odi,  Ponci  Pontio-, 
ori  oleo-,  ed  oìdi  hordeo-; — gora  juvene-,  marga  margine-,  cofa  cophino  (ma  dia- 
cra  =:::  catal.-com.  diaca  diacono).  —  108.  Aggiunzione  di  vocali  :  ardm  (se  qui  l' a, 
per  avventura  non  continui  l'aedi 'aeramen');  ascaZa,  ascltena,  ascomhra  num.  109, 
ascrif,  astan,  astómac,  astret,  asjjeri,  asponga  (^catal.-com.  escala,  ecc.). — 109.  Ag- 
giunzione DI  CONSONANTI  —  7.)  di  V  :  vuj  amj  hodie,  vuit  divuit  octo,  ecc.;  —  |3)  di  / 
in  rijeva  (ali.  a  rieva)  ridebam,  cajeva  cadebam,  ecc.  Non  vedremo  però  un  sem- 
plice o  epentetico  destinato  ad  impedire  l'iato  in  agln'r  habei'e,  aghiém  habea- 
mus,  aghéss  habuissem,  ecc.  —  cfr.  1'  antico  perf.  catal.-com.  ac,  ecc.,  —  né  in  sa- 
gut ,  cragut  pcp.  di  sec  sedeo ,  crec  credo ,  ecc.  ;  né  in  hegìiis  (ali.  a  heus)  2'^  pers.  sing. 
pres.  indie,  di  hec  bibo,  e  simili;  si  apparirà  in  tale  funzione  il  z  ■ —  rispondente 
ad  un  anteriore  j  ?■  —  di  cozar  =  '  cùad-"  =  cu[b]ito-;  —  7)  di  n  in  pantln  pectino;  — 
ò)  di  M  in  ascomòra  scopa,  se,  come  pare,  riflette  'scobra  =  scob[u]la:=  scopula';  — 
s)  di  D  tra  1  o  r,  tra  u  e  r  :  moldra  (macinare)  mol[e]re,  vuldrds  (vorrai),  vandrds  ver- 
rai, trcnda  'teudra=:téu[ejre'==:  tenére,  trenda  tenero-,  gendra  genero-,  gendra  cinere-, 
dircndras  (venerdì);  —  '€}  di  b  tra  m  e  r  (m  e  n)  :  mahra  nnm.  67,  cugromha  cioè 
'cugombra'  (cocomero),  sembra  semina.  —  Epentesi  sporadica  di  r  (l)  in  ancruza=^ 
catal.-com.  enclusa  (cfr.  prov.  encluget,ivB,nc.  encJume)  'ineudia'  incude-;  astreijas,  (ali. 
alla  formola  masch.  estel),  ove  però  avrà  influito  'astro',  cumplcrt  completo-,  ìjestr 
(lesto).  —  110.  Il  l  di  digita,  aqua,  si  spiegherà  presupponendo  '  didgua,  diigua,  dgiuC; 


—  321  — 

come  da  '  c(ms[s]e,  cóude,  code' =  cubito  (cfr.  algher.  cozav,  spagn.  cohdo,  cado,  ecc.) 
si  spiegherà  il  catal.-com.  colse  e  come  l'ital.  'ardire''  è  =' cdd=:mdd-' ^=a,udeve.  E 
analogamente  si  spiegherà  il  l  di  maralt  (cfr.  catal.-com.  maiali)  'male  -apto'.  Qui 
noto  anche  cale  (cfr.  caus  g  cau  2"'  e  3*  pers.)  cado.  —  ili.  Metatesi  :  stranurar  ster- 
nut.,  ttvs  (pezzo)  thyrso-,  ■  cfr.  Diez  Et.  Wort.,  I,  s.  ' torso' ,  drn.mi  dormire,  donde 
raiiuid  dormendo;  pressac  persico-;  (e  viceversa  parci-s  preciso);  —  crahba  capra, 
erompa,  cugromba  e  trenda  num..  109,  frale  Tinm.  l,preba  pipare,  prudga  podagra. 
—  ^'erranno  qui  valmuca  malva  e  rudéa  rugiada?  —  112.  Di  attrazione  di  vocali 
non  trovo  esempi  se  non  al  unni.  1  sotto  a)  e  in  maitl  mattino,  e  in  muir  morior, 
che  sta  allato  al  più  ovvio  mor.  ■ —  In  fahnelja  (ali.  a  fam.'\  femella  si  vedrà  un 
esempio  di  attrazione  di  l  oppure  un  esempio  da  aggiungere  ad  algiia,  ecc.  del 
num.  120,  quasi /rt?»i-  =  fnii.iu-  =  fam-  femella?  — Attrazione  di  l  mi  par  certa  in 
hrera  num.  55,  che  starà  a  'betula'  (cfr.  ital.  bietola)  ^h età,,  come  p.  e.  il  prov. 
fronda  {ital.  Jìonda,  ecc.)  a  'fundula' =  funda.  — 113.  Per  1' assimilazione  ho  o  ri- 
chiamo ss  =  ls,  rs  di  amasse  ama' ls  =  ama-los  (con  gli),  coca  (o  cqs^)  num.  27, 
?)»tssic  morsico  (ali.  ad  asmursdr  'fare  colazione' =  catal.-com.  esmoesar,  spagn.  ahi-) 
e  bgssa  num.  29;  HU=nl  e  mi  :  dliui  nas  donas  (dicono  le  donne),  con  nu  (come 
la); — mm=mn  num.  71;  — «ft:=nd  :  marandr  (merend.),  antanint  intendendo,  ona 
unda,  ecc.  (Curioso  Ijéma,  cioè  catal.-com.  IJ emana  =^'ljen-  Ijenn-  lendina'  lende-);  — 
ll  =  nà'l  in  metta  num.  106;  e  tt  =  pt  num.  yS'''^  e  ii  =  bt  num.  99^'=^;  — sisanta  sexà- 
ginta  e  cMc'«r  '  suctiare '.  —  114.  Casi  di  dissimilazione  si  ponno  vedere  a' num.  51-54 
{dar  ali.  a  craa,  ecc.);  e  in  tdturd^' urturd''  (cfr.  num.  49)  hortulano-,  in  vdma 
num.  10  6  in  IJema  del  num.  precedente. 


II.  —  Appunti  morfologici. 

Articolo.  —  115  :  /((,  la,  pi.  Ins,  las.  —  Pronosie.  —  116  -.jó,  a  ini;  tu,  a  tu;  elj, 
a  elj;  elja,  a  elja;  plur.  uii.s-altrns  -as,  vus-aUrus  -as;  eljus  eljas,  acljus,  ecc.  —  ddéémus 
(lasciamoci),  dasdi-us  (lasciatevi),  désal  (lascialo),  désals  o  dekiss  (lasciali),  damai  (la- 
sciatelo), ecc.  — meumea,  pi.  meus  meas  (e  mia.s);  e  analog.  tou  toa,  sou  sua,  pi.  tous 
tuas,  ecc. —  7nun  pais,  ma  mara,  ma-n-galmana  mea  germana,  ta  eia  (tua  zia),  mus 
fls,  ecc.  — jja  cldn  acds  (per  qual  caso)  —  achest  -a,  aclies  -a  (codesto  -a),  aclielj  -a; 
ealchiù,  ningii,  card  cadauno,  pe  cara  Ijoc  (in  ogni  luogo);  — asó  e  anche  lu,  V  (ciò), 
p.  e.  diure  l'  che  vuldrds  (dirò  ciò  che  vorrai);  —  lu,  la  in  certe  contingenze  usato  nel 
senso  di  'quello  -a'  (vedi  p.  e.  nell' Appendice  il  proverbio  32).  —  117.  Aggettivi  e 
nomi.  Costante  (come,  del  resto,  nell'articolo)  il  -s  caratteristico  del  pi.  :  la  dona,  las 
donas,  quantas  donas;  V  orna,  lus  ómans;  la  canea,  beijas  cancons  belle  canzoni;  crabif 
crabits,  tot  tots.  Anche  ne'  numerali  :  docents  o  docens  óus  (ducent' ova) ,  mils  (allato  a 
mil)  ossus.  Se  talora  manca,  ciò  avviene  negli  aggettivi  e  pronomi  accompagnanti 
de' nomi  che  presentino  già  il  seguo  del  numero  e  anche  (ma  più  di  rado)  in  nomi 
il  cui  numero  sia  già  evidentemente  significato  da'  pronomi  e  dagli  aggettivi  che 


—  322  — 

loro  s'accompagnano  :  to  lus  cavcds,  tota  la.i  donas;  cuant  ómans^  mil  mnljcrs,  la 
festa  de  TO  lus  sants ,  pannu  Ijugels  (panni  leggieri).  — 118.  Pochi  nomi  in  -s  nel 
siug.  :  tems  tempus,  cos  corpus,  pois  pulvis,  avés  (niente)  res.  —  119.  Esempi  di 
figura  nominativale  di  nomi  imparisillabi  di  3*  sono  :  mosse'»  :='mou-senyer'  (titolo 
originariamente  dato  a'  soli  cavalieri  e  ridottosi  poi  a' soli  chierici:  cfr.  Mila  y  Fon- 
tanals,  Jahrò.  f.  rovi,  und  engl.  Llt.,  anno  1863,  pag.  145,  nota  2),  sastva  num.  57, 
e  (se  è  da  'putor")  j-iudo  (puzzo)  —  120.  -Feminili  in  -dlja  :  parnntalja  parentela,  ruii- 
daJja  racconto  fatto  a  più  persone  che  stanno  a  sentire  in  circolo;  — in  -óra  (corre- 
lativamente al  masch.  in  -u[r])  :  cuzirora  (cucitrice);  rantarora  (lavandaja;  cfr.  rMiit 
num,  7(ì);  tisìrora  (tessitrice). —  Si  notino  puro  asmphia  sputo  (dal  verbo  ascup  = 
catal.-com.  escup),  munhica  (scimia)  in  cfr.  con  spagn.  mono  e  catàl.-com.  mico.,  ecc.; 
e  hardissa  (siepe;  cfr.  prov.  scUssa).  —  121.  Di  genere  fem.  i  nomi  seguenti  :  fd,  mei, 
fjel,  mar,  sane  (sangue),  cnló[r]  col.,  so>i  (sonno),  IJum  (lume). 

Veebo.  —  122.  Paradigmi  delle  diverse  conjugazioni.  —  Indie,  pres.  sing.  :  cant, 
hec,  drom,  fahiés  (canto,  bevo,  dormo,  finisco);  cantas,  heus,  dromis,  fahiésas;  canta, 
ben,  drom,  fnhiiis;  ]-)l.  caiitem,  òajem,  drumim ,  falnim ;  cantdu,  hajeu,  dm/iniii,  falnia; 
alatali,  heun,  dromiii,  fahi-liaii.  —  Impf.  :  cantava  -as  -a  -di:am  -ucu  {-au)  -doan;  rléva 
pi.  rlévam,  tanta  pi.  taniam,  santioa'^ì.  santivam,  ecc.  -  Pf.  e  ««««(/ai  ho  mangiato ,  ecc. 
—  Fut.  cantare  -ds  -d  -ém  -éu  -d>i;  beiiré,  drumiré,  ecc.  —  Sogg.  pres.  che  canti  -is  -i  -iém 
-leu  -in;  che  mori,  morts,  ecc.  —  Impf.  sa  mangéssi  -is  -i  (e  anche  sa  manrjess  alla  3"')  -éssim 
-èssili  -essiti;  sa  hajéssi,  sa  drunussi,  eco.  —  Condiz.  cantariva,  ecc.  (cfr.  impf.  indie), 
bajarioa,  drinnirira.  —  Pcp.  cantat ,  bagut,  dnimit.  —  Grer.  cantan[t],  bajen[t],  drumm[t[.  — 
Infin.  cantd[r],  sabé[r],  béura,  drumi[r\,  falni\r\.  —  123.  Oltre  la  frequenza  del  pres. 
indie,  in  -éc  e  in  ce  (cfr.  num.  125 ,  126)  e  la  costanza  del  -s  della  2"^  pers.  sing.,  notevoli 
i  punti  seguenti.  —  I.  Non  sono  disusati  affatto  i  perf.  forti,  come  ach,  volch,  ecc.,  del 
catal.  letterario  de'  secoli  XIII  e  XIV  (tranne  forse /o  o  fon  fuit),  ma  ben  di  rado  e  sol 
da' più  vecchi  s'  ode  ancora  qualche  forma  di  perf.  debole,  come  anighé  (=  catal.-com. 
aiui '&ndò'),  aghé  (ebbe),  caZ^^/ie  (cadde).  Ne  ha  preso  il  luogo  il  perf.  composto  :  compo- 
sto, cioè,  o  del  pcp.  del  verbo  e  del  pres.  degli  ausiliari  éssar  e  aghér  {so  astdt,  é  amdt),^ 
o  dell'  infin.  del  verbo  e  del  pres.  di  andr  (vaévas  va  «««?■' andai ',  ecc.;  anéni  andu  van 
andr  'andammo',  ecc.).  In  luogo  di  vaé  'vadio'  vas,  ecc.,  si  usa  pure,  ed  è  anzi  più 
popolare,  var  varas  vara  vdram  vdreti,  vdran  vado,  ecc.,  p.  e.  jó  var-a-vénra  io  .vidi. 
Questa  seconda  forma  di  perf.  composto,  che  s' incontra  oggidì  anche  nel  catal.  let- 
terario (vedi  p.  e.  in  Cortada,  La  noga  fugitiva  "pag.  54  :  mi  va  trovar  'mi  trovò),  non 
è  ignota  ad  altri  idiomi  romanzi,  p.  e.  a'  dialetti  valdesi.  —  II.  A  proposito  del  perf. 
composto  va  notato  che  in  tutte  le  congiunture  in  cui  s' adopra  1'  ausil.  aghér  si  può 
adoperare,  e  anzi  più  comunemente ,  irenda  tenere;  quindi  p.  e,  :  é  tangiU  dosflls,  tania 
vanùt  una  viha,  vus  altrus  tangariuu  fet  asó  s' jó  no  era  vangiU  (ho  avuto  due  figli, 
avevo  venduto  una  vigna,  voi   avreste  fatto  ciò  se   io  non  fossi  venuto).  L'  ausil. 


'  Ecco  un  frammento  di  un  antico  Credo  algherese  ove  la  forma  semplice  e  la  composta  si  avvicendano  :  Eg 
nat  (le  Maria  Vcrgina:  j'ati  bas  lu  ptidér  da  Pon^i  Pilat;  fo  cru^ifiat,  inori  e  sajmrtat;  es  debasat  a  V  infdn;  lu  terger 
dia  residua,  ecc. 


-  323  — 

poi  de' verbi  intransitivi  od  usati  intransitivamente  è  sempre  essar  (p.  e.  no  so  p"- 
jjiH  aiulr);  ed  essar  talvolta  sostituisce  aghér  anche  ne'  verbi  transit.  (p.  e.  so  j^ofif 
massa  de  malsho  patito  molti  mali).  —  III.  Non  è  inaudita,  almeno  presso  i  più  vec- 
chi, l'antica  forma  del  condiz.  in  -era  {vnjera,  pìnjhera^  aghera  vedrei,  eco.)  e  fora 
'sarei'  accanto  all'altra  in  -icn  o  -la,  che  nella  nuova  generazione  tiene  il  campo 
(reurica,  jyugariva,  auriua,  sarlva;  o  veuria,  ecc.)  —  IV.  Superfluo  il  notare  la  fre- 
quenza del  passaggio  de' verbi  in  -è  alla  classe  di  quelli  in  -e  (riura  ridere;  véuì-a  vi- 
dore,  sénra  sedere,  trciida  tenere,  ecc.)  e  de' verbi  di  3'  (e  anche,  ma  più  raramente, 
di  2")  alle  fox'me  della  4''  conjug.  {anfanir  antnnit  intendere,  ecc.;  ascrioìr  ascrluU 
scrivere,  ecc.;  vivii  vivuto,  ecc.,  allato  all' infiu.  viura;  suceir  suceii  succedere  suc- 
ceduto, ecc.  —  124.  Paradigm.^  de' verbi  ausiliari:  a)  essar  :  so,  ses,  es,  seni,  seu, 
soìi  (so)  —  era,  eras,  era,  eram,  érau  (eru),  crau  (era)  —  so  astut  oppure  vac  essar  — 
sarii  —  che  jó  sia  —  .sa  fos,  sa  fossas,  ecc.  —  sarlva  e  slgarlva.  —  [i)  aghér 
{aver)  :  e,  as,  a,  avém,  avm,    an  —  aveva   o    avea   (antiq.    avia)  —  e  agiU  - —  agaré 

—  che  jó  aghi,  che  nus  altrus  aghlém  —  s' aghessl  —  auriva  e  agarlva  —  •;)  tren- 
da'.tinc,  tlns,  te,  taném  e  tanghém,  ecc. —  tanlva  e  tangheva  —  e  tangut  — tangaré  — 
che  jó  tenghi —  si  fanghessi  —  tangarlva.  —  125.  Altri  verbi  notevoli.  Astdr  :  astic, 
astds,  asta,  astém,  astato,  astdn  (astdnan)  —  astava  —  so  astdt  —  astaré  0  asti  gare — s'astl- 
ghessi — astlgariva.  —  Andr  :  vac,  vas,  va,  anéin,  andu,  van  (vdnan)  —  anava  —  so  andt 
■ — alligare  —  che  jó  vagì,  che  nus  altrus  anlghlém,  che  tots  vagu  — ■  s'  anighessi  —  aniga- 
rlva — ■  véstan  vattene,  andvun  andatevene.  —  Sahér  :  se,  sas,  sa  (sap) ,  sabém,  sahéu,  san 
(sdìian)  —  sapeva  o  saheva  (antiq.  sahia)  —  e  sabùt  —  savaré —  chejó  sali  —  sa  sabèssi  — 

—  savarlvao  sauriva.  — Prajer  piacere  :  prau ,  es pragut ,  ecc.  —  Vulér  {vulghér)  :  vidj , 
vols,  voi,  vurém,  vuréu,  vóran — vuréva —  e  vurgiU  —  vìdg-  o  vugaré  (antiq.  vuldré)  — 
-che  jó  vulghi  —  sa  vulghessl  —  vidganva.  —  Fer  :  fac,  fas,  fa,  fem,  feu,  fan  (fdnan)  — 
feva  —  efet  —  che  jó  fagl  —  sa  fessi  —f ariva  o  fagariva. — Diura  :  die,  dins,  diu,  diém, 
dliiii,  diun  -  diéva  e  dit  —  dlgaré — che  jó  dlghl  —  sa  dlghessl — digariva.  —  Viu- 
ra :  viv,  vius,  viu,  vivém,  ecc.  —  viveva —  e  vlvit  (antiq.  e  viscùf,  e  vlschit). — Reciv  ir  :  rèp, 
rehas,rèp,  reqevém,  ecc.;  e  reqevit  (antiq.  reòùt).  —  Piò  uva  :  próii  pluit,  ploéva,  es  pìo- 
giU. — Cunésar  :  cunes,  cunesas,  cunes,  ecc.,  e  cunasilt  (antiq.  -agili).  —  Ubrir  :  ojjr,  obrls, 
ohri,  ubrim,  ecc.; — idjrlva,  —  e  ubélt,  —  ubrlré —  chejó  obrl  —  s' ubrissi  (e  anche  s'ubal- 
ghessi)—  tibalgariva.  —  Ljlgir  legere  :  Ijié,  Ijigis,  ecc.,  e  Ijigit.  —  125'="-\  Verbi  la  cui 
1^  pers.  pres.  indie,  termina  in  gutturale.  —  a)  Vinc  venio,  vlns,  ve,  vanim,  ecc.  — 
vaniva — so  vangili —  yaKf/ara  (antiq.  vandré)  —  che  vini  — sa  vanghessl —  vangarlva  —  va- 
niiim'  avarerà  venitemi  dietro  —  infin.  vanir  (cfr.  tinc  num.  124);  —  p)  donc  (do)  dono,  das, 
da,  duném,  che  donghl,  ecc. — prenc, prens,pren  {pre),pranim,pramu,préiian — praniva  —  e 
prangiit  t- prangaré  —  che  jó  prenghl  {preni)  —  sa  pranghessi  — prangarlva ,  infin.  prenda. 
E  così  antenc  intendo,  anqenc  accendo,  rasponc  respondeo. — 7)  mioZc (macino)  molo,  e 
midgùt,  moldre;  e  cale  cado,  caus,  cau,  cajém  —  so  calgiit  (calgiit),  cairé,  che  cdighl,  sa 
caighessi,  calgarlva,  edura — ò)  (oltre  «.si/c  num.  125)  vcc  video  veus,  veu,  vajém ,  vqjéii, 
vi'un  —  vajcva  —  e  vagut  —  vauré —  che  jó  veghi  —  sa  vaghessi  —  vaurlva —  véura  —  bec 
bibo,  beus,  beu,  bajém,  ecc.  — ■  bajeva  —  e  bagiU  —  bagaré  {hajré)  —  bagarlva  (baur.  balr.) 


—  324  — 

— ■  béttra  —  crec  ci'eJo,  crens,  ecc.,  crqjeva ,  e  cragi'ii .  cn'ura  —  sec  sedeo,  seus^ 
seu,  sajum,  ecc.,  sajeva,  sajut  (mgiU),  sàura  (séira)  —  dee  debeo,  deus,  deu,  da- 
jsm,  ecc.  —  rie  rideo,  riuti,  rlu,  rlém,  ecc.,  riura  —  moc  moveo,  mOMS,  mou  e  mu- 
jeva,  e  mìigiit,  móura  —  pìsc  possiim,  2>ots,  pot,  pughùm  {pujém,  puréin)  e  jìiiglieva 
(pureva),  e  pugùt,  che  jo  pugili,  sa  pughessi,  lyitrjariva,  pughir  [purér).  — 126.  Verbi 
in  -te  ed  -66:  Jaf^'c  battezzo,  simió  (somiglio)  e  sumic  o  sumiéc  somuio,  cunsum6c,  ma 
vniidich66  mi  vendico,  siulct66  sibilo,  nevèga  nevica,  grandinega  fa  gragnuola,  ecc. 

x4.vvERnr.  — 127.  aont  (dove)  ad-unde,  da  ont  de-uude;  amlclu  (ananclà),  analjì 
analjd;  an'vdnt,  anarera  {andrera),  adamon  sopra,  aìahas  e  sola  sotto,  arins  {adrins); 
dasprés  e  lun; —  cuaiit,  sempra,  mai,  ara  e  ancara,  ah'ira,  legu  subito;  mcs  più  e  men 
più  e  meno;  si,  ino,  asì.  —  Con  -s  :  foras,  drets  (oltre),  ansems ;  folsis.  (Cfr.  i  giorni 
della  settimana  di  Ijuns,  dimecras,  digous,  e  forse  dimais  [=:  dimart's?],  allato  a  c?('- 
vendras,  dissatta,  dumenga). 

128.  Preposizioni  è  congiunzioni  :  en  (an)  =z  in,  fns  e  finsas  (fino);  sens  (senza); 
amba  o  ama  (con),  p.  e.  amba  gusticia  con  giustizia,  amhn  gran  pirajé con  gran  piacere, 
amba  mi  e  ama  mi  con  me.  Solo  nelle  scritture  clie  abbiano  qualche  tendenza  let- 
teraria trovo  usato  dagli  Algheresi  il  catal.-com.  ab.  Ad  'et'  si  risponde  con  i. 


ni.  —  Appunti  di  sintassi. 

129.  L'oggetto  del  discorso  è  designato,  come  in  castigl.,  napol.,  ecc.,  col  pre- 
mettervi la  prep.  a;  p.  e.  no  vuréu  mafdr  als  alfrus  (non  volete  ammazzare  gli  altri), 
no  2>uc  vaura  a  tu  (non  posso  veder  te),jo  vulj  a- Pera  (io  voglio  Pietro).  — Notevole 
la  frase  i  a  molts' ci  ha  (=ci  sono)  molti',  se  molts  è  accus.;  e  simili. 


Osservazioni. 


I.  Uu'  occbiata  al  suesposto  schema  ci  dice  subito  che  forse  tutte  le  note  carat- 
teristiche del  linguaggio  parlato  oggidì  in  Catalogna  e  nelle  regioni  affini  si  riscon- 
trano neir  algherese.  '  —  a)  Vocali  toniche  :  e  =  a,   specialmente    sotto    1'  azione 


'  Ho  rilevato  lo  nai-atteristiolie  del  catalano,  massime  del  catalano  letterario  antico  usato  al  di  qua  e  al  di  \k 
de'Pirenoi,  da  Die:!,  (rr.,  I,  pasj.  102  seff.,  237,  ecc.,  della  versione  irancese;  da  Mila  y  Fontanals,  De-  ìos  Trovadoves 
en  EipaTia,  B.arcclona,  1861,  pag.  451  sojj.,  <s  Jahrh.f.  rom.  uiid  eiigl.  Lit.,  cit.,  pag.  145  se g.;  da  Bofariill,  Eitudios, 
sMtma  gramatical  y  crestomalia  de  la  Unijua  catalana,  Barcelona,  ìS6i,  passim  ;  àti,  Mussafia,  Die  catalanische  metrische 
version  der  sieben  weisen  Melater,  Wien,  1876, pag.  4-23;  a  A'.akt,  Eludes  historiques  et  philologiqiics  sur  la  laurine  cata- 
lane., i  quali  tengono  subito  dietro  a'  Documents  sur  la  langiie  cnlnhmc  des  atiQiè.ns  comics  de,  lloussillon  et  de  CerdaJie, 
Paris,  1831,  passim;  e  anclie  (massime  le  caratteristiche  del  catalano  odierno)  da  studi  miei  propri  sopra  testi  re- 
centi; quali  J.  Coiti'ADA,  La  noija  fufjìtiva  (Versione  della  ben  nota  novell.a  di  Tomm.aso  Grossi).  Barcelona,  ISSI; 
Tr.  PuLAv-Biiiz,  Cansons  de  la  Tera,  Paris  y  Barcelona.  1877,  ecc. 


—  325  — 

di  vocale  0  consonante  palatale,  nnm.  1;  e  o  =  a,  in  ojìv  num.  2;  —  e  ed  o  =i  ed  ù 
num.  12  e  22  ed  =  i  ed  n  di  posizione  num.  13  e  25;  casi  di  >,  e  it.  =é  ed  5  ed  anche  =  e  ed 
o  di  posiz.  num.  G  e  0,  18,  20'''*  e  24;  h  =  ì  num.  14;  mancanza  assoluta  di  dit- 
tonghi che  rispondano  alle  vocali  suddette  e  quindi  anche  o  =  au  num.  27;  i  pi'o- 
venzalismi  (se  son  tali)  cunés  cognosco,  ven  voce-,  cren  cruce-  (coli' eccezione ,  anche 
catal.-com.,  di  7io(t  =  nuce-,  forse  dovuta 'alla  necessità  di  evitare  in  qualche  modo  la 
confusione  con  netc  nive-)  e  nit  nocte-,  e  gli  avverbi  ara  e  ancara.  —  [5)  Vocali 
ATONE  :  «=:6  ed  «  =  o,  specialmente  in  protonica  num.  30  e  32  :  due  vicende  assai 
frequenti  nel  catal.-com.  (vedi  Mila,  Trov.,  pag.  462  segg.  e  JaJirb.,  pag.  147,  nota  3; 
Mussafia,  op.  cit.,  pag.  5).  —  •;)  Consonanti  : /y  =  1-,  '11",  e  -11,  num.  46-40;  repu- 
gnanza  alla  risoluzione  di  11  e  di  1  4- conson.  in  n  (comuni  le  poche  eccezioni, 
num.  49-50)  e  tendenza,  al  contrario,  a  favorire  lo  sviluppo  di  l  da  u  di  fase  an- 
teriore anche  alloi'a  che  quest'  u  non  risponda  ad  un  l  originario,  nuin.  120;  ÌJ  =  ci, 
ti,  ecc.,  nima.  51;  apocope  e  riapparizione  condizionata  di  r  e  n,  num.  58  e  GS; 
Z<  =  v-  num.  60  e  GÌ,  e  &=:ni-  in  barandr  num.  72;  s  rispondente  non  solo  al  nesso 
originai'io  se  davanti  a  vocal  palatale,  sì  anche  a  ss,  cs,  ps,  num.  65,  66,  78,  98; 
jl  =  'nn"  e  -nn,  num.  70,  71;  e  tra  vocali  continuato  da  una  semplice  aspirata  e  in- 
fine dileguato  affatto ,  num.  76  ;  il  e  che  riusciva  finale  risoluto  in  u,  num.  77 ,  e  an- 
che il  tj  e  il  t  -}-  s,  num.  42  e  77  ;  (/  =  'e'  e  ;jr  =  ci ,  cr ,  num.  74;  come  d^=t,  num.  86 
e  i  =  p,  num.  94-95;  l'u  di  qu  e  gu  non  sempre  muto,  num.  80,  84;  il  7  de'  casi  del 
num.  45  ;  et  risoluto  in  jt,  ecc.,  num.  79 ;  'd"  soppresso  e  -d  risoluto  in  u,  num.  90-91  ; 
b  scaduto  a,  v  e  quindi  vocalizzato  (in  n),  num.  100;  wi  =  b  in  cniuim,  num.  99.  — 
S)  Accidenti  generali  :  i  casi  in  ispecie  di  scempiamente  di  consonanti  doppie, 
num.  103;  di  protesi  di  v  e  di  epentesi  di  r  e  z  num.  109;  di  metatesi,  num  111;  di 
assimilazione,  num.  113  {ona  unda  ecc.)  e  di  dissimilazione,  num.  114  {IJé- 
mn[na]  ='ljenana',  ecc.?).  —  s)  Concordanza  quasi  completa  nelle  coudizioni  morfolo- 
giche e  in  particolare  ne'  nomi  sing.  provenzaleggianti  in  -s  sul  tipo  di  tems,  num.  118; 
ne' nomi  plur.  sul  tipo  di  omans,  braoas,  Ijadras  (=  catal.-com.  Jioìnens,  ecc.);  nella 
frequente  sostituzione  dell' infin.  in  -ère  all' iufin.  in  -ère  e  nel  frequente  passaggio 
de' verbi  in  -ere  ed  -ere  alla  conjng.  de'  verbi  in  -Ire  e  nell'uso  del  perf.  composto 
col  presente  del  verbo  che  significa  'andare'  num.  123.  — Q  Comuni  parecchi  av- 
verbi in  -s  e  ara  ancara  num.  127.  —  tj)  E  comuni  non  poche  voci  caratteristiche  o 
per  la  forma  o  pel  senso  ;  p.  e.  amagdr  nascondere  e  de  amagàt  di  nascosto,  hardissn 
siepe,  òofj  ammaccatura,  hracól  culla  (catal.-com.  Lressol),  hucl  pezzetto ,  ^/os«  conoc- 
chia, ganiuét  coltello,  garhelj  crivello,  (/«(u'ye/^  prezzemolo  (catal -com"  j«Ztyej'<) ,  la  glii- 
nuu.  la  volpe  (catal.-com.  la  guineu  o  la  guilla),  gos  cane  e  gossa  cagna,  granata  rana, 
Ijavó  semente,  massa  in  quantità,  molto,  jm-ojj  allato,  j;ì{c?o  puzzo,  j^'i'ou  abbastanza, 
rata-pinada  pipistrello,  vantar  -arora  (catal.-com.  reni-)  lavare,  ecc.,  sargantana 
(— spagn.  lagartlja)  Incerta,  scnrahat  (scarafaggio),  vora  orlo,  sponda,  confine,  usato 
avverbialm.,  p.  e.  vora  carni  siili'  orlo  della  strada.  Di  queste  voci  però,  come  mi  av- 
verte il  prof.  Frank ,  alcune,  che  suonano  ancora  in  qualche  proverbio  o  locuzione 
proverbiale ,   nel   linguaggio   comune   sono  disusate  e  quasi  più  non  s' intendono  ; 


—  32G  — 

p.  e.  fjnnivi't  e  rjos  (jossa;  alle  quali  si  possono  aggiungere  (undót  tumulto  (col 
verbo  avuhddr),  mild  sparviero,  tfaaxt'r  allibire,  svenire,  fvuntólj  agitazione  e  fra- 
gore del  mare.  —  0)  Non  pochi  spagnolismi  del  cat.  o  voci  comuni  al  cat.  e  allo 
spagn.  si  ritrovano  uell' algh.,  p.  e,  apusentu  stanza,  dasjxic  spengo,  demi-  lasciare, 
ìrfjit  subito,  jìratta  (=2^^-)  argento,  sastm  sarto,  sumhreru  cappello,  varun  personag- 
gio. (Le  due  ultime  però  e  pZate,  argento,  sono  anche  del  sardo). 

II.  Le  differenze  si  riducono  a'  punti  segueiiti  :  —  -■/)  costanti  nell'  algh.  (nel  ca- 
tal.-com.  parrebbero  solo  frequeuti)  rt=e  e  )(- =  o  atone  e  più  frequente  n=i  atono, 
num.  30,  e  ii  per  altra  atona  sotto  l'influsso  di  labiale  attigua,  num.  33.  —  [3)  r='L", 
num.  47  er  =  L  implic,  num.  51  e  seg. ;  e  /=r  susseguito  da  altra  conson.,  num.  5G 
(certo  per  influenza  del  sardo  settentrionale;  cfr.  Ardi.  Glott.  Ital,  II,  pag.  135  e  137); 
j-=d  (t),  num.  86,  e  w  =  'b",  num.  99;  —  ■;)  l  =  xi  di  fase  anteriore  ne' casi  di  dl- 
fjua  e  cale  num.  110;  ma,  al  pari  dell'epentesi  di  z  in  cczar  num.  109,  è  fenomeno 
che  ha  pur  sempre  sua  radice  nel  catal.  vero  e  proprio  ;  —  metatesi  di  r  più  fre- 
quente (cfr.  p.  e.  algher.  coijroyidxt  col  catal.-com.  cogomhya) ,  num.  Ili;  —  5)  sostitu- 
zione della  forma  italianeggiante  -èva  ad  -t'a  nell'  impf  ;  sostituzione  ornai  compiuta 
del  perf.  composto  al  semplice;  sempre  i  per  1'  e,  vocale  di  flessione  del  pres.  sogg. 
della  1^  conjug.,  e  per  l'a,  delle  altre,  num.  122  seg.;  il  verbo  'tenére'  passato  alla 
3^  conjug.  (trenda),  mentre  il  catal.-com.  lo  attribuisce  aUa  4^^  (tanir),  num.  123; 
nessun  caso  di  infin.  coli'  epitesi  caratteristica  di  un  r  alla  solita  desinenza  (quindi 
p.  e.  viìira,  .léiira,  pióura  =  ca,tal'.-coni.  viiirer,  scurer ^  jAourer);  .ws  =  catal.-com.  ds, 
2"-  pers.  sing.  pres.  indie,  del  verbo  sostantivo,  num.  124; /ac  e  t-cc  =  catal.-com. /ac 
e  vec  o  veg,  num.  125. — s)  rtwìZ>a 0  ama  =  catal.-com.  ah,  num.  128.  —  C)  Voci  algher. 
non  interamente  identiche,  almeno  nella  forma,  alle  catal.-com.  :  andrà,  cos'ars,  IJe- 
mn,  parelja,  umhrilj ,  «ji^ór  =  catal.-com.  dnac,  colses,  Ijémana,  jmélja,  Ijomhrigol  (cfr. 
spagn.  omhìlgó),  inflar. — r,)  Spaguolismi  algher.  :  f anfana  (spagn.  ventana),  guria  (spagn. 
jndia) ,  manasU  (spagn.  menester)  =  catal.-com.  finestra ,  fasól,  mesfér.  —  0)  Voci  algher. 
di  apparenza  catal.  che  non  trovo  ne'  dizionari  catal.  (vecchi  e  scarsi  però)  che  ho 
qui  sott' occhio  :  escratur  schiattare  (cfr.  prov.  esclatar,  ecc.),  gana  ganascia  (dall'an- 
tico altoted.  wanga?);  massdr  mietere  e  musserà  messe;  p?«f«?  secchio  di  rame  per  at- 
tingere acqua  dal  pozzo  (cfr.  poii  pozzo);  immatta  pomodoro ,  curioso  impasto  (non 
però  esclusivamente  algher.)  di  'pomo-'  e  dello  spagn.  toniate;  rahél  e  ribél  vaso  di 
terra  cotta  ove  si  fa  la  pasta  per  il  pane  (=:labello-?),  tintura  zanzara  (cfr.  Diez,  Et. 
Wdrt.,  I,  s.  'zenzara'). 

Superfluo  avvertire  che  il  sardo,  il  sardo  sassarese  e  logudorese,  ad  Alghero 
sempre  più  restringe  il  campo  del  catalano.  Esso  lo  ha  infatti  soppiantato  e  lo  viene 
via  via  soppiantando  ne'  nomi  di  pianto  e  iu  genere  per  ciò  che  x-iguarda  i  termini 
propri  dell'  agricoltura;  quindi  p.  e.  :  truvógn  trifolium,  fustidlbu  populus  alba,  swirgu 
quercus  suber,  rammgii  'gramineo-'  graraen;  aìhdra  (vomere)  =sd.  oròada,  argóla 
ai'eola "  aja  ;  hohi  (mercato) ,  che  sarà  certamante  in  relazione  colle  voci  sd.  hodAeu,  croc- 
chio, trebbio,  fiera,  hodAiri  raccogliere,  ecc.;  inoltre  :  aiunju  (autunno),  sua  (scrofa), 
valgia   rondone)  =:  sd.  varz/'a;  rnuign  ruggine:  ni  urinargli  e  frai/arjn  num.   1;  e  an- 


—  3-27  — 

che  cumnltdr  (intridere,  impastare),  so  è  da  '.commixtare '  (per  i(  sassar.  =  st  cfr. 
Ardi.  Glott.  Ita!.,  II,  pag.  135;  il  Dizionariu  sarda- itaUanu  di  V.  Pomi  ha  in  questo 
senso  cHinoss(u). 

III.  Secondo  l'Ahirt,  op.  cit.,  pag.  G2,  (i3,  Li  terminazione  rts=es  del  plur. 
de'feminUi,  contraria  al  genio  del  catalano,  s'introdusse  in  questo  nel  XVI  secolo 
per  influenza  del  castigliano  e  ^'  ^=:  1  iniziale  vi  è  affatto  ignoto  prima  del  XV.  Ma 
r  alghorese  gii  dà  torto.  Esso  ha  sempre  -as  nel  primo  caso ,  sempre  Ij  nel  secondo. 
E  i  Catalani  si  stabilirono  ad  Alghero  nel  1354. 

E  anche  era  senza  dubbio  già  compiuta  alla  metà  del  secolo  XIV  l' alterazione 
di  aó-  -ec....  e  di  -ats  -ets....  in  -o«,  -e»,  ecc.  (p.  e.  di  'pace-"  in  ^jiaw,  di  puteo-' 
in  jjou),  altresì  nella  2''  plur.  de' verbi  (p.  e.  di  'amat[i]s'  in  amdti);  della  quale  alte- 
razione r  Alart  (op.  cit.,  pag.  6  e  seg.),  non  vede  esempi  se  non  solo  negli  ultimi 
anni  del  secolo  stesso.  L'algherese  rincalza  dunque  l'opinione  del  Mila  {Trov.,  pag.  456) 
e  del  Mussafia  (op.  cit.,  pag.  14  16,  nota  10):  che  «=ts  de' verbi,  sebbene  tardi  e 
come  a  stento  si  mostri  'nella  scrittura',  doveva  essere  'nel  linguaggio  parlato"  di 
antica  data. 

In  conclusione  le  note  caratteristiche  del  catalano  odierno,  poiché  le  ritro- 
viamo nell'  algherese,  erano  già  fissate  prima  che  venisse  fondata  la  colonia  di  Al- 
ghero. E  poiché  non  manca  qualche  indizio  di  speciale  attinenza  del  dialetto  di 
questa  col  dialetto  che  si  parla  oggidì  nella  Catalogna  vera  e  propria,  possiamo  cre- 
dere che  la  colonia  algherese  sia  oriunda  di  qui  piuttosto  che  da  altra  regione  di 
lingua  catalana. 


328 


APPENDICE    I. 


PEOVERBI,  MODI  PROVEEBIALI  E  SIMILITUDINI  ALGHERESI. 


1)  Anici  las  gJórias  —  sa  nlvldnti  laa  ma- 

mórias. 
Colle  glorie  —  si  dimenticano  le  memorie 
—  (CM  cioè  sale  da  umile  ad  alta  con- 
dizione lascia  cadere  in  oblio  e  tra- 
scura tutto  ciò  che  riguarda  il  passato 
e,  tra  altro,  gli  antichi  amici). 

2)  Chi  te  tióìis  fa  astéljas. 

Chi  ha  tizzoni  fa  schegge  (Cfr.  il  sd.  Cliie 
ienet-jìastinat  hlnza  in  codina  =  Chi 
25ossiede,  chi  ha  denari,  pianta  vigna 
nella  roccia). 

3)  Mes  vai  un  te  che  cent  te  iiunaeé. 
Più  vale  un  tieni  che  cento,  ti  daeò. 

4)  Mes  vai  un  sumbreru  a  la  praca  —  che 

cent  esctits  an  la  casa. 
Più  vale  un  cappello  (un  potente  jn-otet- 
tore)  in    piazza  —  che    cento   scudi   in 
cassa.  (Proverbio  in  contraddizione  col 
seguente). 

5)  Amor  de  senór  —  dlgua  an  cistelja. 
Amor  di  signore  (è  come)  acqua  in  (un) 

cestello. 

6)  Mihóns  i  galj/'nas  amòrutan  la  casa. 
Bambini  e  galline  insudiciano  la  casa. 

7)  No  es  gra.s[s]a  la  galjina  —  che  no  te 

■  manastér  da  la  vehina. 

Non  è  grassa  la  gallina  —  che  non  ha  bi- 
sogno della  vicina. 


8)  il/t'.s  i:al  un  ho  veld  che'  lina  mala  pa- 

rantdlja. 

Meglio  vale  un  buon  vicino  che  una  eat- 
tiva parentela. 

9)  Andra  de  caragóls  —  andrà  de  dnls. 
Annata  di  chiocciole  —  annata  di  lamenti. 

10)  Chi  no  te   arrés  che  fer — pantlna  la 

gaia. 
Chi    non   ha   nulla    da   fare  —  pettina  la 
gatta. 

11)  Galjina  che  no  l/ica  —  hicdt  a. 
Gallina  che  non  becca  —  ha  (già)  beccato. 

12)  Puljét  de  galjina  —  asgdrha. 
Pulcino  di  gallina  —  razzola. 

13)  Filja  de  gata  —  (igófa  rata. 
Figlia  di  gatta  —  acchiappa  topi. 

14)  An  ahrafuljut —  to  lus  parddls  i  fan. 

niu. 
In   albero   fogliuto  —  tutti  gli   uccelli   ci 
fanno  nido. 

15)  Suspnrs  de  cor — mancamén  de  bassa. 
Sospiri  di  cuore  —  mancamento  di  borsa. 

16)  Chi  te  aqienda  i  no  la  veu — prestu  es 

p'roha  e  no  sa'l  cren. 
Chi  ha  podere  e  non  lo  visita  —  presto 
diventa  povero  e  non  se  lo  crede. 


—  329  — 


17)  Chi  no  adóha  la  ijutiini  —  te  da  fé  la 

casa  anidra. 
Chi  non  accomoda  la  grondaia — avrà  da 
rifare  tutta  la  casa. 

18)  De  gota  an  gota  —  sa  umpli  la  bota. 
A  goccia  a  goccia  —  s'empie  la  botte. 

19)  Ghisa  graia  ami  U.pnt —  no  fa  agrari 

a  nìngii. 
Chi  si  gratta    dove    gli  prude  —  non  fa 
danno  a  nessuno. 

20)  ^I  chi  iins  de  dar  a  dina  —  no  li  plo- 

ris  V  asmursd. 
A  chi  hai  da  dare  da  pranzo  —  non  rim- 
piangere [d'avergli  dato]  la  colazione. 

21)  Dinér  de  capaljd  —  cantdn  ve  i  can- 

tdn  va. 
Denaro  di  prete  —  cantando  viene  e  can- 
tando va. 

22)  Dona,  che  moli  hada  —  acdlia  tedi  la 

fuscida. 
Donna  che  molto  s'indugia  —  tardi  em- 
pie il  fuso. 

23)  Ascomhra  nova  —  ascombra  net. 
Scopa  nuova  —  scopa   bene   (Cfr.  il  sd. 

Iiistizia  noa  ferramenta  acuta). 

24)  Ni  dona  prop  de  varóns  —  ni  astópa 

prop  de  tións. 
Né   donna   presso   a  ("giovani)   signori  — 
uè  stoppa  presso  a  tizzoni. 

25)  Vifia  vora  carni  — p)rat  vara  rivéra.  — 

i  dona  finestréra  —  no  an  fei  mai 

hona  fi. 
Vigna  allato  a  una  strada  —  prato  allato  ad 
un  fiume —  e  donna  che  passa  il  tempo 
alla  finestra  non  hanno  fatto  mai  buona 
fine. 

2G)  Dels  ascramanidis  nasan  lus  avisidts. 
(Dall'  esperienza  nasce  l' avvedutezza). 

27)  Bou  sol[t]  —  sa  Ijepa  com  voi. 
Bue  sciolto  si  lecca  come  vuole. 


28)  Diun  nas  donas  del  holn  —  che  de  la 

Loca  sa  ccdenta  'Ifoln. 
Dicono  le  donne  del  mercato  —  che  dalla 
bocca  si  scalda  il  forno. 

29)  Ghèrra,  cacéra  i  amórs — pe  caraprajé 

mil  clulórs. 
Guerra,  caccia   e  amori  —  per  ogni  pia- 
cere mille  dolori. 

30)  Si  vols  éssar  ben  sarvii  — festa  tu  ma- 

tés  hi  Ijit 

Se  vuoi  essere  ben  servito  —  fatti  tu 
stesso  il  letto. 

3 1  )  Boca  che  menga  fel  —  no  pot  asc  up  i  mei. 
Bocca  clie  mangia  fiele  —  non  può  sputar 
miele. 

32)  Lc(  boca  de  la  mei  —  tal/a  Id  de  la  fel. 

La  bocca  del  miele  —  taglia  quella  del 
fiele. 

33)  An  malartia  i  prazó  —  cunesards  iun 

cumpìanó. 

In  malattia  e  prigione  —  conoscerai  il  tuo 
compagno. 

34)  Lu  bon  vi  no  te  manasté  de  ram. 

Il  buon  vino  non  ha  bisogno  di  frasca. 

35)  Chi  trabalja  menga  —  i  va  hiinic  hi  du- 

menga. 
Chi  lavora   mangia  e   va  ben  vestito   la 
domenica. 

36)  Guani  lu  didbla  va  a  ra.cdr  —  mira  che 

ta  voi  angandr. 

Quando  il  diavolo  va  a  recitare  (orazioni 
in  Chiesa)  —  bada  che  ti  vuole  ingan- 
nare. 

37)  Chi  no  dona  lu  che  dol  —  no  alcanca 

hi  che  rol. 
Chi  non  dà  ciò  che  gli  duole  (di  dare)  — ■ 
non  ottiene  ciò  che  vuole. 

38)  La  neces.siidt  —  no  te  lej. 
La  necessità  —  non  ha  legge. 

39)  Music  pagàt  — •  no  fa  bon  so. 
Musicante  pagato  (avanti)  non  suona  bene. 


330  — 


40)  Chi  barata  —  hi  cap  sa  rjrata. 

Chi  baratta  —  il  capo  si  gratta  (ta  o  teme 
sempre  di  fare  un  cattivo  affare). 

41)  Chi  aljoga  'l  cui  no  seu  cuant  voi. 

Chi  appigiona  il  sedere  non  siede  qiiando 
vuole. 

42)  Chi  voi  mangd  pei  —  sa  lana  'l  cui. 

Chi  vuol  mangiare  pesce  —  si  bagna  (cioè 
bisogna  che  si  bagni)  il  sedere. 

43)  Che  fan  lus  anfanisi  —  Ln  che  veun 

fer  als  grants. 

Che   cosa  fauno   i  piccini?  —  Ciò  che  ve- 
dono fare  a' grandi. 

44)  Del  pia  de  mun  cumpara  —  hon  tros 

a  mun  filjól. 
Del  pane  del  (mio)  comparo  (padrino)  — un 
buon  tozzo  (toccherà)  al  (mio)  figlioccio. 


45)  Caldèra  velja  —  bon  o  furai. 
Caldaja  vecchia  —  ammaccatura  o  buco. 

46)  A  V  abra  caìgnt  —  cani  ì fa  lena. 

All'  albero  caduto  —  ciascuno  ci  fa  legna. 

47)  La  (jhhv'.ii  cuant  mi  poi  arrìbd  —  dia 

che  son  vehìas. 

La  volpe  quando  non  (vi)  può  arrivare  — 
dice  che  son  verdi  (lo  uve). 

48)  Chi  roni  l'oss,  chi  sa'n  cuca.  7  neuddu. 

Chi  rompe  l'osso  e  chi  se  ne   succhia  il 
midollo  ('Sic  vos,  non  vobis"). 

49)  Diént  la  vanidt  —  sa  peri  V  amistdt. 
Dicendo  la  verità  si  perde  1'  amicizia. 


50)  Ga  ta  cunés,  arhéla,  che  ta  dius  mu- 

raduis. 
Già   ti   conosco,    erbetta,   che   ti   chiami 
maggiorana.   (Dicesi  a  persona  di  cui 
alle  primo  parole   o  per  altri  indizi  si 
indovinino  le  intenzioni). 

51)  BclJ,    culnrit  coni  tina   rosa,    da  mac, 

com  un  cravélj  de  pasiérn. 
Bello,  colorito  come  una  rosa  di  maggio, 
come  un  garofano  di  vaso. 

52)  Frac  coni  una  rana. 
Magro  corno  un  ragno. 

53)  LJonc  con  na  curezma. 
Lungo  come  la  quaresima. 

54)  Ljestr  con  nu  Ijamp^  con  na  pórrara. 
Lesto  come  il  lampo,  come  la  polvere. 

55)  Fret  con  nd  geli    con   na   carena   del 

port,  con  nu  niabra. 
Freddo  come  il  ghiaccio,  come  la  catena 
del  pozzo,  come  il  marmo. 

56)  Feu  con  nu  d/mta. 
Brutto  come  il  debito. 


57)  Ta'l  veus  davdnt  con  na  moli. 

Te  lo  vedi  dinanzi  come  la  morte.  (Dicesi 
di  chi  capiti  senza  far  rumore,  all'im- 
provviso). 

58)  Dur  com  un  soc. 
Duro  come  imo  zoccolo. 

59)  Gloc  con  nu,  jy^u  del  mild. 
Giallo  come  il  piede  dello  sparviere. 

60)  Dret  com  tuia  panna.  ' 
Diritto  come  una  palma. 

61)  Fer  com  un  garbelj. 

Fare  (cioè  'scolare')  come  im  crivello. 

62)  Essar  un  pés  de  portu. 

Essere  un  pesce  di  porto  (un  furbacchione). 

63)  Manga  com  un  Ijop. 

Mangiare  come  un  lupo. 

64)  Trenda    nies    tracas    de  una  muninca 

velja. 
Avei'e  più  astuzie  di  una  scimia  vecchia. 


—  331 


APPENDICE   IL 


Al  momento  di  mandare  in  macchina,  dal  cortesissimo  prof.  Frank,  insieme  colle  prove 
di  stampa  di  questo  lavoro  da  lui  con  tutta  diligenza  rivedute,  mi  pervengono  un'altra  col- 
lezioncella  di  proverbi  e  similitudini  e  una  canzoncina  del  secolo  scorso,  che  non  ha  solo  il 
valore  di  un  saggio  dialettale,  ma  anche ,  sebbene  evidentemente  monca,  non  è  priva  d' inte- 
resse per  i  cultori  della  letteratura  popolare  comparata.  Pubblico  ogni  cosa  qui  appresso. 


65)  Chi  asmórca  dlr/ua — ^>  snpdf  vi. 

Chi   beve   acqua  a  colazione,  ha   bevuto 
vino  a  cena. 


66)  Pm's  che  vas—  vsanca  che  trohns. 

Paese   ove  vai,  (adattati  all')  usanza  che 
trovi. 


67)  Chi  fé  mal  cnp  —  teiif/hi  honas  camhas. 
C!ii  ha  testa  cattiva  —  abbia  buone  gambe. 

68)  Miljóì-  cnjì  de  sardina  die  eoa  de  tunnu. 
Meglio  testa  di  sardella  che  coda  di  tonno. 

69)  Un  nn  i  un  pa  — poc  estchi  a  s  an passa. 
Un  anno  e   nu   pane  poco  stanno  a  pas- 
sarsene. 


TOj  Blanc  con  na  neu,  con-  nu  Ijet. 
Bianco  come  la  neve,  come  il  latte. 

71)  Kegra  coni  zm  tió. 
Nero  come  un  tizzone. 

72)  Veli  con  n  elba. 
Verde  come  1'  ei'ba. 

73)  Blau  con  n  azt'd. 
Azzurro  come  il  lapislazzoli. 

74)  Bo  con  nu  pa. 
Buono  come  il  pane. 

75)  Doq  con  na  mei. 
Dolce  come  il  miele. 

76)  Foli  (o  dur)  coni  un  ascólj. 
Forte  (o  duro)  come  uno  scoglio. 

77)  Dret  coni  unfus,  coni  una  vilma. 
Dritto  come  un  fuso,  come  una  verga. 

78)  ^l'cc  con  na  marma. 
Ricco  come  il  mare. 


79)  Ljiinc  con  nu  mes  de   mac,  com  aviij  ì 

dainii. 

Lungo   come   il  mese  di    maggio,   come 
oggi  e  domani. 

80)  Trist  con  na  molf. 
Triste  come  la  morte. 

81)  Trist  (o  ascér)  con  na  nit. 
Ti-iste(o  scuro,  d'aspetto)  come  la  notte. 

82)  Trcnda  cara   d'astrélja,    de  rosa,    de 

clavélj,  de  gasrin.,  de  Ijet  e  salic,  de 
gatuU  scurgd. 
Avere  viso  di  stella,  di  rosa,  di  garofano, 
di  gelsomino,  di  latte  e  sangue,  di  gat- 
tino scorticato. 

83)  Bel]  coni  a  ftdjas  de  rosa. 
Bello  come  foglie  di  rosa. 

84)  Culurit  coni  una  pionia. 
Colorito  come  una  mela. 


—  332 


85)  Fret  con  na  neu,  con  nn  gel. 
Freddo  come  la  neve,  come  il  gelo. 

86)  Clar  con  n  dmhria. 
Chiaro  come  l'ambra. 

87)  Ljuijél  com  unpalddl,  coni  una  fulja. 
Leggiero  come  un  uccello,  come  una  foglia. 

88)  Liestr  con  nu  veni. 
Raiiido  come  il  vento. 

89)  Tendra  con  nn  guncàra. 
Tenero  come  la  giuncata. 

90)  Proha  con  nu  pgìj. 
Povero  come  il  pidoccliio. 


91)  Ljadra  coni  una  gata  velja. 
Ladro  come  una  gatta  vecchia. 

92)  Daspitós  coni  una  muninca. 
Dispettoso  come  una  scimia. 

93)  Ambridc  coni  un  asjJÓnza. 
Briaco  come  una  spugna. 

94)  Va  con  na  pijls  al  veni. 

Va  (si  disperde)  come  la  polvere  al  vento. 

95)  Co)'j*[t]  con  nu  mal  dinér. 

Va  (senza  riposo)  come  la  moneta  falsa. 


(96) 


Marine .1  hon  marim; ., 

Deu  VHS  dongld  bundiicn: 
visi  l'avéu  i  cunagnt 
a  l'meu  amadór  de  Franga? 
Marinaio,  buon  marinajo,  Dio  vi  dia  buon 
mare:  visto  l'avete  e  conosciuto  il  mio 
amante  di  Francia? 
Ga  :  l'è  vist  i  ciinagut 

i  sa  troha  avìlj  en  dia  : 
i  ara  sastd  casdnt 
ani  la  princésa  de  Ungria  — 
-Già:    l'ho  visto  e  conosciuto  e   si  trova 
(vivo)  oggigiorno:  e  ora  si  sta  ammo- 
gliando colla  principessa  d'Ungheria. — 

Son  set  ans  che  l'è  [alsperdf., 
altrus  set  l' aspér  ancdra; 
i  si  a  lus  set  no  ve 
monga  ma  troha  pusdda  {-draf): 
monga  del  mimasti  sani 
che  té  V  noni  de  Santa  Clara. 
Sono  sett'anni  ohe   l'ho  aspettato,   altri 
sette  l'aspetto  ancora;  e  se  dopo  i  sette 
non  viene,    mi   troverà    (venendo  più 
tardi)  messa  monaca:  monaca  del  mo- 
nastero santo  che  ha  il  nome  di  Santa 
Chiara. 
I  si  vos  vus  pusdti  monga, 
elj  sa  pusard  frarét  : 
elj  sa  pusard  frarét 
i  im  'n  prandrd  cunfcssdnt: 


«  I  caljduus  vos ,  la  helja , 
che  jò  so  lu  vasti-'  amdut»  — 
E  se  voi  vi  mettete  monaca,  egli  si  met- 
terà fraticello:  egli  si  metterà  frati- 
cello e  vi  prenderà  confessando  {col 
dire):  «  Tacetevi  voi,  la  bella,  che  io 
sono  il  vostro  amante.  »  — 

Ma  fare  a  un  anguiléta 
i  ma'n  fugiré  naddnt. 

—  Si  vus  feu  a  tm'  anguiléta , 
elj  sa  farà  pascadór  : 

elj  sa  farà  piiscadór 
i  vu  n  prangard  pascdnt  — 
Mi  farò  anguilletta  e  me  ne  fuggirò  nuo- 
tando. —  Se   voi   vi    fate   anguilletta, 
egli  si  farà  pescatore  :  egli  si  farà  pe- 
scatore e  vi  piglierà  pescando.  — 

Ma  fare  a  una  cidónia 
i  ma  n  fugiré  nuldnt. 

—  Si  vus  fati  a  una  culoma , 
elj  sa  farà  cagadór  : 

elj  sa  farà  cacadór 

i  vu  n  prangarà  cagdnt: 

«  i  caljdous  vos  la  hélja 

che  jò  so  hi  vostr  amdnt.  »  — 
Mi  farò  colomba  e  me  ne  fuggirò  volando 
—  Se  voi  vi  fate  colomba ,  egli  si  farà 
cacciatore:  egli  si  fai'à  cacciatore  e  vi 
prenderà  cacciando:  e  (dirà):  «  Tace- 
tevi, voi,  la  bella  che  io  sono  il  vostro 
amante.»  — 

G.   Morosi. 


DIE   RUMAENISCHEN 

«  MIEACLEtì    DE   NOTRE-DAME.  » 


Uuter  die  rumaenischeu  Volksbuoher,  welclie  sicli  einer  gewissen  Beliebtlieit 
erfreuen  uud  walirscheinlich  aneli  einen  Einfluss  auf  die  Fantasie  des  Volkes  ausgeiibt 
haben ,  ist  von  mir  die  Sammlnng  «  der  Wunder  Mariae  »  mit  eingereilit  worden.  ' 
Der  Ratim  gestattete  es  mir  aber  nichfc ,  in  jenem  meinem  Buclie  ausfiihrlich  aiif 
den  luhalt  derselben  eiuzugelien;  aneli  batte  icli  nur  von  éiner  Hs.  genauere 
Kenntniss;  so  dass  ich  mieli  dazumal  mit  Aufiihrung  einiger  Beispiele  begnllgeu 
kounte. 

Iiizwiscben  ist  es  mir  gelnngen  eiue  grossere  Zabl  Hss.  anfznfinden,  welche 
tlieils  alle  Wunder  des  rumaeniscben  Canons,  tlieils  mit  untermisclit  mit  anderen 
Erzàlilungen,  einzelne  aus  dieser  Sammlung  entbalten  (Sammelcodices). 

Von  mancher  Seite  ist  der  "VVunseli  geaussert  worden  eine  genanere  Inlialts- 
angabe  dieser  «  Miraoles  »  zn  besitzen. 

Meinerseits  mòclite  ick  geme  mit  einem  kleinen  Scherflein  beitragen,  das  An- 
denken  der  kocliverdienten ,  der  romaniscken  Wissensckaft  leider  zn  friih  entrissenen 
Forscher  zn  ekren,  so  beniitze  ich  denn  diesè  mir  gebotene  Gelegenkeit  um  den  Inkalt 
der  «  Minunile  Makei  Domnuhd  «  wie  die  Sammlnng  im  Enmaenischen  lantet,  ge- 
naner  anzugeben. 

Uumittelbare  Qnelle  derselben  ist  das  neugrieckiseke  AVerk  des  Monclies 
Agcqnos:  «  A[j.api:wXà>v  otartiiAoi  »  zuerst  gedruckt  Venedig  1641  (2.  Aufl.  ibid.  1780), 
welclies  friihzeitig  in's  Eumaenisobe  iibersetzt  wurde.  Die  àlteste  bis  jetzt  bekannte 
Hs.  ist  die  von  1692,  aus  welcher  ioli  einige  Speeimina  in  der  »  Chrestomatie  ro- 
mana »  (I,  299-301)  gebe.  Unvollstlindig  ist  eine  Hs.  im  Nationalmnsenm  von  Bu- 
carest vom  Jalire  1764.  Eine  vollstàndige  Hs.  vom  J.  1784  befindet  sich  in  meinem 
Besitze;  ferner  eine  vollstiiudige  e.  1780-1800  bei  G.  Todlescu,  und  eine  unvoUstan- 
dige  bei  H.  St.  Sihleanu,  frlilier  im  Besitze  von  BoUiac.- Zum  ersten  Male  scheint 
die  Samluiig  1825  im  Kloster  Neamtì,  gedruckt  worden  zu  sein.  Eiue  Ausgabe  ibi- 
dem 1S39  beansprnclit  den  Titel  der    «  editio  princeps.  »  Zwar  erwiihnt  Suher,   im 


'  D'.  M.  Gaster,  LiUratura popidara  romàna  Bucuresti  1&S3,  p.  430-138. 


—  334  — 

Jahre  1782  eines  Druckes;  er  ist  uns  aber  ìbis  jetzt  nicht  zu  Gesiclite  gekommeu. 
Die  letzte  Aiisgabe  ist  vom  Jahre  1883. 

Einzelne  Wunder  fincleu  wir  ausserdem  in  Saniinelcodices  des  vorigen  Jalirliuu- 
dertes  haufig  oline  Augabe,  dass  es  ein  «  Wunder  der  Mtitter  Gottes  »  sei.  So  in  einem 
Codex  e.  1730  in  meinem  Besitze  fol.  42  «-52  h,  6  "Wunder  u.  zwar:  Wunder  N°  32, 
37,  38,50,  65  u.  60;  ferner  (f.  130  «-132  h)  W.  N°  64.  In  einem  Codex  e.  1750  G.  To- 
cilescu  (f.  19  a-23  a)  Wunder  N°  65;  (f.  28  «-SOj  N"  20:  (f.  57  n-63  6)  N"  11.  Dann 
in  einem  Codex  des  National-Museums  e.  1720  Wunder  N°  24.  welche  alle  fiir  die 
grosse  Verbreitung  dieser  Stoffe  sprecKen.  Weitere  Forscliungen  werden  diese 
Nacbweise  gewiss  uoch  vermehreu.  Alle  Hss.  uud  Drucke  sind  elner  E-ecension 
entflossen  und  eutsprechen  sich  aucb  voUstandig.  Die  Zabl  der  Wunder  belauft 
sich  auf  69;  davon  fehlen  die  letzten  drei  in  der  altesten  Hs.  In  der  Hs.  des  Mu- 
seums  sind  bloss  N"  2-35  und  N"  49;  SihJeami  N°2-45  erlialten.  Auf  kldnere  Unter- 
schiede,  wie  z.  B.:  Unordnung  in  der  Eeilie  der  Wunder  in  den  einzelnen  Hss 
euc.  gelie  ich  nicht  ein. 

Ioli  lasse  nun  die  Wunder  in  ibrer  Reihenfolge  nacli  der  altesten  Es.  u.  der 
gedruckten  Ausgabe  mit  knapper  Inhaltsaugabe  folgen.  Der  Forscher  wird  leicbt 
den  maunigfaltigeu  Ursprung  derselben  erkennen.  ' 

Wunder  1.  Der  Tod  der  Mutter  Gottes.  Juden  wollen  den  Sarg  von  den 
Sckultern  der  Apostel  stiirzen.  Die  Hilude  desjeuigen,  welcher  ilm  beriihrt  werden 
durch  eine  unsiclitbare  Macht  abgeschnitten  und  bleiben  ani  Sarge  klebeu;  die  aii- 
dern  Leute  erblinden.  Sie  bekehren  sicb  alle  und  werden  gekeilt. 

Wunder  2.  Maximin  einer  der  70  Jiinger  wird  zusammen  mit  Martha  uud  Mag- 
dalene  von  den  Juden  in  einem  steuerlosen  Boote  dem  Meere  iibergeben.  Sie  lau- 
den  in  Marseiile,  wo  die  hi.  Marie  dem  «  Igemon  »  im  Traume  beiìehlt  dioFremden 
aufzunehmen.  Er  thut  es,  bekehrt  sich  zam  Christenthum  und  tritt  mit  seiner  fril- 
her  kinderlosen,  jetzt  in  gesegneten  Umstauden  sich  befìndeuden  Frau  eine  Wall- 
fahrt  nach  dem  hi.  Laude  an.  Unterwegs  wird  die  Frau  eines  Knaben  entbundeu  u. 
stirbt;  sie  werden  beide  auf  einer  wiisteu  Insel  in  einer  Hohle  ausgesetzt.  Ueber 
Jahr  u.  Tag  kommt  d.  Mann  wieder  uud  iindet  d.  Kind  saugend  an  d.  Brusi,  d.  toten 
Mutter,  die  nun  auf  sein  Gebet  wieder  zum  Leben  erweckt  wird.  Jhre  Seele  batte  ilm 
unterdess  auf  d.  Wallfahrt  begleitet. 

Wunder  3.  «  Im  Synaxar  vom  23  November  »  wird  von  dem  Schneider  Joau 
erzahlt,  dass  er  verstockten  Siunes  auf  ein  crstes  Traumgesicht  —  er  wird  gekopft 


'  Eine  genane  Untei-snchungr  der  ganzcn  Sammlung  des  Ajapios  aiif  ihro  Qupllen  hin,  wurde  iinsserst  in- 
teressant  u.  lohncnd  sein.  Die  Sagen-imd  Lescndenwolt  des  Oocidontes  dringt  hierduroh  naeli  dem  Orient,  zu 
don  Slaven  und  Rumaonen.  Denn  auoli  in's  Slavische  ist  das  «  Amartolon  Sotiria  »  iibersotzt  worden.  Deber 
seine  QnoUen  sagt  der  Verfasser  librigens  selbst  in  fior  Einleitung:  «  (furi  oi  Aóifoi  oOtoi  eIvh  EJ-|-a).|isvo! ,  ùis 
iivuìEv  t'.o-mat ,  àm  BiJJ.ii  SiiMpa  l'xaXixà  /.ni  Pwuaizi.»  welches  vom  rnmaenischen  Uebersetzer  folgender- 
raassen  wiodorgegebon  wird:  «  jientru  ca  luvatatniile  aceaste  s.ant  scoase,  precum  s'au  zis  mai  sus,  den  multe 
fealiuri  de  carti  clmcasli  sì  franceasli.  * 

Analogieen  und  ParaUelen  zu  andorn  Sammlimscn  werden  sich  dalior  leicbt  nachwiiscn  und  orkliiren 
lassen. 


—  335  — 

—  iiiclit  iu  sich  gehfc,  im  zweiten  uur  durcli  die  Fiirspracho  der  Muti.  Gott.  von 
den  IloUenqualen  gerettefc  wird,  sich  dahei-  bessert.  Seiu  Beichfcvater  erztlhlt  ihm 
eineu  ilhnliclien  Traum,  dem  der  «  Boer  Gheorgliie  »  nicht  gehorchen  wollte,  und 
wirklich  iiach  Ablauf  der  Frisi  von  20  Tagcn  gesfcorben  sei. 

Wimder  4.  «  Im  letzten  Tage  d.  Monates  August  »  d.  li:  im  Legeudarium. 
Ein  Patricier  Antonie  batte  iu  Neoria  (zu  Konstantinopel)  eiue  Kirclie  d.  M. 
Gottes  u.  Bad  geba,ut;  letzteres  war  wunderthatig.  Nach  seiuem  Tode  verfiel  das  Bad. 
Kaiser  Romano  wollte  sich  eineu  Pallast  bauen,  uud  liiess  Marniorsteine  von  jener 
Kirche  holen.  Nachts  erschien  die  M.  G.  dem  Baumeister  Nestor  im  Traume  u.  ver- 
bot  ihm  darau  zu  riiliren.  Darauf  liess  Kaiser  Romano  das  Bad  wieder  aufbauen,  ii. 
er  sowohl  als  aueh  «  Hristofor  u.  Constantin  »  badeten  darin.  Es  folgt  nun  eiue  Reihe 
von  «unzahligeu  »  Heilungeu.  Eiue  geschwoUene  Frau  sah  dort  im  Traume  d.  IM.  G. 
wie  sie  eiiiem  ehrwiirdigen  Manne  befahl  das  Geschwulst  durcli  eineu  Sclilag  zu 
òffueu,  u.  ihr,  dass  sie  bade  ti.  so  wurde  sie  geheilt. 

ÌVnnder  o.  (Pentikostarion.  am  ersten  Freitag).  Leon,  spiiter  Kaiser  in  Byzanz, 
als  er  noch  Soldat  war,  traf  einen  Blinden  im  Walde,  ganz  verdurstet.  Nach  langem 
Suchen,  hòrt  er  eiue  Stimme,  die  ihm  zuruft,  in  der  Nahe  sei  Wasser.  Mit  diesem  triinke 
er  den  Blinden  u.  wasclie  ihm  die  Augen;  hier  solle  er  daun  als  Kaiser  eiue  Kirche 
ihr  (d.  h.  der  M.  G.ì  zu  Ehreu  bauen.  Der  Blinde  wird  sehend.  Spater  baut  er  die 
Kirche  des  «  lebenspendenden  Quells.  » 

Wunder  6.  Kaiser  Leon,  wird  durch  AVasser,  das  ihm  Schwester  Agapi  vom 
«  Goldquell  »  im  iluftrage  der  Isl.  G.  bringt  vom ,  schweren  Steinleiden  augenblick- 
lich  geheilt. 

Wunder  7.  (Pentikostarion;  hi.  Freitag). 

Ein  reicher  Mann  aus  Thessalonik  reist  zur  "Wunderquelle.  Unterwegs  wird  er 
krank  u.  stirbt.  Vor  d.  Tode  bittet  er  d.  Schiffmanu,  er  mochte  seinen  Korper  iu 
jene  Kii'che  bringen.  Dort  angelangt,  wird  d.  Sarg  geòffuet,  u.  als  AVasser  darauf 
gespritzt  wird,  wird  der  Tote  lebendig  u.  bleibt  dort  in  d.  Kirche. 

Wunder  8.  ■  «  Im  Metafrast  zum.  October  »  wird  erzàhlt  vom  lil .  Roman  d.  Siiu- 
ger,  dem  die  M.  G.  in  d.  Geburtsnacht  des  Heilands  ein  Buch  zu  verschlingeu 
gibt.  Am  nachsten  Tage  singt  er  zar  Verwunderang  AUer  die  noch  beute  be- 
stehende  Festhymne,  und  dichtet  dami  Hjanneu  fiir  alle  Feiertage  des  gauzeu 
Jahres;  nahezu  an  Tausend. 

Wunder  0.  Dem  hi.  Gregorius,  Erzbischof  vou  Neocesarea,  erscheiut  iu  einer 
Nacht  die  M.  G.  begieitet  von  Johannes  Evangelista  uud  unterweisen  ilm  in  der 
Reehtglàubigkeit.  So  verfasst  er  denn  das  «  Orthodoxe  Glaubensbekenntniss.  »  Von 
seinen  AVundern  wird  folgendes  erzahlt:  Er  steckt  seineu  Stab  an  dem  Ufer  des 
Flusses  «  Lupul  »  in  die  Erde ,  und  der  Strom  wagt  nicht  mehr  dort  auszutreten. 
DerStah  erUuM  und  wird  eia  miichtiger  Baum.  Bei  Gelegeuheit  werdeu  noch  audere 
AVuuder  der  hi.  Viiter  erzahlt. 

Wìinder  10.  Der  hi.  Johan  Damasceuus  sclirieb  den  Glàubigen  in  Konstantino- 
pel ,  dass  sie  im  Kampfe  gegen  die  Bilderstiirmer  aushai-ren.  Kaiser  Leo  fing  einen 


—  336  — 

diesel-  Briefe  auf  u.  liess  einen  falscheii  tauschend  ahnlichen  Brief  schreibeu ,  woriii 
Johann  seine  Stadt  und  d.  Herrscher  verriith,  uud  schickte  diesen  Brief  nacli  Da- 
mascus.  Der  Herrscher  lohan  die  rechte  Hand  absohneiden.  In  d.  Nacht  heilte  ihn 
d.  M.  G.  u.  ein  rother  Strich  bewies  es  gegen  die  Verlaumder.  Der  hi.  Johan  wird 
dami  Monch  u.  nur  auf  Befehl  d.  M.  &.  wird  ihm  vou  seiiiem  Vorgesetzten  erlaubt 
zu  schreiben  n.  zu  dichteu. 

Wuìider  11.  Ein  Kaiser  in  Franhrelcli  heirathet  eine  zweite  Frau,  welche  die 
Stieftochter  umbringen  will.  Die  Diener  erbarmen  sich  ihrer  u.  schneiden  ihr  bloss 
die  Hiinde  ab.  So  wird  sie  vou  einem  Prinzen  gefundeu ,  der  sie  heirathet.  Hir  Vater 
ist  uutrostlich  nnd  veranstaltet  Turniere  nm  sich  zu  zerstreuen.  Dort  zeichnet  sich 
sein  unbekannter  Schwiegersohn  aus.  Die  Kaiserin  erfahrt  uun  von  seinem  Diener, 
wer  er  ist  und  dass  Briefe  ihm  die  Niederkumft  seiner  Frau  inelden.  Sie  vertauscht 
die  Antwort  u.  befiehlt  die  junge  Frau  sammt  Kinder  zu  toten.  An  dessen  Stelle 
wird  sie  im  AValde  zurilckgelassen,  von  einem  Einsiedler  aufgenommen  u.  von  d. 
M.  G.  geheilt.  Der  Priuz  findet  sie  u.  die  bose  Scliwiegermutter  wird  verbrannt. 

Wundev  12.  In  Britanien  weihet  sich  Maria,  ein  junge s  Madchen,  d.  M.  Gottes. 
«  Rikardie  »  der  Fiirst  verliebt  sich  in  sie  und  will  sie  dem  Kloster  entreissen.  Sie 
sticht  sich  nun  die  verfiihrerischen  Augen  aus  u.  schickt  sie  ihm.  Erschiittert  bitten 
alle  d.  M.  G.  um  Heiluug  und  sie  erhiilt  ihre  ausgestochenen  Augen  wieder. 

Wunder  13.  Eine  gewisse  Eftimia  von  wunderbarer  Schonlieit,  um  nicht  hei- 
rathen  zu  miissen,  da  sie  ein  reicher  «  Boier  »  begehrt,  schneidet  sich  Lippen  u. 
Nase  ab.  Ihr  Vater  ilbergiebt  sie  einem  Bauer,  dass  er  sie  peinige  u.  schlage.  Es 
vergehen  so  7  Jahre.  Zu  einer  Weihnacht  erscheint  ihr  uun  d.  M.  G.  mit  Engeln 
im  Stalle  u.  heilt  sie.  Der  Bauer,  Zeuge  d.  himmlischen  Erscheinuug,  benaclirichtigt 
ihren  Vater,  der  in  sich  gelit  u.  ihr  ein  Kloster  bauet. 

Wunder  14.  Eine  arme  "Wittwe  empfiehlt  ihre  beiden  schonen  Tochter  dem 
Schutze  der  M.  G.  Sie  schickt  ihr  durch  eiuen  strahlenden  Jiiugling  einen  Beutel 
Goldes.  Durch  den  unerwarteten  Reiclithum  regt  sich  die  Schmàhsucht,  bis  eines 
Tages  ein  Engel,  den  iu  d.  Kirche  auweseuden  Jungfraueu,  in  Gegenwart  einer  gros- 
sen  Menge,  zwei  Blumenkrauze  als  Zeichen  ihrer  Uuscliuld,  von  Seiten  der  hi. 
Jungfrau  iiberreicht. 

Wioider  lo.  Ein  Mondi,  Kellermeister,  d.  Id.  Jungfrau  ergeben,  pflegte  zu  viel 
zu  trinken.  Berauscht,  woUte  er  dodi  die  Friihmette  nicht  versilumeu.  Der  Teufel 
als  Stier,  dann  als  schwarzer  Hund,  dami  als  grauser  Lòwe  suclit  ihn  zu  schrecken. 
Die  M.  G.  rottet  ihn  jedoch  u.  empfiehlt  ihm  fortan  Massigung.  Zugieich  solle  er 
beicliteu  u.  die  auferlegte  Busse  tragen.  Es  goscliielit  u.  er  wird  vom  Trunke 
geheilt. 

Wunder  16.  Ein  Miinch  dev  d.  Bild  d.  M.  G.  in  seiner  Zelle  auf  d.  Oelberge 
hatte,  wird  von  unkeuschen  Gedauken  geplagt.  Der  Teufel  verspriclit  ihm  Heilung, 
wenn  jener  d.  Bild  wegschaffen  wird.  Der  Mondi  sdiwòrt,  es  Niemauden  zu  ver- 
rathen,  brichtaber  seinen  Schwur  u.  bcichtet  es  dem  «  Ava  Teodor  Eliotus.  »  Dieser 
befiehlt  ilim  sich  ganz  d.  Schutze  d.  M.  G.  zu  iibergeben;  u.  ein  Miniaturbild  des 


—  337  — 

grosseu  Biklos  auf  der  Brusfc,  geuiigt  ilim  voiinun  an  d.  Teufel  n.  die  siindigeu  Ge- 
daukeu  lem  zu  halteii. 

Wuiider  17.  In  einer  Stadt  (der  Provinz)  Koln,  mit  Namen:  Vime^i  lebte  eiu 
Priester,  Petrus,  welcher  seiuer  schlechten  Thateii  -wegen  aufgehàngt  wurde.  Da- 
durcli  orschreckfc,  wird  «  Aglaida  »  seiiie  Geliebte,  Nonne.  Im  Kloster  erscliien  ihr 
eiu  Teufel,  der  sie  verlocken  wollte.  Am  besten  vertrieb  ihn  -abcr  nur  d.  Name  d. 
hi.  Jungfrau. 

Waiuhr  18.  Einer  Nonne  erscliien  der  Teufel  in  Gestalteines  Engels.  Von  ihrem 
Beichtiger  belohrfc,  bittet  sie  ihn,  er  moge  ihr  aneh  d.  M.  G.  zeigen.  Wirldich  zeigfc 
ihr  d.  Teufel  eine  schòne  Jungfrau,  aber  alles  zorrinnfc  in  Eaucliu.  Wind,  sòbald  die 
Nonne  d.  tibliche  Gebeb  hersagt. 

]Vunder  1!).  Der  hi.  Partenius  erweckt  durch  sein  Gebet  an  d.  hi.  Juno-frau 
einen  am  Ufer  des  Rothen  Meeres  liegendeu  Kòrper.  Es  ist  ein  Nestorianer  der  im 
Kampfe  mit  einem  an  d.  M.  G.  Glaubenden  in's  Meer  gestiirzt  war.  Sein  Gefàhrte 
wird  von  d.  M.  G.  aus  dem  Meeresgrnnde  gerettet;  er  aber  wandert  in  d.  Hòlle  u. 
sieht  die  Leiden  der  Nestorianer.  Jetzt  wieder  belebt  wird  er  glàubig. 

M^under  20.  Joan  Gucuzel  aus  Dyrrachium,  Hofsanger  des  Kaisers  in  Byzanz, 
flilchtet  sich  seines  Seelenheiles  wegen  anf  d.  Athos-Berg,  wo  er  Ziegenhirt  wird. 
Boten  d.  Kaisers  suchen  ihn  vergebeus.  Durch  Znfall  erkennt  ihn  der  Vorsteher  d. 
grossen  Klosters,  welcher  vom  Kaiser  Gnade  filr  einen  Ungenannten  erwirkt,  und 
ihn  so  behàlt.  D.  M.  G.  gibt  Joan  in  Traume  einen  wunderthiitigen  goldenen  Dukate. 
WuìuUì-  21.  Der  hi.  Atanasins  griindet  d.  grosse  Kloster  auf  d.  Athos-Berge  u. 
erbaut  es  mit  Hilfe  des  nachmaligen  Kaisers  «  Nikifor.  »  Als  die  Mittel  knajDp  wur- 
den,  erscheint  ihm  die  M.  G.  u.  fullfc  die  Speicher  mit  allem  Nòthigen.  Er  zweifelt 
u.  sie  lassteine  Quelle  aus  einem  harten  Staine  hervorsprudeln.  Von  daher  ist  sie 
Vorsteherin  d.  grossen  Klosters. 

Wunder  22.  Zuerst  wird  von  d.  Griindung  des  iberischen  Klosters  durch  Toro- 
nikie  erzahlt;  wiihrend  der  Bilderstiirmerei,  gibt  eine  Wittwe  das  Bild  d.  M.  G.  den 
Meereswellen  preis,  welche  es  Jahrelang  nachher,  aufrechtstehend ■  nach  d.  Athos- 
Berge  .tragen.  D.  Monch  Gabriel  allein,  dem  d.  M.  G.  erscheint,  geht  im  Meere  auf 
d.  Wasser  dem  Bilde  entgegen  u.  bringt  es  hinauf  In  d.  Altarraum  gestellt,  geht  d. 
Bild  nachts  u.  stellt  sich  oberhalb  d.  Eiugauges  wo  es  als  Schutz  fiir  d.  Kloster 
bleibt.  Sultan  Amurat  verwnstet  einmal  d.  Kloster;  in  d.  Nacht  aber  erhebt  sich 
ein  Sturm  u.  alle  seine  Schiflfe  gehen  zu  Grande.  Andere  Wunder  geschehen  eben- 
faUs  durch   dieses  hi.  Bild.  Fiilluug  d.  Korn-.  n.  Speisekammern. 

Wunder  23.  In  Italien  verschreibt  sich  ein  Boier:  Karol, mit  seinem  Biute,  dem 
Teufel,  gegen  irdische  Guter.  Er  bereut  es  spater  angesichts  d.  Bildes  d.  M.  G.  u. 
bittet  um  Eettung.  Sie  nimmt  ihn  gnildig  auf.  Er  bittet  auch  um  seiuen  Scheiu, 
den  d.  M.  G.  schliesslich  dem  Teufel  entreisst,  u.  Karol  im  Traume  ubero-ibt. 
Erwacht,  fìndet  er  ihn  in  seinen  Hànden. 

Wunder  24.  Teofil,  in  Cilicien  in  d.  Stadt  Adana  wird  bei  d.  Abtwahl  ùbergan- 
gen.  Von  einem  jiidischeu  Zauberer  zum  Teufel  geleitet,  verspricht  u.  verschreibt  er 

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sich  ihm.  Darauf  elirt  ilin  dnrch  fcenflische  Kunst,  d.  neue  Abt  u.  alle.  Teofil  Le- 
reut  spàter,  es  wird  ilim  verzielien,  u.  uach  3  Tagen  erhtilt  er  durch  d.  M.  (>.  den 
Scliein  wieder.  Gesclirieben  ist  dieses  Wuuder  von  Evtiliie. 

Wiunder  25.  Zur  Zeit  d.  hi.  Sabba  kam  ein  «  Boier  »  zu  ilim  u.  wwvàe  Mondi. 
Er  komite  aber  nichfc  fasten  u.  sicb  kasteien.  Ani  Feiertage  d.  M.  G.  (15.  Angnst) 
schickt  ihn  d.  hi.  Sabba  in  die  Kirche  damit  er  sehe,  was  geschieht.  Es  war  d.  Abend- 
gottesdienst.  Da  kam  d.  M.  G.  niit  2  Engeln,  ii.  wi-schte  jedem  Monch  d.  Gesichfc 
mit  einem  Tuche  ab,  u.  gab  jedem  das  Abendmahl;  er  jedoch  wird  zuruckgewie- 
sen  da  er  nicht  im  Schwcisse  seiues  Angesichtes  sich  kasteit  u.  uicht  fastet.  Er  wird 
daduruh  bekehvt. 

Wanda-  -U.  In  d.  Stadt  Xavìilc,  am  Flu.sss  Xaris,  kam  die  Frau  eines  relchen 
Mannes  mit  einem  scliwarzen  Kinde  nieder.  Sie  batte  einen  Neger  uuter  ihren  Die- 
nern,  u.  so  verstiess  sie  ihr  Gatte,  als  untreue  Frau.  Sie  flehet  zur  M.  G.  u.  stiirzt 
sich  in  d.  Fluss.  Unten  empfàngt  sie  d.  M.  G.  u.  erretfcet  sie ,  das  Kind  wird  sclmee- 
weiss.  Sie  weist  dann  d.  Gatten  zuriick  u.  geht  in's  Kloster. 

Wunder  21.  Ein  Kloster  in  d.  Wiiste,  wird  von  d.  M.  G.  mit  alleni  Notliigen  ver- 
sehen,  da  das  Land  ringsumher  von  Barbaren  verwiistet  wird  u.  ihuen  jede  Zufuhr 
von  aussen  abgeschnitten  ist. 

Wunder  28.  Ein  Eòmer,  der  hi.  -Jungfrau  sehr  ergeben,  stiirzt  auf  d.  Jagd  in  einen 
Fluss.  Die  M.  G.  ergreift  ihn  beimSchopf  u.  fiilirt  ihn  in  einem  Nunach  Hause,  wo 
ihn  seine  Gefahrten,  die  ihn  tot  glauben,  von  Wasser  triefend  finden.  Er  geht  in's 
Kloster. 

Wunder  20.  Ein  Bruder  kann  nur  d.  Gebet  «  salve  Maria  »  erleriieu.  Nach  sai- 
nem  Tode  wachst  aus  dem  Grabe  cine  Lille,  auf  deren  Bliitter  jeue  Worte  standcn. 
Die  Briider  graben  den  Korper  aus  n.  finden  dass  die  Lille  aus  seinem  Herzen ,  auf 
welchem  d.  Bild  d.  M.  G.  eingegraben  war.  dm'ch  den  Mund,  herausgewachsen  sei. 

Wunder  30.  In  der  Lombarde!  batte  ein  frommer  Manu  das  Bild  d.  M.  G.  au 
seinem  Hause  angebraoht  u.  betete  stets  davor.  Sein  Kind  ahmte  dieses  Beispiel  nach. 
Eines  Tao-es  fiel  es  in's  Wasser.  Die  Eltern  eilten  herbei  u.  sahen  das  Kind  auf  d. 
Wasser  sitzen.  Aiif  ihre  Frage  antwortete  es:  die  Herrin  des  Hauses  (d.  i.  dieM.  G.) 
trago  es;  so  wurde  es  gerettet. 

Wunder  31.  Ein  reicher  Jude  wird  in  der  Lombardei  von  Eaubern  ausgeplùudert 
u.  eino-ekerkert.  Hier  erwaretete  ihn  der  Tod.  In  seiner-Noth  wendet  er  sich  an  d. 
M.  G.  welche  erscheint,  seine  Fesseli!  lost  u.  ihn  vor  seinem  Hause  niedorlasst.  Er 
tritt  sammt  Familie  zum  Christenthume  iiber  u.  geht  in's  Kloster. 

M'under  32.  Eine  Jiidin  wendet  sich  in  Geburtsnòthen  an  die  M.  G.  u.  làsst 
dann  sich  u.  das  neugeborene Kind  taufen.  Der  Mann  tijdtet  das  Kind;  von  d.  Leu- 
ten  verfolgt,  fliichtet  er  sich  in  eine  Kirche  u.  der  Anblick  des  Bildes  d.  M.  G.  be- 
kehrt  ihn.  Zum  Eichtplatz  gefiihrt  des  Mordes  wegcn,  wird  das  Kindwieder  leben- 
dig,  nur  bchult  es  ein  Zeichen  am  Halse. 

Wunder  33.  Als  «  Britania  »  nodi  orthodox  war ,  lebte  dort  oln  Mondi ,  der  so 
oft  der  Nanie  der  M.  G.  erwahnt  wurde,  hinknieete.    Alt  geworden,   half  ihm  ein 


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Diener  sicli  von  clen  Knieen  za  erliebou.  Eiues  Tages  war  dar  Dienor  fortgegangen, 
da  orschieii  d.  M.  G.  u.  gab  ihm  30  Jalire  weiteron  L^li^ii-!  n.  die  Kraffc  eines  30 
jaLrigeu  j\Ianues. 

Wnnder  34.  In  demselben  Kloster  lebteu  2  Briider,  die  mit  einander  verfeindet 
wareu;  besonders  liafcte  oiuer  dea  andern  veiiaumdefc.  Die  M.  G.  erscheit  dem  Verzei- 
lienden,  begieitet  vom  lil.  Joan  Evangelista,  nnd  wendet  den  Sinn  des  andern  zmn 
Bessern.  Bei  ihrem  Versciiwinden ,  blieb  ein  liebliclier  Duft;  besondei's  aber  stromte 
ihn  eine  Marmorplatfce  aus,  auf  welcher  d.  M.  G.  gestandeu. 

Wunder  85.  Ein  Krieger  fiihrt  einen  salir  unsifctliclien  Wandel.  lu  dar  Kircbe 
sieht  er  eiust  beim  Gebete  die  M.  G.  Jesum  in  Gestalt  eines  kleinen  rait  Wunden  be- 
deckten  Kindes  tragend.  Auf  ihr  innstandiges  Bitten  verzeiht  Chri.stns  dem  Krie- 
ger, nur  muss  er  die  "Wunden  kiissen.  Diesa  scliliessen  slch  nach  jedem  Kusse. 

Wunder  36.  In  Paris  lebte  ein  Clericus,  welcher  die  M.  G.  in  ihrer  ganzen 
Schònkeit  sehen  wollte.  Ein  Engel  verkiindet  ihm  die  ErfilUnug,  nnr  wird  er  auf  bei- 
den  Augeh  erblinden.  Er  schliessfc  desshalb  eiues  und  erblindefc  nur  auf  d.  andern.  Er 
bereuet  es  aber  u,  will  gern  auf  beiden  erblinden  wenn  sich  ihm  d.  M.  G.  nur  noch 
ein  Mal  zeigen  mochte.  Er  sieht  sie  u.  Avird  geheilt,  seiner  Opferfroudigkeit  wegen. 

Wunder  37.  Ein  Mann  todtet  d.  Ziehkind ,  welches  seiner  Fr  au  anvertraut  wor- 
den  war  u.  welche  er  grimmig  hasste,  da  er  mit  eiuer  andern  lebte.  Auf  d.  Richt- 
platze,  wo  jene  Frau  hingerichtet  werden  solite,  erscheint  auf  ihr  Flehen  d.  M.  G. 
mit  Christus  als  kleinem  Kinde.  Das  ermordete  Ivind  wird  lebendig  und  sagt  aus, 
war  der  wahre  Morder  sei. 

ÌVunder  38.  Im  Orient  ging  ein  jiidisches  Kind  zusammen  mit  d.  andern  Ge- 
spielen  in  die  Kirche  und  nahm  das  hi.  Abendmahl.  Der  Vater  erziirnt ,  warf  das 
Kind  in  einen  breunenden  Ofen;  es  blieb  aber  unversehrt,  weil  die  «Frau  aus  d. 
Kirche  »  es  schiitzte.  Die  Christen  warfen  uun  den  Vater  im  d.  Ofen ,  wahrend  die 
Matter  u.  andere  Juden  sich  zum  Christenthume  bekehrteu. 

Wunder  39.  In  Rom  lebte  eine  Frau,  die  ihren  Sohn  inuig  liebte,  u.  ihn  stets 
bei  sich  im  Bette  batte.  So  warde  sie  von  ilim  geschwangert ,  u.  als  sie  niederkam, 
warf  sie  das  Kind  in  d.  Abort  u.  totete  es.  Der  Teufel  vcrstellte  sich  als  Beicht- 
vater  mit  Seherblick,  u.  verklagte  sie  beim  Gericht.  Sie  batte  aber  die  ganze  Zeit 
innbriinstig  zur  M.  G.  gebetet  u.  am  bestimmteu  Tage,  erschien  d.  M.  G.  neban  d. 
Frau,  so  dass  d.  Teufel  verschwinden  musste. 

Wnndeì^  40.  Im  Aerger  verspricht  eine  Frau  dem  Teufel  ihre  Leibesfrucht  ;  sie 
war  eben  schwanger.  Als  das  Kind  dann  12  Jahre  erreicht  batte ,  erschien  der  Teu- 
fel u.  forderte  es  biunen  3  Jahre.  Sie  granite  sich  darilber  u.  sagte  es  schliesslich 
dem  Kinde.  Dieses  floh  nach  Jerusalem  zum  Patriarchen,  welcher  ihn  zu  einem  Ein- 
siedler  schickte.  Sie  flehten  zur  M.  G.  Eines  Tages,  genau  nach  Ablauf  der  3  Jahre 
wahrend  des  Gottesdienstes  erschien  der  Teufel  u.  entriss  den  jungen  Mann  vom  Al- 
tare. Der  Geistliche  wendete  sich  zur  M.  G.  u.  gleich  darauf  war  d.  junge  Mann  wie- 
der  zur  Stelle.  Die  M.  G.  war  in  die  Holle  hinabgestiegen  u.  batte  ihn  von  dort 
geholt.  Der  Junge  gelit  dann  iiach  Hause. 


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Wunder  4L  700  Jahre  nacli  Cliristi  Gebui't  lebte  eiu  frommer  Einsiedler  nameus 
Egidio  in  ci.  Nalie  von  Jerusalem.  Er  nahrte  sich  von  d.  Milcli  einer  Hindin.  li;  der 
Stadi  lebte  ein  Lelirer,  welclier  au  d.  Jungfràuliclikeit  der  M.  G.  zweifelte  xi.  zìi 
Egidie  kam  um  seine  Zweifel  zu  lòsen.  Dieser  kam  ihm  drei  Stadien  entgegeu  u. 
spracli:  «  Jiingfrau  vor  der  Geburt.  »  «  lungfrau  bei  der  Geburt  »  lungfraii  naoh  der 
Géburt  »  u.  schlug  jedesmal  mit  deni  Stabe  auf  einen  diirren  Stein.  Bei  jedem  Schlage 
sprosste  eine  Lilie  empor. 

Wunder  42.  Ein  trager  Moncli  betete  nur  die  M.  G.  an.  Im  Traume  sali  er,  wie 
seine  Thaten  gewogen  werden,  n.  dass  seine  Frevel'bei  Aveitem  diese  Tugend  ùber- 
trafen.  Die  Mutter  G.  flebete  aber  vor  Christus  fiir  ihn ,  u.  bat  schliesslicli  iim  einen 
Blutsfcropfen  Ckristi ,  der  alles  anfwiegen  moge.  Er  gibt  ihn.  Der  Monch  erwacht  ii. 
geht  in  sich. 

Wunder  43.  In  «  ALamania  »  war  ein  Geistlioher ,  namens  Pelagie,  welcher  das 
Wunder  der  Transsubstantation  bezweifelte.  Eines  Tages  verschwand  die  Hostiebeim 
Gottesdienst  u.  es  erschien  d.  M.  G.  mit  d.  Herrn  als  kleines  Kind,  so  dass  er  die 
Verwandlung  selien  konnte.  Auf  seine  Bitte  verschwand  d.  Kind  von  Fleisch  u. 
Blut  u.  die  Hosfcie  lag  wieder  da. 

Wunder  44.  In  einer  Kirchfe  sangen  die  Christen  ein  Spottgedicht  gegen  die 
Judeu.  Diese  toteten  den  Vorsiinger.  Die  M.  G.  belebt  ihn  wieder;  dadurch  erschreckt, 
bekebren  sich  die  Juden. 

Wunder  4ò.  Im  Jahre  510  zur  Zeit  des  Papstes  «  Gregorie  Dialogul  »  war  eine 
Pest  in  Rom.  Das  vom  Apostel  Lucas  gemalte  Bild  der  M.  G.  wird  durcli  die  Stras- 
sen  getragen  u.  es  verschwindet  d.  Pest  wie  ein  Nebel.  Auf  d.  Tliurme  des  Adrian 
u.  d.  Kriskentie  »  sah  man  einen  Engel,  der  ein  blutiges  Schwert  abwischte  u.  ein- 
steckte.  Dieser  wurde  nachher  der  Thurm  d.  Erzengels  Michael  genannt. 

Wunder  46.  Eiu  Maler  namens  Joan  pflegte  d.  Blid  der  M.  G.  so  volllcommen 
als  moglich ,  den  Teufel  so  hasslich  als  moglich  zu  malen.  Aus  Wnth  dariiber,  stiirzt 
ihn  einst  der  Teufel  von  einem  hohen  Geriiste  herab;  d.  M.  G.  jedoch  streckt  aus 
ilirem  Bilde  den  Arm  aus  und  hiilt  den  Maler  so  lange  in  der  Schwebe,  bis  eine  Lei- 
ter  gebracht  wird. 

Wunder  47.  In  Roma  lebte  ein  Manu  in  Saus  u.  Braus.  Als  ihm  das  Geld 
ausging,  traf  ihn  der  Teufel  u.  versprach  ihm  einen  reichen  Schatz,  wenn  er  ihm  seine 
froinme  Frau  iiberliefere.  Er  verpflichtet  sich  dazu,  geht  nach  Hause  u.  grabt  dori 
auf  Anweisung  des  Teufels  einen  reichen  Schatz  aus.  Auf  dem  Wege  mit  seiner  Frau 
steigt  diese  bei  einer  Kirche  ab,  und  betet  dort  zur  M.  G.  Diese  nimmt  ihre  Gestalt 
an,  u.  reitot  mit  jcnem  Manne  fort.  Der  Teufel  entfliohtu.  der  Mann  wird  auch  ge- 
rettet.  Der  Schatz  verwandelt  sich  in  Asche. 

Wunder  48.  Kesarie  schreibt  in  seinen  «Diahxjen  »  dass  in  Frankreicheinfrom- 
mes  aber  krankes  Lladchen,  sich  dariiber  argerte,  dass  es  an  d.  hi.  Prozession  keinen 
Theil  nehmen  konnte.  Im  Traume  wird  sie  auf  Fiirsprache  d.  M.  G.  in  das  Pa- 
radies  versetzt,  sieht  dort  Christus  selbst  d.  Dienst  verrichten,  u.  erhalt  eine  Fackel, 
die  sic  nachher  ablieferii  soli.  Sie  stranbt  sich  dagegen ,  u.  die  Fackel  bricht  eutzwei; 


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eineHiilfte  bleibt  beim  Engel,  die  anelerà  bei  ilir,  weichesie  aucli  wirldich  beiihrem 
Erwachen  in  ihrer  Hand  vorfìndet.  Diese  macht  nnu  viele  Wunder. 

Wuiidey  49.  Ein  frommes  Màdchen ,  wollte  deu  Herni  in  Gestalt  eines  3  jahrigen 
Kindes  sehen.  Jhre  Bitta  wird  erfiillt;  sie  spielt  arglos  mit  demlvindein  der  Kirche 
oline  zn  ahneu,  wer  es  sei,  nnd  versucht  das  Kind  ziun  Naclisprechen  der  Gebete 
zu  bewegen.  Es  gescliieht  bis  zu  den  Worfcen:  «  Gesegnet  ist  deine  Leibesfruclit  ». 
Hier  segnet  sie  Christus  u.  verschwindet. 

Wunder  50.  Nacli  dem  Heimgange  des  Alecsius  des  Gottesmannes,  strebten  Viele 
in  Rom  seinem  Beispiele  nach.  Unter  andern  wollte  eine  Jnngfrau  ihre  Eeinheit  be- 
waliren,  da  sie  sie  der  M.  G.  geweilit  batte  u.  bat  ihren  angefcrauten  Gatten  sie  zu 
scbonen.  Er  that  es  u.  so  lebtensie  wie  Bruder  n.  Schwester,  bis  zn  ibrera  Tode,  wo 
er  Gott  fiir  ihren  reinen  Wandel  dankt.  Sie  erkebt  sich  von  der  Bahre  u.  maìsht 
ihm  Vorwiirfe,  desshalb  weil  er  ihr  Gebeimniss  nun  offenkundig  gemacht  habe. 
Nacli  seinem  Tode  gelangt  sein  Korper  in  ihr  Grab,  trqtzdem  er-  in  einer  andern 
Kirche  beerdigt  wird. 

Wunder  51.  Kesarie  erzàhlt  in  seinen  Dialogen,  von  einem.  Rauberhauptuiaun, 
den  ein  frommer  Mann  dazu  bewegt,  Mittwoch  u.  Freitag  zu  aehten  u.  an  den  Feier- 
tagen  der  M.  G.  'zu  rasten.  Er  thuefc  es;  oline  Gegenwehr  wird  er  gefangen,  u.  geht 
freudig  in  d.  Tod,  als  Stihne  fiir  seine  Verbrechen.  Nachts  ersclieinen  5  Jungfraueu 
vou  welchen  4  eine  Bahre  mit  d.  Todteii  tragen,  die  b'%  d.  M.  G.  mit  einer  Fackel 
nacligeht,  ilin  aus  der  Begriibnisstatte  der  Rauber  herausnehmen  n.  den  Stadt- 
wachtern  befehlen,  dem  Erzbischof  mitzutheilen,  dass  jen  er  auf  Befelil  der  M.  G.  an 
einem  ehrenvoUen  Platze  beerdigt  werde.  Die  wunderbare  Decke,  u.  der  mit  dem 
Korper  vereinigte  Kopf  bestatigen  die  Aussagen  der  Wàchter,  u.  es  gesoliieht  so. 

Wunder  52.  In  Sacsonia  làsterte  einst  ein  Karteuspieler ,  Christus ,  dann  d.  M.  G. 
Kaum  batte  er  es  ausgesproclien ,  als  er  todt  hinsank.  Der  Baucli  war  ihm  aufge- 
schlitzt.  Sein  Geist  erschien  einem  Freuiide  u.  wariite  besoiiders  vor  Schmahungen 
gegen  d.  M.  G.  die  uie  ungeracht  bleiben. 

Wunder  53.  Ein  gewisser  Teodorit,  Jude,  batte  seinen  Soliu  zum  Aufseher  der 
christlichen  Schiffsarbeiter  ernannt.  Am  Feiertage  der  M.  G.  wollte  er  diese  nicht 
freilassen,  u.  schmahete,  d.  M.  G.  Da  fiel  ein  Mastbaum  um,  u.  erschlug  nur  ilm. 
(Diese  Erzahlung  hat  d.  Sohreiber  in  einem  alten  Ms.  auf  d.  Berge  Athos  ge- 
funden). 

Wunder  64.  Eine  Frau  starb,  u.  batte  élne  Sllnde  nicht  gebeichtet,  die  sie 
nicht  aussprechen  wollte.  Sclion  war  ihre  Seele  in  den  Krallen  des  Teufels  als  d. 
M.  G.  Fiirsprache  fiir  sie  bei  Gott  eiulegte,  der  sie  wieder  lebendig  werden  liess 
in  der  Kirche,  damit  sie  beichte.  Die  Tote  selbst  erzahlte  dieses  auf  der  Bahre,  u. 
bittet  alle  Umstehenden  fiir  sie  zu  beten. 

Wunder  55.  Ein  Clericus,  welcher  besouders  d.  Gebete  d.  M.  G.  recitirte,  sonst 
unziichtig  war,  fiel  in's  Wasser  u.  ertrank.  Die  Teufel  zerrten  seine  Seele  in  die 
HoUe;  die  M.  G.  erhebt  Einspruch  dagegen,  da  er  mit  dem  Gebete  im  Munde  ge- 
storbeu  sei.  Gott  lasst  seine  Zunge  liinauf bringen ,  u.  auf  ihr  stehen  die  Worte  des 


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Gebetes.  In  Folge  dessert  sclienkt  ilira  Gott  das  Leben  wieder.  Der  Engel  bringt  ihn 
an's  Land.  Er  gebfc  in's  Kloster. 

Wnnder  56.  Ein  Bitter,  welcher  taglicli  zxrr  M.  Gr.  betete,  pflegte  mit  seinen 
Eeisigen  alle  Voriiberzielienden  zu  pliindern.  Eiues  Tages  wird  ein  G-eistlicher  ge- 
pliindert.  Er  verlaugt  vor  den  Ritter  gabraclit  zu  werden,  nnd  lieissfc  diesen,  alle 
seine  Lente  versammelu.  Unter  diesen  entdeckt  er  d.  Tenfel,  verkleidet  als  Kocb, 
welcher  nur  auf  den  Tag  wartet,  wo  der  Bitter  vergessen  wird  znr  M.  G.  zn  beten, 
um  ihn  in  die  HòUe  zu  entfiihren.  Der  Bitter  gelit  in  sich  u.  wìvà  Mònch. 

Wunder  57.  Ein  Geistlicher  wird  zu  einer  armen  Wittwe  u.  zu  einera  Reichen 
gerufen,  um  sie  mit  den  Sterbesakramenten  zu  versehen.  Er  geht  zi;m  Beichen  u. 
schickt  den  Diakonus  zur  Wittwe.  Dieser  sielit  die  M.  G.  mit  zahlreichen  Jungfrauen 
die  Seele  der  Armen  empfangen,  wilhrend  schwarze  Hunde,  (Teufel)  dem  Beichen 
die  Seele  aus  dem  Leibe  reissen.  Die  M.  G.  verkùudet  d.  Diakonus  reiches  Seelenheil. 

Wunder  58.  An  einen  Stein  anstossend,  sagt  einer,  der  Stein  sei  vom  Teufel  hin- 
gelegt  worden.  Zur  Strafe  fiir  diese  Liisteruug,  wird  ex,  wie  ihm  scheint  mit  heissem 
AVasser  begossen,  ii.  geliihmt.  Soleidet  er  lange  Zeit  ohne  zu  murren,  nur  Gott  u.  d. 
M.G.  lobend  u.  dankend.  Als  Lohn  erschoint  d.  M.  G.  an  einem  Ostertage  u.  heilt  ihn. 

Wnniìi'r  5!i.  Ein  Monch,  Adam,  batte  ungemessene  Freude  so  oft  er  ein  Wun- 
der oder  ein  Lob  d.  M.  G.  las.  Auf  dem  Todtenbette  erzahlt  er,  dass  als  Kind 
einen  unheilbaren  Grind  auf  dem  Kopfe  gehabt  ;  stets  aber  zur  M.  G.  gebetet  liabe. 
Eines  Nachts  ging  er  in  d.  Kirche;  dio  verschlossene  Thlir  òffnete  sich  von  selbst  u. 
drinn  waren  6  Jungfrauen  u.  d.  M.  G.  Diese  Icgte  iliro  Hand  auf  seinen  Kopf  u. 
heilte  ihn.  Daher  seine  Linbrunst  x\.  Freude. 

Wunder  00.  Bine  Frau  licss  ilir  Kind  allein  zu  Hause  unter  der  Obhut  der 
M.  G.  und  trug  Speisen  hinaus  ihrem  Manne  aufs  Feld.  Eine  Feuersbrunst 
zerstort  ihr  Haiis,  aber  d.  Kind  ist  imnitten  des  Brandes  unversehrt  geblieben. 

Wunder  (Jl.  Ein  gewisser  Dld'un  blind  von  Gebiirt,  ist  trotzdenn  sèhr  fromm 
u.  ein  Eiferer  gegen  die  Ketzer  u.  Juden.  Diese  fragen  ihn ,  wie  er  fiir  d.  M.  G. 
kiimpfen  kiinne,  wenn  sie  ihn  nicht  wenigsteus  sehend  gemacht  habe.  Er  beraumt 
ilinen  einen  bestimmfcen  Tag  an,  u.  dort  in  der  Kirche  vor  dem  Bilde  der  M.  G.  wird 
er  sehend.  Es  folgt  darauf  die  Taufe  der  Juden. 

Wunder  62.  «  Vikentie  »  in  dem  «  Spiegel  der  Erzahlungen  »  (Viucentius,  Specu- 
lum  historiale)  erzahlt,  dass  einst  auf  einer  Fahrtnach  Jerusalem,  das  Schiff  vmter- 
ging.  Vorher  waren  einige  Passagiere  sammt  d.  Bischofe  in  einen  Naehen  gestie- 
gen,  einer  aber  in's  Meer  gefallon;  ebenso  sei  d.  Schiff  mit  den  Ubrigon  uuterge- 
o-angen.  Aus  dem  Meere  erhoben  sich  weissa  Taubon:  die  Seclen  der  Ertrunkenen. 
Jenen  aber  fanden  sie  unversehrt  am  Ufer,  wohin  ihn  d.  M.  G.  im  Nu  hingetragen 
batte,  da  er  sie  angerufen. 

Wunder  63.  «  In  demselben  Buche  »  heisst  os,  dass  bei  einem  Sturme ,  jeder  der 
Passagiere  einen  bosondern  Schutzheiligen  angerufen  habe.  Auf  die  Autrorderung 
eines  «  Igumen  »  wendoton  sich  jodoch  alle  an  d.  M.  (_!.  u.  bald  trat  Windstille  u. 
Bettung  ein. 


.    —  343  - 

Wander  64.  Derselbe  «  Vikentie  »  iu  seinom  «  Spiegel  der  Sittcn  »  (^peculum 
inorale)  erzahlt:  Eiu  Reicher  ist  nack  Tische  eiiniial  in  eineu  todesahulichen  Sclilaf 
vertalleu;  erst  nacli  vielen  Tageu  kam  er  zu  sicli.  Vor  seinem  Tode  ermahnt  er 
seinen  iiltesten  Sohu  zu  Wolilfchiitigkeit  i\.  erzahlt  ihm  die  Erscheiuung ,  die  er  wiili- 
rend  jener  Zeifc  geselien:  Eino  Stimine  hiess  mieli  aufstehen.  Es  ergrifF  mieli  je- 
mand  an  der  Iland  u.  fiilirte  mieli  auf  eiiie  "Wiese  worauf  er  verschwand.  Auf  einmal 
stilrmen  Teiifel  auf  mieli  ein ,  u.  sprengteii  die  Tliiir  des  Zimmers  in  welches  ich 
mieli  gefliielitet  liatte.  "Wisse  aber,  dass  icli  kurz  vorlier  drei  Arme  aufgenommen  u. 
bewirtliet  batte.  Dieso  drei  ersclieinen  u.  vertreibeu  die  Teufel.  Aus  d.  Hause  getre- 
ten,  betete  ich  zur  M.  G.;  die  Teufel  verfolgten  mich  wieder;  so  gelangte  ich  an  einen 
vou  Drachen  u.  Schlangen  vollgepfropften  Feuerstrom,  tiber  welchen  eine,  kaum 
handbreite  Briicke  fiihrte,  welche  sich  bis  zum  Himmel  zu  erheben  scliien.  Auf  dem 
Gipfel  d.  Briicke  angelangt,  waren  die  Teufel  mir  ganz  nahe  gekommen,  da 
ersehien  d.  M.  G.  u.  errettete  mieli'.  Im  selben  Augeublicke  erwaehte  ich  in  meiiiem 
Hause. 

Wiindcr  6:~).  Zur  Zeit  des  «  Theodosie  »  verkauft  ein  gewisser  Julian  seinen  Solin 
Teofil  als  Knecht,  nm  vom  Erlos  seiu  Leben  fristen  zu  kiinnen.  Er  empfielilt  ihm 
aber  stets  zur  M.  G.  zu  beten  u.  nie  an  einer  Kirche  vorilberzugehen  oline  eine 
Messe  lesen  zu  lassen,  u.  stets  bis  zu  Eude  driiin  zu  bleiben.  Eiues  Tages  ilber 
rascht  er  seiiie  neue  Herriii  in  stràfiioher  Umarmung  mit  einem  Diener.  Die  Frau 
verklagt  deu  Teofil  ihrem  Gatteu,  dass  er  ihr  Gewalt  angethan.  Dieser  bespricht 
sich  mit  dem  «  Eparh  »  den  Diener,  den  er  zu  ihm  schicken  werde,  zu  toten,  n. 
ihm  den  Kopf  schicken.  Teofil  geht  an  einer  Kirche  vorbei,  làsst  sich  dort  eine 
Messe  lesen  u.  wartet  den  Schluss  des  Gottesdieustes  ab.  Inzwischen  ist  jener 
Knecht  hingegangen,  u.  hat  seineu  Kopf  eiugebiisst,  den  Teofil  versiegelt  empfàngt  u. 
seinem  Herrn  znriickbringt.  VoUer  Entsetzen  iiber  diese  Wendung,  u.  die  Strafe 
die  jenen  getroffen,  gesteht  die  Frau  ihr  Unr.echt  ein.  Der  Herr  erfiihrt  die  Geschichte 
des  Teofil,  seinen  Verkauf ,  u.  nimmt  iliii  an  Kindesstatt  an. 

Wunder  66.  Im  Jalire  1507  war  in  Ki-it  (Creta)  grosses  Erdbeben.  Zwei  Kinder 
die  in  einem  Laden  eingeschlosseu  waren,  wurden  von  d.  M.  G.  so  lange  beschiitzt, 
bis  sie  ausgegraben  Avurdeu.  Die  "Wand,  auf  welcher  sich  d.  Bild  d.  M.  G.  befand, 
blieb  auch  tmversehrt.  «  Jeronim  Douat  »  der  Herzog  vou  Krit  liess  dort  eine 
Kirche  bauen,  wo  das  Bild  annodi  "Wunder  wirkt. 

Wunder  67.  In  der  Kirche  des  hi.  Tit  daselbst  in  Krit ,  ist  ein  anderes  wunder- 
thatiges  Bild.  Einst  fiel  ein  Krieger  von  der  Mailer  u.  wurde  fast  ganz  zerschmettert. 
Halb  tot  brachte  man  ihn  endlich  vor  d.  Bild;  dort  lag  er  u.  betete.  Uni  Mitter- 
uaclit  ersehien  d.  M.  G.  u.  heilte  ihn. 

Wunder  68.  Iu  dem  Dorfe  Tmpsunon  in  Krit  befindet  sich  ein  wunderbarer  Brun- 
nen,  unter  dem  Schutze  der  M.  G. ,  der  so  oft  etwas  hineinfàllfc,  unmittelbar  bis 
zu  seiner  Milndung  sich  flillt,  so  dass  das  Hineiugefallene  leicht  heransgenommeii 
u.  gerettet  werdeu  kaun.  Dasselbe  versicherte  den  Verfasser,  Fiirst  «  Andreiu  Kor- 
naro  »  dessen  Sclireiber  er  lange  Zeit  geweseu. 


—  3M  — 

Es  folgen  darauf  Besclireibimgen  auderer  wunderbarer  Brunnen,  des  toten 
Meeres  etc. 

Wuiider  60.  In  der  Blumenwiese  cap.  8,  Theil  3  wird  von  einem  Frommen 
erzahlt,  der  sali,  wie  Goti  das  jimgste  Gericlifc  sclion  lialten  wollte:  Der  Engel  hatte 
schon  zwei  Mal  in  die  Trompete  gestossen.  Auf  Fiirbitte  d.  M.  G.  lasst  Gott  jedoch 
den  Menschen  uocli  feriier  Zeit  zar  Busse. 


Damit  schliesst  die  rumaenische,  oder  besser  nengriecliisclie  Sammlung  der 
Miracles.  Der  erste  Blick,  ja  die  hin  und  wieder  angegebenen  Quellen,  beweisen 
den  compilatorisclien  Characfcer  derselben.  Andererseits  entbehren  sie  nicht  eines 
gewisseu  Interesses  fiir  die  vergleichende  Volkslitteratur.  Unfcer  der  Form  von 
Mirakel  begegnen  wir  bekannten  Figuren,  wie  «  Genovefa,  »  oder  «  Der  Gang  zum 
Eiseuliammer ,  »  der  ausserst  zahlreiclian  Ankliinge  an  March enmoti ve  niclit  zu 
gedenken. 

Es  isfc  selbstverstaudlicli  Iner  niclifc  der  Orfc  diese  Fragen  nacli  dem  Urspnnge 
zn  erortern  oder  die  Parallelen  weiter  zn  verfolgen.  So  begntìge  ioli  mieli  denn 
damit,  den  Forscliern  den  Zugang  zu  einem,  wie  mir  sclieint,  minder  gut  bekannten 
Tlieile  eines  grossen    Literatur-Kreises,  erleichtert  zu  haben. 

M.  Gaster. 


ANTICHI  TESTI  DIALETTALI  CHIERESL 


AVVERTIMENTO. 


I  monumenti  dialettali  che  qui  nuovamente  si  pubblicano,  furono  dapprima  segnalati  dal 
medico  M.  Pipino  '  il  quale  volle  anche  corredare  la  notizia  d'  un  saggio  dello  Statuto.  -  No- 
tizia e  saggio  erano  stati  communicati  al  Pipino  dal  barone  Giuseppe  Vernazza,  dotto  cul- 
tore di  dialettologia  piemontese,  dei  cui  manoscritti  disseminati  in  diverse  biblioteche  di  To- 
rino s'  aspetta  ora  un  catalogo.  Furono  poi  pubblicati  integralmente  dal  Cibrario  '  che  però 
non  vide  1'  originale  ma  si  giovò  della  copia  di  essi  che  il  Montalenti  inserì  nella  sua  raccolta 
manoscritta  di  documenti  chieresi.  L'  edizione  del  Cibrario  (non  so  se  per  colpa  di  lui  o  del 
Montalenti)  è  ben  lontana  dal  potersi  dire  corretta;  1'  ortografia  dell'  originale  vi  è  mano- 
messa,  le  cattive  lezioni  vi  sono  frequentissime,  ed  è,  nel  suo  complesso,  fatta  cosi  trascu- 
ratamente che  qua  e  là  sono  persino  state  ommesse  delle  linee  intiere.  Il  Biondelli  '  non  fece 
che  riprodurre  il  Cibrario  rendendone  però,  per  la  brutta  smania  di  ritoccare  1'  ortografia, 
più  cattiva  la  lezione. 

Nutro  quindi  fiducia  che  questa  ristampa  riveduta  sul  Codice  con  quella  maggior  scrupo- 
losità che  per  me  si  poteva  "  abbia  ad  essere  ben  accolta  dagli  studiosi;  °  anche  per  ciò    che 

'  Grammatica  piemontese,  ediz.  del  1783,  pag.  135-136.  Non  so  perchè  il  Pipino  affermi  qnivi  in  una  nota  che 
il  Giuramento  è  del  secolo  XV.  A  me  è  parso  che  i  caratteri  fossero  della  stessa  mano  che  scrisse  lo  Statuto; 
certo  è  in  ogni  modo  ohe  risalgono  ad  nna  stessa  epoca.  Circa  alla  lingua  ognuno  riconoscerà  eh'  essa  è  aftutto 
identica  in  ambedue  i  documenti.  Ogni  dubbio  è  d'altronde  rimosso  dall'ordine  in  cui  trovansi  disposti  i  due  mo- 
numenti del  Codice: 

•  O.  e.  pag.  136.  Va  il  saggio  fino  alla  iine  di  1.  23  dell.a  presente  edizione,  e  non  è  scovro  d'  inesattezze. 
'  Storie  di  Chieri,  Voi.  II,  pag.  287  e  seg. 

*  Saggio  sui  dialetti  gallo-italici,  pag.  597  e  seg.  Gli  è  per  avere  frainteso  il  Cibrario  che  il  Biondelli  dice  di 
pubblicare  solo  un  brano  dello  Statuto.  In  realtà  osso  vi  è  riprodotto  per  intiero  come  nel  Cibrario. 

^  I  testi  vengono  qui  trascritti  con  esattezza  diplomatica  salve  le  noi-me  seguenti:  a)  si  sono  sciolti  i  nessi 
di  più  parole;  gli  elementi  staccati  vengon  però  nuovamente  uniti  con  una  lineetta,  cosi  la-ssoa  =  lassoa, 
gl-aitr  =  glaìtr;  b)  le  maiuscole  e  semimaiuscole  che  nel  codice  sono  applicate  senza  norma  veruna  si  sostituiscono 
con  delle  minuscole,  eccetto  che  nel  nome  proprio  Gcorr^  nel  quale  1'  uso  della  maiirscola  è  costante;  e)  la  semi- 
maiuscola j  ohe  in  principio  di  parola  sta  indifferentemente  per  i  e  per  j  è  trascritta  per  /  quando  1'  etimologia  in- 
dica che  debba  trattarsi  di  j,  co&ìjurer  ecc.;  circa  poi  al  valore  fonetico  di  quel  j  vedasi  il  num.  16;  d)  si  scioglie 
per  cort  quell' abbreviazione  che  suol  rendere  la  preposizione  associativa.  11  cod.  offre,  senza  abbreviazione,  due 
volto  com  St.  17, 18,  una  con  St.  28,  ed  una  cum  St.  84.  Anche  cdcu  si  interpreta  per  alcun  abbenchè  occorra  un  jjaio 
di  volte  alcuni. 

'■  Il  desiderio  d'  una  nuova  edizione  dei  nostri  testi  trovo  manifestato  da  Bollati  e  Manno  nella  prefazione  ai 
Documenti  inediti  in  antico  dialetto  italiano  {Arch.  Star,  it.,  voi.  Vm,  1878)  e  dal  Forster  nelle  Gallo-italiscJie  Pre- 
dìgtcn ,  pag.  11  in  nota. 


—  346  — 

le  opere  fin  qui  menzionate,    sopratutto   le   Storie  del  Cibrario,   vanno   facendosi  ogni  di 
più  rare. 

Trovansi  i  nostri  testi  nell'  Archivio  municipale  di  Chieri  '  nel  secondo  dei  due  volumi 
che  contengono  gii  Statuti  della  Compagnia  di  San  Giorgio  del  popolo  di  Chieri  e  che  sono 
inscritti  nel  Catalogo  sotto  il  num.  3.  Il  volume  è  in  4°  grande.  I  nostri  testi  sono  scritti  su 
fogli  cartacei,  il  Giuramento  nella  1^  facciata  del  3°  foglio,  lo  Statuto  nella  l"  del  4°  e  nelle 
pagine  susseguenti. 

Il  prof.  W.  Forster,  dell'  Università  di  Bonna,  illustrando  le  Galìo-ìtalische  Predigtcn  da 
lui  edite  nel  IV  voi.  dei  Romanische  Studien  ha  abbondantemente  annotati ,  servendosi  della 
lezione  del  Biondelli,  anche  i  nostri  testi;  e  lo  ha  fatto  con  quella  competenza  che  ognuno 
in  lui  riconosce.  Mi  toccherà  quindi  ripetere  in  più  d'  un  luogo  quanto  già  fu  detto  dal  dotto 
alemanno,  quantunque  lo  scopo  j^rincipale  delle  annotazioni  che  qui  accompagnano  i  testi 
voglia  essere  quello  di  riempire  le  lacune  lasciate  dal  F. ,  e  sopratutto  di  rettificare  quegli  er- 
rori in  cui  il  F.  doveva  necessariamente  cadere,  data  la  scorretta  lezione  onde  dovette  valersi. 


'  [Possiede  Chieri  un  altro  testo  dialettale ,  più  recente  ma  pur  preziosissimo,  vuoi  por  la  dialettologia  Tuoi 
per  la  storia  letteraria.  Giace  neir  Archivio  della  Collegiata  di  quella  città,  e  consta  di  41  quartine  (cosi  almeno  af- 
fermasi; ma  la  cosa  non  potrà  ritenersi  per  accertata  che  dopo  un  attento  esame  del  Codice)  coutLuenti  una 
lamentazione  sulla  Passione  di  N.  S.  —  Ne  diede  prima  brevissima  notizia  il  Vallauri  nella  sua  Storia  della  poesia 
in  Piemonte  (1811)  voi.  I,  pag.  243,  e  fu  recentemente  pubblicato  dall' aw.  F.  Rondolino  in  appendice  al  suo  ro- 
manzo La  Corte  d'  Acaja  (Torino,  1.S84).  Questa  cojiia  è  però  parsa  a  me  e  ad  altri  non  troppo  buona.  Trovandomi 
quindi  a  Chieri  per,tr.iscrivere  i  presenti  testi,  cercai  di  vedere  anche  il  documento  della  Collegiata.  Ma  per  i  re- 
stauri di  quel  Duomo  che  continuano  già  da  più  anni,  l'Archivio  trovasi  ora  depositato  un  po' alla  rinfusa  in  un 
locale  provvisorio;  di  modo  che  la  ricerca  sarebbe  riuscita  lunga  e  noiosa:  non  me  ne  sarei  tuttavia  spaventato 
e  mi  sarei  accinto  a  frugare  ove  il  cortesissimo  Signor  C.av.  Can.  Pompeo  Unia,  sopraintendente  all'Archivio,  non 
mi  avesse  assiciu'ato  che  questo  si  sarebbe  riordinato  quanto  prima  e  che,  appena  compiuto  il  riordinamento, 
me  n'avrebbe  reso  edotto]. 


—  347  — 


GIURAIklENTO. 


Uos  domini  rectores  de  la  compagnia  de  messer  seynt  Georc[-c]  e  del  pouor  de 
cher  el  vostr  sarameut  sera  tal  o  jureray  al  seint  dee  wangere  '  de  recer  e  de  mante- 
nir  a  bonna  fay  e  senca  engau  ny  del .  le  cosse  le  persone  e  .  le  rassoign  de  la  com- 
pagnia de  tuta  vostra  possenca  e  .  forca  juxta  y  capitor  e  gly  statut  de  la  ditta 
co?Hpagnia  .  e  mancliant  capitor  o-sea  statut  .  second  le  boune  vssance  aprouay  . 
e  capitor  o-sea  consueòuden  maficafit  second  .  le  lay  romaiaie  tant  e  se  dener  .  o  sea 
ceyns  o  rassoign  de  colla  compagnia  perueran  .  a  le  vostre  magn  .  colle  tal  cosse 
salueray  e  feray  saluer  e  varder  e  cola  tal  monea  e  rassoign  .  no  laseray  ocuper 
a-gnu;ma  perssona  ne  de  colla,  feray  alcun  don  .  e  colla  compagnia  en  recemeut  las- 
seray  .  second  el  mod  e  la  forma  de  y  capitor  .  de  colla  compagnia. 


STATUTO. 


A-lo  nom  del  nostr  segnor  ylni  /[ist  amen  .  a  1-au  de  la-ssoa  natiulta  MCCCXXI 
a-la  quarta  indicion  .  en  saba  a  XXV  di  del  meis  de  loign  en  lo  pien  e  general 
consegl  de  la  compagnia  de  messer  saint  Georc  de  cher  a  son  de  ca»ipana  e  a  uox 
de  crior  .  en  la  cliaxa  de  lo  dit  comuu  de  cher  al  mod  uxa  e  congrega  .  el  fu  statui 
e  ordona  per  col  consegl  e  per  gle  consegler  de  lo  dit  consegl  e  per  gle  rezior  de  la  5 
dieta  compagnia  gle  quagl  adonch  li  eren  en  granda  quantità  e  gniun  de  lor  discre- 
pant  .  fait  apres  solempn  parti  che  gly  infrascjv'pt  qiiatrcent  homegn  de  la  ditta 
co?»pagnia  seeii  .  e  debien  .  esser  perpetuar  meint  e-se  debien  nominer  un  hospicij 
co  [co]  e  hospicij  de  la  compagnia  de  sein  Georc  .  i-quagl  homegn  debien  e  seen  en- 


'  Leggo  w-,  perchè  interpreto  come  un  segno  d'abbreviazione  il  tiretto  che  nel  codice  sta  sopra  il  semplice 
V-.  S'  accorderebbe  cosi  il  nostro  wangere  coli'  evvangelia  delle  carte  in  lingua  latina,  col  c/uangii  di  Besc.  pag.  37, 
ool  guagnelio  di  Ugucjon  da  Laodho,  pag.  16,  col  guagnelista  che  è  nel  Coil.  mare,  del  poemetto  della  Pass,  e 
Eisurr.  ed.  dal  Biadene  (Sf.  di  fil.  rom.  2,  pag.  230,  e  pag.  260  al  verso  197). 


—  348  — 

10  tegnii  perpetuar  meint  .  consegler  a  adrit  e  lear  meint  .  la  ditta  compagnia  e  i  con- 
sol  e  gli  homega  de  coUa  compagnia  a  bona  fay  .  no  declinand  a  alcu/ma  volunta  . 
se  no  a  chu/nia  '  vtilita  .  del  corp  de  colla  compagnia.  E  se  el  entreuenis  que  dee  . 
nel  vogla  que  alohuna  persona  .  que  ne  fus  de  la  ditta  compagnia  de  quieta  condi- 
cio»  o   stat  que  sea  feris  alclmyj    hom   de   la  ditta   compagnia  .  o   veirament   feis 

15  ferir  .  o  .  vulnerer  .  o  veiramewt  afer  "  la  ditta  ferua  o  veirament  deis  consegi  vo 
fauor  .  o  se  el  entreuenis  de  houre  enaifit  que  alchu»  de  la  dita  compagnia  feris 
o  vulneras  alch.U)i  o  alcliuign  .  qui  no  fosseu  de  la  ditta  compagnia  .  o  com 
chol  .  o  veyramsjit  prandes  guera  com  lor  que  gle  infrascj-<pt  quatrcent  liomegn  . 
de  la  ditta  compagnia  seen  entegnu  e  debien  .  precixameut  e  senca    tenor  portcr 

-0  e  deferir  pareysament  arme  .  co  e  .  falchastr  .  juxerma  .  o  sea  spa  o  maca  .  e  . 
bracagl  o  sea  tauolaca  .  taut  quant  porterea  .  col  o  coigi  .  de  la  ditta  compa- 
gnia .  i  quagl  haveren  "  o  .  aues  la  ditta  discordia  e  tant  que  la  vindita  se  feis 
de  la  ditta  ferua  .  de-fin  a-tant  que  .  col  qui  area  la  discordia  o  chy  a  *  serea 
faita  la  ditta  ferua  .  o  qui  ferea  la  ditta  vendita  a  pas  o-sea  concordia  peruenis  . 

-->  con  y  soy  auersarij.  — •  e  ender  e  retorner  .  e  .  ester  co»  col  qui  arrea  la  ditta  di- 
scordia .  e  .  col  eucompagner  .  a  la  qual  vindita  fer  .  coigi  quatrcent  .  liomegn  .  e 
chun  de  lor  .  seen  entegnu  .  e  .  debien  precixamcftt  .  enter  archoign  de  la  ditta  com- 
pagnia .  e  .  etiawdee  fer  .  e  .  percurer  con  effet  con  coigi  de  la  ditta  compagnia  que 
la  vindita  d  la  percusion  .  que  se  ferea  a  coigi  de  la  ditta  compagnia  se  faca  e  se 

30  debia  fer  semigla«tment  .  Otra  de  co  aioynt  .  e  .  spressament  dit .''  que  se  el  entreue- 
nys  que  .  alcun  chi  ne  fos  de  la  dita  compagnya  feris  o  feis  ferir  o  fos  a  .  fer  .  colla 
percussion  .  o  deis  consegi  .  eytori  .  o  fauor  .  o  vulneras  alchun  o  alcoign  .  de  colla 
compagnia  .  e  col  .  o  .  cogl  de  la  ditta  compagnia  qui  seren  feruy  .  se  vindicassen  . 
0  feissen  .  la  vinditta  eu  quint  mod  de  lo  dit  malificy  en  col  o  coigi  qui  cometiren 

::5  lo  dit  malificy  .  o  .  avos  cometu  o  avessen  .  fayt.  cometer  o  veirament  en  alchun  . 
o  sea  en  alchoign  .  de  cola  parentella  qui  no  fos  de  colla  compagnia  .  que  o  recior  . 
o  .  sea  y  recior  de  la  ditta  compagnia  que  serea  en-1-oura  o  .  que  seren  en  cola 
cojapagnia  .  e  gle  omegn  de  colla  co)»pagnia  .  e  la  ditta  co;;ipagnia    seen  entegmi 


*  Mal  s'  appone  il  Forster,  Gallo-ìt.,  Pr.  44,  asserendo  che  in  cima  debba  trattarsi  di  clmn  o  qni  di  una  abbre- 
viazione iDer  chascuii  o  caschaun.  In  realtà  chun  mai  non  occorre  come  mai  non  occorre  ctZcttn;  trovansi  bensi  co- 
stantemente o  quasi  ckTmn  corno  alchuna  {chiiiia  e  aldmiia  occorrono  una  sol  volta  ciascuna,  St.  13,  98  e  potrebbe 
trattarsi  di  una  svista  del  menante)  e  la  ragiono  sta  nel  latto  che  la  nasale  che  segue  alla  tonica  sol  si  raddoppi 
quando  lo  succeda  una  vocale  (cosi  bou  St.  81,  di  fronte  a  boitim  Q.  3,  o  bonne  G.  5).  Ciò  ne  conduce  a  ravvisare 
in  (■/;««  chuna  nuli' altro  che  un  ca[ditm[o\  caldluniia. 

*  Qui  va  letto /OS  afer  come  a  l.  31. 

'  Non  s'  ò  voluto  qni  forzare  l' interprota^iione  del  segno  d'  abbreviazione  e  leggere  Irnvese^i  come  parrebbe 
richiedere  r  o«e«  che  immediatamente  susseguo.  Il  condizionale  può  fungere  anche  da  imprf.  del  cong.,  nulla 
quindi  di  strano  che  qui  lo  scrittore  abbia  messo  a  profitto  ambedue  le  forme  che  stavano  a  eua  disposizione.  Qui 
è  poi  anche  capovolto  l'  ordine  sintattico  richiedendo  il  col  o  coigi  ohe  si  ponesse  prima  aues  poi  havcnn.  Ma  olii 
scriveva  sì  trovava  certo  sotto  l' improssione  del  relativo  plur.  i  qunijl  che  solo  risponde  ai  due  dimostrativi. 

*  Leggasi  a  chy. 

'■  Questo  passo  va  emendato  cosi:  otra  de  qo  aioi/nt  e  (est)  e  s}yressament  dit=  oltre  di  ciò  aggiunto  6  ed  espros- 
samento  detto. 


—  349  — 
et  clebiou  .  prtócissament  e  seiica  tenor  e  sot  la  peina  .  e  .  band  .  de  cent  .  lire  .  de 
asteìtsihiis  .  per  cliun  re9Ìor  extralier  e  fer  extraher  de  1-aveyr  de  colla  compagnia  .  40 
col  .  o  coigl  .  qui  feren  .  la  ditta  vindita  .  e  y  lor  coaiutor  varder  sen9a  dagn  .  o 
fosen  .  i  dit  coaiutor  de  la  ditta  cojupagnia  o  .  no  .  e  inse  fer  cura  con  .  effet  .  e 
compir  .  que  .  o  sea  daa  .  e  se  debia  der  a  col  .  o  .  a  coigl  .  qui  feren  .  la  ditta  vin- 
dita .  benna  pax  e  ferma  concordia  contra  coigl  centra  i  quagl  serea  faita  la  ditta 
vindita  .  e  con  tuit  gl-aitr  .  de  la  lor  parentella  o  .  fossen  o  veiramejit  no  fossen  de  4") 
la  ditta  cooipagnia  e  lor  constrenzer  .  a-fer  la  ditta  pax  .  infra  doy  meys  .  poy  que  . 
la  ditta  vindita  serea  faita  .  per  la  \agor  de  la  ditta  coì«pagnia  .  e  se  el  entreueuis 
que  col  0  coigl.  contra  el  qual  se  ferea  la  ditta  vindita  o  coigl  de  la  soa  parentella 
o  sea  de  la  lor  parentella  o  fossen  de  la  ditta  compagnia  o  no  no  voressen  consentir 
en  la  ditta  pax  fer  que  i  rezior  e  gle  omegn  de  colla  co7?ipagnia  .  debien  e  seen  en-  50 
tegnu  .  precissament  per  la  vigor  del  saramoit  e  sot  colla  meysma  peyna  metir  la 
man  .  n-l-arme  '  prest  e  rebustament  .  e  corer  contra  coigl  .  qui  ne  voren  consentir 
en  la  ditta  pax  .  e  lor  tuit  en  tuit  mod  qu-i  poran .  cojistrewzer  azo  qu-i  fazen  la  ditta 
pax  .  e  .  colla  pax  obseruer  .  e  seen  entegnu  pei'petuar  ment  .  incorota  .  inse  .  e  en 
tal  maynera  .  sea  co«streit  col  e  tuit  gl-aitr  de  la  soa  parentella  a  fer  la  ditta  pax  .  55 
e  a  tenir  con  eifet  per  lo  rezior  e  per  gle  rezior  de  .colla  co?npagnia  .  e  per  la  com- 
pagnia .  soudita  '  .  que  se  col  .  0  coigl  .  de  soa  pare/itela  ne  volessen  .  fer  la  ditta 
pax  .  e  .  faita  tenir  .  que  0  recior  o  sea  y  rezior  .  de  la  preditta  compagnia  .  e  colla 
compagnia  .  sea   entegnu  .  precixament  .  waster  .  en   co»tenent  i   soy  ben  entera- 
ment  .  e  .  niynck  an  .  e  .  tenir  wasta  perpetuarment  .  co  e  chassa  vigne  .  choiv  .  e  CO 
pray  .  de  cy  a-tant  que  y  .  aueran  .  consenty  .  en  la  ditta  pax  .  e  .  se  alchun  .  de 
la  ditta  .  soa  parentella  .  poy  que  .  y  .  predit  ben  .  fossen  wastay  .  deysen  a-lor  alcum  . 
consegl  eytory  .  0  sostegn  .  pareixamoit    o  pryua  '  que  .  y  .  ben  .de  col  .  o  .  de 
coigl   .   qui  deren    col    tal   coiisegl   eytory  .  e  .  fauor  .  se  debyen  tenp'  .  semy- 
glantme[n]t  .  de  waster  .  e  .  tenir  .  myuch  .  an  wastay  .  inse  com  .  el-e  de-sory  dit  .  55 
e  se  alchuuna  persona  .  qui  fossen  .  de  colla  .  coHjpagnya  .  0  no  fussen  .  deys  0  . 
feys  alchun  .  mal  .  o  .  iniuria  .  en  .  la  persona  .  vo   .  en  le  cosse  .  de  col  .  o  .  de 
coigl  .  que  ne  .  vovoi  .  fer  .  la  ditta  .  pax  .  que  .  colla  tal  persona  .  quy  .  auerea  . 
dayt  .  col  mal  .  o  iniuria  sea  extrayt  .  semyglant  meynt  senca  dagn  .  per  la  ditta 
compagnya  e  eciamdee  consegua  .  i  quagl  quatrcent  tute  vote  e  cliuyma  vota  el  fos  70 
iuiuynt  a  lor  o  .  comanda  .  o  cria  .  o  veyrament  alchun  .  aotr  seyn  *  .  ordona  .  a 
fer  .  de  la  part  del  re9yor  .  0  dy  recior  de  la  ditta  compagnia  a  co   qu-i  venissen  . 
a  .  lor .  con  arme  .  o  senca  arme  .  qu-i  debien  venir  ao.  loo  ''  la  vnde  .  lo  .  dit  re9Ìor 


'  Sottolineato  nel  codice. 

-  Lo  scriba  lia  qui  ommesso  U  segno  deU' abbreviazione  per  er,  dovendosi  certamente  leggere  sonerdita. 

'  Nel  ood.  una  deUe  tre  gambe  ohe  potrebbero  far  credere  ad  un  2>r!l'na  (dal  Cibrario  poi  interpretato  per 
prt}ui<t)  appare  cancellata. 

*  Leggasi:  per  (o  con)  alchun  aotr  scyn. 

'■  Ritengo  che  qui  s'  abbia  a  leggere  a-lo  loo.  Il  copista  preoccupato  dal  l  di  loo  ohe  immediatamente  seguiva 
avrà  omesso  iU  di  a-lo.  —  Di  al  (prepos.  +  art.)  che  passi  per  le  vicende  d'  ogni  altro  AL  s'  ha  esempio .    oltre   che 


—  350  — 

o  sea  y  rezior  fossen  .  o  la  vude  y  feren  crier  .  lassa  cliu/aia  cossa  a  fer  .  per  achu«i- 

75  pyr  .  le  cle-sori  ditte  cosse  .  e  y  lor  comandameut  .  e  col  .  que  .  a-lo  dit  rezior  o  sea 
y  .  rezior  pyaxira  .  e  1-onor  .  e  lo  profet  de  la  ditta  coj^pagnj'a  .  per  la  vertu  del 
sarament  .  e  set  lo  peina  e  band  de  .  X  .  lire  de  astexan  .  pec  .  chun  .  e  per  chunna 
vota  .  e  eciamdee  .  j)orter  I-arme  '  .  tant  quant  a-lo  dyt  rezior  .  vo  .  y  .  reziorgl  ' 
pyaxirea  .  e  qiie  lo  rezior  .  o  sea  gle  reziogl  de  la  compagnia  .  seen  entegnu  e  de- 

80  byen  mynck  an  .  del  meis  del  luygn  fer  .  appeler  e  .  recercher  lo  dit  liospicij  de  i  . 
dit  quatrcent  e  se  el  entreuenis  que  alchnm  fos  mort  de  fer  e  suroger  vn  aotr  bon 
e  sufficient  en  lo  de  col  dit  passa  de  costa  vita  .  pressent  inse  .  que  sempr  may  .  lo 
dit  liospicij  romagna  en  la  entera  quantità  .  e  .  nomer  de  quatrcent  i  quagl  quatrcent 
debien  jurer  de  attender  e  de  obseruer  cum  effett  tote  le  preditte  .  e  .  singule  cosse 

85  e  que  tuit  y  quatrcent  habien  lo  escu  a-l-arma  de  seynt  G-eorc  le  quagl  tute  e  sin- 
guUe  cosse  .  vaglen  e  tegn  '  .  e  se  debia  perpetuar  me^'nt  .  obseruer  per  lo  rezior  o 
sea  per  gle  reziogl  de  la  ditta  cojnpagnia  e  per  gle  vnivers  homegn  de  colla  compa- 
gnia ijifrascci'pt  a-la  volunta  e  .  declaracion  .  semper  de  col  o  de  coigl  .  qui  auren 
la  discordia  .  inse  com  el-e  dit  de-sori  .  e  de  aotra  part  se  faza  e  se  debia  fer  pu- 

90  blicli  instrument  a  cbun  qui  vora  lo  quar  instrument  sempr  se  debia  obseruer  inse  . 
com  s-el  predit  capitol  .  se  troùas  script  en  lo  volum  .  di  capitor  de  colla  compa- 
pagnia  .  inse  com  gl-aitr  capitor  de  la  cojnpagnia  .  e  se  alcliun  .  feis  diex  o  venis 
coltra  la  preditta  o  alchuime  .  de  le  preditte  cosse  .  que  o  sea  reputa  .  e  .  se  possa 
apeler  de  tuit  .  treyfcor  e  rebel  de  colla  cowipagnia  .  e  centra  col  .  se  possa  e  debia 

05  proceer  .  inse  .  com  se  .  al-aues  metu  .  la  man  .  en  alchuu  .  hom  .  de  la  ditta  com- 
pagnia. —  lo  qual  capitor  sea  frem  .  e  precis  .  e  ne  se  possa  remouer  .  ma  .  se  debia 
per  chun  rezior  e  reziogl  e  homegn  .  de  .  la  ditta  coj»pagnia  attender  .  e  obseruer  . 
sot  la  peyna  .  e  band  de  vint  e  V  .  lire  de  astexan  .  per  chun  e  .  per  chuna  vota  . 
otra  tute  ly  altre  e  .  singule  peine  .  que  se  couteinen  .  de-sori  .  neynt  .  de  meiu  .  ro- 
100  maneynt  tuit  gl-aitr  .  capitor  .  de  la  ditta  compagnia  en  col  .  qu-i  .  fossen  .  py  . 
fort  .  en  lor  fermeca  .  en  col  veyrament  .  que  .  el  present  .  capitor  .  fos  .  py  .  fort 
de  gl-aytr  .  sea  derogatori  .  o  (?)  otra  .  dit  .  e  .  excepta  .  que  se  alchun  .  de  la  ditta 
compagnia  staxent  for  de  la  juridicion  .  del  comun  de  cher  .  auex  discordia  con  al- 
chun .  o  .  alchoign  .  qui  .  ne  foxeu  de  cher  o  del  poeyr  .  que  .  lo  predit  capitor  no 
105  habia  loo  .  quant  a  porter  le  arme  .  en  le  aytre  cosse  .  veyrament  .  romagna  .  en 
la  soa  fermeca  .  amen. 


nel  francese  (au) ,  in  moderno  varietà  podomontane.  Non  credo  jiei'ò  che  si  tratti  qui  della  stessa  cosa.  CCr.  del 
resto  nuni.  3. 

'  Sottolineato  nel  codice. 

'  Questo  reziorgl  altro  non  ci  rappresentorà  che  l' imbarazzo  in  cui  si  trovava  il  copisi  a  risiietto  alla  doppia 
forma  rezior  e  reziogl* 

'  tegnen. 


351  - 


ANNOTAZIONI   FONOLOGICHE. 


A.  1.  Tonico  e  nella  formola  A'Ii  si  riduco  ad  e,  oltre  che  noli' infinito  in  -or[e]  (jiortcr  ecc.), 
nella  parola,  juxerma  St.  20;  cfr.  less.;  éi  da  di  s'  ha  in  seynt  G.  1,  2,  St.  85,  seyn  St.  9;  [saint  St.  3]. 

2.  Atono:  enriér  St.  25;  nella  forinola  ai  :  treytor  St.  91,  eytory  -i  St.  63,  64;  in  sillaba  posto- 
nica: ercn  St.  G,  ei-ant;  (Zejjcn  pass., /a~e«  St.  .53,  seen  pass.  ecc.  -i  per  a  all'uscita  in  de-snri  passim, 
cfr.  less. 

3.  AL -i-coKS.:  aolr ,  -a  pass.;  ma,  f ale  hastr  St.  20,  alchun  («r- St.  27)  ecc.  pass.  Circa  aitr 
V.  N.  12,  e  circa  aor=al  ved.  la  nota  a  1.  73. 

4.  A' RIO  -A  :  dener  G-.  6,  cher  pass.,  mayncra  St.  55;  aucrsarij  St.  25. 

E.  5.  S'ha  il  dittongo  ei'  pere  :  peina  pass.,  veira-  pass.,  aveyr  St.  40,  poeyr  St.  104 -;  lo  s' ha 
pure,  ma  non  costantemente,  per  1'  é  nella  formola  É  +  N  +  cons  :  meis  St.  2,  46,  80,  pardxa-  St.  20,  63 
ceyna  G-.  7;  neynt  v.  less.,  romaneynt  St.  99-100  [ma  en  continent,  presscnt  ecc.;  -ceni  pass.;  -meni  ^= 
-MENTO  {reQement ,  sarament  eco.)].  Prevale  l'^non  dittongata  anche  nella  risposta  di  -mente  deriva- 
tore d' avverbi  [-meint  St.  8,  10,  69,  86,  ma  -meni  St.  54,  59,  60,  19,  27,  30,  39,  51,  52  ecc.);  ma  la  costanza 
con  cui  s' evita  il  dittongo  nel  -ment  di  veirament,  parola  questa  che  occoi-re  una  diecina  di  volte ,  e 
di  pareixament  che  occorre  unpajo  di  volte,  St.  20,  63,  darebbero  a  credere  cho  v'entri  per  qual- 
che cosa  la  spinta  dissimilativa  {ei — ci)  la  quale  e  poteva  non  lasciar  mai  prevalere  il  dittongo  e 
prevalso  sopprimerlo. 

.Ei per  é  (da  i)  nella  posizione  ^'  ha  costantemente  negli  imprf.  del  oong.  feis,  quasi  'fesse'  (fa- 
cesse) e  deis  'desse'  mentre  V -és  dello  stesso  tempo  si  mantiene  inalterato  in  ogni  altro  verbo 
{aues  ecc.). 

6.  Come  nel  moderno  piemontese  uc  dà  o  in  col  colla  ecc.  pass,  o  in  costa  St.  82. 

7.  Atono.  Passa  in  a  davanti  a  ?»  in  prandes  St.  18;  in  o  davanti  a  m  in  romagna  St.  105,  roma- 
neynt St.  99-100.  Va  perduto  in  d  la=^  de  la  St.  29  e,  iniziale,  in  wanyereGr.  2,  spressament Bt.  30. 

All'  uscita  va  perso  ove  risalga  a  lat  -e  :  lìerpctuar ,  semyglant,  prcssent,  vigor,  tcnor,  scnipr,  quar, 
uox,  pax,  rcqer,  portcr,  fos,  aues,  trouas,  purché  però,  in  aggottivi  femm.,  non  si  converta  in  a  come  in 
granda  St.  6,  jiareixa-  St.  20,  63;  ma  rimane  ove  risalga  a  lat.  -ce:  bonne,  cosse,  romanne,  peine  ecc.; 
-i  per  -CE  s'  ha  in  aprouay  G.  5,  ein  ly  =^  le  St.  99. 

8.  Prostesi  di  e  davanti  a  s  impuro'  :  esier  St.  25,  escM  St.  S5. 

/.  9.  S'ha  il  dittongo  per  l'i  in  mein  St.  99.  In  conleinen  St.  99,  non  s'avrà  già  *continent,  come 
taluno  potrebbe  essere  tentato  di  credere,  ma  contégncn;  cfr.  seyn,  St.  71,  per  scgn  segno.  Circa /«y  cfr. 
num.  5  n. 

10.  Sta  e  per  i  nell'iato  in  sca  seen  pass.;  e  sarà  pur  da  --ia  -{ano  V-ca  -en  (:=-cen)  di  condi- 
zionalo (porterea,  seren  ecc.);  -i  d'uscita  in  e  :  insé  pass. 

11.  Atono  :  en-  da  in-:  en  l^ass.,  enlcgnii  pass.,  engan  G.  3,  enaint  St.  16,  encompagner  St.  20,  c?i- 
Irevenis  pass.;  in  sillaba  postonica  :  liomegn  pass,  consueluden  G.  6. 

12.  -i  all'uscita  :  a)  cade:  conseglcr  St.  5,  sialut  G.  4,  capilor  pass.,  consueluden  G.  6,  infrascript 
St.  7  ecc.,  entegnu  St.  9-10,  19  ecc.,  icasta  St.  60;  b)  rimane  m.]]ray  St.  61,  loastay  St.  62,  G5,feruy  St.  33; 


'  Jj'ei  può  poi  ridursi,  come  avviene  anche  in  varietà  pedemontane  moderne,  ad  ai:  cosi  in  lay  G.  6,  fay 
G.  3,  St.  11.  due  parole  nelle  quali  riman  dubbio  se  il  dittongo  si  debba  all'  e  e  rispettivamente  all'  l  oppure  sia 
prodotto  dal  diseguo  della  consonante  che  seguiva  alla  tonica.  —  Circa  jm'cray  ecc.  cfr.  la  nota. 

'  Tanto  avajr  che  poe;;i'  fungono,  nei  nostri  tosti,  da  sost.iutivi.  Del  rimanente  ad  -Ebe  suol  rispondere 
-il",  tenir,  mantetiir,  achunnitjr, pijaxir-à  -ca.  In  remover  St.  96,  s'ha  molto  verosimilmente  *renióvere. 


—  3r32  — 

iloij  St.  4G,  soij  St.  25;  e)  cade  ma  dopo  essersi  ripercosso  dietro  la  tonica  '  :  luit  pass.,  a'Ur  pass.,  clioio 
St.  60,  cfr.  less.,  rcziogl  St.  79,  87,  97,  cioè  reziój  {-gì  sta  graficamente  per  -j)=:uEziom  (cfr.  aer- 
vitói  ecc.  nel  dial.  di  Varallo-Sesia) ,  e  qui  andrà  anche  notato  cnaint  St.  16,  'in-anti'.  Ma  non  va  con- 
siderato a  questa  stregua  Vi  dirassoign  G.  7,  8,  alchuign  pass.,  coigl;  e  si  vuol  diro  che  qui  l'isolo  ci  rap- 
presenti un  pleonasmo  grafico  atto  ad  indicare  unitamente  al  gì  o  al  gn  ohe  gU  sussegue  il  «  e  il  ? 
che  i  francesi  direbbero  mouilUs;  non  hanno  quindi  maggior  valore  quegli  -igl  e  quegli  -ign  che  non 
ne  abbiamo  i  semplici  gì  e  gn  in  homegn,  magn,  c.ogl,  iinagl,  hrae.agl;  d)  permane  fondendosi  però  in  un 
suono  unico  col  Z  o  col  n  che  gli  precedono:  riu.agl  eco.  inwjn  ecc.;  cfr.  num.  IS,  25;  e)  si  riduce  ad  e 
inglcSt.  5,  38,  56,  ecc. 

0.  13.  Atono  :  re-  soppianta  ro-  in  reìmstament  St.  52,  e  pre-  (quindi  per-)  soppianta  jiro-  in 
2yercurer  St.  28.  Si  ha  l'aferesi  in  mijnch  St.  60,  65,  80;  cfr.  less. 

14.  -0  all'  uscita  :  occorre  più  volte  ne  =  no  (non)  ;  ma  in  realtà  non  è  esempio  buono  d' un  -o 
poiché  quella  negativa  ci  appare  come  ne  solo  nella  proolisi  (enfaticamente  occorre  sempre  no).  In  ican- 
gere  Gr.  2,  non  si  vede  bene  se  si  tratti  di  'vangelo'  o  di  'vangeli[o]'  e  quindi  se  quel!'  esemplare  sia  di 
spettanza  di  questo  num.  o  non  piuttosto  del  num.  12.  Del  resto  1'  -o  suol  essere  immolato  su  tutta  la 
linea:  scin' ,  Georg,  engati,  -cent,  quatr- ,  aotr,  liom,  hosincij,  eijtori,  malejìcy ,  dee  'de[o]'  ordona,  uxa, 
parti,  statuì,  meta,  capitor,  nomer ,  consol,  an;  consegl,  loign,  ecc.;  sot,  apres,  ecc.;  seen,  debicn, 
cren,  ecc. 

U.  15.  In  iniuynt  St.  71,  di  fronte  ad  aioynt  St.  30,  come  ìnfus  St.  13, /«ssen  St.  6G,  di  fronte  a 
/os  pass. /osseli  pass.,  e'  è  rappresentata,  se  non  una  grafia  latineggianto,  l'incertezza  del  copista  nel 
rendere  1'  o.  chiuso  volgente  ad  u  [cfr.,  in  sillaba  atoma,  anche  aclmm.i>yr  St.  7i-75,  di  fronte  a  compir 
St.  43]. 

Di  fronte  al  costante  uso  di  u  (qui  indubbiamente  nelle  funzioni  di  »)  nel  sing.,  ci  occorre  il  pi. 
(ilcoign  allato  ad  alchuign  come  occorre  loign  St.  2,  allato  a  luygn  St.  80;  e  deve  trattarsi  in  realtà  sem- 
pre d'  u  che,  scordata  la  sua  primitiva  quantità,  s'  assoggettò  al  trattamento  clie  suol  essere  inflitto  al- 
l'«  in  posizione  (cfr.  lógn,  coli' o  chiuso,  nel  dial.  di  Vallo  Onsernone)  ;  e  infatti  se  si  può  con  facilità 
accordare  che  il  menante,  dato  un  segno  ti,  lo  applicasse  ad  il  e  ad  o  chiuso,  non  puossi  con  ugual  fa- 
cilità ammettere  il  contrario,  cioè,  ohe,  dato  un  segno  o,  il  menante  lo  applicasse  indifferentemente 
per  o  e  per  u.  —  Alchuign  e  luygn  saranno  poi  o  delle  doppie  forme  nelle  quali  1'  w  sarebbe  passato  jier  le 
vicende  che  gli  sono  jiroprie  (cfr.  liign  nel  piem.  mod.)  oppure  ci  saranno  nuovo  esempio  dell'  u  che 
s'adopera  anche  ad  indicare  1'  o  chiuso. 


CO.XSONANTI. 


/.  16.  La  risposta  di  j  etimologica  è,  nei  nostri  testi,  indubbiamente  g ,  si  renda  esso  perj  (ini- 
ziale) o  per  i  (interno)  :  jurer  sa.ra,  giurer ,  juxcrma  giuxerma,  iniuria  ingiuria,  coaiutor  coagiulor,  iniu- 
ynt ingiuynl,  aioynt  agioynt,  ecc. 

L.  17.  Bidiicesi  a  r  in  ivangere  G.  2,  pareixa-  St.  20,  63,  pouor  Q.  1,  capitor  Gr.  4,  5,  10,  St.  96, 
104,  ecc.,  licrxìetuar-  St.  8,  10,  Icar-  St.  10,  archoign  St.  27,  qaarSi.  90,  voren  St.  52,  vara  St.  90. 

LJ.  18  :  vogla  St.  13,  vaghn  St.  86  :  consegl,  conscglcr,  scmyglanl-  e  con  i/ finale  :  cogl  coigl  pass., 
(juagl  pass.,  hragagl  St.  21. 

19.  OL  4-  cons.  :  vota  -e  pass.,  eira  pass.  Circa  AL  cfr.  num.  3. 

20.  In  luygn  potrebbero  aversi  l-l  dissimilati  per  Z-n  *  luuio- =  lulio-;  molto  più  probabil- 
mente però  dovremo  ravvisare  nel  it  (-ygn)  di  luygn  V  influenza  di  jUìNio-  ;  cfr.  Diez  TI'.',  3S1. 


'  Va  scartata  l'asserzione  del  Forster,  Gallo-U.  Fr., 51,  secondo  la  quale  nell'i  degli  apostoli  angeil  ecc. 
delle  Prediche  s' avrebbe  a  vedere  V-ì  clie  si  ripercuote  anche  dietro  l'atona  ohe  precede.  Finora  tutto  dimostra 
cìie  il  fenomeno  della  propagginazione  dcU'-i,  in  quanto  osso  ò  gallo-italico,  non  ci  si  manifesta  che  dietro  la 
tonica.  Del  resto  in  tutti  gli  os.  che  il  F.  adduce  trattasi  di  sdruccioli  in  -'uU,  -ili;  è  quindi  evidente  che  V-il  di 
apostoil  ecc.,  altro  non  ci  rappresenta  ohe  una  grafia  per  ÌJ  o  per  il  suo  succodanoo  }. 


-  353  — 

lì.  ZI.  Persiste  il  -r  venuta  a  trovarsi  finale  per  la  caduta  della  vocal  d'  uscita  successiva;  cosi 
nelle  uscite  verbali  -ér,  ecc.  -.jarer,  lenir,  córcr,  re(;er,  '  ecc.;  cfr.  inoltre  crior,  rezior,  vigor,  tcnor, 
dencr,  ecc. 

Cado  invece  qual  secondo  elemento  del  gruppo  finale  -jr  in  reziorjl  =  *  rcziójr  ;  cfr.  num.  12  e). 

W.  22  :  varder  G.  8 ,  St.  41  ;  (jucra  St.  18.  Ma  il  Cod.  scrivo  appunto  io  in  due  esemplari  di  baso 
non  germanica,  in  »^nnjfrc,  cfr.  la  nota  a  G.  2 ,  e  in  icas/er  ecc.  St.  60,  65,  ecc. 

Sibilanti.  23  :  5  ha  costante  nei  nostri  testi  il  valore  di  z  tanto  media  ohe  tenue,  e  u'  ò  prova 
il  continuo  alternare  dei  due  segni  :  recior  e  re(-ior ,  fac^a  e  faza,  qo  e  zo,  ecc.  Davanti  a  vooal  palatile 
serivonsi  però  più  volentieri  e  e  g  e  rimane  cosi  indicata  la  difi'erenza  tra  tenue  e  media  :  Gcorq,  gene- 
ral, ussance,  preclxament ,  indicion,  ecc. 

Per  s  tanto  tenue  che  media  servono  indifferentemente  i  segni  s,  ss  e  .1;  :  chaxa  0  chasaa ,  peramion 
e  percussion ,  pressenl ,  precixainent  &  prccisiament ,  pax  a  pas ,  d'ic.r ,  cfr.  num.  2('i. 

M.  24:  akhumSt.  62,  81. 

N.  25  :  trovasi  spesso  raddoppiata  nel  ms.  quando  succeda  alla  tonica  e  lo  sussegua  vocale  :  honne, 
ro)iianne,  ecc.;  cfr.  la  nota  a  1.  12  dello  St.,  e  trovasi  ridotto  a  semplice  -n  il  -mi  eh'  era  riuscito  fina- 
le :  an  pass.,  engan  G.  3.  —  MX :  dagn  St.  41,  69;  mynch  cfr.  less.  —  NJ:  gnunna  G.  9,  gniun  St.  6,  ro- 
magna  St.  83,  105;  inoltre,  con  jVJ" finale  :  rassoign  G.  3,  8,  akhoign  pass.,  magn  G.  7,  homegn  pass. 

Gutturali.  26  :  loo  St.  105,  lo  St.  82,  diex  St.  92,  cioè  *  dighesse  *dichesse  (su  dicam,  ecc.);  ma 
congrega  St.  4,  second  G.  5,  6.—  GR  :  sarament  pass.,  entera  St.  59-60,  83;  CTifait  -a  pass.,  extrait  St.  (Ì'J 
[su  questi  poi  dagt  St.  69],  constreit  St.  55,  e,  coli'  invertimento  di  -njt  in  -jnt,  saint,  aioynt  St.  30,  iniugnf, 
St.  71.  Non  è  poi  escluso  che  questa  risoluzione  .di  CT  s'  abbia  anche  in  dil  -a  (dijt,  ecc.),  vindiUa  -la, 
adril  St.  10.  Il  doppio  ti  che  occorro  accanto  a  t  nella  risposta  di  dieta  vindiela  non  proverebbe  certa- 
mente nulla  in  contrario.  Cixas,  prof  et ,  effet  v.  il  less. 

Dentali.  27  :  monea  G.  8,  esc«St.  85,  fpa  St.  20,  proceer  St.  95.  chun  -nna  ca[d]uno  -a,  cfr.  la 
nota  a  1.  12  dello  St.  ;  crior  St.  4  'cri[t]a[t]ore',  cria  St.  71,  crier  St.  74.  rezior  'reggitore',  treglor 
St.  94,  lìrag  St.  61, /crua  St.  15,  24,  ecc.,  parli  St.  7,  e  vedansi,  per  maggiori  esempj,  i  participi  ;  ma 
stat  St.  14,  statuì  G.  4,  5,  capitor  pass.  ;  mod  pass.,  consuctuden ,  tutte  parole  però,  meno  viod,  ohe  su- 
bito si  riconoscono  come  non  popolari.  —  TR  :  poran  St.  53. 

Labiali.  28  :  pouor,  tauolaga,  aues,  eoe— BR  :  ari  ea  St.  25,  area  St.  23,  allato  ad  auren  St.  88; 
qui  si  noti  anche  dc-sori  pass,  'de-supra'. 


ANNOTAZIONI  MORFOLOGICHE. 


Passaggio  dall'  una  all'  altra  conjug.  si  ha  in  mellr  St.  51  (cfr.  anche  eometlr-cn  St.  31,  allato  a 
cometer  St.  35). 

Singoli  tempi  e  modi  :  Indie,  pres.;  l''  pers.  sng.  :  e  in  50  e  pass.;  3'  pi.  :  conlcinen  St.  99.  [Per 
l' indie,  pres.  di  habere  v.  il  futuro].  Gong,  pres.;  3^^  sng.  :  sea  pass.,  habia  St.  105,  delia  pass.,  faqa  -z- 
St.  29,  89,  vogla  St.  13,  romagna  St.  83,  105,^o«soSt.  93,  94;  3*  pi.  :  scera  pass.,  hahien  St.  85,  rfeStenpass., 
fazen  St.  53,  vaglcn  St.  86.  —  Indie,  imprf.;  3^  pi.  :  ei-en  St.  6  [per  l' imprf.  indie,  di  habere  v.  il  condizion.]. 
Gong,  imprf.;  3'  sng.  :  fos  St.  31,  ecc.,  fus  St.  13,  vulneras  St.  17,  32,  trouas  St.  91,  aues  pass,  prandes 
St.  18,  diex,  cfr.  num.  26,  /eispass.,  deis  ^a,ss. ,  peruenis  St.  24,  enlreueniss  pass., /eris  pass.,  venis  St.  92; 
3'  pi.  :  fossen  pass., /«sse»  St.  66,  vindicassen  St.  33,  avessen  St.  35,  voressen  -l-  St.  49,  ol ,  feissen  St.  34, 
flriisen  St.  (12,  venisscn  St.  72. — Imperai.;  2^  sng.  :  lassa  St.  74.  -'^Infinito  :  vardcr,  parler,  nominer,  der 


'  Come  ancor  oggi  in  varietà  canavesaue;  cosi  a  Barbania  :  cantdf  héivcr  ecc. 

'  La  flessione  nominale  non  offre  nnlla  per  cui  se  ne  possa  giustificare  una  benché  breve  esposizione  siste- 
matica. I  fenomeni  che  la  importano  si  considerano  qua  e  là  nelle  annotazioni  fonologiche  e  nelle  lessicali. 

'  Potrebbe  però  anche  leggersi  lassa  forma  questa  che  potrebbe  corrispondere  ad  un  'lassà[t]e'.  Il  passo 
relativo  dello  St.  va  cosi  interpretato;  ;à  dove  i  reggitori  facessero  bandire:  lascia  (o  lasciate)  ogni  cosa  a  fare. 


—  354  — 


St.  43,  fer  St.  72  ,  74,  81 ,  esIcT  St.  25;  [ate/yr  St.  40,  i<ocyr  St.  101  ;  cfr.  num.  5  nota]  ;  manlenir  G.  2-3, 
tenir  St.  58,  compir  St.  43;  consentir  St.  49,  52;  comclcr  St.  35,  constrenzer  St.  46,  53,  corcr  St.  52,  reger 
G.  2,  proceer  St.  05,  attender  St.  84.  —  Gerundio  e  prtcp.  pros.  :  manchant  G.  5,  6,  declinand  St.  11,  roma- 
neynt  St.  99-100,  discrepant  Sb.  0-7^  slaxent  (corto  sul!'  analogia  di  *faxent  *  dixent)  St.  103.  —  Prtcp. 
pass.  :  uxa  St.  4 ,  ordona  St.  5 ,  ecc.  ;  wasla  =  vastati  St.  60 ,  loaslay  St.  62 ,  65;  fiaa  =  data  (cfr.  spa  spa- 
da) St.  43;  aprouaij^  xnFROKKTKTi  G.5; — metu  St.  95;  enter/nu  (-u=-uti)  pass., /era?/  St.  33;  [ferua 
St.  15,  24];  —  statuì  St.  4,  consenti/  St.  61;  —/«ti  -«  pass.,  exlrayt  St.  69,  [rfnyi  St.  69],  aio»/n<  St.  30, 
iniuynt  St.  71,  consireil  St.  55;  tZ/i  -te  -J/o  pass.,  script  St.  91 ,  infrascrlpl  pass.,  (certo  una  grafia  latineg- 
giante  per  scrit,  ecc.). 

Tempi  e  modi  composti.  Futuro;  3^  sng.  :  sera  G.  2,piaxira  St.  70,  vora  St.  90;  2'-  pi.  :  jureray,  la- 
seray,feray,  ecc.,  tutte  nel  G.';  3'  pi.  :  perueran  G.  7,  aucran  St.  i:>i, poran  St.  53.  —  Condizionale  (che 
funge  anche  da  imprf.  del  cong.)  :  3'  sng.  :  serea  pass.,  area  arrea  auerea  St.  23,  25,  G8,ferca  pass.,  2'or- 
terea  St.  21, 2)yaxirea  St.  79;  3'  pi.  (-én  =  éen)  :  seren  St.  33,  37,  ourot  St.  88,  liaueren^i.  22, /cren  St.  41, 
74,  deren  St.  64,  vorcn  St.  52,  68,  cometiren  St.  31. 


'  Il  Fòx'ster,  o.  e.  pa^.  75,  sedotto  forse  dalla  traduzione  latina  fiic  Jnraho ,  interpreta  per  eoo  V  o  dì  1.  2  nel 
G.  e  mostra  con  ciò  di  ravvisare  nolP-wy  dijnreraij  ecc.  una  desinenza  di  1'  sng.;  tiittavia  non  ne  deve  esser  ben 
sicuro  egli  stesso  iioichè  i  jiircran  ecc.  non  vengon  accolti  a  pafj.  79-80  dov'è  l'elenco  delle  forme  verbali  dei 
testi  di  Chieri.  Tutto  indica  infatti  come  invece  di  io  giiirei-ò  '  devasi  tradurre  '  voi  giurerete'.  Che  si  tratti  in  ogni 
caso  d'un  pi.  lo  prova  il  Uos  domini  rectores  con  cui  comincia  il  G.;  per  convincersi  poi  che  s'abbia  ruia  2"  pers. 
basta  aver  presente  il  vostre  magn  di  1.  7  dove,  se  l'interpretazione  del  F.  fosse  giusta,  dovrebbe  aversi  mee 
magn.  —  Più  che  una  formola  di  giuramento  vuol  essere  il  nostro  testo  un'indicazione  dei  punti  che  i  '  reotores  ' 
dovevano  giurare. —  Circa  all'o  v.  il  less.  e  circa  all'-ni/  io  non  dubito  d'afifermare  che  esso  proviene  da  -('(; 
Cfr.  num.  S. 


ANNOTAZIONI   LESSICALI. 


ago  azo  pass.,  afSnchè. 
adonch  St.  6,  dunque. 
adrit;  a  adrìt  St.  10,  rettamente.  Invece  della 

prostesi  di  a-  potrebbe  aversi  un  errore  del 

copista. 
a'wynt  St.  80,  aggiunto. 
an  St.  1,  60,  65,  80,  anno. 
apeler  St.  94,  chiamare. 
apre.s  St.  7,  dopo. 
archoign  St.  27,  alcuni. 

bragarjl  St.  21 ,  bracciali. 

cha.'isa  chaxa  St.  4,  60,  casa. 

ceynsG.  7.  censo;  è  detto  di  beni  immobili  in 

opposizione  a  dener. 
cher  pass.,  Chieri. 
clioiv  St.  60,  le  messi;  abbiamo  qui  al  plur.  (il 

sng.  sarebbe  c/ioi')il  positivo  da  cui  6  estratto 

l' it.  'covone'.  Il  pieni,  mod.  ha  cova, 
chini  chuna  chunna,  ogni,  cadauno  -a;  cl'r.  la 

nota  a  1.  12  dello  St. 
coaiutor  St.  41,  42,  coadiutore. 
consegl  pass.,  consiglio. 
crier  St.  74,  bandire. 
crior  St.  4,  banditore,  araldo. 
cy  St.  61,  qui;  il  piem.  mod.  ha  gi. 


dagn  St.  41 ,  69,  danno. 

dee  St.  12,  Dio. 

de  fin  a  tanf.  qne  St.  23,  fintanto  che. 

dener  G.  6,  danaro. 

desori  pass.,  di  sopra. 

dol  G.  3,  dolo. 

don  G.  9,  dono. 

e.naint  St.  16,  innanzi,  prima. 

encompagner  St.  26,  accomijagnare. 

ender  St.  25,  andare. 

engan  G.  3,  inganno. 

enter  St.  27,  fra. 

enferà  St.  83,  intiera. 

entreiienis  pass.,  accadesse;  entreiienls  de 
houre  procedesse  per  vie  di  fatto. 

e.icu  St.  85,  scudo. 

enter  St.  25,  stare. 

eytori  pass.,  ajuto.  Circa  alla  diffusione  di  que- 
sta voce  cfr.  ora  Flkcuia,  Arrh.  (',)..  \'\\\. 
pag.  821,  s.  'aitorio". 

falcha.ìtr  St.  20; cfr.  Diez  W  167,  s.  '  giusarma ". 
fay  G.  3,  St.  il,  fede. 
ferua  St.  15,  23,  ferita. 
frem  St.  96,  fermo. 


—  355  — 


f/Hiiin  St.  iì.ynìinna  G.  9 ,  uiimo  -a  ;  il  piem.  iiioJ. 
Ila  (/nlin. 

incorota  St.  54,  (^). 

hise  pass.,  cosi;  cfr.  lomb.  iirsn. 

iniuynt  St.  71,  ingiunto. 

juxerma  St.  20,  giusarma;  cl'r.  Dn;/.  W'  l<i7. 

lay  G.  6,  leggi. 

/(•  St.  6,  li. 

toSt.  82,  loo  St.  105,  luogo. 

ìtiygn  St.  80,  ìoign  St.  2,  luglio;  cl'r.  uum.  15. 

maea  St.  20,  mazza. 

mnyneru  St.  55,  maniera. 

wci/i  St.  99,  meno. 

meis  St.  2,  46,  80,  mese. 

ineysma  St.  41,  medesima. 

riionea  G.  8,  moneta,  danaro. 

iiiynch  St.  GO,  64,  80  (sempre  in  unione  con  ari), 
ogni;  sta  per  omynch  e  si  ragguaglia  al- 
l'owÌMca  della  Pass,  di  Como;  il  mod.  piem. 
l' ha  in  mincatant  =  ogni  tanto  ;  cfr.  del  re- 
sto, Arch.  Gì.  VII,  537. 

neynt  St.  99,  niente:  ■ne-oynt\ 
noni.  St.  1 ,  nome. 
iiomer  St.  83,  numero. 

0  St.  35,  il;  sta  molto  probabilmente  per  o[l\. 

o  St.  43,  pron.  neutro  ;  o  sea  daa ,  come  clii  di- 
cosse 'e' sia  data". 

V  (ì.  2,  voi;  è  in  posizione  proclitica;  cfr.  o  oi 
nelle  lìinie  Gen.,  Ardi.  Vili,  374. 

otì\i  pass.,  oltre,  inoltre. 

pareixa-  St.  20,  63,  palese-. 

pax  e  pas  pass.,  pace. 

peina  pass.,  pena. 

percurer  St.  28,  procurare. 

percussioH  St.  32,  percusion  St.  29,  percossa. 

poeyr  St.  104,  podere;  qui  piuttosto  nel  senso 
di  giurisdizione. 

pouor  G.  I,  popolo. 

2>ray  St.  61,  prati. 

proceer  St.  95,  procedere. 

profet  St.  76,  profitto;  cl'r.  profeltavo!  nelle 
Gallo-it.  Pi:, 16,  31.  Se,  com'io  inclino  a 
credere,  si  tratta  qui  d' un  '  proficto-'  (in 
una  tal  forma  possono  accordarsi  tutte  le 
lingue  neo-latine  coi  loro  pt-ofit,  profitto, 
jn-ovecho,  proveito).  Vi  è  andato,  piuttosto 
che  nelle  ragioni  della  quantità,  in  quello 
della  posizione  come  avviene  pur  nello  sp. 


e  nel  prtg.  Circa  alla  risoluzione  di  et,  cfr. 
effet   pass,    non    che  il  tolet  delle  Gallo-it. 
Pr.,  68,  e  i  let  pet  del  piemontese  moderno. 
py  St.  100,  più;  il  piem.  mod.  ha  purjji. 

qiiint  St.  34,  -a  St.  13,  qualunque.  Circa  a 
questo  pron.  v.  soprattutto  Arch.  Gì.,  Ili, 
91-2  n.  Nel  nostro  testo  esso  è  una  volta 
esplicato,  abbenchè  non  immediatamente, 
da  que.  .tea  cosicché  verrebbe  a  raggua- 
gliarsi a  ' qualsiasi \  Ma  quinta  St.  13,  sta 
solo  affatto.  Nei  nostri  tosti  il  pron.  non  è 
in  posizione  esclamativa  come  negli  es.  che 
s' hanno  nel  1.  e.  dell'  Airli.  ai  quali  si  pos- 
sono ora  aggiungere  anche  quelli  che  si  ri- 
cavano dalla  Pass,  di  Como. 

ras.wign  G.  3,  7,  ragioni. 

relelSt.  94,  ribelle. 

recer  G.  2,  reggere. 

reziogl  St.  79,  ecc.,  reggitori;  cfr.  num.  X2  e. 

.laha  St.  2,  sabato;  la  ste.ssa  forma  nel  piem. 

mod. 
sarainent  pass.,  giuramento. 
sempr  St.   82,   e,   con   la    vocale   irrazionale, 

semper  St.  88,  sempre. 
seyn  St.  71,  segno. 
sot  pass.,  sotto. 
.spa  St.  20,  spada. 
SMro.9er  St.  81,  surrogare. 
spressament  St.  30,  espressamente. 

tant  G.  6,  soltanto. 

tauolaca  St.  21. 

tenor  St.  19,  39;  senga  tenor  senz'indugio; 
circa  alla  diffusione  di  questa  locuzione, 
cfr.  BiADENE,  St.  di  fil.  Tom.,  fase.  2,  263. 

treytor  St.  94,  traditore. 

varder  G.  8,  St.  41,  salvaguardare,  custodire; 
cfr.  fr.  yarder. 

vigor  St.  47,  51;  per  la  vigor  in  forza. 

vili-  e  vendita  -tta  pass.,  vendetta. 

vnde  St.  73,  74,  dove. 

vo  St.  15,  67,  78,  o  (aut).  Occorre  anche  la  for- 
ma senza  il  v-  prostetico. 

vota  pass.,  volta,  flata. 

vssaiice  G.  5,  usanze. 

vulnerer  St.  15,  vulnerare. 

ìoaiigere  G.  2,   evangelo;  cfr.    la  nota   a  1.  2 

del  G. 
waster  St.  59,  65,  devastare. 


C.   Salvioot. 


LA   FOEMA   METMCA  DEL   'COMMIATO^ 


NELLA   CANZONE   ITALIANA   DEI   SECOLI   XIII    E   XIV 


In  fine  di  quasi  tutte  le  canzoni  provenzali  si  trova  la  così  detta  tornada,  che 
per  lo  più  è  ritmicamente  uguale  alla  seconda  parte  della  strofa.  '  In  essa,  come 
tutti  sanno ,  il  poeta  non  prosegue  1'  argomento  della  canzone ,  ma  rivolge  il  di- 
scorso o  alla  sua  donna,  o  a  un  protettore,  o  a  un  amico,  o  al  giullare,  o  infine 
apostrofa  la  canzone  stessa.  Non  di  rado  si  trova  più  di  una  tornada,  e  in  tal  caso 
quella  che  segue  suol  essere  più  breve  di  quella  che  precede. 

La  tornada  trovasi  anche  nell'  antica  Canzone  italiana,  e  fu  imitata  di  certo 
dalla  poesia  provenzale. 

Dante  la  chiama  collo  stesso  nome  dei  trovatori,"  ma  il  termine  popolare  era  ri- 
tornello  e  anche  volta.  'Più  tardi  fu  detta  variamente  chiusa,  ripresa,  licenza,  invio, 
congedo,  commiato.  ''  Quest'  ultimo  nome  sembra  ora  divenuto  più  comune  degli  altri. 


'  Vedi  DiEZ,  Di'e  Poesie  der  Troubadours ,  zwsite  Anflage,  Leipzig,  Bai-th,  1S8J,  p.  79-80  e  Bartsch,  Grundriss 
zur  Oescliiclite  der  Prooenzalischen  Literatur,  ElberfelJ,  Fi-iderichs,  1872,  pag.  71.  Le  Leys  d'amors  a  proposito  della 
forma  della  tornada  cosi  si  esprimono  (T,  3SS):  «  Cnsctina  tornada  detc  esser  del  compas  de  la  meytat  de  la  cobìa 
derriera  vas  la  fi.  »  Non  ci  è  parso  inopportuno  citare  questq  autorità,  sebbene  la  tornada  sia  stata  fatta  oggetto 
di  una  speciale  monografia.  11  sig.  A.  Kalisciiek  noli'  opuscolo  intitolato  Observationes  in  poesìm  romaneiisem 
Provincialibus  in  primis  respectis  (Berlino,  Daemraler,  1S36),  esamina  la  tornada  provenzale  si  dal  lato  dell'argo- 
mento (p.  3-80)  e  si  da  quello  della  forma  (p  60-7Ò).  e  ne  studia  quindi  brevemente  l' imitazione  nella  poesia  fran- 
cese (p.  7J-Si)  e  italiana  (p.  84-102).  In  iine  (p.  102-14)  tocca  della  questiono  se  la  tornada  sia  stata  inventata  dai 
Provenzali  o  no,  e  nota  elle  era  già  in  uso  presso  gli  Arabi.  Sa  qiiesto  lavoro  del  Kaliscber  avremo  occasione 
'li  ritornare  più  avanti. 

'  Soltanto  dà  alla  parola  la  forma  toscana.  Vedi  Convito,  tratt.  II,  cap.  SII:  «  E  acciocclie  questa  parte  più 
pienamente  sia  intesa  dico  che  general menle  si  cliiama  in  ciascuna  cantone  Tornata  »,  e  vedi  anche  la  fine  del 
cap.  XV  del  tratt.  III. 

'  A.  Da  Tempo  nel  suo  trattato  Delle  llime  volgari  (pubbl.  da  G.  Grion,  Bologna,  Komagnoli ,  1869)  scrive 
(p.  129):  <  Hae  autem  cantiones  ut phiriniam  finnt  cum  quadam  parte  inferiori,  quae  est  minor  aliis  partibus,  et  appel- 
latur  vulgariter  retorneUus.  Alii  appellant  ipsani  voltam.  »  Gli  stessi  nomi  conserva  Gidino  da  Sommacampagna 
(,Dei  Ritmi  volgari,  Bologna,  Romagnoli,  1870,  p.  107;.  F.  da  Barberino  fa  uso  soltanto  del  termine  ritornello: 
'  Ritornelli  autem  et  multa  alia  qne  suìit  partes  a  partibus  vel  non  digne  relntu ,  in  hoc  opere  non  subduntttr  »  (cfr. 
la  prima  delle  due  glosse  ai  Documenti  d' Amore  pubbl.  da  O.  Antognoni  nel  Giorn.  di  fil.  rom.  voi.  IV  a  pag.  96). 
*  Vedi  Kauscher,  op.  cit.  pag.  63-61.  Del  nome  tornada  ci  sembra  opportuno  discorrere  in  una  speciale  ap- 
pendice. 


~  358  — 

e  lo  conserveremo  anche  in  questo  studio,  nel  quale  si  vogliono  minutamente  de- 
scrivere le  varie  forme  che  ebbe  il  Commiato  della  Canzone  italiana  nei  due  primi 
secoli.  '  A  tal  fine  esamineremo  tutte  le  canzoni  del  secolo  XIII  e  gran  pai'te  di 
quelle  del  XIV.  Spoglieremo  cioè  le  raccolte  qui  appresso  indicate,  avvertendo  che 
le  edizioni  di  singoli  poeti  saranno  citate  col  solo  nome  di  questi  e  le  altre  coli'  ab- 
breviatura posta  fra  parentesi  dopo  il  titolo.  Ecco  l' indice  delle  raccolte  : 

Le  antiche  rime  volgari  secondo  la  lezione  del  cod.  rat.  3793  per  cura  di  A.  D'  Ancona  e  D. 
Comparetti,  Bologna,  Romagnoli,  1875-81,  tre  volumi  (D'Anc);  Poeti  del  primo  secolo  della 
lingua  italiana  pubbl.  da  Valeriani  e  Lampredi,  Firenze,  181G,  due  voi.  (Val.');  Rime  di  Fra  Guit- 
tone  d' Arezzo ,  Firenze,  1828;  Le  rime  dei  poeti  bolognesi  del  sec.  X//J  pubbl.  da  T.  Casini, 
Bologna,  Romagnoli,  1881  (Casini);  Guido  Cavalcanti  e  le  sue  rime  a  cura  di  P.  Ei'cole,  Li- 
vorno, Vigo,  1885;  Documenti  d'  Amore  di  M.  F.  da  Barberino,  Roma,  Mascardi,  1610  (in  fine 
si  trovano  tre  canzoni  intere,  con  una  delle  quali,  come  si  sa,  si  chiudono  i  Documenti);  Il  Canzo- 
niere di  Dante  Alighieri  annotato  e  illustrato  da  P.  Fraticelli,  terza  ediz.,  Firenze,  Barbèra,  1873; 
Le  rime  di  M.  Cina  da  Pistoia  ridotte  a  miglior  lezione  da  E.  Bindi  e  P.  Fanfani,  Pistoia,  Niccolai, 
1878;  Rime  di  Binda  Bonichi  da  Siena,  Bologna,  Romagnoli,  1867;  Rime  di  Matteo  Frescobaldi 
a  cura  di  G.  Carducci,  Pistoia,  1866;  Liriche  edite  e  inedite  di  Fazio  degli  Uberti  per  cura  di  R. 
Renier,  Firenze,  Sansoni,  1883;  Rime  di  F.  Petrarca,  Milano,  Souzogno,  1875;  Rime  di  M.  G.  Boc- 
cacci, Livorno,  Masi,  1802;  Rime  di  M.  Cina  da  Pistoia  e  d'altri  del  sec.  X/F ordinate  da  G.  Car- 
ducci, Firenze,  Barbèra,  1862  (Card.).  Da  questa  raccolta  citeremo  le  canzoni  di  trecentisti  non 
contenute  nelle  pubblicazioni  avanti  indicate,  tranne  quelle  del  Sacchetti,  per  le  quali,  grazie  alla 
gentilezza  del  dott.  S.  Morpurgo ,  ci  è  dato  di  citare  le  pagine  dell'  edizione  dell'  intero  Canzo- 
niere, che  uscirà  prossimamente  a  sua  cura.  Si  aggiunga:  Poesie  minori  del  sec.  XIV  a.  cura  di  E. 
Sarteschi,  Bologna,  Romagnoli,  1867  (Sarteschi);  Poesie  italiane  inedite  raccolte  e  illustrate  da  F. 
Trucchi,  Prato,  Guasti,  1846,  voi.  II»  (Trucchi);  Rime  antiche  aggiunte  a  La  Bella  mano  di  Giusto 
de'  Conti ,  Firenze,  1715  (Bellamano)  ;  Saggio  di  rime  inedite  di  maestro  Antonio  Beccari  da  Ferrara , 
a  cura  di  G.  Bottoni,  Ferrara,  Taddei,  1878;  Sonetti  et  Canzone  del  Clarissimo  M.  Antonio  delti 
Alberti,  Firenze,  Molini,  1863  (nelle  Delizie  delli  eruditi  bibliofili  toscani);  Rime  dì  M.  Cino  Ri- 
nuccini  (pubbl.  da  S.  Bongi),  Lucca,  Canovetti,  1858. 

Ci  accadrà  di  citare  anche  alcime  poche  canzoni  disperse  in  libri  dei  quali  indicheremo  a 
suo  luogo  il  titolo. 

Saranno  in  fine  esaminatele  canzoni  inedite  del  Codice  Laurenziano-Rediano  151,  184. 

Di  Ogni  singola  forma  di  commiato  procureremo  di  recare  tutti  gli  esempì,  e 
faremo  in  nota  quei  confronti  che  son  possibili  colla  poesia  provenzale.  ' 


'  L'esame  dei  commiati  di  tutte  le  canzoni  di  Dante  o  a  Dante  attribuite  tu  tatto  dal  Boiciimkr  (l'eber 
Dante:»  Sclirifl  De  vulg.  eloq-,  ecc.  Hallo,  1333,  pag.  4'>-16,  e  vedi  anche  lo  rettificazioni  che  specialmente  aU' ul- 
tima parte  dell'opuscolo  fece  lo  stosso  autore  nei  Romaulsche  Studien  IV,  117-18)  e  dal  Bautsch  {DanW.i  roetik, 
pag.  362  e  seg.).  Assai  poco  dice  il  Kawscueiì  sulla  torma  esterna  del  commiato  della  canzone  italiana  (cfr. 
pag.  84  e  seg.). 

'  Nonsitien  conto  delle  tre  canzoni  attribuito  a  Danto  da  Maiano  (TI.  44.Ì-51),  parendo  gravissimi  i  dubbi 
cb e  sull'autenticità  delle  costui  rime  italiane  avanzò  il  Bokooononi  (vedi  specialmente  l'ultimo  suo  scritto  La 
questione  Maianesca  o  Dante  da  Maiano,  Città  di  Castello,  Lapi,  1885).  Parimenti  escludo  dall'esame  la  canzone  attri- 
buita a  Bonagiunta  Orbiciani  (T,  509)  «  Ben  mi  crcde.ua  in  tutto  esser  d'Amore  ».  la  quale,  a  quel  che  io  so.  non  tro- 
vasi in  alcitu  ms. 

'  Rimanderemo  d'ordinario  lai  lavoro  dol  Kalisciieh. 


—  359  — 

Giova  esaminare  separatamente  le  canzoni  a  stanze  indivisibili  e  le  canzoni 
a  stanze  divise. 

Cominciamo  dalle  primo.  Le  sestine  dei  dne  primi  secoli  sono,  a  mia  notizia,  18:' 
nna  di  Dante  (pag.  158)  «  Al  jmco  rjionio  ed  al  </ran  cevclùo  d'  ombra  »,  due  attribuite 
illegittimamente  a  Dante  (Fraticelli,  pag.  IGl  e  1G2),  nove  del  Petrarca  (vedi  l'in- 
dice del  Canzoniere),  una  delle  quali  doppia  (cioè  di  12  stanze),  due  del  Sacchetti 
(pag.  28  e  49),  una  di  Antonio  delli  Alberti  (pag.  63),  una  di  Cino  Rinucciui  (pag.  19). 
Due  sono  inedite  e  appartengono:  una  a  Giovanni  da  Prato  «  Per  volermi  ritrar  ra- 
ijioii  di  fiamma  »  (Cod.  Lanr.-E.ed.  151,  e.  93'')  e  una  ad  Alberto  degli  Albizi  «  Amor 
da  poi  che  'l  core  la  Leila  donna  »  (Ibid.,  e.  96  ). 

In  tutte  il  commiato  è  uguale  a  metà  della  stanza,  si  compone  cioè  di  tre 
versi  endecasillabi.  Tre  qualunque  delle  sei  parole-rime  chiudono  i  tre  versi,  e  neK 
l'interno  di  ciascuno  di  essi,  in  sedi  non  determinate,  sta  una  qualunque  delle  al- 
tre tre,'  così  che  ogni  verso  contiene  due  parole-rime.  ' 

Inchiniamo  a  considerare  come  indivisibili  le  stanze  della  canzone  di  Dante 
«  Amor  tu  vedi  ben  che  questa  donna  ».'  Ogni  stanza  consta  di  12  endecasillabi  e  ha 


'  Di  una  sestina  del  Boccaccio  il  Trissino  nella  Poetica  riferisce  soltanto  la  prima  stanza ,  nella  quale  ri- 
mano fra  loro  i  due  ultimi  versi;  ma  essa  non  è  stata  trovata  dal  Baldelli  in  alcun  ms. —  Sarà  opportuno  ri- 
cordare chele  sestine  provenzali  sono  quattro  soltanto,  e  cioè  una  di  Arnaldo  Daniello,  che,  come  è  noto,  ne 
fu  l'inventore  (vedila  in  U.  A.  Canello,  La  vita  e  la  opere  del  ti'ouatore  A.  D.,  Halle,  Niemeyer.  1883,  pag.  118-19), 
una  di  B.  Zorzi  (ved.  E.  Levt,  Der  Trovbadour  Ecrtolome  Zorzi,  Halle,  Niemeyer,  1883,  pag.  68-69),  una  di  Guillem 
de  Saint  Gregori  (Mahn,  Gcdichte  940),  che  è  incompiuta,  terminando  colla  quinta  strofa.  Sono  tutte  tre  colle 
stesse  parole-rime.  Un'  altra  finalmente  in  versi  ottosillahi  e  alquanto  anormale  appartiene  a  Pons  Fabro  d'Uzes, 
ed  è  ancora  inedita  in  C  SS"^''  (ved.  Casello,  op.  cit.,  pag.  278-79  e  F.  W.  Maus,  Pcire  C'arderiaìs  Str02>heubait  ecc., 
Marburg,  Elwert,  1884,  pag.  93,  nota  16). 

'  Isella  tornada  della  sestina  del  Daniello  l'ordine  delle  rime  è  più  regolare  ed  artistico.  I  tre  versi  fini- 
scono colle  tre  ultime  parole-rime  dell'ultima  strofa,  disposte  nel  medesimo  ordine  che  in  questa  (come  avviene 
d' ordinario  nelle  toi-nade),  e  immediatamente  precede  a  ciascuna  di  esse  una  delle  altre  tre  parole-rime  disposte 
esse  pure  nell'ordine  in  cui  si  trovano  nell'ultima  strofa,  cosi  che  le  parole-rime  di  questa  1,  2,  3,  4,  5,  6  sono 
cosi  .aggruppate  nel  commiato:  1-4,  2-5,  3-6.  Se  ben  si  guarda,  questa  è  la  migliore  disposizione  ohe  .si  possa 
dare  nel  commiato  alle  parole-rime  della  sestina.  Nelle  sestine  it.ili.ine ,  come  è  detto  di  sopra,  in  generale 
le  parole-rime  si  succedono  a  capriccio  nel  commiato;  soltanto  in  quelle  del  Petrarca  che  hanno  i  nu- 
meri V,  VI,  VII,  Vili,  IX  (doppia)  l'ordine  è  sempre  lo  stesso.  Le  parole-rime,  cominciando  a  contare  dalla 
prima  che  trovasi  nell'interno  del  verso,  stanno  rispetto  all'ultimii  stanza  nella  stessa  relazione  che  ciascuna 
stanza  colla  precedente.  Parrebbe  cho  questo  fosse  un  perfezionamento  della  sestina  provenzale,  giacché  l.i 
legge  di  successione  delle  rime  della  sestina  continua  fino  alla  fine  dui  componimento,  ma  si  ha  l'inconveniente 
che  alla  chiusa  dei  ver.si  del  commiato  vengono  cosi  a  trovarsi  le  tre  prixne  parole-rime  dell'ultima  stanza 
anziché  le  tre  ultime. 

^  Si  nota  per  altro  qualche  eccezione.  Nelle  sestine  di  Cino  Rinuccini  e  di  Alberto  degli  Albizi  trovasi 
nel  primo  verso  del  commiato  una  sol.a  parola-rima  e  tre  invece  nel  secondo. 

*  Il  Boehmer  la  considera  come  divisibile  e  pi'opriamente  come  composta  ài  fronte  e  vulfe  (op.  cit., 
pag.  43),  il  Bartsch  invece  la  tiene  per  indivisibile  {Dante^s  Poetile  pag.  315)  e  più  giustamente,  secondo  noi, 
ma  non  possiamo  assentire  alla  sua  oiunione  che  la  forma  di  questa  canzone  sia  imitata  dai  Provenzali  e  pro- 
priamente da  una  ronr/a  di  Giraldo  Riquier.  Quest' affermazione  é  contraddetta  dallo  Stesso  Dante,  il  quale 
nel  commiato  dichiara  di  aver  composto  una  novità  (Sicoh' io  ardisco  a  far  per  questo  freddo  La  novità 
che  per  sua  forma  luce  Che  mai  non  fu  pemsata  in  alcun  tempo),  e  nel  Ve  viilg.  eloq.  lib.  II,  cap.  XIII,  cita  la 
stessa  canzone  come  avente  «  novum  aliquìd  atipie  intentaticm  artis,  *  Con  ciò  non  si  vuol  negare  che  nel  fatto  la 
canzone  di  Dante  assomigli  per  la  foima  a  qualche  canzone  provenzale;  ma  quella  che  i^iù  le  si  accosta  non  è  la 
ronda  di  G.  Biquier,  sì  bene  una  poesia  di  Peire  Vidal  (Gr.  n»  29),  come  già  notò  C.  Appcl  {op.  cit.,  pag.  19). 


—  360  — 

cinque  sole  parole-rime,  le  quali  si  conservano,  come  nelle  sestine,  anche  nelle  altre 
stanze  e  sono  disposte  secondo  lo  schema: 

ABAACAADDAEE 

EAEEBEECCEDD 
DEDDADDBBDCO 
CDCCECC  AACBB 
BC  BBDBBEEBAA 

Lo  schema  del  commiato  è  :  AEDDCB.  Dunque  il  commiato  è  uguale  a  metà 
della  stanza,  come  nella  sestina,  e  quanto  alle  rime,  la  prima  parola-rima  è  quella 
del  primo  verso  della  prima  stanza,  la  seconda  quella  del  primo  verso  della  secon- 
da, e  così  di  seguito.  La  terza  parola-rima  è  ripetuta  perchè  il  commiato  sia  uguale 
'a  metà  della  stanza. 

La  canzone  di  Dante,  che  abbiamo  ora  esaminato,  fu  imitata  dal  Sacchetti 
(pag.  35)  e  da  Gino  Einuccini  (pag.  11  e  22). 

A  una  terza  maniera  di  canzoni  indivisibili  appartiene  quella  del  Petrarca 
«  Verdi  panni,  san(/id(jni,  oscuri,  e  parsi  » ,  che  si  compone  di  otto  stanze  tutte  colle 
stesse  rime  disposte  in  quest'  ordine  : 

AbC  x-DE  y-Pg 

Il  commiato  corrisponde  ai  due  ultimi  versi. 

Imitazione  di  questa  del  Petrarca  sarà  una  canzone  inedita  di  M.  Alberto  degli 
Albizi  «  Quanto  lo  maginar  piw  s' asottiglia  »  (Ood.  Laur.-Red.  151 ,  e.  96'^) ,  che  è  con- 
dotta sullo  stesso  schema.  ' 

Passando  alle  canzoni  a  stanze  divise,  esamineremo  prima  quelle  con  un  solo 
commiato  e  poi  quelle  con  più  di  uno.  • 

1.  L'ultima  stanza  funge  da  commiato.  ' 

Notaro  Giacomo  D'  Anc.  I",  ii;  Rugieri  d'  Amici  D'  Anc.  I",  xix;  '  Odo  deUe  Co- 
lonne D'Anc.  r%  XXVI  ;  Giacomino  Pugliese  D'Ano.  I",  Lvm;  Guido  delle  Colonne 
D'Ano.  I",  Lxx  vii;  Chiaro  Davanzati  D'Ano.  IIP,  cciv,  ccix,  ccx,  ccxvu,  ccxviii, 
ccxix,  cxxm,  ccxxxv,  ccxxxvi,  ccxliv,  ccliv,  cclvi  (12  canzoni);  Camino  Ghiberti 
D'Ano.  11°,  clxxu,  clxxiv;  Brunetto  Latini  D'Ano.  II»,  clxxxi  (tutte  le  stanze  sulle 
stesse  rime);  Bondie  Dietaiuti  D'Ano.  Il",  clxxxii,  clxxxiii  ;  incerto  autore  Ca- 
sini XXVII,  D'Ano.  I",    xlix,'*   lxxiii;'    anonime  D'Ano.   I",  xcv,  II",   cxxxi. 


'  Non  ha  per  altro  le  rime  interne  e  consta  di  5  sole  strofe. 

'  Questo  caso,  so  forse  non  si  può  dire  col  Diez  (Poesie,  pag.  80)  molto  raro  nella  poesia  provenzale,  è 
certo  poco  frequente.  II  Kalisclior,  che  l'ur  '  vorrebbe  mostrare  inesatta  l'affermazione  del  Diez,  ne  trovò  .sol- 
tanto 19  esempì  fra  le  canzoni  da  lui  esaminate   che  hanno  una  sola  toniada  (ved.  pag.  64). 

'  Nel  Palatino  41S  (n"  45)  è  attribuita  a  Bonagiunta  Orbiciani,  ma  che  essa  appartenga  ad  autore  meridio- 
nale e  quindi  probabilmente  a  Rusieii  d'Amici,  a  cui  l'assegna  il  Vaticano,  sembra  doversi  ricavare  dal  com- 
miato, nel  quale  il  poeta  invia  la  canzone  a  lo  Regno. 

'  Nel  Vat.  6  data  a  Kugierone  di  l'alermo  e  nel  Lanr-Ked.  IX.  63  (n"  cxvni)  a  Re  Federigo. 

'  Nel  Vat.  è  anonima  e  noi  Palat.  (n»  21)  è  attribuita  a  Piero  dello  Vigne,  ma  pare  che  di  costui  non 
possa  essere,  giacché  nel  commiato  (che  manca  neU'ediz.  del  Val.  I,  51)  il  poeta  si  dichiara  di  Messina  (Can- 
zonetta piagente....  E  dille  :  a  voi  mi  manda  Un  vostro  fiuo  amante  di  Messina). 


—  361  — 

IH",  ccLxvi,  ccxcviri,  ccxcix;  Cavalcanti  II;Ser  Onesto  Casini  XXXV;  Lapo  Gianni 
Val.  II,  122;  '  Dante,  pag.  90  e  182  o  quelle  attribuite  a  Dante,  pag.  115  e  20'J; 
Cine,  pag.  75,  85,  135,  186,  398;  Fazio  degli  liberti,  la  Ut'  delle  canzoni  di  dub- 
bia autenticità  ;  Antonio  Pucci  Card.,  pag.  465  ;  Boccaccio ,  pag.  61  ;  Antonio  da 
Ferrara  Bellamam,  pag.  158;  Matteo  Coreggiaio  Saeteschi,  pag.  9;  Riccardo  degli 
Albizi  Card.,  pag.  347;  Guido  del  Palagio  Card.,  pag.  597;  F.  Sacchetti,  pag.  176; 
F.  Vannozzo,  Grion,  appendice  al  Da  Tempo,  pag.  295.  In  tutto  51. 

2.  Il  commiato  è  ritmicamente  uguale  alla  seconda  parte  della  stanza  o  a 
parte  di  questa  seconda  parte.  ' 

a)  La  struttura  del  commiato  corrisponde  a  quella  della  sirima  intera.  Quando 
si  conservano  per  tutte  le  stanze  le  medesime  rime  della  prima  ancbe  le  rime  del 
commiato  sono  uguali  a  quelle  della  sirima.  Cosi:  Stefano  Protonotaro  Barbieri, 
Orujiìie  dulia  poesia  rimata,  pag.  143;  Guittone  XX  e  XXVI;  Monte  Andrea  D'Anc. 
HI",  cccin;  Bonagiunta  Orbiciani  Val.  I,  507;  Petrarca,  P.  I',  canz.  xv. 

Notevole  che  si  conservino  nel  commiato  le  rime  della  sirima  dell'ultima 
stanza  in  tre  canzoni,  nelle  quali  le  rime  cambiano  in  ogni  stanza:'  lughilfredi 
D'Ano.  I°,  xcix,  Val.  I,  144;  Don  Arrigo  D'Ano.  IP,  clxvi. 

Ma  d' ordinario  le  rime  del  commiato  sono  diverse  da  quelle  dell'  ultima  stanza. 

Guittone,  I,  III,  V,  X,  XVII,*  XXI,  XXII,  XXIV,  XXVIH,  XXXI,  XXXII, 
XXXIII,  XXXIV,  XXXVII,  XXXVIII,  XLI,  XLV,  XLVI(18  canzoni);  GuinizelH 
Casini  VI;  Lemmo  Orlandi  Val.  II,  211  e  213;  Chiaro  Davanzati  D'Ano.  IH", 
ccxLU,  COL,  ccLX;  Bacciarone  Val.  I,  401;  Panuccio  dal  Bagno  Val.  I,  368;  Terino 
da  Castelfiorentino  D'Ano.  II",  clxxxix;  anonime  D'Ano.  I",  lii,  IH",  ccxc; 
Francesco  Ismera  Val.  II,  428;  Dante,  pag.  90,  130,  135,  167,  198,  205;  Gino, 
pag.  59,  68,  98,  189,  270,  '  290,  423;  Fazio  degli  liberti  XII;  Sennuccio  del 
Bene  Card.,  pag.  233;  Petrarca,  P.  P',  I,  III,  XII,  XIII,  XIV,  XVI,  XVII,  P.  II', 
I,  IV,  VI,  VII,  Vili,  P.  IV'',  I,  II,  III,  IV  (16  canzoni);  Boccaccio,  pag.  68,  79; 
A.  Pucci  Card.,  pag.  460;  Matteo  Coreggiaio  Sarteschi,  pag.  91;  Bartolomeo 
da  Castel  de  la  Pieve  Sarteschi,  pag.  20;  Braccio  Bracci  Sarteschi,  pag.  31 
e  35:  Giovanni  da  Prato  Wesselofsky,  Il  Paradiso  degli  Alberti,  Bologna,  Roma- 


'  Nel  Val.  alla  sesta  strofa,  che  serve  di  commiato,  segue  im'.altra  di  struttura  differente  dalle  la-ece- 
denti;  ma  essa  nel  cod.  Chig.  L.  VITI,  305  forma  un  numero  a  parte  (67iJis).  E  come  componimento  a  sé  sta  an- 
che nel  cod.  Bolognese  Universitario  2418  (ved.  E.  Lamma,  rropugnatore,  t.  XVIII,  pag.  101).  In  un  cod.  Trivul- 
ziano,  secondo 'il  Ciampi,  è  attribuita  a  Gino. 

■  È  il  caso  che.  nonostante  parecchie  eccezioni  ,  si  può  dire  normale  nella  poesia  provenzale. 

*  Cosi  invece  avviene  di  norma  nelle  canzoni  provenzali  a  coblas  siiigulars. 

'  Nella  stampa  e  anche  nel  codice  Laur.-Red.  IX,  63  (n"  xvn)  il  secondo  verso  del  commiato  è  endecasil- 
labo, mentre  il  secondo  della  sirima  è  settenario;  forse  sarà  da  espungere  «  lo  migliore  ».  Per  il  caso  che  si 
confronti  il  commiato  coli' ultima  stanza,  avverto  che  questa  nella  stampa  è  mancante  del  penultimo  verso, 
che  nel  cod.  è  tale  «  almeii  quanto  gli  altri  ». 

'Lo  schema  delle  stanze  è:  ABc.  ABc:CDEeDD;  nel  commiato  la  rima  C  non  rimane  slegata  es- 
sondo uguale  alla  rima  E.  Similmente  si  allaccia  nel  commiato  la  prima  rima,  che  è  sciolta  nella  sirima,  in 
una  canzone  incertamente  attribuita  a  Gino  (pag.  103)  e  in  una  incertamente  attribuita  a  Dante  (pag.  242). 

16 


—  362  — 

gnoli,  1867,  voi.  I,  p.  I!',  pag.  435,  e  una  medita  dello  stesso  autore  che  comincia 
«  Bella  dolcie  star/ione  che  verdi  colli  »  (Cod.  Laur.-Eed.  151 ,  e.  92'=). 

Si  possono  aggiungere  due  canzoni  nelle  quali  la  disposizione  delle  rime  del 
commiato  diiferisce  alquanto  da  quella  della  sirima,  ma  è  uguale  il  numero  e 
la  qualità  dei  versi,  che  è  condizione  sufficiente  perchè  possano  avere  la  medesima 
melodia.  Una  è  di  Lapo  Gianni  Val.  Il,  127 

st.  5.  .'^C.   ABC   :   CDEEDFF 

comm.  GHIIL  l-GG 

e  l' altra  di  F.  Sacchetti ,  pag.  25 

st.  5.  ABC.  ABC   :   CDEEFGG 

comm.  HILLMMN 

e.)  La  struttura  del  commiato  corrisponde  a  parte  della  sirima.  Sarà  op- 
portuno considerare  separatamente  il  caso  che  è  omesso  nel  commiato  soltanto  il 
primo  verso  della  sirima,  cioè  quello  che  rimarrebbe  slegato.  Gli  esempì  sono  po- 
chi: Gixittone  VII;  Lotto  di  Ser  Dato  Val.  I,  390  e  la  risposta  sulle  stesse  rime  di 
Panuccio  Val.  I,  894;  Giovanni  da  Px'ato,  inedita  «  Donne  gientili  die  ssi  somma  Id- 
dea  »  (Cod.  Laur.-Red.  151 ,  e.  93'^). 

Citando  gli  altri  esempì  nei  quaU  è  omesso  più  di  un  verso  della  sirima,  indi- 
cherò fra  parentesi  il  numero  dei  versi  di  questa. 

Il  commiato  corrisponde  agli  ultimi  9  versi:  Petrarca,  P.  P',  IV  (14),  agli  ul- 
timi 6:  Sennuccio  del  Bene  Card.,  pag.  238,  dove  è  diverso  anche  il  numero  delle 
rime,  come  si  vede  dallo  schema: 

sirima        CDEEDd  FF 
comm.  GlIIi  LL 

agli  ultimi  5  :  F.  Sacchetti,  pag.  104  (10);  Giannozzo  Sacchetti  Trucchi  II,  206  (9) 
e,  benché  siano  diversi  il  numero  e  la  disposizione  delle  rime,  F.  Sacchetti,  pag.  44  (7) 
e  68  (10);  agli  ultimi  4  :  Pacino  Angiolieri  D' Anc.  II",  clxxxvi'  (7) ;  Petrarca,  P.  II' 
V  (6).  Più  di  frequente  il  commiato  è  uguale  agli  ultimi  3  versi:  Guittone  D'Anc. 
II",  cxLvin  (5);  Dante,  La  dispietata,  pag.  80  (7);  Petrarca,  P.  P',  II  (7),  VI  (9), 
VII  (9),  Vili  (9),  X  (6),  P.  n^  II  (7),  III  (6);  Niccolò  Soldanieri,  inedita  «  Per 
ch'io  di  me  non  ò  cM  a  me  si  doglia  »  Cod.  Laur.-Eed.  151,  e.  82''  (10).  In  tutto  23 
canzoni. 

ji)  Il  commiato  è  uguale  a  tutte  due  le  volte  insieme.  Chiaro  Davanzati 
D'Anc.  Ili",  ccxLiii,  ccLXXXv;  Panuccio  del  Bagno,  D'Anc.  IH",  cccvui;  anonima 
D'  Anc.  IH" ,  ccxc. 


'II  commiato  dovrebbe  avere  la  rimalmezzo  nel  secondo  verso,  a  quindi  probabilmente  sarà  intenzio- 
nale l' assonanza  fra  onore f  con  cui  termina  il  primo  verso,  e  canzone  che  sta  in  mezzo  del  secondo.  Gli  esempì 
di  assonanza  nella  Canzone  sono  assai  rari;  il  caso  relativamente  più  frequente  è  quello  appunto  fra  le  termi- 
nazioni -ore  e  one.  Cfr.  Guittone  XXXII,  st.  LI,  vv.  ò-H  persone:  valore;  Guglielmo  Boroardi  D'Anc.  11°,  CLXxviir, 
st.  V,  vv.  7-8  (rimalmezzo)  rasyionc  :  amore  e  queste  due  stesse  parole  in  una  anonima  D'Anc.  II'\  cr.xx,  st.  ITT. 
vv.  7-10;  anonima  L'Axc.  TI»,  ci,  st.  IV,  vv.  1-3  slasrjionc  :  amore:  anonima  D'Asc.  1°,  xcvi,  st.  II,  vv.  9-13  fasonc: 
amore. 


—  363  — 

P')  Il  commiato  è  uguale  a  una  sola  volta. 
Noceo  di  Cenni  Val.  I,  4GS;  Francesco  da  Bavljorino,  pag.  359  e  ;3IjS. 

fi")  Il  commiato  ò  uguale  all'  ultimo  verso  o  ai  due  ultimi  versi  della  prima 
volta  più  tutta  la  seconda.  Cavalcanti  I 

volte.  Ff-Gg-HH.  Ff-Gg-HH 

comm.  I    Ll-Ii-MM 

La  prima  rima  del  commiato  si  allaccia  coUa  terza  anziché  coli'  ultima,  come 
dovrebbe  per  corrispondere  esattamente  ai  5  ultimi  versi  della  stanza.  Anonima 
D'  Ano.  IH",  cclxxvi 

volte.  deed.  deed 

comm.  fg  hiih 

3.  Il  commiato  è  uguale  all'  ultimo  verso  o  agli  ultimi  versi  della  prima  parte 
della  stanza  più  tutta  la  seconda  parte. 

Matteo  Frescobaldi  II 

st.  4.        ABbC.  ABbC  :  CDD 

comm.  E     FFE 

È  diversa  dunque  la  disposizione  delle  rime,  per  evitare  che  il  commiato 
constasse  di  due  coppie  a  rime  baciate. 

Guittone  XXXIX  (si  conservano  le  stesse  rime  per  tutte  le  stanze) 

st.  3.         abba.  abba  :  accddA 
comm.  bba     accddA 

Si  può  forse  aggiungere  la  canzone  anonima  D' i^-NC.  Ili" ,  ccciv. 

4.  Il  commiato  è  uguale  alla  prima  parte  della  stanza  o  a  parte  della  prima 
parte.  ' 

a)  Il  commiato  è  uguale  alla  fronte  in  una  canzone  anonima  Rio.  di  fil. 

rom.  I,  83. 

st.  3.  a  a  to  :  e  d  e.  e  d  e 

comm.        ffl) 
p)  Il  commiato  corrisponde  a  tutti  e  due  i  piedi. 
Noffo  d'Oltrarno  Val.  I,  IGl;  Bonagiunta  Orbiciani  Casini,  Testi  inediti  di  an- 
tiche rime  volgari,  Bologna,  Romagnoli,  1883,  n"  LXX.  ' 
p')  Il  commiato  corrisponde  a  un  solo  piede. 
Cino,  pag.  218;  Fazio   degli   Uberti  VI;   Boccaccio,  pag.    72;    Giotto   Card., 
pag.  143.  In  quest'ultima  lo  schema  di  ciascun  piede  è  ABbC,  nel  commiato  in- 
vece 1'  ultimo  verso  rima  col  primo. 

5.  Il  commiato  è  una  stanza  più  piccola  delle  altre. 


'  Alcuni  pochi  esempi  cita  il  Kalischer  (p.ig.  TO)  neUn,  poesia  provenzale,  ni  quali  è  ila  aggiungere  uno  di 
Bertran  de  Born  (n»  30  dell'  ediz.  Stimming). 

-  Nel  cod.  Vat.  (D'Akc.  H",  cxxiv)  e  nel  Val.  1 ,  479  questa  canzone  è  tutta  sformata ,  perciò  ho  citata  la 
lezione  del  cod.  Laur.-Red.  IX,  63,  d.al  quale  si  rileva  ohe  lo  schema  è  :  abbc.  abhc  :  ddeeP.  ddeeF.  I  versi  in- 
dicati colle  lettere  &  ed  e  sono  quinari. 


—  3G4  — 

a)  I  piedi  della  stanza-commiato  sono  uguali  a  qiielli  della  stanza  della  can- 
zone, e  la  struttura  della  sirima  corrisponde  all'ultima  parte  della  sirima  della 
stanza  della  canzone. 

Prima  di  passare  agli  esempì,  avverto  clie  in  questo  numero  e  nel  seguente  (fino 
alla  rubrica  =)  gli  schemi  del  commiato  si  compileranno  cominciando  dalla  prima 
lettera  dell'alfabeto,  anziché  da  quella  die  segue  all'ultima  dello  schema  della 
stanza  della  canzono.  Ci  pare  opportuno  staccarci  in  questi  due  numeri  dall'uso  solito 
e  perchè  i  commiati  di  cui  qui  si  parla  hanno  la  forma  di  una  stanza  intera  e 
perchè  così  è  dato  di  rilevare  più  prontamente  la  relazione  della  loro  struttura  con 
quella  delle  stanze  delle  rispettive  canzoni. 
Dante,  Voi  che  intendendo,  pag.  179 

st.  4.  ABC.  BAC  :  CDEEDFF 

comm.        ABC.  BAC  :  CDD 

E  simiknente  M.  Frescobaldi  I;  F.  Sacchetti,  pag.  57,  195,  199,  218,  24.3; 
Nicolò  Soldanieri  (13  canzoni,  una  sola  delle  quali  pubblicata  dal  Eeniee,  Fazio  de- 
(jli  liberti,  pag.  223;  le  altre  inedite  nel  Cod.  Laui-.-Eed.,  151,  e.  SI'',  e  e.  82a-87'i). 
La  prima  rima  della  sirima  della  stanza-commiato  rima  sempre  coli' ultima  dei 
piedi,  come  nella  stanza  della  canzone. 

ji)  I  piedi  sono  uguali,  la  seconda  parte  della  stanza  è  diversa. 
Pauuccio  del  Bagno  Val.  I,  361 

st.  5.    ABBC.  CDDA  :  EFFG.  GHHE 
comm.    ABBC.  CDDA  :  EFFGGE  ' 

Bruzio  Visconti  Renier,  Fazio  defjli  liberti,  pag.  226 
st.   12.        AbC.  AbC  :  CddEeFF 
comm.         AbC.  AbC  :  C  d  dd  EE 

y)  e  differente  la  struttura  tanto  dei  piedi  quanto  della  sirima.  Citeremo 
per  prima  una  canzone  anonima  (Crescimbeni,  Istoria  ecc.,  II,  276)  nella  quale  la 
differenza  fra  i  piedi  del  commiato  e  quelli  della  canzone  è  piccolissima  e  la  sirima 
del  primo  è  ixguale,  se  si  tolga  che  il  primo  verso  è  settenario  invece  che  endeca- 
sillabo, ai  5  primi  versi  della  sirima  della  seconda. 

st.  5.  ABbC.ABbC  :  CDdEEFfGG 

comm.        ABBC.  ABBC  :  cDdEE 

La  differenza  invece  è  spiccata  in  una  canzone  attribuita  a  F.  Sacchetti  Bella- 
mano,  pag.  146  ' 

st.  5.  ABC.  ABC  :  CDdEEffGGHH 

comm.        ABbA.  BAaB  :  BccDD 


'  La  seconda  parte  ileUa  stanza-oomm'iato  differisco  da  'luolla  della  canzone  soltanto  per  avere  una  cop 
pia  di  versi  di  meno.  Questa  piccola  modificazione  per  altro  6  sufficiente  a  far  sì  che  il  tipo  delle  due  stanze 
sia  diverso;  la  prima  si  compone  di  piedi  e  sirima  e  quella  della  canzone  invece  di  piedi    e    volte. 

'  Secondo  il  Trucchi,  II,  209  ossa  .appartiene  a  Bartolommeo  da  Castel  della  Piove. 


—  3G5  — 

E  similmente  Panuccio  del  Bagno  Val.  I,  333  e  Fazio  degli  Uberti,  V,  X.  XVI.' 
().  Il  commiato  ha  la  forma  di  una  cobbola.  " 

a)  Il  commiato  ha  la  struttm-a  di  quella  parte  della  stanza  della   canzone 
che  ò  costituita  dai  piedi  e  dal  primo  verso  della  s  ir  ima. 

Fazio  degli  Uberti,  la  I*  delle  canzoni  di  dubbia  autenticità 

st.  4  -H  comm.     (ABbC.  ABbC  :  C|DdEE 

commiato 

Boccaccio,  pag.  74 

st.  7  +  comm.     ,ABbC.  BDdC  :  C|DEECc  FfGG 

fri)  Il  commiato  si  ottiene  aggiungendo  a  un  piede  della  stanza  della  can- 
zone la  sirima  scema  del  primo  verso. 
Gino,  pag.  395 


Matteo  Frescobaldi  IV  e  V  (tutte  due  sulle  stesse  rime) 

st.  5.  ABbC.  ABbO  :  CDD 

comm.  ABbA        CO 

La  parte  del  commiato  che  corrisponde  al  piede  della  stanza  ha  dunque  una 
rima  di  meno,  e  ciò  per  evitare  l'inconveniente  o  che  rimanesse  slegato  il  quarto 
versò  o  che  i  tre  ultimi  versi  fossero  su  una  stessa  rima. 

V)  Il  commiato  ha  la  struttura  di  quella  parte  della  stanza  che  risulta  dal- 
l' unione  di  un  piede  col  priino  verso  della  sirima. 

Dino  Frescobaldi  Val.  II,  510 

st.  4  T-  comm.     ABbC.  |ABbC  :  C,DD  ' 

E  parimenti  Matteo  Frescobakd  III  e  F.  Sacchetti,  pag.  315  e  363. 

S)  Il  commiato  risulta  dall'unione  di  un  piede  della  stanza  della  canzone 
con  una  volta.  Un  solo  esempio  di  Chiaro  Davanzati  D'Anc.  IH",  ccxxxi 

st.  5  4-  comm.     abc.  |abc  :  DdeEf^ .  DdeEf.  ' 

s)  La  prima  parte  del  commiato  ha  la  struttura  di  un  piede  della  stanza 
della  canzone,  il  resto  è  differente. 


'  Si  potrebbe  osservare  oKe  in  tutte  ti-e  le  citate  canzoni  ili  Fazio  lo  schema  dei  piedi  della  stanza  della 
canzone  è  ABbC  e  quello  dei  piedi  della  stanza-commiato  ABC. 

'  Diamo  alla  voce  cobbola  il  signiiìoato  che  sembra  aver  assunto  in  Italia  ,  cioè  ili  stroia  a  cni  non  sono 
applicabili  le  leggi  di  partizione  fermate  da  Dante,  come  sono  appunto  le  cobbole  del  Barberino  e  del  Bamba- 
gioli.  Conosciamo  un  solo  esempio  della  voce  r/obola  usata  ad  indicare  una  vera  e  propria  stanza  di  canzone 
(ved.  D".\nc.  IH",  cccsvui). 

'  Il  commiato  ha  dunque  la  forma  di  quella  cobboletta  che  è  usata  abbastanza  di  frequente  anche  da 
F.  da  Barberino;  cfr.  Documrnti  d'Amore,  Parto  U",  doo.  V,  le  regole  30,  32,  3G,  70,  89,  101,  101,  134,  141. 

'  Questo  è  lo  schema  delle  tre  ultime  stanze;  nella  prima  mancherebbe  il  v.  13,  e  il  v.  penultimo  dovrebbe 
essere  endecasillabo  invece  di  settenario,  e  nella  seconda  mancherebbe  il  v.  10. 


—  36G  — 

Ciuo,  pag.  354 

st.  5.  ABbC.  ABbC  :  ODE  e  DEFF 

comm.  ABbC  CB 

E  similmente  Fazio  degli  liberti  XI  e  la  11"^  delle  canzoni  di  dubbia  autenticità, 
e  Saviezze  Card.,  pag.  586. 

C)  La  struttura  del  commiato  apparisce  tanto   o   quanto   determinata  dalla 
stnittura  della  sirima  delle  stanze  della  canzone. 
Dante,  Gli  occhi,  pag.  118 

st.  6.  ABC.  ABC  :  CDE  e  DEFF 

comm.  GHhlIH 

Lo.  stesso ,  Le  dolci  rime ,  pag.  18G 

st.  7.  AbBC.  BaAC  .•  CDE  e  DdDFfEGG 

comm.  HhILlI 

Lo  stesso,  Ai  fals  vis,  pag.  219 

st.  3.        ABC.BAC  :  cDEeDFF 
comm.  GHliII 

Panuccio  del  Bagno  Val.  I,  338 

st.  5.  AbC.  AbC  :  DeFfGgHH 

comm.  ILlMmNnl 

Si  potrebbe  dire  che  nel  commiato  di  qiiest'ultima  canzone   la  coppia  finale 
della  sirima  viene  divisa,  e  un  verso  è  posto  in  principio,  1'  altro  in  fine. 
Lo  stesso,  Val.  I,  341 

st.  5.  a BbC.  a  BbC  :  aDdC:EeFf GG         ("«"•'^  >*'■  "  •"''«■'-'  ■'  i"!»^" 

verso  ,  e  la  rima  a  è  uguale 
comm.  Il  li  LIHH  alia  rima  C). 

Il  commiato  dunque  è  uguale  alla  sirima,  avanti  alla  quale  sta  un  verso  set- 
tenario rimante  colla  coppia  finale. 

Vedi  anche  Sacchetti,  pag.  14,  162,  171,  208,  293. 

Yj)  La  striittura  del  commiato  non  apparisce  in  alcun  modo  determinata  dalla 
stanza  della  canzone. 

Meo  Abbracciavacca  Val.  II,  1  (tutte  le  stanze  sulle  stesse  rime  della  prima) 

st.  5.         AbC.  AbC  :  DdEF  e  GfG' 
comm.  dCcBbD 

Neri  D'Anc.  IH",  ccxcv 

st.    5.  abbC.addC  :  CeeF.    CggF.  (neUast.V  il  primo  verso  <U1- 

le  volte  rima  col  primo  dei 
comm.  hhiillmmunh  piedi  invece cliecoU'ultimo). 

E  vedi  anche:  Panuccio  Val.  I,  345;  Gino,  pag.  159,  264,  375,  418;  Fazio 
degli   Uberti,  I,    II,    III,   IV,    VII,   IX,  XIV,  XV  e  la  IV   delle    dubbie;   Gio- 

'  Nella  stampa  manca  il  terzultimo  verso  iIoU' ultima  strofa  o  al  v.  ultimo  si  deve  leggere  cera  invece  di 
cura  (v.  Casini,  Testi  inediti  di  antiche  rime  volgari,  n"  i.xxvi). 


—  367  — 

vanni  Dall'Orto  Renier,  Fazio  degli  Uberli ,  pag.  213;  Antonio  da  Ferrara  Bella- 
mano,  pag.  153. 

Restano  da  esaminare  le  canzoni  con  più  di  un  commiato.'    Cominciamo  na- 
turalmente da  quelle  con  due. 

7.  La  forma  dei  commiati  è  quella  descritta  al  n"  2. 

a)  Tutti  due  uguali  alla  sirima  (cfr.  n"  2a). 
Guittone  II,  IX,  XXXV,  XXXVI,  "  XXXVII,  XL,  XLIII;  Monte  Andrea 
D'  Ano.  III" ,  cclxxxi,  ''  ccLxxxm ,  cclxxxviii  ;  Panuccio  Val.  1 ,  365  ;  Finfo  del  Buono 
Guido  Neri  D'Ano.  Il",  cxcu;  Tommaso  da  Faenza  D' Anc.  IH",  cclxxxii;  ano- 
nime Val.  I,  374  e  378.  In  tutto  15. 

a')  Il  primo  commiato  è  uguale  alla  sirima  intera  (cfr.  n"  27.),  il  secondo 
agli  ultimi  7  versi  (cfr.  n"  2a').  Gulttone  IV 

st.  5.         ABBA  :  CcDDE  e  FFGGE 

Veramente  nella  prima  stanza  lo  schema  della  sirima  è  questo: 
CcDDCcEEFFE 
a")  Tutti  due  i  commiati  sono  uguali   alla  sirirna   meno  il  primo  verso 
(cfr.  n"  27.').  Guittoue  Vili  " 

st.  7.         AaB.  AaB  :  bCcDdEFeGgHhIiLFL 
rj.'")  Il  primo  commiato  è  uguale  ai  7  ultimi  versi  della  sirima,  il  secondo 
ai  4  ultimi  (cfr.  n"  2a').  Guittone  XVI  " 

st.  2.         ABCcAB  :  DEeFfggDHliIiiD 

P)  Ciascun  commiato  corrisjìonde  alle  due  volte  (cfr.  n"  2,3). 
Guittone  D'  Anc.  IP ,  gxlvi  ;  Monte  Andrea  D'  Anc.  IH" ,  cclxxxvi,  cclxxxix.  " 
(i)  Il  primo  commiato  è  uguale  a  tutte  due  le  volte  insieme,  il  secondo  a 
una  sola  volta  (cfr.  n"  2,3').  Bacciarone  Val.  I,  407. 


'  Piuttosto  di  frequente  nelle  stampe  del  Val.  e  delle  Siine  di  Guittone  i  commiati  non  sono  distinti  l'uno 
dall'altro;  ma  la  divisione  è  ris^Dettata  nei  codici. 

'  Nella  stampa,  anziché  aver  la  forma  della  sirima  come  nel  Red.  IX,  63  (n"  xxxviii)  e  nel  Vat.  (D'Anc. 
n®,  cxxxiii),  il  primo  commiato  di  questa  canzone  si  compone  di  8  endecasillabi  a  rime  alternate. 

^  Questa  canzone  fu  pubblicata  per  isvista  due  volte  dal  Val.  la  prima  a  pag.  31  e  la  seconda  a  pag.  375 
del  voi.  II.  È  da  notare  che  l'ordine  dei  commiati  è  diverso  nelle  due  redazioni,  cioè  in  una  segue  quello 
che  nell'altra  precedo.  Qxiale  sarà  1' ordine  giusto?  La  risposta  non  si  può  dar  subito  guardando  alla  canzone 
di  Tommaso  da  l'aeuza  che  è  sulle  stesse  rime,  poiché  anche  per  questa  l'ordino  dei  commiati  del  cod. 
Vat.  è  diverso  da  quello  del  cod.  Laur.-Red.  IX,  03  (cfr.  D'Anc.  Ili»,  cclxxxu  e  Val.  II,  248).  Ma  è  da  aggiungere 
che  in  quest'ultimo  l'ordine  dei  commiati  della  ris  posta  è  quello  stesso  della  j)roposta,  ciò  che  non  avviene 
nel  cod.  Vat.,  e  che  esso  par  preferibile  anche  per  il  senso. 

'  Nella  stampa  manca  il  v.  12  del  secondo  commiato,  che  noi  Laur.-Red.  IX,  63  (n°  vni)  è  tale:  <i.  nel  valle 
d'ogni  falle  ed  eternale  »  e  leggesi  con  qualche  variante  anche  nel  Vat.  (D'Asc.  Il",  clxi)  e  nel  Palat.  418  (n»  4). 

*  In  tutte  due  le  stanze  manca  il  v.  13,  che  leggesi  nel  Laur.-Red.  IX,  63  (n"  xvi). 

"  Nell'ultimo  verso  del  primo  commiato  ò  evidente  che  invece  di  volontà  si  deve  leggere  volontate  come 
al  v.  5;  similmente  dovrebbero  rimare  i  vv.  5  e  IO  del  secondo  commiato,  il  primo  dei  quali  termina  con  detto, 
il  secondo  con  dotto.  O  si  dove  ammettere  la  semplice  consonanza?  Non  so  decidermi,  poiché  il  senso  non  mi  è 
chiaro. 


—  368  — 

8.  La  struttura  di  almeno  uuo  dei  due   commiati   è   couforme  o   all'  ultima 
stanza  o  a  parte  di  essa. 

a)  E  primo  commiato  è  uguale  alle  altre  stanze  (cfr.  n"  1),  U  secondo  è 
di  5  versi  (cfr.  n"  Gq).  Mino  del  Pavesaio  Val.  II,  382  ' 

st.  4  -H  1         aBbC.  cDdE  :  ffGg-Hhl         2"  comm.  =  IMmN 

p)  Il  primo  commiato  è  uguale  agli  ultimi  5  versi  (cfr.  n"  2a'),  il  secondo 
è  una  stanza  che,  relativamente  alla  stanza  della  canzone,  ha  la  forma  descritta  al 
n"  5a.  Guittone  Casini,  Testi  inediti  di  mitiche  rime  volcjari,  n"  XXV.' 

st.  5.  aBbC.  aDdC  :  ccEFggHliFfliE 

1"  comm.  LlMmN 

2"  comm.  aBbC.  cDdE  eN  ' 

•()  Il  primo  commiato  lia  la  struttura  di  quella  parte  della  stanza  clie  comin- 
cia dall'ultimo  verso  dei  piedi  (cfr.  u"  3),  il  secondo  è  uguale  alla  sirima  (cfr. n"  2a). 
Panuccio  Val.  I,  351 

st.  G.  ABbC.  ABbC  :  cDdEeFF 

1"  comm.  G     glibliLL 

2»  comm.  gMmNnMM 

9.  La    struttura  dei  commiati  non  presenta  alcuna  analogia  colla  struttura 
della  stanza  (cfr.  n"  G/j). 
Panuccio  Val.  I,  348 

st.  5.  AbC.  AbO  :  c-DEeF.f-DEeF 

1"  comm.  gHliIiLlMmG 

2"  comm.  nULN 

Similmente  Panuccio  Val.  I,  350  e  PaUamidesse  D'Ano.  Il",  clxxxviii. 
Minore  d'  assai  è  il  mimerò  delle  canzoni  con  tre  commiati.  ' 

a)  Tutti  tre  eguali  alla  sirima    (cfr.   u"   27.).   Monte  Andrea  D' Anc.   III", 

CCLXXXIV.  " 

rj.)  I  due  primi  eguali  alla  sirima  (cfr.  n"  2a),  il  terzo  eguale  agli  ultimi 
versi  della  sirima  (cfr.  n"  2a').  Guittone  VI  e  XLII. 

fj)  Tutte  tre  eguaK  alle  due  volte  (cfr.  n"  2ji).  Guittone  XIX. 

fj')  Il  primo  e  il  secondo  eguali  alle  due  volte,  il  terzo  eguale  all'ultimo 
verso  della  prima  volta  più  tutta  la  seconda  (cfr.  n"  Tf).  Monte  Andrea  D'Ano.  11°, 

CCLXXXVII. 


'  Nel  cod.  Vat.  (D'Anc.  1X1°,  cccxsiii)  manca  U  secondo  commiato. 

'  Nell'edizione  delle  Ilime  di  Guittone  manca  il  primo  commiato. 

'  Il  secondo  commiato  è  più  hmgo  del  primo,  che  e  un  caso  assai  raro  anche  nella  poesia  provenzale 
(KALiscnEH,  pag.  72). 

'  Tre  commiati  si  trovano  relativamente  di  rado  anche  nella  poesia  provenzale. 

''  Il  penultimo  verso  del  primo  commiato  dovrebbe  terminare  in  -oso  anziché  in  -io:  ma  non  intendendo 
chiaramente  il  contosto  non  ardisco  proporre  un'emendazione. 


—  369  — 

Finalmente  la  canz.    XXIII  di  Guittone  ha  cinque  commiati,'   ognuno  dei 
quali  ha  la  struttura  della  sirima  della  stanza  della  canzone. 

Le  canzoni  che  abbiamo  esaminato  sommano  a  più  di  600  e  metà  circa  sono 
senza  commiato.  *  Devesi  per  altro  avvertire  che  il  maggior  numero  di  queste  trovasi 
.  nella  cosi  detta  scuola  poetica  siciliana  e  che  tal  numero  cresce  quanto  più  si  risale 
indietro.  Difatti  in  meglio  di  360  canzoni  di  quella  scuola,'  soltanto  113, se  non  è  er- 
rato il  nostro  computo,  hanno  il  commiato,  e  soltanto  sei  appartengono  a  rimatori 
meridionali.  Si  aggiunga  poi  che  in  una  sola  di  quest'ultime,  quella  di  Stefano  Pro- 
tonotaro ,  '  il  commiato  è  ritmicamente  distinto  dalle  altre  stanze.  ' 

Come  introduttore  del  Commiato  vero  e  proprio  nella  Canzone  italiana  si  può 
considerare  Gruittone; ''  ne  sono  senza  soltanto  cinque  delle  sue  43  canzoni.  Ma  i 
poeti  di  lui  contemporanei,  se  eccettui  Panuccio  e  Monte  Andrea,  non  ne  fecero  uso 
molto  largo.  Basti  citare  l'esempio  di  Chiaro  Davanzati,  che,  quantunque  ricono- 
scesse Guittone  per  maestro  dell'  arte  del  rimare  e  lo  imitasse,  lasciò  ben  40  canzoni 
senza  congedo.  Invece  l' uso  di  esso  diventa  generale  e  frequente  negli  ultimi  anni 
del  sec.  XIII  e  pochissime  canzoni  poi  del  sec.  XIV  ne  sono  sprovvedute.  Veramente 
ne  mancano  tutte  20  quelle  di  Bindo  Bonichi,  ma  per  queste  la  ragione  della  man- 
canza è  evidente.  Le  poesie  del  Bonichi  sono  insegnamenti  morali  che  si  indiriz- 
zano per  la  natura  loro  a  tutte  le  persone.  Doveva  il  poeta  far  questa  dichiarazione 
espressa  in  fine  de'  suoi  componimenti  ?  Nessuno  vorrà  dire  che  ciò  fosse  necessario. 
Ed  ora,  riassumendo  i  risultati  del  confronto  fra  la  Canzone  provenzale  e 
l'italiana  per  ciò  che  concerne  il  Commiato,  osserveremo  che  nella  seconda  esso 
manca  assai  più  di  frequente  che  nell'  altra ,  che  è  relativamente  maggiore  il  nu- 
mero delle  canzoni  in  cui  1'  ultima  stanza  funge  da  commiato,  che  questo  da  prin- 
cipio ebbe  struttura  analoga  alla  Tornada  provenzale,  ma  verso  la  fine  del  sec.  XIII 
assunse  anche  una  forma  diversa,  non  corrispondente  ad  alcuna  delle  parti  delle 
altre  stanze.  '  Uno  dei  primi  a  comporre  di  siffatti  commiati,  che  per  brevità  po- 


'  È  il  numero  massimo  che  si  trovi  anche  nella  poesia  provenzale;  vedi  Kaliscueiì,  pag.  64. 

'  Anche  nella  poesia  provenzale  non  mancano  canzoni  senza  tornada  (Kalischek,  pag.  74),  ma  sono  rare. 

'  Sono  contenute,  meno  pochissime,  nei  tre  più  antichi  Canzonieri,  il  Palatino  418,  il  Lanr.-Red.  IX,  63  e 
il  Vaticano  3793.  Soltanto  in  quest'ultimo  si  trovano  due  canzoni  appartenenti  al  periodo  del  dolce  stil  nuovo,  e 
sono  la  notissima  di  Dante  «  Donne  ch'avete  infeìletto  d'amore  »  e  la  risposta  sulle  stesse  rime  «  Ben  aggia  Vamo' 
roso  et  dolce  core  »  (D' Asc.  ni»,  cccx  e  cccxi). 

*  Citata  in  principio  del  n"  2:t. 

^  Le  altre  cinque,  nelle  quali  funge  da  commiato  l'ultima  stauza.  sono  citate  per  le  prime  al  n"  1. 

'  Ciò  fu  già  notato  dal  Monaci.  Vedi  la  sua  Nota  Sul  collegamento  delle  stanze  nella  canzone  nei  Bendiconti 
della  R.  Accademia  del  Lincei,  serie  quarta,  voi.  I,  fase.  12"  (Comunicazione  del  17  maggio  1885)  pag.  355-58. 

'  Il  Da  Tempo  non  pone  alcuna  regola  fissa  sulla  lunghezza  del  commiato.  Nella  canzone  da  lui  compo- 
sta come  esempio  del  genere  esso  corrisponde  alla  sirima  meno  il  primo  verso ,  ma  poi  aggiunge  a  pag.  134  : 
«  M  posset  etiam  fieri  volta  brevior  quam  in  exemplo  supra  proximo  et  ad  libitum.  »  E  Gidino  cosi  si  esprime 
(pag.  107):  «  la  ditta  volta  ee  o  de  pia  versi,  o  de  men  versi  che  le  altre  stancie  della  ditta  cannone;  ma  per  la  più,  parte 
la  ditta  volta,  o  sia  retornello  ee  de  meno  versi  che  non  sono  le  altre  stanze  de  la  camone.  Et  eciamdeo  la  ditta 
canzone  destesa  se  può  compillare  senza  lo  ditto  retornello  o  sia  volta,  a  ben  piacere  de  l'omo.  » 

47 


—  370  — 

tremo  chiamare  irregolari,  fu  Dante,  che  lo  dice  anche  espressamente  nel  Convito.  ' 
Nel  sec.  XIV  è  notevole  la  forma  descritta  al  n°  5,  e  che  fu  issata,  come  s'è  visto, 
con  qualche  predilezione  dal  Sacchetti  ed  esclusivamente  da  N.  Soldanieri. 

Questo  studio  resterebbe  anche  più  incompiuto  di  quello  che  per  avventura 
non  sia,  se  qui  in  fine  non  tentassimo  di  indagare  la  causa  delle  diversità  accen- 
ntite  fra  la  Tornada  provenzale  e  il  Commiato  italiano.  La  causa  principale 
dev'  essere  quella  stessa  che  serve  a  spiegare  parecchie  altre  differenze  ritmiche  ; 
deve  risiedere  cioè  nel  fatto  che  la  canzone  provenzale  era  composta  per  essere  mu- 
sicata e  cantata  e  1'  italiana  invece  per  essere  letta  o  recitata.  '  Fatta  questa  avver- 
tenza, si  intende  come  ai  trovatori  dovesse  parer  quasi  necessario  che  coloro  i  quali 
ascoltavano  le  canzoni  e  talvolta  dovevano  prestare  maggiore  attenzione  alla  musica 
che  alle  parole ,  potessero  avvertire  anche  coli'  orecchio  quando  la  poesia  volgeva 
alla  fine.  A  ciò  serviva  assai  bene  la  Tornada,  e  non  fa  mestieri  spiegare  perchè 
fosse  conveniente  che  avesse  la  forma  e  la  melodia  dell'  ultima  parte  delle  altre 
stanze.  Ai  rimatori  italiani  invece  la  necessità  e  la  convenienza  testé  accennate 
non  dovevano  farsi  sentire  che  debolmente. 

Asolo,  agosto  1885. 

Leakdko  Biadene. 


'  Tratt.  II,  cap.  XII.  Dopo  aver  detto  clie  i  dicitori  ohe  prinm  iisiu-ono  di  fare  la  tornada  '  fenno  quella 
perche  cantata  la  canzone  con  certa  lìarte  del  canto  ad  essa  si  ritornasse  .,  aggiunge  :  «  ma  io  rade  volte  a  quella  in- 
tenzione la  feci;  e  acciocché  altri  se  ne  accorgesse,  rade  volte  la  posi  coli' ordine  della  canzone.  » 

.  "  Questo  si  intende  in  generale ,  cliè  forse  non  sarà  mancata  qualche  eccezione.  Cosi  da  un  luogo  del 
Purgatorio  (II,  112  e  seg.)  parrebbe  ohe  fosso  stata  intonata  da  Casella  la  canzone  di  Dante  «  Amor  che  nella 
mente  mi  ragiona  •.  Lo  stesso  musico  diede  il  suono  a  una  stanza  di  Lommo  Orlandi  (Val.  U,  217)  secondo  la  di- 
dascalia del  cod.  Vaticano  3214  (e.  IIS'O.  Vedi  Iliv.  di  fll.  j-om.,  I,  79. 


—  371  — 


APPENDICE 


DEL  SIGNIFICATO  DELLA  VOCE  'TOENADA'. 


Sull'  etimologia  o  a  meglio  dire  sul  valore  primitivo  della  voce  tornada ,  non  tutti  sono  d' ac- 
cordo. Secondo  il  Kaynouard  (Choix,  II,  1G3)  significherebbe  ritorno,  poiché  il  poeta  vi  ripete  al- 
cuni pensieri  o  alcuni  versi  della  canzone.  '  Lo  stesso  autore  nel  Lexique  Roman,  V,  377  traduce  il 
termine  provenzale  con  <■  ritournelle,  refrain  ».  H  Diez  osservò  che  il  caso  indicato  dal 
Kaynouard  è  raro  e  che  la  voce  si  spiega  più  convenientemente  per  'Wendung',  cioè,  egli  aggiunge, 
'  Apostrophe  oder  Anrede'  {Poesie,  pag.  79).  Per  il  Kalischer,  che  nella  prima  parte  del  suo  opu- 
scolo intende  dimostrare  come  i  significati  di  tornada  sieno  quasi  altrettanti  di  quelli  del  verbo  tornar, 
l'etimologia  non  offre  alcuna  difficoltà.  Se  non  che  fu  già  osservato  al  Kalischer  dal  Moyer  e  dal 
Bartsch  ohe  anche  quella  parola,  come  ogni  altra,  deve  aver  avuto  da  principio  un  solo  significato  ben 
determinato.  E  il  primo  dei  due  provenzalisti  testa  nominati,  nella  Revue  critique,  II,  298  e  segg.,  no- 
tando che  i  commiati  contengono  per  lo  più  un  invio  e  che  tornar  esprime  assai  bene  l'idea  di  in- 
viare, si  attiene  a  questa  come  «l'accezione  la  più  frequente,  la  più  antica,  quella  che  ha  maggiore  pro- 
babilità di  essere  etimologica».  Il  Bartsch  invece  nel  Literarischcs  Centralhlatt,  1867,  n''21,  col.  580,  os- 
serva che  il  significato  più  semplice  e  naturale  di  tornar  è  volgere  e  di  tornada  volta.  «Il  poeta,  egli 
dice,  alla  fine  della  canzone  si  volge  dall'  argomento  principale  a  un  protettore  od  amico,  o  alla  sua 
dama,  o  al  messo,  che  deve  cantare  la  canzone,  o  alla  canzone  stessa,  la  quale  in  certo  modo  è  perso- 
nificata e  apostrofata.  In  questa  categoria  rientrano  le  più  delle  Tornadas.  »  La  stessa  opinione  espresse 
il  Bartsch  nel  Grundriss  (pag.  71)  e  nel  capitolo  sul  Commiato,  che  fa  parte  del  suo  lavoro  Dante  's  Poctik 
(nel  Jahrbuch  dcr  deutschen  Vantegesellscliafl ,  III,  303-67).  In  questo  per  altro  aggiunge  che  la  tornada 
potrebbe  essere  cosi  chiamata  anche  a  cagione  del  formale  '  ritorno  '  dell'  ultima  parte  della  strofa 
o  della  melodia  di  essa  (pag.  362).  E  una  tale  ragione  apparisce  più  probabile  dell'  altra ,  essendo ,  come 
già  fece  osservare  il  Tobler  (v.  M.  Gisi,  Der  Trouiadour  Guillem  Anelier  von  Toulouse,  Solothurn,  Gass- 
niann,  1877,  pag.  25),  quella  stessa  recata  da  Dante,  il  quale  nel  Convito,  tratt.  II,  cap.  XII,  scrive: 
«  Dico  che  generalmente  si  chiama  in  ciascuna  canzone  Tornata,  perocché  lì  dicitori  che  prima  usarono  di 
farla,  fenno  quella,  perchh  cantata  la  canzone,  con  certaparte  del  canto  ad  essa  si  ritornasse.  »  Questa 
spiegazione  sembra  confermata  dal  nome  italiano  corrispondente  che,  come  s'è  detto  (pag.  331),  era 
ritornello.  Nondimeno  neppur  essa  è  tale  da  acquietare  tutti  i  dubbi  e  si  affaccia  subito  un'  obbiezione 
che  è  implicitamente  contenuta  in  due  delle  spiegazioni  più  sopra  ricordate.  Dante  cioè  dichiarò  la  voce 
tornada  avendo  riguardo  al  significato  più  comune  del  verbo  tornare  in  italiano,  ma  il  significato  più  co- 
mune di  tornar  provenzale  è  volgere,  quindi  sombra  che  la  spiegazione  si  deva  dare  movendo  da  questo. 
Se  non  che  anche  in  tal  caso  non  è  necessario  accettare  la  spiegazione  del  Diez  e  la  prima  del  Bartsch, 
potendosi  riferir  sempre  la  spiegazione  alla  melodia,  anziché  all'argomento.  Noi  abbiamo  già  veduto 
(pag.  331)  come  anticamente  presso  di  noi  la  tornada  si  chiamasse  appunto  volta.  Le  due  parole  sarebbero 
quindi  andate  soggette  alla  medesima  evoluzione  ideale,  che  per  una  di  esse  possiamo  anche  storica- 
mente descrivere.  Volta  era  termine  popolare  col  quale  designavasi  dagli  antichi  il  volgere  della  me- 
lodia della  prima  parte  della  stanza  ili  quella  della  seconda.  Ce  lo  fa  sapere  Dante  che  traduce  quella 
parola  con  diesis  e  la  definisce  così  {De  vulg.  eloq.  lib.  II  cap.  X)  :  «  diesim  dicimus  deductioncm  vergentem 
de  una  oda  in  aliam;  hanc  Voltam  vocamus  cum  vulgus  alloquimur  y> .  Volta  poi  doveva  significare,  come  fa- 


'  Esempi  di  tornacU  nelle  quali  sono  ripetati  vor.si  o  parole  dell'  ultima  .stanza  furono  raccolti  da  C.  Ai'PEr. 
(flfls  Leben  und  die  Liedei-  des  Trobadors  Feire  Roi/icr,  Berlin,  Reimer,  1SS3,  pag.  29  n).  È  nna  particolarità  che 
si  riscontra  specialmente  nelle  canzoni  più  antiche. 


—  372  — 

cilmente  si  intende,  anche  il  punto  dove  avveniva  il  rivolgimento  o  il  mutamento  della  melodia 
elle  si  voglia  dire,  e  il  significato  della  parola  si  estese  tanto  da  indicare  tutta  la  parte  della  strofa 
principiante  da  quel  punto,  quella  parte  che  Dante  denomina  sirima  o  coda.  Ciò  si  apprende  dal 
Da  Tempo.'  E,  poiché  il  commiato  ritmicamente  distinto  dalle  altre  stanze  nelle  canzoni  più  antiche 
era  d'  ordinario  uguale  alla  volta,  è  naturale  che  anch'esso  si  chiamasse  con  questo  nomo.  Analoghe, 
come  più  sopra  s'  è  detto,  potrebbero  essere  state  le  vicende  della  voce  tornada.  - 

L.   B. 


'  0]).  cit.,  pag.  117.  Acoemiando  alle  parti  della  stanza  della  ballata,  alla  dottrina  della  quale  riconduce 
poi  la  canzone  (pas-  128),  scrive:  'Quarta  ed  ultima  pars  appellatur  volta.»  La  volta  poteva  poi  suddividersi  in  duo 
periodi  ritmici  uguali,  i  quali  erano  chiamati  anch'essi  volte  (v.  F.  da  Barberino,  op.  cit.  pag.  95).  La  voce  versus 
adoperata  da  Dante  {De  vnlij.  eloq.,  lib.  II,  cap.  X)  a  indicare  appunto  le  volte,  non  sarà  che  traduzione  di  questa 
parola. 

'  Di  questa  opinione  in  fondo  è  anche  il  BoEHMEn  (Ueier  Dante's  Sclirift  De  mdg.  eloq.  ecc.,  pag.  29  u), 
il  quale  per  altro,  nel  luogo  ora  citato,  sembra  confondere  i  versus  di  Dante  con  la  volta  o  sirima. 


UN'ALBA  CATALANA. 


«  ....  Eiifermoyadedias,aunque,  a  Dios  gracias,  con  esperanzas  de  mejora,  mi 
conti-ihncion  ha  de  ser  miuima ,  y  se  reducira  a  la  copia  de  la  siguiente  poesia  popiilar 
que  recogi  eu  Padaldà  (juufco  à  Ainélie-les-Bains)  en  1865: 

ALBADA. 

En  està  pedra  m'  assento ,        m'  hi  comenso  d'  assenta  ; 

Tincli  la  mi'  amor  que  reposa  ;        no  la  gosi  despertà. 

Desperteuvos  que  ja  's  alba,        [jaj  no  es  liora  de  dormi; 

Al  galan  que  raes  vos  ayma        à  la  porta  lo  teniu. 

Vos  esteu  al  Hit  cutjada,        jo  a  la  porta  mort  de  fret. 

Abrigat  ab  una  capa  y  arrimat  a  la  paret. 

N'hi  ha  una  donzelleta        que  robat  me  té  '1  men  cor; 

Ne  té  la  talla  minuta        y  perfecta  n'es  del  cos. 

Si  voleu  que  jo  no  hi  passi,       minyona,  '1  vostro  carré, 

Si  voleu  que  jo  no  hi  passi.       murallas  hi  haureu  de  fé. 

Feulas  de  olavells  y  rosas,       que  passant  las  cnlliré; 

Culliré  las  mes  hermosas        y  las  altres  deixaré. 

Per  tan  gran  que  sigui  l'arbre,        per  la  soca  muntaré; 

May  cai  dire,  galan  nina,  d'aquest'aygua  no  beuré. 

Albada,  qui  te  l'ha  feta,         albada,  qui  te  la  f&? 

L'ha  feta  un  fadriner  sastre,        Pages  si  fa  'nomenA.  » 

Quest'alba  colle  parole  che  la  precedono,  inviava,  probabilmente  dal  letto, 
Manuel  Mila  y  Fontanals,  il  29  di  marzo  del  1884.  Pur  troppo  le  «  esperanzas  de 
mejora  »  non  si  avverarono;  e  tre  mesi  e  mezzo  dopo ,  il  16  di  luglio,  anche  il  MUà 
seguiva  nella  tomba  coloro  ai  quali  aveva  voluto  rendere  U  tributo  pietoso  del  suo 
rimpianto.  Non  senza  sentirsi  ridestare  nell'  animo  un  sentimento  di  vivo  ramma- 
rico leggeranno  qui  il  suo  nome  quanti  hanno  cari  gli  studi  neolatini;  coloro  poi 
soprattutto  che  oltre  allo  scienziato  conobbero  1'  uomo. 


IL  lilTMO  CASSINESE  E  LE  SUE  LMERl'llETAZlONL 


Quello  che  di  Persio  solevano  scrivere  i  vecchi  commentatori,  quando,  lasciata 
ogni  speranza  di  comprenderne  le  oscure  sentenze,  deponevan  la  penna  sclamando: 
ut  tenebris  Ditis  sic  maiiet  iste  suis!  a  molti  studiosi  sarà  certamente  avvenuto  di  ri- 
peterlo a  proposito  del  Eitmo  Cassinese.  Dopo  tant'  anni  infatti  che  esso  ha  veduta 
la  luce,  noi  siamo  sempre  a  domandarci  quale  spirito  lo  animi;  quale  intento  nel 
dettarlo  si  sia  proposto  l' autore.  Né  dell'  oscurità  che  1'  avvolge  neppure  le  cause  ci 
appaiono  ben  chiare.  Dobbiamo  noi  incolparne,  come  ha  fatto  taluno,  l'ingenua  e 
malaccorta  presunzione  del  poeta,  il  quale  stimò  dare  ai  suoi  concetti  peso  e  gravità 
maggiori,  avvolgendoli  di  una  enigmatica  veste?  0  non  è  piuttosto  da  accusarne 
l'inesperienza  nel  maneggiare  l'idioma  del  volgo,  che,  rude  qual  era,  mal  sapeva 
piegarsi  ad  artificiose  espressioni?  0  infine  si  deve  da  ogni  accusa  prosciogliere  il 
rimatore  e  rivolgere  le  nostre  querele  contro  il  dappoco  amanuense,  che,  fidando 
forse  troppo  nella  sua  malsicura  memoria,  '  affidò  il  ritmo,  così  lacero  e  guasto,  al 
codice  cassinese? 

Egli  è  probabile  che  tutte  queste  cause  abbiano  cooperato  a  produrre  1'  effetto 
che  noi  lamentiamo  ;  ma  non  esse  sole.  Se  il  Ritmo  Cassinese  è  sembrato  sino  ad 
oggi  e  sembra  ancora  un  tenebroso  indovinello,  volendo  esser  giusti,  qualche  po'  di 
colpa  converrà  attribuirla  anche  ai  suoi  editori.  Ai  più  fra  di  essi  (e  dal  Federici  in 


'  Che  il  codice  cassinese ,  ben  lungi  tlall'  essere  1'  originale  del  Ritmo,  non  sia  di  questo  che  una  trascrizione 
posteriore  e  scorretta,  ninno  parmi  abbia  difficoltà  ad  ammetterlo.  Non  altrettanto  facile  però  è  il  decidere,  se  il 
testo  ohe  noi  possediamo  debba  credersi  desunto  da  un  più  antico  esemplare,  ovvero  dovuto  ad  un  monaco  che 
sapeva  a  memoria  il  componimento,  ma  non  abbastanza  esattamente  da  poterlo  ridurre  in  scritto  nella  sua  inte- 
grità. La  prima  ipotesi  può  trovare  conferma  in  quegli  errori  che  il  codice  offre,  i  quali  si  direbbero  di  lettura 
piuttosto  che  di  altro  genere  (cosi  il  ijuita  del  v.  15,  il  trobnjo  del  55.  ecc.).  D'  altra  parte  le  lacune,  numerose  pur 
troppo  nel  testo ,  son  tali  da  renderci  più  proclivi  ad  accusare  di  labilità  di  memoria  ohe  di  negligenza  lo  scrittore. 
Forse  le  due  ipotesi  si  potrebbero  conciliare  ove  si  supponesse  che  V  amanuense  nostro  avesse  dinnanzi  a  sé  una 
trascrizione  fatta  a  memoria  da  uno  scrittore  più  antico.  Ad  ogni  modo  io  non  riesco  a  vedere  come  si  potrebbe 
menare  buona  al  Bohmer  la  sua  opinione  ohe  fra  la  composizione  del  Ritmo  e  l' inserzione  nel  codice  cassinese  sia 
corso  un  intervallo  di  tempo  brevissimo.  Le  corruttele  che  presenta  il  componimento  non  sono  tali  che  possano 
nascere  in  pochi  mesi,  com'  egli  pretenderebbe ,  per  opera  di  un  solo  scrittore;  ma  quali  può  soltanto  produrle  la 
lunga  permanenza  d'  un  canto  sulle  bocche  ,  o  i  frequenti  suoi  passiig;,'i  d'  uno  in  altro  manoscritto. 


—  376  — 

poi  non  son  pochi),  '  trascritto  con  maggiore  o  minore  esattezza  di  sul  codice  il  com- 
ponimento, pai've  aver  fatto  assai;  e,  se  a  magnificarne  1'  antichità  veneranda  non 
risparmiarono  parole ,  quando  si  trattò  invece  di  mostrare  che  1'  avevano  inteso  e  po- 
tevano farlo  intendere  ad  altri ,  ne  furono  sempre  avarissimi.  E  nel  numero  pongo 
senza  scrupoli  anche  chi,  non  sgomentato  dalla  difficoltà  dell'impresa,  si  sobbarcò 
un  giorno  a  dare  del  Ritmo  una  letterale  versione,  poiché  questa  può  tutt'al  più 
fornire  materia  di  riso  per  le  gustose  amenità  di  cui  è  bizzarramente  infiorata,  ma 
lume  ad  intendere  il  testo ,  no  davvero.  ' 

Solii  più  recenti  editori  del  Ritmo,  il  padre  Rocchi,  monaco  basiliano,"  I.  Giorgi 
e  G.  Navone,*  e,  dopo  di  loro,  E.  Bòhmer,  '  hanno  tentato  delle  indagini  storiche 
per  chiarire  il  significato  del  componiniento  ed  il  suo  fondamentale  concetto.  Ed  è 
delle  ipotesi  da  essi  formulate ,  che  io  intendo  tenere  discorso ,  prima  di  presentarne 
una  nuova,  sulla  quale  invoco  il  giudizio  degli  studiosi. 

Il  padre  Rocchi,  per  incominciare  da  lui,  ha  dettato  intorno  al  Ritmo  Cassinese 
un  copioso  commentario,  che,  se  può  far  fede  della  sua  buona  volontà  ed  anche  per 
certi  rispetti  della  sua  dottrina,  non  giova  (mi  spiace  il  dirlo)  a  mettere  sotto  troppo 
favorevole  luce  le  sue  attitudini  alle  ricerche  critiche.  Fermato  infatti  il  chiodo  che 
il  Ritmo  «  non  solamente  fosse  antico,  ma  tanto  che  non  potesse  riportarsi  ad 
»  un'epoca  posteriore  alla  fine  del  decimo  secolo,  »  ''  il  Rocchi  si  è  dato  gran  pen- 
siero di  raccogliere  a  conforto  di  codesta  opinione  argomenti  d'  ogni  genere,  di  chia- 
mare in  suo  aiuto  presso  che  tutte  le  scienze:  la  paleografia,  la  linguistica,  la  me- 


'  La  trascrizione  che,  primo,  dette  del  Ritmo,  il  Fedekici  (Degli  antichi  Duchi  e  Consoli  o  Ipati  della  CiUò 
di  Gaeta,  Napoli,  1791,  p.  121),  è  deturpata  da  errori  di  lettui'a  cosi  grossolani,  da  renderla  quasi  inintelligibile. 
Eppure  v' è  qualche  cosa  che  supera  la  trascrizione:  la  riduzione  cioè  dei  primi  diciassette  versi  «alla  moderna 
ortografia  »,  che  per  utilità  dei  lettori  ha  soggiunta  il  buon  Cassinese.  Le  edizioni  curate  in  questi  ultimi  tempi  dal 
Tosti  (Proleijonieni  al  cod.  cassinese  della  D.  Commedia,  Monte  Cassino,  1S64,  p.  xvi)  e  dal  Caravita  (I  C'odici  e  le  Arti 
a  3Ionte  Cassino,  Monto  Cassino,  1873,  II,  p.  59)  sono  di  gran  lunga  più  fedeli,  ma  non  porgono  del  Ritmo  veruna 
illustrazione. 

'  Alludo  alla  versione  che  ne  diede  in  un  suo  scritto,  intitolato  La  Ungila  italiana  ed  il  volgare  toscano  {PrO' 
pugnatore,  a.  VII,  disp.  IV,  p.  39  e  segg.),  il  conte  Bal-di  di  Vesme.  Il  valentuomo  assicura  d'  essere  «  dopo  non  lieve 
studio  e  fatica,  aiutato  anche  dal  consiglio  d'amici»,  riuscito  a  comprendere  quasi  nella  sua  interezza  il  Ritmo. 
Ma  che  egli  si  illudesse,  e  molto,  lo  provano  le  strambe  interpretazioni  che  dà  dei  luoghi  più  oscuri  (cfr.  v.  10,  12, 
66),  non  indegne  del  Federici. 

'  Il  ritmo  italiano  di  Monte-Cassino  del  secolo  decimo,  studi  di  A.  Hocchi,  monaco  basiliano  della  Badia  di 
Grotta  Ferrata.  Tipografia  di  Montecassino,  1875. 

'  Il  Hitmo  Cassinese:  nella  Riv.  di  Filol.  Itom-,  voi.  II,  pag.  91-110.  Ambedue  queste  pubblicazioni  sono  arric- 
chite di  un  eccellente  facsimile. 

'■  Ritmo  Cassinese  in  Romanische  Studien,  X  (Strassburg,  Triibner,  1878),  p.  143  e  segg.  Il  Bohmer,  persuaso,  e 
non  certo  a  torto ,  che  il  senso  generale  e  V  andamento  del  pensiero  nel  Ritmo  rimanevano  ancora  oscuri  non 
ostante  le  anteriori  ricerche,  ha  voluto  chiarirli  tentando  una  restituzione  critica  del  Ritmo,  giustificata  da  una 
parafrasi.  Ma  il  tosto  ,  che  egli,  separando,  togliendo  ,  aggiungendo  parole,  per  ridurre  tutti  i  versi  alla  medesima 
misura,  modificando  la  punteggiatura,  ha  presentato  agli  studiosi,  so  offre  qua  e  là  correzioni  felici  ed  ingegnoso, 
non  si  può  salvare  dalla  taccia  di  arbitrario.  Cosi  pure  della  sua  parafrasi  è  difficile  dir  molto  bene;  avendo  egli 
voluto  sostenere  che  nel  Ritmo,  fatta  eccezione  per  una  di  duo  versi,  non  vi  sono  lacune,  è  stato  costretto  a  ricor- 
rere ad  interpretazioni  stiracchiate,  e  più  d'una  volta  ad  arrampicarsi  jiropriamente  sugli  specchi.  Si  veda  il  giudi- 
zio che  su  questo  tentativo  di  restituzione  pronunzia  concisamente  anche  il  Gasparv  {Gcsch.  der  Ital.  Liter.,  I,  p.  4SI). 

*  Op.  cit.,  p.  VII. 


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trica,  la  storia;  '  ma  in  pari  tempo  non  si  è  punto  preoccupato  delle  obbiezioni,  che 
i  suoi  ragionamenti  non  potevano  a  meno  di  sollevare.  Eppure  che  queste  obbie- 
zioni fossero  e  numerose  e -gravi,  lo  vedremo  facilmente,  ove,  lasciate  in  disparte  le 
altre  jDrove,  prendiamo'  ad  esaminare  i  dati  storici,  sui  quali  il  padre  Rocchi  ha 
fondato  la  sua  dimostrazione. 

Il  Ritmo  Cassinese,  egli  scrive,'  è  un  componimento  satirico,  che  rinviene  la 
sua  origine  e  la  sua  dichiarazione  in  taluni  avvenimenti ,  dei  quali  la  Badia  di  Monte 
Cassino  fa  teatro  nel  secolo  decimo.  Ecco  di  che  si  tratta.  S.  Nilo,  il  famoso  anacoreta 
calabrese,  fuggendo  nel  980  da  Rossano,  sua  patria,  che  stavano  per  desolare  le  inva- 
sioni Saracene,  aveva  con  alquanti  compagni  cercato  asilo  nel  principato  di  Capua. 
E  qui  Landolfo,  che  allora  lo  l'eggeva,  accolse  con  ogni  onore  il  Santo,  ed  assegno- 
gli  a  dimora,  dietro  suo  desiderio,  il  piccolo  monastero  di  S.  Angelo  di  Vallelucio, 
vicinissimo  al  cenobio  Cassinese,  anzi  da  questo  dipendente.  L'austerità  della  vita 
che  menavano  i  Benedettini,  divenuti  così  ospiti  del  santo  calabrese,  era  nei  primi 
tempi  della  costui  dimora  oltre  ogni  dire  grande  e  mirabile;  ma  essa  scemò  rapi- 
damente, quando,  morto  l'Abate  Aligerno,  gli  fu  dato  per  successore  Mansone.  Que- 
sti portò  nel  chiostro  gusti  ed  abitudini  tanto  poco  a  monaco  convenienti,  che  iiere 
discordie  ne  nacquero  fra  i  Cassinesi,  de' quali  alcuni,  aborrendo  dalle  nuove  e  sre- 
golate usanze,  abbandonarono  spontaneamente  il  chiostro,  mentre  i  rimasti  s'accon- 
ciarono a  seguire  le  orme  dell'Abate  loro.  E  così  agevolmente  vi  riuscirono,  che,  re- 
catosi un  giorno  S.  Nilo  a  visitare  Mansone,  invano  attesolo  nel  tempio  e  voltosi  a 
ricercarlo  per  il  convento,  lo  rinvenne  alla  fine  in  refettorio,  dove,  seduto  coi  prin- 
cipali monaci  a  mensa,  si  dilettava  negli  arpeggi  d'un  citaredo.  A  tal  vista  Nilo, 
acceso  di  vivo  sdegno,  abbandonò  frettoloso  S.  Germano,  proferendo  oonta'o  il  disso- 
luto Abate  profetiche  minacele ,  che  ebbero  poco  appresso  pieno  e  spaventoso  adem- 
pimento.'—  Ora,  che  ha  desso  a  vedere  tale  episodio  della  vita  di  S.  Nilo  con  il  Rit- 
mo? Moltissimo,  ove  col  Rocchi'  si  consideri  questo  una  satira,  dettata  da  un 
seguace  di  Mansone  per  deridere  le  austerità  sovercliie  del  monaco  basiliano.  Il 
quale  sarebbe  per  l'appunto  messo  in  scena  sotto  le  spoglie  del  magmi,  vir  prudente , 
che,  giunto  dg^ie  estreme  parti  d'Oriente,  fa  pompa  delle  sue  rigidissime  dottrine 
con  un  monaco  latino.  E  questi,  mentre  finge  di  ammirarle,  se  ne  fa  beffe ,  insinuando 
che  esse  sono  con  l' umana  fragilità  incompatibili;  tali  che  a  seguirle  farebbe  d' uopo 
essere  non  uomini,  ma  angeli. 

L' opinione,   così   caldamente   sostenuta  dal  padre  Rocchi  e  divisa  anche  dal 

'  Op.  cit.,  p.  VI. 

-  Op.  cit.,  p.  XXII  e  segg. 

'  Quest'episodio  ce  lo  narra  il  3io?  toO  év  iyiois  itaTpòs  NsiXou  toD  véou,  opera  di  un  discepolo  del  Santo,  forse 
il  B.  Bartolomeo,  ricca  di  preziosi  ragguagli  per  la  storia  del  tempo.  Edita  la  prima  volta  nel  secolo  XVII  {Vita 
S.  Palrig  Nili Jiinioris  scripta  olim  Grasce  a,  contubernali  cjics  Discipulo ,  nunc  latinitaU  donata,  interprete  Jo.  Matthaeo 
Cartjophito  Archiep.  Iconienai,  Jiomac,  apud  ìiaeredea  B.  Zanetti,  1621)  è  stata  ristampata  dai  BoUandisti  (Ada  Sanctor. 
Septembr..  VII,  283)  e  quindi  dal  Mione  {Patrolog.  Graeca,  CXX,  p.  1  e  segg.).  Intorno  a  S.  Nilo  è  da  vedersi,  oltre 
cbe  la  prefazione  del  Migne  {Commcitt.  praev.,  e.  11-13),  l'opera  di  F.  Rodotà,  Dell'  orinine ,  progresso  e  stato  2>resente 
del  Sito  Greco  in  Italia  ecc.,  Eoma,  1760,  lib.  II,  p.  101  e  segg. 

'  Op.  cit.,  p.  xsvn  e  segg. 

4S 


—  378  — 

Bohmer,  non  è  tale  che  si  possa  accogliere  ad  occhi  cliiusi.  Per  far  qnesto  con- 
verrebbe innanzi  tutto  acconsentire  col  EoccM  nella  credenza  che  il  Ritmo  sia  stato 
composto,  se  non  proprio  appena  seguiti  i  fatti  narrati,  pochissimo  tempo  dopo: 
quindi  o  nel  986,  o,  al  più  tardi,  nel  996,  anno  in  cui  Mansone  fu  deposto.  Ma  che 
il  Ritmo  Cassinese  possa  reputarsi  opera  del  decimo  secolo,  non  pare  che  alcun 
critico  sia  per  ora  inclinato  a  concederlo:  e  certo  per  ragioni  di  molto  peso.  '  Ora, 
quando  si  rifiuti  di  credere  il  componimento  dettato  ne'  giorni  in  cui  S.  Nilo  e  Man- 
sone vivevano,  diviene  molto  difficile  il  persistere  neìV  opinione  che  proprio  codesti 
personaggi  ne  siano  i  protagonisti.  Per  passare  infatti  sopra  1'  assurdità,  alla  quale 
va  incontro  chi  reputi  scritta  nel  XII  secolo  e  fors'  anche  nel  XIII  una  satira,  che 
ha  per  oggetto  fatti  compiutisi  dugento  o  trecent'  anni  innanzi,  sarebbe  di  mestieri 
che  le  allusioni  a  tali  fatti  fossero  nel  componimento  chiare  e  patenti  cosi  da  non 
lasciare  adito  al  più  piccolo  dubbio.  Ciò  avviene  nel  caso  nostro?  No  davvero. 
Quelle  che  si  spacciano  per  allusioni  a  S.  Nilo  sono  al  contrario  così  vaghe,  deboli, 
incerte,  e  tanto  palesi  invece  e  grossolane  le  contraddizioni  fra  il  Ritmo  ed  il  rac- 
conto del  greco  biografo  del  Santo,"  da  costringere  il  Rocchi  medesimo,  non  sol- 


'  Mentre  il  Eoceni  si  sbraccia  a  dimostrare  ohe  il  Ritmo  appartiene  al  secolo  decimo,  il  Bohuek  vorrelibe 
ringiovanirlo  nientemeno  che  di  tre  secoli,  fissandone  al  1293  la  composizione;  e  ciò  perchè  egli  ne  sospetta  autore 
uno  de' monaci  cassinesi  gettati  allora  in  carcere  da  Celestino  V,  siccome  renitenti  ad  accettare  le  riforme  oh'  ci 
voleva  introdurre  nella  loro  regola.  Ma  quali  rapporti  corrano  fra  quesf  avvenimento  ed  il  contenuto  del  Ritmo 
il  B.  non  si  dà  la  pena  di  dirlo,  e  noi  in  conseguenza  potremo  risparmiarci  quella  di  combattere  una  congettura 
campata  in  aria.  Difatti  giudici  autorevoli,  quali  il  Giokgi  (op.  cit.,  p.  9)  ed  il  Monaci  (ved.  Morandi,  OrU/.  della  lin- 
gua italiana,  p.  65)  credono  che  la  trascrizione  del  Ritmo  risalga  agli  ultimi  del  secolo  XII. 

'-  Sarà  qui  opportuno  fare  un  cenno  degli  argomenti,  che  hanno  indotto  taluno  a  credere  che  nel  Ritmo 
.sia  messo  in  scena  S.  Nilo.  Il  componimento  si  chiude  con  ima  frase,  che  serve  quasi  di  suggello  al  dialogo: 
Auijeli  de  celti  sete.  Ora  il  biografo  di  .S.  Nilo  narra  che  costui,  trovandosi  un  giorno  a  Monte  Cassino  ed  essendo 
dai  Benedettini  richiesto  di  dichiarar  loro  quale  fosse  il  perfetto  monaco,  rispondesse:  Mov^y/-;  écttiv  «yve'os 
(MiONE,  o.  e,  e.  128).  Tale  il  raffronto,  che  si  può  dire  la  pietra  angolare  dell'  edificio  ;  che  il  Bohmer  giudica  di 
molto  peso  (o.  e.  p.  115),  che  il  Giorgi  chiama  «  singolarissimo  »  (o.  e,  p.  100).  A  me  però,  valga  il  vero,  esso  non 
sembra  né  cosi  notevole  né  cosi  singolare  da  esserne  sforzato  a  concludere  ohe  il  Santo  Calabrese  sia  proprio 
uno  degli  attori  del  Dialogo.  Ciò  avverrebbe  quando  si  potesse  dimostrare  che  quella  di  paragonare  alla  angelica 
la  vita  claustrale  è  una  trovata  di  S.  Nilo.  E  invece  è  facilissimo  provare  il  contrario  ;  esser  questa  cioè  consuetu- 
dine comune  di  tutti  gli  scrittori  ascetici.  Nella  Biografia  stessa  di  S.  Nilo  succede  più  e  più  volte  di  veder  costui 
chiamato  uomo  di  angelica  apparenza  (Miqne,  o.  c,  c.  Ili) ;  vestito  di  angelico  abito  {rò  àfr'-""'»'  <'X'i('=^>  o.  e,  col.  31), 

III,  113),  angelo  incarnato  ('vdjpxo?  àrr^'-o?,  o-  e,  e.  42)  Nelle  Constitutiones  Monastica!  ohe  vanno  sotto  il  nome  di 
S.  BasiUo  [S.  P.  Nostri  Basilii  C'aes.  Capp.  Archìep.  Opp.Omnia,  ed.  Gaksier,  Parigi,  1722,  I,  II,  Cap.  XVIII,  p.  561), 
noi  troviamo  pure  i  cenobiti  paragonati  agli  angeli,  perchè ,  secondo  il  loro  esempio,  vivono  in  perfetta  concor- 
dia; e  questo  ravvicinamento  era  neU'ordine  Basiliano  divenuto  cosi  abituale,  che  delle  tre  categorie  di  monaci, 
in  cui  esso  dividevasi,  la  più  elevata  si  diceva  Ae'\i.i-(a.tta-/T\\yn{,  cioè  di  coloro  che  vestivano  il  grande  abito,  o 
abito  d'  angelo  (Ved.  Moroni,  Dizion.  di  Erud.  Stor.  Eccles.,  IV,  p.  178).  Mansit  in  celestibus  adirne  carne  iectus  Vite  sita 
celice  celis  iam  invectas....;  Fit  in  terris  socius  celicia  et  celis,  dice  di  S.  Brandano,  fattosi  monaco,  il  metrifioatore  della 
sua  leggenda  (E.  Martin,  Latein.  Uebcrsetz.  des  Allfranz.  Oed.  aiif  S.  Brandan  in  Zeilsclir.  fUr  detitach.  Alterth.,  s.  p., 

IV,  p.  2(X));  e  dell'eremita  S.  Paolo,  recte  si  porspiciat  gestum  viri  qiiivis,  Dici  potcst  angelus  vel  celestis  cims  (o.  e. 
p.  315).  Ancora  nel  sec.  XIV  fra  Giovanni  dalle  Celle,  rivolgendosi  ai  Gesuati,  li  apostrofa  cosi:  Voi  siete  angeli 
terrestri  (Ved.  Alcuni  Trattati  del  B.  Fra  Jacopo  da  Todi,  Modena,  1832,  p.  37).  Da  questi  esempi,  che  mi  sarebbe 
facile  moltiplicare,  consegue,  a  parer  mio,  ohe  il  rapporto  tra  l' epifonema  che  chiude  il  Ritmo  e  le  parole  pro- 
nunziate in  Monto  Cassino  da  S.  Nilo  dovrebbe  reputarsi  accidentale,  dato  che  realmente  esistesse.  Che  esista 
infatti  si  avrà  forte  ragione  di  dubitare  quando  meglio  si  esaminino  le  cose.  S.  Nilo  dico  che  il  monaco  è  un  an- 
gelo allora  che  angeliche  sono  le  suo  operazioni:  è  pacifico,  misericordioso,  fa  perpetuo  sagrificio  di  lode.  Ma  se 


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tanto  a  riconoscerne  1'  esistenza ,  ma  ad  esprimere  1'  opinione  che  il  poeta  abbia 
lasciato  libero  il  freno  alla  sua  fantasia,  e,  contessendo  nella  satira  «  fatti,  o  sup- 
posti, 0  già  passati  ed  antichi  »,  approfittato  largamente  della  licenza,  che  Aristo- 
tele prima  e  Orazio  poi  gli  avevano  concessa  :  quella  di  mentire  !  '  Il  rimedio ,  non 
c'è  che  dire,  è  peggiore  del  male. 

Questo  adunque  si  può  ritenere  assodato:  che  non  si  ha  alcun  plausibile  argo- 
mento per  credere  che  nel  Ritmo  sia  rappresentato  S.  Nilo.  Aggiungiamo  adesso 
che  nulla  permette  di  menare  buona  al  Rocclii  la  sua  supposizione  che  il  compo- 
nimento sia  una  satira;  perchè,  come  ha  già  dimostrato  il  Giorgi,'  in  tal  caso, 
non  solo  non  si  ha  più  maniera  di  accordare  l' una  con  1'  altra  le  due  parti  di  cui 
il  Ritmo  consta,  il  preambolo  cioè  con  il  dialogo;  ma  nemmeno  di  questo  si  ar- 
riva più  ad  ottenere  una  ragionevole  divisione.  Distrutta  anche  questa  credenza, 
che  non  ha  proprio  verun  fondamento,  nell'indole  satirica  del  Ritmo,  è  sottratto 
l'ultimo  puntello  all'edificio  già  pericolante  del  Rocchi.  E  mentre  esso  crolla,  noi 
ci  rivolgeremo  ad  esaminare  la  seconda  proposta  interpretazione,  che  amerebbe  ri- 
conoscere nel  Ritmo  un  contrasto  fra  due  personaggi,  non  reali,  ma  fittizi,  non 
storici ,  ma  simbolici,  che  raffigurano  cioè  la  regola  basiliana  messa  a  confronto  con 
la  benedettina  per  giudicare  quale  delle  due  debba  reputarsi  migliore.  ^ 

La  congettura,  che  nel  Ritmo  Cassinese  vengano  chiamate  a  paragone  le  isti- 
tuzioni monastiche  dell'  Oriente  con  le  Occidentali,  è,  convien  dirlo,  a  primo  aspetto 
attraenti ssima.  Ed  agevole  riesce  di  vederne  il  motivo,  ove  si  rifletta  alla  grande 
importanza  che  le  une  e  le  altre  assunsero  nelle  varie  e  dolorose  vicende ,  alle  quali 
andò  soggetta  l' Italia  meridionale  nel  Medio  Evo. 


al  contrario  è  incredulo,  invidioso,  crudele,  diventa  albergo  d'of;rni  nequizia  e  si  trasforma  in  demonio.  Quando 
alcuno  infatti,  conclude  il  Santo,  veste  l'abito  monastico,  esso  non  pitò  più  essere  itomo,  ma  è  angelo  o  demonio 
(MioNE,  o.  e,  e.  Ii8).  n  paragone  fra  1'  angelo  ed  il  monaco  si  fonda  qui  dunque  unicamente  sulla  parte  spirituale  : 
proprio  al  contrario  di  qirello  cbe  avviene  nel  Ritmo,  dove  solo  argomento  a  paragonare  l'Orientale  ad  un  an- 
gelo cava  l'Occidentale  dal  fatto  che  esso  vive  senza  soddisfare  ai  bisogni  del  corpo;  il  che  è  proprio  delle  cele- 
sti inteUigenze.  Fra  i  due  passi  non  v'è  adunque,  se  io  non  erro,  rassomiglianza  alcuna. 

Quanto  deboli  e  scarsi  gli  argomenti  che  coufortauo  la  tesi  del  Rocchi,  altrettanto  sono  copiosi  e  gagliardi 
quelli  che  la  oppugnano.  Dato  che  il  poeta  abbia  voluto  rappresentare  un  personaggio  reale,  alludere  a  fatti  ve- 
ramente avvenuti,  come  si  spiega  la  strana  noncuranza  iu  cui  egli  tiene  la  storia,  le  false  e  contraddittorie 
circostanze  con  cui  la  avviluppa  e  travisa?  S.  Nilo  era  notissimo  ai  Cassinesi  anche  prima  ohe  ponesse  stanza  in 
Valleluoio,  ed  il  rimatore  lo  presenta  come  un  ignoto?  S.  Nilo  veniva  da  Rossano,  dalla  Calabria,  ed  il  poeta  lo 
dice  arrivato  dall'Oriente,  dall'estrema  parte  del  mondo  conosciuto,  quasi  quasi  da  un  altro  mondo  {de,  qidUii 
mundii  benyo,  v.  29)?  Poiché  è  facile  capire  che  non  si  può  sostenere  sul  serio,  come  il  Roccm  fa  (o.  e,  p.  xxii  e  xxvi) 
che  con  le  parole  Oriente^  quiUu  imcndu,  un  abitante  del  principato  di  Capua  abbia  voluto  indicare  la  Calabria 
perchè  soggetta  all'  impero  greco!  Ma  non  basta.  Il  poeta  intende  di  mettere  in  burla  il  rigido  anacoreta,  e  per 
disporre  a  ciò  gli  uditori  fa  loro  dapprima  un  predicozzo  e  poscia  dipinge  l'uomo  ohe  vuole  schernire  come  tale 
che  al  solo  vederlo  incute  riverenza  e  timore?  (Rocchi,  o.  c,  p.  xxvni).  Ed  infine  lo  accusa  di  viver  nell'  ozio,  aspet- 
tando da  Dio  il  vitto,  quando  e  noto  per  testimonianze  molteplici  che  S.  Nilo  fu  del  lavoro  fautore  caldissimo  e 
ne  die  egli  stesso  prova  per  tuttala  vita?  (Rocchi,  o.  c,  p.  67).  Chi  abbia  stomaco  abbastanza  robusto  da  di^-erire 
queste  ed  altre  assurdità  (cfr.  Giorgi,  o.  c,  p.  ICO)  potrà  sostenere  che  nel  Ritmo  è  introdotto  S.Nilo;  anzi  che  esso 
è  un  dialogo  fra  S.  Nilo  ed  Aligerno!  (Rocchi,  o.  c,  p.  lviii). 

'  Roccm,  o.  e,  p.  XXIX. 

'  Op.  cit.,  p.  100. 

'  Cfr.  Giorgi,  o.  c,  yag.  'J9-100. 


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Quando  le  persecuzioni  iconoclastiche  del  .secolo  ottavo  costrinsero  ad  abbando- 
nare le  antiche  lor  sedi  molti  fra  quei  monaci,  ai  quali  San  BasiKo  aveva  imposte , 
perfezionate  e  mitigate  in  parte,  le  austere  discipline  dei  Padri  del  deserto,  essi  rin- 
vennero quasi  una  seconda  patria  in  quelle  provincie  della  Italia  inferiore,  le  quali 
per  la  secolare  diffusione  della  lingua,  per  costumi,  per  leggi,  per  governo,  si  po- 
tevano dir  semigreche.  E  ben  tosto  nell'  Aquilano,  nella  Puglia,  nella  Lucania,  in  Ca- 
labria, in  Sicilia  sorsero  numerosi  i  cenobi  basiliani,  mentre  fra  i  dirupi  e  nei  luoghi 
più  deserti  e  selvaggi  riparavano  gli  anacoreti  a  rinnovarvi  que' prodigi  di  ascetica 
virtù,  onde  andavano  famose  la  Palestina  e  l' Egitto.  Ben  è  vero  che  a  rallen- 
tare questo  rapido  sviluppo  del  monarchismo  orientale  sopraggiunsero  quasi  subito 
due  fatti  di  natura  assai  diversa,  ma  di  pari  efficacia:  la  rivalità  dell' ordine  be- 
nedettino e  le  incursioni  saracene  che  desolarono  nel  corso  del  nono  e  decimo 
secolo  il  mezzogiorno  della  penisola.  Ma  né  dall'  una  né  dalle  altre  i  Basiliani  si 
lasciarono  abbattere;  anzi,  nelle  tenebre  di  quelle  età  tristissime  la  loro  fama  parve 
sfolgorare  di  luce  più  viva,  ed  i  cronisti  e  gli  agiografi  vanno  a  gara  nel  celebrare  i 
nomi  di  molti  fra  loro  che,  dotati  di  virtù  profetica,  sorsero  fra  la  atroce  barbarie 
apostoli  indefessi  ed  eroici  di  civiltà  e  d' amore.  '  Così ,  quando  coHo  stabilirsi  della 
monarchia  normanna  si  pose  un  freno  alle  nefaste  invasioni  dei  pagani  ed  il  lungo 
periodo  di  sconvolgimenti  e  di  lutti  si  chiuse,  primo  a  risentire  i  benefici  della  pace 
riacquistata,  della  rinata  prosperità,  fu  l'ordine  basiliano.  Protetto  dai  principi,  ve- 
nerato dai  popoli,  esso  neE' undecime  secolo  ramificò  per  tutto  il  reame  rigogliosis- 
simo; la  Calabria,  la  Sicilia,  popolate  di  conventi,  parvero  ai  contemporanei  tramu- 
tarsi in  un  secondo  Egitto:  altera  Aegyptiis,  sanctorum  monacìiorum  jìarens  et  nutrix.  ' 
Il  grado  di  popolarità  e  di  floridezza,  raggiunto  verso  il  secolo  XII  dalla  re- 
gola basUiana,  era  dunque  troppo  grande  perché  non  dovesse  ingenerare  gelosia  e 
timore  negli  altri  istituti  monastici.  E  fra  questi  uno  sopratutto  seguiva  di  mal  occhio 
l'incessante  incremento  del  monachesimo  orientale,  quell'ordine  cioè  che  S.  Bene- 
detto aveva  stabilito,  e  che  fino  dalla  culla  si  era  al  Basiliano  contrapposto,  contra- 
standogli poi  vigorosamente  il  primato  sul  teatro  stesso  delle  sue  maggiori  vittorie.  Né 
avrebbe  potuto  essere  altrimenti.  Ambedue  le  regole  miravano  alla  medesima  mèta; 
ma  per  i-aggiungerla  battevano  vie  aifatto  contrarie.  Soverchia  appariva  ai  Benedet- 
tini la  rigidezza  dei  Basiliani;  questi  alla  lor  volta  accusavano  gli  avversari  di  ec- 
cessiva mitezza.  Soliti  a  dispregiare  il  corpo,  vilissimo  involucro  dello  spirito,  anzi 
peso  odiato  che  lo  incatenava  alla  terra,  gli  orientali  biasimavano  la  regola  latina 
che  concedeva  ai  monaci  l'uso  delle  carni;  i  Benedettini  mal  tolleravano  che  i  Ba- 
siliani, mettendo  in  non  cale  gli  infiniti  vantaggi  della  vita  cenobitica,  consideras- 


'  Cfr.  Rodotà  ,  o.  e,  Gap.  IV,  p.  102, 103.  Intorno  ai  Sunti  basiliani,  fioriti  nel  decimo  e  uell'nndeoimo  secolo, 
Kon  da  leggersi  le  belle  pagine  del  Tocco  {Veresia  nel  Stedio  Evo,  Lib.  II,  Cap.  V),  dove  essi  vengono  acutamente 
dimostrati  veri  precursori  dell'  Abate  Gioacchino. 

'  Verso  la  metà  del  secolo  undecimo  nel  Reame  di  Napoli  si  contavano  mille  conventi. l)asiliani;  cinque- 
cento ii(.Ua  Sicilia;  e  si  tace  degli  anacoreti,  sparsi  pei-  i  monti  od  i  baschi.  Ved.  Rodotà,  o,  c,  Cap.  IV.  p.  SJ. 


—  381  — 

sero  invece  la  eremitica  come  il  più  sublime  grado  della  perfezione  monastica.  ' 
Questi  dissidi  dovevano  dar  luogo  a  conteso  non  appena  i  due  oi'dini  si  trovassei'o 
di  fronte;  ed  infatti  anche  nel  secolo  decimo,  anche  ai  giorni  di  S.  Nilo,  giorni  di 
concordia  e  di  pace  in  cui  il  monachismo  greco  trovò  ricetto  nella  ròcca  stessa  del 
rivale,  in  Monte  Cassino,"  non  si  assopirono  mai  del  tutto;  ed  il  tempo,  in  luogo 
di  attenuarli ,  li  rese  ogni  dì  più  profondi  e  vivaci.  Che  essi  venissero  quindi  o  prima 
o  poi  a  manifestarsi  negli  scritti,  sarebbe  da  stimare  credibile  anche  se  ogni  prova 
mancasse.  Ma  ciò  non  avviene.' 

Ora  chi  credesse  il  Ritmo  Cassiuese  un  frutto  dei  dissensi  che  esistevano  nel 
secolo  XII  fra  i  due  ordini  e  lo  giudicasse  animato  da  un  intendimento  polemico 
ad  un  tempo  ed  apologetico:  quello  cioè  di  mostrare,  confrontando  colla  regola  ba- 
siliana  e  le  sue  intense  aspirazioni  ad  una  perfezione  agli  uomini  inconcessa,  la  bene- 
dettina e  r  aurea  discrezione  dei  suoi  precetti ,  come  questa  fosse  all'  altra  di  gran 
lunga  superiore;  chi  supponesse  ciò,  si  abbandonerebbe  ad  ipotesi  avventate?  Non 
si  direbbe  certamente.  Eppure,  se  noi  ci  accingiamo  a  giustificare  tali  congetture 
con  un  diligente  esame  del  Ritmo,  saremo  costretti  a  confessare  che  esse  pure  rie- 
scono insufficienti  a  renderne  chiaro  lo  scopo  e  il  significato. 

E  le  prime  difficoltà  ci  si  offrono  nel  preambolo.  Questo,  del  quale  l' intento 
risulta  manifestissimo  quando  si  consideri  il  Ritmo  come  un'esortazione  ai  pecca- 
tori, perchè,  abbandonate  le  vie  del  vizio,  si  volgano  al  porto  della  salute,  rimane 
invece  incomprensibile  per  chi  giudichi  animato  l' autore  da  altre  intenzioni.  «  Io , 
scrive  egli  infatti,  se  parlo  domando  la  vostra  attenzione;  iìiterpello,  chieggo  conto 
di  questa  vita  e  vi  dò  buone  novelle  dell'  altra.  Dall'  altezza  ov'  io  dimoro , 
addito  altrui  il  cammino,  e  come  la  candela  posta  all'aperto,  rischiara,  ardendo  sé 


'  Fra  i  precetti  divulgati  da  Sant'Antonio,  andava  primo  quello  di  non  mangiar  mai  carni,  divieto  che,  a 
quanto  attesta  S.  Girolamo  (Epist.  ad  Emloch.  XXII,  in  S.  Eus.  nUronimi  Opp-,  ed.  Vali.absi,  Verona,  1734,  I,  117),  i 
padri  del  deserto  osservavano  nel  modo  più  rigoroso.  .S.  Basilio,  che  pur  temperò  in  qualche  parte  le  rigide  norme 
degli  asceti  orientali,  conservò  intatta  questa  prescrizione;  e  non  solo  nelle  Regole,  ma  in  tutti  i  suoi  scritti  si 
rinvengono  caldissime  lodi  dell'astinenza,  del  digiuno,  del  quale  aiizi  egli  dice  simbolo  la  vita  di  Adamo  nel  pa- 
radiso terrestre.  (Ved.  Opp.,  T.  II,  p.  3,  p.  360,  e  singol.armente  le  due  Omelie  sul  digiuno,  T.  III,  p.  1  e  segg.)  Assai 
presto  però  questa  proibizione  parve  eccessiva;  già  Giovanni  Cassiano,  che  pure  ammira  la  stupenda  astinenza 
di  quegli  anticlii  padri,  di  cui  descrive  le  istituzioni,  confessa  che  il  digiuno  è  da  adattare  alla  natura  delle 
persone  (.Opp.  omnia,  cum  comm.  d.  A.  Gazaei,  Francofurti,  1722,  Libri  de  Instit.  C'oenob.  L.  V,  Gap.  V).  L'  autore 
delle  gi.à  ricordate  C'onstitutiones  Monastica:  è  anche  più  esplicito  ;  egli  giunge  ad  affermare  che  chi  mangia  unica- 
mente per  sostentarsi  non  deve  esser  stimato  inferiore  a  chi  digiuna;  e  si  scaglia  anzi  con  efficaci  parole  contro 
chi,  credendo  giovare  allo  spirito,  estenua  soverchiamente  il  corpo  (Basilii  Opp.,  T.  Ili,  p.  646,  n.  4;  e  ofr.  anche 
p.  459  e  614).  S.  Benedetto  non  fece  quindi  che  obbedire  ad  una  vera  necessità  quando  nella  sua  Regola  raddoloi  la 
proibizione  di  mangiar  cai'ne,  concedendone  1'  uso  ai  deboli  e  agli  ammalati. 

'  Nei  primi  tempi  del  suo  soggiorno  a  Sant'  Angelo  di  Vallelucio  S.  Nilo  ammirava  a  tal  segno  le  istitu- 
zioni benedettine,  da  anteporle  alle  greche,  lldvu  Si,  scrive  il  suo  biografo,  noti  a'jxòi  iyauOsis  km  Tri  sóraj'.?  irs^ai- 
ò'£u.uiv7|  xaTOtaTJtaa  ajrùv,  xoi  9au(iicras  tì  aOrùv  hnip  rei -hiiùv  (op.  oit.,  e.  125).  Egli  scrisse  allora  un  inno  in  lode  di 
S.  Benedetto  (BodotA,  o.  c,  p.  49);  ma  ciò  nondimeno  ebbe  anch' egli  a  difendere  V  abito  ed  il  rito  greco,  attaccati 
dai  Cassinesi.  Ved.  Tocco,  op.  cit.,  p.  39", 

'  I  due  ordini  vengono  sempre  contrapposti  dagli  scrittori.  Un  di  loro  anzi,  Goffredo  di  Vendòme,  ne  fa  ri- 
saltare con  un  opportunissimo  paragone  la  differenza.  La  Regola  basiliana,  egli  dice,  può  rassomigliarsi  al  vec- 
chio testamento;  la  benedettina  al  nuovo,  come  quella  che  è  sancta,  siiavis  et  ìems....  et  ruatre  virtutum,  discretione 
scilicet,  piena.  Ved.  Rodotà,  op;  cit.,  p.  50. 


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stessa,  la  via,'  cosi  io  a  voi  faccio  lume  e  vi  iusegno  quanto  so.  »  Codeste  intenzioni 
che  il  poeta  tanto  apertamente  manifesta,  devono  di  necessità  trovarsi  giustificate 
nel  ritmo.  Ma  se  questo  contenesse  invece  che  una  apologia  della  vita  spirituale, 
una  polemica  suUa  maggiore  o  minore  bontà  di  due  istituzioni ,  che  per  diverse  vie 
pur  convergono  al  medesimo  fine ,  come  si  potrebbe ,  a  meno  di  tacciare  1'  autore 


'  Non  meno  che  il  resto  del  componimento  anche  questo  preambolo  presenta  difficoltà  gravi;  taluna  anzi 
addirittura  insormontabile.  Implorata  nei  primi  quattro  versi  T  attenzione  degli  uditori  ed  accennato  lo  scopo  al 
quale  intende  {de  questa  bita  interpello  e  dell'altra  bene  spello),  il  poeta  si  volge  poi  a  giustificare  la  sua  libertà  di 
parola:  Poik'  enn  alfa  me  'ncastello  ad  altri  bia  renubello  Em  mehe  cendo  flagello.  Questi  tre  versi  sono  stati  oggetto  di 
svariate  interpretazioni,  e  taluno  ha  creduto  che  l'autore  vi  faccia  un'esplicita  allusione  alla  sua  condizione  di 
monaco  di  Monte  Cassino  (Navose,  op.  cit.,  p.  20);  altri,  interpretandole  allegoricamente,  vuole  riferirle  al  castello, 
al  palagio  della  celeste  sapienza  (Bòhmer,  op.  cit.,  p.  U4).  Che  il  poeta  parli  metaforicamente,  niun  dubbio.  Ma 
piuttosto  che  all'  elevatezza  della  sua  dottrina  io  preferirei  veder  nelle  sue  parole  un'allusione  allo  stato  monastico 
ch'egli  aveva  abbracciato.  Non  è  raro  infatti  trovare  paragonata  la  vita  claustrale  a  quella  di  chi  suole  dimorare  in 
luogo  elevato  ed  inaccessibile;  il  già  citato  poemetto  latino  su  S-  Brandano  ce  ne  porge  cosi  acconcio  esempio  in 
questi  versi:  Pasaer  iste  mìsticus  et  pusilli  status  Ad  montanum  evolat  statura  monachatus  (op.  cit.,  p.  290).  Noterò  poi,  ri- 
spetto airiKC(W(eHars(,  che  in  documenti  medievali  si  trova,  benché  raramente,  usato  un  verbo  C(i^(f!terc,  che  vale  non 
solo  abitare  in  un  castello,  ma  anche  semplicemente  dimorare  in  qualche  lunqo  (V.  Du  Gange,  s.  v.),  e  che  in  italiano  la 
voce,  che  niun  dizionario  registra,  occorre  anche  in  Fha  Jacopone  {C'untici,  ed.  Modio,  IX,  p.  36):  Or  pensa  gli  enca- 
stellati  Co  so  attenti  al  veghiare.Tl  verso  Em  mebe  cendo  flagello  è  fra  quelli  che  hanno  sino  a  qui  dato  più  da  fare  agli 
interpreti:  molti  de' quali  giudicarono  doversi  leggere  £  mme  be[n]cendo  flagello,  e  di  conseguenza  spiegare:  Me 
vincendo  flagello  (Federici,  Baudi  di  Ves.ue,  Rocchi,  Bohsiee).  Ma  questa  congettura  perde  assai  di  valore  ove 
si  rifletta  esser  ben  più  probabile  ohe  il  poeta  abbia  scritto  mebe  ohe  me  (cfr.  le  altre  forme  pronominali  tebe, 
64,  66,  sebe  5,  vebe  7,  non  nuove  nei  dialetti  del  mezzogiorno),  ed  esser  poco  ammissibile  quindi  l'errore  di  scrittura 
che  dovrebbe  darci  il  bencendo.  Io  sono  quindi  d'avviso  che  debba  scriversi,  come  fa  il  Navone,  em  mebe 
cendo  flagello-  Ma  ohe  sarà  quel  cendo?  Certo  non  un  verbo,  poiché  ne  abbiamo  già  uno  in  flagello.  Non  sarebbe 
forse  fuori  dì  proposito  il  sospetto  che  nella  seconda  parte  di  cendo  si  nascondali  solito  ndc,  ne,  {mende,  8,  diconde 
ivi).  Basterebbe  supporre,  come  mi  fa  osservare  il  Rajna,  che  il  copista  nostro  o  il  suo  esemplare  avessero  dimen- 
ticato di  compiere  Ve,  aggiungendo  il  coronamento  superiore.  Ma  la  prima  i^arte  resterebbe  pur  sempre  oscura; 
poiché  non  si  vede  a  che  quel  ce  {Ice?)  si  riferisca,  È  quindi  soltanto  un  po' arbitrariamente  che  si  può  spiegare  cosi 
il  testo  :  poiché  io  sto  in  alto,  rinnovo  agli  altri  la  via  e  mi  flagello,  cioè  mi  faccio  del  danno,  come  ne  fa  a  se  stessa  la 
candela,  la  quale  consumandosi  luce  altrui.  Tale  infatti  è  il  significato  dei  due  versi  che  seguono.  Et  arde  la  candela 
sebe  libera  Et  altri  mnstra  bia  dellìbera,  dove  è  alquandp  oscuramente  espresso  un  paragone,  caro  agli  scrittori 
medievali,  e  pienamente  dichiarato  da  queste  parole  di  A.  Neckam:  Quid  dicere  opus  est  quod  candela  accensa  lucet 
aliis,  aliis  ntilis  est,  sedcumsni  dispendio?  Sic  ìionnumquain scientia ,  fideliter  auAitoribus  impressa,  ipsis  non  mediocrem 
nmm  affert,  domino  tamen  proprio  nullum  allatura  profectum.  (De  naturis  rer.,  ed.  Wkigiit,  London,  1863,  p.  58).  La 
similitudine  é  poi  passata  dagli  ascetici  ai  poeti,  ed  avviene  di  rinvenirla  presso  i  trovadori.  Peire  Baoion  comin- 
cia per  r  appunto  con  essa  una  canzone  (Maun,  Werke,  I,  p.  137):  Atrcssi  citm  la  candela  Que  si  meteissa  dcstrui  Per 
far  clardut  ad  autrui,  Chant,  on  2>lus  trac  greu  martire,  Per  plazer  de  V  autra  gen.  Altrettanto  fa  in  una  graziosa 
canzone,  che  si  aggira  tutta  su  codesto  tema,  Perein  d'  Akgecouet  {Il  covient  qu'en  la  cliandoile;  ved.  Hist.  Lift,  de  la 
Fr.,  XXIII,  823,  e  Raynacd,  Bibliogr.  des  Chans.  Frane,  des  XIII  et  XIV  siici,  n,  p.  62):  Et  alors  a  tei  vertu  De  f aire 
V  antimi  servise  Tant  qu'ele  est  arse  et  remise.  Et  Je  sui  touz  en  tei  guise  etc.  Dalla  lirica  d'  oltremonti  il  paragone,  al 
pari  d'altri  molti,  è  pa.ssato  nella  nostra  (Navone,  op.  cit.,p.  109,  Gaspauv,  La  scuola  x>oet.  sicil.,  p.  96).  L'epiteto  di 
libera  che  dà  però  qui  il  poeta  alla  candela  mi  lascia  sospettare  che  egli  avesse  pure  a  mente  la  celebre  similitu- 
dine di  S.  Maiteo  {Evang.  V,  34),  divulgatissima  nel  Medio  Evo.  —  Riprendendo  1»  interpretazione  data  dal  Fede- 
Bici,  il  Rocchi  ed  il  Bòumeb  vedono  nella  frase  muslra  bia  dellìbera,  che  essi  leggono  via  del  Libera,  un'al- 
lusione alla  preghiera  cosi  chiamata  che  fa  il  sacerdote  durante  la  messa.  Credo  che  questa  opinione  si  possa 
sicuramente  dir  i&lsA.  Dellìbera  non  può  valere  qui  che  libera,  sgombra,  tale  che  vi  si  può  camminare  con  passo 
franco,  perchè  si  vede  senza  inciampi.  —  Et  eo  sence  abbengo  culpa  iactio  Por  vebe  luminaria  factio  Tuttabia  mende 
abbibatio  E  dìconde  quello  ke  sactio....  e' alla  scrittura  bene  platio....  Qui  sorgono  nuovi  intoppi,  a  cagione  di  quel 
sence  abbengo  culpa  iactio  che  è  addirittura  inintelligibile.  I  più  vecchi  editori  del  Ritmo  aveano  letto  Iactio  e 
spiegavano  e  io  se  bene  abbia  di  colpa  laccio  (Baudi  di  Vesme);  altri  come  il  Federici,  seguito  dal  Rocchi  e  dal 
BciiiMKR,  senza  averci  colpa;  cosi  che  per  gli  uni  il  poeta  si  direbbe  peccatore,  per  gli  altri  no.  Il  codice  in  realtà 
legge  iactio,  non  Iactio;  ma  questa  nuova  lezione  non  rischiara  per  nulla  il  verso,  ohe  io  rinuncio  a  spiegare. 


—  383  — 

di  stravagante  incoerenza,  trovare  nel  dialogo  la  esplicazione,  la  prova  dei  consigli 
dati  nel  prologo  ? 

Né  se,  lasciato  questo  in  disparte,  ci  volgeremo  a  studiare  il  dialogo,  ci  verrà 
fatto  di  togliere  di  mezzo  i  nostri  dubbi.  Essi  al  contrario  cresceranno  rapidamente. 
Due  uomini,  cosi  comincia  il  racconto,  movendo  da  diverse,  anzi  opposte,  direzioni, 
si  incontrano,  né  è  detto  dove,  sali'  albeggiare  e  si  chieggono  reciprocamente  noti- 
zie dell'  esser  loro. 

E  qui  ci  si  fa  innanzi  un  primo  intoppo.  La  seconda  strofa ,  colla  quale  il  dia- 
logo aveva  principio,  è  disgraziatamente  così  malconcia  nel  codice,  che  dei  nove 
versi  di  cui  constava,  soltanto  sei  ne  rimangono,  e  senza  legame  fra  di  loro: 

Qnillu  (l'oriente  pria  altia  l'occlu  si  llii  spia 

addemandaulu  tuttabia  corno  ei-a  corno  già. 


«  Frate  meu  de  quillu  mundu  bengo , 
loco  sejo  et  ibi  me  combengo.  >  ' 


Questi  due  ultimi  versi  racchiudono,  come  è  chiaro,  una  risposta.  Chi  la  dà? 
Il  Baudi  di  Vesme  pensa  sia  l'Occidentale,"  e  con  lui  s'accordano  nel  crederlo  il 
Navone'  ed  il  Bòhmer.'  Ora,  posto  ciò,  noi  dovremo  credere  che  col  quillu  del  verso 
seguente  (Qtdllu,  auditu  stu  respusu)  sia  indicato  1'  Orientale,  che,  incoraggiato  da 
una  benevola  risposta  {honu  et  cmiurusu),  invita  l'altro  a  fermarsi  seco  lui  e  lo  sup- 
plica a  permettergli  alcune  interrogazioni.  E  l' Occidentale  accondiscende  non  meno 
graziosamente  di  quanto  avesse  già  fatto. 

Cosa  volesse  domandare  l'Orientale,  una  disgraziatissima  lacuna  ci  vieta  ora  di 
saperlo.  Ma  probabilmente  egli  chiedeva  ed  otteneva  ragguagli  sulla  vita  che  l'altro 
conduceva  nel  paese  donde  era  venuto;  tanto  infatti  si  deduce  dai  versi  che  seguono, 
i  quali  contengono  la  conclusione  che,  uditi  i  racconti  dell'  Occidentale,  ne  traeva 
l'Orientale.  «Io  credo,  egli  dice,  a  tiitto  quanto  mi  hai  raccontato  intorno  alia 
vostra  dignità.  Adesso  chiariscimi  d'un' altra  cosa.  Poiché  voi  menate  sì  felice  esi- 
stenza, quali  vivande  mangiate?  Sono  esse  così  saporite,  così  gustose  come  le 
nostre?  »  "  L'  Occidentale  si  adonta  di  tale  richiesta.  «  Di  quali  scellerate  vivande 
parli  tu?  ei  prorompe.  Noi  abbiamo  vivanda  purgata,  una  perfetta  vigna,  che  sem- 
pre dà  frutto.  In  essa  noi  ritroviamo  tutto  ciò  di  cui  abbiamo  desiderio,  e  il  solo 
vedere  ci  sazia.  »"  L'Orientale  a  tal  risposta  trasecola.  «  0  qualvita  conducete  voi, 
se  non  mangiate  né  bevete?  Io  non  so  come  un  uomo  che  né  mangia  né  beve,  siman- 


'  Navoke,  o.  0.,  p.  107. 
'  Op.  cit.,  p.  41. 
'  Op.  cit.,  p.  104. 
'  Op.  cit.,  p.  144. 
'  vv.  43-48. 
'  vv.  49-56. 


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tenga  in  vita.  »  '  L'  altro  allora  gli  dà  della  sua  meravigliosa  asserzione  una  spiega- 
zione anche  più  meravigliosa.  «Noi  non  mangiamo  ne  beviamo,  perchè,  non  ne 
proviamo  mai  alcun  bisogno.  »"  «  In  tal  caso,  osserva  l'altro,  voi  non  siete  uomini, 
ma  angeli.  »  '  E  il  dialogo  è  terminato. 

Ora,  quando  si  distribuisca  il  dialogo  fra  1'  Orientale  e  1'  Occidentale  come  si 
è  fatto,  resta  possibile  il  riconoscere  in  esso  un  contrasto  fra  due  monaci,  uno 
de'  quali  intende  a  far  persuaso  1'  altro  che  la  regola  da  lui  seguita  è  inferiore  alla 
propria?  Niuno,  pare  a  me,  potrebbe  affermarlo.  Che  se  volesse  farlo,  vegga  prima 
a  quali  assurdità  andrebbe  incontro.  Come!  è  il  monaco  Basiliano,  il  rappresentante 
cioè  di  queir  ordine  che  imponeva  ai  suoi  adepti  un  tenore  di  vita  rigidissima,  che 
considerava  suprema  lode  nell'asceta  l'astinenza  da  ogni  cibo,  il  quale  messo  a  tu 
per  tu  con  i;n  benedettino ,  non  si  preoccupa  quasi  d'  altro  se  non  di  chiedergli  no- 
tizie su  quello  che  mangia,  e  per  di  più  vuol  sapere  se  si  nutrisca  di  vivande  tanto 
delicate  e  gustose  quanto  quelle  di  cui  egli  è  solito  cibarsi?*  E  sarebbe  un  Benedet- 
tino, il  quale  sta  a  raffigurare  quella  regola,  che,  mite  fin  dagli  inizi,  era  andata 
col  volgere  del  tempo  raddolcendosi  a  tal  segno  da  essere  non  solo  riguardata  come 
di  tutte  la  più  indulgente,  ma  da  porgere  amplissimo  argomento  a  fieri  rimbrotti;  ' 


'  vv.  56-62. 

-  Uomo  ki  fame  unqua  non  sente  Non  è  sitiente,  dico  qiii  il  testo;  ed  è  sentenza  ben  strana,  anzi  addirittura 
jiiiva  di  significato.  Il  Rocom  però  ha  creduto  non  inutilmente  spese  due  pagine  a  dimostrare  che  se  la  sentenza, 
presa  in  maniera  assoluta,  è  falsa,  tuttavia,  «  interpretata  giusta  un  senso  spirituale  »,  può  reggere,  perchè  verrebbe 
a  dire  «  che  chi  può  reprimere  la  fame  potrà  molto  più  facilmente  la  sete  »  (o.  e,  p.  63).  Per  quanto  sottile  l'argo- 
mentazione del  Roccm  non  persuade  me,  come  non  ha  persuaso  il  Bòhmer,  il  quale,  giudicando  corrotto  il  testo. 

cosi  lo  restituisce: 

[Quìllu]  homo  ki  [la]  fame  unqua  non  sente 

[Ni  ki  unqua  mai]  non  è  sitiente 

[di]  qued  a  besonju,  tebe  saccente, 

de  manducare,  de  bib(o)re  niente? 

Il  rimedio  è,  per  verità,  troppo  violento;  ed  io  preferisco  togliere  l'incongruenza  avvertita  con  una  modifi- 
cazione del  testo  assai  più  lieve.  Si  supponga  infatti  che  il  oopi.sta  abbia  per  orrore  scritto  non  è  in  luogo  di  vim  ? 
(«è  è:  off.  homo  ki  nini  6ciie,v.60).  e  basterà  perchè  il  senso  corra  chiarissimo,  e  insieme  col  senso,  soppressa  la  pausa 
dopoiifiCKfe  ed  il  punto  fermo  dopo  bibere,  anche  il  periodo: 

Homo  ki  fame  unqua  non  sente  nim  è  sitiente 
Qued  a  besonju,  tebe  saccente,  de  manducare,  de  bibere  niente? 
•  '  vv.  63-72. 

'  Navone,  pag.  104. 

"■  Che  ben  grave  fosse  la  corruzione  in  cui  sullo  scorcio  del  secolo  XII  ora  caduto  l'ordine  di  S.  Bene- 
dotto,  ninna  testimonianza,  frale  parecchie  che  si  potrebbero  citare,  lo  mostra  meglio  dello  eloquenti  in- 
vettive di  cui  fa  segno  i  suoi  confratelli  1'  Abate  Gioacchino.  AUquanta  regule  capitula ,  scrive  egli  in  un  passo 
che  credo  utile  riferire  (fiomm.  ad  Apocal,  Gap.  3,  Text.  4,  fol.  80,  e.  3),  ita  absorta  siint  ac  si  non  ea  sanctus  Benedicins 
edideril,  nt  est  precipue  de  opere  manuum  et  de  abstinentia  ciborum  acpotus;  quod  ideo  accidisse  cognoscitur,  quia 
dum  divites  esse  voluerunt  sub  regala  paupertatis,  facti  sunt  dilicati  et  teneri;  facti  sunt  invalidi  et  infirmi;  facti 
sunl  quibus  lacte  opus  sii,  non  solido  cibo.  Me  mirum  Quis  enim  miquam  Inter  divitins  et  delitias  potuit  tenere  ino- 
pem  vitam  et  castitatis  i)roj)OSitum  ubi  multi  sunt  cibif  E  poco  appresso,  accennati  altri  e  peggiori  vizi  ai  quali  ì 
monaci  s'  abbandonavano,  riprende  a  battere  sul  chiodo  del  digixrno:  Tunc  sunt  vere  monachi,  si  de  labore  mammm 
suariim  vivant;  quod  omncs  ab  esu  carnìum  abslincri  dcbeant,  preter  omnino  debiles  et  egrotos ;  qiwd  duo  imlmenta 
coda  quotidie  patribus  sufficere  debeant....  quod  sic  vino,  quod  omnino  monacliorum  non  est,  liti  liccat,  ut  nunquam 
lamen  usque  ad  ebrietatem  et  salietatem  bibamus.  E  non  meno  corrotti  degli  italiani  i  monaci  d'oltremente,  so  un 
poeta  popolare  vi  poteva  schernire,  come  notoria,  per  bocca  di  Renart,  la  ghiottornia  dei  Benedettini:  Il  manjuent 
fourmages  motis  Et  poissons  qui  ont  h-s  gros  cous:  Saint  Benoil  le  nons  commandc  Que  ja  n'aions  pejor  viande  {Roman 


—  385  — 

che  pronuncierebbe  il  curioso  predicozzo ,  da  cui  risulta  che  egli  ed  i  suoi  compagni 
di  nuli' altro  si  pascono  che  della  vista  di  una  vigna?  Nò  vi  è  modo  di  eludere  la 
difficoltà  ricorrendo,  come  altri  ha  ingegnosamente  tentato,  all'allegoria  e  cavan- 
done motivo  di  credere  che  il  cibo,  del  quale  si  discorre,  sia  spirituale,  non  già  cor- 
poreo ;  e  che  cosi  1'  Orientale,  chiedendo  all'  altro  di  quaU,  vivande  sia  solito  gustare ,  in- 
tenda domandargli  in  simbolico  linguaggio,  con  quali  studi ,  con  quali  letture  educhi 
e  nutra  il  suo  intelletto.'  Non  si  può,  ripeto,  reputare  simboliche  queste  domande, 
dal  momento  ohe  1'  autore  stesso  ci  ammonisce  doversi  interpi-etare  alla  lettera  le 
sue  parole,  quando,  alla  richiesta  del  primo  interlocutore,  «  Ma  se  voi  non  mangiate, 
come  riuscite  a  mantenervi  in  vita?  »;  fa  rispondere  dall'altro  con  un  discorso  che 
pretende  offrire  deUa  cosa  una  luminosa  ed  irrefutabile  dimostrazione:  esser  cioè  fa- 
cilissimo fare  a  meno  di  mangiare  e  di  bere  per  chi  di  soddisfare  a  questi  bisogni 
della  carne  non  prova  mai  la  necessità.  Strane  parole,  che,  sia  prese  in  senso  alle- 
gorico, sia  letterale,  conducono  a  conclusione  più  strana.  Giacché,  se  noi  le  inten- 
diamo figuratamente ,  udremo  de'  monaci  confessare  che  di  esercitare  ed  erudire  con 
pie  letture  la  loro  mente  non  si  curano,  perchè  di  farlo  non  hanno  veriin  bisogno: 
se  poi  le  spieghiamo  letteralmente,  sentiremo  questi  stessi  monaci  affermare  che 
essi  erano  avvezzi  a  vivere  senza  mangiare,  perchè  la  vista  di  una  vigna  bastava  a 
saziarli.  E  se  la  prima  conclusione  è  assurda,  questa  diviene  addirittura  ridicola. 

Se,  spaventati,  ed  a  buon  dritto,  dalle  conseguenze  alle  quali  siani  giunti,  ci  ri- 
faremo sui  nostri  passi  e  tenteremo  di  distribuire  in  altra  maniera  il  dialogo,  evi- 
teremo in  parte  le  difficoltà  che  abbiamo  incontrate,  ma  urteremo  perù  contempo- 
raneamente in  altre  non  meno  gravi.  Si  provi  infatti  a  vedere  se,  posti  in  bocca 
all'  Orientale,  suonino  meglio  que'  discorsi  che  sulle  labbra  dell'  Occidentale  riuscivano 
tanto  incongrui:  si  ammetta  che  primo  ad  introdurre  il  discorso  sia  questo,  non 
quello.  '  Ed  allora  il  dialogo  parrà  suUe  prime  assumere  un  andamento  più  logico  e 
naturale;  giacché  è  assai  più  conveniente  che  colui  il  quale  giunge  da  remoto  e 
misterioso  paese  sia  interrogato  sulla  sua  vita,  le  sue  consuetudini,   di  quello   che 


de.  Renart,  ed.  Martin,  in,  Sò'ì-òg);  anzi  le  invettive  ohe  S.  Bernardo  e  Guiot  de  Provins  scagliano  contro  i  Clunia- 
censi  (S.  Beenaedo,  Apol.  de  vita  et  morib.  religios.,  in  Opp-,  II,  p.  236  e  segg.;  Guiot  de  Peovins,  Bible,  in  Méon,  Scc. 
de  Cont.  et  Fabl.,  II,  p.  304  e  segg.)  sono  anche  più  virulente  e  più  gravi  di  quelle  dell'Abate  Gioacchino.  A  qual 
grado  di  abiezione  fosse  poi  sceso  verso  il  seo.  XIII  lo  stesso  ordine  di  S.  Basilio,  mostrano  i  fatti  narrati  dal  Ko- 
DOTi,  0.  0.,  p.  130  e  segg. 

'  Così  il  Bohmek:  Dar  Orientale,  der  nicht  merkt,  dass  dcr  Andcrc  in  dem  liohen  Stiì,  in  dem  cr  angefangen  halle 
SII  reden,  von  MitteJn  geistigen  Lebens  spricht,  uiid  bcsonders  an  litterarische  Kant  denkt,  gerillh  in  edle  Bntriiatmig 
Uber  die  Genussmcìd  des  Andern:  «  Was  filr  ein  zmsinnigea  Wort!  •  rufl  er  mis.  «  Wie  toar  das  ilbel  erdacM?  Wo  in 
aXUr  Welt  lia^t  du  deine  vermchte  Kost  geatccht?  Wo  liast  du  aie  au/gespeichert?  »  Wir,  iat  die  Antioort,  haben  rcine 
Koat,  die  Benedici  bereitet  hai,  einen  volkommenen  Weinberg  eco.  (o.  e,  p.  14i-15). 

'  Questo  ha  fatto  il  Rocchi,  il  quale  induce  l'Occidentale  a  muovere  all'  Orientale  le  domande  intomo  aUa 
vita  che  esso  conduce,  ai  cibi  di  cui  fa  uso,  ecc.  Ma  egli  cade  poi  in  un  cimoso  controsenso,  non  evitato  nem- 
meno dal  BònMEE,  facendo  rispondere  l' Occidentale  stesso  alle  domande  che  egli  aveva  fatte  !  È  curioso  poi  il 
vedere  come,  mentre  il  Bohmer  cerca  di  ridurre  la  menzione  tanto  dei  cibi  quanto  della  vigna  ad  un  senso  al- 
legorico, il  Roccm  invece  si  affanni  ad  asserire  che  la  pcr/ecta  binja  era  una  vigna  vera  e  propria,  dei  frutti  della 
quale  si  nutrivano  i  Cassinosi,  ed  almanacchi  per  scoprire  a  quale  fra  i  vigneti  che  il  Cenobio  possedeva  nel  sec.  X 
abbia  potuto  alludere  il  rimatore!  (o.  e,  p.  52). 


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iuterroghi  egli  stesso  altrui.  Ma  ben  tosto  eccoci  ricaduti  nel  solito  inesplicabile  con- 
trosenso ;  alla  domanda  infatti  che  gli  vien  mossa  sulle  vivande  di  cui  fa  uso,  l' Orien- 
tale si  sdegna,  e,  rimproverando  il  suo  curioso  interlocutore,  afferma  che  egli  vive  senza 
toccar  cibo.  E  l' asserzione ,  piu"  trattandosi  di  un  asceta  orientale ,  non  è  per  questo 
meno  bizzarra;  poiché,  se  è  certo  che  gli  anacoreti  della  Tebaide  o  più  tardi  quelli 
della  Calabria  seppero  portare  ad  un  grado  mirabile  veramente  1'  astinenza  ed  il 
digiuno ,  di  nessuno  di  loro  però  gli  agiografi  anche  più  creduli  riferitori  di  prodigi 
hanno  ardito  affermare  che  sapesse  mantenersi  vivo  senza  mangiare  mai  né  mai 
bere.  E  del  resto,  dato  anche  che  ad  una  così  stravagante  conclusione  avesse  voluto 
venire  1'  autore  del  Ritmo ,  non  vi  sarebbe  mai  modo  di  veder  in  questo  una  apologia 
della  regola  benedettina.  Al  contrario ,  esso  verrebbe  a  risolversi  in  un  iperbolico 
elogio  della  austerità  del  monachismo  greco ,  in  cui  la  parte  meno  onorevole  la  rap- 
presenterebbe quel  Benedettino,  il  quale  osa  parlare  ad  un  uomo,  dedito  tutto  allo 
cose  celesti,  di  godimenti,  se  ignobili  per  loro  natura  sempre,  per  lui  ignobilissimi. 
Ora  è  desso  possibile  un  panegirico  della  regola  basihana,  che  conchiude  per  suo- 
nar biasimo  alla  latina,  quando  il  Ritmo  si  attribuisca,  come  é  probabile  che  vada 
attribuito ,  ad  un  Cassinese  ? 

Da  qualunque  parte  adunqiie  si  rivolga  il  passo,  la  via  resta  senza  uscita;  né 
v'  è  maniera  di  sostenere  più  oltre  la  opinione  già  esposta.  Non  solo  il  Ritmo  non 
può  stimarsi  un  contrasto  fra  due  monaci  appartenenti  a  diversi  ordini;  ma  non  si 
può  nemmeno  ammettere  che  esso  intenda  ad  esaltare  le  istituzioni  benedettine. 

Eppure,  odo  obbiettarmi,  che  di  queste  istituzioni  si  tratti,  lo  mostra  un  fatto, 
che  toglie  valore  e  forza  ad  ogni  dimostrazione  in  senso  contrario.  Dice  uno  dei  per- 
sonaggi di  sé  e  de' compagni  suoi:  Bidand'  ahemo  purgata  da  henitiu  preparata.  Ora, 
dove  si  può  rinvenire  una  più  chiara,  aperta ,  precisa  allusione  allo  stato  monastico 
di  codesto  interlocutore  del  componimento  ?  La  vivanda  preparata  da.  Benedetto  che 
altro  sarà  se  non  la  regola  claustrale  da  questo  Santo  istituita? 

Che  la  frase  da  henitiu  prepiarata  sia  da  giudicar  quella  appunto  che,  rendendo 
più  fitte  e  più  impenetrabili  le  tenebre  che  essi  volevano  diradare,  ha  maggior- 
mente contribuito  a  mettere  sopra  una  falsa  strada  tutti  coloro  che  si  sono  fin  qui 
stillati  il  cervello  intorno  al  Ritmo  nostro,  non  può  esser  dubbio.  E  per  essa  soltanto 
ohe  si  è  ingenerata  nell'  animo  dei  più  la  persuasione  che  il  componimento,  o  in 
un  modo  o  nell'altro,  finisse  per  essere  una  apologia  della  regola  benedettina.  Ep- 
pure in  essa  vi  ha  qualche  cosa  di  così  grave,  di  così  inesplicabile,  che  avrebbe  do- 
vuto metterli  sull'  avviso. 

Da  henitiu  preparata  si  deve  intendere,  così  dicono  tutti,  preparata  da  Benedetto. 
Ma  in  quale  dei  volgari  italiani  ed  in  qual  tempo  ed  in  qual  modo,  domanderò  io, 
può  la  parola  henedictus  essersi  trasformata  in  un  henitiu,  forma  che  viola  ed  offende 
ogni  più  nota  legge  di  derivazione  ?  '  Che  henedictus  abbia  dato  henedìctu  e   quindi 


'  Il  solo  Rocchi  ha  avvertita  la  singólax'itii  di  questa  l'orma.  «  Non  ho  alti-o  volgai'ismo ,  cui  riscontrare  so 
non  che  la  voce  Benito  degli  Spagntioli  »  egli  scrivo  (o.  e,  p.  52):  ma  da  Benito  a  Benitiu  co  ne  corre!  Supposta  an- 


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hnnedittn  nei  dialetti  meridionali  è  chiaro  ;  ma  che  no  sia  potuto  in  questi  stessi  dia- 
letti uscir  fuori  un  benitiu,  è  assurdo  soltanto  il  supporlo. 

Sotto  questo  mostruoso  henit'm  nou  sarà  duncpie  celato  un  errore?  0,  meglio, 
non  sarà  il  caso  di  credere  che  gli  illustratori  del  Ritmo  non  hanno  saputo  interpre- 
tare a  dovere  le  parole  da  benitiu  preparata  ?  Si  badi  al  luogo  che  esse  occupano  nel 
testo.  Il  poeta  sta  descrivendo  una  vigna,  che  ha  proprietà  meravigliose;  è  questa 
2)ei'fecta  binja  piantata,  de  tuttu  tenpu  fructata,  che  offre  la,  j)urgata  vivanda,  della  quale 
si  ciba  uno  dei  protagonisti  del  componimento.  0  che  in  questo  caso  da  benitiu  pre- 
parata debbasi  scomporre  e  leggere,  non  da  benitiu,  ma  bensì  dab  enitiu  preparata;^ 
apparecchiata  dal  principio  del  mondo,  ab  initio  mundi?  Ci  pensino  i  lettori;  questa 
vigna,  che  è  perfetta,  purgata,  che  in  ogni  stagione  porta  frutti,  nella  quale  si  rin- 
viene quanto  si  brama,  che  pasce  altrui  della  sola  sua  vista,  nou  può  essere  altra 
cosa  che  la  vigna  del  Signore,  quella  che  simboleggia  la  vita  eterna,  il  regno  cele- 
ste, che  Iddio  ha  preparato  fin  dal  principio  del  mondo  per  quegli  eletti  a  cui  tutto 
concederà  quanto  vorranno  domandargli.  ' 

Eliminato  cosi  questo  ostacolo,  che  pareva  a  primo  aspetto  insuperabile,  noi 
potremo  adesso  più  francamente  asserire  che  il  Rimatore  non  ha  mai  pensato  a  met- 
tere in  scena  de'  monaci,  i  quali  disputino  fra  di  loro  sulla  bontà  degli  ordini  a  cui 
appartengono  o  cospirino  coi  loro  discorsi  a  fare  l' apologia  di  una  determinata  isti- 
tuzione. Basiliani  come  Benedettini  qui  non  hanno  davvero  nulla  a  che  vedere. 

Ma  in  questo  caso  che  mai  ha  voluto  fare  1'  Autore  ?  Vediamo  adesso  di  sco- 
prirlo: e  dacché  i  sentieri  fin  qui  battuti  non  hanno  saputo  condurci  alla  mèta,  ten- 
tiamo una  via  inesplorata.  E  forse  il  bandolo  dell'  intricata  matassa ,  invano  ricercato, 
sipreseuterà  spontaneo,  quando,  in  luogo  di  ostinarci  a  vedere  nel  Ritmo  un  eco  più  o 


che  la  caduta  del  d,  qui  neppur  essa  ammissibile,  avremmo  sempre  Boieito,  ad  una  notevole  dist.anza  da  benito; 
non  mai  benitiu. 

'  Nel  codice  la  linea  33  termina  colla  sillaba  da  e  con  benitin  comincia  la  3i.  Questa,  se  non  m' inganno,  è 
forse  stata  la  cagion  prima  che  ha  indotto  gli  editori  tutti  del  Ritmo  a  ritener  da  benitiu  due  distinto  parole.  Sic- 
come però  il  copista  cassinese  è  solito  spezzare  in  fine  di  linea  le  parole  (ofr.  linea  6,  13,  32,  89),  cosi  parmi  lecito 
supporre  che  egli  abbia  diviso  anche  dabenitiu,  cedendo  alle  esigenze  dullo  spazio,  non  già  perchè  volesse  indicare 
che  era  da  leggere  piuttosto  da  benitiu  che  dab  enitiu.  Né  mi  pare  che  si  possa  trovar  occasione  a  i-igettare  la  mia 
congettura  in  quel  dab,  ohe  è  forma  inusitata;  giacché  non  è  punto  impossibile  che  nella  preposizione  nostra  da, 
la  quale  si  ritiene  comunemente  risultare  da  de-\-ad,  sia  venuto  anche  a  confluire  anche  de-\-ab.  E  del  resto  la 
frase  «6  initio,  che  ricorre  tanto  di  sovente  e  sempre  con  un  senso  determinato  ed  uguale  nelle  sacre  pagine 
(cfr.  poncELUNi,  s.  v.)  potrebbe  esser  stata  considerata  dallo  scrittore  nostro  come  una  sola  parola  e  fatta  quindi 
precedere  dalla  preposizione  da. 

■  Venite,  benedicti  Fcdris  mei;  pos3idete  regnum  vobis  paratimi  a  constitulione  mundi.  Matth.,  XXV,  34. 
Omnia  qucecumque  petieritis.  —  Id.  XXI,  22.  È  ben  noto  quanto  ricorrano  frequenti  nelle  saere  carte  le  .lUegorie 
tratte  dalla  vigna:  e,  per  tacere  dei  molti  passi  della  Bibbia  ove  la  Chiesa  di  Dio  si  vuol  raffigurata  sotto  Pimmagine 
di  una  vigna  piantata  e  coltivata  dal  Signore,  basti  citare  quel  celebre  luogo  di  S.  Giovanni  (JSc.  XV,  1):  .  Io  sonla 
vera  vigna  e  mio  padre  S  il  vignaiuolo....  io  sono  la  vigna  e  voi  i  tralci....  »  I  più  antichi  documenti  della  tradizione 
ecclesiastica  riproducono  le  medesime  idee,  e  la  vigna  ricorre  cosi  in  monumenti  scritti  come  figurati  a  simboleg- 
giare non  solo  la  Chiesa,  ma  il  Paradiso,  la  vera  terra  promessa,  ed  apche  il  mistero  eucaristico.  Ved.  Mar- 
TiGXY,  Dict.  des  Antiq.  Chréticnnes,  Paris,  1877,  p.  796  e  anche  W.  Smith,  Dici,  of  Clirist.  Antiq.,  London,  1S80,  II, 
p.  2018.  Nulla  di  più  naturale  quindi  olie  della  trita  allegoria  si  sian  giovati  anche  i  poeti  volgari.  Così  un  troviero 
della  Fiandra,  Jran  de  Doui,  ha  composto  un  Sermone  rimato.  Li  Dis  de  la  Vigne,  in  cui  paragona  la  coltivazione 
della  vigna  alle  cure  che  richìeile  il  servizio  divino.  {Hist.  Littér.,  XXni,  p.  252). 


—  388  — 

meno  fedele  di  fatti  storici,  o  almanco  reali,  lo  considereremo  come  una  pura  alle- 
goria ed  i  suoi  personaggi  quali  esseri  fantastici,  astratti,  creati  dal  poeta  per  me- 
glio dichiarare  ai  suoi  uditori  quelle  dottrine,  delle  quali  li  aveva  cliiamati  a  gu- 
stare la  salutare  essenza. 

Ed  è  appunto  1'  autore  che  ci  assicura  esser  questa  la  .via  che  si  deve  seguire , 
quando  a  quei  versi  del  prologo,  nei  quali  ha  manifestate  le  cause  che  lo  indussero 
a  scrivere,  ne  fa  seguire  altri  che  suonano  cosi: 

Aio  nova  dieta  per  fegura, 

ke  da  materia  no  sse  transfegura 

e  ccoir  altra  bene  s'  afi'egnra. 

La  figura  desplanare  ca  poi  lo  bollo  pria  mustrare  :  ' 

Il  discorso  ha,  manco  a  dirlo  !  parecchio  del  sibillino.  Tuttavia  il  concetto  del 
poeta  si  afferra  abbastanza  facilmente:  egli  afferma  che  ha  da  esporre  nuovi  detti, 
i  quali,  sebbene  siano  da  intendere  figuratamente,  pure  non  s'  allontanano  per  que- 
sto dalla  materia  presa  a  trattare,  ma  con  essa  bene  si  confanno.  Ora,  la  materia 
presa  a  trattare  è  la  vanità  di  questa  vita  e  la  necessità  di  conseguire  1'  altra;  nel 
componimento  dunque  il  poeta  svolgerà  una  narrazione  allegorica,  della  quale 
quindi  verrà  a  dichiarare  il  significato.  Questa  dichiarazione  però,  questo  desplanare 
la  figura,  noi  li  cercheremmo  invano  nel  Ritmo  quale  ci  è  giunto,  poiché  esso 
termina  bruscamente  con  il  racconto,  e  nemmen  questo  forse  è  compiuto.  Più  che 
probabilmente  adunque  alla  lacune  già  avvertite  nel  Eitmo,  è  da  aggiungerne 
un'  altra  alla  fine:  nel  codice  cassinese  il  componimento  è  mutilo. 

Ecco  dunque  come,  a  mio  avviso,  è  da  interpretare  il  Ritmo.  Il  poeta,  che  era 
probabilmente  un  monaco,  fors' anche  un  cassinese,  e  fioriva  in  iin'età,  della  quale 
non  si  possono  determinare  con  precisione  i  limiti,  ma  che  deve  credersi  non  ante- 
riore all'undecime,  non  posteriore  al  secolo  decimosecondo,  desideroso  di  fare  espe- 
rimento del  proprio  ingegno,  e  nel  tempo  stesso  riuscire  giovevole  agli  altri,  si  è 
accinto  a  dettare  una  esortazione  a  coloro  che,  immersi  nel  fango  dei  terrestri  go- 
dimenti, non  sanno  innalzare  a  più  eccelsa  mèta  i  loro  sguardi,  per  indurli  a  scuo- 
tersi dal  torpoi'e  ed  assorgere,  purificati,  alla  contemplazione  delle  gioie  oltremondane. 
E  per  rendere  non  solo  più  efficaci  i  suoi  ammonimenti,  ma  anche  più  comprensibili 
al  o-rosso  intelletto  dei  suoi  rozzi  uditori,  ha  stimato  opportuno  rivestirli  di  forme 
concrete,  direi  quasi  palpabili,  e  di  coprirli  della  veste  trasparente  dell'apologo, 
della  allegoria.  Perciò  ha  foggiati  due  personaggi,  dei  quali  l'uno,  vir  magnu  a  pru- 
dente, vestito  forse  delle  lane  monacali,  '  sta  a  raffigurare  1'  uomo  dedito  alla  vita  spi- 


'  Il  GioKGi  scrive  lìcsplauare ;  e  per  verità  nel  ood.  fra  Vn  e  l'it  vi  sono  dello  incertezze  e  facilmente  imo 
esser  prosa  una  lettera  per  l'altra.  Ma  ohe  qni  si  sia  scritto  desplauare  non  mi  riesce  credibile. 

'  Uso  di  una  forma  dubitativa,  perchè,  se  mi  pare  ben  probabile  che  r  Autore  dovesse  considerare  incarnata 
nel  monachismo  la  perfezione  spirituale  e  quindi  facesse  un  monaco  del  personaggio  che  la  simboleggia,  non  trovo 
però  nel  Eitmo  indizio  veruno  cbo  permetta  di  affermarlo  con  la  sicurezza,  di  cui  altri  di\  prova.  Erroneo  è  in- 
fatti por  chi  abbia  a  mente  l'uso  larghissimo  che  si  faceva  nel  Medio  Evo  del  titolo  ài  fi-afelio,  il  vedere  nel/j-n/c, 
con  cui  più  volte  i  due  personaggi  si  apostrofano,  un'  allusione  alla  loro  condizione  (Rocchi,  o.  c,  p.  xxui).  Ad  ogni 


—  380  — 

rituale;  l'altro  a  simboleggiare  quello  che  giace  sotto  l'impero  dei  sensi.  Ed  in 
bocca  al  primo,  che  giunge  da  una  regione  ignota  e  misteriosa,  anzi  oltremonda- 
na, '  ha  posto  parole  che  descrivono  le  gioie  di  una  esistenza,  sciolta  da  ogni  lac- 
cio terreno;  gioie  che  dall'Occidentale,  incapace  di  raffigurarsi  altri  godimenti  che 
non  siano  quelli  a  cui  aspira,  son  riputate  simili  a  quelle,  di  cui  fruiscono  in  que- 
sto mondo  coloro  che  son  detti  felici;  perciò  egli  chiede  se  anche  le  vivande  laggiù 
siano  così  saporite  e  gustose  come  qui.  E  quando  ode  rispondersi  che  di  vivande 
non  fa  bisogno  in  quel  beato  paese,  accoglie  con  incredulità  e  stupore  la  xisposta  e 
protesta  che  il  suo  interlocutore,  se  vive  senza  cibarsi,  non  deve  esser  un  uomo.  E 
cosi  il  dialogo  non  poteva  terminare;  ma  l'Orientale  probabilmente  proseguiva  ed 
induceva  con  i  suoi  discorsi  uell'  animo  dell'  Occidentale  un  santo  desiderio  di  co- 
noscere egli  pure,  ripudiate  le  mondane  e  fallaci  lusinghe,  quella  soprannaturale  fe- 
Kcità,  di  cui  gli  era  dipinto  Im  tanto  incantevole  quadro.  Ed  a  questo  punto  doveva 
riprendere  la  parola  lo  stesso  poeta,  e,  chiudendo  il  suo  componimento,  avvertire  che 
i  due  personaggi  non  erano  che  simboli,  l' imo  della  vita  terrena,  l'altro  della  cele- 
stiale, e  che  per  conseguire  il  perpetuo  possesso  di  questa,  faceva  mestieri  dispre- 
giare qidstu  mundu  gaudebele  ke  V  iinu  e  W  altru  face  mescredebele. 

A  chi  ora  mi  domandasse  se  io  creda  che  questo  piano,  se  non  molto  artiiizioso 
pure  abbastanza  bene  architettato,  sia  uscito  dalla  mente  del  nostro  Rimatore  o  non 
piuttosto  egli  1'  abbia  preso  a  prestito  da  altri,  non  saprei  dare  una  categorica  ri- 
sposta. Argomenti  infatti  non  mancano  a  favore  cosi  dell'una,  come  dell'altra  sup- 
posizione. In  quella  scrittura,  ben  due  volte  ricordata  nel  preambolo,  alla  quale  il 
poeta  è  lieto  di  accordarsi  ed  a  cui  vuole  pongan  mente  gli  uditori,  taluno  potrebbe 
vedere  indicata  la  fonte ,  della  quale  il  Nostro  si  è  giovato,  fonte  che  egli  cita  come  te- 
stimonianza della  veracità  dei  suoi  racconti,  a  quel  modo  stesso  che  nei  giullareschi 
cantari,  da  cui  egli  ha  certo  tolta  a  prestito  la  formola  con  la  quale,  cominciando  a  par- 
lare, chiede  ai  Signori  che  1'  attorniano  attenzione  e  silenzio ,  viene  ricordata  a  sazietà 
la  letre,  il  iivre,  la  storia.  ""  Si  potrebbe  in  questo  caso  supporre  che  egli,  avendo  sot- 
t' occhio  uno  di  que' componimenti  parenetici  latini,  de'  quali  era  così  doviziosa  la 
letteratura  monastica  del  Medio  Evo ,  siasi  proposto  di  volgerlo  nell'  idioma  del  vol- 
go, perchè  questo  pure  potesse  fruire  delle  salubri  dottrine  ai  dotti  soltanto  acces- 
sibili. Ma  potrebbe  anche  darsi   che   la   menzione   del  testo  fosse  presso  il  Nostro 


modo,  se  è  monaco  l'Orientale,  che  si  conviene  coi  suoi  soci  nella  dimora  donde  è  partito  (iòi  me  combengo,  v.  30),  non 
può  esserlo  certamente  1'  Occidentale. 

'  Il  contrasto  fra  quel  mondo,  quiìln  mundu  donde  1'  Orientale  giunge  (v.  29)  e  questo ,  di  cui  si  p.arla  nel 
Proemio,  quistu  mundu;  le  vivande  celestiali  e  queste  nostre  (v.  48),  è  troppo  chiaro  ed  aperto  perchè  non  debba  te- 
nersene gran  conto  da  noi. 

•  La  formola  d'introduzione  è  quella  solita  adoperarsi  dai  giullari,  che  troviamo  usata  anche  dai  poeti  mo- 
rali popolari;  Ugucoione  da  Lodi  (ed.  Tobler,  v.  235-2^9);  gli  autori  della  Passione  di  Gesù  Cristo  {Stud.  di  FU. 
Eoiiu,  II,  243)  ;  dell'  Amore  di  Gesti,  (Mussafia,  3Ion.  ant.  di  dìaì.  itah  in  Sitz.  der  ìc.  Ak.  der  Wiss.,  XLVI,  158  ,  e  infiniti 
altri.  Più  comune  l'uso  di  interpellare  l'uditorio  con  il  nome  di  (/ente  o  buona  gente  presso  costoro;  non  mancano 
però  casi,  in  cui  si  trova  adoperato  quello  di  signori  e  magari  unito  all'altro:  Signuri,  bona  gente.  Fonate  core  e 
mente  Alte  sauté pnroìe,  scrive  Buccio  di  Eanallo  (Mussafia,  Ziir  Katliarinenìeìi-,  Wien,  1883,  p.  23). 


—  390  - 

nuli' altro  che  uua  gherminella,  essa  pure  solitamente  adoperata  dai  giullari,  per 
accrescere  autorità  alle  proprie  parole.  Ad  ogni  modo,  anche  se  il  Rimatore  non  ha 
ricorso  ad  una  fonte  determinata,  non  è  però  da  escludersi  che  egli  abbia  fatto  suo 
prò  di  tradizioni  e  di  racconti  già  ai  tempi  suoi  divulgati.  Se  si  raccolgono  gli  ele- 
menti essenziali  del  suo  allegorico  racconto,  sarà  facile  avvertire  come  essi  manife- 
stino singolari  rapporti  con  quelle  leggende,  popolarissime  nel  Medio  Evo,  che 
descrivevano  sotto  forme  diverse  sì,  ma  pur  sempre  strettamente  collegate,  quel  beato 
soggiorno,  da  cui  l'umanità  era  stata  bandita  per  il  delitto  del  primo  parente:  il 
paradiso  terrestre.'  Questo  ideale  paese,  già  sogno  dell'antichità,  nelle  tradizioni 
medioevali  è  quasi  sempre  descritto  come  una  plaga  deliziosa,  collocata  nell'estremo 
oriente ,  ricca  d'  ogni  tesoro ,  abitata  e  custodita  dagli  angeli ,  tale  ancora  quale  Id- 
dio la  creò  al  principio  del  mondo.  Chi  giunge  per  avventura  a  scoprirla,  a  var- 
carne la  soglia  vietata,  non  prova  jjìù  alcun  bisogno,  alcuna  sofferenza;  non  la 
fame,  non  la  sete,  non  freddo,  non  sonno;  né  tristezza,  né  infermità  veruna.  Perde 
ogni  nozione  del  tempo;  i  secoli  pajono  giorni  per  lui  che,  giovane  sempre,  quan- 
tunque gravato  dalla  spoglia  corporea,  diviene  simile  alle  angeliche  intelligenze.  " 
Ora,  per  quanto  è  lecito  arguire  dai  frammenti  che  ne  rimangono,  press' a  poco 
uguale  nelle  linee  principali  era  a  queste  la  descrizione  del  soggiorno ,  donde  uno 
degli  interlocutori  del  Ritmo  proviene.  '  Anche  in  questo  ignoto  paese,  collocato, 


'  Ved.  Maurt,  Lt  Paradis  Terrestre  in  Notw.  Enciclopédie  (ed.  Didot);  A.  Geap,  La  leggenda  del  Paradiso 
Terrestre  (Torino,  1875),  E.  Beautois,  L'Elysée  transatlantique  de  VEden  Occidental  (Paris,  1884). 

■  Una  deUe  forme  sotto  le  quali  la  leggenda  è  stata  più  popolare  nel  Medio  Evo,  devesi  senza  dubbio 
ritenere  quella  cbe  narra  il  viaggio  del  monaco  irlandese  Brandano  alla  Terra  Repromissionis  Sanctorura  (Ved.  Jcbi- 
NAr,,  La  legende  latine  de  S.  Brendaines  (Paris,  183"),  Suoni  er,  Brandnns  Se^ahrt,  in  Jìom.  Stiid.  I,  553  e  segg.,  F.  Mi- 
chel, Le  voyage  merveilleux  de  S.  Brandan  (Paris,  1878),  per  tacer  d'  altri.  Orbene,  in  questa  leggenda  il  meraviglioso 
paese  è  cosi  descritto:  Sicut  vides  modo,  ita[ista  insula]  ab  initio  mundi  permanet.  Indiges  aliquid  cibi-aut  potus  aiit 
vestimentif  Ptr  «imm  enim  annum  es  in  hac  insula  et  non  gustasti  de  cibo  atit  de  potu;  nunquam  fuisti  oppressus  sonino, 
lìec  nox  te  coopemit.  Dics  namque  est  sine  ulta  cediate  tenebrarum  hic.  Nelle  redazioni  posteriori  della  Peregrinano 
dive  navigano  Beati  Brandani  la  terra  promessa  offre  una  profusione  di  tesori  e  dì  gemme;  particolari  questi  in 
esso  confluiti  dalle  descrizioni  affini  della  Gerusalemme  Celeste.  Lo  stesso  regno  dei  cieli  è  dipinto  dai  SS.  Padri 
come  un  eterno  verziere,  dove  i  beati  si  inebbriano  del  profumo  dei  fiori.  Inde  per  eximios  paradisi  regnai 
odores  Tempore  continuo  vernant  uhi  gramina  rivis,  dice  una  iscrizione  cristiana  dell  V  secolo,  edita  in  De  Bossi, 
Inscr.  C'hrist.  Urbis  liomae,  I,  p.  141,  n.  817.  E  ofr.  Maktignt,  o.  c,  p.  674. 

"  Le  gravi  lacune  che  esistono  nel  Ritmo  Cassinese  ci  vietano  dì  verificare  quanto  la  dignitate,  la  gloria,  il 
disduUu,  in  cui  vivono  1'  Orientale  ed  i  suoi  compagni,  risponda  nei  suoi  particolari  alla  beatitudine,  della  quale , 
secondo  le  leggende  ricordate,  fruiscono  nella  terra  promessa  dei  Santi  o  nel  paradiso  deliziano  gli  avventurati 
che  vi  penetrano.  Qualche  raffronto  tuttavia  si  può  fare,  e  non  senza  interesse.  Sì  rammenti  la  mistica  vigna, 
dove  vien  fatto  di  ritrovare  tutto  quanto  si  desideri: 

en  quale  cumqua  causa  delectamo 

tutta  quella  binja  lo  trobaio....  (v.  55-56) 
E  si  ofr.  più  oltre  : 

Quantnnqua  dou  petite  tnttu  lo  'm  balia  tenete  (v.  70). 

Orbene:  l'adempimento  d'ogni  desiderio,  non  appena  venga  concepito,  ò  appunto  uno  de'  più  singolari  privilegi, 
de' quali  godano  gli  abitanti  del  paradiso  terrestre.  «  Ogni  piacere  che  a  noi  dilettava,  tutti  gli  avevamo  a  compi- 
mento »,  dice  S.  Brandano  nella  leggenda  italiana  (Vu-lari,  op.  cit.  p.  105);  e  nella  francese  si  afferma  altrettanto: 
Chi  ci  estrat....  De  tuz  ses  bovs  anra  plentet;  <^'o  que  plus  est  sa  voluntet,  Cel  ne  pei'drnt,  suurs  en  est;  Tuz  dis  Vaurat  et 
truvrat  presi  (Micnioi. ,  op.  cit.,  p.  85).  Anclie  nell'  immaginario  paradiso  terrestre  che  Kenart  descrive  ad  Isengrin 
per  indurlo  a  scendere  nel  ponzo,  b  questa  una  delle  più  lusinghiere  attrattive:  X'estovoit  cele  rien  rover  Qu'en  ne 
poilsl  Hoc  trover....  De  toz  biens  ert  li  lius  garnis.  (Rom.  de  Ren.  ed.  Martin,  vi.  619-'.ì0,  e  cfr.  iv,  ii6n.)  La  stessa  vigna, 


—  391  — 

pare,  nel!'  estremo  Oriontc  ,  nella  più  remota  parte  del  mondo ,  per  non  dire  in  un  altro 
mondo,  regna  etorna  letizia;  ogni  bisogno  vi  si  acqueta ,  ogni  brama  si  appaga  nella 
contemplazione  di  una  mirabile  vigna,  perpetuamente  adorna  di  frutti.  Io  non  diro 
adesso  che  questa  terra  idoleggiata  dalla  fantasia  del  Rimatore  sia  proprio  il  Pa- 
radiso Deliziano  o  la  Terra  promessa  dei  Santi;  ma  certo  si  è  che  fra  queste  rappre- 
sentazioni e  la  nostra  troppe  e  troppo  -singolari  rassomiglianze  intercedono ,  perchè 
non  si  debba  inferirne  che  il  nostro  rimatore  conosceva  codeste  creazioni  già  tradi- 
zionali, e  che,  pur  rifoggiandole  ed  elaborandole  a  modo  suo,  ne  ha  cavato  partito. 
E  d'  altronde  il  sentimento  onde  queste  fantastiche  narrazioni  sono  sgorgate,  è 
pur  sempre  il  medesimo:  quell'aspirazione  all'annientamento  pieno  del  corpo,  al- 
l'assoluta prevalenza  dello  spirito  sulla  materia,  all' «Zto  nichilitade,  che  è  in  tiitte 
le  religioni  l' ideale  sublime  ed  inafferrabile  dell'  ascetismo. 

Quale  valore  possano  avere  le  congetture  che  io  sono  venuto  esponendo ,  altri 
dovrà  giudicarlo.  A  me  basti  soggiungere  come  non  abbia  con  esse  preteso  di  scio- 
gliere vittoriosamente  il  problema  ;  di  presentare  del  Eitmo  Cassinese  una  interpre- 
tazione atta  a  dileguare  ogni  incertezza,  ogni  dubbio.  A  tanto  non  potrebbe  riuscire 
se  non  chi  conoscesse,  per  lo  meno,  nella  sua  integrità  il  componimento:  non  quindi 
lacunoso  e  monco,  quale  lo  possediamo.  Ma  se  anche  le  mie  indagini  si  riputassero 
prive  di  risultati  positivi,  non  per  questo  saranno  del  tutto  infeconde.  Se  non  ad 
altro,  esse  avranno  giovato  a  dimostrare  come  ninna  delle  interpretazioni  sin  qui 
escogitate  del  Eitmo  Cassinese  regga  alla  prova  di  un  accurato  esame. 

F.   NOVATI. 


de  ttittu  tempii /ruotata ,  appartiene  alla  classe  di  quelle  meravigliose  piante  crescenti  nella  celestiale  dimora,  che 
sono  in  ogni  stagione  cariche  di  frutti:  Fructua  in  annos  est,  cum  tempora  nesciat  anni,  come  scrive  nel  suo  Hexaeme- 
ron  (I,  63)  Dracokzio.  E  come  nel  Ritmo,  da  queste  ragioni  si  è  indotti  a  chiamare  angelici  gli  abitanti  in  tutte 
le  leggende  del  Paradiso  terrestre.  Angelici  cives  meenia  nostra  tenent,  dicono  Enoch  ed  Elia  ai  naviganti  bret- 
toni, dei  quali  descrive  il  viaggio  Goffredo  da  Viterbo  (Pantheon,  P.  II,  in  PisTonius,  Gcrmnn.  Scrii)t.  etc,  Franco- 
furti, 1.584,  col.  80);  e  gli  antichissimi  Atti  di  S.  Maclodio  raccontano  come  questi  movesse  con  S.  Brandano  verso 
un'isola,  in  qua  fama  ferebatur  coelicos  cioes  inhabitare  {Acta  S.  Madodii  citati  dai  Bollandisti  negli  Acta  Sanctor. 
Maii,  III,  602).  S.  Brandano  stesso,  l'avventurato  scopritore,  ne  ottiene  nelle  leggende  pie  del  tempo  il  sopran- 
nome d'Angelo  (Rem  S.  Cartliagus  prophetatus  est  ab  Angelo  S.  Brandano  qui  int'enit  terram  Repromissionis  Sancto- 
ìtcm  etc. —  (Vita  5.  Cartftaci,  Bollano.,  t.  cit.,  pag.  378), 

'  Io  non  mi  arrischierò  in  conseguenza  a  ricercare  quale  di  queste  leggende  più  specialmente  abbia 
avuta  presente  alla  memoria  il  nostro  poeta;  ma  non  posso  però  a  meno  di  far  notare  come  il  nome  famosissimo 
per  tutta  Europa  del  monaco  irlandese  Brandano,  dovesse  suonare  in  Monte  Cassino  doppiamente  caro  e  riverito, 
perchè  una  antica  ti-adizione  lo  diceva  ascritto  alla  regola  di  S.  Benedetto.  1  Bollandisti  dubitano  assai  che  questa 
pretesa  abbia  buon  fondamento  ;  ma  ciò  non  toglie  che  nel  catalogo  dei  Santi  Benedettini  fosse  ascritto  per  tutto  il 
Medio  Evo  S.  Brandano,  e  che  ve  lo  lasciasse  ancora  il  Tritemio  (Bolland.,  t.  cit.,  pag.  603).  Di  più,  fra  i  codici  scritti 
in  Monte  Cassino  sul  cadere  del  sec.  XII  uno  ve  ne  era  ed  ancor  si  conserva,  che  conteneva  la  Vita  S.  Brendnui 
(Cabavita,  op.  cit.  I,  p.  283);  e  fra  i  propri  scritti  Pietro  Diacono,  l'operosissimo  monaco  iìorito  nel  secolo  seguente, 
ne  registra  uno  intitolato  De  terra  repromissionis  Sanctoruni  (CARAvrrA,  op.  cit.,  I,  p.  288),  che  non  sarebbe  arditezza 
soverchia  stimare  un  rifacimento  della  Peregrinatio  S.  Brandani. 


DELLA    OUANTITA    PER    NAITRA 

DELLE    VOCALI   IN   POSIZIONE. 


Si  è  fino  a  jeri  insegnato  in  tutte  le  scuole  di  latino  e  s'insegna  anche  oggi  in 
molte,  che  la  vocale  può  esser  lunga  o  per  natura  o  per  posizione;  e  la  Regia  Par- 
nassi nota  con  un  identico  segno  l'una  e  l'altra  lunghezza,  scrivendo,  poniamo, 
viortuus  come  mótus  e  sim.  Ma  negli  ultimi  decenuii  si  è  venuto  maturando 
nella  mente  di  più  dotti  un  concetto  diverso  ;  secondo  il  quale  la  lunghezza  per  po- 
sizione è  propria  della  sillaba,  non  della  vocale  che  ne  fa  parte,  e  la  vocale  per  sé 
stessa  può  esser  ivi  così  breve  come  lunga,  né  più  né  meno  che  quando  é  fuori  di 
posizione.  La  quantità  della  vocale  in  posizione  non  avrà  alcuna  conseguenza  pra- 
tica nella  versificazione,  e  la  prima  sillaba  di  mòrtuiis  (cfr.  mori)  varrà  nel  verso 
tanto  quanto  la  prima  di  pròmptus  (cfr.  pròmcre),  e  così  ci  mancherà  il  più  va- 
lido dei  mezzi  onde  accertare  la  quantità  delle  vocali  in  ogni  singola  parola.  Ma 
non  per  questo  saremo  in  tutto  privi  di  qualche  scandaglio  anche  per  le  vocali  in 
posizione,  e  ad  ogni  modo ,  manchi  o  no  a  noi  lo  scandaglio ,  "fuor  d' ogni  dubbio 
è  che  i  Latini  dovevano  porre,  ad  es.,  tra  Vo  di  mortuus  e  Vo  di  promptxos 
queUa  stessa  differenza,  qual  ch'ella  si  fosse,  che  ponevano  fra  Vo  di  mori  e  1' o 
di  promere. 

Oramai  questo  concetto  è  divenuto  abbastanza  comune ,  ed  accenna  a  voler 
penetrare  nelle  scuole  mezzane,  come  ce  ne  dà  indizio  soprattutto  il  Manualetto  or 
son  circa  due  anni  pubblicato  dal  Marx.  ' 

È  un  concetto,  ben  inteso,  che,  se  con  fatica  è  tornato  a  galla  nel  secol  no- 
stro ,  pegli  antichi  Latini  doveva  essere  affatto  semplice  e  naturale.  Quand'  anche 
non  ne  avessimo  le  prove  dirette,  bisognerebbe  a  priori  affermare  che  Cicerone, 
p.  es.,  e  Quintiliano,  e  tutti  i  loro  contemporanei,  avendo  il  senso  vivo  della  lin- 
gua, e  pronunziando  essi  e  sentendo  pronunziar  dagli  altri  Vo  di  mortuus  diver- 
samente dall' 0  di  p  rompi  US  e  via  via,  avessero  un'idea  chiara  del  significato 
ristretto  che  ha  l'attribuzione  dell'identico  peso  nel  verso  alla  prima  sillaba  così 
dell'  una  come  dell'  altra  voce.  Ed  anche  quando   l' esatta  distinzione   qiiantitativa. 


'  HiilfsbUchUin  fiir  die  Aussprache  der  latelHìSchen  Voìcale  in  positioìislanijeii  SiWcn  von  Anton  Mai 
Vonoort  von  Franz  Buchelbb;  Weidmanu,  Berlin,  1883. 


—  394  — 

tra  le  vocali  lunghe  e  le  brevi,  venuta  meno  nella  parlata  quotidiana,  rimase  sol- 
tanto come  una  tradizione  letteraria  dei  poeti,  degli  oratori  e  dei  grammatici,  è  na- 
turale che  per  gran  pezzo  codesta  tradizione  conservasse  abbastanza  fedelmente  la 
px'onunzia  dei  tempi  classici;  cosicché  i  grammatici,  poniamo,  del  III  o  del  IV  sec. 
d.  C,  non  solo  dovessero  ricordare  in  complesso  la  possibilità  che  vocali  in  posizione 
differissero  tra  loro  per  la  quantità  naturale ,  ma  anche  esser  degni  di  fede  quando, 
echeggiando  norme  già  formulate  nei  tempi  aurei,  prescrivono  di  pronunziare 
lunga  o  breve  la  vocale  di  lina  singola  voce  o  serie  di  voci.  Ma,  allorché  il  divario 
tra  la  pronunzia  del  latino  vivo  e  quella  del  latino  colto  si  fu  fatto  sempre  più 
profondo  e  inveterato,  e  la  letteratura  e  la  civiltà  tutta  si  fu  viepiù  offuscata,  e  la 
tradizione  grammaticale  fu  divenuta  più  artificiale,  più  magra,  più  fiacca,  il  buon 
concetto  della  quantità  di  posizione  dovè  a  poco  a  poco  tramontare  e  venirgli  di 
rincontro  spuntando  quello  cosi  goffo  che  è  poi  durato  fino  ai  dì  nostri.  Pur  piace- 
rebbe sapere,  se  fosse  possibile,  in  qixal  secolo  per  1'  appunto  quel  brutto  cambio 
avvenisse. 

Ma  il  rimpianto  Thurot,  il  dotto  meglio  preparato  in  Europa  ad  appagare  in 
una  qualche  maniera  codesta  curiosità ,  non  sa  dirci  nulla  di  molto  preciso.  " 
In  Mario  Vittorino,  grammatico  del  sec.  IV,  trova  ancora  il  buon  concetto  antico  che 
altri  dotti  additano  anche  in  Pompeo,  grammatico,  pare,  del  cader  del  sec.  V;  in 
un  manoscritto  poi  del  sec.  IX,  ove  è  commentata  l'Ars  major  di  Donato,  il  Thurot 
trova  per  la  prima  volta  esposto  il  falso  concetto  seriore,  che  dopo  ritrova  in  un 
altro  consimile  manoscritto  del  sec.  X  e  in  due  grammatici  del  sec.  XII  e  via  via. 

Un'altra  curiosità  può  pur  sorgere.  Nel  Rinascimento,  in  tanto  lume  di  dot- 
trina antica  rediviva ,  in  tanta  gara  di  acume  nel  restaurare  l' immagine  dell'  anti- 
chità, è  possibile  che  nessuno  s' accorgesse  del  segnalare  che  fanno  alcuni  antichi 
in  alcune  voci  la  vocale  lunga  o  breve  per  natura  in  sillaba  di  posizione,  né  di  altri 
indizia  cosiffatti?  è  possibile  che  nessuna  di  quelle  menti  cosi  operose,  cosi  divinatrici, 
s' imbattesse  una  volta  o  l' altra  nel  giusto  concetto  della  posizione ,  anche  per  sem- 
plice intùito  ?  Certo  che  non  ci  accade  mai  di  ritornare  a  quei  nostri  vecchi,  senza 
restar  sorpresi  ogni  tanto  della  grande  somiglianza  fra  le  intuizioni,  i  ragionamenti, 
i  pronunziati  loro  e  quelli  della  moderna  filologia ,  si  in  ordine  alla  lingua  e  sì  aUa 
critica  e  all'  ermeneutica  dei  testi,  alla  storia  letteraria  e  civile,  alle  antichità,  e  via 
dicendo.  La  continuità  che  si  scorge  tra  essi  e  noi  è  tanta,  da  farci  considerare  i 
secoli  che  da  essi  ci  separano,  specialmente  per  l'Italia,  come  un  vero  medioevo 
filologico.  Or  bene,  riguardo  al  soggetto  di  cui  ci  occupiamo,  il  medesimo  Thurot 
ha  fatto  le  sue  ricerche,  ed  ha  trovato  che  uno  di  quei  dotti,  un  solo,  vi  abbia  fatto 
cenno.  Gherardo  Vossio  (1577-1649)  nel  De  Arte  grammatica  II,  12,  osserva  la  vo- 


'  V.  De  Vemploi  tUs  mota  OéGn  posinone  tn  pi-osodic ,  ueUa  liei'uc  de  philolonie,  IV,  92-97  (a.  1880);  ristamiiato  in 
appendice  alla  Prosodie  latine  ooc.  par  Cn.  Thdrot  et  E.  Chatelain,  1882.  Devo  saper  grado  alla  cortesia  dell'Ascoli, 
dell' Inama  o  del  Paris,  se  ho  potuto  avere  questo  breve  quanto  erudito  lavoro,  e  l'altro,  clie  più  giù  sarà  ricor- 
dato, dell' Havet. 


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cale  lunga  per  posizione  poter  esser  breve  per  natura,  e  ricorda  Xs^ctór.  Ad  ogni 
modo  questo  cenno  non  ebbe  séguito.  Basta  guardare  il  Portoreale  ! 

Nel  nostro  secolo  poi  il  concetto  giusto  doveva  di  necessità  erompere  da  più  parti. 

Doveva  in  prima  risultare  dagli  studi  di  alta  filologia.  Quei  latinisti  che  non 
si  limitano  a  studiare  la  grammatica  latina  sui  trattati  moderni,  ma  risalgono  alle 
fonti  antiche  e  sincrone,  alle  osservazioni  linguistiche  di  Cicerone,  di  Quintiliano, 
di  Gellio,  e  poi  dei  grammatici  veri  e  propri  come  Prisciano,  Probo  e  gli  altri, 
non  potevan  fare  a  meno  di  badare  una  volta  o  l'altra  o  a  certe  definizioni  ge- 
neriche o  a  certi  avvertimenti  speciali,  che  implicano  evidentemente  il  sottinteso 
che  la  quantità  naturale  della  vocale  fosse  indipendente  dal  numero  delle  con- 
sonanti sussecutive.  Bastava,  a  rigore,  l'aver  fatto  attenzione  al  precetto  che  Ci- 
cerone dà,  di  pronunziar  lunga  l'i  di  iiisaiius  infelix,  breve  quella  di  indoctus, 
o  il  solo  aver  letto  in  Gellio  che  actus  lectus  allungano  la  vocale  del  loro  jDre- 
sente  indicativo  e  d ictus  invece  abbrevia  quella  del  suo,  o  bastava  semplice- 
mente meditare  un  poco  1'  ammonizione  di  Mario  Plozio  che  dice  essere  un  '  bar- 
barismo' il  pronunziare  per  nix  con  l'è  lunga,  per  arrivare  subito  alle  ultime 
conseguenze;  e  tanto  jdìù  dovea  bastare  a  ciò  tutta  la  congerie  di  cosiffatte  ammo- 
nizioni che  negli  antichi  si  trovano.  E  chi  nelle  grafie  delle  iscrizioni  latine  ricerca 
come  un  documento  della  genuina  parlata  romana,  o  anche  senza  questo  proposito 
studia  in  qualsivoglia  modo  le  epigrafi,  come  poteva  non  esser  colpito  da  grafie 
come  ACTis  scbIpta  dIsit  deiserit  accanto  a  pacato  vIcvs  veicvs?  E  consultando  gli 
storici  greci  delle  cose  romane  o  i  greci  che  di  cose  romane  toccano,  quali  Polibio, 
Dionisio  di  Alicarnasso,  Strabene,  Flavio  Giuseppe,  Diodoro,  Plutarco,  Appiano, 
Tolomeo,  Ateneo,  Dione  Cassio,  Lido,  Suida,  Stefano  di  Bizanzio,  o  guardando 
qualche  epigrafe  greca  che  registri  nomi  latini,  come  non  accorgersi  del  modo  di- 
verso onde  per  non  dir  altro  l'è  e  l'o  delle  voci  latine  son  trascritti  in  greco?  come 
non  badare  a  Paivjrfja-qi;  iiyivocop  accanto  ad  Ataspvfvo?  aoXs[xv;ov  da  una  parte,  accanto 
a  Kixépojv  e  B-^po?  (Verus)  dall'altra?  o  di  Ilópxto?  accanto  a  Twoxtc?  da  una  parte  e 
accanto  a  Móosoro?  e  a  Ispxcijp'.og  dall'altra? — Ora,  è  bensì  vero  che  codeste  'spie' 
erano  un  po'a  disposizione  anche  dei  dotti  del  Rinascimento,  come  abbiamo  noi  stessi 
osservato  più  su,  ma  è  anche  vero  che  dall' un  lato  il  numero  di  tali  spie  s'è  venuto 
dal  Rinascimento  in  poi  grandemente  aumentando  per  essersi  venuti  scoprendo 
nuovi  testi,  o  meglio  fermando  o  più  divulgando  quelli  già  noti  al  Rinascimento,  e 
per  essersi  soprattutto  accresciuto  il  tesoro  epigrafico,  e  affinato  il  criterio  nel  va- 
lutarlo,' e  dall'altro  lato  che  ogni  giorno  che  passava  rendeva  sempre  più  impos- 
sibile che  non  si  badasse  una  buona  volta  a  cose  di  tanta  evidenza. 

'  P.  es.  i  primi  trascrittori  delle  epigrafi  trascrivevano  in  caratteri  minuscoli,  non  tenendo  alcun  conto  né  di 
i  longa ,  né  di  apici,  né  di  punti,  né  di  divisioni  delle  righe.  Appena  nel  codice  di  Battista  Brunellesclii  (1513),  e 
meglio  nella  raccolta  del  Mazzocchi  romano  (1521),  s' incomincia  a  trascrivere  con  più  fedeltà.  Inoltre,  se  apici  ed 
i  longa  non  mancano  e  in  monete  della  rei>ubblica  e  in  epigrafi  romane  note  al  Rinascimento,  nò  essi  però  vi  ca- 
pitano spesso  per  vocali  in  posizione  (in  uno  spoglio  che  ho  qui  a  mia  disposizione  non  trovo  altro  che  un  óefito 
e  uno  scrIpta),  né  inostri  vecchi  si  rendean  ben  conto  del  valore  degli  apici,  che  facilmente  confondevano  con 
gli  accenti.  —  Devo  il  detto  spoglio  e  tutti  codesti  ragguagli  al  collega  Uè  Petra,  alla  cui  dottrina,  come  alla  cor- 
tesia ,  non  si  ricorre  mai  invano. 


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Una  seconda  via,  poi,  doveva  condurre  alla  scoperta  del  vei'o,  la  didattica.  Ai 
tempi  nostri,  principalmente  in  Germania,  i  trattati  grammaticali  delle  lingue  antiche, 
anche  cj[uando  non  hanno  sentito  l'afflato  della  glottologia,  hanno  mirato  ad  una 
esattezza  dottrinale  e  pratica  che  si  pi;ò  dire  per  molti  rispetti  nuova.  Cosi,  gram- 
matici quali,  p.  es.,  lo  Zumpt  o  il  Madvig,  si  sono  naturalmente  presa  la  cura  di  fer- 
mare anche  le  norme,  onde  si  segnerebbero,  se  si  segnassero,  gli  accenti  sulle  parole 
latine.  Per  tal  modo,  essi  sono  stati  condotti  a  proporsi  il  quesito  se,  p.  es.,  dovesse 
accentuarsi  f/ihitis  o  géntis,  dènte  o  dènte;  che  si  riduce  in  sostanza  ad  argo- 
mentare se  Ve  tonico  di  cotali  voci  fosse  lungo  o  breve.  Di  certo,  risolvendosi,  come 
essi  han  fatto,  all'accentuazione  col  circonflesso,  vale  a  dire  a  supporre  lunga  l'è, 
ei  si  son  lasciati  frastornare  dall'accentuazione  del  nominativo  {gens  dèns),  al  quale 
han  conformato  indebitamente  gli  obliqui.  '  Ma  intanto  quella  trattazione  scolastica 
gli  avea  menati  a  riguardare,  sebbene  alla  lontana,  il  nostro  tema.  Cosi  pure  lo 
scrupolo  che  nelle  scuole  moderne  è  sorto,  —  soprattutto  bensì  per  l'influsso  del- 
l' alta  filologia  e  della  glottologia,  ma  in  parte  anche  per  mei'o  raffinamento  peda- 
gogico,—  di  insegnare  a  pronunziare  il  latino  in  modo  più  esatto,  più  conforme  a 
quella  che  si  argomenta  dover  essere  stata  l'effettiva  pronunzia  dei  Latini,  a  pro- 
nunziarlo insomma  latinamente  non  già  anacronisticamente  alla  neolatina  o  barba- 
ramente alla  teutonica;  quello  scrupolo,  dico,  doveva  pur  condurre  chi  aveva,  p.  es., 
insegnato  a  profferire  sólus  con  un  o  strascicato,  sòlet  con  un  o  rapido,  a  doman- 
darsi se  mortem  ei  dovesse  prescrivere  di  profferirlo  con  un  o  strascicato  o  con  un 
o  rapido.  M' affretto  però  a  confessare  che  questa  via  didattica,  piuttosto  che  guidare 
presto  alla  scoperta  del  vero  concetto  della  quantità  di  posizione,  doveva  menare 
a  far  presto  applicare  quel  concetto,  nato  che  fosse  in  più  alte  sfere,  a  tutte  le  voci 
latine.  Un  puro  filologo  può  limitarsi  a  registrare  che  per  testimonianza  di  Gelilo 
Va  di  actus  è  lungo  e  l'i  di  d ictus  è  breve,  e  non  sentire  la  necessità  di  liqui- 
dare subito  se  in  f  actus  p.  es.  e  in  Ictìis  la  vocale  sia  lunga  come  in  quello  o 
breve  come  in  questo.  Ma  un  maestro,  messa  che  voi  gli  abbiate  quella  pulce  nel- 
1'  orecchio,  non  avrà  requie  finché  non  abbia  concretato  per  ogni  vocabolo  un  '  mo- 
dum  pronuntiandi ',  e  cosi  si  mette  lui  o  fa  che  altri  si  metta  a  ricercare  per  ognun 
d'essi  gl'indizii  che  stieno  prò  o  centra  la  lunghezza  o  la  brevità. 

V'era,  in  terzo  luogo,  la  via  glottologica;  e  intendo  per  ora  la  glottologia  in 
quanto  studia  il  latino  in  sé  medesimo  o  nei  suoi  rapporti  col  greco,  col  sanscrito  e 
con  le  altre  favelle  ariane.  Già,  prima  di  tutto,  è  disposizione  naturale  del  glotto- 
logo quella  di  distinguer  bene  'lettera"  da  suono  e  di  aspettarsi,  come  una  delle 
cose  più  ovvie,  che  una  lingua  rappresenti  con  un'identica  lettera  suoni  diversi; 
ed  è  un  suo  mestiere  quello  di  strappar  simili  maschere,  o  di  arrivare  al  sottosuolo 
della  favella  effettiva  removendo  la  crosta  dell'alfabeto,  la  quale,  se  da  un  lato 
conserva  un  idioma  agli  avvenire,  dall'  altro  lo  ricopre  di  una  patina  ing'annatrice. 
La  identità  quindi  della  lettera  che  indica  la  vocale  tonica  di  promptas  <?,  <iuelladi 


'  Veggasi  ScnMiTz,  a  pag.  12  iloU'  opera  che  sarà  più  in  là  ricordata. 


—  397  — 

mortiius  non  poteva  agli  occhi  suoi  essere  un  ostacolo  a  'ficcar  lo  viso  in  fondo"  e 
finir  a  discernervi  due  suoni  diversi.  E  poi,  chi  quotidianamente  notava  come  in 
greco  lo  voci  spYOv  e  '/jp/ov ,  pur  contando  nella  poesia  tutt'  e  due  come  trochaiche , 
differiscano  però  sempre  nella  quantità  della  vocale  iniziale  tanto  che  questa  è  ad- 
dirittura rappresentata  con  segni  diversi ,  e  come  in  sanscrito  sàrvàs  e  drttàs  pur  es- 
sendo anch'  esse  trocaiche  entrambe,  hanno  in  prima  sillaba  due  suoni  la  cui  di- 
versa quantità  naturale  è  graficamente  indicata;  non  poteva  a  lungo  andare  non 
chiedersi  se  anche  tra  mortitus  e  2})'om2)tus  non  corra  lo  stesso  divario,  nonostante 
che  la  scrittura  non  si  brighi  di  segnalarlo:  come  del  resto  non  lo  segnala  nem- 
meno fra  ìiiori  e  pi'omi,  dove  pur  il  divario  è  attestato  dalla  poesia  latina  oltreché 
arguito  dall'etimologia.  E  badando  alla  prima  vocale  breve  ài  éizzà  e  di  sàptàn,  di 
ciXTw  e  di  àshtau,  gli  veniva  molto  naturalmente  da  pensare  che  breve  fosse  pure  la 
prima  vocale  di  septem  e  di  odo,  e  -ctYvwa/Cw  e  gànami  gli  doveano  far  intuire 
molto  semplicemente  un  nosco.  La  più  elementare  esperienza,  poi,  di  tematologia, 
gì' imponeva  d' immaginarsi  non  altro  che  breve,  poniamo,  l'è  di  spectrum;  e  via 
discorrendo. 

Quarta   via  e   in    un   certo  senso    più   conducente  di   tutte,  era    quella    della 
glottologia  romanza.  La  qual  disciplina,  studiando  il  latino  nei  varii  idiomi  che  lo 
riflettono,  o  vogliam  dire  ne'  varii  colori  in  cui  il  raggio  del  sole  latino  s'è  decom- 
posto attraverso  il  prisma  dei  secoli  e  delle  mescolanze  di  razze,  possiede  lo  stru- 
mento per  ricomporre  spesso  quel  raggio  o  per  analizzare  di  lontano  con  una  specie 
di  'analisi  spettrale'  gl'ingredienti  della  parola  romana.  Ora  il  neolatinista  che  ogni 
giorno  insegna  come  in  sillaba  aperta  il  riflesso  dell' t  diverga  da  quel  dell'*  e  coin- 
cida con  quel  dell'  è  (péro ptrus  véro  vèrus  di  fronte  a  miro  miror)  e  quel  dell'  e  {véro) 
diverga   da  quel  dell' e  (sièro  sériim)  e  il  riflesso  dell' it  diverga   da  quel  dell' m  e 
coincida  con  quel  dell' 5  (góla  giila  sóla  sola  di  f.  a  mula  mula)  e  quel  dell'  o  (sóla) 
diverga  da  quel  dell'o  (scuòla  scliòla)  non  poteva  essere  a  lung' andare  cosi  stor- 
dito da  non  vedere  come  la  differenza  tra  esce  e  il  sost.  ésca  e  la  coincidenza  di 
crésce  con  pésce  e  la  divergenza  tra  fritto  e   détto   conduca   ad   argomentare  che  le 
basi  latine  fossero  exit  esca  crSscit  j^'tscis  /rictus   dictus,   e   come  il   coincider 
che  fa  conósco  con  fosco  divergendo  dal  sost.  tòsco,  e  il  diverger  che  fa  rótto  àa,  frutto 
meni    a   postulare  nosco  fuscus  tóxicum  ruptus  friictus.  E,  ognun  lo  vede,    un 
procedimento  logico  semplicissimo,  quel  medesimo  che  è  in  fondo  alla  modesta  're- 
gola del  tre'  che  gli  aritmetici  insegnano.  È  poi  notabile  che  il  romanista,  oltreché 
a  intuire  l'idea  complessiva  della  cosa,  era  spinto   dal    bisogno  di  dare  un  sicuro 
fondamento  alle  sue  larghe  esemplificazioni  e  quasi  completi  inventarli  di  riflessi 
romanzi,  a  sollecitare  dagli  altri  e  ad  ajutare  egli  stesso  la  verificazione   di   quel- 
r  idea  sopra  quasi  ogni  singola  voce  latina.  Non  dico  di  tutte  addirittura,  perché 
certe  voci  o  forme  son  fuori  della  sua  visuale  :  nulla  p.  es.,  gli  può  caler  di  sapere 
se  il  latino  profferisse  gréx  o  gréx,  o  che  dicesse  jjés,  dSns  vidéns  tàctus  e  cosi 
via.  Gli  sarebbe  perfino  indifferente  che  fosse  pensai  anziché  pensai,  giacché  a 
lui  basta  ^pésat;  se  oramai  non  fosse  noto  a  tutti  che  l'allungamento  compensa- 


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tivo  non  è  che  un  modo  di  dire  e  che  il  n  ha  prima  allungata  la  vocale   e   poi   è 
sparita  (cfr.  Cuetius,  Studien,  ecc.,  II). 

Naturalmente  le  quattro  vie  che  abbiamo  indicate  non  sono  per  così  dire  pa- 
rallele e  diritte  senza  alcuna  comunicazione  fra  loro,  bensì  si  avvolgono  e  s'interse- 
cano qua  e  là.  Abbiam  già  avvertito  come  i  trattatisti  di  grammatica  e  i  pedagoghi 
risentano  l'influsso  e  della  indagine  glottologica  e,  per  lo  meno,  degli  alti  studii 
filologici.  S'  aggiunge  che  a  questi  ultimi  di  continuo  suol  ricorrere  il  comparatore 
delle  favelle  ariane  ;  e  agli  uni  e  all'  altro  debba  appoggiarsi  il  romanista  ;  e  come 
questi  venga  sovente  interrogato,  soprattutto  in  questi  ultimi  anni,  dallo  stesso 
ricercatore  della  parola  ariana  classica.  Questi  scambii  frequenti  tra  i  diversi  indi- 
rizzi han  naturalmente  reso  il  cammino  più  breve  che  se  ogui  studioso  avesse  do- 
vuto batter  la  sua  strada  senza  poter  percorrere  qualche  tratto  su  quella  degH  al- 
tri. Eppure,  chi  scorra  tutto  o  quasi  tutto  quel  che  s'è  scritto  sul  nostro  tema, 
vedrà  come,  salvo  alcune  più  o  meno  notevoli  'contaminazioni',  gh.  scrittori  si 
possan  veramente  schierare  in  quella  quadi-uplice  linea  che  siamo  venuti  fin  qui 
come  per  semplice  ragionamento  tracciando. 

Primi  in  ordine  di  tempo  vengono  i  filologi,  e  primo  di  loro  il  Lachmann,  che 
nel  suo  commentario  a  Lucrezio,  '  al  v.  805  del  lib.  I,  riferendo  un  luogo  oggi  fa- 
moso di  Gelilo  (9,6;  cfr.  9,  3)  concernente  la  quantità  naturale  della  vocal  radi- 
cale nel  participio  passato  e  ne' clienti  suoi,  supino  e  frequentativo,  ne  cavava 
una  regola,  che  oramai  solo  all'ingrosso  può  considerarsi  come  vera:  che  cioè  il 
participio  passato  mantenga  inalterata  la  quantità  della  vocal  radicale  quando  la 
radice  esce  in  consonante  liquida  o  semivocale;  la  allunghi  sempre,  se  non  è  già 
lunga,  quando  la  radice  esce  in  esplosiva  media;  e  quando  invece  esce  in  esplosiva 
tenue,  non  solo  mantenga  la  breve  che  quasi  sempre  è  già  nella  radice,  ma  anche 
abbrevi!,  in  taluni  esemplari  almeno,  la  lunga  di  questa,  {clic tu s,  dfictus);  per  non 
dire  di  poche  altre  voci  che  non  trovando  posto  in  tali  rubriche  il  Lachmann  lascia 
più  o  meno  dubbiose.  Secondo  la  sua  regola  adunque,  non  solo  pone  c«?'S!{s,  jj«6Zs«<s 
èmptus  géstus,  ecc.,  e  promptus  ùstus  s umjjtus,  ecc.,  scrlptus  f  rictus^  ecc.,  e 
punctus  tdctus  réctus,  ecc.,  jàctus  càptus  Jièxus  fossus  quàssiis,  ecc.,  ma 
ancora  plstus  jussus  sctssus  fossus  spdrsus,  ecc.,  pei  quali  oggi  ei  non 
troverebbe  molti  che  gli  assentissero.  Come  si  vede,  il  Lachmann  non  fece  che 
prestare  attenzione  alle  parole  d' iin  antico ,  e  generalizzarle  con  una  induzione  che 
ha  solo  un  leggerissimo  sapore  glottologico.  Dopo  di  lui  Guglielmo  Schmitz,  in 
una  tesi  di  laurea  del  1853  e  in  una  serie  di  articoletti  inseriti  quasi  tutti  nel  Rhei- 
nisches  Museimi  tra  il  1853  e  il  1857,  e  in  un  programma  ginnasiale  del  1860,  " 
trattò  della  lunghezza  della  vocale  avanti  ns  nf,  della  brevità  avanti  )*/,  e  poi  nei 


'  La  prima  edizione  è  del  1850;  già  in  ossa  si  trova  la  chiosa  a  cui  accenno. 

'  Tutto  questo  di^ecta  membra  furono  poi  per  consiglio  del  Ritschl  raccolte,  insieme  a  molti  svariatissimi  ar- 
ticoletti, nel  volume  Beìirìiijr.  zur  hitcunschcii  Sprach-  loid  Lifi'i'atttrkimdc,  presso  il  Teubner.  Debbo  al  prof.  Cocchia 
l'aver  potuto  vedere  questo  libro;  come  gli  altri,  che  saran  ricordati  appresso,  del  Seolmiinu  e  del  Biinger. 


—  309  — 

suffissi  -Srmis  -ìirnus  -endus  -undus  e  lor  derivati,  e  in  -èstis  '-exter  -estua 
-tistiis  -esticus  -estimus,  e  della  lunghezza,  per  lo  più,  avanti  gn  e  avanti  j.  ' 
Salvo  r  appellarsi  che  fa  duo  sole  volte  ad  ovvie  etimologie  (pag.  14  e  17),  e  salvo 
rjualche  citazioncella  di  opere  glottologiche,  aggiunta,  in  parentesi  quadre,  nella 
ristampa;  del  rimanente  lo  Schmitz  non  si  giova  se  non  di  tre  soli  mezzi  d'inda- 
gine puramente  filologici,  che  sono  le  attestazioni  degli  antichi  grammatici,  gli 
apici  e  le  ì  longa  delle  epigrafi  latine ,  e  le  trascrizioni  greche.  Non  in  tutto  si  può 
oggi,  credo,  consentire  con  lui,  ma  bisogna  riconoscere  che  con  molta  cautela  e 
retto  giudizio  adoprò  quei  mezzi,  e  nell'  applicare,  generalizzando,  i  risultati  che  ot- 
teneva per  alcune  voci  a  tutte  intere  le  serie  rispettive,  non  trascese  i  giusti  limiti. 
Prima  di  andare  innanzi  in  questa  rassegna  di  scrittori,  ci  sia  lecito  soffer- 
marci a  fare  un'  osservazione.  È  già  abbastanza  singolare  che  avanti  al  1850  non 
vi  fosse  tra  i  cultori  della  scienza  di  Wolff  e  di  Hermann  o  di  quella  di  Bopp  e  di 
Grimm  alcuno  che  badasse  a  quello  cui  poi  badarono  il  Lachmann  e  lo  Schmitz. 
Ma  più  singolare  ancora  è  che  le  avvertenze  di  qixesti  due  non  facessero,  una  volta 
lanciate  nel  mondo  erudito ,  l' effetto  di  un  razzo  che  cada  su  un  mucchio  di  mate- 
rie combustibili.  Ognuno  immaginerebbe  che  al  solo  sentire  cosi  autorevolmente 
affermare  che  fosse  lunga  1' «  in  actus,  breve  in  factns,  o  che  crescèn.s  suonasse 
il  nominativo,  crèscèntis  il  genitivo  e  sim.,  subito  filologi  e  glottologi  si  gettassero 
con  irrefrenabile  ardore  a  scovare  altre  lunghe  ed  altre  brevi,  e  a  predicare  come 
il  concetto  volgare  della  posizione  andasse  radicalmente  mutato.  Invece  non  ne  fu 
nulla,  e  doverono  passare  di  molti  anni  perchè  la  piccola  favilla  divampasse  in 
gran  fiamma.  L'  essere  il  cenno  del  Lachmann  seppellito  in  un  libro  dove  nessuno 
si  aspetterebbe  di  trovarlo,  1'  essere  le    Quaestiones  ortlioejncae  latine  dello  Schmitz 


'  Terenziano  Mauro  diceva  in  pejor  Jejitnitim  Troja  la  prima  sillaba  esser  lunga  so?to»(a  per  posizione 
(che  torna  come  dire  breve  per  natura).  Questo  collima  colla  proposta  di  Cicerone  di  scrivere  il  J  tra  vocali  con  u 
{Vompeìins,  ì)eìior,  ciìiis  ec),  a  che  Cesare  aggiungeva  che  egli  sì  sarebbe  spinto  fino  a  scriver  Pompcììi; 
le  quali  cose  sembrano  provar  che  i  due  grandi  Romani  sentissero  nely  un  suono  intenso.  Un  suono  capace  dunque, 
han  concluso  alcuni  dotti  odierni,  di  produr  posizione,  appunto  come  Terenziano  afferma.  Ma  lo  Schmitz  con  altri 
dotti  la  intende  diversamente.  Sostiene  con  Corssen  che  in  Pompejus  e  sim.  1' e  è  lunga  per  natura  (e  sia  pure), 
sostiene  con  Aufrecht  che  in  major,  piilej  nm  la  vocale  siasi  allungata  per  compenso  del  g  caduto  (e  sia  anche 
questo);  ma  per  voci  ove  la  vocale  è  inevitabilmente  breve  in  sé,  come  in  cjtts,  hnjus,  ec,  spiega  lui  la  lun- 
ghezza della  sillaba  come  effetto  non  già  della  posizione,  bensì  dello  stemperarsi  del  J  in  un  elemento  vocalico  che 
aderìscaalla  vocale  precedente,  formando  con  essa  un  dittongo,  e  in  uno  consonantico  aderente  alla  seguente;  come  a 
diredunque  ei-jiis  ec;  e  a  questo  crede  accennino  le  grafie  ciceroniane  e  cesaree.  Cosi  l'ha  intesa  poi  anche  il 
Savelsberg,  contro  cui  però  vedi  Corssen  ,  Zur  it.  Sprarhlc. ,  pag.  382  segg.  Inoltre  già  addusse  il  Corssen  bìjugus  e 
suoi  affini,  di  cui  la  prima  sillaba  è  calcolata  breve  da'  poeti,  per  provare  clie  il  J  non  facesse  posizione,  e  questo 
esemplare  sì  può  tirare  a  confermar  il  concetto  dello  Schmitz  con  l'avvertire  che  l'esser  già  i  la  vocale  precedente 
aiy  poteva  impedire  il  distemperamento  dì  questo  in  i-\-J.  Sennonché  si  può  tirarlo  del  pari  al  concetto  degli  alt») 
poiché  appunto  lo  stesso  esser  ì' la  vocale,  può  avere  smorzata  l' intensità  del  7  e  impedito  che  facesse  posizione. 
Anche  oggi  il  romanesco  pronunzia  ilj  molto  intenso  (mojje,  paJja,fiJjo,  ec),  sebbene  non  stabilirei  alcuna  conti- 
nuità storica  col  suono  antico,  nascendo  oggi  l'intensità  daU'essei'ei;  proveniente  da  (1)1J  (cfr.  tosa.  JìijJio,  pugl. yfi/- 
gliio,  ec);  ma  pure  quando  la  vocale  é  i.  si  può  avere  un  alleggerimento,  come  in 710  ohe  si  trova  olive  fijjo.  Ad  ogni 
modo  il  divario  tra  il  concetto  dello  Schmitz  e  quello  degli  altri  sì  riduce  in  fondo  a  jioca  cosa;  e  il  romanista  in 
ispecie  può  rimanere  indifferente  se  sì  tratti  di  péj-jr'o»'  o  dipc;-/oj',  e  quel  che  fa  per  lui  è  queir  e  che  gli  rende 
perfettamente  normali  i  riflessi  romanzi  {peggio, Iììtc) ,■  o\\o  finora  era  costretto,  per  rannodarli  al  preteso  pcjor,  dì 
supporre  conformati  ai  riflessi  di  me  li  or  o  di  spiegare  con  altri  esiiedienti. 


—  400  — 

una  semjDKce  tesi  di  laurea ,  spiegano  solo  in  parte  il  poco  séguito  sulle  prime  toc- 
cato a  quello  e  a  queste.  Il  vero  è  che  la  storia  così  della  nostra  come  di  tutte  le 
altre  discipline  ricorda  un  gran  numero  di  esempii  consimili,  di  idee  assai  semplici 
e  chiare  che  hanno  tardato  di  molto  ad  affacciarsi  alla  mente  di  alcuno,  e  che, 
finalmente  intravviste  ed  annunziate ,  hanno  poi  lungamente  stentato  a  farsi  strada 
fra  i  dotti.  Quali  possan  essere  le  ragioni  psicologiche  di  un  fenomeno  così  strano  e 
insieme  cosi  comune,  è  questione  interessantissima,  ma  che  non  riguarda  noi  in 
questo  momento. 

A  notevole  distanza  di  tempo ,  viene  un  terzo  filologo ,  un  Ritscheliano  come  il 
secondo,  lo  Schoell,  il  quale  in  un  lavoro  dove  raccoglie  tutti  i  passi  degli  antichi 
grammatici  concei^nenti  l'accento  latino,'  riesce  insieme,  poiché  quegli  antichi  dice- 
vano accento  anche  la  quantità,  a  raccogliere  pure  i  passi  concernenti  la  quantità 
in  posizione.  " 

La  ricerca  filologica  si  vede  innestata  alle  preoccupazioni  didattiche  in  una  serie 
di  lavori  comparsi  negli  ultimi  tre  lustri.  Già  il  dott.  Loewe  aveva  inserito  nella  Mor- 
fologia  latina  del  dott.  Perthes  e  nei  due  primi  corsi  di  un  '  trattato  di  latinità  per  il 
Ginnasio'  del  medesimo  alcuni  ragguagli  sulla  quantità  in  posizione,  quando  il  Per- 
thes il  1874  nella  prefazione  a  un  altro  corso  del  detto  trattato  prometteva  di  dare 
altra  volta  la  giustificazione  scientifica  di  quei  ragguagli.'  La  promessa  non  fu  po- 
tuta mantenere  ;  ma  il  1876  comparve  una  lettera  del  Eitschl  al  Perthes  '  sulla 
odierna  pronunzia  del  latino V'  nella  quale  l'illustre  uomo,  già  sul  tramonto  della 
sua  vita  operosissima,  dopo  un  piccolo  accenno  alla  pronunzia  delle  consonanti,  ve- 
niva a  mettere  in  rilievo,  con  quella  sua  vivacità  un  po'  aggressiva,  le  molte  gof- 
faggini che  si  commettono  rispetto  alla  quantità  delle  vocali  e  specialmente  di  quelle 
in  posizione.  Enumerava  gli  scandagli  che  s'  abbiano  per  indagare  dove  queste  suo- 
nassero lunghe  e  dove  brevi  :  scandagli  quasi  in  tutto  filologici,  s' intende,  o  tutt'  al 
più  di  una  fonologia  ovvia  ed  elementare,  come  dove  stabilisce  existimo  amasse 
nasse  nOlle  malie,  in  considerazione  della  loro  genesi.  '  Tra  gli  altri  mezzi  egli  ri- 
chiama 1'  attenzione,  il  che  ognuno  troverà  naturalissimo  in  lui,  alla  prosodia  plau- 
tina,  dalla  quale  risultano  iste  ipse  inde  unde  òmnis  mar/ìstratiis  e  sim/'  Alla  re- 
gola del  Lachmann. non  è  propenso;  accoglie  invece  senza  riserva  gli  studii  dello 
Schmitz  e  dello  Scholl,  che  riassume  in  fondo  al  suo  scritto.  —  Il  1878  venne  fuori  a 
Berlino  un  libro  di  Bocterwek  e  Tegge  ,  '  inteso  a  promuovere  sempre  più  la  restau- 
razione della  genuina  pronunzia  del  latino ,  e  anche  sulla  quantità  iu  posizione  dava 
cenni,  per  singole  voci  o  serie  di  voci.  Non  parvero  essi  sufficienti  al  dott.  Wiggert, 


'  De  accentu  linq.  lat. ,  nel  tomo  VI  degli  Ada  Soc.  pini  Lips. 
■  Vedi  propriamente  p.8:t,  85,  107,  lOS  ss..  110,  112,  113,  IIG,  117,  ll'J,  11»,  147.  IIH. 
'  Rilevo  tutto  ciò  dalla  prefazione  del  Manualetto  del  Mar.N. 

'  Nel  liheinisches  Museiim ,  XXXI ,  481-92;  ristampata  poi  negli  Opuscuht ,  IV,  766  segg. 
^  Curioso  però  che  egli  voglia  esse  da  edere. 

"  Su  questo  si  può  ora  vedere  anche  il  Cocchia  nella  Introduzione  (p.  xxxvi-xsxix)   alla  sua   edizione  dei 
Captivi  (Torino,  Loescher,  18S6). 

=  Die  alispraclilichc  Orthoepie  inid  die  i'j-axis.  Conosco  questo  libro  solo  indirettamente. 


_  .101  — 

che  volle  trattar  della  cosa  un  po'  più  di  proposito ,  e  vi  consacrò  le  prime  pagine 
d' un  suo  scritto  inserito  nel  Programma  del  Ginnasio  di  Stargard.  '  Egli  badò  so- 
prattutto ai  preteriti  e  ai  supini.  Considerata  a  ragione  come  breve  la  seconda  vo- 
cale in  cucurri  f efelli  spopondi  momordi  ^'apandi  tetendi  sul  tipo  di  cecini,  ec. , 
riteneva  per  converso  (ma  non  egualmente  a  ragione,  credo  io),  come  lunga  la  vo- 
cale radicale  di  defendi  offendi  preliendi  accendi  mandi  scandi  prandi  vertì. 
verri  velli  solvi  vaivi  per  uniformarli  a  cèpi  veni,  ecc.  Quanto  ai  perfetti  in  -sì,  li 
faceva  tutti  con  la  vocal  radicale  lunga  ;  e  propriamente  :  —  allungata  per  compen- 
sazione nelle  radici  brevi  uscenti  in  un  gruppo  di  consonanti  di  cui  una  si  elida 
avanti  s,  e  cosi  disi  falsi  tùrsi  tórsi  parsi  flèxi,  ecc.  da  àlgeo  ecc.;  —  e  lunga  in- 
vece ab  origine  nelle  radici  uscenti  in  unica  consonante,  v^le  a  dire  non  solo  in 
nùpsi  scrlpsi  da  ntibo  scriho,  ma  anche  in  rèxi  tSxi  tràxi  sÉ)"ita;i,  ecc.  da  presenti 
originarli  *règo  *tràJio,  ecc.  (!).  Dove  osserviamo  subito  che  per  la  prima  serie 
{disi  ecc.)  è  da  respingere  non  solo  la  spiegazione  ma  il  fatto  stesso  (noi  poniamo 
àlsi  ecc.) ,'"  e  per  la  seconda  (rèxi  ecc.)  il  fatto  è  certo  oramai  ma  la  spiegazione  è  as- 
surda. Anche  per  i  supini  il  Wiggert,  opponendosi  al  Lacliraann,  parte  delle  lunghe 
volute  da  costui  negava,  parte  spiegava  col  solito  allungamento  compensativo,  parte 
le  riteneva  legate  alla  quantità  stessa  del  presente  o  del  perfetto.  Ma  in  tutti  questi 
procedimenti  egli  ha  troppo  l'aria  dell'uomo  di  scuola,  più  intento  a  semplificare  le 
regole  che  a  cercare  la  storica  verosimiglianza,  e  troppo  disposto  ad  appagarsi  di 
spiegazioni  meccaniche.  —  Più  cauto  e  più  fino  di  lui  apparisce  il  Biiuger ,  che  nel 
Programma  del  Ginnasio  protestante  di  Strasburgo  dell'  a.  1880-81  '  ci  ha  dato  un 
quasi  completo  inventario  delle  voci  con  vocale  in  posizione.  E  per  questo  e  per  la 
notizia  che  vi  è  trasfusa  delle  altrui  ricerche,  questo  pregevolissimo  lavoro  potrebbe 
considerarsi,  se  pochi  anni  dopo  non  fosse  stato  seguito  dal  manualetto  già  ricor- 
dato del  Marx,  come  la  più  piena  trattazione  dell'  argomento.  Le  voci  o  serie  latine 
son  passate  a  rassegna  via  via  secondo  i  varii  gruppi  consonantici  costituenti  la  po- 
sizione; con  qualche  inclinazione  a  far  troppo  dipendere  la  brevità  o  lunghezza  della 
vocale  dalla  natura  del  gruppo  che  le  succede,  per  una  specie  di  'affinità  elettiva' 
alla  quale  io  non  credo  in  questo  caso  se  non  molto  di  rado.  Salvo  qualche  citazione 
di  opere  linguistiche  e  qualche  appello,  per  verità  poco  felice,  alla  fisiologia  dei 
suoni,  in  sostanza  il  Bunger  si  attiene  allo  Schmitz  e  agli  altri,  compiendo  e  svi- 
luppando le  note  loro.  Ai  riflessi  romanzi  nessun  accenno,  sicché,  per  esempio, 
dove  per  giuste  analogie  egli  argomenta  riìptus,  ma  ad  asseverarlo  prova  qualche 
esitazione  per  via  di  rupes,  la  sua  mente  non  gli  suggerisce  punto  di  confermarlo 
con  rotto.  ' 


'  Studien  zur  lateinischen  OHlioepie,  1880.  Anche  di  questo  non  ho  conoscenza  se  non  indiretta. 

'Naturalmente  àrsi,  che  è  da  àrdeOt  è  fcutt*  altra  cosa. 

'  Ueber  die  lateiniache  Qaaiititdt  in  positionslanrjen  Silben.  Sono  23  grandi  pagine. 

'  Trovo  citato  anche  un  artiooletto  sul  nostro  tema  di  SchottmOller  nella  Philologische  Wochenschri/t,  p.  208  e 
seg.;  ma  non  l'ho  mai  visto.  E  lo  stesso  dico  della  recensione  del  libro  di  Bouterwek  e  Tegge  data  da  Habtel  nella 
Jtioista  ginnasiale  austriaca  del  1879.  Voglio  poi  ricordare  che  il  Kuunek  consacra  al  nostro  soggetto  una  pagina  (137) 
della  sua  Ausfiikrl.  Qramm.  d.  tat.  Sj>r.,  Hannover  1877. 

51 


—  402  — 

Se  ora  ci  volgiamo  ai  comparatori  indoeuropeisti,  dovremo  riconoscere  che  nel 
soggetto  di  cui  oggi  ci  occupiamo  essi  non  si  son  fatto  molto  onore.  Non  vi  hanno 
avuto  alcuna  propria  iniziativa,'  e  nemmeno  hanno  abboccato  subito  alle  avvertenze 
dei  filologi,  e  per  poco  non  le  hanno  lasciate  addirittura  cadere.  Il  Corssen,  ancora 
nella  seconda  edizione  del  suo  classico  libro  (1868-1870),  appone  sì  i  segni  di  lunga 
o  di  breve  su  vocali  incarcerate  tra  le  consonanti  (p.  es.  milrmnr  Marti),  stabilisce 
radici  con  vocale  lunga  che  si  perpetui  anche  nelle  formazioni  con  suffissi  incipienti 
per  consonante  (p.  es.  llctor  riconnesso  con  lic-ium),  parla  di  incremento  vocalico 
anche  in  voci  come  Màrtem  dalla  rad.  Mar,  tra  gli  esempli  epigrafici  di  apici  indi- 
canti vocale  lunga  adduce  parole  come  constò  Mdrtis  o  tra  quelli  di  i  longa  parole 
come  fixa,  ricorda  Maarcus  ec. ,  adduce  il  luogo  di  Cicerone  su  Infelix  ecc.  e  di 
Prisciano  su  llctor  ecc.,  mostra  per  qual  via  fisiologica  l'originario  co/istiZ  si  fa- 
cesse cSìisul,  si  appella  anche  alle  trascrizioni  greche,  discute  infine  largamente  il 
concetto  della  posizione  intendendo  che  la  vocale  v'abbia  una  quantità  sua  propria;  '■ 
ma  pure  non  consacra  un  apposito  capitolo  o  apposite  rubriche  ai  problemi  che  ci 
riguardano  e  nulla  aggiunge  e  molto  anzi  col  silenzio  sottrae  a  quanto  altri  avea 
detto  prima  di  lui.'  Nel  suo  libro  postumo  appena  si  occupa,  condottovi  dalla  ri- 
stampa delle  ricerche  dello  Schmitz,  di  qualche  questione  speciale,  soprattutto  per 
negare  che  -gn-  eserciti  sulla  vocale  antecedente  un'  efficacia  prolungativa  :  '  nega- 
zione questa  assai  accetta  ai  romanisti.  Appresso  a  lui  linguisti  più  larghi  di  spirito 
hanno  con  ben  altro  ardore  atteso  a  simili  questioni ,  però  dopo  aver  risentita  l' in- 
fluenza dei  romanisti;  ai  quali  perciò  ora  passiamo  per  poi  tornare  a  quelli. 

Il  DiEZ  aveva  considerata  la  vocale  in  posizione  come  una  terza  cosa  dopo  la 
vocale  lunga  e  la  breve  ;  con  la  propensione  a  riguardarne  i  riflessi  come  coincidenti 
le  più  volte  con  quei  della  breve.  E  se  il  vero  non  gli  fosse  lampeggiato  per  un 
momento  là  dove  osserva  che  avendo  mille  la  lunga  (cfr.  mllia)  è  naturale  che  con- 
servi Vi  in  tutte  le  favelle  romanze,  si  dovrebbe  dire  che  al  maraviglioso  suo 
acume  sfuggisse  esso  interamente.  Fu  il  primo  lo  Schuchardt  ad  averne  una  fe- 
lice intuizione,  nel  suo  classico  libro  sul  'Vocalismo  del  latino  volgare'  (1866-8). 
A  proposito  dello  spagnolo  liìerro  vai.  fier  e  sim. ,  e  delle  forme  grigioni  come  ig  (unto) 
e  sim.,  egli  risalendo  aférruvi  e  ad  unctus  e  sim.  intravvedeva  con  un'occhiata  ra- 
pida e  penetrante  tutta  la  serie  di  nuove  percezioni  a  cui  la  nuova  valutazione  di 
quegli  esemplari  avviava,  e  intanto  ricordava  il  luogo  di  Gelilo,  lo  Schmitz  e  via 
via.  '  Non  trovò  egli  subito  eco  in  Germania  ;  ma  ben  1'  ebbe  in  Italia ,  dove  l'AscoLi , 


'  Tutt'  al  più  si  può  avvertire  elio  il  Benloew  (_Dc  l'accentuation  da»s  Ics  langues  indo-européennes  iant  aneienncs 
que  moderiies,  Parigi  1817;  cit.  dal  Pezzi,  Orammaiica  storico-comparativa  della  lint/ualatina,  p.  102)  avea  già  osservato 
come  la  lunghezza  di  posizione  riguardi  la  sillaba. 

■  Veggasi  Vokalisims,  I,  19,  22,  23,  257-9,  396,  J05-6,  447,  498-500,  654;  II,  282,  613  e  segg.;  e  passim. 

'  Gli  fa  di  ciò  rimprovero  anche  il  Eitschl  nello  scritto  citato. 

'  Zur  italischen  Sprachkundc ,  278  e  segg. 

'  Vedi  1,471  sgg.;  Il,  192.  —  Mostrava  però  egli  l'inclinazione  ad  ammetterò  che  nella  posizione  fosse  più  facile 
il  tralignamento  della  quantità  della  vocale.  Vivo  contrasto  opijose  sempre  a  ciò  il  Canello,  e  credo  in  un  certo 
senso  a  ragione. 


—  403  — 

che  quando  non  è  precursore  geniale  è  almeno  assecondatore  pronto  ed  efficace,  ac- 
colse subito  nell'^rcAtyio  (1873)  il  criterio  novello  applicandolo  con  qualche  insistenza 
e  al  Ladino  '  e  al  Siciliano.  "  Lo  segiiiva  tosto  il  Canello  che  andò  rifrugando ,  con 
r  aspirazione  a  compierne  un  vero  inventario ,  i  riflessi  dell'  è  ed  e  e  dell'  ì  ed  i,  in 
quei  suoi  ottimi  Studii  sull'  t  {Eiv.  di  fil.  rofn.,  a.  1874)  e  sull'  e  {Zeitsclirift.  f'nr  rom. 
]jhil.,  a.  1877),  i  quali  lo  resero  tanto  benemerito  del  vocalismo  tonico  italiano  quanto 
il  Caix  s'era  fatto  del  vocalismo  atouo.  Dipoi  il  Fòestee,  in  un  apposito  articolo 
(1878),  '  rilevava  1'  efficacia  della  indagine  romanologica  per  la  determinazione  della 
quantità  latina  là  dove  questa  è  mascherata  dalla  posizione  o  da  altro ,  e  registrava 
molte  acute  considerazioni,  se  non  tutte  accettabili,  tiitte  però  suggestive  ed  atte  ad 
eccitare  riflessioni  inquiete  e  feconde  così  negli  studiosi  delle  cose  classiche  come  in 
quei  delle  romanze. 

Non  va  dimenticato  1' Ulrich;  il  quale  in  una  tesi  di  laurea  sul  participio  pas- 
sato romanzo  '  premette  alla  rassegna  degli  esemplari  neolatini  (tutf  altro  che  com- 
pleta questa  uè  troppo  felicemente  ragionata)  alcuni  cenni  sul  participio  latino  ;  ed 
in  questi,  oltreché  tocca  con  molta  perplessità  la  questione  del  participio  assibilato 
nella  quale  ha  poi  visto  tanto  addentro  il  Cocchia  (Rivista  di  Torino,  Luglio-Ago- 
.sto  1882),  consacra  anche  due  pagine  alla  norma  Lachmanniana.  Sopra  un  punto 
egli  insiste  principalmente,  quale  cioè  possa  esser  la  ragione  della  lunga  di  actus 
lèctus  ecc.,  senza  del  resto  venire  ad  alcuna  affermazione.  Respinge  l'ipotesi  del 
Corssen,  che  ci  vede  un  incremento  vocalico  (Vocalschteigerung);  sembrandogli  que- 
sto reso  improbabile  dall'  originario  ossitonismo  del  tipo  partecipiale  (Xsxtóc,  sscr. 
uktds).  Accenna  di  fuga  all'  ipotesi  (che  noi  abbiam  vista  propugnata  dal  Wiggert), 
che  in  antico  s'avesse  ^légo,  sicché  fosse  lèctus  da  mandare  insomma  con  'ìsu^tó?  e 
sim.  Neanche  fa  buon  viso  al  supposto  che  àctus  lèctus  non  faccian  che  seguitare 
Sgi  lègi,  parendogli  a  ragione  ch'ei  sia  formalmente  smentito  da,  f  àctus  càptus 
i-iijìtus  e  sim.  di  fronte  a,  feci  cèpi  rupi  e  sim.  Gli  arride  per  un  momento  l'idea 
che  r  allungamento  possa  aver  preso  le  mosse  dal  tipo  pànsus,  pCissus  (!),  ove  1'  al- 
lungamento sarebbe  dovuto  allo  -ns-,  e  di  lì  essersi  analogicamente  esteso  a  altri 
tipi;  ma  per  fortuna  se  ne  ritrae  poi  subito,  sebbene  in  parte  per  una  ragione  in- 
sussistente, che  cioè  m.  panel  la  nasale  sia  già  della  radice  e  non  del  tema  di  pre- 
sente. Scarta  anche  il  concetto  dell'  Ebel ,  '  il  quale ,  rimanendo  stretto  al  fatto  che 
la  radice  di  quei  participii  esce  in  consonante  media,  ascrive  appunto  alla  media 
r  attitudine  a  produrre  in  quel  caso  1'  allungamento.  Quando  la  media  è  seguita  da 
una  tenue,  si  fa  ipso  facto  tenue,  dice  l'Ulrich.  Ma  l'affermazione  é  arbitraria;  e 
il  tedesco  legtee  sim.  stando  alla  pronunzia  classica,  non  alle  degenerazioni  spiranti 
palatali  o  gutturali  delle  pronunzie  locali  odierne,  e  le  profferenze  vabto  figto  che 


'  Ai-oh.,  1, 19n.,  23n.,  31,  3i-5,  38-8. 

■  Arch. ,  II,  145-6.  —  Sbagliò  chi  disse  essersi  egli  circoscritto  in  ciò  al  Ladino. 
'  Nel  Bhein.  Mus.,  XXXIII,  291  e  segg.,  639. 

'  Die  formelle  Entwickbmg  des  Partkipnim  Praeteriti  in  den  Bomauiscìien  Hprachen;  Winterthar,  1879;  pp.  24. 
Debbo  alla  pronta  cortesia  dello  ScUuohardt  1'  aver  potato  veder  subito  (luesto  scritto. 
'  mue  Jakrb.  filr  Phil.  LXXIX,  B08;  Ktihn's  Zeitscltrifl  eoo.  XIV,  246. 


—  404  — 

da  alcuni  sono  asci'itte  al  portoghese  e  devon  certo  aver  luogo  in  qualche  zona  di 
questo,  e  V  egsamen  che  si  attribuisce  alla  Spagna  (cito  i  fatti  che  ricordo  io  subito, 
ma  un'esperienza  più  larga  della  mia  ne  suggerirebbe  certo  degli  altri),  provano,  quel 
che  del  resto  non  ha  bisogno  di  prova ,  che  1'  assimilazione  di  grado  delle  due  con- 
sonanti attigue  non  è  necessario  avvenisse  subito  nel  primo  loro  scontro.  Ed  è  anzi 
sommamente  improbabile,  se  si  bada  a  quello  che  il  Cocchia  (1.  e.)  ha  dimostrato, 
come  cioè  le  radici  uscenti  in  gutturale  preceduta  da  liquida  mantengano  intatto  il 
suffisso  participiale  se  la  gutturale  è  tenue  (fultus  xiltus  fartus  refertus  sartus 
tnrfus)  e  lo  assibilino  se  essa  è  media  (alsufi,  inulsus  da  vìulgeo,  mersus  spar- 
sus  tersiis);  '  il  che  certo  non  avverrebbe  se  -gt-  si  fosse  sin  dal  primo  suo  nascere 
ridotto  immediatamente  a  -cf-,  e  '^ spargtus  fosse  stato  indiscernibile  à.^,  farctus. 
Bisogna  dunque  andar  molto  adagio  a  negare  ciò  che  il  Lachmann  constatò  come 
un  fatto  e  l' Ebel  affermò  come  un  principio.  Su  un  altro  punto  batte  l' Ulrich ,  dove 
se  non  dà,  a  parer  mio,  nel  segno,  concorda  però  con  dotti  ben  autorevoli  e  ri- 
chiama fatti  degni  di  molta  ponderazione.  Avverte  che  l'it.  Utto^  il  h.  lioint  oint,  il 
fr.  dit,  accennano  ad  una  quantità  diversa  da  quella  che  sogliamo  attribuire  alle 
loro  basi  latine.  Ma  gli  è  che  codeste  non  sono  se  non  deviazioni  relativamente  se- 
riori prodotte  da  analogia  morfologica.  Lètto  è  rifatto  su  ìèggere;  a  quel  modo  che  il 
tose,  ^^('sto  (di  contro  allo  sp.  jmesto ,  napol.  puostó)  e  pósi  si  sono ,  tralignando  da 
pusui  pìjsitus^  rifatti  su  pórre  piónere.  Lo  stesso  più  là  diremo  (^  ptoint  e  sim.  E 
anche  dit,  conio  s^.-dlcho,  è  certo  conformato  al  riflesso  di  dico  dlxi;  tanto  è  vero 
che  in  Bénoit,  are.  Beneoit,  e  nel  pg.  Lèido  benedetto  Benedetto  benedettino  (cioè 
"hnénto  per  *henétó);  dove  l'accezione  participiale  è  obliterata,  si  ha  il  regolare  ri- 
flesso di  dictus.  Allo  stesso  modo  il  tose.  sost.  pòsta  si  è  sottratto  al  tralignameuto 
che  è  in  pósto. 

Quanti  tra  i  romanisti  abbiano  dal  1880  in  poi  applicato  il  nuovo  criterio, 
sarebbe  difficile  dire  senza  cadere  in  omissioni  :  mi  limito  a  ricordare  '  honoris  causa  ' 
il  Paris  {Romania,  a.  1881). 

Certo  che  ora  gli  studiosi  della  degenerazione  del  latino  si  posson  gloriare  d'aver 
insegnato  qualcosa  ai  nobili  indagatori  della  genesi  del  latino  medesimo,  giacché, 
come  s'è  più  sopra  accennato,  oggimai  parecchi  di  costoro  hanno  dalla  glottologia 
romanza  attinto  voglia  e  lena  di  perscrutare  la  quaiitità  delle  vocali  latine  in  posi- 
zione ,  e  ad  essa  domandano  i  pronunziati  suoi  o  pigliano  a  prestito  gli  strumenti. 

La  considerazione  dei  riflessi  romanzi  è  continita  e  sufficientemente  accurata 
nel  Manualetto  già  ricordato  del  Marx,  il  quale  dovrebbe  ora  trovarsi  nelle  mani 
di  tutti  i  romanisti.  Sotto  un  certo  rispetto  questo  libercolo  è  a  rifar  di  pianta;" 
ma  ciò  non  detrae  al  merito  di  chi  lo  compose.  Si  apre  con  un  proemio  del  Bììcheler, 


'  Lo  formo,  ohe  paion  far  eccezione,  in  dnll.iis,  iimlsiis  dn  mtitce.o,  fnrsns,  parxnrux.  sono  Kf.acciate 
riconiazioni  analogiche;  o  difatto  non  occorrono  so  non  in  scrittori  pili  o  men  t.ariliyi  {Tertulliano,  Apnlejo....  al 
più  Svetonio). 

'Basti  dire  che  vi  è  posta  conio  IiuiRa  la  vocale  (tifi  «sim  o  sim.,  di  mnr.ins.  S2>arsn.'ì  e  sim,,  di  ii  hi  i/ ij  <ì  a  1  a 
di  intera,  di  cippus,  di  flrmim,  ecc. 


—  405  - 

che  em;mera  i  varii  mezzi  che  si  hanno  per  questa  indagine.  Il  Marx  poi  nella  pre- 
fazione sua  ne  aggiunge  qualche  altro ,  fa  considerazioni  critiche  sopra  essi  tutti ,  ed 
enumera  alcuni  dei  suoi  predecessori.  Indi  in  una  lunga  introduzione  fa  una  scorsa 
sui  suoni,  sulle  forme,  sui  suffissi  della  lingua  latina  sotto  il  rispetto  dell'argomento 
suo.  Vien  da  ultimo  il  lessico,  dove  per  molte  parole  sono  anche  enumerati  gì' in- 
dizii  onde  è  cavata  la  quantità  che  loro  si  attribuisce;  e  al  lessico  è  aggiunto  un 
elenco,  che  ne  è  estratto,  delle  -voci  con  vocale  lunga.  — Parecchi  degli  errori  fon- 
damentali del  Marx  e  di  alti-i  si  trovano  ottimamente  contraddetti  dall'  Osthoff  in 
un'  appendice  {Lat.  -ss-  und  -s-)  al  suo  libro  sul  Perfetto;  '  nella  quale  mostra,  larga- 
mente adoprando  i  riflessi  romanzi,  come  in  ogni  voce  latina  con  -ss-  bisogni  porre 
che  fosse  breve  la  vocale  che  lo  precede,  e  come  nei  doppioni  quali  glutus  gluttus, 
litera  littera,  cupa  cuppa  e  sim. ,  la  vocale  si  debba  essere  sempre  abbreviata  nel 
raddoppiarsi  la  consonante  {litera  littera).  Non  è  che  in  ogni  singolo  suo  concetto 
o  criterio  io  possa  consentire  con  lui;  e,  p.  es. ,  di  quanto  egli  ragiona  nello  scorcio 
di  iin  suo  capitolo  (p.  111-17)  contro  alla  celebre  norma  Lachmanniana  sui  perfetti  e 
supini  poco  0  nulla  mi  par  da  accogliere.  "  Ma  è  innegabile  che  l' acuto  glottologo  ha 
anche  sul  nostro  argomento  gettato  un  bello  sprazzo  di  luce.  '  —  L'  ultimo  ad  occu- 


'  Zar  GescJiìcMc  des  Per/ects  im  Itidogcmianischcn  ecc.  Strassburg;,  1884,  p.  522-71. 

"Non  mi  parcelle  strtctus  {lì  fois'  smahe  plctus,  ftcttis  da /ijii/ej-e  e  m?ciM«t  sebbene,  mancando  diretti 
continuatori,  romanzi  manchi  la  spia),  dia  troppo  forte  scossa  a  quella  norma.  Si  consideri,  confrontandolo  a 
CI  net  US  ecc.,  unctus  ecc.,  che  esso  è  privo  della  nasale  e  rappresenta  quindi  una  fase  storica  diversa.  Si  direbbe 
quasi  che  le  radici  in  media  abbiano  il  participio  conia  lunga  in  tre  tipi:  in  /ìctus,  sùctus  ecc.  da /7  i/o, 
sugo  ecc.,  ialè  ct-tis,  uctus  ecc.  da  lì^'t/o,  ago  ecc.,  in  clnctus.  unctus  ecc.  da  ctngo,  ungo  ecc.;  e  il  participio 
con  la  breve  là  dove  invece  la  nasale  è  nel  presente  e  perfetto  e  manca  nel  participio:  stringo,  strlnxi,  st  rictus 
e  sim.  A  ciò  veramente  contraddice  la  lunga  che  in  tactus,  fractus,  2)oc(KS  (da  ^jani/erc)  sembra  attestata  se 
non  dai  riflessi  romanzi  che  per  l' a  nulla  mai  provano  ,  dai  composti  intactus,  compactiis  ec.  con  Va  non  alte- 
rato in  e  come  lo  sarebbe  se  fosse  breve  {recéptus  ec.)  Sennonché  si  tratta  della  formula -a «</-  ohe  può  aver 
avuta  sorte  diversa  (com'  ha  diverso  perfetto)  dalla  -ìng  ,  comunqiio  una  tal  differenza  s'abbia  asjiiegare.  E  tra  le 
altro  cose  potrebbe  strictus  ecc.  essersi  conformato  a  rlìctus.  Colgo  poi  quest'occasione  per  far  rilevare 
come  in  un  quinto  tipo  la  radice  in  media  mantenga  la  breve  nel  participio,  quando  cioè  alla  media  preceda 
una  liquida  e  il  suffisso  participiale  abbia  quindi  la  degenerazione  sibilante,  vale  a  dire  in  aparsus  (cfr.  con- 
spcrsus),  viersus,  morsus  (cfr.  tose,  mòrso,  nap.  muorzo,  sp.  almuerzo)  ecc.  —  Quanto  poi  al  distaccare,  che 
r  Osthoff  fa  (p.  606-7),  l'it.  vétta  da  vitta  per  rioonnettei-lo  a  evecta,  postulando  cosi  uà  ve  et  us  contro  al  gelliano 
vectus  comunemente  ricevuto,  non  mi  par  che  egli  faccia  bene.  Certo  il  ricorrer  come  fa  all' e  stretta  dell' it. 
vette  'leva'  per  mostrare  lunga  l' e  di  veetts  è  una  ingenuità;  che  vette  è  un  crudo  latinismo,  e  se  pure  ha  l'è  stretta, 
come  dice  il  Fanfanì,  ch*o  ne  dice  poi  d'ogni  sorta,  l'ha  perchè  una  cosi  inusitata  parola  sì  conforma  forse,  quella 
rara  volta  che  si  profferisce,  all'usuale  vétta,  con  cui  se  nulla  ha  di  comune  per  il  significato  ha  quasi  piena  iden- 
tità per  il  suono. 

"^  Tra  le  percezi oni  felici  dell' O.  annovero  anche  V-tssimtis  che  egli  sostituisce  a  V  Tssimus  comunemente 
ammesso,  e  il  considerare  quindi  come  semidotto  il  superlativo  romanzo.  Io  avvertirei  che,  se  quest'ultima  cosa 
appare  evidente,  p.  es. ,  nel  portoghese  e  nel  francese  ,  non  è  strana  neanche  per  l' italiano,  se  si  considera  che  un 
altro  suffisso  simile,  quello  del  numerale  ordinativo,  vi  è  pure  semidotto  {-esimo  =  csimus).  Richiamerei  insieme 
l'attenzione  suW -essema  di  antichi  testi  meridionali;  chi  sa  non  siasi  avuta  in  questa  parte  d'Italia  la  continuazione 
popolare  mancante  altrove  (altri  ha  già  osservato  lina  consimile  forma  in  testi  di  latino  volgare  :  Seelmann,  p.  99).  — 
Mi  sia  lecito  fare,  per  incidenza,  un'  altra  osservazione.  L'  O.  si  attiene  alla  vecchia  equazione  -issimHS=-*'isti- 
taus,  ascrivendo  poi  a  influsso  del  suffisso  numerale  ordinativo  l'alterazione,  uscita  oramai  di  moda,  di  -st-  in 
-ss-.  Io  preferisco  Vipotesi  del  Cocchia,  e  mi  fa  specie  che  non  sia  piaciuta  all'  O.  a  cui  veniva  cosi  bene  in  taglio. 
Combinandole  intuizioni  dell'uno  e  dell'altro  io  porrei:  -iss-i  mus  =  ^-ls-imHS,  cioè  -ìs-  (=-jos- suf  comparat.) 
-j-  1'  -imus  di  inflmus  e  sim.  ;  e  il  mancato  rotacismo  (cfr.  del  resto  nasus  ecc.,  suU.a  qual  serie  piacerebbe  di  ve- 
der fatta  una  speciale  ricerca)  spiegherei  con  V  influsso  di  -ensimiis,  -e  s  imus. 


—  40G  — 

parsi  di  esso  argomento  è  stato  il  Seelmaun  nel  suo  dotto  e  giudizioso  libro  suUa 
pronunzia  del  latino.  '  A  lui  perdonerei  in  ogni  modo  di  avere,  in  fin  di  questo,  espo- 
sto e  confutato  cosi  infelicemente  il  mio  studio  sui  riflessi  di  viginfì  ec. ;  ma  tanto 
più  di  cuore  rinunzio  ad  ogni  lamento  in  quanto  che  vedo  da  lui  trattato  in  modo 
così  egregio  e  con  così  pieno  affiatamento  co'  romanisti  la  quantità  naturale  in  po- 
sizione. 

Troppo  lungo  sarebbe  enumerare  le  tante  buone  notizie  ed  osservazioni  raccolte  , 
nelle  pagine  che  a  questa  consacra;  e  neppur  vorrò  insistere  su  tutti  i  punti  in  cui 
non  posso  accordarmi  con  lui  o  su  quelli  in  cui  vedo  che  egli  m'ha  rubato  le  mosse; 
bensì  mi  limito  a  poche  spigolature.  Giusta  in  complesso  mi  pare  l' osservazione  che 
in  certe  voci  composte  la  vocale  seguita  da  -ns-  -nf-  siasi  riabbreviata  come  per  una 
nuova  ricomposizione,  e  così  siasi  riavuto  ìnsimul  ìnfans  cottsi7i«tm,  ecc.;ma  più 
che  di  vera  ricomposizione  si  tratta  almeno  in  casi  come  cdusilium,  di  cui  il  se- 
condo elemento  non  era  più  perspicuo ,  di  semplice  influsso  analogico  delle  tante  voci 
dove  '4Jt-  con-  son  seguite  da  altra  consonante  {induco  e  sim.).  Comunque,  cosi  i  ro- 
manisti potranno  ora  spiegarsi  l' inflat  che  sta  a  base  di  enfia  enfle.  '  A  torto  invece 
mi  par  che  voglia  breve  la  vocal  radicale  in  traxi  vinxi  duxi  repsi  (cfr.  avvinsi  con- 
dussi); e  lunga  quella  di  jussi  jussus,  che  certo  non  è  provata,  come  ei  pretende, 
dall'are,  iousit.  Riconosce  anche  lui  la  serie  delle  coppie  cupa  cappa  ecc.,  ma  non 
so  comprendere  come  v'aggiunga  un  sOcitis  soccius;  giacché  se  anche  vuol  darsi 
peso  al  soccius  di  due  iscrizioni,  esso  non  mena  però  a  scrollare  il  sòcius  cosi  sal- 
damente attestato  dalla  poesia  latina.  Vivamente  anche  contrasterei  alla  tendenza 
che  egli  ha  comune  col  Forster,  a  voler  lunga  la  prima  vocale  di  dies  fui  cui  e  sim., 
a  veder  nei  riflessi  romanzi  la  prova  di  ciò  e  insomma  a  considerar  come  una  pura 
convenzione  dei  poeti  la  norma  "vocalis  ante  vocalem  corripitur",  se  quest'altra 
specie  di  vocale  in  posizione,  cioè  in  iato,  non  fosse  affatto  diversa  da  quella  onde 
qui  ci  occupiamo,  e  se  non  avessimo  già  altrove,  e  in  buona  compagnia,  fatto  quel 
contrasto.  ' 

Quanto  alla  teorica  che  accoglie  dall'  Havet,  che  nel  latino  popolare  finisse  ad 
abbreviarsi  la  vocale  liinga  seguita  da  Hq.  +  cons.,  ovvero  ìi  4-  cons.  e  così  si  spie- 
ghino o/^re,  lordo,  ioint  e  sim.,  onze,  once;  di  fronte  a  ìàridus,  imdecim,  iuncius 


'  Die  Aussj'rache  des  Laieins,  Heilbronn,  1885;  p.  69-70,  77-109,  391 

■  Invece  terremo  fermo  constai  (ofr.  coàtcì  malgrado  l'ifc.  còsta,  che  può  aver  seguitato  còsta  scosta  con  ne- 
ròsta  e  sim.  o  altre  voci  in  -òst-.  Cfr.  sòsta  aìibstat.  Viceversa  //uiifia  non  esige  ili  necessità  cTiii/laf,  potenJo  esso 
appartenere  alla  numerosa  serie,  di  cui  altrove  diremo,  degli  c5=o  av.  nas.-ì-  cons.,  alla  serie  cioè  di  cónte  comitem, 
pómpa  n'iimii  eoo.  Móstra  e  móstro  accennano  a  mònstrat  -um.  —  Tornando  a  in/lat  cM  consideri  lo  sp.  lanchar 
(invece  liencUr  tmplere)  può  esser  tentato  a  vedervi  riflesso  Vinflat  della  fase  ciceroniana  e  metter  questo  as- 
sieme agli  altri  casi  in  cui  la  Spagna  continua  una  latinità  più  classica  di  quella  che  è  a  base  della  rimanenti'  ro- 
manità. 

'  Solo  richiamo  ora  di  sfuggita  l'attenzione  sulla  fiacchezza  di  certi  argomenti.  Che  nella  prosa  si  dicesse 
uudXlt  e  sol  nella  poesia  dudìit  non  mena  a  nulla,  trattandosi  di  una  'forma'  ossia  di  ima  voce  rattenuta  dalle 
altre  con  cui  fa  sistema.  Che  un  grammatico  attesti  essersi  'arcaicamente'  detto  fa  mèi,  e  nel  perfetto  annuii,  di 
ironte  al  pres.  dnn  Tt  it,  non  prova  punto  che  codeste  voci  non  cedessero  poi  alla  norma  dell'  abbreviazione,  anzi 
mosti-a  il  contrarlo. 


—  407  — 

e  sim.  ed  a  nltrn  che  sarebbe  attestato  dall'apice  di  ima  iscrizione  autorevolissima, 
e  ùncia  che  suolsi  riconuettere  a  uiiicns;  noi,  pur  riconoscendo  in  gran  parte  i 
fatti  sin  un  certo  senso  la  sintesi  che  se  ne  fa,  vorremmo  una  spiegazione  un  po' di- 
versa. Intanto,  noi  stabiliamo  anche  classicamente  ■Ancia  di  cui  accettiamo  la  ricon- 
nessione corssenia3ia  con  oy/.o;  ;  *liìrchts  lo  stimiamo  una  semplice  assimilazione  a 
sicrdus  iilrdus;  e  la  base  óndeci  a  cui  s'  attengono  francese,  spagnuolo,ecc.,  mentre 
alla  base  undeci  restan  fedele  toscano ,  milanese ,  ladino ,  ecc.,  sarà  dovuta  semplice- 
mente all'influsso  della  lunga  serie  degli  -Und-  (Unda  ùnde  rotùndus,  ecc.);  e 
tdtra  se  fu  davvero  lungo,  s'  abbreviò  pure  per  assimilazione  alla  lunga  serie  degli 
-flit-  (;mi'dtus,  ecc.);  e  la  base  gìonto  onto  ponto,  a  cui  s'attiene,  oltre  il  francese, 
qualche  altra  parte  della  romanità  (sanese,  napolet.,  ecc.),  può  ben  essere  un'assi- 
milazione seriore  analogica,  non  latina  ma  romanza,  sebbene  come  tale  antica,  del 
participio  al  presente,  gionijo  :=  iiingo,  ecc. 

La  rassegna  è  finita.  Guardando  all'  indirizzo  presente  della  ricerca,  è  bello  il 
vedere  come  latinisti  e  romanisti  '  conjurant  amice'  a  menarla  avanti.  Essi  però  risi- 
cano talvolta  di  cader  nel  vizio  di  tutti  i  congiurati,  di  fidarsi  troppo  l'uno  del- 
l' altro.  Ed  è  bene  che  il  romanista  si  ricordi  come  non  ogni  etimologia  che  si  trovi 
anche  nei  più  cauti  indagatori  della  parola  classica  è  certa;  come  non  ogni  precetto 
di  grammatico  antico  sia  attendibile;  non  ogni  iscrizione  sia  esatta  nella  nota- 
zione degli  apici  e  delle  i  longa,  e  anzi  da  certa  epoca  in  poi  le  epigrafi  sieno  in  ciò 
assai  mal  fide;  '  come  lo  stesso  debba  dirsi  delle  trascrizioni  greche.  E  viceversa  il 
latinista  deve  stare  in  guardia  contro  alcuni  pronunziati  della  glottologia  romanza  che 
posano  su  incerte  fondamenta;  rammentare  come  ai  monumentali  lavori  delDieznon 
si  possa  ricorrere  con  la  sicurezza  che  ogni  particolare  ne  sia  oggi  accettabile;  come 
tra  gli  stessi  romanisti  più  recenti  alcuni  non  abbiano  veduto  chiaro  in  ogni  cosa. 
Neanche  debbono  con  troppa  disinvoltura  adoprare  da  sé  i  procedimenti  della 
scienza  del  Diez,  che  in  mano  di  estranei  possono  condurre  a  cose  erronee  o  insi- 
gnificanti. Certo  un  romanista,  in  ispecie  se  italiano,  non  piiò  non  sorridere  a  ve- 
der addotto  V  i  di  delitto  e  derelitto  come  prova  che  1'  i  di  relictus  sia  lungo!  o  che 
adusto  e  combusto  confermino  la  lunga  in  nstus!  o  che  ispido  e  afflitto  valgano  a 
mostrare  l' ì!  '  Ed  è  un  vero  sbalordimento  il  leggere  che  vi  sia  un  antico  francese 
froit  che  valga  a  far  postulare /j'wcfes.'.'  Eppure  è  giusto  avvertire  che  l'autore  di 
quest'  ultima  trovata  è  stato  poi  il  primo  forse  a  notare  che  il  pcp.  fr.  mis  ant.  sp. 
miso  non  supponga  un  *misus,  come  qualche  romanista  ha  voluto,  bensì  sia  rifog- 
giato sul  perf.  mis  =;  misi.  '  Difficile  è  in  molti  casi  il  sentenziare  perchè  i  varii  criterii 


'  Si  veggan  le  osservazioni  di  Corssen  nei  luoghi  già  citati  del  Ziir  it.  Spraclik.  e  del  Seelmann.  Quest'  ultimo 
fa  anclie  bene  a  ricordare  che  esiste  un  accento  epigrafico  che,  quantunque  più  grande,  somiglia  all'apice  e  si 
può  scambiare  con  esso.  L'Henzcn  poi  e  lo  Zangemeister  hanno  osservato  che  nel  corsivo  fu  largamente  usato  l' i 
longum  a  sproposito,  sol  perchè  più  perspicuo  dell'  i  corto. 

'  È  inutile  dire  che  codeste  voci  italiane  son  tutte  semidotte. 

■'  All'  inverso  del  toscano  popolare ,  che  rifoggiò  il  perfetto  (méssi)  sul  participio  mésso  =  nussus. 


onde  si  può  scandagliare  la  quantità  si  trovino  in  coutradizione  tra  loro.  Un  pre- 
cetto, per  es.,  di  Prisciano  afferma  la  lunga,  il  riflesso  romanzo  esige  la  breve;  e 
così  via.  In  tali  casi  il  criterio  più  sicuro  quando  sia  adoperato  con  tutte  le  cautele 
è  quello  fornito  dalla  parola  neolatina,  poiché  questa  è  un'attestazione  'nòiturale" 
della  cosa:  è  un  testimone  talora  smemorato  ma  sempre  sincero,  ed  è  vivente  e  si  ■ 
può  riconsultare ,  mentre  degli  altri  morti  testimoni  non  abbiamo  clie  '  la  deposi- 
zione scritta. ' 

E  la  parola  romanza  può  prestare  anche  qualche  servigio  a  far  ben  compren- 
dere che  cosa  sia  in  sé  stessa  la  lunghezza  di  posizione  nelle  lingue  classiche;  come 
mai  cioè  avvenga  che  in  mòrtuus  e  sim.  la  prima  sillaba  pesi  nel  verso  quanto  la 
prima  di  mòtus  o  ài  2}>'ómptus  dove  è  una  vocale  lunga.  E  per  una  'convenzione', 
si  dice;  e  questo  volean  intendere  i  Greci  con  (diati,  contrapposto,  come  nella  que- 
•stione  della  origine  del  linguaggio  e  in  altre,  a  tph-ji'.;  e  questo  intesero  pure  i  Latini 
quando  tradussero  con 'positione'  (cfr.  il  'diritto  positivo"  contrapposto  al  'natu- 
rale'), sebbene  dipoi  il  senso  della  voce  tralignasse  e  finisse  a  significare  la  'situa- 
zione' della  vocale  avanti  a  più  consonanti.  '  Ma  è  una  convenzione  fondata  sulla 
natura,  appunto  come  la  legge  positiva  -pxiò  esser  fondata  sull'equità  naturale:  que- 
sto sostiene  I'Havet  in  una  bella  Memoria  ove,  con  quella  sua  larghezza  di  s^^irito 
e  di  dottrina,  schiarisce  assai  bene  la  natura  della  posizione  in  sanscrito,  greco  e 
latino.'  Il  fondamento  naturale  é  che  quando  si  dice  mor-tuus  la  prima  sillaba  im- 
porta più  tempo  che  non  in  viò-ri.  Lasciamo  stare  quel  viluppo  matematico  delle 'more" 
e  delle  'mezze  more'  in  cui  s'intricarono  certi  grammatici 'mauri'  antichi  e  appresso 
a  loro  alcuni  moderni,  quali  il  Corssen  e  il  CaneUo,  e  dove  oltre  il  resto  manca  so- 
prattutto la  matematica.  ^  E  neppure  vorremo  accogliere  un'  altra  dottrina  che  in 
forma  più  eccessiva  è  stata  messa  innanzi  dal  Baudry,'  e  sotto  sembianze  più  miti 
dall'  Havet  (1.  cit.)  e  dall'  Edon  ;  ''  la  quale  consiste  nel  supporre  che  fra  1'  /•  e  il  *  di 
mòrtuus,  fra  il  ^  e  il  <  di  càpUis  e  cosi  via,  vi  sia  una  specie  di  sosta  che  distac- 
cando l'una  consonante  dall'altra  appesantisca  le  sillabe  càp-  mòv-  e  sim.  Il  Baudry, 
ricordando  i  persiani  che  pronunziando  il  francese  dicono  quasi/eraficats  oheject  ecc. 
e  i  selvaggi  della  Nuova  Zelanda  che  chiaman  Wìkitoria  la  regina  d'Inghilterra, 
immagina  che  un  quissimile  facessero  i  Latini  !  L'  Edon  adducendo  un  gran  numero 
di  forme  epentetiche  latino-volgari  (p.  es.  mdtbihus  per  matribus)  desunte  dallo  Schu- 
chardt  e  dai  manoscritti  virgiliani ,  e  affiancandoli  con  esempii  tratti  dal  neo-proven- 
zale, vuole  egli  pure  che  tra  le  due  consonanti  successive  si  avesse  una  'pausa'.  Ma 


'  n  primo  grammatico  presso  cui  il  Tliurot  (1.  cit.),  a  cui  dobbiamo  la  storia  di  codesta  terminologia,  trovi  il 
senso  tralignato ,  è  Mario  Vittorino  del  seo.  IV. 

'  Mém.  de  la  Soc.  de  Hnguist. ,  IV,  21-27.  Di  (inalche  punto  in  cui  l'autore  non  mi  persuade  del  tutto  tooclieró 
ira  poco.  , 

»  Con  larga  vena  di  ottime  ragioni  critica  codesta  infelice  dottrina  I'Edon  nel  suo  libro  Ecriture  etprononcia- 
tiondu  latin  savant  et  du  latin popuìaire ,  Paris,  1882;  p.  193-211. 

'  Ch-ammaire  comparée ,  Paris  1866;  p.  10-13. 

'•  Op.  cit.,212'sog. 


—  100  — 

il  fidarsi  a  quella  babilonia  di  storpiature  barbariche,  di  peculiarità  provincialesche, 
di  sbadataggiui  e  «toltozze  individuali  che  è  il  volgar  latino ,  per  ricomporre  il  latino 
schietto  e  sano ,  mi  par  come  voler  cogli  avanzi  d' ixn  teatro  anatomico  formare  una 
persona  bella  e  viva  ;  mi  riesce  quasi  tanto  strano  quanto  il  consultare  il  franco-per- 
siano e  r  anglo-zelandese  !  L' Havefc  è  ben  più  discreto  :  a  lui  basta  che  tra  le  due 
consonanti  vi  sia  una  certa  rèmora,  un  'silenzio',  che  sommato  con  la  consonante 
antecedente  costituisca  com' un' altra  'mora'  da  sommare  con  quella  della  vocale 
breve  precedente.  Ma  qiianto,  anche  ridotta  a  codesti  così  discreti  confini,  la  dot- 
trina del  distacco  tra  le  due  consonanti  sia  falsa,  lo  mostra  se  non  altro  il  fatto  che 
la  posizione  ha  luogo  anche  per  una  consonante  raddoppiata  {(jutta  passus  ecc.),  la 
quale  è  un  proflferimento  unico  e  non  si  saprebbe  immaginare,  massime  se  è  esplo- 
siva, divisa  in  due  metà  discontinue. 

Eppur  la  cosa  a  me  par  semplicissima,  e  vedo  con  piacere  che  allo  stesso  modo 
la  intenda  un  altro  studioso.  '  Tra  le  due  consonanti  non  vi  è  nessuna  discontinuità, 
ma  è  pur  certo  che  la  parola  consta  di  successive  articolazioni  o  sillabe.  Ora,  se  ca- 
pita una  sola  consonante  tra  due  vocali  essa  si  articola  colla  vocale  successiva  {mo-ri), 
se  le  consonanti  son  due  la  prima  s'abbarbica,  s'addossa,  alla  vocale  precedente 
(mor-te,  mul-tn,  caii-tu.,  cam-jio,  cos-ta,  dic-to,  cnp-to  ...);  e  perfino  quando  non  di 
un  gruppo  di  diverse  consonanti  ma  si  tratta  di  un'  unica  consonante  intensamente 
profferita  e  perciò  rappresentata  dalla  scrittura  con  raddoppiato  carattere,  anche 
allora  una  parte  di  essa  si  addossa  alla  vocale  precedente ,  e  la  ortografia  non  men- 
tisce quando  prescrive  che  in  fin  di  riga  si  spezzi  gut-ta  e  sim.,  per  quanto  codesto 
distacco  preso  troppo  alla  lettera  menerebbe  ad  un  profferimento  assurdo.  E  vero  che 
consultando  alla  buona  l' orecchio  pare  che  la  doppia  consonante  s'  addossi  tutta  alla 
seguente  vocale,  e  così  alcuni  pedagogisti  (Lambruschini,  Casanova  ....)  han  creduto 
insegnar  nelle  prime  scuole  a  spartire  go-ccia  passo  e  sim.  ;  ma  un  esperimento  più 
fino  ci  fa  subito  riconoscere  c'he  se  almeno  per  le  mute,  1'  esplosione  si  addossa  dav- 
vero alla  vocale  successiva,  il  contatto  però  è  già  formato,  1'  abbrivo  alla  pronunzia 
della  doppia  muta  è  già  dato,  la  consonante  è  già  incoata,  avanti  che  la  prima  ar- 
ticolazione si  compia  ;  e  per  le  continue  poi  neanche  1'  apparenza'  della  cosa  ha 
luogo ,  ed  è  evidente  anche  ad  un  fanciullo  che  dicendo  carro  metà  del  rr  s'  addossa 
all' rt.  Or  la  sillaba,  avendo  oltre  la  vocale  breve  un  qualcos'altro  di  più,  dura  di 
più  e  perciò  la  si  considera  come  se  avesse  la  vocale  lunga:  ecco  tutto!  Chi  vedesse 
in  ciò,  e  non  mancano  indizii  che  qualcuno  vi  propenda,  una  mera  convenzione,  po- 
trebbe essere  redarguito  anche  con  certi  fenomeni  neolatini.  È  risaputo  che  il  fran- 
cese dice  char  pas  chasse  marbré  di  fronte  a  cher  nez  chef,  e  goutte  conte  di  f.  a  gueule 
jletir ,  ed  esso  e  il  toscano  dicono  corpo  corps  di  f.  a  cuore  coeur,  cervo  ferro  cerf  fer 
di  f.  a  2}iede  fiero  pied  fier  ;  vale  a  dire  che  la  degenerazione  di  «  in  e,  "ài  6  in  no  U  ecc. 
non  ha  luogo  quando  v'è  posizione,  e  che  questa  impedisce  la  schiusa  o  promuove  il 


'  Gaklanda,  Della  lioigìwzsa  di  posizione  ecc.;  nella  Rivistaci  Torino,  X,  Febbraio-Marzo  1882.  E  uno  scritto 
limpido  e  pieno  di  buon  senso. 


—  410  — 

riassorbimento  (non  è  qui  il  momento  di  scegliere  fra  le  due  ipotesi)  del  dittongo 
dell' o  e  dell' e.  Or  la  fonetica  popolare  non  adula,  non  conosce  convenzioni:  dando 
tanta  importanza  alla  posizione,  attesta  la  naturalità  di  questa. 

E  che  cos'è  la  'positio  debilis"?  L'Havet  e  il  Garlanda  l'hanno  ottimamente 
spiegata.  Quando  il  gruppo  consonantico  consiste  in  una  muta  seguita  da  una  li- 
quida, l'articolazione  l'unisce  tutto  alla  vocale  successiva  (j)à-tre  vo-Iiì-cri ....),  e 
anche  qui  la  cosa  è  splendidamente  confermata  dal  neolatino.  Già  vi  è  ricorso  l' Ha- 
vet  accennando  a  j^ère  clièvre  di  f.  a  2>a''i  cliarte,  e  si  può  richiamare  inetra  pierre,  in- 
tiero entier  ecc.  di  f.  a  aperto  ouvert,  verme  ver  ecc.  ;  le  quali  serie  mostrano  come  per  la 
parlata  latina  Va  di  patre  e  capra^  l'è  di  pètra  integro-  si  trovasse  in  sillaba 
aperta  non  meno  che  in  mare  férus  e  sim. ,  ossia  che  la  liquida  abbarbicata  alla 
muta  non  impedisse  a  questa  di  articolarsi  tutta  con  la  vocal  successiva,'  né  alla 
vocal  precedente  di  avere  se  era  breve'  l'evoluzione  di  breve.  Or  bene  la  poesia  an- 
tica, quando  per  comodo  suo  computava  come  facienti  posizione  anche  i  gruppi  ^c 
cr  hi  ecc.,  non  faceva  altro  che  artificialmente  distaccare  un  pochino  la  muta  dalla 
sua  saldatura  colla  liquida,  e  addossandola  alla  vocale  precedente  allungare  cosi  la 
sillaba:  diceva  pai-i-e  voluc-rì.  Qui  davvero  si  potrebbe  quasi  riconoscere  ima  mera 
convenzione, ma  è  jDur  sempre  un  di  quegli  artificii  che  hanno  una  base  naturale  come 
silua  per  silva^  ^jajyeiiòiis  '^ex  parietihus ,  coscienza  per  coscienza  e  sim.:  che  in 
fondo  gli  artificii  della  poesia  a  questo  si  riducono,  a  stiracchiare  un  po' la  natura 
non  a  violentarla.  E  a  meglio  mostrare  come  nel  caso  nostro  non  mancasse  la  base 
naturale  basta  rammentare  che  quando  la  muta  era  finale  di  una  parola  e  la  liquida 
iniziale  della  parola  seguente,  la  posizione  non  era  debole  o  facoltativa  ma  neces- 
saria, come  in  nec  rumor  ec;  appunto  perchè  qui  il  senso  stesso  portava  al  distacco.^ 
Computando  mac-rum  ec.  non  si  faceva  che  estendere  alla  formula  interna  il  com- 
puto che  era  naturale  in  nec  rumor  ecc.  Ma  che  il  distacco  importasse  quasi  una 
vera  e  propria  epentesi,'*  fu  un  sospetto  eccessivo  del  Canello,  che  pure  aveva  in- 
tuito feKcemente  la  vera  spiegazione  della  posizion  fievole.  '^ 


'  Il  che  però  non  toglie  clie  il  neolatino,  schivo  coni'  è  dal  tollerare  un  gruppo  consonantico  postonico  che 
non  succeda  subito  all'accento  (rarissime  le  eccezioni  come  Tiiranto,  mandorla,  cìmberli  oc,  che  sono  o  roba  esotica 
o  bizzarrie  gergali  ec.) ,  richiami  l' accento  sulla  penultima  negli  sdruccioli  quando  l' ultima  s' apre  con  muta  -f-  li- 
quida. Ognun  ricorda  intiero,  coiilcunre,  paìipicrc,  tonncrrc,  tinicblas,  Vellclri  eco.  Ne  han  già  toccato  il  Dakmeste- 
TEB  {Eomania,V,  147,  n.  1")  e  meglio  VHavet  (Ibid..  VI,  p.  43-3-6). 

■  Giacché  è  superfluo  l'avvertire  che  la  vocale  lunga  per  natura,  anche  se  seguita  da  (r,  cr  ec. ,  non  perdo 
mai  questa  sua  qualità,  e  involTicriiìn,  salubre  ec.  son  cosi  saldi  come  volTunen  e  salTitcm.  Non  sou  che  er- 
rori l' invòlucro  e  il  salubre  ohe  alcuni  Italiani  dicono ,  sebbene  abbian  pure  un  fondamento  analogico  sali'  ìntegro, 
tenebre,  fùnebre  accanto  alpoct.  rntT'ffro  ec,  e  sul  letterario  pàlpebra  di  alcuno  Provincie  italiane  ae.  al  tose. 2^alpèbra. 

^  IVHavefc  (1.  cit.)  che  ha  altro  belle  considerazioni  sulle  aspirate  e  sul  qu'  rispetto  alla  posizione  e  sulla  posi- 
zione tra  parola  e  parola,  le  quali  ci  duole  uon  poter  riferire,  stabilisce  una  specie  di  cronologia  dei  fenomeni  della 
posizione  tra  sanscrito,  greco  omerico,  greco  classico,  latino  .aroaico  e  latino  augusteo,  contro  alla  quale  non  ab- 
biamo nulla  a  ridire  in  quanto  è  registrazione  di  fatti,  ma  che  stentiamo  molto  ad  accogliere  come  cronologia  in- 
trinseca o  iirogressione  naturale  di  quei  fenomeni. 

'  Si  potrebbe,  por  illustrare  cotesto  concetto,  citare  il  modo  come  un  dialetto  meridionale,  il  beneventano, 
pronunzia  libro,  sovra,  ohe  dice  quasi  *l'ihero,  *si'iocra. 

'  Rivista  di  Torino,  II,  2i6sgg.  —  E  curioso  davvero  che  l'epentesi,  invocata  senza  necessità  ma  non  a  spropo- 
sito dal  Cauello  porispiogara  come  la  poesia  potesse  contar  per  lunga  la  prima  sillaba  di  pàtri  e  sim.,  fosse  ado- 


—  411  — 

E  vorrei  infine  far  risaltare  la  conferma  che  da  codeste  esplorazioni  della  quan- 
tità naturale  delle  vocali  in  posiziono  viene  alle  dottrine  così  dette  neogrammaticlie. 
Non  è,  si  badi,  che  io  abbia  smania  di  far  professioni  di  fede  o  vincolarmi  con  qual- 
che legame  settario  che  mi  scemi  la  bella  libertà  di  aprir  le  braccia  al  vero  e  di  re- 
spingere il  falso  da  chiunque  quello  o  questo  muovano.  D' altro  lato ,  di  tutta  code- 
sta letteratura  neogrammatica  e  delle  polemiche  che  si  è  attirate  contro,  io  non  ho 
letto  pur  troppo  se  non  una  terza  parte  all'  incirca  ;  e  perfino  i  due  ultimi  scritti  del 
Curtius  e  dello  Schuchardt,  che  ho  qui  come  un  caro  pegno,  non  li  ho  potuti  per- 
correre ancora.  Inoltre,  uè  sarebbe  ora  il  momento  che  in  coda  a  una  trattazione 
speciale  dessi  mano  a  una  grave  discussione  di  principii ,  né  le  mie  idee  son  di  molto 
mutate  da  quelle  che  già  espressi  in  una  recensione  dell'  ottimo  libro  di  Delbriick 
(7iù\  di  Torino,  X).  Io  tengo  e  terrò  sempre  che  i  maestri  della  glottologia  sieno 
Bopp,  Grimm,  Pott,  Sclheicher,  Curtius,  Diez,  Zeuss,  Miklosich,  Ascoli,  Burnouf 

AVhitney,  Flechia,  Tobler,  Schuchardt,  Mussafia,  Paris, ,  ed  il  migliore  auo-urio 

che  per  conto  mio  sappia  fare  ad  Osthoff,  a  Brugmann,  a  Saussure,  a  Gustavo  Meyer, 
a  Neumaun  e  ad  altrettali  uomini  valentissimi,  è  che  1'  avvenire  ponga  definitivamente 
i  loro  nomi  insieme  a  quelli  più  su  ricordati  o  sottintesi.  Ma  confesso  che  la  mia 
simpatia  pei  metodi  neogrammatici  è  oggi  un  po'  più  viva  di  quella  che  mostrai  nella 
detta  recensione,  e  l' antipatia'per  il  tòno  pretensioso  onde  essi  furono  talora  annun- 
ziati me  la  trovo  oggi  neutralizzata  alquanto  dall'  impressione  non  in  tutto  piace- 
vole che  mi  fa  la  riluttanza  di  alcuni  dei  così  detti  vecchi  grammatici  conti'o  le  più 
ragionevoli  e  discrete  esigenze  della  gi'ammatica  nuova.  Sfrondata  questa  delle  aber- 
razioni individuali,  delle  troppo  precipitose  applicazioni  dei  suoi  principii,  delle  in- 
coerenze anche  e  contravvenzioni  ad  essi ,  a  che  si  riduce  in  fondo  il  suo  credo  ?  A 
ritenere  che  la  legge  fonetica ,  in  quanto  è  puramente  fonetica,  non  possa  verificarsi 
in  alcune  voci  sì  e  in  altre,  senza  alcuna  ragione,  no;  bensì  debba  essersi  verificata 
sempre,  salvochè  dove  o  speciali  condizioni  foniche  d'una  voce  o  serie,  o  l'intervento 
di  processi  psicologici  non  ne  abbiano  pertui-bata  l' azione.  Le  eccezioni  alla  legge 
fonetica  sono  innegabili,  ma  non  sono  arbitrarie,  come  la  grammatica  empirica  cre- 
deva e  come  la  vecchia  grammatica  comparativa  non  ha  abbastanza  discreduto;  non 
sono  spontanee  e  capricciose  ribellioni  alla  norma,  ma,  poche  o  molte  che  sieno,  de- 
vono aver  avuto  una  ragione  sufficiente ,  un  motivo  determinante  :  ragione  o  motivo 
che  spesso  si  vede,  spesso  s' intravvede ,  talora  dopo  molto  cercare  si  trova,  tal' altra 
si  cerca  faticosamente  invano,  ma  ad  ogni  modo  vi  deve  essere  stato.  Ora,  codesto 
concetto  è  così  ragionevole  in  sé  medesimo ,  é  jjoi  così  cònsono  all'  indirizzo  presente 
di  tutte  le  scienze  morali  sempre  più  intese  a  spiegare  con  leggi  e  con  motivi  i  moti 


perata  da  un  altro  dotto,  ohe  è  nientemeno  Giovanni  Schmidt  {Zar  Geschichte  dea  indogerm,  Vocal.,  1, 101;  II,  349), 
per  ispiegare  il  fatto  precisamente  opposto:  come  cioè  ììatri  e  sim. ,  pur  avendo  due  consonanti  attigue,  potesse 
lasciar  breve  la  prima  sillaba  e  non  la  facesse  lunga  come  parti.  Il  concetto  fondamentale  dell' illustre  glottologo 
e  le  contradizioni  in  cui  egli  cade  svolgendolo  sono  già  ben  criticati  dal  Garlanda  (1.  cit.).  Del  resto,  il  ricorrere  a 
un  *2)atcrt  (kj\j—)  per  ispiegarsi  la  misura  giambica  ('^-)  di  patr i  e  cosi  via,  è  cosa  che  riesce  subito  strana;  né 
meno  specie  fa  il  vedere  addotti  esempii  di  epentesi  quali  per  mo'  di  dire  ^-pareti  pev  parti  per  affiancare  V  ipo- 
tesi del  *pii.t(r i^pntri,  mentre  poi  parti  ha  una  'posizione'  che  non  è  mai  'debole'! 


-  412  — 

della  volontà  iudivicluale  o  collettiva  e  a  rinnegare  il  pnro  ai'bitrio,  risulta  infine 
così  evidentemente  dal  successivo  incremento  della  glottologia;  che  proprio  non  so 
intendere  come  gli  si  possa  ancora  opporre  resistenza.  Ad  ogni  fonologo  dovrebbe  la 
propria  esperienza  insegnare  che  più  egli  progredisce  nel  rischiarare  il  soggetto  cui 
egli  attende,  e  più  si  trova  d'  avere  spiegate  anomalie  e  circoscritto  il  numero  di 
quelle  eccezioni  incomprensibili,  chiuse,  petulanti,  che  gli  sono  tante  spine  nel  cuore, 
come  a  un  padre  i  figli  traviati  o  ad  un  capo  di  polizia  i  ladruncoli  su  cui  non  riesce 
a  metter  la  mano.  E  vorrei  che  un  mio  bravo  amico,  colto  e  fino  ingegno  ma  indo- 
cile alle  severità  della  analisi,  scendesse  un  po'  dalle  nuvole,  ove  sembra  avere  sta- 
bilito il  si;o  quartier  generale,  e  venisse  una  buona  volta  alle  prese  con  un  soggetto 
determinato  e  concreto  :  s'  avvedrebbe  allora  anche  lui  come  ogni  passo  che  si  riesce 
a  fare  in  questo  sentiero  della  fonologia  si  riduce  in  sostanza  a  questo,  che  un'  ecce- 
zione capricciosa  se  ne  sfuma  e  itu'  eccezione  motivata  si  acquista  : 

A  battesimo  suoni  o  a  fuuei'ale, 
Muore  un  brigante  e  nasce  un  liberale, 

diceva  il  Giusti.' 

Certamente,  la  parte  sana  del  criterio  neogrammatico  non  è  se  non  uno  svi- 
luppo di  abitudini  metodiche ,  che  erano  già  più  o  meno  nella  grammatica  anziana  ; 
è  un  lumeggiamento  nuovo  e  più  intenso  di  una  mira  a  cui  anche  prima  si  volgeva 
r  occhio.  I  romanisti  in  ispecie  erano  già  tanto  su  codesta  via  che,  quando  giunse  al 
loro  orecchio  come  una  nuova  glottologia  proclamasse  doversi  badare  a  spiegare  le 
eccezioni ,  essi  avrebbero  potuto  sentire  l' impeto  di  esclamare  qualcosa  di  simile  al 
M^'.  Jourdaiu  del  Molière,  allorcliè  fu  informato  dal  siio  maestro  di  filosofia  in  che 
consistesse  la  prosa.  '  Facciam  da  tanto  tempo  della  neogrammatica,  e  non  lo  sa- 
pevamo !  —  Egli  è  che  la  riforma  neogrammatica  altro  non  è  in  certi  limiti  se  non 
r  applicazione  alla  glottologia  classica  di  buone  abitudini  metodiche  già  vigenti 
nella  romanza  (e  nella  germanica). 

Sennonché  appiinto  1'  aver  voluta  quest'  applicazione  e  1'  aver  dato  un  assetto 
sistematico  e  rigoroso  a  criterii  metodici  osservati  per  lo  innanzi  in  modo  inco- 
stante, perplesso,  quasi  inconsapevole,  da  chi  più  da  chi  meno,  in  qual  campo 
meno  in  qual  campo  più,  è  il  merito  innegabile  e  grandissimo  dei  neogrammatici. 
Per  opera  loro  è  divenuto  impossibile  il  rimanersi  contenti,  come  prima  si  faceva 
talora ,  a  registrare  sic  et  simpliciter,  quasi  fossero  non  inverosimili  alterazioni  fo- 
netiche ,  certe  mutazioni  che  assolutamente  reclamano  una  spiegazione  d' altra  na- 
tura; alla  quale  sì  anche  prima  non  di  rado  si  ricorreva,  ma  quasi  ad  libitum.  Jli 


'  Il  Delenda  Carlhnyo ,  st.  2'^. 

'  «  M'  JouRD.:  Il  n'y  a  ([UO  la  prose  on  les  ver.s?  —  Tjf.  maitre:  Xou,  monsieur.  To«t  ce  qui  n'est  point  prose  est 

•  vor.s,  et  tout  ce  (jui  n'est  point  vers  est  prose.  —  M'  Jourd.:  Et  comme  l'on  parie,  qu'ost  ce  que  c'est  (Ione  cela?  — 

•  Le  maitre:  De  la  proso. —  M'  .Jourd.:  Qnoi!  quand  je  ilis:  Nicole,  apportoz-moi  mes  pantcuflos,  et  me  dounez  mon 

•  bonnet  do  nnit,  c'est  delajn-ose?  —Lk  maitre:  Oui ,  monsioTir.  —  M' Jourd.  ;  Par  mafoi,  il  y  a  plws  ile  quaranti- 

•  ans  qne  jo  dis  de  la  prose,  sans  quo  j'en  snsse  rien;  et  je  vous  suis  le  plus  obligò  du  mondo  do  m'avoir  appris 
■  cela.  >  —  Le  Dourgcois  yentilUommc ,  a.  II,  so.  tì". 


—  113  — 

sia  lecito  darne  un  piccolo  esempio  iit,  anima  vili  Descrivendo  aldini  anni  sono  un 
dialetto  dell'Italia  meiùdionale ,  io  avvertivo  come  il  -ss-  vi  si  trovi  (come  del  resto 
in  tutto  il  mezzogiorno  e  nella  stessa  Roma  e  nell'  Umbria)  riflesso  una  volta  per 
-zz-  nelle  sole  voci  del  vei'bo  'potere'  (pózzo  =  fiossum).  '  Potrei  ora  dire  che  io  in- 
tesi semplicemente  di  additare  codesto  esemplare  alle  riflessioni  degli  studiosi,  se 
mai  altri  riuscisse  a  spiegarlo  con  1'  analogia  o  con  altro  mezzo  consimile  a  me  non 
presentatosi;  ma  sarei  poco  sincero:  lo  misi  innanzi  come  un  vero  fenomeno  fo- 
netico eccezionale,  per  quanto  mi  sembrasse  strano.  Ed  aggiungo  che  sarebbe  poco 
sincero  chi  ora  dicesse  che  questo  fu  un  singolarissimo  abbaglio  mio,  in  cui  niun 
altro  allora  sarebbe  caduto;  quando  il  vero  è  che  di  concetti  simili  ne  pullulavano 
ogni  giorno  in  mente  ad  ogni  studioso  di  linguistica.  Ed  ecco .  un  illustre  glottologo 
mi  fece  subito  osservare  che  2JÒz~o  non  dev'  esser  altro  che  un  poteo  '* potlo  per  '^ poto 
(cfr.  caggio="cadjo,  oltre  cado),  vale  a  dire  la  voce  dell'indicativo  presente  rico- 
niata come  potere,  ecc.,  sulla  radice  2>ot-  che  risultava  da  potente,  ecc.,  con  un  pro- 
cesso in  verso  insomma  a  quello  che  ha  avuto  luogo  in  possente,  ecc.;  e  cosi  pózzo 
=:^"2^oteo,  al  par  di  pózzo  =:p)ute%isì'  E  chi  era  codesto  mio  cortese  castigatore V 
Era  il  Flechia,  un  grammatico  pur  troppo  non  giovanetto!  E  qviesta  è  una  prova 
che  non  e'  era  bisogno  dei  neogrammatici  perchè  si  ricorresse  ai  processi  analogici 
per  eliminare  le  anomalie  fonetiche.  Ma  d' altra  parte  è  pur  vero  che  né  io  né  altri 
s'attenterebbe  oggi  a  metter  fuori  quella  strana  equazione  pòzzo^=possum,  senza 
prima  averla  investita  da  ogni  lato  con  tale  insistenza  da  doversi  la  spiegazione  del 
Flechia  presentare  di  necessità  anche  a  menti  meno  della  sua  acute,  o  almeno  nes- 
suno oggi  la  metterebbe  fuori  senza  espressamente  avvertirne  la  impossibilità  fone- 
tica. E  questo  scrupolo  è  effetto  della  riforma  neogrammatica! 

Orbene,  lo  scernimento  che  i  romanisti  han  fatto  tra  le  vocali  brevi  e  le  lun- 
ghe per  natura  anche  nella  posizione,  siccome  ha  condotto  a  giustificare  e  conci- 
liare una  gran  quantità  di  riflessi  romanzi  che  prima  parevano  vaganti  e  discordi, 
non  ha  forse  giovato  così  a  confermare  il  rigore  delle  leggi  fonetiche  e  quindi  la 
giustezza  del  criterio  neogrammatico?  Il  Diez,  per  il  quale,  ad  es.,  1'  n  di  Aiigustìis, 
di  curtus  e  sim.  per  nulla  differiva  da  quello  di  justus,  di  furtìim  e  sim.,  che  in- 
terpretazione poteva  dare  al  riflettersi  che  esso  fa  d'un  rotodo  in  Agósto  córto,  ecc., 
d'un  altvo  in  giusto  furto ,  ecc.?  0  doveva  dire  che  V  n  in  posizione  quando  si  ar- 
rende a  farsi  ó  e  quando  s'incoccia  a  rimaner  u;  ovvero,  posta  la  regola  che  si 
faccia  ó,  doveva  insieme  porre  che  in  un  gran  numero  di  casi  la  mutazione,  non 
si  sa  perchè,  non  si  verifichi:  o  nessuna  legge  dunque  o  una  legge  crivellata  di 
eccezioni.  Noi  invece,  che  vediamo  in  Agósto,  ecc.,  riflesso  regolarmente  V  u,  in 
giusto,  ecc.,  continuato  semplicemente  l'«  (cfr.  jurls  furls),  troviamo  regolarità  ed 
ordine  dov'  egli  non  poteva  vedere  se  non  anomalia  e  disordine. 

Ne  consegue  che  lo  Schuchardt,  p.  es.,  avendo  per  il  primo  pensato  a  bipartire 


'  Ardi.  G/..  IV,  167  (n»  130). 
'  Ardì.  G!.,lV,im-'J. 


—  414  — 

o  per  così  dire  a  pettinare  il  gruppo  delle  vocali  in  posizione,  è  stato  così  uno  dei 
promotori  della  nuova  grammatica,  uno  dei  dimostratori,  me  lo  perdoni  il  mio 
illustre  e  caro  amico,  di  quella  inesorabilità  delle  leggi  fonetiche  contro  cui  egli 
si  è  recentemente  scagliato.  Del  resto,  non  è  la  prima  volta  che  e  nella  scienza  e  in 
ogni  altra  parte  della  attività  umana  si  rifiuti  ad  accoglier  le  conseguenze  colui 
appunto  che  ha  il  maggior  merito  nelF  aver  piantato  le  premesse.  Ed  il  certo  è  che 
fra  le  discordie  degli  scienziati  la  scienza  intanto ,  la  bella  immortale ,  procede  di- 
ritta e  sicura  per  la  sua  via.  Essa  trae  partito  così  dalle  audacie  e  persin  dalle  te- 
merità degli  uni  come  dalle  cautele  e  sin  dalle  ostinazioni  degli  altri;  e  tutti  in- 
somma congiurano  al  progresso  di  lei:  se  non  conjiiraut  cimice,  almeno  conjurant 
inimlce! 

F.  d'  Ovidio. 


P-S.  —  Arrivo  appena  in  tempo  ad  aggiunger  sulle  bozze  una  notizia  assai  im- 
portante, che  debbo  alla  cortesia  del  prof.  Teza.  Avendo  questi  saputo  com'  io  fa- 
cessi ricerca  di  quanti  abbiano  studiata  la  quantità  in  posizione  e  come  non  avessi 
trovato  alcuno  anteriore  al  Lachmann  (1850),  ha  voluto  guardare  in  un  vecchio 
libro  divenuto  raro  oramai,  V Elementari ehr e  der  lateinisclten  Sbracile,  dello  Schneider, 
e  vi  ha  trovato  più  pagine  (108-115)  intorno  al  mio  argomento,  le  quali  egli  lia  avuto 
la  squisita  cortesia  di  mandarmi  trascritte.  Di  certo  esse  non  disturbano  punto  il 
mio  ragionamento;  tuttavia  mi  son  giunte,  lo  confesso,  assai  inaspettate.  Leo 
Schneider  fin  dal  1819  trattava  dunque  questo  tema  con  grande  chiarezza  d'idee, 
finezza  di  criterio,  e  copia  di  fatti;  e  fa  veramente  stupore  che  a  lui  non  si  badasse, 
e  che  poi  quando  il  Lachmann  ripigliava  il  soggetto  non  ricordasse  lui,  e  che  nes- 
suno, ch'io  sappia,  dei  dotti  tedeschi  che  si  misero  sulla  stessa  via  pensasse  a  to- 
glierlo dall'  immeritato  oblio.  Come  è  del  pari  strano  che  il  Diez,  che  ebbe  così  fami- 
liare il  libro  dello  Schneider  (lo  cita,  p.  es.,  dove  tratta  di  e  tonico  latino,  di  >i,  di 
y,  di  «e),  non  ne  traesse  alcuna  ispirazione  in  quanto  alle  vocali  di  posizione.  E  sì 
che  la  considerazione  con.  cui  lo  S.  dà  principio  alla  trattazione  di  queste,  pareva 
fatta  apposta  per  metter  sulla  buona  via  il  Diez.  Sembra  che  sia  generalmente  sot- 
tinteso, dice  lo  Schneider,  che  la  vocale  in  posizione  sia  in  sé  stessa  breve:  eppure 
questo  è  un  errore,  giacché,  per  molte  voci  se  non  altro,  è  provato  che  è  lunga.  E 
qui  incomincia  coi  grecismi,  come  apoi)lèxia  àstJtma  eclìpsis  lèmma  orchèstra 
pléctrum  scèptrum  Cyclops  Epaminoudas  Hymèttus  ecc.,  contrapponendoli  a 
Cecròps  electrum  ecc.  Passa  quindi  alle  voci  prettamente  latine,  e  ricorda  il  luogo 
di  Cicerone  su  infelìx  ecc.  e  la  conferma  che  ne  fanno  Gelilo,  Diomede,  Massimo 
Vittorino,  Sergio  (del  quale  ultimo  avverte  come  registri  anche  Infida  e  ìnsula); 
richiama  Gelilo  per  caléscit  e  per  il  dubbio  intorno  a  quiescit;  riferisce  il  luogo 
di  Gelilo  sui  participii  e  ne  cava  suppergiù  lo  stesso  costrutto  che  poi  ne  cavò  il 
Lachmann;  né  dimentica  il  frequentativo  Iccto  messo  innanzi  dallo  scoliasta  ora- 


—    115  — 

■/Aa,no  Porfirio.  Richiama  Prisclano  per  la  norma  dei  nominativi  in  x  elio  lian  lunga 
la  vocale  quando  è  tale  anche  nel  genitivo  (audax  ec),  o  non  si  lascia  sfuggire  la 
bella  distinzione  di  Festo  tra  inlèx  inlègis  e  inlex  iiilìcis.  Lascia,  pel  momento, 
dubbio  ^y«a;,- registra  mófis  e  sim.  secondo  Prisciano;  e  distingue,  sulla  scorta  di 
Festo  e   di   itn  altro  grammatico   ignoto,   lustrum  'cubile   ferai'um'  da  lustrum 

quinquennium';  e  dal  solo  Festo  cava  mùscerda  quùicentum  (are),  e  da  Mario 
Vittorino  hUsternum.  Da  Asconio  Pediano  riferisce  che  nella  frase  poscunt  ma- 
jor ihus  pocidls  alcuni  prendendo  poscunt  per  incoativo  di  potare  lo  pronunziavano 
con  0,  mentre  non  è  che  poscunt,  cioè  provocant  sese  Invicem.  Da  Donato  e 
Servio  trae  èst  éssem  per  edit  éderem-  Ragiona  assai  bene  su  un  luogo  di  Vello 
Longo,  che  in  errasse  ahjectsse  ecc.  pare  connetta  la  lunghezza  della  vocale  alla 
geminazione  della  sibilante,  e  gli  oppone  essere  già  lunga  la  vocale  in  erràvisse 
o  in  abjecì  (né  gii  faremo  carico  che  non  abbia  pensato  che  l'ultima  fase  fosse  ahje- 
cisse).  Notevole  è  infine  che  l'acuto  filologo  già  badasse  al  buon  uso  da  potersi  fare 
delle  trascrizioni  greche  (ricorda  Kwvaravtìvo?  aazirjVz  ecc.),  e  non  gli  sfuggisse  il  jjeri- 
colo  dell'  abuso  là  dove  avverte  non  doversi  da  A^youcstoc  e  sim.  argomentare  falsa- 
mente Augnstus  e  sim.  All' etimologia,  ovvia  quasi  sempre,  ma  quasi  sempre  anche 
retta,  guardò  per  parecchie  voci,  come  v'ixi,  rèjjsi,  làrdum  (Idridum),  nndecim, 
lillla  intestino  (da  liìra),  mille,  narrare,  Olla,  Oscular,  nnntius,  nundinum , 
exlstlmo,  malie,  trfilla  (egli  aggiungerebbe  anche  hlsco  per  hiasco).  Il  viirtus 
di  una  moneta  di  Galba  non  vale  per  lui  a  scuotere  virtus,  poiché  egli  non  ignora 
l'indebito  sciupìo  che  fu  fatto  dell' t7.  —  Lo  Schneider  insomma  avea  già  messo  sulla 
via  regia  la  trattazione  del  nostro  soggetto  ;  e  clii  vi  ritornò  più  che  trent'  anni  dopo, 

la  mise  per  viottoli. 

F.  d'O. 


IL  TRATTATO  DI  POETICA  rOIITOGHESE 

ESISTENTE  NEL  CANZONIERE  COLOCCI-BRANCUTI. 


La  primitiva  lirica  del  Portogallo  ci  vieu  rappresentata  siccome  una  figliazioue  della  lirica 
provenzale,  e  infatti  basta  di  dare  uno  sguardo  alla  nomenclatura  die  fu  adattata  ai  suoi  diversi 
generi,  '  perchè  la  cosa  debba  parere  più  clie  verosimile.  È  peraltro  vera  ?  Se  ne  potrà  dubitare, 
almeno  fino  a  tanto  cbe  la  Poetica  storica  portoghese  non  sia  stata  rifatta  sopra  documenti  au- 
tentici. Questi  documenti  sono,  oltre  alle  note  che  accompagnano  molte  composizioni  nel  Canzo- 
niere Vaticano  e  nel  Canzoniere  Colocci-Brancuti ,  1°  la  nota- Lettera  del  marchese  di  Santillana 
al  Connestabile  di  Portogallo,  edita  la  prima  volta  dal  Sanchez  nel  voi.  I  delle  Poesias  Castel- 
lanas  anteriore»  al  siglo  XV;  2"  il  trattato  anonimo  che  si  legge  a  capo  del  Codice  Colocci-Bran- 
cuti e  che  fu  pubblicato  dal  povero  Molteni  nel  voi.  II  delle  mie  Communìcasioni. 

Di  questi  il  secondo  è  certamente  il  più  importante,  siccome  il  più  antico  e  il  più  ricco  di  no- 
zioni tecniche.  Ma  esso  è  anche  il  meno  accessibile  per  le  difficoltà  d'interpretazione  che  pre- 
senta il  testo.  Il  Molteni  ne  diede  lina  edizione  diplomatica  e  fece  quanto  di  meglio  si  poteva  fare 
nel  caso  suo  :  invero  la  sua  trasci-izioue  riusci  esattissima  e  appena  su  qualche  lettera  un  pedante 
troverebbe  da  disputare.  Senonchè  il  ms.  medesimo  era  già  tanto  guasto,  che  la  fedeltà  della 
trascrizione  si  risolve  in  questa  sola  guarentigia,  che  tutte  le  difficoltà  proprie  di  quello  si  ritro- 
vano nella  copia  a  stampa.  E  tali  difficoltà  non  sono  poche.  Evidentemente  il  Colocci  ebbe 
alla  mano  non  un  codice,  ma  dei  brandelli  di  im  codice;  uno  dei  suoi  amanuensi,  alla  meglio, 
materialmente  e  senza  capirci  nulla,  copiò  sei  colonne,  e  un'altra  colonna  e  mezza,  probabilmente 
in  peggiori  condizioni,  copiò  di  suo  pugno  il  Colocci:  onde,  mentre  la  parte  dovuta  al  Colocci, 
benché  scritta  in  corsivo,  è  decifrabile;  l'altra  parte  poi  dovuta  all'amanuense,  benché  in  let- 
tera tondeggiante,  riesce  spesso  oscurissima,  non  di  rado  tale  da  far  disperare  di  cavarne  un 
senso.  Forse  da  questo  viene  che,  dopo  sei  anni,  nessuno  abbia  ancora  messo  a  profitto  il  pre- 
zioso documento,  e,  se  per  ciò  si  aspetta  una  edizione  critica,  dubito  che  si  dovrà  aspettare  an- 
che di  più.  Quanto  a  me  confesso  di  averne  abbandonato  il  pensiero,  e  quel  che  offro  qui  non 
pretende  nemmeno  di  passare  per  una  edizione  provvisoria;  è  solamente  l'estratto  di  quanto  mi 
riusci  d'intendervi  o  di  congetturarvi  su,  estratto  che  forse  non  sarà  inutile  per  chi  voglia  pro- 
varsi a  un  lavoro  definitivo,  e  che  frattanto  sopperirà  al  bisogno  di  coloro  che  studiano  la  poe- 
tica dei  trovadori  portoghesi.  Nel  far  ciò,  naturalmente ,  non  riproduco  i  passi  dai  quali  non 
riuscii  a  cavare  un  senso.  Quelli  ognuno  può  trovarli  nella  edizione  del  Molteni  e  qui  li  ho  so- 
stituiti con  dei  puntini. 


Ved.  la  Poetica  historica  poiiugueza  nella  Antologia  portugucza  del  Braga,  Porto ,  1876. 


-  418  — 

In  origine  questo  trattato  doveva  constare  di  sei  sezioni,  cliiamate  Ccipitoli,  ognuna  delle  quali 
si  suddivideva  in  altre  sezioni  minori,  cliiamate  Capitoli  anch'esse.  A  distinguere  le  sezioni  dalle 
sottosezioni,  in  questi  estratti  chiamerò  Capi  le  prime,  Capitoli  le  seconde.  Presentemente 
mancano  tutto  il  Capo  I  e  il  II,'  nonché  i  Capitoli  I-III  del  Capo  III,  e  il  trattato  ora  comincia  par- 
lando delle  Cantigas  il' amor  e  d'amiyo  (Capit.  IV),  indi  vi  si  parla  delle  Cantigas  d'escarnho 
(Capit.  V)  e  de  maldizer  (Capit.  VI),  delle  Tencòes  (Capit.  VII),  delle  Cantigas  de  vilao  (Ca- 
pit. Vili),  del  Seguir  (Capit.  IX). 

Il  Capo  IV  parla  delle  varie  parti  della  Cantiga,  Taìlios  e  Cobras  (Capit.  I),  Fiindas  (Ca- 
pit. IV);  di  qualche  particolar  modo  di  collegamento,  Palahras  perdudas  (Capit.  II),  Afafiindas 
(Capit.  Ili)  ;  e  di  altri  artiiìzi  ritmici ,  quali  il  Dobre  (Capit.  V) ,  il  Mordobre  (Capit.  VI). 

Il  Capo  V,  composto  di  due  CaiDitoli  soltanto,  tratta  dell'uso  dei  tempi  (Capit.  I),  delle  rime, 
delle  loro  specie  e  del  modo  di  adoperarle  (Capit.  II).  • 

Finalmente  il  Capo  VI,  dopo  di  aver  toccato  degli  errori  in  generale  (Capit.  I),  passa  a 
specificarne  due,  consistenti  nella  cacofonia  (Capit.  II)  e  nell'iato  (Capit.  III). 

Il  trattato  fu  certamente  composto  mentre  la  poesia  trovadorica  era  ancor  viva  :  dei  trova- 
dori vi  si  parla  in  tempo  presente,  e  la  lingua  ha  forme  grammaticali  e  lessicali  che  erano  già 
fuori  d'uso  nel  seo.  XV. 

Lo  Chabaneau  '  crede  che  Fautore  di  questo  trattato  possa  aver  conosciuto  le  Li-yti  d' amors. 
Se  cosi  fu,  diventeranno  sempre  più  meritevoli  di  attenzione  le  molte  divergenze  che  presentano 
nelle  teorie  e  nella  nomenclatura  queste  due  opere.  Ma  il  coincidere  di  esse  nella  definizione  e 
noi  divieto  del  cacenphaton  e  dell'iato  forse  è  tropjso  poca  cosa  per  argomentare  a  possibili  raj^- 
porti  fra  loro;  uè  l'uno  né  l'altro  di  quei  precetti  erano  singolarità  delle  Lcys,  bensi  apjiartene- 
vano  alla  tradizione  grammaticale  di  quasi  tutte  le  scuole  del  medioevo. 

E.  Monaci. 


CAPO    III. 


Capitolo  IV.  — E  porqne  algunas  cantigas  hy  ha   en 

cjixe  falam  eles  et  elas  outrossy,  porem  he  bem  de  eutenderdes  se  som  d'  amor,  se 
d''amigo:  porque  sabede  que,  se  eles  falam  na  prima  cobra  et  elas  na  outra  [he 
cantiga]  d'amor,  porqne  se  move  a  rrazom  d'eie,  corno  vos  ante  dissemos;  et  se 
elas  falam  na  primeira  cobra,  he  oiitrossy  d'amigo;  et  se  ambos  falam  em  huma 
cobra  outrossy,  he  segundo  qual  d'  eles  fala  na  cobra  primeiro. 

Nel  Canzoniere  Vaticano  si  conferma  questa  distinzione  fra  le  Cantigas  d'amor  e  d'amigo; 
ci.  per  esempio  il  titolo  posto  innanzi  alla  serie  che  comincia  col  n.°  156,  e  l'altro  titolo  posto  in- 
nanzi alla  serie  che  comincia  col  n."  G53.  Le  Cantigas  d'amigo  vi  stanno  sempre  aggruppate  se- 
paratamente dalle  Cantigas  d'amor  anche  quando  appartengono  allo  stesso  autore. 


Origine  et  Uahliasement  desjeux  flormix,  par  Oh.  CnABANEiu.  Toulouse,  Privai,  1885,  p.  3,  n.  8. 


—  419  — 

Capitolo  V.  —  Cantigas  d'cscarneo  som  aquelas  riuo  os  trobadores  fazem  d.mc  caniigus 
qnerendo  dizer  mal  d'  algueii  em  elas,  efc  dizeulho  per  palabras  cubei'tas,  que  aiam 
dous  entoudymentos ,  para  llielo  non  eufcenderem  ligeyramcute;  efc  estas  palavras 
chamam  os  Clerigos  equivocatio.  E  estas  canfcigas  se  podom  fazer  outrossy  de 
maestria  ou  de  rrefram.  E,  pero  qua  algiinms  dizem  que  a  hy  algiimas  cantigas  de 
ioguete  derteyro,  estas  non  som  mais  ca  d'escarnlio,  nem  ham  outro  entendi- 
mento.  Pero  er  dizem  que  autras  ha  hy  de  rifaoelha:  estas  ou  seeram  d'escarnho 
ou  de  maldizer;  et  chamanlhes  asy,  porque....  enda  a  vezes  os  homens.  Mais  non 
som  cousas  em  que  sabedoria  nem  outro  bem  aia. 

Pertanto  la  caratteristica  della  Cantiga  d' escnrnho  è  l'equivoco  ingenerato  dal  doppio  senso 
delle  frasi.  Poteva  questa  essere  de  meestria,  ossia  di  genere  aulico,  e  de  rrefram,  ossia  di  ge- 
nere popolare.  Quelle  che  alcuni  chiamavamo  de  joguete  derteiro,^  sono  in  sostanza  null'altro  che 
cantigas  d'escarnho,  perchè  hanno  l'istesso  scopo.  Con  le  cantigas  d'escarnho  o  de  maldizer  sono 
pure  identificate  quelle  che  chiamavano  de  rifaoelha ,'-  e  doveva  essere  una  maniera  popolare 
disdegnata  dai  trovadori. 

Capitolo  VI.  —  Canfcigas  de  maldizer  son  aquelas  que  fazem  os  fcrovadores    dliio  camigas 
[querendo  dizer  mal  d'  alguem]  descubertameute;  et  elas  encerram  palavras  a  quem 
queren  dizer   mal,  e  non    averam    outro   enteudimeiito   se  non  aquel  que   querem 
dizer.  .  .  . 

Non  riesco  a  capire  quel  che  segue;  ma  serahra  che  vi  si  accennasse  ad  un  altro  nome  che 
piar  davasi  a  questa  stessa  specie  di  poesia,  la  quale  differiva  dalla  precedente  in  ciò  che  vi  man- 
cava l'equivoco. 

Esempi  di  Cantigas  d'escarnho  e  de  maldizer  nel  Canzoniere  Vaticano  v.  ai  nn.  907  e 
seguenti. 

Capitolo  VII.  —  Outras  cantigas  fazem  os  trobadores  que  chamam  Tencòes,  Deiie  Tomòos. 
porque  sou  feyfcas  por  maneira  de  rrazon  que  huum  aia  coufcra  outro,  em  que  diga 
aquel  que  por  bem  tever  na  prima  cobra,  et  o  outro  rrespondalhe  na  outra  dizendo 
o  contrayro.  Estas  se  podem  fazer  d'amor  ou  d'amigo  ou  d'escarnho  ou  de  mal- 
dizer, pero  que  devem  de  seer  de  meestria.  E  d' estas  podem  fazer  quantas  cobras 
quiserem,  fazendo  cadahuuma  sua  par.  Se  hy  ouver  d'  aver  fiinda,  fazen  ambos 
seuhas,  ou  duas  duas;  ca  non  coiivem  de  fazer  cadahuno  mays  cobras  nen  mays  fiidas 
que  o  outro. 

La  Tenzone  era  dunque  un  genere  de  meestria ,  ossia  aulico ,  e  poteva  avere  argomento  sia 
amoroso  sia  satirico.  Il  numero   delle   stanze   era  lihero,  ma    ogni  stanza  doveva  avere  la  sua   ' 
corrispondente.  Non  c'era  ohbligo  di  porvi  la  fiinda  o  fiida,  ossia  ciò  che  noi  chiamiamo  com- 
miato, e  che  i  pi-ovenzali  chiamavano  tornada;  ma  nel  caso,  ognuno  dei  tenzonanti    doveva 
porne   una  o  anche  due,  cosicché  il  loro  numero  fosse  sempre  uguale  da  ambo  le  parti. 

Esempi  di  Tenzoni  nel  Canz.  Vaticano  v.  sotto  i  nn.  Id,  27,  55G,  78G,  826  ecc. 


'  Il  ms.  Ioguete;  derteiro^^derroteiro  (che  devia) ?  o  ooit.  d'arteiroì 
'  rifaoeVia  (il  ms.  risaoelha)  diminutivo  di  ri/rio ,  refrain  ecc. 


—  420  — 

Capitolo  Vili.  —  Oatrossy  outras  canticas  fazem  os  trobadores  a  que  chamam 

devilàos Estas  cantigas corno  outras  cautigas,  podem  as  fazer  de  quautos 

talhos  [quiserem]. 

Non  mi  fu  possibile  di  coglierne  la  definizione,  che  comincia  eoa  una  lacuna  e  seguita  con 
una  riga  e  mezza  di  parole,  sconciate.  Soltanto  è  cliiaro  quel  ohe  vi  è  detto  dopo  :  cioè  che  si  può 
farle  di  quanti  faUios  si  voglia  (cf.  sui  taUios,  qui  erroneamente  feilos,  il  Capit.  I  del  Capo  IV). 

Un  esempio  di  Cantiya  de  viìrio  v.  nel  Cauz.  Vat.  al  n.»  1043. 

Capitolo  IX.  —  Oatra  mauera  ha  hy  em  que  trobam  dois  liomeus,  et  que 
chamam  Seguir,  et  chamamlhe  asy  porque  couvem  seguir  cadahuuma  outra  can- 
tiga  a  ssom,  ou  en  palauras  ou  en  todo.  E  este  Seguir  se  pode  fazer  em  tres  ma- 
neras:  a  huma  filha  et  a  ssom  d' outra  cantiga,  et  fazemlhe  outras  paLivras  tam 
iguaes  corno  as  outras ,  para  poder  em  elas  caber  aquel  som  meesmo  ;  e  este  Seguir 
he  de  meestria  et  sabedoria,  porque  toma  nada  das  palavras  da  cantiga  que  siegue. 
Outra  manera  y  ha  de  Seguir,  a  que  chamam  palavra  por  palavra;  e  porque  con- 
vem ,  o  quem  eu  està  manera  quiser  seguir,  que  faca  a  cantigas  nas  rrimas  da  outra 
cantiga  que  segue,  et  seiam  yguaes  et  de  tantas  sillabas  humas  corno  as  outras, 
para  poderem  caber  en  a  quel  ssom  meesmo ....  E  outra  manera  hy  ha  de  Seguir 
em  que  non  segue  as  palavras.  . . .  [Os  trovadores]  fazen  as  das  outras  rimas  iguaes 
d'  aquelas ,  para  poderem  caber  no  ssom  mays  outra  d' aquela  cantiga  que  seguem  ; 
ou  devem  de  tomar  outra  maestria  [para]  fazer  nele  dar  aquel  entendimento  meesmo 
per  outra  m9,nera;  et  para  mayor  sabedoria  podemlhe  dar  aquel  [som]  meesmo  en 
outro  entendimento  per  aquelas  palavras  meesmas.  Assy  he  a  melhor  manera  de  se- 
guir, porque  da  ao  rrefram  outro  entendimento  per  aquelas  palavi'as  meesmas  et 
tragem  as  palavras  da  cobra  a  concordax'em  con  el. 

Il  Seguir  dunque,  nella  verseggiatm-a  e  nella  musica,  era  qualcosa  di  simile  al  Serveutese 
del  provenzali,  o  si  cf.  la  definizione  che  di  questo  danno  lo  Leys  I,  3-18.  Esomjii  di  Seguir  nel 
Cauz.  Yatic.  v.  ai  nn.  1043  e  10G2. 


CAPO  lY. 


CAPITOLO    I.  —  Os    Talli  OS    das    cantigas    que    dam  os    trobadores et 

fazer  eguaes  et  de  quantas  maueras  quiserem  et  teverem  por  beni.  Pero   os   niaj^s 
dos  talhos  en  que  fazen   as    cantigas  de  meestria ,    som  estos  :  a  cobra  de   sinquo 

palavras.  Pero  quem  a  (]uiser  fazer  de  tanto  que  [seia]  igual 

E  OS  trobadores  podem  fazer  as  cantigas  ou 

de  quatro,  ou  de  seis,  ou  do  oyto,  ou  de  mays,  se  qiiiserem.  Mays  estos  som  os  talhos 


-   121  — 

meesmos  melliores,  para  seer  mais.  .  .  .  ot  non  fazer  enfadarem  encle  os  homens.  E 
estas  cobras  poderam  fazer  de  quaes  tallios  quiserera ,  corno  vos  ja  dira 

Di  tutti  questo  è  il  capitolo  i5ià  oscuro.  A  quel  che  pare  talho  siguilloava  quasi  misura  o 
si  applicava  cosi  al  verso,  corno  alla  cobra:  cf.  il  compas  (lolle  Lcijn. 

Capitolo  II.  —  Alguuns  trobadores,  para  mosfcrarem  moor  meesfcria,  me-  ',,u"^,amu", 
terom  en  ssas  cantigas  que  fezeron,  huna  palavra  que  non  rrimasse  ci;ni  as  outras, 
et  chamamllie  Palavra  perduda.  E  està  palavra  poda  meter  o  trobador  no  co- 
meco  ou  no  meyo  ou  na  cima  da  cobra,  en  qual  logar  quiser:  pero,  quem  '  a  meter  en 
huna  cobra,  deve  a  meter  nas  outras,  en  cadahuna  d' elas  en  aquel  lugar,  e  està 
palavra  deve  seer  de  '  moor  meestria;  ou  erpode  meter  senhas  palavras  en  cada  co- 
bra que  rrimen  huuas  outras,  ou,  se  er  quiser,  en  cada  cobra.  E  oi^trossy  podera 
meter  na  cobra  .1.  Palabra  perduda  duas  vezes  por  està  manera. . . . 

Cioè:  per  dare  saggio  di  maggior  maestria,  misero  talvolta  un  .verso  che  non  rimasse 
con  gli  altri,  e  lo  chiamarono  palavra  perduda.  Di  queste  palavras  perd.  s'ebbero  più  maniere:  la 
prima  consisteva  d'  un  verso  di  meestria  moor  che  si  metteva  al  principio  o  nel  mezzo  o  alla  fine 
della  cobra,  ma  in  tutte  le  cobras  allo  stesso  posto;  la  seconda  consisteva  nel  mettere  La  una  co- 
bra un  verso  che  rimasse  soltanto  col  verso  corrispondente  dell'  altra  cobra ,  o  nel  mettere  in  cia- 
scuna cobra  delle  rime  singolari;  la  terza  consisteva  nel  mettere  non  una  sola  ma  due  paìacras 
perdudas  in  ciascuna  cobra. 

Capitolo  III.  —  Outrossy  fezeron  or  trobadores  algunas  cantigas  a  que  dia-  Deiie  cantig 
maron  Atefiindas,  et  estas  podeni  seer  tam  bem  de  meestria  tam  come  de  rrefram. 
E  cliamaronllte  Atafiindas,  porque  conven  que  a  prestomeyra  palavra  da  cobra  non 
acabe  rrazon  por  fym,  mais  tem  a  prima  palavra  da  outra  cobra  que  vem  apos  eia 
de  entendimento ,  far  a  conclusào.  E  toda  a  cantiga  asy  deve  d'yr  ata  a  fiinda,  et 
aly  deve  d'  encerrar  et  concludir  o  entendimento  todo  do  que  ante  non  acabou  nas  * 
cobras. 

Un  esempio  di  questo  genere  di  poesia  è  il  n.°  2  del  Canz.  Vaticano.  Lì  infatti  il  senso  di 
ciascuna  cobra  si  compie  sempre  con  la  prima  parola  della  cobra  seguente,  e  una  conclusione  si 
ha  soltanto  nella  fiinda. 

Capitolo  IV.  —  As  Fiindas  som  cousa  que  os  trobadores  sempre  Imsaron  de  dciu- fììh.i; 
poer  en  acabamento  das  sas  cantigas,  "para  concludirem  et  acabarem  melhor  en  elas 
as  rrazones  que  disserom  nas  cantigas,  chamandolhis  Fiida,  porque  quer  tanto  dizer 
come  acabamento  de  rrazon.  E  està  Fiinda  podeni  fazer  de  huma,  ou  de  duas ,  on  de 
tres,  ou  de  quatro  palavras;  e,  se  for  a  cantiga  de  meestria,  deve  a  Fiida  rrimar  coni 
a  prestumeyra  cobra;  e,  se  for  de  rrefram,  deve  de  rrimar  cum  o  rrefram.  E,  comò 
quer  que  digam,^  a  cantiga  deve  d'  aver  huna  d'  eles,  e  taes  hy  ouve  que  Ihe  fezeron 

'  Ms.  qua  se. 
■  Ms.  de  seer. 
'  Ms.  iì!ij(ùi. 


422  

duas  ou  tres,  segando  sa  vooiitaJe  de  cadaliuum  d'eles;  e  taes  hy  ouve  que  as  fe- 
zeron  sem  fiindas  :  pero  a  Fiida  he  maj's  comjirimento. 

Dui  Doiire.  CAPITOLO  V.  —  Outrossy  vos  querenios  mostrar  que  quer  seer  Dobre.  Dobre  é 

dizer  huma  palavra  cada  cobra  daas  vezas  ou  mays.  May  devem-no  meter  na  can- 
tiga  muy  gardadamente;  e  covem,  comò  o  meterera  en  huma  das  cobras,  que  asy  o 
metam  nas  outras  todas.  E  se  aquel  Dobre  que  meterem  nahuma,  meterem  nas  ou- 
tras,  podem-no  hy  meter  en  outras  palavras;  pero  sempre  naquel  talho  et  daquela 
manera  que  o  meterem  uà  prima;  e  outrossy  o  deve  de  meter  uà  fiinda  per  aqiiela 
[meesma]  manera. 

Esempi  di  Dobre  v.  nel  Cauz.  Vaticano  ai  nn.  33,  OS,  56G  e  nel  Colocci-Brancuti  ai  nn.  22, 
130,  ecc. 

Del  M„i-,u.bi-e.  Capitolc?*  VI.  —  Mordobre  é  tanto  come  Dobre,  quanto  he  no  entendimento 

das  palavras;  mays  as  palavras  desvayranse,  porqiie  mudam  os  tenpos.  E,  comò 
vos  ja  disi  do  Dobre ,  outrossy  o  Mordobre  en  aquela  guisa  et  per  aquela  manera 
que  o  meterem  eu  huma  cobra,  assy  o  devem  meter  nas  outras  et  na  fiinda  para 
seer  mays  comprimento. 

Esempi  di  Mordobre  sono  nel  Canz.  Vaticano  il  n<>  5G7  e  nel  Canz.  Colocci-Brancnti  i  nn.  185, 
231,  ecc. 


CAPO  V. 

Capitolo  I.  —  Os  tempos  chamam  os  trobadores  quando  falam  nas  cantigas 
no  tempo  passado,  ou  no  presente  en  que  estam,  ou  no  que  ha  de  viir;  ca  cada- 
huum  destes  tres  tempos,  ou  os  dous,  ou  todos  tres  no  podem  escusar  os  troba- 
dores que  non  falem  en  elos  na  cantiga  que  fazerem;  ca  se  falar  centra  sy  ou  cen- 
tra outrem,  convem  de  falar  en  alguum  destes  tempos.  E  porem,  se  en  alguum  deles 
comecar  a  cantiga,  non  convem  que  depoys  falem  no  outro  em  aquela  rrazom  nem 
por  aquel  entendimento,  se  non  se  falar  por  outra  rrazon  ou  en  outro  entendimento: 
ca  en  outra  guisa  descordaria  o  entendimento  da  rrazon  da  cantiga.  Pero ,  comò  vus 
ja  dixi,  poden  o  meter  no  Mordobre,  porque  dam  en  el  cada  tempo  seu  entendi- 
mento. 

Capitolo  II.  —  Outrossy  as  cantigas  convem  desse  fazerem  em  rimas  longas, 
cu  breve s,  ou  en  todas  mesturadas.  E  por  esto  convem  de  vos  mostrarmos  quaes 
ssom  as  rrimas  longas  ou  breves;  pero  que  todas  non  vos  podemos  mostrar  com- 
pridamente,  porque  ssom  muytas  e  de  muytas  maneras:  pero  que  todalas  rrimas, 
sse  acabam  en  estas  vogaes  que  seiam  as  prestumeiras,  todas  ssom  longas;  convem 
a  saber,  as  que  sse  acabam  no  A,  ou  no  0  apolo  A,  ou  no  O  apolo  E,  ou  qualquer 


—  423  — 

das  oiitra^s  vo^'aos  quo  ponliam  en  cabo  da  rima  pola  prestomeyra  sillaba,  eia  per 
sy.  E  as  outras  rriinas  todas  qne  se  acabam  eu  letras  broves,  todas  sson  ciirtas. 
Porque  conven  que  o  trobador  que'trobar  quiser,  se  come9aen  longas  ou  per  curtas 
syllabas,  qne  por  ellas  acabe:  pero  que  podera  meter  na  cobra  das  hunas  et  das  ou- 
tras, se  quiser,  a  tanto  que,  por  qual  guisa  as  meter  enhuna  cobra,  que  por  tal  guisa 
as  meta  nas  outras.  Pero  conven  que,  corno  as  meter,  que  assy  as  faca  rrimar  lon- 
gas com  longas  et  curtas  [com  curtasj. 


CAPO   VI. 


Capitolo  I.  —  Os  erros  son  tantos  et  de  tantas  maneras  que  os  honiens  podem  Dugii  errori. 
fazer  no  trobar,  que  non  posso  falar  em  todos   tam   conpridamente.  Pero  conven 
que  vos  conte  ende  alguuns. 

Capitolo  IL  —  Erro  acharon  os  trobadores  que  era  Imma  palavra,  a  que  cha-  dci  cacepiicton. 
maro  Cacefeton  (que  se  non  deve  meter  na  cantiga),  que  he  tanto  corno   palavra 
fea,  et   sona  mal   na  boca,  e  algunas  vezes   tange  en  eia  cacoiriam  ou  lixo,    que 
non  convem  de  seer  metudo  em  boa  cantiga. 

Capitolo  III.  —  Outrossy  erro  he  meter  a  palavra  vogai  depos  vogai.  ...  Se  ^^^'^'  i-'^'"- 
entende  vogai  depos  vogai ,  sse  as  vogaes  som  de  senhas  naturas.  '  Mays  '  non  sse 
deve  meter  duas  vezes,  huma  apos  outra,  se  huma  vogai  he  [mayor];  ''  mayormente 
sse  d'elas  quiserem  fazer  [huma]  sillaba.  Pero  alguuns  as  metem  na  cantiga,  dando 
AO,  EO  ....,  et  duas  consonaucas  a  cadahuna  destas  vogaes;  e  assy  podem  meter 
cadahuna  duas  vezes.  Et  non  vos  posso  esto  mays  deolai-ar,  se  non  comò....  cada- 
huum  filhar  en  seu  entendimento.  As  letras  vogaes  son  estas  aqui  escritas.... 
A,  E,Y,  0,  V. 

Finis. 


'  Della  stessa  specie,  ossia  uguali. 

■  Inoltre. 

'  mayor,  cioè  accentata,  mentre  V  altra  è  senza  accento  (?). 


DUE  LETTERE  GLOTTOLOGICHE 

DI    G.   I.  ASCOLI. 


Di  un  filone  italico,  diverso  dal  romano,  die  si  avverta  nel  campo  neola- 
tino.—  Lettera  a  Napoleone  Caix. 

Milano,  6  settembre  1879. 

Carissimo  signore.  — Le  rendo  grazie  vivissime  per  la  buona  e  coi'tese  Sua  let- 
tera. Ma  temo  che  EU'  abbia  preso  troppo  'ad  litteram'  ciò  che  io  Le  diceva  circa  la 
tendenza  a  etimologizzare  e  a  trovar  continuità  di  fenomeni  tra  i  linguaggi  paleoita- 
lici, in  quanto  sien  diversi  dal  solito  latino,  e  i  vernacoli  odierni.  Se  io  mi  son  fatto 
lecito  di  mostrare  qualche  apprensione  che  in  Lei  questa  doppia  tendenza  potesse 
talvolta  parer  pronunziata  più  del  bisogno ,  ora  provo  un  po'  di  rimorso  nel  veder 
eh'  Ella  propenda  a  concedermi  assai  più  che  io  non  chiedessi.  Tempererò  dunque 
l'effetto  delle  nostre  conversazioni,  coli' offrirle  un  esempio  di  quello  che  vo  cercando 
io  medesimo  in  un  campo  eh'  Ella  un  giorno  ha  forse  reputato  più  pronto  a  frut- 
tare che  in  effetto  egli  non  sia,  ma  che  io  non  ho  mai  detto  sterile,  né  ho  mai  desi- 
derato che  si  negligesse  dai  pari  Suoi.  L'  esempio,  com'  Ella  vedrà,  è  scarso  e  appena 
sbozzato,  e  viene  a  Lei  dinanzi,  non  già  come  un  saggio  d'arte  prelibata,  ma 
come  un  tentativo  che  la  Sua  perizia  debba  giudicare.  Si  tratta  veramente  di  un'  an- 
tica idea,  alla  quale  V  Archivio  doveva  e  dovrebbe  dedicare  uno  studio  ben  più  insi- 
stente di  quello  che  io  non  abbia  in  sino  ad  ora  potuto;  e  oggi  io  non  ci  ritorno,  se 
non  fugacemente,  per  l'occasione  che  me  ne  danno  gli  'Allotropi'  del  nostro  Ca- 
nello.  Ma  chissà  che  non  ci  avvenga  di  ritrovarci,  tra  non  molto,  a  insistervi  in- 
sieme tutti  e  tre!  E  si  potrebbe  anzi  essere  in  quattro,  poiché  pure  il  D'  Ovidio 
or  guarda,  se  non  isbaglio,  anche  da  questa  parte. 

Ella  ricorda  sicuramente ,  che  il  latino  risponde  per  h  a  /  di  fase  osca  od  um- 
bra in  mezzo  di  pai'ola,  sia  che  si  risalga  all'  aspirata  labiale  o  sia  alla  dentale  (p.  e. 
tibi  allato  all'umbro  tefe;  rubro-  allato  all'umbro  rufro-);  e  che,  secondo  la 
teoria  ormai  generalmente  consentita,  il  latino  stesso  sarebbe  passato  a  -h-  per  la 
via  di  -/-.  Ogni  caso  di/,  in  mezzo  di  parola  usata  dai  Latini,  e  vuol  dire  ogni 

5i 


—  426  — 

caso  in  cui  non  si  mostri  la  normale  alterazione  latina  di  cotesto  elemento  paleoita- 
lico, diventa  cosi  un  problema  di  storia  comparata  della  parola  italiana;  e  viene  in 
specie  da  chiedere,  se  -/-  vi  sia  un  resto  di  latino  preistorico  o  non  piuttosto  n  segna- 
colo cke  la  voce  non  sia  schiettamente  romana,  ma  rappresenti  all'incontro  un 
filone  lessicale,  osco  od  umbro  ecc.,  in  cui  era  normale  che  stesse  e  restasse  -/-  di 
contro  al  -h-  propriamente  laziare.  Sarà  difficile  che  oggi  si  trovi  un  linguista,  il 
quale  piuttosto  non  istia  per  la  seconda  sentenza.  Certo  è,  a  ogni  modo,  che  mal 
potremmo  ritrovare,  sia  nello  stesso  vocabolario  dei  Latini,  sia  nel  vocabolario  dei 
Neolatini  in  confronto  con  quello  dei  Latini,  una  dissonanza  o  discrepanza  più  ca- 
ratteristica e  perspicua  di  quello  che  sia  l' antitesi  tra  -/-  e  -h- ,  massime  se  ci  accada 
incontrare  una  stessa  voce  con  un  elemento  e  con  1'  altro  ;  sicché  dovrà  parerci  sin- 
golare, che  nessuno  prima  d'ora  siasi  fermato  a  questa  avvertenza  '.  Per  andare  cauti, 
chiamiamo  intanto,  se  così  Le  piace,  un  fenomeno  'anti-latino'  questo  di /in  mezzo 
di  parola.  E  gioverà  sùbito  soggiungere,  che  nell'eccetera,  di  cui  pur  dianzi  accom- 
pagnavo l' osco  e  r  umbro ,  è  pur  compreso  e  anzi  è  specialmente  compreso  1'  etru- 
sco; poiché  nessuna  giusta  cautela  può  farci  intanto  dimenticare,  che  a  qual  razza 
pur  gli  Etruschi  appartenessero  e  donde  pur  fossero  venuti,  il  sistema  amplissimo 
dei  loro  nomi  proprj  presenta  un  gran  complesso  lessicale  e  morfologico,  il  quale 
s' incontra  col  tipo  osco  e  con  1'  umbro  e  tra  le  proprietà  comuni  ha  appunto  qiiella 
dell'elemento  di  cui  ora  parliamo.  Superfluo  del  resto  avvertire,  che  non  é  'antila- 
tino' il  caso  di  -/-  che  sia  nel  composto  (con-fero,  p.  e.,  e  non  comlero).  Nei  com- 
posti, è  l' iniziale  internata,  che  1' evidenza  etimologica  riesce  a  serbare  in  quella 
stessa  condizione  che  le  è  propria  quando  si  trovi  all'  infuori  del  composto.  Avveni- 
mento sempre  però  notevole  anch'esso,  in  quanto  la  ragione  ideale  (la  spinta,  p.  e., 
a  mantener /e  )-o,  in  conferò,  tal  quale  egli  è  in  condizione  isolata)  viene  a  fermare 
la  evoluzione  fonetica.  Anzi  riuscirà  a  fermarla  pure  nel  caso  di  composizione  appa- 
rente od  illusoria;  poiché  altrimenti  mal  si  spiegherebbe  infero-  (inferus  ecc.),  che 
non  é  voce  composta  e  dovrebbe  latinamente  dar  hnhero-.  La  ragione  o  la  illusione  del 
composto  vale  anche  per  f  or  f  ex  (cfr.  forceps,  senza  dire  di  artifex  ecc.),  dove  tut- 
tavolta  l' it. /o)"Z*ice,  allato  &  forjice  {fórfeze  ecc.  dei  dialetti),  accenna  alla  evoluzione 
caratteristica  delle  voci  scempie  del  latino.  Un  bel  confronto  per  il  composto  che 
perda  la  coscienza  di  sé,  o,  che  è  lo  stesso,  di  -/-  che  nel  composto  passi  in  h,  V  ab- 
biamo nel  nome  locale  Confluentia  Cofluentia,  ridotto  a  quella  pronunzia  vol- 
gare che  si  continua  in  Cohlenz  (Ooblenza).  Tra  gli  esempj  in  cui  entrano  le  appa- 
renze del  composto,  è  forse  da  mettere  anche  vafer,  che  ha  accanto  a  sé,  com'  Ella 


'  1885.  È  però  da  vedere  una  annotazione  dello  Storsi  in  Mémoires  de  la  Sociélé  de  LinriKisti<lue ,  II  113  (1875), 
elio  io  non  conosceva  nello  scriver  qnesta  lettera.  E  mentre  ne  correggo  le  bozze,  la  Ihble  anali/tique  della  'Ho- 
mania'  mi  manda  a  un  luogo  (IV  609;  1CT5),  in  cui,  toccandosi  del  BiiUeiìn  de  la  Socictc  de  Lwguistique  de  Paris, 
num.  13  (non  in  commercio  e  non  da  me  posseduto,  perchè  anteriore  alla  mia  ammissione) ,  si  riferisce:  'p.  slvij, 
L.  Havet,  Mots  romans  tirés  des  dialectes  italiques  (siflìare,  hiifaìo,  tafano  et  autres  mots  analognes,  cornaccMa 
rattaché  à  un  dimiuutif  de  l'ombrien  curnuco).'  Dì  questa  comunicazione,  che  pare  limitarsi  a  una  sola  pagina 
non  vedo  traccia  nei  Mémoires. 


—  427  — 

conosco,  il  molto  notevole  vabrum,  varium,  multiformo,  delle  glosse  che  dicono 
isidoriane  '. 

Il  caso  principe  per  1'  oscillar  dello  stosso  vocabolario  latino  tra  -/-  e  -b-,  è  la 
serie  riifus  riìfulus  ecc.,  allato  a  rùber  rùbeus  rùbidus  ecc.  Voci  piuttosto  ru- 
sticane e  plebee,  o,  per  dirla  altrimenti,  dei  volghi  soggiaciuti  a  Eoma  e  non  bene 
a  lei  assimilati,  mi  vogliono  parere  rùfus  ecc.  di  contro  a  rùber  (róbus)  ecc.,  anche 
per  sentirsi  in  rufus  piuttosto  il  'rossastro',  cioè  il  'rosso  brutto',  che  non  il  'ver- 
migKo  '.'  Pur  nello  spagnuolo  sentirei  che  rufo  si  discosti  similmente  da  riibio.  Altro 
antico  documento  per  codesta  oscillazione,  come  appunto  ricorda  il  Canello 
[Arch.  Ili  382-3,  cfr.  Diez  s.  sifler;  Loewe,  Prodromus  corporis  glossarior.  latinor., 
p.  422],  è  in  sifilus  sifilare  allato  a  sibilus  sibilare,  dove  pure  hanno  entrambe 
le  varietà  i  lor  continuatori  neolatini,  e  dove  è  opportuno  insistere  sulla  'viltà'  di 
cui  Nonio  marchiava  quella  col  -/-  [sifilare  quod  nos  vilitatem  verbi  vitantes  sibi- 
lare dicimus;  et  est  maledica  vocis  significatio,  vel  contumeliosa  popularium,  cum 
sifilationibus  quis  exploditur].  Si  aggiungerebbe  nefrundines,  nome  che  gli  'anti- 
chi' davano,  secondo  Pesto,  ai  'reni',  e  andi'ebbe  col  lanuvino  nebrundines  testi- 
coli, preuestino  nefroues  id.  (v.  Pone.,  e  Coessen  Vok.  V  147,  Ital.  sprachk.  594-5), 
dove  sarebbe,  più  che  mai,  la  qualità  della  parola  a  mantenerci  in  uno  strato  lessi- 
cale rusticano  e  pèggio. 

Andranno  poi  considerate  le  voci  con  -/- ,  usate  dai  Latini ,  le  quali  non  hanno 
accanto  a  se  la  variante  col  -ò-  o  almeno  non  l'hanno  in  qualità  di  sinonimo.  Qui 
sta  scrofa,  con  la  sua  corretta  continuazione  italiana,  voce  che  sarà  da  dirsi  un 
equivalente  plebeo  o  rusticano  di  sus  in  quanto  è  femina  \  E  conia  scrofa  vada  il 
bùfon-,  specie  di  rana',  che,  per  via  del  gracidar  di  notte,  ci  dà  per  avventura  il 
correlativo  etimologico  di  bubon-  barbagianni  (cfr.  Vanicek,  s.  vv.);  dove  soccorre 
la  glossa:  bubo  nomeu  avis,  quem  quidam  bufum  dicunt  (Loewe  ,  o.  e.  421).  L'offa 
(ofella),  che  sarebbe  un  caso  di  antico  -ff-,  la  lasceremo  per  ora  in  disparte;  e 
quarto  dalla  breve  serie  venga  tofus,  per  la  'italicità'  della  qual  voce,  che  si  vo- 
leva altro  non  essere  che  un  greco  zózo^  " ,  parla  anche  il  riflesso  da  vocal  lunga  che 


'  Tra  le  gì.  v.atic.,  in  Mai,  VI  550:  varha  callidns  vel  artiflciosus. 

■  Tufatus  sanguine  cruentatus,  Mai  VI  543,  Vili  509. 

'  1883  GioTerà  annotare,  dal  gloss.  vat.  in  Mai  Vili  567:  scropkota  'poi'carins  subulous  quia  scropliosus  dioi- 
tur'.e  dalle  gì.  vatio.  ib.  VI  544:  scrufetarii  'viles  adque  oontempti  vel  gratarii'  (cfr.  Duo.:  scriiferaru;  e  'soro- 
phina  '  qui  appresso).  Lo  scroplieia  mi  richiama  poi ,  per  la  sua  formazione ,  il  pmieta  'panificus  pistor  panifex'  clie 
è  nello  stesso  gloss.  474  (cfr.  Duo.  s.  v.);  derivazioni  olio  da  un  lato  si  direbbero  rasentare  le  greche  sullo  stampo 
di  o>JJ.TiT-ri5  eoe,  e  Aa.\V  altro  le  neolatine  che  alla  lor  volta  paiou  confondersi  con  le  diminutive  {-Ma  eoo.)  e  pur  si- 
gnificano professione  o  mestiere;  cfr.  Arch.  VII  434  n. 

'  Occorre  in  Virgilio;  e  il  gloss.  lat.,  edito  dal  Mai  nel  suo  Vili  voi.,  ne  dà  la  traduzione  francese ,  non  regi- 
strata uell'  elenco  dell'editore  (pag.  xra-iv):  hufo  verniis  qui  gallioe  dioitur  oarpodus,  pag.  SO.  E  di  certo  tra  le  più 
antiche ,  se  non  la  più  antica  testimonianza  che  s'abbia  per  crapaud;  cfr.  Ducange  s.  crapaldus,  crapollus.  Un'al- 
tra voce  di  Francia,  che  ricorre  in  quel  glossario  e  il  Mai  non  rileva,  è  nell'articolo:  'colus  conoilla',  pag.  140 
[quenouille].  E  all'incontro  dal  Mai  avvertita ,  ma  sfuggita  forse  ai  romanisti,  la  versione  'gallica'  di  vitellus 
'rosso  d'uovo':  moillus  (622;  moidlus  597),  ovi  quod  est  medituUium;  cfr.  Diez  s.  moyeu.  Finalmente:  vanga  'besca 
fossorinm'  627  [béche], 

'  1885.  Vedi  ora  S.vìlfeld  ,  Teusaurus  italograecus ,  s.  v. 


—  428  — 

è  neir  it.  tufo  (cfr.  Ducange  s.  v.).  Pur  qui  la  qualità  non  rouicana  o  estra-urbaua 
della  parola  sarà  ammessa  di  leggieri  ';  ma  è  da  aggiungere,  che  un  altro  carattere 
antilatino,  oltre  quello  del  -/-,  si  può  qui  attribuire  alla  risposta  italiana,  per 
r  u  =  ò  (cfr.  CoBSS.  Etr.  spr.  II  260  sgg.).  Dove  sovviene  il  doppio  suggello  antilatino 
che  vedrei  nell'  it.  cruna,  allotropo  di  corona  (v.  Ardi.  Ili  323),  cioè  l' il  it.  ^  o  e  l' et- 
tlissi  dell'  0  protonico  (cfr.  etr.  Tlamunus ,  Mlituns)  ;  ed  è  quanto  dire ,  che  cruna , 
la  testa  anulare  dell'ago,  sarebbe  stato  un  termine  portato  tra  i  Latini  da  operaj 
non  bene  latini.  Si  sbaglierà  anzi  di  poco,  io  presumo,  a  conchiudere,  che  il  Fioren- 
tino, nel  dir  cruna,  pronunzii  l'equivalente  etrusco  di  corona.  E  per  la  ci'wna passa 
il  refe,  altro  esempio  problematico,  che  anch'  egli  potrà  avere  \m  -f-  antilatino! 

Arriviamo  alla  serie  in  cui  è  -b-  latino,  e  il  neolatino,  specie  l'italiano,  ha  -/-, 
o,  in  altri  termini,  rappresenta  egli  ancora  la  fase  antilatina.  Vero  è  che  il  Diez 
pone  che  -ò-  latino  si  possa  ridurre  a  -/-  neolatino  (come  egli  ancora  subordinava, 
nella  serie  latina,  rufus  ecc.  a  rubeus  ecc.);ma  isuoiesempj  vanno  manifestamente 
ri  vagì  iati  e  ristudiati.  Vi  formano  un  gruppo  'sui  generis'  quelli  in  cui  si  dee  muo- 
vere da  vi  vr  h  rv  di  fase  immediatamente  anteriore,  cioè  dal  nesso  di  due  continue 
sonore,  una  delle  quali  si  dissimila;  il  qual  gruppo  si  compone  di  hefre  sp.  (bebrus; 
voce,  del  resto,  non  bene  latina,  ma  di  quelle  in  cui  si  confondevano  il  sinonimo 
latino  e  il  germanico;  cf.  il  Diez  stesso  nel  less.,  e  Ardi.  II  412-13),  fondèfle  ant. 
fr.  (fundibalum),  corfe  rum.  (corbis),  bolfos  rum.  (bulbosus);  testimonj  che  nulla 
dunque  provano  per  b  in /tra  vocali,  cfr.  p.  es.  Arch.  I  198.  Rimangono  così,  pel 
caso  nostro,  gì' it.  bifolco  bubulcus,  scarafaggio  scarabaeus,  tafano  tabauus,  e 
lo  sp.  escofna  scobina.  L'ultimo  esempio  era  veramente  da  attribuire  anche  all'ita- 
liano, che  ha  scoffina  e  scuffina  per  'lima  raspa'. 

Ora  ognun  vede,  quanto  già  repugni,  in  tesi  generale,  il  dichiarare  codesto  ri- 
scontro fonetico  al  modo  che  il  Maestro  faceva,  poiché  va  proprio  contro  la  corrente 
chi  voglia  senz'altro  un  elemento  sordo  italiano,  spagnuolo  ecc.,  tra  vocali,  per  un 
sonoro  latino;  né  può  qui  derivare  alcun  conforto  da  qualche  fenoìneno  specifico  dei 
vernacoli  dell'Italia  australe".  La  serie,  che  parrebbe  analoga,  dei  casi  istituiti  dal 
Diez  per/  neolat.  da  v  lat.,  si  risolverà  in  una  mera  illusione.  In  lìalafreno,  para- 
veredus,  ritorniamo  a  vr  di  fase  anteriore,  senza  dire  che  è  voce  trasformata  per 
-frido  e  -freno,  cfr.  Due;  e  in  fiasco  =  vi  asco  vaso  lo  (che  del  rimanente  ci  riporta  a/ 
iniziale)  risaliremmo  del  pari  al  nesso  vi.  Restano:  un  it.  bifferà  bivira,  che  io  con- 
fesso di  non  sapere,  ora  che  scrivo,  donde  sia  ripescato,  in  quanto  voce  italiana, 


'  sia  qui  toccato  anche  del  nome  dello  zolfo.  Non  dimentico,  che  oggi  ancora  il  provenzale  v'  lia  il  -i)- 
(soupre)  e  cosi  par  concordare  col  sulpur  che  è  dato  da  buoni  codici  latini.  Ma  sulpur  sarà  un* alterazione,  anti- 
latina  anch'essa  (cfr  Corss.  Etr.  spr.  1170-73),  del  pure  antilatino  siil/ar  (cfr.  p.  e.  umbro  n//«  =  lat.  alba).  La 
qual  voce  era  italica,  ma  non  latina,  corno  il  minerale  non  era  del  Lazio,  o  si  continua  correttamente  nelV  it. 
solfo  ecc.  A  proposito  delle  quali  continuazioni  neolatine,  non  so  se  altri  abbia  avvertito,  che  come  lo  spiign.  asiifre 
(anticamente  2»/9'e)  ha  l'articolo  arabo  con  la  normale  assimilazione  del  l  {al-siifre  n-asufre),  cosi  esso  articolo, 
pronunciato  per  el  {el-aofre  esso/re),  ci  porta  al  portogh.  enxo/rc,  secondo  le  analogie  ristudiate  noli' Arch.,  m 
313  sgg.  Cfr.  sp.  enxalma  e  Diez  less.  s.  cnxcco  axedrcz  o  axuar. 

'  1885.  Cfr.  Arch.  VIU  114. 


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ma  die  mi  è  noto  come  vocabolo  volgare,  più  o  meno  antico  {hifera;  Mai  VI  511, 
Grlossai-.  ed.  Thom.  p.  5),  il  qnalelio  creduto  e  credo  attratto  da  biferus  bifora  (che 
produce  due  volte);  e  V  ìt.  j^i'ofeuda,  che  non  può  essere  providenda  e  sarà  da  noi 
considerato  tra  i  casi  di  -/-  allato  a  -b-  '.  Che  se  vogliamo  guardare  anche  più  in  là, 
è  manifesto  che  esempj  come  faticare  leticare  non  provan  nulla,  perchè  vi  si 
tratti  dell'assimilazione  di  un  pajo  degli  scarsi  esemplari  in -igare  alla  moltitu- 
dine di  quelli  in  -icare.  Per  la  stessa  ragione,  gli  antichi  ci  danno  pur  navicare  casti- 
care.  Anche  i  supposti  casi  di  nel  in  ut  li  abbiamo  ormai  eliminati  ;  Ardi.  VII  140-42. 
E  ritornando  alla  nostra  tesi  speciale ,  la  regola  è ,  che  b  latino  tra  vocali  altra  alte- 
razione non  soffra  se  non  quella  per  cui  si  riduce  a  v:  hevere  jìrovare  cavallo  rovo  ivi 
ove  amava,  ecc. 

Non  potremo  dunque  mai  ammettere  che  scobina,  da  cui  non  avremmo  avuto 
se  non  scovina,  ci  desse  scojìna  o  anzi  scofflna:  e  questo  dev'essere,  all'incontro,  il 
correlativo  antilatino  di  scobina  (onde  risaliamo  a  una  forma  radicale  preitalica: 
skobh-,  che  si  riconferma  per  lo  skob-  slavo),  così  come  lo  era  sif ilare,  it.  zufolare 
zuffolare,ài  sibilare".  Lo  stesso  ragionamento  si  dovrà  pur  ripetere,  come  di  neces- 
sità, per  r  it.  tafano  rimpetto  a  tabanus'. 

Ma  il  discorso  si  complica ,  e  anche  si  fa  di  maggior  momento ,  quando  pas- 
siamo a  scaraf aggio.  L'it.  -aggio,  del  pari  che  ì' -aio  -ai  del  termine  spagnuolo  e   del 


'  .Sia  lecito  anche  not.ire,  che,  prescindendosi  dalle  note  voci  greche,' le  quali  veramente  costituiscono  un 
problema  paleoitalico  (trofeo  ecc.;  v.  più  in  là),  sono  illusorj  anche  gli  esempj  di  -/-  neol.  da  -})•  latino.  Nei  frane. 
che/  ecc.,  è  la  continua  sonora,  diventata  finale  (chev  ecc.),  che  si  deve  far  sorda,  così  come  nell'  ant.  fr.  fre/= 
trav:=trab-  (cfr.  y//"  allato  a  vìve);  e  circa //'eisrtic  praesaga,  per  toccar  sùbito  anche  del  supposto  esempio  di 
/- da j)-,  giova  non  dimenticare  l'art,  di  Littré  [Foitn,  premic,  d'après  Ménage,  qne  oette  forme  conduit  an  latin 
prcesaga  avis,  D'autres  ont  dit  que  ce  noni  venait  d'une  manière  de  fraise  qu'il  a  autour  du  eou.|.  Dei  quali  esempj 
francesi  duole  veder  fatto  lan  uso  cosi  temerario  dal  Roschek,  De  aspirationè  apiid  Homanos,  in  Curtius'  Studien  XI 
153.  L' it.  soffice,  finalmente,  combinato  col  fi-nc.  souple ,  non  importa  già  un  caso,  davvero  impossibile,  dì.;/"  da  j^P 
(supplex),  ne  una  strana  vicenda  ideologica  per  cui  si  passi  dal  concetto  morale  al  fisico  ;  ma  d'altro  non  sì  deve 
trattare  se  non  di  un  *suffles,  che  sorgeva  allato  a  supplex,  e  con  questo  sì  confondeva,  promosso  d.a 
fleotere  che  stava  allato  a  pleotere.  —  Del  resto  Ella  conosce,  ohe  io  sono  affatto  contrario  anche  all'  aft'er- 
mazione  di  v  iniziale  in  /;  e  così  come  non  credo ,  non  ostante  il  Suo  bello  e  proficuo  articolo  intorno  a  via 
fiala  ecc.  [St.  etim.,  p.  21-23J,  che  quelle  due  serie  diverse  abbiano  una  base  identica,  del  pari  non  credo  ai  casi 
proposti  dal  Diez  per  h  sp.  =/  da  v.  Uno  dei  tre  glielo  ho  sottratto  nell'Arch.,  IH  462-63  (bisca).  Il  secondo,  7ie. 
ecco,  eh'  egli  tiene  per  *M=vide  ed  è  nella  sua  più  antica  forma:  afe  (ofr.  gr.  IP  466), mi  conduce  a  ben  altro. 
Vi  veggo  io  un'  affermazione  sacramentale  che  si  è  ridotta  a  mera  espressione  resolutiva  o  eccitativa  (cfr.  il  lat. 
hercle  o  l'it.  gnffffe=:mia  fé):  affé  che  vengo  =:  eccomi  pronto  a  venire.  —  Ancora  mi  lasci  dire,  poiché  studiamo 
di  -/-,  che  io  punto  non  credo  alla  riduzione  di  »-/ in  n-li  nello  spagn.  co/ihoHar,  e  meno  ancora  a  quella  di 
n-f  in  n  nel  prov.  conortar  (cfr.  Rime  Genovesi,  94,  45);  e  x^inttosto  crederò  che  qui  s'incrocino  cohortari  e 
confortare,  sì  da  venirne  un  buon  esempio  per  la  Sua  collezione  di  voci  che  sì  fondano  tra  loro  [v.  già  G.  Pa- 
Kis,  Romania,  I  310].  Nella  quale,  all'incontro,  non  ci  lasceremo  certo  indurre  (per  grande  che  sia  l'autorità 
ch'Ella  mi  cita)  ad  accogliere  il  logud.  ÌKVjare  [scu.'sare],  che  altro  non  è  se  non  sciis-i-are;  cfr.,  per  la  fonetica, 
Arch.  n  142,  e  per  la  forma  il  pur  logud.  curiare  curare,  oltre  l'Arch.  II  IDln,  ecc.  E  a  proposito  del  logudo- 
rese,  è  ancora  giustissimo  ciò  ch'Ella  mi  dice  dell'antichità  dell'ut  di  isculzu  [scalzo],  il  quale  anche  ritorna 
nel  rum.  descuh;  cfr.  Arch.  I  545o,  e  Schuchardt  III  87. 

'  1885.  Notevole  anche  scrofina  (quoddam  instrumentum  carpentarii,  quod  haerendo  scrobem  l'aciat;  Due. 
u.  V.) ,  che  sta  a  scrobis  come  scofina  a  scobina.  Queste  ultime  voci  vanno  poi,  come  ognun  sa,  con  scabere,  allato 
alla  qual  forma  noterò,  per  quello  che  v.alga:  'scobere  fodere  ,  '  Mai  Vili  566. 

■'  188.5.  Se  \V.  Meter,  non  avendo  presente  se  non  il  cenno  che  è  in  Diez  s.  tafano,  dice  che  il  ragguaglio 
tabanus=toi;aHa«  non  po.ssa  foneticamente  andare,  egli  ha  ragione.  Ma  io  naturalmente  ponevo;  -tabanus  = 
*Ta?[aJvos. 


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provenzale  (escarabaio,  escaravai),  ci  porta  ad  -ajo  di  fase  anteriore;  e  il  Diez 
(I'  178-9)  volea  vederci  esempio  di-J-  che  limediasse  all'iato,  partendo  egli  da  sca- 
rabaeus.  La  qnaL  forma  non  avrebbe  veramente  dovuto  dare  agli  Italiani  se  non 
scaravio.  Il  vero  sarà  all'  incontro ,  che  s'  abbia  a  partire  da  un  molto  antico  scara- 
faio  e  veder  nell'  -aio  quella  forma  paleoitalica  del  suffisso  che  tra  i  Latini  vien  ce- 
dendo il  posto  ad  -eio  e  che  punto  non  si  limitava  alla  formazione  di  nomi  proprj 
{Pomp-ai-ano-  ecc.) ,  come  in  ispecie  si  vede  dai  temi  feminili  umbri  pernaia  antica , 
pustnaia  postica  (CoRSS.  I"  303;  Beéal,  Tabi,  eug.,  9,  163-4,  e  110-11:  j^edaia  liba- 
mina).  Io  anzi  spero  di  poter  presentare  un  giorno  a  Vossignoria  un'  altra  bestia  non 
bella,  con  la  stessa  coda  antilatina;  bestia  grandemente  curiosa,  e  tal  che  s'inconti'i 
anche  per  altre  ragioni  grammaticali  con  lo  scara/aio,  né  manchi  essa  pure  di  con- 
tinuazioni viventi.  Sarebbe  l'ancora  mal  certa  gulaia  {testudo,  quam  vulgo  golaiam 
dicunt;  v.  Loewe,  o.  c.  417-8),  con  la  variante  golia;  di  che  più  Le  noto  qui  accanto  '. 
Intanto  il  i^overo  scarafaggio  ci  apparirebbe  doppiamente  prezioso,  cioè  da  collocarsi, 
cosi  pel  durarvi  di  -/-,  come  per  1'  -ajo,  tra  gii  'scarabei'  del  nostro  museo  paleo- 
italico. 0  veramente  (veda  Lei  se  io  non  trasmodi)  egli  ha  anche  xva.  terzo  pregio  o 
una  terza  nota  antilatina,  poiché  la  radice  o  il  nome  primario,  che  vi  si  contiene  (scarf-, 
scarfo-;  cfr.  l'it.  scalfire),  offre  per  avventura  una  di  quelle  intrusioni  di  vocali  per 
cui  l'osco  dà  a  cagion  d'esempio  aragetud  =  &r  genito.  L' antilatinità  dell' -a/o  resirl- 
terà  d'  altronde  anche  da  quella  intolleranza  che  indusse  alle  varie  trasformazioni 
della  parte  suffissale  di  questo  nome:  napol.  scarrafone,  portogh.  escaravelho ,  ecc. 

Senonchè,  ei  può  parere  che  qui  s'incappi  in  una  particolar  difficoltà  o  che 
s'  entri  in  uno  strato  diverso,  poiché  scarabaeus  passa  per  voce  greca  (ay-apa^aìo? 
Gxapàpsw?),  e,  se  così  fosse,  non  avremmo  più  il  caso  di  -/-  dei  Paleoitalici,  che  da 
iin  lato  si  mantenga  e  dall'  altro  passi  regolarmente  in  -h-  latino.  Ma  chi  poi  dice 
che  questa  voce  sia  greca?  U  -aeus  le  ha  fatto  questa  reputazione,  e  il  vocabolario 
greco  non  l'ha  veramente  se  non  come  trascrizione  dello  scarabaeus  di  Plinio! 
Era  dunque  una  grecità  illusoria ,  che  lo  scarafaggio  ora  disperde  ".  Il  rapporto  di  -/- 
autilat.,  -b-  lat.,  =  p  gr. ,  parrebbe  piuttosto  reggersi  per  bufalo  bubalus  fioópaXo?: 
il  quale  bufalo  non  appare  nel  Diez  se  non  come  una  variante  latina  di  bubalo-. 


'  Il  Loewe,  dopo  avere  giustamente  ridotto,  come  sentimmo,  la  glossa  ohe  è  in  Mai  VI  p.  B48b  (golaiam), 
annota;  '  Idem  vocabulum  in  libri  glossarum  codice  Ambrosiano  B  36  inf.  ffuolaiam  et  (/olia  scribitnr:  qnao  forma 
probanda  sit  uescio.  '  Nel  Du  Gange  (ohe  ha,  in  luogo  di  golaia ,  un  t/olatia)  si  aggiungono  a  r/olia  :  golola  e  goìora, 
sempre  per  'testuggine'.  Ci  accostiamo  cosi  all'it.  galniia,  comune  al  veneziano,  il  quale  però  ci  aggingne  il  suo 
gagandra  (gagiandra;  gajandre  del less.  friul.),  cioè  ^xnga^iandra  di  fase  anteriore,  dove  toi-na  forse  a  balenare  l'i" 
di  golia  [mi  ha  furato  le  mosse  il  Muss.,  Beitr.  s.  gajandra].  Mal  sì  potranno  staccare  queste  voci  da  xeS.wvyi  ecc.;  ma 
d'altronde  e  manifesto,  che  una  relazione  dirotta  tra  yiXtd-'jT\  p.  e.  e  l'it.  galana,  torna  foneticamente  impossi- 
bile. Un  tipo  col  nesso  iniziale  x'  (ohe  nel  parallelo  latino  darebbe  legittimamente  gì,  laddove  x-f  voc.  non  da- 
rebbe nel  parallelo  latino  se  non  A-f  voc),  variamente  epentetizzato  secondo  le  forme  o  parlate  dìvoi'se,  po- 
trebbe conciliare  lo  voci  italiche,  sin  qui  trascurate,  con  le  greche  e  le  slave  (cfr.  Pott  Et."  II-2,  p.  So,  Cdrt. 
n.  187,  FicK  s.  xelu  grecoital.).  La  varietà  di  forme,  che  pur  ritalia  ci  offre,  conferma  viemeglio  che  si  tr.itti  di 
materia  paesana. 

'  Anche  lo  anipagog,  di  cui  il  Diez  tien  conto,  torna  a  venire  da  Plinio!  Quanto  poi  valga  pur  xapagos, 
in  quanto  gli  fanno  dii-e  'scarafaggio',  co  lo  insegna  nn  confronto  tra  il  Passow  o  lo  Stefano  (Dind.).  La  voce 
greca  por  scarafaggio  è  sempre  stata  od  è  xivìapos. 


—  431  - 

ma  è  veramente  la  nostra  forma  vernacola,  che  ha  la  fortuna  di  comparire,  sin  dal 
sesto  secolo,  in  nn  verso  latino  di  Venanzio  Fortunato  (VII,  4,  21:  sen  validi  bufali 
ferit  Inter  cornua  campum)  '.  Della  'italicità'  che  anche  al  nome  del  bufolo  io  iion 
istenterei  a  attribuire,  Le  dirò  qui  appresso.  Ma  intanto  si  può  chiedere:  quando 
fossimo  costretti  ad  ammettere  un  riscontro  che  si  determinerebbe  per  -/-  antilati- 
no, -h-  latino,  [5  greco,  come  avrebbe  egli  a  dichiararsi?  Dovremo  forse  dire,  che 
il  "P"  greco  fosse  variamente  imitato  nelle  riproduzioni  italiche ,  secondo  che  il  di- 
verso dialetto  propendesse  a  -/-  od  a  -6-?  Qui  ricorre  al  pensiero:  trionfo  ~  dfjiajj.po?, 
che  però  passa  attraverso  a  figure  latine,  le  quali  accennerebbero  a  'f  greco  (triump-, 
triumph-).  Diverso  è  poi  il  caso  della  serie /=^;/ì=jj,  in  trofeo  T(JÓ;ìa'.o-  e  altri  con- 
generi. 

Prima  di  ritoccare  del  bufalo ,  che  sarà  nel  parlare  di  bifolco ,  smaltiamo  ancora 
due  esempj  o  tre.  Vedevamo  dianzi,  che  il  Diez  nella  grammatica  pone  senz'  altro 
j;ro/eufZ«  =  providenda  (ragguaglio  affatto  impossibile),  e  perciò  tra  gli  esempj  di 
-V-  in  -/-;  ma  nel  lessico  dice  egli  più  cautamente,  che  il  frane,  provende,  it.  pro- 
fenda,  si  staccasse  di&  i^rabende  (praebenda)  per  influenza  di  providere  (part.  pro- 
videnda;  cfr.  less.  s.  viande).  Meglio  poi  fanno  il  Littré  e  ora  il  Canello  [Ardi.  Ili 
382],  mandando  senz' altro  j^j-o/enda  {prefenda)  e  iwovenda  con  praebenda;  e  resta 
che  si  dichiari  il  rapporto  tra  -b-  e  -/-.  Gli  è  che  la  profenda  è  la  'prebenda'  del 
mulo  e  d' altre  cosi  umili  persone  ;  è  la  povera  voce  delle  stalle ,  ed  ha  la  fricativa 
antilatina  che  le  spetta.  Praebenda,  secondo  il  comune  consenso,  è  *prae-hibenda 
(prae -*- habeo) ,  e  la  ragione  del  i  di  habeo  non  è  già  quella  che  il  Corssen  suppo- 
neva (6  da  p) ,  ma  ancora  è  quella  dell'  aspirata  originaria.  Il  Bugge  (Kuhn's  Zeit- 
schrift,  XXII  449  sgg.)  correttamente  arrivava,  per  tutt' altra  via,  a  stabilire  che 
fosse  liafl-,  il  tema  del  verbo  osco  rispondente  al  lat.  h  ab  ere;  e  io  sempre  ho  cre- 
duto che  correttamente  s' incontrassero  l' liaf-  italico  (=  ghabh)  col  sinonimo  gab-  del- 
l' irlandese  '.  Onde  si  conchiude ,  che  prefenda  profenda  (la  prima  delle  quali  varietà 
è  sacrilegamente  passata  dalla  greppia  del  mulo  alla  mensa  del  canonico)  sia  pro- 
prio etimologicamente  il  correlativo  plebeo  o  antilatino  di  praebenda. 

Nel  lessico  dieziano,  alla  voce  truffe  far-tufo,  è  ancora  parlato  di  b  in/,  poiché 
il  termine  latino  sia  tuber;  ma  insieme  ivi  occorrono  altre  due  cose,  che  possono 
parerci  singolari.  Vi  si  afferma  imprima,  per  mera  svista,  che  essa  voce  siuonima 
abbia  un  u  breve,  il  quale  dovrebbe  dare  o  ecc.,  non  u,  ai  riflessi  neolatini; 
quando  il  vero  è,  che  tuber,  in  quanto  di'be  tartufo  ecc.,  ha  1' m  lungo,  e  perciò  il 
rapporto  deUe  toniche  è  perfettamente  regolare.  Poi  vi  si  congettura,  che  il  -tufo  di 
tartufo  (terrae-tuber)  sia  una  riduzione  di  trufo.  Ma  la  figura  nominativo-accusativa 
di  tuber,  o  meglio  dell' autilatino  tufer  (la  schietta  risposta  etimologica  del  lat.  tu- 
ber, quando  in  questo  nome  si  vegga,   col  Corssen,  il  suffisso  che  latinamente  è 


'  18B5.  bufali  è  mantenuto  anche   nella  edizione   che   di  Venanzio   ora  è  data  (ISSI)   da  F.  Leo   nei   3Ion. 
Germ.  hiat.,  pur  notandosi  i  codici  che  hanno  hubaìi. 

■  1885.  Vedi  ora:  Note  Irlandesi,  p.  53;  Fboehde  in  Bezzenberger's  Beitriige,  Vili  16J. 


—  432  — 

-ber),  darebbe  appuuio  un  it.  tufe  (tufo),  cosi  come  sulfur  dà  sol/o;  e  il  latineg- 
giaute  (e  letterario)  tubero,  cioè  la  figura  dativo-ablativa  tubere,  starebbe  raorfo- 
logicamente  a  -info  covae solferò  a  solfo,  marmorc  a  marmo,  ecc.;  v.  Arch.  II  426  sgg.  '. 
Dell' autilatino  tufer-,  c'è  del  resto  una  testimonianza  relativamente  antica,  nel  tu- 
ferae  di  Antimo;  cfr.  Anth.  ed.  Rose,  ind.  s.  v. ;  e  qui  sovviene,  per  quello  che  val- 
ga, ancbe  ere/;Y(<  =  cribrat,  Loewe,  o.  c.  421;  ma  più  validamente,  se  io  non  erro, 
sovviene  il  vultfaria,  lacunae  in  quibus  iumenta  volutantur,  delle  Gloss.  vet.  ex 
membr.  bibl.  vatic.  (Mai  VI  551''),  cbe  il  Mai  vorrebbe  correggere  per  volutabra, 
con  la  qual  voce  resteremmo  veramente  al  latino  classico,  dove  all'incontro  par 
manifesto  che  il  glossatore  voglia  piuttosto  volutafra;  cfr.  il  campano  Venafrum^'. 

Arrivo  per  ultimo  a  bifolco,  che  è  la  parola  dalla  qiiale  primamente  fu  attratta 
la  mia  attenzione  a  questa  serie  lessicale. 

Ella  ricorda  come  il  Corssen  si  desse  ragione  di  bubulcus.  Lo  voleva  derivato 
dall'aggettivo  bubulus,  per  mezzo  del  suffisso  -co;  e  il  secondo  b  di  bubulus  era 
per  lui  un' alterazione  del  v  etimologico  di  bóv-,  promossa,  per  via  di  assimila- 
zione, dal  h  iniziale.  La  stessa  assimilazione  ritrovava  egli  in  bubile,  inBubona, 
la  Dea  dei  buoi,  e  in  Bubetii  (ludi).  Cfr.  Vok.  V  125-6,  II'  134-5. 

Ma  come  faceiam  noi  ad  appagarci  di  tal  dichiarazione?  Non  poteva,  dall' un 
canto,  addurre  il  Corssen  alciin  altro  esempio  di  v  tra  vocali  alterato  latinamente 
in  b;  e  d'  altronde  come  mai  qui  ammettere  la  spinta  assimilativa,  quando  appunto 
era  fermo  e  costante  il  bov-  in  bovis  bovi  bovem  boves,  senza  dire  di  bovinus 
bovile  Bovianum  ecc.  ?  Neil'  ordine  morfologico ,  poi ,  mi  repugna  una  formazione 
che  sarebbe  il  correlativo  di  un  *equinicus  o  di  un  ^ovinicus,  per  allevatore  o  con- 
duttore di  cavalli  o  di  pecore^;  senza  dire,  che  già  lo  stesso  bubulus  resulta  un 
singoiar  sinonimo  di  bovinus,  poiché  egli  sarebbe  il  correlativo  di  equuliis  e  non 
già  di  equinus.  Se  poi,  alle  difficoltà  d'ordine  propriamente  latino,  aggiungiamo 
quella  che  bubulcus  si  rispecchii  nell'it.  bifolco,  il  quale  accenna  a  un'antica  fase 
*buftdcus,  l'ipotesi,  sostenuta  dal  Corssen,  tanto  perde,  se  io  non  erro,  di  probabi- 
lità, da  doversi  onninamente  abbandonare. 

Strano  che  al  Corssen  non  sia  balenata  l' idea  che  una  relazione  potesse  correre 
tra  codeste  voci  (bubulus  Bubona  ecc.),  le  quali  si  erano  considerate  ed  egli  medesimo 


'  18&5.  Circa  la  storia  de'nontri,  mi  sia  lecito  qui  aggiungere,  a  quanto  ne  dissi  nell'articolo  ora  citato 
e  altrove  (Aroli.  Ili  460-7,  IV  398-402,  VH  439-42),  i  particolari  seguenti:  1«  obliquo  del  tipo  in  -us,  nell'ant.  fr. 
viaure.  viaurre  m.,  vellus  (Miser.  d.  B.  d.  M.;  e  la  sooverta  e  di  Mussafia);  2°  l'obliquo  del  tipo  in  -us,  in  funzione 
avverbiale,  pur  noU'ant.  basso-eng.  taimpr  (da  tuott  tèmp  tard  é  taimper,  Camp.  31,  6;  in  18,  20,  all'incontro. 
taimpcr  mi  par  licenza  poetica  por  <o(Hij)eO;  3"  il  pi.  del  tipo  in  -us,  come  fem.  sng.:  Hiin  «(ercora,  Ant.  testi 
lomb.,  Arch.  IX  7,  lin.  5. 

'  1885.  Nelle  gloss.  vat.  è  bofcr  grossus.  Mai  VI  510,  VII  552,  e  nel  Icss.  lat.,  ib.  Vili  75:  bafer  grossus,  turgi- 
dus,  ventricolosus  (cfr.  Ducange,  e  baser,  agrestis,  nel  gloss.  ed.  Thom.).  Ne  potoa  venire  un  ital.  baffo  (e  chi  sa  che 
il  'baffo' non  sia  il 'rigonfio'),  e  mal  se  ne  staccherebbe  la  i«;;'(T. '  perna'  ecc.,  cfr.  Mcss.  Beitr.  31.  Quanto  al  man- 
dare ,  con  le  voci  ultimamente  ricordate ,  il  piem.  br!/ra  ecc.,  osta  in  i.specie  1'  «  del  frc.  bri/re.  Ma  bene ,  all'  incon- 
tro, va  con  esso  il  roveret.  baffa,  che  è  sinonimo  di  rcscina  in  quanto  'vescica'  sia  la  'glandola'  delle  piante,  il 
'gonfietto'  del  pane,  ecc.;  v.  AzKolini. 

Cfr.  L.  Meter  II  501.  Superfluo  dire,  ohe  lo  stesso  muliouicus  (mulion-ico-),  'apparteuento  al  mulat- 
tiere', non  farebbe,  in  verun  modo,  al  caso  del  Corssen. 


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considerava  come  propaggini  di  bóv-,  e  la  voce  bubalus;  né  mai  gli  paresse  di 
toccar  di  subulcus  nello  studiare  di  bubulciis  (v.  all'incontro  Pott,  II-2,  1328-11)  '. 
Vero  è  che  bubalus  ha  apparenze  greche  e  che  il  bufalo  non  s'ha  tra  gli  animali 
dell'  Italia  antica  (v.  Hehn  ,  Kulturpflanzen  uud  Haustliiere,  Berlino  1870,  p.  346  sgg.). 
Ma  qual  pur  sia  l' età  in  cui  l' Italia  primamente  albergasse  l' animale  che  diciamo 
bufalo,  certo  è  che  il  nome  bubalus  era  antico  e  anticamente  popolare  in  Italia, 
dicesse  egli,  o  dovesse  dire,  il  cervo  o  qualsia  altro  quadrupede  (cfr.  lat.  dama  cer- 
vo, irl.  dam  bue),  secondo  il  rimprovero  che  fa  Plinio  al  volgo  latino  di  affibbiare 
la  denominazione  di  bubalus  agli  uri  di  Germania  [panca  gignit  Germania:  insignìa 
tamen  boum  ferorum  genera,  jubatos  bisontes,  excellentique  vi  et  velocitate  uros, 
quibus  imperitum  vulgus  bubalorum  nomen  imponit,  cum  id  gignat  Africa,  vituli 
potius  cervique  quadam  similitudine;  Hist.  nat.  Vili  15].  Ora,  voce  non  diversa  da 
questo  bubalus,  che  appare  greco ,  sarà  il  meglio  latino  bubulus  (cfr.  vitulus  ecc., 
e  anche,  se  pur  conti  poco,  l'it.  bufolo  accanto  a  bufalo) ,  in  cui  dovremo  riconoscere 
un  sostantivo,  piegatosi  alla  funziono  di  aggettivo  (cfr.  Curtius  s.  Jjoùc,  e  l'uso  di 
juvencus)  l  Questa  denominazione,  più  o  meno  generica,  sarà  anche  stata,  per  avven- 
tura, non  meno  italica  di  quel  che  fosse  greca  (cfr.  |jO'J|jaÀ'.;,  specie  africana  di  cervo 
0  di  gazzella)  ;  e  la  identica  sua  base ,  o  almeno  1'  effetto  suo ,  anziché  quello  di  bov- , 
noi  a  ogni  modo  vorremo  vedere  in  bubile  allato  a  bovile,  o  nella  Dea  Bubona, 
che  non  c'è  data,  del  resto,  se  non  da  S.  Agostino.  In  bubile  potrebbe  anche  avere 
influito  bubulcus,  che  io  da  più  anni  'sento'  come  voce  composta  e  mi  risale  a 
bou-fulcus  bu-fulcus,  come  pur  subulcus  non  mi  par  foggiato  servilmente  sopra  bu- 
bulcus, ma  anch'  egli  risolversi  (subare  non  mi  ferma)  in  su-fulcus. 

Contrasta,  so  bene,  a  questa  affermazione  la  brevità  della  prima  sillaba  di  bu- 
bulcus. Ma  basteranno  essi  gli  esempj,  che  di  bubulcus  abbiamo  nel  verso,  per 
impedire  senz'  altro  un  ragionamento  etimologico  che  muova  da  *bu-fuIco-?  La  quan- 
tità poteva  facilmente  qui  oscillare,  per  effetto  di  attrazioni  diverse.  C  era,  a  cagion 
d'esempio,  con  legittima  diversità  di  tempo,  bilbulus  allato  a  bovile  (o  anzi, 
molto  probabilmente,  bubile  e  bubile  allato  a  bovile).  C'era  il  parallelo  subul- 
cus, al  quale  si  dà  la  prima  breve,  certo  per  la  ragione  di  su -bus  di  contro  a 
bù-bus.  C  era  finalmente  la  sembianza  di  forma  reduplicata,  perla  quale  si  entrava 
nell' analogia  delle  prime  brevi:  cucullus  cucurbita,  sùsurrus,  cùcurri  tiitudi. 
L'oscillazione  tra  ì' u  (u  cupo)  e  Va  (u  largo)  può  anche  essere  accennata  dalla  dop- 
pia continuazione  italiana,  cioè  dal  contrasto  che  corre  tra  la  prima  sillaba  del  più 
popolare  o  antilatino  bifolco,  bifolca  misura  di  terreno,  e  quella  del  meglio  latino 
bobolca.  Non  è  questo,  di  certo,  un  argomento  di  piena  prova;  ma  è  pin*  vero,  che 


'  Anche  può  parer  singolare,  ohe  il  Corssen  non  citi  petulcus  e  hiulous,a  proposito  del  modo  suo  di 
sijìegare  bubulcus. 

°  La  sola  continuazione  neolatina  ohe  di  bubulus  io  conosca,  è  bubulii,  ohe  lo  Spano  adduce  da  Biti  nel 
Logudoro.  Non  ne  può  venire  alcun  criterio  circa  la  quantità  deU'ff;  ma  ruso  dei  poeti  (bclbulus)  tanto  è  favo- 
revole alla  identificazione  di  bubulus  con  bubalos,  quanto  è  contrario  alla  ipotesi  di  bub-  da  bov  . 


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hifolco  fa  con  ginejjvo  il  più  saldo  pajo  per  l' i  (e)  da  «  protouico  (cfr.  dial.  zenévi-o 
heolco);  e  entrambi  sarebbero  di  u  lungo. 

Or  se  *.su-fulcus  e  *hu-fulcus  son  due  composti  (e  tali  composti  di  cui  molto  an- 
ticamente si  perdesse  la  coscienza;  cfr.  il  già  citato  C'oò?efts=  Coflueutia),  che 
haijino  essi  primamente  significato  ?  Non  altro  che  '  ingrassatore  di  majali ,  di  buoi  ', 
onde  poi  senz'altro:  "porcajo'  'mandriano'.  Sarà  questo  -fidcus  uno  dei  nomi  della 
formola  'radice--!-  o',  che  tanto  bene  convengono  all'uscita  del  composto  latino  (cfr. 
pedi-sequus  male-dicus  uiii-vocus  ecc.'},  e  entrerebbe  in  famiglia  col  verbo  fulcire. 
Il  qual  verbo  diceva  'sostentare',  non  solo  nel  senso  di  'puntellare',  ma  ben  anche 
in  quello  di  'riempiere'  'rimpinzare';  e  si  tratterà  di  ben  altro  che  di  mera  eleganza, 
come  dicono  i  vocabolarj,  se  Lucrezio  p.  e.  scrive  (II  114G-7): 

Omnia  debefc  euim  cibus  integrare  novainlo, 
Et  fulcire  cibus;  [cibus  omnia  sustentare]; 

gli  era  che  fulcire  diventava  quasi  sinonimo  di  farcire;  e  1'  àir/ens  fullura  di  Ora- 
zio ci  conduce  al  nostro  folto,  che  non  è  se  non  il  participio  di  'fulcire'  o  dice 
'pieno';  e  nello  stesso  latino  vediamo  in-fulcire  che  non  dice  diverso  da  in-far- 
cire.  Ij  infolcire  o  anzi  infoltiare,  'rimpinzare'  'imbottire'  'ficcar  dentro',  era  pro- 
priamente del  popolo  ;  come  ci  mostrano  il  soprasilv.  s-fulmr  ent ,  alto-eng.  s-fusUr , 
ficcar[si]  dentro  (cfr.  Ardi.  I  546  a)  ;  anzi  si  sarà  avuto  pure  un  falcare  in-folcare , 
sempre  con  la  stessa  significazione;  poiché  a  questa  base,  ben  piuttosto  che  non  a 
'''fullicare,  sarà  da  riportarsi  il  friul. /o?c«  in-folcd,  stipare,  che  appunto  si  dice  del 
rimpinzarsi  di  cibo  ".  Ne  usciamo  con  fina  significazione  da  ragguagliarsi  a  quella 
del  ted.  masten;  e  su-fulcus  bene  perciò  si  renderebbe  col  ted.  'schwein-miister'. 
Nessuno,  credo,  mi  vorrà  opporre  la  considerazione,  che  bubulcus  piuttosto  sia  o 
fosse  l'aratore  che  non  il  pastore;  poiché  subulcus,  che  è  in  Varrone,  o  si  fog- 
giasse sopra  bubulcus,  o  si  costituisse  indipendentemente  da  questo,  attesta  sem- 
pre per  l'antica  significazione  di  'pastore",  'allevatore'. 

Ma  io  sento  che  Ella  mi  dice:  bada  ai  fatti  tuoi  e  non  mi  rubare  il  mestiere. 
E  io  desisto  sùbito,  sebbene  a  malincuore.  Solo  ancora  La  prego,  che  mi  consenta 
di  mettere  in  fila  le  principali  testimonianze  che  si  venivan  raccogliendo  per  codesto 
fenomeno  antilatino  (-/-) ,  tanto  perchè  vediamo  vie  meglio  come  esse  vadano  tra  di 
loro  congiunte  per  una  certa  congruenza  ideale.  Sarebbero  dunque:  rufo-  (e, 
checché  si  dica,  anche  ruf-i-ano),  sifilare;  hifolco,  prefenda,  bufolo,  scrofa  (e  prov- 
veduta la  scrofa  del  quasi  sicuro  volutafro ') ,  biifon-,  tafano,  scarafujo  (accoppiato 


'  Non  si  vogliono  citati,  come  se  avessero  xma  particola!'  convenienza ,  Io  nd'OiìliiiMicua  di  Pianto  o  un  'ìiussc- 
gmis  bubulcus'  ohe  è  in  Mai  VITI  80;  ma  ognuno  sa  aggiungerò:  osaifi'nffiis,  miMìloquus ,  cripritmilgm ,  licnevoliis;  — 
carnivoì'us,/iinambuJus,  ed  altri. 

'  Vedo  in  qualclio  dizionario  spngnuolo-iVancose,  die  l'ant.  sp.  fuJeir  sia  tradotto  per  'nourrir'.  Ha  non 
ne  profitto  e  anzi  non  ci  credo,  parendomi  che  il  'nourrir'  debba  essere  traduzione  erronea  del  snsientar  spa- 
gnuolo,  il  quale  era  adoperato,  in  quanto  dice  'puntellare',  e  non  in  quanto  dico  'aliniontare',  a  dichiarazione 
di  fiilcir.  Diventa  però  un  equivoco  ass.ai  eloquente. 

'  1885.  Cui  ora  si  aggiungerebbe  la  bafa  di  pag.  3S0  n. 


—  435  — 

a  i;na  gulaia,  che  speriamo  legittima)  ;  scojliia,  sulfur,  tufo  (cou  1'  u  it.  =  o  lat.,  clie  è 
pur  della  cruna,  la  qnale  ci  portava  al  refe);  e  insomma  tutte  voci,  —  s'Ella  mi 
permette  qualche  altro  ardimento  prima  di  cacciarmi  via ,  —  tutte  voci  che  piutto- 
sto dovevano  risonare  nella  popina,  cioè  nella  stamberga  popolare  suUa  qi;ale  stava 
r  altro  marchio  autilatino  del  jj  =  ^y  (cfr.  p.  e.  umbro  -jj)HWij;e  =  lat.  -cunque),  che 
non  nella  più  o  meno  ai'istocratica  coquina  '.  E  nella  popina  la  gente  si  dava  a 
tqffiare  (mangiare  ingordamente)  ;  la  qual  voce ,  per  essere  anche  toscana ,  non  può  rive- 
nire a  un  *tavlare  (tavolare  talbulare) ,  e ,  per  avere  la  riduzione  di  /  in  fj ,  mal  può  es- 
sere moderna,  cioè  tedesca,  ma  deve,  se  Ella  il  permette  [cfr.  St.  etim.  uum.  620], 
piuttosto  risalire  all'  autilatino  tajlare  (umbro  tajla  =z  tabula),  come  Flechia  ha  bella- 
mente pensato;  Arch.  Ili  155-6".  E  tra  i  sifili  del  tafio,  si  pensava  a  farla  ad-ùfo  e 

si  giocava  a,  j^dr-au-cafo , 

Ma  io  scappo  senza  più ,  dopo  averle  stretto  coixliabnente  la  mano. 


'  ISSÒ.  Non  intendo  io  bene  ciò  che  il  Fkoehdf.  (Bezzenberger's  Beifcr.  Vili  166)  voglia  signiiicarc,  quando 
oppone  elle  coquina  (=popina)  abbia  uno  stampo  in  tutto  latino.  La  distinzione  si  aggira  intorno  alla  parte 
sostanziale  del  vocabolo  (coqv-,  pop-;  e  l'elemento  derivativo  è  all'incontro  scliiettamente  comune  al  latino, 
all' osco  ed  all' umbro  (cfr.  p.  e.:  osco  Sarinii,  umbro  Iluvinu).  Unj)=2i)  resulterebbe  anche  per  lupus  («-vlupus), 
qu.indo  veramente  questa  voce  debba  andare  col  gr.  XOno?,  got.  wvlf-s,  ecc.;  e  in  altri  termini  vorrebbe  dire,  che 
il  'lupo'  sia  voce  non  bene  romana,  cosi  come  scroffu  È  molto  curiosa  la  scarsa  romanità  di  tante  bestie.  Poiché 
anche  hos^  come  già  più  volte  fa  notato ,  ha  figura  piuttosto  osca  od  umbra,  che  non  latina  (il  latino  piuttosto  vor- 
rebbe vós  =  gi-os,  cfr.  ven-w,  osco  ed  umbro  bcìi'^  gven-)^  h'asino  poi  (non  arino  secondo  la  norma  latina;  cfr.  p.  e. 
nmcrtis=^  ^nmeso-,  ecc.),  qui  lasciamolo,  per  più  ragioni,  in  disparte,  salvo  a  ritornarci  nel  ristudiare  dis  originario 
che  si  mantenga  tra  vocali  in  voci  usate  dai  Latini;  ohe  è  un  tema  parallelo  a  quello  intorno  a  cui  si  aggira  la  pre- 
sento lettera.  Andrà  allora  ritoccato  anche  il  tiaso  ,  circa  la  qual  voce  mi  sia  lecito  anticipare,  che  anch'io  aveva 
messo  innanzi  (in  una  lettera  diretta ,  or  son  parecchi  anni ,  a  un  altro  amico  onorandissimo,  lo  Schweizer-Sidler) 
l'ipotesi  di  un  itas-to  di  fase  anteriore,  alla  quale  ipotesi  or  viene  pure  il  Bréal  (Mém.  d.  1.  soc.  d.  ling.,  V341),  valen- 
domi io  anche  del  nasta  che  è  nel  vocabolario  sanscrito,  e  veramente  vai  poco,  e  d'  altro  ancora.  Ma  ci  ho  rinun- 
ziato, perchè  non  è  sostenibile  la  riduzione  di  s  prim.  -j-  i  in  5S  o  -s  lat.  Di  che  ora  si  vegga  pur  CoccntA,  in  lì/v. 
difil.  class.,  XI  28-34. 

'  A  brevissima  distanza  da  tafjìo ,  vedo  che  sotto  taccuino  [St.  etim.,  num.  618],  giustamente  da  Lei  r.aggua- 
gliato,  come  già  da  altri ,  all'  arabo  taqulm  (il  cui  -Im  si  riduceva  non  difficilmente,  anzi  pressoché  di  necessità, 
all'analogia  d'  -in  ^inus),  Elba  si  meraviglia  che  questa  voce  arabica  non  sia  rimasta  agli  Spagnuoli  o  ai  Porto- 
ghesi. Ma  è  da  considerare,  che  deve  primamente  essere  stata  voce  dei  dotti  piuttosto  che  del  volgo ,  e  che  la 
storia  delle  scuole  potrà  cosi  spiegarne  la  presenza  o  la  permanenza  tra  i  soli  Italiani.  L'arabo  taqvJm  per  sé 
non  dice  se  non  '  corretta  disposizione  '.  Non  vedo  io  a  quale  antichità  ne  risalga  1'  uso  tra  i  Musulmani,  in 
quanto  dica  la  'disposizione'  dei  mesi  ecc.,  cioè  il  'calendario';  ma  di  certo  non  è  fortuito  l'incontro  tra  gli 
Orientali  e  gli  Italiani  in  qiresta  particolar  significazione  della  paroliì,  (oggi  ancora,  p.  e.  a  Milano,  iaccuino  è 
il  calendario).  Intanto  è  facile  vedere,  che  i  libri  contenenti  norme  o  istruzioni  di  arte  medica  s'intitolavano, 
tra  i  medici  della  famosa  scuola  salernitana,  tacuiid,  da  taqvlm  elio  era  la  prima  parola  del  titolo  arabico.  Cfr. 
De  Benzi,  Storia  documentala  della  Scuola  medica  di  Salerno,  seo.  ed.,  1857,  p.  518,  alla  qual  opera  mi  rimandava 
STEiNSciiNEroER  in  Virohow's  Archiv,  XXXIX  297  sgg.  (tacuinus  corporum,  tacuini  sauitatis,  taouini 
aegritudinum  et  morborum).  Nel  nuovo  Du  Gange  è  d'altronde  il  seguente  articolo:  '  tacouin'  arabico, 
productio,  a  verbo  caieana,  produeere,  in  Animadv.  D.  Falconet.'  L'etimologia  è  sbagliata.  —  Noto  poi,  dacché 
siamo  sul  campo  semitico,  ch'Ella  pure  lascia  intentata,  come  già  il  Diez,  la  voce  desmazalado,  imposta  da  Cer- 
vantes all' Academia  spagnuola.  Essa  è  veramente  una  delle  cose  accattate  da  Don  Miguel  alla  'juderia';  cioè  il 
correlativo  'judio'  di  des-dìcha-do ,  malavventurato  (ebr.  maiial  .stella,  destino),  com' Ella  vedrà  che  tradizional- 
mente si  provi  in  alcune  uoterelle  sulle  '  Impronte  semitiche  nel  Don  Quijote'. 


43G 


II. 


Del  Neogrammatici.  —  Lettera  al  prof.  Pietro  Merlo. 


Sommario.— Un  esordio  ohe  s'aggiunge  all' ultitn' ora.  —  La  esplorazione  delle  lingue  neola- 
tine e  i  Neogrammatici  (1).  —  La  esplorazione  delle  liugne  antiche  e  i  Neogi'ammatici  (2). 
—  I  vecchi  e  i  nuovi  all' opera  (3).  —  L' irlandese  cétbaith  (4).  —  Conclusione  (3). 


Milano,  10  settembre  1885. 

Carissimo  amico.  —  Le  so  grado  veramente ,  eli'  Ella  desideri  messe  in  carta  le 
cose  che  io  ebbi  1'  occasione,  tanto  piacevole  per  me,  di  farle  sentire  e  di  discutere 
eoa  Lei  intorno  ai  'Neogrammatici'.  Ma  fo  poi  bene  a  secondar  l'invito  cortese,  che 
la  Sua  amicizia  mi  rivolge?  Altri  amici  molto  autorevoli,  e  l'Inama  in  ispecie,  più 
volte  m'hanno  tentato,  perchè,  in  un  modo  o  nell'altro,  io  continuassi  il  discorso 
che  avevo  frettolosamente  iniziato  nella  Lettera  glottologica  del  1881  (alla  cui  versione 
tedesca,  fatta  da  un  pezzo  e  con  insigne  abilitcà  dal  Giiterbock,  io  esito  sempi'e  ad 
apporre  1' 'imprimatur');  e  mi  ci  son  dovuto  ricusare  per  varie  ragioni,  che  tutte 
duran  sempre.  Dirimpetto  a  Lei,  se  ne  aggiungerebbe  una  di  più,  e  assai  poderosa; 
poiché  Siam  proprio  al  caso  del  ricco  che  insista  per  l'obolo  del  povero,  ponendo 
Lei  in  questi  argomenti  un'  energia  di  studj  che  a  me  non  è  data.  Se  insomma  può 
parermi  che  non  siano  affatto  inutili,  o  nell'ordine  della  dottrina  o  in  quello  della 
giustizia  distributiva,  alcune  delle  osservazioni  che  sto  per  ripeterle,  rimane  sempre 
che  io  rientri  a  malincuore  in  questa  discussione,  anche  astrazion  fatta  dalle  molte 
angustie  in  cui  ora  mi  affanno.  Circa  l'opportunità  di  pubblicare,  o  tutte  o  in  qual- 
siasi parte,  queste  righe  che  pur  Le  mando,  criticate  da  Lei,  che  assai  bene  sarebbe, 
0  non  criticate,  e  di  pubblicarle  nella  'Miscellanea'  o  altrove,  me  ne  rimetto  io  poi 
assolutissimamente  nel  giudizio  Suo  e  nella  Sua  volontà.  Delle  non  infrequenti  cita- 
zioni o  applicazioni  di  studj  miei  proprj,  non  mi  sarebbe,  io  spero,  in  verun  caso 
fatto  colpa  dagli  uomini  discreti;  ma  giova  intanto  dichiarare,  che  io  so  bene  come 
più  e  più  altri  potrebbero  ricorrere,  e  con  miglior  fortuiia ,  all' esempio  della  propria 
loro  persona. 

Tra  le  ragioni,  per  cui  ultimamente  io  non  mi  arrendeva  a  scrivere,  era  quella 
che  nel  frattempo  si  fosse  avuto  l' opuscolo  di  Delbriick  ',  il  quale  mi  pareva  parlare 


'  [B.  DelbrOck,  Die  iieueste  sprachforachumj;  Leipzig,  18S5.] 


—  437  — 

molto  efficacemente  per  tutti,  e  con  le  cui  argomentazioni  io  a  ogni  modo  concordo 
pressoché  intieramente.  Se  in  quelle  limpide  pagine  mi  poteva  rincrescere  che  si 
trascurasse  una  considerazione  o  anzi  un  principio,  che  a  me  par  sempre  essenziale 
e  al  quale  mi  rallegra  che  Ella  ora  ritorni  in  sulla  fine  del  Suo  dotto  articolo',  io 
mi  confortava  con  ciò ,  che  il  Delbriick  già  ci  avesse  come  in  anticipazione  rime- 
diato, per  via  di  una  nota  da  lui  apposta  alla  seconda  edizione  della  bella  sua  E'm- 
ìeltung'. 

Ma  dopo  che  già  io  aveva  scritto,  con  la  maggior  fedeltà  che  sapessi,  quello 
che  EU'  aveva  avuto  la  pazienza  di  ascoltare ,  io  Le  confesserò  che  stavo  per  man- 
care addirittura  alla  parola  ormai  data,  cioè  per  abolire  senz'  altro  questa  mìa  'Let- 
tera', in  séguito  alla  nuova  e  importante  scrittura  del  Brugmann  ;  nella  quale  si  leg- 
gono le  parole  seguenti:  «  Per  quanto  mi  concerne,  ho  io  sempre  reputato  che  le 
»  intuizioni  recenti  altro  non  sieno  se  non  uno  sviluppameuto  organico  e  conse- 
»  guente  degli  studj  anteriori;  e  questa  mia  sentenza  si  è  via  via  raifermata  d'anno 
»  in  anno.  »'  Ora,  data  questa  dichiarazione  dalla  parte,  diremo  cosi,  avversaria, 
non  è  punto  assurdo  il  conchiudere  che  torni  su^Dorfluo  ogni  altro  discorso.  Io  del 
resto  devo  aggiungere  la  confessione,  che  una  dichiarazione  di  codesta  specie  me 
l' aspettavo,  di  giorno  in  giorno,  da  mio  spirito  così  eletto  e  così  sicuro  com'  è  quello 
del  Brugmann.  E  aggiungo  sùbito  un'  altra  confessione  ancora  ;  la  quale  è ,  che  non 
mi  par  possibile  che  l'altro  dei  due  corifei,  l'Osthoff,  non  arrivi  anch' egli  a  dichia- 
razioni equivalenti.  L'  Osthoff  ha  iin  naturale  ruvido  e  pugnace;  e  le  sue  persuasioni 
facilmente  assumono  e  mantengono  una  superficie  d' alterezza  o  di  sdegno ,  un 
po' incresciosa  agii  altri  (non  già  nella  conversazione,  che  riesce  vivida  e  attraente, 
ma  più  e  più  volte  nello  scritto)  e  non  utile  a  lui.  Ma  in  lui  pure,  non  meno  che 
nel  Brugmann,  sempre  s'agita,  checché  dicano  talvolta  le  contrarie  apparenze,  non 
altro  che  lo  schietto  desiderio  e  lo  schietto  culto  del  vero.  D' altronde ,  le  matte 
offese  agli  anteriori  conquisti  del  sapere  non  sono  mai  venute  dai  capiscuola;  son 
sempre  partite  da  tristi  imitatori  o  da  qualche  infelice  solitario. 

L' importanza  principale  del  periodo  del  Brugmann  che  dianzi  adducevo ,  sta 
nella  seconda  sua  parte.  A  ogni  anno  che  passa,  e  vuol  dire  quanto  più  gli  appare 
feconda  1'  opera  propria ,  e  viepiù  egli  si  persuade  che  quest'  opera  altro  non  sia  se 
non  il  naturale  portato  dell'  opera  de'  suoi  predecessori.  Abuserebbe  nondimeno  del- 
l' onesta  concessione,  e  mal  la  isolerebbe  da  quanto  la  circonda,  chi  ne  volesse  infe- 
rire eh'  essa  in  fondo  escluda  ogni  presunzione  di  differenze  intrinseche  nei  principj 
0  nel  metodo.  Ma  poiché  mi  accade  aggiungere  questa  specie  di  prefazione  a  una 
'Lettera'  non  più  distruttibile,  potrà  parer  lecita  qualche  applicazioncella  prelimi- 


'  [P.  Merlo,  SiiHo  «(aio  j)reseK(c  Mia  grammatica  ariana  eac,  iu  'Rivista  di  filologia  classica',  voi.  XIV,  p.  145-78. 
Cfr.  il  §  II  della  Leti,  glotl.  di  G.  I.  A. ,  clie  apre  il  X  voi.  della  stessa  'Rivista'.] 

'  [B.  DelbeOck,  Einleitung  in  das  spraclistudium;  2.  anfl.  ;  Leipzig,  1884.] 

'  [K.  Bbuomahn  ,  Zmn  lieutigen  stand  der  spracldvissenschaft;  Strassbiirg,  ISS'i;  p.  125:  'lolifilv  meine  Persoti 
'  liabe  die  neueieu  Auschauungeu  immer  niu'  fui'  die  organisclie  und  folgereclite  Fortentwicklung  der  alteren  Be- 
'  strebnngeu  gelialten,  xjiid  diese  Ansicht  liat  sich  mir  voii  .Tahr  zn  .lalir  mehr  befostigt.  '  ] 


—  438  — 

nare  di  avvertenze  che  più  in  là  io  Le  ripresento,  tendenti  a  illustrare  la  questione 
dei  principj  e  della  preminenza  cronologica  o  dei  varj  accorgimenti  nel  professarli. 
Il  Brugmauu,  ritoccato  com'  egli  ha  di  quegli  antichi  e  dannosi  spettri  (non 
mai  entrati,  veramente,  neUa  'scuola'  cisalpina),  i  quali  erano  il  linguaggio,  in 
quanto  egli  avesse  vita  o  realtà  all' infuori  o  al  di  sopra  dei  loquenti,  o  le  leggi  di 
qualsivoglia  maniera  in  quanto  si  stimassero  proprie  al  linguaggio  in  sé  e  per  sé, 
passa  nuovamente  a  esaltare  il  grande  e  nuovo  principio  che  sarebbe  la  normalità 
necessaria  di  ogni  trapasso  fonetico  e  con  ciò  la  esclusione  dell'anomalia  fonologica; 
la  quale  normalità  o  esclusione  avrebbe  la  sua  ragione  in  ciò,  che  la  profferenza  al- 
terativa di  un  dato  suono  riproducendosi  necessariamente ,  nell'  organo  di  uno  stesso 
individuo,  per  tutti  quanti  i  casi  dove  il  suono  medesimo  ritorna  in  una  medesima 
congiuntura,  ne  viene,  che  se  il  numero  prevalente  della  comunità  glottica  riesca 
affetto  da  una  di  codeste  alterazioni  e  l' alterazione  perciò  si  stabilisca  nel  linguaggio 
della  comunità,  ogni  eccezione,  per  la  natura  stessa  della  cosa,  rimanga  eliminata. 
Ora,  lasciamo  noi  andare,  se  il  fatto  e  le  conseguenze  che  cosi  si  descrivono, 
possano  passare  per  un  principio' ;  e  lasciamo  anche  andare,  che  nessuna  repu- 
gnanza  mai  potrebbe  trovare  o  aver  trovato,  in  sé  e  per  sé,  un'affermazione  di  que- 
sta maniera  [v.  Leti.  ylottoL,  p.  45-46J.  Ma  piuttosto  pensiamo  ad  altre  considerazioni 
fondamentali,  che  di  necessità  riportano  a  affermazioni  equivalenti,  considerazioni 
che  da  gran  numero  d' anni  sono  abituali  nella  'scuola'  nostra.  La  critica  delle  con- 
siderazioni alle  quali  alludo,  può  qui  dirsi  affatto  superflua,  qui  altro  non  si  volendo 
se  non  la  prova  o  la  persuasione  d' illazioni  identiche.  Abbiamo  dunque,  in  primo 
luogo ,  qiiel  gran  fattore  delle  trasformazioni  del  linguaggio  che  è  l' incrociamento 
delle  stirpi  diverse.  Se  per  esempio  noi  affermiamo  (torno  a  ricordare,  non  andar  qui 
badato  alla  solidità,  ma  solo  alla  qualità  dell'argomentazione  e  alle  sue  naturali  con- 
seguenze), che  la  formola  ariana  s+cons.  repugni  alla  predisposizione  orale  degH  ab- 
origeni dell'India,  i  quah  la  snervano  per  due  guise  (facendone  cioè  h+co«s.  ,  onde 
cons.+s);  quando  noi  affermiamo  questo,  e  lo  facciamo  da  vent'  anni,  ci  è  egli  lecito 
imaginare  che  la  formola  stessa  abbia  in  alcuni  esemplari,  sempre  di  schietto  lin- 
guaggio di  popolo,  a  rimanersi  incolume,  quasi  per  effetto  di  un  capriccio  o  di  una 
convenzione?  E  se,  procedendo  a  un'altra  causa  di  trasformazioni,  noi  per  esempio 
diciamo:  la  schietta  esplosiva  sorda,  che  abbiamo  a  Milano  e  ancora  a  Firenze,  già 
all'incontro  generalmente  propende  verso  la  souora  quando  siamo  a  Roma  e  più 
quando  a  Napoli,  dove  p.  es.  il  nesso  nt  diventa  addirittura  nd;  e  soggiungiamo  che 
nd  per  nt  s' avi'ebbe  ugualmente  e  nel  greco  e  nell'albanese,  e  concludiamo  che  si 
tratti  di  un'alterazione  isotermica  (Arch.  glott. ,  Vili  113),  o,  in  altri  termini,  delle 
corde  vocali  più  pronte  a  vibrare  negli  u.omini  di  date  stirpi  in  date  zone  ;  quando 
noi  affermiamo  questo,  correttamente  o  no,  qui  non  importa,  siamo  o  non  siamo 
nella  persuasione  che  l' alterazione  fonetica  debba  resultare  costante  ?  La  presunzione 
poi  di  trovarci  nel  vero,  generalmente  parlando,  allorché  arriviamo  ad  affermazioni 
di  tal  fatta,  è  quella  che  ci  porta  alla  sentenza,  non  punto  superba  [Leti,  glott,  p.  6], 
che  circa  la  dichiarazione  delle  cause,  non  solo  non  udiamo   alcun  che  di  nuovo, 


—  430  — 

ma  ci  sentiamo  di  aver  superata  la  fase,  alla  quale  la  'nuova  scuola'  ci  vorrebbe 
circoscritti. 

Quanto  alle  perturbazioni  della  regola,  cioè  alle  incostanze  della  continuazione 
fonetica  per  entro  a  una  favella  stessa  e  specie  per  entro  a  una  lingua  in  cui  si  cro- 
giuoli la  storia  d'una  civiltà,  sia  qui  lecito  ricordare  uno  studio  abbastanza  'antico" 
(1867),  in  cui  si  tentava  di  regolare  dialettologicamento  il  doppio  riflesso  (/-  e  /*-) 
che  paja  avei'e  nel  latino  iin  identico  elemento  originale  (gh-).  Di  certo,  s'  è  fatto  di 
meglio,  altrove  e  anche  a  Milano,  dopo  di  quel  saggio';  e  anche  i  più  fortiinati 
possono  in  ogni  tempo  aver  tentato  indarno  la  Sfìnge  della  storia.  Il  merito  sta  nel- 
r  averla  tentata  razionalmente,  e  nel  non  illudersi  circa  la  portata  delle  soluzioni 
che  alla  Sfinge  pur  sieno  finalmente  strappate.  Se  per  esempio  la  nuova  'scuola'  af- 
fermando essa  pure ,  come  tutti  abbiam  sempre  affermato,  che  un  j-  di  fase  anteriore 
si  continui  per  'spirito  aspro'  in  ó[j,sìc  e  in  r^Jiap  e  all'incontro  si  continui  per  C  in 
Cstà  e  in  'Oy(óv,  soggiunge  dal  suo  canto  che  i  due  diversi  riflessi  greci  importino  di 
necessità  due  basi  che  fossero  tra  di  loro  sin  dalle  origini  diverse,  questa  conclusione 
si  risolve  assolutamente  in  una  petizione  di  principio  o  in  un  arbitrio,  insino  a  che 
la  testimonianza  di  tutte  le  altre  lingue  della  famiglia  stia  per  l' unità  del  suono 
originale  (lit.  e  got.jus,  lat.jecur;  Ut.  jdvas,  la.b.juguìn,  ecc.)'.  Che  se  veniamo  alle  re- 
strizioni della  regola  in  quanto  sieno  persuase  da  raziocinj  veracemente  istorici, 
crede  egli  il  Brugmann  che  le  nove  categorie  di  restrizione,  da  lui  descritte  [o.  e, 
p.  54-58],  formino  qualche  cosa  di  nuovo  o  di  diverso  in  confronto  di  quello  che  da 
anni  ed  anni  tenacemente  s'insegna  e  espressamente  si  mostra,  sia  nella  scuola,  sia 
per  le  stampe,  e  in  numero  influito  di  casi?  Non  par  possibile  eh'  egli  abbia  bisogno 
dell'  ajuto  altrui  per  disfarsi  di  una  persuasione  che  sarebbe  tanto  erronea  ;  ma  a 
ogni  modo  slam  tutti  pronti  a  somministrargli  tal  copia  di  prove,  che  facciano  ri- 
credere, in  un  lampo,  un  così  schietto  amico  d'ogni  vero,  com'egli  è.  Non  ho  io 
ancora,  del  resto,  intieramente  capito,  come  e  perchè  Ella  gii  riduca  il  numero  di 
coteste  categorie  [1.  e,  171-72=27-28]  ;  e  a  ogni  modo  io  crederò  che  ne  vadano  ag- 
giunte delle  altre,  senza  mai  però  uscire  da  quel  'sistema  d'analogie,  geometrica- 
mente perfette',  alla  cui  antica  descrizione  io  di  certo  nulla  rimuto,  o  senza  mai 
rimutare  quei  principj  e  quel  metodo  che  ci  portavano  a  inscrivere ,  come  se  nulla 
fosse,  tra  gli  'additamenti  elementari'  questo  che  segue:  'L'anomalia,  o  l'eccezione, 
'  son  fantasmi  del  raziocinio  ;  e  veramente  si  riducono  a  problemi  storici ,  che  la 
'  scienza  odierna  vien  rapidamente  risolvendo,  per  poi  affrontare  nuove  serie  di  più 
'ardui  problemi,  che  scaturiscono  dalle  sue  resoluzioni  stesse'.'' 

Passando  al  'principio'  dell'  analogia,  einispecie  a  quell'attività  continua  delle 
spinte  analogiche,  la  qual  si  descrive  col  dire,  che  ogni  alterazione  fonetica  possa 
promuovere  delle  livellazioni,  a  restauro  di  quella  simmetria  che  appunto  da  essa 


'  llnKulm'sZeitsclir.,  XVI330-253.| 

'  Questo  dico,  senza  dimenticare  Biìugmìns,  Morp.  unt.  I  i  sg.  n.,  né  altri   esempi  olle  parrebbero  meglio 
calzare;  di  che  ritocco  altrove  con  minore  angustia. 

°  LIl  Politecnico ,  ma,vzo  1867,  =  fSt.  crii.,  II,  10;  Ardi,  rjlottol.,  I  (sett.  1S72),  p.  Liir.l 


—  440  — 

alterazione  andava  turbata,  io  di  certo  non  nego  l' utilità  delle  dissertazioni  larghe 
e  limjjide  (come  quelle  del  Paul)  intorno  a  siifatte  cose,  sebbene  talvolta  mi  prodii- 
cano  l'effetto  di  una  'elementarità'  desolante,  e  molto  meno  ancora  penso  a  negare 
gli  avanzamenti,  sempre  più  rapidi,  che  anche  per  questa  maniera  di  osservazioni 
si  conseguono;  ma  non  so  mai  trattenere  la  maraviglia,  quando  ne  leggo  come  di 
un  rinnovamento  del  sapere,  o  per  la  ragione  teorica  o  per  il  modo  e  anche  la  mi- 
sura delle  dimostrazioni.  Nella  nostra  'scuola'  si  dice,  per  esempio,  'ab  immemora- 
bili', e  sempre  con  intenzione  sistematica:  chiedete,  anziché  cliedéte  come  la  norma 
vorrebbe,  è  tirato  sullo  stampo  di  chiede  chiedere  (quserere)  ecc.;  vi  si  ha  perciò  una 
livellazione,  in  quanto  la  metamorfosi,  che  è  normale  della  vocal  latina  a  formola 
tonica,  passa  fuor  della  norma,  o  'anorganicamente'  come  nella  nostra  modestia  pur 
diciamo,  anche  a  formola  atoua;  ed  è  dunque  il  caso  di  un'  alterazione  fonetica, 
analogicamente  propagata.  Similmente  per  le  consonanti,  dov'  è  facile  esempio 
un  dialettale  cresso  cresco,  tirato  sopra  eressi  eresse,  crescis  -it  [v.  Kuhn's  Zeitschr., 
XVI,  con  che  si  risale  al  1867,  e  cfr.  Arch.  glott.  VII  419].  E  ugualmente  ripetiamo, 
da  gran  numero  d'  anni  :  1'  a  latino,  fuor  di  posizione,  s'è  fatto  e  nel  francese,  ma  ie  se 
gli  precedevano  e  ecc.;  onde  nell'  antico  francese  i  due  tipi  d'infinito  di  prima  coniuga- 
zione: frotiver  chevauchier;  ma  il  secondo  tipo  scompare  nella  fase  moderna  del  fran- 
cese (laddove  aU'  incontro  le  antitesi  di  questa  specie  si  acuiscono  viepiù  e  si  per- 
petuano nel  francoprovenzale;  v.  Arch.  gì.  HI);  ed  è  livellazione,  in  quanto  le  forme, 
che  organicamente  portavano  un'  alterazion  particolare  della  vocal  latina,  si  riducono 
al  tipo  delle  forme  prevalenti  che  non  la  pativano  ;  onde  siamo  alla  serie  che  s' inti- 
tola dell' alterazione  fonetica,  analogicamente  soppressa.  Ma  veramente  ab- 
biamo sempre  fatto  anche  di  più,  insistendo  pur  sulla  serie,  dove  la  livellazione  si 
ottiene  per  via  dell'alterazione  fonetica,  analogicamente  suscitata  o  di- 
sciplinata. Nei  nostri  esco  esci  uscite  ecc.  (exire),  vediamo  dall' un  canto  [cfr.  Arch. 
gì. ,  IH  447]  la  serie  organica  '^eso  esi  ese  che  si  livella  o  meglio  si  disliveUa  sul  tipo 
frequente  cresco  cresi  crese,  finisco  finisi,  ecc.;  e  dall'altro  una  singolare  alterazione, 
proveniente  da  contaminazione  lessicale  {escita  ecc.,  che  si  fanno  uscita  ecc.,  per  via 
di  uscio),  subordinarsi  all'elemento  incolume,  secondo  l' analogia  dell' e  che  s'alterna 
coir/i/,  ecc.  (esce  uscite,  di  contro  a  siede  sedete,  odo  udite,  ecc.).  L'avvicendamento  or- 
ganico di  0  e  ie  (=?«e),  che  era  nel  soprasUvano  ziep  zops  zoppo,  e  tanti  altri,  finirà 
per  apprendersi  anorganicamente  al  riflesso  di  ctecus:  éieg  coc-s.  E  sarebbe  facile, 
come  ognuno  può  sapere,  una  continuazione  infinita,  con  ogni  maniera  di  ulteriori 
distinzioni.  Le  quali  cose  tutte,  abbiamo  sempre  atteso  a  discernere  e  illustrare, 
senz'  alcun  preconcetto,  che  ci  facesse  piuttosto  propendere  aH"analogia'  o  piuttosto 
rifuggù-ne,  e  anche  senza  mai  dirla  1'  'ultimum  refugium',  come  pur  la  nuova  'scuola' 
consentirebbe  di  chiamarla  (dichiarazione  che  io  per  vero  non  m' impegnerei  di  ben 
combinare  con  tutto  il  resto  delle  affermazioni  della. 'scuola'. stessa),  e  sempre  tro- 
vando che  il  'principio'  ora  fosse  attivo  in  proporzioni  largliissime',  ora  in  propor- 
zioni più  0  meno  modeste,  secondo  le  diverse  condizioni  di  cui  più  in  là  mi  accade 


Qui  mi  iiormettorci  ricoi-diulo  ijucl  che  si  diceva  uell'Arch.  gì.,  VII  595, 


—  Ul  - 

ritoccarle.  La  diversità  raeramente  cronologica  della  fase  glottica  che  si  esplora,  non 
ci  ha  mai  di  certo  trattenuto  dal  riconoscere  alcun  effetto  di  esso  principio.  Così 
dadi'  Accentuationssìjsteni  del  Bopp  impoi,  tutti  hanno  ammesso,  cred'  io,  che  i  lat.  Is 
Itis  rappresentino  una  'livellazione',  e  ne  sieno  più  'organici'  i  gr.  st;  its,  o  i  sscr. 
disi  ithd.  E  nessuno  ha  mai  posto  in  dubbio  che  il  lat.  junctus  sia  tirato  sopra  jungo 
e  men  genuino  del  gr.  Cs'Jxto;  e  in  ispecie  del  sscr.  juktds.  Se  il  sscr.  offre  mugdhd  e 
mudhd  per  muh-i^ta,  non  sarò  io  di  certo  quello  che  contraddirà  a  chi  affermi  dover 
essere  'storica'  una  delle  sue  forme  e  'analogica'  1'  altra  ;  e  se  non  sono  pronto  a  ac- 
cettare dichiarazioni  'analogistiche' di)?irti(//i«  p.  e.  (non  maiVta)  rimpetto  a  ìn{h^=*mizh 
[cfr.  Lez. ,  189] ,  ciò  dipende  da  legittime  incertezze  circa  le  prime  ragioni  delle  serie 
gutturali  e  non  dal  solo  fatto  che  il  problema  si  riproduca  pur  nello  zendo,  o,  in 
altri  termini,  che  il  lavoro  analogico  si  dovrebbe  così  rijjortare  a  iin'  età  più  antica 
che  non  sia  la  vita  individua  della  favella  indiana.  L'  attività  analogica  non  e'  è 
punto  ripugnato  di  supporla  vivissima  anche  in  età  bene  anteriori  a  quella  che  si 
direbbe  l' indo-iranica,  quando  p.  e.  si  poneva  che  il  movimento  discendentale  e 
l'ascendentale  producessero  'gamme'  di  vocali  tra  di  loro  coincidenti,  sin  dal  pe- 
riodo unitario  ;  di  che  pure  mi  accade  rinnovarle  più  in  là  qualche  cenno  in  questa 
medesima  lettera.  Se  Vau  di  drduati  (dravati)  si  compendia,  come  io  sempre  ho  cre- 
duto, neir  «  di  drutd,  e  all'incontro  V  au  di  dugas  proviene,  come  pure  sempre  ho 
credixto,  da  ?:,  gli  è  come  se  una  serie  romanologica,  rappresentata  da  diuls  audis, 
udir  audire  [cfr.  Arch.  glott.  I  40],  avesse,  per  la  sua  particolare  insistenza  nel 
discorso,  un'energia  sufficiente  a  promuovere  il  tipo  ascendentale  urdr  orare, 
^duras  oras. 

Anche  abbiamo  badato,  senza  mai  penfcircene,  a  quella  ragione  di  analogia  o  di 
congruenza  che  è  la  isometrica  (isobarica);  stimando,  p.  e.,  che  il  -xa  di  perfetto 
greco  o  il  -pa  di  causativo  sanscrito,  i  quali  esponenti  in  sé  non  portano  alcuna  si- 
gnificazione 0  perfettiva  o  causale,  ma  s'alternavan  primamente,  con  suffissi  mera- 
mente vocali,  nella  costituzione  di  temi  verbali  equivalenti,  poi  invalessero  come 
'formatori'  presso  le  'radici'  in  vocale  o  solo  in  -à,  a  rendere  p.  e.  come  'di  simil 
peso'  tra  loro  Tédvrjxs  e  aéarj;:;  tétt,/.;,  o  ddpaja  ebaudhaja'.  E  tutto  si  migliorerà  e  si 
rivaglierà;  né  per  certo  a  noi  repugna,  a  cagion  d'esempio,  quella  correlazione  tra 
il  detrimento  fonetico  e  la  propagazione  analogica,  per  cui  un  sXuaa  perda  prima 
il  a  intervocalico  e  poi  lo  riacquisti  per  virtù  di  l'3='.4a  ecc.,  sebbene  qualche  riserva 
pur  ci  resti,  e  senza  poi  dire,  che  l' affermazione  dell' f^v  'isterico'  allato  all'  '^aav  'ana- 
logico', va  ormai  tra  le  'cose  antiche'.  Ma  se  per  quanto  concerne  la  novità  dei  prin- 
cipj  e  del  metodo,  siamo  in  realtà  alle  condizioni  che  qui  si  sono  brevemente  addi- 
tate, giova  sùbito  ripetere  che  .  qualche  differenza  si  determina  per  ciò,  che  i 
'vecchi'  non  sanno  seguire  i  'giovani'  in  qualche  esagerazione  dei  principj  comuni.  E 
anche  per  questa  parte  è  facile,  se  non  erro,  costruire  qualche  esempio,  che  qui  parli 
con  molto  chiara  brevità.  L'esponente  di  superlativo,  che  è  -istd  in  figura  indoeu- 


'  IMem.  d.  Ist.  Ì0)!i6.,  6 luglio  1865,  §  15. J 


—  U2  — 

ropea,  e  -iita  iu  figura  iiidoii'anica,  si  fa  -istha  in  figura  indiana,  soffrendo  cioè  altre 
due  alterazioni  :  l' esplosiva  dentale  clie  si  riduca  a  linguale  e  s' iuaspiri.  Suppo- 
niamo (l'ipotesi  qui  non  si  discute,  ne  importa  che  si  discuta,  trattandosi  di  una 
considerazione  meramente  speculativa),  supponiamo  che  questa,  o  per  motivo  etno- 
logico 0  per  un  altro  motivo  qualunque,  sia  la  regolare  alterazione  indiana  di  un 
-{sta  indoiranico;  e  vma  conseguenza  ne  sarebbe,  secondo  la  nuova  'scuola',  che  il 
participio  perf.  pass,  del  verbo  die  (sscr.  dista),  la  cui  figura  indoiranica  è  dista, 
deve  primamente  essere  stato  distha  nell'India,  e  poi  aver  perduto  l'aspirazione, 
cioè  essersi  in  qualche  maniera  restaurato,  per  la  virtù  analogica  dei  tipi  drstd 
naUd,  uktd  ecc.,  non  ostante  dagdhd  ecc.  E  sarebbe  pressappoco  quanto  dire,  che 
il  lat.  anfractus,  e  anche  in-fero,  hanno  prima  dovuto  essere  (secondo  la  regola  che 
è  rappresentata  da  ambo  ecc.):  ambractiis  imbevo  ecc.,  e  poi  restaurarsi,  per  virtù 
degli  isolati  o  altrimenti  composti:  frangere  fero  ecc.  Orbene,  noi  confessiamo  di 
non  saper  credere  questo;  e  di  credere  all'incontro,  che  l'evidenza  etimologica, 
sia  d'ordine  lessicale  o  sia  d'  ordine  grammaticale,  "possa,  in  determinati  confini, 
avere  un  effetto  istintivo  di  preservazione  'antimetamorfotica'  (scusi  la  brutta 
parola,  e  consideri  il  secondo  capoverso  della  'Lettera  al  Caix'). 

Cosi  è  finito  l'esordio,  a  cui  d'improvviso  mi  induceva  la  bella  scrittura  del 
Brugmann;  ma,  sen^a  dire  della  sproporzione,  che  nel  mio  caso  ci  sarebbe  tra  l'esor- 
dio e  la  predica,  si  tratta  di  un  esordio,  che  rende  più  che  mai  superfluo  tutto  quanto 
gli  succede.  Senonchè,  la  colpa  non  è  mia;  ed  ecco  dunque  il  resto. 

1.  Il  nostro  discorso  partiva  primamente  dalla  Introduzione  alle  Mdìjjliologische 
untersìichungen  e  dall'  effetto  che  in  ispecie  i  romanologi  ne  avevano  dovuto  risentire. 
Dicevamo ,  che  di  leggieri  s' intendeva  come  taluni  ti'a  i  continuatori  o  anche  sem- 
plici discepoli  del  Diaz  fieramente  s' indignassero  e  per  la  romorosa  promulgazione 
delle  presunte  novità  e  per  gì'  inconcepibili  indugi  a  sanar  con  molto  larghi  penti- 
menti una  temerità  così  singolare'.  Capitolo  per  capitolo,  in  ogni  loro  insegnamento, 
avevano  essi  badato  sempre  alla  distinzione  più  rigorosa  tra  forme  'istoriche'  e  for- 
me 'analogiche',  tra  quelle  cioè  che  altro  non  sieno  se  non  la  continuazione  fonetica 
di  forme  latine,  e  quelle,  che  in  varia  età  e  per  varie  spinte,  il  neolatino  consegua  in 
quanto  egli  riplasmi  la  materia  antica.  E  non  ci  fermavamo  a  raccogliere  esempj, 
perchè  la  intiera  disciplina  era  un'esemplificazione  continua;  ma  solo  ricordavamo, 
per  discendere  alla  modestia  dei  proprj  lavori,  qualche  esercitazione  generale,  come 
è  quella  sui  riducimenti  della  flessione  del  nome  [Arch.  gì.,  II]. 

Che  dir  poi  del  sentimento  che  tra  i  romanisti  doveva  produrre  ogni  '  quousque 
tandem'  in  ordine  alla  tenacità  delle  norme  fonetiche?  La  dimostrazione  di  questa 
tenacità  è  stata  sempre  uno  dei  loro  assunti  più  fermi  e  sicuri;  ognuno  di  loro, 
come  ha  contribuito  alla  costruzione  di  nuove  categorie  fonologiche,  o  non  percepite 
o  appena  percepite  dal  Diez,  cosi  ha  contribuito  a  ridurre  grandemente  tutto  quanto 


'  rCfr.  ora  Bruomann,  o.  c-,  35  n.] 


—  443  — 

neir  opei-a  del  Maestro  veniva  a  dare  uu'  apparenza  di  mera  volubilità  ai  '  continua- 
tori' fonetici  ;  locchè  naturalmente  non  vuol  dire  che  per  essi  non  rimangano ,  pur 
dopo  eliminati  i  varj  intrecci  e  incrociamenti,  d'ordine  variamente  istorico  o  ormai 
penetrati  in  varia  misura  dalla  indagine  ragionatrice,  ancora  di  quelle  oscillazioni 
problematiche  affatto,  che  a  cagion  d'esempio  si  rappresentano  per  gT  it.  (jnhhia  rn-l- 
dare  (venez.  ecc.  col  e-  :  cheha  criar)  allato  a  casa  e  crudo  (onde  in  parte  slam  ricon- 
dotti a  problemi  latini  comò  gloria  allato  a  dm  o  graciUs  allato  a  cracentes').  Ogni 
spoglio  fonetico  fa  vedere,  da  più  decennj,  al  romanista,  qual  sia  il  riflesso  nor- 
male, cioè  popolare,  di  una  data  base  in  una  data  favella;  ed  è  superflua  da  nn  pezzo 
l'avvertenza,  che  tutti  gii  esemplari  divergenti  formino  un  mucchio  di  roba  per  di- 
vei'se  maniere  confluita  o  intrusa,  o  in  diversi  gradi  problematica  [Arch.  gì.,  I,  lui]. 
Un  esempio  opportuno  a  illustrai-e  le  cose  che  testé  si  avvertivano,  potrà  parer 
quello  di  h-  spagn.  =/-  lat.  (Iiierro  ferro,  liorca  forca;  ecc.),  anche  perchè  insieme  ci 
riporti  a  considerazioni  d'ordine  etnologico  e  a  quella  presunta  innovazione  che  sta- 
rebbe nell' andar  di  là  dalla  ragion  della  'lettera'  e  riconoscer  nude  e  vere  le  ragioni 
del  'suono'.  Il  Diez  notava,  con  felicità  geniale,  come  il  fenomeno  paresse  collegarsi 
con  la  particolare  avversione  che  nel  basco  ricorre  contro  il  suono  /;  e  eh'  egli  fosse 
comune  al  guascone,  attiguo  questo  pare  al  basco,  nell'altro  versante;  onde  si  di- 
rebbe che  il  motivo  ne  vada  cercato  in  una  '  influenza  che  spiri  dai  Pirenei'.  Il  Mae- 
stro (Maestro  vero)  non  rinunziava  a  questa  dichiarazione  'autottonica',  perchè  nel- 
l'ordine letterario  apparisse  tarda  e  graduale,  e  non  mai  consumata  per  tutta  la 
serie,  codesta  alterazione  spagnuola;  anzi  non  ci  rinunziava  per  nessun  argomento 
che  le  paresse  sfavorevole;  ma  ne  attenuava  l' effetto ,  col  soggiungere,  che  anche  nel 
rumeno,  specie  nel  meridionale,  questa  alterazione  invalesse  (Jieru  ferro  ;  ecc.)  ;  e  che 
pur  sul  terreno  paleoitalico/  e  h  si  toccassero  : /«è«  liaha;  ecc.  Né  mai  più,  che  io 
sappia,  s'è  considerata  con  giusta  attenzione  questa  concordanza  guasco-ispana  '".  Ora, 


'  Per  quanto  ò  aU' incontro  di  vigiliti  allato  a  vicesimus  ecc.,  vegga,  se  Le  piace:  Ardi.  gì..  IX  105  n.  E  im- 
plicitamente ho  già  cosi  dichiarato,  che  mi  ijajan  dichiarazioni  illusorie  quelle  che  fanno  p.  e.  dipendere  il  g  di 
gloria  daUa  nasale  dell'accusativo  proclitico,  ondo  il  prisco  latino  avrebbe  detto  tovà  clonzìà ,  ma  tocàli-glonzìiim 
(Thueseyses,  Kuhn's  Zeitschr.  XXVI  314). 

-  Anche  in  questa  'Lettera'  vengo  io  cosi  ad  esprimere  più  d'una  volt.a  la  mia  maraviglia  per  la  scarsa  impor- 
tanza che  ancora  sia  riconosciuta  .ai  motivi  etnologici  nelle  alterazioni  del  linguaggio.  Ma  devo  confessare  insieme, 
che  una  maraviglia  più  ancora  singolare  ha  recentemente  in  me  suscitato  una  lezione  curiosa,  che  mi  son  visto 
dare  sul  Jaliresbericht  fdr  classische  alterthumswissenscliaft  (xu  voi.  ?) ,  a  proposito  della  '  Lettera  glottologica  '  del  ISSI. 
L'articolino  è  anonimo,  o  almeno  appare  anonimo  nel  quadrettino  di  carta  stampata  che  io  ho  ricevuto;  e  non  ho 
io  mai  veduto  il  volume  nel  quale  si  dev'  esser  pubblicato.  La  importanza  di  quell'  'Annuario'  mi  fa  però  presumere 
che  il  critico  sia  un  uomo  valoroso;  e  poiché  (sia  ciò  detto  senza  irreverenza  danno  che  devo  ai  libri  tedeschi  e  alla 
critica  tedesca  presso  che  tutto  quel  poco  che  egli  sa  ed  è)  poiché  il  cenno  del  JahresbericM  mi  sembra  caratterizzare 
le  odierne  condizioni  di  una  certa  parte  della  critica  in  Germania,  io  mi  permetterò  di  qui  parlarne.  Non  è  dunque 
avverso  il  nostro  critico  al  principio  di  cui  ora  discorriamo  ;  tuttavolta,  tocca  egli  a  labbra  aitiate  del  sagginolo 
dì  questo  povero  cisalpino  ;  e  poi  gl'insegna  come  davvero  si  pratichi  l'arte,  dicendo  ciò  che  segue  :  'Asc.  wniidert 
'  sieh  in  dieser  Abhandlung  einm.al,  warum  lateinisches  ij  im  ItaUenischen  bald  durch  palatales  gg ,  bald  durch  zz 
'  wiedergegeben  wird;  mezzo  geht  eben  nicht  auf  mef?i«s,  sondern  &^xf  metiiis  zuinick,  wie  die  Italiener  nach  dem 
'Cedex  Cavensis  im  achten  Jahrhundert  sprachen;  so  erklart  sich  auch  das  von  Diez  angefiihrte  meda.  Der  deut- 
'sche  Einflnss  ist  dabei  iTnverkennbar.'  Orbene,  quanto  alla  parte  teorica  si  risponde,  che  la  presunzione  di  un'in- 
fluenza tedesca  sul  linguaggio  italiano ,  della  specie  che  sarebbe  il  ridurvi  in  voci  popolari  un  elemento  sonoro 


—  444  - 

la  verità  è  poi  resultata,  che  il  fenomeno  rumeno,  o  propriamente  macedovalaco,  di 
/in  /(,  né  sia  sporadico,  né  stia  in  alcuna  particolare  attenenza  col  guasco-ispano , 
ma  entri  all'incontro  in  quell'amplissima  serie  di  riduzioni,  cui  spetterebbero  lo  s 
genov.  o  napolit.  da,  fj  (=fl),  e  in  ispecie  il  calabr.  hj=fj  [St.  crit.,  I  32;  II  184  u.]. 
poicliè  d' altro  veramente  non  si  tratti  nel  macedovalaco  se  non  che  solo  di  hi  da  fi, 
come  un  altro  vero  Maestro  ha  molto  perspicuamente  mostrato'.  Non  regge  al  con- 
fronto neanche  il  singolo  esempio  francese  e  ladino:  hors,  or,  poiché  questo  sia  un 
caso  di  fonopatema  sintattico,  o  in  altri  termini  di  /  primamente  mediano  (de-foris), 
e  perciò  da  confrontarsi,  per  la  natura  sua,  col  soprasilv.  vari  (da-vart)  parte,  e  si- 
mili (cfr.  Arch.  VII  517,  s.  biar),  e  per  la  particolare  sua  passione  con  Etienne  Ste- 
fano, vaiteli,  biórc,  fri.  beórce,  bi-furc-,  Arch.  I  62  517;  onde  a  schietta  formola 
iniziale  é/ incolume  in  four-voyer  ecc.  I  contatti  paleoitalici  tra /e  h  vanno  finalmente 
suddistinti  in  due  categorie  diverse,  secondo  che  l'uno  o  l'altro  sia  il  continuator 
più  genuino  del  suono  etimologico  [v.  St.  crit.,  II  171  sgg.],  e  non  istanno  di  certo, 
come  già  il  Maestro  sentiva,  in  più  diretta  relazione  col  fenomeno  guasco-ispano  di 
quello  che  non  vi  stia  l'arm,  h-=  osset. /-  =  pers.  p-  (lihìg  ^  fonz  =  'pang ,  cinque;  ecc.). 
Per  tal  modo,  nella  tela  storica  della  parola  romana  in  Europa,  riesce  nitidamente 
'autottonica'  questa  metallage  guasco-ispana  del/-  di  fa  ec.  in  /(-;  e  non  isbaglierà 
chi  la  reputi  già  ben  consumata  quando  ancora  gli  scribi  latineggianti  stentavano  a 
sancirla  nelle  carte  loro  ;  né  si  troverà  chi  le  voglia  negare  il  carattere  di  intrinseca 
normalità  per  tutte  le  voci  di  schietto  linguaggio  popolare.  Se  ne  ottiene  un  caso 
congenere  a  quello  dell'  il  dei  parlari  galloitalici  di  contro  allo  schietto  u  deUe  basi 
romane  {ti  lungo  latino  ed  u  del  dittongo  uo  =  ò  lat.),  per  la  qual  corrispondenza  non 
è  mai  stata  imaginata,  ned  è  imaginabile,  alcuna  eccezione.  E  una  corrispondenza, 
che  va  senza  alcuna  interruzione  (poiché  i  legittimi  succedanei  non  la  interrompono) 
dal  Mincio  all'Atlantico;  e  poiché  le  contrade,  comprese  in  questa  zona  neolatina 
dell'  «,  son  romanizzate  alla  piena  luce  della  storia  e  nessuno  perciò  oserebbe  av^-en- 
turare  l' ipotesi  che  la  propagazione  del  fenomeno  s' abbia  a  ripetere  o  da  migrazione 
di  popoli  o  da  cause  di  civiltà  e  di  cultura,  ne  viene,  che  la  corografia  del  fenomeno, 
estraneo  al  resto  della  romanità,  basti, pur  da  sola  a  persuaderne  il  motivo  etnolo- 
gico '  ;  ed  è  del  resto  una  persuasione .  che  va  da  un  pezzo ,  con  l' ajuto  di  domened- 


latino  ad  elemento  sordo,  parrà  al  dotto  autore  quella  incredibile  bizzarria  obe  dee  parere  a  me,  tosto  eh'  egli  ab- 
bia quarant'anni  di  studj  intorno  alla  parola  romana.  Quanto  poi  al  singolo  esempio,  mezzo  ha  lo  zz  sonoro  (ié) 
e  non  sordo.  È  viedso,  se  così  al  critico  va  meglio,  e  non  7netso. 

'  MiKLOsicii,  Miimunische  untersuclmnr/en  {voi.  XSXII  delle  Mem.  dell' Academia  viennese),  1-2,  pp.  6,  88. 

■  Il  Paris,  in  un  suo  benevolo  e  beli'  articolo  sulla  'Lett.  glottol.'  del  1881  (Romania,  XI  130  sgg,),  mi  faceva 
due  obiezioni  circa  1'  U  (la  cui  'oelticità'  già  del  resto  aveva  avuto  in  lui  stesso  un  molto  strenuo  propugnatore; 
ib.,  IV  130).  Una  concerne  l'estensione  corografica  dell'K  =  u,  poiché  io  non  riuscissi  a  mostrarlo  nella  regione 
meridionale  e  occidentale  del  dominio  tedesco.  L'  obiezione  era  ragionevole,  come  non  poteva  non  essere  venendo 
da  quel  critico,  ma  pur  non  colpiva  nel  vero.  Jju^=ii  ò  appunto  anche  in  quella  regione;  e  io  non  ne  toccavo, 
perchè  già  si  vede  dallo  Stalder,  senza  dir  delle  comunicazioni  tra  i  pochi  'adepti'  (quello  del  Kigra  in  ispecie), 
alle  quali  or  si  aggiunge  la  voce  dello  Scuuciiabdt,  nell'acuta©  robusta  sua  scrittura:  Slm^o-deutsclics  nìtd  SJavo- 
italieniechM ,  p.  126.  L'altra  osservazione  del  Paris  verteva  intorno  alla  mia  presunzione  che  sul  territorio  gallo- 
romano si  facesse  e  dovesse  farsi  ugualmente  a  cosi  V  V  di  duro,  come  Vn  dell' vo  da  o  latino.  L' «  galloromano, 
dice  il  Paris,  non  s'ha   che   di  contro  all' «  latino.   Wa  io  lo  prego  di  considerare,  elio  il  neolatino  non  conti- 


—  445  — 

<Uo,  comuuicaudosi  cou  sufficiente  rapidità,  anclie  tra  i  dottori  dalle  labbra  affilate. 
Il  fatto  che  l' il  ricorra  anche  altrove  e  altrimenti  nell'  universo  del  linguaggio ,  e 
cosìp.  e.  tra  i  Tedeschi  come  'umlaut'  dell'  u  (A—i)  o  tra  i  Turchi,  non  infirma  il  va- 
lore di  codesta  percezione  etnofonica,  più  di  quello  che  l'aversi  h-  arm.  =/-  osseto 
non  infirmi  la  percezione  che  si  attiene  al  h-  guasco-ispano  =  p;  come  del  pari,  per 
passare  ad  altra  e  pur  congenere  categoria  di  fenomeni,  il  fatto,  che  il  danese  o 
l' arameo  mostrin  variamente  la  posposizione  dell'  articolo ,  non  infirma  l' importanza 
etnosintattica  dell'articolo  che  in  continuità  corografica  è  posposto  e  nell'albanese  e 
nel  rumeno  e  nel  bulgaro.  Ma  ritornando  alla  fonetica  e  restando  al  rumeno,  nessun 
romanista  di  certo  ha  mai  pensato  che  1'  e  rum.,  per  a  lat.  fuor  d'acc,  non  rappre- 
sentasse una  regola  costante  ;  e  l' uomo  che  più  d'  ogni  altro  qui  ha  diritto  di  par- 
lare, ne  dava  una  dichiarazione  etnologica  '.  Nessuno  ugualmente  ha  mai  creduto 
che  non  fosse  costante  la  norma  per  cui  ai  lat.  ct  cs  il  rumeno  risponde  per  pi  ps  ; 
e  tutti,  io  credo,  hanno  sempre  ritenuto  e  ritengono  che  questi  riflessi  rumeni  si  ab- 
biano a  dichiarare  dal  mancar  che  facessero  nell'idioma  aborigeno  i  nessi  ct  cs,  o  in 
altri  termini  da  una  predisposizione  orale  che  portasse  l"Illirio'  a  pf  ps  come  alla 
imitazione  per  lui  meno  cattiva  o  men  difficile  dei  lat.  ct  e  cs.  Il  primo  nucleo  dei 
romanizzati  stabiliva  laggiù  questa  riduzione,  e  natiiralmente  v'  aderivano  man  mano 
tutti  coloro  nei  quali  il  medesimo  substrato  aborigeno  era  sforzato  dal  latino  '.  Anche 
di  certi  motivi,  che  insieme  spettano  alla  fonologia  generale  e  all'etnidiofonia,  il 
romanista  dovea  naturalmente  riconoscere  l'attività  assolutamente  continua  e  nor- 
male. Così  è,  p.  e.,  di  quei  frangimenti  della  vocal  tonica  per  effetto  di  determinate 
finali,  effetto  che  investe  duramente  nel  rumeno  1'  antica  dittongazione  dell' e,  e  sof- 
foca quella  dell' o. 

Allato  ai  movimenti  fonetici,  che  vanno  per  estesi  territori  e  troviamo  o  di- 
ciamo di  motivazione  etnologica,  come  è  p.  e.  quello  dell' «  da  u,  tutti  sempre  ne 
hanno'  riconoscitito  di  quelli ,  ristretti  a  scarso  territorio  e  ugualmente  affatto  nor- 
mali, che  andassero  piuttosto  ripetuti  da  molto  modeste  e  non  molto  antiche  ragio- 
ni, o  anzi  da  ragioni  individuali  e  recenti;  e  s' è  anzi  sempre  riconosciuto,  che  la 
differenza  tra  la  serie  di  movimenti ,  intorno  a  cui  prima  s'  aggii-ava  il  nostro  di- 


nuando  le  vocali  romane  secondo  ragion  di  quantità,  ma  secondo  ragion  di  qualità,  V  a  galloromano  è  cosi 
legìttimo  parallelo  dell' a  it.  di  duro,  come  dell' «it.  di  nuovo;  coi  quali  due  esempj  si  rappresentano  i  soli  due 
'motivi'  di  schietto  e  limpido  u  ohe  il  Romano  offriva  alla  ripercussione  del  Gallo,  n  Paris  soggiunge,  nello 
stesso  articolo,  una  correzione  d'ordine  'etn-etìco';  e  io  la  accetto,  e  ne  lo  ringrazio.  Ma  poiché  sono  a  discor- 
rere con  questo  valentuomo,  e  in  questa  'Lettera'  accade  più  volte  di  accennare  alla  distinzione  tra  quello  che 
è  del  linguaggio  reale  e  quello  che  nella  scrittura  se  ne  vede,  mi  sia  lecito  ancora  annotare,  in  relaziono  a 
quanto  è  affermato  da  lui  in  nota  a  p.  485  del  IX  voi.  della  Jiomania,  che  io  sarei  curioso  di  sapere  come  egli 
si  dichiari  quelle  forme  che  guizzano  per  tutto  il  territorio  di  Francia ,  e  si  compendiano ,  quasi  per  anelli  estremi 
della  serie,  tra  i  nll.  di  Provenza:  Claira,  Claìrac  (allato  a  Clarac)  e  il  dimin.  frc.  clairon  chiarino,  clarinetto, 
cfr.  ingl.  Clarion.  —  Finalmente,  senza  più  alludere  all'illustre  romanologo  francese,  vorrei  qiii  notato,  come  tra 
le  più  antiche  prove  ohe  della  pronuncia  i'  u:=u  si  possan  chiedere,  andrà  il  tipo  mesurier,  in  cui  si  propag- 
gina un  i  come  nel  tipo  tirìer. 

'  MiKLosicH,  Die  slaviscJten  elemcnte  im  ruintiniscUen  (1861),  p.  7;   cfr.  Beifrafie  sur  lantl,  dcv  rum.  àial..  Vo- 
ltai. ,  I,  introduz. 

-  Cfr.  MiKLosicn,  Beitr.  s.  lauti,  d.  rum.  clial,  Cons. ,  II,  K,  vi. 


—  446  — 

scorso ,  e  l' altra  cui  ora  alludiamo ,  si  possa  anclie  risolvere  in  una  mera  differenza 
neir  ordine  del  tempo.  Sia  lecito  chiarire  con  un  esempio  questa  doppia  affermazio- 
ne. Per  entro  al  gran  tessuto  dei  parlari  galloromaui,  dove  occorrono  1' «  ecc.,  cioè 
in  una  data  listarella  di  quella  sezione  del  tessuto  che  addomandiamo  la  'franco- 
provenzale",  invale  un  fenomeno  abbastanza  curioso,  che  a  prima  vista  può  esser 
creduto  di  mera  epitesi  di  k  (kj)  dopo  vocal  tonica  palatina  o  labiale,  ma  che  in  fondo 
è  cosa  diversa;  di  che  in  questo  luogo  punto  non  e'  importa.  La  listarella,  che  sta  come 
a  cavalcioni  delle  Alpi,  si  stende,  al  versante  settentrionale,  per  la  Val  d' Anniviers 
e  la  Val  d'Hérens:  e  nell'altro  versante,  in  giusta  prosecuzione  longitudinale,  per 
lina  breve  orlatura  della  Valle  d'x4.osta.  Appunto  da  questa  valle,  cioè  da  Fenis,  ho 
raccolto  io  stesso  gli  esemplari  che  ora  Le  adduco:  ze  put'k  io  posso,  ze  uikj  io  yo- 
gìio,  pikj  piede;  lin'tlk  lenzuolo,  feihuk  fagiuolo ;  j w/c  uovo;  nuk  nuovo  {V  abììk  nuk); 
crìikj  crudo,  vemìuk  venduto  '.  Qualche  affinità,  come  domestica,  esisterà  sicuramente 
tra  questi  'Alpigiani  dell' -e/c  -ik  ->ik\  che  scopriamo  quasi  attigui  di  qua  e  di  là  dal 
Silvio;  e  la  singolarità,  come  domestica,  della  loro  pronuncia,  andrà  perduta,  tosto 
o  tardi,  sotto  1'  onda  delle  civiltà  divei'se  che  incalza  ai  due  versanti  la  favella  frau- 
coprovenzale.  Ma  imaginiamo ,  all'incontro,  questo  scarso  popoletto  'dell' -(Ve  e  del- 
l' -uk'  in  un'  Europa  molto  scarsamente  abitata;  imaginiamolo  dotato  di  così  robuste 
qualità,  da  renderlo  superiore,  quasi  per  natura,  ad  altri  popoletti  che  gli  sieno 
dattorno  a  maggiori  o  minori  distanze;  imaginiamo  che  egli  produca  taluno  di  que- 
gli uomini  che  a  buon  dritto  si  dicono  gì'  istitutori  delle  nazioni;  ed  esso  potreb- 
be, nel  corso  dei  secoli,  estendere  il  suo  dominio  sopra  larga  parte  del  continente  e 
col  dominio  la  favella.  Che  se,  dopo  un  altro  giro  di  secoli,  la  lingua  diversa  di  una 
diversa  civiltà  si  venisse  a  sovrajDporre  alla  lingua  ' dell' -/&  e  dell' -uk',  e  si  risen- 
tisse di  codesto  fenomeno  della  lingua  a  lei  soggiaciuta ,  ne  verrebbe  pur  senz'  altro, 
che  la  riazione  esercitata  dall' -//i-  e  dall' -?f/v  fosse  un'alterazione  di  'motivo  etno- 
logico'. 

Determinata  accuratamente  la  costituzione  istorica  delle  varietà  neolatine,  il 
romanista  s' era  dato  a  rintracciare  i  varj  modi  dei  loro  più  o  meno  larghi  incrocia- 
menti; e  riconosceva,  come  le  apparenti  incongruenze  fonetiche  o  i  mutamenti  che 
apparivano  fortuiti,  andassero  più  volte  sicuramente  ripetuti  da  quest'  ordine  di 
cause.  Qualunque  poi  fosse  il  motivo  di  certe  decKnazioni  di   pronuncia,   come   è 


'  A  St.-Marcel  [cfr.  Arch.  gì. ,  III  68]  cosi  aU'  incontro  sonerebbero  le  voci  coi-rispondenti  che  mi  fn  dato 
raccogliere:  te  più,  ze  ui,  pi;  lenifd,  feizit;  ju.  S'aggiungono  gli  esempj  in  cui  il  -A"  di  Fenis  può  dai  profani 
scambiarsi  per  x\na  gutturale  antica:  iilc  (fera,  vieìje)  vecchio,  ée«t  ginocchio;  fri'ltj  freddo;  St.-Marcel:  viti,  viflje, 
zen  (St.-Remy:  ze6u).  Le  segno  ora  esempj  dell' altro  versante ,  prendendoli  dal  §11,  nuni.  21,  degli  'Schizzi  fran- 
co-provenzali', il  quale  non  è  mai  stato  tirato;  e  le  fonti  son  quelle  che  adducevo  nel  luogo  già  citato  in  quest'an- 
notazione, sotto  'Vallese'.  Evolóna:  avelc  aveck  avait  (cfr.  St.-Luo:  avéye),  deck  doit,  zevrek  (Vétrpz:  tzecrei) 
chevreau,  prek  pris,  pnhik  pays,  avouik  entendu  (-oui?),  déjobehék  désobéi,  venouk  venu ,  aperchouk  aperta; 
Saint-Luo:  chék  suia  (Evol.:  che;  Sambranch.:  saìs),  partik  parti,  oii'c  eut,  volouk  voulu,  ìouk  vu  ;  o  dal  libro 
del  Frobel:  trovereic  trouverez  188;  vtiic  veux  177  179,  zientic  gentil  177-8,  proc  assez  (prou;  cfr.  prati  countain, 
parab.  d' Evol.)  178,  wnMC  venu  ib.;  eoo.  A  formola  interna  avremmo  gricses  grises  Frob.  184,  vikoeinn  vivant,  pa- 
rab.  di  Saint-Lue.  Falsa  apparenza  di  antichità  in  dek  dìk  doigt,  moii  j'amik,  me  clij'amik ,  mes  amìs,  delle  para- 
bole. —  Rasentiamo  in  effetto  il  fenomeno  sottosilvano  e  altengadino,  che  si  rappresenta  per  fekl  *feil  filo,  Iwkf 
*bonv  bove;  Arch.  gì.  I  158  sgg. ,  224  sgg.;  di  ohe  Ella  vede  di  più,  se  Le  piace,  nel  citato  S. 


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p.  e.  quella  dello  spagnuolo  che  ridurrebbe,  se  stiamo  alle  apparenze,  in  tempi  non 
punto  antichi,  lo  s  e  lo  z  in  y^,  il  romanista  tentava  di  continuo  il  periodo  o  la  du- 
rata delle  oscillazioni.  Cosi  egli  notava,  che  anche  ogni  s  di  lingua  zingarica,  cioè 
di  una  lingua  importata  in  Ispagna  nel  XV  secolo  dell'  èra  volgare,  si  riduce  in  Ispa- 
gna,  tra  gli  Zingari  stessi,  in  /.  Or  come  si  spiegherà  questa  congruenza?  Non 
certo  da  una  ragione  climatica,  che  volesse  in  quella  contrada  la  riduzione  di  cui 
tocchiamo.  Ma  certamente  da  ciò,  che  nelle  voci  spagnuole,  dove  era  s  di  evoluzion 
latina,  come  in  ^^cA-e  (=  pesce),  oscillandosi  ancora  nel  XV  secolo  tra  s  e  •/,  anche 
lo  Zingaro,  assimilatosi  in  Ispagna,  molto  più  che  non  altrove,  alle  popolazioni  tra 
cui  era  venuto,  riuscisse  come  indentato  in  quel  movimento,  e  andasse  oscillando, 
p.  e.  nella  sua  voce  per  'anno',  tra  bers  e  her/,  e  finisse  per  restare  col  solo  bery 
{ber/ è),  come  lo  spagniiolo  è  iinito  per  rimanere,  a  cagion  d'esempio,  col  solo  ^^eyc. 
Questo  conguaglio  zingaro-ispano ,  se  da  vm  lato  può  servirci  a  mostrare  quando 
ancora  oscillasse,  e  non  di  certo  per  un  solo  momento,  la  pronunzia  che  poi  si  de- 
termina in  •/_  spagnuolo,  dall'  altro  ci  dà  tin'idea  di  quel  che  sia  la  condizione  di  iin 
linguaggio  mal  vivo ,  com'  era  appunto  quella  dell'  idioma  zingarico  sperdutosi  per 
le  terre  spagnuole.  E  per  la  ragion  dei  contrasti  ci  riporta  ai  conguagli  in  sé  ope- 
rati dagli  idiomi  ben  vivi;  i  quali  traducono ^  come  per  istinto,  secondo  le  proprie  ra- 
gioni fonetiche,  la  parola  che  ioi'O  provenga  da  idiomi  affini,  mantenendo  cosi 
1'  equidistanza  o  1'  antitesi  tra  parlare  e  parlare,  e  cosi  allargando,  quasi  per  via 
culturale,  l'attività  dell' etnidiofonia.  E  il  caso  di  éleze,  che  il  popolano  della  Ve- 
nezia dirà  per  èlice,  conguagliandolo  a  fórfeze  ])ev  fórjice  ecc. 

Sono  a  un  dipresso  così  accennate  le  condizioni,  in  cui  la  romanologia  si  veniva 
esercitando,  allorché  la  tuba  degli  'innovatori'  dava  primamente  il  suo  squillo 
eroico.  E  io  le  ho  accennate  alla  meglio  e  per  via  pratica,  incapace  come  io  sono  di 
quella  terribile  profondità  (Xó-p;  paO'ì)?  xal  à;ió%p-/j[j.vo;),  che  ci  saprebbe  mettere 
un  amico  transalpino  di  cui  vorrei  taciuto  il  nome,  per  non  parere  di  rendere  pan 
per  focaccia.  Ora,  è  egli  vero  o  no,  che  il  romanista  dovea  stentare  a  credere  ai 
proprj  occhi,  quando  leggeva  la  proclamazione  dei  'nuovi  principj",  o,  in  altri  ter- 
mini, quando  si  sentiva  predicare:  badate  al  suono  effettivo  e  non  alla  scrittiu-a;  ba- 
date all'  attività  analogica;  badate  alla  costanza  e  al  perchè  della  costanza  che  è  nei 
movimenti  fonetici  ?  Se  poi  il  romanista  aguzzava  1'  orecchio  per  sentir  quali  nuove 
applicazioni  venissero  facendo  i  banditori  dei  principj  che  per  lui  erano  vecchi, 
egli  sùbito  si  spauriva  per  la  curiosa  affermazione  che  il  rumeno  ciuci  (dove  il  se- 
condo e  ha  appunto  un  suo  particolare  'motivo  etnologico')  fosse  da  proclamare, 
per  virtù  de' nuovi  principj,  forma  più  genuina  che  non  l'italiano  cinqiie;  e  sùbito 
si  ribellava,  squadernando  le  sue  larghe  ragioni.  Alle  quali  non  fu  risposto. 

'2.  Potevano,  per  vero,  attentarsi  a  dire,  che  la  verità  s'era  manifestata,  più  o 
meno  largamente,  sul  campo  del  neolatino  o  dei  linguaggi  moderni  in  generale, 
ma  che  restava  di  snebbiare  gl'intelletti  circa  le  differenze  che  la  cecità  dei  'vecchi' 
presumeva  di  stabilire  tra  le  vicissitudini  delle  lingue  'moderne"  e  le  ragioni  orga- 


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niche  delle  'antiche',  differenze  clie  punto  non  sussistevano,  o  anzi,  se  mai,  or  si 
dovevano  stabilire  proprio  a  rovescio  di  prima.  Senoncliè,  ne  risulterebbe  intanto, 
che  non  si  trattava  di  'principj  nuovi',  ma  solo  di  una  più  larga  applicazione  di 
principj  riconosciuti  da  un  pezzo.  D'  altronde ,  i  romanologi ,  massime  in  Italia , 
potevano  o  dovevano  avere  insieme  esplorato,  pur  nelF  ordine  comparativo,  ben  più 
antiche  o  rimote  fasi  della  parola  ariana,  che  non  fosse  lo  stesso  latino.  Era  egli 
possibile,  che  stimassero  così  intrinsecamente  diversa  la  vita  della  parola  ariana 
secondo  la  diversa  ragione  del  tempo,  da  stimare  estranea  alle  antiche  sue  fasi 
1'  azione  di  quei  principj  che  vedevano  e  descrivevano  così  ampia  nella  storia  di- 
scendeutale  della  parola  latina?  Quest'era  manifestamente  impossibile;  ed  anzi  essi 
insegnavano  e  stampavano,  che  luce  grande  veniva  loro  dallo  studio  delle  fasi  mo- 
derne per  tutto  quanto  si  atteneva  allo  studio  delle  antiche.  Dicevano  per  esem- 
pio (1876):  «  Tutti  conoscono  i  molti  progressi,  che  ha  fatto,  negli  scorsi  decennj, 
»  la  esplorazione  scientifica  delle  lingue  antiche  e  moderne.  La  osservazione  meto- 
»  dica,  sempre  più  insistente,  favorita  negli  iiltimi  temjpi  anche  dalle  applicazioni 
»  della  fisiologia  allo  studio  storico  della  parola,  venne  a  esercitarsi  largamente,  e 
»  con  doppia  utilità,  pui'e  intorno  alle  varietà  dialettali  tuttora  pai-late.  Le  quali 
»  offrendo  le  prove  positive,  e  facilmente  accessibili,  di  singolari  e  importanti  evo- 
»  luzioni,  acuiscono  e  addestrano  in  singoiar  modo  la  nostra  facoltà  percettiva,  e 
»  così  la  rendono  capace  di  ristudiare  e  ricomporre  le  fasi  via  via  più  antiche,  con 
»  una  energia  ed  una  sicurezza  che  altrimenti  non  avrebbe  mai  conseguito.  »  ' 

Ma  la  concordia  nelle  idee  direttive,  se  torna  a  escludere  ogni  innovazione 
teorica,  jjur  qui  non  esclude  che  i  'vecchi'  deplorino  certe  esagerazioni  della  'giovane 
scuola'  e  vedano  con  maraviglia  come  qixesta  si  circoscriva  di  soverchio,  e  trascuri 
o  non  avverta  distinzioni  d' ogni  maniera. 

Poiché,  in  primo  luogo,  punto  non  si  regge  alcuna  sentenza  generale,  in  quanto 
si  affermino  proporzioni  identiche  o  consimili  o  di  necessità  maggiori  o  minori  neUe 
evoluzioni  per  cui  le  favelle  vanno  trasformate.  Così  s' hanno  diversità  molto  note- 
voli da  un  caso  all'altro,  sì  per  la  quantità  e  si  per  la  qualità  delle  alterazioni, 
senza  che  la  ragione  della  differenza  possa  andare  senz'  altro  ripetuta  dalla  ragione 
del  tempo.  Sono  linguaggi  coevi  l' italiano ,  il  francese  e  il  rumeno  ;  e  pure  è  tanto 
men  grande  1'  alterazione  che  la  parola  latina  subisce  nel  primo,  di  quello  che  non 
soffra  negli  altri  due.  Il  latino  è  coevo  al  greco  e  anche  al  sanscrito;  e  piir  le  di- 
stanze che  intercedono  tra  queste  antiche  lingue  si  possono  abbastanza  corretta- 
mente rappresentare  coli'  accoppiar  da  una  parte  ahharanta  epTieronto  e  metter  fere- 
bantur  dall'  altra.  Che  se  all'  incontro  tentassimo  il  linguaggio  dei  Semiti ,  trove- 
remmo tra  i  monumenti  fenici  e  l'arabo  anteislamico  e  le  parlate  dell'  Arabia  odierna 
una  così  scarsa  differenza  per  ogni  parte  dell'  organismo,  da  dirla  quasi  trascurabile 
a  chi  dall'  alto  consideri ,  come  qui  si  fa ,  le  vicissitudini  meravigliose  della  parola. 
Di  certo,  le  spinte  analogiche  variamente  attive  ci  daranno,  alia  lor  volta,  larga 


'  Atti  del  E,  Istituto  Lombardo ,  20  luglio  1876. 


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pai'fce  della  ragiono  per  cui  il  gotico ,  a  cagion  d' esempio ,  riesce  cosi  disforme  dal 
greco,  o  il  celtico  dallo  slavo.  Ma  resterà  poi  che  si  consideri  il  pei'chè  le  mede- 
sime spinte  non  abbiano  prodotto  se  non  nn  distacco  di  tanto  minore ,  non  dirò  tra 
zendo  e  sanscrito,  ma  tra  sanscrito  e  greco. 

Qui  interviene  quella  considerazione  fondamentale,  per  cui  la  nòstra  'scuola" 
"[ione  anzi  maggiore,  in  buona  parte,  che  non  faccia  la  scuola  nuova',  la  naturale 
identità  di  cause  nel  movimento  alterativo  a  cui  la  parola  va  incontro  attraverso 
tutti  i  tempi;  poiché  noi  abbiam  sempre  1'  occhio  fisso  a  quella  che  diciamo  la  po- 
tissima delle  cause  alteratrici,  cosi  per  le  antiche  età,  come  per  le  moderne.  Già  ho 
a\'\'ertito  che  punto  non  ci  repugnano  e  anzi  ci  riescano  bene  attraenti  tutte  le  spe- 
culazioni che  tendono  a  ricostruire  idealmente  i  patemi  fonetici  o  morfologici  nel 
seno  di  un  popoletto  omogeneo  e  a  persuaderci  per  cotal  via  dell'  efficacia  dei  'prin- 
cipj'.  Ma  confesso,  che  la  portata,  che  si  vuol  dare  alle  speculazioni  di  questa  ma- 
niera, mi  ricorda  talvolta  la  deduzione  di  quell'  antropologo  il  quale  affermava,  che 
se  1'  uomo  vien  dalla  scimia,  anche  la  pedagogia  va  da  capo  a  fondo  rimutata;  o  la 
scappatoja  di  quello  scolaro,  il  quale,  stretto  a  parlare  con  giusta  precisione  intorno 
ai  bacini  di  certi  fiumi,  rispondeva,  che  la  geografia  fisica  e  politica  manca  di  salda 
base  e  non  sarà  una  disciplina  rigorosa  e  per  lui  sufficiente,  in  sino  a  che  vertano 
ancora  tante  incertezze  circa  le  ragioni  prime  della  materia  cosmica.  L'uomo,  qual 
pur  sia  1'  origine  sua,  è  1'  uomo  da  centinaja  di  migliaia  d'  anni,  e  questo  vuole  edu- 
carsi ;  come  la  terra ,  sia  essa  un  conglomerato  d'  aeroliti  o  checché  altro ,  è  da  lun- 
ghe età  il  campo  conteso  tra  la  progenie  del  bipede  implume  ;  e  questo  campo  vuol 
essere  dal  geografo  descritto.  Similmente  é  rimota  per  noi  la  costituzione  dei  primi 
nuclei  idiomatici;  e  la  penetrazione  isterica,  massime  quando  s'  eserciti  intorno  alle 
lingue  delle  stirpi  autrici  e  altri  ci  di  larghe  civiltà,  mal  può  presumere  di  spingersi 
in  sino  a  tali  giacimenti,  che  già  non  sieno  il  prodotto  dell'incrociarsi  di  più  filoni, 
variamente  tra  di  loro  diversi.  Nega  essa  la  'nuova  scuola"  il  motivo  etnologico 
nelle  trasformazioni  della  parola  romana?  Non  è  abbastanza  eloquente ,  per  codesta 
'scuola',  il  contrasto  che  è,  p.  es.,  entro  i  confini  geografici  dell'Italia  stessa,  tra  il 
tipo  toscano,  o  scliiettamente  italiano,  da  una  parte,  e  il  galloromano  dall'altra? 
Non  pare  ad  essa  decisivo,  che  il  tipo  toscano  si  possa  descrivere,  per  via  negativa, 
nel  modo  che  segue  [Arch.  Vili  122]:  non  occorrervi,  dall' un  canto,  nessuno  di 
quei  fenomeni  pei  quali  negli  altri  tipi  dialettali  dell'  Italia  maggiormente  s' altera 
la  base  latina,  e  non  esistere,  dall'altro,  alcuna  serie  di  alterazioni  della  base  latina, 
che  a  questo  tipo  sia  peciiliare  '  ?  Sa  essa  imaginare  e  descrivere  un'  altra  e  fonda- 
mentale ragione  di  cotali  differenze ,  da  quella  infuori  che  noi  mettiamo  innanzi  e 
studiamo  di  continuo,  e  s'enuncia  in  queste  poche  parole  [ib.  124]:  da  una  parte 
esser  nativo,  quel  che  nell'  altra  è  imuipsso?  E  poiché,  secondo  che  ormai  fu  a  sazietà 
ripetuto,  non  par  possibile  che  vi  sia  chi  voglia  sottrarsi  a  tanta  luce  di  cose,  com'  è 


'  Come  il  toscano  è  tanto  più  genuino  nella  fonia,  che  non  il  veneto,  il  lombardo  ecc..   e  cosi  nelle   forme; 
onde  letto  e  non  leggiuto  ,  f/rande  ambigenere  e  non  orando  ghanda. 


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che  coloro,  i  quali  priucipalmente  iutendouo  a  affermare  un'  egualità  di  vicissitudini 
nei  differenti  periodi  della  vita  del  linguaggio,  non  pensano  a  inferir  dal  moderno 
all'  antico  in  favor  di  questo  argomento  storiale,  che  insieme  dà  la  chiave  palpabile 
della  normalità  degli  avvenimenti  fonetici  e  della  varia  e  indefinita  azione  delle 
spinte  analogiche?  Studiar  la  prima  genesi  di  una  favella  qualsiasi  o  dell'  ariana  in 
ispecie,  non  è  di  certo  cosa  superflua,  ed  è  anzi  ben  superfliio  che  ciò  s'avverta-; 
ma  tanto  e'  entrano  le  speculazioni  di  questa  maniera  nella  esplorazione  delle  vi- 
cende a  cui  la  parola  ariana  sottostà  nel  tempo  e  nello  spazio,  quanto  c'entrerebbe 
la  storia  della  formazione  del  latino  nell'  indagine  sulle  sorti  che  il  latino  volgare 
abbia  patito  in  un  dialetto  rumeno.  Dove  arriviamo,  o  donde  veramente  partiamo, 
quando  intendiamo  ricomporre  la  parola  primitiva  degli  Arii,  riducendo  e  spiegando 
le  sue  trasformazioni?  Noi  afferriamo  quell'organismo  splendido,  saldo  e  intiero, 
che  ancora  si  continua  con  robusta  limpidezza  nel  sanscrito ,  nello  zendo  e  nel  greco, 
e  va  poi  incontro ,  anche  nelle  antiche  età  e  sempre  per  la  caiisa  principale  delle 
infinite  migrazioni  e  degli  incrociamenti  che  ne  conseguono,  a  scosse  e  a  riduzioni 
di  ogni  maniera,  e  anche  tanto  sovversive,  quanto  potremmo  imaginare  quelle  del 
volgar  latino ,  se  dopo  aver  vegetato  alla  Sava  o  al  Danubio  per  dumil'  anni  ed  es- 
sersi ridotto  a  dire  nm  fost  volt  per  'ebbi  voluto'  (letteralmente:  'ho  stato  voluto';  e 
vuol  dire  tre  voci  romane,  tutte  e  tre  morfologicamente  scardinate,  che  rifanno  un 
costrutto  slavo),  passasse  a  vegetar  per  altri  cento  secoli  sopra  un  territorio,  dove 
gli  toccasse  di  succhiare  abondantemente  principj  finnici  o  baschi. 

Ma  d'altronde,  se  il  criterio  del  tempo  non  ha  punto  un  valore  assoluto  per 
quanto  concerne  le  trasformazioni  della  parola  e  se  !nei  motivi  delle  trasformazioni 
anzi  è  tra  le  antiche  e  le  moderne  età  una  miglior  congruenza  che  alla  nuova  'scuola' 
non  possa  parei-e,  è  egli  poi  legittimo  il  trascurare  le  intrinseche  e  naturali  diver- 
sità che  un  organismo  glottico  presenta  secondo  i  diversi  periodi  dell'  esistenza  sua , 
ed  è  egli  in  ispecie  legittimo  affermare  che  le  li-\-ellazioni  analogiche  tanto  devono 
esser  freqiienti  nelle  favelle  antiche,  quanto  son  nelle  moderne,  od  anzi  più  in  quelle 
che  non  in  queste?  Dovremo  noi  riverire,  come  un  apoftegma  che  rimuti  l'arte, 
quello  che  ci  avverte  che  gli  uomini ,  vale  a  dire  i  creatori  e  i  trasformatori  del  lin- 
guaggio, son  sempre  tutti  passati,  anche  nei  tempi  antichi,  per  le  stesse  fasi  della 
vita  che  s'attraversano  oggidì?  Oh  Iddio  buono!  Tutti,  di  certo,  abbiamo  creduto 
sempre  e  crederemo,  che  ai  tempi  d'Omero  o  di  Valmichi  i  fanciulli  fossero  fanciulli 
come  ai  tempi  di  Caiiomagno  o  del  Cid;  ma  resterà  pur  sempre  vero,  per  dare  in- 
tanto qualche  esempio  nell'ordine  dei  suoni,  che  il  sanscrito,  il  greco  e  il  latino, 
fedeli  alle  condizioni  archetipe  e  all'unisono  tra  loro,  riflettano  costantemente  per  t 
un  t  primordiale,  stia  egli  al  principio  della  parola  o  nel  mezzo  pur  tra  vocali  («m- 
tare,  rotóc);  laddove  un  t  latino  ben  rimarrà  incolume  anche  nello  spagnuolo  e  nel 
provenzale,  se  è  al  principio  della  parola,  ma  nel  mezzo  tra  vocali  si  fa  d  {mudar  ecc.)'. 


'  Pur  quando  la  base  vada  incontro  a  un'alterazione  cosi  profonda  com'è  riiiolla  ji.  e.  di  -;)0-  greco  da  -h'O-, 
restiamo  sempre  aU'imisono,  cioè  a  rosultanza  sorda;  non  mai  siamo  al  caso  deìVnliim  sardo,  p.  e,  da  n<jiia,  il 
quale  muove  da  at/ua. 


—  451  — 

L<a  elasticità  o  l' energia  dell'  apparato  orale,  si  dice,  può  esser  ben  diversa  da  nn'  età 
all'altra  della  stessa  persona,  da  uno  a  un  altro  individuo,  o  tra  famiglia  e  famiglia, 
vicinato  e  vicinato.  Ah,  lo  sappiamo  tutti!  Ma  il  nesso  pt,  come  s'  ebbe  dai  primordj 
nelle  voci  che  latinamente  suonano  septen  ajìttis,  si  mau tenne  incolume  per  secoli 
infiniti  (rum.  seapte),  e  l'assimilazione,  com'  è  nell' it.  sette,  può  dirsi,  in  rapporto  a 
cosi  sterminate  distese  di  tempo,  un  avvenimento  affatto  moderno.  Ora,  tra  la  livel- 
lazione analogica,  da  un  lato,  la  quale  in  fondo  altro  non  è  se  non  vm.  adattamento 
0  una  riduzione  nell'ordine  delle  forme,  e  le  riduzioni  o  gli  adattamenti  nel  mero  e 
diretto  ordine  de' suoni,  dall'altro,  corrono  dei  rapporti  manifesti  di  congruenza  na- 
turale. Il  ridurre  a  d,  cioè  a  elemento  sonoro,  un  t  fx-a  vocali,  è  un  risparmio  di  va- 
riazione (si  mantengono  le  corde  vocali,  per  il  profferimento  della  consonante,  in 
quella  stessa  attitudine  che  è  richiesta  per  la  vocale  che  la  precede  e  che  la  segue), 
com'  è  un  risparmio  di  variazione  formale  il  dire  ahhent  almez  in  luogo  di  aiment 
mnez,  secondo  che  giustamente  prima  si  diceva.  Il  ridurre  come  a  un  doppio  tt  l'an- 
tico nesso  2}t  o  et,  è  un  altro  modo  di  risparmiare  variazioni  orali,  pel  quale  s'ot- 
tiene, a  parlar  per  via  di  formole,  che  AB  tramonti  in  BB;  come  è  un  altro  modo 
di  risparmio  nelle  variazioni  formali  il  venire  alla  conguagliauza  dei  due  perfetti 
italiani  mossi  (anziché  '"mohhi)  e  scrissi,  che  pur  si  pirò  dire  un  caso  di  AB  che  tra- 
monta in  BB.  Ora,  la  maggiore  o  minore  abondanza  della  doppia  serie  di  adatta- 
menti può  dipendere  da  cause  varie  e  complesse  ;  ma  in  tesi  generale  andrà  pur  sem- 
pre affermato:  che  l'organismo  originale  (l'ariano,  poniamo)  tanto  più  s'alteri,  per 
adattamenti  e  riduzioni,  quanto  è  più  lunga  la  serie  di  secoli  ch'egli  è  agitato  nel- 
r  uso  e  quanto  più  si  vengono  moltiplicando  gli  incrociamenti  di  stirpe  nelle  genti 
tra  cui  l'uso  n' è  agitato.  Il  latino  ébhe  junctns  per  *juctus,  ma  stette  a  vicfus  allato 
a  vici,  e  anche  Sbjìictus  allato  a  pinxit.  L'italiano  si  inoltrò  a  di-jnnto  allato  a  di-pinsi, 
e. anche  volle  vinto  e  vinsi.  E  venne  pure  a  dolsi;  ma  non  s'  è  mai  spinto  a  cose  che 
somigliassero  i  sardi  dolfcsi  dolsi,  dolfidu  doluto,  o  il  rum.  dus  ductus,  tirato  sopra 
diisei  duxi.  Nessun  ordine  di  patemi  vorrà  di  certo  esser  tenuto  estraneo  ad  alcuna 
fase,  per  quanto  antica,  di  qualsiasi  linguaggio;  ma  non  è  lecito  revocare  in  dubbio 
le  ragioni  storiche  dei  varj  limiti  a  cui  il  patema  si  estende.  Non  so  che  altri  sia 
andato  più  in  là,  di  quello  che  noi  sempre  facemmo  [cfr.  Ardi,  gì.,  I  3.5,  Studj  crit., 
II  519],  affermando  che  il  lat.  hustus  sia  il  prodotto  di  un'illusione,  per  cui  combu- 
rere pareva  consistere  di  com  e  hicrere,  alla  guisa  di  com-hinare  com-ponere  ecc.;  lad- 
dove in  effetto  il  substrato  etimologico  era  *'co-amf-urere  co-'mb-urere';  come  anche 
s'ebbe  un  popolare  *co-anfr-urere  '^co-'mhr-urere  (cfr.  osco  amfr-,  umbro  amor-,  nella 
funzione  del  lat.  ami-),  onde  *hrusto  hrustiare  hrustidare,  che  sono  i  veri  fondamenti 
dei  neolat.  brusare  bruslare'.  Né  alcuno  vuol  negare,  che  la  tela  delle  lingue  antiche 
non  istandoei  dinanzi  cosi  larga  e  intiera  come  quella  delle  seriori  o  moderne,  ne 
venga  che  non  ci  appaja  in  tutta  la  sua  estensione  e  chiarezza  l'attività  che  pure  in 


'  Cosi  anche  Leo  Meviìr,  cfr.   Ostiiofp  Perfect  535-3  n.  Circa  le   giuste   obiezioni    fonologiclie,  mos.se  dal- 
l'Osthoff  al  Corssen,  cfr.  il  1.  e.  degli  St.  crit. 

'  Antica  ugualmente  tra  noi  l'affeniiazione  di  epentesi  vocalica  in  ienebrca  (tenfra),  //ener  (qcmro),  soccr  (socro). 


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quelle  i  diversi  principj  dovettero  spiegare.  Ma  è  ella  così  scarsa  la  suppellettile 
greca  o  latina,  di  cui  disponiamo,  cosi  scarsa  e  rada  la  serie  delle  famiglie  lessicali, 
o  greche  o  latine,  die  ci  è  dato  ricomporre,  da  lasciarci  davvero  in  dubbio  se  un 
movimento  fonetico  di  tale  entità  com'  è  quello  di  Ulva  leva,  allato  a  alvàr  levare 
lAi'ch.  gì.,  I  li],  0  un  atteggiamento  morfologico  di  tale  entità  come  è  quello  che 
si  rappresenta  pei  testé  citati  dolfido  dus,  vi  si  possa,  o  no,  facilmente  imputare? 
0  parrebbe  facile  trovar  nel  latino  delle  voci  greche,  in  condizioni  da  uguagliare 
quelle  dell'  it.  lottega  da  c/.^uoQ-q-A-q  ?  Noi  vediamo,  nell'Inghilterra,  sfrondarsi  in  breve 
giro  di  secoli  la  flessione  del  sassone  assunto  dai  Celti  ;  e  il  sassone ,  ischeletrito  ma 
invalente,  operare  alla  sua  volta  che  la  flessione  ibernica,  tanto  florida  ancora  uel- 
l' età  carolingia ,  venga  intristendo  con  rapidità  singolare.  C  è  egli  qualcosa  di  si- 
mile nei  tre  miUennj  pei  quali  misuriamo  la  flessione  greca?  Tra  il  tempo,  in  cui 
greco  e  sanscrito  erano  una  cosa  sola,  e  l'età  che  è  rappresentata  dal  linguaggio 
dell'antica  letteratura  indiana,  corre  di  certo  una  gran  distesa  di  secoli;  ma  la  fles- 
sione sanscrita  si  mantiene  ancora  così  genuinamente  alle  condizioni  originali,  da 
apparirvi  come  indifferenti,  e  per  quantità  e  per  qualità,  le  formazioni  nuove.  Al- 
l'incontro,  nello  estendersi  del  sanscrito  tra  gii  aboi'igeni  del  continente  indiano,  la 
sua  flessione  va  poi  così  malconcia,  da  doversene  dire  molto  men  distante  il  greco 
moderno  che  non  alcun  parlare  sanscritico  dell'India  d'oggidì.  Altro  che  aforismi  di 
sempre  uguale  attività  di  principj  !  Altro  che  principj  nuovi  o  nuove  e  corrette  ap- 
plicazioni di  vecchi  principj  !  Siamo  alla  vertigine  dogmati(;a,  contro  la  quale  va  in- 
vocata la  santità  del  senso  comune. 

3.  Non  vorrei  parere  paradossale  o  ostinato  a  chicchessia;  ma  io  devo  pur  sem- 
pre ritornare  a  questo:  che  appunto  le  molte  benemerenze,  per  le  quali  vanno  insi- 
gni i  '  Neogrammatici  ,  tornano  a  indiretta  conferma  della  insussistenza,  non  dirò  di 
una  rivoluzione,  ma  pur  di  un  qualsiasi  innovamento  sostanziale  nei  principj  o  nel 
metodo;  poiché  sempre  sien  tali  codeste  benemerenze,  che  punto  non  si  debbano  ad 
alcun  peregrino  argomento  dottrinale  e  punto  non  dimostrino  alcun' arte,  prima 
sconosciuta,  o  nell' indagare  o  nel  provare.  Non  solamente  c'è  continuità  assoluta 
tra  quanto  s'  era  fatto  prima  e  quanto  col  grande  acume  e  1'  operosità  grande  riesce 
ad  essi  di  aggiungere;  ma  non  è  nemmeno  il  caso  che  1'  avanzamento  graduale,  per 
quanto  egli  sia  cospicuo,  porti  con  sé,  come  per  effetto  naturale  e  necessario,  che  la 
prospettiva  d'improvviso  si  muti.  Quando  siamo  sul  campo  della  critica  positiva, 
avviene  che  i  vecchi'  debbano  alla  lor  volta  trovare  accettevoli  non  poche  delle 
proposte  che  son  formulate  dai  nuovi';  ma  non  per  ciò  i  'vecchi'  son  trasportati  in 
un  ambiente  diverso  da  quello  in  cui  hanno  sempre  respirato,  né  si  può  credere  che 
nelle  loro  adesioni,  più  o  meno  larghe,  alle  cose  nuove,  c'entri,  per  poco  o  per 
molto,  quella  forza  persuasiva  delle  rivelazioni  impensate,  per  la  quale  può  parerci, 
che  un  vero,  nuovamente  accolto,  risiedesse  pur  sempre  nella  nostra  coscienza.  E 
sia  lecito  pur  qui  soggiungei'e  un  tentativo  di  dimostrazione. 

Incominciamo  dalla  fonologia.  Lo  Schleicher  aveva  grandemente  promosso  que- 


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sta  parto  della  grammatica  comparativa,  così  come  d'  ogni  altra  aveva  fatto  '.  Ma 
la  fase  di  studj,  che  il  suo  'Compendiura'  magistralmente  riassumeva,  non  riiisciva 
ancora  a  disciplinare  i  continuatori  delle  aspirate,  specie  gli  italici  e  gli  indiani, 
secondo  le  varie  loro  età,  e  i  continuatori  dei  varj  ordini  di  gutturali,  o  le  duplici 
parvenze  nei  continuatori  greci  di  cons.  -f-^,  che  quasi  vuol  dire  tutto  quanto  impor- 
tava estese  complicazioni  nella  storia  delle  consonanti.  Il  lungo  lavoro,  mercè  il 
quale  tanta  parte  di  apparenti  volubilità  o  incoerenze  s'elimina  da  questo  gran  com- 
plesso, 0,  a  parlare  con  rapidità  più  che  algebrica,  pel  quale  si  vede  intimamente 
nella  ragione  di  quei  fatti  che  son  rappresentati  per  via  di  questo  doppio  esempio  :  la- 
ghii-s  è-XoL'/j)-z  sXdaawv  iXàtrojv  lev-i-s,  paleoslv.  lìgììkii;  mih  mìdha  ò-[uy-im  mingere  meiere, 
lit.  miz-n,  arni,  miz-;  questo  lavoro  che  -sembra  ben  riuscito,  per  quanto  io  posso 
vedere,  anche  ai  Neogrammatici,  vien  dopo  lo  Schleicher  e  prima   di   loro".  Or  si 


'  Oggi  si  sente  dire,  che  Sclileicher  non  la  guardasse  tanto  nel  sottile  in  fatto  di  rigore  fonologico;  ma 
quanti  ancora  siamo,  che  studiavamo  di  grammatica  comparata  sui  fascicoli  del  gran  libro  di  Bopp  prima  che  ne 
fosse  compita  la  prima  edizione,  abhiani  la  piena  coscienza  del  'rigor  della  prova'  che  lo  Schleicher,  rincarando 
anche  sul  Pott,  ci  ha  abituato  a  volere.  Se  lo  Schleicher  aveva  irn  difetto,  era  appunto  quello  di  propendere  al 
dogmatismo.  I  ritocchi  nelle  successive  edizioni  del  'Compendium',  ai  quali  lo  schietto  amore  della  verità  pnr  Io 
portava,  si  risolvono,  per  buona  parte,  in  contravvenzioni  al  fare  assiomatico  del  primo  suo  getto  (ed  è  un  pro- 
cedimento noologico,  del  quale  è  lecito  profetizzare  che  si  riprodurrà  tr.a  i  Xeograramatìci  pure).  Non  solo  re- 
pugnerebbe *.a  priori'  l'imputare  a  rana  mente,  come  era  quella  dello  Schleicher,  che  le  convenisse  l'idea  di  al- 
cun che  di  eslege  nelle  vicissitudini  fonetiche;  ma  è  facile  incontrare  nelle  auree  scritture,  che  le  dobbiamo, 
delle  frasi  com'  è  questa  (p.  e.  dove  è  contrapposto  al  primitivo  k  il  lat.  qu  e  il  got.  Jiv):  'non  è  ancora  trovata  la 
legge,  secondo  la  quale  ciò  accade,  o  per  la  quale  questa  serie  si  disciplini'.  Appunto  il  suo  fare,  largo  e  siste- 
matico, e  la  conseguente  sua  avversione  per  1'  'etimologismo  ',  ohe  voleva  dire  per  tutto  quanto  dovesse  tornar 
discontinuo  e  problematico,  caratterizzano  gagliardamente  lo  Schleicher  tra  i  legislatori  della  disciplina.  [Men- 
tre si  stampa  questa  'Lettera',  sopraggiunge:  Joh.  Schmidt,  ScJihichcrs  auffitssuiìg  der  lautgesetze ,  in  Kuhn's 
Zeitsohr.,  XXVIII  303-12.| 

"  Io  sono  veramente  grato  a  tutti  quei  colleghi,  e  .ai  colleghi  'neogrammatici'  in  ispecie,  che  ricordano 
quel  che  a  me  sia  accaduto  di  trovare,  specie  in  ordine  alle  'serie  gutturali';  e  già  ho  toccato  altrove  della  rico- 
noscenza che  particolarmente  professo  allo  Schmidt,  il  mio  onorandissimo  collega  delle  'catastrofi'.  Ma  spero  di 
non  riuscire  increscioso  a  nessuno,  se  qui  soggiungo  qualche  altra  parola  per  meglio  tutelar  le  mie  ragioni. —  Io 
dunque  son  naturalmente  ben  lungi  dal  credere,  clie  le  mie  percezioni  intorno  alle  serie  gutturali  non  fossero  ca- 
paci di  ulteriori  perfezionamenti  o  applicazioni,  o  che  di  tali  perfezionaurenti  già  non  ne  sieno  conseguiti  o  in- 
travveduti.  E  cosi,  a  cagion  d'esempio,  è  di  certo  ormai  renduto  ben  perspicuo  il  motivo  dell'avvicendarsi  di  t  e 
■rr  in  tì;  allato  a  ttótìooc,  il  quale  risiede  nella  diversità  della  vocale  susseguente  ed  è  operativo  pur  nella  sezione 
asiana.  Dove  però  non  è  male  avvertire,  da  una  parte,  il  modo  in  cui  io  m'esprimeva,  sin  dal  187Q,  intorno  a  co- 
desti t  («il  fatto  culminante,  rispetto  all'equazione  t  ^vecor=k!f  prc-elleaico,  è  questo,  che  i  pochi  ma  sicuri 
»  esempj,  pei  quali  si  afferma,  trovino  tutti,  nella  risposta  indo-irana,  lo  k',  vale  a  dire  il  prodotto  della  continua- 
»  zione  asiatica  \kj\  dello  kn  indo-europeo  >;  Lcs.  §  21);  e  avvertir  dall'altra,  che  il  motivo  del  x  è  da  molto  tempo 
attribuito  alla  vocale  successiva;  v.  per  es.  Cuut.''  486.  Anch'io  nelle  lezioni  orali  da  molti  anni  lo  adduco,  e  anche 
mi  sono  giovato  dei  seguenti  due  esempi  neo-ciprioti:  ripdraiv  ^ -/.spdT.ov  ^  Tspraé'f^y.v  :=  xp'.ras/.Xiv  =  KpixiXhov; 
V.  Sakellarios,  Kyprlaka,  III  401.  —  Ma  come  può  mai  avvenire,  che  un  qualche  ulteriore  discernimento  conduca 
a  guardar  tanto  'in  iscorcio  '  codeste  percezioni  'cisalpine  ',  da  fame  la  bella  menzione  che  segue:  «Zwar  weiss 
»  man,  dass  das  System  Ascolis,  derzuerst  die  Existenz  mehrerer  Gutturalreihen  flir  die  Ursprache  behauptet  hat, 
»  nicht  stichhaltig  sei  und  dass  die  drei  Eeihen,  welche  er  annimmt,  zu  zweien  zusammenfallen  ",  ecc.  (Beksu,  Die 
gutturalen  und  ihre  verbindimg  mil  v  ini  lateinischen,  pp.  1-2)?  Quale  è  dunque  la  verità  vera?  È  molto  sempKce- 
meute  questa:  che  dal  periodo  schleioheriano  si  usciva  ancora  incerti  se  fosse  casuale  o  avesse  ragion  comune 
l'esito  sibilante  della  tenue  (s  di  contro  a  k),  il  quale  si  avvertiva  abbastanza  concorde  tra  lituslavo  da  una 
parte  e  iudoirano  dall'  altra;  ma  nessuno  ancora  avesse  pur  sognato  che  il  fatto  parallelo  si  riproducesse  per  la 
eoiTente  della  media  {ì  di  contro  a  y)  e  per  quella  della  media  aspirata  (ih  di  contro  a,  gli);  i  quali  paralleli  erano 
avvertiti  e  dimostrati  nelle  Lezioni  di  Fonologia,  per  guisa  che  ne  irscisse  saldo  e  perfetto  un  sistema,  non  mai 
scosso,  in  cui  è  la  doppia  serie  proetnica  di  ciascuno  dei  tre  termini.  Tutti  i  </'  g'  ecc.,  che  or  girano  per  il 
mondo,  tutti  senz'  alcun'  eccezione  provengono  da  quel  sistema,  e  nessuno  lo  scuote.  E  non  si  trattava  già,  in  esse 


—  454  — 

domanda ,  questa  cosi  larga  operazione ,  la  più  larga  elio  nel!'  ordine  suo  fosse  mai 
compita  (ed  era  naturale  che  cosi  fosse ,  perchè  era  stata  preceduta  da  quanto  occor- 
reva per  maturai-la) ,  importa  essa  o  non  importa  tutta  quell'  arte  metodologica  che 
or  si  vorrebbe,  come  d' improvviso,  scoverta?  C  è  egli  mai,  dall'  un  canto,  in  al- 
cuna parte  di  tutta  quest'  operazione,  un  abuso  qualsiasi  di  postulati  primordiali,  o 
pur  c'è,  dall'altro  canto,  che  vi  si  trascuri  mai  l'entità  effettiva  della  evoluzione 
fonetica,  per  un  soverchio  rispetto  delle  parvenze  che  assume  la  parola  scritta?  0 
e'  è  mai  qui  entrata  qiialche  incertezza  circa  la  normalità  delle  vicende  fonetiche  ? 
Od  è  comunque  entrato  a  turbar  codesto  lavoro  un  qualche  pregiudizio  in  favor 
della  preminenza  isterica  del  termine  sanscrito?  0  veramente,  dove  c'è  mai  stato, 
dacché  si  ragiona  di  simili  cose,  clii  potesse  star  dubbio  circa  il  grado  di  miglior 
conservazione,  tra  il  lat.  vedu-s^  per  esempio  (ammessi  che  pur  sieno  i  sogni  del 
restauro!),  e  il  sauscr.  udha-s  fdha-s? 

La  uTiova  scuola  vanta  a  buon  dritto  delle  belle  percezioni  in  ordine  alla  storia 
delle  vocali  ;  ma  è  una  strana ,  uii'  incredibile  illusione  quella  di  presumere  che  altre 
sieno  state  le  ragioni  del  metodo  o  delle  esperienze  sistematiche  per  le  quali  essi 
ottenevano  codeste  resultanze  rispetto  alle  vocali,  e  altre  quelle  che  avevano  prima 
condotto  a  resultanze  perfettamente  analoghe  rispetto  alle  consonanti.  Nessuno ,  per 
certo,  saprebbe  escogitare  una  ragione  teorica,  per  la  quale  l'affermazione,  che  sin 
dal  periodo  unitario  abbiano  esistito  i  tre  a  (a  ci  n),  dovesse  mai  repugnare  a  chi 
aveva  trovato  o  accettato  quelle  storie  delle  consonanti  a  cui  testé  si  alludeva.  Per 
ciò  che  mi  concerne,  io  sempre  ho  accolto  con  la  miglior  persuasione  tutto  quanto 
s'  è  venuto  mostrando  circa  i  germi  primordiali  dell'  e  e  dell'  o  '.  Il  fatto  che  ne  man- 


Lezioni,  pure  per  quanto  conceine  lo  slavo  ecc.,  eli  indicazioni  embrionali,  ma  bensi  di  affermazioni  assolute 
(ib.  193),  di  ragionamenti  a  cui  nulla  mancava  (ib.  116  sgg.),  e  di  esemplifloazioni  continue,  in  oui  da  un  l^to 
stavano,  per  qui  limitarci  a  poco  :  mKiéò  o  vczo  con  aino  od  viuku,  e  dall'  altro  :  igo  o  snjegu  con  gora  o  il  lit.  angis 
(ib.  113  sgg.,  181  sgg.;  cfr.  St.  Cr.  II  26).  Se  il  Miklosich,  Alislovenische  lautUltre,  Vienna  1878,  cita  come  fonte  per  co- 
desti scernimenti  una  scrittura  di  Federigo  Mììli.eh,  io  sono  certissimo  che  esso  Miiller  punto  non  presume  che 
alcun  merito  a  lui  ne  spetti;  e  se  il  WurrsEv,  nella  6')-.  sscr.,  .sembra  attribuirli  all'HiJBsenMASN  (cfr.  K.  Z.  XXIII 
21),  mi  stimo  io  sicuro  che  in  ciò  non  entri  alcuna  avversione  dell'illustre  Americano  contro  di  me,  come 
nulla  di  simile  pxiò  entrarci  nel  caso  del  Miklosich,  il  più  benevolo  tra'  miei  mnestri.  Ma  a  ogni  modo  a  me  è  toc- 
cato questo,  di  sentir  ohe  mi  fosse  minutamente  descritta,  e  grandemente  vantata,  la  ricostruzione  di  un  irnaidìii. 
(sscr.  trnedhi),  tal  quale  era  fatta  compiutissimamente  nella  nostra  '  scuola  ',  e  pur  con  la  sua  brava  coda  'analo- 
gistioa',  da  anni  ed  anni;  v.  St.  Cr.,  II  373,  eoe.  Quanto  poi  al  FicK,  che  suole  esser  citato  con  me  per  questa  ma- 
niera di  percezioni  e  di  certo  non  ha  bisogno  che  alcuno  gli  accresca  ricchez?.a  con  la  roba  d'altri,  mi  sia  lecito 
ripetere,  ch'egli  si  è  sempre  limitato  alla  tenue,  dove,  per  altro  non  dire.,  lo  scernimento  è  sempre  manifesto  an- 
che nella  pronuncia  e  la  scrittura  deU' indiano  (cfr.  Schmidt  ,  Jen.  Literaturzeit.,  1871,  art.  201). —  Finalmente,  a 
toccar  d'altro,  mi  sia  qui  ancor  concesso  di  notare,  non  per  alcun  vanto  di  priorità,  che  in  questo  caso  sarebbe 
cesa  poggio  che  stolta,  ma  per  accennare  alle  congruenze  del  lavoro  progressivo,  all'  infuori  di  ogni  ilsima  di 
nuovi  principj,  come  la  bella  scovorta  del  Veknicr,  circa  lo  apparenti  eccezioni  della  'lautverschiebung',  si  risolva, 
quanto  al  principio,  neU'  affermare  una  di  queUo  alternazioni  neUo  stato  della  consonante,  che  dipendono  dalla 
ragione  dell'accento,  avvertite  p.  e.  in  Arch.  glott.  I  Lii,  e  ncU' affermare  insieme  quella  stessa  evoluzione  di  una 
fricativa  di  fase  anteriore,  che  da  quest'  altra  parte  delle  Alpi  era  posta  nella  descrizione  dei  continuatori  latini 
delle  aspirate  originarie. 

Giorgio'  Curtius,  cui  appunto  si  dovevano  avvertimenti  sistematici  o  preziosi  intorno  alla  molta  antichit;'i 
dell' ri  e  dell'  o,  ha  posto  una  tonacit.i  singolare  noli' oppugnarne  l'ammissione  per  il  periodo  unitario.  È  forse  tra 
gli  aitimi  esercizi  del  suo  pensiero,  una  lettera  a  me  dirotta  il  22  marzo  del  1885;  nella  quale  mi  ripeteva  questa 
sua  ripugnanza,  e  m'esortava  a  dirgli  subito,  anche  in  brevissime  parole,  quel  che  io  no  pensassi.  Io  gli  rispon- 


—  455  — 

chi  la  diistinzione  nella  lingua  e  nella  scrittura  indiana,  per  qui  limitarci  a  questa, 
l'ho  sempre  comparato  a  (quello  del  l,  che  scarseggia  nel  Kigvoda  (cfr.  Lcp:.  23G)  o 
manca  nelle  antiche  lingue  dell'  Irania,  ma  ha  pur  tanto  di  concordanze  tra  Europa 
ed  Asia  in  favor  sno,  che  non  1'  oseremmo  escludere  dal  sistema  fonetico  dell'idioma 
originale;  e  insieme  l'ho  paragonato,  come  ora  vedo  che  fa  anche  il  Brugmann,  al 
caso  del  g  o  del  h  del  sanscrito ,  in  ciascuno  dei  quali  viene  a  confondersi  più  d'  i;n 
suono  di  fase  anteriore  ;  nel  primo  dei  quali  riscontri  (7) ,  l' irano  vero  e  proprio  ap- 
pare la  favella  pivi  rimota  dalle  condizioni  europee,  laddove  l'ai-meno,  cosi  come 
per  l'è  e  l'o,  la  meno  scosta;  e  nel  secondo  (rj  ecc.)  resulta  assai  offuscata  la  fase  in- 
diana in  confronto  dell'  indo-irana  e  litu-slava. 

Del  rimanente,  le  percezioni  della 'nuova  scuola'  rispetto  alle  vocali  tanto  sono 
indipendenti  dalla  supposta  novità  dei  principj  o  del  metodo,  che  per  buona  parte 
esse  medesime  già  eran  conseguite  dalla  scuola  'antica'!  Da  vent'anni  noi  soste- 
niamo che  ita  {aj,  i,  andare)  è  nelle  condizioni  di  krtd  (kav  kr,  fare);  o  in  alti-i  ter- 
mini, che  la  più  genuina  serie  degli  esempj,  in  civi  i  s'  avvicenda  con  ai,  e  u  con  aii, 
non  offi-egiàun  movimento  ascendentale,  ma  bensì  un  discendentale  (cioè  di  ai 
in  (■,  ecc.),  e  che  il  primo  (cioè  di  i  in  ai,  ecc.),  il  quale  pure  largamente  vige,  si  de- 
termina 0  plasma,  in  via  analogica,  sopra  il  secondo.  Senza  ingombrar  di  troppo 
ardue  ricostruzioni  l' insegnamento  academico  o  correre  il  rischio  di  scambiar  le 
ipotesi  con  le  cose  dimostrabili,  da  gran  numero  d'anni  pur  s'espone  tra  noi,  con 
giusta  abondanza  d'  esempj ,  e  nella  sezione  meramente  fonologica  e  nella  morfolo- 
gica, questo  doppio  movimento,  e  s'insiste  sulla  evidenza  storica  del  più  importante, 
che  è  il  discendentale.  E  anche  per  le  stampe  ne  abbiamo  incominciato  a  parlare  che 
.son  più  di  vent'anni';  né  occorre  dire  che  in  questo  ventennio,  riveduta  com'era 
di  continuo,  s'è  intorno  a  parecchi  punti  modificata  e  ampliata  la  trattazione  di 
questo  capitolo,  rimanendone  pur  sempre  ferma  la  concezione  complessiva.  La  quale 
naturalmente  ci_ porta  di  là  dai  limiti,  entro  ai  quali  or  vorrebbero  costipata  la  que- 
stione, come  se  trovasser  lecito  il  rendere  discontinua  la  storia  o  come  se  il  ridurre 
la  verità  fosse  una  razionale  semplificazione  delle  tesi  dottrinali.  La  nostra  conce- 
zione dunque  importa,  che  il  movimento  discedentale  si  addimostri  etimologica- 
mente, poiché  in  effetto  si  tratti  della  serie  ava  av   {àv)  u  u,  aja  af  («/)  *  i.  Sono, 


deva  immediatamente  (25  marzo  1885):  'Parecchi  anni  or  .sono,  il  D'  Ovidio  mi  rivolse  la  stessa  domanda  ch'Ella 
'  ora  mi  fa.  E  io  gli  risiiosi,  che  io  credeva  fermamente,  come  sempre  credo,  essere  per  es.  il  latino  eqvo-  in  tiitto 
'  e  per  tutto,  e  perciò  anche  nella  varia  determinazione  delle  sue  vocali,  più  genuino  che  non  il  sanscrito  at^va-. 
'  Confesso  anche  di  avere  più  volte  parlato  in  iscuola  di  qualche  mia  ipotesi  embrionale,  concernente  le  traccie 
'  delVo  nel  sanscrito;  eco.'  —  E  poiché  accade  che  qui  ci  fermiamo,  sia  pur  per  contraddirgli,  a  questo  indimenti- 
cabile moderatore  della  nostra  disciplina,  voglia  Ella  accettare  anche  i  miei  ringraziamenti,  come  quelli  di  un 
vecchio  professore  dell'Università  italiana,  per  le  affettuose  e  nobili  parole  ch'Ella  dedicava  alla  memoria  dì 
Lui  ("Riv.  di  filol.,  XIV,  218-23).  Anche  nel  nostro  campicello  s'è  pur  troppo  avuto  lo  spettacolo  dell'adulazione 
che  s'  alternasse  coli'  irreverenza,  secondo  che  la  lusinga  delle  clientele  o  della  moda  seco  portasse.  I  vecchi  sa- 
lutano con  antico  orgoglio  ogni  nuovo  documento  che  attesti  come  anche  nella  giovane  Università  italiana  l'eser- 
cizio del  sapere  non  si  converta  in  un'industria  professionale,  e  come  sempre  vi  si  tenga  che  un'oncia  di  moralità. 
Q  anche  di  civiltà,  valga  più  del  sapere  universo. 

'  Mem.  dell'Ist.  Lomb.,  6  luglio  1365,  §  14  ecc.;  cfr.  KxThn's  Zeitschr.  XVII  261  sgg.  =  St.  crit.  II  131-39. 


—  456  — 

se  qui  vogliamo  rapidamente  ricordare  qualche  esempio  dimostrativo,  sono  isomorfi 
tra  di  loro:  sscr.  dlid-ma-ti  e  dhd-va-ti  egli  soffia  (per  la  significazione,  vanno  in 
ispecie  confrontati  i  riflessi  slavi);  e  il  secondo  esemplare  ci  porterà  a  queste  altre 
figure  indiane:  perf.  dudhdva,  intens.  davi-dhdva;  prtc.  dhu-ta  dhu-ta;  prs.  dlm-nmi'ti 
dhu-nau-ti;  nel  quale  presente,  se  vogliamo  dare  per  disteso  il  substrato  etimologico 
e  prescindere  per  ora  dalla  genesi  del  'carattere  di  classe',  avremo:  dha-va-ì-nu.  Pa- 
rimenti sono  isomorfi:  sscr.  drd-ma-ti  e  drd-va-ti,  egli  corre,  onde  dudràva  e  dritta; 
ssor. Ja-ìiia-ti  e Jduti  * ja.~Ya.-ti,  egli  costringe',  \)Ytc.  juta;  sscr.  na-ma-ti,  gr.  véosi, 
lat.  -ìiuit  (che  in  figura  indiana  sarebbe  navali),  nùtus.  Se  il  ptc.  sscr.  gru-ta  {cru  udire) 
ha  accanto  a  sé  il  perf  cu-crava  o  l'astr.  cravas,  nonne  sarà  vocal  fondamentale  Vii, 
o  r w  {eruditi  ■id.bd-.),  ma  partiremo  da  craua-  o  anzi  da  *c[a]ra-va-,  dov'è  quel  car  che 
normalmente  si  riduce  (checché  dica  lo  zendo)  allo  cr  del  pres.  qr-naii-ti.  Di  simil 
guisa,  non  è  u  od  a  la  vocal  fondamentale  del  sscr.  c«-?i«  rigonfio  (cfr.  gr.  xuso)),  ned 
e  un  i  nel  fondamento  di  -Qvajant  rigonfiantesi,  ma  si  parte  da  gava-  (cfr.  l'astr.  cavas), 
che  dall' un  canto  dà  cu-na,  come  dJiava-  diede  dhu-ta,  e  dall'altro  dà,  per  ulteriore 
combinazione,  q[a\va-ja,  così  come  car  diede  c[a\ra-va.  E  l'i  od  l  dei  sscr.  ksi-nau-ti  egli 
distrugge,  maltratta,  ksl-ja-tai  egli  è  distrutto  ecc.,  resulterà  ugualmente  base  illuso- 
ria dell'  ai  (nj)  di  uno  kìajati  o  del  ptc.  caus.  ksajita  ;  e  il  vero  sarà  che  "ksa-Ja-ti  sia 
un  isomorfo  ài  *ksa-na-ti  {ksan  offendere,  ferire).  Si  potrebbe,  com' Ella  sa,  indefini- 
tamente continuare;  ma  per  ora  basti  soggiungere,  che  siccome  pur  va  (del  pari 
che  av)  si  riduce  ad  u  u,  e  cosi  ja  (del  pari  che  qj)  ad  ~t  i,  ne  viene  che  in  realtà 
sieno  a  uno  stesso  livello  fonetico  ed  etimologico  i  quattro  esemplari  tipici  uktd  {vac), 
istd  (jag);  drutd  (drav),  krfd  (kar).  Ma  se  poi  accade,  che  I'm  proveniente  da  va,  o 
Vi  jproveniente  da.ja,  s'alternino  con  au  ed  ai,  avremo  allora  un  vero  movimento 
ascendentale;  e  così  in  angha  (vah-,  uh-),  in  haimanta  yt'.'^'J.  (allato  a  "^ìijama  Mina; 
cfr.  St.  crit.,  II  131  237;  Lez.'178),  o  uell' inf.  vaiddìmm  trafiggere,  da  vidh-vjadh. 
Medesimamente  sarà  ascendentale  il  movimento  in  tid  taidajati  toUit,  o  in  sidh  siiai- 
dha  nactus  est,  qual  pur  sia  il  preciso  modo  di  raddurre  tid  al  più  organico  "'tal  o 
sidh  a  sddh  (cfr.  Mem.  Ist.  Lomb. ,  1.  e,  §  22).  E  pur  qui  si  potrebbe  indefinitamente 
continuare  ". 


'  Cho  poi  si  rivedeva  in  jau-ga  jug,  ib'.  §  16;  ofr.  jau-dlia  judh,  ib.  §  21. 

'  Le  percezioni,  che  in  x)arte  qui  si  ricordano,  er.ino  conseguite  mercè  un'indagine  che  s'aggirava  intorno 
al  solo  organismo  ariano  e  son  di  continuo  cimentate  e  allargate  per  la  illustrazione  speciale  di  codesto  orga- 
nismo. È  vero  tnttavolta,  eh'  esse  trovarono  applicazione  anche  in  certe  indagini,  le  quali  vanno  di  là  dal  mio  in- 
segnamento academico  e  dai  conilni  dell'arianesimo.  Di  che  non  mi  pento,  e  anzi  è  tutt' altro.  Ma  una  partico- 
lare soddisfazione  mi  viene,  il  confesso,  da  un  consentimento  curiosissimo,  di  cui  'por  vìa  tacita'  mi  rallegra,  in 
ordine  agli  ardimenti  ' ariosemitiei  '  un  valoroso  'Neogrammatico',  il  Moei.lf.i:  (in  Paul's  Beitr.  ■/..  gesch.  d.  deutsch. 
spr.,  Vn  492):  'Die  nrspriingliche  gestalt  dor  indogermanischen  wurzel,  d.  li.  natiirlich  des  indogermanischen  wor- 
'  tes,  genauer  nomens,  war  die:  dio  wurzel  war  zwoisilbig  mit  innerem  vooal  a  und  auslaiitendem  vocal  a,  nach 
'  den  consonanten  bilittei'al  wie  B'aRa  triiger  [dio  aspiraten  gelten  als  einfaehe  consonanten,  ebenso  im  anlant 
'  »  -t-  cons.;  im  semitiscben  kann  moglieherwoise  ein  in  historischer  zeit  unerhortes  alteres  anlantendes  si'  .5«  sp  zu 
'  k  t  x>  geworden  sein;,  oder  trilitteral....  wie  IhiUCa  blicliend,  VaWa  sehond,  DalVa  ind  DIaVa  gliinzend,  hinimd. 

'  DaMAa  biindigend  (diese  trilitteralon  waron  noch  friilicr  drcisilbig,  drci  a  enthaltend,  garacn,  rryada,  dajani ).  ' 

Cfr.  p.  e.  St.  crit.,  II  54  sgg. 


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Le  considerazioni  fonologiche  già  ci  lianno  cosi  portato  alla  morfologia,  e  a  que- 
sta restiamo ,  toccando  primamente  del  lavoro  del  Brugmanu ,  con  cui  s' apriva  la 
serie  dello  Morpliologische  witersudumgen,  concernente  la  costituzione  dei  verbi  del  tipo 
che  sanscritamente  è  miià  prò,  psà,  e  d' altri  con  la  stessa  uscita  vocale,  che  per  lui  in 
tutti  codesti  tipi  è  un  suffisso  a  (inna,  p.  e.,  sarebbe  mii  da  man,-j-a).  Ora  io  vorrei 
chiedere,  qual  novità  qui  s'abbia  nel  modo  d'indagare  o  di  provare;  e  credo  per 
certo,  che  l'egregio  autore  mi  dovrebbe  rispondere,  non  ce  n'essere  veruna.  Ma  s'ha 
qui  almeno  una  resultanza  apodittica,  o  pure  una  di  quelle  dimostrazioni,  che  se 
addirittura  non  persuadono,  pajan  tali  tuttavolta,  da  non  si  poter  facilmente  impu- 
gnare? Davvero,  nemmeno  questo,  sebbene  ognuno  debba  ammettere,  che  il  lavoro 
del  Brugmann  ha  tutti  i  pregi  e  le  attrattive  di  una  bella  esposizione  metodica,  e 
resta  perciò  sempre  utile,  quando  pur  non  convinca.  Tra  gli  'adepti'  stessi,  non  è 
punto  ferma  la  fede  in  cotesto  'd  di  Brugmann'  ';  e  io  confesserò,  che  le  mie  nuove 
fatiche  intorno  al  problema  che  qui  si  tocca  e  va  tra' più  ardui,  non  mi  dissuasero 
ancora  dall'  antica  credenza,  secondo  la  quale  d' altro  non  si  tratta  (per  il  tipo 
mnà  prci  o  psci,  il  solo,  a  ben  vedere,  onde  sia  questione)  se  non  di  antichi  temi 
sul  tipo  mana,  che  si  contraggano,  per  ragioni  accentuali,  in  miia  pra  ecc.  (cfr. 
"cava-ca  in  crava  e  simili,  nelle  basi  di  cui  testé  si  ragionava;  o  il  sscr.  -ghia  alla 
fine  dei  composti,  zendo  (jìiua  -glina,  allato  al  verbo  sscr.  haìi=gììan),  i  quali  mono- 
sillabi in  -a  resultando  alieni  dal  sistema  generale  dei  temi  verbali  indoeuropei, 
son  proceduti  alla  nuova  suffissione  di  un  -a  tematico,  e  cosi,  pur  formando  una 
categoria  di  temi  legittimamente  specifica,  come  per  la  particolare  fermezza  del- 
l'«  (-è  ecc.)  è  sempre  manifesto,  son  tuttavolta  potuti  ricadere  in  grembo  all'ana- 
logia estrinseca  di  ihd  bhd-ti  splende,  pd  pd-ti  custodisce,  va  vati  soffia  (cioè  origi- 
nalmente bha-a  ecc.)  '.  Ma  naturalmente  ci  vuole  altro  posto  per  così  ardue  e  scabre 
discussioni. 

Un  altro  studio  morfologico,  inserito  dal  Brugmann  nello  stesso  volume  (p.  187 
sgg.),  tendeva  a  provare  che  il  passivo  indo-irauo  sia  un  denominativo  del  'partici- 
pium  uecessitatis'  in  -Ja,  e  così,  p.  e.,  drgjdtal,  è  veduto,  consti  di  dvi^a  videndus, 
visibilis ,  più  r  esponente  personale.  Qui  può  parere  presunta  o  presumibile  una  certa 
novità,  per  ciò  che  si  rinunzii,  in  tesi  generale,  a  cercar  la  significazione  intrinseca 
dei  fattori  morfologici,  e  si  rinunzii,  nella  tesi  speciale,  a  veder  nel  fattore  del  pas- 
sivo un  verbo  che  dica  'andare'.  Senonchè,  pur  lo  Schleicher  non  vedeva  più  un 
verbo  nel  derivatore  del  passivo  indoirano  (né  il  Brugmann  ciò  dimentica),  e  di  qua 
dall'Alpi  son  più  di  vent'  anni  che  s' oppugna  largamente  la  tendenza  a  cercar  nei 
substrati  morfologici  la  somma  etimologica  della  significazione  delle  forme,  soste- 
nendosi all'incontro  che  il  pensiero  sia  variamente  condotto  ad  immettere  in  tali 
substrati  quel  che  la  materia  punto  non  darebbe.  Ma  per  restare  al  passivo  indoirano, 
si  domanda  ancora,  dopo  aver  negata  la  novità  nell'ordine  teorico,  se  qui  v'abbia 


'  Cfr.  HilBSCHMANN,  ludog.vocals.,  181  s<jg-.clie  mi  rispaimia  di  citare  i  luoghi  del  De  Saussure  e  delI'Osthoff; 
ma  di  quest'ultimo  autore  giova  aggiungere;  Perf.  622-23. 

"  Sia,  per  maggior  chiarezza,  segnato  rapidamente  un  esempio:  bbasa  bd-psa-ti i)sa-a-ti. 


—  458  — 

almeno  una  vera  scoverfca,  qual  pvir  sia  la  ragione  fondamentale  da  cui  l'indagine 
era  promossa  e  diretta.  E  la  risposta  dovrà  qui  pure  tornar  negativa.  È  uno  studio, 
pur  questo,  ben  nitido  e  cauto,  anzi  meticolo.so;  e  vi  si  riagita  il  dubbio  singolare, 
se  le  desinenze,  che  primamente  spettarono  al  passivo  iudoirano,  fossero  le  attive  o 
le  mediali.  Ma  come  mai  avviene,  che  il  Brugmann  non  si  fermi  al  fatto,  che  il  J« 
del  passivo  indoirano  si  limita  al  tema  del  presente,  o  anzi  appena  avverta  (p.  205) 
questo  fatto  decisivo':'  Un  perfetto  passivo  o  un  aoristo  passivo  dell' indoirano,  privo 
com'è  del ja,  non  sarebbe  mai  realmente  esistito,  se  non  avesse  avuto  le  desinenze 
mediali.  E  la  verità  dovrà  intanto  per  me  assai  naturalmente  restare  quella  che  da 
più  di  vent' anni,  da  buon  'analogista',  io  vado  insegnando,  ed  è:  che  la  significa- 
zione passiva  era  in  origine  portata  dalle  sole  desinenze  mediali,  come  sempre  è  nel 
greco  per  l'intiera  conjugazione  e  sempre  per  l' indoirano  all' infuori  delle  formo  pre- 
senziali; che  neir indoirano  s'è  analogicamente  stabilita,  in  ordine  al  passivo,  un'al- 
ternazione categorica,  tra  il  tema  presenziale  e  quello  delle  altre  parti  della  conju- 
gazione, alternazione  foggiatasi  sopra  quella  dei  verbi  di  quarta  classe,  perchè  in 
qiiesta  emergevano  dei  verbi  intransitivi,  cioè  di  ragion  rimota  dall'  attivo  ;  e  che 
r accentuazione  del  passivo  (clrcjdtai)  sia  propriamente  l'accentuazione  originale  della 
quarta  classe,  la  quale,  se  ora  è  rizotonica  {òndh-ja-tai;  ma  sempre  restano:  mri-jd-Ud 
dhri-Jd-iai),  non  deve  cosi  essere  stata  nelle  origini,  repugnando  a  quest'accentua- 
zione lo  stato  della  radice,  ma  deve  avere  assunto  la  sua  attuale  accentuazione  per 
il  doppio  stimolo  dell'  analogia  prevalentissima  della  prima  classe  e  della  naturai  ri- 
pugnanza a  mantener  l'identità  di  forme  non  passive  con  le  passive,  agevolandosi 
anche  il  trapasso  dell'accento  per  virtù  di  coppie  sinonime,  come  trdsati  trd-yatij 
bhrdmati  hhràmjati  '. 


'  Qui  naturalmente  si  accenna  con  tutta  brevità,  e  non  si  fauno  vere  esposizioni,  né  occorre  farle.  Superfluo 
cosi  soggiungere,  che  io  non  trascuro ,  p.  e,  il  §  77  del  lavoro  di  Benfey  sul  r.  E  solo  per  la  storia  della  dottrina 
a  cui  sempre  m' attengo,  e  non  già  per  contrapporre  vecchi  sbozzi  a  quanto  ji.  e.  si  trova  nei  limpidi  e  ricclii  pa- 
ragrafi della  grammatica  di  Wuitney  (759  a  775),  mi  farò  lecito  ripetere  le  righe  in  cui  io  presentava  questa  genesi 
del  passivo  indoirano  sin  dalla  ìlcmoria  del  1865  (§  20);  dove  è  d'uopo  ricordare,  per  l'inti-lligenza  della  terminolo- 
gia, che  in  quel  lavoro  io  tra  l' altro  attendeva  a  mostrare,  come  a  fondamento  dei  '  tempi  generali  '  pur  s'  avesse 
nelle  origini  un  tema  verbale  del  tipo  baudlia-  o  tiuìa-  (tipo  di  'prima-sesta  ');  e  che  nn  tipo  corno  d-jd-ti,  egli 
taglia,  portava  in  qirello  studio  il  nome  di  'formazione  primaria',  quando  all'incontro  uno  come  as-Ja-ii  (e  cosi  i 
congeneri  dello  altre  'classi' sanscrite)  vi  portava  il  nome  di  *  formazione  secondaria'.  Ora  dr^nque  la  citazione: 
•■  La  storia  che  facemmo  delj«  di  quarta,  già  disse  al  lettore  che  noi  non  vediamo  in  questo  'carattere'  alcuna 
,»  originaria  efficacia  passiva.  La  quarta  classe  lo  ha  bensì  comune  col  passivo,  e  non  dimentichiamo  come  tra  i 
»  verbi,  che  si  attribuiscono  alla  quarta,  abondino  i  neutri.  Ma,  all'evidenza  della  storia  da  noi  descritta,  vengono 
>■  ad  aggiungersi  i  fatti  ohe  seguono:  1"  nei  'tempi  generali'  questo  carattere  manca,  si  alla  'quarta'  e  si  al  pas- 
"  sivo,  e  la  significazione  non  se  ne  risente;  —  2"  nel  greco  s'ignora  questo  Ja  di  passivo,  né  potrà  sostenersi  che 
»  altrove  si  rivegga  nell'Europa;  —  3»  un  gran  numero  di  transitivi  eoi  Ja  (tra  i  'primarj'  in  ispecic)  viene  a  con- 
.>  testargli  ogni  valor  passivo  {ch-Ja-ii  sciudit  ;  dha-Ja-ti  bibit;  slv-ja-fi  suit....).  —  Conviene  quindi  concliiudore:  che 
'^  nel  ijassivo  sanscrito-zendico,  cosi  come  nel  greco,  la  signìficaztono  passiva  (o  veramente  riflessiva)  stìasi  unica- 
f  mente  nelle  desinenze  personali;  —  che  se  il  sanscrito  ci  offre  nel  suo  passivo,  con  una  uniformità  che  gli  parve 
-  ntile  o  che  il  greco  ci  mostra  non  necessaria,  un  tipo  di  'prima-sesta'  nei  'generali'  (tu-tuda-i),  allato  a  quello 
■  di  'quarta'  cui  riduce  tutti  i  verbi  negli  'speciali  '  (tudja-i,  badìija-i,  ecc.),  egli  segue  in  questa  innovazione  l'.ina- 
.  logia  di  tutto  lo  'formazioni  secondarie';  —che  la  scelta  del  tipo  tudja  deve  essere  stata  determinata  dalla 
<■  anteriore  presenza  di  parecchi  neutri,  foggiati  sullo  stesso;  —  e  che  più  tardi  il  Ja  venne  naturalmente  a  accompa- 
>  gnarsi  a  verbi  neutri,  e  anche  ringoi  ad  impartire  la  significazione  neutrale.  »  — Qui  poi  facilmente  si  annode- 
rebbero delle   osservazioni  abbastanza  curiose,  concernenti  la  storia  dei 'portatori' del  significato  nello  forme 


—  45!)  — 

E  per  toccavo  pur  delle  altre  categorie  di  resultauze  morfologiche,  la  serie  delle 
percezioni,  nella  quale  entra  la  dichiarazione 'oi'raai  antica  del  -n-  che  s' insinna  in 
genitivi  plurali  indoiraui  come  gatdnum  ecc.,  hcn  potrà  essere  indefinitamente  pro- 
lungata; ma  non  sarà  di  certo  per  virtù  di  alcun  assioma,  o  nuovo  o  rinnovato.  Lo 
stesso  dovrà  manifestamente  ognuno  ripetere  per  l'accrescersi  della  serie  dei  temi 
digradativi  {-vas  -us;  ecc.).  Nessuna  rivelazione  di  teorie  nuove  è  a  noi  parso  impor- 
tare la  dichiarazione  'analogistica'  dell'esponente  greco  -Tato,  quando  pur  c'era  ben 
chiaro  tutto  qiianto  seco  portasse,  anche  nell'ordine  generale  delle  cose,  una  dimo- 
strazione di  quella  specie  in  una  lingua  com'  è  la  greca  e  in  un  sistema  quale  è 
quello  della  comparazione,  dove  son  tutti  limpidamente  primitivi  e  -kdv  e  -lozo--  e 
-rspo-c'.  Che  se  finalmente  vogliamo  ancora  dar  cenno  delle  indagini  'glottogoniche', 
le  quali  del  resto  già  rasentammo  nel  cimentar  le  dottrine  intorno  al  movimento 
delle  vocali,  è  chiaro  che  il  volerle  più  o  meno  sobrie  non  è  cosa  che  dipenda  da 
alcun  principio  0  vecchio  o  nuovo,  com'è  chiaro,  che  nell'insegnamento  academico 
non  se  ne  debbano  istituire  se  non  con  grande  parsimonia  e  solo  in  ordine  a  quegli 
addentellati  da  cui  penda  manifestamente  la  intelligenza  di  fenomeni  che  son  vitali 
nel  linguaggio  come  s'agita  nella  realtà  della  storia.  Chiaro  è  del  resto  ancora,  che 
s'offende  in  varj  modi  il  vero  e  il  giusto,  quando  si  trascurino  o  s'offuschino  le  di- 
stinzioni, naturali  e  legittime,  tra  questa  parte  della  disciplina,  in  sé  e  nelle  possi- 
bili sue  esplicazioni  o  resultanze,  e  le  altre  x^arti  e  i  progressi  loro.  Poiché,  a  cagion 
d'esempio,  ognun  vede  o  dovrebbe  vedere,  che  se  intoxmo  alla  genesi  delle  due  forme 
che  nel  sanscrito  suonano  mahjam  (mihi)  e  bharanti  (ferunt)  si  può  aver  divagato  o 
mal  ragionato  e  a  ogni  modo  sussistano  dei  dubbj  o  screzj  ben  legittimi,  la  storia 
all'incontro  delle  figure  grandemente  numerose  e  varie,  che  nel  tempo  e  nello  spa- 
zio rispondono  alla  sostanza  di  quelle  due  forme,  s'è  rifatta  e  accertata  per  guisa  da 
entrar  degnamente  nel  novero  delle  cose  scientificamente  acquisite;  le  quali  cose, 
sempre  limitandosi  il  nostro  discorso  alla  sola  storia  della  parola  ariana,  si  contano 
ormai,  è  bene  ripeterlo,  e  si  contano  da  un  pezzo,  proprio  a  milioni,  e  formano  la 
suppellettile  stupenda  di  una  dottrina  per  molte  gtiise  mirabilmente  efficace.  Del  ri- 
manente, nessun  vorrà  negare,  che  in  fatto  di  ricostruzioni,  specie  delle  desinenze 
personali,  lo  Schleicher  e  alcuni  suoi  seguaci  procedessero  davvero  con  singolare 


grammaticali.  Se  cosi  noi  sosteniamo,  clie  nel^Vt  indoirano  non  risedesse  il  valore  passivo,  ma  bensi  nelle  desi 
nonze  mediali,  avviene  più  tardi,  che  il  pali  o  il  pracrito  riducondosi  alle  sole  desinenze  attive,  ottengano  il  pas 
sivo  per  il  solo  Jn,  cioè  per  un  elemento  non  passivo,  e  anzi,  più  e  più  volte  ,  solo  per  l' effetto  di  mi  Ja  che  è  tra 
montato ,  come  p.  e.  in  lahhhati  labliài  (St.  crit.,  Il  330),  dove  è  bbh  =  blij  (sscr.  lubhjatal).  Data  ima  serie  prevalente 
con  simili  ositi  della  base  antica,  si  potea  venire,  in  iin  idioma  ariano,  alla  normale  espressione  del  passivo  per 
mera  gemin.azione  di  un  'suono  radicale  ',.  e  insomma  a  una  flessione  di  '  maniera  semitica',  con  questo  di  sopras 
sello,  che  la  causa  della  geminazione  punto  non  importasse,  nelle  origini,  alla  esjiressione  del  passivo! 

'  So  grado  al  Bruomann  di  aver  cosi  strenuamente  difesa  la  mia  dichiarazione,  ìlorph.  unicrs..  Ili  68  sg, 
cfr.  II2-19.  Cosi  a  me,  dopo  quello  che  già  accennai,  per  la  parte  celtica,  in  nota  a  p.  70  della  Lelt.  tjlott.  del  1881 
non  resta  da  dire  pressoché  nulla  contro  1'  articolo  di  Bezzenbf.roer,  e  spero  ormai  sciolta  ogni  dubbiezza  anche 
per  U-.  Meter  (Grieoh.  gr.,  §  891).  Mi  permetterò  piuttosto  di  avvertire ,  che  la  dichiarazione  è  ancora  assai  più 
vecchia  della  scrittura  in  cui  pubblicamente  si  mostrava  (1876),  poiché  io  ne  parlava  a  Johannes  ScHMmT  (che 
annuiva  sùbito)....  durante  la  sua  luna  di  miele!  Del  resto,  che  ormai  si  abusi,  in  ordine  tvl  greco,  delle  spiegazioni 
•morfosiucratiche',  non  mi  par  dubbio.  Cosi  G.  Meiee  avendo  con  molta  cautela  messa  innanzi  l'ipotesi  che  nel 


—  460  — 

dogmatismo.  Ma  è  egli  forse  cosa  niiova  clie  si  discuta  in  questa  parte  o  si  rineglii 
il  Maestro?  In  iin  sagginolo  del  1864,  noi  qui  a  Milano  volevamo,  come  vorremmo 
ancora,  riconosciuto  un  avverbio  (aderente  a  un  vocativo),  anzicliè  il  pronome  di  se- 
conda, nello  -(//;/  -x)-'.  d'imperativo  indoirano  e  greco;  e  in  uno  del  1865  mettemmo 
fuori  l'ipotesi,  die  la  terza  del  plurale  altro  non  sia  che  un  participio,  ipotesi  che 
sempre  vive  ancora  di  buona  vita  . 

4.  Arrivato  a  questo  punto  il  ragionamento  che  io  aveva  la  soddisfazione  di 
tenere  con  Lei,  m'  accadeva  di  avvertire  come  fosse  una  parte  molto  incresciosa 
questa  del  doversi  fermare,  quasi  in  ostilità  negativa,  contro  la  presunzione  dei 
rinnovamenti  teorici  che  la  nuova  '  scuola  '  abbia  portato,  quando  pur  sarebbe  tanto 
gradevole  e  proficuo  1'  accompagnarne  i  maestri  nelle  buone  resultanze  o  nelle  inge- 
gnose proposte  che  praticamente  son  da  loro  ammannite.  Ma  insieme  accadeva,  che 
dovessimo  avvertire  \\ìi  che  di  tumultuario  o  precipitoso  pur  nelle  resultanze  più  o 
meno  mature  o  nelle  loro  applicazioni;  onde  viene,  in  più  incontri,  un  vero  sgo- 
mento. Di  certo  si  può  dire,  che  sia  un  vizio  generale  e  inevitabile  questo  di  cui 
ora  tocchiamo,  non  punto  circoscritto  alla  nostra  disciplina,  e  derivante  dalla  lena 
affannosa,  dalle  vertigini  di  una  gara  affollata  ed  aspi'a,  con  che  oggi  si  procede 
nelle  esplorazioni  d'  ogni  maniera.  Tutta  volta,  1'  '  est  modus  in  rebus  '  non  dovi'ebbe 
poi  andare  addirittura  sbandito;  e  le  obiezioni,  mossemi  contro  dall'  Osthoff ',  a  pro- 
posito del  mio  articoletto  che  s' intitolava  dall'irlandese  cétbaith,  ci  offriva  fin' oc- 
casione abbastanza  buoira  e  abbastanza  singolare  per  esaminar  davviciuo  questo 
fare  vorticoso,  che  talvolta  '  ci  spaura'. 

Ecco  brevemente  l'antefatto.  Della  gran  famiglia  lessicale,  cui  appartengono  il 
sscr.  (jnmati,  il  lai  venit  ecc.,  non  s'  era  veduto  nel  celtico  alcun  riflesso  o  pressoché 
nessuno.  Nella  quinta  edizione  dei  '  Grundziige  '  del  Curtius  (1879) ,  il  "Windisch 
non  ha  verun  termine  celtico  da  mandare  con  ^aivc» ,  mostrando  egli  cosi  di  non  ac- 
cettare in  quella  compagnia  nemmeno  un  irl.  héim,  passo,  che  lo  Stokes  da  qualche 
anno  gli  veniva  suggerendo.  In  una  rapidissima  nota,  che  stava  a  pie  di  pagina  ed 
ebbe  poi  la  sorte  di  passar  di  punto  in  bianco  alla  condizione  di  un  distinto  artico- 
letto %  io  usciva,  alcuni  anni  dopo,  a  mostrar  che  [Baivio  ecc.  avevan  larga  parentela 
pur  nell'antico  irlandese,  dove  però  il  verbo  corrispondente  era  come  assorbito  dal- 
l'ausiliare, e  cosi  si  veniva  a  contessere,  come  in  unica  conjugazione,  coi  continua- 
tori di  bhava  e  di  giva.  Codesta  corrispondenza  celtica  io  riconosceva,  a  cagion 


Tiv  (li  jvi-%  Tcv--);  ecc.  s'abbia  come  fossilizzato  nn  antico  accusativo  *riv  (Griecb.  gramm.  §  437).  P  Osthoff  ne  fa 
poi  gran  caso  (Morph.  untei-s.,  IV  ■23.5  sgg.),  dimenticando  ttttt'  e  due  lo  zendo  cincm  ecc.  (ofr.  p.  es.  Lez.  di  fon. 
§  21;  e  .anche  Dutens,  Essai  sur  l'origine  des  exposants  casnels  en  sanscrit;  Parigi  1S83,  p.  90). 

'  Rendiconti  dell' Ist.  Lomb.,  16  dicembre  186i  (=Beitr.  di  Knlin  e  Scbleiolier,  voi.  V);  Meni,  cit.,  5  22.  Vedi 
ora  DE  Saussure,  Syst.  primit.  des  voyelles,  p.  190-91,  Tuurneysen  in  Kuhu's  Zoitschr.,  XXVU  180.  Il  Thurneysen  oei'ca 
inoltre,  ib.  176,  il  pron.  rifl.  sva  nella  desinenza  di  2"  sng.  imperat.  med.,  e  pure  a  ciò  era  pensato  in  quel  mio  sag- 
ginolo del  64. 

-  Dasjod.pmesens  von  inilon.  g'em,  in  Zur  aeschiclde  desper/ccts,  Strassburg  1S8J.  p.  505  sgg. 

'  Xote  irlandesi,  Milano  1883  (I.  cétbaith,  p.  3-14). 


—  4(31  — 

d'esempio,  in  dufórhan  evBniat,  allato  alle  voci  correlative  di  perfetto,  come  daror- 
lai  iu'-ruthórbasa,  o  al  passivo  diiforlnithe  veniretur;  e  cosi  in  cnt-chét-hanam  consen- 
timus,  allato  al  sostantivo  cJt-baith  opinione  (convenienza  intellettuale  ecc.). 

L'accoglienza,  che  questa  piccola  ma  curiosa  scoperta  ha  lùscosso  tra  i  celto- 
logi,  è  stata  molto  biiona.  Mi  asterrò  dal  citar  lettere,  non  destinate  alla  stampa. 
Ma  lo  Zimmer  (Kuhn'  s  "Zeitschrift,  XXVII,  pp.  469,  474)  ha  aderito  senza  ri- 
serve. E  lo  Stokes  andava  molto  più  in  là.  Non  solamente  or  si  vedono,  con  mia 
grandissima  soddisfazione,  nel  suo  'Old-Irish  Verb  Substantive' ',  cétbaith  e  cofchét- 
òanam  ecc.,  così  collocati  come  le  '  Note  Irlandesi  '  volevano,  e  cosi  ancora  tal  quale 
téssha'dh  e  cohaith  e  cuiòdins;  ma  si  aggiunge,  che  forme  come  duforhaithe  di  passivo 
(veniretur)  o  darorbai  di  perfetto  attivo,  e  simili,  vi  si  schierino  con  forme  di  pre- 
sente e  perfetto,  allo  stato  semplice,  nelle  quali  il  radicale  ba  appaja  senz'  altro  in 
funzione  ausiliare,  come  ha  -b  sit,  o  ba  fui,  e  molto  numerose  altre. 

Non  moverò  qui  all'insigne  celtologo  qualche  rispettosa  osservazione,  che  m'è 
suggerita  dall'  estensione  che  egli  viene  a  dare  alla  prosapia  irlandese  di  ba  (=  ori- 
ginario avA-).  Piuttosto  aggiungerò  qualche  altro  documento,  a  conferma  di  ciò  che 
s'è  incominciato  a  vedere  nelle 'Note  Irlandesi'.  Per  la  'solidità  relativa'  dell'ai 
di  cétbaith,  sia  così  mostrato  il  genitivo  cetbada  {aithirech  cìidtbada  MI.  98''5;  ni  aith- 
recli  cMtbada  98''2'')  e  insieme  il  derivato  nepli-ceibatai  'privi  di  senso',  ib.  130H, 
che  ben  si  combina  col  comchétbatti,  gì.  consentanea,  di  B.  Carls.  34''6.  Poi  sia  citato 
il  gruppo,  sfuggito  allo  Stokes,  e  per  noi,  com' io  credo,  eloquentissimo,  in  cui  il 
prefisso  è  con  la  solita  vicenda /rjss  o  frith.  Vi  abbiamo  : /cesiejisoTO  gì.  medetur  MI. 
125' 4  {cfv.  frismbia  gì.  cui  mederi  1912,  frisbia  gì.  medebitur  96''15);  frepaid  acc. 
sng.  remedium  123'3,  dofrebaid  gì.  remedio  58''4,  freptlii  nom.  pi.  123°4  (cfr.  nepli- 
repthae,  cioè  neph-frep-,  gì.  inmedicabile  SS'^IT,  nephreptaiiaigthe  gì.  inmedicabilem 
76*17,  arrufreptanaigthiisiur  gì.  medicatus  sum  103'^6  ');  dove  affermerei,  per  il  si- 
gnificato, un  'obviam  ire' =  'remediare'  '. 

Ora  vediamo  di  ordinare,  come  si  possa  meglio,  le  obiezioni  dell'  Osthoff,  e  ve- 
diamo come  si  possano  rapidamente  rintuzzare. 

I.  Ripugna,  per  incominciare  'ab  imis  fundamentis ',  ripugna  al  nostro  contrad- 
dittore, che  si  presuma  un  nucleo  g'a  a  fondamento  comune  di  verbi  come  g"a-a 
g'a-ma  g'a-na  (ire),  poiché  egli  abbia  già  incominciato  a  dimostrare,  e  abbia  il  pro- 
posito di  compiutamente  dimostrare  in  séguito,  che  tutto  si  spieghi  dall' ixnica  l'a- 
dice  g'ani  (g'em).  Veramente,  come  si  vede  meglio  ai  numeri  II  e  IV,  l'obiezione  che 
consiste  nel  negare  1'  esistenza  della  'radice'  g'd  (cioè  gd  del  lessico  sanscrito  e  dello 
zendo)  non  ferisce  in  modo  assai  diretto  le  ragioni  che  noi  sosteniamo;  ma  non  è 
tuttavolta  superfluo  lo  spenderci  intoi'no  alcune  parole.  L'  opinione  dell'  Osthoff  è , 


'  Kuhn's  Zeitschr.,  XXVIII  (1885),  55  sgg. 

'  Alle  iiltirae  due  forme,  sì  ritorna  in  nota  al  num.  IV. 

'  Non  dimentico  PrcTET  in  Kulin's  Zeitsolir.  V  4S,  che  a  oa;ni  modo  rappresenta  qui  pnre,  senza  alcuna  sua 
oljia,  una  fase  di  studj  ormai  bene  rimota.  Il  gen./i'ej)W(ft  ap.  WiNDisCB  s.  frepad,  ci  ricondurrà  ancora  a  -pnid. 
ìoè  a  tema  in  -/. 


—  4G2  - 

clie  il  sscr.  gà  altro  non  sia  se  non  nno  'stato'  di  gam,  in  quanto  la  'nasalis  sonans", 
a  cui  si  riduceva  Vani,  fosse  lunga,  e  perciò  si  l'isolvesse  in  «,  cosi  come  si  risol- 
veva, quando  era  breve,  in  <ì.  Se,  per  esempio,  gaUi,  andato,  contiene  un  gm  con  m 
breve,  ìngàtù,  movimento,  spazio  ecc.,  si  conterrebbe  all'incontro  un^»i  con  »i lungo'. 
Io,  per  verità,  non  mi  sono  ancora  saputo  coonestar  fisiologicamente  questa  genesi 
dell'»  di  gà  ecc.;  e  la  flessione  del  sscr.  gà  e  i  suoi  paralleli  lituani,  cui  ora  aggiun- 
geremmo i  celtici,  si  oppongono,  nell'ordine  storico,  a  codesta  dicliiarazione  (cfr. 
PoTT  II-2,  16;  HiiBSCHMANN  vok.  50-51  94  137).  Ma  i  'vecchi',  d'altronde,  non  si 
son  mai  peritati  a  riconoscere  1'  alternazione  sanscrita  di  a  con  an  {am) ,  com'  è  per 
esempio  in  khajatai,  passivo  di  khan,  dove  la  lunghezza  dell'  a  io  per  ora  confesso  di 
ripeterla  non  da  altro  clie  dall'  analogia  del  tipo  tràjatai.  Ned  è  nuovo  in  gramma- 
tica indiana ,  che  p.  e.  gàtra ,  membro ,  si  ripeta  da  gam  (cfr.  Benfey,  vollst.  gr.  §  409). 
A  ogni  modo  però,  se  pur  verrà  tempo,  —  di  che  io  dubito  assai,  —  in  cui  il  les- 
sico indiano  debba  espugnerò  il  verbo  gà,  ciò  punto  non  vorrà  dire  che  la  base  ga 
{g"a)  cessi  di  stare  a  fondamento  di  più  d'  un  verbo  per  'andare'.  Se,  a  cagion  d'esem- 
pio, così  non  esiste  un  tra  'tremare',  ciò  punto  non  toglie  che  tra  sia  la  base  co- 
mune di  tra-sa-ti  sanscrito  e  tre-mi-t  latino.  E  se  dovesse  andare  espunto  dal  lessico 
indiano,  come  può  parere  più  o  meno  improbabile,  il  verbo  Ica  '  amare',  non  punto 
inferito  dal  solo  pai'ticipio  kàjamdna,  ciò  non  escluderebbe  di  certo  che  sia  ka  la 
base  comune  di  due  verbi  per  'desiderare,  amare',  uno  dei  qi;ali  {kam)  ci  darà  il 
participio  cakamand,  e  l'altro  {kan)  una  voce  d'imperfetto  intensivo  come  ècàkunas. 
Si  fa  presto  a  dire  'antiquata'  questa  o  quella  percezione;  ma  non  si  elimina  alcuna 
verità  o  difficoltà,  per  ciò  solo  che  si  chiudano  gli  occhi  al  suo  cospetto. 

II.  Ma  [iatvto  e  venio  non  permettono  a  ogni  modo,  secondo  1'  Osthoff ,  che  si 
stabilisca  uno  g'ana,  poiché  veramente  il  verbo  greco  e  il  latino  presentino  il  fe- 
nomeno di  nj  da  mj,  e  cos'i  sempre  ci  mantengano  a  quel  g"am  che  è  nel  «y'am  indiano 
0  nel  gotico  qam  qiman.  Avremmo  cioè  il  tipo  ^g"am-ja  ridotto  a  gven-je  ecc. 

Il  modo,  col  quale  il  nostro  contradclittore  annunzia  e  compie  la  dichiarazione 
fisiologica  di  questo  avvenimento ,  non  può  non  causare  una  meraviglia  grandissima 
tra  i  veterani  di  questa  maniera  di  studj.  Poiché,  insomma,  altro  a  lui  non  toccava 
significare  se  non  questo,  che  anche  il  greco -e  il  latino  abbiano  ormai  a  entrare  in 

'  Sia  qui  lecito  annotare,  che  1'  affermazione  dei  quattro  'stati'  Ji  una  radice,  nou  lia  iu  sé  nulla  di  nuovo. 
Cosi,  per  accennare  a  una  raccolta  ben  larga  e  sistematica,  il  Corssen  poneva,  tra  ^V  iniiniti  esempj,  questo  clic 
segue:, /!«  Jlu  flou  flou  (vok.  I'  365);  tali  e  quali,  cioè,  i  quattro  'stati'  come  ora  i  "Noogrammatici'  porrebbero,  ma 
con  la  differenza  teorica,  già.  di  sopra  toccata,  che  il  Corssen  sempre  credesse  al  solo  movimento  ascendent.ale 
(//ew  ecc.,  day;»).  K  poi,  come  tutti  sanno,  tutt'  altro  che  nuova  l'affermazione,  che  le  forme  vocaliche  tanto  sieno 
più  ampie  quanto  più  le  rilevi  o  le  rilevasse  1'  accento;  né  alcuno  ha  mai  potuto  credere  che  non  fosse  atona  la 
vocale  che  si  dileguava  (j)(,  p.  es.,  fi&,])at)\  E  circa  allo  schematizzare  le  diverso  figure,  per  guisa  che  ?7j?,  a  cagion 
d'esempio,  s'abbia  a  dire  di  '  nebentonige  tiefstufo'  e  Vip  di  'unbetonte  tiefstufe',  ella  6  una  novità,  scio  non  isba- 
glio ,  la  quale ,  portata  a  sincere  parole ,  direbbe  questo  :  «  fij)  è  più  voluminoso  di  tip  ;  e  la  ragione  della  diversità, 
"  siccome  per  comune  cons  jnso  ogni  cosa  deve  pni-e  avere  una  ragione,  sarà  qui  anco;  a  nell'  acconto  o  nella  di- 
>>  pendenza  accentuale,  benché  ciò,  in  realtà,  più  non  appaja.  >  Ora,  nulla  potrebbe  esser  più  alieno  dal  mio  pen- 
siero che  il  negare  un'utilità  molteplice  alle  statistiche  più  accurato  e  meglio  r.agionate  di  quelle  che  il  Corssen 
o'imb.andiva.  Ma  quale  effetto  pur  non  devono  produrre,  in  ogni  pensatore  spassionato,  il  vanto  o  il  plauso  della 
'  scoverta  dei  quattro  stati  e  delle  loro  leggi'! 


—  4G3  — 

quel  gran  capitolo,  nel  quale  sfilano,  da  un  q\;arto  di  secolo,  le  fitte  serie  di  cui 
sono  l'appresentanti  notissimi,  pei' limitarci  al  neolatino,  l' istrorumeno  mneh(,ma,ce- 
dorum.  mia,  dacorum.  mici  =  amneUu  agnellus,  il  macedorum.  dumi  dormire,  il  na- 
polet.  sina  simia;  ecc.  ecc.'  Ora,  egli  è  gran  tempo  che  pur  si  parla,  e  anche  a  sa- 
zietà, delle  congruenze  tra  gli  esiti  clie  i  nessi  della  formola  cons.+j  presentan  negli 
itliomi  neolatini  e  quelli  che  il  greco  ne  mostra  sin  da  antichi  tempi  (v.  per  es.  Lez. 
(li fon.,  p.  143);  di  guisa  che  punto  non  ripugna,  'a  priori',  l'ammetter  nj  da  mj 
\mv  tra  i  Greci  antichi;  e  [3aivw  =  *iemJo  così  il  porremmo  tutti  facilmente  allato  a 
qualche  altro  esempio  che  per  questa  riduzione  si  cita  dal  greco  ",  se  appunto  il 
lat.  venia  non  ce  ne  distogliesse.  Poiché,  senza  qui  insistere  sulla  diversità  generale 
che  è  tra  greco  e  latino  circa  gli  effetti  del 7,  dov'  è  mai  un  principio  di  dimostra- 
zione per  cui  si  legittimi  nj  latino  da  «y?  L'Osthoff  punto  non  ci  dice  come  sia  che 
gli  vada  bene  questo  venio  =  ^'oemjo ,  quando  pure  abbiamo  intatto  il  mi  innanzi  a 
vocale  in  lamiae  gremium  cremici  vindemia  nimius  ojjtimius  Septimiìis  simia  ed  altri. 
Forse  pensava  che  1'  -io  di  derivazione  verbale  avesse  1'  /  consonante  e  cosi  non  fosse 
dell' -io  di  derivaziou  nominale?  Ma  può  egli  mostrarci  una  differenza,  nell'ordine 
della  'siuizesi',  tra  il  tipo  cupio  e  il  ii'^o  imncipium'ì  0  darci  una  prova  neolatina 
della  minor  forza  che  avesse  l' i  per  esempio  di  coriiun  ciconia  verecundia  (cuojo  cicoria 
vergofut),  in  confronto  di  quello  di  morior  fe«io=teneo  o  venio  (ìnuojo  teho  -yeiJo)?  E 
àidormio  che  fa  egli?  Crede  che  il  nesso  rm  impedisse  la  riduzione?  Non  dico  nulla''; 
e  trascorre,  che  mi  par  peggio,  a  confortarsi  con  due  casi  latini,  analoghi,  secondo 
il  suo  parere,  a  venio  da  vemjo,  i  quali  sono  quoniam  da  '"quom-iam  e  con-j  da  com-j  in 
con-jicio  e  simili.  Ma  che  mai  valgono  questi  esempj  per  1'  assunto  suo?  Son  tali, 
che  ognuno  di  leggieri  li  ammette,  perchè  si  tratti  di  composti  latini,  e  perciò, 
senza  dire  della  condizion  particolare  del  m,  finale  com'  egli  era  del  primo  membro, 
vi  si  contenga  veramente  un  j  iniziale.  Nessuno  ignora ,  come  resulti  diversa  l' ener- 
gia del  j  latino ,  secondo  che  egli  sia  iniziale  (e  interno  tra  vocali  :  majus  ecc.) ,  o  in- 
terno dopo  consonante  in  voce  scempia.  Può  bensì  avvenire,  per  determinati  acci- 
denti, che  i  due  diversi  j  coincidano  0  pajan  coincidere  nelle  continuazioni  neolatine 
(cfi'.  p.  e.,  nel  veneziano,  averzo  aperio,  allato  a  z'o^/o  jocus);  ma  la  differenza  normale 
è  sempre  quella  che  si  manifesta  nell'  italiano,  tra  giuoco  e  simili,  da  una  parte,  e 
scimmia  0  cicogna  ecc.  dall'  altra. 

Se  così  resulta  che  sia  un'ipotesi  infondata  quella  di  venio  da  vemjo  ',  è  poi  del 


'  V.  p.  es.  St.  crii.  I  (1861)  5S-9  60  71  77.  Arcli.  glott.  I  num.  104;  ma  in  ispecie:  MrKLOsiCH,  Bumun.  lauti.,  M,  II. 
G,  IV,  Rumun.  unters.,  I-ii,  6. 

=  Deve  parere  strano,  del  resto,  che  l'Ostlioff  non  si  fermi  a  domandarsi  oa  spiegare  al  lettore,  perchè 
s'abbia  noivós  =  ^ofjjos,  ma  all'incontro  rimangano  intatti'Jfiuio;  eoe.  La  ragione  pur  di  questa  differenza  vorrà 
stare  nell'accento,  xiivó;  contrapponendosi,  per  1'  ossitonia,  alla  solita  accentuazione  degli  aggettivi  in  -;  ;  ofr.  .St. 
crit.,  II  383. 

'  Il  m  della  formola  mj-f- voc.  esce  incolume  dal  periodo  latino,  e  tanto  ù  valido  pur  nelle  età  neolatine, 
die  .MJ  vi  produco  mbj;  cfr.  Diez  nel  less.s.  grembo.  Anche  la  risoluzione  francese,  che  è  in  ve ndancf e  ecc.,  proviene  da 
un  substrato  col  mbJ  (vindembla  ecc.);  altrimenti  saremmo  a  venrlnfiiie,  cfr.  virine. 

'  Valersi  di  Kuhx,  Zeitschr.  XI  31.5,  è  proprio  un  voler  fare  d'  ogni  erba  fascio.  —  |  Mentre  si  stampano  queste 
righe,  mi  è  riparlato  del  tentativo  di  suffragar  l' ipotesi  venio  =  *eemJo  mercè  il  jiaragone  del  lat.  litniiire  colle  voci 


—  464  — 

tutto  arbitrario  l'aiFermare,  come  fa  1'  Ostlioff,  clie  anche  l'osco  e  l'umbro  subissero 
in  questo  medesimo  verbo  la  riduzione  di  mj  ili  ni,  benché  l' i  più  non  si  vegga  nel 
loro  ben-,  e  cosi  l'infinito,  osco  od  umbro,  come  esempio  di  voce  presenziale,  s'abbia 
a  porre  '"beniuni.  La  verità  vera  è  all'  incontro,  che  «  le  verbe  venio,  en  osque  et  en 
»  ombrien,  a  la  forme  òe}io  »,  secondo  che  dice  il  Bréal,  il  quale  insieme  ricorda  che 
il  latino  ha  i  soggiuntivi  convenat  advenat  e  il  sostantivo  advena  '.  In  queste  voci  la- 
tine, così  come  nel  perfetto  veni,  o  nell'umbro  hencs  verrai  (cfr.  herìes  vorrai),  uel- 
1'  osco  cebmist  convenerint,  ecc.,  1'  Osthoff  vede  la  'diffusione  analogica'  del  n  che  V-io 
del  tema  di  presente  aveva  promosso,  acquietandosi  col  paragone  del  greco  y.a'.vco 
^  "y.a]jjoj  che  dà  xavcò  l'xavov  •nézova.  Ma  xaivco,  ammesso  pure  eh'  egU  sia  da  "viy'ijw, 
obbediva  alle  stringenti  analogie  di  ^aivco  ^avw  è^àv/jv,  [laivo^J-ac  [iavo5[j.c.i  è[j.avTjv, 
ZTEivoi  y.ivAo  sxTavov;  e  come  può  mai  reggersi  il  paragone  di  questo  fatto  con  quello 
di  un  veni  per  *vemi  ecc.  ?  Il  latino  anzi  si  compiace  dei  contrasti  che  la  evoluzione 
fonetica  produce  tra  presente  e  perfetto;  e  così  pono  (posuo),  che  anzi  èva  jmnio  nel 
linguaggio  popolare  (rum.  ^mt«,  ecc.),  ha  il  perf.  jsosut,  e  sevo  ha  sevi,  ecc.;  e  se  venio 
doveva  esorbitare,  1'  attrazion  più  naturale  sarebbe  d'  altronde  pur  stata  quella  di 
jjunio.  Sottriamoci  dunque  a  tutti  questi  artifizj,  e  riconosciamo  genuina  la  nasale 
di  ven-io  (e  di  patvcu)  e  di  ben-  dell'  osco  e  dell'  umbro ,  cui  appunto  s'  aggiunge  il  ben- 
deir  irlandese.  Pure  all'  Asia  è  anzi  probabile  che  s'  abbia  a  rivendicare  (/"ana  allato 
a  gama;  poiché  la  'regola',  secondo  la  quale  il  -m  del  verbo  sscr.  gam  si  ridurrebbe 
a  n  in  dgamna  gdnvahi  ecc.,  è  veramente  una  regola  che  par  fatta  per  questa  sola  serie 
di  forme;  cfr.  "Whitney  gr.  §  212  ".  Il  sanscrito  ha  i  due  verbi  sinonimi  )-rt?u-  e  raii-, 
per  'adagiarsi,  dilettarsi',  entrambi  esemplati  pur  nello'zendo;  il  primo  dei  quali, 
giusta  il  Brugmann,  generali  secondo,  per  via  di  un  ipotetico  *  rdm-ti  ed  altre 
forme  di  congiuntura  consimile,  onde  si  veniva  necessariamente  a  ^rdn-ti,  che  poi, 
sull' analogia  dei  temi  verbali  in  -«,  diventava  rdiìcifi  (sscr.  rancdi);  e  similmente 
'''gdrn-ti,  che  diede  il  sscr.  gdn-ti,  a\Tebbe  potuto,  secondo  lo  stesso  Brugmann,  finire 
in  \in  gemati^.  Orbene,  per  tali  vie  si  ottengono  di  certo  molte  cose;  ma  anche  si 
ottiene  la  congruenza  dell'italico  ben-  col  ben-  irlandese! 

III.  C'è  ancora  dell'altro.  Data,  si  dice,  una  formazione  irlandese,  che  davvero 
fosse  la  legittima  sorella  di  gvem-io,  o  poniamo  anche  di  g ven-io,  essa  dovrebbe  so- 

lìtuslave  ohe  rivengono  a  lem-  (cfr.  Pott,  Wurzeiw.,  uum.  665,  MiKLOsicrr,  Efym.  worterb.  ci.  si.  spraclicn,  1SS6, 
s.  lem).  Ma  Uiniaì'C  essendo  un  verbo  denominativo,  qui  più  clie  mai  fa  opposizione  la  serie  nominale  col  7;w'4-voc. 
intatto.  Un  *lamiuM  non  .si  riduceva  a  laiìium;  o  avrebbe  dato  *himi<irc,  come  vindemia  vùxUmìare.  Senza  poi  dir 
della  differenza  della  vocale,  e  anche  del  significato,  che  è  'frangere,  spezzare  rumorosamente',  nelle  voci  litu- 
slave,  e  'straziare'  nelle  latine.] 

'  Mém.  de  la  Soc.  de  Linguist.,  IV  (ISSI)  390;  cfr.  de  Saussc-ue  ib..  Ili  iiliO  u. 

'  Il  Biihler,  secondo  che  vedo  riferito  da  Stokos  (Colt.  Verb  Substaut.,  ed.  ingl.,  p.  1  n.),  appimto  porrebbe  le 
due  forme  radicali  sanscrite:  gain  e  gan.  Il  povero  et«,  venne,  dell'armeno  (cfr.  HyBsCH.M.«s,  Armcn.  stnd.,  I  2S  64), 
lo  lasceremo  in  pace,  per  ora.  E  gli  arm.  r/al  venire  (cui  servo  appunto  d'aoristo  eki  ecc.),  giial  irò,  ambulare 
(aor.  gnazi) ,  fermano  di  certo ,  per  la  loro  struttura;  ma  in  nessun  modo  si  possono  identificare  con  ija-  gcina-  di 
tipo  indiano  ecc. Se  ^  vi  continua  una  gutturale  originaria,  questa  sarebbe  gli,  e  così  si  toccherebbe  il  got.  gaggan  eco. 
(cfr.  Bkdgm-vsx,  Curtius'  stud.  VII  202-4;  Scul'lze,  in  Kuhn's  Zeitschr.  XXVII  l'.'ri,  vos  Finu.s-OEK,  ib.  433):  ma  anche 
questo  incontro  domanda  particolari  riserve. 

'  Kuhn's  Zeitschr.  XXIII  aSl  sgg.  [Cfr.  tuttavolta,  Morph.  unt.  II  2S7]. 


—  465  — 

nare  "bimlu  \'"hiìnini\,  o  poniamo  anche  "biniu  [^binim].  Lasciando  perciò  la  ragion 
della  nasale,  viene  a  dirci  1' Osthoff,  voi,  che  sostenete  un  -banim  =-venio,  incap- 
pate in  una  doppia  difficoltà,  poiché  dall' un  canto  non  si  vede  in  -banim  l'effetto 
che  del  'carattere  di  classe '  (-io)  dovrebbe  vedersi,  e,  dall'altro,  questo  vostro  -banim 
ha  una  vocal  di  radice,  che  non  si  appaja  bene  con  quella  di  venio. 

La  doppia  obiezione  non  ha  verun  fondamento;  e  deve  sinceramente  rincrescere, 
che  un  collega,  al  quale  ci  stringe  tanta  stima  ed  affezione,  ci  obblighi  a  confutare 
argomenti  di  siffatta  specie.  Io  naturalmente  non  mi  sono  mai  sognato  di  dire,  che 
nel  verbo  irlandese  si  continui  uno  gvan-ja,  ma  ho  sempre  parlato,  nel  modo  più 
chiaro  ed  esclusivo,  di  gvaka,  ed  anzi  ho  posto  i  temi  di  fase  preistorica:  canta- 
bana-  ecc.  (p.  10),  e  la  prima  di  presente,  in  fase  'di  età  romana':  catabanu  (p.  13). 
La  differenza,  in  altri  termini,  che  è  tra  il  tema  irlandese  e  il  latino,  riesce  la  stessa 
che  è  tra  il  tema  latino  e  quello  che  si  ricava  dall'osco  e  dall'umbro,  o  ancora  la 
stessa  che  intercede  tra  l' ipotetico  goemjo  e  il  sanscrito  gama-ti.  Nessun  di  certo  ne- 
gherà, che  dato  iin  beno,  osco  od  umbro,  non  debba  egli  tenersi  per  'legittimo  fratello' 
del  lat.  venia,  se  pur  nel  tema  presenziale  se  ne  differenza.  I  fratelli,  per  quanto  le- 
gittimi, non  sono  già  persone  tra  di  loro  identiche!  Quanto  poi  all'  «,  gli  è  sempli- 
cemente che  nel  caso  nostro  torna  opportuna  la  esemplificazione  per  forme  non  ri- 
zotoniche oppure  enclitiche,  le  rizotoniche  mancando  pressoché  affatto.  Altrimenti, 
la  serie  complessiva  o  teorica  degli  esempj  si  risolverebbe  in  una  serie  di  tipi  che 
le  nostre  fonti  non  danno.  Mal'«  di  cotcMtbanam  concéitbani  tésbanat  ecc.,  non  è  punto 
un  a  radicale;  é  non  altro  che  un'espressione  di  quella  vocale,  più  o  meno  incolora, 
che  la  radice  assume  quand'  è  postonica  ' ,  e  sempre  restiamo  a  un  irl.  ben-  =  ben- 
osco  ed  umbro  e  voi-  latino.  Giova  che  lo  stesso  fenomeno  sia  sùbito  mostrato  in 
quel  verbo  che  meglio  d'ogni  altro  si  presta  al  paragone.  E  ben,  pulsare:  benar 
gì.  pulsetur  MI.  93''16;  ma  in  postonica  lasse  atadrhan  cum  eos  impellat  65*14,  nach- 
amindarbanarsa  gì.  non  subjiciar  56*22 ,  indrbana  gì.  excluditur  73'^20  (allato  a  atat- 
dirbinedsu  gì.  te  impellat  8610,  indrhenlm  Sg.  146''10).  Non  può  essere  stabilita  con 
assoluta  sicurezza  la  vocal  radicale  di  co-sn-aim  contendo,  ad-co-snaim  (perf.  adrucliois- 
séni)  peto,  im-fre-sn-aim  adversor;  pure,  nessun  celtologo  esiterà,  io  credo,  a  gii;di- 
care  ugualmente  una  ' irrazionale  postonica'  l' a  di  adcosantae  gì.  peteretur  ]\I1. 115''13, 
mandandola  con  Va  del  sost.  imresan  contentio  e  altrettali.  Ma  di  più,  in  altra  oc- 
casione. 

IV.  Senonchè,  siamo  a  un'  altra  obiezione,  che  può  parer  seria,  e  forse  la  più 
seria!  Voi  volete,  dice  1' Osthoff,  che  il  -baith  di  cétbaifh,  sia  il  parallelo  di  pàot-?; 
ma,  come  il  Fick,  non  vi  accorgete  che  in  paci?  è  rappresentata  o  continuata  pur 
la  nasale  della  radice,  non  meno  che  nel  sscr.  gdti  s  o  nel  got.  ga-qiimth-s;  e  se  vo- 
lete la  stessa  forma  anche  nell'  irlandese  [varrebbe  questo  discorso  tanto  per  1'  ipo- 
tesi di  bem-,  quanto  per  quella  di  ben-\,  ve  ne  uscirà,  non  già  un  -baith,  ma  bensì 
un  béit  (cioè  *benti  con  t  :=  ut,  e  1'  i  introflesso). 

'  V.  ZiMMEK,  Keltische  studien,  II  136  segg.  A  pag.  91  della  stessa  scrittura,  lo  Zinimer  contrappone,  con 
bella  nitidezza,  un  rizotonico  *cUbeìmin  al  non  rizotonico  ni  cétbanam, 

59 


—  46*7  — 

Ma  qui  pure  è  da  rispondere  in  doppia  maniera,  non  diversamente  da  quello 
che  prima  ci  accadeva  per  la  supposta  riduzione  di  *-òeniu.  Poiché,  dall' un  cauto, 
e'  è  da  far  le  mai'aviglie  per  la  imputazione  che  da  noi  si  trascuri  la  dottrina  se- 
condo la  quale  [iiai-z  è  ^benti-s,  quando  è  pur  notorio  che  per  la  nostra  'scuola'  sta 
ben  fermo,  e  da  anni  parecchi,  non  altro  essere  un -tato  greco,  a  cagion  d'esem- 
pio, se  non  un  -tento  di  fase  anteriore;  senza  poi  dire,  che  di  -t-  irlandese  da  un  an- 
tico -mt-  o  -nt-  si  citavano  esempj  nella  stessa  scrittura  in  cui  era  discorso  di  cétbaith 
(p.  54,  testo  e  nota),  la  quale  anzi  incominciava  dalla  considerazione  di  cat  =  cant\ 
Dall'altro  canto,  l'irlandese  -haith  vi  era  fatto  perspicuamente  risalire  a  non  altro 
che  a  -BATi  (p.  5),  e  gli  eran  di  continuo  raccostate  delle  forme,  in  cui  la  radice  do- 
vrebbe anzi  esser  ridotta  al  solo  -h-  {fu-òe  for-he  ess-he  clc-be,  pp.  8  n.,  12,  13)',  senza 
poi  dire  delle  forme  di  passivo'  e  di  perfetto.  Era  dunque  affermato  un  ba  allato  a 
ban[a],  e  la  dimostrazione,  sin  dove  si  poteva,  n'era  data;  sicché  la  obiezione  di  un 
^benii,  che  dovesse  dar  ^bi'lt  e  non  baifh ,  cade  indarno  per  doppia  ragione. 

Poteva  e  potrebbe  piuttosto  andar  discussa  la  ragion  particolare  dell'  a  di  -baitJi, 
dirimpetto  alla  vocale  che  s'  accennava  indistintamente  per  a  nel  teorico  bati.  Non 
conosciamo  questa  voce  allo  stato  isolato ,  cioè  con  proprio  accento  ;  e  le  indagini 
intorno  alla  vocale  che  si  determini  in  postonica  non  sono  ancora  in  generale  tanto 
inoltrate ,  da  render  qui  facile  una  sicura  sentenza.  Il  quesito  si  può  formulare ,  per 
via  d' esempj,  cosi:  Se  -baita  portasse  il  suo  accento,  ci  darebbe  egli  1'  analogo  di 
flaith  potestas,  o  quello  di  cleith  clith  celatio?  Già  accennavo  nella  mia  vecchia  scrit- 
tura (p.  5)  alla  notevole  fermezza  che  Va  di  postonica  avrebbe  nel  caso  nostro;  e 
riprendendo  il  discorso  intorno  a  cétbaith,  ho  ritoccato  in  questa  Lettera  di  codesta 
fermezza.  Il  mio  pensiero,  più  intieramente  confessato,  è  anzi  questo:  che  tra  i 
Celti  si  alternassero  i  due  'stati  radicali'  bà  e  be,  alla  maniera  che  nel  latino  s'al- 
ternano, a  cagion  d'esempio,  sa  e  se  (satus  semen);  e  che  lo  'stato'  bè,  secondo  la 
sua  legittima  riduzione  irlandese  (bì),  si  continui  nel  bith  (=g-éti)  di/o  bith  'a  mo- 
tivo' (=per  via,  cfr.  il  ted.  toegeìi  e  gli  usi  del  sscr.  gati)-,  il  qual  tema  irlandese  ra- 


'  si  aggiungono  tor-he,  elio  v.i  con  for-he,  e  r  aitli-he,  di  cui  più  iu  là  ritooohiamo.  La  ragion  grammaticale 
di  codeste  voci  (dat./oc&n  ecc.),  le  manda  tra  i  temi  in  -io,  cfr.  Z.  761;  e  ritorna  ostinatamento  al  pensiero  il  lat.  clit- 
hio-,  che  è  però  un  'frutto  proibito'  in  tutta  1'  estensione  del  termine.  La  grammatica  suppone  un  antico  toma, 
spogliato  legittimjmento  della  primitiva  desinenza  (p.  e.  */orb),  il  quale  proceda  a  nuova  formazione.  Ma  avverrà 
forse  che  le  ragioni  storiche  portino  qualche  modificazione  a  questa  sentenza;  cfr.  crcJirc  defectus,  allato  a  »rin- 
cìirinat  deficìunt,  e  Windisch  gr.  p.  v:  e  §  382.  L'  altro  ben  ferire,  caedere  [v.  più  in  L'i] ,  dà  similmente  tóbe  excjsio, 
e  qualche  altro;  e  per  chi  pensasse  a  vedervi  nn  antico  nome  monosillabico,  passato  tal  quale,  più  o  meno  tardi, 
dalla  condizione  isolata  alla  composizione,  sia  avvertito  che  1'  'hibern.  vet.  ben,  be,  oaesio'  è  inZ.  37  come  un'enun- 
ciazione ellittica,  poiché  in  realtà  non  occorrono  codeste  due  voci  in  condizione  isoliita. 

-  La  saldezza  del  b-  di  bith  basterà  a  distogliere  il  pensiero  dall' armor.  eguit,  Z.  690.  —  Allato  a/o  bith  s'  ha , 
nelle  identiche  funzioni, yit  bU7iiìi  (fo  b-) ,  Z.  6B9,  MI.  Ili*  28,  129'  22,  139»  6,  cfr.  591  9;  onde  s'  ottiene,  in  ordine 
alla  formazione,  una  coppia  com'  è  quella  del  lat.  parti-  (pars)  allato  a  portion-  (portio),  o  dir^ùuis  allato  a  nòtion- 
(notio),  ecc.  C  è  anzi,  che  importa  non  poco ,  il  caso  parallelo  per  lo  stesso  -haith ,  poiché  por  questa  guisa  si  com- 
binano il  sost.  frepaith  e  il  tema  verbale  freptanaig-  (frith-bth-[t]in-ig-),  citati  qui  sopra,  a  p.  401.  Vero  è  ohe 
vorremmo,  per  la  piena  concordanza:  fnpihanaìg-;  ma  è  derivazione  seriore,  e  ripeto  il  suo  t,  anziché  ih,  o  dal- 
l'illusione che  tutto  intiero  il  suffisso  -Un  (nomin.  -tiu  -iu)  s'aggiungesse  a  -baith,  o  piuttosto  dall'analogia  degli 
altri  esemplari  congeneri,  in  cui  il  t  era  legittimo  {l.oltanaig  48''  6,  ecc.,  cfr.  Z.  775).  Cosi  dal  -baith,  ohe  riviene  a 
ben  caedere,  avremo  nitidamente  in  aptìdn  in  perniciem  Z.  800  {=\Vzb.  ed.  Zimm.  p.  102,  ed.  Stok.  p,  188),  allato  ad 
aplu  pernioics  74''  11.  —  Cfr.  hitli  =  guin ,  iu  n.  a.  p.  468.  —  Auoora  è  da  diro ,  cho  ognuno  facilmente  pensa  a  portare 


—  4G7  — 
senti  quello  clie  sta  a  fondamento  del  verbo  latino,  o  meglio  italico,  lè-t-ero  -bìtere\ 
Ma  comunque  di  ciò  sia,  nella  presente  realtà  del  linguaggio  è  innegabile  un  con- 
guagliamento di  vocali  tra  i  due  temi  verbali  diversi  (ban  ba,  ben  he)  ;  coni'  è  inne- 
gabile che  i  due  temi  tendessero  a  alternarsi  tra  loro  sull'analogia  dei  verbi  in  cui 
la  nasale  appartiene  allo  schietto  carattere  di  classe.  Così  non  ci  occorre  alcuna 
forma  di  ben  {-ban)  di  là  dai  confini  del  presente. 

Or  qui  io  devo  fare  un'  altra  confessione  del  mio  pensiero ,  la  quale  non  discon- 
viene alla  nostra  anticritica,  sebbene  questa  ormai  si  possa  dire  più  che  ricolma".  Io  credo 
cioè  fermamente,  che  il  verbo  irlandese  ben.^  pulsare,  caedere,  risponda  appieno  alla 
radice  che  è  nel  greco  s-:cs-'fv-ov  (e  vuol  dire  a  gh'an,  insieme  col  sscr.  han  ghiant 
e  lo  zendo  </«»)';  o,  in  altri  termini,  ci'edo  ch'egli  abbia  un  -n  di  'radice',  benché 
nella  presento  condizione  del  linguaggio  egli  noi  móstri  se  non  nelle  forme  presen- 
ziali, così  allineandosi  coi  verbi  che  rispondono  al  tipo  latino  cernere,  e  del  -ji  'radi- 
cale' più  non  s'abbia  chiaro  documento  se  non  in  béìm,  colpo  (=benmen),  cui  però 
sembra  aggiungersi,  dall' ant.  cimro,  il  part.  perf.  pass.  plur.  dubenetidon  (Stokes, 
Beitr.,  VII  404).  Questa  deviazione  morfologica  la  stimo  provocata  dall' alternarsi 
che  tra  di  loro  facevano  le  due  forme  radicali  ben  e  he  nel  verbo  che  va  con  jjotivw  ecc. 
I  due  verbi  coincidevano  istericamente  nelle  forme  presenziali  ;  e  cosi  p.  e.  in  cotcliét- 
banam  (conveniamo)  da  una  parte,  e  atadr-ban  (egli  li  rincacci)  dall'altra.  Assicurata 
com'era  la  differenza  dei  significati  per  la  diversità  dei  prefissi,  accadeva  poi  man 
mano  che  la  coincidenza  si  estendesse  analogicamente  anche  alle  altre  formazioni. 
Così  è  storico  il  perfetto  in  dorór-pai  (vénit),  e  analogico  in  doar-bai  (concìdit,  Sg. 
60''  18) ,  o  in  nachimrindar-2tai-se  (quod  non  me  reppulit)  ;  storico  l' astratto  -  baith ,  in 
quanto  vada  con  'venire',  analogico  in  quanto  vada  con  'caedere';  e  via  così  per  il 


alla  radice,  di  cui  il  testo  ragiona,  anche  l'ir!,  htth  mondo,  il  quale  sarebbe,  se  qui  davvero  spettasse,  un  pa- 
rallelo ideologico  del  sscr.  ijagat.  Ma  questo  bith  (tema  in  «)>  che  ha  un  i  iberno-britannico ,  non  potrebbe  rivenire 
allo  'stato'  (/"e. 

'  Questo  parallelo  conghietturale  sarebbe  qui  omesso,  se  appunto  non  avesse  l'intenzione  di  opporsi  indi- 
rettamente a  Osthoff,  in  Hiibsohmann,  Indog.  vocals.  190. 

-  Una  confutazione  dell'ipotesi  messa  innanzi  dall' Osthoif,  secondo  la  quale  nel  -bau-  di  tesbanat  ecc.  sa- 
rebbe il  correlativo  del  sscr.  bhàt  splendere,  apparire,  gr.  qsa-  ecc.,  venuto  a  conjugarsi,  come  nell'armeno,  sul 
tipo  di  nona  classe  indiana,  parrà  forse  oggi  superflua  allo  stesso  suo  autore,  che  del  rimanente  non  le  ha  mai 
dato  certa  importanza.  Senza  dire  che  Va  di  tesbau-  ecc.,  è  un  a  illusorio,  secondo  che  prima  ci  accadeva  di  mo- 
strare, rimarrebbero  rigualmente  enigmatici,  in  questa  ipotesi,  e  il  tipo/o?*/*;»  e  il  tipo  cltambctis.  Che  dir  poi  dei 
saggi  '  autocratici',  per  quaut'  è  dello  siguific.izioni?  L'  O.  traduce  cét-beiiim  per  'ioh  verstehe  '  (ma  dice  veramente 
'sentio') ,  e  la  radice  corrispondente  a  qj5-  gli  torna  a  meraviglia,  per  la  testimonianza  che  gliene  danno  xaTa-^avvi? 
(chiaro,  visibile),  ecc.  Senza  dubbio  alcuno,  un  aggettivo,  derivante  da  un  verbo  che  significhi  'risplendere,  ap- 
parire', dirà  naturalmente  'lucido,  manifesto'  ;  ma  come  inferir  da  ciò,  che  il  verbo  'risplendere,  apparire,  com- 
parire', abbia  a  significar  'sentire'  p  'intendere'?  Poteva  1'  0.  addirittura  ricorrere  al  nostro  sost.  parere  =' opi- 
nione' (cioè:  'quel  che  pare  a  me,  a  te,  ecc.');  onde  però  non  viene  che  'io  pajo'  o  'compajo',  possa  dire  .'intendo' 
o  '  opino'  !  E  mi  presumo  dispensato  da  ulteriori  'cimenti  semasio-logici'  per  foi'-benim  fris-benim  eco.  —  Del  ri- 
manente, il  legittimo  riflesso  irlandese  di  blm  ecc.,  o,  a  dir  meglio,  della  combin.izione  che  è  nel  \aX.  fti-t-eor,  s'ha 
nel  -hat  di  cia-du-sn-ad-bat  135'»  5  ecc.,  come  ha  correttamente  posto  lo  Zimmer;  e  lo  scrupolo  del  Windisoh 
(Curi.' 297)  mal  si  regge;  cfr.  p.  e.  célfaid. 

'  Naturalmente  io  non  dimentico  Wisdisch,  Kuhn's  Zeitschr. ,  XXIII  202-3  209  237,  J.  Schmidt,  ib.  XXV 
82  170-1.  Ma  il  secondo  fa  rrn  uso  che  non  mi  può  parer  cauto  dell' o  (u)  di  -yei/on-sa  ecc.;  né  il  primo  ha  presunto 
di  chiarirlo.  L'originario  gh'an  deve  aver  d.ito  all'irlandese  cosi  ben-  come  (/««-;  le  quali  due  forme  stanno  tra 
di  loro  come  p^vi  a  fgvti  (gvana);  di  che  altrove  si  riparla. 


—  4GS  — 

resto".  Una  coincidenza  isterica  si  sarebbe  anche  avuta  nella  forma  nominale  h(iim 
(=beumen),  clie  dice  'colpo',  secondo  che  testé  si  ricordava,  in  quanto  deriva  da 
BEN  pellere,  caedere,  e  direbbe,  secondo  la  chiosa  d'  O'Clery,  'passo',  offrendo  cosi 
una  derivazione  dall'altro  ben  (gradior,  gressus)'.  Questa  voce  Se'»» ,  in  una  sua  ap- 
plicazioiie  costante  e  curiosa,  por  la  quale  par  che  s'abbia  a  risalire  a  ben  pellere, 
ha  accanto  a  sé  il  sinonimo  aith-heiin^;  e  aitliheini  ricorda,  alla  sua  volta,  la  com- 
posizione analoga  che  é  in  aifhhe,  riflusso  del  mare.  Già  ci  accadde  toccare  del  -he 
nominale  (tobn),  che  s'ha  pm-  da  ben  pellere,  caedere;  e  avverrebbe  perciò  di  chie- 
dere, se  in  questa  composizione  sia  T'aqua  repulsa'  o  non  piuttosto  la  'remeans'. 
S'ha  un  aith-he  {-hi),  terza  persona  singolare,  il  quale,  se  è  veramente  di  presente 
indicativo,  come  Stokes  vuole*,  ci  riporterebbe  a  ba,  andare.  Ma  qui  incappiamo 
nella  pai'ticolar  complicazione  delle  forme  che  si  dissero  di  'aoristo';  circa  le  quali 
è  a  ogni  modo  assai  notevole,  che  la  maggior  parte  ne  rivenga  a  ben  pellere,  cae- 
dere'. Andranno  ora  ristudiate  codeste  forme,  con  riguardo  particolare  alle  loro 
attinenze  o  coincidenze  con  le  forme  dell'  ausiliare.  Manda  lo  Stokes  sotto  ba  anche 
oc«-&e</«er  contingetur,  MI.  53'^  17'';  e  di  certo  la  'contingenza'  o  il 'contatto'  può 
considerarsi  come  un  'incontro'  più  o  meno  brusco,  dove  i  limiti  ideologici  si  posson 
rappresentare  per  aaiJ.j3aiyto  e  'imbatto'.  Ma  \\n  altro  esempio,  ocuhiat,  non  serve  alla 
miglior  determinazione  dei  significati,  e  altri  due  ci  porterebbero  piuttosto  a  ben 


'  Quanto  al  part.  pass,  (foirbfhe;  bitlic  imili-blìie).  si  sa  che  ricade  in  quost' .analogia  aiwhc  fnr-rnnim  doceo: 
foircthe  IS^  4,  23''  12,  111*  27,  111'-  19,  foirctltì  68"  14,  132"  4. 

-  Notevole  anche  bith  =  guln  (ferita)  0'  CI.,  che  verrebbe  a  coincidere  col  bith  ili  fobith,  di  cui  dianzi  si  par- 
lava. Cfr.  la  nota  2  di  p.  466. 

'  AUudo  alla  combinazione  bCimfomis  (Z.  26S,  Sg.  138"  7,  MI.  131'-  14,  Wind.  s.  forus),  che  deve  dire  pressap- 
poco 'motivazione  di  sicura  intelligenza',  e  per  la  quale  in  MI.  94'-  13  è  aitlibeim  forais j  quasi  'nuova  motivazio- 
ne ecc.',  e  similmente;  aitìtbeim  forsindib  ciaìlaib  ecc.  56'*  37.  S'aggiunge  la  combinazione  antitetica  béim  foscdce 
Sg.  63"  15  {cechiar  ndi  foleUk  ceti  béim  foscdoì  innalaiìl,  che  traduco:  ciascuno  dei  due  a  parte,  senza  esser  motivo  di 
oscurità  in  ordine  all'altro).  Finalmente  considero  il  beim  ccnelach  ài  Z.  xli,  che  vorr,à  dire  'motivazione  (argomen- 
tazione) generalo'.  L" adinmentum '  o  'auxiliiim',  per  cui  sì  rende  questo  béim  in  Z.  xi.i,  26S,  dove  provenire  da 
0'lleillj%  ed  è  facile  intendere  come  la  'motivazione'  possa  farsi  o  parere  nn.i  'causa  che  agevoli'.  Ma  come  no 
iisciremmo  in  Sg.  63"  15  con  un  *  ajuto  d'ombra',  o  'di  oscurità'?  Penso  io  dunque  alla  serie  ideologica  'impulso, 
motivazione,  causa';  e  anche  si  piiò  forse  partire  da  'proiezione';  cfr.  bithe  gì.  iecta  123c  17.  Ma  sempre  rimarrà 
molto  curiosa  la  parificazione  béim  forais  =  céim  forais,  Stokes,  gì.  tvl  'Salt.air  na  rann',  per  la  qu.ale  ritorneremmo 
a  BES  g^c.vul  [Cfr.  TnuRSEVSEx,  Rev.  celt.,  VI  109]. 

'  Cai.  of  Ong.,  glossar,  s.  v.,  Kuhn's  Zeitschr.,  XXVIII  74. 

"  Cfr.  Z.  447  1090,  Stokes,  Old  Irish-Verb,  14-15,  e  gì.  al  'Saltair  na  rann',  s.  [biim],  Windisch  gr.  §  310.  Sieno 
qui  aggiunte  le  seguenti:  ocabiat,  cui  tosto  ritorniamo;  ni  lasse  etirriuìib  gì.  ncque  perimendo  123''  10,  nodufubi 
gì.  absoindet  93"7,  dufubaitis  'abscindantur  '  92' 6. 

"  Circa  l'ocii-,  lo  Stokes,  che  non  disponeva  se  non  di  questa  sola  forma,  viene  a  un' ipotesi  che  mal  si  regge. 
Abbiamo  un  o-cu,  die  s'alterna  con  o-c«hì  (o-cm),  la  .seconda  delle  quali  figure  occorre  in  esempio  che  avea  l'ac- 
cento suU'o.  Al  che  aggiungendosi  l'assimilazione  m^=mb,  si  viene  alla  molto  singolare  distanza  tra  la  forma  'en- 
clitica' :  nad  ocmanatar  (o-cum-banatar,  3.  pi.  pres.  pass,  cong.),  e  1'  'ortotonica'  ;  ocbendar  (1.  ocbcntar,  3.  pi.  pres.  ijass. 
ind.),  le  quali  occorrono  una  accanto  all'altra:  ni  nisndet  dd.  airmdia  he  insti  indi  nad  ocmanatar  hoihrogaib  achl  il 
ile  iusti  les  indi  ocubendar  hoUirojiaih  innati  ingratnman  eie,  'non  espone  Davide  che  sieno  (fossero)  giusti  coloro  i 
quali  non  sien  colpiti  (tang.antur)  da  miserie,  ma  son  giusti,  jier  lui,  quelli  ohe  sono  colpiti  (tanguntur)  dalle  mi- 
serio  delle  persecuzioni  ecc.,  54"  li.  Per  3.  del  cong.  vorremmo ,  a  rigore,  -bantar;  e  -boitatar  sarà  veramente  il 
-banat  deU' attivo,  più  V-ar.  —  Ma  la  prima  partedoU' oca-  di  oeii-ben-,  che  è  ella  dunque?  Di  certo  si  tratta  di  una 
combinazione  o  riduzione  molto  singolare.  La  costanza  dell' o  distoglie  dal  iionsare  ad  o-  {ita-),  senza  dir  della  re- 
pugnanza  del  significato  e  ilolla  m.ancanza  d' .altri  osompj  di  o-  elio  si;i  il  primo  tra  duo  prefìssi.  Converrebbe,  per 
la  significazione,  oc-;  ma  ò  una  preposizione  che  non  occorre  nelle  funzioni  di  prefìsso. 


—  4G9  - 

caedere'.  Lo  stesso  for-òen-,  che  dn  un  lato  ben  si  collega  con  duforhan  eveniat  ecc. 
e  coir  ausiliare  (foròia  ecc.  :  cfr.  duìulórbiimni  gì.  nos  pervenire  105*  6) ,  si  combina, 
dall'altro,  non  solo  per  la  forma,  secondo  che  già  il  Thurneysen  notava,  ma  pur  nel 
contenuto  ideale,  con  ben  pellere  ecc.  Si  confronti,  per  esempio,  la  storia  ideologica 
di  exitjere  exaclus  (esatto,  perfetto,  =foirhfhe). 

5.  Così  venivamo  tra  noi  cimentando  le  sentenze  d'ordino  teorico  e  parecchie 
sentenze  d'ordine  positivo,  che  erano  accampate  dai  'Neogrammatici'.  E  conchiude- 
vamo con  varie  considerazioni  d'indole  generale,  le  quali  basta,  se  non  è  di  troppo, 
che  qui  sieno  per  sommi  capi  ricordate. 

Negata  poiché  s'  era  alla  'nuova  scuola'  ogni  reale  novità,  sia  nei  principj  o  sia 
nel  metodo,  osavamo  chiederci  se  in  generale  sia  ammissibile  una  ragionata  contro- 
versia intorno  al  punto  dei  principj  scientifici.  Un  principio  scientifico,  per  superba 
cosa  eh'  egli  paja ,  non  è  se  non  la  resultante  di  dimostrazioni  indefinitamente  mol- 
tiplicate; e  non  può  esistere  alcun  ragionatore,  il  quale  per  principio  si  ribelli  a  un 
costrutto  in  cui  collimi  tutto  il  complesso  delle  prove.  L'esperimento,  via  via  piìi 
attento  e  rigoroso,  promuove  i  metodi  via  via  più  robusti  e  sicuri;  e  lo  studio  del- 
l' intima  ragione  delle  cose  s'  avvalora  e  si  rialza  per  effetto  di  sintesi  successive  e 
temporanee,  che  scaturiscono  dai  sistemi  delle  realtà  appurate.  Vere  contraddizioni 
di  principio  non  se  ne  possono  dare  in  una  esplorazione  scientifica,  né  vi  possono 
avvenire  veri  sbalzi.  AH'  opera  complessiva ,  per  la  quale  gì'  incrementi  della  scienza 
si  maturano,  contribuiscono  poi,  in  "progressione  continua,  ma  anche  nei  modi  più 
disparati,  le  varie  forze  o  attitudini  dei  singoli  lavoratori.  V  ha  chi  precorre  col- 
l'ardimento,  chi  assoda  con  giuste  cautele,  chi  ammassa  con  abnegazione  cosciente; 
e. ognuno  può  essere  disposto  a  trovare  che  la  propria  virtù  sia  quella  di  cui  in  un 
dato  momento  più  importi.  Ma  sono  indistintamente  efficaci  tutti  quanti  lavorino 
con  piena  scienza  del  lavoro  altrui.  A  nessuna  intemperanza  indi^ddiiale  dobbiamo, 
d'altronde,  badare  più  di  quanto  è  strettamente  necessario,  né  mai  giova  inferire 
da  singole  persone  a  lina  gente  intiera.  Può  così  dispiacere  qualche  balda  scrittura 
che  vien  di  Germania;  ma  erano  tedeschi  anche  lo  Zeuss  e  l'Ebel,  i  quali  nel  più 
modesto  raccoglimento  hanno  maturato  la  pivi  mirabile  ricostruzione  che  la  nostra 
disciplina  possa  vantare;  com'era  tedesco  il  Diez,  il  quale  nella  prima  pagina  del 
suo  libro  dava  il  vanto  a  Raynouard  d'  aver  fondato  la  filologia  neolatina. 

Questi  che  si  sogliono  chiamare  i  'Neogrammatici'  (è  bene  ripeterlo)  hanno  un 
doppio  e  gran  merito.  Hanno  continuato  con  molto  valore  l'opera  analitica  e  rico- 
struttiva di  coloro  che  li  avevano  preceduti  o  li  venivano  accompagnando  ;  e  hanno 
insieme  afierrato  e  affermato  qualche  buona  massima  con  un  insolito  vigore,  che  ne 
ha  di  molto  giovata  la  diffusione  e  l' osservanza.  N'ed  è  un  luogo  comune  il  soggiun- 
gere, che  le  loro  stesse  intemperanze  tornaron  di  profitto,  per  una  più  acuta  discus- 


'  oriihiiit,  12tì''  12,  6  chiosa  di  un  cont  iiigueso.aut,  elio  veramente  sta  per  conticescanl;  gli  altri  due  esempj 
yon  nella  nota  che  qui  precede. 


—  470  — 

sione  delle  teorie,  che  ne  era  insfcantemeute  promossa.  Andò  incontro  la  'nuova 
scuola',  com'era  naturale,  a  esaltazioni  irragionevoli  e  a  sdegni  eccessivi.  Poicliè, 
dall' un  canto,  la  romorosa  proclamazione  de' principj  accompagnandosi  con  la  pre- 
sunzione di  resultanze  che  ripugnassero  o  contraddicessero  a  quanto  in  sino  allora 
s'  era  affermato  o  tentato  (presunzione  avvalorata  da  qualche  resistenza  poco  prov- 
vida), ne  andavan  facilmente  sedotti  i  semiprofani  o  coloro  che  avevano  prima  do- 
vuto navigare  senza  bussola  (di  che  veramente  non  andavano  incolpati  qiielli  che  la 
bussola  pur  già  la  usavano  da  un  pezzo)  ;  senza  dir  di  coloro  che  vogliono  parer  se- 
dotti, in  ogni  caso  consimile,  per  motivi  che  non  è  grato  cercare  o  difSnire.  Dal- 
l'altro canto,  per  la  singolare  imperturbabilità  con  la  quale  i  'Neogrammatici'  ap- 
parivau  sostenere  il  vanto  delle  innovazioni  teoriche  e  dei  loro  effetti,  e  per  la  poca 
0  nessuna  cura  che  parevano  darsi  delle  ragioni  a  loro  opposte  da  cultori  severi  e 
costanti  della  disciplina  eh'  essi  reputavano  innovare,  era  facile  che  taluni  di  questi 
fossero  indotti  a  prorompere  acerbamente  contro  iiu'  audacia  che  sembrava  non  voler 
vedere  a  chi  essa  doveva  il  poter  suo  e  non  voler  sentire  chi  le  rinfacciava  i  debiti 
antichi  e  le  esorbitanze  nuove.  Ma  ormai,  come  vedevamo,  la  maggior  parte  di  tutto 
ciò  è  rientrata  per  sempre  nella  storia  antica'. 

Restano,  di  certo,  strani  e  non  piacevoli  ricordi.  La  magnificazione,  per  esem- 
pio, che  di  qua  dall'Alpi  hanno  potuto  riscuotere  i  'principj  ti'asf ormatori',  imjjanditi 
in  una  Introduzione  tanto  poco  felice;  le  presunte  esagerazioni  della  'scuola  fonetica', 
che  i  non  iniziati  intendevano  proprio  a  z'ovescio  di  quello  che  i  veri  'Neogramma- 
tici'  volevano;  lo  scetticismo  che  tra  i  non  iniziati  era  promosso  da  screzj  male  esa- 
gerati e  mal  compresi.  E  c'è  o  c'è  stato  sicuramente  anche  di  peggio;  ma  peggio 
di  tutto  per  noi  sarebbe,  che  a  noi  fosse  mancato  il  giusto  diritto  di  rivoltarci. 

Qui  seguivano ,  come  a  chiusa  delle  nostre  conversazioni ,  alcuni  pensieri  sulle 
particolari  difficoltà  che  sono  inerenti  alla  nostra  disciplina  e  sulla  singolarità  della 


'  [18=6.  —  Questo  io  diceva  1'  anno  scorso,  considerando  in  ispecie  la  dichiarazione  del  Bkugmann,  riprodotta 
neir  esordio  della  presente  Lettera.  Più  tardi,  Ilo  anche  letto,  tra  gli  spogli  della  Reme  critique  (18  jfennaio  1886). 
unamite-e  buona  sentenza,  che  proverrebbe  da  un  articolo  dell' OsruorF,  inserito  nel  num.  51  della  Bcrliner 
philologischewochenschrift  del  1885:  ma  l'articolo  non  1'  ho  ancora  potuto  vedere.  Grandissima  soddisfazione  mi  è 
poi  venuta  dalla  notizia,  che  nella  stessa /Jcwwe  cnù'jtie  si  conteneva  (8  febbraio  1896),  di  alcune  osssrva^oni. 
scambiatesi  tra  il  Brk.u.  e  il  Paris,  nella  seduta  dell'  Academia  d'  Iscrizioni  e  Belle  Lettere  del  29  gennaio  18S6; 
osservazioni,  che,  per  quanto  se  ne  può  vedere,  collimerebbero  perfettamente  con  gli  argomenti  che  sono  svolti 
nella  mia  Lettera  (glottologica  del  1881  e  in  questa  che  per  la  bontà  degli  amici  ora  si  stampa.  L'  Henry  viene  egli 
pure ,  nella  detta  Kevite,  a  conclusioni  cortesi,  che  in  ultima  analisi  annientano  la  controversia;  ma  ci  arriva  per 
iin  raziocinio  che  anclie  a  me  dee  parere  'arrovesciato'  (lionni  soit  qui  mal  y  pense),  e  fa  dire  allo  Schuchardt 
con  molto  giusto  fondamento,  so  pur  con  qualche  mordacità,  (ib.,  12  aprile  1886):  «  alors  quelques-uns  de  nous 
>  auraient  été  des  néo-grammairiens  avant  les  nóo-grammairiens  et  nous  le  sorions  toias  à  présent  à  notre  insù; 
»  nous  aurions  les  ceuvres  sans  la  foi.  Est-ce  qu'on  ne  pouvrait  pas  aussi  bien  supposer  quo  les  autres  ont  la  foi 
•  sans  les  ceuvres?  »  — n  vero  è,  ohe  un  esame  spassionato,  largo  e  approfondito  dell'  intiera  controversia,  fa  pa- 
rere impossibile  eh'  essa  abbia  mai  esistito.  Di  questa  convinzione  ho  io  dovuto  dare,  per  la  mia  povera  parte,  le 
prove  in  qualche  modo  personali.  Ma  siami  lecito  ripetere  la  dichiarazione,  che  se  i4  queste  prove  io  molto  ci 
tengo,  come  a  una  argomontaziono  che  mi  pare  invincibile,  ciò  punto  non  implica  alcuna  ilhisiono  o  jn-esiinzione 
circa  l' importanza  che  a  queste  provo  si  possa  attribuire  come  a  fatiche  spese  per  un  qualche  incremento  della 
disciplina  a  cui  serviamo.  E  m'  auguro  di  non  dover  più  tornare  a  discorsi  di  questa  maniera,  come  anche 
m'auguro  che  gli  amici  non  mi  continuino  a  attribuire  dei  meriti  che  io  non  ho.] 


—  471  — 

condizione  sua  tra  le  discipline  scientifiche,  in  quanto  abbia  per  soggetto  tal  ma- 
teria intorno  alla  quale  i  non  iniziati  rinunziano  assai  diificilmente  a  portare  sen- 
tenza. Possiede  ormai  anche  la  glottologia  alcune  opere  riassuntive  e  quasi  popolari, 
meritamente  celebrate  ;  ma  1'  effetto  loro ,  in  quanto  si  produca  di  là  dalla  cerchia 
degli  iniziati,  è  ben  diverso  da  quello  che  sogliono  ottenere  i  libri  congeneri,  dedi- 
cati ad  altre  maniere  di  studj.  Nel  nostro  caso,  il  solito  è  che  il  libro  popolare  di- 
venti, tra  i  non  iniziati  (qiialche  eccezione  geniale  altro  non  fa  se  non  confermare 
la  regola) ,  1'  ansa  di  elucubrazioni  tanto  più  temerarie ,  in  quanto  ne  è  traveduta 
lina  legittimazione  dottrinale.  Pure,  anche  in  quest'afflizione  e'  è  un  gran  conforto; 
e  sta  nel  desiderio  incoercibile  che  sempre  vediamo  ispirato  dal  subietto  intorno  al 
quale  la  nostra  vita  si  affatica. 

E  s' arrivava  a  riflessioni  ancora  più  delicate  e  quasi  intime ,  che  non  sono  per 
ora  da  ripetere  neanche  a  guisa  di  sommario.  Fo  punto  perciò  ;  m'  auguro  eh'  Ella 
accolga  la  parola  scritta  con  la  stessa  benevolenza  che  ha  concesso  alla  parola  parlata, 
e  Le  stringo  affettuosamente  la  mano. 


G.  I.  Ascoli. 


FINE. 


—  473 


AGGIUNTE    E    CORREZIONI. 


Ugo  Angelo  Canello,  pag.  iv,  n.  3. 

Se  lo  avessi  conosciuto  a  tempo ,  avrei  qui  fatto  cenno  à'  im  articolo  del  Canello  estratto  dalla 
Gazzetta  di  Treviso  (1874),  nel  quale,  a  proposito  di  certa  esortazione  di  G.  Barozzi,  Parroco  di 
Pianzano ,  diretta  alla  Gioventù  trevigiana  per  indurla  allo  studio  del  dialetto  patrio  si  trova  ad- 
ditato il  metodo  seriamente  scientifico  da  seguire  in  siffatte  indagini;  e  avrei  aggiunta  questa 
alle  pubblicazioni  dell'  anno  1874  nell'  elenco  delle  opere  che  segue  la  biografia. 

V.  C. 


Les  Serments  de  Strasbourg ,  pag.  78,  nota  2. 

Les  Serments  se  trouvent  en  effet  non  seulement  dans  la  3'  ed.  de  Bodiu,  comme  le  dit 
aussi  Moui-cin,  mais  déjà  dans  la  1"=,  qui  est  de  1576,  et  dans  la  2™«,  qui  est  de  1577.  Seulement, 
au  lieti  de  se  trouver  dans  le  6"  cbap.  du  V  livre,  ils  ont  été,  dans  les  deux  premières  editions, 
insérés  dans  le  8«  chap.  du  livre  premier,  pages  117  et  118. 

Quant  à  Fauchet,  ce  n'est  pas  seulement  dans  l'éd.  de  1610  qu'on  trouve  les  Serments.  Voir 
son  livre  «  Declin  de  la  Maison  de  Charlemagne ,  »  1602,  ibi.  23,  et  encore  son  «  Recueil  de  1'  ori- 
gine de  la  langue  et  poesie  francjoyse,  ryme  et  romans,  1581,  pag.  28,  livre  que  Mourcin  ne 
cite  pas. 

Enfiu,  pour  ce  qui  regarde  le  mot  «  Schvvartz  »  que  Mourcin  (p.  10)  accompagna  de  trois 
points  d'exclamation,  ce  n'est  nuUement  Fauchet  qui  l'a  écrit;  voir  l'éd.  de  1581.  Mais  ce  n'est 
pas  tout.  Les  Serments  sont  imprimés  deux  fois  dans  l'éd.  de  1610:  non  seulement  au  fol.  330  v', 
mais  encore,  et  plus  correctement,  au  fol.  539  v»,  d'après  le  «  Recueil  de  l'origine»  etc. 

PoiU'  trouver  l'auteur  des  fautes  à  tort  imputées  à  Fauchet,  il  suffira  de  lire  ce  que  dit  — 
au  3=  fol.  non-numéroté,  r°  —  l'imiarimeur  de  l'ouvrage  «  Declin  »  etc.   1602,  Jeremie  Perier: 

«  Vous  iouyrez  de  ce  labeur  que  feu  mòsieur  le  president  Fauchet  (qui  était  mort  l'année 
précédente)  m'auoit  commis  à  vous  faire  voir,  où  vous  trouuerez  que  son  intention  a  esté  aussi 
bien  suyuie  que  s'il  y  eust  esté  present,  ores  que  son  escriture  en  soit  vn  peu  dif- 
ficile ». 

Dans  l'éd.  de  1602  fol.  22  v'  on  a  écrit  Nitard,  et  non  plus  Gnytard. 

Carl  Wahlund. 


Un  testo  drammatico  spagnuolo ,  pag.  178,  n.  2. 

Si  corregga,  «  V.  a  pag.  183,  col.  1,  primo  verso  dell'  ultima  strofa. 


A.  M. 


—  474  — 

Complainte  provengale  ecc.,  pag.  231  sgg. 

La  complainte  sur  la  mort  de  Gregoire  de  Montelongo  (pp.  231-6)  était  imprimée,  lorsque 
M.  le  Prof.  Rajna  a  appris  par  M.  A.  Medin  et  m'a  informe  qu'elle  était  déjà  publiée  d'après  le  ms. 
de  ìlilan  (il  n'en  existe  pas  d'autre  pour  cette  pièce)  dans  les  Monumenta  Ecclesia  Aqidlejensis.... 
auctore  J.  Fr.  Bernardo  Maria  De  Rlibei.s  (Argentinse,  1740,  in-fol.),  col.  755-8.  Celui  qui  a  com- 
muniqué  la  complainte  à  l'autenr  des  Monumeìita  porte  un  nom  connn,  entra  les  érudits  du  siede 
dernier.  C'est  le  président  de  Mazaugues,  qui  possédait  une  belle  bibliothèque  dans  laquelle  flgu- 
rait  le  ms.  des  troubadours  qui  est  maintenant  conserve  à  la  Bodleienne  (Oxford)  dans  le  fond 
Douce.  Voici  comment  s'ex^n'ime  De  Rubeis  : 

Provinciali,  ut  ajunt,  Carmine  celebratum  Gregorii  fnnus,  eximia  no.s  laumanitate  admonuit  Henricus-Jose- 
plius  TiioMAsiN  DE  Maz.augues,  in  supremo  Provincise  Galliche  Senatu  Prfeses.  Desci-ipserat  illud  Illustrissimus  Doctis- 
simnsque  Vir  ex  Codice  AmbrosiansB  bibliotliecEe  uum.  LXXI,  litt.  E.  in  4",  dum  iter  Italicum  litterariae  supel- 
lectiiis  augendce  causa  confìceret,  ac  Mediolani  diversaretur:  idemque  Parisiis  ad  nos  transmisit. 

L'édition,  soit  par  la  fante  du  président,  soit  par  celle  de  l'imprimeur,  u'est  pas  exempte  de 
fautes;  ainsi  on  lit  vena  pour  veira  (v.  21),  lazia  t^ovlv  jazia  (v.  45),  ades  pour  a  del  (v.  67).  Mais, 
en  égard  au  temps  oìi  la  publication  a  étéfaite,  il  faut  plutót  s'étonner  du  degré  de  correotion 
qu'elle  présente. 

A  l'avant-dernier  vers  de  la  pièce  latine  (p.  236)  il  faut  lire  a  gente  et  non  agente. 

P.  M. 


Una  particolarità  sintattica  ecc.,  pag.  255  sgg. 

Mi  giunge  jjur  ora  il  secondo  fascicolo  della  Romania  1885  ed  a  pag.  305  vi  leggo  a  propo- 
posito  della  Confessione  latino-volgare  pubUcata  dal  Flechia  questa  osservazione  di  Paolo  Mej'er 
a  proposito  dei  molti  periodi  cbe  incominciano:  M' accuso  (cfr.  a  pag.  258  di  questo  volume): 
'  Je  lirais  me  et  non  m',  car  le  manuscrit  porte  une  m  suivie  d'un  point.  La  leoture  in'  ne  serait 
légitime  que  si  cette  lettre  était  jointe  au  mot  suivant.  '  Il  Meyer  esprime  cautamente  la  sua 
opinione  in  forma  dubitativa;  ma  poiché  alla  paleografia  viene  in  soccorso  la  grammatica,  po- 
tremo ormai  procedere  più  franchi  ed  affidarci  di  dire:  la  vera  lezione  è  me.  Così  si  toglie  di 
mezzo  quell'eccezione,  che  per  la  vetustà  del  documento  era  atta  a  darci  alcuna  briga,  non  dissi- 
pata interamente  (lo  confesso)  dalla  spiegazione  che  io  aveva  tentato  di  darne.  Il  periodo  non 
comincia  adunque  nemmeno  qui  col  pronome  enclitico  ;  quanto  al  ine  potremo  dubitare  se  la  for- 
mola  latina  Me  accuso  sia  rimasta  intatta  o  se  abbiamo  da  fare  con  due  voci  italiane:  nel  secondo 
caso  il  pronome,  perchè  in  principio  di  proposizione,  è  di  forma  accentata;  cfr.  la  nota  seconda 
alla  pag.  258. 

E  poiché  mi  si  porge  occasione  di  ritornare  sul  mio  breve  studio,  mi  sia  lecito  rispondere  ad 
una  obbiezione  che  un  mio  amico  mi  fece  in  via  privata  ed  alti-i  potrebbe  farmi  in  pubblico.  A 
pag.  257,  chiedendo  perchè  gli  antichi  non  usassero  l'enclisi  in  principio  di  proposizione,  dissi  che 
essi  rifuggivano  dall'incominciare  con  un  monosillabo  atono  e  quindi  di  suono  e  di  significato  so- 
verchiamente tenue.  Ma  allora,  domanda  l' amico  mio ,  jierchè  non  s'  astenevano  dal  cominciare 
coU'articolo,  colla  preposizione?  L'osservazione  è  giusta,  e  mi  fa  accorgere  che  avrei  dovuto 
spiegarmi  meglio.  Alti-a  è  la  natura  del  pronome  personale,  altra  quella  di  voci  quali  //, 
Lo...,  A....  ecc.  Il  primo  ha  un  significato  suo  proprio,  un'individualità  bene  spiccata;  le  seconde 
sono  mere  voci  grammaticali.  Il  primo  ha  due  forme:  l'una  accentata,  enfatica,  che  può  starsene 
anche  da  sé,  e  l'altra  atona,  che  deve  accompagnarsi  sempre  al  verbo;  le  seconde  sono  sempre 
atone,  non  possono  giammai  starsene  isolate,  formano  quasi  un  tutto  colla  voce  a  cui  spettano. 
Non  è  quindi  difficile  comprendere  che  paresse  ovvio  incominciare  un  periodo  coU'articolo — p.  es. 
il  padre  disse  =  pater  dixit — ;  ma  che  trattandosi  di  una  parola  significativa,  com'è  il  pronome 


—  475  — 

personale,  le  lingue  romanze  nei  loro  primordii  ripugnassero  dall' usare  la  forma  atona,  che  ne  at- 
tenua cosi  il  suono  come  il  valore;  e  quindi  o  scegliendo  l' atona  (che  è  il  caso  di  gran  lunga  più 
frequente)  la  posponessero,  o  volendo  incominciare  dal  pronome  usassero  la  forma  accentata  ;  tutto 
ciò,  non  fa  uopo  dirlo,  non  per  deliberato  proposito,  ma  per  un  certo  istinto,  che  senza  predile- 
zione per  le  cose  antiche  potremo  chiamare  felice.  Del  resto,  questa  spiegazione  od  altra  che  se 
ne  desse  può,  come  ogni  ragionamento  soggettivo,  essere  erronea:  la  realtà  del  fatto  rimane 
inalterata. 

Vienna,  29  ottobre  1833. 

A.  M. 


La  forma  metrica  del  'Commiato'  ecc.  pag.  357  sgg. 

Il  lettore  si  sarà  avveduto  che  in  due  o  tre  luoghi  manca  una  virgola. 

A  pag.  359,  n.  4,  liu.  4  è  stampato  Stesso  Dante  invece  di  stesso  Dante.  Nella  stessa  nota, 
lin.  ultima,  invece  di  op.  cit.,  si  legga:  Das  Lében  und  die  Lieder  des  Trobadors  Peire  Rogier, 
Berlin,  Reimer,  1883,  e  a  questo  titolo  si  sostituisca  invece  a  pag.  371  n.,  op.  cit. 

A  pag.  366  lo  schema  della  canzone  di  Panuccio  del  Bagno  Val.  I,  341,  va  cosi  corretto: 
aBbO.  aDdC  :  EeFfGG. 

A  pag.  371;  lin.  13  da  sotto  e  liu.  6  pure  da  sotto,  invece  di  J7rt(/.  331  si  legga:  pa(/.  357. 

L.  B. 


Une  forme  de  l'article  roumain:  pag.  209-215. 

Poco  dopo  eseguita  la  stampa  di  questo  scritto,  l'autore,  a  quel  tempo  primo  segretario  della 
legazione  di  Romania  presso  il  governò  italiano,  da  Roma  era  trasferito  ad  Atene  qual  Ministro 
plenipotenziario.  V'era  giunto  appena,  quando,  il  21  luglio  1885,  lo  coglieva  la  morte,  spegnendo 
in  lui  un  uomo  di  molto  e  svariato  sapere,  sommamente  benemerito  del  paese  suo,  caldo  amico 
del  nostro.  Quanta  stima  egli  si  fosse  guadagnato  anche  in  Italia,  quanta  ne  meritasse,  disse  in 
un  articolo  necrologico  il  signor  A.  Parisotti  nel  giornale  1'  Opinione  (16  settembre). 


INDICE. 


PREFAZIONE Pag.  v 

P.  ViLLAEi.  —  Napoleone  Caix ix 

P.  Raxna.  —  Gli  scritti  del  Caix xrv 

V.  Crescini.  —  Ugo  Angelo  Canello xxv 

P.  MiKLOSiCH.  —  Ueber  die  Nationalitàt  der  Bulgaren 1 

E.  Stenoel.  —  Ueber  den  lateinischen  Urspruug  der  romanischen  Funfzehnsilbner  nnd 

darnit  verwandter  weiterer  Versarten 5 

P.  Meulo.  —  Problemi   fonologici  sul!'  articolazione  e  sull'  accento 11 

I.  Tentativo  di  classificare  in  un  sistema  unico  di  articolazioni  le  vocali 

e   le  consonanti 13 

IL  Diverse  gradazioni  delle  vocali  toniche,  e  perdita  o  naturale  rotazione 

delle  atone 30 

G.  GaoBEB.  —  Etymologien 59 

(aiguille  —  ammiccare  —  andare  —  aiToser  —  astore  —  bleron —  borraja  —  encre — jadis 
—  jassé,  ancsé,  desse —  malvagio  —  morceau  —  nièce  —  patois  —  pièce  —  ruisseau). 

G.  B.  Gandino.  —  Osservazioni  sopra  un  vei-so  del  poema  provenzale  su  Boezio 51 

A.  Gaspary.  —  Molière's  Don  Juan 57 

A.  ToBLEB.  —  Etymologisches 71 

(butor  —  piaffer  —  forra  —  recrue  —  avertin  —  gerla). 

G.  Paris.  —  Las  Serments  de  Strasbourg  (Introduction  à  un  Commentaire  gram- 
matica!)   77 

C.  Paoli.  —  Notizia  di  un  codicetto  fiorentino  di  Ricordi  scritto  in  volgare  nel  se- 
colo XIII 91 

F.  G.  Fura.  —  Postille  romanze: 

I.  Alt  romanzo  per   o  atono  latino 95 

II.  Greggio,  Grezzo 99 

G.  Meyer.  —  Der  Einfluss  des  Lateinischen  auf  die  albanesische  Formenlehre 103 


—  478  — 

C.  MiCHAELis  DE  Vasconcellos.  —  Studien  zur  hispanischen  Wortdeutung Pag.      113 

(ayamo  —  alcjapao  —  alinhavào  —  bagoa  —  birla  —  birlocha  —  bis[s]alho  —  bolor  — 
bugio  —  buir  —  caramunha  —  ceibo  —  cerniglo  —  derreter  —  dobar  —  eido  —  eiva  — 
encinta  —  estrece  —  fasca,  fascas,  hascas -- guinilla  —  leira  —  macho  —  madroiìo 

—  marcico  —  meigo  —  morango  —  mouco  —  non  ,  nom ,  nao  —  pelmazo  —  pintasUgo 

—  pousalousa  — quera,  querado  —  quexigo  —  rellia- — sandeu,  sandio  —  sarau,  sarào 

—  senzido  —  sosegar  —  soturno  —  sovela  —  atordido ,  stordire  —  ter^ó  —  trinca  — 
ximbral  —  urze  —  vestigio  —  vinco  —  sato  —  xodreiro  —  yjada  —  zisme). 

F.  Neumaxn.  —  Die  Entwiokelung  von  Consonant  -!-  iv  im  Pranzòsischen 167 

A.  MiOLA.  — ■  Un  testo  drammatico  si^agmiolo  del  XV  secolo 175 

B.  WiESE.  —  Einige  Dichtungen  Lionardo  Giustiniani's 191 

G.  Flechia.  —  Etimologie  Sarde 199 

(asselenare  —  attatare  —  battia  —  bénnere  —  chedda  —  chillru  —  elio  —  endiosare  —  fad- 
dija  —  fitta  —  masone  —  upuale  —  medal. 

M.  ObÉDÉNAEE.  —  Une  forme  de  l'article  roumain  qui  se  met  devant  les  substantifs  et 

les  adjectifs  (Dialecte  du  Danube) 209 

J.  CoRXL".  —  Recherciies  sur  la  conjugaison  espagnole  au  XlIIe  et  XTV^  siècle 217 

P.  Meyeb. —  Complainte  provengale  et  Complainte   latine  sur  la  mort  du  patriarche 

d'Aquilée  Clrégoire  de  Montelongo   231 

C.  AvoLio.  —  La  questione  delle  rime  nei  poeti  Siciliani  del  secolo  XIII 237 

N.  ZiNGAEELLi.  —  Un  serventese  di  Ugo  di  Sain  Gire 243 

A.  MussAFlA.  —  Una  particolarità  sintattica  della  lingua  italiana  dei  primi  secoli 255 

J.  Leite  de  Vascoxcellos.  —  Etymologias  populares  portuguesas 263 

R.  Reniee.  —  Un  mazzetto  di  poesie  musicali  francesi 271 

H.  SucHiEE.  —  Uber  die  Tenzone  Dante's  mit  Forese  Donati 289 

A.  D'  Ancona.  —  L' arte  del  dire  in  rima:  Sonetti  di  Antonio  Pucci 293 

S.  Pieei.  —  Il  verbo  aretino  e  lucchese 305 

G.  MoEOST.  —  L'  odierno  dialetto  catalano  di  Alghero  in  Sardegna 313 

M.  Gaster.  —  Die  rumaenischen  Miracìes  de  Nòtre  Dame 333 

0.  Salvioni.  —  Antichi  testi  dialettali  chieresi 345 

L.   Biadene. — La    forma    metrica    del    'Commiato'   nella  Canzone  italiana   dei  se- 
coli XIII  e  XIV 357 

M.  Mila  y  Fontanals.  —  Un'  alba  catalana 373 

F.  NovATi.  —  Il  Ritmo  Cassinese  e  le  sue  interpretazioni 375 

F.  d'  OxiDio.  —  Della  quantità  per  natura  delle  vocali  in  posizione 393 

E.  Monaci.  —  Il   trattato    di    poetica   Portoghese    esistente    nel    Canzoniere  Colocci- 

Brancuti 417 

G.  I.  Ascoli.  —  Due  Lettere  glottologiche  : 

I.  Dì  un  filone  italico,  diverso   dal  romano,  che  si  avverte  nel  campo 

neolatino.  —  Lettera  a  Napoleone  Caix 425 

II.  Dei  Neogrammatici.  —  Lettera  al  prof.  Pietro  Merlo 436 

Aggiunte  e  Correzioni 473 


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